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Thomas Bernhard, trittico dellesagerazione

- Massimiliano De Villa, 07.06.2020

Classici del Novecento. Esercizi di virtuosistica verbalizzazione nei racconti, di cui due inediti in
italiano, di Thomas Bernhard, tra una natura aspra e sovrana, e frasi sincrone ai passi: «Midland a
Stilfs», Adelphi

Per bocca di uno dei suoi personaggi, l’intramontabile Franz Joseph Murau di Estinzione, Thomas
Bernhard si definì un «artista dell’esagerazione», insieme abbreviando una maniera, compendiando
una poetica, giustificando il noto contegno che teneva in pubblico. La definizione gli era servita,
nell’ultimo scorcio della sua vita, per mettere avanti le mani, quasi un’excusatio non petita da esibire
a chiunque rilevasse i furori, i parossismi, le colate d’ira, il ritmo a martello del suo scrivere.

Già per suo conto, tuttavia, questa definizione agiva come metatesto, insieme una messinscena e
un’(auto)rappresentazione. Forse persino un atto mendace, perché Bernhard è sempre stato attore
di sé, dramatis persona e performer senza bisogno di nuovi media, consapevole, come ogni scrittore
e forse più ancora, dell’incancellabile sutura tra la verità e il suo opposto. Anche Midland a Stilfs,
in cui due racconti su tre sono inediti (nella traduzione bella e coinvolgente di Giovanna Agabio,
Adelphi, pp. 121, € 12,00) è un trittico dell’esagerazione, un ventaglio di prose apparse in tedesco
cinquant’anni fa, come tre carte in una mano che, nella brevità di cento pagine o poco più, distillano
un concentrato dell’arte sinfonica bernhardiana.

La storia che apre e intitola la raccolta gira, come su un cardine, intorno allo stesso luogo alpino,
teatro della solitudine d’alta quota di due fratelli, l’uno narratore, l’altro doppio e simmetrico
rispecchiamento, richiamato nel riflesso della voce che racconta, presente come un’ombra a
rafforzarne il ductus monologico. Nella località sudtirolese – un tempo fiorente, ora poco meno che
un anacronismo – i fratelli moltiplicano giornate uguali insieme a una sorella invalida e a un aiutante
mezzo schizofrenico che, con loro, manda avanti un’azienda agricola, buona solo a scandire il
passare dei giorni e teatro di un lavoro quotidiano che incurva le schiene e sfinisce senza senso e
prospettiva.

Autistica, battente discorsività


In parallelo, ma per moto contrario, l’abitazione ricevuta in eredità va in rovina, i pavimenti si
imbarcano, i mobili si sfarinano rosi dai topi, i quadri penzolano, l’odore di marcio è dilagante, gli
arredi stile Impero mai più sfiorati, come in un raggelato mausoleo. In questo requiem per una vita
ormai consunta, la natura è, come sempre in Bernhard, elementare e assoluta, sovrana senza
contrasto, aspra e malata come i suoi abitanti, fuori da ogni arcadica solarità. Contro questo sfondo,
in un presente autistico che ristagna senza progresso, i fratelli ragionano tutto il tempo di suicidio,
senza mai passare all’atto, e attendono l’arrivo, ciclico e rituale, di Midland, un inglese che una volta
l’anno fa visita alla tomba della sorella. Ombra nietzscheana di uno Zarathustra in sedicesimo,
potenziale deus ex machina cui i fratelli non concedono efficacia, forestiero che introduce possibili
riassetti e riformulazioni identitarie, l’inglese ha mille pensieri per la testa di cui non riesce a
mettere per iscritto una riga, è un brillante e infaticabile conversatore che ride di gusto e non teme
la vita, offrendo agli autoctoni un barlume di senso, subito estinto nell’acuta consapevolezza della
finzione.

