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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRIESTE
Facoltà di Lettere e Filosofia
CdL. in Filosofia

TESI IN STORIA DELLA FILOSOFIA CONTEMPORANEA

IL TEATRO ATTRAVERSO LA

FILOSOFIA DI GILLES DELEUZE

LAUREANDA : RELATORE :
Teresa Sadar PierAldo ROVATTI
Correlatore:
Fabio POLIDORI
INTRODUZIONE

Lo studio della filosofia e una pratica artistica come quella teatrale


sono due realtà meno distanti l’una dall’altra di quanto si potrebbe pensare,
considerate le numerose questioni con le quali entrambe le discipline si
confrontano e che le accomunano. Uno dei possibili esempi di tale
reciproca influenza è dato dalla problematicità della situazione di
sdoppiamento vissuta dall'attore, ovvero da colui che inscena ed insieme si
interroga ad ogni rappresentazione sulla propria soggettività, sulla propria
condizione esistenziale in rapporto al personaggio interpretato, sul rapporto
con l’altro, e questo a prescindere dal testo e da tutti gli altri elementi che
compongono per necessità o per tradizione il quadro della rappresentazione
classica. La stessa nozione di teatro classico, messa a confronto con le
innovazioni apportate dal teatro contemporaneo, pone di fronte ai profondi
rivolgimenti che si sono verificati nella struttura e nel significato da sempre
attribuito all’evento scenico: e d’altro canto, come sottolinea Deleuze, tali
mutamenti sono derivati, o sono stati contemporanei, ai mutamenti avvenuti
in ambito filosofico.
Ma è un’affermazione in particolare dello stesso autore a suggerire
l’importanza di un’analisi delle reciproche influenze che coinvolgono le due
discipline, affermazione fatta al termine dei due volumi che compendiano le
sue riflessioni filosofiche sull’arte cinematografica: “Eppure la teoria
filosofica è una pratica, tanto quanto il suo oggetto. Non è più astratta del
suo oggetto. È una pratica dei concetti, e va giudicata in relazione alle altre
pratiche con le quali interferisce […] Una teoria del cinema non è ‘sul’
cinema, ma sui concetti che il cinema suscita, anch’essi in rapporto con altri
concetti corrispondenti ad altre pratiche […] Il cinema stesso è una nuova

1
pratica delle immagini e dei segni, di cui la filosofia deve fare la teoria in
quanto pratica concettuale.”1
Il filosofo francese legittima con questa ed altre riflessioni fatte in
più momenti del suo percorso filosofico – in cui emerge, costante,
l'attenzione rivolta al fatto artistico – la possibilità di un’indagine filosofica
sul fatto teatrale, sulla base delle sollecitazioni e delle indicazioni che egli
stesso fornisce; la curiosità ad approfondire questo aspetto della sua
produzione filosofica è stata poi ulteriormente stimolata dalla constatazione
che uno dei punti d'intersezione tra le due discipline è dato dal suo
“incontro” con il teatro dell’artista italiano Carmelo Bene.
Le osservazioni fatte da Deleuze che riguardano l’opera d’arte in
generale, e quindi anche l’evento teatrale purché non rappresentativo –
poiché la rappresentazione in senso classico corrisponde alla simulazione,
all’imitazione di un originale che funge da fondamento e da invariante – lo
indicano come un mezzo privilegiato di espressione della differenza, e
quindi dell’esperienza reale, come suggerisce a questo proposito anche
Foucault nel saggio Theatrum philosophicum.2 La questione della non
rappresentatività in teatro, meglio evidenziata dall’immagine delle
maschere che si susseguono senza rivestire il vuoto con alcuna identità
stabile o fissa, è un punto importante delle riflessioni di Deleuze su questo
tema, che conduce ad individuare nell’esercizio dell’attore il punto focale
della manifestazione della differenza, ovvero di quella che egli definisce in
seguito come la “contro-effettuazione” dell’evento.
Ma è soprattutto nelle opere scritte con Felix Guattari che l’autore
introduce e sviluppa il fondamentale concetto di “divenire minoritario”,
ossia di quel processo necessario ad ogni artista – che nel momento creativo

1
G. Deleuze Cinéma 2. L’image- temps, Minuit, Paris 1985; trad. L’immagine-
tempo. Cinema 2, Ubulibri, Milano 1989, p. 308.

2
realizza un divenire-altro da sé, che coinvolge necessariamente anche il suo
linguaggio e le sue opere – il quale proprio in virtù di questo divenire e
delle variazioni prodotte dalla propria arte, riesce ad opporsi al sistema
dominante, “maggioritario”, e a superare la propria soggettività diventando
“concatenamento collettivo d’enunciazione”. Parallelamente all’analisi
condotta su artisti ed opere che realizzano la propria critica al sistema,
Deleuze e Guattari lo descrivono come un apparato di giudizio che procede
per gerarchie ed invarianti, cui si oppone quella che chiamano
“schizoanalisi”, e che si configura sostanzialmente come una forma di
sperimentazione definita anche “critica affermativa”, ossia una pratica
inevitabile che vale per la produzione artistica come per il pensiero
filosofico.3
Ed è proprio sul piano della critica affermativa – che corrisponde
sostanzialmente ad un processo creativo – che si svolge l’incontro con
l’opera di Bene, poiché tutta la sua produzione costituisce una critica e
sperimentazione dell’arte teatrale e del concetto tradizionale di
rappresentazione. Lo scritto che sancisce l’inizio della loro collaborazione,
Sovrapposizioni. Riccardo III di Carmelo Bene. Un manifesto di meno di

2
M. Foucault, Theatrum philosophicum, “Critique”, 282, 1970; trad. Theatrum
philosophicum, “aut aut”, 277-278, 1997.
3
M. Ferraris, Deleuze. Critica, affermatività, sperimentazione, “aut aut”, 187-
188, 1982, pp. 132-133: “Se Nietzsche e Heidegger avevano sottolineato
la parentela profonda che unisce arte e filosofia, sia a livello formale che
a livello sostanziale […] Deleuze e Guattari hanno introdotto nella
filosofia la logica delle avanguardie. Come le avanguardie proponevano
nuove regole di rappresentazione, rispetto a un reale divenuto assai meno
stabile di quanto il realismo, pittorico o letterario, non lasciasse intuire,
così Deleuze e Guattari tentano, in Mille Plateaux, di definire
sperimentalmente nuovi concetti per un pensiero che ha cessato da tempo
di corrispondere alla sua immagine classica (razionalistica o
irrazionalistica).”

3
Gilles Deleuze,4 si colloca nel periodo che precede la pubblicazione di Mille
Piani. Capitalismo e schizofrenia,5 ed infatti nel primo si trovano molti temi
poi sviluppati da Deleuze e Guattari, con particolare riferimento al processo
di “sottrazione” o “minorazione” – termine introdotto in Kafka. Per una
letteratura minore6 – che garantisce appunto la variazione ossia l’apertura a
quel divenire che consente l’uscita dagli schemi classici di rappresentazione
e di pensiero.
Questa collaborazione tra Bene e Deleuze rappresenta inoltre un
esempio atipico all’interno della produzione filosofica di quest’ultimo,
perché nasce e si sviluppa sulla base di un confronto diretto, “dialogato”
con il teatro di Bene, che continua anche nel corso degli anni, come
testimonia anche il successivo articolo scritto per un suo spettacolo-
concerto.7 Interessante è, infatti, constatare come al procedere della
sperimentazione teatrale di Bene corrisponda un approfondimento delle
riflessioni del filosofo francese in merito, il suo rivedere determinate
posizioni, in pratica osservare la collocazione e l’impatto che quest’incontro
ha avuto nell’ambito della sua riflessione sull’arte teatrale.

4
C. Bene, G. Deleuze, Sovrapposizioni. Riccardo III di Carmelo Bene. Un
manifesto di meno di Gilles Deleuze, Feltrinelli, Milano 1978.
5
G. Deleuze, F. Guattari, Mille Plateaux. Capitalisme et schizophrénie, Minuit,
Paris 1980; trad. Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia, Istituto della
Enciclopedia Italiana, Roma 1987, 2 voll.
6
G. Deleuze, F. Guattari, Kafka. Pour une littérature mineure, Minuit, Paris
1975; trad. Kafka. Per una letteratura minore, Quodlibet, Macerata 1996.
7
C. Bene, Manfred – Byron-Schumann, orchestra e coro del Teatro alla Scala,
direzione di D. Renzetti, Fonit Cetra, 1980, di cui viene pubblicato
l’intervento di G. Deleuze, “A proposito del “Manfred” alla Scala” (1
ottobre 1980), in Carmelo Bene. Otello, o la deficienza della donna,
Feltrinelli, Milano 1981.

4
Nello scritto su Bene emergono, infatti, alcune questioni sollevate
anche nel più recente Che cos’è la filosofia?8 riguardo alle interferenze che
si verificano tra i piani di filosofia, scienza ed arte in virtù delle opere di
determinati autori, riflessione su cui si sofferma anche nel corso dell’ultima
intervista da lui rilasciata, ove rileva nuovamente l’importanza dell’aspetto
pratico della filosofia in quanto creazione di concetti, proprio grazie
all’incontro e degli stimoli offerti dalle opere artistiche.9 Ed è sempre nel
contesto di quest’intervista che viene ribadito uno degli aspetti più
importanti della creazione di opere d’arte, più volte sottolineato in Un
manifesto di meno, a proposito della necessità di una critica affermativa in
teatro: l’aspetto “politico”, la funzione collettiva dell’arte, ossia il suo
potere destabilizzante necessario per opporsi al sistema dominante.
Da questo punto di vista, l’analisi filosofica del fatto teatrale
affrontata da Deleuze investe anche una tematica di rinnovamento sociale,
poiché sottolinea che il processo di critica e sperimentazione dovrebbe agire
anche nella vita quotidiana: ed è soprattutto su questo punto che si gioca la
funzione del teatro contemporaneo.

8
G. Deleuze, F. Guattari, Qu’est-ce que la philosophie?, Minuit, Paris 1991;
trad. C. Arcuri (a cura di), Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino 1996.
9
G. Deleuze, L’Abecedaire de Gilles Deleuze, interviste televisive con C.
Parnet dirette da P. A. Boutang, Vidéo Éditions Montparnasse, 1996.

5
CAPITOLO I

IL TEATRO DELLA DIFFERENZA

Una delle questioni principali affrontate dal pensiero di Gilles


Deleuze riguarda l’importanza da lui attribuita, in tutto l’arco della sua
produzione filosofica, all’arte ed al rapporto che la lega alla filosofia; a
cominciare dalla sua analisi sulla letteratura, egli sostiene infatti che sia
grandi filosofi che scrittori vivono la stessa situazione, sono cioè dei
visionari che partecipano dell’esperienza di un flusso vitale che li
attraversa, di una forza per altri difficile da maneggiare.10 D’altra parte, se
“ciò che è in questione in letteratura è appunto l’impensato del pensiero”,11
ed è di questo impensato che si occupa la filosofia, entrambe le discipline
influiscono l’una sull’altra, pur nel rispetto dei propri confini.
Allo stesso modo, per quanto riguarda altre arti, pittura, musica e
cinema, nei confronti delle quali Deleuze ha dimostrato un’attenzione
costante, se in filosofia creando concetti si tratta di “rendere pensabili […]
forze che non sono pensabili”,12 presenti in natura allo stato grezzo, a loro
volta il musicista ed il pittore rendono udibili/visibili forze che prima non lo
erano, interpretandole mediante le proprie opere. L’autore sostiene infatti a
più riprese che vi sia uno scambio continuo tra i vari ambiti, tra i concetti
filosofici, i percetti suscitati dalla pittura di Cezanne, Van Gogh, Klee, e, ad
esempio, gli affetti provocati dalla musica di Debussy, Schumann, o Berio o
le sensazioni suscitate dalle opere letterarie di Franz Kafka, Marcel Proust,
D. H. Lawrence.
Se si prendono in esame le riflessioni di Deleuze sul rapporto che
lega la filosofia alle arti, può sembrare, in un primo momento, che il suo

10
G. Deleuze, L’Abecedaire de Gilles Deleuze, cit.
11
Ibidem.

6
sguardo filosofico si sia soffermato di meno sull’arte teatrale rispetto alla
pittura o alla letteratura; di fatto, egli riteneva che, rinnovandosi, unitamente
alle altre arti potesse proseguire la ricerca di nuovi mezzi espressivi
inaugurata dalla filosofia di Nietzsche, così come sostiene nella
“Prefazione” a Differenza e ripetizione.13 Ed è probabilmente per questo
motivo che il suo interesse si è concentrato sulle sperimentazioni di quei
pochi autori contemporanei che di un rinnovamento teatrale sono stati
portavoce e che gli hanno dato lo spunto per pensare l’arte teatrale così
come esposto in alcuni dei suoi scritti: tra questi ricordiamo Samuel
Beckett, Antonin Artaud, Bob Wilson ed anche l’italiano Carmelo Bene.
In Differenza e ripetizione emergono alcune tra le numerose
questioni poi sviluppate lungo tutto l’arco del percorso filosofico di
Deleuze: in particolare, sono le nozioni di differenza, movimento e tempo ad
interessare maggiormente entrambe le discipline, e a permettergli di
sviluppare una concezione dell’opera d’arte, e quindi anche dell’arte
teatrale, come quel mezzo privilegiato attraverso il quale si manifesta
l’evento.14
A partire dalla suddetta “Prefazione” quindi, Deleuze collega gli
impulsi di rinnovamento suscitati dal pensiero di autori quali Nietzsche e
Kierkegaard nell’ambito della filosofia contemporanea, alla necessità di un

12
G. Deleuze, Il tempo musicale, “aut aut”, 276, 1996, p. 22.
13
G. Deleuze, Différence et répétition, P. U. F., Paris 1968; trad. Differenza e
ripetizione, Raffaello Cortina Editore, Milano 1997², p. 4.
14
P. Gambazzi, Pensiero, etica. Su alcuni temi di Logica del senso, “aut aut”,
276, 1996, p. 101: “L’arte crea a partire dalla produzione di questo vuoto
nella rappresentazione e nel linguaggio […] L’arte non imita e non
idealizza […] L’arte è invece cancellazione, sforamento, deformazione,
trasfigurazione delle forme e dei dati linguistici per portare il visto e il
visibile, il detto e il dicibile, al bordo del loro Fuori […] “al fine di far
sorgere il Vuoto o il visibile in sé, il silenzio o l’udibile in sé”. Cioè, la
purezza dell’evento, lo splendore del senso.”

7
analogo rinnovamento in campo artistico; successivamente, pone l’accento
sul fatto che entrambi i filosofi sono giunti ad interrogarsi sul tema della
ripetizione pur avendo seguito percorsi diversi, e si occupa di alcune
affinità che li accomunano in questo iter di ricerca, tra le quali
l’accostamento del teatro alla filosofia, a cominciare dal concetto di
movimento, che ritiene essere fondamentale nella loro riflessione.
Secondo l’autore, l’intenzione di entrambi di staccarsi dall’influenza
di Hegel, il cui pensiero è legato ad un “falso movimento, un movimento
logico astratto, vale a dire alla mediazione”,15 li ha portati ad approfondire,
per la metafisica, con risultati diversi, un concetto di movimento non
mediato, tale da “smuovere lo spirito al di fuori di ogni rappresentazione, e
di fare dello stesso movimento un’opera, senza interposizione; di sostituire
segni diretti a rappresentazioni mediate; di inventare vibrazioni, rotazioni,
vortici, gravitazioni, danze o salti che tocchino direttamente lo spirito. E’
questa un’idea da uomo di teatro, un’idea da regista, in anticipo rispetto al
suo tempo.”16
Per quanto riguarda Kierkegaard, la critica e la meditazione sul
movimento lo condurranno a porsi “il più alto problema teatrale, il
problema di un movimento destinato a toccare direttamente l’anima, a
essere il moto dell’anima”,17 la soglia attraverso la quale Nietzsche riterrà
inizialmente di poter condurre Wagner, nonché una delle principali sfide
raccolte dai grandi protagonisti del teatro contemporaneo: il superamento
della rappresentazione come imitazione.
La necessità del distacco da questa concezione del teatro, rimasta
invariata, nei suoi presupposti, da Aristotele in poi, ha stimolato riflessioni
e teorie in molte discipline connesse all’arte teatrale, senza che la questione
abbia accennato minimamente ad esaurirsi, e non è un caso, ad esempio,

15
G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p. 16.
16
Ivi, p. 17.

8
che Deleuze accosti lo stile filosofico di Nietzsche ad un “teatro della
crudeltà”, rifacendosi al noto manifesto e capitolo de Il teatro e il suo
doppio di Artaud.
Deleuze riscontra quindi nella riflessione dei due innovatori della
filosofia moderna i presupposti anche per una futura rivoluzione teatrale,
non realizzatasi, come sottolinea egli stesso, contemporaneamente ai grandi
mutamenti avvenuti in ambito filosofico, di cui entrambi furono
responsabili, ma a questi intimamente connessa. In Nietzsche ad esempio,
l’idea di un nuovo teatro prende forma con la Nascita della tragedia e
prosegue fino allo Zarathustra, lungo tutto l’arco del suo percorso
filosofico, come un leitmotiv del teatro dello humor, della leggerezza, della
danza, contrapposto alle sofisticazioni wagneriane, simbolo di una società e
di una cultura che si avviava a subire profonde modificazioni.
Un’altra questione che emerge nella sua analisi su Nietzsche e
Kierkegaard si riferisce al problema della maschera come uno degli
elementi collegati al superamento del teatro filosofico della
rappresentazione; come esempio di quanto questa nozione sia importante in
Nietzsche, si può fare riferimento al saggio di Gianni Vattimo che ne fa il
filo conduttore di tutto il suo pensiero.18
Svuotati di senso i sistemi filosofici, eclissatosi il soggetto come
“primo attore”, ma non scomparso dalla scena sulla quale continua
inevitabilmente ad agire, la maschera, che non può colmare al suo posto lo
spazio vacante, suggerisce però l’immagine di un pensiero che avvicini
quest’ambito problematico senza porsi come surrogato. Un esempio tra
tutte, la maschera neutra, che cancella il volto ed ogni espressione
significante di colui che la indossa, costringe e annulla l’attività verbale ed
espressiva dell’attore, azzera l’individuo, ma d’altro lato lo lascia

17
Ibidem.
18
G. Vattimo, Il soggetto e la maschera, Bompiani, Milano 1974.

9
intravedere attraverso lo stile di un corpo non più viziato da un’identità e
intenzioni predeterminate: è la maschera che implica e sottende
necessariamente tutte le altre, ed anche se non indossata, la sua impronta
persiste prima di ogni altra.
E’ nei testi stessi di Kierkegaard e Nietzsche, nei loro esempi e nelle
loro parole che Deleuze riscontra una simbiosi tra linguaggio filosofico ed
espressione teatrale, al di là delle semplici metafore, e ravvisa in questo un
processo la possibilità di una comunicazione diretta, di una ricezione
sinestetica del testo, se lo stesso Deleuze sostiene che “lo Zarathustra
appartiene tutto alla filosofia, ma è concepito anche interamente per la
scena, come un insieme sonorizzato, visualizzato, posto in movimento, in
marcia e in danza.”19 Soprattutto, all’autore preme sottolineare che il
fondamento del teatro “ricavato da tutte le arti che impiega”20 (un
importante riferimento alla funzione del teatro come catalizzatore di tutti i
mezzi espressivi) è il vero movimento, ossia l’essenza del movimento in
quanto ripetizione, contrapposto al “falso movimento” hegeliano del
concetto astratto rappresentato.
Deleuze parla qui di un teatro della ripetizione, del movimento quale
ripetizione, come di un ambito pre-teatrale capace di entrare
immediatamente in risonanza con chi lo sperimenta, di maschere che si
susseguono senza ancorarsi a personaggi, parole o gesti, dello spazio
scenico mai colmato da infiniti ruoli, di cui nessuno definitivo, indicato da
Nietzsche nella filosofia dell’eterno ritorno, della morte di Dio e della
dissoluzione dell’Io.
Ed è quindi proprio grazie al pensiero dei due filosofi che l’autore
afferma di aver trovato “la conferma teatrale di una differenza irriducibile

19
G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p. 18.
20
Ibidem.

10
tra la generalità e la ripetizione”,21 in virtù del fatto che il loro stile
filosofico risulta intrecciato a quello di una prassi teatrale autentica,
espressione della ripetizione del movimento reale e luogo di coesistenza di
maschere necessarie alla costituzione della ripetizione stessa.
Proseguendo nel saggio, infatti, Deleuze estende la possibilità
dell’arte teatrale di concretizzare metamorfosi derivate dalla successione di
identità mai compiute, o ultime (e quindi d’essere espressione della
differenza all’atto del differire) a molte opere d’arte moderna, attribuendole
nuovamente lo statuto di segno eminente sia nella messa in scena all’atto
pratico che in qualità di requisito proprio di qualsiasi forma d’arte non
rappresentativa.22
Sempre in relazione al concetto di movimento reale come
espressione della differenza ed ai successivi sviluppi della questione posta
in Differenza e ripetizione, si osserva che in Conversazioni, ad esempio,
Deleuze tratta del divenire-donna del personaggio principale del Riccardo
III di Shakespeare, così come del divenire-cagna della Pentesilea di
Heinrich von Kleist, indicando il tipo di scelta compiuta dai due

21
Ivi, p. 20.
22
In riferimento a questa tematica: J. Derrida, “Le théâtre de la cruauté et la
clôture de la représentation”, in L’écriture et la différence, Editions du
Seuil, Paris 1967; trad. “Il teatro della crudeltà e la chiusura della
rappresentazione”, in La scrittura e la differenza, Torino, Einaudi 1990,
pp. 301-302: “Come Nietzsche – e le affinità non si fermerebbero qui –
Artaud vuole quindi farla finita con il concetto d’imitazione dell’arte. Con
l’estetica aristotelica in cui la metafisica occidentale dell’arte si è
riconosciuta. […] L’arte teatrale deve essere il luogo primordiale e
privilegiato di questa distruzione dell’imitazione; più di ogni altra essa è
stata segnata da quel lavoro di rappresentazione totale in cui
l’affermazione della vita si lascia duplicare e svuotare dalla negazione.
Questa rappresentazione, la cui struttura si riproduce non solo nell’arte
ma in tutta la cultura occidentale (nelle sue religioni, nelle sue filosofie,

11
protagonisti, di trasgredire e tradire la norma, e la loro successiva
metamorfosi in base alla scelta compiuta, come un “divenire-l’Anomalo”,
divenire secondo “l’elemento demonico per eccellenza.”23
“Demoniaco” è il termine utilizzato dall’autore per definire anche la
forma di distribuzione nomadica all’interno delle strutture sedentarie della
rappresentazione, sintetizzata da una frase del coro dell’Edipo Re, in
relazione ad una distribuzione di movimento simile ad uno spazio di gioco,
senza confini o barriere.24
Oltre al termine demoniaco, Deleuze utilizza quello di “mostro”
nella sua trattazione della differenza in sé nel suo manifestarsi, (in maniera
più diretta ed evidente anche attraverso determinate situazioni teatrali)
proprio in virtù del fatto che generalmente questo emergere del fondo
indifferenziato nel quale la forma si dissolve, “quel punto preciso in cui il
determinato mantiene il suo rapporto essenziale con l’indeterminato”,25 che
è il pensiero, viene percepito come l’anomalo, come mostro. “Il pensiero
‘fa’ la differenza, ma la differenza è il mostro.”26
I motivi per cui la manifestazione della differenza non si verifica
all’interno della rappresentazione sono diffusamente descritti in queste
pagine, sebbene inizialmente parrebbe il contrario per il tipo di
rappresentazione definita “orgìaca”, o infinita, indagata attraverso il
pensiero sia di Hegel che di Leibniz, in contrapposizione a quella
“organica”, o finita: “Quando la rappresentazione trova in sé l’infinito,
appare come rappresentazione orgìaca e non più organica: scopre in sé il

nella sua politica), indica quindi qualcosa di più di un tipo particolare di


costruzione teatrale.”
23
G. Deleuze, C. Parnet, Dialogues, Flammarion, Paris 1996²; trad.
Conversazioni, Ombre Corte, Verona 1998, p. 47.
24
G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p. 54.
25
Ivi, p. 44.
26
Ibidem.

12
tumulto, l’inquietudine e la passione sotto la calma apparente o i limiti
dell’organizzato, ritrova il mostro.”,27 ovvero la differenza. Tuttavia, se la
rappresentazione finita rappresenta la differenza mediandola, anche la
rappresentazione infinita compie lo stesso tipo di errore: “l’errore di
confondere il concetto proprio della differenza con l’iscrizione della
differenza nell’identità del concetto in generale”,28 di conseguenza in
nessuno dei due casi la differenza ha la possibilità di manifestarsi.29
Questa differenza, “LA determinazione”, Deleuze la chiama anche
“crudeltà”, in specifico riferimento, come si è detto, allo scritto di Artaud, il
quale riteneva che il teatro dovesse diventare “un linguaggio unico a mezza
strada tra gesto e pensiero […] Ciò che il teatro può ancora strappare alla
parola sono le sue capacità di espansione oltre le singole parole.”30
La filosofia teatrale di Artaud è stata più volte avvicinata al pensiero
di Nietzsche, oltre che da Deleuze, Guattari e J. Derrida, anche da Michel
Foucault;31 infatti le sue teorie sono da anni oggetto di riflessioni culturali e
filosofiche tra le quali sembra emergano, fra le altre, anche affermazioni
divergenti rispetto alla posizione che Deleuze pare esprimere in questo
contesto. Derrida indica ad esempio che Artaud persegue il superamento
della differenza che genera la soggettività, in funzione di una “unitarietà
molteplice”, ricerca che lo riavvicina alla metafisica, ad un’identità

27
Ivi, p. 61.
28
Ivi, p. 71.
29
Chiara Di Marco, Deleuze e il pensiero nomade, Francoangeli, Milano 1995,
p. 141: “Pensare la differenza in sé, al contrario, significa eliminare ogni
centro,…significa aprire, decomporre la rappresentazione fino a far
svanire l’identità sia dell’oggetto visto che quella del soggetto che vede
ponendo così ogni cosa, ogni essere, come differenza accanto a
differenze.”
30
A. Artaud, Le Théâtre et son Double, Gallimard, Paris 1964; trad. Il teatro e il
suo doppio con altri scritti teatrali, Einaudi, Torino 1978, p. 204.

13
riconciliata oltre ogni differenza;32 ed anche autori quali Camille Dumoulié,
Jean Paul Manganaro e André Scala suggeriscono che questi restò legato ad
un teatro rappresentativo in senso classico, nostalgico di una supposta
“origine” perduta nonostante le sue dichiarazioni ed intenzioni
rivoluzionarie.33
Gli autori citati avvertono quindi che alla teoria teatrale di Artaud
non ha fatto seguito una pratica adeguata ad esprimere i suoi concetti, che
in definitiva si è verificata una scissione tra l’aspirazione di realizzare un
teatro pre-linguistico, pre-gestuale, di riannodare i fili col territorio da cui
prendono forma tutte le espressioni umane e la spinta a riproporre un teatro-
rappresentazione dell’Uguale, a riempire lo spazio scenico servendosi del
linguaggio, della regia, dell’attore-martire, insomma della mediazione,
conseguenza di quel falso movimento analizzato da Deleuze all’inizio di
Differenza e ripetizione. Come sostiene Umberto Artioli, “Artaud conosce
la seduzione del vuoto, ma nell’atto di pensare al teatro lo pensa in funzione
della forma, piegandosi alla tentazione dell’essere.”34
D’altro canto, i continui riferimenti di Deleuze alla produzione
artistica di Artaud, nonostante questa sia percorsa da continue
contraddizioni, indicano che il filosofo francese vi ha comunque colto
l’esprimersi della differenza, probabilmente soprattutto in virtù della ricerca
inesausta dell’attore di realizzare ad uno “spettacolo totale” mediante la
creazione di un alfabeto geroglifico di segni teatrali attraverso cui la
differenza, l’evento, avrebbe dovuto manifestarsi in scena.35

31
L. Chiesa, La lucida sragione. Artaud e Foucault, “aut aut”, 285-286, 1998,
p. 236.
32
J. Derrida, “Artaud: la parole soufflèe”, in La scrittura e la differenza, cit.
33
C. Bene, Il teatro senza spettacolo, Marsilio, Venezia 1990, p. 15.
34
Ivi, p. 106.
35
G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p. 36: “I segni sono i veri elementi
del teatro. Essi arrestano le forze della natura e dello spirito che agiscono

14
E sempre nell’ambito delle riflessioni sviluppate in Differenza e
ripetizione Deleuze analizza poi la questione del rapporto tra movimento e
tempo: qui lo spunto è costituito dall’analisi delle tre serie del tempo e della
differenza tra cogito cartesiano e kantiano, ossia dell’introduzione, nella
filosofia trascendentale, della forma pura del tempo, necessaria alla
determinazione della mia esistenza indeterminata, che porta come
inevitabile conseguenza all’incrinarsi dell’Io ed alla morte speculativa di
Dio.36
Sebbene questo rappresenti un distanziarsi dalla concezione
cartesiana per la quale l’identità dell’Io dipende dall’unità con Dio stesso,
l’autore osserva come anche Kant alla fine recuperi l’identità di entrambi
“in uno sforzo supremo di salvare il mondo della rappresentazione”,37
diversamente da Hölderlin, il quale scopre nel vuoto della forma pura del
tempo l’incrinatura dell’Io e lo sviamento continuo del divino.
Seguendo Deleuze nella sua riflessione, emerge la relazione stabilita
dal poeta tra la forma pura del tempo intesa come istinto di morte, e

sotto le parole, i gesti, i personaggi e gli oggetti rappresentati, e


significano la ripetizione come movimento reale, in opposizione alla
rappresentazione come falso movimento dell’astratto.” L’ambiguità del
teatro di Artaud è indicata anche da J. Derrida; “Artaud: la parole
soufflée”, in La scrittura e la differenza, cit., p. 253: “Artaud sta sul
limite;…per tutto un aspetto del suo discorso egli distrugge una
tradizione che vive nella differenza, nell’alienazione e nel negativo, senza
scorgerne l’origine e la necessità. Per ridestare questa tradizione, Artaud
la richiama, insomma, ai propri motivi […] In questo senso, la
‘metafisica’ di Artaud, nei suoi momenti più critici, completa la
metafisica occidentale, la sua intenzione più profonda e continua. Ma per
un altro aspetto del suo testo, il più difficile, Artaud afferma la legge
crudele (cioè, nel senso in cui egli intende questa espressione, necessaria)
della differenza.”
36
G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p. 116.
37
Ivi, p. 117.

15
l’essenza del tragico espressa dal dramma dell’Edipo Re,38 nel quale forse
più che in altri è indagata la finitezza alla quale siamo destinati. Ed inoltre,
se anche il nostro rapporto col divino si stabilisce sulla base di questa
mancanza, come sottolinea Deleuze, e “il dio è presente nella figura della
morte”,39 per citare Hölderlin, si può forse individuare quella linea che va
dalla tragedia greca a Kant fino a Hölderlin, ad intrecciare le forme teatrali
con i percorsi della filosofia in un’interdipendenza che rimanda da un
autore, da un’opera all’altra.
L’istinto di morte viene messo da Deleuze in stretta relazione con il
concetto di maschera-travestimento: egli oppone ad una ripetizione definita
“nuda”, espressione di una singolarità contro la generalità, non
riconducibile perciò alla rappresentazione, una ripetizione mascherata o
“vestita”, di cui questi travestimenti sono parte costitutiva e rendono
possibile la manifestazione della differenza. In questo contesto la morte
diviene espressione del possibile, elemento differenziante per eccellenza,
legato appunto al concetto di maschera, di movimento di passaggio dall’una
all’altra, di spostamento continuo, nel quale si effettua la differenza stessa.40
Lo stretto legame che unisce questo segno originario dell’arte
teatrale alla morte, riconduce anche a Nietzsche ed al suo recupero
dell’essenza dionisiaca del teatro; a Dioniso ci si riferisce come al dio-
maschera per eccellenza, ed il legame che unisce questo culto divino alla
morte manifesta il paradosso che percorre tutta l’evoluzione del teatro e la
contraddizione intrinseca ad ogni produzione artistica, tra l’essere forma
impostasi sulle forze vitali da cui deriva e la necessità di riattingere in
continuazione dalla stessa sorgente dalla quale si è staccata.

38
Ibidem.
39
F. Hölderlin, Note all’Antigone, GstA V, 269 ST 106, cit. in A. Calligaris,
Hölderlin: “vita” e follia, “aut aut” 285-286, 1998, p. 247.
40
C. Di Marco, Deleuze e il pensiero nomade, cit., pp. 151-152.

16
Senza fermarsi nello specifico sui numerosi studi dedicati alla
maschera, può essere interessante notare come sia Roberto Tessari
nell’ambito del suo intervento su questo argomento,41 che Umberto Albini,
autore di un saggio sul teatro nell’antica Grecia,42 facciano riferimento a
due situazioni, l’una accaduta alla corte francese nel 1700, l’altra ricavata
da frammenti di un dramma satiresco di Eschilo, Gli Spettatori, nei quali la
maschera, oggetto utilizzato per la sua verosimiglianza con qualcun altro,
rispettivamente a scopo ludico o votivo, ne occulta un’altra – o molte altre –
in un gioco di elusività che però sottende un rapporto ben più complesso ed
inquietante con la maschera stessa. I due riferimenti indicano in particolare
la distanza accumulatasi nei confronti di questo elemento di culto e di
teatro, che ha portato l’uomo moderno a percepirlo o come oggetto di

41
Sul tema specifico della maschera, cfr. R. Tessari, “Maschera”, in L. M.
Musati (a cura di), Le Parole del Teatro, Transeuropa 1995, pp. 98-99:
“Se cerchiamo di capire perché Dioniso fosse il dio-maschera per
eccellenza non possiamo che fermarci sul momento cruciale del suo mito
di morte. Si tratta del momento in cui il dio si specchia (cioè compie un
atto di autoriflessione, se vogliamo di reduplicazione) in uno specchio nel
quale si sintetizza e si fa maschera la sua divinità. E, facendosi maschera,
conosce sia un destino di morte sia la grazia di trasformarsi in immagine
che verrà adorata […] Nella versione testimoniata dalle Dionisiache di
Nonno, mentre il dio si sta specchiando, gli si avvicinano i titani, armati
di coltelli “portati dagli inferi sulla terra”, per effettuare lo sparagmos:
per compiere sul dio un rito che determinerà la sua morte, ma anche la
sua resurrezione in quanto maschera. Il fatto che Dioniso si specchi, non
è soltanto simbolo inaugurale della rappresentazione scenica, è anche
cifra di un concetto per il quale il mondo è rappresentazione […] E’
interessante, ancora, che i titani deicidi, nelle due versioni, compaiano
comunque mascherati […] Il mito dice chiaramente come la maschera
dionisiaca nasca da un atto di iniziazione compiuto da una sorta di
protomaschera, che viene a riportare nella vita un segno del mondo della
morte.”
42
U. Albini, Nel nome di Dioniso. Vita teatrale nell’Atene classica, Garzanti,
Milano 1991, p. 79.

17
divertimento oppure come inquietante, angoscioso, sostanzialmente ad una
nostra incapacità di instaurare con la maschera un rapporto vivo e dinamico.
In un secondo tempo, Deleuze avvicina il filosofo tedesco anche ad
un altro testo classico del teatro, l’Amleto, e riporta la famosa frase – “il
tempo è uscito dai propri cardini”– lasciando intravedere la presenza delle
tematiche di entrambi i drammi, sia dell’Edipo Re che dell’Amleto,
all’interno del pensiero kantiano.43
A questo proposito, Deleuze segnala poi un’affinità tra le due
tragedie basata sulla tripartizione dell’evento drammatico, suddivisione che
è anche temporale, espressa da un tempo ordinario, “uscito dai cardini”, non
subordinato al movimento né alla delimitazione dei punti cardinali. “Il
tempo out of joint, la porta fuori dei cardini, costituisce il primo grande
rovesciamento kantiano: è il movimento che si subordina al tempo […] [il
tempo] Cessa d’essere cardinale e diventa ordinale, ordine del tempo
vuoto”.44
Nel successivo Critica e clinica, Deleuze sostiene che l’Amleto ha
maggiore importanza dell’Edipo Re per quel che riguarda la concezione del
tempo nella filosofia kantiana, poiché nella tragedia greca l’eroe subisce il
tempo come “conseguenza di un movimento originario (Eschilo) o di
un’azione aberrante (Sofocle)”, mentre Amleto “porta a compimento
l’emancipazione del tempo: è lui che opera davvero il rovesciamento,
perché il suo movimento non risulta più se non dalla successione della
determinazione.”45

43
G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p. 119: “Ma che cosa significa
forma vuota del tempo o terza sintesi? Il principe di Danimarca dice che
“il tempo è uscito dai propri cardini”. Ora è possibile che il filosofo
tedesco dica la stessa cosa, e sia amletico in quanto edipico?”.
44
G. Deleuze, Critique et clinique, Minuit, Paris 1993; trad., Critica e clinica,
Cortina, Milano 1996, p. 44.
45
Ibidem.

