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mercoledì 10 febbraio 2021

PRIMO SEMESTRE - TRINITÀ

INTRODUZIONE
1. IL SIGNIFICATO E IL LUOGO TEOLOGICO DELLA FEDE IN DIO
TRINITÀ
Il corso vuole essere praticamente un commento al credo. La nostra fede è trinitaria. Gesù non
dice di battezzare nei nomi, ma nel nome del Padre del Figlio e dello Spirito Santo. Non sono
tre dei, ma uno. Un’unità nella distinzione delle tre persone.
Siamo allora al nucleo centrale e fondativo della nostra fede. Indica anche il verso dove, il
futuro della nostra vita. Verso dove siamo diretti? La Trinità. L’essere con Cristo nel seno del
Padre, nell’unità dello SS.
Si partirà dalla rivelazione, vedendo come Lui si è rivelato, poi come si è compreso nella chiesa.
Infine vedremo come oggi la ricerca interseca le domande moderne.
Questo studio sarà teologico ma non esclude il fatto che anche altri studino Trinità (filosofia,
scienza, fisica…)

1.1 I DUE ASSERTI DELLA FEDE CRISTIANA IN DIO TRINITÀ

Se chiedi alla gente quali sono le verità fondamentali del Cristianesimo troverai i dubbi. Quasi
nessuno dirà come verità fondamentale la Trinità.
—> Il primo assetto: Dio è uno e uno solo —> monoteismo (da disambiguare) (oggi il
monoteismo non è più pacifico. Occhio che il monoteismo cristiano è diverso da islam e
ebraismo)
—> Il secondo assetto: Il nostro Dio è Unico e che come tale è Padre, Figlio e SS (non è
che prima è uno e poi si divide. L’essere Trinità non viene dopo ma connota l’unità. Il
monoteismo nostro allora è totalmente diverso da Islam e Ebraismo) (la distinzione non viene
dopo l’Unità).

1.2 I DIVERSI SIGNIFICATI DEL MONOTEISMO

Non si può usare il termine monoteismo con ingenuità, pensando che dire un solo Dio sia una
cosa uguale per tutti. Non è indifferente come intendi il termine monoteista. Coda passa in
rassegna tre distinte discipline in cui vi è il monoteismo:
- storia delle religioni,
- filosofia,
- rivelazione ebraica

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1.2.1 Secondo la storia delle religioni

Fin dagli albori, non è mai mancata nella storia sociale umana, un riferimento al sacro. La
religione è un fenomeno umano. Ogni cultura ha tematizzato in una forma un rapporto
con un essere trascendente. Nella storia delle religioni del ‘600 si conia il termine
“monoteismo” per opporre a “politeismo” (in realtà il contrario di poli è enoteismo, che vuol
dire uno, mentre si dice “mono”, che significa uno e uno solo).
Coda pone in rassegna le tendenze.
La prima prospettiva dentro la storia delle religioni, ha seguito la teoria darwiniana.
L’evoluzionismo fa passare dalle specie inferiori a superiori, e tale logica si è passata nella
religioni.
Questa teoria si scontra col fatto di dare lettura ideologica hegeliana e di non riconoscere il
coesistere di forme diverse.
Un’altra lettura dice che il monoteismo non sarebbe l’arrivo della religione, ma piuttosto
all’inizio e passerebbe per la degradazione. All’inizio di ogni religione ci sarebbe un
logos/archè, che non è stato mantenuto nella purezza.

Oltre tali due posizioni, si riconosce che ciò che ha dato inizio alle tradizioni monoteiste è
sempre stata un’irruzione del divino nella storia che si rivela ad un popolo. Quindi in
realtà la questione non è solo umana.

1.2.2 Nella filosofia greca

Si può parlare nella filosofia in senso proprio?


Si e no, più no che si… La filosofia greca nasce anche in contestazione della religione politeista
della polis. Sia Platone che Aristotele arridono, ma in realtà usano anche loro il mito. Entrambi
si scostano dal politeismo.
La ricerca dell’archè approda ad un Dio unico?
Platone arriva a porre al principio della scala ascensionale l’Uno, o il Bene, ma l’Uno Platone
vorrebbe porlo all’apice della scala, ma poi il problema della diade, dell’uno-molti rimane
irrisolto.
Aristotele di motori immobili ne ipotizza una per sfera celeste, e quindi o 47 o 55. Ci sono
molti motori immobili in Aristotele.
In entrambi manca l’unicità ma poi manca anche l’essere soggetto di Dio, l’identità
personale. Manca poi la distinzione chiara di Dio dal mondo. Il concetto di creazione poi è
nuovo del cristianesimo. La materia per i greci è eterna. Solo la creazione Permette di
capire la differenza tra dio e mondo.
I greci non arrivano al monoteismo allora perché Dio non è soggetto.

1.2.3 Nella rivelazione abramitica

È rivelata la questione. Abramo è ritenuto il padre di tutte e tre le grandi religioni. L’evento
imprevedibile della rivelazione di Dio ad Abramo inaugura un evento nuovo. Il monoteismo
biblico si afferma e manifesta nella storia e dentro la storia. Dio si rivela gradualmente

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come unico Dio nella vicenda storica di Abramo e dei patriarchi. Non sono verità
estrinseche da me da sapere, ma è dentro la storia dei patriarchi e poi mia. La storicità
entra in modo intrinseco nel monoteismo. Il monoteismo non è una teoria perché non rimane
ferma indipendentemente dalla storia di chi incontra Dio.
Caratteristiche del monoteismo rivelato:
- Dio instaura un dialogo, parla ad Abramo
- alterità di Dio rispetto al mondo. È trascendente. Non è creatura;
- gratuita prossimità all’uomo e al mondo. È trascendenza ma si prende cura. È altro ma è
prossimo;
- signoria universale su mondo e storia e nella creazione;
- nullità degli altri dei. (La consapevolezza monoteista matura piano piano)

1.2.6. Due precisazioni

Sul concetto di monoteismo


Bisogna distinguere tra unico e uno. Dio uno e unico sono due sfumature
A)
diverse.
- Unico: significa anzitutto l’esclusione di altri dei per me. Significa di
avere come unico dio Adonai. (Abramo era convinto che gli dei egizi
esistessero, ma lui confessava per se solo Adonai) È l’unico per me, ma
non esclude l’esistenza di altre divinità.
- Uno: Dio, in senso proprio può essere in sè solo uno, in senso
metafisico. A questo concetto Israele arriva dopo l’esilio
B)
Sulla logica della rivelazione del Dio Unico e Uno
Il monoteismo rivelato non è un dato di fede acquisito una volta per tutte
dall’inizio. CI vuole tempo perché si comprenda ed è un’evento che
si comprende nella rivelazione progressiva e graduale. Dio rispetta,
nel rapporto di amore, il suo partner. Al bambino non dai la bistecca, ma
il cibo adeguato alla sua capacità di nutrirsi. Se avesse detto ad Abramo
di amare per i nemici e pregare per i carnefici, sarebbe stato
incomprensibile.
“Io sono colui che sono” Esodo 3, 14.
In N.T. l’io sono, si dischiude come un fiore nell’io sono di Gesù. Gesù
dice io e il Padre siamo uno. Gesù tante volte dice “io sono… la vite, la
luce….”, e la gente si scandalizza del fatto che dice di sè “io sono”.
Dicono che bestemmia perché pretende di avere la stessa identità
personale di Dio.
Io (identità) e il Padre (alterità) siamo uno (unità). Unità e alterità
assieme.
Gesù non riafferma solo il monoteismo dei padri, ma introduce
l’interiorità della vita di Dio. Rimane il monoteismo, ma si apre dal
suo interno nella forma trinitaria.

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Ciò implica due importanti conseguenze:


—> Gesù entra a definire il volto di DIo. La sua unità e unicità non si
può più comprendere fuori dal rapporto tra Padre e Figlio nell’unità dello
SS. L’unità di Dio si comprende a partire da ciò che Gesù rivela sulla
vita interna, sul volto, di Dio. Non c’è rivelazione trinitaria s non in
Gesù. Adonai è il Padre suo e loro sono una cosa sola nella Spirito. Non
c’è teologia trinitaria senza cristologia, ma la cristologia non la
abbandoni quando arrivi alla trinitaria. Ogni discorso trinitario ha radice
cristologica e viceversa.
—> noi veniamo gratuitamente introdotti nello Spirito nel rapporto
che Gesù vive con il Padre nell’unità dello Spirito.
Gesù ci rivela la trinità, ma oltre a questo, per il fatto che noi siamo
innestati in Cristo, siamo figli nel Figlio e partecipiamo alla vita
Trinitaria. È un mistero in cui, nel battesimo, sono introdotto.
Indaghiamo un mistero in cui siamo partecipi. In noi vive già lo Spirito
del Padre e da tale partecipazione conosciamo qualcosa della Trinità.
Teologia trinitaria allora la può fare solo un battezzato. Un non-
battezzato può studiare la trinità e capirla meglio, ma non fa l’esperienza
del mistero in cui è introdotto per grazia.
Metodologicamente non si comprende la Trinità da fuori, ma solo
da dentro. La teologia è riflessione sulla fede e quindi solo nella
partecipazione piena si da appieno. La Trinità è mistero effusivo, che
vuole farsi conoscere, e che si conosce entrandoci. Non è un quadro da
ammirare ma un evento in cui entrare.
(C’è grande legame tra la Trinitaria e la partecipazione all’eucarestia,
luogo in cui assumo come chiesa la postura migliore per conoscere Dio).

Il punto 1.3 leggi da solo. Pag 42 a 46.

Poi vai a pag 7

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3. IL METODO E IL RITMO DELLA TEOLOGIA TRINITARIA


Pag 77.

Le questioni di metodo sul trattato

3.1 DALLA DISTINZIONE TRA DE DEO UNO E DE DEO TRINO AL


CRISTOCENTRISMO DELLA RIVELAZIONE

Questo paragrafo fa ripercorrere il modo in cui si è formato il trattato che studiamo e ci


soffermeremo sul ‘900.
Quando nasce il trattato sul mistero di Dio?
I trattati scolastici nascono nelle grandi summae dove tutta la teologia si affronta insieme senza
dividere in ambiti.
Nell’antichità non esisteva la divisione di oggi. La teologia in antichità si faceva per il pulpito,
per la predicazione e non per lo studio. Nel parlare di Trinità anticamente si parlava a partire
dalla scrittura e fino alla scolastica si faceva una trattazione integrale. Si usava la ragione e la
scrittura per far vedere i contenuti della fede. La ragione era usata per mostrare la
ragionevolezza di quanto affermato dalla fede.
Nella scolastica il trattato sulla Trinità si divide in due:
- de deo uno;
- de deo trino.
Due trattati separati, fatti da docenti diversi. Cosa affrontavano?
Nel de deo uno, l’unicità… era di natura filosofica, e mostrava le cose a cui arrivava da sola
la ragione su Dio. La rivelazione non entrava. Sola ragione
Nel de deo trino, a partire dalla rivelazione e dal magistero si faceva vedere come Dio
fosse Padre, Figlio e SS. Erano una lista di citazioni scritturistiche e magistrali poi
commentate.

