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Introduzione
Nata in Francia, inizialmente si riferiva alla parte ascetica (arte su cui esercitarsi per migliorare
l’unione con Dio) e mistica (contatto con Dio nella preghiera cristiana) della vita spirituale.
Lettera ai Romani, capitolo 8
Qui Paolo dice cosa sia la vita spirituale; perciò diviene una sorta compendio del nostro corso.
Rm 7: il capitolo più drammatico (vedo il bene ma faccio il male; trovo in me questa legge:
non faccio il bene che vorrei ma faccio il male che non vorrei… Chi mi libererà da questo
corpo che è fatto per la vita e invece gravita intorno alla morte?) che si conclude con un
ringraziamento a Dio anche davanti ai problemi, perché egli è più grande: siano rese grazie
a Dio!
Rm 8: …si conclude con il “chi ci separerà dall’amore di Cristo”, nessuno potrà separarci!
Rm 9: Israele non ha accolto Gesù e vorrei essere anatema – separato da Cristo – purché
Israele acceda all’alleanza!
1Ora, dunque, non c’è nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù. 2Perché la
legge dello Spirito, che dà vita in Cristo Gesù, ti ha liberato dalla legge del peccato e
della morte. 3Infatti ciò che era impossibile alla Legge, resa impotente a causa della
carne, Dio lo ha reso possibile: mandando il proprio Figlio in una carne simile a quella
del peccato e a motivo del peccato, egli ha condannato il peccato nella carne, 4perché
la giustizia della Legge fosse compiuta in noi, che camminiamo non secondo la carne
ma secondo lo Spirito.
5Quelli infatti che vivono secondo la carne, tendono verso ciò che è carnale; quelli
invece che vivono secondo lo Spirito, tendono verso ciò che è spirituale. 6Ora, la carne
tende alla morte, mentre lo Spirito tende alla vita e alla pace. 7Ciò a cui tende la carne
è contrario a Dio, perché non si sottomette alla legge di Dio, e neanche lo potrebbe.
8Quelli che si lasciano dominare dalla carne non possono piacere a Dio.
9Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo
Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene.
10Ora, se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto per il peccato, ma lo Spirito è vita per
la giustizia. 11E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui
che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo
del suo Spirito che abita in voi.
12Così dunque, fratelli, noi siamo debitori non verso la carne, per vivere secondo i
desideri carnali, 13perché, se vivete secondo la carne, morirete. Se, invece, mediante lo
Spirito fate morire le opere del corpo, vivrete. 14Infatti tutti quelli che sono guidati dallo
Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. 15E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi
per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo
del quale gridiamo: «Abbà! Padre!». 16Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito,
attesta che siamo figli di Dio. 17E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi
di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla
sua gloria.
18Ritengo infatti che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria
futura che sarà rivelata in noi. 19L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa
verso la rivelazione dei figli di Dio. 20La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità
– non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta – nella speranza 21che
anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella
libertà della gloria dei figli di Dio. 22Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione
geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi.
23Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo
coloro che sono stati chiamati secondo il suo disegno. 29Poiché quelli che egli da sempre
ha conosciuto, li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo,
perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; 30quelli poi che ha predestinato, li ha
anche chiamati; quelli che ha chiamato, li ha anche giustificati; quelli che ha giustificato,
li ha anche glorificati.
31Che diremo dunque di queste cose? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? 32Egli, che
non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà
forse ogni cosa insieme a lui? 33Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto?
Dio è colui che giustifica! 34Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla
destra di Dio e intercede per noi!
35Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione,
Perciò la teologia spirituale può essere definita come intelligenza credente dell’esperienza
religiosa cristiana, o come scienza della personalizzazione della fede, o come discorso sulla
mediazione «pneumatica» che collega la storia oggettiva di Gesù con la storia soggettiva del
credente.
Teologia spirituale come teologia della vita spirituale
La teologia spirituale è, dunque, TEOLOGIA DELLA APPROPRIAZIONE SOGGETTIVA, necessariamente
singolare, DEL DATO CRISTIANO OGGETTIVO, necessariamente universale; perciò vita cristiana e vita
spirituale non sono semplici sinonimi; l’aggettivo “SPIRITUALE” si propone come sinonimo di:
singolare (soggettivo e non soggettivistico), ciò che dice il proprium di un soggetto; che
è il meglio della filosofia (anche se ha poi deviato la giusta istanza verso un esagerato
soggettivismo); ma la teologia spirituale non può fare un discorso soggettivo “ultimo” –
cioè di ogni singola persona – ma a livello “penultimo”, quello delle scuole di spiritualità,
dei gruppi di persone vincolate da una medesima sensibilità o un medesimo carisma,
luoghi in cui tante persone hanno trovato la realizzazione della propria santità.
dipendente dallo Spirito Santo, dall’azione della Terza Persona della Trinità; la
singolarizzazione dell’esistenza cristiana compete direttamente allo Spirito Santo: sicché
la redenzione soggettiva consiste nell’opera dello Spirito Santo che porta a compimento
la missione di Gesù non aggiungendo qualcosa sul piano oggettivo ma realizzando la sua
appropriazione nella storia.
La redenzione oggettiva non coincide con la redenzione soggettiva, il MOMENTO PASQUALE non
assorbe né cancella, bensì suscita, quello PENTECOSTALE; così, mentre il battesimo significa
efficacemente la fondazione della vita cristiana, la cresima fa altrettanto a favore della vita
spirituale.
Il sacramento, infatti, che sottolinea l’appropriazione singolare dello Spirito Santo è la CRESIMA:
è portare a compimento il dono perfetto del battesimo; una nuova effusione dello Spirito dice
che vi è sempre un dono personale (cfr. Rm 8: lo Spirito Santo attesta al nostro spirito che
siamo figli di Dio) che conferma mentre conforma.
La cresima è sacramento di completamento non additivo: questo completamento, che non
aggiunge nulla all’opera del Cristo, consiste precisamente nella appropriazione di tale opera
compiuta dal soggetto credente grazie alla forza dello Spirito Santo. La cresima è il
sacramento della singolarità storia della vita di fede. La libertà dell’uomo si dà storicamente:
diventare cristiani è dire quel sì dell’uomo a quel progetto di Dio che per realizzarsi necessita
del libero consenso e della libera partecipazione dell’uomo (siamo chiamati a divenire figli di
Dio adottivi).
2. La dimensione mistica della vita spirituale
Dal Manoscritto C di santa Teresa di Lisieux
Come è grande la potenza della preghiera! La si direbbe una regina la quale abbia ad
ogni istante libero adito presso il re e possa ottenere tutto ciò che chiede. Non è affatto
necessario per essere esaudite leggere in un libro una bella formula composta per la
circostanza; se così fosse, ahimè! come sarei da compatire!
Al di fuori dell'Ufficio divino, che sono indegnissima di recitare, non ho il coraggio di
sforzarmi a cercare nei libri le belle preghiere: ciò mi fa male alla testa, ce ne sono
tante!
E poi sono tutte belle, le une più delle altre. Non ce la farei a dirle tutte, e, non sapendo
quale scegliere, faccio come i bimbi che non sanno leggere, dico molto semplicemente
al buon Dio quello che gli voglio dire, senza far belle frasi, e sempre mi capisce.
Per me la preghiera è uno slancio del cuore, è un semplice sguardo gettato verso il
Cielo, è un grido di gratitudine e di amore nella prova come nella gioia, insomma è
qualche cosa di grande, di soprannaturale, che mi dilata l'anima e mi unisce a Gesù.
Non vorrei però, Madre cara, farle credere che io reciti senza devozione le preghiere in
comune, nel coro o negli eremitaggi. Al contrario, amo molto le preghiere in comune,
perché Gesù ha promesso di «trovarsi in mezzo a coloro che si riuniscono nel suo
nome»; sento allora che il fervore delle mie sorelle supplisce al mio.
Ma da sola (ho vergogna di confessarlo), la recita del rosario mi costa più che
mettermi uno strumento di penitenza. Sento che lo dico così male! Ho un
bell'impegnarmi nel meditare i misteri del rosario, non arrivo a fissare il mio spirito. Per
lungo tempo mi sono afflitta per questa mancanza di devozione che mi meravigliava,
perché amo tanto la Vergine Santa, tanto che mi dovrebbe esser facile fare in onor suo
le preghiere che le piacciono.
Ora me ne cruccio meno, penso che la Regina dei Cieli è mia madre, vede certo la mia
buona volontà e se ne contenta.
Qualche volta, se il mio spirito è in un'aridità così grande che mi è impossibile trarne
un pensiero per unirmi al buon Dio, recito molto lentamente un Padre nostro e poi il
saluto angelico; allora queste preghiere mi rapiscono, nutrono l'anima mia ben più che
se le avessi recitate precipitosamente un centinaio di volte. La Santa Vergine mi mostra
che non è affatto sdegnata con me, non manca mai di proteggermi appena l'invoco.
Se mi sopravviene una preoccupazione, una difficoltà, subito mi volgo a lei, e sempre,
come la più tenera delle madri, ella prende cura dei miei interessi. Quante volte
parlando alle novizie mi è accaduto di invocarla e sentire i benefizi della sua protezione
materna.
I. Significati e problemi
Le due accezioni della mistica
Il termine MISTICO viene dai termini:
μύω: chiudere gli occhi e le labbra;
μυστήριον: il disegno/progetto di Dio attuantesi nella storia, ovvero essere e arrivare alla
piena comunione con la Trinità
Aveva ragione Balthasar nel dire che “o i cristiani del futuro saranno mistici, o non saranno”,
cioè saranno realmente in relazione con Dio oppure non saranno.
Allora per VITA MISTICA si intende:
accezione generale = santità, vita di comunione profonda con Dio;
accezione particolare = fasi più alte ed elitarie, ordinarie e straordinarie, dell’esistenza
cristiana.
Ogni cristiano è , e deve imprescindibilmente essere, un mistico. I mistici per eccellenza sono
i SANTI.
Le due accezioni della ascetica
Il lavoro su di sé nello smussare tutto ciò che è impedimento, nasce dall’amore per il Signore.
Ma ciò è tutt’altro che ovvio…spesso le nostre scelte non sono motivate dall’amore ma
dall’immagine di sé che si vuole costruire, da un ideale di vita spirituale che si persegue
personalmente.
Il significato del termine ASCETICO viene da ἀσκέω: lavorare con diligenza e arte. E se l’ascetica è
direttamente conseguente alla mistica, anche la VITA ASCETICA ha due significati:
accezione generale = dimensione di lotta chiesta dal superare gli ostacoli nella via della
carità;
accezione particolare = fase di vita spirituale precedente al momento propriamente
mistico.
I momenti propriamente mistici sono preceduti da un lavorio, da un’agonia che prelude
all’incontro con Dio (cfr. Giacobbe nella lotta con l’angelo di Dio).
II. Vita mistica e preghiera
Se la mistica è molto più ampia, ci concentriamo solo sulla PREGHIERA: anche se la vita di
preghiera non esaurisce la mistica del cristiano, ne costituisce LA VETTA PIÙ ALTA, il caso serio
della vita mistica.
Potrebbe essere vista come vita secondo fede, speranza e carità (Paolo condensa l’essere unito
a Cristo nelle virtù teologali che lo rendono simile a Dio); oppure attraverso i sacramenti, le
virtù cardinali o la morale… La testimonianza di santità cristiana nella Chiesa è unanime in
questo:
la preghiera è il vertice della vita mistica, cioè dell’unione della persona con Dio; nella
preghiera si realizza la massima comunione possibile tra gli uomini e Dio. La scelta di
concentrarsi sulla preghiera, dunque, viene dal METODO INDUTTIVO.
III. Lo specifico della preghiera cristiana
Il fenomeno della preghiera non è solo del cristianesimo: ogni fede ha la sua espressione tipica
di preghiera, direttamente discendente dall’identità di Dio professata e dall’idea di uomo
seguente.
Lo specifico della preghiera cristiana è la sua DISCENDENZA TOTALE DA CRISTO: caratteristica
distintiva consiste nel derivare interamente dalla preghiera di Gesù e nel modellarsi
fedelmente su di essa.
LA SINGOLARITÀ DI GESÙ determina anche la SINGOLARITÀ DELLA PREGHIERA CRISTIANA: se vi sono paralleli
con alcune pratiche di altre tradizioni, lo specifico cristiano determina e cambia quelle
pratiche.
La preghiera di Gesù
Gesù ha pregato, ha fatto della preghiera non una dimensione della sua vita ma la filigrana di
tutto ciò che ha fatto ed è: Gesù è l’orante, è culto, è preghiera che si innalza incessantemente
al Padre.
Scrive A. LOUF in Lo Spirito prega in noi:
La preghiera di Gesù non occupa soltanto una parte importante del suo tempo:
la sua preghiera è già in se stessa un avvenimento straordinario e indicibilmente
nuovo.
Mai un uomo ha saputo pregare come Gesù ha pregato. Davvero, per la prima
volta una parola umana trova un senso pieno sulle labbra di un uomo; per la prima
volta il Padre ha ascoltato dalla bocca di un uomo, che era veramente il Figlio del
suo sangue, una parola che, pur restando pienamente umana, rispondeva
pienamente al suo amore illimitato. La preghiera di Gesù, infatti, non può
comprendersi se non si tiene conto che Gesù è nello stesso tempo Dio e uomo,
che in lui il Verbo si è fatto carne.
Nella sua preghiera di uomo deve dunque esprimere qualcosa di ciò che vive
nella santa Trinità: l’inesprimibile legame che unisce reciprocamente il Padre e il
Figlio.
Parola e risposta, amore e amore corrisposto, dono e contraccambio di dono. Il
Figlio, che sgorga dalla fonte del Padre, resta sempre nel seno del Padre (cf. Gv
1,18) e sempre nuovamente rifluisce verso questa fonte.
Nella preghiera di Gesù, questa realtà divina è presente in modo unico: è l’amore
di cui porta egli stesso la pienezza, la volontà del Padre che è suo unico cibo, lo
Spirito santo che riceve dal Padre. Fino alla venuta di Gesù la preghiera è rimasta
forzatamente circoscritta da un orizzonte molto limitato. Era ancora senza voce.
In Gesù essa può ora esprimersi e raggiungere immediatamente il proprio
compimento.
Il dialogo eterno che avviene nello Spirito tra il Padre e il Figlio con l’INCARNAZIONE non si
interrompe, ma prosegue assumendo però la GRAMMATICA UMANA per questo dialogo: la Parola,
il Verbo nasce ed è infante (colui che non parla), e impara a ripetere le sillabe pronunciate
dalla madre; eppure queste prime sillabe sono le parole della Parola e sono la traduzione
economica di quel dialogo eterno di amore che c’è tra il Figlio e il Padre. Perché quando il
Figlio che si incarna, tutto si incarna: il Figlio προς τον Θεον dall’eternità adesso esprime il suo
essere sempre tutto rivolto al Padre con parole umane; ma se per il Figlio essere in dialogo
con il Padre è ciò che lo costituisce Figlio (è tutto dipendente dal Padre, tutto ciò che è ed ha
è dipendente dal Padre), tutte le parole di Gesù saranno dialogo con il Padre! Ogni parola di
Gesù è preghiera!
