Premessa autobiografica
2
H.-J. VERWEYEN, La parola definitiva di Dio. Compendio di teologia fondamentale, Brescia 2001, 218.
3
ANGELUS SILESIUS, Il pellegrino cherubico, a cura di GIOVANNA FOZZER E MARCO VANNINI, Cinisello
Balsamo 1989, 156.
2
strinseca all’esperienza di fede), cerca di mettere in luce la specificità dell’agire
cristiano in una cultura segnata dallo scambio intersoggettivo e simbolico. “Si ri-
nunciò così alla fondazione di ragione, ma non al dibattito interno alla comunica-
zione attuale, che cerca di fondare le scelte per via argomentativa”. 4 Questo a mio
avviso risulta essere anche lo spirito della “nuova” teologia politica di Johann Bap-
tist Metz, 5 preoccupata di un’ermeneutica pratica della fede cristiana che mostra la
sua rilevanza proprio attraverso l’incidenza concreta nella storia della sua “riserva
escatologica” per un verso (giacché nella tensione verso il Regno ogni fase della
storia umana appare nella sua provvisorietà) e della “memoria sovversiva” della
passione di Gesù per altro verso. Ma in una logica analoga si può anche iscrivere il
percorso atipico di un teologo come Jean-Pierre Jossua con la sua proposta di una
“teologia letteraria”. 6 Ma questi sono soltanto due nomi fra tanti.
4
CHRISTIAN DUQUOC, voce Théologie. VII. Réflexion théologique, in Catholicisme XIV, 1042-1099, cit.
1081.
5
Cf. soprattutto: JOHANN BAPTIST METZ, La fede, nella storia e nella società. Studi per una teologia
fondamentale pratica, Brescia 1978; Sul concetto della nuova teologia politica, 1967-1997, Brescia 1998
6
Cf. la spiegazione che egli stesso dà del suo percorso intellettuale: J.-P. JOSSUA, Le combat de la
théologie, in “Con tutte le tue forze”. I nodi della fede cristiana oggi. Omaggio a Giuseppe Dossetti,
Genova 1993, 61-79.
3
lità di un fondamento (oppure, con altre metafore, di un salvatore, di un redentore,
di un liberatore e via dicendo). Nella fede si dice l’evento di Gesù di Nazaret, non
come cifra della mia esistenza, non come ipostasi di un desiderio - come potrebbe
ad esempio essere l’affermazione di Dio - ma nella sua determinatezza mediata dal-
le narrazioni cristiane: nato da donna, predicatore del regno, taumaturgo, messo a
morte sotto Ponzio Pilato. E questo evento si dice al tempo stesso, e non in un atto
secondo, come significativo per me. Non sono io inoltre a dirlo per la prima volta,
ma io lo ricevo attraverso una narrazione formulata da altri. Per ciò stesso la fede è
un evento linguistico acceso da un linguaggio che mi precede, il linguaggio della
tradizione cristiana. Già questo pone il problema della narrazione “originaria”, del
formarsi cioè di una narrazione “nuova” nella tradizione religiosa dell’umanità. Ma
qui possiamo omettere questo sviluppo.
Per comprendere, rispetto al logos specifico della fede, il logos proprio del-
la teologia, occorre anzitutto intendere il nesso tra la narrazione originaria della fe-
de e la riflessione teologica. La teologia è infatti consegnata alla narrazione della
fede. E’ la narrazione, è il fatto che si dà (l’es gibt heideggeriano) l’evento lingui-
stico della fede, il fondamento della teologia e non viceversa. La teologia manifesta
solo la grammatica profonda di quell’avvenimento linguistico. Essa è radicalmente
sapere subalternato, ma in questo svelamento della grammatica profonda della fe-
de, la teologia si serve della ragione umana: theologia fit per additionem rationis
probantis fidem. La teologia è un’attività riflessa che si costituisce aggiungendo la
ragione capace di comunicare la forza della fede. Interpretando per conto nostro la
definizione bonaventuriana, potremmo dire che la ragione “aggiunta” dalla teolo-
gia, è sempre una ragione storicamente data.