Si perde il fatto che la Trinità rinnova il concetto di monoteismo di cui dicevamo prima. È una
scissione dolorosa. Come se la scrittura non potesse dire nulla sulla ragione. Questa era la
divisione fino al CVII.

3.1.2 Per una rilettura del De Deo di Tommaso d’Aquino

La distinzione tra de deo uno e de deo trino secondo la tradizione l’avrebbe fatta Tommaso. Lo
trovavano nella summa teologiae… noi sfateremo il mito quando si arriva a Tommaso.

3.2 L’«ASSIOMA FONDAMENTALE» DI KARL RAHNER E LA RIARTICOLAZIONE


DI “ECONOMIA” E “TEOLOGIA”

Pag. 89

La manualistica divisa crolla dopo il CVII.


Uno dei grandi a fare questo è Rahner. Lui ha proposto “assioma fondamentale”, ovvero

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l’affermazione fondamentale che va fatta per fare in modo serio teologia trinitaria. Questo è un
punto di non-ritorno per la teologia. Tutti gli autori del tempo hanno fatto una recensione a
questa dichiarazione. Rahner scoperchia il vaso di Pandora e rompe coi due trattati, facendo
crollare un’impostazione che andava avanti da secoli.
Qual è l’assioma fondamentale?
“La Trinità economica è la Trinità immanente, e viceversa”

Economico è letteralmente il modo in cui si dispone la propria casa e le proprie cose. Noi
parliamo di economia della salvezza quando intendiamo il modo in cui la Trinità ha
disposto le cose nella sua casa (mondo) e le ha portate avanti in vista dell’Alleanza. (È la
storia della salvezza. La trinità per come si mostra nella storia).
Immanente è ciò che è stabile, in sè, Dio al di là della sua relazione con il mondo.

Rahner dice che la trinità economica è quella immanente intendendo che la Trinità si è
fatta conoscere per com’è e che non si è fatta conoscere diversamente da ciò che è in sè.
Dio ha comunicato la verità di ciò che lui è in sè. Rahner aggiunge poi “VICEVERSA”. Dire
che la trinità immanente è quella economica ha scatenato molto critiche.
Preso alla lettera la formulazione manda all’aria la formulazione su Dio dei trattati classica (
de deo uno, de deo trino). Prima l’essenza era diversa dal rivelarsi. Il Dio immanente era
filosofia, mentre il dio economico era solo nella storia della salvezza. Rahner dice che il Padre
Figlio e SS non è diverso da ciò che Dio è in sè. Non si dice a noi in un modo ma poi in sè è
altro.
Sul viceversa anche noi abbiamo dei dubbi.

3.2.1 Genesi e significato (dell’assioma)

La genesi è l’irrilevanza pratica e teorica della Trinità nel vissuto cristiano e poi la separazione
tra l’aspetto soteriologico e quello rivelativo. La Pasqua era vista come evento salvifico e non
come evento in cui Dio si rivela. Non si disgiunge l’aspetto economico da quello immanente.
Da quello A)che Dio fa si capisce chi è. Rahner fa poi due esempi di due tesi teologiche fino
ad allora prese in modo pacifico. Sono punto A e punto B.

La questione dell’incarnazione
si enuncia solo. A pag 92-93.
Fino a pochi decenni fa nella teologia cattolica era data per pacifica
una tesi teologica anche se non c’era un pronunciamento del
magistero. Era tesi di Tommaso data poi per sicura. Si diceva che
“qualsiasi delle tre persone divine avrebbe potuto incarnarsi”. Di
diritto potevano incarnarsi anche le altre due anche se di fatto lo ha fatto
uno. È una tesi che dal 1200 al 1960 ritenuta vera è falsa. Se il Figlio si
incarna dice qualcosa di Dio, e che la differenza personale si palesa
nel modo di agire. Se si incarna la II persona del Figlio, ci dice
qualcosa dell’esistenza eterna del Figlio. Le creature hanno la postura

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del figlio perché si ricevono nel tempo, come il figlio che si riceve da
sempre. Nell’incarnarsi chi si incarna? Chi attraverso cui tutto è creato.

La questione delle missioni “ad extra”


Non è una tesi teologica ma dogmatica. Risale al concilio di Firenze
(1400). Quando la trinità opera ad extra (non in sè ma nel mondo) le
opere di Dio sono uno. Non è che il Padre fa una cosa, e il Figlio
B)
un’altro. È Dio che fa. È una tesi vera. Se fossero più opere avremmo
più dei. Rahner fa notare che la tesi è giusta ma fa cogliere che questa
tesi nella sua ermeneutica la teologia non l’abbia interpretata con tutte le
ricchezze (cioè che nell’opera si vede che è comunità di amore diverse
dall’operato di Allah). Il deficit trinitario porta a seguire una tesi
dogmatica giusta ma interpretandola in modo errato. Dio fa un’opera
unica, ma è un’unicità che è comunità.

3.2.2 Recezione critica e riformulazione

Le critiche al “viceversa”
A) Le critiche più feroci sono state sul viceversa. Mentre si deve dire che la
trinità economica è quella immanente non si può dire il contrario.
Ovviamente ciò che noi possiamo conoscere di giusto di Lui perché
Lui c’è l’ha rivelato non può essere tutto ciò che Dio è in sè. La nostra
conoscenza vera è finita ma Lui è infinito.
B)
La proposta della Commissione Teologica Internazionale
Lo leggiamo noi. Pag 96
Non è magistero ma è un organismo della congregazione cattolica della
fede. Luogo di teologia più importante della Santa Fede dopo il
magistero.
La CTI ha recepito la provocazione di riportare in centro alla
teologia la Trinità. Prende Rahner, ma prende le distanze dal
viceversa.

3.3 L’EVENTO PASQUALE, ATTO ESCATOLOGICO DELL’AUTOCOMUNICAZIONE


DI DIO TRINITÀ

È sempre metodologico e porta un’altro grande fulcro teologico: la messa a tema dell’evento
pasquale come auto-comunicazione di Dio.
Si dice evento e non mistero. Dice storicità. È atto escatologico, definitivo, totale della
comunicazione di sè di Dio.
Mettere al centro la Pasqua come nucleo dal quale tutto parte ha diverse motivaizioni.

3.3.1 Le ragioni e le figure


Le cause che hanno spinto il rinnovamento.
- attenzione allo svolgersi effettivo e concreto dello svolgersi della storia della rivelazione. La

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Storia ha valore nella rivelazione
- non solo la storia della rivelazione ma soprattutto la storia di Gesù. Grade spessore qui.
- il significato rivelativo della passione e morte e non solo soteriologico.

La centratura pasquale è dovuta a:


- sfida a immagine di Dio posta dalla crisi della onto-teologia e dalla crisi della morte di Dio.
Se cade la filosofia millenaria cade il volto di Dio granitico.
- l’interrogativo bruciante che veniva dalle tragedie del II° conflitto mondiale, dall’olocausto,
dal male in proporzione tale. Cade l’idea astratta e metafisica di Dio che non regge alla prova
della storia.
- Edith Stein, Chiara Lubich, Von Speir, Delbrel…. Donne che reintegrano la pasqua.

3.3.2 I guadagni e le prospettive

Fate voi… pag 104.

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PARTE BIBLICA
(Primo Testamento)
3. JHWH, IL DIO UNICO VIVO E VERO (questo super
importante)
3.1 Un sintetico sguardo diacronico
Diacronico vuol dire guardare un fenomeno nel tempo passo per passo. Sintetico è uno sguardo
che tiene per tutto per trovarne le categorie…
Coda dice un sintetico sguardo diacronico. Il monoteismo non è avvenuta di colpo. Israele
è arrivato progressivamente alla fede nel Dio unico.
Ci sono 4 grandi epoche nelle quali matura progressivamente il monoteismo ebraico.

1) da chiamata di Abramo ai Patriarchi (1850 a.c. - 1250 a.c.)


Questo primo periodo vede una fede non monoteista. Si parla di enoteismo o monolatria
(culto ad uno solo). Abramo Isacco e Giacobbe non escludono che ci siano altri dei,
ma il clan di Abramo ha come Dio JHWH.
2)
Esodo da Israele a Canaan (Jhwhismo) (1250 a.c. - )
Il Dio di Abramo manifesta a Mosè il suo nome. Per Mosè è pacifico che gli Egiziani
3)
abbiano il loro Dio, ma Mosè può chiamare Dio per nome.

Israele entra nella terra promessa e da nomade diventa sedentario (inizia monarchia
chiesta dal popolo (1050 a.c. circa)
Dal polijhwhismo al monojhwhismo. Prima si rendeva culto ad Adonai in tanti santuari
4) e luoghi di culto legati alla storia dei patriarchi. Nella monarchia si centralizza per dare
unità al regno e per questo si giunge ad adorare solo sul monte Sion, a Gerusalemme
dove viene costruito il tempio.

Dopo l’esilio Babilonese (VI secolo a.c.)


Adonai non è solo l’unico Dio per noi, ma per tutti. Gli altri dei sono legno, argento e
oro, opera delle mani dell’uomo. Adonai è l’unico creatore di tutti. Gli idoli delle altre
genti non esistono.
Si guadagna questa idea dopo l’esperienza dell’esilio. Uno conto è avere terra, un conto è
giungervi, un conto è esservi esiliati. Ma come mai l’esilio porta all’affermarsi del
monoteismo assoluto?
Nella mentalità antica tutto ciò che accade è riferito sempre come causa prima al

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divino e non esistono le cause seconde. (Es. in guerra vince chi ha le divinità più forti).
Si pensa… Adonai è più forte degli dei egiziani ma meno di quelli babilonesi. È uno
scacco religioso. Nella deportazione sorge il nucleo del profetismo che dicono che si è
andati in esilio non perché Adonai sia debole ma perché il popolo era stato infedele e
aveva peccato. Sono stati adulteri. Allontanarsi da Dio significa avvicinarsi alla
morte.
E perché è così?
Perché gli dei degli altri non esistono, e quindi non si può dire che gli dei degli altri
sono più forti, ma che allora era il popolo che era stato infedele.
Da qui si scrive Esodo e Genesi (si tramandava ma ora scrivono) (se Dio è a origine del
mondo è uno)

3.2 Il doppio livello della nominazione di Dio


C’è una fase più antica, prima che Dio consegnasse il suo nome. (Io sono colui che sono,
JHWH). Prima lo chiamavano col nome comune di Dio “EL”.
El è il corrispettivo del nome comune “dio”. El al singolare o al plurale Eloim.
Dall’esodo in poi dirà Adonai scrivendo JHWH.
MA tutti i popoli antichi dicevano “EL”. Israele per differenziare il suo dio gli accosta degli
aggettivi. Israele vuole dire l’eccellenza del proprio dio rispetto agli altri. Usano il temine
volentieri al plurale maiestatis “ELOIM”.
Alcuni aggettivi sono Dio-altissimo, Dio-onnipotente-della-montagna, dio-eterno.

