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POESIA CONTEMPORANEA DAL 1980 A OGGI

Andrea Afribo
Riassunto

1. Valerio Magrelli

Nasce a Roma nel 1957. È poeta, studioso e traduttore dal francese. Si occupa anche di editoria. Nel
2002 gli è stato conferito il Premio Feltrinelli per la poesia italiana.
La prima raccolta poetica è Ora serrata retinae1, i cui modelli sono gli autori francesi quali
Montaigne, Proust e soprattutto Valéry. La particolare congiuntura critica di letteratura, scienza e
filosofia consente di avvicinarlo alla narrativa dell’ultimo Calvino o di Daniele Del Giudice. La
raccolta si presenta come un diario in costante cortocircuito tra motivi fisici e momenti di vita
quotidiana. È caratterizzata da elevato virtuosismo figurativo, stilistico e retorico.
 Grande ricorso alle metafore, anche resuscitando quelle ormai spente al fine di testarne gli
effetti più sottili e paradossali;
 Paradossi (adynata)
 Analogia  “similitudine continuata”2: stabilita un’associazione (in modo esplicito),
Magrelli ne sviluppa il tema sino in fondo con rigore sillogistico, senza stacchi o cedimenti a
nuove tentazioni figurali. Parallelo con la pittura surrealista, concettuale e straniante di
Magritte (Le faux miroir).  cfr. Marezzo di Montale (p. 62 appunti).
Lingua e stile sono limpidi e cristallini. Monolinguismo in equilibrio tra lingue speciali (alleggerite
dei loro aspetti più specialistici e gergali) e lingua comune (innalzata: viene usato il sinonimo meno
triviale3; anteposizione dell’aggettivo al nome; inversioni e chiasmi).
La sintassi è semplice o a subordinazione leggera.
La metrica è libera ma risolta nelle sue regole interne di uniformità e fluidità. Sono tutte poesie
monostrofiche.
Ora serrata retinae viene presa come segnale di inizio di una nuova epica poetica, per a doppia
identità del suo messaggio, insieme di crisi e di soluzione della stessa.
La seconda raccolta si intitola Nature e venature. Mostra l’altra faccia di Ora serrata
retinae mettendo a nudo le ipocondrie dell’uomo d’ordine che insieme teme e ama.
Irrompe una “lingua ctonia” e “l’orrida treccia di parole”: enumerazione caotica di oggetti disparati
e cumulo ridondante di aggettivi e predicati.
Metrica più autonoma e discontinua, i testi iniziano a svilupparsi su più strofe.
 Aumento degli enjambements e delle sequenze allitteranti.
 Piacere per il calligramma e le figure etimologiche paradossali o di rovesciamento
(antanaclasi).
 La similitudine continuata si spezza in più comparanti per un unico comparato e, talvolta,
l’analogia può essere implicita.
Con questa raccolta vuole diminuire la dimensione di levitas e controllo che proveniva dalla sua
parte scientifico-razionale.
La terza raccolta è Esercizi di tiptologia4, che prosegue e radicalizza i temi della
disgregazione. Subentra il motivo del viaggio, proprio o concettuale che sia. È un viaggio sia di
catabasi (scavo in un sottosuolo torbido e fangoso) sia di risalita finale. Vuole significare che il
positivo della poesia può prodursi soltanto nell’incontro con il negativo.

1
“Linea di confine della percettività”
2
Cfr. Montale, Marezzo (p. 61 appunti)
3
Es: cogliere e non prendere, colmare e non riempire, ecc.
4
Denominazione delle presunte comunicazioni ottenute mediante i colpi battuti dalle gambe di un tavolino nelle
pratiche medianico-spiritiche.
1
Mette da parte il modello astratto di Valéry per recuperare una tradizione poetica più socialmente
impegnata (Montale).
Novità: il libro accoglie, a parte le poesie, anche prose di memoria e saggistiche, traduzioni o
addirittura materiali spuri  opera non come bella copia ma come serie di approssimazioni.
La lingua è quella fredda e tecnica di un saggista o di uno scienziato. Sono presenti tecnicismi,
parole difficili e dal significato inquietante, messe di suffissi, forestierismi notevoli e toponimi
macabri e “infernali” (sono tutte caratteristiche dell’espressionismo).
Presenza di allitterazioni, omoteleuti, rime.
Sintassi ingorgata di nomi, aggettivi e immagini analogiche, oltre che da parentesi e incisi.
Questa raccolta rappresenta il punto più alto della produzione di Magrelli, tanto da essere divenuta
oggetto di ispirazione per la più giovane poesia contemporanea.
Per ultima ricordiamo Didascalia per la lettura di un giornale, meno convincente e incisiva.

