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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI ROMA TRE

FACOLTÀ DI LETTERE

CORSO DI LAUREA IN LETTERATURA E LINGUISTICA ITALIANA

TESI DI LAUREA TRIENNALE

in

Letteratura tedesca

Kafka e la critica italiana

Relatore: Candidato:
Chiar.mo Prof. Francesco Fiorentino Federico Musardo

Anno Accademico 2015 - 2016


A Guglielmina del Gaizo,
perché la letteratura giustifica
un’esistenza.
Ciò che cerco non è una scusa per la mia vita, ma il
contrario di una scusa: l'espiazione. Mi coglie infine il
pensiero che qualsiasi consolazione la quale non tenga
conto della mia libertà è ingannevole, non è che
l'immagine riflessa della mia disperazione. Quando
infatti la mia disperazione dice: abbandonati allo
sconforto, perché il giorno è racchiuso tra due notti, la
falsa consolazione urla: spera, perché la notte è
racchiusa tra due giorni.

Stig Dagerman, Il nostro bisogno di consolazione


Indice

Introduzione .............................................................................. 5
1. Esistenza
1.1 Remo Cantoni ................................................................ 14
1.2 Ladislao Mittner ............................................................ 26
2. Società
2.1 Ferruccio Masini e Franco Fortini ................................. 32
2.2 Oltre la società. Carlo Bo .............................................. 43
3. Ebraismo
3.1 Giuliano Baioni ............................................................. 47
3.2 Marino Freschi e Guido Massino .................................. 55
4. Letteratura e vita
4.1 Roberto Calasso ............................................................. 62
4.2 Pietro Citati .................................................................... 69
5. La via dell’inconscio
5.1 Renato Barilli e Guido Crespi ....................................... 77
5.2 Aldo Carotenuto ............................................................ 86
Bibliografia ............................................................................... 92
Introduzione

Ci si preoccupa più di interpretare le interpretazioni


che di interpretare le cose, e si scrivono più libri sui
libri che su qualsiasi altro argomento. Non facciamo
altro che commentarci a vicenda.
Montaigne

Il 3 luglio del 1883 la città di Praga diede i natali a Franz Kafka. Il difficile periodo
di transizione della fin de siècle coinvolse buona parte delle regioni mitteleuropee,
inclusa la capitale boema, dove «il cosmopolitismo culturale è una delle forme in
cui si esprime l’idea sovranazionale absburgica giunta al suo crepuscolo»1. Angelo
Maria Ripellino ha affascinato i curiosi ed incuriositi lettori della «Praga Magica»,
costruendo un mito cittadino brulicante di poeti, leggende, avventure, rigattieri,
girovaghi, alchimisti e robivecchi. Impossibile negare la fantasia creativa del
folklore praghese o la profonda influenza della tradizione popolare, anche se le
storie raccontate sono soggette a un’idealizzazione del passato che segue una linea
continua dal mitico Rodolfo II d'Asburgo al secolo breve2. «Della solitudine di
Kafka nella sua terra natía. Dell’ebreo praghese di lingua tedesca, che vive come
in contumacia in un mondo slavo. Che soffre tragicamente la sua alterità, estraneo

1
C. MAGRIS, Il mito absburgico nella letteratura austriaca moderna, Einaudi, Torino 1963,
p.195.
2
Espressione mutuata dal celebre saggio di R. HOBSBAWN, Il secolo breve. 1914-1991,
Rizzoli, Milano 2006.

5
in egual misura ai tedeschi, di cui pur condivide il linguaggio, e ai cechi, dai quali
è considerato un tedesco, un forestiero». Così scrive Ripellino nel suo libro, che
coniuga sensibilità per la materia trattata e acume critico: «Del malessere
dell’ebreo non ammesso ma tollerato, con l’animo ingombro di un senso di
insondabile colpa e come costretto ad attendere perennemente un decreto di
accoglimento [si pensi al Castello]. Di tutto questo abbiamo scritto»3
A Praga coesistevano tre popoli: il ceco, il tedesco, l’ebraico4. Gli ebrei che si
erano allontanati dall’ortoprassi, preoccupati delle vicissitudini personali e
religiosamente scettici, non godevano di una buona reputazione per le vie del
ghetto. Il padre di Franz, Hermann Kafka, era un commerciante di questa categoria.
«La maggior parte di coloro che cominciarono a scrivere in tedesco volevano
allontanarsi dall’ebraismo», sostiene l’autore in una lettera del 1921 indirizzata a
Max Brod5.
Le differenze culturali diventano comunicative, perché si riverberano anche
sull’utilizzo del linguaggio e sulle interazioni quotidiane. Appunterà Kafka, il 24
ottobre del 1911, all’interno dei suoi Diari: «Mutter è per l’ebreo una definizione
particolarmente tedesca che inconsciamente contiene accanto allo splendore
cristiano anche la freddezza cristiana, e perciò la donna ebrea chiamata madre
diventa non solo comica, ma estranea. Mamma sarebbe un nome preferibile, se
sotto questo nome non ci si figurasse quello di Mutter»6.
È un esempio toccante di come il plurilinguismo praghese abbia influenzato
l’esistenza del giovane scrittore.
L’esegeta accorto sente l’obbligo di operare una chiara distinzione tra biografia e
opera letteraria, benché le vicende della vita mantengano una propria centralità,
aiutando gli studiosi a chiarire molti luoghi della letteratura. Per il vissuto kafkiano
e per l’incidenza di questo sulla produzione narrativa, avremmo occasione di

3
A. M. RIPELLINO, Praga Magica, Einaudi, Torino 1973, p.60.
4
Praga e il suo ambiente culturale all’inizio del secolo scorso sono ampliamente trattati da M.
FRESCHI, La Praga di Kafka, Napoli, Guida editori, 1990, p.8.
5
F. KAFKA, Lettere, a cura di F. Masini, Mondadori, Milano 1988, p.399.
6
F. KAFKA, Confessioni e Diari, a cura di E. Pocar, Mondadori, Milano 1972, p.218.

6
svelare la sostanziale mancanza di eventi catalizzatori o epifanici; gli stimoli per il
lavoro di stesura, stando al pressoché unanime giudizio dei critici, provengono
soprattutto dalla vita interiore.
Kafka non intraprende il cammino della scrittura per capriccio, noia o vanagloria.
In una lettera del 13 agosto 1913 a Felice Bauer, primo grande amore, se è lecito
chiamare in questa maniera il sentimento precipuo della loro relazione, egli
confessa una dedizione totale alla scrittura: «Io sono fatto di letteratura, non sono
nient’altro e non posso essere nient’altro che letteratura»7. Kafka rimane tuttavia
un uomo, tra amori e malattie, sconfitte ed illusioni, piccole gioie e ricerca della
tranquillità; ad ogni modo, senza ignorare le suggestioni scaturite dalla lettura dei
Diari, non bisogna giustapporre gli eventi biografici ai risultati letterari.
Invece di focalizzare la nostra attenzione su queste riflessioni personali, dobbiamo
adesso porre il quesito che muove la presente tesi: in che modo gli studiosi italiani
hanno interpretato la figura e l’opera di Franz Kafka? Che significati hanno
attribuito alla narrativa kafkiana?
A queste ed altre domande cercheremo di fornire una risposta, sperando di
contribuire, seppur superficialmente, alla conoscenza di uno scrittore così tanto
significativo.
Questa tesi di laurea vuole chiarire il più possibile le prospettive critiche sottese
all'elevato numero di analisi testuali o ipotesi concettuali formulate a proposito
della sua produzione letteraria, ordinando la materia trattata secondo un criterio
coerente e limpido, come scrivere filologico, vigile verso i particolarismi, che
tenga conto delle moderne acquisizioni teoriche alla stregua dei saggi ormai
appartenenti alla tradizione. L’ordine dell’esposizione sarà cronologico. Si
comincerà dai primi studi sistematici sullo scrittore praghese, avendo la premura

7
L’edizione italiana delle Lettere a Felice (Mondadori, 1972) non contiene la suddetta lettera;
di conseguenza, mi rivolgo alla raccolta tedesca dello scambio epistolare, curata dall’autorevole
Max Brod (Briefe an Felice, Fischer, Frankfurt am Main 1967, p.444), già citato in G. BAIONI,
Kafka: Letteratura ed ebraismo, Einaudi, Torino 1984, p.70. Per Remo Cantoni, la lettera
risalirebbe al 21 agosto dello stesso anno. Si veda R. CANTONI, Che cosa ha ‘veramente’ detto
Kafka, Ubaldini, Roma 1970, p.37.

7
di seguire il percorso del singolo studioso e del movimento a cui si potrebbe
ascrivere.
A partire dalla seconda metà del secolo scorso, la critica letteraria, italiana e
straniera, ha tenuto in grande considerazione l'opera di Franz Kafka. L'attributo di
«fondatori di discorsività», elaborato da Michel Foucault per riferirsi a Marx e
Freud, padri rispettivamente dell'economia politica e della psicanalisi, potrebbe
essere altrettanto efficace per comprendere l'effervescenza critica sorta intorno allo
scrittore praghese. I fondatori di discorsività, secondo Foucault, «hanno stabilito
una possibilità indefinita del discorso»8. Il critico francese sottolinea la differenza
che intercorre tra essi e i romanzieri; tuttavia, tale giuntura favorisce la
comprensione del proliferare delle indagini esegetiche sorte attorno al lavoro
letterario di Franz Kafka.
«Quando io parlo di Marx o di Freud come instauratori di discorsività, voglio dire
che essi non hanno reso semplicemente possibile un certo numero di analogie, ma
hanno reso possibile un certo numero di differenze»9.
Benché possa sembrare un paragone fatiscente, Kafka ha costruito un edificio
letterario suscettibile di infinite glosse a margine, interpretazioni del testo che
alcune volte si contraddicono a vicenda, orizzonti di una verità polivalente,
purtroppo compromessa da chi legge l’opera di questo scrittore come un
ricettacolo di simboli o una crittografia da decifrare.
Per un confronto costruttivo dei risultati teorici a cui gli studiosi sono pervenuti, il
principio che questa tesi di laurea si propone di rispettare è il mantenimento
dell’equidistanza richiesta rispetto ad ognuno dei contributi, filtrati e circoscritti
attraverso un criterio letterario, contenutistico, prima ancora che linguistico,
formale: saggi, articoli, introduzioni, interventi scritti in lingua italiana.
Per approcciarsi alla letteratura Fredric Jameson teorizzò il «metodo
metacommentario», secondo cui l’oggetto di studio «non è tanto il testo stesso

8
M. FOUCAULT, Che cos’è un autore?, in Scritti letterari, Feltrinelli, Milano 2004, p.15.
9
Ibidem

8
quanto le interpretazioni attraverso le quali tentiamo di metterci dinanzi a esso»,
perché «in realtà noi non ci troviamo mai direttamente di fronte a un testo»10.
Per quanto le conclusioni cui perviene Jameson non siano funzionali al nostro
discorso e tradiscano l’esigenza di obiettività, dato che il critico americano è
immerso in una visione marxiana dell’opera letteraria, le premesse illuminano la
stratificazione dei pensieri sedimentati a partire dalla diffusione di un’opera
letteraria come quella di Kafka, ormai studiata e interpretata al punto da rendere
problematica, per taluni impossibile, una lettura genuina del testo originale. Questo
non significa che tali ipotesi debbano essere considerate a priori come parziali o
incomplete; se viene inserita entro un contesto eterogeneo e non totalizzante, ogni
interpretazione ha un significato che corrobora la comprensione della volontà
autoriale, fino a dove è possibile, senza strumentalizzare i contenuti tentando di
costringerli fuori dalla pagina scritta; si tratterebbe, altrimenti, di presupposti
arbitrari e poco funzionali alla comprensione del testo.
In un celebre saggio, Ladislao Mittner sentì per primo l'esigenza di onestà
intellettuale e conseguente giustizia letteraria da tributare al lavoro kafkiano. Kafka
senza kafkismi, il cui titolo è di per sé evocativo, si pone proprio l'obiettivo di
arginare le interpretazioni arbitrarie, la mitizzazione dell'autore, la
giustapposizione illegittima tra scrittore e uomo, opera e vita, neutralizzando ogni
sorta di appropriazione indebita. Sebbene l'incompletezza costituisca una delle
cifre stilistiche ed esistenziali di questo autore, una lettura che si focalizzi sul
particolare pretendendo di scoprire l'universale, sarebbe fuorviante per chi volesse
indagarne la molteplicità. L’incipit del saggio che Ladislao Mittner scrisse
riguardo allo scrittore boemo è perentorio, drastico. «La kafkomania è da circa
dieci anni in deciso declino [ovvero, da quando crebbe l’interesse della critica, a
partire dal secondo dopoguerra] ed è forse giunto il momento propizio per liberare
Kafka dai vari kafkismi: tutti arbitrari e falsi, perché unilaterali»11.

10
F. JAMESON, L'inconscio politico: il testo narrativo come atto socialmente simbolico,
Garzanti, Milano 1990, pp. 9-10.
11
L. MITTNER, Kafka senza kafkismi, in La letteratura tedesca del novecento e altri saggi,
Einaudi, Torino 1966, p.249.

9
Come avvenne per il primo studio di Cantoni, più tardo, Mittner si pose
l’imperativo di «capire quello che veramente vi è»12 all’interno delle opere,
ricercando un’analisi dell’opera il più fededegna possibile. Egli critica l’astoricità
entro cui viene collocata la produzione letteraria dell’autore idealmente protetto
dai soprusi ermeneutici, insieme alle forti interpretazioni ideologiche, o all’arbitrio
dei cosiddetti «kafkomani»: nasce di conseguenza la necessità di storicizzare.
Tuttavia, ad un paragone legittimo tra Kafka e Rilke (entrambi «esuli», «senza
casa») segue un’apparente contraddizione. Come possiamo porre tale autore in una
cornice storica, se ragioniamo su categorie predefinite come «al-di-qua» e «al-di-
là»13? Secondo chi scrive, Kafka diviene universale proprio a partire dalle
condizioni e dall’ambiente in cui visse; collocarlo fuori dalla contingenza sarebbe
un rischio, sebbene l’eredità letteraria lasciata ai posteri, soprattutto i manoscritti
salvati da Max Brod, oltrepassi la società praghese, mitteleuropea del primo
Novecento.
Le delucidazioni proposte in merito alla «simbologia kafkiana» hanno bisogno di
essere giustificate, avendo la premura di analizzare il testo senza accrescerne il
contenuto attraverso significati propri che trascendano la sua letteratura e
conseguentemente le acquisizioni teoriche condivisibili dagli altri studiosi.
Le indagini spirituali o metafisiche non appartengono ad una dimensione astorica
o metastorica, pur se i risultati della prosa di Kafka vengono a buon diritto
annoverati tra il patrimonio della letteratura universale. Altrimenti, ad oggi, mutate
le condizioni sociali e culturali, mutato il contesto, non riusciremmo più ad
apprezzare Kafka scrittore, oltre che uomo assurto a simbolo di una condizione

12
Proviene probabilmente da questo sintagma il titolo di R. CANTONI, Che cosa ha
‘veramente’ detto Kafka, Ubaldini, Roma 1970.
13
«Al-di-qua» e «al-di-là» sono categorie che Mittner adotta per sviluppare un discorso di grande
interesse sulle relazioni che intercorrono tra Kafka e il mondo, inteso come fattuale, concreto,
oppure spiritualmente, come realtà personale e privata. Kafka percepisce la sua estraneità e si
sente un escluso, da una prospettiva umana, sociale e religiosa. In una lettera del 13 gennaio 1921
egli scriveva al fraterno Brod: «Tu vuoi l’impossibile, per me è impossibile il possibile», F.
KAFKA, Lettere, a cura di F. Masini, Mondadori, Milano 1988, p.347.

10
umana. Franz Kafka suscita ancora un forte interesse, un intenso coinvolgimento,
tra i lettori della contemporaneità.
Analizzando il Processo, Mittner rimprovera le letture «a chiave unica», per
esempio quella di stampo esistenziale, «che dovrebbe aprire tutte le porte ad un
tempo e quindi non ne apre nessuna»14.
Lascia disorientati il seguito del discorso, dal momento che egli opta a sua volta
per una specifica chiave di lettura, compiendo de facto la medesima operazione
deprecata alle altre visioni critiche.
Il lavoro del germanista fu letteralmente citato da Remo Cantoni, un altro studioso
che si occupò della letteratura e della figura di Kafka. «Ma il suo kafkismo»,
afferma Cantoni a proposito di Mittner, «diviene improprio e sfuocato come tutte
le ermeneutiche riduttive, quando esordita e non ritiene legittime altre chiavi
interpretative».15 Egli, di formazione antropologica, eviscerò il contenuto del
suddetto autore, vigile nell’evitare l’inganno della speculazione fine a sé stessa,
inserendo l’oggetto di studio in una dimensione storica, sociale e filosofica. Gli
«hommes de lettres», sostiene Cantoni, hanno contribuito ad asfissiare Kafka in
una «camicia di forza di una loro troppo personale e indimostrata interpretazione
nelle chiavi più diverse [ritorna il simbolo della chiave]: marxista, ebraica,
psicanalitica, sociologica, esistenzialistica, estetizzante, mistica, surrealistica,
espressionistica» e ancora «cristiana, sionistica, chassidica, cubista o
strutturalista»16. Queste operazioni risultano come una forzatura del testo verso
una direzione univoca, approfondendo fino all’esasperazione alcuni aspetti per
ignorarne altri, degni di altrettanta dignità, così da restituire una lettura forse
puntuale, eppure insoddisfacente.
Potremmo etichettare tali indagini e i relativi risultati come «kafkismi». Allora
saremmo obbligati a percorrere una strada senza via d’uscita, oppure un percorso

14
L. MITTNER, Kafka senza kafkismi, in La letteratura tedesca del novecento e altri saggi, cit.,
p.280.
15
R. CANTONI, Franz Kafka e il disagio dell’uomo contemporaneo, Unicopli, Milano 2000,
p.245.
16
Ivi, p.234.

11
dalle infinite diramazioni. Si tratterebbe insomma di un cammino incerto. Scartare
in toto le proposte esegetiche che si focalizzano sull’analisi di un singolo motivo
significherebbe redigere un testo di parte e non esplicativo.
Non rinunceremo neanche ad un ragionamento sulle cosiddette «filologie di
comodo», le quali saranno esaminate alla luce del variegato panorama italiano in
merito allo scrittore praghese. La «scrittura polivalente e polisemantica» di cui
scrive Cantoni, richiede un rispetto sincero dell’autore e del testo, entrambi
innalzati a simbolo dell’uomo contemporaneo di fronte al mondo, immolato come
una vittima sacrificale, un martire o un profeta. Il critico rischia paradossalmente
di compiere i medesimi errori rimproverati alle tendenze critiche che vengono
elencate all’interno della minuziosa rassegna di sopra riportata. Kafka, al contrario,
trasmette un contenuto a cui abbiamo il diritto e il dovere di accedere.
«Ogni interpretazione troppo riduttiva e definitiva», scrive più avanti il critico,
«restringe il senso dell’universalità dell’arte kafkiana, che non si lascia ridurre in
formule di facile impiego»17.
Luciano Zagari ritiene che non si possa affrontare la narrativa kafkiana senza
considerarne la «super-significatività». Secondo lo studioso, il fascino che i lettori
di Kafka subiscono deriva proprio dalla possibilità di attribuire alle pagine scritte
una sequenza di eterogenee significazioni. Egli sostiene che il superamento del
kafkismo abbia in sé il potenziale di un’altra lettura imperfetta, se non si tiene
conto dell’intricato garbuglio dei significati possibili, derivanti da analisi più o
meno fedeli alla volontà dell’autore e al contenuto dell’opera; oppure il kafkismo
è un male necessario e allora non dovremmo escluderne nessuna delle declinazioni,
cercando di restituire un quadro che renda giustizia alle ricerche degli studiosi
senza preferire una visione piuttosto che un’altra. Non dobbiamo cedere «a quella
sorta di enigmistica kafkiana» che spinge alla «decrittazione di ogni modulo

17
Ivi, p.251.

12
narrativo»18. L’analisi di un testo viene considerata lecita fino a quando non si
tradisce la volontà del suo autore.
Franz Kafka è uno scrittore di grande complessità, soprattutto a causa dei critici
letterari che tuttavia detengono il merito di aver esaminato a fondo i contenuti della
sua produzione. Il proposito che questa tesi si pone alle fondamenta è di chiarire
ognuna delle posizioni assunte dagli studiosi di lingua italiana che hanno integrato
la conoscenza di questo autore attraverso gli interventi esegetici più rilevanti, di
indagarne il messaggio letterario ed esistenziale senza dimenticare la volontà di
colui che lo trasmise per la prima volta.

18
L. ZAGARI, Con oscillazioni maggiori e minori: paradossi narrativi nel ‘Processo’ di Kafka,
in «Annali studi tedeschi. Atti del convegno: Franz Kafka scrittore europeo» (Napoli, 24-25
febbraio 1982), XXIV, 3, p.466.

13
1. Esistenza

1.1 Remo Cantoni

Il sostrato filosofico-esistenzialista su cui poggiano alcune delle prime analisi


dell’opera kafkiana è caratteristico, per esempio, dell’analisi di Oscar Navarro,
probabilmente il primo tra i saggisti italiani a dedicare un’opera intera all’esegesi
dello scrittore. All’interno del suo studio, possibilità e indeterminatezza sono
categorie centrali dell’indagine, insieme all’assurdo, principio e fine del cammino
dei personaggi kafkiani.1
Navarro è un pioniere a cui gli studiosi successivi riconoscono la difficoltà insite
nell’esplorare un territorio ancora sconosciuto. È curioso notare come un pensiero
di Boccaccio, riferito da questi agli autori antichi per giustificare le loro
imprecisioni o i loro sbagli, si confaccia al saggio del critico: gli auctores, «non
potendo esplorare tutto con i propri occhi, si sono dovuti affidare a resoconti di
altri e, pur cercando insistentemente la verità, di tanto in tanto si sono lasciati
ingannare da false notizie»2.

1
Si veda O. NAVARRO, Kafka, la crisi della fede, Taylor, Torino 1948. Giuliano Baioni
accosta Navarro e Max Brod entro i confini dell’interpretazione teologica in G. BAIONI, Kafka:
Romanzo e parabola, Feltrinelli, Milano 1962, p.12, sebbene esistano delle differenze evidenti
tra le analisi di questi commentatori. Brod, forse strumentalizzando gli scritti dell’autore, ne
esamina il contenuto riflettendo sulle azioni del movimento sionista e sulle implicazioni più
concrete della narrativa kafkiana. Navarro, invece, si interroga sul terreno esistenziale
dell’autore senza analizzarne compiutamente il mondo religioso, concentrato soprattutto
sull’uomo e sul contesto sociale, o ancora ragionando su una divinità meno ebraica e più
assoluta.
2
Si veda M. BERTÉ – M. FIORILLA, Il Trattatello in laude di Dante, Salerno, Roma 2014,
p.56.

14
Le carte kafkiane sono state divulgate per gradi, lontano da un ordine cronologico.
Remo Cantoni sentì a ragione il bisogno di ritornare sui testi precedenti e di
integrarli, quando scrisse che la pubblicazione delle Lettere a Felice costituiva «un
evento letterario di grande importanza per una indagine rinnovata della personalità
e dell’arte di Kafka in anni cruciali della sua esistenza»3.
L’etichetta di «precursore dell’esistenzialismo» è stata apposta alla produzione
kafkiana dai primi lettori che si accostarono senza gli strumenti idonei
all’interpretazione del testo; questa etichetta, soprattutto in relazione agli esiti
concettuali dell’esistenzialismo francese ed europeo, potrebbe banalizzare il
corpus del praghese e le relative conclusioni. Kafka non è il padre di un’intuizione
imperfetta o da perfezionare e neanche un precursore deficitario che detiene
esclusivamente il merito di un presagio privo di realizzazione. Nel momento in cui
immaginiamo Kafka come un semplice antesignano, stiamo negando ogni suo
contributo originale al mondo della letteratura. I primi critici letterari di lingua
italiana si sono perciò impegnati a leggere l’autore a prescindere dai futuri sviluppi
esistenzialisti e dagli intellettuali che ad esso si ispirarono, estranei e ignoti al
Kafka scrittore. Non è possibile negare l’influenza che egli sortì sui filosofi
francesi del secolo scorso, specialmente Camus, il quale fu uno dei primi
intellettuali ad interessarsi all’autore ceco. Remo Cantoni pone l’esistenza alla
base della propria lettura, pur criticando tutte le scuole che tendono a ridurre Kafka
entro sistemi di interpretazione chiusi. Scegliere un significato piuttosto che un
altro denota scarso rispetto per l’autore e per i lettori. Questi, una volta intrapresa
la conoscenza di questo autore, si accorgeranno dell’impasto paradossale,
dell’impossibilità di un giudizio risolutivo, dell’eterogeneità dei contenuti.
Cantoni propone un ritorno al testo che ponga tuttavia un’attenzione particolare ai
risvolti esistenziali del risultato letterario che ormai sembra compromesso dalla
grande quantità di studi e riflessioni esterne all’opera originaria. Le storie kafkiane

3
R. CANTONI, Introduzione a Franz Kafka, Lettera al padre e Preparativi di nozze in
campagna, Il Saggiatore, Milano 1960, pp.9-59. La citazione è tratta dalla raccolta dei saggi
sulla letteratura kafkiana ad opera di Cantoni, organizzati in volume da Carlo Montaleone. R.
CANTONI, Franz Kafka e il disagio dell’uomo contemporaneo, cit., p.219.