Come è risaputo Bonaventura sviluppa la sua concezione della ratio teolo-
gica sia nelle prime quattro questioni premesse al suo commento al I libro delle
Sentenze, che nel Breviloquium. Ciò che colpisce, ad esempio nel proemio al
commento delle Sentenze di Pietro Lombardo è la qualifica della ratio teologica
come semplice ratio probabilitatis. Mentre infatti ciò che viene creduto ha in sé la
ratio primae veritatis e compete all’abito di fede, e mentre le auctoritates hanno in
sé una propria ratio (ratio auctoritatis) che compete alla dottrina cristiana sulla
scrittura, per il fatto che, come dice Agostino, la sua autorità è maggiore della per-
spicacia dell’intelletto, la teologia aggiunge invece solo una rationem probabilitatis
(In I Sent. Proœm. Q 1 concl. 5.6).
Se non fosse equivoco e origine di confusioni potremmo dire che, per Bo-
naventura la ragione teologica è una ragione “debole”, dove la debolezza non sta
nella debolezza della ragione, ma nella sfasatura di questa ragione rispetto all’atto
di fede e al suo linguaggio canonico. La questione che si pone è allora quella di sa-
pere perché quest’aggiunta di ragione al logos originario della fede. La risposta,
quella che è già data con il famoso testo della 1 Pt 3, 15, è semplice: perché noi
dobbiamo essere sempre disponibili a chi ce ne chiede il motivo (e potremmo esse-
re noi stessi, l’altro che resiste dentro il soggetto credente stesso), il logos della
speranza che è in noi.
4. La ragione del teologare come traduzione della verità cristiana nella lingua
dell’altro
7
Uso in questo contesto il termine “rivelazione” tra virgolette per sottolineare, almeno qui, la necessaria
correzione della categoria di rivelazione, come viene comunemente intesa. Infatti, nonostante venga spesso
dichiarato il superamento del modello teoretico-istruttivo, poi spesso inavvertitamente resta esso il referente
effettivo del discorso e non ci si riferisce all’evento di grazia e di riconciliazione con il quale Dio si
comunica all’uomo. Altrove ho dichiarato la mia perplessità su questa categoria: La teologia della
rivelazione, a cura di D. VALENTINI, Padova 1996, pp. 81-105.
6
lazione di accoglimento assoluto che Dio ha posto nell’evento Gesù e che permette
quindi l’apertura di ogni linguaggio al sì di Dio, alla sua chiamata. Questa vocazio-
ne non è rivolta tuttavia primariamente al linguaggio in quanto approccio
dell’uomo alle cose, come strumento di cui l’uomo si serve per ordinare la realtà,
possederla, modificarla, ma al linguaggio come luogo in cui l’uomo si comunica a
se stesso, al linguaggio in quanto rivelazione dell’uomo. 8 Ogni linguaggio umano
non è cioè solo uno strumento per chiamare le cose, ma è l’unico modo possibile
perché avvenga il dirsi dell’ uomo a se stesso. Solo nel linguaggio l’uomo prende
coscienza di sé, nel momento stesso in cui mediante il linguaggio misura il suo
rapporto con le cose e con gli altri. La vocazione contenuta nel sì di Dio all’uomo
non è rivolta quindi al mezzo linguistico, ai significanti e ai significati dei vari lin-
guaggi, ma all’uomo che si dice in essi, ma non si dice mai fuori di essi o mediante
essi. Mediante il linguaggio l’uomo comunica l’essere delle cose, ma non comunica
se stesso. Nel linguaggio l’uomo comunica se stesso. La vocazione del linguaggio è
che allora l’uomo si comunichi a se stesso dicendosi a Dio. Ma questa vocazione è
una disposizione fondamentale del linguaggio umano solo perché risulta
dall’accoglimento di ogni linguaggio umano (in quanto articolazione di
un’esperienza umana) nel sì di Dio in Gesù Cristo. 9
Questa disposizione di ogni linguaggio è quella che permette, sulla base
del sì di Dio in Cristo, il percorso della traduzione (e per ciò stesso
dell’interpretazione) dell’esperienza di Gesù di Nazaret nell’esperienza e nel lin-
guaggio di fede (dai primi discepoli fino a noi, nella successione storica della te-
