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P.

Merlo – note su Genesi 1–3

Note su Genesi 1–3

Introduzione: questione delle fonti. Attualmente la fonte più antica è P + aggiunte post-P (cioè il
vecchio J), cfr. J.L. Ska, Il cantiere del Pentateuco, EDB 2013 capp. 1 e 2. Cfr. anche A. Schüle, Der
Prolog der hebräischen Bibel (AThANT 86), Zürich 2006.
Il testo di Gen 1–3 è tardo, poco conosciuto dalla Bibbia ebraica e, quando appaiono elementi di
tali narrazioni, sono solo in testi considerati esilici o post-esilici (Am 4,13-17; Sal 8; 19; 104;
DtIsaia; Tobia 8,6). Inoltre, in passi dove si conoscono alcuni elementi tradizionali (ad es. Eden
in Ez 28,13; 31,9; 36,35) essi non sono inseriti in un contesto di creazione simile a Gen 2–3, ma
sembrano motivi tradizionali indipendenti. Molti passi dtr., i profeti antichi, e le c.d.
confessioni di fede non conoscono la teologia della creazione. Alcuni autori pensano che la
nascita di questo passo sia da collocare nel contesto della polemica contro i miti antico orientali
(Marduk, ecc.), altri con le riflessioni cosmogoniche greche.

1,1 ‫אשׁית‬ ִ ‫ ְבּ ֵר‬sintagma b+ rē’šît (da *rō’š «testa»), indica l’inizio di una cosa o di una serie. Le
trascrizioni greche (Origene), nonostante le sporadiche varianti, confermano la resa senza
articolo del TM be e non ba. Solitamente tale sintagma è accompagnato dal complemento di
specificazione della cosa che inizia (cioè è in stato costrutto, cfr. Ger 49,34); solo rē’šît nel senso di
«primizia», in testi relativi al culto, si trova in stato assoluto (cf. Lv 2,12; Ne 12,44). Già la nota
masoretica dice che ‫אשׁית‬ ִ ‫ ְבּ ֵר‬ricorre solo 5 volte nella Bibbia e tutte e quattro le altre volte (Ger
26,1; 27,1; 28,1; 49,34) è in stato costrutto («all’inizio del regno di…»). Ciò ha creato un’annosa
diatriba poiché esistono diverse possibilità di traduzione, tutte grammaticalmente possibili:
a) berē’šît è in stato assoluto e senza articolo (così BCEI), separando il v. 1 dai vv. 2-3;
b) berē’šît è in stato costrutto essendo il v. 2 la principale «Quando Dio creò…, la terra
era…»;
c) berē’šît è in stato costrutto essendo il v. 3 la principale, mentre il v. 2 una incidentale
«Quando Dio creò…, (mentre) la terra era…, allora Dio disse».
La resa con a) è l’interpretazione tradizionale della LXX, dei cristiani (cf. Vg. e anche Gv 1,1), dei
Masoreti (cfr. l’accento disgiuntivo ṭipḥa o ṭarḥa); la resa b) è proposta da Abraham Ibn Ezra, ma
grammaticalmente ci si aspetterebbe un infinito cs. berō’; 1 la resa c) è proposta da Rashi di
Troyes nel 1105 e oggi raccoglie sempre più consensi tra gli studiosi per ragioni grammaticali
(cf. JM, § 129p) e letterarie (similarità con Gn 2,4b e con i racconti di creazione mesopotamici;
cfr. esempi infra sub 2,4b).
‫« ָבּ ָרא‬creò» è considerato un termine tecnico di creazione, è stato oggetto di numerosi studi
(cfr. commentari). Il soggetto di tale verbo è sempre “Dio”. Oltre a Gen 1–6 (nei testi
sacerdotali) il verbo appare quasi esclusivamente in Ezechiele (5×) e DeuteroIsaia (16×) o in testi
post-esilici (Salmi 6×) in connessione con le azioni di Dio nella creazione e nella storia. Non
contiene in sé il senso di creazione ex nihilo, anche perché in ebraico non c’era una parola per il
«nulla» (cf. O. Loretz: UF 33, 2001, 387-401).
’elōhîm significa Dio in senso lato; è un nome comune (il nome proprio divino è Jhwh). In P esso
acquista il carattere di sinonimo di Jhwh, come «il dio».
‫« ֵאת ַה ָשּׁ ַמיִ ם וְ ֵאת ָה ָא ֶרץ‬il cielo e la terra». I primi cristiani hanno inteso questa espressione come
mondo angelico e terrestre, S. Tommaso vi vede una prima creazione che poi sarà perfezionata
(v. 8 si ricreano i cieli!). Osservando però che «terra e cielo» è un binomio inscindibile in molti
passi biblici, oggi si ritiene trattarsi di un merismo dove due termini polari indicano la totalità

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Si è però osservato che rare volte ad un sostantivo allo stato costrutto segue un verbo finito: Os. 1,2 ‫תְּ ִחלַּת‬
‫«דִּ בֶּר־י ְהוָה‬Quando Jhwh iniziò a parlare a/tramite Osea (lett: inizio del "parlò-Jhwh" a/tramite Osea)», oppure 1Sam
25,15 ‫« כָּל־יְמֵי הִתְ ַה ַלּכְנוּ‬tutti i giorni in cui abbiamo girovagato (lett. tutti i giorni del noi-girovagammo)», opp. Nm 3,1
‫בּיוֹם ִדּ ֶבּר יְ הֹוָ ה ֶאת־מ ֶֹשׁה‬.ְ «quando Jhwh parlò (lett. nel giorno del parlò-Jhwh) a Mosè» cfr. P. JOÜON, T. MURAOKA, A
Grammar of Biblical Hebrew (SubBib 27), Roma 2006, § 129p; B.K. WALTKE, M. O’CONNOR, An Introduction to Biblical
Hebrew Syntax, Winona Lake 1990 § 9.6e e nota 38.

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dell’universo nel suo insieme (in ebraico non esiste un termine per «cosmo»); in Is 44,24, per
esprimere il medesimo concetto, si usa ‘ōseh kôl «colui che fa tutto». Per l’espressione «creatore del
cielo e della terra» in Mesopotamia cf. D. Charpin, CRRA 35, 96 (ora anche Durand: LAPO 16, p. 107 nota e) an-lum
kab-tum ba-ni šamê (an) ù erṣetim (ki) «il dio onorato, creatore del cielo e della terra». (Sul merismo cf. P. Boccaccio,
I termini contrari come espressione della totalità in ebraico: Bib 33, 1952, 173-190; N. Wasserman, Style and Form in Old-
Babylonian Literary Texts, Leiden-Boston 2003, 61-98).
La “materia” del cosmo è qui intesa come creata e quindi qualitativamente diversa da quella
divina. Nell’Enūma eliš invece Marduk creò il cosmo con il corpo di Tiamat ucciso.

1,2 è difficile comprenderne il nesso logico-temporale con il v. 1. La forma waw-soggetto-verbo


è inusuale (solitamente waw-verbo-soggetto). Alcuni studiosi, in conformità con la resa c)
sopra, considerano il v. 2 una frase nominale circostanziale (Childs: «the hearth having been
chaos»). Per A. Niccacci (Sintassi del verbo ebraico 1986, p. 25) i vv. 1-2 sono l’antefatto e il v. 3 è l’inizio
della narrazione. Il verbo ‫« ָהיְ ָתה‬era» non è mera copula (altrimenti nella frase nominale è di
solito omesso), ma ha un senso temporale "forte" come in Giona 3,3 «Ninive era (allora) una
grande città». Qui troviamo la descrizione di uno stato di essere (Zustand) e non una mera frase
nominale (cf. JM, § 154m).
‫« תֹהוּ וָ בֹהוּ‬informe e deserta» (?) Questi due vocaboli (sostantivi, non aggettivi, cfr. Aquila,
Teodozione) ricorrono pochissime volte nell’AT (assieme solo in Is 34,11; Ger 4,23-26;
interessante anche Is 45,18 dove si dice «Dio ha formato la terra… non l’ho creata perché
rimanesse bōhû»); esprimono uno il deserto privo di vita (Dt 32,10; sulla radice *thw vedi KTU
1.5.I:15 e 1.133:4, cfr. Huehnergard, UVST, 287 forma qutl- da *thw */tuhwu/; DLU s.v. thw),
l’altro il senso del nulla, del vuoto; più precisamente descrivono il contrario della creazione
(W.H. Schmidt 21967, 78-79). LXX avo,ratoj kai. avkataskeu,astoj «invisibile e inorganizzata», Aquila
«vuoto e nulla», Simmaco «inerte e indiviso», Teodozione «niente e nulla», Vetus Latina
«invisibilis et incomposita», Vg «inanis et vacua». Per alcuni si descrive il Caos (Albright, Cross,
Wenham…), per altri solo il vuoto/spoglio dello stato primordiale, cioè il "setting" della
narrazione che inizierà al v. 3. [sulla storia dell’interpretazione cf. D. Börner-Klein, Tohu und Bohu. Zur
Auslegunsgeschichte von Gen 1,2a: Henoch 15, 1993, 3-41; inoltre D.T. Tsumura, Creation and Destruction. A Reappraisal of
the Chaoskampf Theory in the Old Testament, Winona Lake 2005, 9-35 dove si sostiene l’espressione tōhû wābōhû
significa semplicemente "emptiness" e comunica una iniziale situazione di "non ancora" (p. 35)].
‫ל־פּנֵ י ְתהוֹם‬ ְ ‫« וְ ח ֶֹשׁ� ַﬠ‬e tenebra sulla superficie dell’abisso». La tenebra è qualcosa di sinistro,
timoroso; non è un fenomeno della natura, ma l’assenza di un fenomeno (il buio è il caos, il
nulla). Non c’è allusione mitologica (contro chi vi vuole vedere il Tiamat mesopotamico), ma
continua la descrizione del contrario della creazione [su *thm cfr. D.T. Tsumura, Creation and Destruction
cit., 2005, 36-57]. Secondo Sal 104,6 il t ḥôm avvolgeva e ricopriva la terra. [Notare che è invece la
e

parola italiana «abisso» a derivare da ab.zu sumerico e apsû accadico: le acque dolci sotterranee,
cfr. Enūma-eliš I, 59-78].
‫ל־פּנֵ י ַה ָמּיִ ם‬
ְ ‫�הים ְמ ַר ֶח ֶפת ַﬠ‬ ַ ְ‫« ו‬e un vento forte si librava sulla superficie delle acque». La
ִ ‫רוּ� ֱא‬
traduzione di rûaḥ ’elōhîm è molto discussa, ma per arrivare ad una soluzione dobbiamo
comprendere il contesto. «Sulla superficie delle acque» corrisponde al precedente «sulla
superficie dell’abisso», pertanto c’è parallelismo tra ḥōšek «tenebra», e rûaḥ ’elōhîm, non
contrasto (Westermann); questa parte finale del versetto 2 deve pertanto essere collegata a
quanto precede (il caos) e non al versetto successivo. Il rûaḥ non ha qui alcun ruolo creativo, in
quanto l’opera di creazione vera e propria comincerà solo col v. 3. Il senso normale di rûaḥ è
«vento» che proviene da Dio (cf. Gn 8,1; Es 15,10; Nm 11,31) e questo senso si addice bene alla
descrizione del caos operata da questo versetto 2. Alcuni autori proposero che ’elōhîm fosse da
intendere qui come forma di superlativo e questa proposta trova oggi un certo consenso (cf.
Gen 30,8; 35,5; 1Sam 14,15; Sal 36,7; 80,11; Giona 3,3). Si noti poi che rûaḥ ’elōhîm non ricorrerà
più in tutto il racconto e non ha alcuna funzione nell’opera di creazione.
L’interpretazione tradizionale è quella invece di vedervi lo Spirito di Dio (LXX πνεῦμα θεοῦ;
Vulg spiritus) che aleggia sull’acqua come una colomba che, muovendosi, sollecita l’universo ad

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acquisire una forma organizzata. Altra possibilità è «vento di Dio» nel senso che «proviene da
Dio» (così Ibn Ezra). Giuntoli preferisce «alito» poiché il contesto prossimo richiama anche il
«soffio, respiro» (nišmâ). Oltre all’argomento tradizionale, v’è quello di coloro che sostengono
(Garbini ad es.) che il testo è troppo teologico e solenne per dare a ’elōhîm un senso avverbiale
(superlativo).
Il verbo ‫ ְמ ַר ֶח ֶפת‬è «muoversi, galleggiare, tremare» ed è reso dalla LXX con ἐπεφέρετο (imperf.
medio indicativo) da epifèrō «galleggiare». Il participio ebraico rende la continuità dell’azione.

1,3 Qui inizia il vero processo creativo. Di fronte al caos descrittto così vivacemente, qui
l’autore adopera solo poche parole. La creazione della luce dura un attimo, al semplice parlare
di Dio. Non è presente alcun elemento drammatico nella narrazione.
‫�הים‬
ִ ‫אמר ֱא‬ ֶ ֹ ‫« וַ יּ‬Dio disse». Si usa il verbo dire, non il sostantivo «parola». Non abbiamo quindi
nessun concetto o riflessione astratta sulla "parola" (Westermann), non c’è una creazione
tramite «la parola» in senso tecnico. Il logos giovanneo va molto oltre il dettato di Genesi. La
forma wayyō’mer «disse» è la forma usuale e normale per introdurre un qualsiasi discorso o
citazione. È il normale parlare di Dio, cui corrisponde immediatamente l’evento nominato. [Qui
forse, più che altrove, si potrebbe richiamare l’inizio dell’Enūma-eliš «Quando in alto i cieli non
erano (stati) nominati e in basso la terra non era (stata) chiamata per nome» enūma eliš lā nabû
šamāmu) per la corrispondenza tra l’azione del nominare e quella dell’esistere/creare. Inoltre in
Enūma-eliš IV, 19ss Marduk ordina con la sua parola la sparizione e l’apparizione di una
costellazione come prova dei suoi poteri.]
‫“« יְ ִהי אוֹר וַ יְ ִהי־אוֹר‬Sia la luce”, e la luce fu». Non c’è contraddizione nel creare prima la luce del
sole, perché in questo versetto la luce è il principio cosmico dell’ordine, della creazione,
opposto alla tenebra del v. 2 principio cosmico del caos. Per l’autore biblico, la creazione non è
interessata alle "sostanze" in senso greco, ma all’ordinamento dell’universo sotto il governo di
Dio (vedi v. 4). La luce è una creatura di Dio, non ha attributi divini come in Egitto (altrove nella
Bibbia si dice che "Dio è luce" – Sal 104,2; 1Gv 1,5 – ma sono altre riflessioni).

1,4 ‫ת־האוֹר ִכּי־טוֹב‬ ִ ‫« וַ יַּ ְרא ֱא‬Dio vide che la luce era buona» - Il senso del termine ṭôb non è
ָ ‫�הים ֶא‬
morale. L’affermazione ha riferimento anche alla funzionalità, alla bellezza (cfr. LXX ὅτι
καλόν), alla conformità della cosa creata con il fine pensato da Dio. Non si parla della bontà
come un elemento spirituale inserito in quello materiale, come accade nel dualismo platonico.
La creazione è considerata buona in sé, nella sua conformità al volere divino [Solo con i cap. 2–3
vi sarà una specificazione: la creazione non è più buona in assoluto perché l’uomo ha infranto
la corretta conformità al volere divino]
ִ ‫« וַ יַּ ְב ֵדּל ֱא‬e separò Dio» la luce dalle tenebre. La creazione procede nella separazione (verbo
‫�הים‬
badal hif.), cioè nel mettere ordine all’universo originariamente caotico. L’attività di
separazione è cara al linguaggio sacerdotale (in riferimento alla purità: Lv;) e a Esd Ne (in
riferimento al popolo: Lv 20,24 separare Israele dalle nazioni Esd 9,1; 10,11; Ne 9,2; 16,9; 1Re 8,53
Israele eredità di Dio); essa è anche tipica dell’attività cosmogonica nel Vicino Oriente antico
(cfr. scongiuro bilingue a Šamaš l. 11ss: «…Utu, quando il cielo fu separato dalla terra. Utu,
quando giorno e notte furono resi riconoscibili…»; il poema Gilgameš Enkidu e gli inferi l. 9s «In
quei giorni, in quei giorni lontani… quando il cielo fu separato dalla terra, quando la terra fu
separata dal cielo»; il racconto bilingue di creazione KAR 4, l. 1s «Quando il cielo dalla terra fu
separato – essi erano strettamente uniti…»; il poema Lugalbanda e Ḫurrum l. 1 «Quando nei
giorni antichi il cielo fu separato dalla terra»).
L’idea sottostante alla «separazione» e al successivo «nominare» è quella che Dio sta creando
un ambiente vitale, con delle regole fisse, eterne (ad es. il mare non sommergerà la terra; dopo
la notte torna il giorno…) che manterranno la vita sulla terra.