15
sono, secondo Cantoni, «sempre intenzionalmente aperte a una pluralità di
significati»4 e di conseguenza non è permesso banalizzarne la molteplicità. I
messaggi trasmessi non perdono la loro originalità e raggiungono una dimensione
più generale attraverso ognuno dei filtri della tradizione (religioso di tipo
kierkegaardiano, psicanalitico, marxista, esistenzialistico e altro ancora), anche se
bisogna impegnarsi a non elaborare sentenze definitive o totalizzanti.
Mantenendo il criterio cronologico adottato per la presentazione dei critici anche
per i romanzi dell’autore, l’analisi incomincia da Il disperso5, la prima prova
narrativa di ampio respiro, nonostante il comune errore filologico dei pionieri (tra
cui Walter Benjamin) che lo consideravano l’ultima parte dell’ideale trilogia
narrativa dello scrittore.
Karl, il giovane protagonista, è succube dei capricci del destino e vive l’esistenza
quotidiana in una condizione di precarietà, accompagnato da un greve senso di
colpa. «America non è solo il romanzo della protesta contro una società ingiusta e
repressiva» scrive Cantoni, «è anche il romanzo della colpa e del castigo»,
entrambi ambigui e arbitrari, «che provengono da autorità invisibili»6. Si presenta
dalle pagine iniziali un’asimmetria di potere che lo studioso riconduce a
un’autorità enigmatica, assurta a simbolo ieratico di una sorte ostile, rappresentata
da personaggi o istituzioni sorde al buon senso del ragazzo, le quali si comportano
come una «forza maligna» che manipola la crescita degli esseri umani.
Scorgere dietro l’atmosfera burocratica il mondo delle industrie e dell’uomo
contemporaneo accomuna il critico ad uno studio più recente di Solari7, in cui la
tecnicizzazione della vita sociale è posta alle fondamenta dell’ambientazione
americana, elevata a paradigma dello sviluppo tecnologico di cui sono stati scritti
un’infinità di studi; alienazione, reificazione, estraniazione, la frattura tra

4
R. CANTONI, Che cosa ha ‘veramente’ detto Kafka, cit., p.78.
5
Il titolo America è di Max Brod; Kafka si è sempre riferito al romanzo incompiuto come a Il
disperso, sia nelle Lettere che nei Diari.
6
R. CANTONI, Che cosa ha ‘veramente detto Kafka’, cit., p.87.
7
M. F. SOLARI, Il demone distratto. Scrittura e personaggio nel primo Kafka, Le Lettere,
Firenze 2008.

16
aspirazioni individuali e destino sociale sono concetti centrali della visione
marxista, a cui Cantoni attinge per commentare lo sfondo delle vicende narrate e
non per l’impianto generale del suo lavoro, di forte ascendenza filosofica8.
La trasfigurazione artistica dell’America consente all’autore di indugiare poco
sulla concretezza dei luoghi e di proiettare su questi il proprio mondo interiore, le
peripezie picaresche da cui Karl, per la volontà cieca del destino, non riesce a
sottrarsi. Kafka è un uomo del suo tempo che si sente escluso dalla vita degli
uomini: i rapporti sentimentali si rivelano impossibili, l’aderenza alla comunità
ebraica è impedita dalle incertezze così come incerta si rivela essere l’appartenenza
alla tradizione ebraica condivisa, se escludiamo gli entusiasmi scaturiti dalla
frequentazione del teatro yiddish di Jizchak Löwy o la vagheggiata empatia per gli
ebrei orientali. Cantoni definisce «dramma della partecipazione impossibile»
questo stato di Kafka scrittore e uomo, esiliato dalla vita degli altri uomini,
eternamente colpevole ed escluso dal senso di comunità. Nell’ottica del critico, lo
scrittore è attanagliato dalla negatività del proprio tempo, la quale si manifesta in
una condizione di ansia perpetua. Il mondo moderno non risolve le ambiguità del
quotidiano e comporta una gravosa problematicità del vivere. La vicenda
soggettiva diviene emblematica dell’uomo contemporaneo, valica i confini
dell’individualità. Le esperienze e gli scritti che ne derivano assumono pertanto un
valore collettivo, perché da esse «scaturiscono processi di sublimazione e
trasfigurazione che trascendono nel significato culturale dell’opera le premesse
esistenziali da cui hanno tratto origine e motivazione»9.

8
Un pensiero analogo anche se più radicale sarà proprio di Ferruccio Masini, il quale scriverà
che «Kafka oggettiva nei simboli dei suoi racconti la coscienza dell’uomo-massa e quella
dell’uomo-singolo riducendo l’una e l’altra all’assurdo». F. MASINI, Franz Kafka. La
metamorfosi del significato, Ananke, Torino 2010, p.109.
9
R. CANTONI, Che cosa ha ‘veramente’ detto Kafka, cit., p.96. La germanista Uta Treder
sostiene che «il passaggio dal destino collettivo a quello individuale è particolarmente evidente
in Kafka, perché una delle cause principali della sua angoscia […] sta proprio nella sua irrisolta
condizione di ebreo che ha assimilato tutto il negativo della sua epoca, senza tuttavia poter
partecipare al positivo». U. TREDER, L’assalto al confine. Vita e opera di Franz Kafka,
Morlacchi, Perugia 2013, p.66.

17
L’idea di un linguaggio che diviene universale è presente in ciascuno degli
interventi di questo studioso. Egli tende a elevare la produzione kafkiana al rango
di testimonianza o momento significativo di un’esperienza comune, perché Kafka,
ai suoi occhi, ha accolto e descritto le contraddizioni in cui si dibatte l’esistenza
umana. Sebbene per Kafka la contaminazione tra opera e vicende biografiche sia
centrale, il critico ha forse convertito l’influenza delle esperienze personali sulla
produzione letteraria in un’identità tra letteratura e vita. Da molti studiosi, per
esempio, il praghese è stato accostato alla coeva corrente espressionista.
Durante i primi decenni del secolo scorso, l’ambiente culturale mitteleuropeo visse
una profonda crisi del linguaggio che ebbe come conseguenza più manifesta
un’innovativa sperimentazione della parola e delle forme espressive. Questo
lavoro sul significante sarà tipico di un movimento eterogeneo di artisti,
considerati “espressionisti” per i temi trattati, le ambientazioni, l’indagine
esistenziale sul significato dell’esperienza, la dimensione interiore dell’arte.
Kafka, in un momento di grande sperimentazione linguistica, sembra andare
controcorrente: il suo è un linguaggio terso che il critico non esita a definire
realistico, a prescindere dagli elementi onirici o fantastici. La ricerca kafkiana si
rivolge sul significato anziché sul significante attraverso metafore, simboli e
parabole che trasfigurano la realtà immediatamente percepibile per raggiungere
una realtà più complessa, impossibile da semplificare, testimoniata dalla
polivalenza del linguaggio e delle «visioni possibili del mondo». Come suggerisce
Claudio Magris, «Kafka lotta col linguaggio. A franare, per lui, non è tuttavia il
significante, come per molti altri scrittori soprattutto austriaci, bensì il
significato»10.
Per altri versi, al di là del movimento storico, Kafka potrebbe essere considerato
come un espressionista. D’altro canto, l’ambientazione americana del Disperso
trova riscontro nell’interesse generale per le metropoli11. Dal conflitto

10
C. MAGRIS, L’edificio che distrugge il mondo, in «Annali studi tedeschi. Atti del convegno:
Franz Kafka scrittore europeo» (Napoli, 24-25 febbraio 1982), XXIV, 3, p.335.
11
Si pensi a Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin (1929), considerato uno dei romanzi più
importanti dell’espressionismo.

18
generazionale, tema caro agli espressionisti, nasce una riflessione profonda che
coinvolge l’esistenza nella sua totalità. «Mentre costoro [gli espressionisti] si
rivoltano contro l’ingiustizia perpetrata dal dominio tirannico del padre», scrive
Freschi alle prime pagine della sua monografia sull’autore, «in Kafka la colpa della
rivolta oltrepassa quella dell’ingiustizia dei padri, […] sicché resta un elemento di
dubbio che si trasforma in accusa, rovesciando l’iniziale rivolta in processo contro
il figlio temerario»12.
In Cantoni, la polemica verso le interpretazioni teologiche che giustificano ed
alcune volte concludono il discorso intorno alla narrativa kafkiana è rispettosa; egli
vede una «teologia senza dio», intesa come assenza di una religione dogmatica o
univoca dietro il credo dell’autore, priva del soprannaturale e di una speranza
divina. Il critico considera l’autore lontano dall’ortodossia di una religione
positiva. L’impegno etico e morale non si traduce infatti in un’adesione convinta
ai precetti di una tradizione religiosa: al contrario, lo scrittore è in primo luogo un
artista, il quale si pone grandi interrogativi esistenziali (per esempio l’eternità, la
rettitudine, i concetti di bene e male) e ragiona sulle possibilità e impossibilità
dell’essere umano anziché partire da una legge codificata. «Ogni problema
esistenziale autentico si sfibra in una serie di interrogativi che nessun catechismo
teologico, nessuna ortodossia metafisica risolve»13. Cantoni svincola la ricerca
kafkiana dalle soluzioni assolute del pensiero religioso per coinvolgere la
profondità di un’indagine contraddistinta dalla molteplicità. Quando Kafka alla
ricerca di un significato alterna momenti che definisce «di tregua e illusione», egli
forse ignora la forza perpetua della battaglia intrapresa contro quelle che lo
scrittore considera inadeguatezze o incongruenze dell’esistenza; la sfida è disillusa
più che illusa. Non esiste alcuna interruzione delle ostilità, perché Kafka continua
a porsi domande anche durante i momenti in cui diminuisce l’intensità del
confronto e gli sfidanti si studiano. La continua tensione che ne deriva è posta, da
Cantoni, sul piano dell’universale. Kafka trascenderebbe sé stesso, trasfigurando

12
M. FRESCHI, Introduzione a Kafka, Laterza, Bari 1993, p. 9.
13
R. CANTONI, Che cosa ha ‘veramente’ detto Kafka, cit., p.125.

19
la propria vita in un’esperienza godibile per ognuno dei lettori, a prescindere dal
tempo e dallo spazio del loro vissuto.
La sua vita interiore viene sublimata attraverso una metamorfosi letteraria,
cosicché vi si possano identificare individui provenienti da momenti storici e
contesti sociali differenti. Come sosterranno molti studiosi, il fascino dell’opera
kafkiana conserva ancora la sua attualità proprio perché egli fu in grado di varcare
i confini della persona per arrivare all’uomo contemporaneo, in una significazione
apparentemente aperta. «Ogni tentativo di allegorizzare il romanzo in una
direzione troppo univoca e determinata», sostiene difatti Cantoni a proposito del
Processo, «ne mortifica quella polisemìa che è il segreto stesso del suo fascino e
della sua universalità»14.
Giuliano Baioni, considerato all’unanimità come il critico precipuo dell’opera
kafkiana, giunge alla medesima conclusione focalizzando l’attenzione sulla
relazione tra l’autore e l’ebraismo. In Kafka: Letteratura ed ebraismo egli sostiene
che lo scrittore «rappresenta l’ebraismo sempre dall’interno e lo vive come un
mondo del tutto autonomo che […] acquista una enorme potenzialità metaforica,
in grado di fare delle sue contraddizioni il veicolo significante di una universale
condizione umana»15.
Cantoni inserisce all’interno del discorso prospettive di indagine esterne alla
matrice ebraica e congiunge materiale di provenienza eterogenea per restituire una
visione che abbia un valore di documento capillare e senza gerarchie di significati,
rinunciando all’analiticità. Il lettore attento comprende tuttavia l’impossibilità di
lavorare sulla narrativa kafkiana senza prediligere una prospettiva piuttosto che
un’altra: Cantoni, per esempio, sembra interpretare i messaggi di tali opere come
una perfetta intuizione sulle condizioni esistenziali dell’uomo dei nostri giorni.
Egli è perentorio quando sentenzia che «l’opera kafkiana travalica da ogni parte
l’orizzonte storicamente circoscritto dell’ebraismo», riconducendo quest’ultimo a

14
Ivi, p.108.
15
G. BAIONI, Kafka: Letteratura ed ebraismo, Einaudi, Torino 1984, pp.44-5.

20
«un alibi per definire in termini provvisori e storicamente accettabili un problema
più universale»16.
Per Cantoni, l’autore patisce tensioni più metafisiche che teologiche, a differenza
della meditata religiosità di Kierkegaard, dai cui scritti Kafka viene profondamente
ispirato. Il filosofo danese compie infine una scelta religiosa che esclude altre
possibilità, mentre Kafka sceglie un percorso accidentato dove paradossi,
ambiguità e contraddizioni non consentono al discorso di concludersi17. Quando
Kierkegaard alla fine della propria ricerca si affida a Dio, Kafka non risolve
l’enigma dell’essere, scisso tra opposti archetipici: finito e non finito, bene e male,
tempo ed eternità. Kafka sembra scrivere entro i confini di un mondo divenuto
paradossale che rifugge dalle conclusioni.
Per il critico, Kafka è un autore profondamente tragico, di una tragicità differente
rispetto all’universo classico. Essa non si cura della sacralità di un disegno
sopraindividuale o del criterio tipico di un’evoluzione positiva delle vicende
narrate. Alla disposizione equilibrata dei significanti si contrappongono significati
apparentemente privi di una logica costruttiva e di un senso compiuto. Il
protagonista delle storie kafkiane non è come Edipo, sottomesso al volere degli
dèi, perché continua a lottare contro l’arbitrarietà di un destino che non accetta.
Avviene pertanto un totale rovesciamento di prospettiva, perché al tragico si
avvicina un sentimento che potremmo definire assurdo, se volessimo considerare
lo scrittore ceco un genitore degli esistenzialisti.
La tragedia vissuta dai personaggi kafkiani assume toni caricaturali e grotteschi,
lontani dai codici dell’epica, dalla solennità dei mitografi antichi. Il fato, se così
possiamo definirlo, incede ciecamente in un’atmosfera intorbidita, così come le
azioni umane. Entrambi si sottraggono al normale corso degli eventi. L’uomo

16
R. CANTONI, Che cosa ha ‘veramente detto Kafka, cit., p. 61.
17
Scrive Giuliano Baioni a proposito del Castello: «egli [Kafka] non ha afferrato, come i
sionisti, l’ultimo lembo del mantello rituale ebraico, né è stato condotto dentro la vita, come
Kierkegaard, dalla mano del cristianesimo, e, quel che più importa, non ha ‘ereditato alcuna
partecipazione a quella estrema negatività che si rovescia in positività’» G. BAIONI, Kafka:
Romanzo e parabola, Feltrinelli, Milano 1962, p.278.

21
vilipeso fatica a tollerare i capricci del destino poiché le sue azioni, a prescindere
dalla logica e dall’etica, appaiono ogni volta fraintese o imperfette, sottoposte al
vaglio di un’autorità invisibile. Cercando di percorrere questo cammino verso una
realtà soprasensibile emerge il dramma di un uomo che ha perduto ogni certezza.
Cantoni coglie tra le pagine kafkiane la «speranza metafisica dell’uomo» e ne
declina le metafore, osservando come la perpetua ansia di ricerca si possa ascrivere
a una dimensione «religiosa»; si tratta di un’indagine «metafisica», poiché
meditata «sul rapporto recondito e sconcertante che lega il mondo sensibile […]
con quel mondo che, spesso, lo scrittore definisce indistruttibile»18.
Sul versante della quotidianità, lo struggimento si manifesta attraverso la difficile
coesistenza di vita e opera letteraria e il suo grande bisogno di scrivere nonostante
le contingenze. Cantoni sottolinea più volte l’immagine di un uomo reificato e
succube di un’epoca alienante dove l’individuo non è libero di vivere secondo la
propria volontà. All’assenza del matrimonio e della comunità sopperiscono la
solitudine e l’isolamento che fungono da base per sostenere la nascita della
letteratura; per il critico, si tratta della vocazione di un artista che si sente investito
di tale ruolo, ovvero documentare la sua condizione esistenziale e consentire ad
altri uomini di identificarsi in essa, a prescindere dalla disgregazione delle
relazioni umane. Scrivere significa soprattutto rifiutare la condiscendenza riguardo
il presente, protestando contro l’inesorabilità di una condizione umana che appare
irreversibile. La trasfigurazione artistica è stata il tentativo di codificare una realtà
ambivalente, una lotta per rimanere al mondo: «Ma scriverò, nonostante tutto,
assolutamente: è la mia battaglia per l’esistenza»19. Lo studioso sostiene che
«scrivere è per lui semplicemente una necessità, una lotta per l’esistenza. Il
bisogno di chiudersi in solitudine, di eliminare i motivi di attrito con il mondo
esteriore per raccogliersi ad ascoltare e a registrare la sua sognante vita interiore,

18
R. CANTONI, Che cosa ha ‘veramente’ detto Kafka, cit., p.172.
19
F. KAFKA, Confessioni e Diari, a cura di E. Pocar, Mondadori, Milano 1972, p.483.

22
entrava in conflitto con il desiderio […] di comunione e solidarietà. Questo
contrasto […] lacera l’anima di Kafka»20.
Nella Colonia Penale, per esempio, dove non esistono imputati innocenti, è in
ultima istanza il castigo a dare un significato alla vita dell’uomo, condannato a
priori in quanto colpevole di una colpa sconosciuta ma indubbia.
La Metamorfosi, a cui lo scrittore deve buona parte della sua fama, rende manifesto
il carattere degradante dell’esistenza e la relativa umiliazione della coscienza
umana attraverso la metafora animale, caratteristica di altri racconti kafkiani. I
frequenti esiti tragici derivano soprattutto dall’incapacità del personaggio di
prevedere in alcun modo le conseguenze prossime e remote delle proprie azioni,
anche riguardo i piccoli avvenimenti della vita quotidiana, dove la decisione
individuale dovrebbe prevalere sulla volontà altrui.
Nella Tana, il racconto forse più significativo della maturità del narratore, il luogo
richiamato dal titolo rappresenta un rifugio insicuro per l’animale, immagine
simbolica dell’essere umano, la cui esistenza è costantemente in bilico ed esposta
al rischio delle minacce provenienti dall’esterno.
I racconti di Kafka, perfino quelli incompiuti, sono una testimonianza eloquente
del dissidio esiziale tra le sue vite, reale e letteraria, benché questa lotta sia evidente
anche all’interno dei romanzi.
Nel Processo, un tribunale inaccessibile condanna il procuratore Joseph K. senza
che egli sappia la colpa commessa: le vicende del protagonista sono condizionate
dal giogo di burocrati e funzionari che hanno abbandonato l’ordine razionale dei
principi logici.21 La progressiva burocratizzazione della vita quotidiana del
procuratore apre un orizzonte sconosciuto di indagine all’interno del quale le
soluzioni possibili si biforcano in altrettante possibilità che si sviluppano

20
R. CANTONI, Che cosa ha ‘veramente’ detto Kafka, cit., p.38.
21
Scrive Carotenuto, analista di scuola junghiana, all’interno della sua monografia sul praghese:
«La verità si trasforma in inganno non appena si cerca di interpretarla razionalmente, di darne
un quadro obiettivo. Non resta che avvicinarsi ad essa attraverso le dimensioni cifrate della
parabola, della metafora, della leggenda» A. CAROTENUTO, La chiamata del daimon,
Bompiani, Milano 1989, p.15.

23
caoticamente fino a divenire, il più delle volte, impossibili o perfino inutili. Il
progredire illusorio delle indagini contraddice l’ostinazione mediante cui Joseph
K. si batte contro il tribunale: i verdetti sono irreversibili ed egli nonostante tutto
non si acquieta né rinuncia alla sua pretesa di innocenza. Il procuratore rifiuta
recisamente l’arbitrio di una condanna della quale non conosce l’origine o la causa.
Gli imputati sottoposti al processo di questo tribunale speciale sono perciò
impotenti di fronte al proprio destino; per questa ragione, l’umanità si allontana
dalla realtà che affonda le sue radici in un suolo immateriale. Secondo Cantoni, il
gioco delle frequenti contraddizioni all’interno delle vicende kafkiane rispecchia
la contraddittorietà della vita stessa, oltre al profondo disagio dell’autore verso il
dipanarsi dell’esistenza, condiviso da generazioni di lettori grazie alla sua capacità
di trasfigurare e sublimare la materia autobiografica (alla rottura del fidanzamento
con Felice Bauer sarebbe infatti da ricondurre l’idea primigenia del romanzo).
Scrive Cantoni al termine del capitolo relativo al Processo che esso «è il romanzo
della legge e della colpa di non conoscerla»22. Per il critico, bisogna evitare le
analisi che pretendono di desumere il significato dell’opera dal vissuto individuale
così come le interpretazioni assolute e totalizzanti.
Lo studioso è sagace quando sottolinea come il peccato originale di cui Joseph K.
porta il fardello possa essere generato da essenze infinite (Destino, Legge, Dio) e
punito da forze altrettanto assolute (Tribunale dunque Giustizia, Autorità). A
dispetto dell’aura di sacralità che permea tali essenze, esse impediscono il lieto
fine dell’essere umano, inerme di fronte alla grandezza dei suoi avversari.
Influenzato probabilmente dalla coeva produzione di Musil23, Cantoni porta avanti

22
R. CANTONI, Che cosa ha ‘veramente’ detto Kafka, cit., p.108.
23
È significativa la convergenza con la dialettica irrisolta tra realtà è possibilità dello scrittore
mitteleuropeo. «Ma se il senso della realtà esiste, e nessuno può mettere in dubbio che la sua
esistenza sia giustificata, allora ci dev'essere anche qualcosa che chiameremo senso
della possibilità. Chi lo possiede non dice, ad esempio: qui è accaduto questo o quello, accadrà,
deve accadere; ma immagina: qui potrebbe, o dovrebbe accadere la tale o tal altra cosa; e se gli
si dichiara che una cosa è com'è, egli pensa: beh, probabilmente potrebbe anche esser diverso.
Cosicché il senso della possibilità si potrebbe anche definire come la capacità di pensare tutto
quello che potrebbe essere, e di non dar maggior importanza a quello che è, che a quello che
non è». R. MUSIL, L'uomo senza qualità, a c. di Adolf Frisé, trad. di Anita Rho, Einaudi,
Torino 1974, pp.12-3.

24
un discorso per cui le possibilità offerte agli eroi (o anti-eroi) del mondo di Kafka
non recano alcun conforto poiché provengono dai verdetti di un deus absconditus
che potrebbe, come in un grande paradosso, sostituire al possibile l’impossibile.
Esistono numerose analogie tra i romanzi kafkiani, accomunati
dall’incompiutezza, cifra originale del suo lavoro di narratore. Il «non-finito»
kafkiano possiede una sua coerenza interna: le contraddizioni dell’esistenza umana
sono senza fine così come avviene per la conclusione di una storia che non si
conclude. Se nel Processo la metamorfosi del procuratore Joseph K. avviene
progressivamente, da una condizione di normalità all’assorbimento completo delle
esperienze vitali, nel Castello l’agrimensore K. è soggiogato dal momento della
sua comparsa dinnanzi al ponte. Entrambi i romanzi condividono la disuguaglianza
tra la libertà di agire dell’individuo e il gravoso potere dell’autorità. In essi si
respira inoltre un’aria rarefatta a causa di una burocrazia trasversale che esercita il
suo potere dovunque abbia la volontà di esercitarlo. Cantoni evidenzia come
attorno al Castello, divenuto un mondo mentale, quasi metafisico, gravitino esseri
umani ancora più depotenziati rispetto ai personaggi dei romanzi precedenti.
L’agrimensore non riesce a penetrare il senso ultimo dell’onnipresente mondo
burocratico, vivendo una «problematicità misteriosa ed equivoca».
I protagonisti del Processo e del Castello sperimentano «l’insufficienza e
l’inadeguatezza della loro logica […] intuiscono che una qualche legge universale,
recondita, onnipotente, governa la vita dell’uomo, ma debbono anche scoprire […]
che la struttura uomo è refrattaria, impermeabile ai decreti di quella legge che la
nostra mente […] non comprende»24.
La vita delle alte sfere è invidiata dal popolo minuto che vive «umiliato e offeso»,
subordinato a chi gode dei favori del Castello e occupa al suo interno una posizione
gerarchicamente elevata che gli permette di vivere al di fuori del villaggio e dei
suoi problemi. In una vita che ha subìto un radicale processo di burocratizzazione,
la moralità, l’etica e il buon senso perdono già a partire dalle prime pagine il loro

24
R. CANTONI, Che cosa ha ‘veramente’ detto Kafka, cit., p.136.

25
valore interpersonale e comunitario. All’agrimensore viene passivamente
dimostrata la sua impotenza, la fallibilità della ragione umana. Se il castello
simboleggia la potenza del destino, egli ha tragicamente perduto la capacità di
fronteggiarlo ed è perciò costretto a sottomettersi, senza tuttavia interrompere la
battaglia per l’esistenza.
Secondo Cantoni, il senso intimo e profondo del Castello è riconducibile
all’incongruenza tra il pensiero del protagonista e le regole segrete
dell’organizzazione burocratica. Benché l’agrimensore protesti contro gli arbitri
dell’autorità tale asimmetria di potere compromette il sereno progredire della
ricerca. Le grandi antinomie sono tipiche degli intrecci kafkiani: all’equilibrio
formale si oppone una sostanziale frammentarietà dei significati, un profondo
dissidio interiore, testimoniato inoltre dall’incompiutezza che accomuna gli altri
tentativi di romanzo. Ogni frammento di quotidianità si allontana dal precedente e
dal successivo in un mondo caotico e privo di verità. Nonostante la sensazione del
fallimento si prospetti dall’inizio della narrazione, l’agrimensore non abbandona
la sua ricerca fino a quando l’autore non glielo impone, lasciando il romanzo
incompiuto.