Dopo Esodo, e l’indicazione del nome questa denominazione cadrà. (Il grido di Gesù di
abbandono… non dice Adonai, ma dice Eli, usa il nome generico di Dio… c’è l’esperienza di
ogni uomo lì, e non solo dei giudeo-cristiani.

3.3 Il Dio di Abramo e dei patriarchi


Qui sono condensati gli elementi centrali con cui Dio si fa conoscere progressivamente ai
patriarchi. In Abramo comincia a disvelarsi.
Sono 7 caratteristiche.
- il Dio di Abramo chiama ad uscire, a camminare nella storia, rompendo con la ciclicità
dell’ordine naturale. È un Dio che crea storia. Quando entra nella vita Abramo crea una
rottura. Da lì non sarà più la stessa cosa. La storia non è più ciclica (modo antico di vedere)
ma è aperta verso il futuro.
- È un Dio che prende l’iniziativa del dialogo. Dio parla e quindi è necessario un partner con
cui parla. Vuole relazione. Tutt’altro che ovvio che un dio avesse parlato ad un uomo.
- È un dio che promette, che si impegna per il futuro di Abramo e della discendenza.
Promette discendenza e terra ma promette anche di essere sempre con lui. (Noi abbiamo
in testa un dio che chiede, mentre nell’esperienza dei Patriarchi c’è una promessa… anche se
chiede di andare)

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- Il Dio di Abramo rimane misterioso nella storia. C’è e agisce, si fa molto vicino, ma non è
uno come te e rimane trascendente. Conserva tutta l’alterità di fronte al mondo.
- la realtà più significativa è il fatto che si rivela come persona. Si rivela come un soggetto
capace di volontà, passione e amore, al pari di un “io”. Si mostra amico dell’uomo. È il Dio
di Abramo Isacco e Giacobbe. È amico personale nostro.
- il rapporto personale con Abramo si apre ai molti. La prossimità ad Abramo deve
diventare luce per illuminare le genti. Israele è un popolo scelto per dare dio a tutti. Questo
Israele non lo ha mai mandato giù. Non ha mai avuto missionari. È un dio che vuole darsi a
tutti, effusivo e chiederebbe agli ebrei di mediare.
- la risposta adeguata al mostrarsi e al rivelarsi di Dio ad Abramo è la fede. Dio fa molto
per te e a te chiede la fede. Senza il “si” di Abramo, l’alleanza rimane potenzialità. La
rivelazione è piena quando è colta. Se non è colta non è rivelazione. Se nessuno ascolta non
c’è alcuna rivelazione. (La fede non è il tributo da pagare ma ciò che l’uomo deve fare perché
si dia il rapporto)

3.4 Mosè e la rivelazione del Nome


Qui siamo di fronte all’evento fondatore.
L’inizio è Abramo, ma il battesimo della fede di Israele è esodo (non genesi). Qui si rivela
l’origine. L’evento fondatore è l’evento in cui si crea una crepa nel tempo in cui per un
attimo si rivela il voto dell’origine.
La vicenda della consegna del nome a Mosè va inserita in tutta la vicenda dell’esodo. Il contesto
di esodo qual’è?
Il contesto di un popolo che non sa ancora di essere un popolo. Sono un clan, i discendenti di
Giacobbe. Sono gli egiziani che li vedono un popolo pericoloso perché sta aumentando di
numero. Sono schiavi. Dio interviene affidando la missione di liberare il popolo. Segue la
rivelazione, la fuga e poi l’alleanza sul monte Sinai. Una volta liberati sul monte c’è
l’alleanza tra Dio e Israele che diventa popolo proprio qui. L’alleanza sintetica è il momento
di coscienza ufficiale in cui il popolo capisce di essere tale.
Dio a Mosè dice di togliersi i sandali e poi dice che Dio ha udito il lamento, e visto la
sofferenza ed è sceso per liberarlo. L’esodo nasce da Dio che vede la sofferenza e ascolta
il suo popolo. (Ascolto è prima cosa che il verbo incarnato fa). In esodo Dio si presenta come
colui che ha ascoltato e visto e anzitutto le situazioni di sofferenza.
IL PRIMO ASPETTO DI DIO CHE ISRAELE CONOSCE NON È IL FATTO CHE DIO È CREATORE, MA
IL FATTO CHE DIO LIBERA, IN QUANTO DIO SALVA. DIO È IL LIBERATORE. COSÌ CONOSCONO
DIO. DIO SI È MANIFESTATO PER LIBERARCI. L’ESPERIENZA FONDAMENTALE È DIO CHE TI
PRENDE NELLA PARTE PIÙ BASSA IN CUI SEI E TI SALVA E LIBERA. QUESTA È LA PRIMA
ESPERIENZA. Non possiamo estrapolare la rivelazione del nome di Dio da questo contesto
vitale espereienziale e drammatico. Non è una lezione di metafisica. É dramma.
Per parlare a Mosè Dio gli chiede di togliere i calzari. Mosè si avvicina vedendo un roveto che
non brucia ed è incuriosito. C’è una condizione necessaria per ascoltare qualcosa di Dio. Non

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ci si avvicina a Dio come ad uno spettacolo interessante e da decodificare, ma ci toglie i
sandali, cioè togliere ciò che difende da un cammino che chiede di esporsi. È
l’atteggiamento di chi sa che il luogo in cui cammina e santo e non può calpestarlo.
Riconosci la grazia in cui sei, non è uno spettacolo o qualcosa da possedere.

A Mosè, Dio appare nell’angelo, nella fiamma del roveto e nella parola rivolta a a Mosè.
L’angelo del Signore è una locuzione che appare spesso in A.T.. è una locuzione per dire il
Signore. Per rispetto alla trascendenza di Dio si dice “angelo del Signore”.
Il simbolo del fuoco è simbolo della santità di Dio. Il Signore è un fuoco divoratore. Se dai
fuoco a qualcosa divora, mentre questo divora ma non consuma. Il contatto con Dio fa ardere
ma non brucia.
È un fuoco che parla dopo che si è fatto vedere in un segno, ma dopo che Lui ha udito.

—————

I racconti di vocazione di solito nella Bibbia hanno un cliché. Mosè è chiamato in modo
diverso da tutte le altre vocazioni..
- iniziativa di Dio
- il chiamato risponde con un’obiezione
- Dio risponde con la sua assistenza. Ti sembra troppo? Tranquillo, sarà con te.
- missione, il mandato
- un segno di conferma (non sempre c’è ma spesso).
Anche Mosè segue questo schema ma nel caso di Mosè non c’è un’obiezione ma 5. È un
tira e molla in cui il chiamato pone tantissime obiezioni. Ogni volta Dio risponde donando
qualcosa di rivelativo di sè. L’eccezione della rivelazione dice la straordinarietà della missione.

Mosè ha 5 obiezioni:
- chi sono io per andare davanti al faraone?
(Problemi su sè. Mosè è un assassino scappato che è wanted. É uno che nonna radici, che non
ha pace, che si sente un apolide, un senza casa)
- chi sei tu?
(Incerto sono io, ma qual è il tuo nome… il primo problema è l’io, ma poi dio)
- essi non mi crederanno!
(Obiezione su sè, poi Dio, poi altri). Se non crederanno non vale la pena.
- non posso parlare
(era balbuziente, incapace di fare l’oratore, e il Signore gli risponde consegnandogli un fratello,
Aronne, che parli per lui) (“il fratello per me sarà bocca e il fratello per me sarà dio, potenza
efficace di Dio accanto a me”)
- ti prego, manda un altro
(Il Signore dice “no, voglio te”. Il Signore vuole operare la salvezza con uno strumento
inadatto).

Questo è il contesto.
La rivelazione del nome vuol essere sia etimologica che teologica. Il nome di Dio,

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“JHWH” (eie) è legato al verbo “AIA” che è essere, simile al verbo “HAIA” che significa
vivere, esistere, mostrarsi, operare. “EIE” mettere insieme vivere ed essere. Per gli ebrei
qualcosa è perché è vivo. Che qualcuno “è” vuol dire che è vivo e si mostra, non ci sono
le categorie metafisica. “Io sono” significa io sono vivo, mi mostro, opero.
Sembra allora che JHWH si da tradurre con “egli è”… è un Dio che è all’opera ed è sceso per
liberare. Egli è vivo è presente e si mostra efficace.
“Io sono colui che io sono” diventa “egli è” quando di lui si parla in terza persona.

Nella fase più antica gli ebrei dicevano il nome ma nella fase maccabaica per rispetto
smettono di dire JHWH e iniziano a leggere Adonai.
La Bibbia dei ’70 usa il termine greco Kyryos.
L’ebraico antico non ha le vocali. Il fatto che per tanto tempo non si è detto ha portato a non
sapere più come fosse da pronunciare. I masoreti hanno preso le vocali di Adonai e lo hanno
messo su JHWH e se ne esce Geova. Ma i masoreti non sapevano come pronunciare. La
pronuncia autentica con tutta probabilità è quella conservata dai samaritani e in altre
zone antiche ed è JhWh.
Benedetto XVI dice che i cristiani mai hanno usato il nome JHWH per riferirsi a Dio.