1,5 ‫�הים ָלאוֹר יוֹם וְ ַלח ֶֹשׁ� ָק ָרא ָל ְי ָלה‬


ִ ‫« וַ יִּ ְק ָרא ֱא‬e Dio chiamò la luce giorno, e la tenebra chiamò
notte». Il nominare (anche se non si usa letteralmente "dare un nome") non è solamente un
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atto di dominio (cosa che dicono molti), ma anche, e soprattutto, l’atto di stabilire un destino,
una regola (qui l’alternanza del giorno con la notte). Dio, infatti, nomina anche l’oscurità che, a
rigore, non ha creato.

1,6 Anche in questo versetto assistiamo in verità a un’opera di separazione.


�‫« ָר ִק ַי‬firmamento» - Dal latino firmare è una “volta solida”, una semisfera, che separa terra e
acque superiori. L’idea sottesa a questo versetto è bene espressa in Sal 104, 2-3.13 dove la
pioggia è l’acqua che cade dalle acque superiori attraverso i fori del firmamento (*rq‘ piel rende
a volte il senso di martellare i metalli, Es 39,3; similmente «distendere il cielo» *nṭh in Is. 45,12 o
Gb. 9,8; inoltre *ṭpḥ Is. 48,13). Alcuni hanno richiamato qui Enūma-eliš IV,139 dove Marduk usa
una metà del cadavere di Tiamat che «incurvò come il cielo».
ִ ִ‫« ו‬e che faccia da separazione tra le acque e le acque» - Qui Dio separa
‫יהי ַמ ְב ִדּיל ֵבּין ַמיִ ם ָל ָמיִ ם‬
l’acqua dolce (non il mare!) superiore (pioggia) dall’acqua dolce inferiore (sorgenti). Questa
concezione cosmologica era comune nel Vicino Oriente antico, dove il firmamento aveva delle
aperture chiudibili per mezzo delle quali l’acqua poteva riversarsi sulla terra (cfr. Gen 7,11; 2Re
7,2; Sal 78,23). L’associazione di iussivo *hyh + participio (qui *bdl hif.) serve a indicare l’azione
prolungata nel futuro (GK § 116r; JM § 121e).
καὶ ἐγένετο οὕτως «e così fu» – La LXX pone qui la conclusione invece che alla fine del v. 7.
Probabilmente si tratta di una lectio facilior, perché appare più logica la posizione della LXX.
Alcuni commentatori seguono la LXX (Soggin).

1,7 Dio «fece» ciò che aveva detto. In questo versetto non c’è alcun cenno di mitologia simile a
quanto narrato nell’Enūma-eliš IV 135ss. (Marduk crea il cosmo con il corpo morto di Tiamat).
‫« וַ יַּ ְב ֵדּל‬e separò» non ha soggetto esplicito nel TM (e al limite potrebbe essere interpretato che
sia la rqy‘ appena citata ad essere il soggetto), la LXX per togliere ogni dubbio esplicita καὶ
διεχώρισεν ὁ θεὸς.

1,8 ‫�הים ָל ָר ִק ַי� ָשׁ ָמיִ ם‬


ִ ‫« וַ יִּ ְק ָרא ֱא‬Dio chiamò il firmamento cielo» - Il firmamento è chiamato cielo,
secondo l’illusione di vedere una semisfera trasparente che sorregge le acque durante le
giornate serene. Le acque sono quindi al di là del cielo. Come l’oscurità ha un suo limite (la
notte), così anche le acque. Il cielo è una creatura e non è la dimora degli dèi, siamo quindi in
presenza di una concezione diversa (più evoluta?) di quando si afferma che Jhwh ha il suo trono
nei cieli con la corte divina (1Re 22,19).
Prima dell’espressione «e fu sera e fu mattino» la LXX aggiunge καὶ εἶδεν ὁ θεὸς ὅτι καλόν «e
Dio vide che era buono», poiché considera compiuta l’opera del 2° giorno e vuole essere
conseguente con le sezioni precedenti e successive (armonizzazione) dove la formula ricorre
anche in TM (cfr. vv. 4, 10, 12, 18, 21, 25, 31).

1,9 Precedentemente Dio aveva separato le acque in senso verticale (sopra-sotto), ora in senso
orizzontale.
Le acque di questo versetto sono quelle salate. L’opinione che la divinità mettesse un limite alle
acque attraverso un combatimento contro il mare (personificazione del caos), è molto diffusa
nel Vicino Oriente antico e in altri passi della Bibbia (Sal 89,10-12; 93; Giob 38,8-11; mito di Ba‘al
e Yamm a Ugarit). Qui però non c’è alcun accenno mitologico, né combattimento (Ger 5,22).
ָ ‫« יִ ָקּווּ ַה ַמּיִ ם ִמ ַתּ ַחת ַה ָשּׁ ַמיִ ם ֶא‬Siano raccolte le acque che sono sotto il cielo in un unico
‫ל־מקוֹם ֶא ָחד‬
luogo». Così legge il TM, mentre la LXX ha εἰς συναγωγὴν μίαν «in un luogo di raccolta unico»
(il termine ‫ ָמקוֹם‬è tradotto dalla LXX sempre con τόπος tranne qui). Tra i manoscritti scoperti a
Qumran abbiamo 4QGenh dove è scritto ‫ מקוה‬che corrisponde alla LXX (‫« ִמ ְקוֵ ה‬raccolta» cf. Lev
11,36; Is 22,11), ma 4QGenb ha ‫ מקום‬come il TM. Attualmente tutti i commentatori sostengono
che i traduttori della LXX avessero una Vorlage ebraica corrispondente a quella di 4QGenh e non
al TM. La confusione della lettera finale può essere accaduta (medesimo errore in 1Re 14,31 tra

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‫ ֲא ִביָּ ם‬e LXX Αβιου), anche in virtù del verbo *qwh «raccogliere» che già ricorre poco prima in
questo versetto. Quale delle due lezioni sia preferibile è discusso, il senso è comunque simile.
Il verbo yiqqāwû è nif. da *qwh e nei dizionari è inteso passivo (impersonale: «che siano
raccolte», cfr. LXX Συναχθήτω imptv. aoristo passivo da συνάγω) e non riflessivo («si
raccolgano»). La differenza non è molta, ma c’è più attenzione verso l’agente che dovrebbe
essere Dio.
‫« וְ ֵת ָר ֶאה ַהיַּ ָבּ ָשׁה‬e appaia l’asciutto». L’orbe terrarum, a rigori, non è stato creato direttamente da
Dio, ma risulta dall’opera di separazione e raccolta delle acque. Il mondo è concepito come una
zolla di terra circondata dall’acqua i cui confini non possono essere valicati (Ger 5,22; Pro 8,29;
Sal 33,6)
Alla fine del v. la LXX inserisce il racconto del compimento di quanto comandato da Dio καὶ
συνήχθη τὸ ὕδωρ τὸ ὑποκάτω τοῦ οὐρανοῦ εἰς τὰς συναγωγὰς αὐτῶν, καὶ ὤφθη ἡ ξηρά. «Le
acque che sono sotto il cielo si radunarono nelle loro raccolte e apparve l’asciutto». Un testo
simile si trova in 4QGenk [contiene solo 2 parole del plus dei LXX] e nel libro dei Giubilei 2,6.
Questo supporta l’affidabilità del traduttore greco (Tov) e potrebbe far pensare che l’omissione
del TM (e di 4QGenb,g) sia dovuta ad aplografia per omoioteleuto (entrambe le frase terminano
con «asciutto»), piuttosto che a una tendenza armonizzatrice della LXX che avrebbe voluto
inserire il racconto di compimento. Tale originalità della LXX appare supportata anche dalla
variazione esistente tra comando (v. 9a εἰς συναγωγὴν μίαν) ed esecuzione (εἰς τὰς συναγωγὰς
αὐτῶν), in quanto una mano armonizzatrice avrebbe ripetuto l’espressione tal quale.

1,10 – Nuovamente ritorna il “nominare” che completa l’opera creatrice con la destinazione
della cosa creata.
ִ ‫« וַ יַּ ְרא ֱא‬e dio vide che era buono» – cfr. nota v. 4.
‫�הים ִכּי־טוֹב‬

1,11 ‫« ַתּ ְד ֵשׁא ָה ָא ֶרץ ֶדּ ֶשׁא ֵﬠ ֶשׂב ַמזְ ִר ַי� זֶ ַרע ֵﬠץ ְפּ ִרי ע ֶֹשׂה ְפּ ִרי ְל ִמינוֹ‬che la terra faccia uscire la
vegetazione: erbe che producono seme (graminacee), <e> alberi da frutta che fanno frutto
secondo la loro specie». L’opera creatrice di Dio è, in questo caso, indiretta: è la terra (la madre
terra?) il soggetto pro-creativo. Dio comanda alla terra di produrre («far spuntare») ciò che è
verde (deše’ indica in genere ciò che germoglia). Le cose prodotte dalla terra sono tutte le piante
verdi. La relazione tra ‫“ דשׁא‬vegetazione, prato” ‫“ עשב‬piante,” and ‫“ עץ‬alberi” potrebbe a prima
vista lasciar intendere una triplice distinzione, ma ‫ דשׁא‬appare qui come un termine inclusivo
che comprende le specificazioni di «piante» e «alberi». In favore di tale duplice suddivisione si
noti che entrambi i termini «piante» e «alberi» sono qualificati come riproduttivi, mentre ‫דשׁא‬
non ha tale qualificazione. Piante e alberi saranno menzionati nuovamente in vv. 29-30, ma non
il termine generico «vegetazione». Le piante sono divise in due parti (non tre!): quelle che
producono seme, e quelle che producono frutto (‘eṣ indica la vegetazione legnosa, qui
specificata con il produrre perî frutto; l’uso del singolare – qui e nei termini successivi – è da
intendere come collettivo, la categoria dell’«albero»). Si noti che tale suddivisione non è affatto
scientifica, ma è in rapporto con l’utilizzo che ne fa l’uomo.
Al posto di ‫ ֵﬠ ֶשׂב ַמזְ ִר ַי� זֶ ַרע ֵﬠץ‬la LXX ha χόρτου σπεῖρον σπέρμα κατὰ γένος καὶ καθ̓ ὁμοιότητα,
καὶ ξύλον «erbe che seminano seme secondo la loro specie (con doppia traduzione) e alberi…».
Mentre la prima aggiunta è armonizzazione con v. 12 (e doppia traduzione di zr‘ e mynhw), per
la congiunzione «e» potrebbe essere l’ebraico a far saltare la waw in mezzo a due ayin per
parablepsis?

1,12 La terra produce come aveva comandato Dio (Sal 104,14). Anche in questo caso manca del
tutto l’aspetto mitologico usuale nei racconti del Vicino Oriente antico (la pioggia come sperma
che si unisce alla terra, la terra come grembo che fa nascere le piante).
‫« ְל ִמינֵ הוּ‬secondo la propria specie». Il termine mîn “specie” ricorre qui, nel racconto del diluvio
(Gen 6–7) riguardo alle coppie di animali, poi in Lev 11 e Deut 14 nelle distinzioni tra puro e

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impuro. Da questo risulta chiaro che si tratta di un termine caro a P e che non ha riferimento a
una suddivisione scientifica, ma in rapporto all’uomo. La LXX κατὰ γένος ἐπὶ τῆς γῆς aggiunge
«secondo la propria specie sulla terra», armonizzazione con il v. precedente (‘al hā’āreṣ).
‫« וְ ֵﬠץ‬e albero(i)» – La LXX aggiunge «albero da frutta», armonizzazione con il precedente v. 11.

1,14-19 La struttura di questi versetti è complessa e a volte ridondante. C’è incongruenza tra «e
avvenne» (v. 15) e «dio fece» (v. 16); anche il v. 18 è ridondante nelle motivazioni. Per tutti
questi motivi alcuni studiosi propongono qui l’unione di due tradizioni vv. 14-15.18b-19 e vv.
16-18a.
1,14 ‫אר ֹת‬ ֹ ‫« ְמ‬luminari» - Sole e luna sono detti “luminari” e non hanno quindi nulla di divino. È
però forse esagerato dire che l’autore biblico voglia intenzionalmente degradare il sole e la luna
(perché anche Dio può essere «luce ai nostri passi»), egli vuole solo sottolineare la funzione e
non la realtà celeste. In ogni caso l’autore P evita di utilizzare i nomi consueti (spesso intesi
come nomi propri) di šemeš e yārēaḥ. Il termine me’ôr è impiegato, fuori da Gen 1, per indicare il
candelabro liturgico; solo in Ez 32,8 e Sal 74,16 indica i corpi celesti.
Le funzioni di sole e luna in questo versetto sono tre:
a) Separare giorno e notte (anche se era già avvenuto in v. 4); [dopo ‫ ִבּ ְר ִק ַי� ַה ָשּׁ ַמיִ ם‬nel
firmamento del cielo» la LXX aggiunge εἰς φαῦσιν τῆς γῆς «per illuminare la terra»,
un’aggiunta armonizzante con v. 15 e 17 anche se probabilmente derivata da una
concreta Vorlage ebraica; cfr. 4QGeng]
b) Segni per le "stagioni";
c) E per i giorni e gli anni (cioè lo scorrere del tempo).
ֲ ‫« ְוּל‬e per le stagioni/riunioni» dove il termine mô‘ēd può indicare la stagione, il tempo
‫מוֹﬠ ִדים‬
fissato e la sua corrispondente festa. Sono quindi le riunioni delle feste religiose che connotano
le stagioni. La funzione di determinare il calendario esercitata dal sole e, soprattutto, dalla luna
ha pertanto una valenza religiosa (più che di mera misurazione del tempo).
‫« וְ ָשׁ ִנים‬e <per> gli anni» – Seguendo la LXX, Peshitta e 4QGenk che inseriscono la preposizione l-
(cfr. i termini precedenti). Il TM potrebbe essere errore di vista.

1,15 Si ripetono le funzioni dei luminari (e poi si ripeteranno nuovamente nei vv. 17-18). Questa
accumulazione di frasi riguardanti i “luminari” può essere spiegata con la conflazione di due
tradizioni. Il versetto sembra chiudersi con «e così avvenne». Si noti che qui Dio non "nomina"
il sole e la luna, forse perché i “nomi” di sole e luna erano nomi propri di divinità?
‫« וְ ָהיוּ ִל ְמאוֹר ֹת‬e siano da luminari» detto ai me’ôrôt stessi (v. 14) appare una (palese) tautologia.
Tale tautologia serve probabilmente proprio a sottolineare che tali corpi celesti non hanno
altra funzione se non quella di essere lucenti (contro le concezioni antico orientali: dèi,
vaticinii…).

1,16-17 Per vari commentatori sembra che ora inizi un’altra tradizione. Non si tratta di un
perfetto doppione dei versetti precedenti perché qui si incontrano anche le stelle (cf. Sal 136,7-
9). Alcuni autori invece ritengono che la menzione delle stelle sia un’aggiunta, ma la critica
testuale non offre appoggio a tale ipotesi; inoltre anche le osservazioni sulla cosiddetta
“coordinazione interrotta” sono contro l’ipotesi di un’aggiunta 2. Anche la finalità dei luminari è
qui diversa: essi sono posti «per governare».
Dopo aver fatto i luminari si pongono nel firmamento.
Questi versetti sembrano avere un accenno più mitologico dei precedenti. [Si confronti però
con Enūma-eliš V,1-22], soprattutto nell’uso del termine «governo, comando» impiegato per
illustrare lo scopo (‫« ְל ֶמ ְמ ֶשׁ ֶלת‬per il governo del…»).