18
Questo tempo, definito “sconvolto, uscito dalla curvatura impressagli
da un dio,…affrancato dagli eventi che ne costituivano il contenuto,
rovescia il proprio rapporto col movimento, in breve si scopre come forma
vuota e pura”,46 è distribuito in funzione di una cesura che costituisce
l’incrinatura dell’Io e secondo delle serie che causano la scissione del Me.
Se il rapporto tra l'Io [Moi] e l'Io [Je] con le rispettive delimitazioni è
fondato sul tempo che li mette in relazione e li divide secondo la loro
differenza, allora Amleto si riconferma un personaggio kantiano, “ogni
volta che appare come un’esistenza passiva che, come l’attore o il
dormiente, riceve l’attività del suo pensiero come un Altro capace tuttavia
di dargli un pericoloso potere che sfida la ragione pura […] Insomma, al
tempo fuori dai suoi cardini corrisponde la follia del soggetto. È come una
doppia deviazione dell’Io [Je] e dell’Io [Moi] nel tempo, che li collega
l’uno all’altro, li cuce l’uno all’altro.”47
La suddivisione del tempo è a sua volta espressione della ripetizione
che culmina nell’eterno ritorno come suo eccesso e terza serie del tempo
stesso; come già aveva sottolineato in precedenza, Deleuze indica nello
Zarathustra l’insieme di un’opera filosofica e teatrale, realizzata in una
forma che riunisce i tre tempi delle ripetizioni, e in Nietzsche colui che si
situa come segno eminente lungo la linea precedentemente citata. L’eterno
ritorno allora “appartiene solo al terzo tempo: il tempo del dramma, dopo il
comico, dopo il tragico (il dramma è definito quando il tragico diviene
gioioso, e il comico si fa comico del sovrumano).”48
Il termine dramma è utilizzato da Deleuze anche in relazione alla
questione della differenziazione come processo di attualizzazione dell’Idea,
ed in particolare in rapporto ai dinamismi spazio-temporali attraverso cui le
differenziazioni si attuano. I processi dinamici drammatizzano l’Idea, e il

46
G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p. 119.
47
G. Deleuze, Critica e clinica, cit., pp. 46-47.

19
mondo è teatro di queste messe in scena “ove i ruoli prevalgono sugli attori,
gli spazi sui ruoli, le Idee sugli spazi.”;49 si tratta sempre di un teatro della
crudeltà, nel quale la drammatizzazione, tramite tra concetto ed Idea,
scavalca il concetto e le sue rappresentazioni e moltiplica le attualizzazioni
della prima secondo un processo che l’autore definisce “crudele”,
movimento che, attraverso le parole di Artaud, è un teatro senza attori,
scene, soggetto, in diretto contatto con l’organismo.
La drammatizzazione si configura quindi come quel movimento che
l’autore ha trattato in precedenza, ovvero quel “LA determinazione”, il
movimento reale, espressione della ripetizione, crudeltà, il “determinismo”
di cui parla Artaud e che l’autore cita in questo capitolo così come lungo
tutto il libro. La drammatizzazione come ripetizione e processo estremo di
differenziazione, prequantitativa e prequalitativa, si rivela allora essere
“sotto le specie e le parti, le qualità e i numeri, l’atto più intenso o il più
individuale…”.50 Successivamente Deleuze si chiede quale sia l’elemento
che fonda la drammatizzazione, e chiarisce che la condizione
dell’attualizzazione dell’Idea è determinata dalle qualità intensive:
“…l’intensità drammatizza, si esprime immediatamente nei dinamismi
spazio-temporali di base…”.51
Al termine di Differenza e ripetizione l’autore riannoda i fili del
tragitto filosofico percorso, lungo il quale sono affiorate numerose questioni
collegate all’arte teatrale, ad evidenziare la necessità per la filosofia
contemporanea di fare proprie alcune delle potenzialità caratteristiche della
teoria e della prassi teatrale; questa a sua volta dev’essere vissuta nella sua
funzione artistica specifica di messa in opera delle ripetizioni, e se
“sviluppa le sue serie intercambiabili e le sue strutture circolari, addita alla

48
G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p. 381.
49
Ivi, p. 280.
50
Ivi, p. 285.

20
filosofia una strada che conduce all’abbandono della rappresentazione”,52
come accade per altre opere d’arte moderna cui Deleuze fa qui riferimento.
A questo proposito, è d’obbligo il riferimento a Theatrum
philosophicum di Foucault, nel quale emerge, tra l’altro, anche questo
rapporto tra le due discipline; l’autore infatti indica Differenza e ripetizione
e Logica del senso come due esempi che testimoniano la possibilità, per il
pensiero filosofico, di svilupparsi come un teatro “in cui il soggetto è finto
ma nel quale, al tempo stesso, il soggetto non può cessare di mettersi in
scena…”.53 Questo teatro della non-rappresentazione, della differenza: “È
qui, nelle pagine di Deleuze […] pensiero genitale, intensivo, affermativo,
a-categorico – aspetti tutti che non conosciamo, maschere che non avevamo
mai visto […] È la filosofia non come pensiero, ma come teatro: teatro di
mimi dalle scene molteplici, fuggevoli e istantanee, dove i gesti, senza
vedersi, si fanno segno…”.54
Il fine dell’arte, secondo l’autore, dev’essere proprio quello “di porre
in atto simultaneamente tutte queste ripetizioni, con la loro differenza di
natura e di ritmo […] L’arte non imita perché anzitutto ripete, e ripete tutte
le ripetizioni per conto di una potenza interiore”,55 in virtù della propria
capacità di rovesciare le copie, le imitazioni, in quanto simulacro, ossia
“l’istanza che comprende una differenza in sé, come (almeno) due serie
divergenti sulle quali gioca, essendo abolita ogni somiglianza, senza che si
possa perciò indicare l’esistenza di un originale e di una copia. In questa

51
Ivi, p. 317.
52
Ivi, p. 94.
53
P. A. Rovatti, “Premessa”, in F. Polidori, Necessità di una illusione, Guerini e
Associati, Milano 1995, p. 6.
54
M. Foucault, Theatrum philosophicum, cit., pp. 54-74.
55
G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p. 375.

21
direzione vanno ricercate le condizioni, non più dell’esperienza possibile,
ma dell’esperienza reale (selezione, ripetizione, ecc.).”56
Nella potenza insita nell’arte Deleuze riscontra anche la necessità
che questa agisca nella vita quotidiana, che manifesti la differenza negli
stereotipi del consumo e dell’abitudine, in sostanza che utilizzi tutto il suo
potere eversivo e di critica in funzione collettiva.

Due artisti per due linguaggi

La “Tredicesima serie” di Logica del senso, dopo Differenza e


ripetizione un altro fondamentale testo di Deleuze nel quale egli si occupa
spesso di pensare e descrivere l’evento teatrale, introduce un altro
argomento di fondamentale importanza, ossia la questione del linguaggio.
In questa occasione gli autori che sollecitano le sue riflessioni sul tema sono
lo scrittore Lewis Carroll e il già citato Artaud: la teoria teatrale di
quest’ultimo viene presa in considerazione a partire dalla sua particolare
condizione psichica, la schizofrenia, in relazione alla famosa Alice di
Carroll. In queste pagine infatti l’autore si riferisce in particolare alle parole
esoteriche in funzione disgiuntiva, o parole-bauli, espressione che aveva già
utilizzato in Differenza e ripetizione collegandola alla parola poetica, come
precursore linguistico il cui eccesso di senso si cela come nonsenso “sempre
spostato e mascherato (la parola segreta che non ha senso, Snark o
Blitturì)”57 all’interno delle serie verbali, e l’esempio, anche in
quell’occasione, era dato dal linguaggio di Carroll.
Mediante l’analisi della traduzione della poesia Jabberwocky di
Carroll da parte di Artaud, in Logica del senso Deleuze avverte che è

56
Ibidem.
57
Ivi, p. 373.

22
necessario evitare che il linguaggio poetico, quello delle filastrocche
infantili e quello della follia si confondano se messi su uno stesso piano: per
meglio chiarire il concetto, confronta le parole-bauli utilizzate da Artaud
rispetto a quelle di Carroll, misura la distanza che le separa, ed in proposito
analizza l’opinione che il primo aveva dell’autore di Alice, espressa
chiaramente nella Lettera da Rodez a H. Parisot.
Artaud non accetta il linguaggio utilizzato da Carroll, colpevole
d’essere “di superficie”, ovvero poco profondo, disancorato da un corpo
che, da schizofrenico, percepisce “bucato”, privo di superficie, sul quale
l’interno e l’esterno si confondono e compenetrano nella profondità. Le
parole che nascono da questo corpo diviso, fatto a pezzi da un lato,
disarticolato, “senza organi” dall’altro, Deleuze le chiama rispettivamente
parola-passione e parola-azione, relative a due teatri, del terrore-passione e
della crudeltà, e a due non-sensi, passivo e attivo.58
Il non-senso è però in questo caso un sotto-senso differente da quello
di superficie utilizzato da Carroll, ed è qui che si situa la divergenza tra i
due autori, su un dislivello di piani ove agisce il non-senso, a distribuire
senso tra le serie sulla superficie, oppure a riassorbirlo in profondità. Il
linguaggio teatrale di Artaud è quindi connesso ad una parola-azione, ad un
non-senso che emerge dal “corpo senza organi” nel teatro della crudeltà,
una soglia attraverso la quale far scaturire forze espressive in diretto
contatto con l’organismo, senza mediazioni, proprio nel modo in cui
sembra, seguendo Deleuze fino a questo punto, che un’opera d’arte, e
soprattutto l’arte teatrale, dovrebbe manifestarsi ed essere recepita.
D’altro canto, il confronto tra Artaud e Carroll pone il problema del
rapporto tra profondità e superficie, e del linguaggio attraverso il quale
l’artista che esplora questi piani possa poi tradurli attraverso le sue opere:

58
G. Deleuze, Logique du sens, Minuit, Paris 1969; trad. Logica del senso,
Feltrinelli, Milano 1979², p. 86.

23
Artaud “è il solo a essere stato profondità assoluta nella letteratura, ad aver
scoperto un corpo vitale e il linguaggio prodigioso di tale corpo…”,59 ma è
sulla superficie che si svolgono le storie di Carroll ed emergono le parole-
bauli, non-sensi, eventi incorporei che però si oppongono “all’assenza di
senso operando una donazione di senso.”60
Il tema del linguaggio artistico, poetico così come teatrale, con
riferimento, fra gli altri, anche all’opera di Artaud, viene poi ripreso ed
amplificato da Deleuze nei successivi capitoli di Logica del senso, in
particolare dalla diciannovesima alla ventottesima serie, in relazione a due
forme di espressione linguistica connesse tra loro che rimandano al teatro,
ossia l’ironia ed il tragico; successivamente tratta dell’umorismo in quanto
arte delle superfici, della “genesi statica” ovvero compresenza di senso e
non-senso, ulteriore modello del linguaggio esoterico.61
Ed i rimandi proseguono: lungo tutte queste tre serie infatti, si snoda
il percorso che riguarda la filosofia stoica e le questioni filosofiche ed al
contempo teatrali a cui l’autore fa riferimento, della rappresentazione e
dell’espressione, del linguaggio/stile drammaturgico e dell’evento
compreso nella rappresentazione stessa, fino a culminare nell’esempio
dell’attore e del suo recitare teso sulla linea del tempo-Aiôn.

Kronos, Aiôn e il paradosso dell’attore

È grazie allo studio della filosofia stoica che Deleuze ha elaborato le


proprie riflessioni in merito alla differenza tra il tempo di Kronos e quello
di Aiôn, come chiarisce in Conversazioni, ed in particolare considerando la
separazione che questi filosofi hanno fatto passare “non più tra il sensibile e

59
Ivi, p. 88.
60
Ivi, p. 68.

24
l’intelligibile, non più tra anima e corpo, ma […] fra la profondità fisica e la
superficie metafisica […] Tra gli stati di cose o le mescolanze, le cause,
anime e corpi, azioni e passioni […] e dall’altra gli eventi o gli Effetti
incorporei che risultano da queste mescolanze, che si attribuiscono a questi
stati di cose, che si esprimono in proposizioni.”62
In Logica del senso, infatti, ed in particolare nella “Ventitreesima
serie. Sull’Aiôn”, Deleuze si occupa diffusamente di questi due tipi di
tempo, compito necessario in questo contesto per comprendere
l’affermazione secondo la quale la recitazione dell’attore, del mimo, si
collocherebbe nel tempo di Aiôn distinguendosi da quel “divenire-folle
delle profondità” analizzato in relazione alla scrittura di Artaud, come si è
visto nel paragrafo precedente.
Kronos viene descritto da Deleuze come un vasto presente al quale
sono rapportati passato e futuro, non come tre dimensioni separate, dunque,
poiché: “Ciò che è futuro o passato in rapporto ad un certo presente (di una
certa dimensione o durata) fa parte di un presente più vesto […] Vi è
sempre un più vasto presente che riassorbe passato e futuro.”63
Il presente di Kronos, inoltre, corrisponde ad un processo di
incorporazione, esso misura e delimita cioè l’azione dei corpi, secondo un
movimento che può essere infinito senza essere illimitato, “circolare nel
senso che ingloba ogni presente […] Al movimento relativo, mediante il
quale ciascun presente rinvia a un presente relativamente più vasto, occorre
aggiungere un movimento assoluto proprio al presente più vasto, che si
contrae e si dilata in profondità per assorbire o restituire […] i presenti
relativi che circonda.”64

61
Ivi, p. 127.
62
G. Deleuze, C. Parnet, Conversazioni, cit., p. 68.
63
G. Deleuze, Logica del senso, cit., p. 145.
64
Ivi, p. 146.

25
A questo Kronos, Deleuze oppone la lettura del tempo di Aiôn,
istante senza spessore che continuamente divide passato e futuro, che
perverte cioè il presente, e che differisce sia dal vasto presente di Kronos
che dal “divenire-folle delle profondità”. Quale luogo degli eventi
incorporei, “illimitato come il futuro e il passato, ma finito come
l’istante”,65 il tempo di Aiôn è pura forma vuota del tempo, non è circolare
ma si svolge lungo una retta sulla quale l’Istante, istanza paradossale, non-
senso di superficie, suddivide il presente e separa i corpi, le loro azioni,
passioni e suoni dal linguaggio.
Perché non resti “lettera morta di fronte al suo rappresentato” ed
inoltre “priva di vita e di senso”,66 la rappresentazione deve comprendere
un’espressione che essa non rappresenta ma che avvolge e comprende,
l’evento incorporeo, incarnato “nel presente più limitato che ci sia, più
preciso, più istantaneo, puro istante colto al punto in cui si suddivide in
futuro e passato”,67 ovvero lungo la retta illimitata del tempo di Aiôn.
E’ proprio in questo tempo infatti che si verifica quello che Deleuze
definisce il “paradosso dell’attore”, il quale durante la rappresentazione
resta nell’istante e contrae in esso un presente ed un passato illimitati
mentre il suo personaggio si proietta in queste due dimensioni temporali,
che comprendono la sua storia personale, ed i suoi legami con gli altri
personaggi: il tempo dell’attore non è quindi quello circolare di Kronos, ma
si colloca sulla retta-Aiôn e continuamente, durante la sua recitazione,
l’attore la divide ed al contempo divide se stesso.
Di conseguenza, il divenir-folli di cui Deleuze ha già parlato a
proposito di Artaud e del suo linguaggio, assume qui un ulteriore
prospettiva per quel che riguarda la funzione dell’attore, se questo divenire
implica un’identità mobile, il mantenere un difficile equilibrio

65
Ivi, p. 148.
66
Ivi, p. 131.

26
nell’instabilità fra senso e non-senso nell’istante del tempo di Aiôn, e
comporta “un processo di autotrasformazione per poter abitare il paradosso;
e per farlo occorre costruirsi (o inventarsi) l’accesso ad un presente non più
vincolato da un passato-causa e da un futuro già previsto come effetto.”68
Sempre a questo proposito, infatti, mentre in un primo tempo
accenna alla scissione del personaggio, successivamente Deleuze affermerà
che “ciò che [l’attore] interpreta non è mai un personaggio: è un tema (il
tema complesso o il senso) costituito dalle componenti dell’evento,
singolarità comunicanti, effettivamente liberate dai limiti degli individui e
delle persone.”69
Allora nel tendersi in questo istante la personalità stessa dell’attore si
espande, il suo ruolo si amplifica in senso impersonale e preindividuale, si
snoda in altri ruoli indefinitamente corrisposti al primo, e l’evento si
effettua sulla superficie attraverso questo processo, che Deleuze chiama
contro-effettuazione, di scissione continua amplificata dall’ambiguità che
caratterizza il compito dell’attore. La contro-effettuazione inoltre è descritta
anche in un altro contesto come un volere l’evento, o un’entità, o un
divenire, “tracciare il proprio sottile cammino stoico”, non imitarlo ma
contro-effettuarlo, appunto, lasciarlo emergere nella superficie
70
dell’istante.
Ed è proprio in questo istante che suddivide ogni presente in passato
e futuro, ovvero nel tempo di Aiôn, che prenderà poi forma il linguaggio,
costituito ed abitato dal senso-evento e dove si traccia la linea che separa i
suoni originati dalle azioni-passioni, i “rumori” dei corpi, dal linguaggio
che a questi suoni conferirà un senso. Questo concetto è ribadito e

67
Ivi, p. 132.
68
P. A. Rovatti, Il paiolo bucato, Raffaello Cortina Editore, Milano 1998, p.
197.
69
G. Deleuze, Logica del senso, cit., p. 134.
70
G. Deleuze, C. Parnet, Conversazioni, cit., p. 70.

27
sviluppato da Deleuze nella “Ventiseiesima serie. Sul linguaggio” di Logica
del senso, ove chiarisce che dall’evento deriva l’espressione e si articola il
linguaggio in quanto “manifestazione di un soggetto che si esprime”.71
Al paradosso del linguaggio esoterico che contro-effettua l’evento,
come analizzato da Deleuze attraverso l’avventura di Alice, e distinguendo
il linguaggio di Artaud da quello di Carroll, che poiché esprime il carattere
paradossale del senso si oppone ad un “senso unico” così come ad ogni
identità fissa, corrisponde la perdita d’identità dell’attore, alla sua
desoggettivizzazione nell’istante di Aiôn, “puro divenire”.72
Giunti a questo punto si ha l’impressione di poter indicare alcuni
concetti già indagati ad esempio in Differenza e ripetizione ripresi
successivamente; le maschere corrispondono forse ai ruoli dell’attore
infinitamente protesi tra passato e futuro divisi nell’istante, le identità mai
stabili; la ripetizione, in quanto pura forma vuota del tempo, è l’esercizio
dell’attore che ripete l’evento in superficie nel presente di Aiôn: “infatti
l’istante come elemento paradossale o quasi-causa che percorre tutta la
retta, dev’essere esso stesso rappresentato”,73 contro-effettuazione che si
mantiene in equilibrio tra i due presenti di Kronos, quello del sovvertimento
o della profondità e quello dell’effettuazione nelle forme.

Crudeltà e perversione: un confronto con il teatro di Artaud

Come già accennato nelle pagine precedenti in relazione all’utilizzo


da parte di Deleuze del temine crudeltà, a partire da Differenza e
ripetizione, questo viene poi utilizzato in altri contesti e in riferimento a
temi diversi, da un certo tipo di teatro al cinema, ad esempio, ma sempre

71
G. Deleuze, Logica del senso, cit., p. 163.
72
Ivi, p. 10.

28
con lo stesso intento: segnalare l’emergere della differenza in un’opera
artistica, che sia teatrale, letteraria o cinematografica, così come riferito in
primo luogo in Differenza e ripetizione fino a giungere alle affermazioni di
L’immagine-tempo. Cinema 2.74
D’altra parte, in Logica del senso si possono indicare alcune
differenze tra la concezione del teatro da parte di Artaud – e di qualunque
delle molte correnti di teatro contemporaneo che si rifanno alle sue opere –
e la contro-effettuazione dell’evento da parte dell’attore, e quindi l’evento
teatrale così come lo tratteggia Deleuze.
Per Artaud infatti scopo fondamentale dell’arte teatrale è il
riappropriarsi della carne, di un corpo sottrattogli da un Dio-Demiurgo,
ovvero “il mio doppio che si è introdotto nella differenza che mi separa
dalla mia origine”,75 alla ricerca di una metafisica della carne volta a
sovvertire quella del logos, della parola scritta, del soggetto parlante,
proteso verso un ideale di teatro che neghi ogni ripetizione in quanto radice
di ogni male.76 La sua intenzione infatti, più che rinnovare, era di
distruggere il teatro occidentale alla radice, contro la parola scritta e dentro
un corpo che dovrebbe poter esprimere il proprio grido prima di ogni
linguaggio, della sintassi logica, dei concetti, alla ricerca della “parola
prima delle parole”, della produzione di sonorità pure, verso
un’onomatopea che restituisca alle parole-gesti la stessa valenza che hanno
nei sogni. Queste immagini-geroglifici, come le definisce, dovrebbero
essere accompagnate da ritmi, danze, movimenti pre-gestuali, a sottolineare

73
Ivi, p. 150.
74
G. Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, cit., p. 194.
75
J. Derrida, “Artaud: la parole soufflée”, cit., p. 235.
76
J. Derrida, “Il teatro della crudeltà e la chiusura della rappresentazione”, cit.,
p. 317: “Artaud ha voluto cancellare la ripetizione in generale (in corsivo
nel testo) […] La ripetizione era per lui il male […] Questa facoltà di

29
l’importanza rituale, sacrale dell’evento teatrale unico perché irripetibile,
secondo l’esempio di alcune forme di teatro orientale (balinese e
giapponese).77
Sulla base di queste affermazioni di Artaud e delle riflessioni di
Deleuze, che considera, come si è visto, l’arte teatrale come una delle forme
attraverso cui l’evento si manifesta, si può inquadrare il confronto tra la
concezione artaudiana del teatro classico come perversione e l’uso che il
filosofo francese fa del medesimo termine in relazione alla propria
concezione dell’arte.
Per Artaud il teatro classico perverte la sua propria essenza sin dalle
origini della tragedia, riscontrabile, a suo dire, forse solamente nei rituali
sacri dei misteri orfici ed eleusini; questa scena primaria sarebbe perciò
continuamente tradita da tutto il teatro occidentale che nel “metterla in
scena” in realtà la occulterebbe, e tuttavia nel tradimento ed in virtù della
ripetizione la lascerebbe intravedere.78 Ed inoltre, se si considera la sua
ricerca di quella metafisica della carne sopra citata, e la distinzione che
Deleuze opera tra il linguaggio di superficie delle parole-bauli e quello

ripetizione ha dominato tutto quanto Artaud ha voluto distruggere e ha


nomi diversi: Dio, l’essere, la Dialettica.”
77
Cfr. P. Pavis, voce “Antropologia teatrale”, in Dizionario del teatro, P.
Bosisio (a cura di), Zanichelli, Bologna 1998, p. 31: “La preparazione a
un linguaggio che respinga la facilità e l’inaridimento impone la ricerca
di un linguaggio cifrato comune agli artefici della scena, ai partecipanti
alla cerimonia teatrale e agli attori. […] Tale ermeneutica […]vorrebbe
decifrare un mitico linguaggio teatrale, sia esso chiamato geroglifico
(Mejerchol’d), ideogramma (Grotowski), o “livello pre-espressivo
dell’arte dell’attore” (Barba). Per un’ulteriore approfondimento
dell’analisi del linguaggio teatrale in riferimento ai maggiori esponenti
del teatro contemporaneo cfr. U. Volli, La quercia del duca.
Vagabondaggi teatrali, Feltrinelli, Milano 1989.
78
J. Derrida, “Il teatro della crudeltà e la chiusura della rappresentazione”, cit.,
p. 305.

30
utilizzato da Artaud,79 si evince che il teatro artaudiano si svolge su un altro
piano rispetto a quello teorizzato ed auspicato da Deleuze.
Il filosofo francese ravvisa infatti, ad esempio nel ciclo di Edipo e
nel romanzo di Amleto, il delinearsi di un percorso che porta il protagonista
ad attraversare le profondità così come le altezze per collocarsi infine sulla
superficie; ribadisce quindi l’importanza dell’opera d’arte come puro
svolgersi dell’evento sulla superficie, e della sua capacità di estrarre da
gesti e passioni quotidiane l’evento puro corrispondente.
Servendosi di questi ed altri esempi, Deleuze distingue infatti l’opera
d’arte dal romanzo familiare, o nevrotico, nel quale i sintomi e le loro
effettuazioni non escono dalla cornice della superficie fisica da cui derivano
e sui quali si costruisce il romanzo stesso. Di conseguenza i romanzi come
quelli di Sofocle e Shakespeare preesistono ed eccedono le interpretazioni
successive, da qualsiasi disciplina esse provengano, proprio per la loro
funzione pre-individuale e collettiva. In particolare, in questo contesto
(come poi in altri) è rivendicata l’indipendenza dell’opera d’arte anche
dall’esegesi psicanalitica – quello che verrà poi definito il “cattivo uso” che
la psicanalisi fa del mito di Edipo – e la capacità propria degli artisti di
“essere clinici, non del proprio caso, nemmeno di un caso in generale, bensì
clinici della civiltà”,80 ovvero più medici che malati, nonché “perversi”.
La nozione di perversione dell’artista e delle sue opere delineata da
Deleuze differisce da quella che Artaud riconduce esclusivamente all’arte
teatrale, in tutte le sue manifestazioni, poiché nel primo fa invece parte del
processo di contro-effettuazione dell’evento nei personaggi fittizi, ove la
finzione maschera e rivela al contempo l’avvenimento puro che ha ispirato
il romanzo stesso. L’avvenimento contro-effettuato nell’opera dimostra che
questa non rappresenta semplicemente una forma di sublimazione del

79
Cfr. G. Deleuze, “Tredicesima serie. Sullo schizofrenico e sulla bambina”, in
Logica del senso, cit., p. 79.

31
desiderio, o della malattia: a questo proposito Deleuze prende ad esempio
ciò che Sade e Masoch che “fanno il romanzo-opera d’arte di ciò che i
sadici e i masochisti fanno in romanzo nevrotico e ‘familiare anche se lo
scrivono’”.81
La nozione di perversione in Artaud, legata all’ambito teatrale,
acquista quindi il significato della corruzione, del distoglimento dall’origine
sempre differita e mitizzata, di qualsiasi messa in scena si tratti: in Deleuze
si amplia, diventa una delle caratteristiche proprie esclusivamente
dell’artista e dell’opera d’arte (di qualsiasi genere) come prodotto del suo
intervento speculativo. Inoltre, laddove c’è un processo di mascheramento
in atto, la contro-effettuazione, appunto, questo non assume le connotazioni
negative di distoglimento dall’avvenimento a cui rinvia (l’evento puro, che
non è sorgente unica d’ispirazione) come accade per Artaud, anzi, è proprio
in virtù della perversione dell’artista che gli risulta possibile estrarre dal
sintomo l’evento corrispondente poi mascherato/contro-effettuato
nell’opera.
“Per questo l’artista è, nello stesso tempo, ‘il malato ed il medico
della civiltà’, ma soprattutto ne è il perverso, dice Deleuze, l’unico capace
di mettere in pratica il movimento oscillatorio del fantasma saltando da una
superficie all’altra, l’unico capace di procedere dalla superficie fisica,
attraverso una desessualizzazione, alla superficie metafisica per ritornare
poi di nuovo alla prima reinvestendo l’oggetto di interesse […] È la ripresa
eterna, il movimento della ripetizione proprio dell’opera d’arte.”82

80
Ivi, p. 208.
81
Ivi, p. 209, n. 155.
82
C. di Marco, Deleuze e il pensiero nomade, cit., p. 194. Per il successivo
sviluppo della nozione di perversione espressa secondo le modalità di
sadismo e masochismo secondo Deleuze, ivi, pp. 158-159: “Deleuze
legge, infatti, la perversione secondo un taglio artistico e letterario che
discostandosi dalle tesi freudiane vede il sadismo e il masochismo come

32
D’altro canto, come suggerisce Derrida nel suo saggio, considerando
il fatto che l’opera di Artaud conduce ad un bivio, a pensare un teatro
inattuabile, al limite tra il desiderio di ritrovare il gesto iniziale, l’origine
del teatro, il riuscire ad esprimerlo senza ripeterlo, e l’impossibilità che
questa ripetizione non avvenga e che non si accompagni alla sua
rappresentazione, si può guardare al pensiero filosofico di Deleuze come
un’alternativa a tale bivio, un’ulteriore strada da percorrere per pensare
l’evento teatrale, senza dimenticare però la lezione dell’esperienza
artaudiana, come dimostra lo stesso Deleuze con la sua analisi ed i continui
riferimenti all’opera dell’attore francese.83

due aspetti contrapposti ed irriducibili della perversione, due differenti


modalità di considerare il reale, due differenti modi di pensare l’istinto di
morte e la ripetizione. Di tipo speculativo-analitica è la modalità sadica
che fa della “negazione assoluta, l’idea totale della ragione”, affermando
la morte del super-io ed il trionfo dell'io, mitico-immaginaria, al contrario
è la modalità masochista che, sospendendo il reale attraverso l’assunzione
del fantasma, si libera della pressione del super-io identificandovisi.
Immaginazione e fantasma/simulacro sono allora le forze attive che,
dissolvendo l’identità dell'io, aprono il pensiero al molteplice e al
differente.”
83
J. Derrida, “Il teatro della crudeltà e la chiusura della rappresentazione”, cit.,
p. 32.

33
CAPITOLO II

MAGGIORE E MINORE

Il concetto di letteratura ed autore minore (rapportabile a tutte le


forme artistiche, non solo alla letteratura), è diffusamente trattato da
Deleuze ad esempio nell’ambito del saggio su Franz Kafka, scritto con
Felix Guattari,84 nel quale sono citati nuovamente i due autori teatrali
Beckett ed Artaud, in relazione al particolare utilizzo che entrambi fanno
della scrittura e della loro lingua madre o di altri idiomi, caratteristica che
accomuna tutti gli autori minori.
Tramite la scrittura ed in virtù dell’ambiguità e della complessità del
testo di un autore letterario come Carroll, Deleuze ha affrontato il carattere
paradossale del senso, in altri testi ha poi tratteggiato gli aspetti
fondamentali di tanta ricerca teatrale contemporanea, incentrata sia
sull’analisi di un corpo sconosciuto che sulle possibilità di rinnovamento
del proprio linguaggio, ed è in questo saggio che le caratteristiche dei
diversi stili linguistici ed anche teatrali considerati trovano una
“collocazione” nella nozione di minore.
La letteratura minore opera in maniera rivoluzionaria all’interno di
quelle definite maggiori, o egemoni, stabilite; una delle sue principali
caratteristiche consiste nell’esprimersi mediante variazioni di una lingua
cosiddetta maggiore, non semplicemente alterandola ma intaccandola con
una sorta di lavorìo sotterraneo, come una linea di fuga che apra un
processo di deterritorializzazione rispetto all’uso ordinario del linguaggio
estensivo o rappresentativo, alle sue designazioni e attribuzioni di senso.85

84
G. Deleuze, F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, cit.
85
Ivi, p. 36.

34
Si tratta quindi di tendere la lingua ai suoi limiti, abbandonando il
senso e privilegiando le intensità, di liberare l’espressione dalla forma;
“Questo linguaggio strappato al senso, conquistato sul senso, che opera una
neutralizzazione attiva del senso, trova la propria direzione solo in un
accento di parola, in un’inflessione”,86 verso una metamorfosi che comporta
una radicale trasformazione di chi scrive.
I rumori del corpo, schizofrenia della profondità/altezza (Artaud) ed
il linguaggio dell’assurdo, non-senso che inghiotte il senso (Beckett),87
aprono quindi nuove possibilità per il linguaggio e contemporaneamente dei
divenire per l’artista che se ne fa tramite; scrivere intensivamente costringe
il soggetto ad attraversare con la propria scrittura il passaggio che lo
conduce ad eccedere i limiti della significazione, ed allo stesso tempo quelli
della propria soggettività: “l’uso intensivo asignificante della lingua”,
infatti, elimina il soggetto d’enunciazione così come l’enunciato.88
Il grido-soffio di Artaud, la sua minorazione del francese così come
l’uso dell’inglese e del francese da parte di Beckett, esprimono perciò la
possibilità anche per la scrittura teatrale di farsi minore, di produrre un
teatro rivoluzionario tramite la parola intensiva; grazie anche alle
suggestioni linguistiche di questi due drammaturghi, Deleuze approfondirà
ulteriormente il tema del linguaggio teatrale tramite l’opera di altri autori,
quali Alfred Jarry, Heinrich von Kleist e Carmelo Bene.89
Le riflessioni sulle letterature e le lingue minori elaborate a partire
dall’esempio di Kafka vengono sviluppate da Deleuze lungo tutta la sua
produzione filosofica, tra cui anche nel libro Critica e clinica ed in

86
Ivi, p. 38.
87
P. A. Rovatti, Il paiolo bucato, cit., p. 196.
88
G. Deleuze, F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, cit., p. 40.
89
Vedi: C. Bene, G. Deleuze, Sovrapposizioni, cit., e: G. Deleuze, “Un
precursore misconosciuto di Heidegger, Alfred Jarry”, in Critica e
clinica, cit.

35
particolare nel primo capitolo, intitolato “La letteratura e la vita”; in queste
pagine, infatti, egli riprende l’analisi dell’uso che gli autori minori fanno
delle lingue egemoni, e si occupa di quel processo di trasformazione che
coinvolge completamente lo scrittore nel divenire della lingua che egli
stesso crea.
Letterature minori che vengono a crearsi da lingue maggiori
decomposte, intaccate profondamente, lingue minori che nascono da questo
processo di decomposizione e dalle invenzioni che il processo stesso rende
possibili; queste ed altre metamorfosi trascinano completamente lo scrittore
ad inseguire lungo il suo percorso, non necessariamente incentrato sulla
scrittura, un limite mai raggiungibile perché in costante divenire, appunto.
La tensione incessante di ricerca che anima l’artista, attraversa
interamente le opere nonché la vita di Artaud, ad esempio, e sta a
fondamento e stimolo di ogni produzione artistica in quanto tale: secondo
l’autore, il processo creativo è inoltre legato ad “un’irresistibile salute
precaria che deriva dall’aver visto e sentito cose troppo grandi, troppo forti
per lui [lo scrittore, l’artista], irrespirabili, il cui passaggio lo sfinisce, ma
gli apre dei divenire che una buona salute dominante renderebbe
impossibili.”90
In questo scritto, sembra che Deleuze riprenda dei passaggi di Logica
del senso, soprattutto per quel che riguarda la differenza tra romanzo
familiare e romanzo come opera d’arte, e sottolinei la nozione di salute
dell’artista definito anche “medico del mondo”, affermazione da lui già
fatta in precedenza, in contrapposizione alla malattia, nevrosi o psicosi che
sia. Se scrivere significa portare le esperienze narrate ad un livello
impersonale, rompere con la soggettività e l’individuazione grazie anche ai
profondi cambiamenti derivati dall’uso minore della propria lingua, ciò che
va tralasciato dalla letteratura e da qualsiasi arte in senso proprio è appunto

90
G. Deleuze, “La letteratura e la vita”, in Critica e clinica, cit., p. 16.

36
il romanzo familiare innestato sul modello edipico, tipico di una letteratura
“infantile e psicanalitica”. Il processo artistico di creazione, ad esempio di
un romanzo, forte di quella ricerca inquieta descritta da Deleuze, è
profondamente diverso dalla pura narrazione delle proprie malattie, che
anzi bloccano il processo stesso ed interrompono la produzione d’arte che è
produzione vitale.
“Balbettò”, il tredicesimo capitolo di Critica e clinica, riprende ed
approfondisce il tema delle alterazioni che l’artista minore produce nella
propria lingua d’origine: si tratta di “balbettii” prodotti non sulla ma nella
lingua stessa, mediante creazione di parole che balbettano, non da
balbettamenti imposti a parole preesistenti. Di fatto la lingua come la
descrive Deleuze non è un sistema omogeneo in equilibrio entro il quale lo
scrittore, balbettando, produce delle alterazioni che si articolano sulle
parole, bensì un sistema instabile, in cui queste ultime producono ulteriori
diversificazioni al suo interno.
Questo rifiuto di considerare la lingua come una realtà omogenea
delimitabile in base a delle costanti, a cui corrisponde e che ripropone un
modello di dominazione, è affermato da Deleuze e Guattari in Kafka, e poi
più diffusamente in Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia. Al sistema
maggioritario che implica “una costante, d’espressione o di contenuto,
come un’unità di misura in rapporto alla quale essa può essere valutata”,
quello minoritario, la minorazione, così come l’avevano definita in Kafka,
si configura come un processo creativo, di divenire, di messa in variazione
delle costanti del primo sistema: “Il problema non è quello di una
distinzione fra lingua maggiore e lingua minore, ma quello di un divenire. Il
problema non è di riterritorializzarsi su un dialetto o un gergo, ma di
deterritorializzare la lingua maggiore.”91

91
G. Deleuze, F. Guattari, Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia, cit., 1, p.
151.

37
Le parole poetiche di autori quali Kafka, Kleist, Beckett, Artaud, ad
esempio, vibrano con la lingua stessa; questi autori che parlano da stranieri
nella propria lingua, scavano al suo interno delle linee di fuga dalle quali si
sviluppano lingue e stili personali che compongono con gli elementi
disgiunti delle nuove connessioni linguistiche.
Fra le varie possibilità di minorazione di una lingua, Deleuze indica
anche l’uso dello humor – di cui aveva già parlato in Logica del senso –
quale arte degli effetti, traditore ed atonale, una linea spezzata che si installa
nel mezzo e sulla superficie, e perciò “arte degli eventi puri”, che si
contrappone all’ironia, alla sua pretesa di insegnamento derivata dalla
ricerca di principi primi. Lo humor quindi si configura come un divenire-
minoritario, come uno dei modi per far balbettare una lingua e creare eventi
di linguaggio, non semplici giochi di parole, come accade ad esempio
nell’opera di Carroll.92
Se si riconsiderano poi le riflessioni sulla differenza tra le espressioni
utilizzate da Artaud e le parole esoteriche di Carroll, analizzata nella già
citata “Tredicesima serie” di Logica del senso, si nota come le parole
esoteriche che egli inventò costituiscono uno degli esempi preferiti da
Deleuze per indicare un tipo particolare di minorazione del linguaggio in
cui: “c’è un processo di rallentamento e condensazione, un’elaborazione
dell’instabilità, un raddoppiamento del difetto, l’umorismo di un io che
riesce a spiazzarsi mimando sé stesso, contro-effettuandosi.”93
Gli intrecci formati dalla lingua dell’arte tendono perciò il linguaggio
al suo limite, lo espandono e ramificano in un divenire continuo;
l’operazione dello scrittore di romanzi come di teatro, come del filosofo,
che scava minorando la lingua e diventando egli stesso qualcos’altro, crea
delle immagini, come per lo Zarathustra di Nietzsche, per Artaud e la

92
G. Deleuze, C. Parnet, Conversazioni, cit., pp. 73-74.
93
P. A. Rovatti, “Nel mondo di Alice”, in Il paiolo bucato, cit., p. 195.