3.4.3 «Questo è il mio nome per sempre»

A. La traduzione dei LXX e la «metafisica dell’esodo»


Quando accostiamo “io sono colui che sono” lo facciamo a partire dalla Bibbia dei
’70, in una mediazione che pur non essendo fuorviante si allontana dal significato
specifico ebraico.
Io sono colui che sono ha preso valenza molto metafisica. Il greco dei ’70 ha
tradotto ego eimi ohon (io sono l’essente). Letteralmente avrebbe dovuto
essere ego eimi ego.
Io sono l’essente diventa in latino ego sum qui est.
L’io del primo io sono diventa un predicato del secondo participio. “Io sono
l’essente” o “io sono coli che è” hanno fatto leggere nei padri della chiesa che la
rivelazione avrebbe detto in modo chiaro ciò che la filosofia aveva detto un
po’. Dio allora è l’essere per eccellenza.
“Io sono colui che io sono” può avere valenza metafisica? Certo! Dio
B.
chiaramente è l’essere perfetto in sè e non ha bisogno d’altri, ma questo non è
quello che Dio voleva dire a Mosè. Dio non fa metafisica a Mosè, ma dice di
essere vicino a lui, di essergli prossimo e di essere liberatore.

La semantica originaria
La semantica originaria evidenzia l’efficace prossimità di Dio come colui che
vuole liberare Israele e chiede fedeltà e amore. Dio rimane misterioso, ma dice
di voler liberare. In tale contesto di voluta relazione si da il nome.
Il nome andrebbe tradotto “io sono colui che è qui con voi e per voi”. Dire sono,

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verbo essere dice l’essere vivo e attivo.
Adonai è colui che siede nell’alto ma al tempo stesso piega i cieli e scende per
portarlo dove scorre latte e miele.

Dio si rivela nel liberare. Questo ti mostra la verità del mio nome.
Il verbo essere è all’imperfetto dovrebbe essere tradotto come “sono colui che
era, è e sarà con voi e per voi”.
Il suo intervenire a tuo favore è stato, lo sono adesso e lo sarò anche nel futuro.
Che Adonai ti sia vicino non vuol dire che perda la sua trascendenza però. C’è un
soggetto “io sono” ed un predicato “io sono”. Io sono colui che io sono rimane
sempre un po’ misterioso. Questo è il movimento del primo testamento: Dio si svela
ma la sua rivelazione è sempre un nuovo velamento. La conoscenza si da, ma
non esaurisce mai il mistero. Mentre ti avvicina ti mostra il suo mistero.
Dio consegna il suo nome perché il popolo si rivolga a lui diversamente dalle
altre divinità. È un nome che è un dono. Se il nome è io ti salvo, è un nome
ricco di prossimità, storia e relazione. Questo dono non si trova in “el” o in
“eloim”. Dio si rende nominabile quando in genesi invece aveva dato la possibilità
all’uomo di dare il nome alle cose.
Dio vuole farsi chiamare per nome dalla sua creatura.

3.4.4 Affidamento, avvento, riconoscimento


Come tutti i chiamati, ad un certo punto Mosè chiede un segno. Mosè chiede un segno della
verità e affidabilità della missione che sta dando. Dio gli dice “quando avrai fatto uscire il
paese dall’Egitto allora mi servirete su questo monte”. Il segno è posticipato. Prima compi
la missione e poi avrai la missione. Il segno non sarà tanto il monte, ma allora vero segno
sarà la fede. L’unica realtà che permette di aprirsi a Dio è la fede. Anche Gesù fa il
miracolo dopo la fede. È l’apertura di credito a Dio che fa vedere la sua opera.
A Mosè Dio chiede una fede prima ed anticipa la fede del suo popolo. (Della tomba di Mosè
non si sa nulla… i rabbini dicono che si sia consumato dalla missione al punto da nono lasciare
nessuna traccia).

3.4.5 Conseguenze antropologiche e sociali


Studiamo noi.
All’assolutezza a Dio consegue anche l’assolutezza al prossimo. La misericordia che ti è stata
usata per liberarti usala per il fratello.

4. GLI ATTRIBUTI E GLI APPELLATIVI DI JHWH


In esodo vengono date le 10 parole. In genesi c’è scritto “Dio dice” 10 volte. Lì c’è la verità
dell’esistere, il venire al mondo per fare alleanza con Dio. Prima c’è il racconto di
alleanza, poi genesi. Dio da sempre pensa per l’alleanza e quindi crea.

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Glia attributi sono le proprietà più proprie di Dio nel suo agire salvifico. Dio quando opera si
fa vedere così. Gli appellativi invece intendono dire chi sia.

4.1 Santità e misericordia

L’endiadi è una figura retorica quando si mettono insieme due appellativi che si
illuminano uno con l’altro.
Dio è santo è misericordioso. Sono due polarità diverse ma non devono mai essere
staccate. “Santo” (kadosh) in ebraico vuol dire “separato da” (la tribù di Levi, non ha preso
terra, ma è stato preso, e separato per il culto). Santità è separare una cosa dal resto per
dirne l’eccellenza.
Dio è per eccellenza santo, è separato, è trascendente. Non è il tuo amichetto.
DA sola questa caratteristica fa pensare ad un Dio lontano. Allora Dio è anche
misericordioso. “Esed” e “rachamin” (il primo maschile e il secondo femminile —> l’amore
di Dio è maschile e femminile). Dio ha esed, ovvero amore di benevolenza, l’atteggiamento
di voler fare bene a qualcuno ed essere fedele. Anche se tu mancherai rimango fedele. È
la virilità/solidità del voler bene. Rachamin dice le viscere della donna ovvero la parte
disposta all’accogliere la vita.
Esed e rachamin dicono vicinanza e prossimità.
Dio è santo e misericordioso. Proprio perché non è come te può essere così misericordioso. Gli
uomini quando vengono traditi spesso non rimangono fedeli.

Leggi capitolo 2,11 Osea

4.2 JHWH è Padre e Sposo

4.2.1 La metafora della paternità

Dio non è padre di Israele nel senso che lo ha generato, ma è metafora.


Come un padre si prende cura del figlio, così Adonai si prende cura di Israele.
Per dire l’amore che Dio ha per noi diciamo come l’amore del padre per il figlio. Ma l’amore
di adonai è perfetto ed ha una misericordia inumana. In Osea 11 Dio si lamenta del popolo,
descrive il rapporto Dio/popolo come un padre col neonato. Ma il popolo è figlio amato e
ingrato. Israele volta le spalle. Dio cosa fa? In italiano c’è scritto che si commuove, ma in
ebraico c’è scritto che Dio fa una capriola, ovvero cambia per andare incontro al popolo.
Il capitolo finisce con Dio che dice che non verrà con ira davanti all’ingratitudine perché è Dio
e non uomo.

Nel Primo testamento la caratteristica del padre è centrale, ma a volte gli vengono dati caratteri
anche femminili.

4.2.2 La metafora della sponsalità

È una metafora più tardiva rispetto alla prima. È metafora anche questa. Si sviluppa
nell’esilio e post-esilio. I profeti dicono al popolo che non è vero che dio è debole, ma che
hanno tradito l’alleanza. L’alleanza umana più profonda è il matrimonio. I due diventano

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una carne sola. I profeti prendono il matrimonio e ne fanno metafora per dire che rapporto
vuole Adonai col popolo. Israele deve essere una sposa fedele e non adultera.
(Osea viene mandato a prendere per moglie una prostituta sacra, ma lei scappa e diventa adultera. Dio manda
Osea a riprenderla e lo invita a rimanere fedele. Dio quando dice ad Osea di riprendersi la moglie adultera al
chiama col nome delle donne vergini dicendo in qualche modo che l’amore di Dio rende il cuore vergine ) Quanto
è tenace l’amore di Dio! Ridà la verginità a chi lo ha tradito.
Secondo la Bibbia ebraica la vetta più alta è il cantico dei cantici. Il cantico dei cantici è un
poema tra sposo e sposa e coro. Non c’è Dio, ma diventano simbolo di Dio e popolo.

5. LA PRESENZA DI JHWH ALLA STORIA E AL CREATO


Vedremo delle figure mediatrici con cui si cerca di dire la presenza di Adonai nella storia.
Il perno è la presenza perché sta scritto nel nome. Israele vuol dire che Dio è presente, efficace
e fa storia con Israele. È Lui che porta aventi la storia.

5.1 Tra alterità e prossimità

Coda richiama ancora. Qui come quando dicevamo prossimità e alterità. Più dici che è santo
(separato) più è prossimo (misericordioso).

Ci sono due tipi di mediazioni tra Dio e il popolo.


- dall’alto: non sono personali, ma potenze, energie, con cui Israele dice la potenza attiva di
Dio. Sono modalità con cui Dio si rende presente.
- dal basso: sono mediatori o testimoni umani che hanno il compito di dire al popolo Dio.

Le mediazioni più importanti sono dall’alto perché vengono da DIo. In realtà anche quelle
dal basso dipendono da quelle dall’alto. Tra tutte le mediazioni dall’alto due in particolare
hanno mediazione specifica: la parola e lo spirito.
Parola e Spirito non sono pensate come due persone qui, ma diventano sempre più
importanti. Sono le due esperienze di comunicazione più importanti ovvero la parola e
l’empatia.
Verso la fine del primo testamento c’è poi un punto esterno: parola/sapienza/spirito vengono
presentati quali come personificati (sapienza 8 —> dove sapienza sembra qualcuno che ha
architettato tutto).
Adesso vedremo alcune figure mediatrici:
- gloria
- spirito
- parola

5.2 La gloria di JHWH

La gloria di dio, in ebraico “cavod” significa pesante. Non solo il peso fisico ma il peso del
valore. Quando dio si manifesta lo fa in un modo che ne dice la grandezza, eccedenza, il

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peso. Si dice la santità assoluta percepita dall’uomo.
La gloria è la manifestazione dell’eccellenza di Dio. Dio si mostra con una manifestazione che
fa vedere smisuratezza.
Ad esempio la nube numinosa. Il luogo per eccellenza che è segno della gloria? Il tempio ma
anche Sion. (Samuele quando entra per consacrare il tempio deve uscire perché una nube scende sul tempio e
gli impedisce di vedere. Dio prende possesso. Così anche gli altri sacerdoti successivi quando entrano mettono
l’incenso per ricordare quell’evento)

5.3 Il Soffio o Spirito di JHWH

Dalla protologia al compimento tutto è guidato dallo spirito di Adonai.


Il vocabolo spirito che viene dal “soffiare” è simile al termine anima. Coda fa notare che tutti
i ceppi linguistici più antichi trovano per dire Spirito una semantica vicino al respiro o al soffio.

5.3.1 L’esperienza dello Spirito nelle religioni

In tutte le religioni si intuisce il fatto che respirare, l’essere in vita, ha a che fare col
sacro. Nelle altre religioni si parla di forza o di divino.
Nel caso di Israele l’esperienza comune del Sacro si colora dei caratteri personali.