1.2 Ladislao Mittner

Che un germanista di questa caratura intellettuale abbia lavorato ad un contributo


sullo scrittore praghese è una grande fortuna per coloro i quali desiderano
approfondire la conoscenza della narrativa kafkiana. Ladislao Mittner accomuna
le sorti di Kafka a quelle di Rainer Maria Rilke, altro grande poeta ceco del secolo
scorso. Essi ebbero la lucidità di trasfigurare la difficile condizione umana alla
vigilia della Grande Guerra e durante il conflitto, sublimando la crisi del loro
tempo e delle coscienze.

26
Entrambi furono lontani o allontanati dalla tradizione, «uomini senza casa»,
benché a Kafka non fu consentito di abbandonare la città natale, dove viveva
insieme alla figura paterna verso cui nutriva un avvilente complesso di
inferiorità25. Mittner abbraccia un presupposto psicanalitico, l’imponenza del
padre, senza rinunciare all’eterogeneità della visione d’insieme. Questa presenza
sarà per lo scrittore il primo ostacolo per l’accettazione delle leggi del mondo
sensibile e immateriale, una «forza trascendente» che lo sovrasta. Lo studioso nota
come il tema delle prime novelle sia più la punizione che la colpa del figlio. A
niente vale che il primo degli elementi presuppone il secondo perché il peccato
originale è posteriore alla cacciata dal paradiso. Kafka viene allora escluso
dall’esistenza e si sente colpevole prima di una condanna.
All’inizio del saggio, Mittner denuncia il proliferare di kafkismi e la kafkomania
(in particolare degli esistenzialisti) di cui forse subisce anch’egli il fascino,
costruendo la sua analisi critica su categorie indipendenti dal testo dell’autore,
come quelle di «al-di-qua» e «al-di-là». Questo non compromette la validità
dell’impianto teorico in quanto viene vagliata ognuna delle ipotesi possibili, anche
se marginalizzate o disapprovate. Egli infatti scrive che «dalla trasformazione
dell’al-di-qua non posseduto e non possedibile in un nuovo ed ancor meno
possedibile al-di-là nasce l’arte di Kafka»26.
Analizzando il complicato intreccio di autobiografia e letteratura, il rifiuto del
matrimonio è posto dal critico sullo stesso piano della colpa verso il padre. Se
Kafka avesse scelto la vita familiare, rimproverato da sé stesso e considerato un
peccatore, si sarebbe avvicinato al comportamento del genitore, con la sostanziale
differenza che la rettitudine di quest’ultimo ne legittima l’unione coniugale27. Sul

25
Giuliano Baioni riprenderà questa immagine di uomo estraneo alla vita condivisa e la
congiungerà alla gravosa autorità paterna. «Anche la casa, la vita familiare», scrive il critico,
«gli è divenuta insopportabile per colpa del padre. Se vogliamo credere al valore biografico di
quell’indimenticabile quadro di famiglia che è La metamorfosi, la casa doveva essere per Kafka
una tana di rivalità represse […] di maligne rivolte e soprattutto di lotte terribili» G. BAIONI,
Kafka: Romanzo e parabola, cit., p.58.
26
L. MITTNER, Kafka senza kafkismi, cit., p.258.
27
Al Contrario, Kafka vive la sua solitudine. L’immagine dello scapolo valica i confini
dell’esperienza personale e diventa letteratura, per esempio nel frammento La infelicità dello

27
versante letterario, il rapporto privilegiato tra le figure femminili e l’autorità
invisibile è testimoniato dalla loro vicinanza agli eroi kafkiani e dal ruolo di
mediatrici al servizio della giustizia.
Il critico si preoccupa di storicizzare la religiosità dell’autore, estraneo alla
comunità degli ebrei integrati e alla tradizione secolare dell’ebraismo. La religione
appare sempre deformata dall’originaria ortodossia e nascosta dietro le costruzioni
letterarie. L’esotico di molti racconti sarebbe un travestimento dell’ebraico, per
esempio in Sciacalli e Arabi o nel più studiato Durante la costruzione della
muraglia cinese.
Si legge in una lettera di Kafka: «Essi [gli ebrei di lingua tedesca] vivevano fra tre
impossibilità […]: l’impossibilità di non scrivere, l’impossibilità di scrivere in
tedesco, l’impossibilità di scrivere diversamente, quasi si potrebbe aggiungere una
quarta, l’impossibilità di scrivere»28. Da questo frammento epistolare possiamo
dedurre che la componente ebraica interessi sia l’attività di scrittore che
l’esistenza. Mittner, come d’altronde fece Cantoni, descrive il «tragico
quotidiano» della produzione kafkiana e ne riconduce l’origine all’impossibilità
congenita di vivere la realtà degli uomini. Egli innalza Gregor Samsa a paradigma
dell’assurdità dell’eroe sconfitto che diventando uno scarafaggio sconvolge la
dimensione umana senza perdere la lucida capacità di analisi razionale. Il
protagonista del racconto è un animale immondo e nonostante questo pensa da
uomo: la figurazione e l’astrazione non coincidono, l’angoscia viene pertanto
banalizzata perché le immagini fuori dall’ordinario vengono presentate come se
corrispondessero al normale corso degli eventi. Avviene perciò «la coesistenza di
un realismo ostinatamente piatto e minuzioso e di un simbolismo assurdamente
indecifrabile»29. Secondo il critico, Gregor e gli altri personaggi scelgono di non

scapolo o in Blumfeld, uno scapolo anzianotto: «[…] come sempre, anche questa volta dorme
senza sognare, ma è molto inquieto. Infinite volte durante la notte è scosso dall’illusione che
qualcuno bussi alla porta. Sa benissimo che nessuno bussa; chi dovrebbe bussare di notte e
proprio alla porta sua, alla porta d’uno scapolo solitario?». F. KAFKA, Racconti, a cura di E.
Pocar, Mondadori, Milano 1970, p.347.
28
F. KAFKA, Lettere, a cura di F. Masini, Mondadori, Milano 1988, p.400.
29
L. MITTNER, Kafka senza kafkismi, cit., p.263.

28
decifrare i simboli che sostituiscono i frammenti più banali della quotidianità. Il
senso di straniamento subìto dal lettore dipende proprio da questa naturale
assurdità.
Mittner concorda sulle interpretazioni freudiane dei nomi scelti dall’autore per i
suoi personaggi. Se il padre della psicanalisi si pone l’obiettivo di chiarificare i
messaggi inconsci, Kafka permette al linguaggio onirico di rimanere tale, un
«incubo continuo» favorito dalla «ripetibilità delle situazioni». Per corroborare la
sua tesi il critico si avvale di un esempio proveniente da America, dove Karl
Rossmann alternativamente perde e trova un lavoro. Altri riscontri potrebbero
provenire dagli sviluppi sottintesi di alcune storie, per buona parte mentali, come
per esempio dalla Muraglia cinese, alla cui costruzione si lavora ogni giorno, o dal
Cacciatore Gracco, condannato a un viaggio perenne.
Se nella Colonia penale il mondo della giustizia si rivela attraverso le figure
concrete degli ufficiali e dei condannati, soggetti ad un’inesorabile sentenza di
morte, il Processo porta invece con sé un decisivo mutamento gnoseologico,
peculiare delle opere mature dell’autore; l’autorità diventa invisibile e i suoi
rappresentanti elusivi. Joseph K. si batte fino allo stremo delle forze in un
paradossale dualismo: «la volontà di credersi innocente ed una più profonda, quasi
repressa [si noti il lessico freudiano] consapevolezza di essere colpevole»30.
Mittner osserva quindi come alla forza paterna sia subentrato un deus absconditus
che non si manifesta. Il conseguente «labirinto di possibilità opposte» e il più delle
volte contraddittorie complica l’intreccio narrativo e impedisce la linearità del
ragionamento logico dal momento che la giustizia si manifesta sotto forma di
istituzioni impossibili da avvicinare (il tribunale del Processo, le alte sfere del
Castello, l’ultimo messaggio dell’Imperatore).
Kafka e i suoi personaggi si oppongono all’invisibilità di tali potenze superiori
anche se vengono mortificati da una Legge irraggiungibile che Mittner ritiene di
ascendenza divina. Kafka continua a fallire perché si serve di un metro «umano»

30
Ivi, p.278.

29
per denunciare l’ingiustizia di un’esistenza sovraumana. Egli sentirebbe la colpa
dell’ebreo occidentale e integrato, sarebbe «l’uomo escluso dalla vita che vorrebbe
pur vivere» oppure «il credente mancato che vorrebbe pur credere»31.
Scrive Magris a proposito di tale condizione: «L’esistenza appare un’erranza senza
principi primi e senza meta, un nomadismo senza nemmeno il ricordo delle radici,
un artificio privo perfino dell’esigenza dell’autentico, un’odissea che è un
girovagare volutamente fatuo, alla superficie di un mondo che conosce solo enti,
cose indifferenti e fungibili, e nessun essere né significato»32.
La giustapposizione tra scrittore ed eroi letterari potrebbe dirsi semplicistica in
quanto il critico cede alla tentazione dell’esclusività esegetica, ignorando per
esempio il ruolo dell’ambiente sociale e l’incidenza dei rapporti familiari,
onnipresenti seppur sublimati. Egli sembra inoltre contraddirsi quando scrive che
ogni interpretazione degli scritti kafkiani sia degna di riflessione per via della loro
universalità. Nella medesima pagina, infatti, egli afferma che «la colpa di K. di
fronte al tribunale delle soffitte è la colpa di Kafka di fronte al proletariato ebreo,
ma anche di fronte agli ideali propriamente religiosi dell’ebraismo»33.
L’enigma potrebbe perfino non sussistere, se considerassimo il testo come una
creazione dell’autore senza che entrambi coincidano in ogni scelta letteraria.
All’interno dell’opera sono presenti suggestioni autobiografiche (l’istanza paterna,
per esempio) che hanno tuttavia subìto un fondante processo di trasfigurazione
artistica. Kafka non coincide interamente con i suoi personaggi.
Mittner si sofferma sull’incompiutezza dell’ultimo romanzo di Kafka, il Castello,
testamento esistenziale dell’autore. Il romanzo «continua ed approfondisce» la
penosa storia di Joseph K. anche se l’agrimensore compie uno sforzo più intenso
per penetrare le istanze segrete dell’autorità. Le porte del Castello, così come la
porta della Legge nella parabola del Processo, sono serrate al protagonista che
tenta, a partire dalla sua prima apparizione sulla scena, di entrarvi, di svelarne il

31
Ivi, p.277.
32
C. MAGRIS, L’edificio che distrugge il mondo, cit., p.339.
33
L. MITTNER, Kafka senza kafkismi, cit., p.282.

30
mistero. Per il critico, tutti i personaggi del romanzo sembrano amalgamarsi in
un’entità indistinta, allo stesso modo della burocrazia dei castellani, inafferrabile
perché cangiante. Le vicissitudini dell’agrimensore K. e degli opposti schieramenti
del popolo minuto e dei potenti funzionari rimangono sospese a causa
dell’incompiutezza della storia; benché il romanzo sia allo stato di frammento, il
lettore intuisce la continua rarefazione della realtà che deforma i rapporti tra gli
individui e la conoscenza delle cose.
Secondo Mittner, in Primo dolore e L’artista del digiuno (o Un digiunatore),
racconti dell’ultimo periodo di vita, Kafka avrebbe offerto ai lettori la descrizione
del proprio martirio, avvisando chiunque voglia intraprendere un’analoga ricerca
sulle potenzialità del pensiero e sui limiti della mente umana. A questo sacrificio,
tuttavia, l’autore stesso sembra non credere. Analogamente al finale della
Metamorfosi, in Un digiunatore, venuto a mancare il protagonista, gli altri esseri
umani continuano serenamente la loro esistenza, come se egli non fosse mai
esistito.

«“E ora fate ordine!” disse il custode; e il digiunatore fu sotterrato insieme alla
paglia. Nella gabbia fu messa poi una giovane pantera. E vedere nella gabbia sì
a lungo deserta dimenarsi quella fiera fu un sollievo per tutti, anche per gli
spettatori più ottusi. Non le mancava nulla […] e la gioia di vivere emanava con
tanta forza dalle fauci, che agli spettatori non era facile resistervi. Ma si
dominavano, circondavano la gabbia e non volevano saperne di andar via»34.

34
F. KAFKA, Racconti, cit., pp.576-77.

31
2. Società

2.1 Ferruccio Masini e Franco Fortini

In un saggio postumo dal titolo Cosa sono i simboli per Franz Kafka? Ferruccio
Masini sostiene la necessità di una coesistenza tra l’interpretazione filologica degli
scritti di Kafka e l’analisi approfondita del loro contenuto. Egli è perciò contrario
ai filologi più letterali, severamente concentrati sul significante, considerando il
lavoro di questi come un generale impoverimento del significato dell’opera. «La
realtà e la totalità del mondo poetico kafkiano», scrive il germanista per
corroborare la sua tesi, «includono in sé anche un significato che trascende la
lettera»1.
Una severa lettura del testo che non tenga conto della polisemia intrinseca
precluderebbe il tentativo di comprensione della totalità esistenziale concepita
dallo scrittore, influenzato dall’esperienza quotidiana e dalle meditazioni
filosofiche secondo prospettive differenti. Masini si rifiuta di considerare il ritorno
al testo come una strategia autosufficiente, perché l’eterogeneo universo di questo
artista esige spiegazioni e chiarimenti.
I primi studi del critico sono ascrivibili al periodo esistenzialista poiché egli
sviluppa un discorso a partire dalla problematicità filosofica dello scrittore
praghese. Il tema principale su cui vertono le sue prime analisi è costituito dalla
separazione dell’heideggeriano esser-ci dal luogo profondo dell’esistenza, la quale
verrà raggiunta in un progresso sia di edificazione che di annientamento. Entrambe
le dimensioni risultano allontanate e incongiungibili. Dall’allontanamento

1
F. MASINI, Franz Kafka. La metamorfosi del significato, Ananke, Torino 2010, p.100.

32
originario si arriverà all’impossibilità di un congiungimento a cui verrà sostituita
un’allusione continua. In via allusiva, l’esser-ci cercherà di avvicinarsi
all’esistenza attraverso mondi e vie sconosciuti. L’ottica di quest’originale
procedimento analitico, concentrato più sulla fenomenologia che
sull’esistenzialismo strictu sensu, presuppone che Kafka sia radicalmente
impegnato in un confronto per la sopravvivenza, sopperendo alle difficoltà del
mondo attraverso l’elaborazione di una propria possibilità spirituale di vita.
Azione, attesa e morte sono tentativi vani di avvicinare l’esser-ci all’esistenza; ne
deriva che «l’esserci rimane un limite invalicabile al di là del quale cade nel nulla
la nullificante trascendenza»2.
L’essere umano esiste hic et nunc a prescindere dalla delicata ambiguità tra
appartenenza ed estraneità alla vita la quale, secondo il giudizio fenomenologico
sostenuto da Masini, chiude le porte della partecipazione umana. Per liberarsi
dall’immobilità di tale abisso privo di senso lo studioso attribuisce allo scrittore
una fede assoluta e immanente, affinché l’esser-ci stesso possa appartenere alla
trascendenza che altrimenti verrebbe annichilita. Kafka assalterà il confine, senza
tuttavia valicarlo, alla ricerca di un nuovo significato da conferire al processo vitale
dell’uomo contemporaneo. Non a caso, durante l’effervescente permanenza
creativa di Zürau (settembre 1917 – aprile 1918), egli stesso tradusse su carta
alcune intuizioni sul mondo dello spirito e sulla relazione tra questi e l’Io: «In
teoria vi è una perfetta possibilità di felicità: credere all’indistruttibile in noi e non
aspirare a raggiungerlo»3, o ancora, «l’indistruttibile è uno: ogni singolo uomo lo
è e al tempo stesso è comune a tutti, da qui il legame fra gli uomini, indissolubile
come nessun altro»4. Analogamente a Remo Cantoni, Masini considera Kafka

2
Ivi, p.88. Il saggio venne originariamente pubblicato in «La posta letteraria» del «Corriere del
Ticino», anno VI – N.5- Lodi, 5 marzo 1960.
3
F. KAFKA, Aforismi di Zürau, a cura di R. Calasso, Adelphi, Milano 2004 p.83.
4
Ivi, p.84.

33
come testimone o martire della negatività del proprio tempo; essa «distrugge ogni
possibilità che non sia quella dell’impossibile»5.
Kafka, indipendentemente dalla trasversalità di questa condizione, rappresenta
l’ebreo assimilato a cui è preclusa una tradizione secolare, un cittadino che vive in
un Impero, quello asburgico, sulla soglia della dissoluzione, in un tempo di
rivoluzioni copernicane, la fin de siècle, tra alienazione, società di massa,
reificazione, avanguardie tecniche, guerre mondiali.
Come leggere, allora, le suggestioni esistenziali degli scritti kafkiani, alla luce di
questa impossibilità? Il procedimento logico non arriva allo scioglimento del senso
perché i referenti dell’autore gravitano attorno all’indistruttibile degli aforismi,
sono esterni al mondo sensibile e necessitano di una lettura allusiva per essere
avvicinati. Masini intraprende la sua esegesi sottintendendo proprio questa
allusività del segno linguistico: emancipata dal significato più tradizionale del
significante, la scrittura diviene significativamente allegorica. Di conseguenza, le
relazioni che intercorrono tra i significanti non si risolvono in alcun significato
univoco e anzi, esso è equivoco, inattingibile o perfino assente.
Approvando le grandi novità interpretative di Walter Benjamin6, definibile come
un eretico della critica marxista di seconda generazione, Masini arriva a definire
la scrittura allegorica come una «distruzione che edifica». «Se essa infatti implica
la distruzione della totalità del significato», scrive il germanista alla fine del
saggio, «per altro verso la sua è anche una continua inarrestabile discesa nella
profondità del significato»7. La ricerca di un senso chiarificatore all’interno del
discorso produce potenzialmente un’infinità di rimandi metaforici. Il lettore più

5
F. MASINI, Franz Kafka. La metamorfosi del significato, cit., p.150. In «Il piccolo Hans», n.3
luglio-settembre 1974, pp. 128-55; anche in F. MASINI, Lo sguardo della Medusa, Cappelli,
Bologna 1977, pp.89-109 e in F. MASINI, Il travaglio del disumano. Per una fenomenologia,
Bibliopolis, Napoli 1982, pp.255-80.
6
Per una disamina minuziosa del suo apporto all’esegesi kafkiana, si veda G. SCARAMUZZA,
Walter Benjamin lettore di Kafka, Unicopli, Milano 1994.
7
F. MASINI, Franz Kafka. La metamorfosi del significato, Ananke, Torino 2010, p.150. In «Il
piccolo Hans», n.3 luglio-settembre 1974, pp. 128-55; anche in F. MASINI, Lo sguardo della
Medusa, Bologna, 1977, pp.89-109 e in F. MASINI, Il travaglio del disumano. Per una
fenomenologia, Bibliopolis, Napoli, 1982, pp.255-80.

34
cauto si districa entro il groviglio delle metafore, cercando di penetrare a fondo il
significato senza trasferirlo altrove. Avviene perciò una discesa verso il baratro dei
significati possibili che si rivelano impossibili per l’assenza di un centro, anziché
la banale pretesa di leggere il messaggio a partire dalla significazione ordinaria
delle parole. Giuliano Baioni sosteneva la tesi dell’universalità dello scrittore
proprio a partire da un «assoluto significato parabolico» e contrariamente a Masini
rinunciava allo scandaglio dell’impossibilità umana perché vita e parabola
venivano a coincidere senza che il significato divenisse impossibile a causa della
sua molteplicità, legittimando e invalidando al tempo stesso ognuna delle letture
possibili.
A proposito del Processo, per esempio, leggiamo infatti che «l’astrazione della
parabola» permetteva all’autore «di confutare ogni singola interpretazione
confermandole però tutte insieme nel loro complesso»8.
Per Masini, allo stesso modo del racconto omonimo, la comunicazione e il
linguaggio potrebbero essere definiti come un ponte (Il ponte, 1917): esso
raggiunge l’altra riva, oltrepassa cioè la dicotomia tra significante e significato,
esclusivamente quando non viene percorso da nessuno; altrimenti, se un uomo vi
si incammina, il ponte si umanizza e in un paradosso volge lo sguardo alle sue
spalle. Il significato, quindi, compromesso dall’intervento dell’uomo sul testo,
rimanda a «significati prodotti nel momento dell’ambivalenza e del labirinto,
significati assenti o impossibili»9.
I paradossi di Kafka non si limitano a eludere il principio di non contraddizione
perché ognuna delle soluzioni concepibili contraddice sé stessa e presenta
oltretutto la condizione di un soggetto che perde il controllo dell’antinomia.
Secondo Masini, le stesse congetture intraprese dall’uomo (o più precisamente
dall’Io) per sciogliere il paradosso dimostrano la «ridicola precarietà» della
dimensione umana, sottomessa alla staticità di un ponte, o di un linguaggio,

8
G. BAIONI, Kafka: Romanzo e parabola, cit., p.181.
9
F. MASINI, Franz Kafka. La metamorfosi del significato, cit., p.133. Questo saggio, In via
allusiva, accompagna inoltre le edizioni Garzanti delle opere di Kafka dal 1974.

35
invalicabile. Il labirinto delle parole corrisponderebbe a quello della colpa, per
esempio nel Processo, escludersi dal quale vuol dire parteciparvi perché il
giudizio, a cui non è dato sottrarsi, presuppone la colpa.
A partire dal 1963, anno in cui si tenne a Liblice (Cecoslovacchia) un convegno
internazionale su Kafka, buona parte della critica di scuola marxista rivaluta le
proprie posizioni sullo scrittore praghese, incominciando a studiare più
compiutamente il suo «umanesimo». Fino ad allora, la radicalità di alcuni studiosi
ne aveva precluso un’analisi approfondita. Dalle prime apparizioni dei suoi scritti
intransigenza e dogmatismo dei critici avevano attribuito a Kafka una generica
fama di esistenzialista, o distruttore del mondo. La prima critica marxista si
dimostrava indifferente verso la portata rivoluzionaria delle riflessioni che egli
compì sulla condizione dell’uomo del proprio tempo.
Essi divennero diffidenti verso l’autore soprattutto a causa delle idee dei critici
cosiddetti «borghesi», ovvero estranei alla logica marxista, i quali connotarono i
suoi testi in senso ‘individualista. Kafka non fu un nichilista compiaciuto di sé
stesso e neanche un anarchico del significato. Al contrario, egli ebbe
paradossalmente la perspicacia di nascondere sotto il velo della parabola e
dell’allegoria le astrusità quotidiane dell’individuo contemporaneo. Per questa
ragione, la sua produzione letteraria mantiene tuttora una forte attualità.
Franco Fortini, traduttore di alcuni racconti oltre che critico e poeta, si differenzia
sensibilmente dalla più tradizionale scuola marxista che risolve il discorso sulla
produzione kafkiana ascrivendo l’autore al novero degli esistenzialisti o
individualisti. Egli stesso ne prende le distanze e critica il loro modus operandi
all’interno di un breve saggio dal titolo Gli uomini di Kafka e la critica delle cose,
dove viene inoltre sottolineato il carattere simbolico e per nulla poetico degli scritti
di Kafka. «Avere come soggetto il simbolo», si spinge a scrivere lo studioso,
evidenziando come «ogni cosa e parola» sia una «spia di altro», significa «porsi

36
deliberatamente al di fuori del linguaggio poetico» in quanto parole e cose sono
suscettibili di una «glossa infinita»10.
In una visione della letteratura al servizio della conoscenza del mondo comune e
dell’azione, tipica di tale scuola critica, le ambiguità del reale vivificato dallo
scrittore praghese, congiunte alla proliferazione di simboli che non si esauriscono,
hanno invalidato il suo valore universale.
Kafka, secondo un imperativo categorico di questa scuola interpretativa, viene
«storicamente condizionato». La stroncatura verso i presupposti esistenzialisti non
potrebbe essere più radicale perché se essi elevano l’opera al rango di «immagine
eterna della condizione umana» il critico ragiona invece sulle classi sociali di
appartenenza e sulla Mitteleuropa all’inizio del secolo scorso, fuori da ogni
idealizzazione metafisica che attraverserebbe trasversalmente luoghi ed epoche
differenti. Fortini rimprovera pertanto entrambi gli schieramenti, i marxisti più
superficiali incapaci di analizzare a fondo la complessità dell’opera e i critici
concentrati soltanto sulla dimensione esistenziale, tentando di restituire Kafka alla
storia e alle contraddizioni del tempo.
In un articolo del 1946 pubblicato su La Lettura sostiene che il suo mondo si
presenta come un «giuoco di specchi», un coacervo di sentimenti negativi il cui
superamento viene negato dalla penosa staticità della scrittura stessa. Questa
negatività radicale assurta a orizzonte di vita che impedisce la crescita dei
personaggi e lo scioglimento dell’intreccio rappresenta un tema cruciale per il
critico, sempre più distante dal garbuglio delle storie kafkiane.
Fortini rischierebbe tuttavia di cadere in una scorretta generalizzazione quando
all’interno del suddetto articolo scrive a proposito di America che «quei personaggi

10
F. FORTINI, Gli uomini di Kafka e la critica delle cose, in «Verifica dei poteri», Il
Saggiatore, Milano 1965, p.302. Contributo pubblicato anche in Saggi ed epigrammi, a cura e
con un saggio introduttivo di Luca Lenzini, Mondadori, Milano 2003. A proposito
dell’esclusione di Kafka dal mondo poetico teorizzata da Fortini, si vedano le argomentazioni a
sostegno di questa tesi in G. BAIONI, Kafka: Letteratura e ebraismo, cit., pp.93-4. Si veda
inoltre il pensiero di Barilli che, in disaccordo con Baioni, si avvicina per una via indipendente
all’idea di Fortini in R. BARILLI, Comicità in Kafka. Un’interpretazione sulle tracce del
pensiero freudiano, Bompiani, Milano 1982, pp.132-33.