Nel PADRE NOSTRO Gesù insegna ai discepoli la postura filiale, consegna la sua stessa identità; il
Padre Nostro è la proposizione in forma di preghiera dell’identità filiale di Gesù, donata e
partecipata a noi; il Padre Nostro è la traduzione in forma di preghiera di Mt 6,33: “Cercate,
anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutto il resto vi sarà dato in aggiunta”; Gesù non
insegna una formula ma come entrare nella sua stessa postura filiale, con la stessa fede
illimitata che Egli ha nel Padre.
Per questo la preghiera è fonte di salvezza (Sant’Alfonso: “chi prega si salva e chi non prega si
danna”).
Ora, la sola preghiera che salva – così come la sola fede che salva – è quella di Gesù! La nostra
fede è possibile solo in quanto partecipazione alla fede di Gesù: solo Lui è l’uomo perfetto che
si affida totalmente al Dio affidabile; Gesù abbandonato è la fede, che si riabbandona a Colui
da cui si sente abbandonato. La FIDES JESU è esattamente il nome della relazione che da sempre
il Padre desidera con gli uomini: noi possiamo credere nella singolare fede di Gesù (poiché ne
è principio), in cui siamo innestati per il Battesimo, come tralci della vite, e per grazia possiamo
partecipare del suo stesso rapporto con il Padre. Ciò che ci conferma che possiamo veramente
relazionarci al Padre con lo stesso rapporto che Gesù ha è lo Spirito Santo: a noi è stato dato
LO STESSO SPIRITO DI GESÙ, quello Spirito in cui anche noi possiamo dire “Abbà”! Perciò un
cristiano che non prega è un aborto.
Si prega nel modo giusto unicamente quando si prega nel nome del Signore; e ciò non significa
al posto di Gesù, e neppure semplicemente in sua compagnia, ma “DENTRO” di Lui, dentro la
sua realtà di orante, sì da fare un tutt’uno con lui e con la sua preghiera.
Caratteri della preghiera specificamente cristiana
La vera preghiera cristiana è il riflesso ed il prolungamento della preghiera di Gesù:
1. si rivolge a Dio inteso nella sua identità ultima di Padre, risultando in ciò stesso
TOTALITARIA;
2. corrisponde pienamente all’identità ultima di Gesù, vero Figlio, così da essere INCESSANTE;
3. si compie costantemente nello Spirito, in una struttura di obbedienza RESPONSORIALE;
4. collima con la qualità di “primogenito” ricapitolativo, cioè squisitamente ECCLESIALE.
PREGHIERA TOTALITARIA (AL PADRE)
La preghiera di Gesù è TOTALITARIA, cioè è sempre un dialogo con il Tu del Padre: per Gesù il
Padre non è solo “il primo”, ma “IL TUTTO”! Quello con il Padre è il legame sorgivo e
fondamentale nel quale ogni altro legame trova spazio. Nella sua preghiera Gesù raggiunge
immediatamente il cuore del Padre, ed è un rapporto che determina tutta la vita di Gesù:
con Gesù viene di fatto superata la distinzione rigida tra sacro e profano perché tutto è
riferito al Padre (tutto parla del Padre: anche il gesto di una donna che spazza una casa per
cercare una moneta perduta, anche la semina di un seminatore) e in tutto Egli loda il Padre.
Allo stesso modo, la preghiera cristiana deve abilitare ad UN ASCOLTO SENZA CONDIZIONI, in
tutto quello che capita! Tutto si riferisce al Padre e non è ammissibile trattenere
qualcosa: il Padre è Colui che dona tutto senza trattenere nulla e il Figlio (e i figli)
imparano dal Padre a donare tutto.
PREGHIERA INCESSANTE (MEDIANTE IL FIGLIO)
La preghiera di Gesù è INCESSANTE perché è il Figlio ἦν πρὸς τὸν Θεόν, presso (rivolto al) Padre:
è la sua identità di Figlio che è al cospetto di Dio, con una presenza che definisce Dio e se
stesso!
Così, conseguentemente, anche la preghiera del cristiano deve essere incessante. Nel
Nuovo Testamento non c’è alcun trattato sulla preghiera (mentre c’è in altre tradizioni):
ci dice solo che non sappiamo pregare (“insegnaci a pregare”: la preghiera si impara) e ci
invita a pregare incessantemente (diversamente, non sei figlio di Dio, sei fuori dalla logica
cristiana).
PREGHIERA RESPONSORIALE (NELLO SPIRITO SANTO)
La preghiera di Gesù è RESPONSORIALE, ha nella RESPONSIVITÀ il suo proprium: il Figlio risponde
al Padre che gli dona tutto donando tutto a sua volta, sotto la guida e la mozione dello Spirito;
Egli tutto riceve dal Padre e tutto restituisce al Padre. L’amore dato e ricevuto tra Padre e
Figlio è lo SPIRITO. C’è una taxis nella Trinità (Concilio di Toledo) e il Padre è l’origine (non
temporale) delle altre due Persone: il Figlio risponde all’iniziativa amante del Padre su di lui.
Non a caso rispondiamo alla Parola di Dio con i Salmi (che sono anch’essi Parola di Dio),
perché è la preghiera stessa di Gesù!
La preghiera cristiana deve essere responsoriale: il ricevere precede il dare, l’ascoltare il
parlare, il lasciarsi trovare il cercare, il passivo è più importante e costruttivo dell’attivo.
Scrive GOZZELINO:
Va notato che la strutturazione responsoriale della preghiera è ciò che fa sì che
essa sia SEMPRE POSSIBILE, in qualsiasi situazione interiore, anche nei momenti di
maggiore lontananza da Dio, o di più grande aridità: se capita sovente che noi non
abbiamo nulla da dire a Dio, egli ha sempre una infinità di cose da dire a noi.
PREGHIERA ECCLESIALE (CON LA CHIESA)
La preghiera di Gesù riflette il suo statuo esistenziale di UNO PER I MOLTI: Cristo prega sempre
come ricapitolazione di tutta l’umanità, perché tutta l’umanità è predestinata in Lui. Cristo è
sempre il capo di un corpo inseparabile: la preghiera di Gesù non è mai privata, anche
quando è solitaria, è sempre relazionale, altrimenti non sarebbe trinitaria (dunque
ontologicamente impossibile).
La LITURGIA è l’apice della preghiera: massima espressione dell’orazione compiuta nella
Chiesa e per la Chiesa, sacramento dell’intera umanità. La preghiera cristiana si apre al
respiro universale e non solo su di sé, si rivolge al soddisfacimento dei DESIDERI DI DIO, non
dei propri.
IV. Modalità complementari della preghiera cristiana
Fondandosi sulle Scritture, la tradizione spirituale della Chiesa suole distinguere quattro
modalità di orazione, correlate in un unico insieme; ognuna legittima e necessaria, perché
corrispondente a un rapporto essenziale dell’uomo: con Dio, con gli uomini, col mondo.
ADORAZIONE E LODE
La preghiera di adorazione e di lode è la prima e più importante delle modalità e nasce dallo
stupore riconoscente per l’infinita grandezza di Dio manifestata nelle sue opere: “AD-ORARE”
significa “portare le proprie labbra verso” la persona amata; richiama il bacio, momento più
intimo della relazione d’amore (la Messa inizia e si conclude con il bacio all’altare). La
preghiera di adorazione e di lode ringrazia Dio perché è Dio: si congratula con Dio per il suo
essere Dio; non è anzitutto ringraziamento per un dono ricevuto, ma per la grandezza stessa
di Dio (cfr. Salmo 62), esattamente come si ama una persona non per le sue caratteristiche
quanto anzitutto per il suo essere in se stessa. Lodare e adorare Dio per quello che è, per la
bellezza e grandezza della Sua maestà (cfr. Lodi all’Altissimo di Francesco d’Assisi).
RINGRAZIAMENTO
La preghiera di ringraziamento, o di eucaristia (in ebraico todà), non è presente in maniera
esplicita nel Padre Nostro ma è evidente nella vita di Gesù! È una modalità che ringrazia Dio
per le sue opere e benefici (cfr. Salmo 103). Si deve ringraziare per tutto ciò che si ha e si
è…fino anche a ringraziare per ciò che per noi è spina, per ciò che ci fa soffrire.
SUPPLICA E INTERCESSIONE
Entrambe sono preghiera di richiesta a Dio di doni spirituali: la preghiera di supplica si ha
quando si chiedono a Dio dei doni spirituali per sé; la preghiera di intercessione invece è
chiedere per altri.
DOMANDA
La modalità in cui chiediamo a Dio dei doni materiali, dei valori terreni legati alle necessità
terrene. Il Padre Nostro la contempla: “dacci oggi il nostro pane quotidiano”. È esattamente
insito nella creaturalità chiedere al Creatore: “chiedete e vi sarà dato, bussate e vi sarà
aperto”; e se è vero che bisogna cercare anzitutto il Regno di Dio, queste cose non
mancheranno.
V. Problemi e valori della preghiera di domanda
LEGITTIMITÀ
Che senso ha pregare se Dio sa già di cosa si ha bisogno? Perché “Dio non dà se non a chi
chiede, per non dare a chi non riceve”. La preghiera non è per informare Dio di ciò di cui
abbiamo bisogno, e neppure per indurlo a venirci incontro, bensì per disporre noi alla
ricezione dei suoi doni, sia o non sia quello che gli abbiamo chiesto.
VALIDITÀ
Se la richiesta umana spesso deve essere rettificata o perfino accantonata, non è più
ragionevole non chiedere nulla? Gesù non l’avrebbe praticata né insegnata se non fosse
valida o valesse nulla! La preghiera di domanda risponde ad un’ESIGENZA INTRINSECA DELL’UOMO
CHE È CREATURA: siccome l’uomo non può rinunciare ad essere la creatura che progetta, è
giusto che chieda beni, anche temporali; «il domandare del cristiano, in quanto domanda di
questo o di quello, non viene annullato, ma relativizzato, o posto sotto la riserva
escatologica».
PREGHIERA E PRASSI
Non è forse vero che per molti cristiani è più facile pregare che operare? Le difficoltà valgono
non per la preghiera di domanda in sé, ma caso mai per le sue deformazioni. Lungi dal
sottrarlo, la vera preghiera genera vitalmente l’impegno nella prassi: non si può incontrare
il Dio degli uomini senza essere travolti dal suo folle amore per gli uomini.
VI. Necessità della preghiera
Sulla indispensabilità della preghiera, la tradizione cristiana, ammaestrata dal magistero di Gesù
che insegnò «la necessità di pregare sempre, senza stancarsi» (Lc 18,1) non ha mai cessato di
insistere:
per sant’Alfonso M. de Liguori, senza preghiera non si dà salvezza; i Racconti di un
pellegrino russo dicono che senza orazione non si può compiere nessuna altra buona
azione;
la preghiera va intesa non tanto come un dovere quanto piuttosto come un DIRITTO, ed
bisogno irrinunciabile dello spirito.
VII. Condizioni ascetiche della preghiera
L’orazione è incontro e comunione con Dio; ne consegue che lo spirito può fare vera orazione
solo rimovendo gli impedimenti che la impacciano, e solo coltivando le disposizione che la
sostentano.
Il gesuita Caussade concentra le condizioni ascetiche della preghiera in QUATTRO TIPI DI PUREZZA:
purità di coscienza, od esclusione del peccato;
purità di cuore, o distacco da ciò che non è Dio;
purità di spirito, o padronanza dei pensieri e della immaginazione;
purità della azione, o sottomissione della libertà al volere di Dio.
4. RETTITUDINE DI INTENZIONE
Si chiama purità di azione, o anche di intenzione, il distacco dell’impegno operativo di un
soggetto da fini diversi da quello della ricerca del compimento della volontà di Dio. L’ascesi
delle disposizioni della preghiera garantisce l’essere un incontro di amore. Scrive GIOVANNI
DELLA CROCE:
Molti vorrebbero che Dio non costasse loro più che pronunziare una parola. Ma
finché non usciranno in cerca dell’Amato, per quanto gridino a Dio, non lo
troveranno. Anche la sposa dei Cantici lo cercava così, ma non lo trovò finché non
uscì per cercarlo.
CHI DUNQUE CERCA DIO VOLENDO RIMANERE NEI PROPRI GUSTI E NELLE PROPRIE COMODITÀ, LO
CERCA DI NOTTE E QUINDI NON LO TROVA. Colui, invece, che lo cerca mediante le buone
opere e l’esercizio delle virtù, lasciando il letto dei suoi gusti e dei suoi piaceri, lo
cerca di giorni, e quindi lo trova, perché ciò che è introvabile di notte lo scopre di
giorno.
VIII. Forme e gradi della preghiera cristiana
Da qualsiasi parte io consideri l’appropriazione personale della fede, avviene sempre, in tutte
le dimensioni della crescita spirituale, un semplice e determinante passaggio evolutivo da una
fase iniziale in cui predomina l’attività del soggetto verso il primato della passività. Tutte le
cose più alte (o più profonde) della santità vede sempre nel suo esito il PRIMATO DELLA PASSIVITÀ,
di ciò che Dio fa per me: si è sempre più occupati da ciò che Dio fa per il soggetto e per il
mondo, fino a diventare – negli esiti finali – “DIMENTICO DI ME”.
Si tratta di un passaggio dal primato della POSTURA MASCHILE (attività, esposizione) al
primato della POSTURA FEMMINILE (recettiva, accogliente).
Così anche Gesù, passa da una vita molto attiva ad un esito finale della passione, in cui si lascia
fare dal Padre nella forma del lasciarsi fare dagli uomini; non è l’esito di un’azione gloriosa
eroica, ma farsi nulla perché si riveli il Padre.
Oltre alla contemplazione (di cui diremo), le FORME DELLA PREGHIERA ordinaria sono
sostanzialmente:
la preghiera diffusa è quel sottofondo incessante, quella disposizione abituale che pian
piano conduce nella preghiera continua;
la preghiera vocale – non si intende la preghiera a voce alta – si intende la preghiera con
parole che non scegliamo spontaneamente ma che sono date;
la preghiera mentale è la meditazione discorsiva.
a. La preghiera diffusa
Istanza di fondo
La preghiera diffusa è tipica del Nuovo Testamento: risponde all’invito a “pregare
incessantemente”, del “pregare sempre senza stancarsi mai”.
La preghiera del cristiano è chiamata a diventare diffusa, perseverante: in modo che la
preghiera diventi uno “STATO”, non un momento (anche se ci sono momenti espliciti).