2
Sul fenomeno grammaticale della coordinazione interrotta cfr. 1Sam 7,3; Gen 2,9; ecc. [A. Michel, Theologie aus der
Peripherie. Die gespaltene Koordination im Biblischen Hebräisch (BZAW 257), Berlin 1997, 1-22].

6
P. Merlo – note su Genesi 1–3

1,18 Si ripetono nuovamente le funzioni degli astri.

1,20 ‫« ִי ְשׁ ְרצוּ ַה ַמּיִ ם ֶשׁ ֶרץ נֶ ֶפשׁ ַחיָּ ה‬brulichino le acque di un brulichìo di esseri viventi» - Il senso del
verbo intende sia il movimento, sia l’abbondanza di esseri. Richiama lo stagno pieno di girini. Si
noti il gioco di parole in ebraico con la ripetizione della medisima radice *šrṣ.
‫« נֶ ֶפשׁ ַחיָּ ה‬essere vivente» - I due sostantivi possono voler dire sia "essere vivente" in generale,
sia "alito di vita" in senso letterale. In entrambi i casi il richiamo è a ciò che unisce ogni essere
vivente: il respiro. Non si deve, qui e in molti altri passi, rendere nefeš con «anima».
I volatili abitano sopra la terra, ma sotto la volta del firmamento.
Alla fine del v. la LXX aggiunge καὶ ἐγένετο οὕτως «e così fu», armonizzazione.
Excursus su nefeš: l’io vegetativo.
1. Indica l’essere vivente: Gen 2,7 nefeš ḥayyah è un «essere vivente» perché Dio ha insufflato un
«alito di vita (nišmaḥ ḥayyîm)» e anche gli animali lo sono (Ez 47,9; Gen 1,24). In 1Re 17,21 Elia
risuscita il figlio della vedova e ritorna la nefeš in lui, perché egli non aveva più nišmaḥ (v. 17).
2. Indica l’organo del respiro, la gola per respirare (e mangiare!).
Il verbo rende anche l’idea del “rifiatarsi” (Es 31,17) e l’espressione “colpire la nefeš”, tradotta
dalla BCEI con «togliere la vita» è propriamente «tagliare la gola» (Gen 37,21).
3. Può averre anche vari significati metaforici
a. divorare, desiderare (da gola come brama)
b. anima, desiderio, sentimento (ad es. una nefeš amara, afflitta, incerta, triste, gioiosa…
c. vita in senso lato (molto frequente!) Pro 8,35; Sal 30,4; Dt 12,23; Es 21,23. Non si tratta
dell’anima contrapposta alla parte carnale-fisica, ma l’intera vita che è posta nelle mani di Dio
(Sal 16,10).
L’uomo è nefeš e non ha una nefeš distinta dal suo corpo. Alcune volte è possibile tradurre tale
termine con «vita», «persona» «sé», «individuo» (Lev 17,15 «ogni nefeš che mangia», rende chiaro
che si intende anche l’aspetto corporale), oppure anche con il pronome personale (Gen 12,5.13 «io
sia salvo» e non «la mia anima si salvi»; cfr. anche 1Sam 18,1). Interessante è comprendere come
rendere Dt 6,5 «Amerai Yhwh tuo Dio con tutto il tuo lēbab, con tutta la tua nefeš, con tutta la tua
forza».

1,21 Al posto di «e così fu» c’è la descrizione.


In questo versetto torna il verbo br’ «creare» forse perché si introducono gli esseri viventi.
ַ ‫« ֶא‬i grandi mostri marini». Il termine tannîm indica spesso i grandi esseri
‫ת־ה ַתּ ִנּינִ ם ַה ְגּד ִֹלים‬
mitologici, come in Sal 74,13; 148,7 e Is 51,9 dove ricorrono in un contesto di combattimento
mitologico. In Gn 1,21, essi sono però perdono la qualità di forze rivali contro cui combattere,
ma sono mere creature, nel senso di enormi mostri marini.

1,22 ‫�הים ֵלאמֹר‬ ִ ‫« וַ יְ ָב ֶר� א ָֹתם ֱא‬Dio li benedisse (dicendo)» - La benedizione divina consiste
esattamente in ciò che Dio pronuncia. Non si tratta di due azioni distinte (il lē’mōr può indicare
solo l’inizio del discorso diretto): ciò che Dio pronuncia diventa reale (forma performativa). La
benedizione divina è un elemento teologico unificante il libro della Genesi ricorrendo esso per
gli animali, per l’uomo, per il sabato, per Adamo, Noè, Abramo e tutti i patriarchi. La
benedizione divina è molto concreta riferendosi spesso al benessere (discendenza, salute, terra,
ricchezza…).
‫« ְפּרוּ ְוּרבוּ‬fruttificate e moltiplicatevi». È la benedizione tipica; essa verrà pronunciata anche a
Noè (9,1), ai patriarchi (17,6; 28,3; 41,52…) e a Mosè (Es 1,7). La fertilità prolunga l’attività
creatrice di Dio. Si noti che, forse, i due verbi «fruttificate e moltiplicatevi» sono stati scelti per
l’assonanza fonetica con il verbo barak «benedire» e bara’ «creare».

1,24 ‫תּוֹצא ָה ָא ֶרץ‬


ֵ ‫�הים‬ ֶ ֹ ‫« וַ יּ‬Dio disse: “la terra produca”» – Anche in questo caso l’ordine è
ִ ‫אמר ֱא‬
rivolto alla terra. Il verbo yṣ’ hif., lo stesso del v. 12, collega le opere del 6° giorno con quelle del
3° dove la terra ha prodotto la vegetazione. Sulla triplice ripartizione degli animali cfr. v. 25.

7
P. Merlo – note su Genesi 1–3

‫תוֹ־א ֶרץ‬
ֶ ְ‫« וְ ַחי‬animali selvaggi» (lett: «della terra») è una forma poetica che ricorre raramente al
posto di ‫( ַחיַּ ת ָא ֶרץ‬cfr. ‫ת־חיַּ ת ָה ָא ֶרץ‬
ַ ‫ ֶא‬v. 25, benché con articolo).

1,25 ‫ל־ר ֶמשׂ ָה ֲא ָד ָמה‬


ֶ ‫ת־ה ְבּ ֵה ָמה ְל ִמינָ הּ וְ ֵאת ָכּ‬ ַ ‫« ֶא‬Dio fece gli animali selvaggi
ַ ‫ת־חיַּ ת ָה ָא ֶרץ ְל ִמינָ הּ וְ ֶא‬
secondo la loro specie, gli animali domestici secondo la loro specie, e tutti i rettili del suolo» –
Sembra esserci contrasto col v. precedente, perché qui Dio “fa” direttamente gli esseri viventi
[sull’uso del singolare cfr. v. 11]. Gli animali sono suddivisi in tre gruppi «animali selvaggi»,
«animali domestici», «rettili». La suddivisione continua a essere riferita all’utilità dell’uomo e
non possiede intenti scientifici.
Gli animali non ricevono benedizione, al contrario degli uccelli, dei pesci (v. 22) e dell’uomo (v.
28). La spiegazione più plausibile appare quella che considera l’opera divina del 6° giorno
completa solo dopo la creazione umana e quindi la benedizione del v. 28 comprende anche
tutte le opere del 6° giorno (Westermann).

1,26 La seconda opera del 6° giorno si distingue per lunghezza e solennità.


‫« נַ ֲﬠ ֶשׂה‬facciamo». La forma plurale è sorprendente. Non si tratta di plurale maiestatis (inesistente
in ebraico con i verbi JM § 114e); non è perché ’elōhîm ha forma plurale (perché non accade mai
altrove); non è per la Trinità (è un testo ebraico). La spiegazione più plausibile è che si tratti di
un plurale deliberativo intendendo qui Dio assieme alla corte celeste (cfr. 3,22 «come uno di noi»;
11,7 «scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua»; Is 6,8 «chi andrà per noi») 3. La
spiegazione che il plurale si riferisca a Dio nel consesso della corte (angelica) celeste è nota già
da Filone alessandrino e ripresa da Rashi. [Ovviamente la tradizione cristiana ha pensato,
anacronisticamente, anche alla Trinità o a Gesù].
‫« ָא ָדם‬uomo» in senso di persona umana (Mensch). Per uomo inteso come maschio (Mann,
distinto dalla donna) l’ebraico usa il termine ’îš.
ֵ ‫« ְבּ ַצ ְל ֵמנוּ ִכּ ְד‬a nostra immagine, a nostra somiglianza». ṣelem è l’immagine figurativa, la
‫מוּתנוּ‬
statua (Ez 7,20); mentre demût è la forma astratta (-ût) derivata dalla radice *dmh «essere
simile», in senso forte, quasi che ne fosse la rappresentazione figurata (Ez 1,5.26; Is 40,18). I due
termini sono quindi quasi sinonimi (cfr. Gn 5,3 dove Adamo genera Set bidmûtô keṣalmô «a sua
immagine, a sua somiglianza» con inversione delle preposizioni!). Sul termine ṣelem, nel 1979 è
stata scoperta a Tell Fekheriye una statua del re arameo Hdys‘y con un’iscrizione bilingue
aramaico-accadica. La versione aramaica identifica la statua stessa con i termini ṣlm’ (ll. 12 e 16)
e dmwt’ (ll. 1 e 15), mentre la versione accadica sempre con ṣalmu senza distinzione. Se
seguiamo il senso del termine accadico ṣalmu, l’uomo – come la statua 4 – è la raffigurazione
fedele del modello, cioè del dio. Si noti inoltre che, alla luce di alcuni testi biblici scritti forse
nella stessa epoca dello scrittore sacerdotale (Gn 5,3; 9,6; Ez 1,5.26 «a somiglianza, come una
figura d’uomo» [demût kemar’ēh ’ādām]; 7,20; 23,15), tale somiglianza sembra includere anche una
somiglianza di tipo fisico e non solo di tipo funzionale. (Non intendo comunque negare che il
riferimento principale dell’imago Dei sia soprattutto quello del “dominio” espresso nella
seconda metà del versetto 1,26).
Per quanto riguarda le preposizioni: come intendere il ‫ ? ְבּ‬Vi sono due teorie:
1. beth normae cioè “secondo la regola; in conformità a”. È la traduzione più seguita, cioè
Dio crea l’uomo seguendo il modello celeste di Dio stesso. La LXX ha κατα.

3
Interessante il parallelo con VAT 17019 linea 8 di un testo di antropogonia accadico (pubblicato W.R. Mayer, “Ein
Mythos von der Erschaffung des Menschen und des Königs”, Or 56, 1987, 55-68) dove c’è il plurale deliberativo: ni-
ib-ni-na ṣa-lam ṭi-iṭ-ṭi «(orsù) facciamo una figura di argilla». L’idea della creazione decisa dall’assemblea degli dèi si
trova anche in CT 13 n. 14 il prologo di una tenzone tra due insetti «Quando gli dèi, riuniti in assemblea, ebbero
creato [cielo e terra], formato l’azzurro reso stabile il suolo, essi fecero spuntare gli esseri viventi…» (trad. da G.
Pettinato, Mitologia assiro-babilonese, Torino 2005, 172). Sul pluralis deliberationis cfr. anche P.D. Miller, Genesis 1-11,
Sheffield 1978 (JSOT SS 8), 9-20.
4
Nelle raffigurazioni assire del re si dice: ṣalam šarrūtīja ina maḫar ilāni rabûti ulziz «una statua del mio re davanti ai
grandi dèi ho eretto».

8
P. Merlo – note su Genesi 1–3

2. beth essentiae cioè “come immagine, statua”. È la proposta di alcuni grammatici (E. Jenni,
Die hebräischen Präpositionen, Bd. 1, 1992, 84s.), sulla base dell’idea che nel Vicino Oriente
l’immagine di Dio è il re. [Il re Tukulti Ninurta I, in contesto antropogonico, è detto ṣalam dEnlil darû
«immagine eterna del dio Enlil» (BM 121033 linea 18'). Nei testi neoassiri, ancorché fuori da un contesto
antropogonico, si trova šar kiššati ṣalam dMarduk attā «o re del mondo, tu sei l’immagine di Marduk» (SAA
8,333 linea 2' rev.) oppure šarru bēl mātāti ṣalmu ša dŠamaš šū «il re, signore del mondo, egli è l’immagine
del dio Šamaš» (SAA 10,196 linee 4-5 rev.). Cfr. A. ANGERSTORFER, Ebenbild eines Gottes in babylonischen und
assyrischen Keilschrifttexten: BN 88 (1997), 47-58.]
A livello di interpretazioni successive, i cristiani affermeranno che Cristo è immagine di Dio
(2Cor 4,4; Col. 1,15…), ma anche che l’uomo è immagine di Dio (1Cor 11,7). Non estraneo a tutto
ciò è anche l’affermazione che Gesù “si è fatto simile all’uomo”.
Il problema più grande è però comprendere il senso di tale espressione. Vi sono stati scritti
volumi interi. Riassumendo schematicamente le varie teorie abbiamo:
1. distinzione tra somiglianza naturale e sovrannaturale;
2. qualità spirituali o intelletto;
3. natura dialogica dell’uomo che si relaziona a Dio;
4. democratizzazione dell’idea vicino orientale secondo cui il sovrano rappresenta Dio;
5. uomo come immagine terrestre di Dio, cioè sua epifania sulla terra;
6. il dominio sulla natura;
7. prefigurazione di Cristo immagine di Dio.
‫« וְ יִ ְרדּוּ‬così che domini». La maggior parte degli esegeti intende in *rdh proprio il soggiogare,
sottomettere, dominare (Sal 72,8; 110,2), mentre altri esegeti sottolineano il senso di «condurre,
pascolare» (dall’acc. redû) (le due idee assieme in Ez 34,4 «pascolare con brutalità»). In ogni
caso, anche il pascolare era immagine di “governo”. Si noti comunque la differenza coi racconti
mesopotamici dove il fine della creazione dell’uomo è il lavoro e il servizio agli dèi (cf. ad
esempio Atra-ḫasīs I,190-197). Solo il re nelle iscrizioni reali è stato creato dagli dèi per il
governo dei popoli (cfr. anche W. Mayer in Or 1987, cit. parte finale).

1,27 ‫�הים ָבּ ָרא אֹתוֹ זָ ָכר ְוּנ ֵק ָבה ָבּ ָרא א ָֹתם‬


ִ ‫ת־ה ָא ָדם ְבּ ַצ ְלמוֹ ְבּ ֶצ ֶלם ֱא‬
ָ ‫�הים ֶא‬
ִ ‫וַ יִּ ְב ָרא ֱא‬
Il versetto ha una struttura (poetica) con parallelismo tri-membre:
«Dio creò l’uomo a sua immagine // a immagine di Dio lo creò // maschio e femmina li creò».
‫« ָא ָדם‬uomo» nel senso di genere umano è specificato fin dall’inizio come “maschio e femmina”.
Notare che quando parla di ‫ ָא ָדם‬si usa il suffisso singolare (‫« ָבּ ָרא אֹתוֹ‬lo creò»), mentre quando
si parla di «maschio e femmina» si usa il suffisso plurale (‫« ָבּ ָרא א ָֹתם‬li creò»). Poiché c’è
parallelismo tra “uomo” e “maschio e femmina”, questi ultimi due termini sono così la
specificazione del primo (cfr. P. Merlo, “L’immagine di Dio. Maschio e femmina in Gn 1,26-27 e nella figura di
Dio”, Anthropotes 21, 2005, 105-120).
La LXX omette «a sua immagine» per homoioarkton.

1,28 Per la benedizione, si veda commento al v. 22. Qui, a differenza che nel v. 22, c’è ‫אמר ָל ֶהם‬
ֶ ֹ ‫וַ יּ‬
«e disse loro», si esplicita una controparte capace di udire.
Dopo ‫וּבעוֹף ַה ָשּׁ ַמיִ ם‬
ְ la LXX (ma non Aquila, Simmaco e Teodozione) aggiunge καὶ πάντων τῶν
κτηνῶν «su tutto il bestiame» che in ogni probabilità è un tentativo di armonizzare il comando
del v. 26 con la presente affermazione di compimento.