5.3.2 Lo Spirito di JHWH

In Israele lo Spirito è di qualcuno, di un soggetto, di Adonai, e non una forza. Ed


è uno spirito che è donato da sempre. “Lo spirito aleggiava sulle acque”. Tutto è creato
ed è mosso nello Spirito. Con lo Spirito Adonai dona la sua forza vitale alla creazione,
agli uomini e poi soprattutto ad Israele per l’alleanza.

5.3.3 Il Messia e l’effusione escatologica dello Spirito

L’energia vivificante che Adonai vuole mettere nel popolo, Israele la pensa come
un’effusione escatologica dello spirito su tutti. Lo spirito si è posato su Mosè, Elia…
alcuni… allora Israele pensa che il compimento della storia avverrà con l’effusione
dello Spirito su tutti. Allora tutti lo conosceranno non per la legge ma per una
conoscenza interiore. Piano piano matura nella coscienza di Israele che l’effusione
escatologica dello spirito avverrà attraverso l’opera del messia. Il messia avrà il
compito di preparare il popolo in modo che Adonai possa dare il suo spirito a tutti.

5.4 La Parola e la Sapienza di JHWH

Il sostantivo ebraico “Dabar” è insieme parola e azione. L’ebraico è pratico. Ecco perché la
parola di Adonai è efficace, è performativa, realizza ciò che dice. Quello che dice lo fa. Quando
Dio parla crea la storia della salvezza. Quella che Dio dice al suo popolo piano piano realizza
quello che lui intende.

Tra tutte le parole, la legge, le 10 parole, sono parole di vita. Se osserverai queste parole
mettendole in pratica vivrai.

5.4.3 La Sapienza

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La Sapienza è una figura tardiva, che si lega alla cultura greca. Il saggio per la cultura
greca è chi conosce il cammino e sa come andarci. Conosce il fine della vita e conosce
anche la strada per dare buon frutto.

Piano piano la parola (profeti) la legge (sacerdoti) e la sapienza (dei re) cominciano a
confluire nell’ottica del messia. Il messia racchiuderà in sè il meglio della tradizione
profetica, sacerdotale e regale.

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PARTE BIBLICA
(Nuovo Testamento)
Pag 262

Ci concentriamo qui perché il resto è stato fatto in cristologia.


Queste sono le lezioni più importanti del corso. Ciò che diremo è lettura teologica e ha già
valore sistematico.

3. L’EVENTO PASQUALE – ATTO DEL PADRE, DEL FIGLIO E


DELLO SPIRITO SANTO
Evento = qualcosa che accade. Un dramma ovvero un azione mentre è nel suo farsi. Evento
è qualcosa che accade ed è un accadimento denso di significato. Non tutto quello che succede
è un evento.
Atto del Padre, Figlio e SS, un unico “atto” e non atti… Atto al singolare ma di tre persone. Un
atto trinitario.

3.1 Gesù di fronte alla sua passione e morte

La morte per Gesù non arriva come un evento imprevisto. Man mano che Gesù inizia il
ministero pubblico riceve subito le ostilità delle autorità. Man mano che procede i nemici sono
più agguerriti. Gesù se ne rende conto e ad un certo punto si accorge del disegno di morte che
essi hanno per Lui (3 annunci di passione). Gesù capisce che l’esito del suo ministero sarà
tragico.
Gesù si renderà conto piano piano che la morte che preparano per lui è quella di croce, di coloro
che sono lontani da Dio.

3.2 La cena pasquale, chiave interpretativa e segno della nuova alleanza

Senza la cena che fa capire il sacrificio sarebbe cruento ed insensato. L’amore


incondizionato si comprende lì.

3.3 Due criteri di lettura

Noi leggeremo con due prospettive, una cristologica e l’altra trinitaria.


Occorre intrecciare i due punti di vista nel nuovo testamento.
La scena di passione, morte e risurrezione vedono come co-agonisti Padre e SS.
Co-agonismo: lottare assieme.
Leggeremo l’evento pasquale come un co-agonismo.
Una lettura drammatica e co-agonistica dell’evento pasquale.

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(Si dice che i giovani vogliono essere protagonisti della chiesa. Sarebbe narcisismo. Non vogliono che i preti si
tolgano la sedia e prenderla loro. Vogliono stare insieme sul palco. Un figlio vuole meno giochi ma giocare con
papà e mamma. Renderli protagonisti può essere un modo per renderli narcisisti come facciamo noi e li lasciamo
soli. Devi progettare insieme)
Gesù non vuole essere pro-tagonista, il primo che agisce, perché nella trinità non funziona così,
non è che uno agisce se gli viene lasciato spazio.

Tabella a pag. 269


Tutto da qui è diviso in tre momenti:
- passione (amore donarsi)
- morte (silenzio)
- risurrezione

Si vedranno passione morte e risurrezione come atto unico, prima come atto del Padre
poi come atto del Figlio e infine come atto dello Spirito. Noi non possiamo che distribuire
nel tempo ciò che avviene insieme.

3.4 L’evento pasquale atto del Padre

Dobbiamo fare epoché dal nostro modo di considerare la Pasqua di Gesù. La morte di Gesù
sulla croce è il fallimento della vita pubblica. Ogni sua pretesa su di sè e sulla vicinanza del
Padre nella morte trova il fallimento plateale. La morte di Gesù è la sconfessione di quello
che per tre anni aveva detto sul Padre.

3.4.1 La morte di Gesù, compimento del disegno d’amore dell’Abbà

Cosa ci rivela del Padre la passione di Gesù?


Gesù ha interpretato il suo destino, missione e morte come il compimento di un
disegno di salvezza (annunci di passione, chicco che muore per dar frutto). Gesù ha

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sempre interpretato il suo andare verso la morte come il compimento del progetto di
salvezza maturato nel cuore del Padre. Il Padre non vuole la morte del Figlio, ma il
Padre vuole la salvezza nostra. Lui ci vuole rendere figli e questo può avvenire solo
con l’assunzione del peccato da parte del Figlio. Gesù interpreta così il suo morire:
non come il Padre che vuole che lui muoia ma come obbedienza all’intenzione
salvifica del Padre. La morte non è un atto di giustizia vicaria riparativa. Il Padre
non vuole che qualcuno paghi ciò che gli è dovuto. Il Padre consegna il Figlio come
un atto di amore estremo, come manifestazione della misericordia del Padre sul
mondo. Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio per salvarlo. La venuta di
Gesù nel mondo sono letti come un atto di amore che non condanna ma salva. La
sua morte, è interpretata da Gesù come il gesto di consegna del Padre del Figlio al
mondo. Una consegna che il Padre non ritira, che porta fino in fondo, perché li si da la
salvezza che libera gli uomini.

3.4.2 Il silenzio dell’Abbà, attestazione paradossale della sua paternità

Se è vero che il nuovo testamento legge la morte del Figlio come un atto di amore del
Padre, dobbiamo essere onesti con lo scandalo. Un Padre così, quando il Figlio muore,
tace. Il Padre tace. Non dice una parola. Nei vangeli la voce già si era udita. Non
interviene non solo per non impedire al Figlio di morire, (1° scandalo —> non
salva da morte ingiusta), ma oltre a ciò non lo consola. (2° scandalo). Non salva ne
gli dice una parola di conforto.
Dio Padre di fatto abbandona Gesù al suo destino. È un verbo all’attivo. Non è solo
Gesù che si sente abbandonato, ma è il Padre che abbandona. È scandalo. Il Padre
che è solo amore, che è uno con il Figlio lo abbandona attivamente nella morte (cfr
442). San Giovanni della Croce ha affermato per primo questo. Dice che c’è abbandono
attivo.
Gesù rimase anche annichilito nell’anima. Ridotto al nulla. Non solo soffre addolorato. Essendo
lasciato dal Padre senza consolazione e confronto. E lasciato nell’aridità. Nell’abbandono lì
compie la cosa più grande salvando l’umanità. In quei momenti il Padre lo abbandonò affinché
scontasse interamente il debito delle umane colpe e unisse l’uomo con Dio.

Non si può guardare alla croce come una teorema che funziona tranquillamente.
Noi siamo troppo abituati al mistero della croce. Forse col covid ci accorgiamo di
più che c’è il triduo e la pasqua. Avvertiamo poco il dramma che viene ripresentato.
Il Padre abbandona il Figlio. Perché?
Perché proprio facendo così il Padre si manifesta come Abba. È la massima
rivelazione della paternità di Dio.
La morte di Gesù deve far emergere qualche crepa nel nostro modo ideale di vedere
Dio.
Solo comportandosi così l’Abba si manifesta come Padre. Ma perché diciamo così?
Il silenzio rivela la paternità non paternalistica. La paternità autorizza e fa
crescere. Il paternalismo è un esercizio di autorità che non fa crescere e fa

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dipendere le persone.
Io posso evitare una sofferenza ad una persona che amo, alle volte, non per amore
suo ma per amor mio. Un figlio in una situazione di sofferenza inevitabile, alle
volte vede nel genitore il tentativo di toglierlo dal dolore per non soffrire a propria
volta. È un dolore grande non poter far niente per una persona a cui si vuole bene.
Costoso nell’amore è accettare l’impotenza di impedire all’altro di soffrire.
È sottile togliere la sofferenza all’altro per non soffrire io. Io non accetto di patire e
quindi gli tolgo la responsabilità.
Il Padre nel suo non intervento, nel suo silenzio, si presenta come un Abba e
permette al Figlio di andare fino in fondo, dando fino alla fine il dare la vita. Il
Padre è colui che genera, colui che da tutto senza trattenere nulla.
Ora se il Figlio è in tutto simile al Padre, quando Gesù manifesta di essere Figlio
di un Padre che da tutto senza trattenere nulla?
Quando Gesù da tutto senza trattenere nulla. Così mostra il Padre. Gesù si riceve
tutto, e quelle che vede fare dal Padre lo fa anche Lui.
Se il Padre avesse impedito al Figlio di morire gli avrebbe impedito di dare tutto.
Il Padre dando al mondo il Figlio da tutto ciò che ha. Se il Figlio sulla croce non
perde tutto non sarà identico al Padre. Il Figlio per essere Dio che dona tutto,
doveva perdere il Padre per donare tutto. Gesù perde anche il Padre per poterlo
dare a noi, e il Padre non glielo impedisce. Si da tutto quando si perde tutto.
Gesù arriva alla sua pienezza massima nella morte, dove tutto quello che poteva dare
lo ha dato. Il Padre non si sostituisce e non gli impedisce di vivere anche nella sua
umanità il dare tutto. Il Padre permette al Figlio di dare tutto, e il tutto di Gesù è
il Padre ed è per questo necessario che lo perda.