38
parola-soffio, per Beckett e l’andatura, i movimenti ed i gesti dei suoi
personaggi.94 In particolare nell’opera dello scrittore di teatro lo stile si
congiunge direttamente ad un corpo, la scrittura diventa il corpo che
l’esprimerà: Deleuze dice qui che le due cose – linguaggio e gesti del
personaggio – si innestano una nell’altra; il processo di metamorfosi è
reversibile, poiché se la forza destrutturante di queste parole è di esprimere
direttamente la potenza del linguaggio al di là del soggetto di enunciazione
e di enunciato, un corpo che le esprima adeguatamente potrebbe essere per
esempio quel corpo senza organi teorizzato da Artaud, un corpo “affettivo,
intensivo, anarchico, che comporta solo poli, zone, soglie e gradienti. Una
potente vitalità non organica lo attraversa.”95
In Beckett si tratta di parole balbettanti installate nel mezzo della
frase, nel suo caso infatti lo squilibrio comincia dal mezzo: ed il gesto si
rivela altrettanto squilibrato, infatti non accompagna le parole, poiché il
legame con il pensiero stesso è interrotto, e l’esibizione, il pubblico, la
situazione teatrale è del tutto irrilevante ai fini della recitazione e
dell’interazione con l’altro. Non solo non c’è corrispondenza tra parola e
corpo, ma “il gesto si divarica invece dalla parola fino a contraddirne il
senso”, ed il corpo goffo, disarticolato e disarmonico dell’attore assume la
stessa valenza di quello del clown.96

94
G. Deleuze, “Balbettò”, in Critica e clinica, cit., p. 148: “quando bisogna
distruggere l'io, non basta certo essere un ‘grande’ scrittore, e i mezzi
devono restare per sempre inadeguati, lo stile diventa non-stile, la lingua
ne lascia sfuggire un’altra straniera e sconosciuta, perché si arrivi ai limiti
del linguaggio e si diventi qualcosa di diverso da uno scrittore,
conquistando visioni frammentarie…”.
95
Ivi, p. 171.
96
A. Cascetta, “La sfida del corpo sulla scena teatrale” in Il corpo in scena. La
rappresentazione del corpo nella filosofia e nelle arti, Vita e Pensiero,
Milano 1983, p. 146.

39
In Artaud, invece, la parola-soffio forza ulteriormente i limiti della
lingua francese verso delle “pure intensità”, in corrispondenza con un corpo
diseducato ai modi e ai gesti della quotidianità e teso verso lo stesso limite,
per cui, attraversate le prime fasi sperimentali, egli aspirerà proprio a quel
corpo senza organi, un “corpo glorioso”, alienato attraverso un’esperienza
analoga a quella dei misteri orfici o eleusini, attraversato da grida e soffi,
“protagonista di una rivoluzione fisiologica di cui l’attore è l’avanguardia,
di una iniziazione di cui l’attore è sacerdote e vittima che si offre in una
sorta di olocausto contagioso.”97

Autori minori, stili e macchine da guerra

Anche nel colloquio scritto con Claire Parnet, Conversazioni,


Deleuze affronta la questione del rapporto tra autori e letterature minori ed
egemoni, con alcuni chiarimenti sulle differenze tra le une e le altre, e con
particolare attenzione rivolta ad alcune opere teatrali.
Quella capacità analizzata nel saggio su Kafka e in Critica e clinica,
tipica degli autori minori, di far balbettare la propria lingua, il linguaggio
stesso, ossia di scavare una linea di fuga che vada ad intaccare il sistema
omogeneo delle lingue maggiori, entra qui a far parte della definizione di
stile. E’ una nozione che compendia molti concetti esposti precedentemente
da Deleuze: il divenire-qualcos’altro da sé, divenire-minoritario, ad
esempio, creazione di nuove forze, e l’affinità di questo divenire con la
potenza vitale: “Il fascino, sorgente di vita, come lo stile, sorgente di
scrittura. E la vita non è fatta della vostra storia […] Il fatto è che il fascino
non coincide in nulla con la persona.”98

97
Ivi, p. 168.
98
G. Deleuze, C. Parnet, Conversazioni, cit., p. 11.

40
Fascino e stile sono parole che, a detta dello stesso Deleuze, pur non
corrispondendo appieno a ciò ch’egli intende esprimere, ribadiscono la
necessità per la vita d’essere potenza non personale, così come per la
scrittura di travalicare l’individuo-scrittore per farsi portatrice della vita
stessa nel suo divenire, nella sua molteplicità, in netta contrapposizione alla
“nevrosi” come sua mortificazione e caratteristica di ogni scrittura fine a se
stessa.
La linea di fuga aperta da queste opere è demoniaca, procede per
intervalli e salti,99 si oppone agli attributi stabiliti delle divinità, ed è inoltre
“traditrice”: “Il movimento del tradire è stato definito attraverso il doppio
distoglimento: l’uomo distoglie il proprio viso da Dio che non è da meno
nel distogliere il suo dall’uomo […] Edipo a Colono, con il suo lungo
errare, è stato presentato come il caso esemplare del doppio distoglimento.
Ma Edipo è la sola tragedia semitica dei Greci.”100 Ed è in virtù del
tradimento implicato nel distoglimento reciproco del volto divino da quello
dell’uomo, opposto all’imbroglio del regime significante, che la figura del
profeta si sostituisce a quella del sacerdote, interprete o indovino, che di
questo sistema fanno parte, come una linea di fuga che irrompe in esso:
“Alla segmentarietà circolare di simultaneità si è sostituita una
101
segmentarietà lineare di successione.”
La questione del volto è strettamente connessa a quella del
linguaggio, come sostiene Deleuze in Conversazioni e poi in Capitalismo e
schizofrenia; il viso è infatti quello spazio (come la lingua, come il corpo),
sul quale si territorializza il significante, strumento ed espressione di un
potere che su di esso si iscrive e agisce producendo identità/volti. “Il viso
fornisce la sostanza del significante, dà da interpretare, e poi cambia, i suoi

99
Vedi anche: G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p. 54.
100
G. Deleuze C. Parnet, Conversazioni, cit., p. 46.
101
Ivi, p. 112.

41
tratti cambiano, quando l’interpretazione restituisce del significante alla sua
sostanza.”102
Il tema del doppio distoglimento dei volti proprio del tradimento, del
traditore in quanto “macchina da guerra” che rifiuta e boicotta il sistema ma
non per un proprio tornaconto, (come invece fa il truffatore, il quale
evidentemente non pensa a sovvertire l’ordine entro e a danno del quale
agisce) viene poi ripreso da Deleuze anche riguardo a due altri personaggi
da tragedia, il Riccardo III di Shakespeare e la Pentesilea di Kleist.
Riccardo, Achille e Pentesilea sono tutti e tre delle macchine da
guerra che tradiscono in un modo o nell’altro il proprio esercito così come
le norme imposte dai rispettivi apparati statali operando una scelta che li fa
deviare dal tracciato, che apre delle linee di fuga. Deleuze infatti sottolinea
qui come il tradire implichi una scelta d’oggetto che obbliga ad un divenire,
“l’elemento demonico per eccellenza”,103 includendo tutti queste
caratteristiche nel processo di scrittura, ma che si confermi minoritaria, che
si mantenga come linea di fuga. Tradire in questo caso significa creare, ma
il processo di creazione artistica implica che l’identità dello scrittore si
faccia da parte per dare voce a quella minoranza che parla attraverso le sue
opere e per la quale egli scrive.
Kleist ad esempio oppone l’attimo demoniaco, il divenire-cagna di
Pentesilea che divora Achille, da lei illegittimamente voluto come nemico
da combattere, al mito ed alla tradizionale immagine del mondo greco:
inoltre la scelta reciproca di combattersi da soli implicherà la
trasformazione di Achille stesso, l’opposizione al suo esercito, la sua
morte.104

102
G. Deleuze, F. Guattari, Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia, cit., 1, p.
166.
103
Ivi, p. 47.
104
Ibidem, e p. 404: “Questi divenire trovano la loro condizione nel divenir-
donna del guerriero o nella sua alleanza con la ragazza, nel suo contagio

42
Anche Riccardo, uno dei personaggi teatrali demoniaci per
eccellenza, sceglie Lady Anna come interlocutrice e la trascina con sé nel
tradimento, dal quale entrambi distolgono lo sguardo ma che li obbligherà
comunque al vincolo e che coinvolgerà il primo in un divenire-donna, in
quel divenire-l’Anomalo già trattato in Conversazioni.
Tuttavia, proprio perché la scrittura coinvolge anche l’autore nel suo
divenire, e lo obbliga ad una trasformazione, questi è pure legato ad una
scelta, che porterà ad esempio Kleist a tradire “l’ordine” tedesco, lo stesso
Goethe e l’immagine della purezza ideale della grecità classica, e
Shakespeare a creare un dramma storico diverso rispetto ai precedenti, a
sviluppare un personaggio anomalo alla ricerca del tradimento assoluto,
secondo un progetto che eccede la pura conquista del potere e delle cui
tortuose macchinazioni l’autore si fece portavoce.
In Conversazioni Deleuze introdurrà anche la coppia di termini
critica e clinica; nel caso del procedimento critico di analisi dell’evoluzione
artistica di un determinato autore, si tratta di tracciare un piano di
consistenza delle sue opere che ne rilevi “i flussi coniugati, le pluralità di
divenire in gioco”.105 Contemporaneamente la clinica, quale “arte delle
declinazioni”, individuerebbe le linee che si articolano sul piano, in
particolare quella che conduce le altre e che determina la direzione presa
dall’opera stessa.
Questa “linea di maggior pendenza” interessa particolarmente
Deleuze, in quanto si tratta della linea di fuga che caratterizza l’opera ed il
suo autore allo stesso tempo, sempre perché il divenire riguarda entrambi, e
che racchiude però al suo interno anche una possibilità distruttiva, “una

con lei. L’uomo di guerra non è separabile dalle Amazzoni. L’unione


della ragazza e dell’uomo di guerra non produce animali, ma produce
simultaneamente il divenir-donna dell’uno e il divenir-animale
dell’altro…”.
105
G. Deleuze, C. Parnet, Conversazioni, cit., p. 125.

43
passione di annientamento”.106 A questo proposito, la direzione
dell’autodistruzione presa da Fitzgerald, da Hölderlin, Virginia Woolf,
Kleist, è già implicata nella linea di fuga che costituisce le loro opere, nelle
macchine da guerra che queste opere ed autori sono e diventano, e
l’esempio che qui ricorre più spesso è dato dalla vita e dall’opera di Kleist,
con particolare riferimento alla sua Pentesilea. Non si tratta di giudicare
l’opera ed il suo autore in base ad uno scopo individuabile successivamente,
ma di rilevare – mediante appunto il procedimento di critica e clinica – con
quale forza il processo del divenire, questa linea di fuga che li attraversa,
trasformi e imponga una direzione a delle macchine da guerra.
La metamorfosi implica che l’opera stessa, in quanto macchina da
guerra, ecceda sia la vita stessa dell’autore, sia il testo letterario di per sé, e
questo è uno dei pericoli che comporta la linea di fuga sulla quale la
macchina si è costruita, come spiega Deleuze in riferimento anche
all’ambivalenza del rapporto tra un apparato militare “irregolare” e
l’esercito istituzionalizzato: “la linea di fuga si converte in linea di
abolizione, di distruzione delle altre linee e di sé stessa, tutte le volte che
viene tracciata da una macchina da guerra.”107
Per fare alcuni esempi, sul piano letterario, per August Strindberg si
tratta del rapporto coniugale, per Fitzgerald dell’alcolismo, così come la
guerra condotta da Kleist nella sua vita è poi quella che lo ha portato nelle

106
Ivi, p. 147. Per una considerazione sul metodo di critica e clinica in
letteratura, (applicabile ad ogni autore minore), cfr. G. Piana, Deleuze e
la letteratura, “aut aut”, 276, 1996, p. 170: “sia la filosofia sia letteratura
sono forme di pensiero in cui emerge un impensato del pensiero, ossia
una scrittura e uno stile del pensiero. Se Carroll, Kafka, Lawrence,
Melville, Artaud e molti altri scrittori sono così importanti per Deleuze, è
perché sono degli sperimentatori. Pensare per Deleuze è un ‘esercizio
pericoloso’, è sperimentare, ed è in tale prospettiva che critica e clinica si
congiungono.”
107
G. Deleuze, C. Parnet, Conversazioni, cit., p. 150.

44
sue opere a contrastare l’apparato statale, Pentesilea contro l’ordine delle
Amazzoni, queste ultime contro lo scontro istituzionalizzato degli eserciti
“regolari” di Greci e Troiani.

La minorazione e il processo di variazione continua

Sempre in Mille Piani i due autori si occupano inoltre di analizzare


tre ambiti, linguaggio, musica, voce, all’interno delle cui strutture la
sperimentazione, le contaminazioni reciproche ed i procedimenti di messa
in variazione degli elementi cosiddetti stabili, omogenei, hanno aperto
nuove possibilità, nuovi concatenamenti: “non si deve pensare che la
musica non sappia più cantare, in un mondo divenuto meccanico o atomico,
ma che un immenso coefficiente di variazione si applichi, trascinandole, a
tutte le parti fatiche, linguistiche, poetiche, strumentali, musicali, di uno
stesso concatenamento sonoro.”108 Così è accaduto ad esempio con le
sperimentazioni della musica atonale , elemento minore che si è aperto una
via di fuga all’interno del sistema tonale e che ha rimesso in variazione la
musica stessa.
Quali e quante incrinature abbiano poi provocato gli usi minori della
lingua nelle e sulle lingue maggiori, ed all’interno del linguaggio stesso,
tutto questo Deleuze e Guattari è dal saggio su Kafka che lo ribadiscono;
ora però si tratta di lasciare aperta la possibilità di mettere in comunicazione
la musica, la voce come uno dei suoi strumenti, ed il linguaggio di cui essa
è al contempo veicolo ed alterazione, verso quelle che i due autori
definiscono “lingue segrete” che si producono attraverso “tensori” – anche
questo un concetto introdotto già in Kafka – e contaminazioni di lingua,

108
G. Deleuze, F. Guattari, Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia, cit., 1, p.
139.

45
musica e voce insieme. “Del resto, è forse una caratteristica delle lingue
segrete, dialetti, gerghi, lingue professionali, filastrocche, grida dei
venditori, di valere non tanto per le loro invenzioni lessicali o le loro figure
di retorica, quanto per il modo in cui esse operano delle variazioni continue
sugli elementi comuni della lingua. Sono lingue cromatiche simili a una
partitura musicale.”109
Questa operazione di variazione continua si può quindi verificare in
relazione ad un campo specifico come la musica o il linguaggio, appunto,
ma apre al contempo nuove possibilità, nuove vie di fuga che mettono in
comunicazione tutti gli ambiti sulla quale si applica. Lo stile, nozione
riscontrata già in precedenza, implica anche quella capacità di variazione
continua e riassume quindi in questo contesto tutte le caratteristiche proprie
di ogni minorazione, che di conseguenza si configura come un’operazione
creativa di per se stessa, sviluppata in questo caso in relazione sia alla
letteratura che alla musica così come al teatro (soprattutto con Beckett,
Wilson e Bene).
D’altra parte, il linguaggio teatrale, sebbene non privilegiato dai due
autori rispetto alle altre arti, ha la caratteristica di poter concatenare tutti gli
elementi di questo “cromatismo generalizzato” di cui parlano in Mille
Piani: in questo contesto essi ritornano infatti al teatro come uno dei punti
di partenza per la loro riflessione su alcuni regimi di segni e precisamente a
quella tragedia sulla quale più di altre si sono interrogati nell’arco della loro
produzione filosofica, ossia l’Edipo Re.

109
Ivi, p. 140.

46
Il teatro classico ed il giudizio

“Dalla tragedia greca alla filosofia moderna si elabora e si sviluppa


tutta una dottrina del giudizio. Non è tanto l’azione a essere tragica, quanto
il giudizio; e la tragedia greca per prima cosa instaura un tribunale.”110
Quest’affermazione di Deleuze, che apre uno dei capitoli del già citato
Critica e clinica, pone una delle questioni più rilevanti per l’arte teatrale ed
allo stesso tempo per la filosofia, ossia l’imporsi del sistema di giudizio
come impedimento all’affermazione di modi d’esistenza diversi rispetto a
quelli che il sistema stesso esige. L’autore aveva già affrontato il problema
del giudizio occupandosi del pensiero di Spinoza,111 come riferisce in
questo incipit, il quale nell’Etica pone filosoficamente la questione ed
imposta la propria critica al riguardo: “Ecco dunque che l’Etica, cioè una
tipologia dei modi di esistenza immanenti, sostituisce la morale, che
ricollega sempre l’esistenza a dei valori trascendenti. La morale è il
giudizio di dio, il sistema di Giudizio. Ma l’Etica rovescia il sistema di

110
G. Deleuze, “Per farla finita con il giudizio”, in Critica e clinica, cit., p. 165.
111
Ed anche in G. Deleuze, C. Parnet, Conversazioni, cit., p. 99, Deleuze indica
una linea di pensiero filosofico ed anche artistico che si contrappone al
giudizio, da Spinoza a Nietzsche attraverso Kleist: “Piano di consistenza,
piano di immanenza, è in questo modo che Spinoza già concepiva il piano
contro i tenutari dell’Ordine e della Legge, filosofi o teologi. È in questo
modo che la trinità Hölderlin-Kleist-Nietzsche concepiva già la scrittura,
l’arte e anche una nuova politica: non più uno sviluppo armonioso della
forma e una formazione ben regolata del soggetto, come la volevano
Goethe, o Schiller, o Hegel, ma […] delle coesistenze di velocità
variabili, dei blocchi di divenire.”

47
giudizio. All’opposizione dei valori (Bene-Male), si sostituisce la differenza
qualitativa dei modi di esistenza (buono-malvagio).”112
Sulla scia di queste riflessioni Deleuze cita quattro autori le cui opere
rappresentano sia una critica che il tentativo personale (che è anche un
processo di metamorfosi e minorazione) di superare il giudizio al quale
vengono sottoposti lungo l’arco della loro produzione filosofica ed artistica:
si tratta di Nietzsche, Lawrence, Kafka e Artaud.
La tragedia greca rappresenterebbe quindi l’inizio di un tribunale,
divino ed umano, ed a questo proposito l’autore evidenzia una cesura tra
l’opera di Eschilo e quella di Sofocle; in particolare il dramma di Edipo
segnerebbe il punto di passaggio da una fase all’altra. Anzi, Deleuze
utilizza specificamente i termini “rottura” e “biforcazione” (una delle quali
condurrà alla nascita del cristianesimo), per indicare un momento preciso a
partire dal quale abbiamo cominciato a contrarre un debito col divino tale
da condannarci definitivamente alla logica del giudizio, al tribunale, che si
fonda sul rapporto tra la nostra esistenza e quell’infinito cui il debito
accumulato sempre rimanda, secondo l’ordine del tempo e “la psicologia
del prete”.
In Eschilo infatti gli dei sono ancora testimoni passivi, è con Sofocle
invece che dei e uomini iniziano ad ergersi a giudici, in base a quote di
esistenza che ci verrebbero concesse, tali da circoscrivere la nostra capacità
di giudizio e consegnarci ad una forma a cui fare riferimento ed a partire
dalla quale siamo sottoposti a giudizio.
Deleuze cita Nietzsche come colui che indicò che la relazione
creditore-debitore era primaria rispetto a ogni scambio,113 ovvero che ad un
sistema della crudeltà, (presente nell’opera di Anassimandro così come in

112
G. Deleuze, Spinoza. Philosophie pratique, P.U.F., Paris 1970; Minuit, Paris
1981; trad. Spinoza. Filosofia pratica, Guerini e Associati, Milano 1991,
p. 34.

48
Eschilo) basato su principi di giustizia stabiliti tra parti e gestiti nell’arco
dell’esistenza, si è sostituito un tribunale divino, irraggiungibile, nei
confronti del quale il nostro debito si accumula all’infinito, perché non si
risolve più durante la nostra esistenza terrena, ma vincola al giudizio la
nostra anima immortale.
Il mutamento dell’elaborazione dei miti e delle leggende da parte di
Eschilo rispetto a Sofocle è attestato dagli studi che si occupano di storia
del teatro: l’evoluzione ed il distacco rispetto alle origini della tragedia è
comunque già in atto nelle opere del primo, sebbene fosse nato ad Eleusi e
probabilmente iniziato ai riti misterici e quindi legato ad una precedente
concezione del teatro a noi praticamente sconosciuta. Non a caso, il ruolo
del coro, ad esempio, in Eschilo aveva ancora una predominanza superiore
rispetto agli altri due tragediografi e “le sue odi corali possiedono uno
splendore ed una complessità di linguaggio a mala pena eguagliati dal suo
contemporaneo Pindaro”, a testimonianza della sua prossimità con le origini
corali della tragedia.114
Ciò nonostante, la testimonianza di Aristotele riguardo
all’introduzione del secondo attore, indica che già nelle sue opere cominciò
quel processo che portò ad attribuire una sempre maggiore importanza al
dialogo ed alla discussione, proseguito con l’introduzione da parte di
Sofocle del terzo attore e la progressiva trasformazione del coro, (portato da
dodici a quindici elementi, poi ridotto d’importanza con l’eliminazione
progressiva degli stasimi e il distacco dalla trama) fino a raggiungere il
culmine nelle opere di Euripide. Questa progressiva soppressione del
linguaggio poetico delle odi corali a vantaggio del dialogo, dei dibattiti
retorici, della maggiore complessità della trama e resa psicologica dei

113
G. Deleuze, “Per farla finita con il giudizio”, cit., p. 167.

49
personaggi che separa Eschilo dagli altri due autori, conduce
immediatamente alle riflessioni in merito del Nietzsche de La nascita della
tragedia, ed in particolare all’opposizione Dioniso/Socrate.
Con Euripide e Socrate infatti, il tribunale è già stato instaurato,
come sostiene Deleuze a proposito della questione del tragico analizzata nel
contesto della sua interpretazione del pensiero di Nietzsche, poiché
quest’ultimo è il “primo genio della decadenza: oppone l’idea alla vita,
giudica la vita attraverso l’idea, pone la vita come qualcosa che dev’essere
giudicato, giustificato, redento dall’idea.”115
In Nietzsche e la filosofia, Deleuze ravvisa l’essenza del tragico nel
rifiuto della dialettica come mediazione delle contraddizioni, che si
configura invece come l’elemento tipico del dramma; infatti se la
contraddizione dialettica si fonda sulla negazione e implica una visione
pessimistica dell’esistenza, la tragedia ne sottolinea invece la portata
affermativa e “gioiosa”, non attraverso il superamento ma con
l’accettazione del negativo, non mediante conciliazione ma comprensione
del divenire nei suoi molteplici aspetti.116
Di conseguenza, la potenza affermativa della filosofia nietzschiana si
esprime, stando a Deleuze, in contrasto con i valori repressivi propri del
cristianesimo e della coscienza come istanza autorepressiva (come
interpretata poi dalla psicanalisi);117 in particolare conduce alla possibilità

114
H. C. Baldry, The Greek Tragic Theatre, Chatto&Windus, London 1971;
trad. I Greci a teatro. Spettacolo e forme della tragedia, Laterza, Bari
1975², p. 119.
115
G. Deleuze, Nietzsche et la philosophie, P.U.F., Paris 1962; trad. Nietzsche e
la filosofia, Colportage, Firenze 1978, p. 39.
116
M. Ferraris, Nietzsche e la filosofia del Novecento, Bompiani, Milano, 1989,
p. 122.
117
G. Deleuze, Spinoza. Filosofia pratica, cit., p. 34: “L’illusione dei valori fa
tutt’uno con l’illusione della coscienza”, e p. 38: “Spinoza non è di quelli
che pensano che anche una passione triste abbia qualche cosa di buono.

50
di un pensiero critico non più vincolato dalla razionalità propria di un
pensare legato al giudizio, ove “pensare è giudicare, ma giudicare è valutare
e interpretare, è creare valori. Il problema del giudizio diviene quello della
giustizia, della gerarchia.”118
Nel pensiero affermativo di Nietzsche, pertanto, viene esaltata
l’affermazione della differenza in opposizione alla negatività ed alla
contraddizione del pensiero dialettico, che si esprime invece mediante “la
rappresentazione del movimento in cui e attraverso cui la contraddizione si
pone e si risolve”;119 quindi in questo capitolo di Critica e clinica, a partire
dal tema del giudizio rapportato alla tragedia greca del V-IV secolo a.C.,
riemerge anche la questione della critica del falso movimento
rappresentativo trattata da Deleuze in Differenza e ripetizione a favore di
una dimensione artistica che attraverso la manifestazione della differenza
permetta una ricezione non mediata della realtà, ossia della possibilità di
una nuova percezione dell’arte teatrale grazie al rinnovamento filosofico
operato anche dal pensiero di Nietzsche, punto focale di tutti questi
passaggi.
In riferimento all’opera di Artaud, Deleuze analizza poi quel sistema
della crudeltà prima citato, qui riferito ai differenti modi in cui opporsi alla
dottrina del giudizio. Il confronto si pone tra quella che Nietzsche ha
indicato come una giustizia, ove il debito contratto con un partner ed
iscritto direttamente sul corpo “per via di forze che passano tra le parti,
provocano un cambiamento di stato e creano in queste qualcosa:
l’affetto”,120 ed il giudizio cui la giustizia e il sistema della crudeltà di cui è

Prima di Nietzsche, denuncia tutte le falsific azioni della vita, tutti i valori
in nome dei quali disprezziamo la vita…”.
118
G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, cit. in M. Ferraris, Nietzsche e la
filosofia del Novecento, cit., p. 124.
119
C. Di Marco, Deleuze e il pensiero nomade, cit., p. 166.
120
Ibidem.

51
parte si oppone, che esige invece debiti contratti con gli dei e perciò in
rapporto a forze a noi superiori, ed iscritti non più nei corpi ma “su un libro
autonomo”, in rapporto ad un tempo infinito e perciò mai estinti.
Il mondo del giudizio si configura secondo il giudizio divino, che
Artaud rifiuta, ed inoltre “si installa come in un sogno”,121 agisce cioè
secondo un tribunale anche in questo contesto rimesso in scena sia dalla
psicanalisi che dal surrealismo. Non a caso, Artaud aderì solo per un breve
periodo a questo movimento culturale, da cui si distaccò bruscamente,
attratto piuttosto dalle potenzialità di quegli stati di ebbrezza dionisiaca o
“sogni d’insonnia”, sogni che portano in sé il movimento reale e che si
sottraggono al giudizio. Ed ancora, è anche grazie alle potenzialità di quel
già citato corpo senza organi che Artaud persegue nel suo teatro, ossia un
corpo in divenire, attraversato da intensità, che egli si oppone al corpo quale
organismo la cui percezione è organizzata e delimitata a livello sensoriale
dal sistema di giudizio che in esso si iscrive.122
E’ quindi possibile che le riflessioni di Deleuze sul teatro pre-
sofocleo, considerato una forma drammatica svincolata dal giudizio, e poi il
tentativo di sottrarvisi analizzato attraverso il pensiero e l’attività artistica
dei quattro autori qui citati, stia ad indicare, fra le varie ipotesi, anche la
reale possibilità di pensare e proseguire quella rinascita artistica che nel
teatro contemporaneo è stata inaugurata e sviluppata soprattutto grazie
all’opera dei pochi autori di cui Deleuze si è interessato, ovvero Artaud,
Wilson, e Bene.

121
Ivi, p. 169.
122
G. Deleuze, F. Guattari, Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia, cit., 1, p.
42: “Un corpo senza organi non è un corpo vuoto o denudato d’organi,
ma un corpo sul quale tutto ciò che serve da organo si distribuisce […]
seguendo molteplicità molecolari. […] Dunque esso si oppone non tanto
agli organi quanto alla organizzazione degli organi, poiché questa
comporrebbe un organismo.”

52
Come ulteriore approfondimento della questione del giudizio e di
come sia possibile sottrarvisi tramite determinate forme artistiche, si può
fare riferimento anche alle riflessioni in merito elaborate da Deleuze in
L’immagine-tempo. Cinema 2: “Questo problema del giudizio non è più
nuovo nel cinema di quanto non lo fosse nel teatro e ha subito una
complessa evoluzione. Fin dall’espressionismo, è la lotta del bene e del
male, della luce e delle tenebre, a costituire la metafisica del vero (trovare la
verità nella luce e nell’espiazione).”123
In questo testo Deleuze si riferisce al cinema di Orson Welles, e
riannoda i fili con quell’analisi del giudizio impostata anche in relazione
all’arte teatrale, con specifico riferimento, tra gli altri, alla figura di
Nietzsche, sempre presente sullo sfondo delle sue riflessioni. C’è un’altra
questione che emerge a proposito del cinema di Welles, collegata alla
precedente, ed è quella del falso movimento: egli “è il primo a liberare
un’immagine-tempo diretta e a far passare l’immagine sotto la potenza del
falso […] vi è un nietzscheanesimo in Welles.”124 L’eliminazione della
verità, dei valori superiori che la giustificano, del sistema del giudizio in
sostanza, a parere di Deleuze sono concetti che accomunano Nietzsche e la
sua critica della verità con i film di Welles, nei quali emerge la potenza del
divenire quale potenza del falso, in quanto si oppone al concetto di verità ed
oltrepassa la dualità bene-male che il sistema del giudizio richiede.
Per quel che riguarda il movimento, questo resta legato all’ideale di
verità finché fa riferimento a delle invarianti, a dei punti fermi, così come si
verifica nel caso dell’immagine-movimento analizzata nel primo volume;
nel momento in cui queste invarianti sono rimosse, accade che “Il
movimento fondamentalmente decentrato diventa falso movimento e il

123
G. Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, cit., p. 155.
124
Ivi, p. 154.

53
tempo fondamentalmente liberato diventa potenza del falso che ora si
svolge nel falso movimento.” 125
Ed è proprio questa, secondo l’autore, la funzione specifica
dell’artista (e l’importanza dei film di Welles): la capacità di portare la
potenza del falso al punto in cui, eliminate verità e apparenze, ciò che resta
è la trasformazione, “metamorfosi del vero”, ovvero slancio vitale, ed egli
diventa creatore di questa verità che non esiste come ideale unico ma come
continua produzione: l’arte come creazione di altre verità.
Seguendo le riflessioni di Deleuze, quindi, si evince che
l’opposizione al sistema del giudizio implica sostanzialmente un processo
dinamico, creativo appunto; come sostiene anche in Conversazioni, infatti,
la giustizia, che in questo contesto è assimilata al giudizio del “tribunale
della Ragion pura, o della Fede pura”126 a cui ci appelliamo, richiede
conformità, adeguazione a norme e tribunali divini ed umani, si appella ad
una trascendenza, in opposizione ad ogni divenire, alle linee di fuga, alle
deterritorializzazioni prodotte da autori ed opere minori, quali sono,
secondo l’autore, quelli finora citati.127
In questi casi, nel caso cioè in cui l’opera e l’autore abbiano
affrontato questo processo di divenire, e quindi siano effettivamente minori,
(poiché ogni divenire è minoritario) quali macchine da guerra che hanno
percorso la propria linea di fuga scavata all’interno di un sistema
omogeneo, allora tutto assume valore collettivo, non esiste più il soggetto
d’enunciazione, solo “concatenamenti collettivi d’enunciazione”: il progetto
di schizoanalisi elaborato da Deleuze e Guattari in Mille Piani. Capitalismo
e schizofrenia in contrapposizione al modello psicanalitico, infatti, non si
pone più il problema dell’interpretazione, ma piuttosto dell’individuazione

125
Ivi, p. 161 (in corsivo nel testo).
126
G. Deleuze, C. Parnet, Conversazioni, cit., p. 15.
127
Ivi, p. 14.

54
e della distribuzione delle linee e dei loro concatenamenti nei piani che
vengono a formare e sui quali si intersecano.

L’Edipo e la psicanalisi

In riferimento alla tematica del giudizio presa in considerazione e


quindi all’affermazione di Deleuze dell’instaurarsi di un tribunale a partire
dal teatro di Sofocle, è d’obbligo fare riferimento al rapporto tra la tragedia
classica per eccellenza scritta da quest’ultimo, l’Edipo Re, e la psicanalisi,
secondo l’ottica del filosofo francese anche in riferimento ai suoi scritti con
Guattari.
Deleuze affronta infatti la questione dell’Edipo in relazione alla
psicanalisi ed in particolare alla formazione del linguaggio in modo più
specifico già in Logica del senso; considerata come “la tragedia
dell’Apparenza”, in cui Edipo agisce come “l’eroe delle superfici”, l’autore
se ne serve per delineare il percorso che porta alle formazioni pre-
linguistiche, (e poi alla parola), ed all’organizzazione della superficie fisica,
che precede la costituzione della superficie metafisica. “…proprio come la
superficie fisica è una preparazione della superficie metafisica,
l’organizzazione sessuale è una prefigurazione dell’organizzazione del
linguaggio.”;128 in questo contesto Deleuze pone delle critiche alla
psicanalisi e tuttavia approfondisce le proprie riflessioni – a partire
dall’Edipo – ponendosi a confronto ma non in netta opposizione con essa,
come accadrà invece in seguito.

128
G. Deleuze, Logica del senso, cit., p. 213.

55
Diversamente, infatti, nel colloquio con i due autori de L’anti-Edipo,
riportato in Deleuze,129 l’indagine psicanalitica, per i metodi di cui si è
servita finora, viene definita “una messa in scena da teatro che sostituisce
semplici valori rappresentativi alle vere forze produttive dell’inconscio”,
ossia un processo di personificazione delle macchine di desiderio, che
imbriglia il loro potenziale riducendole a “macchine illusionistiche”. Il
desiderio quale forza positiva e produttiva dell’inconscio, che si esprime
tramite un linguaggio già tratteggiato da Deleuze in Logica del senso,
delirante, intensivo, appartenente ad una “follia della profondità” dalla
quale, come si è detto, proviene l’esperienza teatrale di Artaud, viene qui
bloccato e ridotto ad “una scena da teatro”.
Di conseguenza, sembra che in questo contesto il riferimento al
teatro classico – connesso alla psicanalisi – prenda un’altra piega rispetto al
discorso nel quale Deleuze affermava l’indipendenza della tragedia dal suo
utilizzo successivo, e grazie ad essa e tramite concetti psicanalitici, chiariva
i processi pre-linguistici, ed infine la differenza tra romanzo famigliare ed
opera d’arte.130

129
G. Deleuze, F. Guattari, “Su Capitalismo e Schizofrenia, colloquio con
Gilles Deleuze e Felix Guattari”, in AA.VV., Deleuze, Lerici, Cosenza
1976, p. 71.
130
G. Deleuze, Logica del senso, cit., pp. 208-209: “tali diagnosi
[psicanalitiche] hanno pochissimo interesse, e si sa bene che non è in tal
modo che la psicoanalisi e l’opera d’arte (o l’opera letterario-speculativa)
possono annodare il loro incontro. […] Non è certo facendo “la
psicoanalisi” dell’opera. […] Con il genio di Freud, non è il complesso
che ci informa su Edipo e Amleto; sono Edipo e Amleto a darci
informazioni sul complesso. Si potrà obiettare che non c’è bisogno di
artista e che il malato basta da solo a fare il romanzo, e il medico a
valutarlo. Ma sarebbe trascurare la specificità dell’artista, a un tempo
come malato e come medico della civiltà: la differenza esiste tra il suo
romanzo come opera d’arte e il romanzo del nevrotic o.”

56
Infatti, sebbene ne L’anti-Edipo Deleuze e Guattari “rimproverino” a
Freud di aver mascherato la produzione desiderante inconscia alienandola
nella rappresentazione famigliare di Edipo, ed il loro attacco, come
chiariscono, sia diretto sostanzialmente all’uso che la psicanalisi fa di
Amleto e Edipo Re, la portata creativa di un’opera d’arte qual è questa
tragedia – come delineata in Logica del senso – sembra messa in secondo
piano rispetto alla critica dell’uso riduttivo che qui ne viene fatto.
Tuttavia: “Non vogliamo dire che Edipo, o il suo equivalente, varia
con le forme sociali considerate. Crederemmo piuttosto, con gli
strutturalisti, che sia un’invariante. Ma è l’invariante di un distoglimento
delle forze dell’inconscio. E’ per questo che noi attacchiamo Edipo, non in
nome di società che non lo comporterebbero, ma in quella che lo comporta
eminentemente, la nostra, la capitalistica.”131 La nozione di invariante qui
riferita all’Edipo (assimilabile al concetto di linea molare) nel successivo
L’immagine-tempo. Cinema 2, ad esempio, rappresenta una delle condizioni
essenziali alla conservazione degli ideali trascendenti su cui si fondano i
sistemi maggioritari, per cui l’attacco è diretto contro la psicanalisi in
quanto sistema o “Strato” repressivo all’interno del quale però agisce
autonomamente la linea molare-Edipo.
La messa in scena nella quale il desiderio viene rappresentato, è
“negazione del desiderio […] in quanto produttore di reale”,132 nega perciò
il reale, e si presenta sotto un’altra luce rispetto a quel teatro della
ripetizione come manifestazione della differenza, di cui Deleuze parla in
Differenza e ripetizione, e al quale attribuisce una valenza eversiva ed un
diverso potenziale.
Con la riduzione dei processi inconsci alla scena di Edipo, la
“riduzione delle fabbriche dell’inconscio a una scena di teatro, Edipo,

131
G. Deleuze, F. Guattari, “Su Capitalismo e Schizofrenia, colloquio con
Gilles Deleuze e Felix Guattari”, cit., p. 75.