37
[…] sono in verità dei funzionari di una mostruosa trappola giudiziaria, come nel
romanzo Il processo»11, perché non si terrebbe conto delle differenze sostanziali
che intercorrono tra America e Il Processo. Tuttavia, l’ordine di stesura dei
romanzi venne rettificato soltanto dopo alcuni anni12 e la giustapposizione
compiuta dal critico appare perciò come una conseguenza naturale di un’errata
disposizione cronologica, causata soprattutto dalla farraginosa vicenda editoriale
dei romanzi13.
Tenendo conto della precocità del contributo, Fortini compie un meritevole atto di
emancipazione verso l’intransigenza degli interpreti appartenenti alla medesima
scuola critica, alla ricerca di una scrittura che valichi l’individuo per coinvolgere
l’intera comunità. Nonostante tutto, Fortini si allontana progressivamente
dall’universo dello scrittore e ne rifiuta il messaggio considerato disperante;
l’onnipresenza della pars destruens, il cui esito più immediato emerge laddove
l’esperienza viene inficiata dal moto perpetuo delle contraddizioni, rende vana la
speranza di aiutare l’uomo contemporaneo a vivere il proprio tempo, perdendo il
suo ruolo edificante.
La letteratura di Kafka si esaurisce per il critico in uno sterile «sogno della forma
autodistruttiva» poiché l’autore relega il proprio pensiero all’interno dei confini
della «formalità letteraria»14: le parole e le cose hanno perduto il loro sostegno
reciproco.
Masini, al contrario di Fortini, accoglie entusiasta le riforme critiche proposte dal
convegno del 1963 riguardo alla riabilitazione dello scrittore ceco. Egli arricchisce
la visione marxiana di un approccio fenomenologico e lavora ad una serie di
contributi originali sull’interpretazione del testo.

11
F. FORTINI, Kafka, questo ebreo di Praga, in «La Lettura», II, 3, 17 gennaio 1946, p.8.
12
I primi studiosi hanno infatti considerato America, pubblicato postumo dopo il Processo
(1925) e il Castello (1926), come la terza e ultima parte di una costruita trilogia narrativa dello
scrittore praghese.
13
Meno giustificata poiché più recente appare l’ipotesi di Uta Treder, quando scrive che «nel
Processo confluisce […] il destino irrisolto del giovane protagonista di America». U. TREDER,
L’assalto al confine. Vita e opera di Franz Kafka, cit., p.165.
14
F. FORTINI, Due note su Kafka, in Un giorno o l’altro, Quodlibet, Macerata 2006, p.411.

38
Scrive il critico, dopo un breve esame stilistico dell’opera, in un contributo uscito
su L’Unità a proposito delle conquiste del suddetto convegno: «è stato giustamente
messo in luce quell’ostinato messaggio di lotta, quella rivolta contro gli orrori di
un mondo contaminato dal nulla […]. A quel nulla i marxisti hanno incominciato
a dare un volto […] quello della solitudine e del vanificarsi di ogni possesso
interiore nella disumana realizzazione tecnologica dello sfruttamento
capitalista»15.
Kafka venne emarginato da molti studiosi del secolo scorso proprio per
quest’apparente nullificazione del reale. Si tratta, invece, di un’eroica (o anti-
eroica) ricerca tesa verso l’essere umano e il suo ruolo all’interno dell’esistenza.
Egli si sofferma sul «mistero di un mondo alienato», senza analizzare
minuziosamente il disagio causato dall’avvento di una società moderna e
capitalista, materia riservata, aggiunge chi scrive, agli studi specifici di storici ed
economi.
Interpretando America Masini, infatti, associa al capitolo conclusivo o presunto
tale, Il teatro naturale di Oklahoma, l’immagine di una riconciliazione utopica tra
l’uomo reificato e la sfera sociale, «in antitesi alla dinamica brutalmente
prevaricatrice della società borghese»16, come una sorta di comunità ideale in cui
attraverso il recupero dell’etica e dei valori verranno migliorate le condizioni di
vita delle individualità al suo interno, agenti per il bene dell’intera comunità.
In un saggio focalizzato esclusivamente sulle opere giovanili dell’autore, Solari
riprenderà l’idea dell’uomo alienato all’interno di una società tecnologica che ne
impedisce l’esperienza autentica. Anche se egli prosegue idealmente l’approccio
critico-interpretativo di Masini, la meccanizzazione delle azioni quotidiane si

15
F. MASINI, Franz Kafka. La metamorfosi del significato, cit., p.231. L’articolo fu pubblicato
su «L’Unità», alla pagina 8 della Cultura, nel 1966.
16
F. MASINI, Franz Kafka. La metamorfosi del significato, cit., p.96. Il contributo apparve per
la prima volta come introduzione agli scritti di Kafka editi da Garzanti a partire dal 1974. «Vi è
in America, come nei due maggiori romanzi kafkiani», scrive Giuliano Baioni, «una sola
prospettiva, quella del protagonista e gli altri personaggi sono appunto soltanto figure e
manifestazioni di una sola istanza, quel mondo alienato, se proprio si vuole, che congiura per
distruggere l’innocenza di Karl, ma che può essere, dalla prospettiva dalla quale è vissuto,
soltanto un mondo interiore» G. BAIONI, Kafka: Romanzo e parabola, cit., p.122.

39
estende fino a comprendere lo stesso teatro naturale di Oklahoma, considerato una
mera «macchina» senza alcun vagheggiamento utopico17. Masini identificherà
quest’ultimo, sempre inteso come comunitario, in Durante la costruzione della
muraglia cinese e in Giuseppina la cantante ovvero il popolo dei topi, trascurando
tuttavia la rassegnazione dell’autore, teso probabilmente ancora una volta verso
quell’indistruttibile che i protagonisti tentano di conoscere anche in prossimità
della morte. Non dobbiamo sottovalutare il profondo struggimento degli ultimi
racconti; il critico pensa soprattutto alla dolorosa condizione dell’esclusa
Josephine, incompresa dal popolo, quando leggiamo che «lei non si lascia
distogliere dalla lotta. In questi ultimi tempi la battaglia [contro il popolo] si è
persino accanita; se finora ha combattuto a parole, ora Giuseppina comincia a
ricorrere ad altri mezzi che secondo lei sono più efficaci, secondo noi più pericolosi
per lei»18.
Le speranze degli uomini che lavorano all’edificazione della muraglia cinese non
sembrano convergere verso la ricerca del benessere collettivo perché ogni suddito
osserva per sé i progressi fatiscenti, si perde insieme ai messaggi degli imperatori,
rinuncia per volontà o perfino impossibilità a costruire la visione d’insieme
necessaria all’impegno comune.
La prima osservazione del critico sulla Metamorfosi concerne la trasformazione di
Gregor Samsa, un «piccolo borghese» che al risveglio si trova trasformato in uno
scarafaggio dalle grandi dimensioni. Egli nota come il protagonista non si
sorprenda della sua nuova condizione animalesca. Dopo un breve stupore iniziale,

17
Interessante il parallelismo tra le vicende del protagonista Karl Rossmann e il Charlie Chaplin
di Tempi Moderni, inserito in un ampio commento ‘cinematografico’ al romanzo kafkiano.
«Ciò che unisce i mezzi di trasporto, il cinema e la vita cittadina tutta è l’inquietudine, la
mancanza di tempo per l’osservazione che rende l’osservato una sfuggente apparizione» M. F.
SOLARI, Il demone distratto. Scrittura e personaggio nel primo Kafka, cit., p.78. Anche
l’analisi di Barilli si serve di immagini provenienti dal mondo del cinema, soprattutto riguardo
al primo romanzo dell’autore. Si veda R. BARILLI, Comicità in Kafka. Un’interpretazione
sulle tracce del pensiero freudiano, cit., pp. 92-119. Si veda inoltre l’eterogenea raccolta di
saggi Kafka:ibridismi. Multilinguismo, trasposizioni, trasgressioni, a c. di G. Sampaolo,
Quodlibet, Macerata 2010, all’interno della quale vi sono studi interessanti sulla fotografia e sul
mezzo cinematografico in relazione allo scrittore praghese.
18
F. KAFKA, Racconti, cit., p.593.

40
Gregor continua a ragionare da essere umano, preoccupato delle minuzie
quotidiane, banalizzando le conseguenze più evidenti della metamorfosi. Gargani
tornerà sul nucleo della questione: «Gregor Samsa non è un individuo che una
mattina si svegli e si senta come uno scarafaggio, perché egli è diventato uno
scarafaggio»19.
La differenza è sostanziale dal momento che non si tratta di una similitudine.
Samsa ha varcato il confine del «come uno scarafaggio» e si è trasformato in un
animale. Questo significa che il mutamento fisico si compie al di fuori
dell’universo fantastico perché esso viene filtrato e subito trascurato dalle facoltà
razionali del commesso viaggiatore. Questi, secondo Masini, incomincia a vivere
un’esistenza caratterizzata da un malinconico senso di impotenza, derivato
dall’incapacità di aiutare economicamente il proprio nucleo familiare. Gregor
sarebbe perciò schiavo del lavoro e del profitto al punto da dimenticare la sua
umanità, nascosta sotto la pesante coltre dell’alienazione. «La metamorfosi è
l’oggettivazione di uno stato interiore che già esiste», specifica lo studioso,
«l’oggettivazione del suo essere alienato. Gregor come l’uomo di oggi non vive
nell’intimità con se stesso […] ma presso le cose, prigioniero di un mondo di
lavoro, schiacciato in un ingranaggio che ha distrutto la sua umanità»20.
Sulla linea di questa interpretazione, Gargani considera Samsa come il risultato di
una concretizzazione della civiltà borghese a cui si aggiungono le difficoltà private
dei rapporti familiari, condannato dai quali egli è vincolato a vivere un’estenuante
«ingiunzione all’aberrazione», congiunta a una «mostruosità della vita
quotidiana»21. Il risveglio del protagonista non equivale alla nascita della
condizione di alienato, costituendo invece l’inizio di una «materializzazione

19
A. GARGANI, Kafka: il soggetto e la scrittura, in Kafka oggi [1883-1983], Guida, Napoli
1984, p.32. Prima ancora di questi studi fu Giuliano Baioni a evidenziare, commentando
l’incipit del racconto kafkiano, che la metamorfosi rappresenta «l’unica frattura del racconto che
si sviluppa poi per settanta pagine con assoluta, quasi scandalosa naturalezza, perché l’adesione
passiva, torpida e quasi ipnotica di Gregor al corpo dell’insetto rende tutto ovvio, estremamente
logico e addirittura prevedibile», in breve e con la dovuta consapevolezza potremmo scrivere
‘naturale’, ordinario o perfino ‘realistico’. G. BAIONI, Kafka: Romanzo e Parabola, cit., p.82.
20
F. MASINI, Franz Kafka. La metamorfosi del significato, cit., p.105.
21
A. GARGANI, Kafka: il soggetto e la scrittura, cit., p.34.

41
simbolica» dell’alienazione stessa, all’egemonia della quale viene associata dallo
studioso la vita priva di valori positivi dell’uomo contemporaneo in una sorta di
martoriata «coscienza dell’uomo-massa», ricettacolo dei subalterni, della piccola
borghesia. Se tuttavia l’esistenza di ciascun individuo è alienante, perché il
processo di metamorfosi, «rivelazione simbolica» estesa alla totalità del reale,
colpisce soltanto Gregor Samsa? I componenti della famiglia, i colleghi dell’ormai
scarafaggio e la domestica (una povera lavoratrice) non subiscono alcuno
sconvolgimento fisico né morale. Il testo kafkiano è ancora compromesso dallo
studioso, come accadrà per la lettura del racconto Un digiunatore, dove
l’alienazione non basta per spiegare il totale isolamento dell’artista del digiuno,
vittima di un destino impietoso estraneo alla spensieratezza del pubblico accorso
al circo. Durante l’analisi del Processo ritorna l’idea, mutuata forse da Cantoni, di
un romanzo irriducibile e aperto ad una molteplicità di percorsi, come fosse
l’immagine del destino umano alla soglia dei tempi moderni. Per Masini, Joseph
K. scinde la normalità della vita altrui dalla propria a causa di una forte
«alienazione interiore» che porterebbe alla progressiva estraneità del protagonista
rispetto alle norme codificate della società, divenute chimeriche nonostante gli
stoici tentativi di comprensione. Ragionamento e azione sono per il procuratore la
testimonianza della fallacia umana, perché rendono manifesta «l’aleatorietà,
l’arbitrarietà, la casualità delle situazioni, il complicarsi delle congetture, il loro
inevitabile, tranquillo contraddirsi»22, determinano la disgregazione delle
possibilità logiche e razionali mediante cui K. tenta fino al termine del romanzo di
avvicinarsi al nucleo del tribunale invisibile. Anche dopo la brutale esecuzione, la
vergogna del protagonista gli sopravvive: volersi dimostrare innocente di fronte al
giudizio dell’autorità significa, secondo il critico, affermare una colpevolezza
primigenia. Per rendere intellegibile l’entità della colpa, Masini ricorre
all’immagine di un labirinto la cui via d’uscita è impossibile da raggiungere o

22
F. MASINI, Franz Kafka. La metamorfosi del significato, cit., p.125. Originariamente, questo
saggio fungeva da introduzione a F. KAFKA, Il Processo, traduzione di E. Franchetti, Rizzoli,
Milano 1986.

42
persino inesistente dal momento che le decisioni del procuratore vengono
vanificate dal potere del tribunale e dei suoi rappresentanti. Il personaggio
kafkiano combatte ancora una volta senza conoscere il senso ultimo di una lotta
che trasferisce sul piano dell’eternità la sua colpevolezza: «escludere da sé la colpa
è parlare il linguaggio della colpa, perché questa è talmente incarnata in noi da
divenire la nostra stessa esistenza»23.

2.2 Oltre la società. Carlo Bo

Gli anni trenta preclusero a molti lettori europei la conoscenza della narrativa
kafkiana. A seguito della nascita del nazionalsocialismo, l’autore venne avvicinato
agli artisti «degenerati» e per questo bandito dalle case editrici. In Italia e in
Francia i divieti di pubblicazione e la censura non ebbero la stessa intransigenza
del paese tedesco, ragione per cui alcuni studiosi riuscirono ad avvicinarsi
all’opera del praghese.
Carlo Bo viene riconosciuto all’unanimità come uno dei critici letterari più
influenti del secolo scorso. Egli rappresenta d’altronde il florido ambiente delle
riviste italiane, vigile verso le acquisizioni critiche del panorama culturale nostrano
e internazionale, sul quale gravitarono le più lucide intuizioni a proposito della
nuova letteratura. Benché la sua fama derivi dalle analisi di testi spagnoli e
francesi, in alcuni articoli di giornale Bo ragionò sul messaggio e sul problema
della conoscenza degli esigui scritti kafkiani allora pubblicati, principalmente la
Metamorfosi e il Processo. Il racconto trova una giustificazione ideale all’interno

23
F. MASINI, Franz Kafka. La metamorfosi del significato, Torino, Ananke, 2010, p.122.

43
del romanzo, al punto che Samsa avrebbe perduto la vita a causa di «una pena del
terribile e invisibile giudice del Processo»24.
L’interpretazione del critico ruota attorno alla dimensione religiosa25.
Il lettore moderno, edotto circa il problematico rapporto tra lo scrittore e la
religione ebraica, sia tradizionale che storica, potrebbe sorridere di fronte alla
presunta cristianità della riflessione kafkiana, avendo però la clemenza di ricordare
che Bo, all’altezza del 1934, non poté consultare né le Lettere né i Diari, in cui
emergono i pensieri dello scrittore riguardo alla sua condizione di stasi perpetua
dinnanzi alla religione. Durante la maturità Kafka, infatti, approfondì la
conoscenza della lingua, intraprese l’ultima fatica per accostarsi alla verità
secolare dell’ebraismo, profondamente coinvolto dalla cosiddetta «minore»
cultura yiddish propria degli ebrei orientali, idealmente illibati, quando ormai
trentenne conobbe il teatro e ragionò per anni sui significati di una tradizione
emarginata dall’Occidente degli ebrei assimilati, ma ancora viva, tra razionalismo
talmudico e misticismo chassidico26.
Il piano metastorico del testo su cui il critico aggiunge la sua visione cristiana di
una ricerca della divinità, benché Kafka stesso nella sua letteratura sublimò il dato
storico e biografico, non convince gli interpreti che vogliono storicizzare l’autore.
L’opera si universalizza proprio perché nasce da un luogo (la società praghese, la
Mitteleuropa) e un tempo (la prima metà del Novecento) specifici, a partire dai
quali si estende fino a coinvolgere gli uomini della contemporaneità, di un’epoca
quindi differente, provenienti da retroterra culturali eterogenei.

24
C. BO, Nota su Kafka, «L’Orto» III, 5, 1934, p.8.
25
Ferruccio Masini definisce la sua linea interpretativa come «di tipo trascendentista» in F.
MASINI, Franz Kafka. La metamorfosi del significato, cit., p.34; tuttavia, a differenza della
pionieristica visione teologica di Max Brod il quale forza i confini della volontà autoriale
condizionato dai fermenti sionisti, arrivando perfino a una impropria strumentalizzazione
dell’amico sotto la luce di un ebraismo militante, Carlo Bo legge l’autore a partire dalla propria
formazione spirituale, intrinsecamente cristiana. Per una riflessione sulla difficoltà di
interpretare l’autore interamente attraverso il filtro della religione, si veda G. CRESPI, Kafka
umorista, Shakespeare and Company, Milano 1983, pp.93-4.
26
Si veda G. MASSINO, Fuoco inestinguibile. Franz Kafka, Jizchak Löwy e il teatro yiddish
polacco, Bulzoni, Roma 2002.

44
«Il senso dell’infinito, di qualche cosa che trascende e supera l’umanità, è
continuo, acutissimo in ogni pagina di Kafka»27, osservò Paoli, uno studioso coevo
a Carlo Bo, altrettanto interessato alle prime pubblicazioni quasi clandestine dello
scrittore, nonché traduttore della Metamorfosi. È ancora presente l’interesse per un
significato del racconto che potremmo definire «metafisico», senza tuttavia che
esso venga vincolato a una lettura di matrice cristiana. Questa definizione molto
fluida di un concetto che accoglie potenzialmente ogni influsso indipendente dal
periodo storico viene legittimata dal carattere aperto del messaggio kafkiano, come
avvenne ad esempio per gli studi di Remo Cantoni e Ferruccio Masini, entrambi
sensibili al sostrato filosofico.
«Kafka mostra di essere dominato dal convincimento di un’irriducibile
impossibilità ad accertare un significato univoco e coerente dei fatti», scrive il
filosofo Aldo Gargani, concludendo che «la vita appare dominata da un potere
invisibile», il quale «genera un senso di colpa non solo di carattere etico, ma un
vero e proprio senso di colpa metafisico»28.
Liberato l’ambiente delle riviste dalle restrizioni culturali del fascismo, Carlo Bo
torna a scrivere sull’autore in un articolo, Intorno a Kafka, dove il grado di
partecipazione ed empatia trasporta il lettore dentro l’idea che il critico stava
costruendo riguardo alla sua letteratura, anziché familiarizzare con il contenuto
dell’autore stesso. Il personaggio insegue una soluzione che infine non si
manifesta, destando il profondo struggimento del lettore, interdetto di fronte a un
mondo privo di conforto. L’avvicinamento dell’uomo kafkiano a una divinità
ancora cristianizzata, entro i cui confini confluiscono tutte le istanze metafisiche
dello scrittore, diventa allora impossibile. A proposito del Castello, Bo non lascia
adito ad alcuna redenzione possibile per l’agrimensore e tale distanza dalla verità
divina appare insormontabile, a differenza dei primi commentatori che
interpretavano l’ultimo romanzo come luogo della speranza e della Grazia

27
R. PAOLI, «Il Frontespizio» X, settembre 1933, p. 7. Si veda U. VOGT, Carlo Bo e Franz
Kafka, in «Studi Urbinati», LXXXII, 2013, p.48.
28
A. GARGANI, Kafka: il soggetto e la scrittura, cit., p.27.

45
(soprattutto Max Brod). La ricerca di Dio è «assoluta e continua»29, impegna
quindi il protagonista fino allo stremo delle sue forze.
Come Ursula Vogt ha sapientemente sottolineato, «la ricerca continua e
interminabile di Dio, la certezza di non poterlo mai raggiungere, ma allo stesso
tempo la speranza di poterlo trovare un giorno, questa sofferenza estrema rileva
Bo nei personaggi dell’autore praghese e sottolinea che questi non sono simboli
per Kafka»30. Sono esseri umani che cercano Dio. Questa è un’intuizione
significativa, anche se il critico ignorava la vita ebraica dello scrittore e
immaginava un percorso «occidentale» verso il divino. Esaminando l’opera di
Kafka, Carlo Bo rinunciò alla pretesa di oggettività propria delle critiche più
rigorose in favore di un’intensa e sincera complicità, per l’attrattiva di uno scrittore
che oltre al lettore comune coinvolge anche il critico letterario.

29
C. BO, Riflessioni critiche, Sansoni, Firenze 1953, p.158. Si veda anche C. BO, Forza di
Kafka, «La Fiera Letteraria», 5 marzo 1950, p.4.
30
U. VOGT, Carlo Bo e Franz Kafka, cit., p.53.

46
3. Ebraismo

3.1 Giuliano Baioni

Le ricerche di Giuliano Baioni diventarono uno studio imprescindibile per chi


avesse avuto l’obiettivo di districarsi entro il complesso rapporto di Kafka con il
mondo ebraico. Dopo essersi soffermato sulle tendenze critiche più comuni, in
Kafka: Romanzo e parabola lo studioso ragiona sulla ricerca kafkiana della verità,
tema di assoluta centralità che attraversa trasversalmente la sua produzione
letteraria, diaristica ed epistolare. Egli sostiene che tale verità diventi un «inganno»
non appena venga sottoposta al filtro della ragione. Kafka scelse la parabola, la
metafora, la leggenda per avvicinarsi al fine di una ricerca che attraverso una logica
intransigente, senza la libertà della forza speculativa, non potrebbe neanche
incominciare.
Scegliere un linguaggio metaforico significa tuttavia rinunciare alla capacità di
circoscrivere la verità all’interno di uno spazio trasparente, accessibile: l’uomo
«vive la verità», riduce le distanze da essa, senza conoscerla, sebbene questo
linguaggio consenta all’autore di descrivere come egli percepisce il mondo.
Baioni contrappone alla forza della parabola, derivata dalla tradizione degli ebrei
orientali, il lucido e severo razionalismo proprio del sostrato «ebraico-
occidentale», alle fondamenta della perfezione sintattica, dell’impeccabilità del
periodare kafkiano. Anche questa seconda prospettiva di analisi si rivela
inconsistente perché l’intelletto che tenta di scoprire la verità mediante un
cammino raziocinante perpetua un inganno che conduce a una distruzione
continua, allo stesso modo della parabola, tramite inadeguato per la risoluzione del
problema. Sembrerebbe un’aporia irresolubile, se la battaglia di Kafka e dei suoi

47
personaggi per l’esistenza non rifiutasse la passività dei nichilisti, sublimando
l’esperienza personale fino a giungere all’universalità della letteratura. «Il lettore
di Kafka», sostiene il critico, «deve in sostanza storicizzare il suo mondo e può
farlo soltanto distruggendo la concretezza della metafora, o, se si vuole,
annullandone l’astrazione in un complesso di concrete relazioni storiche»1.
Nonostante il dovere di rendere manifesto l’ambiente storico e culturale dello
scrittore, è difficile immaginare una contestualizzazione che esaurisca le
potenzialità di un discorso tanto plurivoco da interrogare ancora i più disparati
critici letterari e gli studiosi di altre discipline. Alla descrizione delle ragioni
storiche sottese all’assetto della società si affianca il tempo presente e insieme a
esso le esperienze quotidiane e individuali dell’autore. Nascondendo la totalità
delle costruzioni kafkiane e la loro potenza evocativa dietro le ragioni della storia
e della società, si rischia di negare il valore artistico dell’opera; nonostante tutto,
una lettura atemporale che non tenga conto del contesto storico sarebbe altrettanto
fuorviante. Baioni seppe descrivere la questione ebraica come nessun altro prima
di allora e i suoi studi sono perciò fondamentali per la comprensione della
letteratura di Kafka.
All’interno dei primi racconti il critico scorge la trasfigurazione dell’autorità
paterna. La Condanna (o il Verdetto), per esempio, riflette la condizione di
soggiogamento filiale a cui viene sottoposto Georg Bendemann, personaggio dai
forti rimani autobiografici, portato al suicidio dal giudizio del padre2. D’altronde
Kafka avrebbe voluto riunire il racconto, insieme al Fuochista e alla Metamorfosi,
in un volume significativamente intitolato I figli3. Sebbene la raccolta abbia avuto

1
G. BAIONI, Kafka: Romanzo e parabola, cit., p.17-8.
2
Secondo il recente contributo di Uta Treder, allieva ideale di Baioni, la peculiarità di questo
racconto si deve alla «scoperta repentina del vero termine della lotta, l’istanza morale che
decide della vita e della morte del figlio: il padre» U. TREDER, L’assalto al confine. Vita e
opera di Franz Kafka, cit., pp.91-2.
3
Da una lettera all’editore Kurt Wolff dell’aprile 1913: «L’altro racconto che ho, La
metamorfosi, non è ancora copiato, perché in questi tempi tutto mi ha tenuto lontano dalla
letteratura e dal piacere di occuparmene. Ma farò copiare anche questo racconto e glielo
manderò al più presto. In seguito questi due pezzi e La condanna nell’Arcadia darebbero forse
un ottimo libro che si potrebbe intitolare I figli». F. KAFKA, Lettere, cit., p.136.