Padre e Figlio sperimentano la solitudine (non ontologica la relazione rimane), che è


distanza che non nega l’amore ma che fa spazio alla distanza negativa del peccato.

Vedi la gente che fa un anno di missione, che potrebbe sembrare un anno perso, ma lo
ritrovi decuplicato.

L’amore è perdere, è uscita da sè. La resurrezione di Gesù avviene dopo tale


morte. Non sei mai tanto te quando non sei te. Quando ti perdi per l’altro.

3.4.3 La paternità dell’Abbà nella risurrezione del Figlio

3.5 L’evento pasquale atto del Figlio

3.5.1 La morte di Gesù, espressione della libertà estrema del Figlio

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Sicuramente si espone alla passione in obbedienza al disegno del Padre ma non è mai
semplicemente passiva, ma anche attiva. È un’autentica scelta di libertà del figlio:
decide di donare la sua vita: Gv 10,18 “nessuno me la toglie, la offro da me stesso”.

Dentro il disegno malvagio dell’uomo Gesù sta realizzando la sua consegna libera,
questo conferma tutta la sua scelta messianica in cui vuole la salvezza del suo popolo.

“la libera decisione di Gesù è determinato dal rapporto di obbedienza e amore al padre”

3.5.2 L’affidamento filiale a Dio dell’Abbandonato

La libera decisione di Gesù è determinata dall’amore incondizionato e fedele agli


uomini che si determina in un’amore incondizionato (che perde tutto di sè) per gli
uomini. L’amore agli uomini non è la conseguenza della fedeltà al Padre, ma il
modo in cui tale fedeltà concretamente si da. Sono due facce della stessa medaglia.
(Noi alle volte viviamo l’amore ai fratelli come conseguenza dell’amare Dio, ma Gesù
dei due comandamenti ne ha fatto uno unico!) Gesù dice che non esiste alcun amore
più grande che dare la vita per gli amici. L’amore più grande non è dare l’amore per il
Padre ma per gli amici. Il dare la vita per noi è allora la realizzazione dell’essere
uno con il Padre.
Se dare la vita per gli altri è l’unico modo per amare Dio allora non c’è mai scontro tra
le due cose. Amando l’altro amo concretamente Dio. E non uso l’altro per arrivare a
Dio.
Florensky dice che toccare con mano Dio, se è possibile, è possibile solo attraverso
l’animo di un altro: un amico. Io tocco Dio solo nella vita di un altro elevato a fratello.
Dare la vita per il Padre coincide col dare la vita per gli amici. Dio è offerta, non è mai
chiusura, e apre.

A) Il grido dell’abbandono nei Vangeli di Marco e di Matteo

Marco e Matteo si concentrano su “Dio mio, Dio mio, perché mi hai


abbandonato”. Coda dice che tale grido, così enfatizzato può essere
inteso sia in senso teologico oggettivo (significato croce per un ebreo
—> morte per i senza dio, quasi che dio si penta di aver creato, e erano
ritenuti animali) e soggettivo (senso per Gesù —> dal Getsemani Gesù
piomba nella solitudine, abbandonato da tutti. Infine resta solo anche nel
rapporto col Padre. L’Abba diventa Eloi, termine generico). Gesù si è
reso maledizione, che sarebbe spettata a noi, perché si facesse
benedizione a noi. “Dio lo fece peccato in favore nostro”. Gesù muore
nell’esperienza del non intervento di Dio, che probabilmente lo
stupisce. Vedere che fallisce e che è schernito lo porta a percepire il

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non-senso della vita. Il non-senso è peggio della sofferenza che ha un
motivo. A Gesù è tolto anche questo. Perdere tutto può anche
riempire di senso. Può esserci la gioia del dono totale. Gesù sulla
croce perde la perdita. Non ha nemmeno gioia del fatto di donarsi
per qualcuno che cresce. Gesù perde tutto ma senza percepire la
gioia del dono. È privato, abbandonato anche della gioia della
perdita.
Questo e il grido non implica la disperazione. Il Padre rimane il Tu di
Gesù, anche se non lo sente più, anche se non avverte la gioia del
compiere l’obbedienza, del fare la missione. Questa è filialità. Lo
prega. Non smette di rivolgersi a Lui. C’è affidamento senza riserve.

B) L’affidamento al Padre nel racconto evangelico di Luca

Gesù è abbandonato ma si affida di nuovo senza riserve. Gesù sente


l’azzeramento dell’origine. Il Padre che è l’origine di Gesù tace.
Anche la Madre Maria tace sulla croce. Gesù è abbandonato sia
nell’origine eterna che temporale. La differenza sta nel fatto che è
Gesù ad abbandonare attivamente la madre. Questo è il modo di
Gesù di permettere alla madre di essere completamente unita a Lui,
in quanto da abbandonata, perde anche lei il suo tutto che è Gesù.
Il pensiero greco non accetterebbe che un abbandonato si affidi, ma
Gesù è Dio e non sottostà al PNC.
Nel vangelo di Luca, la misericordia, l’affidamento di Gesù al Padre
misericordioso è centrale in Luca. Sulla croce Gesù chiede
misericordia al padre per i crocifissori… È così vera del Padre
misericordioso raccontata nelle parabole che il padre perdona ai
crocifissori, che il figliol prodigo che chiede perdono dalla croce è
perdonato.
Gesù all’inizio del vangelo di Luca a 12 anni dice “perché mi cercavate?
Non sapevate che devo occuparmi delle cose del Padre?” E alla fine
rimette lo Spirito, nelle mani del Padre. L’inclusione è data dal fatto che
il Padre è il suo tutto.
C’è reale affidamento.

C) “Gesù abbandonato è la fede”

Chiara Lubich dice, in clima di scolastica, negli anni ’40, “Gesù


abbandonato è la fede”. Mette insieme abbandono e affidamento. In
tempo in cui fede era assenso dell’intelletto a verità rivelate.

(Pag 505 testo C. Lubich)


Se la natura umana è abbandonata non è che la natura divina va

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avanti indisturbata, perché l’unione provoca la persona di Gesù a
sentirsi abbandonata. Gesù abita totalmente l’unità, ma se l’umano
sperimenta il vuoto, la persona lo sente, anche se ontologicamente
rimane unito. Unito ma distinto, distinto-distante. In tale distanza
c’è il carico dell’abbandono negativo che è il nostro peccato con cui
noi neghiamo attivamente Dio. Padre e Figlio si distanziano al punto
da portare dentro tutto il peso dell’umanità peccatrice.

(pag.509. testo C.Lubich)


Gesù abbandonato è la pupilla dell’occhio di Dio sul mondo. Un vuoto
attraverso cui Dio vede il mondo. Ma è anche la finestra dell’umanità
attraverso cui si vede Dio.

3.5.3 La risurrezione di Gesù, epifania della sua figliolanza

Gesù mostra di essere veramente Figlio. Il centurione dice che quel morire preciso lì
porta a riconoscere che Gesù era il Figlio di Dio. Nel grido il centurione lo riconosce.
Il grido di abbandono è rivelativo dell’identità del Figlio e di Dio Abba. Gesù pur
essendo figlio imparò l’obbedienza da ciò che patì. Gesù guadagna nella sua maturità
il pieno dispiegamento dell’essere Figlio. Di pienezza in pienezza. E nella morte c’è
il fino alla fine.
Gesù è il Figlio perché si è manifestato fin nella morte come colui che non ha
trattenuto nulla, esattamente come ha visto fare dal Padre. Gesù ama fino alla fine
e per questo risorge, perché amare fino ala fine è la vita vera. L’amare fino alla
fine è la cifra dell’essere… altro che la gettatezza o l’essere-per-la-morte.

La resurrezione è tutta opera del Padre o è anche opera del Figlio?


È sia l’una che l’altra.
La risurrezione è opera del Padre. Ma è anche opera del Figlio. Gesù è resuscitato
dal Padre ma si può dire che anche il Figlio dia la vita e se la riprenda.
Il padre da tutto senza trattenere al Figlio. Il Figlio tutto restituisce al padre. Il Padre da
al Figlio di avere in sè la vita. Il Figlio ha ricevuto di avere in sè la vita. Gesù ha in
sè la vita e può riprendersela perché lo riceve dal Padre. Ma non è in seconda
battuta. È divino dare come ricevere. È divino il Padre che ridona e il Figlio che la
riprende.
La resurrezione è allora sia opera del Padre che del Figlio.
Il figlio offre realmente la vita e proprio così la riprende. Non fa finta. L’amore che più
perdi più hai è lo SS.

3.6 L’evento pasquale atto dello Spirito

Come si rivela lo SS nell’evento pasquale?

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3.6.1 La consegna di Gesù nello Spirito

Nei racconti evangelici l’azione e la presenza dello Spirito è molto presente,


soprattutto nei racconti di resurrezione. Lo Spirito si vede come dono del risorto (il
risorto subito già a Pasqua soffia lo Spirito), ma possiamo dire che se lo SS è il
vincolo/relazione tra Padre e Figlio, nella sua decisione di compiere al volontà del
Padre e la nostra salvezza, in Gesù tale decisione è spinta dallo Spirito. In tutti i
grandi momenti della vita di Gesù c’è lo Spirito che sospinge. (Vedi tentazioni
deserto).
È lo spirito che dall’interno muove la volontà di Gesù ad accogliere la volontà del
Padre. Non che Gesù non voglia, ma ispira. (Noi siamo liberi per amare di più —>
se amo sono libero… una libertà che vuole autorealizzarsi, fuori dell’amore non è
libertà. Dio è libero perché è amore). Lo Spirito da dentro spinge Gesù all’amore del
dare la vita fino alla fine (eb 9,14).
Lo Spirito santo è l’anima dell’anima di Gesù. È il centro eccentrico di Gesù. È
l’amore del Padre che riposa in Gesù. È lo SS che muove l’umanità di Gesù e lo
spinge al gesto di dedizione incondizionata. Lo SS plasma e sostiene la libertà di Gesù
nella passione.

3.6.2 La sete dello Spirito

Nella morte/passione normalmente non si trova il lemma “Spirito Santo”.