57
Amleto […] Edipo non è affatto una formazione dell’inconscio”,133 quella
che è stata definita una “svolta idealistica” della psicanalisi, operante,
secondo i due autori sin dall’inizio, l’ha condotta a fissarsi sulla nevrosi,
impedendole di confrontarsi con la psicosi, e con le manifestazioni inconsce
che la originano, se non riconducendole alla scena famigliare e teatrale.
Come conseguenza di questa rimozione, il processo psicotico
schizofrenico quale manifestazione delle forze dell’inconscio desiderante,
per riuscire ad esprimersi non può che costruirsi un linguaggio “altro”,
quello della poesia o di una certa letteratura: non a caso infatti, proseguendo
nell’intervista, assieme ad altri romanzieri americani o inglesi, emergono
nuovamente i nomi di Artaud e di Beckett. Deleuze e Guattari riconoscono
infatti a questi autori la capacità di messa in atto, attraverso la scrittura, di
un “procedimento schizofrenico, di decodificazione e
deterritorializzazione” e indicano, con queste affermazioni, la potenzialità
delle loro opere – attraversate da “flussi” o “intensità” – d’essere degli
“schizo-libri”,134 di presentarsi al contempo come opere artistiche e
rivoluzionarie, nel senso che i due autori attribuiscono al termine.
Giunti a questo punto, mi sembra opportuno fare riferimento alle
considerazioni sull’argomento del saggio di Pier Aldo Rovatti Il paiolo
bucato, a proposito di Logica del senso di Deleuze, per segnalare la
differenza di approccio alla questione dell’Edipo da parte di quest’ultimo
rispetto ai successivi testi scritti in collaborazione con Guattari. Sembra,
infatti, che se lungo il percorso di Logica del senso il filosofo francese
abbia segnalato le oscillazioni tra un’arte più legata alla profondità, e la
forza di opere “di superficie”, che si mantengono in bilico tra
profondità/altezza – tra cui l’Edipo Re, appunto – nonché la difficoltà di

132
C. Di Marco, Deleuze e il pensiero nomade, cit., p. 234.
133
G. Deleuze, F. Guattari, “Su Capitalismo e Schizofrenia, colloquio con
Gilles Deleuze e Felix Guattari”, cit., p. 76.

58
trovarsi in questo equilibrio, ne L’anti-Edipo la questione del rapporto tra
queste “due follie” venga invece messa in ombra dall’inconscio desiderante
e da una produzione artistica capace di esprimerlo direttamente, come se
l’oscillazione tra senso e non-senso agisse ora in profondità.135
A questo proposito, in Critica e clinica, riguardo al processo artistico
di creazione dell’opera d’arte, Deleuze sostiene che: “La nevrosi, la psicosi
non sono passaggi di vita, ma stati in cui si cade quando il processo è
interrotto, impedito, chiuso”;136 sembra allora che la nozione di psicosi
come forza produttiva dell’inconscio, così com’è stata delineata da Deleuze
e Guattari, assuma successivamente le stesse caratteristiche negative
attribuite alla nevrosi di stampo psicanalitico, ad indicare così entrambe
quali blocchi, impedimenti alla realizzazione di ogni produzione artistica.
Tuttavia anche durante la recente intervista televisiva con Claire
Parnet, L’Abecedaire de Gilles Deleuze, il filosofo francese, con l’ausilio di
una lettera dell’alfabeto suggerita da Parnet per proseguire il loro dialogo,
la lettera D, che sta per Desiderio, discute de L’anti-Edipo e ne ribadisce
l’attualità ed importanza del concetto di inconscio per come è stato posto.
Conformemente al contenuto del libro, infatti, viene messa in
relazione alla psicanalisi ed alla sua “costante rappresentazione di Amleto
ed Edipo”, la produzione delirante inconscia, l’inconscio come
“macchina/fabbrica, non un teatro”: attraverso la rappresentazione teatrale
ciò che si manifesta è il giudizio di quel tribunale la cui funzione autoritaria
è stata più volte indicata da Deleuze. Come dimostrato anche nell’intervista,

134
Ivi, p. 82.
135
P. A. Rovatti, Il paiolo bucato, cit., p. 196: “Ci sarebbero dunque due
“follie”? Deleuze risponde di sì. La questione è delicata, ma la risposta di
Deleuze è chiaramente leggibile attraverso tutta la costruzione di Logica
del senso (tenderà invece a cancellarsi più tardi, almeno a partire da
L’anti-Edipo): la “perversione” della superficie si oppone (non solo,
dunque, si differenzia) alla “schizofrenia” della profondità/altezza.”

59
quindi, il rapporto arte-artista può assumere diverse sfaccettature: infatti,
sebbene già in Logica del senso Deleuze affermasse, come in Che cos’è la
filosofia, l’indipendenza dell’opera dall’artista e dalle interpretazioni
successive, tuttavia da L’anti-Edipo in poi con la netta critica della
psicanalisi emerge prepotentemente l’immagine dell’arte teatrale utilizzata
come strumento di prevaricazione, e la sua portata eversiva viene del tutto
oscurata.
Anche in Conversazioni Deleuze fa riferimento alla vicenda di Edipo
che, come già osservato, in quanto tragedia-cesura tra il teatro di Eschilo e
quello di Sofocle, rappresenta il punto di biforcazione tra una forma
drammatica slegata dal giudizio e quelle successive nelle quali invece
compare e si instaura un tribunale; in questo testo però è da rilevare che
Deleuze segna un’ulteriore separazione, tra l’Edipo Re e l’Edipo a Colono.
Mentre infatti in precedenza l’autore si era occupato solo dell’Edipo Re,
(sia in Differenza e ripetizione, che in Logica del senso e ne L’anti-Edipo),
via via modificando il suo rapporto e le sue considerazioni nei riguardi di
quest’opera che evidentemente si colloca sul limite e quindi sfugge ad una
determinazione precisa, in Conversazioni inserisce il passaggio successivo,
l’Edipo a Colono: “Per quel che ci riguarda, abbiamo creduto di vedere
nell’Edipo lo sporco piccolo segreto, non certo però l’Edipo a Colono, nella
sua linea di fuga, divenuto impercettibile, identico al grande segreto
vivente. Il grande segreto si dà quando uno non ha più nulla da nascondere
…”.137
Il piccolo segreto, il significante, il fantasma, l’identità, il volto,
bloccano qualsiasi scrittura nell’interpretazione, nella storia personale,
impediscono qualsiasi divenire: e qui l’Edipo si divide in due, da una parte
la tragedia come già analizzato da Deleuze e Guattari ne L’anti-Edipo,

136
G. Deleuze, Critica e clinica, cit., p. 16.
137
G. Deleuze, C. Parnet, Conversazioni, cit., p. 52.

60
dall’altra la continuazione della storia che però si apre in una linea di fuga:
e forse ora Deleuze individua e colloca la cesura, la biforcazione, in mezzo
a queste due opere.
Anche nei due volumi che compongono e completano l’opera
pubblicata da Deleuze e Guattari, Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia, è
ripresa ed approfondita (come seguito de L’anti-Edipo) la questione della
psicanalisi e dell’apparato edipico che questa disciplina ha eretto come sua
struttura invariabile e in base al quale ha annullato la possibilità di qualsiasi
produzione inconscia non riconducibile alla dualità nevrosi-psicosi, stabilita
secondo le proprie categorie. In Mille Piani essi denunciano il blocco del
processo di produzione di inconscio, di divenire, sostanzialmente di
molteplicità che si compenetrino secondo la logica del concatenamento e
non dell’opposizione dialettica, di enunciati come “agenti collettivi di
enunciazione”,138 e non come prodotti individuali.
La nozione di invariante, di fondamento-radice, ruolo che in
psicanalisi è per l’appunto rivestito dall’interpretazione secondo lo schema
edipico, costante necessaria al procedimento psicanalitico per com’è stato
impostato, è qui riconosciuta da Deleuze e Guattari come l’elemento
dominante di tutta la realtà occidentale. Seguendo le loro indicazioni per
quel che riguarda altri campi all’interno dei quali agiscono queste strutture
“arborescenti”, a queste ultime i due autori oppongono la propria
schizoanalisi, che non riduce l’inconscio alle sue interpretazioni ma si
configura quale produzione d’inconscio, secondo la logica rizomatica.
L’analisi dell’Edipo Re rimette in gioco anche la nozione di
tradimento, più volte citata, collegandola alla viseità, concetto complesso
anch’esso riscontrato più volte nella produzione filosofica di Deleuze,
“macchina astratta” che producendo volti, produce anche identità,

138
G. Deleuze, F. Guattari, Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia, cit., 1, p.
53.

61
significanti, poiché è uno degli elementi che definiscono la soggettività:
tuttavia i volti che si distolgono l’uno dall’altro nell’atto del tradimento non
impediscono la formazione di una linea di fuga, al contrario, il reciproco
“voltafaccia” la favorisce.
In questo volume, Deleuze e Guattari confermano l’ambiguità della
vicenda dell’Edipo Re, delineata in precedenza, caso pressoché unico nel
mondo greco di evoluzione di una tragedia la cui prima parte appartiene ad
una struttura sociale “imperiale, dispotica, paranoica, interpretativa,
pretesca…della significanza e dell’interpretazione”,139 mentre nella seconda
parte, l’Edipo a Colono, si dipana quella linea di fuga conseguenza del
tradimento, dell’erranza, del sottrarsi all’ordine divino contemporaneo al
suo distogliere il volto, che conduce verso la sopravvivenza e l’autonomia
della scelta del soggetto, come sostenuto in Conversazioni.
Ma l’analisi di Mille Piani prosegue, e sposta la linea di fuga ancora
più in là, poiché la direzione che la seconda fase dell’Edipo ha preso porta
anch’essa verso una riterritorializzazione, in questo caso nel regime della
soggettivazione, con la costituzione di un’altra linea: “Non vi è più un
rapporto significante-significato, ma un soggetto d’enunciazione, che
scaturisce dal punto di soggettivazione, e un soggetto d’enunciato, che sta
in rapporto a sua volta determinabile con il primo soggetto.”140 Come
alternativa alla riterritorializzazione, i due autori propongono la possibilità
di una “deterritorializzazione assoluta positiva sul piano di consistenza, sul
‘corpo senza organi’”,141 il quale assume su di sé il peso della
desoggettivizzazione assoluta, dell’assenza di ogni interpretazione, al
contrario di ciò che persegue la psicanalisi.
Il riferimento teatrale più immediato resta anche in questo caso
Artaud, visto come uno dei pochi interpreti in grado di spingersi oltre la

139
Ivi, pp. 180-181.
140
Ivi, p. 185.

62
dialettica dell’“Uno e del Molteplice” verso quel piano d’immanenza-
consistenza del desiderio che è il corpo senza organi, o “CsO”. Come
sottolineato in precedenza, però, la posizione di Deleuze e Guattari già da
L’anti-Edipo si pone in contrasto con altre riflessioni sulle opere del famoso
attore-autore francese, che affermano invece il suo tentativo di
riconciliazione con l’unità originaria, come, ad esempio, quella già
ricordata di Derrida. La questione non è qui forse se e come Artaud sia
riuscito, anche solo teoreticamente, nel suo tentativo di formulare un’ipotesi
di teatro totale, “crudele” e “sacro”, quanto, come già affermato
precedentemente, di cogliere nei rimandi che Deleuze e Guattari fanno a
quest’autore lungo tutta la loro comune produzione filosofica, un segnale
che invita a considerarlo come una figura provocatoria rispetto al comune
modo di pensare e produrre arte, una macchina da guerra per l’arte teatrale
contemporanea.142
Per un breve sguardo più generale sulla questione edipica per come è
stata affrontata specificamente da Deleuze e Guattari, si può fare

141
Ivi, p. 195.
142
Ulteriori prospettive rispetto alla posizione di G. Deleuze, F. Guattari, più
vicine alle riflessioni di J. Derrida, anche le più recenti interpretazioni
dell’opera di A. Artaud, vedi la recensione di A. Bisicchia, Il mio furore è
rigore, parola di Artaud, “Il sole 24 Ore”, 291, 1999, a C. Dumoulié,
Antonin Artaud, Éditions du Seuil, Paris 1996; trad. Antonin Artaud,
Costa&Nolan, Milano 1999: “E’ il ‘furore’ a generare la crudeltà, a
produrre il contagio, l’epidemia, a far sì che la scena debba essere intesa
come luogo della identificazione per la quale forze oscure elaborano una
autonomia della scrittura (rivelata) che riporta lo spirito alla fonte dei suoi
conflitti. Per Artaud il teatro è un rituale che consente di gestire la
potenza del sacro o che mette la messa in scena nelle condizioni di
obbedire alle medesime esigenze del rito. I riti ai quali Artaud fa
riferimento sono quelli dei misteri eleusini dove il male si manifestava
nella forma più pura o quelli del teatro balinese, adatti alla creazione di
una poesia dello spazio scenico che permette di svuotarlo da tutto ciò che
non gli è proprio per restituirlo alla sua purezza…”.

63
riferimento anche alla riflessione di Maurizio Ferraris, il quale sostiene che:
“si è visto come ne L’anti-Edipo il problema non fosse la rivendicazione del
desiderio contro la sua repressione, ma l’affermazione del molteplice contro
le istanze negative comportate dal monismo.”143 Sostanzialmente, laddove
la psicanalisi interpreta il desiderio come negatività, servendosi di “griglie
simboliche” quali la ragione e l’Edipo, schizofrenia e nevrosi si rivelano
invece come due momenti del desiderio, l’uno attivo, l’altro reattivo, e la
scelta cade sulla schizofrenia in quanto modalità affermativa della
molteplicità del reale, e sulla schizoanalisi come un progetto di critica
affermativa, soprattutto dopo L’anti-Edipo: “eccezion fatta per le proposte
circa la schizoanalisi, L’anti-Edipo può essere letto come una critica a
partire dall’affermativo, e non come una “critica affermativa”. Il suo
seguito in Mille Plateaux, annunciato esplicitamente, vi era perciò implicato
logicamente.”144

Resistenza

L’opposizione ad ogni impedimento al processo creativo dipende in


sostanza soprattutto dalla capacità degli artisti minori di scavare le proprie
linee di fuga e riaprire quel processo di divenire, creativo, necessario alla
creazione delle proprie opere e che appartiene altresì ad ogni opera d’arte in
quanto tale, compiuta in sé eppure aperta ad ogni utilizzo e manipolazione
(in senso positivo come negativo), mediante quella che Deleuze definisce
resistenza o “cura di sé”.

143
M. Ferraris, Deleuze. Critica, affermatività, sperimentazione, cit., p. 135.
144
Ibidem.

64
Il filosofo francese ha affermato in uno scritto precedente a
L’Abecedaire145 quanto quest’operazione di critica ovvero minorazione dei
classici sia complessa, quanto si differenzi da una semplice interpretazione
e implichi una radicale trasformazione da parte dell’artista quale macchina
da guerra che se ne fa portavoce: in questo caso egli vede in Bene uno degli
artisti in grado di realizzare questo progetto – nel cinema come in teatro.
Quello che viene più volte ribadito in quest’intervista è proprio
l’analogia del lavoro del filosofo con quello dell’artista, in quanto entrambi
affrontano processi di creazione – di concetti come di percetti – e appunto,
di resistenza, nozione che si riallaccia alle affermazioni precedenti sulla
manipolazione e mistificazione di un’opera d’arte, poiché per l’artista come
per il filosofo è necessario resistere – alla volgarità, alla “bestialità” del
pensiero, dell’opinione – attraverso la creazione delle proprie opere.146
La nozione di resistenza assume quindi le stesse caratteristiche
attribuite ad ogni minoranza, come realtà critica di fronte ad ogni pensiero
maggiore, stabile, assiomatico, la quale sostanzialmente si rapporta alla
molteplicità del reale nel confronto con la problematizzazione del soggetto,
dello spaesamento, con l’assunzione di una dimensione nomadica. “Questa
visione nomadica del mondo e dell’esistere comporta, da un punto di vista
etico-politico, la necessità di dover ridefinire il soggetto posto ora
nell’ottica di un reale inteso come molteplicità e divenire. Una soggettività
che Deleuze ‘progetta’, in sintonia con Foucault, come ‘fuoco di resistenza’
[…] un fuoco che si concretizza come ‘diritto alla differenza’ e alla
metamorfosi”.147

145
G. Deleuze, Un manifesto di meno, cit., pp. 71-72.
146
G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia ?, cit., p. 214. Cfr. anche M.
Foucault, Theatrum philosophicum, cit., pp. 69-71.
147
C. di Marco, Deleuze e il pensiero nomade, cit., p. 271.

65
CAPITOLO III

INTERFERENZE ED INCONTRI

In Che cos’è la filosofia?, l’ultimo testo scritto insieme da Deleuze e


Guattari, che rappresenta quasi una sintesi dei tanti argomenti sviluppati
lungo il loro comune percorso filosofico, viene ribadita la necessaria
autonomia dell’opera d’arte rispetto ai vissuti dell’artista, concetto trattato
da Deleuze già in Differenza e ripetizione e Logica del senso.
Questa è infatti pensata come un blocco, un composto di “percetti”
ed “affetti”, esseri dotati di realtà propria, indipendenti ed eccedenti
l’uomo, l’artista che li traspone e filtra nella sua realizzazione, il che ci
riporta peraltro ad una precedente affermazione di Deleuze: “E’ necessario
che a ogni prospettiva o punto di vista corrisponda un’opera autonoma con
un senso sufficiente”,148 che ribadisce la facoltà dell’opera d’arte, in quanto
simulacro, di allontanarsi dalla rappresentazione ossia di farsi espressione
dell’esperienza reale.
A questo proposito, gli autori rispondono anche all’interrogativo
immaginario sulla possibilità che i dipinti degli artisti cosiddetti “folli”
possano acquisire o meno questa autonomia, necessaria per conferire alle
opere stesse la capacità di “stare in piedi da soli”.149 Secondo la loro
opinione può avvenire, ma a certe condizioni, proprio perché in questi casi
entra in gioco un’altra dimensione espressiva, le cui caratteristiche erano
state analizzate da Deleuze a partire da Logica del senso, in riferimento alla
produzione teatrale ed al linguaggio schizofrenico di Artaud. Questo autore
si riconferma quindi come un artista fondamentale per la loro riflessione, a
testimonianza dell’ambiguità di una produzione artistica difficilmente

148
G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p. 94.
149
G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, cit., p. 168.

66
inquadrabile a causa della sua condizione particolare, ma al contempo
fondamentale per indagare i punti di contatto tra il piano dell’arte e quello
della filosofia. Il caso della follia di un artista (Nijinskj, ballerino classico
ed autore di un diario in cui emerge il difficile rapporto tra la propria arte e
la malattia – così come accadde per Artaud – è un altro esempio della
difficoltà di mantenere questo sottile equilibrio) rimanda inoltre alla
questione dell’artista come mezzo. Qualunque sia l’intermediario umano
attraverso cui l’arte si concretizza tramite sensazioni, ovvero percetti ed
affetti, queste non fanno riferimento al soggetto percipiente, alla sua
memoria o esperienze personali; di conseguenza la follia diventa un
elemento marginale rispetto all’opera stessa.
La persistenza ed autonomia dell’opera d’arte non prescinde però del
tutto dal processo creativo che coinvolge l’artista, concetto che viene
ribadito a partire fin da Logica del senso, a proposito della differenza che
intercorre tra il romanzo famigliare e l’opera d’arte, e ribadita qui tra le
nevrosi e le sensazioni, ad indicare una linea sottile ma determinante che
definisce la dimensione in cui agisce un’artista in quanto tale.
L’attenzione rivolta all’esperienza artistica, al suo legame con il
pensiero filosofico ed ai personaggi e alle opere che, a loro parere, lo hanno
evidenziato con maggiore forza, ha portato i due autori ad elaborare un
percorso i cui concetti principali confluiscono in queste pagine ad offrire
un’ampia visione d’insieme delle relazioni tra i vari ambiti. I diversi
momenti del processo di creazione artistica che di volta in volta era stato
indagato in particolare con l’ausilio delle parole di Proust e di Kafka, della
pittura di Francis Bacon, del teatro di Artaud e Bene, solo per citare alcuni
autori ricorrenti nei loro scritti, vengono infatti analizzati qui nell’insieme
del piano proprio dell’arte e delle sue relazioni con quello della filosofia e
della scienza.
In questo processo l’artista crea diventando un tramite, dal momento
in cui non parla di sé nella sua creazione: il divenire-qualcos’altro richiede

67
necessariamente, in ogni arte, uno stile: “la sintassi di uno scrittore, i modi e
i ritmi di un musicista, i tratti e i colori di un pittore – per elevarsi dalle
percezioni vissute al percetto, dalle affezioni vissute all’affetto.”150
Ritroviamo qui la nozione di divenire così come quella di stile,
caratteristiche necessarie al processo creativo, ed anche l’immagine
dell’artista come colui che, allo stesso modo del filosofo, si fa testimone di
ciò che sarebbe difficilmente sopportabile per altri, attraverso esperienze
che, pur avvicinandolo alla morte, (seguendo un legame sottolineato già in
Differenza e ripetizione) gli sono necessarie per vivere. Il divenire, quella
zona di indiscernibilità che attraversa ma che comporta invariabilmente dei
rischi, è quella attraversata per esempio da Kleist, ed espressa con forza
nella sua più volte menzionata Pentesilea, in un processo di trasformazione
biunivoco tra autore e personaggio.151
Ed anche la minorazione e le variazioni che lo scrittore fa subire al
linguaggio trovano qui una propria collocazione all’interno dei concetti di
affetto e percetto, in quanto questo è proprio il compito del linguaggio
dell’arte in generale: “la pittura, la musica a loro volta strappano ai colori e
ai suoni i nuovi accordi, i paesaggi plastici o melodici, i personaggi ritmici
che li elevano fino al canto della terra e al grido degli uomini: è questo che
fa il tono, la salute, il divenire, un blocco visivo e sonoro.”152
Ogni artista genera quindi delle variazioni, delle alterazioni nella
propria arte, che vanno a confluire in un divenire necessario all’arte stessa
(ed all’artista), sostanzialmente in quel divenire-altro più volte descritto da
Deleuze e Guattari: d’altro canto, come sottolinea Deleuze
successivamente, c’è un divenire che concerne anche i concetti filosofici ed
il filosofo che li elabora, tuttavia non si tratta dello stesso che è specifico
dell’arte. “Il divenire sensibile è l’atto in virtù del quale qualcosa o

150
Ivi, p. 174.
151
Ad esempio in: G. Deleuze, C. Parnet, Conversazioni, cit.

68
qualcuno non cessa di divenire-altro (continuando a essere ciò che è),
girasole o Achab, mentre il divenire concettuale è l’atto attraverso cui
l’evento comune stesso schiva ciò che è.”153
Questa affermazione introduce in parte quello che sarà l’argomento
del capitolo conclusivo del libro, ossia la natura e per così dire le differenze
che intercorrono tra i piani della filosofia, della scienza e dell’arte, i modi in
cui questi piani si intersecano (di cui un esempio fondamentale è lo
Zarathustra di Nietzsche) così come i limiti che si constatano all’interno di
questo processo di reciproche interferenze.
Delle tre interferenze tra i piani analizzate dai due autori, definite
estrinseche, intrinseche ed illocalizzabili, la seconda è forse quella di fronte
alla quale entrambi si sono trovati più spesso, ossia quella sorta di
“scivolamento” di concetti e personaggi concettuali tra le sensazioni e le
figure estetiche, di spostamento relativo dal piano della filosofia in quello
dell’arte riscontrato nelle opere degli autori di cui si sono occupati più
frequentemente.
Ma è forse nel momento in cui essi trattano il terzo tipo
d’interferenza, che le riflessioni fatte sinora trovano un punto d’incontro: i
due autori affermano infatti l’esistenza di una zona d’ombra, un “Non” che
accompagna ogni disciplina in tutto il suo percorso, all’interno di quel caos
indifferenziato, che si colloca dove ancora i confini dei suddetti piani non
sono definiti, e dalla quale attingiamo necessariamente poiché: “La filosofia
ha bisogno di una non-filosofia che la comprenda, ha bisogno di una
comprensione non-filosofica, come l’arte ha bisogno di non-arte e la
scienza di non-scienza.”154
La descrizione di questa zona d’indeterminazione definita come
“caos” e delle reciproche interferenze tra i piani, già compendiavano in un

152
G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia, cit., p. 182.
153
Ivi, p. 183.

69
certo senso le ricerche e le affermazioni precedenti di Deleuze, di tutta la
sua indagine in collaborazione anche con Guattari, sempre svoltasi
nell’oscillazione lungo i confini che separano e definiscono l’una e l’altra
disciplina; come successivo approfondimento questo non-piano sotteso,
questa zona d’ombra a cui accennano al termine del saggio, aggiunge
un’ulteriore sfaccettatura alla questione ed apre altri spunti d’indagine.
Il tema delle interferenze che si verificano tra i piani di filosofia,
scienza ed arte nelle opere di determinati autori viene ripreso da Deleuze
anche nell’ambito de L’Abecedaire; in questo contesto l’autore riprende
anche il tema della creazione di concetti, del “fare filosofia” come di
un’attività pratica, che comporta l’uscita dalla filosofia stessa, poiché
restare dentro un certo territorio implica al contempo uscirne; questo
comporta soprattutto l’accogliere e il farsi tramite di stimoli, di
sollecitazioni provocate da determinati incontri. Il momento dell’incontro –
con oggetti, dipinti, brani musicali, scritti filosofici altrui – è un evento
sostanzialmente casuale attraverso il quale la creazione di concetti nasce e
si sviluppa: da filosofo, in queste pagine egli descrive in prima persona il
processo grazie al quale si è fatto testimone e portavoce di quelle
interferenze tra piani, in questo contesto tra quello della filosofia e quello
dell’arte, che lo hanno influenzato, segnando il percorso della sua
produzione filosofica.155
Attraverso un incontro viene infatti concessa al filosofo la possibilità
di testimoniare direttamente con la propria filosofia – il proprio mezzo – le
contaminazioni possibili tra due piani, “di andare oltre la filosofia attraverso

154
Ivi, p. 231.
155
Anche in: G. Deleuze, Spinoza. Filosofia pratica, cit., p. 159: “Può capitare
che certi scrittori, poeti, musicisti, registi, anche certi pittori, persino
alcuni lettori occasionali, si trovino a essere più spinozisti che i filosofi di
professione. E’ questione di concezione pratica del ‘piano’” [il piano
d’immanenza].

70
la filosofia”, e di confermarne la funzione pratica, così come aveva
esplicitamente chiarito già nella conclusione di L’immagine-tempo. Cinema
2, ad ulteriore conferma di un filo che lega quest’opera sia a L’Abecedaire,
che a Che cos’è la filosofia?
Durante l’intervista Deleuze si riferisce quasi esclusivamente
all’arte, ed afferma infatti che l’incontro avviene nel suo caso più
facilmente con un dipinto, o al cinema, più raramente a teatro, eccezion
fatta per Wilson e Bene. Quello che l’artista può offrire, le idee o le
immagini che suggerisce e che il filosofo può accogliere, pare provengano
da quella zona d’indeterminazione, il caos, precedentemente indagata, dalla
quale entrambe le discipline – arte e filosofia – nascono e prendono poi
forma: ma più specificamente è forse grazie a quella zona d’ombra che le
accompagna sempre, prima ancora che queste assumano una qualunque
consistenza, introdotta in Che cos’è la filosofia?, che l’una può fare
riferimento e “ritrovarsi” con l’altra nell’incontro successivo tra i rispettivi
piani, peraltro senza che questo reciproco influsso, come sottolinea
Deleuze, abbia origine – o termine – in qualche punto preciso.

L’incontro con il cinema: un confronto tra cinema e teatro

I due volumi di Cinema rappresentano un approfondita “incursione”


di Deleuze nella sfera dell’arte, dovuta anche al proficuo incontro con le
opere di alcuni registi cinematografici, e pur collegandosi ad altre riflessioni
fatte in precedenza, costituiscono tuttavia un blocco a sé stante: “è degno di
nota che, fatta qualche rara eccezione […] l’enorme batteria di concetti

71
utilizzati in Cinema non ha riscontro in nessuno dei suoi libri precedenti e
non avrà una eco diretta in quelli successivi.”156
Come già ricordato,157 l’autore stesso ribadisce l’importanza di fare
filosofia anche attraverso l’analisi del fatto cinematografico, di sviluppare
cioè le interferenze tra piani diversi; infatti, in questi volumi, seguendo la
storia del cinema si è parallelamente occupato anche di storia della
filosofia.158
Una delle questioni qui riprese è quella relativa al giudizio, già
affrontata a partire dai suoi scritti su Spinoza, e, come si è visto, riferita al
cinema di Orson Welles, a cui è connessa la nozione di falso movimento (o
movimento decentrato) ovvero potenza del falso che si manifesta attraverso
l’artista, creatore non di verità ultime ma di arte quale continua produzione
di verità.159
Nel capitolo Il cinema e il pensiero, invece, l’autore analizza il
rapporto che intercorre tra i vari tipi di immagini cinematografiche ed il
pensiero, di cui l’ultimo genere è definito con l’identificazione di concetto e
immagine, pensiero-azione, prassi che “designa il rapporto fra l’uomo e il
mondo”,160 secondo una caratteristica propria del cinema e sconosciuta al
teatro, un “movimento che va dall’esterno all’interno”. In questo contesto
spicca nuovamente la figura di Artaud, poiché Deleuze riscontra nella sua
ricerca continua di una “vibrazione”, di quello choc necessario a provocare
il pensiero, l’indicazione della frattura del rapporto uomo-mondo sopra
citato, che emerge nel cinema moderno e non in quello classico.

156
R. Bellour, Pensare, raccontare. Il cinema di Gilles Deleuze, “aut aut”, 276,
1996, p. 158.
157
Cfr. p. 1.
158
G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, cit., pp. 102-103.
159
Cfr. Capitolo II, 3.
160
G. Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, cit., p. 181 (in corsivo nel testo).

72
Ciò che va sottolineato è “l’impensato del pensiero”, il fatto che noi
in realtà non pensiamo ancora: la consapevolezza di tale mancanza si
ottiene proprio tramite quell’aberrazione del movimento, quel
decentramento di cui l’autore parlava in relazione al cinema di Welles, che
provoca la rottura dell’immagine senso-motoria e di conseguenza rende
visibile l’incrinatura del rapporto tra l’uomo e il mondo ad essa
preesistente: “La rottura senso-motoria fa dell’uomo un veggente colpito da
qualcosa di intollerabile nel mondo e confrontato con qualcosa di
impensabile nel pensiero. Tra i due, il pensiero subisce una strana
pietrificazione, che è come se fosse la sua impotenza a funzionare…”.161
Nelle riflessioni di Artaud, Deleuze ha quindi riscontrato l’evidenza
di questa problematica portata alla luce dal cinema moderno, il suo
assumere l’impotenza del pensiero come uno stimolo e un impulso a
recuperare il rapporto uomo-mondo, ossia il legame tra pensiero e la vita
che è stato interrotto.
Come già riscontrato altrove, Artaud si sforza di riconciliare ogni
separazione attraverso la riscoperta della dignità del corpo, della carne, alla
ricerca dei mezzi tramite cui esso possa esprimersi: in accordo con
quest’impostazione, anche per il filosofo francese il corpo diventa quella
dimensione nella quale il pensiero deve immergersi per recuperare
l’impensato, ossia la vita, per colmare questo legame perduto che è l’origine
della nostra nevrosi moderna. Il cinema, dal canto suo, rappresentando il
corpo rappresenta anche il tempo che su di esso si inscrive, immagine-
tempo: “L’atteggiamento del corpo è come un’immagine-tempo, quella che
mette il prima e il dopo nel corpo, la serie del tempo.”162
E’ stato già constatato, e lo stesso Deleuze lo ribadisce, che
quest’opera sul cinema propone dei parallelismi tra i sistemi filosofici

161
Ivi, p. 190.
162
Ivi, p. 216.

73
classici e le forme di montaggio tipiche del cinema classico con le
problematiche emerse nel cinema moderno collegate a quelle della filosofia
contemporanea (la rottura dello schema senso-motorio come quella del
rapporto uomo-mondo), e gli stessi filosofi il cui pensiero è stato
determinante per lo sviluppo di queste teorie sono i più volte nominati Kant,
Kierkegaard, Nietzsche. D’altra parte, la stessa operazione di accostamento
tra concetti filosofici e storia della filosofia con l’evoluzione artistica è
indicata da Deleuze in relazione anche ad altre arti, compresa quella
teatrale, ed anche in questi contesti il pensiero dei filosofi di cui sopra si è
rivelato determinante.
Di conseguenza sarebbe forse improbabile ritenere, anche se in più
punti di L’immagine-tempo Deleuze lo lascia supporre,163 che il cinema
possa essere quell’arte che, non tanto diversamente, ma più di altre, grazie
alle sue possibilità ed ai suoi mezzi, gli ha fornito l’ispirazione e
l’opportunità di pensare ed analizzare le interferenze tra i piani di filosofia
ed arte.
Facendo un passo indietro, si possono individuare alcuni tra questi
momenti in cui l’autore distingue le possibilità espressive di teatro e cinema
(e l’importanza attribuita al secondo sembra prevalere): le differenze
emergono ad esempio soprattutto nell’analisi del rapporto cinema-corpo-
pensiero; la ricerca di Artaud viene qui accostata a quella di Bene, poiché
all’autore sembra che anche quest’ultimo abbia creduto che “il cinema
possa operare una teatralizzazione più profonda del teatro stesso, ma lo
crede solo per un breve istante […] alla capacità che avrebbe il cinema di

163
Ivi, p. 188: “[l’impotenza del pensiero] Ma in che cosa è la domanda del
cinema, vale a dire una domanda che lo tocca nella sua specificità, nella
sua differenza rispetto alle altre discipline? Non esiste infatti una stessa
maniera di trattarla, sebbene si ritrovi altrove con altri mezzi.”

74
dare un corpo, cioè di farlo, di farlo nascere e scomparire in una cerimonia,
in una liturgia.”164
D’altro canto, secondo l’autore non è tanto sulla “presenza” dei
corpi, che agisce nel teatro ma non al cinema, per ovvie ragioni, che si
gioca questa differenza, quanto sulla possibilità propria dell’immagine
cinematografica di restituirci, a partire dalla loro assenza, la genesi dei
corpi, “di un ‘corpo sconosciuto’ che abbiamo dentro la testa, come
l’impensato del pensiero, nascita del visibile che ancora si sottrae alla
vista.”165
Con quest’affermazione l’autore rimanda anche alle riflessioni
sviluppate nel suo libro Spinoza. Filosofia pratica, riguardo all’importanza
accordata da quest’ultimo al rapporto corpo-pensiero, nel rilevare cioè
quanto di sconosciuto del nostro corpo vi sia nella nostra conoscenza su di
esso, e parallelamente quanto vi è d’inconoscibile nel nostro pensiero che
supera la nostra coscienza.166
In queste pagine l’autore afferma quindi l’importanza dell’immagine
cinematografica che, attraverso la rottura dello schema senso-motorio, ci
permette di osservare il nostro corpo in un’ottica finora impensata e
parallelamente di confrontarci con la questione dell’impensato del pensiero
di cui egli si è più volte occupato.
Per quel che riguarda le possibilità espressive del corpo
nell’immagine cinematografica, l’autore torna qui a Bene, il quale oppone
alla visibilità dell’immagine cinematografica quella cecità dell’immagine
che, da cineasta, ha sempre perseguito, e come lo stesso Deleuze rileva,
aggiunge un’ulteriore sfaccettatura al legame cinema-corpo-pensiero poiché
crea un corpo nel cinema, per il cinema, facendolo passare attraverso un

164
Ivi, p. 212.
165
Ivi, p. 223.

75
rituale, una cerimonia e poi una decostruzione finalizzata “alla scomparsa
del corpo visibile”,167 alla ricerca di sonorità pure, separate dal corpo che le
esprime. “Così come avevo inaugurato un teatro irrappresentabile in cui la
presenza-assenza attoriale eccede la visione e il ridire (riferito) del dis-corso
nella musicalità della voce-ascolto. Ho sentito l’urgenza di sfidare –
frantumandola – l’immagine-corpo…”.168
Un’ulteriore importante caratteristica esclusiva del cinema riguarda
la gestione del sonoro, (in relazione all’immagine visiva) come ulteriore
aspetto dell’immagine-tempo: l’autore prende in considerazione
rispettivamente l’elemento della conversazione sonora, l’inseparabilità di
voce e rumori in una sorta di continuum sonoro, e la possibilità
dell’indipendenza e della prevalenza di quest’ultimo sull’immagine visiva,
come tre possibilità espressive che in teatro non si possono rendere, come
sostiene in un primo momento.
Precedentemente Deleuze però affermava che l’operazione di
liberazione delle potenze sonore in teatro è la sfida principale che Bene ha
raccolto in vista proprio di un rinnovamento dello stesso, e per meglio
approfondire questa ricerca in ambito esclusivamente teatrale, servendosi a
questo scopo di supporti elettronici, ha abbandonato il cinema ritenuto da
169
lui un’arte troppo limitata per i suoi scopi.
Ed anche per quel che riguarda la conversazione sonora, Deleuze non
esclude la sua realizzazione anche in teatro, come pare sostenga in un primo
momento; citerà infatti Wilson come l’unico regista che in grado di metterla
in scena: forse allora l’impotenza del teatro rispetto al cinema ribadita in
queste pagine, almeno per quel che riguarda il sonoro, potrebbe non essere

166
G. Deleuze, “Sulla differenza dell’etica da una morale”, in Spinoza. Filosofia
pratica, cit.
167
G. Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, cit., p. 212.
168
C. Bene, G. Dotto, Vita di Carmelo Bene, Bompiani, Milano 1998, p. 269.
169
G. Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, cit., p. 212.