2. Patrizia Valduga

Nasce a Castelfranco Veneto nel 1953, ed è stata la compagna del critico Giovanni Raboni. Oltre
alle raccolte poetiche, ricordiamo la sua attività di traduttrice dall’inglese e dal francese (John
Donne, Valéry, Shakespeare, ecc). Ha inoltre diretto la prima annata del mensile “Poesia”
dell’editore Crocetti.
La lingua della Valduga è cercata agli estremi alti e bassi del sistema: lessico sublime
letterario che convive con la bassezza del comico, del pornografico e del turpiloquio. La sua poesia
è anche plurilingue, ma mantiene sempre un certo equilibrio senza mai abbandonarsi al caos.
Si mantiene tradizionale nella metrica (endecasillabi, ottonari, settenari) e nelle forme
(sonetti, sestine, madrigali, ottave, terzine dantesche, ecc).
Il suo programma poetico prevedeva proprio la riscrittura delle antiche forme chiuse: per questo
motivo diventa un caso letterario  vedi la raccolta Medicamenta.
Dal punto di vista tematico, vi è un ossessivo insistere sul binomio amore e morte. I topoi
cortesi e petrarchisti dell’amore doloroso e insaziabile sono rivisitati da una femminilità ferita, alla
luce della lezione del Marchese de Sade. Il discorso amoroso è così segnato alla radice dai temi
dell’identità violata e stuprata, della malattia, del disfacimento del corpo.
Ne emerge un io egocentrico e narciso, fragile e seduttivo allo stesso tempo. Immagine del poeta
sradicato e offeso: rappresenta se stessa come una bambina indifesa bisognosa di essere amata.
Le fonti letterarie della Valduga sono da ricercarsi nella cosiddetta letteratura minore
(petrarchisti/e minori, minori del Seicento e del secondo Ottocento, …).
Per quanto riguarda la sua attività di traduttrice, risulta tanto riuscita quanto criticata:
tendenza a rispettare le forme metriche dell’autore tradotto ma a rendere in maniera troppo
soggettiva il lessico e la traduzione in genere. Si cimenta anche nella versione da un autore: prende i
monologhi delle protagoniste femminili dalla Fedra di Racine o dall’Erodiade di Mallarmè e li
rende più “valdughiani”.
La scelta del monologo viene attuata anche per le sue produzioni: Donna di dolori e Corsia degli
incurabili sono dei veri e propri monologhi rappresentati in teatro. Anche negli altri libri (Requiem,
Cento quartine, Seconda centuria) sono eccezioni e solo apparenti i casi di dialogo.
La scelta del modello teatrale colloca la Valduga in una linea significativa della poesia
femminile contemporanea, caratterizzata tra le altre cose da un trattamento particolare dei tempi e
dei luoghi5, molto diverso dalla tradizione montaliana e postmontaliana. Per quest’ultima è
fondamentale un montaggio complesso di presente, passato e futuro, mentre nella Valduga domina
una scena fissa e irreale. Oltre all’io lirico (e al suo letto di malato o di amante) non c’è altro, è un
teatro senza oggetti. È, inoltre, un teatro di parola: il suo linguaggio è sempre straordinario e intriso
di sensualità e di emozione. Ritroviamo dantismi, petrarchismi, barocchismi, espressionismi,
5
Tendenza a rispettare le unità di tempo, luogo e azione.
2
scapigliature, lingua della mistica. Ruolo primario agli arcaismi poetici 6, specialmente in
Medicamenta e La tentazione. Numerosi i calchi e le citazioni da Dante, Petrarca, ecc.
Tutto è brutalizzato e abbassato dal turpiloquio e dal fronte della lingua quotidiana, spesso
unita alla presenza di lessico tecnico-scientifico. Come in tutti gli espressionisti vi è l’uso delle
tradizionali formazioni parasintetiche. Da notare anche l’utilizzo frequente degli imperativi, modo
abituale della poetessa.
Esterno a questo quadro è Requiem, un poemetto narrativo in ottave. Esprime la voce di
dolore di una figlia davanti al padre morente, che si esprime in una scrittura di esasperato
crepuscolarismo. Quest’opera mostra il desiderio di candore e tenerezza, soffocato nel resto della
produzione dalla dimensione pornografica.
La poesia valdughiana è dunque di esagerazione e di estremo, che si esaurisce nell’eccesso
formale. Ci sono risultati notevoli, ma nel suo insieme lascia al lettore disincantato un senso di
saturazione o la voglia di saperne di più sull’eroina delle poesie (non a caso poco sviluppata è la
sintassi, la sonda migliore per l’esplorazione dell’io). Nel suo complesso, la poesia della Valduga
risulta essere la copertura di un vuoto che non si vuole affrontare ma solo esibire. Vi è il rischio che
tale forma tragica di poesia diventi via via una formula automatica e persino commerciale.