stimonianza), grazie all’azione dello Spirito. Questa traduzione non appartiene co-
me tale alla teologia ed equivale sostanzialmente a quella che il gergo biblico-
cristiano chiama conversione. Ma essa è anche conversione linguistica, operata se-
condo ritmi e tempi vari (sostanzialmente identici ai ritmi e ai tempi dell’esistenza),
nei linguaggi propri di ogni uomo, dal linguaggio quotidiano a quello più specializ-
zato, in cui lui esprime il suo rapporto fondamentale con le cose. Essa è per ciò
stesso la prima percezione (Wahr-nehmung) della verità di Cristo. Questa percezio-
ne della verità avviene nell’esperienza consapevole del fondamentale accoglimento
della propria alterità in Gesù Cristo e, a partire da qui, nell’esperienza dei “frutti”
8
Questa “chiamata” è qui intesa in senso molto vicino a quello sviluppato da W. Benjamin nella sua
riflessione sulla lingua pura. Cfr. W. BENJAMIN, Über Sprache überhaupt und über die Sprache des
Menschen, Gesammelte Schriften II.1, Frankfurt 1977, 140-157; Die Aufgabe des Übersetzers, ivi IV.1,
Frankfurt 1981, 9-21: trad. it. Angelus novus, Torino 1962, pp. 39-70 dalla quale traiamo le citazioni qui di
seguito. Per Benjamin la lingua è la comunicabilità stessa degli esseri spirituali. Anzi: l’essenza linguistica
delle cose è la loro lingua. E quindi: l’essenza linguistica dell’uomo è la sua lingua.. Ma la lingua dell’uomo
parla in parole. E quindi l’uomo comunica la sua essenza spirituale (in quanto essa è comunicabile) dicendo
con le parole tutte le cose, dando i nomi alle cose. In ogni lingua occorre cogliere infatti la lingua pura, la
reine Sprache. Essa, che si trova inseparabilmente in ogni lingua, è il presupposto di ogni possibile
"traduzione" e "comunicazione" da una lingua all’altra. Questa pura lingua è per Benjamin un rapporto, un
Nennen, un dire il nome, e non già una definizione dell'oggetto, una circoscrizione di significato. Ora
l’uomo non comunica il suo essere spirituale mediante i nomi che dà alle cose, bensì in essi. La concezione
per cui l’uomo mediante le parole comunichi un oggetto a un altro uomo viene respinta da Benjamin.
Questa concezione può essere applicata solo alla lingua delle cose, che si comunicano attraverso il parlare
dell’uomo, mediante il suo dare un nome alle cose. Ma nella lingua dell’uomo non esiste alcun mezzo,
alcun oggetto, alcun destinatario della comunicazione, giacché “nel nome l’essere spirituale si comunica a
Dio” (trad. it. p. 57). Ancora: “Di tutti gli esseri l’uomo è il solo che nomina egli stesso i suoi simili, come è
il solo che Dio non ha nominato” (ivi p. 62). Non mi sembra arbitrario, senza alcuna pretesa di interpretare
esattamente il suo pensiero, utilizzare alcune sue riflessioni, “piegandole” al contesto teologico della
traducibilità del linguaggio di fede.
9
Resterebbe da sviluppare in che senso questa “vocazione” si distingua o sia una sola cosa con quella
posta nella creazione la quale, per la fede cristiana, sussiste non solo nella Parola eterna di Dio, ma in
questa Parola fattasi carne, crocifissa e risorta.
7
che questo accoglimento genera nel credente, come capacità di una nuova relazio-
nalità con l’altro, con colui che De Certeau chiamava il “terzo assente”10 ,
nell’imitazione dello “scambio” operato da Gesù. E’ una conversione che è condi-
zione di conoscenza della verità di Cristo. Parafrasando i termini di Paolo in Fil 3,
10: quando l’uomo si conforma alla morte di Cristo, traduce cioè nella propria e-
sperienza il sì assoluto pronunciato sulla croce, allora “conosce il Cristo”; conosce
cioè “l’energia della sua risurrezione e la comunione con le sue sofferenze”. Infatti
attraverso la conversione del proprio linguaggio, reso omogeneo alla logica
dell’accoglimento dell’altro svelata sulla croce, questo linguaggio diventa
anch’esso accogliente, partecipa all’energia dell’evento cristologico, acquista capa-
cità di comunicazione “universale”.