Quando si parla di SS si nota che è sempre più nascosto e difficile da definire rispetto
a Padre e Figlio. Questo nascondimento dice qualcosa di chi Lui è. Nascondimento è
una delle caratteristiche della III persona della Trinità. Non è solo un limite di
comprensione nostra, ma è proprio Lui che si nasconde.
Se il Figlio non avverte il Padre, allora lo Spirito che è il legame, in quel momento
sta trattenendo la sua luce. Anche lo Spirito vive la kenosi nell’amore. (Lo Spirito
prega in noi con gemiti inesprimibili). Se Gesù si sente abbandonato, vuol dire che
lo Spirito che è il soffio di amore che Gesù sente sempre del Padre, allora lo Spirito
si è ritirato vivendo una kenosi. Questa presenza/assenza dello Spirito sembra che sia
celata dal vangelo di Giovanni “ho sete” (sempre salmo 22). Nel contesto della teologia
giovannea la sete rimanda alla simbologia dell’acqua (Gv 4 Samaritana… posso darti
l’acqua viva / GV 7 chi ha sete venga a me, fiumi di acqua viva sgorgheranno).
Giovanni presenta lo Spirito come l’acqua che Gesù può dare. È paradosso… come
può la sorgente dell’acqua avere sete?
Gesù realmente abbandonato, nello Spirito vede la ritiratezza. Lo Spirito non fa sentire
il Padre. Diventa un canale vuoto. Gesù ha sete perché in quel momento Gesù sta
perdendo tutto.
Gesù non è mai stato così unito al Padre come nell’abbandono, perché più perdi più sei.
Lo Spirito nell’abbandono è come una corda che si tende e tiene uniti Padre e
Figlio, che permette a Gesù di assumere il peccato facendo la scelta massima di
amore.

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3.6.3 Il Crocifisso/Risorto fonte dello Spirito

Lo Spirito nella resurrezione è effuso alla comunità. Il messia avrebbe profuso lo


Spirito all comunità escatologica secondo le profezie. L’effusione dello Spirito di
tutti Giovanni la pone già nell’ultima cena. Giovanni pone morte resurrezione e
Pentecoste nello stesso evento. Giovanni mostra che anche quando mostra il morire di
Gesù, da già valenza pneumatologica. A) Il significato teologico dello “spirare” di Gesù

B) L’effusione dello Spirito “nuova creazione”

Gesù nel morire, in Giovanni, non dice “spirò”, ma dice “chinato il capo, consegnò
lo Spirito”. Il verbo paradidomi, consegnare diventa tradizione. Con il consegnare lo
Spirito intende dire che consegna lo Spirito Santo al Padre, ma anche a noi tramite
Giovanni e Maria. Gesù non consegna al Padre o a noi, ma ad entrambi. Il Figlio ci
da di essere figli donandoci la relazione con il Padre. Ma chi è la relazione con il
Padre? Lo Spirito! E così ci rende capaci di diventare suoi figli.
Questa effusione dello Spirito è una nuova creazione.
Adesso la prima creazione si comprende: in vista dell’alleanza. L’alleanza, ovvero il
rapporto tra l’umanità e Dio è tale solo con la Pasqua, in quanto l’uomo è abilitato
a corrispondere alla volontà di Dio, perché dall’interno gli è dato quell’amore che
è più forte di ogni peccato. Come può una creatura limitata corrispondere
perfettamente all’alleanza con Dio che è infinito?
Perché con la Pasqua, l’uomo può amare Dio con lo stesso amore che Dio ama noi.
L’amore con cui il Padre ama il figlio e il figlio ama il padre è messo anche in noi.
Ciò che accade tra Padre e Figlio accade anche tra noi e il Padre.
Questo implica il cambiamento dell’amore verso i fratelli. Tra due battezzati, l’amore
con cui si amano è lo stesso amore di Dio. Amo il fratello con lo stesso amore con cui
il Padre ama il Figlio. (Rm 8 —> capitolo più bello su SS).

(Una madre che da la vita per la sua creatura non è ami così tanto madre. Dare la vita
sua per la sua creatura è logica dell’amore, non del mondo. Quando mi svuoto mi sto
riempiendo)

3.7 L’evento pasquale, evento trinitario

4. LA FEDE TRINITARIA DELLA COMUNITÀ APOSTOLICA


Ci si riferisce qui alla riflessione post-pasquale. Soprattutto atti e Giovanni che hanno
maturazione ecclesiale superiori.

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4.1 si salta a piedi pari

4.2 Le formule trinitarie e gli inni cristologici nell’epistolario paolino

Nel nuovo testamento soprattutto nell’epistolario Paolino ci sono formule molto brevi.
(Le omologie, confessioni di fede in cui una comunità racchiudeva in toto il suo credo). Ci
sono anche delle formule trinitarie che conosciamo perché nel messale il saluto che il prete
rivolge dopo il segno della croce le riporta.
Ogni comunità cristiana ha iniziato ad usare nel culto delle formule per dire la fede nella
trinità. Non sono una riflessione ontologica ma una menzione del P/F/SS per la loro
azione. Non dice la loro relazione immanente ma il loro intervento salvifico in storia. In
N.T. quando si trova Theos con “o” (articolo) si riferisce sempre alla persona del Padre. Già
nella chiesa delle origini c’è già la fede trinitaria allora a non è un’aggiunta successiva. Non
c’è tutta la riflessione ancora, ma si attesta.

4.3 L’identità dello Spirito Santo in Paolo e in Luca

La chiesa delle origini professa e attesta da subito la fede nella divinità di Gesù. In N.T.
campeggia la figura di Cristo, ma in atti e Paolo ci sono alcuni elementi che ci aiutano a
vedere la riflessione della comunità post-pasquale sullo Spirito.

Coda percorre due strade:


- il dono dello Spirito negli ultimi tempi è posto in assoluta indissoluzione da Cristo. Lo
spirito di Adonai che il messia doveva diffondere alla fine dei tempi la chiesa è convinta che
sia dato in Cristo. Per la chiesa primitiva Cristo e SS sono fortemente legati
- Lo SS assume sempre di più i tratti di un’identità distinta da Padre e Figlio. Lo Spirito
non è più una mediazione ma sempre più una persona (prima era la forza di Adonai nel
mondo, era una forza impersonale…)

In Paolo alcuni passi orientano nel senso di una personalità propria del pneuma, in cui si
dice che scruta le profondità di Dio. Sono azioni che presuppongono un soggetto. Una
forza impersonale non conosce ne vuole.
Negli atti ci sono diversi passaggi nei quali l’autore attribuisce allo Spirito alcune azioni e
scelte per la chiesa. Lo Spirito conduce l’azione evangelizzatrice. Non si dice mai “lo Spirito
è il Signore” ma questo non vuol dire che manchi la fede.
La chiesa all’inizio non aveva riflessione teologica ma aveva fede.

4.4 La teo-logia giovannea

Giovanni, di cui prendiamo il vangelo e qualcosa delle lettere, è uno degli ultimi autori di N.T.,
e per questo consegna la riflessione più matura su Gesù e sullo Spirito.
I dati più significativi:
- identità di Gesù come logos (tipico del quarto vangelo)

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- logos in cui si attua escatologicamente l’<io sono> promesso da Adonai. Gesù si da lo
stesso nome di Adonai. Una professione non indiretta ma diretta.
- l’identità dello Spirito come l’altro inviato dal Padre (il paraclito)
- ci sono date alcune categorie dell’essere unità di Dio: gloria e agape.

4.4.1 Il Figlio-Logos nel Prologo

A) Il Figlio unigenito

Il rapporto tra Padre e Figlio in Giovanni assume proprio questi due titoli. Spesso Giovanni
aggiunge Figlio unigenito. Padre e Figlio non sono più metafore ma si dice referenza concreta.
La nostra esperienza di figliolanza del mondo sono legati a questa.
Il figlio riceve la vita dal Padre e il Figlio la ridona in toto. Il Padre è la fonte e l’origine
della vita. Il Figlio è la ricezione e restituzione perfetta. Il Padre e il Figlio sono tali in
forma assoluta!

B) Un’originale semantica del Logos

Il Padre dice pienamente se stesso nel Figlio. Nel figlio il Padre si dice. Il titolo di logos ha
due grandi tradizioni alle spalle:
- concetto di logos della filosofia greca;
- la sapienza veterotestamentaria (la sapienza creatrice di cui è detto in Sapienza e Siracide).
Si dice di una sapienza con cui Dio crea.

Quando Giovanni parla di Cristo come logos, sicuramente c’è qualche addentellato con queste
due categorie ma il logos giovanneo non è spiegabile in toto ne con l’una ne con l’altra. Il
titolo di logos ha, come referente primo, la storia di Gesù. Avendo visto in lui il Padre
Giovanni scegli di usare “logos” per dire che Gesù dice il Padre. Il titolo di logos Giovanni
lo prende dall’evidenza che Gesù è la parola con cui Dio si dice.

C) Una triplice novità

Prima novità:
1 - il logos ha volto umano e personale. Non è una metafora ma è una persona. Ha un volto
ed è un voto umano. Giovanni forza anche la grammatica greca dicendo “il logos carne è
divenuto” in modo che logos e sarx siano uno accanto all’altro.
2 - o theos e o logos.
In Dio c’è sia o theos (Padre) e o logos (Parola) che è anche lui Dio. Sono entrambi Dio ma
sono due persone diverse.
Si fa una distinzione in Dio e così si fa esplodere il monoteismo ebraico.
3 - il logos è presso o rivolto verso il Padre.
Sia nel primo versetto che nell’ultimo del prologo si dice “PROS +ACCUSATIVO” —>
che è movimento verso. È un movimento ontologico non fisico. Il verbo è rivolto verso Dio

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ed è in postura obbediente. Il Figlio non fa l’obbediente, ma lui è il rivolto al Padre per
ascoltarlo ontologicamente. Tra Dio e logos vi è distinzione ma anche reciprocità. Gesù nella
vita terrena si è sempre mostrato rivolto al Padre. Tutto ciò che ha fatto lo ha fatto come risposta
a quanto udito e ricevuto dalla volontà del Padre. Gesù è colui che è sempre pronto ad ascoltare
la volontà del Padre per farla.

4.4.2 Lo Spirito nei “detti del Paraclito”

Con il titolo Paraclito Giovanni chiama lo Spirito. Paraclito = chiamare presso, ma possiamo
tradurre come avvocato. Il Paraclito è colui che ci è mandato dal Padre e ci difende da chi vuole
farci del male.
Nei cap.14-16 che sono i discorsi dell’ultima cena (non eucarestia ma lavanda) ed in essi
compare 5 volte il titolo paraclito. Per questo si dicono “detti del paraclito”.
L’indicazione è che il paraclito non potrà venire fino a quando Gesù non sia glorificato.
Gesù collega alla sua dipartita la possibilità della venuta del Paraclito. Il paraclito allora non
avrà il compito di fare una rivelazione sua ma di condurre e mostrare la verità della
rivelazione di Gesù. Tra i 5 detti uno merita la nostra attenzione

—> Gv 15,26
(i padri conciliari del Costantinopoli I riprendono Nicea e citeranno poi proprio questo detto.
A nicea c’era scritto sono “e nello SS”)
“Quando verrà il paraclito che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di verità, che dal Padre
procede, Egli, mi darà testimonianza”
Coda dice che lo Spirito è qui evocato con tratti eminentemente personali. È un qualcuno
che da testimonianza. Ci vengono consegnate qui 3 cose importanti:
- lo Spirito sgorga da presso il Padre come da sorgere (procede dal padre) (ekporeuemai =
sgorgare, scaturire da una sorgente, come l’acqua che sgorga dalla roccia).
Mentre il Figlio è generato dal Padre, lo Spirito sgorga dal Padre.
- dopo la pasqua il Figlio potrà inviare lo Spirito che sgorga dal Padre
- viene ai discepoli per dare testimonianza e rende interiori le parole di Cristo ma anche
la sua presenza. È lo Spirito che rende presente in noi Cristo e ci rende presenti a Lui.