76
costitutiva dell’arte in sé, ma dovuta magari all’esiguo numero di grandi
sperimentatori contemporanei che hanno creduto ed osato un rinnovamento
teatrale.
Tra l’altro, anche per quel che riguarda Artaud, l’autore premette che
anch’egli, come Bene, si occupò di cinema fino ad un certo punto: “Per un
breve momento Artaud ‘crede’ nel cinema […] ma molto presto
rinuncia”,170 anche se è anche grazie alle sue riflessioni di questo breve
periodo che Deleuze desume le proprie considerazioni in merito alle
possibilità del cinema moderno: in ogni caso, è al teatro che Artaud
continuerà sempre a guardare come mezzo espressivo privilegiato. “Così,
per non rinunciare alla sua libertà di attore, rinuncerà al cinema. Ma la
disaffezione ha origini più profonde, legata all’essenza stessa di quell’arte e
ai vincoli specifici del linguaggio e della scrittura cinematografica, delle
quali fu comunque il teorico.”171
Sia Bene che Artaud hanno utilizzato il cinema come un campo entro
cui sperimentare la propria creatività, ritenendo però, in ultima analisi, la
“settima arte” inadatta a soddisfarla: Artaud dal canto suo, rifiuta
l’iscrizione e conseguente appiattimento, sulla pellicola di quella vibrazione
vitale ricercata anche tramite il teatro: “Il mondo cinematografico è un
mondo morto, illusorio e segmentato. Oltre a non socchiudere le cose, a non
entrare nel centro della loro vita, oltre a trattenere solo l’epidermide delle
forme e a posizionarsi in un angolo visuale estremamente ristretto,
impedisce ogni risistemazione e ogni ripetizione, condizione fra le più
necessarie dell’azione magica.”172
Tuttavia, nonostante queste (ed altre) considerazioni sulla limitatezza
dell’arte cinematografica rispetto a quella teatrale da parte dei due artisti al

170
Ivi, p. 184.
171
C. Dumoulié, Antonin Artaud, cit., p. 50.

77
cui cinema Deleuze ha fatto più volte riferimento, vi sono anche altri
argomenti che indicano che l’autore lasci supporre una prossimità piuttosto
che una distanza tra teatro e cinema. Si può ad esempio accennare alla
seguente frase riportata nella “Conclusione” di questo secondo volume, e
quindi di tutta l’opera: “Nel cinema moderno, al contrario, [del cinema
classico dominato dall’immagine-movimento e quindi legato ad una
rappresentazione indiretta del tempo] l’immagine-tempo non è più né
empirica né metafisica, è ‘trascendentale’ nel senso kantiano del termine: il
tempo esce dai suoi cardini e si presenta allo stato puro.”173
Già in Differenza e ripetizione Deleuze aveva fatto riferimento alla
forma pura del tempo relativamente alla filosofia kantiana, ma aveva anche
ribadito l’importanza della relazione stabilita successivamente da Hölderlin
tra questa nozione, l’istinto di morte e l’essenza del tragico, (come ho già
ricordato nel I capitolo) a cui si collega il concetto di ripetizione, poi ripreso
in Logica del senso.
Nello stesso contesto, tra l’altro, proprio a proposito della funzione
dell’attore teatrale, egli colloca il processo di contro-effettuazione
dell’evento di cui l’attore è tramite e che ripete su quella linea retta
illimitata che è il presente di Aiôn, ovvero pura forma vuota del tempo. Ed
inoltre, “il tempo esce dai propri cardini” è la frase dell’Amleto che già in
Differenza e ripetizione utilizzava per indicare un tempo non più
subordinato al movimento, così come la riferisce in Cinema 2 con la stessa
motivazione: “L’immagine-tempo non implica l’assenza di movimento […]
ma implica il capovolgimento della subordinazione; non è più il tempo ad
essere subordinato al movimento, ma il movimento a subordinarsi al tempo

172
A. Artaud, Œuvres completès, Gallimard, Paris, Tomo III, p. 83, cit. in C.
Dumoulié Antonin Artaud, cit., p. 53.
173
G. Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, cit., p. 300.

78
[…] è il movimento in quanto falso movimento, in quanto movimento
aberrante, a dipendere ora dal tempo.”174
Un’altra questione emersa in queste pagine di Cinema 2 riguarda
nuovamente quell’impensato del pensiero che risalterebbe con particolare
evidenza nel cinema moderno, in riferimento anche alla figura di Artaud, e
che richiama alla mente quella nozione, la crudeltà (ovvero La
determinazione), da lui derivata e citata a partire da Differenza e ripetizione
in relazione all’emergere della differenza nel pensiero. Con lo stesso
intento, infatti, Deleuze adotta la definizione di “cinema della crudeltà”,175 a
sottolineare la possibilità per il cinema di giungere ad esprimere il pensiero
attraverso l’immagine, in virtù dell’immagine automatica, che “esige una
nuova concezione del ruolo e dell’attore, ma anche del pensiero stesso […]
L’insieme è costituito dal rapporto tra l’automatismo, l’impensato e il
pensiero”.176
L’immagine automatica infatti pone il problema del rapporto con il
“fuori” che si rivela per noi come l’impensato: quello che interessa
all’autore in questo contesto sono le conseguenze dell’introduzione di
questo fuori, che chiama l’interstizio tra due immagini, segnalata
principalmente nel cinema di Jean Luc Godard: “Data un’immagine, si
tratta di scegliere un’altra immagine che introdurrà tra le due un interstizio.
Non è operazione di associazione ma di differenziazione…E’ il metodo del
TRA, ‘tra le due immagini’, che scongiura ogni cinema dell’Uno […] far
vedere l’indiscernibile, cioè la frontiera”;177 non solo, ma questi interstizi si
producono anche nell’immagine visiva, nell’immagine sonora, e tra l’una
e l’altra.

174
Ibidem.
175
Ivi, p. 194.
176
Ivi, p. 199.
177
Ivi, p. 201.

79
In questo moderno cinema crudele agisce quindi un processo di
differenziazione, che si realizza nel montaggio, e che porta ad una
ridefinizione del nostro rapporto con il pensiero, come precedentemente
sottolineato per la produzione artistica di Welles.178 Tuttavia, come il
filosofo ha già sostenuto in varie occasioni, la crudeltà in quanto emergere
della differenza è anche costitutiva dell’arte teatrale, di quel teatro della
crudeltà a cui ha fatto riferimento a partire da Differenza e ripetizione.

La rappresentazione secondo Gilles Deleuze

Se fosse possibile indicare un trait d’union fra i libri scritti da


Deleuze sia quale unico autore, che in collaborazione con Guattari e con
Parnet qui presi in esame, se fosse possibile indicare in sostanza una
questione ricorrente all’interno dell’argomento “teatro”, oggetto della
presente indagine, sceglierei il termine rappresentazione.
Gli stimoli provocati dagli incontri che Deleuze ha avuto con l’arte
teatrale nelle sue diverse forme, tramite l’esempio e le idee di determinati
autori, oppure alcuni drammi, o brani di essi, lo hanno sollecitato come si è
visto ad elaborare numerose riflessioni e concetti grazie ai quali poter
pensare anche l’evento teatrale, nei quali una delle note dominanti è
costituita proprio da questo termine, che definisce l’evento stesso.

178
Ivi, p. 203: “In questo senso già in Welles, poi in Resnais e anche in Godard,
il montaggio acquista un nuovo senso, che determina i rapporti
nell’immagine-tempo diretta e concilia lo spezzato con il piano-sequenza.
Abbiamo visto che la potenza del pensiero faceva posto, allora, a un
impensato del pensiero, a un irrazionale proprio del pensiero, punto del
fuori aldilà del mondo esterno, ma in grado di restituirci credenza nel
mondo. La domanda non è più se il cinema ci dia l’illusione del mondo,
ma in che modo il cinema ci restituisce la credenza nel mondo.”

80
In Differenza e ripetizione e Logica del senso, le caratteristiche del
concetto di rappresentazione sono delineate in relazione alla manifestazione
o meno in essa della differenza, nel primo, e dell’evento nel secondo scritto,
ad aprire numerose questioni che verranno poi riprese ed approfondite nei
libri successivi collegandosi ad altri concetti, fino a giungere alle teorie
elaborate in Che cos’è la filosofia? riguardo l’opera d’arte in generale. In
Differenza e ripetizione questo tipo di rappresentazione si distingue quale
ripetizione mascherata, o vestita, che comprende in sé la differenza, in
Logica del senso questa implica un processo di contro-effettuazione, o
mascheramento e rappresentazione-perversione dell’evento puro; la
questione della rappresentazione pone inoltre, come si è visto, anche il
problema del tempo a cui entrambe si rapportano, che l’autore definisce
quale presente di Aiôn.
Sia in Differenza e ripetizione che negli scritti successivi inoltre, il
concetto di rappresentazione è messo in stretta relazione con quello di
movimento (il legame tra rappresentazione, movimento e tempo è
sottolineato ed approfondito in tutti gli scritti dell’autore qui considerati):
“Vero movimento, il teatro ricava, da tutte le arti che impiega, il
movimento”,179 la cui essenza è la ripetizione in quanto distribuzione
nomadica, o demoniaca. La rappresentazione invece, come si è visto, viene
qualificata in questo testo come falso movimento, in quanto Deleuze la
identifica come mediazione del movimento, ovvero quale falso teatro, se
teatro in questo caso è inteso come ciò che permette una ricezione
immediata e diretta della realtà.
D’altro canto, come già ricordato, in Logica del senso la
rappresentazione, la cui struttura in Differenza e ripetizione è definita in
base a concetti quali “categorie definite come condizioni dell’esperienza

179
G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p. 21.

81
possibile”180 (sia nel caso della rappresentazione finita che infinita), e come
tali inadatte a determinare le condizioni dell’esperienza reale, percepibile
solo in virtù del movimento di cui sopra, permette un sapere concreto che
“va a cercare il suo oggetto dove esso è”,181 solo nel caso in cui essa contro-
effettui l’evento secondo un movimento di avvolgimento e mascheramento.
L’attore-mimo è “capace di estrarre l’evento dalla circostanza…non
riproduce lo stato di cose, così come non imita il vissuto, non dà
un’immagine, ma costruisce il concetto”,182 non imita ma ripete e prolunga
un movimento che è di rappresentazione e selezione dell’evento come
condizione dell’esperienza reale, che si configura allo stesso tempo come
una deterritorializzazione.
Si può quindi forse evincere che le condizioni essenziali che
distinguono una rappresentazione mediata dell’esperienza reale
dall’espressione della differenza in sé quale ripetizione, così come la
rappresentazione che rimanda all’evento, contro-effettuandolo nell’istante,
è il movimento che ad essa è sotteso, ed il tempo a cui si riferisce. In
particolare, un teatro della non-rappresentazione, ossia che auspichi una
rappresentazione non imitativa della realtà, la costituzione di una realtà viva
sulla scena, deve farsi carico di queste premesse, perché per quanto si possa
aspirare a far “saltare” la rappresentazione, ad eccederla con l’aprire tutti i
doppi possibili e con l’illuminare tutti gli interstizi che in essa si aprono
(nella concezione del teatro di Artaud così come in quello di Bene, ad
esempio), questa deve poter esprimere quell’evento che qui soltanto si
lascia avvolgere, e che, contro-effettuando, rappresenta.
“La rappresentazione deve comprendere un’espressione che non
rappresenta, ma senza la quale non sarebbe essa stessa ‘comprensiva’, e non

180
Ivi, p. 93.
181
G. Deleuze, Logica del senso, cit., p. 131.

82
avrebbe verità che per caso o dal di fuori”,183 ed inoltre: “[l’evento] è ciò
che deve essere compreso, ciò che deve essere voluto, ciò che deve essere
rappresentato in ciò che accade […] L’attore effettua dunque l’evento, ma
in modo ben diverso da quello in cui l’evento si effettua nella profondità
delle cose. O piuttosto egli raddoppia tale effettuazione cosmica con
un’altra a modo suo singolarmente superficiale, tanto più netta, tagliente e
pura per questo, che viene a delimitare la prima, ne libera una linea astratta
e serba dell’evento soltanto il contorno o lo splendore: diventare il
commediante dei propri eventi, contro-effettuazione.”184
I complessi legami che si instaurano tra rappresentazione, tempo e
movimento in opposizione al sistema del giudizio, ovvero alla
rappresentazione come falso movimento così com’è descritta in Differenza
e ripetizione, diventano tanto più evidenti nell’ambito dell’arte
cinematografica moderna, secondo l’ottica di L’immagine-tempo. Cinema
2, laddove in questo caso il termine “falso” in relazione al movimento è
definito tale perché si contrappone all’ideale di verità-conformità tipico di
un sistema di giudizio, ossia di ogni sistema che si riferisca ad un’istanza
superiore, ad un valore trascendente.
Il movimento falso, ossia quand’è “decentrato”, qual è il divenire
quale potenza del falso, in questo caso libera quella vibrazione descritta da
Artaud che permette di riconsiderare il nostro rapporto con il mondo,
sempre mediante un processo di mascheramento dell’evento che
l’immagine avvolge, come spiega Deleuze a riguardo del cinema di
Schefer: “l’immagine cinematografica, non appena assume la propria
aberrazione di movimento, opera una sospensione di mondo, o colpisce il
visibile con un disturbo che, lungi dal rendere il pensiero visibile […] si

182
C. Arcuri, “Le ultime lezioni sono già state fatte, da sempre”, in G. Deleuze,
F. Guattari Che cos’è la filosofia, cit., p. 242.
183
G. Deleuze, Logica del senso, cit., p. 130.

83
rivolgono al contrario a ciò che non si lascia pensare nel pensiero così come
a ciò che non si lascia vedere nella visione.”185
Con le stesse caratteristiche l’autore delinea il movimento
demoniaco, sempre all’interno di un sistema maggioritario, in precedenza
trattato da in Differenza e ripetizione e poi ripreso in Conversazioni, ove
rileva altre connessioni legate sia al concetto di doppio distoglimento, (a
partire dalla tragedia dell’Edipo Re, come si è visto) che alla nozione di
tradimento, sostanzialmente sempre al processo creativo del divenire. Per
quel che riguarda l’artista e le sue opere, sono coinvolti nei diversi aspetti
del divenire stesso – le molteplicità, l’anomalo, le trasformazioni – meglio
riconoscibili con il termine di “minorazione”, poiché: “Ogni divenire è
molecolare, in quanto il molecolare ha la capacità di fare comunicare
l’elementare con il cosmico. Ogni divenire è minoritario.”186
Combattere il sistema del giudizio implica, come si è visto, il
sostenere un processo di creazione ed espressione del molteplice, di contro
alla logica dialettica della contraddizione e della rappresentazione come
falso movimento così come Deleuze li ha tratteggiati a partire da Differenza
e ripetizione.
Il concatenamento rappresentazione, movimento e tempo che
emerge da queste pagine quale condizione necessaria per ogni
procedimento creativo, vede quindi identificato il suo opposto nel blocco
della formazione di tali molteplicità; d’altro canto, già a partire da L’anti-
Edipo e Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia, Deleuze e Guattari
avevano chiarito ed approfondito i pericoli che queste forme di
rappresentazione costituiscono in quanto negazione del reale.

184
Ivi, pp. 134-135.
185
G. Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, cit., p. 188.
186
A. Busdon, Lettura di Mille Plateaux, “aut aut”, 187-188, 1982 (in corsivo
nel testo).

84
Anche in questo caso è la nozione d’invariante (come già
sottolineato in L’immagine-tempo. Cinema 2) a fare la differenza, poiché
impedisce (o “falsifica”) ogni divenire in quanto movimento non rinchiuso
all’interno di una struttura arborescente. Ed in particolare in Mille Piani.
Capitalismo e schizofrenia, con l’introduzione dei concetti di variazione
continua, ovvero di minorazione, identificata anche come stile, la
rappresentazione assume il suo senso più proprio, facendosi espressione di
una realtà artistica ed insieme di un pensiero intensivo, creativo, che
permette inoltre quelle contaminazioni reciproche tra i diversi piani più
volte descritte da entrambi gli autori.
Questo perché la variazione (o minorazione) è un movimento di
eliminazione delle invarianti e di destabilizzazione della chiusura per
esempio dell’apparato teatrale classico su cui si inscrive la logica
maggioritaria, e svela le condizioni della rappresentazione in quanto falso
movimento che questa struttura promuove, così come accaduto per l’arte
cinematografica grazie ad un certo utilizzo dell’immagine nel cinema
moderno.

Carmelo Bene e Gilles Deleuze: un incontro tra teatro e filosofia

Nel tracciare un percorso sull’importanza che riveste l’arte teatrale in


una parte del pensiero di Deleuze, sono emersi alcuni meccanismi
attraverso i quali ogni dimensione artistica in quanto tale, cioè minoritaria,
può manifestarsi come tale, fra cui il processo di variazione continua degli
elementi stabili, i cui effetti portano ad una assunzione dello spazio in
divenire, instabile e problematico, di sperimentazione e di critica, così come
indicato dall’autore.
Fra tutti gli autori e fautori di teatro dei quali Deleuze si è occupato,
colui che maggiormente ha tentato di pensare e realizzare tale spazio critico

85
del teatro, e stimolato l’autore a riflettere sulle zone d’intersezione con il
piano filosofico è senz’altro Artaud. D’altro canto se Deleuze ha sempre
sottolineato l’importanza delle filiazioni o alleanze tra autori minori, e
Bene, che è senz’altro uno di questi, è stato “uno dei pochi ad aver saputo
fare del teatro ciò che Artaud, talvolta, aveva sognato”,187 a questo punto è
possibile indicare alcune tra le molte connessioni e questioni aperte dalla
teoria e dalla pratica di Bene in relazione e anche in risposta alla produzione
filosofica di Deleuze, di cui il procedimento di variazione continua
all’interno della rappresentazione costituisce uno degli elementi.
A questo proposito farei riferimento ad una nota presente all’interno
del saggio di Paolo Gambazzi su Logica del senso di Deleuze che riassume
alcune delle principali riflessioni attuate da quest’ultimo sul teatro di Bene:
“il rapporto tra incompossibilità e virtualità è anche uno dei temi maggiori
del testo di Deleuze sul teatro di C. Bene, nella misura in cui per es.
l’amputazione di un personaggio maggiore (per es. Romeo) toglie la
incompossibilità dello sviluppo di un personaggio minore (per es.
Mercuzio)…Così C. B., togliendo l’elemento del potere dalla
rappresentazione teatrale, sviluppa la virtualità del teatro come non –
rappresentazione, come ‘costituzione’ di personaggi sulla scena (a partire
da voci e postura), come una ‘forza non – rappresentativa sempre instabile’,
sempre ‘nel mezzo’, (senza inizio, senza fine, senza storia), là dove si
trovano ‘il divenire, il movimento, la velocità, il turbine’. Personaggi senza
‘io’ (e senza storia) perché non nascono che ‘in una serie continua di
metamorfosi e di variazioni’ (op. cit., pp. 9-12). In generale: la virtualità

187
C. Dumoulié, “L’evento Artaud. Prefazione all’edizione italiana”, in Antonin
Artaud, cit.

86
appartiene al reale, al contrario del possibile che vi si contrappone. Il reale è
l’attuale più il virtuale.”188
Il testo al quale l’autore fa riferimento e attraverso la cui lettura è
posta la questione della non-rappresentatività del teatro di Bene, ossia del
modo in cui egli considera la rappresentazione, nonché l’elemento sopra
citato della messa in variazione del testo (e quindi la sua scomparsa come
tale), fa parte di una collaborazione tra Deleuze e Bene sfociata appunto in
questo scritto: Sovrapposizioni. Riccardo III di Carmelo Bene. Un
Manifesto di meno di Gilles Deleuze.
Il filosofo francese ebbe l’occasione di conoscere Bene di persona
nel 1977 a Parigi, nel periodo in cui quest’ultimo andò in scena con i suoi
due spettacoli Romeo e Giulietta e S.A.D.E. all’Opéra Comique. Da
quell’incontro nasce una collaborazione ed un’amicizia duratura, fondata su
un reciproco riconoscimento, una stima ed un’ammirazione
contraccambiata: durante uno degli incontri del dopo-scena, infatti, Bene
espone a Deleuze un proprio futuro progetto, il Riccardo III, ed è sulla base
di quella conversazione che quest’ultimo deciderà di scrivere un testo su
uno spettacolo che non aveva ancora visto.189
Sovrapposizioni viene infatti pubblicato nel 1978, e sarà il primo di
alcuni scritti (appendici e prefazioni) che il filosofo dedicherà alla pratica
teatrale e cinematografica di questo controverso personaggio: come già
ricordato infatti, ne L’Abecedaire de Gilles Deleuze, egli lo cita come uno
dei due soli autori teatrali capaci di catturare la sua attenzione e trattenerlo
per lungo tempo seduto in platea, dandogli la possibilità di effettuare i suoi
incontri anche in teatro.
E dal canto suo, Bene riassume in una frase tratta dalla sua recente
autobiografia la considerazione in cui tiene il filosofo francese: “questi

188
P. Gambazzi, Pensiero, etica. Su alcuni temi della “Logica del senso”, cit.,
p. 99.

87
grandi revisori, de-costruttori del pensiero occidentale, (Gilles D.), quando
trattano cinema, teatro o arte in genere, in realtà – ed è questo l’importante
– è del proprio pensiero che si occupano. S’interessano d’altro, per fortuna.
E’ tra le pieghe del loro proprio ripensamento che frugano. Anche se,
naturalmente, la loro prodigiosa ‘indisciplina’ è assai più rigorosa e lucida
di qualsiasi materia bistrattata dalle anche ‘oneste’ esegesi dello specifico
paraocchiato. E, proprio perché s’intrattengono altrove, ci sono più
preziosi.”190
Il filosofo come non-critico dell’arte, la filosofia che produce
concetti anche attraverso l’arte, è quindi una realtà auspicata da Bene,
ovvero da colui che anche attraverso la decostruzione dell’opera classica
produce una critica, che è creazione, così come la intende Deleuze all’inizio
di Sovrapposizioni, e realizza quindi una sua filosofa teatrale a partire dalle
sperimentazioni nel “non-luogo” del teatro. Se si considera ad esempio
l’osservazione sul rapporto tra incompossibilità e virtualità nel teatro di
Bene citato nella nota di Gambazzi, così come la stragrande maggioranza
delle recensioni e delle critiche, sia positive che negative, della sua
produzione artistica, si nota che la caratteristica principale rilevata è proprio
questa non-rappresentatività del suo teatro, il suo prendere forma grazie ad
una serie di esperimenti – la sottrazione, l’amputazione dei personaggi, lo
sradicamento del testo, del personaggio-corpo – il cui fine sarebbe appunto
quello di escludere questa rappresentatività (questa stabilità di tutti gli
elementi costitutivi della scena “classica”) del teatro nel suo farsi.191

189
C. Bene, G. Dotto, Vita di Carmelo Bene, cit., p. 326.
190
Ivi, p. 267.
191
G. Dotto, “Carmelo Bene, Shakespeare e l’attore musico nel teatro
dell’irrappresentabile”, in C. Bene, Otello, o la deficienza della donna,
Feltrinelli, Milano 1981, p. 31: “[l’intento di C. Bene è] annichilire le
componenti stabili, omogenee, invarianti che fondano la rappresentazione
a teatro” e p. 37: “Nel cuore di scritture sceniche concepite come rigorose

88
Tuttavia, come sostiene Manganaro in alcuni saggi sulla produzione
artistica di Bene in generale – poiché non è possibile né corretto inquadrarlo
solo dal punto di vista di una delle forme artistiche attraverso le quali si è
espresso, né dal teatro, o dal cinema, o dalla scrittura di romanzi, o
sceneggiature mai filmate – il problema della rappresentazione è un falso
problema, posto che si accetti l’impossibilità “che un’attività scenica possa
essere, nella persona dell’attore o nella sua scrittura, la duplicazione di una
forma già manifesta, nel corpo o nella rappresentazione, di quanto propone
un discorso, anzitutto perché un discorso non propone mai niente di cui si
possa disporre: è una concatenazione di enunciati.”192 Ciò che conta, infatti,
sono le possibilità di sperimentazione insite all’interno della
rappresentazione stessa, l’operazione di svelamento attraverso intensità e
dinamiche – attraverso un movimento di variazione, di minorazione – oltre
ogni mediazione, l’opportunità quindi per la rappresentazione di farsi
espressione del reale.
Il processo di sperimentazione si riconferma quale incrocio tra livelli
e piani così come teorizzato da Deleuze e Guattari in Mille Piani, che non
procede per gerarchie o giudizi, ma seleziona in base alla loro natura attiva
o reattiva, definibile sostanzialmente come un processo di critica
affermativa, termine con cui si potrebbe riassumere tutta la produzione
artistica di Bene.
Uno degli elementi che consentono questo processo di creazione e di
critica, e che stabilisce una relazione con l’attore-mimo di cui Deleuze parla
in Logica del senso, è perciò proprio quel movimento – di variazione, o
sottrazione, o amputazione – che consente una rappresentazione non

partiture è la testimonianza della non-comunicabilità dell’evento che


affiora e subito si nasconde. Un teatro dell’irrappresentabile dunque…”.
192
J. P. Manganaro, “Il profumo del furore”, in AA.VV., La ricerca
impossibile, Marsilio, Venezia 1990, cit. in C. Bene, Opere con
l’Autografia di un ritratto, Bompiani, Milano 1995, p. 1495.

89
imitativa, contraria ad ogni presenza, persistenza e visibilità d’identità e
ruoli fissi.193
“Leggendo un classico, Shakespeare ad esempio, quello che si crede
l’autore compie una scelta definitiva, ma nessuno di noi è autore di quel che
pensa, uno può pensare un pensiero, ma l’immediato è un’altra cosa…Il
testo non è quello scritto. Io leggo l’Amleto in originale, lì l’autore sbaglia,
perché è obbligato a compiere una scelta definitiva e questo è il teatro di
rappresentazione. Io guardo sempre cosa c’è fuori, accanto, guardo tutte le
occasioni mancate che l’autore si è inibito, di cui si è privato. Ma non per
comprendere meglio il centro del testo […] non c’è un centro.”194
Ogni messa in scena di Bene non riguarda infatti una storia o
un’interpretazione di elementi predefiniti, ma si costituisce come l’evento
di una “macchina attoriale”.

193
J. P. Manganaro, “Il pettinatore di comete”, in C. Bene, Otello, o la
deficienza della donna, cit., p. 61: “Il rappresentarsi di Bene – non
foss’altro la sua voce – non è più il campo di una mimesi semplice o
doppia […] Così, non sviluppati, gli elementi tornano regolarmente su sé
stessi, si rappresentano, ma tale rappresentazione non è mai uguale alla
precedente, aggira nuovi ostacoli o vi s’incaglia volontariamente per
sottolineare la propria inefficacia.”.
194
C. Bene, G. Fofi, Io non sono un teatrante. Conversazione con Carmelo
Bene, “La porta aperta”, 2, 1999.

90
CAPITOLO IV

SOVRAPPOSIZIONI: RICCARDO III DI CARMELO BENE


UN MANIFESTO DI MENO DI GILLES DELEUZE

“Il teatro e la sua critica”, per riallacciarsi alle precedenti


considerazioni fatte da Deleuze in merito al teatro di Bene, è la prima di
cinque sezioni in cui è suddiviso questo breve saggio interamente dedicato
alla sua produzione artistica, prevalentemente teatrale. Come già accennato,
l’operazione di critica secondo Deleuze non corrisponde ad un confronto o
una reinterpretazione sotto una diversa ottica di un testo già dato ed
“inviolabile”, ma coincide invece con un processo di sperimentazione che è
allo stesso tempo creazione, ed assume quindi le caratteristiche di quella
critica affermativa come egli la descrive in più contesti.
Una delle questioni analizzate in queste pagine riguarda infatti la
troppa importanza da sempre attribuita al testo originale, fondamento di
ogni messa in scena, al quale ogni interprete successivo si limiterebbe ad
aggiungere degli elementi; così stigmatizza la questione lo stesso Bene:
“Non sarà mai più concepibile una CRITICA che non sia al tempo stesso
OPERAZIONE CRITICA, ma OPERAZIONE CRITICA
TAUMATURGICA, cioè OPERA D’ARTE […] SI RISCRIVE PERCHÉ
NON SI PUÒ SCRIVERE.”195
A questo proposito, in uno dei numerosi saggi critici dedicati proprio
al teatro di Bene, Camille Dumoulié sottolinea l’opposizione inevitabile tra
la critica intesa nel suo ruolo sociale di classificazione ed inquadramento, e
la tragedia, laddove questa svolga la sua funzione di “purificazione
sociale”, funzione che la critica intende svolgere al suo posto, mediante

195
C. Bene, L’orecchio mancante, Feltrinelli, Milano 1970, p. 169 (in
maiuscolo nel testo).

91
l’esercizio di un giudizio morale secondo indici di valore.196 Questa
considerazione viene a collocarsi nell’alveo delle denunce al sistema del
giudizio a cui si è fatto precedentemente riferimento seguendo le riflessioni
di Deleuze, e rappresenta quindi un’ulteriore testimonianza del fatto che
anche la produzione artistica di Bene costituisce un’alternativa al sistema
stesso; sarebbe perciò plausibile annoverarlo nel gruppo di quegli artisti
individuati da Deleuze in Critica e clinica.197 Una macchina attoriale come
quella di Bene infatti, si oppone ed eccede la struttura entro cui l’operazione
di giudizio critico è legittimata, ossia ad esempio la struttura del teatro di
rappresentazione di Stato, da lui più volte denunciata, contro la quale questa
macchina attoriale assume le stesse caratteristiche della macchina da guerra
deleuziana.198
L’operazione critica com’è intesa in questo saggio di Deleuze, e
come la intende lo stesso Bene, ha come suo fondamentale presupposto la
messa in variazione degli elementi stabili, fissi di un testo, per quanto
compiuto come può esserlo un classico al livello dell’Amleto o del Romeo e
Giulietta di Shakespeare, e si caratterizza attraverso un procedimento che
Deleuze definisce di sottrazione, o amputazione, di alcuni di questi
elementi.
Non a caso il riferimento iniziale del filosofo francese è il film Un
Amleto di meno,199 tratto dal testo riscritto dallo stesso Bene, che gioca con

196
C. Dumoulié, in C. Bene, Il teatro senza spettacolo, cit., pp. 26-27.
197
Lo stesso Bene pur non considerandosi un seguace di nessuno, afferma in più
contesti di trovare il proprio posto lungo un asse ideale di autori quali
Diderot-Wilde-Meyerchold-Artaud, che furono artefici ed operatori
teatrali, secondo quella rete di alleanze – non filiazioni! – individuata
anche da Deleuze.
198
C. Dumoulié, in C. Bene, Il teatro senza spettacolo, cit., pp. 24-26.
199
Cinecittà, produzione C. B. e “Donatello cinematografica”, Italia 1973;
AMLETO: “Avevo cominciato con il dovere/di rammentarmi l’orrido
orrido evento/per esaltare in me la pietà filiale/per far gridare l’ultimo

92
ironia con quello di Shakespeare, servendosi soprattutto della “riscrittura”
del poeta francese Jules Laforgue, il quale a sua volta sconvolse il testo
tradizionale con il suo Amleto, ovvero le conseguenze della pietà filiale.200
Questo film scritto, diretto ed interpretato da Bene è una delle sette proposte
sullo stesso tema da lui realizzate nell’arco di più di trent’anni, e con
differenti mezzi artistici, (teatro, cinema, radio e televisione)
conformemente al suo stile di sperimentazione continua.
Il carattere affermativo della critica è dato dalla costituzione in scena
di una realtà nuova, poiché al movimento della variazione, della sottrazione,
è collegato l’emergere di un aspetto inatteso, di un personaggio (o di un
elemento qualsiasi dello spettacolo) che in conseguenza a questa variazione
si sviluppa in un costante divenire, attraverso metamorfosi che coinvolgono
tutto l’apparato scenico, (gesti, suoni, luci, parole) e che mettono in
discussione la sua identità e quella degli altri coinvolti nell’azione. In
questo modo lo spettacolo acquisisce una propria instabile autonomia,
quella stessa descritta da Deleuze ad esempio in Che cos’è la filosofia?,
necessaria ad ogni opera d’arte in quanto tale; la sottrazione e costituzione
di elementi in scena, il rifiuto di rappresentare così come altri presupposti
dell’arte di Bene, infatti, permettono a lui e alle sue opere di essere

grido al sangue di mio padre/per riscaldarmi il piatto della vendetta./Ed


ecco invece ho preso gusto all’opera/Poco a poco mi scordai che si
trattava/di mi padre assassinato/di mia madre prostituta/del mio
trono…/Andavo avanti a braccetto con le finzioni/ di un
bell’argomento…/E l’ARGOMENTO è bello!…”.
200
J. Laforgue, Moralités légendaires, Gallimard, Paris 1977; trad. Moralità
leggendarie, Guanda, Milano 1977, cit. in E. Baiardo, R. Trovato, Un
classico del rifacimento. L’Amleto di Carmelo Bene, Erga, Genova 1996,
p. 61.

93
considerati minori, con tutta le implicazioni che Deleuze attribuisce al
termine.201
Nel Romeo e Giulietta di Bene, ad esempio, accade a Romeo
d’essere neutralizzato dalla scena, e di conseguenza Mercuzio si appropria
delle sue battute e impersona un nuovo ruolo, diventando così il perno
dell’evoluzione di una storia che muta in base a questa scelta iniziale. Allo
stesso modo, nel S.A.D.E., un altro suo spettacolo, è il Servo – masochista –
a costituirsi in scena, a cambiare, sperimentando, in funzione della
neutralizzazione dell’immagine sadica del Padrone, e non quale suo
contraltare.202
Questo procedimento di costituzione del personaggio in scena
attraverso metamorfosi continue avviene in maniera forse più evidente,
rispetto a questi due spettacoli citati, nel Riccardo III di Bene, poiché la
sottrazione si riferisce in questo caso a tutto il sistema regale, statale, entro
il quale Riccardo penetra e che aspira a scardinare e distruggere man mano
che prende forma il suo personaggio. Riccardo incarna in questa versione
beniana della tragedia la perfetta macchina da guerra, è l’emblema del
traditore, dell’anomalo, figura sulla quale Deleuze si era già soffermato in
Conversazioni, in cui la definisce anche come lo sperimentatore, colui che
fa parte di un processo in divenire, un divenire-altro da sé, elemento
demonico per eccellenza che comporta una “doppia cattura”.203

201
P. Klossowski, “Cosa mi suggerisce il gioco ludico di Carmelo Bene”, in C.
Bene, Otello, o la deficienza della donna, cit., p. 11: “Da questo punto di
vista, Carmelo reinterpreta l’opera secondo le movenze e le esigenze, i
dubbi nascosti del drammaturgo, prima che questi non abbia pronunciato
il proprio giudizio sull’esistenza attraverso l’uno o l’altro dei suoi
personaggi, prima dunque che abbia eliminato i loro ‘doppi’ […] Ma,
reinterpretando l’opera, al di là di una ri-improvvisazione ‘letteraria’ del
testo, Carmelo restituisce il significato metafisico del teatro…”
202
G. Deleuze, Un manifesto di meno, cit., p. 70.
203
G. Deleuze, C. Parnet, Conversazioni, cit., p. 8.

94
Un aspetto della perversione teatrale: il femminile

Il doppio legame, distoglimento reciproco di volti, che è inscindibile


dal tradimento stesso, avviene in Riccardo III con le figure femminili ed in
particolare con Lady Anna: sin dall’inizio dell’opera, con la sua “Nota
generale sul Femminile”,204 Bene costringe il suo personaggio a numerose
metamorfosi, fra cui anche ad un divenire-donna, pur di raggiungere i
propri scopi: il tradimento comporta una creazione, ma per creare è
necessario perdere la propria identità, assumersi questo divenire-altro,
divenire-impercettibile.
Il divenire-donna, quindi, il femminile (una delle tante direzioni che
può prendere il personaggio costituendosi) emerge come tratto sino ad
allora impensato nel testo “originale”, come un imprevisto del personaggio,
che dà vita a questa ed altre deformazioni, ad altre minorazioni, per come
questo processo è inteso da Deleuze riguardo a questa questione: “Le
donne, qualunque sia il loro numero, sono una minoranza definibile come
stato o sotto insieme; ma non creano se non in quanto rendono possibile un
divenire, di cui non hanno la proprietà, in cui anch’esse devono entrare, un
divenir-donna che concerne l’umanità intera, uomini e donne compresi.”205
La variante femminilità per emergere necessita quindi di un processo
creativo che coinvolge sia uomini che donne, e che non riguarda

204
C. Bene, Riccardo III, in Sovrapposizioni, cit., p. 7: “Ogni qualvolta si
sentiranno gemere voci di neonati, di tra le quinte, le signore impegnate
in scena son tentate d’uscire e talvolta se ne vanno davvero – in quanto
madri apprensive…Toccherà perciò a Riccardo deformarsi, per così, da
civetta, divertire quei piccini davvero inopportuni, se non vorrà restare da
solo a recitare.”
205
G. Deleuze, F. Guattari, Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia, cit., 1, p.
153.