3. Gabriele Frasca

Gabriele Frasca è nato a Napoli nel ’57. Insegna letterature comparate all’università per stranieri di
Siena. Scrive non solo poesie, ma anche romanzi, testi teatrali e radiofonici, saggi e traduzioni.
È considerato rappresentante della Neoavanguardia che intorno agli anni ’80 muoveva i
primi passi a Genova e a Napoli. Non firma manifesti programmatici (come per esempio l’atto di
fondazione del Gruppo ’93), ma è attento ad una serie di politiche culturali che si riflettono sulla sua
poesia. Va ricordata la sua lotta contro una poesia intimistica, neoromantica e neormetica che si era
di recente materializzata nella raccolta La parola innamorata del ’78 (anche se può sembrare una
forzatura ideologica o un appiattimento del panorama poetico italiano). La vicinanza di Frasca alla
vecchia avanguardia ha trovato prese di distanza. Attraverso Frasca possiamo ritrovare poeti della
vecchia avanguardia considerabili “santi declassati” o incompresi (vedi per esempio le prose di
Pizzuto, di D’Arrigo o le poesie di Cacciatore); particolarmente vive sono le influenze del Barocco
del ‘600 e del concettismo, soprattutto nella prima sezione di Rame o nella serie Orologi. Forte è il
suo interesse per la musica pop e commerciale, sintomo di una poesia che si vuole immergere del
tutto nel clima dei mass-media. Forti sono le influenze di Palazzeschi (soprattutto la scansione
metrica in Trismi o i ritmi da filastrocca applicati a storie di violenza ed emarginazione), ma anche
di Beckett.
Apre la pista a forme metriche chiuse, la sestina è complicata oltremisura. Si rafforza il
sistema di variazione e ripetizione e sono al massimo livello i meccanismi fonici e retorici (vedi i
titoli dei libri e delle sezioni). Impressionante è la serie di rime perfette o accuratamente imperfette,
di serie ritmiche allitteranti o di rime ipermetre e frante: tutto ciò non si limita a fine verso, ma
invade tutta la superfice del testo. Ogni testo sembra procedere per espansione di un nucleo
originario e un singolo artificio più prominente di altri può diventare la tesi di un testo o di una serie
di testi con il rischio di fare la poesia un esercizio di stile. Questo corrisponde alla volontà di
eversione dai modelli tradizionali.
Tra i temi vediamo quello barocco del tempo e quello avanguardistico del corpo: i due temi
si congiungono fino a creare un clima di dissipazione e di morte, di erosione e di niente. Sono da
notare le figure del gorgo e del risucchio e i lemmi di disfacimento (cocci, frantumi, macelli,
viscere…), nonché i sintagmi avverbiali di matrice dantesca e i verbi che indicano trauma, violenza
a e lenta corrosione. La pianificazione sintattica è ridotta al minimo. L’articolazione del testo è ricca
di tautologie, ripetizioni e correzioni di frasette accostate paratatticamente e questo porta al fatto
6
Apocopi, accentazioni desuete, lessico d’epoca, ecc
3
che il suono è indistinto e indifferente. Il plurilinguismo rispecchia lo spaesamento dell’io. In questa
poesia i registri linguistici sono disparati: c’è l’aulico, qualche accenno di turpiloquio; il
manierismo ritmico-formale e il fondo di una lingua medio-quotidiana danno un senso di
naturalezza e uniformità, almeno apparente, al testo. I pastiches della vecchia neoavanguardia sono
lontani. Tramite Beckett (nuovamente) si intravedono episodi di glossolalia.
C’è chi ama Frasca incondizionatamente, ritenendolo perfetto e enfatizzando le sue valenze
politiche; chi invece si rifiuta di leggerlo; chi ne ammira la cultura, l’intelligenza e il virtuosismo
tecnico, ma fino a “stancarsene”.