Forme storiche di attuazione
All’esigenza della preghiera incessante è stata data, storicamente, una doppia forma:
ESCLUSIVA, propria di pochi o limitata ad alcuni momenti di privilegio; è la via del DESERTO,
realizzata in maniera eminente nell’eremitaggio: ci si ritira per dedicarsi notte e giorno
alla preghiera;
INCLUSIVA, accessibile a tutti, è l’inveramento più realistico della preghiera RESPIRO
DELL’ANIMA: “essere alla presenza del Signore”, costantemente, in ogni momento e in ogni
situazione.
Fondamento
L’orazione personale si fa preghiera diffusa quando riesce ad entrare nel sangue a tal punto che
ci si può accorgere improvvisamente di STARE IN PREGHIERA senza neppure sapere come si sia
cominciato a farlo. Ma questo modo di essere – che rende il credente un perpetuo orante – si
mantiene
a condizione di una FREQUENTE ESPLICITAZIONE DEL RAPPORTO A DIO. E questo avviene mediante la
moltiplicazione delle PREGHIERE BREVI (giaculatorie):
esprimere con poche parole, in una frase concisa, gli effetti concreti che una
determinata situazione ha su di sé, ciò che riempie la coscienza in termini di gioia,
riconoscenza, preoccupazione, angustia, demoralizzazione, consapevolezza di colpa,
e via dicendo.
Si possono usare formule fisse, desunte dalla tradizione della Chiesa; oppure si può cercare di
dire con parole proprie ciò che si vuole comunicare a Dio, o a Gesù reso presente dalla
risurrezione, o ai santi, che partecipano alla risurrezione. L’importante è esplicitare lo stato
virtuale di preghiera.
La TRADIZIONE ORIENTALE, specialmente esicastica (= trovar pace), raccomanda, tra le tante
possibili, la preghiera di Gesù, o preghiera del nome, o del cuore, consistente nel ripetere
indefinitamente il nome di Dio o di Gesù, o da solo o in una invocazione che lo contenga.
È dunque una preghiera praticabile con facilità in qualsiasi luogo, circostanza o momento; senza
scusanti o alibi autogiustificanti: non c’è motivazione che tenga per non pregare!
Condizioni
Due condizioni:
1. la frequenza della preghiera breve, la cui pratica si mostra indispensabile:
come ALIMENTO della preghiera totale;
come VERIFICA dell’amore che si nutre per Dio.
2. la relatività, poiché il primato deve rimanere sempre sulle pratiche di pietà!
Vantaggi ed attualità
La PREZIOSITÀ della preghiera breve, anima della preghiera diffusa, è evidente:
la preghiera breve è questione di secondi e non fa “perdere tempo”
la sua spontaneità e il suo accento personale, la liberano dal rischio di artefatto e
routine.
L’ATTUALITÀ della preghiera diffusa trova risalto nel confronto con due obiezioni ricorrenti:
“BISOGNA SENTIRE IL BISOGNO DI PREGARE”; ma la preghiera è alimento base, non opera
artistica!
“NON C’È TEMPO PER PREGARE”; ma la preghiera breve testifica che è un alibi inconsistente!
Preghiera ed azione
Da sempre la prassi cristiana si confronta con il tema della dualità AZIONE e CONTEMPLAZIONE…
DISTINZIONE
I due termini sono inequivocabilmente distinti: il lavoro non è preghiera. Può diventarlo,
deve di diventarlo: ma non lo è per se stesso! L’azione non coincide automaticamente con
l’orazione (spesso l’impegno nel lavoro distrae l’uomo dalla preghiera), e la preghiera per sé
costituisce altra cosa dall’azione (preghiera e retta intenzione non bastano a cambiare la
qualità intrinseca di un’azione, un lavoro, un prodotto…fino anche a degenerare in evasione
dall’impegno pratico).
UNITÀ
La distinzione si compone nell’unità: la preghiera è incessante respirazione e si respira per
vivere! Come lo spirito trascende la materia, così l’orazione supera l’azione in valore; ma
come lo spirito non risulta pienamente se stesso se non perché si incarna, così la preghiera
invoca l’azione e la genera; come la materia non diventa corpo se non nell’animazione che
le induce lo spirito, così l’azione non si trasforma in preghiera se non lasciandosi impregnare
da ciò che la rende preghiera.
CARITÀ
Questa unità si compie nella carità, intesa – in senso squisitamente neotestamentario –
quale libera obbedienza filiale al Padre modellata sul Cristo: la sintesi si fa nell’amore, perché
l’orazione «non consiste nel molto pensare ma nel molto amare», perché «pregare è
soprattutto amare», che a sua volta si risolve nell’obbedire. In concreto, l’azione diventa
preghiera quando è presa come ciò che Dio vuole, quando è fatta perché Dio la vuole,
quando punta al meglio di sé per amore di Dio (ama chi fa tutto ciò che Dio vuole in radicale
adesione al volere di Dio, senz’altra ragione fondante, come esige l’eccellenza di Dio).
LIBERTÀ
Elemento chiave dell’unità della vita interiore con l’azione esteriore resta la retta intenzione:
la sintesi si gioca ultimamente sul terreno della libertà, dell’assenso dell’uomo all’infinito
valore di Dio che si propone nel piccolo valore delle opere.
Se l’azione non si fa preghiera senza la volontà di obbedienza, questa non si esprime in
preghiera senza coinvolgervi l’azione.
b. La preghiera vocale
Specificità
Se la preghiera diffusa consiste essenzialmente in uno stato di preghiera, le due forme di
orazione dette VOCALE e MENTALE sono costituite dal ATTI e pratiche puntuali:
la PREGHIERA VOCALE è quella che si fa adoperando una formula prestabilita;
la PREGHIERA MENTALE è quella che si fa spontaneamente, esprimendo sentimenti che
sgorgano attualmente dal cuore.
L’essenza della preghiera vocale risiede nella APPROPRIAZIONE PERSONALE di una formula di
incontro con Dio presa da altri. Gli elementi che la compongono sono tre:
1. comprensione della formula, dei significati delle parole con le idee e affetti che
comunica;
2. appropriazione o personalizzazione, il farla propria;
3. formulazione vocale, eventualmente.
E l’impegno che risulta più importante è il secondo: tra lo spirito e la formula di cui si serve
bisogna che sorga ed esista una unione vitale, altrimenti le formule restano espressioni
meccaniche.
Valori
La preghiera vocale merita molta considerazione e apprezzamento, poiché:
dispone di un posto eminente e prevalente nella LITURGIA, apice della preghiera della
Chiesa
garantisce VANTAGGI di grande valore e attualità:
1. facilità di pratica: le formule della preghiera vocale sono sempre a disposizione;
2. duttilità di espressioni: la molteplicità di formule permette di dar voce a molte
risonanze dell’anima (nella diversità di sottolineature offerte dalla pluralità dei testi, si
trova la possibilità di esplicitare mozioni interiori preziose che altrimenti rimarrebbero
inespresse e inefficaci);
3. ampliamento di prospettive: allarga gli orizzonti della preghiera personale, obbliga a
prendere coscienza di esigenze, bisogni, valori, dimensioni della Chiesa e dell’umanità
che il singolo probabilmente neppure sospetterebbe;
4. sostegno della povertà di spirito: obbliga ad uscire dalla cerchia dei propri pensieri,
delle proprie preoccupazioni, delle proprie sensibilità, per entrare in contesti più ampi;
perciò mortifica l’orgoglio e favorisce il distacco da se stessi, ossia la povertà di spirito.
Difficoltà e rimedi
La preghiera vocale risulta particolarmente esposta a DIFFICOLTÀ E PERICOLI:
i rischi della sclerosi indotta dall’automatismo;
non permette facilmente di fermarsi su pensieri ed affetti, che produrrebbero molto
frutto;
non si sottrae alle distrazioni.
PER SUPERARE questi ostacoli:
coltivazione delle disposizioni ascetiche, ovvero la richiesta di un abituale raccoglimento;
recitare le formule con lentezza sufficiente a far seguire dalla mente quanto si dice con
le labbra;
prender come oggetto di meditazione il testo delle preghiere vocali (Esercizi Spirituali,
238-260):
recitarli di tanto in tanto con molta lentezza, per seguirli con maggiore partecipazione;
contemplare il significato di ogni parola della preghiera;
pregare “a ritmo” di respiro.
c. La preghiera mentale
Specificità
La preghiera mentale si distingue dalla preghiera vocale per il fatto di dar voce ad affetti,
pensieri e sentimenti personali, senza servirsi di formule prestabilite. È il motivo per cui essa
costituisce «l’orazione più personale, nella quale si affermano di più le caratteristiche, le
tendenze, i bisogni della persona». È la preghiera più impegnativa e per questo è, solitamente,
la prima che salta: è la più personale, ma proprio perché affidata a ciascuno, è molto
faticosa…e facilmente abbandonata.
Si dà un senso, tuttavia, in cui ogni preghiera vocale deve essere, sotto pena di cessare di essere
vera preghiera, anche mentale. Qui, però, parliamo della preghiera mentale in senso esclusivo,
come formalmente diversa dalla preghiera vocale; ci concentriamo sulla forma di MEDITAZIONE
DISCORSIVA.
Etimologia
Dalla radice haga, che significa mormorare a mezza voce o sussurrare, per memorizzare;
dal greco μελετάω - μελέτη = aver cura di, escogitare, avere a cuore; sollecitudine,
esercizio, studio;
in latino meditari- meditatio.
La tradizione cristiana l’ha spesso associato l’idea alla mensa verbi e alla ruminatio: per i Padri
vuol dire masticare la Parola di Dio per alimentare lo spirito e anche ruminare, ossia assorbire
lentamente e profondamente, e purificare l’anima.
Importanza
Non esiste maestro di spirito che non insista sulla INDISPENSABILITÀ DELLA MEDITAZIONE DISCORSIVA
per il progresso dello spirito: esiste una «convinzione, vecchia di secoli, dei i maestri di spirito,
secondo cui non si dà progresso nel cammino verso Dio, e non si dà approfondimento della
fede senza la meditazione». Lo documentano due rilievi accessibili a tutti:
il deterioramento della meditazione è uno dei segni più visibili e costanti del
deterioramento della intera condizione spirituale di un soggetto;
quando due persone si amano veramente, sono felici di intrattenersi cuore a cuore, con
calma e tranquillità; se manca la volontà della meditazione, non c’è scusa che tenga,
neppure quella della aridità: è carente l’amore, e dunque viene meno la sostanza della
vita spirituale.
Forme di meditazione
Molti autori spirituali insistono sulla distinzione tra le due forme di:
meditazione riflessiva, quando prevale la riflessione, quando si tratta «di pregare come
se si stesse guardando attentamente un quadro, per vederne tutti i dettagli e scoprirne
tutte le bellezze». In concreto, si prende «un testo della Scrittura […] e lo si passa
pezzetto per pezzetto», e si compie alla presenza di Dio perché non è una semplice analisi
letteraria o esegetica;
meditazione semplificata, quando la riflessione si riduce a poco, grazie alla facilità di
essere presi dalla presenza di Dio, per cui all’orante può bastare una semplice frase, una
espressione centrale che di tanto in tanto – e con estrema semplicità – ripete a se stesso.
Anche se la meditazione semplificata si trova ad un livello più elevato, le due forme non
sono necessariamente successive, e sovente si alternano.
Elementi essenziali
Nella diversità di metodi, tre sono gli ELEMENTI ESSENZIALI:
1. riflessione: pone l’orante in rapporto con un valore da accogliere od un disvalore da
respingere;
2. affetto: risonanza nell’orante della percezione dell’uno o dell’altro;
3. risoluzione: fa passare la risonanza nella pratica della vita (volontà di qualcosa).
Il primo passo lo compie l’INTELLIGENZA, aprendosi alla percezione del valore o disvalore
rappresentati da una particolare realtà.
Il secondo passo lo fa la VOLONTÀ, aprendosi al fascino del valore e lasciandosene impregnare,
oppure chiudendosi al disvalore e rifiutandolo.
Il terzo passo lo realizza ancora la VOLONTÀ, orientando la vita nella direzione della accettazione
del valore o del rigetto del disvalore, a partire dall’invocazione dell’aiuto di Dio.
Il cuore della meditazione si trova nel secondo elemento, in quel movimento interiore di
apertura a Dio e di ripulsa del male che gli autori spirituali usano chiamare MOZIONE DEGLI
AFFETTI.
Affettività: capacità di sintonia o distonia attiva dell’uomo davanti a ciò che coglie come
promuovente o degradante.
CATEGORIE CATEGORIE DI F. DI NOSTRA
CATEGORIE CLASSICHE
PSICOLOGICHE SALES TERMINOLOGIA
immanente trascendente
Conseguenze pratiche
1. Il valore della meditazione non si misura sulla intensità o complessità della riflessione, ma
sulla forza di risoluzione conferita allo spirito. Ciò che conta è la mozione degli affetti, e
dunque «la parabola della meditazione è la parabola dell’amore».
2. La meditazione mira a scuotere la volontà: allora il lavoro intellettuale deve interrompersi
appena la mozione comincia a prodursi, ed essa deve trovare la possibilità di espandersi
liberamente e l’orante deve potersi fermare su ciò che lo tocca nel momento in cui lo
tocca.
3. È giusto servirsi ogni giorno di quanto risulta utile in quel giorno; in fatto di meditazione
giova regolarsi sui principii di un sano e giudizioso pragmatismo: pur non sfarfalleggiando
da un testo all’altro, e pur mantenendo fermo il principio del primato delle Scritture,
bisogna che il testo sia a servizio dell’uomo, e non l’uomo a servizio del testo.
4. La riflessione di partenza va fatta sulla Parola di Dio presa nella sua accezione più ampia:
non solo sui testi biblici, ma anche su quelli della tradizione spirituale cristiana; né
unicamente sui libri, ma anche su fatti ed accadimenti personali, o comunitari, od
universali, che si mostrano carichi di un «quanto» di energia spirituale capace di muovere
la volontà e suscita l’amore. Se è vero che la vita, propria ed altrui, è una perenne proposta
d’amore di Dio agli uomini, non esiste nulla che non possa diventare proficua materia di
meditazione.
5. Quando si constata che qualche testo è molto adatto a muovere la volontà, occorre
assicurarne l’utilizzazione per la meditazione. La mozione degli affetti non avviene soltanto
durante la meditazione, ma in molte altre occasioni.
6. La riuscita di una meditazione si decide ultimamente sul terreno della concretezza e
risolutezza dei propositi: quando la mozione degli affetti è autentica, si incarna in un
proponimento; la sua consistenza si misura non sulla quantità dei sentimenti, ma sulla
stabilità delle risoluzioni.