Nella conversione cristiana i linguaggi si “conformano” tuttavia alla narra-
zione cristiana, traducono la verità dell’evento cristologico, secondo percorsi mol-
teplici, irriducibili a unità, proprio perché non si tratta “immediatamente” della
conversione dei significanti e dei significati in cui si articola ogni linguaggio, ma
dell’essenza linguistica dell’uomo che si dice, si comunica in essi. La verità accolta
nella conversione non determina quindi per se stessa la verità dei significati espres-
si in ogni linguaggio. Se possiamo arrischiare un esempio preciso, allora la tradu-
zione del linguaggio di fede nel linguaggio del paleontologo Teilhard de Chardin
non implica affatto un mutamento dello statuto logico del linguaggio scientifico di
Teilhard, ma di ciò che in esso può essere comunicato (non quindi mediante esso,
per usare la distinzione di Benjamin).Questo equivale a dire che la traduzione del
linguaggio di fede nel linguaggio scientifico di Teilhard non dice ancora nulla sulla
verità “scientifica” del linguaggio stesso, del linguaggio come linguaggio mediante
cui si dicono le cose. Ma la storia mostra anche altre traduzioni, più discrete, con
modalità differenti, e persino quelle che ad esempio si esprimono come consegna
del silenzio su ciò di cui non si può parlare, su ciò che non può essere detto appun-
to mediante le parole.
La “creatività” della traduzione non appartiene al teologo in quanto tale. La
teologia analizza le condizioni di possibilità della traduzione analizzando le narra-
zioni presenti nella tradizione del linguaggio cristiano, svelandone, mediante
l’impiego della ragione, la grammatica profonda, criticandone incoerenze, aprendo
possibilità. Ma essa non offre i criteri di “verità” per la traduzione. I suoi criteri,
quelli della ratio, sono sostanzialmente due: quello della coerenza con la storia del-
la narrazione stessa (ragione storica) e quello della coerenza interna del linguaggio
assunto (ragione critica, sia essa “filosofica”, sia essa “scientifica” etc.). Questa co-
erenza interna non è quella originaria del linguaggio assunto, ma è la coerenza del-
la traduzione adottata con la logica dell’evento cristologico. Non si tratta cioè di
sapere se l’esegesi che Przywara fa di Aristotele sia filologicamente corretta o me-
no e mantenga il tenore originario. Una tale verifica è legittima, ma non “interessa”
il teologo. Ma si tratta di sapere se la sua traduzione del rapporto dell’uomo con
Dio, nella metafisica dell’analogia entis, rispetti il logos dell’evento cristologico,
come lo stesso autore ha cercato di mostrare con il saggio sul commercium, scritto
decine di anni dopo il saggio sull’analogia entis. Due coerenze mostra quindi la
ratio teologica applicata a ogni traduzione: quella con la storia della tradizione nar-
rativa e quella con la logica di questa tradizione stessa.
Se la creatività della traduzione non appartiene al teologo in quanto tale,
resta non meno vero tuttavia che il teologo è un credente, ha sperimentato e speri-
10
Mi permetto di rimandare, per la precisazione della figura del “terzo assente”, cioè dell’altro sempre
diverso che non è ancora incluso nell’orizzonte dei nostri rapporti, all’interpretazione che, del pensiero di
De Certeau, ha fatto J. MOINGT, Une Théologie de l'exil, in CL. GEFFRE (éd), Michel de Certeau ou la
différence chrétienne. Actes du colloque "Michel de Certeau et le christianisme", Paris, l991, 129-156.
8
menta quotidianamente il sì del Padre, appartiene alla comunità confessante e opera
le sue traduzioni. Nella creatività della fede, il credente teologo assume quindi lin-
guaggi e rationes che svelano la fecondità della verità cristiana proprio nell’ambito
della razionalità riflessa, e non solo sul piano della razionalità immediata o della
“grammatica di superficie”. La creatività dei grandi teologi, da Origene ad Agosti-
no, da Tommaso a Cusano, da Möhler a Newman o a Barth, sta in questa simbiosi
felice tra la fede e la ratio.