4. Fabio Pusterla

Fabio Pusterla (Mendrisio, Canton Ticino 1957) si è laureato in Lettere a Pavia e vive e insegna a
Lugano. Oltre a scrivere poesie è anche un traduttore del poeta svizzero-francese Jaccottet. Tra i
suoi lavori da studioso c’è un’antologia in collaborazione con Stella e Repossi, l’edizione e il
commento delle opere narrative del napoletano Imbriani e l’antologia di poesia francese
contemporanea. È stato antologizzato più volte tra la fine degli anni ’90 e l’inizio 2000.
Sin dagli esordi (’85) è lontano dalla linea dominante della poesia italiana di allora (Cucchi, De
Angelis, Viviani e affini). La sua è una diversità stilistica, culturale e ideologica. Lui non si è mai
occupato di Cucchi per esempio e nemmeno Cucchi si occupa di lui, tanto da non inserirlo
nell’antologia da lui curata con Giovanardi. Pusterla è più legato ai “classici” come Fortini, Sereni,
Neri, Orelli e il debito maggiore va a Montale, ma anche a Benn (nominato nel libro di esordio). Tra
le grandi tematiche della sua poesia notiamo il dolore del mondo, la denuncia dell’eterno misfatto
della Storia e una natura anti-idilliaca, spazzata da venti e temporali, pietrosa e glaciale, turbata da
smorfie antropomorfiche. Centrale è il clima dell’erosione e di scenari sporcati. La sua è una lingua
spuria, tra poesia e prosa, non volta ad un radicale espressionismo. Tra ogni suo libro c’è una fitta
trama intertestuale e una forte volontà di dichiarare a chiare lettere le sue fonti nei titoli, nelle
citazioni o nel rifacimento. Temi attuali sono messi in confronto con i suoi “classici”: per esempio il
tema della guerra del Golfo è affrontato discutendo a distanza con il Fortini. Il carattere di obbligata
quotidianità della sua poesia è dimostrata anche dal fatto che spesso sono indicate nelle poesie date,
luoghi e persone; molti sono i titoli-dedica e molti quelli che fingono il rapporto epistolare.
1. Il libro d’esordio (Concessione all’inverno) è quello più disorganico: c’è la presenza della
natura e dell’erosione, ma anche dell’insensatezza del reale e del conseguente stato di
spaesamento dell’IO; ci sono gli eventi quotidiani, le caricature umane, i testi metapoetici, i
motivi dell’esilio, del guasto, del complotto. Senza toccare l’avanguardia, la regola è
l’irregolarità, la loquacità, il mistilinguismo e il cozzo volontario dei registri. La metrica che
ne deriva è informale, o meglio inesistente. Le strofe e i versi sono sfrangiati e privi di
identità riconoscibile. Non ci sono rime, ma enjambements. Per rappresentare la società
contemporanea si usa l’enumerazione caotica. Le parole segnaletiche possono essere:
 Catrame;
 “Benzinose essenze”;
 Tecnicismi del geologico e del chimico;
 Lessico espressionista dello “sfasciume” (vetri rotti, ferraglia ect.) con indicazioni della
marca (Skoda, Lada, Trabant ect.).
Molti sono i termini astratti (funzionale, dimostrabile, prevedibile…) e una verbosità tipica del
linguaggio presudointellettuale e giornalistico, del burocratese e del “parlato di plastica”. Il modello
di riferimento della sua raccolta Concessione all’inverno è il Montale di Satura e delle raccolte che
seguono.