L’inconfondibilità della meditazione
Il fatto che l’intento fondamentale della meditazione stia nel consolidare la volontà dell’orante
di aderire in tutto a Dio, esclude che la sua pratica si confonda con altre simili. LA MEDITAZIONE
NON È:
studio perché, mentre questo si muove sul piano dell’apprendimento, quella si giuoca
sul terreno della dimensione affettiva; la meditazione, pur avendo bisogno di riflessione,
non cerca la scienza ma l’intelligenza del cuore. Lo studio può cambiarsi in meditazione,
ma non deve mai succedere l’inverso.
preparazione di prediche o lezioni di catechismo, perché la meditazione non si presta a
“esplicitare, ordinare, fare un sistemino e concludere”, perché è libera per definizione.
lettura spirituale comunitaria, perché queste implicano una successione obbligata di
pensieri che non lascia al soggetto la possibilità di fermarsi sulla mozione degli affetti e
come è necessario; impongono temi ed argomenti che talora servono più ad informare
che a scuotere; risultano meno personali e più passive e riposanti della meditazione.
incontro spirituale di gruppo, perché dispensa l’orante dall’indispensabile tu a tu
personale che definisce l’orazione mentale.
lectio divina (monacale o individuale), perché questa richiede di un respiro cronologico
ben più ampio e si concentra sulla Scrittura, mentre la meditazione spazia più
liberamente su tutti i fronti, secondo le esigenze del momento.
La questione dei metodi
La ricerca di una fruttuosa pratica della meditazione ha dato origine nella storia a MOLTI METODI:
1. metodo ignaziano (di sant’Ignazio di Loyola)
Dopo una preparazione consistente nel pregare per ottenere la grazia di una buona
meditazione, l’orante si impegna nell’esercizio delle tre potenze: scelto un fatto biblico o
di esperienza personale, mette in azione la memoria richiamandone le circostanze;
l’intelletto, confrontandolo con la propria vita; e la volontà, prorompendo in affetti, e
formulando propositi energici e pratici. L’orazione si chiude con un colloquio con Dio od i
santi, al quale fa seguito un breve esame di coscienza sulla conduzione della pratica di
preghiera appena conclusa.
2. metodo salesiano (di san Francesco di Sales)
Volutamente semplice e breve, consta di tre parti coronate da una conclusione: la
preparazione, ossia il mettersi alla presenza di Dio, invocare Dio ed i santi, e proporre la
considerazione di un mistero della fede; le considerazioni, o atti dell’intelletto che mirano
a smuovere i nostri affetti per Dio e le cose celesti, e che funzionano se vengono fatte con
grande libertà di spirito; gli affetti, o movimenti della volontà, da convertire in risoluzioni
speciali e ben determinate per l’emendamento dell’orante (tra affetti e risoluzioni si
interpone il colloquio). La conclusione produce atti di ringraziamento, di offerta e di
supplica, e prepara una raccolta di pensieri ed affetti da tenere sotto gli occhi lungo il giorno
(mazzolino spirituale).
3. metodo sulpiziano (di J.J. Olier)
Consta di tre elementi: la preparazione è anzitutto remota (domanda una vita di
raccoglimento e di solida pietà), poi prossima (scelta, alla sera, del punto da meditar e
riflessione prima di addormentarsi), infine immediata (mettersi alla presenza di Dio,
recitare l’atto di dolore, ed invocare lo Spirito Santo); il corpo dell’orazione si articola in
adorazione (“mettere Gesù davanti a noi”: suscita affetti di adorazione, ammirazione, lode,
ringraziamento, gioia e compassione), comunione (“mettere Gesù nel nostro cuore”:
convincersi della necessità di praticare le virtù, contriti per il passato, umiliati per il
presente, desiderosi per il futuro) e cooperazione (“mettere Gesù nelle nostre mani”:
formulare un proposito); la conclusione è un ringraziamento a Dio per le luci ricevute, la
richiesta di perdono delle colpe commesse, l’invocazione di benedizione sui propositi presi,
con la formulazione di un mazzetto spirituale da affidare alla protezione di Maria.
cfr. scheda “MEDITAZIONE – SCHEMI”
Compare NELLA BIBBIA GRECA soltanto due volte, ma le espressioni che richiamano, se non il
termine, almeno le sue accezioni portanti, sono numerose. Nei testi neotestamentari (cfr.
Paolo) è inteso:
come autodominio, come virtù spirituale;
attraverso metafore legate alla corsa o allo sport.
Legittimità dell’ascesi
È importante non confondere l’ascesi con gli eccessi che eventualmente l’accompagnano: delle
deviazioni esistono, e occorre impegnarsi a rettificarle, ma si tratta appunto di deviazioni, che
richiedono VIGILANZA SULL’ESERCIZIO ASCETICO, non affatto la sua abolizione.
Una volta accolte le istanze di equilibrio, l’importanza della ascesi diventa indiscutibile! La prova
finale viene dall’esperienza dei santi. «Tutto o quasi tutto», ammonisce santa Teresa d’Avila,
«consiste nella rinuncia di noi stessi e delle nostre soddisfazioni. Chi comincia a servire
davvero il Signore, il meno che gli può offrire è la vita».
IV. L’agonia del cristiano
L’esercizio ascetico della vita spirituale vuole garantire l’adesione di fede alla croce di Cristo
spinta fino al compimento finale, nel contesto concreto della esistenza viatrice segnata dalla
presenza della forza distruttiva del male. Ascesi cristiana è combattimento (’αγωνία) contro
un quadruplice potere di male: il peccato, la carne, il mondo, ed il diavolo.
Lotta contro il peccato
Contro il PECCATO MORTALE: attraverso la contrizione e la pratica dei sacramenti, specialmente
quello della riconciliazione.
Contro il PECCATO VENIALE: da essi non si può mai essere interamente puri, tanto almeno da
rimanere lungo tempo in questa purità; ma si può benissimo non aver alcun affetto per i
peccati veniali.
Lotta contro la concupiscenza
La concupiscenza o durezza di cuore (sclero-cardia) non è il peccato in sé, ma ciò che il peccato
porta con sé e lascia, quell’indebolimento che ne consegue. Non va identificata riduttivamente
col solo istinto sessuale, ma quella durezza di cuore prodotta dalla connivenza con il peccato.
La concupiscenza allarga i tentacoli a tutti gli ambiti dell’esistenza, inquadrandosi nella sfera
della:
concupiscenza della carne: spinta disordinata degli istinti, delle abitudini di male,
connessi col corporeo, specialmente in ordine alla alimentazione (ISTINTO DI CONSERVAZIONE)
e attività sessuale (ISTINTO DI RIPRODUZIONE);
concupiscenza degli occhi: brama di impossessarsi di tutto ciò che appare appetibile (cfr.
Gn);
superbia della vita: radice fondamentale ed essenza ultima del peccato e comporta la
ricerca assolutizzata di sé che svia da Dio.
Da contrastare con la CONTINENZA, che regola non solo l’appetito sessuale, ma tutte le altre
attrazioni dei sensi. È qui che interviene la mortificazione sensibile, con la quale rifiutiamo alla
nostra sensualità le soddisfazioni che essa richiede.
Germinano dalla concupiscenza tendenze costanti radicate nelle varie dimensioni della
persona: sono i VIZI CAPITALI (superbia, avarizia, lussuria, ira, gola, invidia, accidia).
Lotta contro il mondo
Il MONDO va qui inteso in quella accezione negativa che lo fa sinonimo di mentalità e ambiente
opposti a Dio, stabiliti sulla autosufficienza che rinnega la dipendenza creaturale, tesi ad
amare se stessi sino al disprezzo di Dio. Il mondo in quanto ostile a Dio ASSOLUTIZZA I BENI RELATIVI;
il credente lotta efficacemente contro di esso se ed in quanto restituisce ai valori relativi la
subordinazione all’unico valore assoluto, il Dio vivente Padre di Gesù nello Spirito.
Oggi le tendenze in questione sono rappresentate da una mentalità e ambiente opposti a Dio
(mentalità scientista, umanesimo libertario, progetto nichilistico-dionisiaco, psicanalisi
freudiana, concezione marxista, strutturalismo, pensiero debole).
Lotta contro il diavolo
La più potente forma di male operante nel mondo è quella del maligno: il credente ne prende
atto con orrore, ma non con terrore, perché lo sa impotente, sconfitto e domato da Gesù
datore dello Spirito. Nello stesso tempo, però, il credente accoglie in tutta la loro serietà gli
avvertimenti del vangelo, e vigila, ossia si appoggia in tutto sul Signore.
Non dimentica, infatti, che questa realtà agonizzante è pur sempre capace di mordere a morte
l’insensato che si avvicina ad essa fidandosi di sé anziché di Dio.
V. Le tappe dell’ascesi cristiana
Appartengono al primo momento dell’ascesi cristiana la mortificazione e la purificazione
attiva; definiscono il secondo momento la pazienza e la purificazione passiva.
L’esito di questo passaggio (= pasqua) consiste nella maturazione della umiltà.
Primo momento: la mortificazione
Mortificazione deriva dal latino “mortem facere”, come a dire che si tratta di uno strumento
indispensabile per consentire all’esistenza terrena viatrice di produrre l’abilitazione alla vita
definitiva accessibile con la morte.
Essendo una pratica che coinvolge la totalità del soggetto umano, la mortificazione si distingue
in:
corporale o spirituale, a seconda che si eserciti sul corpo o riguardi le facoltà dello spirito;
passiva o negativa, riguardo il sostegno della vita virtuosa o il distacco dai beni relativi;
restrittiva o afflittiva, che si limita ad una restrizione oppure a scelta di un sovrappiù di
pena;
esterna o interna, a seconda della possibilità di osservazione dal di fuori che offre.
Mortificazione corporale
La mortificazione corporale (cfr. Esercizi ignaziani nn.210-217):
può essere praticata in FORMA ORDINARIA: moderazione delle posizioni del corpo, fuga dalle
mollezze della vita, assunzione di quel tanto di nutrimento e di sonno che è richiesto per
la buona salute, il controllo dei sensi, e simili; o in FORMA STRAORDINARIA: l’imporsi pene
supererogatorie (portare il cilicio, darsi la disciplina) è una forma legittima se risponde
ad un’autentica mozione dello Spirito (serve dunque un buon discernimento!), altrimenti
cade facilmente nel patologico;
forma eminente è il DIGIUNO: intrinsecamente connesso all’ELEMOSINA (ogni forma di vera
penitenza nasce dall’amore e spinge a farlo crescere) e alla VERGINITÀ (che consegue dal
senso escatologico della vita credente), anche se quest’ultima connessione oggi è meno
colta;
giova al SUPERAMENTO DELLE PASSIONI e al RINFORZO DELLA VOLONTÀ;
evidenzia il PRIMATO DELLO SPIRITO sulla materia: DUALITÀ (distinzione nella
complementarietà) ma NON DUALISMO (contrapposizione o separazione di due elementi
distinti); distinzione, dunque, che chiede tuttavia rispetto e equilibrio.
si attua nel CONTROLLO DEI SENSI, di tutti quanti, compresi vista e udito; nella odierna
temperie socioculturale, la pratica più urgente è quella del controllo dei mezzi di
comunicazione!
Mortificazione spirituale
Entrano nell’ambito della mortificazione anche le facoltà dell’area dello spirito:
ascesi di MEMORIA e di IMMAGINAZIONE: domanda una rigorosa IGIENE DELLA MENTE, con la
rimozione di ricordi e immagini che spingono al male (invece ricordare i benefici); chi si
abbandona al fantasticare, si perde nell’irreale e si rende incapace di accettare la
crocifiggente oggettività;
ascesi dell’INTELLIGENZA: consiste nel contrastare e superare le tendenze indotte da
pigrizia, vana curiosità, precipitazione, dispersione, assolutizzazione della ragione; chiede
di opporsi con vigore ai pensieri che suscitano e alimentano ira, pessimismo,
scoraggiamento e, di contro, chiede di coltivare pensieri atti a far sorgere serenità, letizia,
cordialità, tranquillità, …
ascesi della VOLONTÀ: si esercita nel controllo delle affezioni sregolate, e nell’impegno
della costante e rettificazione della intenzione, contro l’insinuarsi instancabile della
superbia della vita.
Purificazione attiva
Gran maestro dell’aspro cammino di ascesi, vissuta soprattutto come purificazione, fu senza
dubbio san Giovanni della Croce: egli chiama NOTTE l’ascesi perché in essa «l’anima cammina
al buio, come di notte». E vi distingue:
notte dei sensi, quella concernente la sfera sensitiva, aperta sul mondo del sensibile;
notte dello spirito, quella riguardante la sfera razionale, aperta sul mondo spirituale.
Ciascuna suddivisa, a sua volta, in notte attiva e notte passiva dei sensi e dello spirito:
notte ATTIVA dei sensi primo libro della Salita al Monte Carmelo
notte ATTIVA dello spirito secondo libro della Salita al Monte Carmelo
notte PASSIVA dei sensi primo libro della Notte Oscura
notte PASSIVA dello spirito secondo libro della Notte Oscura
San Giovanni della Croce insegna che di solito LA NOTTE DEI SENSI inaugura la via illuminativa,
mentre la NOTTE DELLO SPIRITO apre l’accesso alla via unitiva.
La pratica dominante della mortificazione (corrispondente alle NOTTI ATTIVE) prepara il terreno
alla pratica dominante di una situazione soteriologicamente più alta (corrispondente alle NOTTI
PASSIVE) ove l’iniziativa di Dio è più larga e profonda. Questa situazione, proprio per il
predominio passivo, viene detta PAZIENZA: dal latino pati (patire), in greco è detta ῾υπομονή,
che significa “star sotto”, ossia soggiacere alla azione onnipotente di Dio, con piena fiducia e
completa disponibilità ai suoi intenti di rettificazione, purificazione ed unificazione.
Mortificazione e pazienza
Il compito più immediato della mortificazione consiste nel disporre alla pazienza: l’acquisizione
del dominio di sé è in funzione di una più radicale azione divina di bonifica e di sviluppo.
Si potrebbe dire che la mortificazione sta alla pazienza come l’allenamento di un pugile sta al
combattimento che egli si presta a disputare: là dove manca la mortificazione, c’è poca
apertura alla pazienza, e l’opera di Dio non produce gli effetti voluti.
Validità della pazienza
La sola mortificazione, dunque, è insufficiente:
la mortificazione risulta sovente PIÙ FACILE della pazienza, se non altro perché «l’attività
piace alla natura, per cui è più agevole gettarsi nella lotta, ed anche colpire su di sé, che
attendere con rassegnazione e ricevere i colpi con calma»;
si danno LIVELLI DI PENITENZA che sono necessari, ma che, se Dio non li imponesse, non
verrebbero mai praticati; il metodo induttivo della teologia spirituale mostra,
nell’esperienza di molti santi, che senza l’audacia dell’amore di Dio non si potrebbe
riuscire!
È quanto esprime l’esortazione di san Giacomo: «Considerate PERFETTA LETIZIA, miei fratelli,
quando subite ogni sorta di prove, sapendo che la prova della vostra fede produce la pazienza.