5. Teologia e filosofie
Ho già accennato prima alla nuova situazione dello spirito e alla pluralità
dei linguaggi che impediscono oggi una mathesis universale. Vorrei aggiungere
tuttavia che il rifiuto di una mathesis universale, di una filosofia prima che fonda e
controlla la varietà dei linguaggi, non equivale ad un’assenza della loro istanza ve-
ritativa. Se cioè riesco a comprendere la situazione attuale dello spirito, la situazio-
ne è mutata non tanto per quanto riguarda il pluralismo delle filosofie in quanto ta-
le, ma per la collocazione dell’istanza veritativa. La filosofia è cioè solo un percor-
so accanto agli altri per raggiungere la verità. Al di là della concezione della verità
stessa presente nelle varie tendenze dello spirito contemporaneo, ciò che connota
questa situazione è l’autofondazione di ogni esperienza, del linguaggio in cui si ar-
ticola, del sapere che ne deriva. Per esperienza intendo, in modo molto simile a
quello elaborato da Richard Schaeffler,11 il dialogo stesso dell’uomo con la realtà,
un dialogo che ogni volta lascia emergere una pretesa della realtà che è determinata
dal modo in cui l’uomo si avvicina alla realtà stessa. L’esperienza artistica, quella
scientifica, quella etica, quella religiosa, quella filosofica, sono diverse modalità di
approccio alla realtà, sono esperienze diverse articolate in linguaggi diversi.
11
Anche se non riesco a condividere la sua fiducia in una riflessione trascendentale, fondamentalmente
ispirata a Kant, che possa dettare le condizioni unitarie dell’esperienza stessa. Ma per lo meno la sua è una
riflessione che prende atto della nuova situazione dello spirito: R. SCHAEFFLER, Erfahrung als Dialog mit
der Wirklichkeit. Eine Untersuchung zur Logik der Erfahrung, Freiburg-München 1995.
9
pone come il problema dei rapporti tra la teologia e le differenti istanze veritative
dell’esperienza umana. Ciò potrebbe a prima vista suonare disprezzo per l’istanza
filosofica in quanto tale giacché toglie ad essa qualsiasi privilegio. Io non lo penso,
giacché ritengo che la filosofia oggi sia chiamata per parte sua a caricarsi anch’essa
della nuova situazione dello spirito. Ma in quanto teologo non posso ricadere, nella
logica del mio teologare, sotto il pregiudizio di un’acceptio personarum, giacché
non esiste nel teologare nessuna ragione per poterlo fare.
Per quanto abbiamo già detto a proposito del rapporto di subalternità tra
fede e teologia, è evidente che questo rapporto va ricercato nel logos stesso della
fede e che la teologia, da parte sua, può solo esplicitarlo mediante l’assunzione di
ulteriori linguaggi. E qui va ribadito quanto più volte ho cercato di mostrare lungo
il percorso delle riflessione precedenti: l’evento linguistico della fede contiene già,
come suo elemento costitutivo, un rapporto tra diversi, in quanto diversi. Nella fede
infatti noi accogliamo la diversità di Gesù come realtà a cui riferire noi stessi. Più
propriamente ancora, la fede costituisce l’esperienza di un lasciarsi accogliere nella
diversità di Cristo, secondo il detto paolino: non sono io che vivo è Cristo che vive
in me. Questo rapporto tra la diversità di Gesù Cristo e la mia, nella narrazione ne-
otestamentaria dell’evento cristologico viene chiamato in modi differenti. Si usano
così le metafore del riscatto, della liberazione e via dicendo. Laddove tuttavia il
rapporto assume la sua massima intensità, per cui non c’è soltanto un operare da
parte di Cristo qualcosa nell’altro e per l’altro (riscattare, liberare etc.), e nemmeno
soltanto un generico far propria la realtà dell’altro da parte del Figlio di Dio (“di-
venne carne”, dove, se carne implica senz’altro debolezza e fragilità, non sembra
tuttavia contenere ancora per se stessa il peccato), ma la immedesimazione alla “ul-
tima” diversità dell’altro, cioè al peccato (che suppone quindi una diversità alterna-
tiva, rifiutante il rapporto stesso), allora emerge la metafora dello scambio (katalla-
ge), come avviene esemplarmente in 2 Cor 5, 17-21.