4
2. Bocksten non c’è pluralità, ma il tema unico di un uomo del XIV secolo picchiato ed ucciso,
le cui spoglie sono state ritrovate nel ’36 in una torbiera nella zona di Bocksten-Moor in
Scandinavia. Le poesie sono strofette-fotogrammi e il suo ruolo è uno sguardo dentro
l’”enigma” indecifrabile della Storia o uno scavo sotto al putridume verso la ricerca
dell’uomo ucciso (simbolo di ogni vittima anonima e segno di una resistenza possibile e
dunque di un’utopia). La lingua si stacca dal soggetto. Ancora viva è l’influenza di Montale,
ma quello di Occasioni e Bufera, quello asciuttissimo e fulminante dei mottetti. C’è quindi
la brevitas epigrammatica, lo stile sostantivo, gli elenchi più essenziali e telegrafici e i tagli
con stacchi asindetici secondo una sintassi presentativa come in un referto. Le poesie di
questo libro sono più classiche, il lessico è più controllato e filtrato, meno compromesso con
una realtà determinata, non si recupera l’endecasillabo, ma si preferisce la strofa breve.
3. Cose senza storia, Pietra sangue, Folla sommersa affrontano i temi già svolti, ma li
approfondiscono sviluppandoli su più tavoli. Riattualizza la Ginestra leopardiana (o
l’Anguilla montaliana), icona di resistenza nella devastazione e di speranza negativa, che si
distrae in un catalogo di figure vegetali e animali, le più piccole e indifese, le più perfette e
inconsapevoli. C’è Montale nella nomenclatura faunistica precisa e c’è anche Orelli, ma
ancora più netta è l’impronta della poesia di Fortini. Pusterla si fa portavoce di una folla
sommersa dalle ingiustizie umane più o meno recenti (nazismo, suicidi, vittime del conflitto
israeliano-palestinese, del lavoro nero e minorile, i nuovi immigrati clandestini). Fa parlare
anche gli altri direttamente in prima persona in senso politico (vedi Orelli). Un altro
argomento fondamentale sono i bambini e il correlato “tema del piccolo”; c’è anche una
sorta di pedagogia rovesciata: è il grande che deve imparare, farsi guidare, rimproverare ed
accusare. I modi di negazione e conferma sono qui più frequenti e perentori, spesso messi in
posizione incipitaria per dare la chiave al testo. Rilevanti sono anche i modi imperativi ed
esortativi, i tempi futuri e iussivi, nonché verbi chiave come creare, scavare, custodire.

5. Umberto Fiori
Umberto Fiori nasce nel ’49 a Sarzana. Oltre a essere scrittore, ha fatto parte anche come cantante e
autore degli Stormy Six, uno dei gruppi storici del rock italiano e particolarmente seguiti nell’area
della sinistra giovanile. È autore anche di saggi e interventi critici sulla musica e sulla letteratura
(tra cui un’antologia e sulla poesia italiana del Novecento e una scelta commentata delle poesie di
Sbarbaro). È stato antologizzato.
L’avvio di Fiori poeta segue quello che lo aveva visto cantante e autore degli Stormy Six. La sua
poesia è morale e sociale, non intimistica.
I temi che si ritrovano nelle sue poesie sono la città come luogo fisso (case, marciapiedi
affollati, automobili in coda nelle grigie tangenziali, conversazioni annoiate, incontri e scontri
occasionali nelle strade, discussioni e risse – quest’ultime secondo gli esempi di Raboni e Sereni).
La lingua di Fiori è la lingua comune, prosastica e immune dagli artifici propri del fare poetico:
lo si vede nel lessico e nell’impaginazione complessiva, senza rime o sottolineature di tipo fonico. Il
suo principio è l’economia, che può declinarsi in brevità e densità ritmica e concettuale. I suoi testi
non vanno oltre il confine di pagina e si segmentano in strofe medio-brevi (tra le 7 e le 11 sillabe).
La sua sintassi è stenografica e asciuttamente presentativa. L’aggettivazione è scarsa o assente;
e se c’è è poco ricercata e mai decorativa (eventualmente sostituita da modalità deittiche o
tautologiche). Sono tutte scelte di minimalismo formale, che puntano alla ricerca di forme brevi e
ad una verbalizzazione senza scarti che vuole arrivare all’essenza delle cose. Le indicazioni di
tempo e di luogo si limitano a forme meccaniche, generiche e discorsive (un giorno, quando…).