E LA PAZIENZA COMPLETI L’OPERA SUA IN VOI, perché siate perfetti ed integri, senza mancare di nulla»
(Gc 1,2-4); ed è ciò che risuona anche nello scritto di San Francesco a Frate Leone (cfr. Fonti
Francescane 278).
Purificazioni passive
L’esercizio salutare della PAZIENZA raggiunge il suo vertice nelle notti passive dei sensi e dello
spirito.
a. Nella NOTTE PASSIVA DEI SENSI Dio fa sì che le meditazioni immaginative, rivestite di una
affettività più o meno facile, non dicano più nulla. E porta ad una visione di fede più
profonda e più pura, grazie ad aridità che la preparano e la possono accompagnare anche
per molto tempo (ATTENZIONE: l’aridità è ben diversa dalla tiepidezza: nella prima è il Signore
che fa sì che non si provi più gusto nelle cose dello spirito; nella seconda, invece, la
mancanza dipende dal soggetto). Di solito dura molto a lungo, ma l’anima si abilita a
preferire, finalmente, il Dio delle consolazioni alle consolazioni di Dio.
b. Nella NOTTE PASSIVA DELLO SPIRITO, Dio porta a superare tutto ciò che c’è ancora di troppo
umano nei nostri pensieri sulle cose di Dio. In realtà, è Dio stesso che porta a distaccarsi
dalla propria fede in quanto rivestita di opinione umana, per fare entrare nella misteriosa
oscurità della fede nuda, puntando diritto a Dio solo.
La purificazione si compie si compie tramite il dono della CONTEMPLAZIONE INFUSA, nella quale si
rivelano la miseria dell’uomo e l’incompatibilità della santità di Dio con le colpe della creatura.
La prova è tremenda e si protrae per anni, con intervalli di sollievo durante i quali la
contemplazione oscura, per disposizione di Dio, tralascia di investire l’anima in modo
PURIFICATIVO, per investirla in maniera ILLUSTRATIVA ed AMOROSA. È il processo che si avvicina di
più alle pene del purgatorio.
Esito della ascesi cristiana: l’umiltà
Il legame – e l’ordine – tra PAZIENZA e UMILTÀ è ben espresso in Mt 11,29: «Prendete il mio giogo
sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre
anime». Qui il giogo di Cristo è la pazienza e l’atteggiamento a cui invita è quello di mitezza e
umiltà.
Il complesso e doloroso cammino di rettificazione, purificazione e unificazione attuato
dall’ascesi cristiana porta la creatura a comprendersi qual è realmente: un NULLA di fronte al
TUTTO DI DIO, una realtà che riceve continuamente il proprio essere dal cuore di Dio, un
peccatore incessantemente perdonato. Attraverso l’ascesi, la viva fiamma d’amore, e cioè Dio,
compie lo SVUOTAMENTO DELL’UOMO che permette alla verità di effondersi liberamente in lui.
La tradizione cristiana, per designare questa suprema acquisizione di verità ed il distacco da sé
che consente l’elargizione di Dio, dispone di un nome particolare. Li chiama UMILTÀ, dal latino
humus, terreno fertile e ricco di alimento che rende vigoroso l’albero; quasi a dire, da una
parte, che la vitalità della esistenza credente si regge su questo fondamento, e dall’altra che
in tal mondo si tengono i piedi per terra, senza fumose evasioni nelle chimere dell’orgoglio. È
lecito dire, quindi, che l’esito della pratica della mortificazione e della pazienza è la
STABILIZZAZIONE DELL’UMILTÀ.
Elogio dell’umiltà
La presa di coscienza dello statuto dell’umiltà all’interno della ascesi cristiana rende ragione
della stima incondizionata che le hanno riservato i grandi santi e maestri di spirito.
Scrive santa Teresa d’Avila nel Castello Interiore:
«mi chiedevo una volta perché Dio ami tanto l’umiltà, e mi venne in mente,
d’improvviso, senza alcuna mia riflessione, che ciò deve essere perché egli è
somma verità, e che l’umiltà è verità. È verità indiscutibile che da parte nostra non
abbiamo nulla di buono, ma solo miseria e niente. Chi più lo intende, più si fa
accetto alla suprema Verità, perché in essa cammina».
Pratica dell’umiltà
L’umiltà si esprime in atteggiamenti precisi che, mentre le danno concretezza, le permettono di
consolidarsi e crescere. Tre sono particolarmente importanti:
1. L’accettazione sincera della propria miseria.
Primo modo di esercitare l’umiltà è ACCETTARE LA PROPRIA BASSEZZA, ossia amare la propria
abiezione (come dice san Francesco di Sales). Noi siamo nulla! Confessiamolo di buona
volontà e, anziché corrucciarci, godiamo di non avere nulla di buono all’infuori di ciò che
ha messo in noi Dio. Diversamente, nel desiderio inquieto di essere liberati dalle proprie
miserie, entra – insaputa – una gran dose di amore proprio e di orgoglio.
2. La coltivazione della libertà dai giudizi altrui.
Bisogna REPRIMERE vigorosamente e costantemente i desideri e le preoccupazioni di
VANAGLORIA che nascono così spontaneamente nel cuore umano: qualsiasi desiderio di
essere ammirati o stimati, considerati capaci, amabili, intelligenti, pii, … La rinuncia alla
stima altrui si pratica in parole ed azioni: “ama di essere ignorato e di venire considerato
un nulla” (Imitazione di Cristo).
3. L’accettazione paziente delle umiliazioni.
Terzo modo è accettare le umiliazioni ed i disprezzi; non scusarsi che con moderazione e
senza acrimonia, oppure non scusarsi del tutto; sopportate con pazienza – pensando che
se ne è meritevoli per le proprie infedeltà – TUTTE LE OCCASIONI UMILIANTI, considerando tutto
come grazia di Dio che vuol farci guadagnare meriti e renderci simili a Gesù.
Gradi di umiltà
Come la pratica ascetica conosce la gradazione di due fasi dominanti di realizzazione, così
l’esercizio dell’umiltà si esprime a più livelli:
umiltà ordinaria, o comune, è la DISPOSIZIONE A NON STIMARSI E NON FARSI AMMIRARE E LODARE
PER DOTI CHE NON SI HANNO, oppure per futilità che evidentemente non meritano nessuna
stima, come il lusso e l’abbigliamento. Consiste nel:
non pretendere di innalzarsi al di sopra degli altri,
evitare di disprezzare il prossimo,
sopportare senza acrimonia i biasimi e i rimproveri meritati a causa delle proprie colpe.
Si tratta di umiltà vera, ma ancora lontana dal sovrappiù che avvicina uno stile di vita al
paradosso della croce di Cristo, distinguendolo da qualsiasi altro ed immergendolo nello
specifico cristiano.
umiltà perfetta è l’ATTEGGIAMENTO ESISTENZIALE IN CUI SI COLTIVA COSCIENTEMENTE LA BASSA
OPINIONE DI SÉ, accettando volentieri che gli altri ne partecipino, e manifestino la poca
stima con mancanze di riguardo, o anche con disprezzi. Dunque, l’immagine positiva di
sé va fondata secondo verità, non su qualità personali di indole fisica o psichica, ma SULLA
COSCIENZA DELL’AMORE INFINITO DI DIO per ciascuno e sulla considerazione ammirata delle
grandi opere che egli compie nella vita di ognuno. Coltivare una bassa opinione di sé
significa prendere atto, sempre più lucidamente:
che l’uomo è davvero una creatura, un essere prodotto dal nulla, per cui, se viene
lasciato a se stesso, rimane con nulla;
che la grandezza e la dignità dell’uomo non dipendono dalle sue qualità naturali e dalla
conseguente considerazione altrui, ma dal suo inalienabile rapporto con Dio;
che l’uomo non può salvarsi senza perdersi per il Cristo, senza scegliere – al seguito di
Gesù e per suo amore – la via messianica di umiliazione che egli ha fatto propria.
4. La dimensione storica della vita spirituale
L’uomo è storia di una libertà; il fondamento della verità della crescita nella dimensione
spirituale è Gesù che «cresceva in SAPIENZA, ETÀ e GRAZIA davanti a Dio e agli uomini» (cfr. Lc
2,52): Gesù cresceva anche in grazia poiché l’umanizzazione del Verbo è reale, tutto è divino-
umano in Lui, dunque anche il rapporto che vive con il Padre – amore eterno, perfetto, totale
– dall’incarnazione si dà nella crescita della persona umana, “di pienezza in pienezza”. Una
verità che si dà nella storia e, dunque, cresce nell’evoluzione umana.
La teologia spirituale ha potuto individuare, a partire dalla vita e dall’esperienza dei santi, degli
“STADI” che – seppur schematizzati – sono presenti nella crescita spirituale di ciascuno.
Da “La seconda chiamata” di Padre René Voillaume (fondatore dei Piccoli Fratelli di Gesù):
Imparare a superare generosamente le tappe successive della crescita nel Cristo in
noi è altrettanto importante quanto l’aver cominciato bene lasciando tutto per
seguire Gesù al momento della prima chiamata che ci ha condotti al noviziato.
Questa perseveranza è essenziale perché non serve a niente cominciare se non si va
fino in fondo. […]
Il tutto non è di abbandonare la barca e le reti per seguire Gesù durante un certo
tempo, ma piuttosto di andare sino al Calvario, di accoglierne la lezione ed il frutto,
e di andare con l’aiuto dello Spirito Santo sino alla fine di una vita che deve terminare
nella perfezione della divina Carità.
È più importante di quanto non si pensi l’aver ben capito la risposta del Signore ai
suoi apostoli che si meravigliavano della difficoltà della via dei consigli evangelici:
“Agli uomini è impossibile, ma a Dio no; infatti, tutto è possibile a Dio”. Questa
constatazione del Signore e questa promessa piena di speranza non si applicano solo
all’abbandono delle ricchezze e alla castità, ma a tutte le esigenze della vita religiosa,
all’obbedienza, alla preghiera, alla carità.
Noi abbiamo certo creduto a ciò che il Signore diceva, ma senza capire fin dove
questo ci avrebbe condotti nel nostro caso personale, ben concreto, né come
manifesterebbe in noi una tale impossibilità. […]
Ci pare che con un po’ di coraggio, potremo essere fedeli a tutte queste esigenze
della vita di un Piccolo Fratello scoperte durante il Noviziato e nei primi anni di vita
in Fraternità.
In ogni caso, ed anche nei giorni bui, – poiché ve ne sono – tutto questo non ci è
ancora apparso radicalmente impossibile, come l’ha predetto il Signore. Difficile sì,
impossibile, veramente no, con un po’ di coraggio! Ora, con il tempo e con la grazia
di Dio, a poco a poco, insensibilmente, tutto cambia. L’entusiasmo umano lascia il
posto a una specie di insensibilità per le realtà soprannaturali, il Signore ci sembra
via via più lontano e in certi giorni la stanchezza ci prende […].
Arrivare a sentire tutto ciò è normale, senza che vi sia stata infedeltà grave da parte
nostra né abbandono da parte del Signore. […] In una parola, entriamo
progressivamente in una fase nuova della nostra vita, scoprendo, a nostre spese, che
LE ESIGENZE DELLA VITA RELIGIOSA SONO IMPOSSIBILI. […] Gesù ce l’aveva detto, ma ora tutto
ciò appare sotto una luce nuova. […]
Gesù ci fa sperimentare sino in fondo e in modo inatteso, la impossibilità di seguire
il cammino sul quale Lui stesso ci ha avviati! […] Vivere secondo lo Spirito, nella
spogliazione interiore, secondo un’ambizione di grandezza distaccata da noi ma che
si allarga nell’ambizione stessa del Cuore di Gesù, vivere nell’umiltà e nella diffidenza
verso noi stessi, accettando infine di non essere nulla per noi e tutto per Lui e per gli
altri, accettando di credere contro ogni speranza e di perseverare nella preghiera,
bussando forse a una porta che resterà chiusa per degli anni, e poi accettare di
ripartire, in una nuova prospettiva, verso un nuovo modo di essere poveri, obbedienti,
casti, caritatevoli, oranti: ecco ciò che sarà in questa nuova tappa della nostra vita.
[…]
Per rendere possibile questa tappa, ciò che ci resta da scoprire e da vivere è il
credere che Gesù ha detto la verità quando ha affermato che “QUESTO È POSSIBILE A
DIO”. […]
Il cambiamento di piano, il trasferimento di regime consiste nell’AVER FINALMENTE
COMPRESO CHE UNA VITA RELIGIOSA di Piccolo Fratello È UMANAMENTE IMPOSSIBILE, che Dio
doveva trovare il modo di farcelo capire, E CHE TUTTAVIA ESSA È POSSIBILE A DIO, nella fede
e nella carità divina.
In una parola dobbiamo morire con Gesù e rivivere con Lui. Tutta la vita religiosa
consiste in questa morte e questa vita, ma noi non immaginavamo che ciò si attuasse
così! È la nostra volontà che dobbiamo donare di nuovo; lo sforzo degli inizi della
nostra vita religiosa dev’essere rinnovato, perché l’amore risiede nella nostra libera
volontà, e questa ci appartiene integralmente e deve essere pervasa dalla vita che
l’umanità di Gesù ci comunica.
Considerati i due versanti di realizzazione dell’esperienza di fede di ogni singolo credente,
occorre valutare più da vicino il processo che ne regola lo sviluppo. Tentiamo un abbozzo
sommario dei ricchi contenuti di esperienza sottesi nella dottrina classica delle vie e dei gradi
della vita spirituale.
I. La progressione nella vita spirituale
Fondamenti neotestamentari
La Sacra Scrittura conosce incontestabilmente la conversione, la decisione di seguire Gesù
Cristo, l’assenso a diventare suoi discepoli, la volontà seria di adempiere le condizioni da lui
poste a chi domanda come diventare perfetti, … Tuttavia, non si raggiunge la perfezione
definitiva con l’atto decisivo della conversione! La vita successiva non è semplicemente una
ratifica, identica e immutabile, di questo atteggiamento fondamentale assunto una volta per
sempre; implica piuttosto una crescita ed una maturazione, un progresso ed un aumento.
Nel Nuovo Testamento, dunque, è:
evidente il valore della conversione come avvio di un cammino,
da ratificare passo dopo passo senza dare mai per ovvia l’adesione a Cristo,
fino al raggiungimento della meta, che è l’unità nella fede secondo la piena misura di
Cristo, come asserisce San Paolo (cfr. 1Cor 3,1; Ef 4,14).
Secondo il Nuovo Testamento, la vita cristiana si protende a realizzare nel tempo una crescita
nel Cristo che non sarà completa se non oltre la porta stretta della morte, in una
partecipazione totale della gloria di Cristo risorto. La dottrina, tuttavia, resta sulle generali:
mancano una definizione un po’ più precisa delle tapper di questa ascesi, il tentativo di
caratterizzare veramente le singole tappe nelle loro proprietà particolari, di ordinarle una
dopo l’altra in maniera determinata.