48
un’altra denominazione (Castighi), il sublime mimetismo dell’autore non inganna
il lettore e lascia trapelare la profonda conflittualità del padre e del figlio. Il senso
di colpa deriva insomma da questa subordinazione: il genitore, di fronte alle
inadeguatezze di un uomo ormai maturo, colpevolizza l’esistenza del figlio fino a
condannarne i presupposti. Per il critico, tale asimmetria poggia su un nucleo di
natura religiosa, perché sulla figura paterna, oltre alla condizione borghese di ebreo
assimilato e dimentico della tradizione religiosa, viene proiettata l’idea di
un’istanza superiore, di una divinità. «Sarà pertanto necessario chiarire
ulteriormente i termini storici e morali del conflitto paterno» scrive il critico,
conflitto che viene investito di un alto significato «qualora lo si intenda come lo
stadio finale della secolarizzazione della società e della famiglia ebraica»4. La
generazione dei figli venne infatti educata in seno ad una società in cui i valori
borghesi, assorbiti in seguito dell’ascesa sociale, soppiantavano gli insegnamenti
della comunità religiosa.
Il conflitto generazionale caratteristico della produzione espressionista si
differenzia da quello kafkiano soprattutto per questo allontanamento dal passato,
non osteggiato in quanto precluso, vissuto come assenza e sradicamento. Perfino
il presente viene condizionato, per esempio riguardo alla scelta matrimoniale, la
quale si rivelerà impossibile a causa del predominio paterno e della sua autorità
egemonica. Kafka vive una condizione di perpetuo esilio ancora prima di scegliere
per sé i propri riferimenti culturali; allo stesso modo, al risveglio, Samsa diviene
uno scarafaggio e abbandona la tranquillità di una vita da impiegato.
Giustificare la stesura del racconto attraverso la necessità di una descrizione
alienata del mondo capitalistico non convince il critico. Egli avverte
l’interdipendenza tra vita interiore e ambiente esterno quando ipotizza che
l’impossibilità di avvicinare l’alterità derivi dalla fatale rinuncia all’amore vissuta
dall’autore durante ognuna delle sue relazioni. Si tratta di una conclusione
costruttiva esclusivamente intendendo tale amore alla maniera del critico, ovvero

4
G. BAIONI, Kafka: Romanzo e parabola, cit., p.64.

49
avendo come tema il sentimento di convivenza umana, dalla cui assenza derivano
il dolore e l’estrema solitudine del protagonista, anziché relegare l’incapacità di
approfondire un rapporto in toto alla sfera erotica o amorosa, anche se le difficoltà
di entrambe, soprattutto della prima, segnarono la vita dello scrittore.
Analizzando America, il critico si sofferma anzitutto sul contesto americano in cui
giunge Karl Rossmann a seguito dell’allontanamento dal paese di origine, causato
dall’incontro sessuale del protagonista e di una cameriera che equivale al
cedimento dinnanzi alla seducente sporcizia dell’amore. Anche il sedicenne, come
per i suddetti racconti, viene espulso dalla casa del padre e, nonostante questo, il
critico, per differenziarlo dai protagonisti dei romanzi successivi, sostiene la
«passiva innocenza» di un ragazzo «senza colpa». Egli «è certo la figura più
querula dell’interno mondo dello scrittore appunto perché rappresenta il Kafka che
si attacca testardamente alla sua condizione di figlio e sente la propria maturità
come una espulsione dall’infanzia»5. In una New York sconosciuta all’autore il
traffico metropolitano diventa l’immagine della moderna civiltà delle macchine e
dell’uomo massificato6, anche se «l’estraneità del mondo», rileva Baioni, «non
rappresenta ancora, come nel Castello, il termine della lotta e della sfida che
l’indomabile agrimensore rivolge alle autorità»7. I romanzi kafkiani sono
accomunati dalla presenza di scenari labirintici (in America, per esempio,
ritroviamo la casa di Pollunder o l’Hotel Occidental, nel Processo i corridoi del
tribunale, nel Castello le vie del villaggio), ai quali tuttavia i personaggi si
rapportano diversamente a seconda della loro propensione alla ricerca della verità.
Se l’agrimensore mantiene durante il corso degli eventi un atteggiamento di ferrea
determinazione, tentando perfino di ingannare l’organismo burocratico, Karl si
trova invece di fronte a un mondo più lontano che la sua adolescenza non vuole

5
Ivi, p.120.
6
A differenza di Remo Cantoni, che si concentra sulle conseguenze esistenziali della società di
massa e sulla dissociazione ‘metafisica’ dell’individuo, Baioni sceglie di soffermarsi sulle
condizioni della società, dove la folla viene resa anonima e sembra scomparire l’idea di una vita
comune.
7
G. BAIONI, Kafka: Romanzo e parabola, cit., pp.110-11.

50
penetrare. Il nome dell’albergo in cui il giovane riesce a trovare un impiego,
l’Hotel Occidental, viene subito riconosciuto come un simbolo della civiltà
occidentale e della macchinosa burocrazia austroungarica. In questo luogo
«dedaleo» Baioni intravede la dimensione razionale dello scrittore, una sorta di
«divinità fatta macchina», un mondo in cui l’efficacia della macchina non
contempla l’errore umano. Al cospetto di tale organismo divino l’uomo perde la
libertà di operare autonomamente; lo studioso avrebbe potuto integrare la sua
analisi con l’altro grande elemento della dicotomia kafkiana, ovvero la dimensione
spirituale, ciò che l’autore stesso chiamava l’indistruttibile, l’interrogativo
quiescente sulle ragioni della sua esistenza.
Proseguendo la lettura del saggio troviamo infatti una riflessione di importanza
cruciale: la critica dell’autore al sistema capitalistico non nasce «da posizioni
politicamente o socialmente impegnate, bensì esclusivamente da considerazioni
morali»8. Il critico sostiene che l’esecuzione del procuratore Joseph K. risolva
idealmente l’incompiutezza del primo romanzo, alla maniera della parabola
Davanti alla legge che sarebbe stata anticipata in chiave parodistica dall’interrotto
capitolo del Teatro di Oklahoma. A prescindere da tali corrispondenze, Baioni non
si cimenta in alcuna congettura per arrivare alla conclusione del romanzo e lascia
intendere che esso rappresenta un preludio alle storie dei K., il procuratore e
l’agrimensore.
«L’uomo della letteratura, certo, trascorre la sua esistenza ai margini della Legge
e consuma la propria vita a porre domande al suo insuperabile guardiano. Ma la
sua presenza dinanzi alla porta della verità è poi l’unica riprova visibile che la
verità esiste realmente»9. Se nella Colonia penale non esistono imputati innocenti
e ognuno dei condannati subisce il martirio, il processo intentato contro Joseph K.
dimostra che egli dovrà difendersi senza l’aiuto degli avvocati. Alla base del
Processo il critico identifica uno schema religioso: il senso di colpa del
protagonista nasce pertanto da questo nucleo originario in cui confluiscono la

8
Ivi, p.132.
9
G. BAIONI, Kafka: Letteratura e ebraismo, cit., p.245.

51
fallimentare esperienza del fidanzamento e la proibizione del matrimonio. Dal
momento che l’autore conferisce all’erotismo una valenza mitica, l’incapacità di
amare del protagonista complica i tentativi di ingraziarsi le donne del tribunale,
tramite illusorio per un cammino di salvezza. Opposto alle impurità del mondo
delle soffitte, «l’eroe di Kafka si presenta superbo della propria innocenza e della
propria purezza, ma proprio per la sua innocenza, per questa sua orgogliosa
purezza che non è disposto a sacrificare all’immonda legge del tribunale, egli è
colpevole»10. L’esclusione dalla verità vissuta dal procuratore proviene ancora una
volta dal «verdetto del nume paterno», a cui egli non si abbandona. A differenza
dei primi racconti e di America, infatti, il processo che K. cerca di comprendere
include la storia di una ricerca.
Oltre alla trasfigurazione artistica delle vicende biografiche, Baioni ragiona su un
«senso di colpa sociale» dello scrittore praghese, derivato dall’esistenza in una
società priva di stabilità culturale e di tolleranza reciproca. Esiste per l’autore una
«colpa di ebreo occidentale verso gli ebrei orientali e di borghese tedesco verso gli
operai cechi»11. Il mondo ebraico viene crittografato dietro l’immagine di una
burocrazia che si presenta come una sorta di organismo divino; la folla babelica
delle soffitte e delle assemblee, per esempio, potrebbe nascondere un riferimento
agli esponenti della gerarchia religiosa. Tale ascendenza sacra si manifesta
compiutamente all’interno della parabola del capitolo IX, Davanti alla legge,
introduzione ideale all’ultimo romanzo, anche se l’abilità dello scrittore gli
consentì di elaborare un modello didattico di valore universale, «archetipico», di
modo che ciascuno possa leggerne un senso differente a seconda della propria
esperienza12.

10
G. BAIONI, Kafka: Romanzo e parabola, cit., p.152.
11
Ivi, p.164.
12
Al proposito si legge in Ferruccio Masini che «il nodo di quella ‘simbolicità assoluta’ di cui
parla Baioni in Kafka: Letteratura ed ebraismo e che si esprime come ‘distanza dal simbolo’ va
colto dunque in questa cognitio aenigmatica offerta dal paradosso, che si dirige precisamente su
quel punto di ogni conoscenza dove sembra dissolversi il suo ultimo fondamento». F. MASINI,
Franz Kafka. La metamorfosi del significato, cit., p.188.

52
Durante la costruzione della muraglia cinese, secondo lo studioso, funge da trait
d’union tra la parabola del campagnolo e l’atmosfera burocratica del Castello,
perché la dimensione della comunità si sostituisce alle avventure dell’uomo
abbandonato a sé stesso13. Di fronte agli invisibili confini di un’opera così
immensa, «il singolo suddito dovrebbe sentirsi annientato se non gli desse forza e
coraggio lo spettacolo di una moltitudine instancabile ed operosa»14. Tale coralità
sarebbe la rappresentazione di un ordine intimamente religioso, talmudista.
In un aforisma dello scrittore leggiamo che «l’eternità dell’evento [della cacciata
dal paradiso] rende tuttavia possibile non solo che potremmo rimanere
perennemente in paradiso, ma che di fatto perennemente vi siamo, ed è indifferente
che qui lo sappiamo o no»15. La sostanziale differenza del vivere e del sapere si
riflette in altre immagini delle meditazioni kafkiane, come quella dell’Albero della
vita e dell’Albero della conoscenza, o ancora del discorso sulle verità, di chi agisce
e di chi riposa. Quest’ultima, rappresentata inoltre dall’Albero della vita,
appartiene alla comunità che vive all’interno della legge ed è perciò preclusa alla
coscienza individuale.
«Tra la conoscenza della verità e la fruizione della verità vi è insomma», scrive
Baioni, «una frattura incolmabile che rappresenta appunto l’angosciosa condizione
terrena dell’uomo»16. A differenza del suddito, la comunità si avvicina pertanto
all’idea del divino rimanendo tuttavia imperfetta. L’esito della parabola, il
campagnolo che non varca la soglia della porta o il messaggio che si compromette
durante il viaggio, insegna che «l’inesplicabile è inesplicabile» e nega la parabola
stessa.

13
Renato Barilli estende tale apertura comunitaria a tutti i racconti scritti durante il medesimo
arco cronologico. Egli sostiene infatti che «rispetto alle altre opere viste fin qui, una certa loro
novità sta nel proporre un soggetto collettivo piuttosto che un singolo eroe in urto frontale
contro un universo sfuggente e beffardo» R. BARILLI, Comicità in Kafka. Un’interpretazione
sulle tracce del pensiero freudiano, cit., p.178.
14
G. BAIONI, Kafka: Romanzo e parabola, cit., p.208.
15
F. KAFKA, Aforismi di Zürau, cit., p.79.
16
G. BAIONI, Kafka: Romanzo e parabola, cit., p.229.

53
In Kafka: Letteratura ed ebraismo, risultato di una ricerca fedele sul contesto,
Baioni muta la propria prospettiva di analisi coerentemente con i presupposti della
ricerca, volta a chiarificare le condizioni storiche, sociali e religiose della narrativa
kafkiana. Nel racconto della muraglia, per esempio, Baioni si sofferma sulla
perversione del tempo storico e sull’impossibilità del popolo di vivere il presente.
Anche a proposito del Castello il paradosso raggiunge questo apice, dal momento
che «la ricerca della verità può significare soltanto esclusione dalla verità»17.
L’antieroe kafkiano deve compiere una scelta su come manifestare la propria
esistenza perché comprendere (conoscenza) e vivere (esperienza) sono percorsi
che non si risolvono in una dialettica positiva. Baioni sostiene che l’avvento della
morte potrebbe risolvere la polarizzazione benché Kafka stesso, attraverso il
Cacciatore Gracco e il suo peregrinare infinito oltre il limite della vita, sembra
smentire questa ipotesi.
La storia dell’agrimensore K. si svolge dalla più alta prospettiva della parabola.
Egli ricerca inutilmente la coesistenza degli alberi della conoscenza e della vita,
conosciuta invece dagli ignari abitanti del villaggio. «Chi cerca non trova, ma chi
non cerca viene trovato»18, scriveva Kafka il 13 dicembre del 1917.
La figura femminile distanzia l’ultimo romanzo dai racconti precedenti e assume
il ruolo di intermediaria tra il protagonista e i mondi del villaggio e del castello.
L’incapacità di amare viene pertanto posta alla base del senso di smarrimento
vissuto da K. durante la sua storia. Baioni instaura un parallelismo tra la vicenda
biografica dell’autore e i personaggi del romanzo: così come Milena Jesenská
scelse il marito invece di Kafka, dopo una relazione fugace, Frieda torna da Klamm
e abbandona l’agrimensore.
Per la prima volta un personaggio di un romanzo kafkiano, Klamm, equivale alla
dimensione dell’amministrazione collettiva; la sua è una natura cangiante e
inconoscibile, avviluppata all’erotismo delle figure femminili, diversamente dal
protagonista che non riesce a conservare nessun legame. Questi riduce infatti il

17
Ivi, p.231.
18
F. KAFKA, Confessioni e diari, cit., p.726.

54
rapporto amoroso (sempre erotico) a mero strumento di ascesa verso il fine della
propria ricerca, rappresentata dalla battaglia intrapresa contro le potenze
sovraumane della burocrazia.
La famiglia di Barnaba vive un’esperienza paradigmatica delle eventuali
conseguenze di un cattivo comportamento al cospetto dei funzionari. Per il critico,
Amalia rappresenta un’altra tipologia di lotta all’istituzione del castello, cui si
aggiunge la presa di coscienza di fronte alla colpa di non vivere passivamente alla
maniera degli abitanti del villaggio, conscia tuttavia della solitudine che comporta
tale frattura. Paradossalmente, la sua colpa sarebbe di rimanere innocente di fronte
al castello, perché i burocrati negano la possibilità di una redenzione in seguito al
rifiuto della proposta indecente del funzionario Sortini, sebbene questa
colpevolezza, ignorata dai documenti ufficiali, non si traduca in alcunché di
materiale.
La soluzione del romanzo è ancora una volta ascrivibile alla dimensione
dell’ebraismo. Kafka congiunge le suggestioni provenienti dalla comunità degli
ebrei orientali alla realtà burocratica dell’occidente. Il Castello sarebbe quindi
«un’immagine sociomorfica della divinità», dal momento che la burocratizzazione
della società moderna «nega, al pari della società chassidica, la libertà e la ragione
del singolo»19. Nonostante l’impegno di una ricerca tesa verso la verità,
l’agrimensore rimane escluso dal mondo di tutti gli uomini.

3.2 Marino Freschi e Guido Massino

Guido Massino e Marino Freschi condivisero molti dei presupposti e dei risultati
interpretativi cui pervenne Giuliano Baioni attraverso le sue ricerche; nonostante

19
G. BAIONI, Kafka: Romanzo e parabola, cit., p.272.

55
questa linea comune di pensiero, diedero entrambi un contributo nuovo e
ponderato all’esegesi dello scrittore, ragionando sulle conquiste dei critici al fine
di approfondirle oppure intraprendendo altre vie di ricerca.
Massino studiò la letteratura kafkiana a partire dalla «infinita contraddittoria
molteplicità» dei suoi significati, concorde sul rischio di una loro eventuale
banalizzazione. Le ragioni interne alla Lettera al padre chiariscono l’origine degli
epiloghi di alcuni frammenti giovanili. Questo conflitto impari valica il problema
generazionale e influenza perfino i racconti in cui l’autore incomincia a maturare
la coscienza della sua condizione (per esempio la Condanna, Nella colonia penale,
la Metamorfosi), dove il castigo dei protagonisti proviene proprio dalla debolezza
del figlio di fronte alla grandezza del padre. «La condanna non si può spiegare.
[…]. Il racconto è pieno di astrazioni senza che vengano ammesse. L’amico non
è, direi, una persona reale, è piuttosto quello che il padre e Georg hanno di comune
[…]. Ma non ne sono proprio sicuro»20. Al termine dell’analisi del suddetto
racconto, Freschi sottolinea tuttavia l’universalità della storia kafkiana, «quella
straordinaria astrazione del vissuto sollevato al piano della trasposizione
metaforica»21 capace di elevare la vita dell’autore a un’opera di letteratura in cui
l’uomo moderno riesce a cogliere un significato differente a seconda del tempo
storico e del contesto sociale.
Nella Metamorfosi Kafka si serve di una metafora animale22 per descrivere la realtà
di un protagonista che nonostante tutto mantiene una «memoria umana» in una
narrazione di estremo realismo a cui si contrappone un’apparente irrealtà del senso.
Gregor Samsa vive il disagio di un piccolo uomo dimenticato dalla famiglia, il
quale subisce su di sé, per estensione metaforica, la difficile integrazione delle
tradizioni religiose proprie dell’ebraismo, estranee al sistema di valori della società

20
F. KAFKA, Lettere a Felice, a cura di E. Pocar, Mondadori, Milano 1972, p.399.
21
M. FRESCHI, Introduzione a Kafka, Laterza, Bari 1993, p.90.
22
Kafka si serve della metafora animale per un buon numero di racconti: Sciacalli e arabi, Una
relazione per un’Accademia, Giuseppina la cantante ossia Il popolo dei topi sono stati
pubblicati in vita. Racconti postumi sono invece Un incrocio, L’avvoltoio, Piccola favola,
Indagini di un cane, La tana.

56
occidentale. Per entrambi i critici, il nucleo familiare misconosce il ruolo del figlio
per preservare il decoro richiesto da un ambiente borghese.
Esemplando il discorso da Kafka: Romanzo e parabola, il primo studio di Baioni,
Massino sottolinea come la metamorfosi riguardi non tanto il cambiamento di stato
del protagonista, quanto un mondo in cui non esiste l’amore e lo scarafaggio viene
emarginato. Tale disconoscimento costituisce l’oggetto autentico di una narrazione
che sotto la patina di uno stile lineare cela il dolore di una separazione familiare e
culturale; «il vero dramma del protagonista», scrive infatti lo studioso, consiste
nella «rinuncia a difendersi in un mondo in cui l’uomo è umiliato e degradato nella
sua intima essenza»23.
La progressiva degradazione dell’essere umano viene associata dal critico
all’uomo reificato della contemporaneità, a differenza del primo romanzo, dove
Massino sposta il piano di analisi dall’ambiente esterno all’intimità del
personaggio principale, anche se dietro al nuovo mondo americano si intravede
l’idea di una società tecnocratica opposta alla tradizione.
All’interno di America «la perdita dell’innocenza» assume invece una
connotazione erotica, valica perciò il complesso edipico per coinvolgere più
profondamente la sfera della sessualità. Alla maniera di Baioni, il critico sostiene
una sostituzione kafkiana dell’autorità paterna, rappresentata in primis dallo zio
Jacob che attende Karl all’arrivo della nave, da Green, incontrato alla casa di
Pollunder e infine dal capo-portiere, il datore di lavoro all’Hotel Occidental.
Questa riflessione psicologica sul ruolo del genitore, oltre alla lezione della relativa
scuola critica, proviene forse da Baioni, quando scrive che «anche lo zio,
soprattutto lo zio, è nel romanzo il sostituto freudiano della figura del padre»24.
L’esito di tali incontri è sempre il medesimo, poiché Karl, ritenuto colpevole a
prescindere dalla colpa, non si difende e viene condannato dai suoi giudici: l’esilio,
secondo Massino, significa una «espulsione dal mondo dell’infanzia e
dell’origine», oltre che una «condanna ad un’irrinunciabile necessità di purezza

23
G. MASSINO, Franz Kafka, La Nuova Italia, Firenze 1984, p. 37.
24
G. BAIONI, Kafka: Romanzo e parabola, cit., p.115.

57
morale per cui il personaggio è nuovamente e definitivamente espulso dal mondo
sociale»25. Alla natura sessuale della «cacciata» si affiancano il disagio dell’uomo
in una società alienante e la dolorosa aporia religiosa dello scrittore, tra l’Occidente
degli ebrei ormai assimilati e la tradizione pura dell’ebraismo orientale. Freschi si
sofferma proprio sull’innocenza del protagonista che viene espulso più volte dagli
ambienti lavorativi e umani a causa di una grave trasgressione associata tuttavia a
una leggerezza adolescenziale; «l’espulsione», precisa il critico, «equivale a uno
smarrimento nei meandri oscuri e nelle pratiche sporche della sessualità»26. Karl
non cede alle lusinghe di un mondo corrotto e per la sua «immaturità di amare»
soffre una chiusura verso i meccanismi che ne regolano gli equilibri interni.
Anche le azioni e i pensieri del procuratore di banca Joseph K. rappresentano la
ricerca di una verità assoluta e allo stesso tempo il suo peccato primigenio contro
la vita degli uomini. L’ambigua trascendenza dell’inaccessibile autorità del
tribunale è ancora una volta di matrice intrinsecamente ebraica. La problematicità
della condizione filiale lascia il posto alla dimensione religiosa. Secondo il critico,
«i caratteri marcatamente terreni che le istanze giudicanti assumono nel Processo
[si pensi per esempio al sudiciume delle soffitte, all’erotismo delle figure
femminili] rispecchiano l’immagine, ambigua ma profondamente unitaria – capace
cioè di abbracciare la vita in tutte le sue manifestazioni senza negarne nessuna –
che la religiosità delle comunità orientali possedeva agli occhi dell’ebreo
occidentale»27.
La «mancanza di colpa», definita altrove «ontologica», esclude a priori sia il
pentimento che la redenzione. Il processo intentato contro il procuratore nasce
infatti da «una omissione, una carenza nell’impegno, un venir meno ai doveri della
vita» e da questa manchevolezza Freschi deduce che «non avendo fatto nulla di
male, la colpa di Joseph K. è di non avere fatto, appunto, nulla»28. Egli si trova di
fronte a percorsi antitetici, rappresentati dalla rassegnazione degli altri imputati

25
G. MASSINO, Franz Kafka, cit., p.35.
26
M. FRESCHI, Introduzione a Kafka, cit., p.59.
27
G. MASSINO, Franz Kafka, cit., p.45.
28
M. FRESCHI, Introduzione a Kafka, cit., p.67.

58
(come il commerciante Block) e dagli uomini del tribunale da una parte e dalla
ricerca delle ragioni per le quali viene considerato un peccatore dall’altra.
Joseph K., come d’altronde l’agrimensore del Castello, considera le figure
femminili (Leni, per esempio) come il tramite privilegiato per raggiungere le
istanze superiori, quella verità assoluta di cui l’autore scriverà durante il soggiorno
di Zürau, anche se egli rimane escluso sia dal mondo della Legge che dalla
comunità degli uomini, dalla comunità borghese del padre.
L’essenza ebraica nutre anche la parabola del campagnolo che per la sua apertura
a significati differenti include la separazione dell’uomo contemporaneo dalla
verità, dalla Legge, perché colui al quale l’entrata nella porta della Legge era
destinata, nonostante il guardiano sia disponibile per ogni chiarimento e lasci
intendere la possibilità di entrarvi, non ne varca la soglia 29. Joseph K., come
l’uomo della parabola, rifiuta la «necessità» della vita terrena e ricerca invano
un’assoluzione totale, anche se il discorso del pittore Titorelli include soluzioni
parziali in cui l’uscita dal processo non viene neanche contemplata30. Da questo
rifiuto di accettare il reale senza porsi domande scaturisce l’impossibilità di
legittimare la propria condizione di colpevolezza e la ricerca instancabile del
procuratore, protratta fino alla morte.
I racconti della raccolta Un medico in campagna, quattordici brevi prose, negano
perfino l’idea di una purificazione dopo il castigo, poiché scompare la colpa e i
personaggi non conoscono redenzione. Il significato del breve frammento Un
sogno (1914-15), espunto dal progetto iniziale del Processo e confluito all’interno
della suddetta raccolta, chiarirebbe secondo Freschi «la verità a cui il romanzo non

29
A tal proposito, scrive Nadia Fusini: «La porta è aperta. Ma forse proprio questo egli teme.
Anche Kafka (come Josef K., e il contadino) non capisce che nessuna porta esiste solo per
negare l’accesso: ma piuttosto se v’è una porta è perché si entri.» N. FUSINI, Due. La passione
del legame in Kafka, Feltrinelli, Milano 1988, p.21.
30
Titorelli rappresenterebbe la raffigurazione di una possibile salvezza attraverso l’arte,
possibilità che tuttavia «non viene colta e utilizzata da Joseph K.» M. FRESCHI, Introduzione a
Kafka, cit., p.70. Il pittore spiega nel Processo: «ci sono tre possibilità, l’assoluzione vera,
l’assoluzione apparente e il rinvio. L’assoluzione vera è del tutto fuori dal mio potere». F.
KAFKA, Il Processo, cit., p.166.