5
Frequentissimo è il ricorso ai deittici. Il lettore, quindi, non troverà un luogo o una data precisa
leggendo questa poesia; i luoghi e i tempi, privi di spessore, possono risultare intercambiabili.
Tutto questo è diverso rispetto alla grande poesia del ‘900, che si fonda sul vissuto individuale o
collettivo con precisi riferimenti onomastici o topografici. È da notare la diversità tra l’”abitudine”
(con i meccanismi di devitalizzazione e svuotamento del senso) e la rottura di tale consuetudine,
“all’improvviso” e come entrambe risultino, nella sua poesia, paradossali; questo fatto ha i tratti del
“miracolo” (proprio di Montale e Sbarbaro). Ne deriva l’uso di un lessico preciso e si singolarità
retoriche e di pensiero:
 L’uso dell’aggettivo nuovo per qualificare il consueto e il ripetuto;
 Il verbo ricordare per un presente mai scaduto, la coincidenza di futuro e di presente;
 Modi al condizionale o all’indicativo.
L’eccezionale è dato da imprevisti normalissimi (antifurto, telefoni che suonano, un autobus che si
svuota, sentir chiamare il proprio nome tra la folla…) e la riuscita autentica viene determinata da
opposizioni (l’amicizia nasce da una rissa, il chiarimento dall’equivoco…). Per questa strada Fiori
tocca l’assurdo e il comico. I modi tipici della barzelletta si notano nel suo indicare i soggetti con
“uno” o “due” e l’imbarazzo, lo scontro o il litigio sono propri del genere comico. Sono da notare
anche i nomi alterati e le numerose similitudini.
La poesia di Fiori insegna che è possibile prendere in contropiede comportamenti che si
sono cristallizzati in doxe e dunque in regole del vivere sociale. Il carattere primario di questa
poesia è la tensione morale e la conseguente vocazione didattica. Il punto fondamentale è comunque
la scelta del parlato; a differenza di Frasca usa la focalizzazione: dislocazioni, scissioni di frasi,
deissi.
A Montale preferisce Sbarbaro e Saba, per i suoi tratti troppo idiosincratici ed oscuri.

6. Stefano Dal Bianco

Stefano Dal Bianco (Padova, 1961) è un poeta. Con Benedetti e Marchiori ha fondato e diretto la
rivista padovana di poesia contemporanea Scarto minimo, uscita per 6 numeri tra il 1986 e il 1989.
È stato redattore del mensile Poesia. È studioso e critico di lavori di taglio metrico-stilistico (da
ricordare i suoi lavori sulla metrica di Petrarca e di Zanzotto). È stato antologizzato da Cucchi,
Giovanardi.
1. La bella mano
La prima raccolta di Bianco non è lontana dal clima della poesia degli autori degli anni ’60.
Il motivo centrale della morte della donna amata (Nelly della dedica) porta alla confusione
emotiva e mentale del poeta e alla riattivazione, in forma straniata, del canzoniere
petrarchesco. Le poesie sono brevissime (dai due ai sei versi) e costituiscono un dialogo con
la donna assente nella vana ricerca di un contatto. I modi sono quelli della preghiera e della
supplica, modi imperativi, ci sono espressioni del desiderio e dell’illusoria possibilità. È un
campo di tensioni compresso e annullato dai motivi opposti della stasi, della separazione e
della morte. L’dea di morte attacca gli anelli di congiunzione delle singole proposizioni. Il
discorso spesso procede in frasi tra loro incongrue e riconducibili con difficoltà a una
globale unità di senso. Le pulsioni formali di questa poesia vanno dall’uso emotivo e pazzo
della punteggiatura, al cambio dissonante tra frasi nominali e verbali, al lessico che si mostra
paralizzato tra contingenza del vissuto e dimensione a-temporale (tra le parole del corpo e
riferenti quotidiani e quelle universali). C’è un buon equilibrio tra le macerie esistenziali e il
generale equilibrio formale: il lessico pulito, “asettico”, metrica libera ma mai fuori dalle
righe, figuralità economica e quasi spartana; tutto quindi volto al “risparmio” classico o allo
“scarto minimo”.
2. Ritorno a Planaval anche se con una continuità di fondo, si nota un distacco netto dalle
prime prove. Si tenta una comunicazione diretta autore-lettore nel segno di una discorsività
6
aperta alle ragioni del dialogo e della condivisione. È frequente il noi sociativo, sono
numerosi e fraterni gli appelli al lettore, i segnali di interlocuzione e di invito alla
collaborazione. Il mutamento di prospettiva interessa il genere stesso del libro, che si
presenta come un diario, ma in versione particolare. Si parla di fatti quotidiani, non si
omettono riferimenti anche precisi a persone e luoghi familiari, né si nasconde al lettore che
i luoghi finali della raccolta (la montagna di Planaval e la Valle d’Aosta) costituiscono il
punto d’arrivo ideale di un itinerario di ricostituzione dell’IO. Ma gli schemi classici
dell’intimo e dell’autobiografico non sempre sono rispettati. Ci sono continue formule
temporali indeterminate e periodiche, frequenti nessi (come se, come quando ect.). La vista
domina il libro (non c’è quindi possesso) e sta ad indicare un nuovo rapporto del soggetto
con il mondo. La condizione del soggetto (è sognata, dettata da imperativi, infiniti iussivi,
infiniti a sfumatura ottativa) è quella di mettere da parte le ragioni del solipsismo e di
sospendere il proprio giudizio sul mondo. Le cose sono osservate nella loro sfuggente
diversità. L’impressione finale è quella di un diffuso sentimento di “familiarità” ed
“amicizia”. Tra i suoi modelli – campioni massimi dell’osservazione – Stevens, Renè Char,
Amont. Il registro linguistico è medio-quotidiano e familiare. Le parole sono quelle delle
cose e della natura, quelle dell’abbandono sentimentale (gioia e pace, fiore, amore,
cuore…). Gli interventi del poeta sono sempre molto parchi, limitati a qualche prevedibile
diminutivo a sfumatura affettiva (vecchietta…) o a un’aggettivazione tanto scarsa quanto
discreta ed elementare. La metafora è assente, ma non mancano le similitudini. Non è
sintetico e analitico: accanto ad una paratassi semplice, si trova una sintassi periodale ad
arcate ampie (un periodo che cresce lentamente su sé stesso, fitto di subordinate prolettiche
ed incisi. Ci sono iterazioni di parole-chiave e soprattutto degli elementi congiuntivi e
subordinati. Il flusso del discorso si muove tra interruzioni e ripartenze, tra zone di
scorrevolezza e altre in cui rallenta e si complica. Mengaldo lo definisce un effetto di
“chiusura e distensione”. Sono presenti codici debolmente settentrionali.