1,29-30 La “dieta vegetariana” riprende forse l’idea di una originaria innocenza dove non
esistevano uccisioni. Vi sono altri testi che descrivono l’utopia del mondo paradisiaco con la
vita assieme di uomini e bestie (Is 11,2-9; Ez 34,25).
‫ל־ﬠ ֶשׂב ז ֵֹר ַ� זֶ ַרע‬ ָ ‫« ֶא‬ogni erba che dissemina seme» è resa dalla LXX con πᾶν χόρτον σπόριμον
ֵ ‫ת־כּ‬
(agg. acc. sing.) σπεῖρον (part. att. sing.) σπέρμα (sost. sing. acc.) «ogni erba seminante che
dissemina seme». La LXX probabilmente è una doppia resa di �ַ ‫( ז ֵֹר‬in vv. 11-12 c’è ‫ֵﬠ ֶשׂב ַמזְ ִר ַי� זֶ ַרע‬
con l’uso del part. hif. invece che qal).

9
P. Merlo – note su Genesi 1–3

‫י־ﬠץ ז ֵֹר ַ� זָ ַרע‬


ֵ ‫ל־ה ֵﬠץ ֲא ֶשׁר־בּוֹ ְפ ִר‬ ָ ‫« וְ ֶא‬e ogni albero nel quale c’è frutto [d’albero] che produce
ָ ‫ת־כּ‬
seme» – La frase è disturbata dalla ripetizione di «d’albero», omesso dalla LXX. La maggioranza
dei commentatori pensano che l’espansione del TM sia un errore e seguono la LXX. La
traduzione BCEI 2008 «e ogni albero fruttifero che produce seme» non mi sembra corretta
perché sono i frutti che producono seme, non gli alberi.
‫ל־ה ָא ֶרץ‬
ָ ‫רוֹמשׂ ַﬠ‬ ֵ ‫« ְוּלכֹל‬e ogni essere-strisciante sulla terra» – La LXX espande con καὶ παντὶ
ἑρπετῷ τῷ ἕρποντι ἐπὶ τῆς γῆς «e ogni rettile che è strisciante sulla terra» una reduplicazione
che appare armonizzazione con il v. 26 ‫ל־ה ָא ֶרץ‬ ָ ‫ל־ה ֶר ֶמשׂ ָהר ֵֹמשׂ ַﬠ‬ ְ .
ָ ‫וּב ָכ‬

1,31 ‫« וְ ִהנֵּ ה־טוֹב ְמאֹד‬molto buono». L’interiezione hinnēh dopo «Dio vide…» ha qui la sfumatura di
inserire il lettore nella sorpresa, nella partecipazione all’osservazione di Dio (spesso hinnēh
segue verbi di udito, vista). Il termine ṭôb ha un significato ampio (buono, bene…) e non
dovrebbe essere sottolineato troppo l’aspetto morale. L’idea è che ora veramente tutto è
funzionale, bello, in ordine.

2,1 Inizia la conclusione. C’è un cambiamento nello stile.


‫« וַ יְ ֻכלּוּ ַה ָשּׁ ַמיִ ם וְ ָה ָא ֶרץ‬Così il cielo e la terra furono compiuti» - Richiama il v. 1. Vedi commento
sopra. La resa con «così…» esprime il senso di conclusione compreso nel wayyiqtol (JM § 118i).
ְ ‫« וְ ָכ‬e tutte le loro schiere» - Anche se, alla lettera, il termine richiama l’esercito, qui si
‫ל־צ ָב ָאם‬
riferisce solitamente a tutto ciò che è contenuto in cielo (Is 40,26 sono le stelle). LXX ὁ κόσμος
αὐτῶν e Vg ornatus eorum offrendo l’idea della bellezza e grandiosità del cosmo (cfr. Dt 4,19).

2,2 ‫אכתּוֹ ֲא ֶשׁר ָﬠ ָשׂה‬ְ ‫יﬠי ְמ ַל‬


ִ ‫�הים ַבּיּוֹם ַה ְשּׁ ִב‬ִ ‫« וַ יְ ַכל ֱא‬Dio completò il settimo giorno l’opera sua che
aveva fatto». La LXX ha ἐν τῇ ἡμέρᾳ τῇ ἕκτῃ «nel sesto giorno» (così anche Sam e Sir), perché in
verità Dio al settimo giorno non compie nulla e quindi egli completò nel sesto giorno. La
variante è stata più volte discussa: alcuni autori traducono «e nel 7° giorno Dio aveva compiuto»,
ma ciò è grammaticalmente insostenibile, essendoci qui un wayyiqtol. Altri autori rendono «Dio
terminò nel 7° giorno», ma il verbo kālāh ha tale significato nel qal, non nel piel (qui è piel). La
lezione «sesto giorno» è così ovvia che appare subito come lectio facilior, l’unico dubbio può
venire dalla molteplice attestazione di tale lezione (LXX, Sam, Sir), poiché è difficile che tre
tradizioni diverse abbiano operato la medesima facilitazione. Per questo si potrebbe ipotizzare
che tale lectio facilior presente in tre tradizioni derivi da una (persa) lezione ebraica che sia la
fonte di tutte e tre.
Alcuni studiosi però, pur considerando il TM lectio difficilior, sono restii a considerarla originale
perché priva di senso (lectio absurda) e ipotizzano che sia il TM ad armonizzare con «si riposò
nel settimo giorno» del v. 2b.
L’espressione «completò l’opera sua che aveva fatta» richiama quella impiegata per indicare il
completamento della costruzione della Dimora alla fine del libro dell’Esodo (cfr. Es 40,33 «E
Mosè termino l’opera». Anche altri racconti cosmogonici vicino orientali antichi mettono in
relazione la creazione del cosmo con quella del tempio.
‫אכתּוֹ ֲא ֶשׁר ָﬠ ָשׂה‬
ְ ‫ל־מ ַל‬
ְ ‫יﬠי ִמ ָכּ‬ִ ‫« וַ יִּ ְשׁבֹּת ַבּיּוֹם ַה ְשּׁ ִב‬e cessò nel settimo giorno da ogni sua opera che
aveva fatto» - Il verbo šābat significa «smettere da» piuttosto che «riposare», il senso
«riposare» deriva dall’unione di «smettere da» con il termine «lavoro, opera» che segue.

2,3 ‫יﬠי‬
ִ ‫�הים ֶאת־יוֹם ַה ְשּׁ ִב‬ ִ ‫« וַ יְ ָב ֶר� ֱא‬e Dio benedisse il giorno del sabato». Dio fonda (miticamente)
anche l’istituzione religiosa più importante che aveva centralità nel momento in cui fu scritto il
racconto. Non si adopera il verbo «fare» o «creare» trattandosi di una istituzione religiosa-
sociale. È l’unica istituzione che viene fondata all’interno del racconto della creazione, ed è
l’unica realtà non vivente che riceve una benedizione divina.
‫« וַ יְ ַק ֵדּשׁ אֹתוֹ‬e lo santificò» - Santificare è separare, porre a parte. Il sabato non è riferito solo a
Israele, ma all’ordine cosmico stesso. Sulla santificazione del sabato cfr. Es 20,11 (redazione P)

10
P. Merlo – note su Genesi 1–3

‫אכתּוֹ‬ ְ ‫« ִכּי בוֹ ָשׁ ַבת ִמ ָכּ‬poiché in esso cessò da ogni sua opera/lavoro». Attraverso questo gioco
ְ ‫ל־מ ַל‬
di parole, si vuole fondare l’etimologia dello ‫« ַשׁ ָבּת‬sabato».

11
P. Merlo – note su Genesi 1–3

Solitamente 2,4-2,25 è interpretato come “secondo” racconto della creazione, è meglio


intenderlo come antropogonia, perché il centro d’interesse è l’uomo. Inoltre il cap. 2 si deve
leggere unitamente al cap. 3.
L’insieme 2,4–3,24 costituisce una narrazione chiusa, essendo 2,4 un chiaro “nuovo inizio”
rispetto al capitolo precedente, mentre 3,23-24 si riallaccia, tematicamente, a 2,7-8. Non
andrebbe quindi suddivisa in un racconto del paradiso (cap. 2) e un racconto della caduta (cap.
3). Questa narrazione è unitaria o duplice (Budde 1883; Bibbia di Gerusalemme - 2 racconti: 2,4b-
8.18-25 e 2,9-17. 3,1ss.)? A favore del racconto duplice vi sono alcune incongruenze narrative
come ad esempio 2,8 e 2,15 l’uomo viene posto nuovamente nel giardino; 2,6 l’acqua sale come
in una fontana, mentre 2,10-14 si descrivono 4 fiumi; 2,15 sembra riprendere il discorso di 2,9;
vi sono due alberi al centro del giardino di cui l’albero della vita appare solo all’inizio (2,9) e alla
fine (3,22.24), mentre in 3,3 sembra essercene solo uno. Tale fratture, a parte l’inserzione 2,10-
14, non andrebbero intese come segni di due fonti diverse messe insieme come dimostra J.-L.
Ska, Il cantiere del Pentateuco, EDB 2013, cap 2).
La sezione contiene anche differenze col racconto di Gn 1: non si parla più del cielo, del sole, della
luna; l’uomo è inteso qui come maschio; la sequenza creativa è qui uomo, creato, donna e
l’Uomo non è posto alla fine del processo creativo…
Solitamente attribuita al redattore (o autore) J è considerata da Wellhausen e molti altri una
narrazione antica. Recentemente Schüle, Ska (sulla base di Blenkinsopp e altri) sostengono che
sia recente. Il racconto della caduta è infatti noto solo in testi molto tardi (Sir 17,1-7; Sap 2,23-
24; Tob 8,6). Il DtIs conosce Gen 1, conosce Eden, conosce Noè (Is 54,9), ma non sembra
conoscere la storia della caduta. Ezechiele conosce il giardino di Eden (Ez 31,9; 36,35) e in 31,9
sembra conoscere il motivo della caduta dell’uomo primordiale, ma non conosce la cacciata per
colpa umana di Gen 2–3. Gen 2–3 sembra quindi essere una creazione unitaria tarda che
riutilizza elementi tradizionali e motivi letterari noti (ad es. albero della vita, caduta, Eden…).

2,4a ‫תוֹלדוֹת ַה ָשּׁ ַמיִ ם וְ ָה ָא ֶרץ‬


ְ ‫« ֵא ֶלּה‬queste sono le generazioni». La formula – generalmente
attribuita al redattore P – in questa posizione è problematica. Solitamente ricorre come
introduzione (Gn 5,1; 6,9; 10,1…), ma qui fa difficoltà. Il termine tôledôt (pl. da *yld hif.) vuol dire
letteralmente “le cose/persone generate da…” ed è seguito solitamente dal nome del
generatore, non da ciò che è stato generato. Secondo J.-L. Ska, la formula non dovrebbe quindi
significare “come furono generati cielo e terra”, ma “ciò che è stato generato da cielo e terra”.
Se tutto ciò è vero, allora la formula – redazionale – serve a unire il racconto di Gn 1,1–2,3 al
seguente, oppure, meglio, a integrare il tardo Gn 2,4–3,24 nella già esistente struttura delle
“generazioni”.

2,4b – Similmente all’interpretazione c) di Gn 1,1-3, anche qui abbiamo una premessa composta
da frasi secondarie temporali (Gn 2,4b-6: «quando Jhwh Dio…»), mentre solo nel v. 7 si giunge
alla proposizione principale con la descrizione dell’agire di Dio (frase principale, come 1,3).
L’attenzione sintattica (frase principale) è posta quindi sull’antropogonia, non sul cosmo
(sfondo temporale).
‫« ְבּיוֹם ֲﬠשׂוֹת‬Quando fece». yôm + inf. cs. è spesso usata per esprimere una frase temporale (cfr.
Waltke, O’Connor, Biblical Hebrew Sintax, 1990 § 36.2.2b). Questa modalità di iniziare il racconto
antropogonico/cosmogonico ricorda i prologhi delle composizioni antico-orientali (Enūma-eliš,
Inanna Gilgameš e gli inferi, Enki e Ninmaḫ, viaggio di Enki a Nippur, scongiuro bilingue a
Šamaš, prologo trattato di astronomia enūma An Enlil, cosmologia del sacerdote kalû. Nei testi in
sumerico si noti che spesso si usa il termine «giorno» u4 avverbialmente per rendere la frase
temporale. cfr. Bottéro-Kramer, Uomini e dèi della Mesopotamia, Einaudi 1992, 500ss; M. Bauks 1997, 211-230; C.
Wilcke, Die Anfänge der akkadischen Epen: ZA 67, 1977, 153-216; M.P. Streck, Die Prologe der sumerischen Epen: Or 71,
2002, 189-266).

12
P. Merlo – note su Genesi 1–3

‫�הים‬ ִ ‫« יְ הֹוָ ה ֱא‬Jhwh Dio». L’unione dei due nomi divini ha suscitato molto dibattito. Per alcuni era
il segno di una duplicità (J+E) della narrazione; per altri è solo una tarda aggiunta redazionale
per passare da ’Elōhîm (cap. 1) a Jhwh (cap. 4). Non c’è una spiegazione sicura, anche se sembra
essere stata una scelta consapevole. Oltre a Gen 2–3, nel TM l’unione Jhwh-’Elōhîm ricorre solo
in Es 9,30 (testo critico incerto). Notare che la LXX legge solo ὁ θεὸς in 2,4.5.7.9.21 (altrove
κύριος ὁ θεὸς).
‫« ֶא ֶרץ וְ ָשׁ ָמיִם‬terra e cielo». Merismo. LXX, Sam., Sir., Vg. invertono l’ordine: «(il) cielo e (la)
terra», armonizzazione con v. 1,1 e 2,4a.
2,5 – Le quattro frasi con formulazione negativa «non ancora» determinano il tempo in
questione. Si tratta del tempo primordiale, mitico, fuori dall’ordinario nostro contare. Qui non
si descrive il caos primordiale (contra von Rad), ma solo il situare la narrazione in un tempo
qualitativamente precedente al nostro. L’unione di «quando… non ancora…» è tipico di alcune
cosmogonie antico orientali: teogonia di Dilmun, tenzone “cereale contro bestiame minuto”,
Enūma-eliš: «Quando lassù il cielo non era (stato) ancora nominato, e quaggiù la terra non era
(stata) ancora chiamata per nome…».
�‫« ִשׂ ַי‬arbusto-cespuglio» selvatico; ‫« ֵﬠ ֶשׂב‬pianta» coltivata, ortaggio. Con questi due termini si
comprendono tutte le culture. Le piante selvatiche non sono qui la descrizione del caos-
deserto, cioè il nulla. ‫« ַה ָשּׂ ֶדה‬campo-campagna» intende sia la campagna aperta, sia il campo
coltivato.
‫ל־ה ָא ֶרץ‬
ָ ‫�הים ַﬠ‬ ִ ‫« ִכּי לֹא ִה ְמ ִטיר יְ הֹוָ ה ֱא‬perché Jhwh Dio non aveva fatto piovere sulla terra». La
pioggia è supposta già opera di Dio. L’interesse non sembra essere quello cosmogonico.
ָ ‫« וְ ָא ָדם ַאיִ ן ַל ֲﬠבֹד ֶא‬e uomo ancora non c’era per lavorare la terra». Si incontra per la
‫ת־ה ֲא ָד ָמה‬
prima volta il gioco di parole tra ’ādām e ’adāmâ. ’ādām è «uomo» nel senso di “genere umano”,
non di “maschio”. Interessante la statistica sulle ricorrenze bibliche del termine ’ādām: 46× in
Gn 1-11; mentre solo 1× Gn 12-50 (Gn 16,12); 132× in Ezechiele; 49× in Qohelet; 45× in Prov; 62× in
Salmi, negli altri libri molto meno. ’ādām è usato solo al singolare, ma significa collettivamente
«l’uomo/umanità», non ha mai suffissi, né stato costrutto; per indicare il singolo essere umano
si usa così ben-’ādām (98× in Ez). Sembra essere un termine sapienziale, amato da Ezechiele. Il
questa frase l’uomo sembra avere un rapporto forte con la terra e già si vede l’esperienza
fondamentale dell’agricoltura.