95
l’imitazione dell’uno o dell’altro genere, quanto piuttosto la ricerca di una
zona d’indiscernibilità, un “inter-essere” per stare tra i dualismi dei due
generi, e trovare la propria linea di fuga.206 Riccardo in questo caso è
costretto a cercare, a sperimentare un femminile di sé che gli garantisca la
presenza di qualcuno vicino: dalla sottrazione iniziale operata all’io del
personaggio principale la variante minore femminilità emerge per necessità,
in risposta ad un bisogno creato dalla nuova situazione scenica.
La scena con Lady Anna rappresenta infatti il culmine di questo
doppio legame che nel tradimento li unisce e li modifica entrambi, così
com’è l’apice di quel continuo processo di metamorfosi di Riccardo e del
suo processo di autoconsapevolezza che attraverso le metamorfosi si fa
strada, conformemente alla natura creativa delle stesse e del tradimento
operato dal suo diventare macchina da guerra. Contemporaneamente al
tradimento che Riccardo compie in scena – potenzialità di un testo più volte
rilevata da Deleuze – in questa versione egli compie il tradimento della
scena, poiché evita ogni rappresentazione-presenza dell’evento (ossia
l’azione decisiva secondo la coerenza logica della trama, del testo) che è di
continuo differito altrove, non appare mai, non si realizza mai, ulteriore
sfaccettatura di una sottrazione in bilico tra l’alternarsi di questa presenza-
assenza.
Allo stesso modo, la nozione di femminilità così come l’ha teorizzata
Deleuze207 e differita sulla scena Bene, raddoppia la metamorfosi del
personaggio, in quanto secondo l’ottica di quest’ultimo non è caratteristica
attribuibile alle donne, anzi: la ricerca di Riccardo, nel richiamare a sé la

206
Ivi, pp. 403-404.
207
F. Zourabichvili, Deleuze e il possibile (sul non volontarismo in politica),
“aut aut”, 276, 1996, p. 65, n. 16 “E se, in un altro registro, Deleuze e
Guattari possono dire che anche le donne devono affrontare un divenire-
donna, è per il fatto che la femminilità non è un dato essenziale, ma un
evento o l’oggetto di un incontro.”

96
presenza delle donne, uscite di scena, è la ricerca impossibile di un
femminile che lo porta ad accostarsi – a deformarsi – verso quella
negazione del femminile che è la donna stessa, e soprattutto la donna
attrice, da quando è stata ammessa la sua presenza sulle scene.
Rispetto ai tempi di Shakespeare, in cui l’esibizione del ragazzo
travestito da donna, e perciò la presenza-assenza della donna, evocava la
nostalgia e il desiderio di quell’assenza, ora “l’avvento della donna sulle
scene segna una volta per tutte la scissione tra maschio e femmina, […]
cancellando da una parte l’erotismo e dall’altra l’osceno come ‘eccesso del
desiderio’, la perversione che è il teatro nel suo farsi: il fantasma […]
Attore e attrice hanno smarrito insomma la femminilità. Ma l’arte è
androgina.” 208
Egli rileva inoltre come questa perversione del teatro costituisca la
sua degenerazione ovvero la sua destabilizzazione in quanto “genere
scenico”,209 genere teatrale, per come è stato definitivamente classificato ed
inquadrato a partire dalla rappresentazione post-elisabettiana, ed ora
perduto. Soprattutto, ciò che la divisione dei sessi stigmatizza è la
separazione e immutabilità dei ruoli e delle identità in scena: anche in
questo caso, Bene si oppone ad una concezione del teatro per cui all’attore,
secondo il suo genere, è imposto un personaggio-ruolo, ed il suo rifiuto di
tale fissazione è più evidente nella seconda parte dello spettacolo, ove: “non
resterà al duca di Gloucester che […] giocare con l’assenza […] Ma
l’assenza del femminile in questo caso è la gestione assurda e ossessiva
della sua propria intollerabile presenza d’attore…”.210
Stando alle affermazioni di Bene, sembrerebbe quindi che la sua
nozione di perversione teatrale, di cui uno degli esempi è costituito dal
teatro elisabettiano, si colleghi a quella di Deleuze, che la assimila, come si

208
C. Bene, Opere, cit., p. 1039 (in corsivo nel testo).
209
Ivi, p. 1036.

97
è visto,211 al mascheramento o contro-effettuazione dell’evento: “Ciò che
chiamiamo perverso, è […] quella determinazione a sbalzi, quella
differenziazione che non sopprime mai l’indifferenziato che si divide in
essa, quella suspense che contraddistingue ogni momento della
differenza.”212
La rappresentazione-perversione teatrale così intesa, come non-luogo
in cui la differenza si manifesta, si realizza in scena grazie alla ricerca
beniana dell’assenza del teatro, di una scena che rimandi e differisca
continuamente l’evento, (la “drammaturgia dell’assenza” si realizza infatti
come tale a fronte dell’irrappresentabilità dell’evento) allo scopo di
produrre la ripetizione quale “differenza senza concetto”.213 Tenendo perciò
come punto di riferimento le riflessioni di Deleuze, il teatro di Bene effettua
nella prassi con il togliere di scena e la ripetizione, un unico gesto che si
oppone alla rappresentazione: “il fine di una incessante ripetizione è allora
quello di trattenersi fuori il più possibile dalla tentazione e persino dalla
capacità di rappresentare, e intanto di confinarsi (condannarsi) nel campo
delle infinite variazioni di una incontaminata e indefinita differenza.”214
Il processo di variazione degli elementi teatrali (sottrazione e
costituzione) che garantisce il divenire dell’opera stessa è quindi uno degli
effetti di questa drammaturgia dell’assenza, che si realizza col togliere dalla
scena tutto ciò che garantisce e perpetua la rappresentazione teatrale in
senso classico, il teatro-intrattenimento per un pubblico che da esso esige
conferma e rassicurazione, secondo dei passaggi che lo stesso Bene

210
C. Bene, Riccardo III, cit., p. 10.
211
Cfr. Capitolo I, 3.
212
G. Deleuze, Logica del senso, cit., p. 247.
213
C. Bene, Opere, cit., p. 1039.
214
P. Giacchè, Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale,
Bompiani, Milano 1997, p. 71.

98
chiarisce;215 questo teatro si sviluppa quindi come un operare (l’operazione
critica di cui sopra) del non-attore il quale infatti è definibile piuttosto come
artefice.
A questo proposito, la questione precedentemente affrontata della
deficienza-assenza della donna in scena, ad esempio, appare come uno dei
pre-requisiti necessari al suo teatro; la ricerca del femminile che da sempre
è assente nella donna, scatena una serie di eventi di volta in volta diversi, è
un vuoto mai riempito, né dalla donna stessa, ovviamente (“fantasmatica
presenza”), come si è visto in Riccardo III, né dall’attore che a partire da
tale assenza si confronta con la propria mancanza, e la femminilità si
conferma meta necessaria rivendicata da Bene per l’artista-artefice.216
Tra l’altro, il blocco dell’identità dell’attore in un personaggio-ruolo,
scongiurato dal teatro operatore di Bene, potrebbe essere evitato sempre se
l’attore contemporaneo fosse in grado di recuperare, fra le altre potenzialità
della sua arte, anche la sua capacità di mentire, di scavalcare l’attendibilità
del personaggio, del testo e della coerenza di tutta la messinscena. Non si
tratta ovviamente della semplice menzogna, quanto di recuperare quella
“derisione” dell’apparato di potere e di certezze che tutta la struttura teatrale
rappresenta e che fa parte del teatro stesso nel suo rappresentare, ma che in
questo modo egli potrebbe “far saltare”, sovvertire.217
Ogni messinscena di Bene che dalla negazione o sottrazione si
costituisce per poi dissolvere immediatamente le apparenze di personaggi,

215
C. Bene, Opere, cit., p. XIII: “squartamento del linguaggio e del senso nella
discrittura scenica (de-composizione cartacea-orale-musicale del testo)/
disarticolazione del discorso succubo del significante / togliere di scena
(contro la confezione culturale della “messa in”…) /demolizione della
finzione scenica = dalla identità immedesimata o delazione epica
“straniata” del simil-attore re-citante che, nella ottusità del ruolo, si
preclude l’infinità dei doppi, dell’arredamento della regia critica…”.
216
C. Bene, G. Dotto, Vita di Carmelo Bene, cit., p. 99.
217
C. Bene, Otello, o la deficienza della donna, cit., p. 51.

99
di ruoli, d’identità, o d’intrecci così creati, e quindi nuovamente demoliti
(derisi) mediante vari artifici scenici – inciampi, protesi, trasformazioni –
gioca appunto con quest’alternarsi di presenza-assenza che egli rievoca dal
teatro elisabettiano, in un equilibrio teso sul limite che le separa, e sul quale
si articola tutto il divenire, il costituirsi dell’opera: “Nel suo non muoversi
da quel limite, è un movimento che si muove stando fermo e sospende così
qualunque possibilità di rappresentare.” 218

Alleanze

In queste prime pagine viene perciò ribadito l’essere minore sia della
scrittura che della prassi scenica di Bene – due momenti in realtà
inseparabili della sua attività artistica, poiché non v’è prevalenza dell’uno
sull’altro, e lo stesso autore rinnega sempre qualsiasi aderenza ad un testo
fissato, “a sé stante” – ed in particolare proprio di questo procedimento di
sottrazione (così come la necessità di deridere mentendo), come Deleuze ha
sempre sottolineato fin dal primo incontro con il suo teatro.
Non a caso i suoi personaggi, i suoi spettacoli sono messi più volte in
relazione dal filosofo francese con altri autori – e personaggi letterari o
teatrali – minori; Deleuze rimanda infatti, in queste pagine, anche al
rapporto che lega la Pentesilea di Kleist – autore minore – alla già citata
“Nota generale sul femminile”, ovvero al rapporto tra l’uomo di guerra,
come Achille o Riccardo, con una deformazione legata ad una scelta
iniziale, con un altro da sé, il femminile appunto, che non è però
riconducibile all’immagine della donna con cui entrambi si confrontano.

218
G. Dotto, “Carmelo Bene, Shakespeare e l’attore musico nel teatro
dell’irrappresentabile”, in C. Bene, Otello, o la deficienza della donna,
cit., p. 36 (in corsivo nel testo).

100
A sua volta Bene fa spesso riferimento all’opera di Kleist come
testimonia il suo testo Pentesilea, Ovvero della vulnerabile invulnerabilità
e necrofilia in Achille, poesia orale su scritto incidentato versioni da Stazio
Omero Kleist.219 La messa in scena dello spettacolo, sviluppata in due
momenti,220 affronta una ricerca sull’eroe omerico, sull’autodistruzione di
Achille quale emblema della negazione del teatro stesso, ma è soprattutto
una ricerca sul linguaggio, un “attentato al linguaggio”.221
Deleuze indica poi dei punti d’incontro tra Bene e Carroll, e tra
Carroll e Shakespeare, in un alternarsi di rimandi e immagini amplificate
anche grazie a questo testo “sbloccato”, alle situazioni rimesse in gioco,
quasi a voler dimostrare che fissare un’opera significa sottrarle parte delle
sue alleanze con altre e non permetterle di produrre ulteriori
concatenamenti.
Tutto ciò che Bene sottrae al teatro con il suo teatro, specificamente
nel caso delle operazioni critiche su Shakespeare, Deleuze lo individua alla
fine di questo paragrafo come una componente del Potere, famigliare,
sessuale, di Stato, ossia come “ciò che assicura la coerenza del soggetto
trattato e la coerenza della rappresentazione sulla scena.”222 Il potere del
teatro sta infatti nella forma della rappresentazione teatrale, e per quanto ciò
che rappresenta possa subire degli attacchi al suo interno, una critica,
comunque la rappresentazione resta uno strumento di potere, e lo stesso
vale per l’attore, per il testo, il drammaturgo, il regista, per tutti quegli

219
C. Bene, Opere, cit., p. 1319.
220
Pentesilea la macchina attoriale-attorialità della macchina, momento n. 1
del progetto-ricerca Achilleide, da Stazio, Kleist, Omero e post- omerica,
voce solista C. B., Milano, Castello Sforzesco, 26 luglio 1989 e
Pentesilea, cit., momento n. 2, voce solista C. B., Roma, Teatro
Olimpico, 19 maggio 1990.
221
C. Bene, Il teatro senza spettacolo, cit., p. 164.
222
G. Deleuze, Un manifesto di meno, cit., p. 72.

101
elementi di potere che il teatro di Bene aspira e riesce per l’appunto ad
amputare, a “togliere di scena”.
Questo modo di fare teatro assume perciò un’altra forma, un’altra
“materia”, rispetto al modo tradizionale, a partire dal movimento che si
traduce poi nella sottrazione e prosegue con la conseguente messa in
variazione di ciò che è stato modificato, e con la costituzione in scena di
una realtà nuova; è un teatro irrappresentabile, in continuo divenire, che
sprigiona la sua forza proprio in virtù di quel movimento che lo rende
sempre instabile, e sottraendolo al sistema del teatro cosiddetto maggiore,
attua un processo che Deleuze qualifica come minorazione.
Nel concludere questo paragrafo, pur sostenendo come già in
precedenza quanto sia importante riconoscere i collegamenti che si creano
tra le opere di autori minori, Deleuze sottolinea la differenza che intercorre
tra il termine “alleanza” e “filiazione”, sulla quale si era già soffermato in
Conversazioni riguardo la nozione di concatenamento: “Che cos’è un
concatenamento? E’ una molteplicità che comporta parecchi termini
eterogenei, e che stabilisce dei legami, delle relazioni fra di essi […]
Importanti non sono mai le filiazioni, ma le alleanze e le leghe.”223 Partendo
da questo presupposto, l’autore in questo caso afferma che sarebbe del tutto
errato considerare il teatro della non-rappresentazione di Bene
semplicemente come una derivazione dalle precedenti (e contemporanee)
esperienze di un Artaud, o di Grotowski, o ancora di Wilson o del Living
Theater.
Senza soffermarsi per il momento sulle affermazioni dello stesso
Bene, il quale più volte distingue l’originalità del proprio percorso da quello
dei suddetti autori224 (pur con i dovuti riconoscimenti), pare importante
sottolineare questa considerazione del filosofo francese al riguardo, proprio

223
G. Deleuze, C. Parnet, Conversazioni, cit., p. 74.
224
Ad esempio in C. Bene, G. Dotto, Vita di Carmelo Bene, cit., p. 313.

102
perché sebbene Bene condivida con altri – pochi – autori teatrali
contemporanei l’aspirazione ad un diverso modo di concepire l’arte teatrale,
ciò che va riconosciuta effettivamente è l’unicità del suo stile, il suo essere
un operatore o tramite di una prassi artistica – e non solo di una teoria,
come accaduto ad altri autori – che si è espressa in diversi modi e nella
quale Deleuze ha riconosciuto molte affinità con il proprio pensiero.225

Il teatro minore e la Storia

Fin dall’inizio del secondo paragrafo del saggio deleuziano su Bene,


“Il teatro e le sue minoranze”, l’autore approfondisce i motivi per i quali la
teoria e prassi teatrale di quest’ultimo si qualificano come minori, e si serve
perciò di alcuni concetti fondamentali del suo pensiero per indicare
l’importanza e la complessità, oltre alle potenzialità, di questo tipo di teatro.
Il punto di partenza per la riflessione sul tema delle caratteristiche
che contraddistinguono un teatro minore da uno maggiore è costituito
dall’affermazione, comune ai due autori, che “L’interessante è in mezzo,
ciò che succede nel mezzo (au milieu).” 226 La riflessione in merito da parte
di Deleuze rimanda alla critica che egli, come Bene, indirizza alla Storia,
considerata quale proiezione e trasmissione di eventi selezionati in un
tempo stabilito da precise coordinate, opposta a quel divenire a cui invece
entrambi si rivolgono, che si produce senza punti di partenza o arrivo e che
“si trova”, per l’appunto, nel mezzo.

225
G. Deleuze, C. Parnet, Conversazioni, cit., pp. 10-11: “Vorrei dire ora cos’è
uno stile […] E’ un concatenamento, un concatenamento di enunciazione.
Uno stile significa riuscire a balbettare nella propria lingua. […] significa
innanzitutto la linea di fuga o di variazione che intacca ogni sistema
impedendogli di essere omogeneo.”
226
G. Deleuze, Un manifesto di meno, cit., p. 73.

103
Il filosofo francese ha fatto più volte riferimento nei suoi scritti a
questa caratteristica, riscontrata con maggiore evidenza in autori quali
Woolf o Beckett; il “trovarsi nel mezzo”, il creare intersezioni senza
costituire punti di partenza o arrivo si qualifica quindi come parte di un
percorso in divenire, di un’evoluzione necessaria ad ogni autore ritenuto
minore.227 Una tale condizione gli appartiene, è parte integrante del suo
stile, ed è indice di un’intempestività che lo colloca in un movimento che va
al di là di ogni appartenenza ad un “tempo” storico, e che lo rende
concatenamento collettivo d’enunciazione, linea di fuga che intacca i
sistemi maggioritari, rizoma.228
Il teatro di Bene partecipa senz’altro di questo divenire in cui
Deleuze lo colloca; in quanto antiumanista, antistorico e antisoggettivo,
esso rifiuta e sottrae ogni fondamento ed ogni ruolo, ogni elemento stabile e
rassicurante all’arte teatrale, (e non solo, anche alla scrittura e al cinema)
che si tratti del testo, dell’autore, del regista o del linguaggio e della forma
dell’arte stessa, e diventa quindi concatenamento collettivo d’enunciazione,
negazione di qualsiasi punto d’origine o d’arrivo, di qualsiasi principio
significante nelle sue opere.
Il suo percorso artistico lo porta infatti sin dall’inizio a scongiurare
una rappresentazione teatrale come ri-presentazione, espressione di una
realtà scenica ormai privata di qualsiasi immediatezza, e a realizzare invece
un teatro dell’irrappresentabile, testimonianza di un evento che in questa
scena non si lascia chiudere e che “non ha passato, non ha testo a monte
[…] Non conosce il prima e non conosce il dopo. E’ prima del prima e
dopo il dopo.”229

227
G. Deleuze, C. Parnet, Conversazioni, cit., pp. 35-36.
228
Ivi, pp. 33-34: “Nel divenire non c’è passato né avvenire, neanche presente,
non c’è storia.”
229
C. Bene, G. Dotto, Vita di Carmelo Bene, cit., p. 72.

104
Il teatro di Bene quindi non si prefigge di “esprimere” qualcosa
nemmeno secondo i dettami del linguaggio (così come rifiuta qualsiasi
sistema di codificazione formale), e a questo proposito si potrebbe fare
riferimento ad uno degli elementi che a suo parere differenziano la sua
produzione artistica da quella di Artaud, ossia proprio da quella già citata
ricerca di una parola prima delle parole che si configura come “lacerazione
ossessiva e inconsolabile rimpianto d’unità originaria”.230
In accordo con simili affermazioni su quest’intento perseguito dal
teatro artaudiano, Bene si colloca al di fuori di qualsiasi nostalgia e ricerca
di un fondamento su cui il teatro poggerebbe, da ogni tentativo
d’espressione, rifiuta il prima e il dopo della parola esercitando sia nei testi
che nella prassi teatrale una scrittura disarticolata, che nega se stessa, la
propria necessità, il proprio senso, il suo essere “funerale dell’orale”231 e
quindi rappresentazione e rivisitazione della storia, che è possibile solo
attraverso il linguaggio.232
L’atteggiamento di Bene nei confronti della storia si rivela in
particolare in due delle sue opere, Giuseppe Desa da Copertino A
boccaperta e Lorenzaccio,233 di cui la seconda in particolare è un esempio
di quell’“essere stranieri nella propria lingua” (così come suggerisce
Deleuze dovrebbe risultare ogni scrittura minore), di minorazione del

230
C. Bene, Opere, cit., p. 3.
231
Ivi, p. V.
232
Ivi, p. 1235: “Tutta la storia è storia della phoné. Si dà rappresentazione solo
nella pagina scritta; la storia redatta, che non è più quella storia. Ogni
storia redatta è immaginaria. Puoi rivisitarla unicamente attraverso il
linguaggio. (Ri)viverla “originalmente”, quale messa in crisi del
linguaggio.”
233
C. Bene, A Boccaperta, Giuseppe Desa, S.A.D.E., Masoch, Einaudi 1976;
riedizione del solo A boccaperta, Linea d’ombra, Milano 1993;
Lorenzaccio, con saggio critico di M. Grande, Nostra Signora Editrice,
1992².

105
linguaggio (e di conseguenza appunto della storia), e del tempo che in essa
inscrive e seleziona solo determinati eventi, sulla base della loro
successione. Non a caso, sin dalle operazioni critiche su Shakespeare, Bene
intende mettere in crisi l’idea del testo in quanto fondamento,
ripresentazione “fedele” di un passato rappresentabile poiché attendibile,
censurato a scapito di ogni tradizione orale, dei non-detti e delle virtualità
lasciate inespresse dalla codificazione storica, che ogni scritto porta con sé
e che il suo teatro di fatto lascia emergere.
A boccaperta è una sceneggiatura cinematografica scritta nel 1970 e
dedicata a San Giuseppe da Copertino, testimonianza di un evento umano
accanto al quale il periodo storico del suo tempo, il 1600, scorre senza
riuscire ad inquadrarlo, di un santo illetterato et idiota che proprio in virtù
della sua inconsapevolezza, devozione e irregolarità vive ai margini del
sistema ecclesiastico. La sua avventura personale, la sua mistica così
inconsapevole e irriflessiva lo portano a conquistare una grande popolarità
(non richiesta), nonostante il rifiuto e la diffidenza da parte del sistema
stesso, il quale infatti, non sapendo come trattarlo, attese quasi duecento
anni per santificarlo.
Altrettanto rifiutato dalla codificazione storica, poiché la sua vicenda
si sottrae ad ogni schema è Lorenzaccio, sulla cui vita Bene sostiene sia
stato scritto molto, e male, proprio perché anch’egli resta un personaggio
incompreso e perciò scomodo per l’interpretazione storica, in questo caso
particolare alla storia medicea. Rappresentato a Firenze nel 1986 (dato non
trascurabile, la presenza di Deleuze in quel “Ridotto” del Teatro
Comunale), Lorenzaccio, al di là di de Musset e Benedetto Varchi è
dedicato a Lorenzino de’ Medici, assassino dell’usurpatore e tiranno
Alessandro VI, ed è “uno studio sulla impossibile paternità e coerenza di
qualsivoglia azione che nell’atto smarrisce il proprio intento. Qui l’aprassia
graduale del protagonista sempre in ritardo sui suoi stessi passi (fino a

106
trovar già compiuto il misfatto prima del suo intervento), sollecita, pure
inscritta nella pagina, una agrafia da leggersi smarginata.”234
Un contributo determinante alla realizzazione di quest’opera che è
anche, come si è detto, un’accusa e uno sberleffo alla storia ed alla
concezione del tempo entro cui i fatti storici selezionati (le azioni) vengono
iscritti e tramandati, è stato dato a Bene proprio dalla riflessione degli stoici
sul tempo-Aiôn, ed anche, naturalmente, dalla Logica del senso e dalle
successive riflessioni in merito di Deleuze; in particolare Bene si è
soffermato sulla questione da lui affrontata della differenza tra il tempo di
Aiôn, considerato quale non-storia, e quello di Kronos, sul quale invece
sono iscritti i fatti che la storia ha catalogato e giustificato.235
Ed inoltre, come spiega Deleuze proseguendo in questo terzo
paragrafo, oltre che per la critica alla ragione storica, l’essere minore è
attribuibile a qualunque realtà che si discosti dal modello che viene
riconosciuto come normale, acquisito; l’esempio in questo caso è dato dalla
situazione dei contadini delle Puglie, realtà da cui proviene Bene, ma
potrebbe ben adattarsi a qualsiasi popolazione che vivesse al di fuori o nel
più totale disinteresse delle abitudini o delle norme di un apparato statale, di
una cosiddetta “civiltà”. A questo proposito, Deleuze, rileva che: “La sua
propria minoranza, Carmelo Bene la vive in rapporto alla gente delle Puglie
[Quando ne parla] sente che la parola ‘poveri’ non conviene del tutto. Come
chiamare povera questa gente che preferiva morire di fame piuttosto che
lavorare? Come chiamare schiavi gente che non stava al gioco del padrone

234
C. Bene, Opere, cit., p. 4 (in corsivo nel testo).
235
G. Deleuze, F. Guattari, Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia, cit., 1, p.
380: “Aiôn, che è il tempo indefinito dell’evento, la linea instabile che
conosce solo le velocità e contemporaneamente continua a dividere quel
che avviene in un già qui e un non-ancora-qui, un troppo-tardi e un
troppo-presto simultanei, qualcosa che simultaneamente sta per accadere

107
e dello schiavo? Come parlare di un ‘conflitto’, laddove c’era ben altro, una
bruciante variazione, una variante antistorica! […] Ed ecco che gli si fa uno
strano innesto, una strana operazione: sono stati pianificati, rappresentati,
normalizzati, storicizzati, integrati al dato maggioritario, e allora sì che ne
hanno fatto dei poveri, degli schiavi, li si è messi nel popolo, nella Storia, li
si è resi maggiori.”236
Nello stesso contesto, in contrasto con la gloria e la dottrina dei
teologi (sulla scia del racconto di Bene cui ho precedentemente accennato),
Deleuze segnala l’esperienza mistica ed irregolare vissuta da San Giuseppe
da Copertino, o da un San Francesco “che balla davanti al papa”. Così come
l’etnìa delle Puglie si contrappone all’inquadramento da parte dello Stato, i
due santi si collocano oltre il sistema ecclesiastico e la storia cui si associa,
e comunicano l’evento nel suo prodursi attraverso e in virtù della
difformità, dell’idiozia, dell’essere e comportarsi da anomalo. E quindi
anche attraverso gli scritti dedicati a queste realtà minori237 – santi e
contadini – della sua terra d’origine, Bene si riconferma autore minore, se,
come indicato da Deleuze e Guattari in Kafka, nell’opera di un autore
minore ogni fatto individuale si innesta immediatamente all’interno di una
situazione politica.238

ed è appena accaduta. E Chronos, al contrario, il tempo della misura, che


fissa le cose e le persone, sviluppa una forma e determina un soggetto.”
236
G. Deleuze, Un manifesto di meno, cit., p. 90.
237
Per quel che riguarda i riferimenti di Bene al meridione ed al salentino, dove
nacque, si possono citare l’autobiografia Sono apparso alla Madonna, i
romanzi Nostra Signora dei Turchi (e le relative edizioni teatrali e
cinematografiche), e Credito Italiano V.E.R.D.I., la citata sceneggiatura A
boccaperta, e lo spettacolo S.A.D.E. ovvero libertinaggio e decadenza del
complesso bandistico della gendarmeria salentina, ora in C. Bene,
Opere, cit.
238
G. Deleuze, F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, cit., p. 30.

108
Servendosi anche di questi riferimenti ad alcuni scritti di Bene,
Deleuze evidenzia tra l’altro le conseguenze del processo di
normalizzazione di una cultura così come di una popolazione,
l’azzeramento dei tratti distintivi e “devianti” a favore dell’omologazione
al sistema dominante: “di un pensiero si fa una dottrina, di un modo di
vivere si fa una cultura, di un avvenimento si fa Storia.”;239 ma d’altro canto
il filosofo francese sottolinea anche la possibilità di opporsi a
quest’operazione di livellamento culturale grazie alla minorazione in quanto
apertura ai divenire.
Ritornando su un piano più specificamente teatrale, si può fare
riferimento al famoso testo di Denis Diderot, Il paradosso sull’attore,240 nel
quale sono posti i problemi relativi all’identificazione o meno da parte
dell’attore con il suo personaggio, (questione sempre aperta per la teoria e
la prassi teatrale) per rilevare come il teatro di Bene, con il suo rifiuto
dell’interpretazione storica classica, traduca in pratica alcuni temi emersi
nel testo citato. Per mezzo della minorazione – e della conseguente
costituzione del personaggio in scena – infatti, Bene lascia emergere il
personaggio, che viene a sovrapporsi alla personalità dell’attore-interprete:
secondo un processo già analizzato da Jacques Copeau sempre a proposito
del Paradosso, dev’essere piuttosto il personaggio ad imporre i suoi modi, i
suoi gesti all’attore, e non viceversa, per decostruire insomma l’identità ed
il ruolo di quest’ultimo, e prima ancora, il testo e la sua storia.241
Alla virtualità del personaggio che dissolve l'io dell’attore
corrisponde la negazione della storia stessa considerata quale memoria di
azioni compiute come punti fermi collocati in successione temporale

239
G. Deleuze, Un manifesto di meno, cit., p. 75.
240
D. Diderot, Paradoxe sur le comédien, Flammarion, Paris 1967; trad. Il
paradosso sull’attore, P. Alatri, (a cura di), Editori Riuniti, Roma 1989².
241
P. Giacchè, Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale, cit., pp.
98-101.

109
(Kronos); se invece si considera l’evento, l’atto, nel suo dispiegarsi
nell’istante come simultaneità dei differenti momenti del tempo (Aiôn), si
distingue tra l’evento che eccede la sua effettuazione, e quest’ultima, ed in
quest’ottica si compie per l’appunto un teatro come quello di Bene: contro-
effettuazione dell’evento.
Ciò che Bene nega infatti, dapprima nel racconto e poi anche in
scena, è la finalità dell’azione (in questo caso lo scopo prefissato del
tirannicidio) a favore dell’atto, dell’evento immediato che si compie, che si
lascia essere, per così dire prendendo in contropiede l’azione, così come il
progetto da cui deriva e lo scopo cui è finalizzata.242 Stando alle parole
dello stesso Bene, infatti, lo storico “archivista” non riflette a sufficienza
sull’incompatibilità tra atto e azione, sull’oblio che accompagna il gesto, su
quel “buco nero del gesto”, eliminato dalla storia, che eccede l’azione.243
Allo stesso modo sarebbe necessario che ogni artista intaccasse le
forme della propria arte, alla ricerca del “buco nero”, cioè della propria
sottrazione, sia che si tratti di scrittura, che del linguaggio, di musica o

242
C. Bene, G. Dotto, Vita di Carmelo Bene, cit., p. 234: “Lorenzaccio è quel
gesto che nel suo compiersi si disapprova. Disapprova l’agire. E la Storia
Medicea, dispensata, non sa di fatto stipare questo suo (?) enigma eroico
[…] Ma le cose son due: o la Storia, e il suo culto imbecille, è una
immaginaria redazione esemplare delle infinite possibilità estromesse
dalla arbitraria arroganza dei ‘fatti’ accaduti (infinità degli eventi
abortiti); o è, comunque, un inventario di fatti senza artefici, generati,
cioè, dall’incoscienza dei rispettivi attori […] che nella esecuzione del
progetto, […] quel progetto stesso smarrirono, (de)realizzandolo in
pieno.”
243
P. Giacchè, Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale, cit., p.
162: “L’azione ha bisogno del passato e del futuro giacché è intenzione
prima e rappresentazione poi, mentre è solo nel […] presente che
(ac)cade l’atto […] In quel tempo – o in quel punto – l’attore non è più
autore di nulla, nel senso che non controlla, non progetta (prima) né
verifica (poi) l’atto o la parola. Vive insieme a loro un eterno istante, ma
non ha il tempo (il chronos) di opporre ad essi la propria identità.”

110
pittura, oppure della messa in scena; “Lorenzaccio rinvia alla sensazione.
Che se ne prova se non sensazione? Tutto il resto è teatro. Quel che conta è
operare buchi neri del linguaggio […] Si deve soprattutto uscire
dall’equivoco della scrittura di scena.”244
Questo processo è particolarmente evidente in Lorenzaccio, la citata
operazione critica teatrale di Bene, in cui le possibilità estromesse dalla
codificazione storica, gli atti orfani delle proprie azioni vengono resi in
palcoscenico su tre livelli ricreando un continuo differimento tra atto e
azione, per cui l’attore tenta di precedere un’azione sulla quale sarà sempre
in ritardo, complici una serie di mezzi tecnici tra cui il playback, di cui
Bene si servirà con sempre maggiore frequenza nel corso della sua
produzione artistica.
Questa ricerca di una dimensione che ecceda le forme date entro cui
ogni arte si “esprime” e viene classificata, spinge Bene a rilevare, tra l’altro,
una prossimità tra il proprio teatro, l’aspirazione artaudiana ed anche la
pittura di Bacon; egli ritiene infatti che quest’ultima sia in grado di
comunicare una sensazione che “indicibile, non è ottica, non è tattile” e,
oltrepassando le forme dell’arte pittorica, si qualifichi come un “operare” –
nella pittura – così come Artaud e lui stesso hanno operato in teatro.
Anche in questo caso le considerazioni di Bene si rifanno alle
tematiche affrontate da Deleuze, con particolare riferimento al suo saggio
Francis Bacon. Logica della sensazione;245 la qualità specifica dell’arte di

244
C. Bene, Opere, cit., p. 1273 (in corsivo nel testo).
245
Ibidem: “Eccedere le forme. Per muovere i primi passi devi uscire dal tuo
cammino, smarrirti, rinunciare al tuo modo, se vuoi pervenire a ciò che
non ha più modo. Evadere ogni forma d’Arte, o quantomeno, avvertirne
l’imbarazzo. Artaud, se fosse vissuto ancora un poco, avrebbe ravvisato
in Francis Bacon il pittore che, finalmente operando, frusta – eccome! –
l’idiotismo espressivo del dipingere.”

111
poter obbedire alla “logica della sensazione”246 costituisce secondo Bene
un’ulteriore dimostrazione della possibilità di sottrarsi agli schemi imposti
dalla selezione della storia. In particolare si riferisce alla ragione storica
“che traveste ogni segno in un discorso e imbriglia ogni significato nella
trama temporale di un racconto”, come accade per l’arte teatrale,
privilegiato strumento del potere che si esprime nelle storie, raccontate in
teatro e classificate nella Storia del Teatro. Anche attraverso l’incontro con
la pittura di Bacon e sempre tenendo presente la filosofia di Deleuze,
quindi, è forse possibile affermare che il teatro di Bene – come lui stesso
dichiara – oltrepassi la storia verso “una sensazione che assorbe e cancella
in sé le sue stesse tracce e che sospende ogni nostalgico rinvio al
significato”.247
La rivendicazione di Bene della priorità della sensazione che
attraversa le opere artistiche oltre qualsiasi limitazione imposta da parametri
espressivi dell’arte stessa riporta inoltre alle affermazioni di Deleuze in
merito, espresse in Che cos’è la filosofia?, ed in particolare in quel capitolo
ove, con Guattari, i due autori indagano la natura ed i rapporti tra percetti,
affetti e concetti. Per quel che riguarda l’arte, si tratta della saturazione del
materiale stesso di cui l’artista si serve da parte della sensazione, di
desoggettivizzare l’opera stessa: “Estrarre un blocco di sensazioni, un puro
essere di sensazione”,248 questo è lo scopo dell’arte, secondo i due autori, il
suo divenire.
La nozione di divenire nel processo artistico permette poi di
riallacciarsi alle affermazioni del filosofo francese riguardo alle alleanze tra
autori minori, da lui definiti “intempestivi” perché situati al di fuori della
storia, e per questo motivo, come lo stesso Bene, si collocano sempre in una

246
P. Giacchè, Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale, cit., p.
93.
247
Ibidem.

112
zona mediana che li situa ai margini della cultura cosiddetta maggiore che è
storica in quanto rappresentativa del tempo in cui si esprime.
In più occasioni, infatti, Deleuze ha ribadito che gli autori maggiori
interpretano il proprio tempo, restano chiusi in quest’ambito di cui si fanno
portavoce, al contrario dei minori, Kleist a differenza di Goethe, Laforgue
che intacca l’opera di Shakespeare; l’autore minore, grazie alla propria
posizione in divenire continuo, non dipende infatti da un tempo preciso,
anzi è il tempo a dipendere dalla sua arte. Inoltre, al di là di ogni
contrapposizione tra maggiore e minore, la potenzialità di quest’ultimo tipo
di cultura rispetto alla prima è costituita proprio dal processo di sottrazione
(così evidente nel teatro di Bene) che le è proprio e che le permette di
minorare ogni autore maggiore, e quindi di riaprire tutti i “divenire”, ormai
bloccati, all’interno delle loro opere, operazione che Deleuze ha analizzato
soprattutto in relazione alla letteratura, ma riferita qui specificamente al
teatro.

Il teatro della lingua

La distinzione tra lingue maggiori e minori, o per meglio dire, la


definizione di uso minore di una lingua come opposizione ad ogni sistema
maggiore, introdotto da Deleuze a partire dal saggio su Kafka, è ripresa –
sempre nel secondo paragrafo di questo saggio – per approfondire
quell’aspetto del potere veicolato dalle lingue maggiori che viene a
confluire nel potere rappresentato dal teatro stesso. A questo proposito,
Deleuze precisa che una lingua maggiore non è necessariamente
internazionale o “veicolante”, all’opposto di quella minore che sarebbe
quindi a carattere nazionale, vernacolare, secondo una suddivisione esposta

248
G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia? cit., p. 171.

113
già in Kafka; il carattere maggiore della lingua è dato piuttosto dalla sua
struttura omogenea e dai rapporti stabiliti tra le invarianti.249
Il caso del francese ne è un esempio, perché pur non essendo più la
lingua internazionale per eccellenza, resta maggiore in virtù della propria
omogeneità e costanti fonologiche e sintattiche. Allo stesso modo, le
costanti semantiche della lingua inglese la caratterizzano come maggiore;
ad entrambe le lingue Deleuze associa conseguentemente un teatro
cosiddetto maggiore, che ripropone infatti gli stessi schemi ed invarianti
della lingua utilizzata, secondo un processo di standardizzazione, di
uniformità chiarito precedentemente a proposito della critica alla storia.
Sostanzialmente in questo contesto l’analisi deleuziana
approfondisce le connessioni che si stabiliscono tra i vari mezzi attraverso
cui il potere si diffonde, sempre in riferimento soprattutto all’arte teatrale;
dopo la storia – come analizzato nelle pagine precedenti del saggio –
Deleuze tratta quindi la questione della lingua, ed individua nella
rappresentazione teatrale (in senso classico) indubbiamente uno dei
principali veicoli culturali del potere stesso.
Il discorso relativo alla classificazione linguistica di Chomsky, ad
esempio, chiarisce che per questa scienza “le variazioni che intaccano una
lingua devono essere considerate come estrinseche e al di fuori del sistema,
oppure come testimonianze di una commistione tra i due sistemi ciascuno
dei quali sarebbe di per sé omogeneo.”250 D’altro canto, però, Deleuze si
interroga sull’uso maggiore, di potere, che sottende e marchia la lingua
stessa quale suo strumento, a cui contrappone la minorazione quale
variabilità continua di una lingua, il suo uso minore, definito anche il suo
“teatro”, ossia la sua proprietà creatrice per eccellenza.251 Questa proprietà
Deleuze la definisce, in Mille Piani, anche come “sottrazione creatrice”, un

249
G. Deleuze, F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, cit., p. 42.
250
Ivi, p. 77.

114
uso minore della lingua stessa al posto della nozione di sottosistema, o
dialetto, o gergo, che agirebbe nella lingua, proposta dai linguisti; in virtù di
elementi come i tensori, la lingua in quanto macchina astratta traccia le
proprie linee di variazione.252
A questo punto, quindi, il filosofo francese sottolinea come non sia
corretto distinguere e classificare le lingue in maggiori o minori, ma
utilizzare piuttosto questi termini solo sulla base dell’uso che ne viene fatto
nel contesto del linguaggio, e della facilità o meno con cui una lingua si
adatta alla minorazione, nonché quanto sia possibile che il processo di
variazione, il divenire, ne rimetta in gioco le potenzialità creative.
La riflessione sul teatro della lingua – la variabilità continua insita
nella lingua se considerata nel suo uso minore – indice quindi di una
potenzialità creativa, riporta alle affermazioni di Deleuze in Differenza e
ripetizione a proposito del pensiero di Nietzsche e Kierkegaard: “Essi non
considerano più il teatro alla maniera hegeliana, non fanno più un teatro
filosofico, ma inventano, per al filosofia, uno straordinario equivalente di
teatro”.253 Le affermazioni che riguardano il “teatro” della lingua, così come
quel “teatro” della filosofia indicato anche da Foucault, si riallacciano
all’emergere della differenza, alla contro-effettuazione dell’evento differita
in scena, all’avventura del mimo com’ è descritta il Logica del senso.