7. Antonella Anedda

Nasce a Roma nel 1958. Oltre ad essere una poetessa si distingue per l’attività di tradizione di
poesie e prose del poeta svizzero Philippe Jaccottet.
La sua opera si cala nel solco di quella poesia tragica che ha come rappresentante Milo De Angelis.
Il retroscena culturale straniero7 dell’autrice è in accordo con i gusti di De Angelis e dei letterati
formatisi attorno alla rivista “Niebo”.
Cosa sono gli anni è una sorta di scritto saggistico in cui si intrecciano riflessione e scrittura
poetica. Da questo distenderanno le riscritture poetiche (da altri autori) di Nomi distanti e le
riflessioni metalinguistiche di Notti di pace occidentale.
Il tema fondamentale della poesia è il tragico, il rapporto tra l’uomo e il proprio destino, tra
l’individuo e la Storia. Quest’ultima è vista come qualcosa di annientante, un unico orrore senza
fine. L’uomo è visto come una vittima ma comunque in grado di rovesciare questo suo stato
nell’utopia di un domani diverso (è da collegare allo status della Ginestra leopardiana  cfr.
Pusterla). Su questa linea sono i numerosi ossimori, che vanno sempre letti in positivo.
Non ci sono riferimenti cronologici e spaziali precisi, il tempo e il luogo si identificano solo
grazie a note extratestuali. Luoghi tipici della poesia della Anedda sono l’isola della Maddalena e
l’ospedale di San Camillo a Roma, emblemi del destino di marginalità e minimale speranza
dell’uomo.
7
Celan, Char, Jaccottet, Amelia Rosselli, Gertrud Kolmar, ecc ma soprattutto la poesia russa femminile, in particolare
Marina Cvetaeva.
7
Si accumulano immagini di crollo e distruzione e aumentano i vocaboli espressionistici nelle
poesie che parlano delle guerre recenti (del Golfo, del Kosovo, … argomenti comuni anche a
Pusterla).
L’ambientazione è la campagna sarda, una terra desolata, aspra e petrosa, dove i rari
insediamenti di uomini hanno i tratti di una comunità primitiva.
Tutto ciò conferma l’appartenenza a un ambiente ermetico “orfico-sapienziale”, secondo una
definizione di Mengaldo.
Si nota sin dal libro d’esordio la natura frammentata del raccontare aneddiano: è una
scrittura che si finge scaraventata su un fronte di guerra permanente, a fianco delle sue vittime. La
sua catena “narrativa” è fatta di singoli anelli. Frequenti le focalizzazioni su dettagli marginali o
sinonimici.
Il montaggio poetico è “a scatti”: abbiamo bruschi passaggi sintattici di frasi verbali e
nominali e, dal punto di vista metrico, rovesciamenti tra misure lunghissime e brevissime (es:
coesistenza di strofe di 16 o più versi con altre di 2/3 versi appena).
Per quanto riguarda la lingua, una parte consistente del vocabolario della Anedda consiste in
parole usuali e concrete. Tende però a rendere assoluto questo lessico rasoterra, trasfigurandolo nei
termini di una lingua enigmatica, raffinata e persino aristocratica. Procedimenti tipici:
o Omissione dell’articolo davanti al nome
o Aggettivazione inusitata e preziosa
o Aggettivo anteposto al sostantivo
o Fusione di epiteti
o Sintagmi tipicamente impressionisti (es: il silenzio dei platani)
o Costrutti sintattici sintetici o ellittici.
Il rischio di questi stilemi è di ricadere nel manierismo o nel preziosismo gratuito, come
accade nel libro più recente della poetessa, Catalogo della gioia. Ne vengono dati giudizi negativi
da Manacorda e Fiori. Oltre a cadere in immagini banali e facili esotismi, è la stessa natura del
messaggio ideologico a rischiare di diventare altro. Il grande tema della marginalità diventa banale
e la precedente asprezza dei luoghi dimenticati dalla storia sembra rovesciarsi in immagini da
cartolina.