59
riesce a giungere completamente per l’inconciliabilità dei due movimenti opposti
enucleati dalla resistenza di Josef e dall’immensa potenza del Tribunale»31.
Il Messaggio dell’imperatore, invece, rovescia il nucleo della parabola del duomo:
«nella parabola del Processo l’uomo tendeva invano a raggiungere la luce della
Legge, nel Messaggio dell’imperatore è la parola divina che tenta vanamente di
raggiungere il suddito nella provincia dell’impero»32.
Dalle parole del guardiano il lettore apprende che il campagnolo avrebbe potuto
aprire la porta, a differenza del destinatario della leggenda. Alla possibilità seppur
perduta del campagnolo subentra quindi l’impossibilità di una comunicazione che
«mai e poi mai potrà avvenire», perché «nessuno riesce a passare di lì [fuori
dall’ultima porta] e tanto meno col messaggio di un morto»33.
La radicale differenza della «verità di chi agisce» e della «verità di chi riposa»
degli aforismi kafkiani, sulla linea interpretativa di Baioni, viene estesa alla scelta
esistenziale dell’agrimensore K.. Mentre Frieda dovrebbe avvicinarlo al castello,
Amalia, Barnaba e Olga si trovano ad espiare una colpa che li allontana
dall’ambiente dei funzionari. La colpevolezza di Amalia, illumina il romanzo
precedente e porta a maturazione l’indagine dell’autore a proposito della «doppia
possibilità di scelta fra la via della comunità [occidentale] e quella della ricerca
[orientale]»34.
Le relazioni che intercorrono tra il protagonista e i personaggi secondari sono poste
sotto l’insegna della sessualità. «Anche nel Castello», concorda Freschi, «il sesso
è legato a una discesa che appare come degradazione»35. Per questa ragione, come

31
M. FRESCHI, Introduzione a Kafka, cit., p.105.
32
G. MASSINO, Franz Kafka, cit., pp.59-60. Le analogie di entrambi i critici con i saggi di
Giuliano Baioni, una delle più autorevoli fonti condivise, sono evidenti anche a proposito di
questo racconto: «la Cina è la metafora di un’antica civiltà a Oriente, saggia e popolosa,
religiosa ed equilibrata, ordinata ancorché in decadenza. Per Kafka la Cina è una probabile
metafora per l’ebraismo mitico». M. FRESCHI, Introduzione a Kafka, cit., p.101. E ancora:
«con questa metafora [della muraglia] riaffiora l’immagine fantastica della comunità ebraico-
orientale, che per la sua mitica intesa e per la sua vastità intimorisce chi se ne sente escluso pur
non essendone del tutto estraneo come l’ebreo occidentale». Ivi, p.111.
33
F. KAFKA, Racconti, cit., p.151.
34
G. MASSINO, Franz Kafka, cit., p.74.
35
M. FRESCHI, Introduzione a Kafka, cit., p.77.

60
appurato dagli studi precedenti, l’agrimensore si avvicina a Frieda al fine di
scoprire le dinamiche interne all’universo burocratico.
Il Castello presenta la storia di un’assimilazione mancata soprattutto quando si
associa l’atmosfera del villaggio all’ebraismo orientale. «Il romanzo può essere
letto come denuncia della società amministrata che disconosce i diritti del cittadino
e la stessa dignità dell’uomo»36. Anche la proposta di natura sociologica riporta il
critico all’idea di uno scrittore eternamente sospeso e privo di identità. I
personaggi del Castello rispetto agli altri romanzi sono tuttavia soggetti ad un
approfondimento psicologico; conseguentemente, il lettore assiste alla rarefazione
di un ambiente che appare quasi metastorico. Kafka matura compiutamente le
riflessioni sorte a partire dai frammenti della giovinezza sulla dimensione vitale
della sua esistenza di uomo e di scrittore. Il divino e l’umano si distanziano e la
condizione dell’agrimensore, avulso dalla babelica organizzazione del castello, si
estende fino a significare la distanza universale tra l’uomo e la verità. Kafka seppe
celare dietro l’origine ebraica della meditazione un problema che coinvolge la
totalità degli esseri umani. Per Massino, il Castello rappresenta «l’opera più
conclusa ed essenziale dello scrittore praghese, l’espressione più intensa del suo
mondo poetico e del suo pensiero»37.

36
Ivi, p.78.
37
G. MASSINO, Franz Kafka, cit., p.82.

61
4. Letteratura e vita

4.1 Roberto Calasso

Durante la permanenza a Zürau, Kafka si cimentò in una rielaborazione del mito


tradizionale attraverso i racconti Il silenzio delle sirene e Prometeo. Per molti
studiosi, questo biennio (1917-18) fu il periodo più sereno dello scrittore,
allontanato dalle preoccupazioni del lavoro e libero di dedicarsi alla propria
letteratura. In Il silenzio delle sirene, egli rovescia la sostanza mitica e forgia un
eroe sagace che fronteggia la tentazione di un canto divenuto, in un altro paradosso,
il suo contrario. Secondo Freschi, Ulisse (o Odisseo) si riempie le orecchie di cera
per difendersi dall’illusione di averle sconfitte, perché le facoltà dell’essere umano
non sono sufficienti a ingannare le rappresentanti della divinità.
In Prometeo, la manipolazione della mitologia classica raggiunge il suo apice.
«Ogni tradizione mitica, che partecipa della verità», scrive il critico a proposito
delle quattro versioni contraddittorie della leggenda, «si arresta di fronte al
mistero, all’inspiegabile che è della stessa sostanza della montagna nell’apologo»1.
La montagna, immagine sintetica della leggenda, equivarrebbe quindi alla verità,
essendo entrambe fuori dal dominio della ragione e fine di una ricerca priva di
esito a causa dell’imperscrutabilità della loro intima natura, a cui l’uomo tende per
necessità interiore nonostante le sia sostanzialmente estranea. Mediante una
progressiva disgregazione del significato canonico Kafka volle rendere manifesta,
secondo Baioni, l’importanza della verità che giace al fondo; altrove in Kafka si
legge che l’inspiegabile rimane inspiegabile e la leggenda di Prometeo vuole
risolvere l’aporia, conferendo un senso a questa totalità sconosciuta. Tuttavia,

1
M. FRESCHI, Introduzione a Kafka, cit., p.114.

62
«siccome proviene da un fondo di verità, [la leggenda] deve terminare
nell’inspiegabile»2.
Alla poesia, rappresentata dal mito greco, viene apparentemente negata la
possibilità di avvicinarsi alla verità, anche se Baioni osserva come questa
contribuisca alla sopravvivenza di una speranza. Continuando a raccontare la storia
della roccia, infatti, il destino del protagonista non verrà dimenticato. «Se è
indubbiamente consapevole [lo scrittore] dell’esilio dell’uomo [di Prometeo] dalla
verità [la montagna, la roccia] e della verità dall’uomo», conclude lo studioso, «è
anche convinto che ci debba essere qualcuno che testimoni di questa distanza»3.
Ulisse conosce il silenzio delle sirene e si configura pertanto come il superamento
ideale del protagonista precedente. Egli considera ancora la poesia una via per
vincere la tentazione del loro mutismo. Se l’astuzia dell’eroe gli consente di
passare illeso di fronte alla scogliera significa che egli dal primo momento era a
conoscenza della silenziosa strategia escogitata contro di sé e contro gli uomini.
Fingendo di temerne il canto, o il silenzio, Ulisse si allontana dalla condizione
umana e raggiunge il medesimo stato delle sirene: la letteratura, la poesia,
avvicinano l’uomo al divino.
Dopo l’enucleazione delle ragioni per cui, «in tempi più antichi», gli uomini
cedettero al fascino di tali creature mitologiche, Roberto Calasso conclude
scrivendo che attraverso le generazioni «nessuno venne mai a sapere che il canto
delle Sirene semplicemente non esisteva e l’umanità perseverò nella erronea
credenza che quel canto uccidesse»4, fino a quando non avvenne la grande
esperienza di Ulisse. Egli riuscì a salvarsi, fu cioè risparmiato dalla divinità, perché
non sopravvalutò le sue forze di essere umano e riconobbe, nonostante sia
sopravvissuto al loro silenzio, la potenza delle sirene. Ulisse inoltre non pretese di
sconfiggere autonomamente la forza divina e questa manifestò di conseguenza la
propria natura benevola. Calasso avvicina l’eroe del mito al divino senza che

2
F. KAFKA, Racconti, cit., p.430.
3
G. BAIONI, Kafka: Letteratura e ebraismo, cit., p.226.
4
R. CALASSO, K., Adelphi, Milano 2005, p.129.

63
avvenga una giustapposizione: tra Ulisse e le sirene sarebbe invece sorta una
«complicità». Kafka, dopo gli innumerevoli tentativi di coniugare la dimensione
umana alla verità di un dio trascendente, avrebbe diminuito le distanze al punto da
includere entrambi gli universi all’interno dello stesso luogo. Solidarietà reciproca
e intelligibilità, tuttavia, non coincidono. All’Ulisse di Kafka l’essenza del divino
rimane ancora ignota.
La «nascita» letteraria dello scrittore sarebbe avvenuta durante la notte del 22
settembre 1912, quando egli, in otto ore, scrisse la Condanna (o il Verdetto). Il
racconto mostra l’accondiscendenza letale di un figlio dinnanzi al volere del padre,
l’esito impietoso di un «duello feroce». Georg Bendemann infligge su di sé la
condanna definitiva per annegamento sentenziata dalla figura paterna,
dimostrando un amore verso i genitori che perdura fino al suicidio, nonostante il
loro rapporto sia apparso come uno scontro tra mondi inconciliabili. Calasso,
tuttavia, rifiuta una lettura psicologica del testo kafkiano e tenta di ricercarne
l’origine altrove. A proposito della colpa egli infatti scrive che tale letteratura
«deflagra dall’interno»; «quando già l’ignaro psicologo si congratula con sé stesso
perché pensa di aver trovato la vera materia che si nasconde dietro ogni
letteratura», osserva lo studioso, «lo scrittore Kafka gliela sottrae e la vanifica»5.
Il critico pone tutta l’opera kafkiana sotto il segno dell’estraneità. L’esperienza
psichica dell’autore si presenta «intraducibile» e i personaggi, a prescindere dalle
loro differenze, abitano una terra che non si conosce. Gregor Samsa perisce a causa
della sua singolarità e dopo la metamorfosi diventa uno straniero perfino a casa
propria6. Serrarsi dietro la porta significava soprattutto determinare una
separazione dal resto della famiglia, eccetto che per il «gesto eroico» compiuto
verso la conclusione del racconto, quando egli lascia la stanza per ascoltare la
sorella e la melodia del suo violino. La ragazza che fino ad allora si prendeva cura

5
Ivi, p.169.
6
Ladislao Mittner sottolineò tale senso di precarietà: «Rilke e Kafka ci fanno sentire in modo
ben diverso e ben diversamente sincero la crisi: essi sono due uomini che soffrono e non
riescono a vivere, perché non posseggono la casa e non credono più nella possibilità della casa».
L. MITTNER, Kafka senza kafkismi, cit., p.252.

64
del fratello, percependo ormai questi «biologicamente estraneo», si allinea ai
genitori ed emette il verdetto mortale7.
Il giovane protagonista del primo romanzo viene espulso sia dai genitori che dallo
zio d’America: «il gesto da cui si riconosce Karl è il divincolarsi – il sempre
rinnovato tentativo di sfuggire a una stretta, a una sopraffazione, di riconquistarsi
la propria condizione di espulso, disperso, di straniero vagante»8. Calasso
sottolinea l’innocenza del «piccolo eroe», la sua «ingenua epicità». A differenza
dei protagonisti successivi, Rossmann viaggia attraverso il mondo americano e
conosce nuovi ambienti, ognuno dei quali è popolato da personaggi secondari che
provano a comprometterne l’incolpevolezza. D’altronde Kafka stesso, in
un’annotazione diaristica del 30 settembre 1915, lasciò intendere il tragico epilogo
di un romanzo che nonostante questo rimarrà incompiuto: «Rossmann e K.
L’innocente e il colpevole, infine uccisi tutti e due, per castigo, senza distinzione,
l’innocente con mano più leggera, piuttosto spinto da parte che ammazzato»9.
Anche se il teatro di Oklahoma sembra conferire al finale di America un’atmosfera
di utopica felicità, il suddetto passo rivela l’inganno di un’interpretazione positiva
del romanzo subito da alcuni dei primi esegeti, tra cui emerge il nome Max Brod.
Parafrasando Calasso, la volontà distruttiva di un «potere superiore», conosciuto
dall’uomo sotto forma di figure maligne (la signorina Klara, Robinson,
Delamarche) o ripugnanti (per esempio Brunelda), priva l’adolescente della sua
originaria purezza d’animo.
Anche Joseph K., come Karl Rossmann, vive una condizione di profonda
estraneità; benché condividano tale lontananza dalla comunità degli uomini, il
procuratore di banca è un «nativo», uno «straniero acquisito», che esclusivamente
dopo la comparsa degli uomini del tribunale incomincia ad allontanarsi dalla
normalità della vita quotidiana per tentare di comprendere la natura del processo.

7
Scrive Maurizio Canauz: «Anche la sorella è quindi oggetto di una metamorfosi: da protettrice
e amorevole aiuto ad aguzzino e giudice impietoso». M. CANAUZ, Kafka e le donne. Amori e
personaggi dell’universo kafkiano, Firenze Atheneum, Firenze 2000, p.73.
8
R. CALASSO, K., cit., p.210.
9
F. KAFKA, Confessioni e diari, cit., p.540.

65
Il «grande organismo» prosciuga le forze del protagonista fino a condurlo
all’esecuzione finale. Chi rifiuta di sottomettersi ai deleteri automatismi dei
condannati finisce per soccombere perché l’insubordinazione, o il tacito assenso,
non vengono tollerati. «Quella disapprovazione è il preludio di una condanna» e
da questo deriva che «la peculiarità [del procuratore] e la colpa convergono»:
«anzi», aggiunge significativamente il critico, «la peculiarità è la prima delle
colpe»10.
Quando, insieme all’avvocato Huld, Joseph K. scopre la necessità di scrivere da sé
una memoria personale al fine di documentare la sua innocenza, la sicurezza dei
primi momenti cede il posto alla preoccupazione. Egli dovrebbe comportarsi come
il tribunale stesso e ricordare ogni dettaglio della propria esistenza. Secondo lo
studioso, la stesura del memoriale per l’assoluzione corrisponderebbe alla più
generale esperienza dello scrivere, relegata alle ore notturne, durante le quali
Kafka scriveva a dispetto del lavoro di impiegato e dei relativi impegni giornalieri.
In una lettera risalente al 5 luglio del 1922 Kafka scrive a Brod: «Che dire dello
scrivere stesso? Lo scrivere è una dolce meravigliosa ricompensa, ma di che cosa?
Durante la notte con l’evidenza dell’insegnamento dimostrativo ai bambini mi
apparve chiaro che è la ricompensa per un servizio del diavolo»11. Poco oltre egli
si erige a «capro espiatorio dell’umanità», perché scrivendo assorbe la colpa degli
altri uomini e consente loro di liberarsene.
L’idea del critico a proposito dell’eterna colpevolezza degli eroi kafkiani si
avvicina a questa sorta di martirio cosciente per il bene dell’umanità confessato
all’interno della suddetta lettera, dal momento che «l’autocondanna» del
procuratore si accompagna all’incombenza di scrivere una «memoria» totale

10
R. CALASSO, K., cit., p.240.
11
F. KAFKA, Lettere, cit., p.458. Altrove, il 12 giugno 1923, l’anno prima della morte, scrive:
«Sempre più pavido nello scrivere. Ed è comprensibile. Ogni parola rigirata nella mano degli
spiriti […] diventa una lancia rivolta contro chi parla. In modo particolare un’osservazione
come questa. E così all’infinito» F. KAFKA, Confessioni e diari, cit., p.635. Commentando
questo brano, Davide Stimilli sostiene che esso costituisca «l’estrema e più drammatica
testimonianza dell’impari conflitto tra lo scrittore e i propri demoni». D. STIMILLI, Fisionomia
di Kafka, Bollati Boringhieri, Torino 2001, p.13.

66
pressoché impossibile da redigere che lo distingue dagli altri imputati, per esempio
dal debole Block. In completa solitudine, Joseph K. si sacrifica per combattere
contro le forze oscure del tribunale mentre Block, forse immagine dell’ebreo
assimilato e privato della conoscenza tradizionale, lascia che l’avvocato e la sua
amante (Leni) gli impongano una sottomissione radicale, un’umiliante abiezione.
Nonostante il protagonista rifiuti di comportarsi come il povero commerciante,
l’interesse per la sua vicenda cresce quando si accorge delle somiglianze tra i
processi. Alla riprovazione iniziale si sostituisce una vaga apprensione, scaturita
soprattutto dalla sua incapacità di muoversi autonomamente rispetto al dominio
dell’istituzione burocratica.
Il pittore Titorelli e il funzionario Bürgel, rispettivamente del Processo e del
Castello, attraverso le loro confessioni, sanciscono la distanza minima tra gli eroi
dei romanzi e i segreti dell’autorità. Le «assoluzioni reali» a cui si riferisce il
pittore vengono associate dal critico alla sostanza dei miti e delle leggende,
appartenenti alla verità seppur non documentabili. Nessuna testimonianza infatti
aiuta il procuratore di banca perché le sentenze finali, anche quelle ascrivibili a un
passato mitico, vengono trasmesse oralmente e perdono perciò la loro legittimità
di prova a sostegno dei casi giudiziari del presente. Calasso dubita per un momento
della veridicità di tali leggende, anche se queste potrebbero rappresentare «l’unico
vestigio sopravvivente delle sentenze finali del tribunale. L’unico vestigio di
qualcosa di ‘reale’, in un mondo che è isolato dalla realtà come K. lo è dall’aria»12,
divenuta frattanto irrespirabile. L’atmosfera rarefatta dello «stambugio» di
Titorelli svolge la medesima funzione del torpore in cui cade l’agrimensore K.
quando le confessioni di Bürgel incominciano a scoprire la natura del castello. Una
«spossatezza» generale, giunta all’acme della lucidità, coinvolge entrambi i
protagonisti e non permette loro di chiarire le dinamiche interne
dell’organizzazione e di pensare o perfino attuare una strategia efficiente per
fronteggiarla.

12
R. CALASSO, K., cit., p.266.

67
Analogamente a Giuliano Baioni, Calasso traccia una linea di continuità tra la
parabola dell’uomo di campagna e l’ultimo romanzo dell’autore. Il Castello
sarebbe pertanto una «glossa», una continuazione ideale della storia che
universalizza la vicenda del procuratore e ne estende il significato alla ricerca
intrapresa dall’autore stesso. «I mondi del Processo e del Castello […] sono la
prosecuzione l’uno dell’altro», si legge all’inizio del saggio, prima ancora che lo
studioso incominci ad analizzarne la materia: l’agrimensore approfondisce la
ricerca del procuratore, «ma la storia è la stessa – e continua»13. Il critico si
focalizza soprattutto sulla negatività del paradossale, quando scrive che «all’inizio
l’inganno investiva il tribunale, poi la storia del guardiano della Legge, ora
finalmente l’ordine del mondo: invece di dissiparsi, l’inganno si è espanso sino ai
confini del tutto»14. Si potrebbe obiettare che nonostante il campagnolo non abbia
varcato la soglia della porta, l’esistenza di una possibilità impedisce al negativo di
nascondere il potenziale di un positivo che esiste15, come d’altronde sosterrà
Carotenuto16.
Entrambi i K. si relazionano alle figure femminili mediante la sessualità. Per
Calasso, i «meccanismi erotici» di questi romanzi sono i medesimi e strutturano le
relazioni che intercorrono, per esempio, tra gli abitanti del villaggio e i funzionari
del castello. Il femminile gravita tuttavia attorno all’orbita dell’autorità e proprio
per questa ragione i protagonisti, vanamente, percorrono la «via delle donne»
coltivando la speranza di scoprirne i segreti.

13
Ivi, p.21.
14
Ivi, p.305.
15
Guido Crespi, per esempio, sottolinea la presenza di una speranza, sia per l’agrimensore che
per il procuratore: «l’agrimensore K. vuole ottenere il diritto di cittadinanza in un villaggio e
combatte la volontà indecifrabile del Castello. Nel Processo, se Joseph K. ha un sentimento di
colpa, è necessario che abbia un’idea della perfezione. Anche se non riescono a raggiungere il
loro scopo, questi personaggi non si arrendono mai perché hanno sempre la speranza di
raggiungerlo» G. CRESPI, Kafka umorista, cit., p.90.
16
«L’atmosfera di disperazione, di angoscia che aleggia nelle sue opere, rendendone spesso
difficoltosa la lettura, risulta in qualche modo stemperata da questo tendere verso una possibile
soluzione, dalla speranza di una nuova vita». A. CAROTENUTO, La chiamata del daimon, cit.,
p.172. Sebbene esista tale possibilità, in una contraddizione apparente, l’esito della ricerca
kafkiana sarà per il critico ancora una volta tragico.

68
Se il vecchio comandante della colonia penale venerava un «dio del dolore» e
l’erpice della macchina rivelava ai condannati la loro colpa attraverso il supplizio
del corpo, la divinità dei castellani si allontana dalla dimensione materiale fino a
raggiungere una trascendenza preclusa all’agrimensore: egli («il basso») e Klamm,
o il Conte Westwest («l’alto») non potranno incontrarsi, così come gli esseri
umani, nonostante la fatica della ricerca, non riusciranno a conoscere dio. «Per K.,
tutto congiura per impedirgli di presentarsi a Klamm. […] Ma anche Klamm non
deve neppur pensare alla eventualità di incontrare K. […] L’alto e il basso non
devono toccarsi: da questa regola è governato il corso del mondo»17.

4.2 Pietro Citati

«Da un punto di vista letterario, la mia sorte è molto semplice», scriveva Kafka il
6 agosto del 1914, «la capacità di descrivere la mia sognante vita interiore ha
respinto tutto il resto fra le cose secondarie e lo ha orrendamente atrofizzato né
cessa di atrofizzarlo. Nessun’altra cosa può mai soddisfarmi»18.
Gli studiosi hanno ragionato a lungo sulla scissione dell’autore tra letteratura e vita
e alcuni di essi elevano i diari e gli epistolari a documento letterario, a prescindere
dal loro carattere privato. Pietro Citati, per esempio, suggerisce di conferire alle
Lettere a Felice il medesimo valore artistico di frammenti (o «inizi monchi»),
racconti e romanzi: «dobbiamo dedicare a queste lettere la stessa attenzione
dedicata alla Metamorfosi e al Castello», sostiene infatti il critico, «poiché hanno

17
R. CALASSO, K., cit., p.79.
18
F. KAFKA, Confessioni e diari, cit., p.485. Scrive Massino: «Non solo, infatti, la scrittura è
per Kafka l’estrema resistenza alla presa del mondo esterno, ma scrivere […] è possibile
soltanto spingendosi sempre più in là nell’ascolto della propria ‘sognante’, irriducibile,
dimensione interiore; portando cioè agli estremi la frattura fra sé e il mondo anche a costo di
‘spezzarsi’, di perdersi in essa». G. MASSINO, Franz Kafka, cit., p.15.