Nella storia della Chiesa
Quello che nel Nuovo Testamento rimane implicito, si precisa invece in alcuni schemi molto
particolareggiati, spesso fortemente influenzati dalle coordinate culturali del tempo in cui
vengono elaborati, nella susseguente tradizione ecclesiastica.
L’ETÀ DEI PADRI ORIENTALI
fanciullo – uomo – gnostico (Clemente di Alessandria)
vita pratica – teoria – teologia (Origene / Evagrio Pontico)
somatici – psichici – pneumatici (monachesimo siriano)
L’EPOCA MEDIEVALE
amore carnale – amore filiale – unione mistica (Bernardo)
principianti – progredienti – perfetti (ripresa, tra gli altri, da Bonaventura e Tommaso)
L’ETÀ MODERNA
ripresi “principianti – progredienti – perfetti” (Ignazio, Teresa d’Avila, G. della Croce, F.
di Sales)
seconda conversione (Lallemant)
L’ETÀ CONTEMPORANEA
la piccola via (Teresa di Lisieux)
DIRETTIVE PRATICHE:
fedeltà alla MEDITAZIONE DISCORSIVA e BUONE LETTURE SPIRITUALI che alimentino l’illuminazione
spirituale che ha spinto verso il desiderio della santità;
cura del RACCOGLIMENTO INTERIORE (specialmente oggi);
combattimento CONTRO LA PASSIONE DOMINANTE (conoscersi bene è importante);
crescita nello SPIRITO DI RINUNCIA: mortificazione (imporsi sacrifici) e pazienza (accettare
prove).
La via dei progredienti: fenomenologia e direttive pratiche
Il passaggio dalla fase precedente è dovuto soprattutto alla risoluzione di tendere con tutte le
forze alla perfezione della carità. La conversione, che continua, ora riguarda la RETTIFICAZIONE
DELLE INTENZIONI profonde della libertà (seconda conversione).
Intenti
L’intento delle due parti è di PERVENIRE AD UNA META COMUNE: la realizzazione della persona diretta
secondo la specifica vocazione ricevuta da Dio. Discernere questa vocazione, segnarne il
cammino per la sua attuazione, guidare e sostentare la persona affinché la sua risposta a Dio
sia totale e generosa, costituisce il compito del direttore spirituale, e l’obiettivo per cui un
individuo chiede la direzione. Possiamo dunque ricondurre lo SCOPO della direzione spirituale
ad un TRIPLICE COMPITO.
1. ILLUMINAZIONE DELLA MENTE
GENERALE: scoprire la santità come valore sommo dell’esistenza (così da rettificare
l’intento; non può esserci altra motivazione, altro obiettivo che non sia la santità);
PARTICOLARE: discernimento degli spiriti per la chiarificazione della propria forma
originale di santità (vocazione); cercando anzitutto l’amore prima che la sua “forma
propria” (essere cristiani, prima che la chiamata vocazionale specifica).
2. RINVIGORIMENTO DELLA VOLONTÀ
mentre illumina, INCORAGGIA alla decisione e alla fedeltà (non basta vedere, bisogna
volere!);
si pone sempre e solo come APPOGGIO, mai come sostituzione!
Rettifiche
Fraintendere la vera natura della direzione spirituale non è affatto raro, per cui si impongono
molta avvertenza ed un serio proponimento di rettifica delle intenzioni profonde dello spirito.
Bisogna:
presenza di una ferma volontà di cambiamento e progresso (non basta il desiderio)
non rovesciare l’equilibrio delle scelte dello spirito, cercando più o meno avvertitamente:
sicurezza al posto della fedeltà;
dipendenza al posto della responsabilità;
garanzie al posto del coraggio;
curiosità al posto del cambiamento.
Unità e totalità
Quando si chiariscono le genuine finalità dell’accompagnamento spirituale, si assume il
programma di un SOSTEGNO INTEGRALE DELLA PERSONA, che spazia dal piano specifico e primario
della dimensione religiosa della vita al piano subordinato, ma rilevante, della dimensione
psicologica che le fa da sfondo. La guida spirituale agisce su TRE REGISTRI: due di indole religiosa
ed uno di indole psicologica.
MATURITÀ RELIGIOSA DI BASE (ambito primo e più diretto della DIREZIONE SPIRITUALE): viene
assicurata dalla presenza di una autentica dedizione al Tu totale di Dio riconosciuto ed
accolto nell’oggettività della storia grazie al tessuto di mediazioni che lo significano
efficacemente.
MATURITÀ RELIGIOSA PARTICOLARE (determinata dalla VOCAZIONE DI CIASCUNO): viene
determinata dalla vocazione singolare di ognuno, e quindi consiste nel saper discernere
il concreto itinerario spirituale-salvifico che Dio traccia per ciascuno, e seguirlo
fedelmente.
MATURITÀ PSICOLOGICA DEL SOGGETTO (la maturità spirituale coinvolge TUTTA LA PERSONA). In
vista della fondazione, del consolidamento e dello sviluppo della maturità religiosa di
base e particolare si ritengono specifici indicatori della maturità psicologica (quindi da
promuovere efficacemente):
la SICUREZZA nell’affrontare la vita;
l’ampiezza degli INTERESSI;
la DISPOSIZIONE AL REALISMO, senza vivere evasioni di fantasia;
l’acquisizione di VALORI FORTI;
partecipazione alla VITA SOCIALE;
capacità di COMUNIONE.
III. Originalità della direzione spirituale
Direzione spirituale e sacramento della riconciliazione
Distinzione:
RICONCILIAZIONE DIREZIONE SPIRITUALE
richiede il ministro non richiede il ministro
riguarda i peccati, non tutti i pensieri chiede che si manifestano tutti i pensieri
Tendenza all’unità:
si complementano a vicenda con facilità e reciproco vantaggio;
più la coscienza progredisce e diventa delicata, più impara a cogliere le radici del peccato:
oggetto di confessione e ciò che è confidato nella direzione spirituale si vengono a
sovrapporre
la riconciliazione frequente rende possibile una conoscenza più approfondita delle
disposizioni del soggetto, con gran vantaggio nel cammino di direzione spirituale
congiungendosi alla riconciliazione, la direzione spirituale si arricchisce dell’efficacia
propria del sacramento e, grazie all’oggettività della grazia in esso ricevuta, aiuta a
trascendere la soggettività dei sentimenti (ma, eventualmente, è importante TENERE BEN
DISTINTI i momenti e le questioni).
si appella ai dati della fede per persegue la sanità psichica, la liberazione dai
aiutare a conformarsi a Cristo travagli nevrotici e si appella alla volontà di guarire
del soggetto
mira alla santità mira alla realizzazione delle qualità creaturali
DISTINZIONE NELL’UNITÀ:
distinzione per congiungere le due dimensioni, non per escluderle vicendevolmente;
Dio non annulla i nostri meccanismi psichici: importante riconoscere che lo psichico è
tutto impregnato di spirituale e che lo spirituale è tutto nascosto nello psichico;
la direzione spirituale trascende le scienze umane non annullandole o contraddicendole
bensì INTEGRANDO i loro apporti nella propria prospettiva;
quanto più la persona è anche psicologicamente libera e serena, tanto più la grazia potrà
risplendere in lei.
Tratto da: A. MANENTI, Comprendere e accompagnare la persona umana. Manuale teorico e
pratico per il formatore psico-spirituale, EDB:
«Piccolo e grande cuore. Basta vedere come ci relazioniamo con gli altri. Quelli
che amiamo, cerchiamo, curiamo sono anche quelli che evitiamo, ignoriamo,
aggrediamo con meno timore per le conseguenze, proprio perché ci sono intimi. I
più intimi ci appaiono anche come i più monotoni. L’INTIMITÀ CI ANNOIA. Siamo fatti
con un cuore che non solo si apre a un’alterità, ma anche che tutela se stesso… Se
nel grande cuore riconosciamo alla spontaneità umana un carattere di apertura,
nel piccolo cuore vi troviamo una nota di chiusura… Il piccolo cuore è piccolo
perché è nato piccolo. Non perché lo è diventato. Ma a noi questa partenza non
piace […].
Il piccolo cuore lo consideriamo un deragliamento. Preferiamo pensare che sia
nato da un virus che si è intrufolato nell’unico, nostro, naturale, grande cuore e
paradossalmente, preferiamo dirci malati che deboli […]. Tutto pur di non
riconoscere che siamo “semplicemente” degli umani. Per sostenere l’illusione,
sforziamo anche il messaggio cristiano. Ci piace pensare che il piccolo cuore è
cattivo (quindi da combattere) e quello grande è virtuoso (quindi da gonfiare); che
l’amore di sé è un vizio e l’amore per l’altro una virtù; che il perdono è buono e la
denuncia cattiva; che i bravi genitori sono quelli che si prodigano per i figli mentre
quelli cattivi chiedono a loro di restituire qualcosa […].
Chi l’ha detto che il grande cuore è – di per sé – in nostro favore e funzioni sempre
alla grande? Quante violenze si fanno e si sono fatte in nome dei grandi ideali! E
se il piccolo cuore cerca di tutelare se stesso, perché non dovrebbe farlo? Se non lo
facesse attraverseremmo la strada senza l’avvertenza di guardare se stanno
passando delle automobili a grande velocità pronte a stritolarci. La nostra
grandezza non è avere a disposizione un grande cuore, come non è la nostra
miseria averne uno piccolo.
Lo stupefacente dell’umano è avere a disposizione entrambi».
IV. Difficoltà odierne e istanze correttive
PROBLEMI ODIERNI:
il ruolo del PADRE: tra paternalismo e principio di autorealizzazione;
la tensione tra dimensione SOCIALE e INDIVIDUALE: tra immedesimazione con il gruppo e
narcisismo intimista.
ELEMENTI DI VERITÀ:
1. la ritrosia nei confronti della dipendenza filiale ammonisce e ricorda alla direzione
spirituale che deve suscitare, promuovere e MAI SOSTITUIRE la libertà del soggetto (rischio
soprattutto oggi);
2. nella relazione di dialogo della direzione spirituale le presenze in gioco sono tre: il
soggetto, il padre spirituale e lo SPIRITO SANTO, che è l’unica vera guida;
3. tenere vivo il senso della PLURALITÀ delle dimensioni in gioco nella direzione spirituale,
evitando riduzionismi spirituali o psicologici.
V. Le qualità del padre spirituale
MATURITÀ UMANA E SANTITÀ DI VITA
Una personalità integrata, matura, ricca di risorse umane e spirituali, che vive con
equilibrio la propria vocazione e sa affrontare le difficoltà della vita.
La mancanza di santità rende impossibile la pratica della direzione spirituale, date le virtù
che essa richiede; non si può ascoltare la voce dello Spirito senza che ci si sia realmente
inoltrati nel cammino di santificazione.
SCIENZA
Operando a nome della Chiesa, la direzione spirituale deve far leva sul sapere della
Chiesa, sul sapere che la Chiesa ha accumulato nella sua storia ed esperienza di santità.
Solida cultura teologica e conoscenza dei metodi di perfezione maturati nella storia della
Chiesa.
Se il direttore spirituale ha poca scienza rischia di esclusivizzare la propria esperienza
personale riducendo le persone a immagine e somiglianza propria e non di Dio.
ESPERIENZA
L’esperienza personale, la pratica lungamente esercitata con intelligenza e spirito critico,
è ciò che rende un uomo o una donna dei veri maestri spirituali.
Si tratta di un’arte, e come tale va imparata e custodita, a poco a poco e con umiltà.
Saldi i requisiti di base si può iniziare, con prudenza, se lo Spirito educa e conferma tale
carisma.
CAPACITÀ DI GUIDA
PATERNITÀ: benevolenza, dedizione e dolcezza; il soggetto va preso dalla parte del cuore
(S. Francesco di Sales), deve capire che si vuole realmente il suo bene, deve trovare nel
direttore spirituale un riflesso dell’amore di Dio, con la fuga di tutte le esagerazioni;
DISCREZIONE E PAZIENZA: richieste da un cammino che è lungo e laborioso; la direzione
spirituale non è profetica ma diagnostica e quindi esige pacatezza, costanza,
adattamento dei consigli e delle esortazioni alle condizioni effettive del soggetto,
sostenendolo nei momenti di fatica;
FERMEZZA: non domandare né troppo né troppo poco;
RETTITUDINE: fortezza e soavità si armonizzano solo in chi sa dimenticarsi (preserva dalla
gelosia e dal possessivismo);
PRATICITÀ: una buona direzione spirituale è sempre appropriata al soggetto e progressiva;
pur essendoci degli indicatori e delle leggi dello Spirito, la persona è e rimane la prima e
unica «legge» nella direzione spirituale: non vi è «direzione», vi sono solo persone
dirette.
VI. Le qualità del soggetto
RETTITUDINE
Unica vera motivazione per il cammino di direzione spirituale è la ferma volontà di
diventar santi.
Per tener desto lo spirito di fede che consente di riconoscere nel direttore una
mediazione di Dio.
CONCRETEZZA
Né ricerca di un maestro spirituale ideale, né sottili aspettative che egli si senta lusingato
a motivo della fiducia donatagli.
Il direttore spirituale fa camminare corrispondendo a quello che, con verità, gli si è
consegnato.
SOBRIETÀ
Occorre dire TUTTO E SOLO ciò che serve davvero alla crescita spirituale: meno ricerca di
consigli e più costanza nel vivere quelli ricevuti.
Non dilungarsi nelle confidenze: è più proficuo PREGARE per sé e per il proprio direttore
spirituale.
UMILTÀ
La dipendenza è spesso costosa: talvolta, le indicazioni ricevute possono ferire il proprio
orgoglio, portando il soggetto a rifiutare i consigli offerti e a giudicare negativamente il
direttore spirituale.
VII. I momenti del rapporto spirituale
LA SCELTA
Intento è solo la possibilità di amare e servire di più Dio.
Affinità di idee, mentalità e sensibilità risultano utili per una intesa di partenza ma vanno
vigilate.
Sentimento interiore di rispetto e affezione spirituale che si prova di fronte a una certa
persona, provocati da qualità di spirito che la fanno apparire una buona mediazione di
Dio o da impressioni di luce, di forza o di pace destate dalle sue parole.
IL MANTENIMENTO
Se il rapporto spirituale è buono, conosce momenti difficili, determinati dall’autentica
ricerca della verità, che spesso suscita resistenze.
Occorre spirito di fede: non esiste direttore spirituale che, prima o poi, non causi una
certa delusione; vale la pena ringraziare per il dono che si ha e mettere in pratica le
direttive ricevute.
L’EVENTUALE CAMBIO
Cambiare direttore spirituale per MOTIVI NON SPIRITUALI è una sconfitta; lasciarlo per paura
delle esigente che egli avanza nel cammino è pericolosissimo.