8. Mario Benedetti

Nasce a Udine nel 1955. Oltre all’attività di poeta, ha fondato con Stefano dal Bianco e Fernando
Marchiori la rivista padovana di poesia contemporanea “Scarto minimo”.
La sua prima peculiarità è quella di lavorare su un numero limitato di testi e temi: ogni
nuovo libro è fatto crescere su materiale precedente, in uno sviluppo mai veramente nuovo. Il
recente Umana gloria (2004), ad esempio, contiene al suo interno una produzione ventennale.
A partire da I secoli della primavera (1992) cambiano i principi linguistici e formali che
avevano caratterizzato le raccolte precedenti, troppo legate alla letterarietà e ai modi lirico-tragici di
Milo De Angelis (cfr. Anedda). Spariscono il preziosismo lessicale, le inusitate formazioni verbali,
gli inserti plurilinguistici. La materia, infatti, continua ad essere povera e ordinaria.
Umana gloria culmina nel ferreo monolinguismo, ma permane una fedeltà al lirico e a certi modi
distintivi, quali i le frequenti metafore e analogie, i tratti onirici e i buchi di senso.
La morbosa fedeltà al già fatto porta a una compresenza vischiosa di passato e presente,
all’origine delle poesie di Umana gloria. Importante la memoria della terra natale, che si
sovrappone alla nuova geografia del poeta adulto (Milano, Torino, Francia) e anche gli affetti di un
tempo tendono a mescolarsi con quelli attuali. È importante anche il motivo del museo o del
reliquiario privato.

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Nei tempi verbali ricorre frequentemente l’imperfetto, la trama è fitta di leitmotiv e le forme
del tipo “come una volta”, “per sempre, per sempre”, ecc.
Prevalenza di momenti statici, lirico-descrittivi e di riflessione su quelli dinamici e narrativi.
La frequenza di verbi come “vedere” e “pensare” dimostrano che per Benedetti il viaggio a ritroso
nelle memorie familiari sia strettamente correlato alla problematica percezione di sè e della realtà.
Quest’ultima non viene mai completamente vissuta o direttamente osservata: di qui i toni di stupore,
gli interrogativi e gli esclamativi del tutto infantili, e infantile e anche il contrasto senza stadi
intermedi di pianto e gioia, meraviglia e angoscia.
Il reale si riflette frequentemente nel sogno, nella fiaba, nella letteratura e nell’arte.
Il linguaggio di Benedetti è una sintesi tra rasoterra/prosaico e lirico. Siamo di fronte a un italiano
spesso fuori standard, con tratti anche dialettali: il precedente più vicino può essere individuato
nella lingua della narrativa (più che della poesia) di Cesare Pavese. La sintassi è impacciata, lunga e
lenta. Quando parla in prima persona può arrivare anche a forme di flusso di coscienza.
Utilizzo di figure chiave della lirica moderna, come le metonimie e le sineddochi, le
metafore e le analogie.

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