2,6 Il versetto è un po’ goffo sintatticamente. Inoltre è costruito con verbi al positivo (in
contrasto con le 4 negazioni del v. 5). Per questo motivo alcuni autori ritengono sia una
aggiunta, oppure appartenente a un’altra tradizione (Gunkel).
‫« ֵאד‬ruscello, zampillo-fonte» (?) È un vocabolo dubbio (HAL: fiume d’acque sotterranee) ricorre
solo qui e in Gb 36,27. Molte teorie, cfr. commentari (prestito accadico edû «inondazione»,
oppure dal sumerico ID «dFiume primordiale»). LXX rende πηγὴ «fonte, zampillo»; Tg rende ‘nn
«nuvola (nebbia)» che appare come una semplificazione del significato (visto il seguente verbo
‘lh «salire»); Vg fons. Se pensiamo che sia connesso con il mondo sotterraneo si potrebbe
pensare a una specie di fonte d’acqua sotterranea; in alternativa, pensando alla “nebbia”
prodotta dall’acqua, si può ipotizzare «acqua spumeggiante».

2,7 Inizia la vera creazione dell’uomo. È divisa in due azioni: formare, soffiare.
‫ת־ה ָא ָדם‬
ָ ‫�הים ֶא‬ ֶ ִ‫« וַ יּ‬allora Jhwh-Dio formò l’Uomo». Il verbo *yṣr indica il formare
ִ ‫יצר יְ הֹוָ ה ֱא‬
concreto da un materiale, è l’opera dell’artigiano (non necessariamente il vasaio – cfr. 1Re 7,15
– anche se qui forse è inteso proprio il vasaio). Nel DtIs questo verbo con Dio come soggetto si
applica anche al popolo/re: Is 42,6; 43,1; 44,2. 21. 24. [Un interessante parallelo è la creazione di
Gilgameš da parte della dea Bēlet-ilī Gilg I 47-50 dove «lei disegnò la forma del suo corpo (ṣalam pagrīšu uṣir)» come
2/3 divino e 1/3 umano Qui si adopera il verbo eṣēru e ṣalmu corrispondenti all’ebr *yṣr e ṣelem]. Da un punto di
vista teologico, il verbo sottolinea maggiormente rispetto a «fare» la volontà creativa divina e
la dipendenza della cosa creata al progetto divino.

13
P. Merlo – note su Genesi 1–3

‫« ָﬠ ָפר‬polvere», non necessariamente argilla. L’idea che l’uomo fosse fatto di polvere è idea nota
e diffusa (cf. anche Giob 33,6 «io sono stato tratto dal fango *ḥmr»; cfr. inoltre l’idea che Israele
è «come argilla in mano al vasaio» kaḥōmer beyad hayyôṣēr Ger 18,6). Per la Mesopotamia si può
trovare in Gilgameš I,102 (creazione di Enkidu da parte di Aruru ṭi-ṭa ik-ta-ri-iṣ «lei prese un
pizzico di argilla lo gettò nella steppa»), in VAT 17019 l. 14 «bēlet ilī stacco via la sua argilla» per
fare l’uomo; 5 probabilmente anche a Ugarit in KTU 1.16.V.28-30 (creazione della creatura che
guarirà Kirta, cfr. TOu I, 566 nota h). Nel racconto di Atraḫasīs l’uomo è invece fatto con un
impasto di sangue divino e argilla (cf. anche racconto bilingue della creazione KAR 4,19ss). Cosa in
concreto volesse significare l’agiografo con questa immagine è difficile dire. Alcuni,
collegandolo a Gn 3,19, pensano che qui l’autore voglia sottolineare che l’uomo è un essere
“terrestre”; altri pensano che si voglia esprimere – in modo rudimentale – l’idea che l’uomo è
composto di materia e di vitalità («alito di vita»).
‫« וַ יִּ ַפּח ְבּ ַא ָפּיו ִנ ְשׁ ַמת ַחיִּ ים‬e soffiò nelle sue narici un alito di vita» – Qui non si deve intendere che
Jhwh concede all’uomo qualcosa di divino, ma solamente che gli concede, insuffla (*npḥ) “il
respiro della vita”, è l’aria che lo rende vivo (chi respira è vivo, chi non respira è morto: Sal
104,28-29; Gn 7,22; e anche Qo 12,7 dove si descrive la morte come percorso contrario a quello
qui proposto). L’interpretazione che in questo momento Jhwh doni all’uomo carnale lo spirito
deriva da reinterpretazioni di tipo greco (Filone) o moderno. T.C. Vriezen nota che un’espressione
simile ricorre in una lettera di el-Amarna (EA 143) dove il re Ammu-nira di Beirut si rivolge al faraone con queste
parole: «Al re mio signore, mio alito vitale (šāru balāṭi)…». Qui l’espressione «alito vitale» si riferisce a colui che fa
rimanere concretamente in vita il re vassallo. Si noti che in 1,20 il sintagma nefeš ḥayyâ era stato
impiegato per i pesci. Se l’autore sacro avesse voluto esprimere in modo la presenza di una
forza divina nell’uomo forse avrebbe probabilmente adoperato il termine rûaḥ (cfr. Ez 37,5).
‫« וַ יְ ִהי ָה ָא ָדם ְלנֶ ֶפשׁ ַחיָּ ה‬e l’Uomo divenne un essere vivente» da intendere in senso generico (anche
gli animali sono esseri viventi!). In questo versetto non si accenna affanno all’esistenza di
un’anima immortale.

2,8 ‫�הים‬ ִ ‫« וַ יִּ ַטּע יְ הֹוָ ה ֱא‬allora Jhwh Dio piantò» - Alcuni (Vg plantaverat) hanno ritenuto non
corretta la sequenza narrativa “creò l’uomo, piantò un giardino, vi pose l’uomo” pensando che
il giardino dovesse essere stato creato prima dell’uomo e traducono quindi con il trapassato
«aveva piantato», ma tale resa non appare corretto in quanto non rispetta l’usuale valore
temporale del wayyiqtol. 6 5F

ְ ‫« ַגּ‬giardino in Eden», in senso più lato, «frutteto». Non si tratta di un giardino divino,
‫ן־בּ ֵﬠ ֶדן‬
poiché vi abitava l’uomo. La LXX ha tradotto con παράδεισον (dal persiano; cfr. accadico
pardesu “frutteto recintato”; in ebraico, su influsso del persiano, esiste anche il vocabolo pardēs
(Ne 2,8) dal medesimo significato) sotto l’influsso della descrizione in vv. 15-17. Questo
vocabolo ha poi avuto il senso odierno di paradiso perché ‘ēden può voler dire anche «delizia»
(Sal 36,9; cfr. Vg. paradisus voluptatis). Nel testo però, davanti al nome Eden, c’è la preposizione b
«in» (‫)בּ ֵﬠ ֶדן‬,ְ perciò Eden dovrebbe essere un toponimo (cfr. Gn 4,16). Nel v. 15 invece non ci sarà
preposizione, ma stato costrutto. Alcuni derivano il nome ‘Eden dal sumerico edin (= accadico
ēdēnu) «steppa», ma visto il contesto di rigogliosa ricchezza (cfr. anche Is 51,3; Ez 36,35) tale
derivazione è dubbia.
Interessante la statistica sul termine Eden che nella Bibbia ebraica ricorre solo in testi tardi
(soprattutto deutero-Is; Ger; Ez).
‫« ִמ ֶקּ ֶדם‬a oriente» – L’espressione non è del tutto chiara (rivolta a Oriente; presso Oriente). La Vg
rende «dai tempi antichi» (cfr. Is 45,21).

5
Il verbo karāṣu «pizzicare via» (abkneifen) l’argilla come atto di costruzione si trova anche nella cosmogonia del
sacerdote-kalû (cfr. G. Pettinato, op.cit., 2005, 181s) «Ea staccò via dall’Apsu dell’argilla: egli creò il dio-Kulla per il
restauro [del tempio?]» dEa apsî ik-ru-ṣa ṭi-ṭa [-a]…
6
In genere sulla sintassi nelle narrazioni bibliche cfr. A. Niccacci, Sintassi del verbo ebraico nella prosa biblica classica,
Jerusalem 1986; J. Joosten, The verbal System of Biblical Hebrew, Jerusalem 2012.

14
P. Merlo – note su Genesi 1–3

Il senso di questo versetto probabilmente è quello di offrire all’uomo una possibilità di


alimentazione (cfr. 1,29), non un luogo di bellezza. Non si tratta nemmeno della creazione delle
piante, alle quale il narratore non sembra affatto essere interessato (Westermann).
In merito alla questione sul fatto che gli alberi spuntino solo al v. 9 (e quindi non poteva
esistere alcun giardino al v. 8) e che tale affermazione sia ripetuta al v. 15, la soluzione migliore
è che si tratti di un “sommario prolettico” (cfr. E. Blum).

2,9 Secondo molti autori la narrazione di 2,8 si interrompe qui per riprendere in 2,18 (cf. BJ), ma
tale ipotesi non è cogente (cfr. Ska).
La presenza di due alberi al centro (invece che uno) zoppica con la logica, sullo stile – che può
apparire goffo (letteralmente: «e l’albero della vita in mezzo al giardino, e l’albero della
conoscenza del bene e del male») si osservi che in ebraico si usa spesso la “catena interrotta”,
dove una serie di sostantivi coordinati può essere interrotta da un altro elemento (cfr. Michel,
BZAW 257; esempi: «allontanate gli dèi stranieri da mezzo a voi e le Astarti» 1Sam 7,3; «la luce
maggiore per presiedere al giorno e la luce minore per presiedere alla notte e fece pure le stelle» Gn
1,16). Westermann p. 255 giustamente osserva che, sebbene le ultime parole suonino come
un’aggiunta, esse devono essere mantenute, non essendoci dubbi di critica testuale, ma al
limite solo di critica letteraria.
‫« ֵﬠץ ַה ַחיִּ ים‬albero della vita». L’albero della vita è citato nell’AT solo in Prv (11,30…); poi nel NT
in Apocalisse (2,7; 22,1-2. 14. 19 con chiaro riferimento a Genesi) [sull’albero della vita, mantiene
ancora utilità F. Vattioni, L’albero della vita: Aug 7, 1967, 133-144].
Piante (non alberi) simili sono ben note nel Vicino Oriente antico: soprattutto Gilg. XI 278 (295)
šammu niqitti / nikitti «pianta dell’irrequitezza (?) / del battito del cuore (?)» (pianta che si
chiama anche «il vecchio diventa giovane» e che gli verrà rubata dal serpente); Etana šammu ša
alādi «pianta della procreazione»; Discesa di Inanna agli inferi ll. 222ss. ú.nam.ti.la … a.nam.ti.la
«pianta della vita… bevanda della vita»; AGH 96a 5 šammu balāṭi «pianta della vita». (Idee simili
in Adapa frg. B 61'-63' akal balāṭi … mê balāṭi «cibo di vita … acqua di vita»). [Cfr. K. Watanabe,
“Lebenspendende und todbringenden Substanzen in Altmesopotamien”, in BaM 25, 1994, 579-596]
‫« וְ ֵﬠץ ַה ַדּ ַﬠת טוֹב וָ ָרע‬e l’albero della conoscenza del bene e del male» non è noto nel Vicino
Oriente antico. La coppia di termini «Bene e male» è forse da intendere come merismo, cioè
«onniscienza» (per altri è la conoscenza morale, per altri ancora è la capacità di decidere da sé,
oppure la conoscenza propria della divinità che non può essere dischiusa all’uomo come
ricorderà poi il serpente in 3,5; per le varie teorie cfr. commentari). Si noti che tutto il racconto
del cap. 3 si svilupperà intorno a questo albero e non a quello della vita (Eva in Gn 3,1 dice
«dell’albero in mezzo al giardino…» intendendo l’albero della conoscenza! In Gn 3,22 ritornano
assieme). Questa menzione dell’albero della conoscenza costituisce il tratto d’unione tra il cap.
2 e il cap. 3.

2,10-14 Molti commentatori considerano tali vv. un’inserzione perché non sembrano svolgere
alcun ruolo di rilievo nella narrazione. La serie dei wayyiqtol risulta infatti interrotta nei
versetti 10-14. Per Niccacci, Sintassi, § 19, tali vv. sarebbero l’antefatto della narrazione v. 15ss,
così come i vv. 2,5-6 erano l’antefatto della narrazione 2,7ss.
2,10 ‫אשׁים‬ִ ‫וּמ ָשּׁם יִ ָפּ ֵרד וְ ָהיָ ה ְל ַא ְר ָבּ ָﬠה ָר‬ ַ ‫« וְ נָ ָהר י ֵֹצא ֵמ ֵﬠ ֶדן ְל ַה ְשׁקוֹת ֶא‬ora un fiume usciva da Eden
ִ ‫ת־ה ָגּן‬
per irrigare il giardino, poi da lì si divideva per divenire [weqataltí] quattro corsi» – È la
descrizione del fiume primordiale (nahar) da cui derivano tutti gli altri; i quattro “fiumi” (rō’š,
origine) derivanti dal fiume primordiale, probabilmente sono in riferimento ai quattro punti
cardinali. Alcuni nomi ci sono sconosciuti (cfr. commentari). Il primo verbo participio indica
un’azione durativa, tipica dello scorrere; esso è sostituito – con più o meno il medesimo
significato – dallo yiqtol + weqataltí (JM § 121i).
2,11 ‫ – ַה ֲחוִ ָילה‬Pent. Samaritano e la LXX (Ευιλατ) omettono l’articolo (considerato da alcuni
dittografia). Letteralmente «la striscia sabbiosa» da ḥôl «sabbia» è probabilmente l’Arabia

15
P. Merlo – note su Genesi 1–3

settentrionale (1Sam 15,7), dimora di Ismaele in Gen 25,18. In antichità si diceva che dall’Arabia
proveniva l’oro (Sal 75,15).
2,13 ‫ל־א ֶרץ כּוּשׁ‬ ֵ ‫« ַה‬che circonda la terra di Cuš» – La menzione di Cuš (=Etiopia) ha dato
ֶ ‫סּוֹבב ֵאת ָכּ‬
modo di pensare che il fiume Ghicon sia da identificare col Nilo, ma tale identificazione è
incerta.
2,14 ‫ – ִח ֶדּ ֶקל‬È il Tigri (cfr. akk. idiqlat; mentre il nome italiano viene dal persiano tigrâ).

2,15 ‫ת־ה ָא ָדם‬


ָ ‫�הים ֶא‬ ִ ‫« וַ יִּ ַקּח יְ הֹוָ ה ֱא‬Allora Jhwh Dio prese l’uomo» - La LXX aggiunge ὃν ἔπλασεν
«che aveva plasmato» chiara armonizzazione con v. 8. Ritorna il wayyiqtol, tempo tipico della
narrazione e della successione degli eventi che si era interrotta dopo 2,8.
ֵ ‫« ְב ַג‬nel giardino di Eden» e non, come in precedenza, «in» Eden.
‫ן־ﬠ ֶדן‬
ְ ‫« ְל ָﬠ ְב ָדהּ‬perché lo lavorasse e lo custodisse». È l’uomo che deve coltivare il giardino
‫וּל ָשׁ ְמ ָרהּ‬
(anche se non c’è accenno alla fatica), mentre in 2,8 era Jhwh che coltivò il giardino. Anche in
questo caso l’idea di un paradiso in senso odierno è forzata. Nei miti di creazione sumerici e
accadici l’uomo è spesso creato per lavorare al posto degli dèi minori; in questi miti l’uomo
deve lavorare duramente per mantenere gli dèi con la sua fatica (Atra-ḫasīs I, 190-197;
creazione dell’uomo bilingue ll. 21ss). Qui il testo biblico non accentua la fatica del lavoro e il
lavoro che l’uomo fa sulla terra serve per l’uomo stesso. Si noti però che il verbo ‘abād «servire,
lavorare» in alcuni testi P (cfr. Nm 3,7-8; 8,26 ecc.) indica il servizio cultuale-liturgico a Dio.

2,16 Dio inizia il suo discorso con una grande liberalità (von Rad): l’uomo può mangiare da
qualsiasi albero.