Se si crea però STABILE DISAGIO che impedisce l’apertura di coscienza il cambio si rende
necessario.
Altri motivi per un cambio possono essere:
l’incompatibilità di carattere;
la pochezza della guida;
l’impossibilità di assicurare, da parte della guida, un aiuto consistente;
attrattive troppo terrene tra la guida e il diretto.
LA PERDITA
Chiedersi se il rapporto è terminato per responsabilità propria.
Affidarsi a Dio nella pace, cercando con pazienza delle alternative.
6. La dimensione trinitaria della vita spirituale
NATALE 1993 – POESIA DI KLAUS HEMMERLE
«Durante il mio riposo nelle Alpi,
in una passeggiata,
ho avuto ad un tratto l’impressione
che il sole fosse caduto nella valle.
La sua luce avvolgeva il paesaggio
non più dal di sopra e dall’esterno,
bensì brillava dal di sotto e dal di dentro.
Monti, sentieri ed acqua erano infuocati
dal sole in loro e al di sotto di loro.
Recentemente mi sono imbattuto
in una rappresentazione del Presepio,
nella quale la fonte di luce era il bambino.
Sì, questo è il Natale:
vedere le persone, le cose, la vita
nella luce di quel sole che si è immerso in noi,
per far sorgere dal di dentro e dal di sotto,
nel piccolo e nel quotidiano,
Dio fra noi».
In queste pagine integrative al testo intendiamo offrire qualche spunto in merito all’ ORIZZONTE
ULTIMO della vita spirituale del cristiano, quello trinitario: ultimo perché unico vero
fondamento e ultimo perché autentico télos della vita dell’uomo e del cosmo intero.
I. L’unione differenzia
Iniziamo citando un testo assai pregnante di padre Teilhard de Chardin:
L’unione, la vera unione verso l’alto, nello spirito, porta a compimento, ognuno
nella propria perfezione, gli elementi che essa domina. L’UNIONE DIFFERENZIA. In virtù
di questo principio fondamentale, le personalità elementari possono, e non
possono che affermarsi accendendo ad un’unità psichica, o Anima, più elevata. Ma
questo, tuttavia, ad una condizione: che il Centro superiore al quale si
congiungono senza mescolarsi abbia lui stesso una realtà autonoma. Poiché non vi
è né fusione né dissoluzione delle personalità elementari, il Centro in cui si
raggiungono deve necessariamente essere distinto da esse, vale a dire deve avere
la sua propria personalità.
La scelta di citare il noto – e discusso – gesuita francese non è casuale: si tratta infatti di un
autore nei cui scritti troviamo un lemma sul quale porteremo la nostra attenzione e che ci
aiuterà a cogliere il livello di inveramento ultimo della vita nello Spirito: stiamo parlando del
lemma (tipico della Lubich) TRINITIZZAZIONE, che la citazione appena riportata può ben
introdurre.
L’unione differenzia: questo principio ben si presta a illuminare la logica che presiede alla
dimensione trinitaria della vita spirituale. L’unione tra personalità raggiunge il suo
compimento ed è radicalmente possibile come effettiva UNIONE solo se il TERZO, Colui nel quale
e grazie al quale si uniscono, ha una propria e indipendente sussistenza personale. Come a
dire: non è immaginabile né ipotizzabile l’UNITÀ tra i credenti in Cristo – quella per la quale
Gesù ha pregato il Padre – se Colui che VIVE IN MEZZO A LORO non è ALTRO da loro. Solo così può
manifestarsi come alfa e omega, principio, fondamento e compimento della relazione
intersoggettiva a livello antropologico.
La citazione di Teilhard, richiamando la celebre formula calcedonese dell’unità senza confusione
e senza separazione, ha il vantaggio di spingere l’orizzonte dell’amore – del quale tale unità è
la forma radicale – nel suo giusto ambito: quello trinitario. Come noto, infatti, la possibilità
logica e ontologica di comprendere la relazione tra identità e distinzione che la Chiesa ha
definito in riferimento alla Persona del Verbo incarnato ha nell’ontologia dell’agápe trinitaria
la sua matrice e il suo radicale fondamento.
II. Experientia Trinitatis
Il percorso che abbiamo sin qui compiuto nel nostro corso, in merito all’intelligenza teologica
della vita nello Spirito, ci ha più volte condotti a considerare quale sia la forma eminente e
specificamente cristiana delle varie dimensioni dell’esperienza spirituale da noi analizzate.
L’evento della Rivelazione ha come suo indiscusso centro l’autocomunicazione di Dio agli
uomini: un dialogo nel quale Egli si intrattiene con gli uomini come amici (cfr. DV 2; Gv 15,15)
e nel quale Egli si rivela nella sua identità ultima, quella trinitaria.
Se vita spirituale significa appropriazione soggettiva (nella fede) di questa Rivelazione e se
questa può avvenire solamente in virtù della presenza e dell’opera dello Spirito Santo, è facile
comprendere come l’identità trinitaria di Dio non possa e non debba rimanere solamente un
“contenuto”, o “il” contenuto, della fede cristiana ma, in qualche modo, debba divenire
“esperibile” (il grande anelito agostiniano), debba essere compresa dalla persona come una
verità che, essendo tale, coinvolge tutte le dimensioni che la costituiscono.
Che Dio Trinità sia il centro dell’esperienza di fede dei credenti è testimoniato, anzitutto, dalla
PRASSI LITURGICO-SACRAMENTALE DELLA CHIESA, fin dalle origini. Essere battezzati, infatti, significa
venire gratuitamente e definitivamente immersi nella vita di Dio che si è rivelata e donata a
noi nella Pasqua di Gesù e ci viene partecipata in virtù dell’azione dello Spirito. Una
partecipazione, un essere innestati come tralci nell’unica vite che è Cristo, che ha
nell’Eucaristia il luogo di massima attuazione e inveramento: è lì, infatti, che la vita divina ci
viene comunicata e, grazie ad essa e al suo intrinseco dinamismo trasformante, prende avvio
quel processo di DIVINIZZAZIONE dell’umanità che, iniziato su questa terra, tende al compimento
escatologico del Dio tutto in tutti (1Cor 15,28).
La dimensione mistica
La DIMENSIONE MISTICA, come già notato, coincide, radicalmente, con la santità. Solo Dio è il
Santo, e noi siamo chiamati a diventare santi perché e come Lui è santo (cfr. Lv 11,44.19,2; 1Pt
1,14-16).
È l’azione santificatrice dello Spirito a rendere possibile l’esperienza mistica del cristiano: è
nello Spirito, effuso sull’umanità dal Crocifisso Risorto, che possiamo gridare: «Abbà, Padre»
(cfr. Rm 8,15; Gal 4,6), ed è nello Spirito che possiamo confessare che «Gesù è il Signore» (cfr.
1Cor 12,3).
La PREGHIERA CRISTIANA – che è stato il punto prospettico attraverso il quale abbiamo cercato di
riconoscere i tratti distintivi della vita mistica – quindi è una partecipazione, gratuitamente
donata, al dialogo intratrinitario stesso, dialogo che avviene sempre e solo per, con e in Cristo,
il Figlio, nel quale siamo stati creati e del quale siamo divenuti fratelli e coeredi. TUTTA LA
PREGHIERA CRISTIANA È TRINITARIA, in tutte le sue caratteristiche, modalità, finalità: dalla preghiera
diffusa a quella vocale (che ha nell’Eucaristia il suo vertice), dall’orazione mentale fino alla
contemplazione infusa, non vi è unione con Dio da parte dell’uomo che non sia trinitariamente
ritmata e cristologicamente determinata. La storia della santità conferma in modo
assolutamente limpido e cristallino questa formalità specifica della mistica cristiana: l’IDENTITÀ
DI DIO TRINITÀ determina da cima a fondo l’esperienza che di Lui tutti i grandi santi hanno fatto.
Possiamo dire che non c’è esperienza mistica cristiana, datasi nella storia e in contesti assai
diversi tra loro, che non sia trinitaria: non solo o semplicemente perché la Trinità sia stata
l’“oggetto” diretto di tali esperienze ma, ben più radicalmente, perché ogni incontro con un
aspetto della multiforme grazia di Dio (cfr. 1Pt 4,10) intenziona sempre il tutto (nella logica del
tutto nel frammento di patristica e balthasariana memoria).
La dimensione ascetica
La DIMENSIONE ASCETICA della vita spirituale è stata da noi riconosciuta come dipendente e
finalizzata alla mistica. Mortificazione, pazienza e umiltà tracciano un cammino di liberazione
da sé, di spoliazione e rinuncia totale a un’affermazione di sé che sia slegata dal rapporto con
Dio, che è assolutamente necessario per poter essere trasformati nell’Amato (come
testimonia in modo icastico l’itinerario biografico-spirituale di Francesco d’Assisi).
L’esperienza del NADA dell’uomo nel TODO di Dio, così finemente cantata e descritta da Giovanni
della Croce, si palesa anch’essa come dipendente in modo radicale dal movimento che
caratterizza la vita trinitaria. Ovviamente in Dio non vi può essere una rinuncia determinata
dal peso del peccato o dalla tendenza all’affermazione di sé a prescindere dal legame con
l’altro.
Nell’agape trinitaria, però, vi è quella dimensione di PERDITA di sé per amore dell’Altro,
perché l’Altro sia, che, come ricorda la teologia trinitaria, è esattamente il nucleo infuocato
dell’amore stesso: DEDIZIONE DI SÉ FINO ALLA FINE PER AMORE DELL’ALTRO NEL TERZO, ovvero in una
logica che non si appiattisce mai sulla dualità ma ne tiene sempre aperta la tensione
feconda, l’apertura e la reciprocità. È questo movimento di perdita-ritrovamento, di
sacrificio e gioia – per dirla con Bulgakov – che sostiene e motiva la possibilità da parte dei
credenti di attraversare le notti oscure, i momenti di purificazione dal peccato e da ogni
residuo di attaccamento a sé che il cammino ascetico impone: e vivere tutto questo come
AMORE, nel primato cioè del dono di sé, del positivo esodo verso l’Altro e non in vista di una
propria perfezione autocentrata.
Vedremo come sia solo la forma crocifissa dell’Amore, rivelatasi e comunicataci nell’ora
nona del Calvario, a donarci di entrare almeno un poco nelle viscere della Trinità,
smascherando ogni tentativo da parte del Maligno di ingannarci travestendosi da angelo di
luce.
La dimensione storica
Nell’analisi della DIMENSIONE STORICA della vita spirituale abbiamo considerato come la costitutiva
storicità della persona umana entri a far parte di diritto nell’esperienza della vita spirituale.
Tale aspetto si colloca entro il delicato e affascinante tema del rapporto tra ETERNITÀ e TEMPO
o – per dirla con la Stein – tra essere finito e essere eterno. Occorre ribadire come LA
PROGRESSIONE NELLA VITA SPIRITUALE, il passaggio da uno stadio a un altro, da una mansione a
un’altra, non sia mai qualcosa di meccanico, di deterministico o ottenuto dall’uomo con le sue
forze.
Come l’eternità è la forma nella quale avviene il “simultaneo” corrispondersi delle Persone
trinitarie, in un “da sempre” compiuto movimento di dare e ricevere, secondo la taxis ma in
un’autentica reciprocità, così – nell’esperienza viatrice – il tempo (e lo spazio) è la durata che
intercorre tra la chiamata/dono/invito del Dio Amore rivolta all’uomo e consegnatagli
nell’evento cristologico-pasquale e la libera e amante risposta dell’uomo, il suo sì creaturale
che permette all’alleanza di consumarsi (risposta al consummatum est del Cristo sulla croce,
momento di ricapitolazione della storia). Non è un caso, allora, che il cammino ascetico del
cristiano miri al raggiungimento dell’UMILTÀ, la quale, prima di essere una qualità dell’uomo, è
attributo che sommamente spetta a Dio Trinità. Umiltà dice che l’Amato non è e non potrà
mai diventare un proprio possesso; dice stupore e sorpresa di fronte alla sempre traboccante
iniziativa dell’Altro di donarsi a me; dice abbassamento di sé perché sia innalzato Colui che è
il proprio tutto.
L’umiltà in Dio è particolarmente legata alla Terza Persona della Trinità:
il carattere della Terza ipostasi, dell’amore, si manifesta in questo “TRA”, con
l’inserzione in se stessa delle ipostasi amanti-amate. Perciò la sua ipostasia è come
un’an-ipostasia, la totale trasparenza per le altre ipostasi, privazione di ipseità. In
questo senso, l’amore è l’UMILTÀ [BULGAKOV, Il Paraclito].
È per questo che coloro che maggiormente hanno permesso allo Spirito Santo di lavorare
nella propria anima per conformarla al volere del Padre, imprimendole i tratti del Figlio, sono
anche coloro che hanno via via assunto la postura sincera dell’umiltà non solo nei confronti
di Dio ma anche di tutti gli uomini (vicini o lontani, amici o nemici, ecc.) e di tutto il creato.
La dimensione ecclesiale
Circa la DIMENSIONE ECCLESIALE, la nostra attenzione si è concentrata sulla DIREZIONE SPIRITUALE, come
ministero emblematico di quella che è la costitutiva intersoggettività che caratterizza la
Chiesa. Esperienza di docilità e ascolto dello Spirito, terzietà vissuta nel concreto di una
relazione che si configura immediatamente come suscitata da Dio e incarnata nell’umanità dei
due credenti che la vivono: questi due caratteri della direzione spirituale non possono non
trovare nell’archetipo delle relazioni trinitarie il loro senso e la loro radice.
Quello tra direttore spirituale e diretto è un rapporto segnato dall’asimmetria e
dall’intrinsecità della relazione, pena il non darsi stesso di questa specifica relazione di
aiuto presente nel vissuto della Chiesa.
Altrettanto importante, se non ancora di più, è riconoscere che la qualifica pienamente
cristiana di tale relazione è la reciprocità: la differenza di ruoli e posture nel rapporto di
accompagnamento spirituale non deve mai oscurare il fatto che tale relazione è chiamata
a esprimere e far toccare con mano un’autentica reciprocità tra i soggetti.
Lo dimostrano i numerosi esempi di figure di santità segnate in maniera determinante dal
rapporto di accompagnamento con il direttore spirituale o il diretto: la perfetta copresenza di
chiara e nitida DISTINZIONE DEI RUOLI e l’altrettanto palese e cristallina consapevolezza della
RECIPROCITÀ del coinvolgimento in una relazione dai tratti autenticamente affettivi e spirituali,
rimanda, per essere compresa, all’intreccio per nulla contraddittorio in Dio Trinità tra
gerarchia delle Persone e delle processioni e perfetta reciprocità tra Esse.