Si dirà che ancorare qui il rapporto non è legittimo, perché la diversità del-
le istanze veritative, presenti nelle esperienze diverse da quella cristiana, non può
essere configurata come negatività e tanto meno come quella forma di negatività
che nel linguaggio cristiano è espressa nel termine peccato. Ciò è senz’altro vero.
Ma è altresì vero che collocare il problema del rapporto tra due realtà diverse non
nella loro zona di prossimità, ma in quella della estrema lontananza, fa acquistare al
discorso una radicalità particolare e, soprattutto, libera il discorso dalla sua riduzio-
ne etica. Allora soltanto infatti il rapporto non esclude nulla. Nel nostro caso, non
10
solo non esclude dal rapporto di accoglimento dell’altro una filosofia “buona”, a-
perta cioè all’esperienza di fede e anzi esigitiva in qualche modo di essa, e nemme-
no una filosofia agnostica e quindi non racchiusa nella negazione, ma nemmeno la
negazione filosofica in quanto tale, a meno che essa non si autoponga “fuori”, di-
chiari cioè la propria inconciliabilità di principio con il rapporto che le viene offer-
to nell’evento cristologico.12
12
E’ ovvio che il motivo dell’accoglienza risulterebbe inaccettabile se esso si configurasse come
“condiscendenza”. Esiste a dire il vero nel linguaggio cristiano questo termine, ma esso non possiede il
significato negativo che esiste nell’uso italiano attuale, dove tutto l’accento è posto nella seconda parte e
nella terza della parola composta, nel (con-)di-scendere, e implica un atto di “degnazione” per l’altro. Ma
nel termine originario (syn-katabasis) l’accento è sulla prima particella, sul “con”, sulla comunione
stabilita. Atanasio ad esempio dice che il Verbo “si rende presente (paraginetai) con-discendendo
nell’amicizia all’uomo (synkatabainôn philanthropia) e nella manifestazione ” ( De incarnatione Verbi 8.1
(Sources chrétiennes 199), pp. 288-290). In questa interpretazione atanasiana, non solo l’accento è sul syn,
sulla comunione di amicizia che la presenza della diversità divina stabilisce, ma si evidenzia che essa non è
atto estrinseco al Logos giacché, in questa “con-discendenza”, si ha la manifestazione stessa di ciò che Dio
è, la sua “epifania”. Il motivo dell’accoglienza della diversità ultima, fino alla identificazione con la
negazione di sé ( “fece peccato per noi colui che non conosceva peccato”) non è quindi un adattamento
estrinseco a un altro, ma è proprio ciò che mette allo scoperto l’identità ultima. Non voglio qui evocare
alcuna dialettica, sia essa quella dinamica di tipo hegeliano, o quella statica di tipo kierkegaardiano, mentre
mi sembra importante rispettare e lasciare intatta l’ingenuità della narrazione primitiva.
11
Il secondo aspetto attiene a quella che prima ho chiamato la dimensione
kenotica del linguaggio cristiano: il Dio di Gesù Cristo non ha parole “proprie”, ma
assume le parole degli uomini. Questo implica l’esperienza del perdersi,
dell’attraversamento di ogni percorso storico dell’uomo nella ricerca di se stesso,
sia pure lontano da Dio. Sono sempre stato impressionato dall’interpretazione bar-
thiana della parabola del figlio prodigo. Barth introduce in quella parabola la figura
del Cristo narratore che non parla esplicitamente di se stesso, giacché scompare
completamente dietro la narrazione della vicenda tra Padre e figlio perduto e ritro-
vato. Il Figlio non è assente dagli avvenimenti raccontati nella parabola, ma è il
narratore non visto il quale “è proprio questo cammino nella lontananza di questa
esistenza umana perduta: il cammino lungo il quale si fa uguale e solidale proprio
con questo figlio perduto, mettendosi al suo posto totalmente e senza riserve, cari-
candosi del suo peccato, della sua vergogna e della sua trasgressione - come se fos-
se stato lui stesso a farla - e facendo come sua propria la sua miseria - come se fos-
se stato lui a meritarla."13 Prolungando la sua interpretazione possiamo dire non
solo che il Figlio narratore è colui che accompagna in silenzio l’allontanarsi del fi-
glio dissipatore delle sostanze ricevute. Ma possiamo altresì dire che la sua compa-
gnia non lascia mai sola la vicenda del figlio lontano, giacché la compagnia del
Figlio sop-porta l’assenza del Padre. Il Figlio narratore respinge invece il rifiuto del
figlio giusto e non lo lascia entrare in casa. Dentro la casa del Padre ha posto la
lontananza da Dio, mentre non ha posto il rifiuto dell’accoglienza.