251
Ibidem.
252
G. Deleuze, F. Guattari, Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia, cit., 1, p.
144: “Il tensore quindi non si lascia ridurre né a una costante né a una
variabile, ma assicura la variazione della variabile sottraendo ogni volta il
valore della costante…”.
253
G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p. 17.

115
CAPITOLO V

SOTTRAZIONI

Giunto al terzo paragrafo di Un manifesto di meno, Deleuze ritiene di


poter indicare una sorta di percorso compiuto da Bene (e necessario a
qualsiasi teatro che voglia dirsi minore) nel suo processo di sottrazione
degli elementi di potere sia dalla rappresentazione che dal rappresentato
nell’evento teatrale: a partire dalla sottrazione della “Storia”, che, come si è
visto in precedenza, rappresenta il “marchio temporale” del potere, Deleuze
indica successivamente la necessità di sottrarre la Struttura, “perché è il
marchio sincronico, l’insieme dei rapporti tra invarianti”.254 Il problema
della struttura e delle invarianti ad essa associate è anch’esso emerso
precedentemente in questo contesto, in rapporto all’analisi deleuziana della
lingua, ovvero all’uso maggiore, scientifico (linguistico) della stessa, a cui è
sotteso il modello di potere attraverso il quale la lingua viene standardizzata
e utilizzata come suo veicolo, come spiegato dall’autore anche nel primo
volume di Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia.255
Come passo successivo, Deleuze afferma che Bene detrae dal suo
teatro anche le costanti, non in relazione solamente alla lingua, ma in
generale quali elementi di stabilizzazione appartenenti ad ogni uso
maggiore; è necessario inoltre che anche il testo, ulteriore invariante garante
di omogeneità in teatro, paragonato al dominio della lingua sulla parola,
debba essere amputato.
Lo stesso Bene, infatti, conformemente alla ricerca del “vuoto”,
dell’assenza in (e del) teatro, ha dichiarato in più occasioni la propria
battaglia contro l’egemonia del testo, in accordo con la posizione di Artaud,

254
G. Deleuze, Un manifesto di meno, cit., p. 77.

116
il quale però non riuscì a tradurre in pratica le sue teorie teatrali, soprattutto
a causa della ricerca di una perduta unità originaria nella “parola prima
delle parole”.256
Il testo, sostiene Bene, così come lo spartito musicale e la
sceneggiatura, è la replica di eventi già trascorsi, è rappresentazione scritta,
già messa in scena dall’autore, che codifica e perpetua ruoli ed identità a
scapito dei doppi inespressi nel testo ed omessi per volontà del
drammaturgo.257
La questione dei doppi nel teatro di Bene è analizzata in particolare
da Pierre Klossowski nell’ambito di un saggio scritto come prefazione al
testo dell’Otello di Bene; a partire dal problema dell’identificazione attore-
personaggio, Klossowski sottolinea quanto il pubblico moderno si aspetti
l’identificazione dell’uno con l’altro, e desideri rassicurazione e certezza
nel verificare il perpetuarsi, grazie alla recitazione-somiglianza,
dell’identità già stabilita e trascritta del personaggio in questione. I
personaggi di Bene invece spezzano questo riconoscimento dovuto
all’identificazione storica, mediante una contraffazione che supera anche la
concezione del “doppio” artaudiano, (e dello sdoppiamento brechtiano)
termine “equivoco”, [poiché] “Non si tratta di contraffare l’originale del

255
G. Deleuze, F. Guattari, Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia, cit., 1, cap.
IV.
256
C. Bene, G. Dotto, Vita di Carmelo Bene, cit., p. 313: “Un teatro che
subordini la regia e lo spettacolo, vale a dire tutto ciò che in esso c’è di
specificatamente teatrale, al testo, è un teatro di idioti, di pazzi […] in
una parola, di Occidentali. (Antonin Artaud) È la sola, lapidaria
affermazione che la mia teoria -prassi scenica condivida dentro il magma
enunciato, argomentato e di-scritto ne Il teatro e il suo doppio.”
257
Ivi, p. 330: “Io reinterpreto l’opera, avendo frugato in tutta la sua indecenza
la galassia dei significanti, la miriade dei doppi di cui l’autore, per
realizzare la partitura, s’è privato.”

117
personaggio”,258 ma di procedere con quest’evoluzione nelle sue infinite
varianti, per scongiurare l’uguale, la simulazione, e realizzare così la
perversione in teatro.
La perversione come assenza implica quindi anche la
sovrabbondanza di significanti in scena con i quali l'attore gioca,
assumendoli su di sé ma ignorandoli, per cui il personaggio e le sue azioni
sono sempre eluse, differite, contraffatte, appunto, in un teatro che non
vuole rassicurare ed offrire modelli d’identificazione, ed anzi si propone
come “intollerabile”.
A partire quindi dalla considerazione beniana della scrittura come
degenerazione dell’oralità,259 e poi del testo come iscrizione delle azioni
storiche e della legge, il passaggio dalla drammaturgia alla rappresentazione
teatrale – in senso classico – si rivela quale ulteriore mediazione dell’evento
riprodotto per la terza volta (in scena), dall’attore (non perciò artefice) e
prima ancora interpretato dal regista, ed infine valutato dal critico. Tutti
questi ruoli codificati infatti, non fanno altro che perpetuare la
rappresentazione-mediazione; la figura del critico teatrale si è resa
necessaria, secondo Bene, dal momento in cui il regista è diventato il
coordinatore, il deus ex machina, l’interprete e il traduttore del testo,
soverchiando con la propria soggettività la creatività dell’attore già
compromessa dal ruolo impostogli. A quest’attività di regia è legato il
giudizio del critico, la necessità di un commento all’interpretazione della
prima, con funzione tra il morale ed il politico, più che estetica, e che si
pone quale ennesimo filtro di un evento della cui immediatezza non ne resta
nulla, suggeritore d’intenzioni per un pubblico da indottrinare prima e dopo.

258
Ivi, p. 333.
259
C. Bene, Opere, cit., p. 3: “Se l’orale del non luogo teatrale è possibile
perché irrappresentabile, lo scritto è mera rappresentazione impossibile,
perché già compiuta.”

118
La sottrazione del testo permette allora alla macchina attoriale, (in
questo caso, a Bene) sia di eliminare il ruolo del regista e del critico, che di
dar voce a quell’“uso intensivo asignificante della lingua” invocato da
Deleuze, come chiarisce anche A. Scala: “La voce cancella il testo. La voce
della macchina attoriale dissolvendo il rapporto del testo con l’attore,
corrode il rapporto della parola con la lingua. Opera, secondo Deleuze ‘la
distruzione del dominio della lingua sulla parola’, che si esprime attraverso
l’immagine della lingua come partitura muta: la parola non dovrebbe fare
altro che recitarla. Così è per il testo nella tradizione dello spettacolo.”260 Ed
ancora: “La scrittura è nella voce: sovvertimento del rapporto tra langue e
parole. La langue non è una partitura scritta non preesistente al suo dire.
[…] La parola dell’attore non è quella dell’interprete. L’attore non
restituisce il testo che ha ricevuto, lo scrive con la voce.”261
Lo stesso Bene, conformemente al suo intento di non realizzare un
teatro espressivo di alcunché, e dell’impossibilità di trasmettere e attribuire
un qualsiasi senso ultimo alla scena, ribadisce in più contesti l’impossibilità
del dire, che sta alla base di questa prassi teatrale. “Come il pensiero anche
il linguaggio è linguaggio d’un altro che trova in noi la sua crisi”,262 da ciò
quindi quell’afasia e quel suo balbettare ed inceppare in e tra un verso e
l’altro, il dimenticare il proprio virtuosismo assieme con il proprio ruolo
nella miriade di significanti che la sua scena lascia emergere grazie al
metodo sottrattivo.
Alla sottrazione del testo segue necessariamente, secondo Deleuze,
la soppressione del dialogo, altro elemento di potere che gli permette di
circolare mediante le parole; ed anche Bene lo indica in più punti quale
fattore cancellato dalla propria prassi teatrale, collegato a ciò che egli
definisce la sospensione del tragico: “Una azione fermata nell’atto abortito

260
A. Scala, in C. Bene, Il teatro senza spettacolo, cit., p. 42.
261
A. Scala, “La voce zoppa”, in AA.VV., La ricerca impossibile, cit.

119
è quanto m’è piaciuto definire sospensione del tragico ovvero sospensione
del dialogo.”263 In un teatro che, conformemente a tutte le sottrazioni di cui
sopra, nega l’identità e la presenza del soggetto-attore così come ad un
supposto personaggio-ruolo, non può aver luogo un dialogo, ovvero quello
scambio dialettico di stampo euripideo-socratico denunciato ad esempio da
Nietzsche nella Nascita della tragedia.
Sulla base delle riflessioni di quest’ultimo nonché dell’esegesi
nietzscheana di Deleuze, a cui si accennava a proposito della questione del
giudizio, Bene fa riferimento alla potenzialità a noi sconosciuta della phoné
poetica della tragedia greca pre-euripidea, prima e al di là di ogni dialettica,
prologo o epilogo, quindi anteriore alla mediazione dell’autore-
drammaturgo che, codificato il testo, nega la scrittura di scena.
Quest’ultima si segnala come “linguaggio teatrale nel suo farsi […].
Il drammaturgo a priori è concepibile soltanto se il suo copione, lungi dal
troppo sconfortante, abituale tennis di ‘battute’ in prosa, è invece già un
progetto di spettacolo, se, come nella specificità della musica, è partitura
che l’esecuzione reinventerà nella sera della sua festa”.264 La scrittura di
scena per come egli la concepisce è quindi qualcosa di radicalmente diverso
dal testo teatrale classico; si tratta infatti di riaprire quella “traccia
originaria” dell’opera stessa, che è stata codificata successivamente nel
testo, di proporre una “trascrizione momentanea” che restituisce corpo alla
voce e delle sue potenzialità, al posto dell’egemonia della parola.
Non è la poesia tragica, né sono le opere di un Shakespeare o di un
Marlowe ad essere messe in discussione da Bene, e neppure la possibilità
della scrittura scenica in toto, anzi: la stessa operazione critica da lui svolta
su tanti testi classici, come si è detto, non è altro che un riconfermarne la
potenzialità creativa, ossia farne un uso minore, possibile proprio in quanto

262
C. Bene, Opere, cit., p. 1248.
263
Ivi, p. X e p. 1000.

120
si tratta di opere d’arte, autonome (in senso deleuziano) ed eccedenti
qualsiasi testo o interpretazione “ultima” in quanto tali.265 Tuttavia, come
ribadisce, l’autore dello spettacolo dev’essere prima di tutto l’artefice dello
stesso, l’operatore teatrale di un evento non ancora trascritto e conchiuso, e,
come ad esempio nei casi sopra citati, colui che svolge più ruoli in teatro.
E d’altra parte, la stessa letteratura si conferma spesso più teatrale
sulla pagina rispetto a tanti allestimenti teatrali, così come erroneamente si
ritiene che il riempire la scena di tanti mezzi espressivi “teatrali” debba
necessariamente dar vita ad un teatro “totale”, laddove invece questo teatro
necessita della sottrazione-degenerazione (eliminazione del proprio genere)
per dar voce alle proprie virtualità e realizzarsi come tale.
Che cosa resta quindi all’attore in una scena privata dei suoi
strumenti di potere, della propria identità, di stabilità, certezze e mediazioni
se non il monologo, entro il quale egli dialoga con quella che Bene
definisce scrittura vocale, con lo strumento della propria voce? “Bene ha

264
Ivi, p. 1006.
265
P. Klossowski, “Cosa mi suggerisce il gioco ludico di Carmelo Bene”, in C.
Bene, Otello, o la deficienza della donna, cit., p. 16, n.1: “Carmelo
legittima in tal modo la regola della propria messa in scena ed il principio
della propria drammaturgia: trattandosi di Shakespeare, volerlo mettere in
scena conformemente al testo sarebbe dunque un errore, nel senso che la
messa in scena irrecuperabile d’allora è anteriore al testo definitivo,
laddove quest’ultimo ha fissato in certo qual modo le variabili delle
ripetizioni” ed anche: C. Dumoulié, “Chora o il corpo della Voce”, in
AA.VV., La ricerca impossibile, cit., ora in C. Bene, Opere, cit., p. 1512:
“La scrittura di scena di Carmelo Bene si elabora sempre a partire da testi
già scritti: Shakespeare, Musset, Sem Benelli, Marlowe, poiché a nulla
serve soccombere alla vertigine dell’originale; ma a partire dal non-luogo
del teatro, essa apre nel testo uno spazio di smarginamento, di
trinceramento del senso che, dal testo stesso, fa sorgere le fluttuazioni
d’intensità che lo slabbrano in quanto segno del potere, fatum del senso, e
lo restituiscono al più originario: la pulsione della scrittura, la pulsazione
della voce.”

121
ragione di dire che si può anche recitare l’elenco telefonico perché il testo è
solo elemento portatore di senso, mentre la voce significante apre verso i
sensi, la sensibilità, dà corpo a sensazioni diverse che non sono solo frutto
del concettualizzare”,266 ossia, dopo la degenerazione-destrutturazione della
forma teatrale, ciò che la voce evoca è quella sensazione da lui descritta in
relazione alla pittura di Bacon.
Questa sensazione può essere evocata solamente in un teatro che
necessariamente “disumanizzi” il corpo per lasciar emergere la propria
voce, e che quindi ricordi e sottenda in particolare la lezione del corpo
senza organi artaudiano, come ricorda lo stesso Bene: “Nel corpo del
malessere, la bocca è sempre grotta, spalancata o chiusa, grido-silenzio-
murmure. Eco infinalmente, delle innumerevoli voci inghiottite.”267
L’incontro che avvicina Bene e Artaud sul piano della ricerca sulla voce in
teatro li divide però dal momento in cui nel secondo si tratta di sottolinearne
comunque una sorta di concretezza, mentre in Bene la voce finisce per
dissolvere ed assorbire in sé tutti gli elementi del teatro, nel suo farsi puro
strumento della drammaturgia dell’assenza.268
Prosegue Deleuze: “come dicono Maurizio Grande e Franco Quadri,
si toglie anche la dizione, anche l’azione: il playback è anzitutto una
sottrazione. Ma cosa resta? Resta tutto, ma in una nuova luce, con nuovi
suoni, con nuovi gesti.”269 Per quel che riguarda la sottrazione dell’azione a
favore dell’atto, il Lorenzaccio di Bene, come si è visto in precedenza,
costituisce un buon esempio di questo far emergere l’evento-atto di contro
alla storia e a tutte le mediazioni che la rappresentazione frappone al suo

266
J. P. Manganaro, “Il pettinatore di comete”, in C. Bene, Otello, o la
deficienza della donna, cit., p. 69.
267
C. Bene, Opere, cit., p. 1003.
268
P. Giacchè, Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale, cit., p.
129.
269
G. Deleuze, Un manifesto di meno, cit., p. 78.

122
prodursi in scena. In quanto alla dizione, conformemente alla sottrazione
del linguaggio, ed in particolare del dialogo, dopo l’aver smontato e
disarticolato la frase, la parola e la sintassi, Bene si occupa di doppiarla, o
meglio di dissolverla anche tramite l’uso della strumentazione fonica e del
playback; da ciò la nascita di quei “nuovi suoni” descritti da Deleuze e
generati dalla voce della macchina attoriale in virtù di tutte le precedenti
amputazioni.

La voce e le sue variazioni

Le metamorfosi teatrali che Bene ha definito altrove come un


accumularsi di doppi in scena, attraverso i quali l’attore si modifica senza
assumersene nessuno come identità fissa, testimonia l’irrappresentabilità
del personaggio (e del teatro in genere) e contemporaneamente la
desoggettivizzazione dell’attore, espropriato della propria identità,
ridimensionato del proprio corpo, al fine di lasciar emergere la voce.
Tuttavia quest’ultima non deve essere considerata come un’ulteriore
possibilità di riterritorializzazione del potere stesso, poiché sebbene essa
rimetta in scena il gesto, la parola e la storia inizialmente sottratte, non
restituisce loro una forma, ma ne attribuisce un diverso valore scenico,
possibile proprio in virtù della soppressione precedente di segni e sensi che
questi elementi evocavano.
L’arte teatrale per come la delinea Deleuze in queste pagine
necessita, come si è visto, della variazione continua quale operazione
fondamentale, ed il playback, utilizzato con determinati presupposti, è uno
degli strumenti che permette tale variazione nella lingua e nella parola,
previa sottrazione di tutte le altre invarianti che ne impedissero l’attuazione.
Ed anche la questione del soggetto-attore attraversa una
modificazione successiva alla sottrazione della sua identità, dal momento in

123
cui il teatro di Bene “rifiuta la soppressione del soggetto sulla quale si erige
il vantaggio dell'Io. Il teatro deve restare, al contrario, luogo della
“apparenza trascendente” del soggetto, messa in causa dell’Io, denuncia del
divenire mortale nella storia e nel mondano”.270
Infatti, è proprio grazie a quest’uso particolare della phoné,
all’importanza attribuita alla voce, che il soggetto-attore può infine
emergere, liberato dalla zavorra dell’“Io-interprete” con la quale la sua
poetica è sempre stata confusa.
Come sia effettivamente realizzabile un simile discorso sulla voce, (e
quanto sia importante un uso appropriato della strumentazione fonica a
teatro) è esaurientemente spiegato sia dallo stesso Bene nella Autografia
d’un ritratto,271 che in risposta ad una critica di R. De Monticelli in Sono
apparso alla Madonna,272 che, fra i suoi recensori, anche da J. P.
Manganaro: “La voce sola può annullare i valori tradizionali affidati al
testo, sempre riduttivi delle molteplicità possibili, e dare un corpo fisico alle
immagini mentali […] La voce sola trattiene in sé e rimanda l’intreccio, le
situazioni, i conflitti di uno o più personaggi […] Bene formula, all’interno
dell’enunciazione, una vastissima differenza di accenti e di velocità: non è
tanto il semplice fatto casuale di passare dall’acuto al grave, di modulare
l’intonazione lungo una scala di valori e colori tonali, quanto piuttosto il
saper produrre all’interno della voce delle differenze di voci, delle
variazioni continue d’intonazioni, il saper cambiare costantemente il modo
vocale […] per cui non c’è più bisogno di immettersi nel personaggio come
si continua ancora a fare a teatro.”273
Anche questo è, probabilmente, ciò che intende Deleuze quando
parla di nuovi suoni e gesti che emergono a partire dalla sottrazione,

270
M. Grande, “Nota”, in C. Bene, Opere, cit., p. 995.
271
C. Bene, Opere, cit., p. V.
272
Ivi, p. 1098.

124
dall’operazione critica del teatro di Bene: l’esempio che il filosofo francese
porta è quello dell’enunciato lo giuro, che cambia in relazione al contesto in
cui viene pronunciato; se attraversato da più variabili possibili può
costituire un continuum di variazioni che ne impediscono il blocco, la
fissazione in una costante. Similmente, i personaggi di Bene, grazie anche
al linguaggio utilizzato nella sua prassi teatrale, scongiurano proprio questa
fissazione dove le voci “sono rinchiuse in questa continuità spazio-
temporale della variazione”,274 per realizzare la quale il playback si
dimostra essere uno dei mezzi privilegiati.
Da questa necessità di Bene di disumanizzare il corpo dell’attore per
fare emergere una phoné non viziata dai “ruoli dell’Io” e che eluda, fra
l’altro, anche il riconoscimento del pubblico, deriva la sua attenzione
all’esperienza della Grecia antica; non è all’utilità o meno della maschera
che gli attori del V-IV secolo utilizzavano come amplificazione della voce
che egli guarda, ma al travestimento – alla spersonalizzazione – operata
dall’attore su se stesso mediante i coturni, la maschera ed i megafoni. Il
travestimento in questione non sarebbe quindi importante in virtù di una sua
possibile funzione di rendere più udibile o visibile l’attore, ma in quanto
realizza in scena una contraffazione che quest’ultimo compie per primo su
se stesso, ossia una deformazione iniziale alla ricerca di un’alterità da
sperimentare su di sé, e comunicata al pubblico in seconda istanza.
Lo scopo sarebbe stato, quindi, di “Amplificarsi non per ‘farsi sentire
meglio’ fin dagli ultimi posti in gradinata, ma per garantire all’eroismo, alla
divinità ch’essi gestivano una ‘portata’ Altra dal dire […] Quei teatri non
erano assemblee casuali e incontrollate; eran luoghi d’ascolto.” 275
Seguendo l’esempio greco, è necessario allora che l’attore si “lasci
parlare”, si lasci attraversare da una voce che non può dominare, non nel

273
J. P. Manganaro, “Il pettinatore di comete”, cit., p. 68.
274
G. Deleuze, Un manifesto di meno, cit., p. 78.

125
senso di perdere coscienza in una sorta di trance di cui sarebbe del tutto
inconsapevole, bensì proprio per ridare dignità alla sua funzione poetica,
che è la funzione della voce (e non del testo detto, parlato, recitato, come
accade nel teatro-rappresentazione), quale meta finale di una
sperimentazione che ha sempre impegnato Bene.
Il playback si dimostra perciò uno strumento che, seguendo
l’esempio di pre-amplificazione del teatro greco, aumenta l’estraneità della
voce rispetto all’immagine-corpo dell’attore, che tende perciò a dissolversi,
ed operando uno straniamento per primo nell’attore stesso che la emette, e
poi nel pubblico che lo ascolta, permette il suo imporsi come macchina
attoriale grazie alle potenzialità che finalmente emergono.
Le variazioni continue ottenute nella phoné in virtù anche di
quest’uso del playback, producono inoltre una dissociazione tra visione ed
ascolto, uno sdoppiamento che da un lato, nell’oltrepassare il confine tra i
due sensi, suggerisce una ricezione sinestetica dell’evento teatrale, e
dall’altro conduce alla rottura della sincronia corpo-voce, gesto-parola,
spesso intollerabile allo spettatore abituato all’associazione dell’uno con
l’altro elemento.276
A partire dalla sottrazione della storia e della struttura nella lingua
evidenziata da Deleuze nel teatro minore di Bene, si è quindi giunti
all’amputazione di tutti i meccanismi teatrali anche grazie all’inserimento di
questa diacronia, di questo scarto fondamentale per far emergere la
differenza in scena, “contro tempo” già analizzato in riferimento al
Lorenzaccio. Infatti, come in quel caso si è visto che l’atto prodotto in
contro tempo sottraeva “all’azione il suo futuro, e per contraccolpo, il suo

275
C. Bene, Opere, cit., p. 1014.
276
P. Giacchè, Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale, cit., p.
141.

126
presente all’interpretazione”,277 anche qui lo scarto tra la voce dell’attore e
la sua amplificazione riafferma l’emergere dell’istante di Aiôn.
È da sottolineare peraltro che lo studio dell’amplificazione a teatro
assieme allo studio della voce sono stati adottati da Bene sin dai suoi primi
spettacoli, a testimonianza di un percorso di ricerca volto a ridare
musicalità alla propria voce, che deve quindi poter “tessere ed orchestrare
instancabilmente non una lingua che si conosce già, ma un linguaggio di cui
ignora tutto e che si rivela all’attore – e allo spettatore – nel momento stesso
della sua enunciazione.”278
La questione della rottura della sincronia tra corpo e voce riporta
anche alle considerazioni di Deleuze sull’uso dell’immagine nel cinema di
Bene;279 ed è proprio l’osservazione fatta da quest’ultimo a proposito del
“visivo”, dell’immagine, sia fissa che in movimento, considerata quale
replica e mediazione della realtà che questa rappresenta, a determinare a
suo parere l’impossibilità per il cinema d’essere “arte”, ovvero espressione
dell’immediatezza dell’atto. Tuttavia, in questo contesto, egli sottolinea la
differenza che intercorre tra l’immagine fissa di un quadro, o di una
fotografia, “dove l’oggetto figurato […] sprigiona un’energia sospesa,
impassibile d’una fruizione definitiva da parte di chi guarda”,280 e le
immagini-movimento fissate nella sequenza dei fotogrammi, che invece
impediscono qualsiasi intervento da parte dello spettatore. Nonostante
queste perplessità, i suoi tentativi lo hanno comunque portato a ricercare,
nel cinema (come in teatro), l’ideale di destrutturazione della forma, in
particolare dell’immagine-corpo, realizzabile in parte mediante determinate

277
C. Dumoulié, “Tempo rubato”, in C. Bene, Il teatro senza spettacolo, cit., p.
63.
278
J. P. Manganaro, “Il pettinatore di comete”, cit., p. 65.
279
Cfr. capitolo III, 1.
280
C. Bene, G. Dotto, Vita di Carmelo Bene, cit., p. 265.

127
scelte di montaggio, a confermare in ogni caso alcune delle potenzialità del
cinema già indicate da Deleuze in L’immagine-tempo.
Nell’ambito di questo discorso relativo alla necessità affermata da
Bene di voler eccedere la visione per sottolineare invece la musicalità della
voce-ascolto, grazie alle sottrazioni di tutte le invarianti, è possibile fare
nuovamente riferimento al saggio di Deleuze ed in particolare al passaggio
in cui paragona lo Sprechgesang alla musicalità vocale dell’operatore Bene,
che suggerisce inoltre una prossimità con la sua scrittura scenica e con il
concetto di “lingua segreta” esposto da Deleuze e Guattari in Mille Piani.
Come si è visto, infatti, anche Bene, come Nietzsche e Deleuze
(entrambi presenti sullo sfondo di tutta la sua teoria teatrale), fa riferimento
al teatro greco pre-euripideo, non tanto per invocare una sorta di origine
mitica del teatro, quanto per riappropriarsi di una dimensione poetica che
coincida sia con un aspetto rituale dell’arte, che, soprattutto, con l’uso della
voce quale rifiuto della mediazione in scena. Il rapporto tra voce e
musicalità, affermato da Bene lungo tutto il suo percorso teatrale, lo
conduce, anche in questo caso in riferimento a Nietzsche, ad affermare che
la “decadenza del tragico” corrisponde alla decadenza dello spirito della
musica: “musica e spirito della musica sono due cose ovviamente diverse.
Non che lo specifico ‘musicistico’ non possa a volte essere musicale. Può
esserlo, come l’immagine, il gesto, il suono ecc. La musica non è sempre
musicale”.281
Attraverso le sue operazioni teatrali, quindi, facendo “saltare” la
rappresentazione mediante l’operazione critica, egli si è riappropriato
soprattutto della voce, scindendola dal visivo, e, sulla base di numerosi
studi, fra cui la lezione del parlando di Debussy o dell’impatto parola-luce-
musica di Schönberg, ne ha recuperato appieno la musicalità, e con essa la
musicalità dell'evento teatrale stesso. Il paragone tra alcune tra le

281
C. Bene, Opere, cit., p. 1013.

128
sperimentazioni della musica contemporanea, le lingue segrete ed il
concetto di musicalità applicabile a qualsiasi realtà sonora è precisato da
Deleuze e Guattari in Mille Piani, come passo successivo alla critica della
distinzione tra musica e linguaggio, e, al suo interno, tra lingua e parola. La
voce diventa così “un asse di sperimentazione privilegiato che gioca ad un
tempo sul linguaggio e sul suono”,282 con possibilità di variazione più
ampie di quelle limitate ad esempio dal canto, che ne fa una costante
dipendente dalla nota e dallo strumento che l’accompagna.
Solo nel momento in cui “viene ricondotta al timbro”,283 la voce
acquisisce quella potenza di variazione continua che la fa diventare una
“macchina musicale” che agisce in un piano sonoro composto di parti
cantate, parlate, ecc., alla quale contribuiscono anche le alterazioni prodotte
dalle componenti elettroniche, oltre che strumentali. Le variazioni prodotte
da un tale uso della voce vanno così a confluire in quel concatenamento
sonoro che è la lingua segreta, priva di costanti e in grado di mettere in
comunicazione tutte le diverse componenti sonore.
Lo Sprechgesang rappresenta un esempio di variazione che agisce
nella voce cantata realizzando contaminazioni tra musica e voce, in quanto
stile declamatorio che sta a metà tra canto e recitazione, con l’altezza
mantenuta nonostante cadute e risalite, come precisa Deleuze sia nel saggio
su Bene che, successivamente appunto, in Mille Piani.
Similmente, anche Bene testimonia con la sua ricerca teatrale le
infinite possibilità di contaminazione e fusione tra musica, teatro e
linguaggio, ottenute anche grazie all’ausilio della strumentazione

282
G. Deleuze, F. Guattari, Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia, cit., 1, p.
138.
283
Ibidem.

129
elettronica e di un uso corretto della voce, che garantisca l’emergere della
sua musicalità e di quella sensazione tanto invocata a teatro.284
Conoscere e sviluppare le capacità musicali della propria voce sono
quindi i presupposti fondamentali per ogni attore che voglia dirsi tale, che
desideri cioè accedere a tutte le variazioni possibili della sua arte, verso
quella meta che è la dissolvenza della propria soggettività, della propria
identità, come si è visto precedentemente, meta che lo stesso Bene dichiara
d’aver raggiunto progressivamente, dopo molte sperimentazioni.
L’accostamento deleuziano dello Sprechgesang alle lingue segrete ed
alla recitazione di Bene ed alla sua scrittura “operatoria”, mette quindi in
gioco numerosi elementi di variazione a teatro, tra i quali anche il testo ed il
modo in cui è scritto. Come precedentemente accennato, lo stesso Bene
rifiuta qualsiasi aderenza ad un testo ultimo, fissato, per cui i suoi scritti
teatrali diventano, secondo le sue parole così come quelle di Deleuze,
“semplice materiale per la variazione”, simili a partiture musicali.285

284
C. Bene, “Sono apparso alla Madonna”, in Opere, cit., p. 1098: “La voce
umana dispone di tre registri (petto-misto-testa) attraverso i quali si
esplica l’estensione, come possibilità dinamica dal grave all’acuto.
Componenti fondamentali sono: altezza, intensità e timbro, quale
caratteristica fondamentale che distingue una voce dall’altra. Tessitura
d’una voce è la zona più «disponibile» all’emissione, in relazione al
timbro e all’estensione, per garantire la «tenuta» nell’arco di un discorso,
fraseggio, ecc. Il tono è la tonalità (arco da nota «a» a nota «z») nella
quale decidi di timbrare. Dal che deriva il timbro essere unico e le
tonalità infinite. [La mia voce] Rigorosissima tenuta della tonalità per
giocare all’interno di essa le innumerevoli combinazioni di intervalli […]
È un lavorare ostinato nello spazio interno della fascia sonora […] I
microfoni sono veri e propri strumenti musicali, che bisogna saper
suonare, soprattutto se ne adoperi cinque o sei insieme. Attraverso tali
strumenti (collegati ad un mixer, dotato d’equalizzatore, ecc.) la voce può
permettersi una musicalità di colori insospettata davvero.”
285
G. Deleuze, Un manifesto di meno, cit., p. 78.

130
In esse, anche le numerose indicazioni non testuali andrebbero
decifrate, e considerate degli operatori – come li definisce Deleuze – aventi
la funzione specifica della minorazione, quale ultimo momento di tutta
l’operazione critica, che consiste, come ha più volte ribadito, nel sottrarre
dapprima tutti gli elementi stabili e poi nel metterli in variazione.
E quindi, come approfondiscono Deleuze e Guattari in Mille Piani,
la contaminazione, il cromatismo generalizzato ovvero la variazione
continua prodotta dalle lingue segrete, si realizza allo stesso modo nel
canto, nella musica, nella lingua, in teatro: “A teatro, i sussurri senza
altezza definita di Bob Wilson, le variazioni ascendenti e discendenti di
Carmelo Bene. Balbettare è facile, ma essere balbuziente nel linguaggio
stesso è davvero un’altra cosa.”286 Le variazioni linguistiche che Bene opera
in teatro minorano allo stesso modo la voce recitante, il non-testo, e la
lingua che egli utilizza; già nel paragrafo precedente, infatti, Deleuze
accennava ad una “linguistica quasi per ridere” di Bene, e anche in questo
paragrafo ribadisce la prossimità, l’alleanza tra la sua operazione critica
sulla lingua in teatro e le minorazioni da parte di autori come Kafka,
Pasolini, Beckett, Godard, Wilson, oppure il poeta francese di origine
rumena Gherasim Luca.
Le variazioni compiute da questi autori sulla lingua all’interno del
proprio campo artistico, che si tratti della letteratura, del cinema o del
teatro, quel “far balbettare il linguaggio”, la minorazione insomma, apre
nuove possibilità per il linguaggio e contemporaneamente mette anche in
relazione i diversi campi in cui agisce: “Una recita in pubblico dei poemi
fatta da Gherasim Luca è un avvenimento teatrale completo e meraviglioso

286
G. Deleuze, F. Guattari, Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia, cit., 1, p.
141.

131
[…] Ritornare sempre alla formula di Proust: ‘i bei libri sono scritti in una
specie di lingua straniera…’”287 che accomuna gli autori sopra citati.

La variazione degli altri elementi teatrali

La minorazione come processo creativo rende possibili delle alleanze


tra gli artisti così come crea dei concatenamenti tra le variabili che
attraversano ogni ambito artistico; di conseguenza, sulla scia della linea di
variazione aperta dall’operare di Bene, in un suo spettacolo non sono solo le
componenti linguistiche a mutare, ma anche tutti gli altri elementi che ne
fanno parte. Deleuze infatti propone, in questo contesto, una specie di
distinzione tra le componenti linguistiche definite “variabili interne” e le
altre “variabili esterne”, ove le prime sfuggono alla struttura così come le
seconde si sottraggono all’organizzazione dello stesso sistema
dominante.288
All’afasia, al balbettare ed incepparsi nel linguaggio artistico di Bene
corrispondono quindi tutta una serie di gesti e movimenti, che impediscono
agli attori di fissarsi e corrispondere al proprio ruolo prescritto, e creano un
disequilibrio amplificato allo stesso tempo dalla lingua e dal non-testo
utilizzato.
D’altro canto, come avverte Deleuze, non si tratta semplicemente di
svelare i rapporti di forza in scena mediante opposizioni ed impedimenti

287
G. Deleuze, Un manifesto di meno, cit., p. 80.
288
Ivi, p. 81, ed anche. G. Deleuze, F. Guattari, Mille Piani. Capitalismo e
schizofrenia, cit., 1, p. 141: “quando si sottopongono gli elementi
linguistici a un trattamento di variazione continua, quando s’introduce nel
linguaggio una pragmatica interna, si è necessariamente condotti a
trattare in egual modo elementi non linguistici, gesti, strumenti, come se i
due aspetti della pragmatica si raggiungessero, sulla stessa linea di
variazione, nello stesso continuum.”