69
la stessa concentrazione drammatica, la stessa carica simbolica»19. L’universalità
dei testi kafkiani proviene tuttavia da un determinante lavoro di sublimazione della
materia biografica, una trasfigurazione che ha consentito ai lettori più eterogenei
di condividere la sua esperienza personale, benché gli scritti non pensati per la
divulgazione (se questo è un discorso lecito per un autore come Kafka, ansioso di
distruggere la propria creazione) contribuiscano significativamente a chiarificare
il mondo della letteratura e i nuclei originari, di matrice autobiografica, da cui
avvenne tale sublimazione.
Il rapporto amoroso vive attraverso il filtro delle lettere e viene percepito come
interiore, mentale. La distanza epistolare coinvolge l’autore ancora più degli
incontri reali, sia per i cinque anni in cui egli scrisse a Felice Bauer (1912-17) che
per l’intenso biennio di Milena Jesenská (1920-22). La quotidianità viene
compromessa dalla lentezza congenita della pagina scritta al punto che Kafka
stesso incomincia a ragionare sui «fantasmi» di una comunicazione puntualmente
interrotta, causa di grandi preoccupazioni e incertezze che si riverbereranno sulla
produzione letteraria.
Per Freschi, Kafka ricercava «una letteratura che potesse conciliarsi con la vita
senza rinunciare a se stessa», specificando che si trattò di «una letteratura di
salvezza e che rendesse giustizia al suo fondamento»20. A costo di rinunciare alla
naturalezza delle relazioni umane e dell’esistenza quotidiana, la sua «sognante vita
interiore» gli impediva di vivere un mondo che non fosse letteratura. Baioni
sottolineò tale incapacità di amare, essenziale inoltre per l’interpretazione
psicologica dell’opera kafkiana. L’ebraismo e la tardiva scoperta della lingua
yiddish, la scissione tra il lavoro di impiegato e la scrittura, la cura editoriale dei
propri racconti, il rapporto con gli altri sono alcune delle questioni che grazie alle
scritture private il lettore riesce a spiegarsi più compiutamente. Dietro alle figure
femminili dei romanzi (secondo i critici, soprattutto Leni e Frieda), per esempio,
si nasconderebbero le difficoltà delle relazioni amorose e la concezione oscena

19
P. CITATI, Kafka, Rizzoli, Milano 1987, p.44.
20
M. FRESCHI, Introduzione a Kafka, cit., p.49.

70
dell’erotismo che ne deriva. «Perché non leggere La metamorfosi come una favola
su ciò che accade quando lo scrittore di lettere esce dall’ombra, quando impone
all’altro la sua realtà?», si domanda Vincent Kaufmann in un lucido saggio sugli
equivoci delle relazioni poste sotto il segno della scrittura epistolare, osservando
che il suddetto racconto «prende forma durante le prime settimane della
corrispondenza con Felice»21.
Gregor Samsa, una volta avvenuta la metamorfosi, continua a comportarsi come
se fosse ancora un commesso viaggiatore. Egli, per esempio, si preoccupa del treno
che avrebbe dovuto prendere per andare a lavoro o dell’economia interna al nucleo
familiare. La necessità del protagonista di razionalizzare l’accaduto assorbe
l’irrealtà di un uomo che d’improvviso diviene uno scarafaggio all’interno di un
realismo linguistico e narrativo. Citati pone alle fondamenta di questo racconto la
lotta impari di un figlio che per la sopravvivenza si oppone alla volontà paterna.
Anziché fuggire lungo le pareti e abbandonarsi alla sua animalità, Samsa sceglie
di conservare la facoltà umana del pensiero22. Ogni membro della famiglia si
allontanerà progressivamente dal protagonista fino al momento in cui egli verrà
giustiziato proprio dal padre; questi, ormai dimentico della sua intima natura di
uomo, gli darà il colpo di grazia in «una scena grottesca e tremenda, dove il
sacrificio di Isacco da parte di Abramo viene finalmente compiuto, dove
avvertiamo il brivido del sacro, e la violazione e il compimento della Legge»23.
Prima della morte si interrompe perfino la tensione della battaglia perché lo
scarafaggio si arrende di fronte all’autorità, manifestando amore e dedizione per i
genitori, così come Georg Bendemann che si suicida per rispettare la condanna del
vecchio padre.

21
V. KAUFMANN, L’equivoco epistolare, traduzione a c. di E. Chierici, Nuova Pratiche,
Parma 1994, p.21.
22
«Lo sconcertante effetto della metamorfosi consiste nel fatto che la parte conscia di Gregor,
vale a dire quella che continua a sentire e a pensare umanamente», scrive Uta Treder, «non
viene più capita dagli uomini i quali, sentendosi minacciati dall’aspetto mostruoso dell’animale,
lo trattano come tale, dimentichi che quell’essere fino al giorno prima era stato un impiegato
impeccabile e un figlio devoto». U. TREDER, L’assalto al confine. Vita e opera di Franz
Kafka, cit., p.115.
23
P. CITATI, Kafka, cit., p.71.

71
Parallelamente alla Metamorfosi (1912), Kafka lavorò anche al suo primo tentativo
di romanzo, America (o Il Disperso), un’esperienza narrativa che si differenzia dai
racconti associati da numerosi critici alla cosiddetta fase «edipica» dell’autore
poiché l’autorità paterna viene decentrata, coinvolgendo altre figure severe e
altrettanto giudicanti24.
Karl Rossmann, a dispetto della cacciata della famiglia, mantiene una bonaria
fiducia verso l’esistenza, un’ingenuità tale da permettergli di reagire alle brutture
del mondo americano, dove egli continuerà entusiasta ad impegnarsi per la ricerca
di un lavoro e di un luogo sereno. A differenza di Gregor Samsa, il giovane
disperso rispetta il giudizio dei genitori e non si oppone al loro verdetto. La sua
purezza viene insidiata dalle maligne azioni dei personaggi secondari in un «Eden
contaminato», un «falso Eden americano», governato dagli automatismi di una
società dove le macchine non compiono errori e sembrano quasi sovrastare l’uomo.
Quando il protagonista, allontanato dal «secondo padre» Jacob, si reca a casa di
Pollunder, egli viene respinto ancora una volta perché incontrando un altro
rappresentante della Legge, analogamente alla terza condanna durante il servizio
all’Hotel Occidental, avviene che «niente può impedire che il meccanismo
inesorabile della Proibizione e del Peccato lo colpisca»25.
L’ambiguo e onnicomprensivo teatro di Oklahoma, il quale accoglie anche i
colpevoli, potrebbe rappresentare secondo lo studioso una conclusione sia positiva
che negativa. Tali possibilità antitetiche sono forse smentite dall’autore stesso e
dalle annotazioni diaristiche, anche se l’incompiutezza, insieme al continuo gioco
delle contraddizioni, lascia aperta la questione. Si tratta tuttavia di congetture prive
di un riscontro, avendo l’autore abbandonato il primo romanzo.

24
A proposito del complesso edipico di Kafka, si veda l’interessante contributo di Arthur
Tatossian. Lo psicopatologo scrive: «Nella sua opera come nella sua vita Franz Kafka può,
anche lui, apparire come un Edipo esemplare […] Ma è un Edipo sconfitto che […] accetta la
sua esclusione dalla vita coniugale di cui il padre, pensa, si riserva il privilegio. […] Un Edipo
particolare, tuttavia, che, ad esempio, lascia ben poco trasparire un desiderio incestuoso per la
madre, ovvero ancora e sempre più con l’età tende a discolpare il padre come il figlio da ogni
responsabilità personale» A. TATOSSIAN, Edipo in Kakania, cit., p.76.
25
P. CITATI, Kafka, cit., p.94.

72
Per Citati, il «sottosuolo» di questo romanzo, popolato da presenze sporche ed
equivoche, non si carica di valori metafisici come le soffitte del tribunale o
l’Albergo dei Signori. L’atmosfera degradante della sessualità, elaborata
all’interno dei romanzi successivi, implicherà l’estensione di una Legge che
dall’origine familiare arriverà a una «sapienza teologica», una riflessione
sull’assoluta trascendenza della divinità che si manifesta sotto forma di
ambasciatori viziosi. Nel Processo il sacro subisce quindi una degradazione
poiché il mondo dell’autorità accoglie il «losco» dei personaggi che ruotano
attorno al procuratore di banca. Se il dio della colonia penale si manifestava
attraverso il dolore dei condannati, il giudizio divino del romanzo non si rivela
all’uomo. Allo stesso modo della divinità, la gerarchia del tribunale e il processo
rimangono sconosciuti al protagonista, il quale intraprende una ricerca logorante
volta all’impossibile eventualità di un'assoluzione definitiva. «Dopo l’omissione
del nome di Dio», nota il critico, il processo «è la seconda, grandiosa omissione
del libro»26. Come per i costruttori della muraglia cinese, i funzionari ignorano la
totalità dell’organizzazione burocratica e il relativo funzionamento dei suoi
meccanismi interni. La conoscenza frammentaria che ne consegue vanifica ogni
tentativo di scoprirne la verità. A meno che Joseph K. non voglia umiliarsi e
perdere la propria dignità alla maniera del commerciante Block, egli dovrà
intraprendere un cammino personale destinato tuttavia al fallimento a causa di una
battaglia impari tra il procuratore e il mondo dei burocrati.
«Nessun altro poteva entrare qui perché questo ingresso era destinato soltanto a
te», dice il guardiano della porta al procuratore, «ora vado a chiuderlo»27. La
parabola Davanti alla Legge rovescia il significato del romanzo; essa si conclude
infatti con quella che Citati definisce «un’elezione divina», la quale sostituirebbe
il senso di colpa del protagonista, investito personalmente dall’alterità anziché
accusato come gli altri imputati. Nonostante questo privilegio la possibilità di una
redenzione rimane potenziale, circoscritta allo spazio della leggenda ed estranea

26
Ivi, p.144.
27
F. KAFKA, Racconti, cit., p.239.

73
alla ricerca dell’antieroe kafkiano. Egli viene giustiziato da colpevole e la
vergogna gli sopravvive28. «Nella condanna avveniva l’unio mystica tra l’uomo e
il suo Dio. Qui invece, nelle ultime pagine del Processo, la condanna non genera
nessuna luce o trasfigurazione: Joseph K. non conosce [neanche] la felicità del
castigo»29, a differenza di Gregor Samsa e Georg Bendemann.
Nel Castello si assiste all’edificazione di una gerarchia divina più «politeista» in
cui il sacro penetra l’umano e si manifesta mediante gli uomini
dell’organizzazione, dall’invisibile Conte West-West, definito dallo studioso un
«deus otiosus», alla farsa degli aiutanti Arthur e Jeremias30. Il funzionario Klamm
viene annoverato tra gli «dei inferiori». Allo stesso modo degli altri esponenti
dell’olimpo burocratico, egli rappresenta la radicale lontananza del divino rispetto
all’ambiente del villaggio.
L’agrimensore K. ricerca pertanto una legittimazione che significa conoscenza di
Dio, avendo abbandonato la passività del procuratore e la condiscendenza dei
primi protagonisti. Il castello, tuttavia, si configura come «altro»; le alte sfere
rimangono indifferenti alle domande poste dallo straniero fino a quando non si
prospetta l’impossibile illusione che questi possa entrarvi. Nonostante gli
impedimenti continui e la sostanziale ignoranza degli abitanti circa gli emissari
dell’autorità, egli tenta di arrivare alla verità dalla prima sera del suo arrivo
all’incontro con Gerstäcker, dove la narrazione si interrompe bruscamente.
Si legge all’interno del romanzo, in un dialogo tra Frieda e il protagonista: «‘Non
posso andar via’, disse K., ‘sono venuto qui per restarci, e ci resterò’. E con una
contraddizione che non si diede la pena di spiegare, soggiunse quasi parlando a se

28
L’explicit del romanzo presenta una fine senza speranza: «sulla gola di K. si posarono le mani
di uno dei due signori, mentre l’altro gli spingeva il coltello in fondo al cuore [immagine
ricorrente degli scritti privati] rigirandolo due volte […] Come un cane! – disse, e fu come se la
vergogna gli dovesse sopravvivere.» F. KAFKA, Il Processo, cit., p.250.
29
P. CITATI, Kafka, cit., p.161.
30
«Attraverso tali coppie», secondo Barilli, «si esprimono le valenze lubriche, bestiali,
animalesche del mondo della Legge». R. BARILLI, Comicità in Kafka. Un’interpretazione sulle
tracce del pensiero freudiano, cit., p.106. Per un profilo di Robinson e Delamarche, una coppia
paradigmatica di America, si veda G. BAIONI, Kafka: Romanzo e parabola, cit., p.126.

74
stesso: ‘Che cosa avrebbe potuto attirarmi in questo paese così tetro se non il
desiderio di rimanervi?’»31.
A proposito del segretario Bürgel e del suo discorso rivelatore che testimonia la
massima vicinanza ai segreti del castello, durante il quale K. cade addormentato,
Citati sostiene che «Dio ha lasciato aperta la porta all’uomo; e se l’uomo non l’ha
varcata, è sua colpa, perché non capisce gli enigmi [l’uomo di campagna] o dorme.
Il cielo è sempre innocente»32.
Kafka corresse le bozze della sua ultima raccolta di racconti (Un digiunatore) fino
al sopraggiungere della morte. Marino Freschi considera il racconto da cui prende
il nome la raccolta come una «metafora della ritirata dalla vita»33. I personaggi di
questo commiato dalla letteratura trascorrono il loro tempo immersi in uno stato di
assorta meditazione, un’eco delle feconde riflessioni filosofico-religiose sorte
durante la permanenza a Zürau a cui si aggiunge l’esperienza narrativa del
Castello.
Citati nota che sia la Tana che Indagini di un cane vengono raccontati in prima
persona. L’animale che entra ed esce dalla tana, minacciato dai nemici esterni e
contemporaneamente dai rumori, reali o immaginati, provenienti dall’interno,
rappresenterebbe lo scrittore alle prese con la propria opera letteraria; quando egli
si abbandona alle tenebre del labirintico rifugio viene pervaso da una sensazione
di angoscia e ragiona senza sosta sui pericoli perché l’avversario potrebbe
sorprenderlo dal mondo della luce. Mentre l’animale cerca di comprendere come
sia possibile che qualcuno abbia avvertito il suo scavare nonostante il poco rumore,
il racconto si interrompe.
Nella Tana, l’autore narra ancora una volta la ricerca di una tranquillità resa
impossibile dalle contraddizioni di una letteratura che incontra il mondo esterno.
Indagini di un cane condivide con il Castello un’aspirazione totale all’insieme
delle verità, presente anche negli aforismi, dove Kafka si interroga intorno a

31
F. KAFKA, Romanzi, cit., p.712.
32
P. CITATI, Kafka, cit., p.270.
33
M. FRESCHI, Introduzione a Kafka, cit., p.120.

75
questioni di ascendenza biblica, per esempio il peccato originale e il paradiso.
Tuttavia, dal piano filosofico si passa a quello più intrinsecamente religioso. Citati
scrive infatti che «il cane che dice io non odora di mondo canino», perché
rappresenterebbe «la doppia metafora di un ebreo e di un uomo»34. Quando il
protagonista prende la decisione di compiere un ritiro ascetico in una foresta, egli
incontra un «cane forestiero». Per lo studioso, Kafka avrebbe finalmente incontrato
Dio. «In fondo non vedevo più del solito, davanti a me c’era un cane bello, non
troppo fuori dal comune; questo vedevo, nient’altro, eppure ero convinto di vedere
in quel cane più del solito»35.
«Alla fine della sua vita, nascosto sotto le spoglie del cane», conclude lo studioso,
«Kafka aveva compreso che […] non aveva fatto che indagare l’Uno»36. Gli
uomini non possono conoscere Dio o l’idea di Dio. Alla comunione del divino e
dell’umano, rappresentata dall’effimera teofania, si sostituisce un’eterna distanza.
Il cane, dopo la fine del dialogo, dubita perfino della natura trascendente di tale
incontro: «Oggi naturalmente nego tutte le esperienze di questo genere e le
attribuisco a quel mio stato di sovraeccitazione, ma se anche fu un errore, non gli
manca una certa grandiosità, è l’unica realtà, magari soltanto apparente, che abbia
ricavato dal periodo della fame [della ricerca] e portato in questo mondo, ed essa
almeno dimostra fino a qual punto possiamo giungere essendo completamente
fuori di noi»37.

34
P. CITATI, Kafka, cit., p.282.
35
F. KAFKA, Racconti, cit., p.497.
36
P. CITATI, Kafka, cit., p.290.
37
F. KAFKA, Racconti, cit., p.498.

76
5. La via dell’inconscio

5.1 Renato Barilli e Guido Crespi

Ne L’uomo senza qualità, Robert Musil definì Kakania l’Impero austro-ungarico,


dalle lettere iniziali di kaiserlich und königlich, ovvero imperial-regio. Egli conferì
all’istituzione un valore filosofico, ragionando sul progressivo disfacimento di tale
potenza.
Prima ancora che Freud teorizzasse la psicanalisi, alcuni letterati mitteleuropei ne
anticiparono le tematiche, come per esempio Arthur Schnitzler, il quale fu
significativamente un medico oltre che uno scrittore. La tecnica del monologo
interiore gli consentì di rinnovare il dramma teatrale dall’interno e di soffermarsi
sulle implicazioni psicologiche dei personaggi. In un’ormai celebre lettera
risalente al 14 maggio del 1922, il padre della psicanalisi sottolineò le analogie tra
i risultati a cui pervenne attraverso i suoi studi scientifici e le opere del
drammaturgo.
Scrive Freud: «La Sua penetrazione nella verità dell’inconscio, nella natura
istintiva dell’uomo […] tutto ciò mi ha commosso come qualcosa di
incredibilmente familiare. […] Credo, anzi, che nel fondo del Suo essere, Lei sia
un ricercatore della psicologia del profondo, così onestamente imparziale e
impavido come non ve ne sono stati mai»1.
Anche se l’autore prese le distanze dalla scuola freudiana, questo frammento
epistolare testimonia l’intima affinità tra la nuova scienza e la letteratura ad essa
contemporanea.

1
S. FREUD, Lettere 1873-1939, Bollati Boringhieri, Torino 1960, pp.312-13.

77
Kafka, Freud e Schnitzler, insieme alla provenienza mitteleuropea, condividono le
radici ebraiche. Alle difficoltà sociali della fin de siècle si aggiunge pertanto la
coesistenza più o meno problematica della religione ebraica e della società
occidentale, cristiana o laica.
Marino Freschi spiega lo scetticismo dello scrittore praghese di fronte ai primi
studi letterari che implicassero una lettura psicanalitica. All’interno della
psicologia tradizionale, la nuova strada di ricerca intrapresa dal medico viennese
venne considerata come una «scienza ebraica». Secondo lo studioso, la centralità
della dimensione sessuale non avrebbe potuto lasciare indifferente l’autore, ancora
influenzato dai residui positivistici del secolo precedente.
Per Kafka, letteratura e psicanalisi abitavano mondi differenti e quando venivano
accostate o perfino giustapposte si rischiava di comprometterne l’indipendenza. In
un frammento epistolare all’amico Franz Werfel, esponente di rilievo del teatro
espressionista, commentando il suo dramma Schweiger, egli scrisse: «Non c’è
alcuna gioia di occuparsi di psicoanalisi, io me ne tengo lontano il più possibile»2.
L’universo della letteratura si configurava quindi come una scelta radicale, più che
un sistema aperto a suggestioni provenienti dall’esterno. Altrove si legge infatti
che scrivere fu una battaglia per la sopravvivenza a cui l’autore, manifestamente,
non associava l’idea di uno studio scientifico dei processi mentali3. La ‘sognante
vita interiore’ non aveva bisogno di altro fuorché della scrittura, intesa come
alternativa alla vita quotidiana e alla dimensione fattuale dell’esistenza.
Sia Renato Barilli che Guido Crespi si sono cimentati in uno studio a proposito
della comicità e del risibile all’interno del corpus kafkiano. Il primo si pone dal
principio sotto l’egida di Freud e antepone al saggio una corposa introduzione sui

2
Si veda M. FRESCHI, Introduzione a Kafka, cit., p.21. Tuttavia, attraverso la partecipazione
ad alcune conferenze e la lettura di articoli su riviste, Kafka seguì la nascita e i primi passi della
disciplina.
3
«Ma per Kafka il vero inconscio non è alla portata dello psicologo, sia pure psicoanalista»,
scrive Tatossian, «perché appartiene al ‘mondo spirituale’ che si confonde con il mondo
dell’anima, il mondo interiore ben compreso». A. TATOSSIAN, Edipo in Kakania, cit., p.87.

78
ruoli del poeta e dello psichiatra, implicando direttamente i testi freudiani, mentre
il secondo, analizzando il riso anche da un punto di vista filosofico, attinge alle
fonti più disparate per cercare una lettura che vada oltre la proverbiale angoscia
dell’autore. L’umorismo e lo scherzo permettono di approfondire la sua opera,
senza assurgere la negatività del praghese a paradigma assoluto, così da restituire
un’idea eterogenea che non si interrompa di fronte a una prospettiva di indagine
inedita o perlomeno considerata marginale da buona parte dei commentatori.
Barilli, seguendo tale linea interpretativa, rimprovera agli altri studiosi di essersi
arrestati davanti allo stato di prigionia dello scrittore, umiliato dal padre, anziché
sottolineare la falsa innocenza che alcune volte prende il sopravvento, la finzione
di un prigioniero che colpisce di nascosto.
Per il critico, all’interno del rapporto tra Kafka e la figura paterna le pulsioni di
vita si alternano a quelle di morte; egli non si abbandona passivamente al padre
alla maniera degli «uomini senza qualità», perché insieme a questa mancanza di
azione esiste un attivismo che mira a colpire il genitore dall’interno del suo mondo
codificato. «Questo particolare figlio tremendamente sottile», spiega infatti lo
studioso, «sceglie di punire il padre ostentando gli effetti deleteri, su di sé, del lato
negativo dell’educazione ricevuta»4. Il Kafka «Vendicatore», il «falso
Prigioniero» attenderebbe l’occasione di biasimare le manchevolezze del padre
mediante la caricatura, ovvero accrescendo la propria vitalità a discapito delle
contraddizioni altrui in un conflitto quasi clandestino, ignoto perfino
all’avversario. Accanto al piacere dello scherzo, tuttavia, sussiste una presenza più
dispotica di un’autorità, un «cieco potere allo stato puro», sotto la quale il figlio
patisce l’impotenza che deriva dalla sua piccolezza.
Barilli sostiene che se i Preparativi di nozze in campagna si differenziano dai primi
racconti, di matrice espressionista, le vicende di Bendemann e Samsa sono invece

4
R. BARILLI, Comicità in Kafka. Un’interpretazione sulle tracce del pensiero freudiano, cit.,
pp.57-8.

79
più affini alla materia dei romanzi e rendono palese il «campo edipico» entro cui
si muoveranno i personaggi kafkiani.
Il giorno successivo alla stesura della Condanna, composta durante la notte tra il
21 e il 22 settembre del 1912, Kafka scrive all’interno del diario: «[…] beninteso,
ho pensato a Freud […]»5. Nella Metamorfosi, al contrario, il lettore incontra un
protagonista che a differenza di Bendemann, il quale obbedisce senza opporsi
all’istanza paterna, riesce a insidiare l’autorità dal sottosuolo. Tale alternanza
restituisce un’immagine ambigua di un rapporto tra padre e figlio in cui questi,
esasperando l’ingiustizia subita fino alla soglia dell’inconcepibile, potrebbe
resistere alla castrazione paterna, anche se il lettore empatizzerà con il povero
scarafaggio che viene privato di un’esistenza dignitosa.
Le reazioni del nucleo familiare alla sventura che colpisce il commesso viaggiatore
corrispondono, quasi rasentando la caricatura, al complesso edipico; la madre tace
imbarazzata e sogna lo stereotipo della famiglia felice, la sorella supporta
docilmente il fratello fino al tradimento della condanna, il padre si erge per
colpevolizzare lo «sterile indugio contemplativo» dell’artista. La famiglia esclude
l’insetto e ritrova infine un equilibrio, prevedendo un futuro sereno.
Gregor Samsa, in un «suicidio prolungato», vivrebbe la metamorfosi come una
prova della sua colpevolezza di comportarsi da poeta, di anteporre al ruolo del
«buon figliolo» il mondo della creatività, la scrittura. «Chi è la vittima?», si
domanda lo studioso, «il figlio […] condannato a un’esistenza marginale,
subumana? O non piuttosto vittima è la famiglia […] travolta dallo sfacciato
esibizionismo del ‘poeta’, che non esita a sacrificare alle sue smanie creative ogni
sacro dovere?»6.

5
F. KAFKA, Confessioni e diari, cit., p.374. Barilli e altri interpreti retrodatano di appena una
notte il racconto, dal momento che Kafka stesso all’interno della medesima pagina di diario
scrive che «questo racconto, La condanna, l’ho scritto nella notte fra il 22 e il 23, dalle dieci di
sera fino alle sei del mattino, in un fiato».
6
R. BARILLI, Comicità in Kafka. Un’interpretazione sulle tracce del pensiero freudiano, cit.,
p.85.