—> gv 16, 14-15


“egli mi glorificherà perché prenderà da me (del mio) e ve lo annuncerà. Tutto quanto il Padre
possiede è mio, per questo vi ho detto che prenderà da me e lo annuncerà a voi.”
Gesù dice che il paraclito lo glorificherà (manifesterà) perché prenderà da Lui e mostrerà (ma
tutto ciò che il figlio lo ha, lo ha come ricevuto dal Padre)
Paracletos non è neutro come pneuma. Giovanni lo chiama anche “Quello” ema al maschile.
Non è una forza impersonale.
Giovanni intende mostrare il carattere attivo, relazionale e personale dello Spirito. Lui ci
innesta nella relazione filiale che Gesù apre.

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4.4.3 L’esser-uno del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo

Giovanni ha delle categorie per dire che Padre Figlio e SS sono uno.

A) La missione del Figlio e dello Spirito

Essere mandati presuppone un mandante un mandato e un destinatario. È linguaggio


relazionale. Si dice che il Padre ha mandato nel mondo il Figlio. “Dio non ha mandato
il Figlio per condannare il mondo” “Dio manda lo Spirito nel cuore”… È
LINGUAGGIO DI MISSIONE.
- La missione nel mondo presuppone la coesistenza del Figlio e dello SS presso il
Padre. Può mandarli perché erano presso di Lui e decide di mandarsi. ENTRAMBI
SONO PRESSO IL PADRE.
- Giovanni implica il nome di colui che invia in colui che è inviato. L’inviante è
presente ontologicamente nell’inviato nella mentalità semitica. Nella mentalità
ebraica se un re riceveva un ambasciatore era trattato come se fosse il re rappresentato.
Allora Figlio e SS portano e condividono il Padre.

B) La reciproca glorificazione

Abbiamo detto che gloria è la manifestazione. La gloria è la cavod, la nube, la


pesantezza, l’evidenza percettibile della grandezza di Dio. È qualcosa di grande ma che
non schiaccia.

Spesse volte Gesù parla della morte e resurrezione come il momento in cui Lui
glorificherà il Padre e altre volte come il luogo in cui Lui sarà glorificato dal Padre.
È una reciproca. Si mostra la vera identità di entrambi. La donazione/accoglienza
totale e il volto del Padre. Gesù glorifica il Padre perché nel dare la vita fino alla
fine manifesta la misericordia del Padre. E nella croce il Padre manifesta al mondo
Gesù come il Figlio.
La gloria è manifestazione della santità. Sulla croce il Padre manifesta Gesù al
mondo come Figlio amato, come suo Logos… nella croce c’è la parola definitiva
con cui si dice tutto. Per amore il Padre manda il Figlio ma l’amore che manda il
Figlio è lo SS. La gloria reciproca, l’amore che porta uno a mandare e l’altro a
rispondere è lo Spirito Santo.

C) “Dio è agape” (1 Gv 4, 8.16)

Tutto dice Dio è amore.


Ma cosa significa?
È una descrizione ontologica e non descrittiva. Il fatto che Dio si manifesta come
amante, è tale perché lui è amore. Lui ha amore perché in sè è amore. Non è
questione morale ma ontologica.
Il linguaggio di agape dice di Dio che è dedizione, reciprocità e effusione.

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La dedizione è dono incondizionato di sè, non un po’ ma fino alla fine.
Alla dedizione di ciascuna delle persone divine corrisponde la reciprocità di
ciascuna delle altre due.
Effusione, cioè apertura. Non è un mistero chiuso in sè. È amore aperto e fecondo.
Lo Spirito Santo è la cifra più esatta di questo. Lo Spirito tiene unito ma distanzia
impedendo che ci sia fusionalità ma sempre distinzione. Chi porta in noi la vita
divina? Lo Spirito, che è l’apertura immanente, ma anche per noi.
(La retorica sull’amore disinteressato non è cattolica. L’amore che non si aspetta nulla
è un’amore egoista che si concepisce pieno in sè stesso)

D) “Affinché siano uno come io e te” (Gv 17)

Il contesto è quello degli ultimi discorsi di Gesù…


GV 17 si conclude con l’espressione bellissima: “affinché l’amore del quale mi hai
amato sia in loro e io sia in loro”.
In tutto Gv 17 non c’è pneuma o paraclito ma l’amore e la flora che il Padre ha dato a
Gesù non è altro che lo SS. Lo SS fa essere uno Padre e Figlio, l’uno nell’altro e
Gesù chiede che la stessa unità sia anche per noi. Gesù chiede al Padre che come lui
e il Padre sono una cosa sola, così anche noi siamo come loro una cosa sola. Le relazioni
tra noi siano la stessa cosa delle relazioni tra Padre e Figlio. Il modo di essere trinità sia
il modo di essere tra noi, perché il principio di unità ci è donato nella Pasqua.
Lo SS ci è già stato dato. L’unità tra noi è qualcosa che abbiamo alle spalle allora.
L’unità la puoi onorare ma non la puoi fare perché Gesù l’hai già fatto. L’unità tra
noi l’ha fatta Gesù e noi possiamo onorarla o meno.

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PARTE
STORICA
(c’è tanto e da memorizzare)

2. IL PERIODO PRE-NICENO: LA TRINITÀ VISSUTA E CONFESSATA NELLA


CHIESA

2.2.1 Ireneo di Lione e la critica risolutiva alla gnosi

Studi da solo

2.2.2 Tertulliano e l’invenzione del linguaggio trinitario

Studi da solo
2.3 Due soluzioni non pertinenti

Pag 344
Siamo nelle prime eresie cristiane.
Che problemi ci sono da subito?
Il problema di dialogare con culture ebraiche ed illuministiche che non hanno le
categorie per aprirsi originalmente al dogma trinitario. La Trinità è un dogma
indeducibile a cui l’uomo da solo non sarebbe potuto arrivare.
Nei primi secoli c’è stata fatica ad annunciare Cristo senza che tale annuncio portasse
a perdere la verità di Cristo.
Nel mondo ebraico Gesù rompe con l’individualità divina.
Ecco alcune prime eresie che volevano dire la verità in contesti non cristiani ma di fatto
la perdevano.
Monarchianismo e subordinazionismo sono due aree a cui sotto stanno tante eresie.

2.3.1 Il monarchianesimo

Monos archè. In Dio c’è solo uno e uno solo. Di fronte a Padre, Figlio e SS, si dice che
solo uno dei tre è Dio. Si vuole tenere fisso che il principio è uno. La molteplicità è
vista come male e il principio deve essere uno.
Se il principio è uno allora di avrà:

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- Monarchianismo dinamico: Dio è uno (Padre) mentre il logos e pneuma non sono
persone ma espressioni della potenza (dinamis) di Dio. Forze con cui Dio si manifesta
nel mondo.
- Monarchianismo modalista: è un eresia che serpeggiante c’è sempre stata fino a oggi.
Dice che Dio è uno solo e che Padre, Figlio e SS non sono tre persone ma tre volti
o aspetti che Dio di volta in volta ha assunto per manifestarsi nella storia.

2.3.2 Il subordinazionismo

Dice che Figlio e SS non hanno stessa dignità di Padre. Sono esseri divini, distinti
dal Padre, con valore personale, ma subordinati… sono divinità seconde, o divinità
intermedie tra Dio e il mondo. Ario diceva Gesù come divino ma creatura non eterna
ma creata e quindi non della stessa sostanza.

3. DA NICEA AL FILIOQUE: TRINITAS IN EXCELSIS

Qui abbiamo la trinitas in excaelsis, poi sarà in terra. Qui la fatica della chiesa nel definire al
trinità immanente. Come intendere e dire l’unico Dio in tre persone. A partire da economia e
rivelazione ma con interesse ontologico. La modernità invece sarà più interessata al rapporto
col mondo. (Hegel la fa entrare in storia)

Si affrontano subito di due concili… Nicea e Costantinopoli I. Nicea già fatto in cristologia.

3.1 I Concili cristologici e trinitari del IV e V secolo

(Ppt c’è prima Nicea e poi Cost. I)

3.1.2 Il concilio di Costantinopoli I

Tra 325 e 381 ci sono 50/60 anni, ma si è costretti a convocare un secondo


concilio perché ciò che si era non detto a Nicea diventa questione forte. Nicea
sullo SS diceva solo “e (credo) nello Spirito Santo.
Diceva poco perché Nicea aveva il problema cristologico.
Dopo Nicea c’è l’eresia degli pneumatomachi che negano che SS sia una
persona come Padre e Figlio. Dicono che lo SS è la forza con cui Padre e
Figlio operano nel mondo.
(DNZ 150)
Adesso viene messo il testo del credo del Cost.I

Il terzo articolo è la grande novità. Costantinopoli ampia molto rispetta a


Nicea. Anche la parte della chiesa con le 4 note, non trova spaziatura. Entra ed
è una parte essenziale del terzo articolo. La parte dei sacramenti, chiesa e
resurrezione è parte del terzo.

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Si integra un po’ il secondo ma soprattutto si amplia il terzo.


Qui si vedono le novità (azzurro)

—> che è Signore e da la vita


Allo SS si dice Kyrios (che in Bibbia 70 era la traduzione di JHWH/adonai). Il
N.T. aveva già detto che anche il Figlio era Signore. Così, dicendo che SS è
Signore, gli riconosce la stessa divinità.
Lo SS da vita. Non è qualcosa, ma è un qualcuno che compie azioni, che da vita.
Quale vita da?
Sicuramente quella divina. Lo SS porta la vita divina in noi per mezzo della
pasqua di Cristo. Ma si sottolinea che lo SS partecipa all’azione creativa
del Padre all’inizio dei tempi.

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