132
che più che eliminare il gioco di potere svelato, lo riprodurrebbe
fedelmente; l’autore aveva infatti già avvertito in questo stesso saggio che
per rompere con le manifestazioni del potere che sono consustanziali
all’arte teatrale non basta certo rappresentarle, ma è necessario modificare
la forma dell’arte stessa.
Partendo da questo presupposto, la variazione si conferma come una
delle possibilità per attuare questa modificazione, visto che, così come
nell’esempio dello Sprechgesang l’altezza viene mantenuta nonostante le
cadute e risalite, anche i gesti possono essere “modulati” alla stessa
maniera: “il gesto di Riccardo III non smette di lasciare il proprio livello, la
propria altezza, cadendo o risalendo, scivolando: il gesto in perpetuo
squilibrio positivo.”289
Oltre al Riccardo III, Deleuze prende ad esempio altri spettacoli di
Bene, tra cui il S.A.D.E., per indicare come il suo stile crei le variazioni
sulla base di “linee melodiche” per il linguaggio – il suo recitativo che è al
contempo musicale – e di una sorta di “grazia” per quel che riguarda i
movimenti, il che evita qualsiasi stonatura nello spettacolo, qualsiasi
conflitto, e se lo evidenzia è per poi sottrarlo. Ed è proprio per questo
motivo che anche i gesti, i movimenti, così come la scrittura di Bene paiono
a Deleuze musicali, perché invece di muoversi per contrasti o opposizioni,
dipendono da velocità e lentezze, e la musicalità deriva proprio da questa
sorta di continuità mantenuta nonostante le alterazioni di velocità e di
forma; “ogni forma vi è deformata da modificazioni di velocità che fanno sì
che lo stesso gesto o la stessa parola non sono mai ripetuti due volte senza
ottenere caratteristiche diverse di tempo. È la formula musicale della
continuità, o della forma da trasformare.”290

289
G. Deleuze, Un manifesto di meno, cit., p. 82.
290
Ivi, p. 83.

133
Sulla base anche di quest’ultima affermazione, Deleuze ritiene che in
un simile tipo di teatro, in cui, dopo aver sottratto ogni invariante e dissolto
le forme per affrontare la scena in perpetuo stato di variazione dei suoi
elementi, si realizza un divenire continuo così come la contro-effettuazione
dell’evento, e si conferma ecceità che non ripete mai gli stessi gesti perché,
in quanto tale, li realizza in un piano di consistenza, il cui tempo è il tempo
di Aiôn.
“E poi c’è un piano [di consistenza, o composizione] o una
concezione del piano del tutto differente. Qui non ci sono più assolutamente
forme o sviluppi di forme né soggetti e formazioni di soggetti. Non c’è più
struttura che genesi. Ci sono soltanto rapporti di movimento e riposo, di
velocità e lentezza tra elementi non formati […] Ci sono soltanto ecceità,
affetti, individuazioni senza soggetto, che costituiscono concatenamenti
collettivi.”291
È proprio su questo piano che si produce l’arte di Bene, e si realizza
come concatenamento collettivo d’enunciazione: infatti Deleuze ribadisce
che quegli operatori indicati precedentemente in riferimento alle sue
indicazioni non-testuali, elementi fondamentali del suo stile di scrittura
scenica (motivo per cui Deleuze ritiene che il suo teatro andrebbe anche
letto oltre che visto), e della minorazione, “sono precisamente degli
indicatori di velocità”,292 e, pur facendo parte del testo, non gli
appartengono del tutto, così come, pur riguardando il teatro, non riguardano
solo quest’arte. Sono appunto tali operatori e tutto il processo di
minorazione del suo teatro a renderlo un concatenamento collettivo: “Gli
indicatori di velocità presuppongono delle forme che possono dissolvere”293
e, come si è visto, è a questa dissoluzione, parallela alla soppressione del

291
G. Deleuze, F. Guattari, Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia, cit., 1, p.
386.
292
G. Deleuze, Un manifesto di meno, cit., p. 83.

134
soggetto-Io, che mira tutta la produzione artistica di Bene, la sua
drammaturgia dell'assenza.
Diviene forse allora più chiara la possibilità e la necessità di mettere
in relazione la sua produzione artistica con opere e minorazioni affini,
secondo concatenamenti che avvicinano non solo i piani di altri autori
minori, ma anche altre variabili; Deleuze indica l’effetto della musica
atonale su quella tonale, P. Boulez nella musica, ma anche l’anglo-
americano per quel che riguarda la lingua, la filosofia di Nietzsche, il
cinema di Godard, la scrittura di Woolf, l’arte di Hölderlin e Kleist, per
tornare ad autori da lui più volte nominati.294
Questo saggio si conferma quindi sostanzialmente come una critica e
una clinica, e, stando alle affermazioni fatte da Deleuze a questo proposito
in Conversazioni, si tratta dell’analisi dei regimi di segni propri dell’autore
– in questo caso Bene – del suo piano di consistenza e di quella linea di
maggior pendenza che ne caratterizza l’opera e le variazioni.295
Un esempio simile, come si è visto in precedenza,296 è dato in Critica
e clinica dall’analisi di Deleuze dell’arte teatrale di Beckett; in quel
contesto il filosofo francese indagava il suo stile a partire da quel
“collocarsi nel mezzo” tipico degli autori minori,297 che produce uno
squilibrio nato dalla lingua per poi propagarsi ai gesti. D’altro canto,

293
G. Deleuze, C. Parnet, Conversazioni, cit., p. 140.
294
Ivi, cap. III, p. 129: “Ma ecco che lo stesso Kafka pone la letteratura in
rapporto immediato con una macchina di minoranza, un nuovo
concatenamento collettivo d’enunciazione riguardo alla lingua tedesca
[…] Ecco che Kleist pone la letteratura in rapporto immediato con una
macchina da guerra.”
295
Cfr. Capitolo II, 1.
296
Cfr. p. 39.
297
G. Deleuze, F. Guattari, Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia, cit., 2, p.
739: “Infatti, procedendo per consolidamento la consistenza agisce

135
Deleuze ritiene anche possibile che il processo disgiuntivo inclusivo della
lingua nell’ambito del piano di consistenza di cui l’arte di Beckett
partecipa, nasca invece a partire dall’andatura, dal portamento dell’attore.
In ogni caso, ciò che l’autore evidenzia con le riflessioni sull’arte di Beckett
è il “superamento della parola in funzione della lingua”, e “dell’organismo
in direzione di un corpo senza organi”, verso il raggiungimento di quella
zona d’indiscernibilità che fa parte di ogni divenire.298
Come nel caso di quest’ultimo, quindi, anche in Bene Deleuze rileva
che il processo di minorazione coinvolge allo stesso livello lingua, gesti,
movimenti, secondo una sottrazione e subordinazione sia delle forme alle
variazioni di velocità che, allo stesso modo, del soggetto ad affetti ed
intensità, due movimenti che a suo parere si rivelano “essenziali da ottenere
nelle arti”.299
Per quel che riguarda la “geometria”300 che sottende queste
variazioni di velocità, intensità o affetti, si può far riferimento ad esempio
alle pagine di Che cos’è la filosofia?, che delineano un immagine più ampia
di tali rapporti tra l’arte e il proprio piano, ed in particolare al concetto di
dequadratura: “è necessario inoltre un vasto piano di composizione che
operi una sorta di dequadratura secondo delle linee di fuga […] È su questo
piano di composizione che si tracciano, come su ‘uno spazio vettoriale
astratto’, delle figure geometriche…”.301 La dequadratura viene quindi
definita come un movimento di deterritorializzazione della sensazione
nell’ambito del piano stesso, o anche quale trasversale, termine introdotto

necessariamente nel mezzo, attraverso il mezzo, e si oppone ad ogni


piano di principio o di finalità.”
298
G. Deleuze, Critica e clinica, cit., p. 145.
299
G. Deleuze, Un manifesto di meno, cit., p. 83.
300
Ibidem: “C’è tutta una geometria nel teatro di Bene […] una geometria delle
velocità e delle intensità, degli affetti.”
301
G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, cit., p. 194.

136
già in Mille Piani, sempre per indicare una componente che “prende su di
sé il valore specializzato di deterritorializzazione.”302 Il lavoro dell’artista si
articola quindi nel realizzare il proprio piano di composizione secondo il
processo di variazione continua, ma dall’altro lato si rende necessario anche
il movimento della dequadratura per impedire ogni chiusura del piano e
mantenerlo in apertura, in un “disequilibrio permanente.”303
Deleuze prosegue soffermandosi poi, in riferimento ai film di Bene,
su quell’importante distinzione tra teatro e cinema, sottolineata poi anche ne
L’immagine-tempo, che indica un primato dell’ascolto nella prima arte e
nell’altra invece una preponderanza dell’aspetto visivo su quello uditivo. Lo
stile di Bene, che cerca di superare questa prevalenza dell’una o dell’altra
modalità di ricezione a favore piuttosto di una percezione sinestetica di
entrambe le arti, emerge infatti, oltre che a teatro, anche nei suoi film (come
evidenzia Deleuze in Un manifesto di meno), nel suo voler realizzare “il
cinema come immagine acustica”,304 ossia perseguire quella cecità
dell’immagine dominante di cui si è detto in precedenza.305 L’importante
per Deleuze è sottolineare come Bene abbia sempre ottenuto nella sua
produzione artistica quel continuum di variazioni, di suoni o movimenti,
che la rende minore, soprattutto in teatro, ma non perché non vi siano
stimoli sufficienti dalla sua produzione cinematografica, anzi: il filosofo

302
G. Deleuze, F. Guattari, Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia, cit., 2, p.
490.
303
G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, cit., p. 204: “La sensazione
composta, fatta di percetti ed affetti, deterritorializza il sistema
dell’opinione […] Ma la sensazione composta si riterritorializza sul piano
di composizione […] E, nello stesso tempo, il piano di composizione
trascina la sensazione in una deterritorializzazione superiore, facendola
passare attraverso una sorta di dequadratura che la apre e la fende su un
cosmo infinito.”
304
C. Bene, Opere, cit., p. XIII.
305
Cfr. p. 75.

137
francese lascia qui aperta la questione, e la riprende nel successivo Cinema
2.
In questo contesto, infatti, Deleuze approfondisce l’argomento e,
come per il teatro, rileva quanto la ricerca di Bene tenda anche nel cinema
alla destrutturazione delle forme verso la prevalenza del sonoro, della
musica, della voce e delle variazioni in seno a tutti gli elementi che
costituiscono l’arte stessa;306 la linea di maggior pendenza individuata dal
processo di clinica sull’arte di Bene che affiora da tali riflessioni,
risulterebbe allora essere proprio questa musicalità, da lui portata
all’evidenza in virtù della sottrazione e spostamento di tutte le variabili su
un asse di modulazioni sonore, che caratterizza tutto il continuum di
variazione.
In conclusione al IV paragrafo di Un manifesto di meno, Deleuze
traccia una sorta di mappa dell’intreccio di tutte le variazioni che si
verificano nelle prime scene del Riccardo III di Bene, per indicare con
precisione come queste, dapprima isolate, successivamente crescano
d’intensità per confluire nello stesso continuum in rapporto al costituirsi di
Riccardo in scena. Uno degli operatori di Bene segnalati dallo stesso
Deleuze evidenzia particolarmente questo processo: “(e qui Riccardo perde
l’equilibrio – è un niente, un gomito è slittato dal bordo del comò o del letto
– …E, quindi, la Duchessa cambia tono [N.B.: Cambiare tono vuol dire
cambiare, rovesciare completamente la recitazione = da madre “politica” a

306
G. Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, cit.: “Nel non-volere si liberano
la musica e la parola, il loro intreccio in un corpo ormai soltanto sonoro
[…] Anche l’afasia diventa allora una lingua nobile e musicale. Non sono
più i personaggi ad avere una voce, sono le voci, o meglio i modi vocali
del protagonista (mormorio, soffio, grido, eruttazione…) a diventare i soli
e veri personaggi della cerimonia…”.

138
“mamma” che, cantilenante e bonaria e affettuosa, redarguisce quel suo
pargoletto, quel suo Riccardo discolo e precoce])307
Ogni personaggio in scena muta in funzione di Riccardo e del suo
costituirsi come macchina da guerra, ma al contempo le variazioni di
ciascuno contribuiscono a questa trasformazione, alla sua “comprensione”
di sé e della sua funzione, per cui tutte le variabili – lingua, gesti,
movimenti – conducono inevitabilmente alla scena con Lady Anna (già
analizzata da Deleuze in Conversazioni),308 culmine di questa prima parte,
in cui il processo di reciproca influenza e variazioni si concentra sempre di
più. “Bisogna che lo spettacolo non solo capisca, ma senta anche e veda il
fine che già perseguivano, senza saperlo, il balbettare e incespicare iniziali:
l’Idea divenuta visibile, sensibile, la politica divenuta erotica. […] A tal
punto non devono esserci due continuità che si intersecano l’un l’altra, ma
un unico e solo continuum in cui le parole e i gesti fungono da variabili in
trasformazione…(bisognerebbe analizzare tutto il seguito del lavoro, e la
mirabile costituzione della fine…)”309
L’autore lascia qui aperta la possibilità di una prosecuzione
nell’analisi del non-testo di Bene secondo le indicazioni suggerite finora, in
particolare riguardo la sua metamorfosi come macchina da guerra e di come
questa influisca sull’apparato di Stato che ha contribuito a scardinare.

Finalità di un teatro minore

Al termine del percorso che Deleuze ha delineato attraverso la


produzione artistica di Bene, l’autore è giunto al punto in cui, conclusasi
l’analisi del processo di minorazione attuato da quest’ultimo – eliminazione

307
C. Bene, Riccardo III, cit., p. 14 (in corsivo nel testo).
308
Cfr. Capitolo II, 1.

139
di costanti ed invarianti, nella lingua e nei gesti, e specificamente nel potere
in e del teatro, e successiva messa in variazione di tutti gli elementi – si
pone la questione sia dell’utilità effettiva che della legittimità di una tale
operazione. Il problema infatti è se Bene non sia semplicemente un altro
rappresentante di quel potere che il suo teatro sembra voler scardinare, tanto
più accentratore se si considerano le molteplici funzioni da lui svolte –
anche se sempre rinnegate come tali – negli spettacoli: autore, attore,
regista.
Deleuze afferma qui che, al contrario di quello che fa Bene, il vero
gioco di potere da parte di un artista sarebbe reclamare, per la propria arte,
un ruolo dirompente, rivoluzionario, in opposizione alle forme artistiche
precedenti, poiché in questo caso si riconfermerebbe anch’essa come un
altro strumento del potere che si propaga proprio attraverso la
rappresentazione istituzionalizzata dei conflitti e delle opposizioni: “Le
istituzioni sono gli organi della rappresentazione dei conflitti riconosciuti, e
il teatro è un’istituzione, il teatro è “ufficiale”, anche se d’avanguardia,
anche se popolare.”310 (e la stessa cosa vale anche per il cinema, come
sottolinea Deleuze in seguito).
Infatti, in conformità con il suo essere artefice ed operatore, la
produzione artistica di Bene non si fa carico di formule con cui identificarsi
e porsi in contrasto con altre – teatro popolare, o d’avanguardia – il che non
costituirebbe una vera e propria operazione critica, per come l’autore – ed
anche lo stesso Bene – l’ha intesa sin dall’inizio; questo la differenzia ad
esempio da Brecht ed il suo teatro “epico”, che infatti pur denunciando i
conflitti di classe, non si distacca dalla logica della rappresentazione
classica ossia dalla semplice messa in scena degli stessi.

309
G. Deleuze, Un manifesto di meno, cit., p. 85.
310
Ivi, p. 87

140
In quest'ambito si inserisce anche la riflessione vagamente polemica
di Deleuze riguardo a tutti i generi teatrali che, similmente alla formula
epica del teatro di Brecht, partendo da un determinato presupposto, offrono
un’immagine (e un giudizio) prestabilita, formalizzata: l’esempio è dato sia
dal caso dello psicodramma, che del teatro estetizzante o del teatro mistico
o comunitario, ossia di tutte quei movimenti del teatro contemporaneo
spesso citati da Deleuze, rispetto ai quali l’originalità del procedere di Bene
si distingue.311
Per quel che riguarda il primo genere, si può fare riferimento ad
esempio al commento di Foucault, il quale, nel contesto dell’analisi della
filosofia di Deleuze, indica nella psicanalisi e nel teatro (non
rappresentativo) due serie divergenti inconciliabili; “E in ciascuna di queste
due nuove serie divergenti (rimarchevole ingenuità di coloro che hanno
creduto di ‘ri-conciliarle’, di ripiegarle l’una sull’altra e di fabbricare i
derisorio ‘psicodramma’), Freud e Artaud si ignorano ed entrano in
risonanza.”312
D’altro canto, anche un teatro che si basi su presupposti consolatori o
mistici è altrettanto fuorviante da quella che dovrebbe costituirsi come
un’operazione critica: a questo proposito, il paragone più immediato è con
il “teatro povero” di Grotowski, un altro modo per riempire la scena teatrale
– sempre presupposta e originaria, come anche nel caso di Tadeusz Kantor
– mediante la parola e il corpo; “la scena grotowskiana, per essere
unicamente corporea, è perdutamente sessuale, al limite persino
sentimentale […] Grotowski, paradossalmente, si costituisce in una
speranza e in una illusione che sono congenite alla frase, alla parola […]
l’organismo corporeo si direbbe quasi una comunità sociale di cui

311
Ivi, p. 73.
312
M. Foucault, Theatrum philosophicum, cit., p. 58.

141
Grotowski si sente podestà e sacerdote allo stesso tempo…”.313 Il punto
focale sottolineato da molte riflessioni sulle sperimentazioni del teatro
contemporaneo è dato proprio dall’evidenza di uno schema attorno al quale
si svolge la ricerca, per quanto si cerchi di uscire di scena, di sottrarsi alla
logica della rappresentazione; “Nel migliore dei casi (e nell’odierna
casistica questo migliore è pur sempre rappresentato da Brecht, dal Living
Theater, da Grotowski, da Kantor e da Wilson), non si fa che aderire a
posture o posizioni strettamente legate al campo del rito metafisico, con
schemi ed estetiche che diventano altrettanti modi del ripetibile (Blümner,
Artaud, come indicato da Umberto Artioli), anche quando appaiono o si
danno come irripetibili.”314
La possibilità concreta di sottrarsi a questi schemi, che fanno
riferimento a un modello di potere, e quindi ad una maggioranza,315 è data

313
E. Fadini, “La testimonianza intollerabile”, in C. Bene, Il teatro senza
spettacolo, cit., pp. 134-135; sempre per un confronto con il teatro di
Bene, P. Giacché, Carmelo Bene. Antropologia di una macchina
attoriale, cit., p. 28, n. 31: “Considerando infatti per un attimo le
assonanze e le distanze fra il teatro dell’irrappresentabile di Bene e la
ricerca sull’arte del Performer di Grotowski, si verifica facilmente come
non si possa nemmeno parlare di differenze di metodo, ma di diversa
impostazione e differente obiettivo, anzi di telos della ricerca:
evidentemente oltre il ‘teatro della rappresentazione’ si danno almeno due
possibilità, quella di chi si colloca nell’estremo opposto come Grotowski
(e da lì dialoga), e quella di chi si riconosce senz’altro nell’estremistica
opposizione (e da lì nega legittimità e valore alla finzione del
‘rappresentare’).
314
J. P. Manganaro, “La memoria del futuro (Il Laboratorio veneziano ovvero
dei saggi ‘prescritti’ e della Ricerca ‘ritrovata’)”, in AA. VV., La ricerca
impossibile, Biennale Teatro ’89, Marsilio, Venezia 1990.
315
T. Villani, Deleuze. Un filosofo dalla parte del fuoco, Costa&Nolan, Milano
1998, p. 83: “In Sovrapposizioni, […], Deleuze si sofferma sul rapporto
tra arte e potere sgombrando il campo, una volta per tutte, dalle pretese
messianiche di inconsistenti avanguardie. La lotta tra il potere e l’arte si
gioca interamente sul terreno del ‘parlar bene’ maggiore.”

142
dalla variazione continua, dalla potenzialità del divenire minoritario; infatti
è anche per questo motivo che Deleuze ha sottolineato in precedenza
l’aspetto “armonico” del continuum di variazione nel teatro di quella
macchina attoriale che è Bene, ovvero la mancanza di qualsiasi contrasto o
opposizione a favore della citata geometria di affetti, movimenti ed
intensità. È proprio in questo modo che si realizza la funzione del suo teatro
(così come di qualsiasi minorazione), che consiste non nell'opporre il
proprio modello artistico ad altri, ma nel riscoprire e riaprire le potenzialità
sia dell’arte teatrale, che soprattutto dell’arte in generale, sottraendola al
potere, “perché, addestrando la forma di una coscienza minoritaria, si
rivolgerebbe a delle potenze in divenire, che sono di un ambito diverso da
quello del Potere e della rappresentazione-campione […] L’arte è
sottomessa a molti poteri, ma non è una forma di potere.”316
Di conseguenza anche i molteplici ruoli assunti da Bene nelle sue
produzioni artistiche non indicano una forma di dispotismo, poiché ciò che
conta è che anch’egli, per primo, pone se stesso ed il suo operare nella
variazione, e non cessa mai di farlo: difatti il pericolo, avverte Deleuze, è
sempre dato dalla possibilità di riterritorializzarsi, di ricostituirsi come
maggioranza, magari proprio in nome di alcune caratteristiche peculiari di
una minoranza che vengono poi normalizzate e codificate. L’esempio di
come attingere alle risorse della propria minoranza, della linea di variazione
che le appartiene, in questo caso, è dato dai riferimenti di Bene alla propria
origine, l’etnia pugliese da cui proviene, ossia il suo Sud, che, come
osservato in precedenza, resta tale finché vengono mantenuti quei tratti
culturali che gli hanno permesso di restare al limite degli eventi storici.317
Deleuze distingue qui nettamente tra etnia e popolo, quest’ultimo già
storicizzato, laddove la prima invece resta ancora una “linea di fuga nella

316
G. Deleuze, Un manifesto di meno, cit., p. 89.
317
Cfr. Capitolo IV, 3.

143
struttura”; “Ma ognuno possiede il suo sud, situato non importa dove, vale a
dire la sua linea di pendenza o di fuga. Le nazioni, le classi, i sessi hanno il
loro sud.”318 L’autore afferma che ognuno di noi può quindi “diventare-
minore” sfruttando la possibilità di sottrarsi al potere, alla maggioranza,
costruendosi la propria linea di variazione; ed allora anche quel divenire-
donna, nella cui ricerca s’impegnano i personaggi di Bene, assume
un’ulteriore sfaccettatura se lo si considera come un dato minoritario che
ciascuno può trovare in sé.319
La continuità di questo mettersi in gioco inteso come un mantenere
aperto il processo di variazione dà quindi la possibilità sia agli artisti che
alle opere d’arte di qualificarsi come potenze del divenire-minore, in quanto
si rende possibile la creazione continua di nuove linee di variazione che
vanno ad influire anche in altri piani, conformemente alle riflessioni in
merito sviluppate nel successivo Che cos’è la filosofia?
Deleuze indica questa come la sfida principale anche dell’arte
teatrale, che per realizzarsi come tale, necessita quindi di una presa di
coscienza minoritaria, anche se tale presa di coscienza assieme
all’assunzione della responsabilità della minorazione non implica la sua
definizione ultima in uno scopo, in una politica, come ribadito
precedentemente riguardo alle varie formule in cui si è cercato di
circoscrivere le potenzialità del teatro; il fine di un teatro minore è la

318
G. Deleuze, C. Parnet, Conversazioni, cit., p. 139, e anche: G. Deleuze, Un
manifesto di meno cit., p. 90: “La sua propria minoranza, Carmelo Bene
la vive in rapporto alla gente delle Puglie: il Sud o il suo terzo-mondo,
nel senso in cui ognuno ha un sud e un terzo-mondo.”
319
G. Deleuze, Un manifesto di meno, cit.: “minoranza ha due sensi […]
designa anzitutto uno stato di fatto, cioè la situazione di un gruppo che,
quale che sia il suo numero, è escluso dalla maggioranza, oppure incluso,
ma come una frazione subordinata in rapporto ad un campione di misura
che fa la legge e fissa la maggioranza. […] un secondo senso: minoranza
non designerà più uno stato di fatto, ma un divenire in cui ci si impegna.”

144
propria minorazione come potenza del divenire, e perciò comporta la
rinuncia ad ogni riterritorializzazione.

145
APPENDICE

GILLES DELEUZE, A PROPOSITO DEL MANFRED ALLA SCALA.

Anche in questo breve scritto successivo a Sovrapposizioni


presentato con il disco Manfred – Byron-Schumann di Bene,320 e pubblicato
in un secondo momento, Deleuze ribadisce la necessità, per un artista
minore, di continuare a creare mantenendosi in uno stato di variazione
continua per evitare il rischio della riterritorializzazione. Se già nelle
produzioni artistiche precedenti di Bene si poteva constatare quanto la sua
linea di maggior pendenza riguardasse la voce e l’uso corretto della stessa,
ovvero la possibilità di realizzare uno spazio scenico dell’assenza
(dell’autore, testo, attori, ecc.), grazie alla sua potenza di
spersonalizzazione, – previa sottrazione delle invarianti teatrali – in questo
testo l’autore approfondisce ulteriormente l’innovazione apportata dalla
ricerca teatrale di Bene.
In Un manifesto di meno, infatti, Deleuze concentra l’attenzione
soprattutto sulla similitudine tra un processo come quello del continuum di
variazione ottenuto da Bene sia nella lingua che nei gesti in teatro, e lo
Sprechgesang o altre simili sperimentazioni che “giocano” sulla linea del
confine che separa voce e musica, per sottolineare l’originalità e la validità
del suo processo di minorazione teatrale. Tuttavia – ricorda Deleuze in
riferimento al Manfred di Bene – la potenza del divenire che ogni
minorazione apre nell’arte deve rinnovarsi; “La potenza di un artista è il

320
C. Bene, Manfred – Byron-Schumann, orchestra e coro del Teatro alla Scala,
cit.

146
rinnovamento. Carmelo Bene ne è la prova. Grazie a tutto ciò che ha fatto,
può rompere con quanto ha fatto.”321
I risultati raggiunti dagli spettacoli come Romeo e Giulietta,
Riccardo III e Otello vengono quindi ulteriormente superati dalla
“stagione” degli spettacoli-concerti inaugurata appunto dal Manfred e
proseguita con lo Spettacolo-concerto Majakovskij, l’Hyperion di Maderna
e l’Egmont di Goethe con musiche di Beethoven, per citarne solo alcuni.
L’occasione è data a Bene dalla richiesta del maestro F. Siciliani di
realizzare due “poemi drammatici”, il primo dei quali, Manfred, cinque atti
di Lord Byron e musiche di scena di Schumann,322 (l'altro, il Peer Gynt di
Ibsen con musiche di Grieg a cui Bene non poté partecipare), viene
realizzato in forma di concerto, con ausilio di strumentazione fonica, in cui
la voce solista assume su di sé ed evoca tutti i ruoli in perfetta unione con
l’orchestra, a testimonianza di una fase della sua produzione artistica in cui
la fusione tra musica e voce in teatro supera il concetto di semplice
contaminazione tra i due ambiti.323
La questione, infatti, ricorda Deleuze, è sempre quella della
prevalenza dell’aspetto o sonoro o visivo in un immagine, e della necessità
di frantumare tale prevalenza a favore di una ricezione sinestetica, come
testimonia Bene con tutta la sua produzione teatrale e cinematografica,

321
G. Deleuze, “A proposito del “Manfred” alla Scala” (1 ottobre 1980), in
Carmelo Bene. Otello, o la deficienza della donna, cit., p. 7.
322
C. Bene, Opere, cit., p. 925.
323
J. P. Manganaro, “Il pettinatore di comete”, cit., p. 73; “L’opera procede
tecnicamente secondo un modello binario apparentemente semplice: ad
ogni canto recitativo di Bene segue un controcanto dell’orchestra, ma tale
procedere non tende attraverso tesi e posizioni verso una fine, non ha una
sua finalità. Vive di lievitazione negando ogni centralità dei significati
[…] e – come sempre – propone un modello estetico di trasgressione, un
modo di creare assolutamente nuovo, uscendo da un contesto e riuscendo
in un altro.”

147
grazie alla sottrazione, per giungere alla minorazione ed alla variazione
continua di tutti gli elementi. A partire dal lavoro sulla lingua, sulla parola e
sulla voce, passando per tutti i mezzi di amplificazione necessari, Bene
giunge quindi alla frantumazione della voce stessa come ultimo momento
sottrattivo del suo teatro; l’assenza dell’attore – solo in scena, senza più
scena – nella sua stessa voce, anch’essa resa minore, sottratta al suo senso e
alla sua forma.
La punta di deterritorializzazione che rende possibile una tale
variazione, “che trascina tutta l’immagine”,324 ed eccede alla fine anche la
forma vocale, si avvale perciò dell’elemento sonoro, che emerge
dall’interno e si fa successivamente strada attraverso la voce – grida,
bisbigli e alterazioni non nascono a partire dalla voce, ma lo diventano –
per cui gli affetti corrispondenti diventano modi vocali (come analizzato
anche da J. P. Manganaro).325
Come conseguenza di quest’operazione, dopo aver estratto “il sonoro
dal visivo”, anche le variazioni di velocità analizzate da Deleuze in
Sovrapposizioni acquisiscono nuove potenzialità, così come i mezzi tecnici
come ad esempio il già citato playback, e rafforzano le potenzialità di una
voce da cui Bene estrae le potenze musicali, ad intrecciare nello stesso
continuum l’elemento musicale dell’orchestra con quello vocale nella sua
piena musicalità. La macchina attoriale di Bene assume quindi su di sé un
compito che supera il concetto di voce recitante e che, come egli stesso
sostiene, ritrovando la propria musicalità, anche quando la musica tace, non
interrompe il continuum sonoro formato dalla fusione tra voce ed orchestra,
in una scena che non appartiene più solamente al teatro di prosa ma
nemmeno all’opera.326

324
G. Deleuze, “A proposito del Manfred alla Scala”, cit., p. 7.
325
Cfr. Capitolo V, 1.
326
C. Bene, G. Dotto, Vita di Carmelo Bene, cit., p. 353.

148
L’importanza di questa ritrovata musicalità nella voce è attestata in
questa breve prefazione anche da Deleuze, che infatti non esita a definirla
voce modalizzata o filtrata, un’invenzione che oltrepassa lo Sprechgesang,
una creazione artistica che va a rinnovare la minorazione del suo teatro, una
nuova linea di fuga che apre l’arte teatrale ad ulteriori variazioni. Come si è
detto, il processo di rinnovamento implica un uso diverso anche della
strumentazione fonica, dal momento in cui, se inizialmente pensata come
mezzo per togliere di scena l’attore, la storia, l’azione, ossia per sottrarre le
invarianti teatrali, il playback ad esempio garantisce ora questo effetto nella
voce stessa, lo amplifica, approfondendo le sperimentazioni di Bene sulle
“addizioni e sottrazioni vocali”.327
L’incontro tra il teatro di Bene e il pensiero filosofico di Deleuze
prosegue, quindi, trova nuovi spunti di contatto nella “messa in scena” della
voce musicale in cui si rinnova la contro-effettuazione dell’evento teatrale:
“L’attore-simulacro è l’incarnazione di questo soggetto la cui sola chance è
di esistere nelle pieghe della voce […] Il soggetto, sulla scena di Bene, è un
puro evento della voce […] L’evento è effetto di superficie, effetto
immateriale del dire, secondo lo scontro del ritmo, dello spostamento della
voce dentro o fuori della cavità orale, contro la verticalità del senso”.328
Lo spostamento del continuum di variazione sull’asse vocale, la
creazione di una “nuova” voce, ha come conseguenza che le variazioni di
velocità agiscono adesso sul piano del testo divenuto sonoro, ad interagire e
minorare al contempo con la musica ed il cantato. L’ispirazione a creare
questa fusione tra i due piani è stata data a Bene dallo studio e l’interesse,
da sempre coltivato, per il melodramma italiano, poiché è “eccedenza del

327
G. Deleuze, “A proposito del Manfred alla Scala”, cit., p. 8 (in corsivo nel
testo).
328
C. Dumoulié, “Chora o il corpo della Voce”, cit.

149
‘melos’ e del ‘dramma’”,329 e si pone oltre ogni rivendicazione di “teatro
totale”; per quanto riguarda i ruoli, la preferenza di Bene va ai ruoli
femminili interpretati da controtenori o sopranisti, il che corrisponde alla
ricerca del femminile, precedentemente analizzata, da lui sempre invocata
nel teatro di prosa.
La domanda che a questo punto s’impone a partire da queste ultime
affermazioni di Bene, è cosa ne resta dell’attore e della sua corporeità in un
teatro che non è più prosa ma nemmeno d’opera, e che sfugge quindi ad
ogni collocazione: infatti, nemmeno la voce utilizzata nei suoi spettacoli-
concerti deve poter raggiungere il proprio limite espressivo, la propria
riterritorializzazione in un qualche altro genere scenico che, stando tra la
prosa e la lirica, ne farebbe una nuova costante. E d’altra parte, anche
l’attore che si lascia attraversare e spersonalizzare dalla propria voce
ripropone nuovamente il problema della propria presenza, corporeità e
necessità, ed è appunto su questo rapporto voce-attore, e sull’esigenza
sempre rivendicata da un teatro minore come quello di Bene che nessuno
dei due elementi prevalga in scena, che si gioca la sua più recente
sottrazione.
In questo scenario teatrale che oscilla sul limite tra prosa e lirica,
emerge naturalmente il confronto con il cantante d’opera: “L’attore, ormai
fuor dell’opera, non si comporta certo come un cantante d’opera: non vi
sono gesti che accompagnino sportivamente lo sforzo, né peggio che
illustrino il personaggio o incoraggino il significato. Eppure, proprio come
il cantante d’opera, anche l’attore – immerso nella musica e posto a
confronto con la profondità della parola – ha da risolvere il problema della

329
C. Bene, G. Dotto, Vita di Carmelo Bene, cit., p. 363.

150
propria umana o naturale inadeguatezza, azzerando quanto può ma
finalmente anche protestando la sua irriducibile presenza.”330
La possibilità di giocare sul limite della propria presenza d’attore,
sottratta ma anche riammessa in scena dalla voce nella quale agisce ora la
variazione, è data, come suggerisce lo stesso Bene, dal recupero di quella
figura del commediante girovago definito cabotin, “parente dei mimi, degli
istrioni, dei jongleurs […] È un inganno per sempre inaccessibile a chi non
sa ‘mentire’.”331
Questo attore-istrione, un tempo incaricato di trasgredire e minare la
coerenza della finzione scenica amplificandola ad altre, successive finzioni,
secondo Bene è il vero artefice, il vero non-attore, colui che recupera la
funzione della menzogna, della derisione citata in precedenza, in grado cioè
di aprire una linea di fuga all’interno della rappresentazione, di sovrapporre
“maschera su una maschera”,332 ossia di realizzare una parodia nel
significato più proprio del termine.333 Ed è in questo modo, servendosi della
parodia come contro-canto, che l'attore-cantante o anche l'attore-cabotin si
sottrae di continuo alla propria macchina vocale che è intervenuta a
riempire lo spazio scenico al suo posto, e ne impedisce appunto il
protagonismo.

330
P. Giacchè, Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale, cit., p.
138
331
C. Bene, Opere, cit., p. 1025.
332
Ivi, p. 1027 (in corsivo nel testo).
333
P. Pavis, voce “Parodia”, in Dizionario del Teatro, cit., p. 281: “Dal greco
[…] parodìa, ‘contro-canto.’” Vedi anche P. Giacchè, Carmelo Bene.
Antropologia di una macchina attoriale, cit., p. 138: “Così – nello scarto
fra la musica dominante e la prosa residua, ovvero nel conflitto fra
l’organicità invisibile del verbo e l’inorganica pesantezza del corpo – la
parodìa diventa l’ultima possibile pratica attoriale. […] si può infatti
comprendere cos’è il parodiare, cos’è andare ‘verso o attorno al canto’,
se si osserva come si recita appunto tutt’intorno al cantare.”

151
Anche la questione dei doppi in scena messa in luce da Klossowski
in riferimento alla recitazione di Bene propone un paragone con il non-
attore e l'istrione del teatro latino, antesignano del cabotin, il cui compito di
contraffare la divinità ne implicava infatti la derisione, il sabotaggio
dell'immagine ufficiale, la simulazione attraverso cosiddette patofanìe o
apparizioni istantanee.334 Sostanzialmente, l'arte teatrale si presentava tra
gli altri aspetti, anche come un differire in scena gli atteggiamenti negativi o
disdicevoli della divinità, un differire il sacro, mediante mezzi tecnici che
corrispondono a ciò che oggi si intende come improvvisazione. La tecnica
teatrale di Bene riprende quest'aspetto di dissimulazione del teatro latino,
ovvero la realizzazione del dramma in scena, in fieri, da vero e proprio
artefice, solo che la derisione adesso l’attore la gioca su se stesso e sulla
propria voce, a realizzare “una contraddizione che si crea all’interno di
un’unica ‘macchina attoriale’ fra l’attore che si innalza sulla sua voce e la
voce-risonanza che schiaccia e scaccia l'attore. Entrambi comunque, vuoi
‘per apoteosi o per derisione’, evasi, ‘fuor dall'opera’.”335

334
P. Klossowski “Cosa mi suggerisce il gioco ludico di Carmelo Bene”, cit., p.
16.
335
P. Giacchè, Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale, cit., p.
161.

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158
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politica), “aut aut”, 276, 1996.

159
SOMMARIO

INTRODUZIONE ..........................................................................................................1
CAPITOLO I...................................................................................................................6
IL TEATRO DELLA DIFFERENZA..........................................................................6

Due artisti per due linguaggi .....................................................................22

Kronos, Aiôn e il paradosso dell’attore...................................................24

Crudeltà e perversione: un confronto con il teatro di Artaud...........28


CAPITOLO II ...............................................................................................................34
MAGGIORE E MINORE............................................................................................34

Autori minori, stili e macchine da guerra ..............................................40

La minorazione e il processo di variazione continua ...........................45

Il teatro classico ed il giudizio...................................................................47

L’Edipo e la psicanalisi ...............................................................................55

Resistenza.......................................................................................................64
CAPITOLO III ..............................................................................................................66
INTERFERENZE ED INCONTRI ............................................................................66

L’incontro con il cinema: un confronto tra cinema e teatro ..............71

La rappresentazione secondo Gilles Deleuze .........................................80

Carmelo Bene e Gilles Deleuze: un incontro tra teatro e filosofia....85


CAPITOLO IV..............................................................................................................91
SOVRAPPOSIZIONI: RICCARDO III DI CARMELO BENE ...............................91
UN MANIFESTO DI MENO DI GILLES DELEUZE ..............................................91

160
Un aspetto della perversione teatrale: il femminile ..............................95

Alleanze ........................................................................................................100

Il teatro minore e la Storia.......................................................................103

Il teatro della lingua ..................................................................................113


CAPITOLO V .............................................................................................................116
SOTTRAZIONI ..........................................................................................................116

La voce e le sue variazioni ........................................................................123

La variazione degli altri elementi teatrali ............................................132

Finalità di un teatro minore.....................................................................139


APPENDICE...............................................................................................................146
GILLES DELEUZE, A PROPOSITO DEL MANFRED ALLA SCALA. .............146
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI .........................................................................153
SOMMARIO ...............................................................................................................160

161

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