2,17 La domanda sul perché Dio abbia proibito l’accesso all’albero della conoscenza del bene e
del male ha prodotto molta discussione. La domanda in sé sembra però mal posta, perché
l’intenzione dell’autore non è quella di spiegare l’agire di Dio, ma di dare motivazione della
situazione presente dell’uomo. Il motivo del divieto divino ricorda un motivo tipico delle favole
(Gunkel). Si noti che la struttura letterario-concettuale “divieto-minaccia-mitigazione della
minaccia” è presente altrove nell’AT (ad es. Caino).
‫« ִכּי ְבּיוֹם ֲא ָכ ְל� ִמ ֶמּנּוּ מוֹת ָתּמוּת‬perché quando tu ne mangiassi certamente morirai». Questa
minaccia è stata molto discussa nel suo significato. Come intendere beyôm + inf. cs. («il giorno in
cui tu ne dovessi mangiare…»)? Similmente in Es 10,28: la morte non è intesa come diretta e
immediata conseguenza del mangiare, in teoria nemmeno nello stesso giorno del mangiare.
Come intendere môt tāmût? Grammaticalmente non si può intendere né «tu diverrai mortale»,
né «tu (prima o poi) morirai». L’idea è che dopo aver mangiato, l’uomo davvero morirà (cfr.
IBHS § 35.3.1f; simile costruzione 1Re 2,37). Purtroppo, questo non si accorda con quanto poi
Dio farà: Dio rimane padrone delle sue parole (Gunkel). La logica della punizione minacciata,
ma poi mitigata da Dio è presente spesso nella Bibbia ebraica (Caino, esilio). Alcuni autori –
forse per evitare complicazioni – sostengono una resa tipo «diverrai passibile di morte» dove la
pena di morte è solo prevista, ma non applicata (Speiser, Soggin [a me però non convince
affatto]).
La LXX usa i verbi al plurale ἧ δ̓ ἂν ἡμέρᾳ φάγητε … ἀποθανεῖσθε «nel giorno in cui ne
mangiassero… morirebbero», probabilmente armonizzazione con 3,3.

2,18 La narrazione degli avvenimenti creativi riprende (da 2,8).


‫« לֹא־טוֹב ֱהיוֹת ָה ָא ָדם ְל ַבדּוֹ‬non è bene che l’uomo sia solo» - Alla lettera: «non è bene l’essere
dell’uomo nella sua solitudine», dove l’infinito cs. è soggetto della frase nominale. L’opera
creativa di Dio non è ancora compiuta (cfr. il «vide che era buono» in Gn 1). Ovviamente qui
’ādām indica l’essere umano in genere, non il nome proprio Adamo.

16
P. Merlo – note su Genesi 1–3

‫« ֶא ֱﬠ ֶשׂהּ־לּוֹ‬gli voglio fare». La LXX ποιήσωμεν e Vg faciamus hanno il plurale «vogliamo fare»
forse per concordare con Gn 1,26. Il dageš sulla ‫הּ‬, omesso da molti mss, è spiegato come “dageš
congiuntivo” dalle grammatiche.
‫« ֵﬠזֶ ר‬aiuto». Non ci si riferisce all’aiuto nel lavoro o altro, ma si fa chiaramente riferimento al
fatto che l’uomo è “solo”. Questo “aiuto, alleato” è quindi un essere paritario che possa essere
omologo all’uomo per essere con lui in compagnia; tale essere è voluto da Dio [il termine ricorre
circa 80 e spesso in senso militare, dove però è Dio che aiuta, oppure nei Salmi, dove anche è
Dio che porta aiuto a pii e poveri].
‫« ְכּנֶ ְגדּוֹ‬a lui corrispondente (?)». Difficilmente traducibile. Neged è letteralmente il «di fronte a /
dirimpetto a», quindi alla lettera è «come suo dirimpetto». Vg traduce similem sui «simile a lui»
per renderne il senso. LXX κατ̓ αὐτόν.

2,19 Il primo tentativo di creare un «aiuto» si compie con gli animali.


‫�הים‬ִ ‫« וַ יִּ ֶצר יְ הֹוָ ה ֱא‬Allora Jhwh Dio plasmò». Si usa lo stesso verbo *yṣr impiegato in 2,7 per
l’uomo. Anche gli animali, come l’uomo, sono plasmati dalla terra. LXX e Sam. aggiungono un
«anche» esplicativo.
‫ל־ה ָא ָדם‬
ָ ‫ל־חיַּ ת ַה ָשּׂ ֶדה וְ ֵאת ָכּל־עוֹף ַה ָשּׁ ַמיִ ם וַ יָּ ֵבא ֶא‬ ָ ‫« ִמ‬dalla terra tutti gli animali selvaggi e
ַ ‫ן־ה ֲא ָד ָמה ָכּ‬
tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo» – Gli animali sono condotti all’uomo, nel senso
che è l’uomo stesso che dovrà decidere quale fosse il suo aiuto.
‫« ִל ְראוֹת ַמה־יִּ ְק ָרא־לוֹ‬per vedere come li avrebbe chiamati» (il suff. sing. si riferisce al collettivo).
Dio, nonostante sia lui stesso creatore degli animali, concede all’uomo di pronunciarne il nome.
Pronunciare il nome non è tanto un segno di dominio (come molti autori sostengono), quanto
piuttosto uno stabilire il destino della cosa nominata («è un atto di creazione secondaria
ordinatrice», von Rad).

2,20 ‫וּלעוֹף ַה ָשּׁ ַמיִ ם‬ ַ ‫« וַ יִּ ְק ָרא ָה ָא ָדם ֵשׁמוֹת ְל ָכ‬Allora l’uomo impose nomi a tutto il bestiame e
ְ ‫ל־ה ְבּ ֵה ָמה‬
a <tutti> gli uccelli del cielo» – LXX, Vg, Sir, Tg inseriscono «tutti gli uccelli»: secondo alcuni si
tratterebbe di una lectio facilior per simmetria, per altri (Hendel) il TM avrebbe patito aplografia
in ‫ וּלכל‬, saltando dalla prima alla seconda ‫ל‬.
‫א־מ ָצא ֵﬠזֶ ר ְכּנֶ ְגדּוֹ‬ ְ «ma per l’uomo non si trovò un aiuto a lui corrispondente». Il risultato
ָ ֹ ‫וּל ָא ָדם ל‬
di questo primo tentativo di Dio non è stato buono: per l’uomo non si trova ancora un aiuto a
lui corrispondente, egli rimane ancora solo. Il soggetto del verbo māṣā’ non è esplicito, al limite
si potrebbe tradurre «all’uomo Egli (=Dio) non trovò…», ma l’ultimo soggetto nominato era
«uomo», mentre Dio ricorre precedentemente, al v. 19a.
Interessante osservare che nell’epopea di Gilgameš, la creatura Enkidu diverrà umano solo
dopo il contatto con la donna. Per entrambi i racconti – seppur molto diversi – l’uomo non è
veramente “umano” senza il contatto con la donna.

2,21 ‫ישׁן‬ ָ ִ‫ל־ה ָא ָדם וַ יּ‬


ָ ‫�הים ַתּ ְר ֵדּ ָמה ַﬠ‬ ִ ‫« וַ יַּ ֵפּל יְ הֹוָ ה ֱא‬Allora fece cadere un sonno profondo sull’uomo, ed
egli si addormentò». Il tardēmâ è il particolare sonno indotto da Dio, poiché l’uomo non può
vedere Dio in azione (von Rad).
‫« וַ יִּ ַקּח ַא ַחת ִמ ַצּ ְלע ָֹתיו וַ יִּ ְסגֹּר ָבּ ָשׂר ַתּ ְח ֶתּנָּ ה‬prese una delle sue costole e richiuse della carne al suo
posto» – L’immagine della donna proveniente dalla costola non sembra avere un significato
particolare, ma solo trasmettere un’antica immagine (come ad esempio quella degli eroi tratti
da una parte del corpo di un dio). Forse si può pensare che la «costola» ṣēlā’ richiami nel suo
significato il «fianco» e quindi si accenni a una certa “parità” e “vicinanza” con l’uomo.

2,22 ‫ן־ה ָא ָדם ְל ִא ָשּׁה‬


ָ ‫ר־ל ַקח ִמ‬
ָ ‫ת־ה ֵצּ ָלע ֲא ֶשׁ‬ ִ ‫« וַ יִּ ֶבן יְ הֹוָ ה ֱא‬fece/costruì». Non si usa *yṣr come invece
ַ ‫�הים ֶא‬
si usò per l’uomo. Il verbo *bnh è comunque usato spesso in accadico e ugaritico per descrivere
la creazione da parte di Dio; esso può essere quindi considerato, in questo contesto, un verbo
proprio di creazione.

17
P. Merlo – note su Genesi 1–3

2,23 L’uomo reagisce alla vista della donna con un grido di esultanza. ‫« זֹאת ַה ַפּ ַﬠם‬questa volta»
andrebbe reso in italiano con «questa volta sì che…» (J.A. Soggin) per esprimere meglio il tono
dell’espressione.
ָ ‫« ֶﬠ ֶצם ֵמ ֲﬠ ָצ ַמי‬osso delle mie ossa e carne della mia carne» è un’espressione presa
‫וּב ָשׂר ִמ ְבּ ָשׂ ִרי‬
dalla formula di fratellanza/parentela (cf. Gn 29,14; 2Sam 5,1; 19;13 ecc.) ed esprime la stretta
vicinanza (di sangue) tra le due persone.
‫« ְלזֹאת יִ ָקּ ֵרא ִא ָשּׁה ִכּי ֵמ ִאישׁ ֻל ֳק ָחה־זֹּאת‬Questa sarà chiamata donna perché da uomo questa è stata
tratta». Con l’utilizzo di ’iššâ e ’îš si ottiene un gioco di parole non traducibile in italiano.
Ovviamente la eziologia è di tipo popolare e non ha alcun valore etimologico. L’intento del
versetto non è però quello eziologico, di spiegare come è stata creata la donna, ma piuttosto di
fondare il rapporto dell’uomo con la donna. Si noti anche la struttura chiastica, poetica
dell’espressione che inizia e termina con zō’t. La LXX ἐκ τοῦ ἀνδρὸς αὐτῆς, Sam, Tg leggono «dal
suo uomo» (>‫ ) ֵמ ִאישׁהּ‬che probabilmente è armonizzazione con il v. successivo e 3,6. La
vocalizzazione di ‫( ֻל ֳק ָחה‬pual) è anomala.

2,24 ‫ת־אמּוֹ וְ ָד ַבק ְבּ ִא ְשׁתּוֹ‬


ִ ‫ת־א ִביו וְ ֶא‬
ָ ‫ב־אישׁ ֶא‬ ֵ ‫« ַﬠ‬per questo abbandonerà l’uomo suo padre e
ִ ָ‫ל־כּן יַ ֲﬠז‬
sua madre e si unirà alla sua donna» – Il narratore sembra voler offrire una conclusione sul
motivo della narrazione. È anch’essa una conclusione di carattere eziologico-fondante. È stato
proposto che questo versetto voglia fondare l’istituzione del matrimonio, ma non è sicuro;
forse si vuole dare spiegazione della elementare forza dell’amore. Il termine ’iššāh indica
generalmente la «donna», talvolta però anche la «moglie»; poiché i verbi *‘zb «abbandonare» e
*dbq «stringersi, unirsi» sono impiegati spesso anche in senso religioso con l’idea di alleanza
(«abbandonare Jhwh» Dt 29,24; 2Cr 24,20; ecc. «stringersi a Jhwh» Dt 10,20; 30,20), alcuni autori
(cfr. BCEI) preferiscono tradurre con «moglie», unendoci cioè quella sfumatura di “alleanza”
esistente nel matrimonio, anche se il contesto non lo richiede necessariamente.
‫« וְ ָהיוּ ְל ָב ָשׂר ֶא ָחד‬e saranno una carne sola» - LXX οἱ δύο, Sir, Vg aggiungono «i due» ripresa da
molte traduzioni, ma in tutta probabilità è lectio facilior armonizzante con il v. 25. La frase può
essere intesa in più modi: si parla dell’unione sessuale? Oppure si intende parlare dell’una carne
sola che sono i figli? Oppure solamente della comunanza di vita tra uomo e donna?

2,25 Questo versetto sembra essere il tratto d’unione tra la creazione dell’uomo (cap. 2) e il
racconto della caduta che seguirà. La narrazione infatti sembra aver trovato la sua conclusione
in 2,24.
In questo versetto invece si riprende a parlare di ’ādām (e non ’îš come in 2,23-24) e del giardino
(cap. 2), ma anche dell’essere nudi (cap. 3,7). L’idea che i primi uomini fossero nudi si ritrova
anche nella tenzone sumerica cereale contro bestiame minuto ll. 19-23.

3,1-7 La struttura può essere: 3,1a introduzione; 1b-5 dialogo; 6 caduta; 7 effetto della
trasgressione.
3,1 ‫« וְ ַהנָּ ָחשׁ ָהיָ ה‬il serpente era» - L’inversione sogg+verbo essere rende la frase nominale e
circostanziale, il v. 1a è l’ambientazione-antefatto al dialogo che segue (vv. 1b-5).
Il serpente è stato identificato 1) con il diavolo, il male, (cfr. Sap 2,24 φθόνῳ δὲ διαβόλου
θάνατος εἰσῆλθεν εἰς τὸν κόσμον «per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo»),
interpretazione che – sulla base anche del successivo v. 15, è ripresa dagli scritti cristiani (cfr.
Rom 16,20; Ap 12,9; 20,2); 2) con il mostro marino mitologico (Gunkel), 3) come animale
connesso con la vita e la sapienza e i culti di fertilità (Vriezen, Soggin, Loretz), 4) simbolo della
curiosità-bramosia umana (Talmud), 5) con un animale proverbialmente astuto (si trova nelle
favole, ha qui funzione eminentemente narrativa come l’asina di Balaam; Westermann).
Giuntoli ricorda il parallelo con il serpente che porta via la pianta del «vitalità» a Gilgameš che
può ben rendere l’insieme narrativo debitore della sensibilità letteraria/sapienziale
mesopotamica. In ogni caso il serpente è un animale-creatura «che Dio aveva creato» (!) e
18
P. Merlo – note su Genesi 1–3

quindi è un animale come gli altri, solo che – narrativamente – è il perturbatore della mitica
“età dell’oro” dove era stato posto l’uomo.
‫« ָﬠרוּם‬astuto» crea un gioco di parole con ‫« ֵﬠיר ֹם‬nudità» (cfr. vv. 2,25; 3,7.10). La sfumatura
negativa solitamente presupposta dal lettore non è poi del tutto certa in questo vocabolo (cfr.
Pro 12,23; 13,16; la resa dei LXX con «accorto» e Mt 10,16).
3,1b-5 - Il dialogo tra donna e serpente prende il centro della scena narrativa. Esso è creato con
grande maestria (così Gunkel): le piccole trasformazioni delle parole divine operate dal
serpente («non mangiate da nessun albero»; «non morirete affatto»…) orientano verso una
redazione consapevole e sapienziale.
‫�הים‬ ָ ‫« ַאף ִכּ‬ma davvero Dio ha detto…» l’introduzione alla domanda (’ap kî-) è colloquiale.
ִ ‫י־א ַמר ֱא‬
4QGen ha ‫ האף‬con la particella interrogativa come vorrebbe la grammatica (cfr. nota BHS), per
k

Hendel è però lectio facilior. Il serpente nomina solo ’elōhîm (forse sarebbe stato irrispettoso
nominare anche Jhwh?).

3,2-3 La donna, contrariamente al serpente, riporta (più) correttamente il comando divino:


possono mangiare tutto (‫ֹאכל‬ ַ ‫« ִמ ְפּ ִרי ֵﬠ‬del frutto dell’albero del giardino possiamo
ֵ ‫ץ־ה ָגּן נ‬
mangiare» frutto sing. è collettivo; LXXA, Sir aggiungono «tutti gli alberi»), tranne «il frutto
dell’albero che è in mezzo al giardino» che, a rigori, non può essere determinato esattamente
perché in 2,9 se ne erano posti due di alberi (anche se in 2,17 il divieto concerne solo quello
della conoscenza).
‫« וְ לֹא ִת ְגּעוּ בּוֹ‬e non toccatelo» - La donna, nel riportare il divieto di Jhwh, lo aumenta un po’
(«non mangiatene e non toccatelo»), già sentendo l’influenza della “logica” del serpente.