A «Midland a Stilfs» segue il «Mantello di loden», virtuosistica verbalizzazione, fatta da un soggetto


plurale – forse ancora due fratelli – del racconto di un avvocato di Innsbruck che, a sua volta,
registra la proliferante istanza monologica di un cliente, proprietario di un negozio di articoli funebri,
il cui cappotto eponimo funziona da trigger del mulinello narrativo. Di nuovo cerchio dentro cerchio,
in una narrazione che scende a cascata e che porta l’occhio dall’inizio della pagina alla fine, in una
discorsività battente, che non smette di riavvolgersi su se stessa e da cui, una volta entrati, pare di
non poter uscire più.
Un filo sottile, ma tenace, conduce d’un fiato alla conclusione, annodando voce a voce, con una
lucidità che agghiaccia e che lascia il lettore frastornato a contemplare la geometria delle (proprie)
ossessioni.

Ultima tessera è «Sull’Ortles. Notizie da Gomagoi»: un’altra delirante topografia alpina e di nuovo
due fratelli, l’uno scienziato, esperto di strati atmosferici, acrobata l’altro. L’uno narratore, l’altro
voce riportata, nell’ininterrotto travaso dei turni di parola e di pensiero. La narrazione procede
letteralmente di pari passo all’ascensione verso una malga sotto il massiccio dell’Ortles, e i due
fratelli, salendo in un’aria sempre più rarefatta e con accelerazione costante, tornano con la mente
all’esercizio delle proprie professioni, fino allo sfinimento per una perfezione inattingibile, e
all’infanzia su cui incombono, totemiche e minacciose, le figure dei genitori.

Secondo lo stretto connubio del camminare e del pensare, collaudato in Thomas Bernhard ma non
solo – si pensi alla Passeggiata di Robert Walser, alla promenadologia estetica di Lucius Burckhardt
o, a monte, alle divagazioni del russoviano Sognatore solitario – le frasi sono sincrone ai passi, in una
sintassi che segue, per dichiarazione esplicita, il ritmo del respiro, unica legge che governa lo sforzo
fisico o intellettuale. La camminata sull’Ortles è sempre più svelta e porta anche il pensiero a
scorrere sempre più fitto, fino alla sommità, in un capogiro verbigerante che procede in saturazione
d’ossigeno e in accelerazione vorticosa verso esiti insieme apodittici e aporetici, dove la perfezione,
inseguita dai protagonisti sul filo di progetti titanici quanto estenuanti, coincide sempre con la follia
e con la morte.

Tra lingua e illusione


La dinamica, più o meno simbiotica, dei fratelli e il comune contemptus mundi – una condivisa
metafisica della bile che li porta all’isolamento in spazi angusti e claustrofobici, cui risponde una
dilatazione del pensiero fino ai limiti della ragione – è un topos bernhardiano già dal romanzo
d’esordio, Gelo, e dall’opera seconda Amras. Così come è un luogo classico della sua scrittura la
fascinazione per l’artista – che sia circense, acrobata o virtuoso del canto – e per il suo inesausto e
mai appagato anelito verso la perfezione tecnica. Nello sdoppiamento delle voci e nella rifrazione dei
percorsi narrativi, lo stesso Bernhard è un funambolo, sempre in bilico sulla corda tesa tra ironia e
serietà, tra autorevolezza e auto-disconoscimento, tra il grano di sincerità e la quota di inganno insiti
nella lingua.

Erede, insieme a Ingeborg Bachmann, di quella linea di pensiero austriaca che ha stazioni decisive
nella scepsi linguistica di Hofmannsthal e nella filosofia di fine secolo – da Ernst Mach a Fritz
Mauthner al Wiener Kreis fino al primo Wittgenstein – Bernhard ragiona sul linguaggio e sulla sua
ineliminabile finzione, sul carattere prospettico e prismatico della verità, sul nesso inscindibile tra
lingua e illusione, sviluppando premesse già poste, fuori dall’Austria, dal trattatello nietzscheano Su
verità e menzogna in senso extramorale. Erede ‘ultimo’ e definitivo, senza riserve e senza riguardo,
che della lingua, e delle sue turbinose giravolte, fa strumento corrosivo per smascherare la realtà.

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