Il rapporto allora che il teologare offre alle filosofie è quello di uno spazio
dell’accoglienza di ogni dirsi dell’uomo. E’ questo dirsi dell’uomo, come espres-
sione della sua essenza spirituale, che il teologare accoglie, nel suo insopprimibile
legame con il dire dell’uomo stesso. In quanto dirsi inscindibilmente legato ad un
dire qualcosa, ogni filosofare può diventare esplicitazione della ricchezza
dell’evento cristologico, se da parte sua accetta di collocarsi nell’orizzonte della
fede. Fino a quando non accetterà di porsi in quell’orizzonte, il suo dirsi continua
tuttavia a restare già accolto dal teologo e dal credente, perché già prima è stato ac-
colto una volta per tutte da Cristo.
Vorrei rispondere alla prima con una riflessione dettata dalla grande figura
dell’unità dei due Testamenti, ma più in generale dell’unità delle Scritture. Il Nuo-
vo Testamento, come l’evento della croce, non elimina, ma si carica della diversità
dell’Antico. Perché il canto di amore e di passione umana, che non ha mai bisogno
di nominare Dio - e il Cantico è l’unico libro della Bibbia che non contiene il nome
di Dio se non nella metafora delle “fiamme di JHWH” - può essere contenuto nel
canone delle Scritture, andando poi soggetto, lungo secoli di interpretazione rabbi-
nica e cristiana, alla “violenza” della sua interpretazione spirituale? Noi sappiamo,
proprio dal dibattito rabbinico sulla sua ammissibilità, che esso era cantato nelle ta-
verne. Il problema allora è può un canto di taverna entrare nella liturgia? E se lo
può perché lo può e a quali condizioni?
Può ancora il dubbio del Qohelet essere assunto nello spazio credente, sen-
13
Kirchliche Dogmatik IV/2, 21-25, cit a p. 23
12
za essere sciolto? La fiducia del Qohelet è che Dio ascolti il suo dubbio. Il dubbio è
portato davanti a Dio, ma il dubbio non viene mai ritirato dal Qohelet. E la que-
stione della teodicea per eccellenza, quella del rapporto tra Dio e la sofferenza
dell’innocente, perché non viene sciolta nel libro di Giobbe, come spesso non viene
sciolta - se siamo capaci di mantenere la stessa onestà intellettuale di Giobbe -
nemmeno nella nostra vita di credenti? Non si risponda che la morte di Cristo è la
risposta a queste domande e a questi dubbi. Non è la morte, ma la risurrezione di
Cristo la risposta alle domande e ai dubbi. Ma allora la vera risposta è solo la fede
nel Risorto. La vera risposta sta cioè altrove: tutto può essere mantenuto, purché sia
vissuto davanti al Dio di Gesù Cristo. Che cosa poi possa accadere quando un uo-
mo mantenga realmente tutto davanti al Dio di Gesù, quando egli accolga cioè, a
partire dal suo dirsi nel proprio dire, il rapporto che rimane eternamente offerto a
lui nel sì di Dio in Cristo, questa è la scrittura di un nuovo libro che la storia riserva
ad ognuno e che noi non possiamo prevedere.
La seconda obiezione, quella cioè che nota come noi abbiamo chiarito il
rapporto tra fede e filosofia ma non tra teologia e filosofia, può trovare una risposta
immediata qualora si ricordi quanto è stato detto sul logos della teologia. Essa è
appunto questo “chiarire”, essa non aggiunge “contenuti” nuovi quando aggiunge
ragioni alla fede, ma ne chiarisce solo la grammatica profonda, nella spiegazione
delle conseguenze dell’unico fondamento sul quale ogni teologo deve collegare le
sue rationes necessariae, cioè sulla morte di Gesù in croce.
13