3,4-5 La tentazione proposta dal serpente è tipica della sapienza (cfr. l’accusa fatta da Elifaz a
Giobbe in Gb 15,7-8 «… Hai tu avuto accesso ai segreti consigli di Dio e ti sei appropriato tu solo
della sapienza?»; cfr. Ez 28,11-19 dove ricorre sia la sapienza inorgoglita, sia Eden, sia la
punizione divina). Questa vicinanza con la letteratura sapienziale offre una logica ermeneutica
a tutto il racconto e milita a sfavore di una redazione antica.
‫« וְ נִ ְפ ְקחוּ ֵﬠ ֵינ ֶיכם‬allora si aprirebbero i vostri occhi» – Dio che «apre gli occhi» esprime una
visione straordinaria, magica (cfr. Gen 21,19).
‫א�הים י ְֹד ֵﬠי טוֹב וָ ָרע‬ ֶ ִ‫« וִ ְהי‬diventerete come dèi/dio, conoscitori del bene e del male» (cfr. v. 6
ִ ‫יתם ֵכּ‬
‫« ְל ַה ְשׂ ִכּיל‬per avere discernimento»). L’espressione ricorre 4 volte (2,9.17; 3,5.22). L’aspetto
sintattico indica che si tratta di un’unica affermazione dove il «divenire come dèi» si esplicita
nell’«essere conoscitori del bene e del male» (cfr. v. 22 dove appare più chiaramente), per
questo è corretta anche la resa con «conoscendo il…». La discussione su cosa si intenda
esattamente con questa espressione è lunga: 1) merismo per “onniconoscenza”; 2) autonomia
del conoscere e decidere da sé cosa è giusto e sbagliato (von Rad, Zimmerli), dove l’enfasi è più
sul modo (conoscere il bene = obbedire a Dio; conoscere il male = disobbedire), tale conoscenza
sarebbe simile al peccato di hýbris; 3) non è una conoscenza limitata al campo morale; 4) alcuni
ipotizzano la conoscenza sessuale, di differenza di genere (Gressmann; Engnell; Soggin) che
rende l’uomo e la donna procreatori di altre vite [questa ipotesi però non tiene presente v. 6
«discernimento», né 2,24]; 5) una conoscenza sovraumana (diventerete come dèi) e “divina” di tipo
magico (Vriezen). Il motivo letterario di apportare conoscenza e nel contempo debolezza
all’uomo è un motivo mitico noto nell’AVO (Enkidu che maledice la prostituta che lo ha
umanizzato e indebolito). L’espressione ‫« ְל ַה ְשׂ ִכּיל‬per avere discernimento» non sembra fare
riferimento solo alla conoscenza morale, né solo a quella materiale, ma è la conoscenza che
porta a compimento pieno la propria vita, a saperla condurre in autonomia.
Il termine ’elōhîm è una forma fissa e può essere reso «dèi» o, più spesso, «dio», in funzione del
contesto. La LXX (θεοὶ) e la Vg (dii) hanno il plurale «dèi», mentre BCEI ha il singolare «dio».

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P. Merlo – note su Genesi 1–3

3,6 ‫« וַ ֵתּ ֶרא ָה ִא ָשּׁה ִכּי טוֹב ָה ֵﬠץ ְל ַמ ֲא ָכל‬la donna vide che l’albero era buono da mangiare» - La
tentazione in cui cade la donna non sembra dipendere da quanto precedentemente detto dal
serpente. La donna è pienamente responsabile.
‫« וְ ִכי ַת ֲאוָ ה־הוּא ָל ֵﬠינַ יִ ם וְ נֶ ְח ָמד ָה ֵﬠץ ְל ַה ְשׂ ִכּיל‬e che esso era una seduzione per gli occhi e [l’albero] era
desiderabile per avere discernimento» - La LXX e Vg omettono la seconda menzione di albero
del v. (Hendel giudica il TM esplicativo e segue la LXX). Il part. nif. da *ḥmd «era desiderabile»,
si tratta del medesimo verbo che indica la bramosia proibita in Es 20,17. Il verbo hif. *śkl è
«acquisire saggezza» (cfr. Pro 16,23). La descrizione della bramosia risponde alla ben nota
logica umana di desiderare con i propri sensi (gusto, vista, e anche intelletto) ciò che è proibito.
La tentazione non è solo quella dei sensi (poiché si dice «per avere discernimento»), ma non si
dice nemmeno che la donna vuole “divenire come Dio” (cosa precedentemente prospettata dal
serpente); è cercare di acquisire uno stato ritenuto migliore, superiore.
‫ֹאכל‬ַ ‫« וַ ִתּ ַקּח ִמ ִפּ ְריוֹ וַ תּ‬prese del suo frutto e ne mangiò» - LXX καὶ ἔφαγον e Sir hanno il plurale
«mangiarono», forse armonizzando col v. 7 «a entrambi».
‫אכל‬ַ ֹ ‫ישׁהּ ִﬠ ָמּהּ וַ יּ‬ ְ ַ‫« וַ ִתּ ֵתּן גּ‬e (ne) diede anche al suo uomo (che era) con lei, ed egli mangiò» –
ָ ‫ם־ל ִא‬
Non credo che l’intenzione dell’autore sia di dire che la donna ceda alle tentazioni prima
dell’uomo, ma forse è solo l’immagine del mutuo supporto-comunità tra i due sessi.
3,7 ‫יהם‬ ֶ ‫« וַ ִתּ ָפּ ַק ְחנָ ה ֵﬠ ֵיני ְשׁ ֵנ‬allora si aprirono gli occhi a entrambi» – 1° conseguenza è “l’apertura
degli occhi” che però non porterà a scoprire cose nuove e sapienti, ma (cfr. anche v. 10) la
propria nudità.
‫« וַ יֵּ ְדעוּ ִכּי ֵﬠ ֻיר ִמּם ֵהם‬e (ri)conobbero che essi erano nudi» – 2° conseguenza “il conoscere”. Alcuni
pensano all’avvenuta coscienza sessuale (Budde; Procksch), altri alla consapevolezza del
proprio errore-peccato (cfr. «ho avuto paura» nel v. 10), altri invece al passaggio dallo stato
primitivo a quello civile (Wellhausen; Gunkel; cfr. Enkidu nel poema di Gilgameš). Non sembra
trattarsi dunque solo di una conoscenza di qualcosa di negativo (essere nudi = aver commesso
un peccato e averne rimorso), ma anche di qualcosa di positivo offerta dalla nuova situazione di
vita in cui si trovano (cfr. «per acquisire saggezza» del v. 6). Le opinioni sono in ogni caso molto
divergenti.
‫« וַ יִּ ְת ְפּרוּ ֲﬠ ֵלה ְת ֵאנָ ה וַ יַּ ֲﬠשׂוּ ָל ֶהם ֲח ֹגר ֹת‬intrecciarono foglie di fico e se ne fecero delle cinture» – 3°
conseguenza “l’avere vergogna” (cfr. al contrario 2,25). Tale esperienza non è detta
esplicitamente, ma è accennata con l’azione. L’originaria innocenza sembra essere persa (cfr.
Enkidu), anche se allo stesso momento si progredisce acquisendo la capacità tecnica di farsi
verstiti (un po’ come il passaggio dall’età infantile a quella adulta: Gunkel). Forse si sta
alludendo al percorso compiuto dall’Uomo nella via verso la (piena) civilizzazione (cfr. 3,22 «è
divenuto come uno di noi»).

3,8-24 La struttura può essere: v. 8 nascondimento; vv. 9-13 dialogo con Dio; vv. 14-19 le tre
maledizioni; vv. 20-24 conclusione non unitaria, con i vv. 20-21 alquanto indipendenti e la
ripetizione della cacciata nei vv. 23-24. L’inizio della narrazione tematizza ciò che l’uomo «ha
fatto» (tre volte Jhwh ripete il verbo «fare»: vv. 11. 13. 14).
3,8 ‫�הים ִמ ְת ַה ֵלּ� ַבּגָּ ן‬
ִ ‫« וַ יִּ ְשׁ ְמעוּ ֶאת־קוֹל יְ הֹוָ ה ֱא‬Allora udirono il rumore di Jhwh Dio che passeggiava
nel giardino» – L’arrivo sulla scena di Dio è il segno narrativo di un nuovo punto della
narrazione. La disubbidienza concerne il rapporto Uomo-Dio: l’uomo condivide il medesimo
ambiente con Dio, il giardino, ma ora insorge in lui la vergogna e la paura (v. 10). Il termine qôl
indica qui il «rumore (compiuto dai passi)» (cfr. 1Re 14,6). Il verbo, un participio alla forma
hitp., esprime il frequentativo «passeggiare» in modo usuale; questo participio non è
attributivo, ma predicativo.
‫רוּ� ַהיּוֹם‬ ַ ‫« ְל‬al vento del giorno» – L’espressione non è immediatamente chiara. Solitamente si
intende la preposizione l- come temporale e il «vento di (ogni) giorno» indicherebbe la «brezza
della sera» (il ponentino), quando l’aria rinfresca la calura del giorno (cfr. LXX τὸ δειλινόν
«pomeriggio, sera»).

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P. Merlo – note su Genesi 1–3

‫�הים‬ ִ ‫« וַ יִּ ְת ַח ֵבּא ָה ָא ָדם וְ ִא ְשׁתּוֹ ִמ ְפּנֵ י יְ הֹוָ ה ֱא‬allora si nascose Adam e sua moglie lontano dalla presenza
di Jhwh Dio» – Il nascondersi è il centro narrativo. La copertura di foglie, una prima copertura
dalla propria nudità, non è sufficiente per presentarsi davanti a Dio.
3,9 ‫אמר לוֹ‬ ֶ ֹ ‫ל־ה ָא ָדם וַ יּ‬
ָ ‫�הים ֶא‬ ִ ‫« וַ יִּ ְק ָרא יְ הֹוָ ה ֱא‬Jhwh Dio chiamò l’uomo e gli disse».
‫« ַאיֶּ ָכּה‬Dove sei?» – La LXX Αδαμ, ποῦ εἶ e la Sir esplicitano «Adamo, dove sei?». Questa domanda
è stata posta al centro di varie interpretazioni. Esprime la perdita di una precedente relazione
continua tra dio e l’uomo? Esprime la perdita di orientamento esistenziale dell’uomo?
Le domande poste da Dio nel dialogo si rivolgono solo all’uomo e alla donna, non al serpente.
Solo la maledizione (v. 14) viene pronunciata verso il serpente (uomo e donna saranno puniti,
ma non maledetti). Questo diverso rapporto tra Dio-uomo e Dio-animale appare intenzionale.
3,10 ‫אמר ֶאת־ק ְֹל� ָשׁ ַמ ְﬠ ִתּי ַבּ ָגּן‬ ֶ ֹ ‫« וַ יּ‬rispose: “ho udito il tuo rumore nel giardino» – LXX
περιπατοῦντος ἐν τῷ παραδείσῳ aggiunge «mentre camminavi nel giardino» armonizzazione col
v. 8.
‫י־ﬠיר ֹם ָאנ ִֹכי וָ ֵא ָח ֵבא‬ ֵ ‫« וָ ִא ָירא ִכּ‬e ho avuto paura, poiché sono nudo; quindi mi sono nascosto» – Sir
legge «e ho visto» dal verbo rā’āh, invece che yāreh. In precedenza la nudità non aveva posto
problema, mentre ora è causa di disordine e vergogna, manifestatasi con la “fuga” di fronte a
Dio. Il nuovo status dell’Uomo porta con sé la paura di stare alla presenza di Dio. La paura, il
timore di Dio non è sempre un’espressione negativa (al contrario, spesso è il segno del rispetto
che il fedele ha di Dio), ma qui essa acquisisce una sfumatura chiaramente negativa dalla
motivazione «perché sono nudo».
3,11 ‫אמר ִמי ִה ִגּיד ְל� ִכּי ֵﬠיר ֹם ָא ָתּה‬ ֶ ֹ ‫« וַ יּ‬disse: “chi ti ha informato che tu sei nudo? Hai forse
mangiato…» – La domanda divina lascia la possibilità all’uomo di confessare la propria colpa.
Sembra che ora si stia come inscenando un processo che, più che un giudizio, voglia
determinare cosa effettivamente sia accaduto (anche se il lettore ne è già a conoscenza –
tecnica narrativa). LXX aggiunge καὶ εἶπεν αὐτῷ «disse a lui» (cfr. v. 10), Sir esplicita ancora di
più «disse a lui Jhwh».
3,12 ‫« ָה ִא ָשּׁה ֲא ֶשׁר נָ ַת ָתּה ִﬠ ָמּ ִדי‬la donna che tu mi hai posto affianco» – La 2° domanda divina «hai
forse mangiato…?» chiedeva una risposta del tipo sì/no; l’uomo – pur sottintendendo un sì –
cerca di allontanare da sé la colpa, indicando sia «la donna» come agente, sia Dio stesso come
responsabile di averlo messo in una situazione di tentazione.
3,13 ‫יא ִני וָ א ֵֹכל‬ ַ ‫ֹאמר ָה ִא ָשּׁה ַהנָּ ָחשׁ ִה ִשּׁ‬ ֶ ‫« וַ תּ‬Rispose la donna: “il serpente mi ha ingannato e io ho
mangiato”» – Anche la risposta della donna adotta una strategia simile alla risposta dell’uomo.
Con questa dinamica narrativa delle risposte, l’autore ripercorre a ritroso ciò che è accaduto
uomo donna serpente. Adesso ci si aspetterebbe che Dio chieda qualcosa al serpente, ma
ciò non accade, perché l’interesse è l’uomo.
3,14-19 le sentenze di condanna. Le punizioni non hanno rapporto diretto con quanto accaduto,
come nella Divina Commedia o come nella legge del taglione, ma sono di carattere
prevalentemente eziologico, volendo dare giustificazione della situazione concreta attuale
(carattere mitologico). Alcuni (Westermann) pensano che tali vv. siano aggiunti e che da 3,13
originariamente si passasse a 3,22 con la cacciata che rappresenta il vero climax della
narrazione. Questi vv., tranne il 17, sono scritti in ritmo poetico, forse riprendendo così
materiali tradizionali.
3,14 ‫וּמכֹּל ַחיַּ ת ַה ָשּׂ ֶדה‬ ִ ‫ל־ה ְבּ ֵה ָמה‬ַ ‫« ָארוּר ַא ָתּה ִמ ָכּ‬maledetto tu tra tutto il bestiame e tra tutti gli
animali selvatici» – La nota BHS, senza motivi testuali, si domanda se non sia da espungere
«tutto il bestiame», ma tale lezione è lectio difficilior e va quindi mantenuta. La formula di
maledizione è ’ārûr ’attâ; essa è seguita dalla preposizione min che indica l’allontanamento, la
separazione della persona maledetta dal gruppo.
�‫ֹאכל ָכּל־יְ ֵמי ַחיֶּ י‬ ַ ‫« ַﬠל־גְּ חֹנְ � ֵת ֵל� וְ ָﬠ ָפר תּ‬sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai tutti i giorni
della tua vita» – Ipotizzare che il serpente abbia potuto avere una precedente condizione di vita
in cui non strisciava significa non comprendere il significato mitologico, fondante del testo (il
mito giustifica il presente, non descrive cosa ci fosse prima…).