80
Guido Crespi, la cui analisi si pone l’obiettivo di scoprire l’umorismo dell’autore,
sottolinea la profonda ambiguità che deriva dal continuo alternarsi di atmosfera
onirica e realtà.
Alla concretezza della metamorfosi il protagonista reagisce infatti come se potesse
continuare a comportarsi da commesso viaggiatore, ne ignora cioè le più
immediate conseguenze. A causa di questa incongruenza, «in uno dei più terribili
ed angosciosi racconti di Kafka, appare un effetto umoristico»7, scaturito sempre
da una «descrizione realista» degli eventi, per esempio quando egli si preoccupa
del treno o del lavoro.
Crespi nota tuttavia che dopo l’assimilazione del nuovo corpo e la progressiva
perdita delle caratteristiche umane, venuto meno il contrasto tra sogno e reale alla
base del risibile, l’umorismo scompare dal racconto.
Barilli sostiene un’idea diametralmente opposta: «l’accuratezza con cui viene
descritta la condizione dell’insetto», scrive il critico verso la conclusione del
capitolo relativo al racconto, «non lascia quei margini di gioco all’invenzione,
attraverso cui in molti altri casi irrompono le forze del comico» 8. Gregor Samsa
veniva quindi condannato a morire di inedia a causa della preminenza di un piacere
estetico che impediva la partecipazione virile alla vita della famiglia.
Narrando le peripezie di Karl Rossmann, Kafka invece non gli attribuisce nessuna
velleità artistica; scomparendo il «demone della poesia», ovvero il pretesto
necessario al padre per giustificare la sua prevaricazione, il lettore difenderà
appassionatamente un giovane vulnerabile, vittima dei soprusi paterni e della
società burocratica.
L’impossibilità di riscattare la propria colpa nasce dal protagonista stesso ancora
più che dall’indifferenza dei genitori9. Parafrasando lo studioso, egli

7
G. CRESPI, Kafka umorista, cit., p.108.
8
R. BARILLI, Comicità in Kafka. Un’interpretazione sulle tracce del pensiero freudiano, cit.,
p.86.
9
Arthur Tatossian sostiene che «gli eroi di Kafka vogliono essere Padre senza cessare di essere
Figlio – cosa impossibile nella realtà e quindi cui rinunciare. Georg ne sarà espulso con la

81
sacrificherebbe il ruolo di figlio ideale per un «eros polimorfo» che oscura la
rettitudine dell’adolescente, alle tentazioni del quale questi cede durante il corso
del viaggio americano. Vivendo gli eventi esterni sotto il nascondimento
dell’innocenza, tutte le responsabilità delle cacciate e degli imprevisti ricadranno
pertanto sulla crudele legge del padre, colpevole della castrazione filiale e di un
cattivo insegnamento dell’erotismo.
Le peculiarità del figlio, rifiutate da questo mondo, appariranno sotto forma di
ritorno del rimosso. Dove il rimosso non riesce a palesarsi, per esempio al teatro
di Oklahoma, sopraggiunge il comico, accompagnato dall’atmosfera onirica degli
uomini e dell’ambiente. L’assenza di regole, l’assunzione degli aspiranti lavoratori
a prescindere dalle loro imperfezioni, l’utopia di una compagnia che dispensa gioia
tra i derelitti rendono farsesca e parodistica tale possibilità di redenzione finale.
Come in un sogno, il futuro del protagonista appare inconoscibile e il critico non
congettura alcunché a proposito del messaggio positivo o negativo che l’autore
avrebbe potuto conferire al romanzo, se non fosse incompiuto. «Angoscia o
appagamento? Sono le due tonalità tipiche del lavoro onirico, alterne o
sovrapponibili, pronte a ibridarsi reciprocamente»10.
Secondo lo studioso, il conflitto psicologico tra la coscienza morale (Super-Io) e
la vita impersonale dell’istinto (Es) accomuna lo scrittore praghese ad ogni uomo
che abbia un analogo disequilibrio interno. Coerentemente con le teorie freudiane,
i meccanismi del comico e del sogno consentono all’autore di recuperare le proprie
cariche libidiche e diventano fonti condivise di piacere per tutti i lettori che
riescono ad aggirare le rimozioni e le censure applicate dal principio di realtà11. A

condanna, Gregor con la metamorfosi e Karl dovrà fuggire in un altro mondo, l’America». A.
TATOSSIAN, Edipo in Kakania, cit., p.83.
10
R. BARILLI, Comicità in Kafka. Un’interpretazione sulle tracce del pensiero freudiano, cit.,
p.118.
11
Guido Crespi analizza alcuni episodi in cui emerge tale comicità. Per esempio, quando il
procuratore visita gli uffici del tribunale, egli «vaga come un sonnambulo in un mondo
rarefatto, incomprensibile, e incontra ‘l’informatore’ che dovrebbe rispondere ad ogni domanda

82
tale appagamento si affianca tuttavia un senso di inquietudine derivato
dall’infruttuosità della ricerca, anche all’interno del Processo.
Barilli sostiene a più riprese la genesi intenzionale del processo perché il
procuratore avrebbe potuto uscirne, qualora avesse voluto. Per corroborare questa
tesi sarà sufficiente ricordare come egli, inizialmente, riuscisse a relegare il tempo
del processo ai giorni in cui l’esonero dal lavoro glielo permetteva, o ancora
basterà ricordare le allusioni dei personaggi secondari, i quali lasciano intendere al
protagonista che potrebbe pensare ad altro.
All’inizio del settimo capitolo (Avvocato. Industriale. Pittore) si legge che «K.
stava nel suo ufficio, già stanchissimo benché fosse ancora presto […] Ma invece
di lavorare si rigirava nella poltrona […] Il pensiero del processo non lo lasciava
più»12. Barilli dubita perfino che sussista una condanna dal momento che a Joseph
K. non viene imposto niente fuorché il pensiero della macchina processuale che
egli impone a sé stesso, appartenente cioè alla sua interiorità.
«Trovarsi sotto processo risponde più che altro a uno stato d’animo, a una
convinzione interna, o appunto a un atto intenzionale»13.
Barilli e Baioni concordano a proposito dell’universalità dello scrittore, anche se
le loro idee si distanziano significativamente. Se per Barilli, forse dimentico del
contesto storico, la condizione ebraica «catalizza» un’esperienza più estesa che
avrebbe potuto contraddistinguere anche individui di altre tradizioni religiose,
Baioni sostiene al contrario che Kafka rappresenti l’ebraismo dall’interno come
fosse un mondo autonomo e che le relative contraddizioni sorte da questo rapporto

del pubblico. Ecco finalmente l’occasione di sapere qualcosa su quella misteriosa giustizia! Ma
Joseph K., sentendosi quasi svenire, non chiede nulla e Kafka ne approfitta per intrattenerci, su
cosa? Sull’eleganza degli abiti dell’informatore!» G. CRESPI, Kafka umorista, cit., p.112.
12
F. KAFKA, Il processo, cit., p.124.
13
R. BARILLI, Comicità in Kafka. Un’interpretazione sulle tracce del pensiero freudiano, cit.,
p.122.

83
difficile, aperte a significati eterogenei, fungano da «veicolo significante di una
universale condizione umana»14.
Il critico analizza Davanti alla Legge da una prospettiva inedita, analogamente
all’esecuzione finale del protagonista. Egli rovescia il significato comune
dell’apologo e vi scorge ancora una volta la «natura coscienziale» degli eroi
kafkiani, l’intenzionalità che rende l’uomo di campagna altrettanto colpevole,
poiché costringe il guardiano a consumare la propria esistenza di fronte alla porta
per rispondere ad ognuna delle sue domande inutili. Scriveva Kafka qualche anno
addietro, durante la permanenza a Zürau: «Prima non capivo perché la mia
domanda non ottenesse risposta, oggi non capisco come potessi credere di poter
domandare. Ma io non credevo affatto, domandavo soltanto»15. Varcare la soglia
significherebbe assoggettarsi al rigettato erotismo del mondo paterno, dove
convivono godimento e repressione.
Joseph K., ormai sovrapposto a Kafka stesso, avrebbe perfino inscenato
teatralmente il martirio della scena che chiude il romanzo, intesa come una
grottesca parodia. I carnefici, i «menestrelli dell’eros», vengono paragonati ad
attori teatrali di infimo ordine che compromettono l’autenticità dell’aggressione.
Barilli inverte i ruoli dei personaggi al fine di condannare le fantasie meschine del
procuratore, immaginate fino al sentimento di vergogna che sopravvive alla morte.
Allo stesso modo del guardiano, gli uomini del tribunale sarebbero invece
innocenti che sopportano la cosciente falsità del protagonista. «Avviene proprio
l’esecuzione, o non si tratta invece di una fantasia del personaggio?», si domanda
lo studioso, quasi retoricamente; «in fondo, così come ci sono le fantasie erotiche»,

14
G. BAIONI, Kafka: Letteratura e ebraismo, cit., p.45.
15
F. KAFKA, Aforismi di Zürau, cit., p.50. Un altro aforisma sembra pertinente alla vicenda
del procuratore: «C’è una meta, ma non una via; ciò che chiamiamo via è un indugiare». Ivi,
p.40.

84
spiega al termine del discorso, «ci possono essere anche quelle di morte: eros e
thanatos coniugati polarmente, come insegna il manuale freudiano»16.
Il significato dell’ultimo romanzo viene sovvertito alla stregua dei precedenti.
Barilli scorge nel Castello l’ennesimo «vincolo coscienziale-intenzionale». Tra
l’agrimensore e il castello esisterebbe quindi una segreta complicità poiché così
come il procuratore avrebbe potuto abbandonare le ricerche del processo egli
potrebbe lasciare il villaggio secondo la sua volontà.
K. sceglie invece di vivere appieno le contraddizioni di un gioco in cui accoglienza
e rifiuto si presentano alternativamente, di relazionarsi alla «inconsistenza
medusacea» dell’autorità, senza tuttavia che la qualifica di agrimensore venga resa
ufficiale o al contrario reputata una falsificazione.
Secondo Crespi, il mancato raccordo tra l’atmosfera rarefatta, quasi onirica
dell’ambiente e il minuzioso realismo delle descrizioni conferisce al romanzo un
sottofondo di diffusa comicità. «Ma cosa si nasconde dunque dietro quelle parodie
del comportamento umano che sono tutte narrate sul piano della realtà? Appare
ormai evidente», scrive lo studioso, «che si nascondo soltanto le aspirazioni di
Kafka e anche, molto più semplicemente, i suoi desideri […] Dalla degradazione
delle aspirazioni, dei desideri, nasce l’umorismo»17. Mediante il risibile, Kafka
intraprenderebbe una critica di forte ascendenza politica alla società o alla
burocratizzazione della vita quotidiana, al di fuori della problematica religiosa.
Barilli sostiene una genesi differente del principio di autorità che accomuna la
costruzione burocratica del Castello alle potenze sovraumane delle altre opere:
«Sono, tutte queste, le varie prerogative ambigue e contraddittorie [dei
rappresentanti del castello], che il figlio riconosce, e rinfaccia, e restituisce
maliziosamente centuplicate, al regno del padre»18.

16
R. BARILLI, Comicità in Kafka. Un’interpretazione sulle tracce del pensiero freudiano, cit.,
p.140.
17
G. CRESPI, Kafka umorista, cit., pp.118-9.
18
R. BARILLI, Comicità in Kafka. Un’interpretazione sulle tracce del pensiero freudiano, cit.,
pp.148-9.

85
5.2 Aldo Carotenuto

Aldo Carotenuto, analista e critico di scuola junghiana, si sofferma soprattutto sul


difficile incontro tra l’autore e l’altro da sé, il quale rappresenta una via per
raggiungere le profondità della propria anima attraverso un cammino interiore.
Nonostante i tentativi letterari di avvicinarsi all’Altro, per esempio alle figure
femminili, ogni relazione appare negata a un protagonista che resiste in un limbo
dove solitudine e comunione si alternano senza realizzarsi compiutamente. In un
«moto centripeto», i personaggi secondari dei romanzi ruotano attorno all’eroe
kafkiano e la loro presenza gli dovrebbe conferire un’identità altrimenti
irraggiungibile. «Poiché la chiave di lettura con la quale stiamo analizzando il
Processo è esclusivamente psicologica», così come avverrà per il Castello, «è bene
sottolineare come tutto ciò che accade all’interno del romanzo vada considerato un
insieme di eventi endopsichici relativi al protagonista»19. Il tribunale e il castello
sarebbero pertanto costruzioni interne alla mente dell’autore, mediante le quali egli
tenta di dialogare con l’inconscio. Questo dialogo si dimostrerà tuttavia
impossibile a causa dell’esclusione dal mondo dei sentimenti. Egli non riesce a
relazionarsi perché non esce al di fuori dei confini del proprio io. Ogni progresso
verso il raggiungimento della verità si rivela perciò apparente e sempre illusorio20.

19
A. CAROTENUTO, La chiamata del daimon, cit., p.23.
20
In uno studio sulle relazioni che intercorrono tra Kafka e le figure femminili, Maurizio
Canauz sostiene che «la donna, come ben notano Nadia Fusini e Aldo Carotenuto, se non
quando rappresenta una figura familiare a cui tendere per cercare protezione […] spaventa
Kafka, perché interagire con un altro significa sempre e comunque rinunciare a una parte di sé,
così come ancora di più lo spaventa l’amore che è fusione totale con un altro». M.CANAUZ,
Kafka e le donne. Amori e personaggi dell’universo kafkiano, cit., p.89. Nadia Fusini tuttavia si

86
L’incapacità di amare sé stessi impedisce ai protagonisti di conoscere, oltre che le
proprie, le identità altrui, cioè le proiezioni letterarie dell’autore che consentono
all’insieme delle esperienze dimenticate, al «rimosso», di ritornare. Attingendo,
analogamente agli altri artisti, al fondo archetipo della psiche, Kafka vorrebbe
abbandonare l’adesione inconscia all’esistenza per scoprire la sua peculiarità.
Scriveva Cantoni: «Nella sua opera [Kafka] descrisse l’odissea interiore di un
uomo estraniato dalla società e dall’amore. […] Ma in questa immagine della
coscienza angosciata e alienata milioni di uomini […] videro la propria immagine
e sentirono narrare la propria tragica storia»21. Anche Carotenuto, in una sorta di
professione di fede verso le teorie junghiane, concorda sull’universalità
dell’autore, quando sostiene che «K. [pressoché giustapposto a Kafka] ci afferra,
ci commuove perché rappresenta ciascuno di noi, perché incarna il coraggio e la
passione di tutti coloro che combattono senza posa per un obiettivo che non
raggiungeranno mai, ma verso cui non possono rifiutarsi di dirigersi»22.
Nel Processo, la ricerca del procuratore assorbe l’intera esistenza. Secondo
Carotenuto, l’arresto corrisponderebbe ad un risveglio del protagonista al fine di
intraprendere una trasformazione di natura inconscia suscitata dall’insostenibilità
di un malessere interiore. Analogamente a Barilli, egli scrive che la morte di
Joseph K. viene preannunciata dalle prime pagine perché il tribunale vive
all’interno della sua psiche, rappresentando un mondo potente e sconosciuto che
non viene integrato a causa della lontananza tra coscienza e inconscio.

spinse oltre, quando scrisse che «manca in Kafka, in ogni sua forma, l’intimità della relazione:
che sia tra padre e figlio, o tra amanti. È più che una impossibilità all’amore: è l’incapacità di
stringere un nodo tra qualunque cosa che chieda risposta». N. FUSINI, Due. La passione del
legame in Kafka, cit., p.34.
21
R. CANTONI, Che cosa ha ‘veramente’ detto Kafka, cit., p.69.
22
A. CAROTENUTO, La chiamata del daimon, cit., p.190. Per il fondo archetipico della psiche
peculiare degli artisti, si veda C.G. JUNG, Psicologia e poesia, Bollati Boringhieri, Torino
1979. Per una trattazione sistematica della teoria degli archetipi, si veda C. G. JUNG, Simboli
della trasformazione, Bollati Boringhieri, Torino 2012.

87
L’autorità paterna viene trasfigurata attraverso la costruzione di una trascendenza
affine alla divinità, la quale continua tuttavia a rappresentare un’immagine interna
al proprio essere. Barilli sostiene che il padre, nel Processo, viene sublimato al
punto da rappresentare «l’ispiratore del mondo delle soffitte e di tutta la macchina
processuale che vi si trova sede»23.
Al contrario, una volta intrapresa la ricerca, il «bambino abbandonato» avrebbe
compiuto un ritorno al mondo materno e regredendo a questa dimensione infantile
ogni incontro con il femminile sarebbe stato compromesso dalla distanza della
prima esperienza d’amore, tanto da determinare un rifiuto che si estenderà ad
ognuna delle relazioni seguenti.
Elevando tale crisi del rapporto al piano più alto dell’indagine metafisica, non
sottostare alla condizione umana di caducità equivale a tendere verso una
dimensione di purezza ideale dove la colpevolezza dei personaggi kafkiani, quasi
sovrapposti all’autore, proviene da una disgregazione della propria coesione
interiore e dalla relativa impossibilità di figurarsi un reale che mantenga uno spazio
concreto. Kafka, ormai sostituito ai personaggi dei romanzi, lascia presagire dal
principio il suo fallimento perché, a prescindere dalla dedizione personale che si
rivela insufficiente, egli rifiuta di aprirsi all’amore dell’altro e vive una «notte
dell’anima» dove tutto si decompone, fino alla morte, sotto il peso dell’ignoto.
Respingendo sistematicamente l’aiuto delle figure femminili, egli rinuncia alla
mediazione necessaria per avvicinarsi alle profondità dell’anima, così da
precludersi la conoscenza di sé stesso.
«Se Joseph K. rappresenta l’individuo che cerca la sua verità, opponendosi così al
collettivo, perché mai il processo finisce con una condanna? […] La chiusura nei
confronti dell’inconscio», conclude l’analista, «gli impedirà di trovare la sua

23
R. BARILLI, Comicità in Kafka. Un’interpretazione sulle tracce del pensiero freudiano, cit.,
p.130. Anche Nadia Fusini sostiene che «la macchina della colonia penale, la corte del processo,
Klamm, o la burocrazia del Castello appartengono alla stessa costellazione: è un’orbita al cui
centro sta il Padre». N. FUSINI, Due. La passione del legame in Kafka, cit., p.49.

88
risposta, la sua verità»24. Il procuratore di banca si tradisce e viene ingannato dalla
medesima incapacità di aprirsi all’altro che caratterizzerà l’agrimensore. Cercando
entrambi di conferire un senso all’esistenza attraverso un percorso individuale, essi
si consumano vanamente per partecipare alla vita degli uomini. «La fuga dal
legame è l’evento centrale dell’esistenza di Kafka: la ragione della sua scrittura»,
scrive Nadia Fusini, poiché «niente lo tocca più da vicino di ciò che a se stesso
sottrae, niente lo riguarda di più di ciò che si nega»25. La peculiarità degli antieroi
kafkiani rende impossibile ogni tentativo di integrarsi: «come Kafka, essi sono
colpevoli della loro particolare dimensione psicologica che li rende incapaci di
amare, che li orienta verso la solitudine e la distanza, anziché verso la relazione e
il contatto»26.
Mentre nella Metamorfosi e nel Processo i protagonisti, all’inizio della narrazione,
si trovano dinnanzi all’insorgere di un cambiamento improvviso che differenzia le
loro esistenze dalla precedente placidità del quotidiano (sia Gregor Samsa che
Joseph K. si preoccupano del lavoro), il lettore non conosce il passato di un
agrimensore che una volta giunto sul ponte ignora ognuna delle esperienze
pregresse, come se arrivare al castello rappresentasse il suo primo pensiero. «Se
giungono, i suoi eroi rimangono nella posizione di arrivo. Non vanno, non
penetrano. Così, anche arrivando, non raggiungono nulla»27.
Aiutato dalle teorie junghiane, attraverso alcuni esempi desunti dal passato della
cultura occidentale come la Bibbia o l’esperienza di San Paolo, Carotenuto legge
la storia dell’ultimo protagonista sotto la luce degli archetipi. Il viaggio di K.
rappresenta un momento cruciale della sua vita perché egli si affaccia all’ignoto
per esplorare la «terra dell’anima», uno spazio remoto della mente dove tutte le
conoscenze reputate fino ad allora senza imperfezioni vengono dimenticate alla

24
A. CAROTENUTO, La chiamata del daimon, cit., p.108.
25
N. FUSINI, Due. La passione del legame in Kafka, cit., p.125.
26
A. CAROTENUTO, La chiamata del daimon, cit., p.240.
27
N. FUSINI, Due. La passione del legame in Kafka, cit., p.107.

89
volta di una trasformazione interiore. «Tutta la vicenda dell’agrimensore, il suo
cercare, il suo voler capire il mondo in cui si trova a vivere, le sue relazioni, i suoi
tentativi di raggiungere il Castello possono essere considerati la sua risposta alla
chiamata»28. Nonostante egli abbia intrapreso tale viaggio all’interno della
dimensione inconscia, abbia raccolto quindi le forze per percorrere il ponte
dell’alterità, alla chiamata del castello si contrappongono il rifiuto, la disconferma
e l’esclusione, difficoltà interne al protagonista. Secondo il critico, Kafka avrebbe
il timore che la diversità su cui si fonda la sua esistenza venga rifiutata dal mondo
degli altri uomini e proibirebbe di conseguenza ogni comunicazione reciproca. Se
la chiusura dell’autore e dei protagonisti alle identità altrui fosse così intensamente
connaturata l’esclusione diverrebbe autoesclusione, dal momento che egli stesso
rifiuta di accogliere a fondo l’insieme delle sue immagini mentali. Trascurare
l’indivisibilità dell’universo psichico comporta, come per gli eroi precedenti,
l’esito negativo della ricerca. Egli rimane uno straniero che tenta invano di
mantenere viva la sua individualità e al contempo di familiarizzare con gli abitanti
del villaggio per accedere al castello; se il riconoscimento della qualifica di
agrimensore rappresenta l’avvenuta integrazione in seno alla comunità umana, il
rifiuto dell’aiuto esterno e l’isolamento che ne deriva sanciscono un’esclusione
definitiva. Quando K. si dichiara agrimensore, infatti, arriva subito una telefonata
che nonostante tutto lascia dubitare della sua qualifica29. A partire dalla prima
negazione di questo ruolo, incomincia per il protagonista una difesa estenuante
della propria individualità. Alla maniera dei romanzi precedenti, si tratta di un

28
A. CAROTENUTO, La chiamata del daimon, cit., p.149.
29
L’incontro tra il protagonista e l’autorità avviene all’insegna dello scontro. «K. tese
l’orecchio. Il Castello dunque l’aveva nominato agrimensore. Questo da una parte dimostrava
che al Castello sapevano di lui tutto il necessario, e, pesato il rapporto delle forze, accettavano la
lotta sorridendo. […] E se credevano di mantenerlo in uno stato di continua paura grazie a quel
riconoscimento della sua qualità di agrimensore […] s’ingannavano» F. KAFKA, Romanzi, cit.,
p.567.

90
fallimento radicale che testimonia l’impossibilità del rapporto, il prevalere della
solitudine al bisogno del legame.
«Ma la solitudine, come nota nella sua acuta analisi dell’universo kafkiano Aldo
Carotenuto, non è attorno allo scrittore praghese, ma in lui», scrive Maurizio
Canauz30. In una chiusura narcisistica che non gli consente di scandagliare i luoghi
più reconditi del suo mondo psichico, l’agrimensore impedisce alle figure
secondarie di aiutarlo e conseguentemente non arriva a riconoscere la propria
identità. Questa necessita del riconoscimento esterno per assicurarsi una
legittimazione, perché comprendere sé stessi significa anche sapersi rapportare agli
altri, essenziali per integrare la limitatezza di un uomo che pretende di risolvere da
solo il suo enigma esistenziale. Anche se la «domanda originaria», parafrasando
lo studioso, prima ancora di rappresentare la ricerca di una giustificazione
razionale all’esistenza, a causa di un abbandono precoce da ricondursi al periodo
infantile, equivale a una richiesta di amore, sia umano che femminile. «K. si
innamora a suo modo di Frieda, perché crede che questa relazione possa aprirgli le
porte del Castello», chiarisce Carotenuto, perché «egli ha intuito che l’amore è
l’unica chiave per squarciare la chiusura narcisistica», benché «l’incapacità di
abbandonarsi al sentimento, la sopravvalutazione della sua razionalità
determineranno il fallimento dell’agrimensore»31.
L’apertura alla sua dimensione inconscia viene resa impossibile dall’assenza
dell’amore e K., cercando di rispondere alla «chiamata» interiore, nient’altro
raggiungerà che il fallimento.

30
M.CANAUZ, Kafka e le donne. Amori e personaggi dell’universo kafkiano, cit., p.15.
31
A. CAROTENUTO, La chiamata del daimon, cit., p.196.

91
Bibliografia

1. Bibliografia primaria

1.1 Kafka:

F. KAFKA, Racconti, a cura di E. Pocar, Mondadori, Milano 1970.

F. KAFKA, Confessioni e Diari, a cura di E. Pocar, Mondadori, Milano 1972.

F. KAFKA, Lettere a Felice, a cura di E. Pocar, Mondadori, Milano 1972.

F. KAFKA, Il processo, traduzione a c. di P. Levi, Einaudi, Torino 1983.

F. KAFKA, Lettere, a cura di F. Masini, Mondadori, Milano 1988.

F. KAFKA, Aforismi di Zürau, a cura di R. Calasso, Adelphi, Milano 2004.

1.2 Altri testi:

A. DÖBLIN, Berlin Alexanderplatz, traduzione a c. di A. Spaini, Milano, Rizzoli


2008.

S. FREUD, Lettere 1873-1939, Bollati Boringhieri, Torino 1960.

R. MUSIL, L'uomo senza qualità, a c. di A. Frisé, trad. di A. Rho, Einaudi,


Torino 1974.

R.MUSIL, Il redentore, a c. di W. Fanta, trad. di A. Vigliani, Marsilio, Venezia


2013.

A. SCHNITZLER, Opere, a cura di G. Farese, Mondadori, Milano 1995.

92
2. Bibliografia critica

2.1 Studi su Kafka:

G. BAIONI, Kafka: Romanzo e parabola, Feltrinelli, Milano 1962.

G. BAIONI, Kafka: Letteratura ed ebraismo, Einaudi, Torino 1984.

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freudiano, Bompiani, Milano 1982.

C. BO, Nota su Kafka, «L’Orto» III, 5, 1934, pp. 6-9.

C. BO, Riflessioni critiche, Sansoni, Firenze 1953.

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R. CALASSO, K., Adelphi, Milano 2005.

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Firenze Atheneum, Firenze 2000.

R. CANTONI, Che cosa ha ‘veramente’ detto Kafka, Ubaldini, Roma 1970.

R. CANTONI, Franz Kafka e il disagio dell’uomo contemporaneo, Unicopli,


Milano 2000.

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F. FORTINI, Due note su Kafka, in Un giorno o l’altro, Quodlibet, Macerata


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2.2 Altri studi:

M. BERTÉ – M. FIORILLA, Il Trattatello in laude di Dante, Salerno, Roma


2014.

M. FOUCAULT, Che cos’è un autore?, in Scritti letterari, Feltrinelli, Milano


2004.

R. HOBSBAWN, Il secolo breve. 1914-1991, Rizzoli, Milano 2006.

F. JAMESON, L'inconscio politico: il testo narrativo come atto socialmente


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C. G. JUNG, Psicologia e poesia, Bollati Boringhieri, Torino 1979.

C. G. JUNG, Simboli della trasformazione, Bollati Boringhieri, Torino 2012.

95

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