21
P. Merlo – note su Genesi 1–3

3,15 ‫וּבין ָה ִא ָשּׁה‬


ֵ � ְ‫« וְ ֵא ָיבה ָא ִשׁית ֵבּינ‬Ostilità io porrò tra te e la donna» – Il termine ‫ ֵא ָיבה‬ricorre solo
5× nella Bibbia (Nm 35,21-22; Ez 25,15; 35,5) e in Ez indica l’ostilità perpetua, dal tempo antico,
proprio come qui. Tale ostilità è quindi sentita quasi come istituzionale, senza riferimento a un
preciso atto. Sull’identità del serpente cfr. nota al v. 1.
‫שׁוּפנּוּ ָﬠ ֵקב‬
ֶ ‫שׁוּפ� רֹאשׁ וְ ַא ָתּה ְתּ‬ ְ ‫וּבין זַ ְר ָﬠהּ הוּא ְי‬ ֵ «tra il tuo seme e il suo (di lei) seme, esso ti
ֵ �‫וּבין זַ ְר ֲﬠ‬
schiaccerà la testa e tu gli insidierai il calcagno» – Per tradurre bene il passo si deve rispettare
la differenza tra maschile e femminile come in ebraico. Il pronome ‫ הוּא‬è maschile e può
riferirsi solo a ‫« זרע‬seme» = «discendenza» che in ebraico è maschile, non a «donna» che invece
è femminile. La LXX rendendo col pronome maschile αὐτός ha adottato una traduzione servile
dell’ebraico, mentre Vulg, rendendo con ipsa ha lasciato ambiguo il riferimento (donna, oppure
discendenza). Il senso di «seme» probabilmente è quello della linea dinastica in genere e non
quello di uno specifico individuo. Si noti inoltre che questa “maledizione” appare essere un
detto popolare con un gioco di parole sul verbo *šûp «colpire?» utilizzato due volte (il senso di
questo raro verbo, cfr. Gb 9,17, è discusso: alcuni pensano a due radici šwp e š’p). L’esegesi
cristiana antica (Ireneo) ha visto qui un’idea messianica di tipo cristologico o mariano
(protoevangelo), ma tale interpretazione appare un po’ forzata, perché il testo sottolinea
piuttosto la perdurante ostilità e non una vittoria. Anche il tardo giudaismo ha visto qualche
interpretazione messianica di Gen 3,15, dove il serpente assume il valore del malvagio che sarà
sconfitto dal Messia. La LXX traduce con due forme del verbo τηρέω «osservare, rispettare»,
probabilmente confondendosi.

3,16 – Il giudizio sulla donna non è una vera e propria maledizione, ma una punizione. Il ritmo è
poetico: parallelismo.
ֵ ‫« ַה ְר ָבּה ַא ְר ֶבּה ִﬠ ְצּ‬incrementerò grandemente i tuoi dolori e le tue gravidanze» – Si noti
� ֵ‫בוֹנ� וְ ֵהר ֹנ‬
sia la ripetizione della radice (inf. ass. + imperf. hif. *rbh) per intensificare, sia l’endiadi «tuoi
dolori e le tue gravidanze» che significa «dolori della gravidanza». Il termine per gravidanze
ricorre solo qui, la LXX legge τὸν στεναγμόν σου «i tuoi gemiti» che può essere confusione di
lettera, supponendo ‫( הגיונך‬o rilettura). La motivazione di tale “maledizione” appare eziologica:
più che un cambiamento nello stato della donna (da gravidanze poche e felici), si vuole
giustificare il perché della situazione presente.
‫« ְבּ ֶﬠ ֶצב ֵתּ ְל ִדי ָב ִנים‬con dolore partorirai i tuoi figli» – Anche qui appare l’eziologia.
�‫ל־בּ‬ָ ‫שׁוּק ֵת� וְ הוּא יִ ְמ ָשׁ‬ ָ ‫ישׁ� ְתּ‬ ִ ‫« וְ ֶא‬e verso il tuo uomo sarà il tuo desiderio, ma egli dominerà su di
ֵ ‫ל־א‬
te» – La frase suscita difficoltà, sia nella traduzione di tešûqâ, sia in genere, perché sembra
andare contro la pari dignità della donna con l’uomo. ‫שׁוּקה‬ ָ ‫ ְתּ‬è tradotto dalla LXX con
ἀποστροφή che disegna l’azione di rivolgersi a qualcuno [per Hendel però sarebbe confusione
con �‫ תּשׁובת‬da una radice *šûb], mentre Vg ha sub viri potestate eris [ma neoVg ad virum tuum erit
appetitus tuus]. Spesso il termine è stato interpretato come l’attrazione sessuale [così i rabbini],
ma anche come l’affetto o la destinazione (cfr. 1QM XIII,12; XV,10), cioè un movimento-
direzione espresso anche in termini di bramosia [per Ognibeni non sarebbe passione, ma
destinazione]. Sulla questione pari dignità, si deve pensare che il termine «dominare» non è
così negativo come lo intendiamo noi, ma è la normale autorità che l’uomo aveva all’epoca sulla
donna.
3,17 ‫וּל ָא ָדם ָא ַמר‬ ְ «poi disse all’uomo» – Pur rivolgendosi ora all’Uomo, non seguirà una punizione
all’uomo, ma alla terra (anche se la maledizione alla terra avrà conseguenze per l’uomo):
«poiché hai ascoltato la voce della tua donna e hai mangiato dell’albero di cui ti avevo
comandato: "Non devi mangiarne"…». Le antiche versioni leggono qui, come altrove, non
«uomo», ma «Adamo», nome proprio.
�‫בוּר‬ ֶ ‫רוּרה ָה ֲא ָד ָמה ַבּ ֲﬠ‬ ָ ‫« ֲא‬maledetta (è/sarà) la terra a causa di te» – La LXX legge ἐν τοῖς ἔργοις
σου «nei tuoi lavori», Vg in opere tuo che sottintende ‫ בעבודך‬con confusione ‫ר‬/‫( ד‬cfr. anche
8,21).

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P. Merlo – note su Genesi 1–3

�‫ֹאכ ֶלנָּ ה כֹּל יְ ֵמי ַחיֶּ י‬ֲ ‫« ְבּ ִﬠ ָצּבוֹן תּ‬con dolore tu mangerai da essa tutti i giorni della tua vita» – Il
termine «con dolore» corrisponde alla maledizione della donna al v. 16 e l’espressione «tutti i
giorni della tua vita» era già stata utilizzata in v. 14.
3,18 ‫ת־ﬠ ֶשׂב ַה ָשּׂ ֶדה‬ ֵ ‫« וְ קוֹץ וְ ַד ְר ַדּר ַתּ ְצ ִמ ַי� ָל� וְ ָא ַכ ְל ָתּ ֶא‬spine e cardi farà spuntare per te, e tu mangerai
le erbe dei campi» – Le “spine e cardi” sono l’eziologia dell’infestazione durante l’agricoltura
(cfr. parabola zizzania). Spiegazioni delle difficoltà o diminuzione della fertilità si trovano
anche nei racconti AVO (Atra-Ḫasis con le sterile, le malattie…). Anche in altri contesti sono
note maledizioni di tipo “fatica che non porta a nulla” (cfr. Tell Fekheriye), dove vi è contrasto
tra l’abbondanza di chi è benedetto e la scarsità di chi è maledetto (cfr. 2Re 6,25ss).
3,19 ‫ל־ה ֲא ָד ָמה ִכּי ִמ ֶמּנָּ ה ֻל ָקּ ְח ָתּ‬ ָ ‫ֹאכל ֶל ֶחם ַﬠד שׁ ְוּב� ֶא‬ ַ ‫« ְבּזֵ ַﬠת ַא ֶפּי� תּ‬Con il sudore della tua faccia
mangerai il cibo, finché non ritornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto» – Si riallaccia a
v. 17b. ed esprime, eziologicamente, le difficoltà dell’agricoltura. Ha una visione pessimistica in
merito al lavoro agricolo che non è visto, secondo una più consona visione del tempo, come
benedizione divina (Gunkel). Per altri (Westermann) più che pessimismo è sano realismo, visto
che al tempo l’uomo comune lavorava tutta la vita per ottenere il suo sostentamento. Notare il
gioco di parole tra ’adām e ’adāmâ [osservazioni grammatica: �‫שׁוּב‬ ְ inf. cs. + suff. ; ‫ ֻל ָקּ ְח ָתּ‬coniug.
pual o qal passivo cfr. anche 2,23 in merito alla donna].
‫ל־ﬠ ָפר ָתּשׁוּב‬ ָ ‫י־ﬠ ָפר ַא ָתּה וְ ֶא‬ ָ ‫(« ִכּ‬poiché) polvere sei tu e alla polvere ritornerai» – È un detto di tipo
sapienziale che esplicita quanto detto in precedenza. La morte non sembra essere qui una
punizione, il detto appare piuttosto come la constatazione della realtà caduca dell’uomo.
Nell’AT la morte in sé non appare mai una punizione, solo la morte prematura lo è.
3,20 ‫ל־חי‬ ָ ‫« וַ יִּ ְק ָרא ָה ָא ָדם ֵשׁם ִא ְשׁתּוֹ ַחוָּ ה ִכּי ִהוא ָהיְ ָתה ֵאם ָכּ‬l’Uomo chiamò il nome della sua donna
Ḥawwâ, poiché ella fu la madre di tutti i viventi» – Altra frase di tipo sapienziale che per molti
commentatori probabilmente aveva una sua esistenza originale indipendente dal punto dove
ora è inserita. Il nome Ḥawwâ richiama chiaramente la parola vita e la radice vivere (ḥwh/ḥyh),
anche se l’etimologia esatta è incerta. La LXX ha reso con Ζωή, mantenendo il riferimento alla
vita e non l’assonanza fonetica. Il nome dato alla donna esprime una funzione molto alta,
socialmente e religiosamente importante.
3,21 – Il fatto che Dio faccia tuniche all’uomo può richiamare l’idea dell’istituzione divina di
alcuni lavori (mito della zappa…), oppure dell’introduzione di elementi di cultura come in
Enkidu che si veste dopo essere stato “umanizzato” dalla donna. In ogni caso tali idee non
sembrano tipiche di questo racconto.
3,22 – Il v. 22 sembra collegarsi direttamente al v. 24: in entrambi i vv. infatti si parla dell’albero
della vita che era stato abbandonato in 2,9.
‫�הים ֵהן ָה ָא ָדם ָהיָ ה ְכּ ַא ַחד ִמ ֶמּנּוּ ָל ַד ַﬠת טוֹב וָ ָרע‬ ִ ‫אמר יְ הֹוָ ה ֱא‬ֶ ֹ ‫« וַ יּ‬Jhwh Dio disse: “Ecco l’uomo è divenuto
come uno di noi, conoscendo bene e male» – Torna il plurale per la persona divina (cfr. 1,26). La
costruzione con preposizione l- epesegetica + inf. cs. spiega le circostanze e si traduce bene con
un gerundio (IBHS § 36.2.3e).
‫« וְ ַﬠ ָתּה ֶפּן־ ִי ְשׁ ַלח יָ דוֹ וְ ָל ַקח גַּ ם ֵמ ֵﬠץ ַה ַחיִּ ים וְ ָא ַכל וָ ַחי ְלע ָֹלם‬ed ora non-avvenga-che egli stenda la sua
mano e prenda [ancora] dall’albero della vita e mangi e viva in eterno» - La frase è
grammaticalmente difficile. La congiunzione pen indicherebbe un divieto negativo che riguarda
il futuro (segue imprf.) e non il passato (i.e. “non avvenga più che”); al primo imprf. seguono
una serie di weqataltí. Dio sta impedendo che l’uomo prenda dall’albero della vita che, in
assoluto, non è proibito. La LXX legge καὶ λάβῃ τοῦ ξύλου τῆς ζωῆς «e prenda dell’albero della
vita…» senza “ancora”, giudicato da vari commentatori come un’aggiunta esplicativa sulla base
di 3,6.
3,23 ‫ן־ﬠ ֶדן‬ ֵ ‫�הים ִמ ַגּ‬ ִ ‫« וַ ְי ַשׁ ְלּ ֵחהוּ יְ הֹוָ ה ֱא‬e Jhwh Dio lo mandò via dal giardino di Eden» – È la punizione
vera e propria per la trasgressione. Qui il racconto tocca il punto di arrivo che si collega con
l’iniziale creazione e collocazione dell’uomo in Eden (2,8). La «cacciata» dell’Uomo avviene però
due volte (v. 23 e 24). Alcuni pensano a una duplicità di tradizioni poi unite (Stade, Gunkel,
Westermann), Ska invece sostiene l’unità.

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P. Merlo – note su Genesi 1–3

‫ת־ה ֲא ָד ָמה ֲא ֶשׁר ֻל ַקּח ִמ ָשּׁם‬ ָ ‫« ַל ֲﬠבֹד ֶא‬perché lavorasse la terra dalla quale era stato tratto» – In
questa frase il lavoro dei campi assume un valore positivo e diverso rispetto a quello di v. 19.
3,24 ‫ת־ה ָא ָדם‬ ָ ‫« וַ יְ גָ ֶרשׁ ֶא‬scacciò l’Uomo» – Il verbo piel *grš è letteralmente «scacciare via» e
amplifica, specifica quanto già era stato detto in 3,23 col parallelo *šlḥ.
‫ת־ה ְכּ ֻר ִבים וְ ֵאת ַל ַהט ַה ֶח ֶרב ַה ִמּ ְת ַה ֶפּ ֶכת‬ ֵ ַ‫« וַ יַּ ְשׁ ֵכּן ִמ ֶקּ ֶדם ְלג‬e pose, a oriente del giardino di Eden, i
ַ ‫ן־ﬠ ֶדן ֶא‬
cherubini e la fiamma folgorante della spada [=la spada dalla fiamma folgorante]» – Molti
commentatori cercano di conciliare l’affermazione di «a oriente di Eden» con 2,8 dando alla
preposizione il senso di «di fronte a Eden». I cherubini tradizionalmente visti come esseri alati
dalle funzioni di spiriti tutelari, protettori (Akk. kāribu/btu, pt. of karābu to pray, to consecrate,
bless) sono raffigurati nelle sculture neoassire come guardiani delle porte. L’arca era collocata
nel tempio protetta tra due cherubini, e così anche il trono di Jhwh «che siede sui cherubini»
(Ez 9,3; 41,18s). [A. WOOD, Of Wings and Wheels. A Synthetic Study of the Biblical Cherubim (BZAW 385), Berlin 2008].
La fiamma non sembra correlata ai cherubini poiché è preceduta dalla congiunzione «e», essa
appare così una realta a sé stante.
ֶ ‫« ִל ְשׁמֹר ֶא‬per custodire la via all’albero della vita» – Lo st. cs. «la via dell’albero» è
‫ת־דּ ֶר� ֵﬠץ ַה ַחיִּ ים‬
da intendere in funzione di “che porta a”.

PER APPROFONDIMENTI
F. GIUNTOLI, Genesi 1-11, Cinisello Balsamo 2013.
J.A. SOGGIN, Genesi 1-11, Genova 1991.
G.J. WENHAM, Genesis 1-15, Waco 1987 (WBC 1)
C. WESTERMANN, Genesis, vol. 1, Neukirchen-Vluyn 1974 (BK 1). [trad. inglese]
G. von Rad, Das erste Buch des Mose. Genesis, Göttingen 91972 [trad. ital. Genesi. Traduzione e
commento, Brescia 1978].
E. TESTA, Genesi, vol. I, Roma 1969.
W.H. SCHMIDT, Die Schöpfungsgeschichte der Priesterschrift. Zur Überlieferungsgeschichte von Genesis
1,1-2,4a und 2,4b-3,24, Neukirchen-Vluyn 21967 (WMANT 17).
A. SCHÜLE, Der Prolog der hebräischen Bibel: Der literar- und theologiegeschichtliche Diskurs der
Urgeschichte (Genesis 1–11) (AThANT 86), Zürich 2006.
J.L. SKA, “Genesis 2-3: Some Fundamental Questions”, in K. SCHMID, C. RIEDWEG (eds.), Beyond Eden.
The Biblical Story of Paradise (Genesis 2-3) and Its Reception History (FAT II/34), Tübingen 2008, 1-
27 [tradotto in SKA, Il cantiere del Pentateuco, 2013, cap 2].
O.H. STECK, Die Paradieserzählung. Eine Auslegung von Genesis 2,4b-3,24 (BSt 60), Neukirchen-Vluyn
1970.
M. WITTE, Die biblische Urgeschichte. Redaktions- und theologiegeschichtliche Beobachtungen zu Genesis
1,1-11,26 (BZAW 265), Berlin 1998.
Per il testo:
R. HENDEL, The Text of Genesis 1-11. Textual Studies and Critical Edition, New York 1998.

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