È dentro tale modo di intendere la communio trinitaria che trova senso ultimo il MISTERO DELLA
CHIESA, Corpo di Cristo, popolo di Dio adunato nell’UNITÀ DEL PADRE, DEL FIGLIO E DELLO SPIRITO SANTO
(cf. LG 4).
Ed è esattamente su questo mistero – che affonda le sue possibilità nella predestinazione in
Cristo e che ci raggiunge e si edifica nei sacramenti e diventa esperibile in virtù dell’azione
santificatrice dello Spirito – che si colloca lo sviluppo della comprensione e del modo in cui si
è data, nella storia della spiritualità cristiana, quell’esperienza del vedere la Trinità di
agostiniana memoria e che ha sempre contrassegnato il centro di ogni autentico carisma.
Presentiamo questa dimensione attraverso i due maggiori paradigmi che la storia della mistica
ci consegna in merito: quello INTRASOGGETTIVO e quello INTERSOGGETTIVO, da non opporre l’uno
all’altro in quanto realizzano un’autentica struttura antinomica, ovvero una tensione polare e
vitale nella quale l’uno non può essere se stesso se non nella verità dell’altro. Ci riferiremo, in
modo archetipico, a due felici immagini tipiche dei due modelli: il castello interiore,
splendidamente illustrato e commentato da Teresa d’Avila, e il castello esteriore, novità e
intuizione di Chiara Lubich ma che ben esprime il carattere dell’esperienza di Dio Trinità
proprio degli ultimi due secoli della storia della Chiesa.
III. Inabitazione trinitaria: il castello interiore
Gli disse Giuda, non l’Iscariota: «Signore, come è accaduto che devi manifestarti
a noi, e non al mondo?». Gli rispose Gesù: «Se uno mi AMA, osserverà la mia PAROLA
e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e PRENDEREMO DIMORA PRESSO DI LUI. Chi
non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma
del Padre che mi ha mandato. Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso
di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi
insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto (Gv 14,22-26).
La verità della promessa di Gesù è stata ed è confermata in tutta la sua bellezza e inaudita
profondità nell’esistenza di uomini e donne che ne hanno fatto diretta esperienza. Si tratta di
una realtà che presenta i tratti del paradosso, e nella forma più accentuata possibile. NON È
UNA METAFORA! L’evento del prendere dimora del Verbo tra gli uomini, inaugurato
dall’incarnazione (cfr. Gv 1,14), si viene qui a manifestare in tutta la sua profondità trinitaria:
accogliere Gesù significa davvero accogliere Colui che lo ha inviato (cfr. Mt 10,40; Gv 13,20), e
se Gesù prende dimora, per la fede, nel cuore del credente, non è possibile non riconoscere
che, con Lui, viene anche il Padre.
Se di inabitazione trinitaria – anche se non sempre con questo termine – hanno parlato tutti i
grandi santi, sin dall’epoca patristica, va però riconosciuto che è soprattutto con la riforma del
Carmelo che si approfondisce il tema dell’inabitazione della Trinità nell’anima del fedele,
attraverso una fenomenologia raffinata di tale singolare esperienza e la presentazione dei
criteri di discernimento della stessa. Senza dubbio gli scritti di TERESA D’AVILA e di GIOVANNI DELLA
CROCE sono i luoghi nei quali, nella forma più lucida e insieme appassionata, ci è consegnata
l’intelligenza spirituale di un simile dono: il partecipare, l’entrare, per grazia, nel ritmo stesso
delle relazioni tra le Persone divine, nel movimento pericoretico che coincide con l’essenza
stessa del Dio che è Amore.
Volgiamo ora l’attenzione agli scritti di Giovanni della Croce il quale, anche se non parla di
castello interiore, penetra con sapienza spirituale e finezza teologica assai rare quanto Teresa
ha descritto e quanto, soprattutto, entrambi hanno sperimentato nella loro vita.
Il passo più denso e teologicamente impegnato nel quale è descritta l’inabitazione trinitaria
nell’anima e le conseguenze che tale dono comporta è il celeberrimo testo del CANTICO
SPIRITUALE di Giovanni della Croce (Strofa 39), che scegliamo di citare quasi per esteso:
3. Questo spirare dell’aria, è una capacità che l’anima dice riceverà da Dio nella
comunicazione dello Spirito Santo. Questi, come nell’inspirare fisico, con la sua
INSPIRAZIONE DIVINA risucchia l’anima in maniera molto sublime, LE DÀ FORMA e la
rende capace di spirare ella stessa in Dio LA STESSA SPIRAZIONE D’AMORE che il Padre
spira nel Figlio e il Figlio nel Padre. SPIRAZIONE CHE È LO STESSO SPIRITO SANTO che, in
detta trasformazione, spira l’anima nel Padre e nel Figlio per unirla a Sé. Se l’anima
infatti non si trasformasse in grado svelato e manifesto nelle tre persone della
Santissima Trinità, non sarebbe vera e totale trasformazione. Ora, questa spirazione
dello Spirito Santo nell’anima, con cui Dio la trasforma in Sé, produce in lei un
piacere così sublime, delicato e profondo, che nessuna lingua mortale può
esprimerlo, né alcun intelletto umano, in quanto tale, può comprenderne qualcosa.
Anzi, nemmeno si può dire quello che in questa trasformazione temporale avviene
nell’anima a riguardo di questa comunicazione, perché L’ANIMA, UNITA E TRASFORMATA
IN DIO, IN DIO SPIRA A DIO LA STESSA SPIRAZIONE DIVINA CHE DIO, SPIRA DA SE STESSO ALL’ANIMA,
TRASFORMATA IN LUI.
4. Nella trasformazione che l’anima realizza in questa vita, detta spirazione passa
molto di frequente da Dio all’anima e da questa a Dio con altissimo godimento
d’amore dell’anima, benché non avvenga in grado svelato e manifesto come
nell’altra vita. Questo, a mio parere, è ciò che volle dire san Paolo quando scrisse:
Siccome siete figli di Dio, Dio mandò nei vostri cuori lo Spirito del Figlio suo che grida
Padre! (Gal 4,6). Cosa questa che, nei beati dell’altra vita e nei perfetti in questa, si
realizza nel modo anzidetto. E non c’è motivo di ritenere impossibile che l’anima sia
capace di una cosa tanto sublime, che cioè per via di partecipazione spiri in Dio
come Dio spira in lei. Infatti, dato che Dio fa grazia all’anima di unirla nella
Santissima Trinità, in cui si fa deiforme e Dio per partecipazione, come può essere
cosa incredibile che compia anche il suo atto d’intelletto, di conoscenza e d’amore?
Meglio, perché deve essere cosa incredibile che l’abbia compiuta nella Trinità,
unitamente ad essa, come la Trinità stessa, anche se ciò avviene per comunicazione
e partecipazione, agendo Dio nell’anima stessa? Anzi, proprio questo significa
essere trasformati nelle Tre Persone in potenza, sapienza e amore; e proprio in
questo l’anima è simile a Dio che la creò a sua immagine e somiglianza, proprio
perché potesse giungere a questo stato (Gn 1,26).
5. Come ciò avvenga, non ci sarà mai sapere o capacità sufficienti ad esprimerlo.
Ciò che possiamo capire è che è stato il Figlio di Dio ad ottenerci questo eminente
stato e a meritarci questa grazia così elevata di poter essere figli di Dio come dice
san Giovanni (Gv 1,12) chiedendo al Padre, come ancora si esprime lo stesso san
Giovanni, dicendo: Padre, voglio che coloro che mi hai dato, stiano anch’essi con me
dove sono io, perché vedano la gloria che mi hai dato (Gv 17,24). Cioè, che facciano
in noi, per partecipazione, la stessa opera che io faccio per natura, che è spirare
lo Spirito Santo. Dice inoltre: Padre, non prego solo per i presenti ma anche per
quelli che mediante la loro parola crederanno in me perché tutti siano una sola
cosa, come tu Padre sei in me e io in te, così anch’essi siano in noi una stessa cosa.
E la gloria che tu mi hai dato, io l’ho data a loro perché siano una stessa cosa come
noi siamo una stessa cosa. Io in essi e tu in me, perché siano perfetti nell’unità;
perché il mondo sappia che tu mi hai mandato e che li hai amati come hai amato
me (Gv 17,20-23) cioè comunicando loro il medesimo amore che comunichi al Figlio,
sebbene, come abbiamo detto, in loro non avvenga per natura come nel Figlio, ma
per unione e trasformazione d’amore. Nemmeno poi s’intende qui che il Figlio voglia
dire al Padre che i Santi siano una sola cosa essenzialmente e naturalmente come
lo sono il Padre e il Figlio, ma che lo siano per unione d’amore, come il Padre e il
Figlio vivono in unità d’Amore.
6. Posseduti dalle anime per partecipazione o posseduto dal Figlio per natura, sono
sempre gli stessi beni. Veramente dèi sono dunque tali anime, per partecipazione,
uguali e compartecipi di Dio.
E nel concludere la Strofa, spiegando il significato della fiamma, così scrive il Dottore della
Croce:
14. Per FIAMMA qui s’intende l’amore dello Spirito Santo. E il consumare significa
completare e perfezionare. L’anima, quindi, dicendo che tutte le cose nominate in
questa strofa gliele dovrà dare l’Amato, ed ella le dovrà possedere in completo e
perfetto amore, poiché tutte, ed ella insieme ad esse, saranno assorbite nel
perfetto amore che non dà pena, vuol far capire tutta la perfezione di questo
amore. E perché sia tale, deve avere queste due caratteristiche: che consumi e
trasformi l’anima in Dio; e che il bruciare e la trasformazione che la fiamma produce
non le dia pena. Cosa questa che non può verificarsi se non nello stato beatifico,
dove ormai questa fiamma è amore soave. Infatti nella trasformazione dell’anima
in fiamma c’è conformità e godimento beatifico da entrambe le parti, per cui la
maggiore o minore intensità della fiamma non dà pena, come invece avveniva
prima che ella giungesse ad essere capace di questo perfetto amore. Adesso
l’anima, giunta a tale amore, si trova in tanta sintonia e soavità d’amore verso Dio
che, pur essendo Egli fuoco consumatore (Dt 4,24), come dice Mosè, per lei ora non
è ormai altro se non perfezionatore e ristoratore. Questa trasformazione non è
come quella che l’anima provava in questa vita: sebbene fosse molto perfetta e
perfezionatrice dell’amore, tuttavia, come fa il fuoco con la brace, in parte
consumava e distruggeva; per quanto trasformasse e rendesse simile a sé, senza
più emissione di fumo, come avveniva prima di trasformala in sé, tuttavia nel
mentre la trasformava in fuoco, la consumava e dissolveva in cenere. La stessa cosa
accade all’anima che in questa vita è trasformata con perfezione d’amore.
Quantunque ci sia conformità, tuttavia l’anima, in certo senso, soffre pena e danno:
anzitutto a causa del dilazionarsi della trasformazione beatifica, che affligge sempre
più lo spirito; e poi a motivo del danno che il senso, debole e corruttibile, subisce
da parte della forza e sublimità di così grande amore. Infatti, qualsiasi cosa
eccellente e sublime riesce di danno e di pena alla debolezza naturale, come sta
scritto: Il corpo che si consuma appesantisce l’anima (Sap 9,15). In quella vita
beatifica l’anima non subirà invece nessun danno né pena, benché il suo
comprendere sia profondissimo e il suo amore senza limiti. Per il primo, Dio le darà
le capacità, perfezionandone l’intelletto con la sua sapienza, e per l’altro le
infonderà forza, perfezionandone la volontà con il suo amore.
Anzitutto è da rilevare come il fulcro della partecipazione dell’anima alla vita intradivina sia
ravvisato da Giovanni nella relazione di SPIRAZIONE che lo Spirito Santo È, in quanto relazione
che unisce il Padre al Figlio e il Figlio al Padre, e che lo stesso Spirito dona all’anima di
sperimentare:
«La rende capace di spirare ella stessa in Dio la stessa spirazione d’amore che il Padre
spira nel Figlio e il Figlio nel Padre. Spirazione che è lo stesso Spirito Santo»;
«l’anima, unita e trasformata in Dio, in Dio spira a Dio la stessa spirazione divina che
Dio, spira da Se stesso all’anima, trasformata in Lui»;
«dato che Dio fa grazia all’anima di unirla nella Santissima Trinità, in cui si fa deiforme
e Dio per partecipazione, come può essere cosa incredibile che compia anche il suo atto
d’intelletto, di conoscenza e d’amore?».
il peso teologico-spirituale di simili affermazioni non può sfuggire.
Giovanni della Croce non ripropone semplicemente l’antichissima dottrina della divinizzazione,
tanto cara ai Padri: egli ENTRA in questo mistero di grazia e, per quanto gli è possibile e
permesso dall’inadeguatezza del linguaggio umano, ne descrive la dinamica. Ma tale passaggio
è possibile proprio a partire dalla CENTRALITÀ DEL CROCIFISSO che ha informato di sé tutta
l’esperienza mistica di Giovanni. Per nessun altro motivo infatti il Dottore della Chiesa può
spingersi a descrivere l’ineffabile e l’inesprimibile vita divina se non per il fatto che questa
stessa vita, questo amore, è divenuta accessibile a noi nell’INCARNAZIONE DEL VERBO e si è donato
totalmente fino all’esperienza dell’ABBANDONO SULLA CROCE.
Si può dire che condizione spirituale e teologica della teologia trinitaria presente
nell’opera di Giovanni della Croce sia rappresentata proprio dall’intuizione
dell’IMMEDESIMAZIONE TOTALE, dalla consumazione IN UNO con il Cristo della croce che il
santo ha colto e sempre annunciato come unico centro dinamico della vita nello Spirito!
E il fatto che nel Cantico e in Fiamma d’amor viva, il discorso si orienti verso una
pneumatologia sempre più rilevante non è affatto in contrasto, anzi, con l’intuizione
cristologica fontale. In tal senso, il ruolo che la meditazione sull’identità della Terza Persona
della Trinità e della sua opera nell’anima del credente occupa negli scritti di Giovanni della
Croce, ci offre, dal preciso taglio spirituale che gli compete, delle feconde piste di
approfondimento e studio sul modo in cui intendere la partecipazione dell’uomo fin d’ora
alla vita intima di Dio.
Sarà proprio in Fiamma d’amor viva che – grazie alla forza poetica, biblica e teologica della
simbolica del fuoco – Giovanni della Croce tratteggerà con tinte accese il divampare nell’anima
della potenza e del calore dello Spirito Santo. Già nella Strofa 39 del Cantico sopra citata il
santo aveva chiarito che «per FIAMMA qui s’intende l’amore dello Spirito Santo. E il CONSUMARE
significa completare e perfezionare». Ora, nella Fiamma, il Dottore dispiega la sua dottrina
sull’amore in modo intenso e vibrante. Egli afferma che
quanto all’amore, l’anima possiede TRE PERFEZIONI FONDAMENTALI. La prima è che in
questa situazione non ama Dio per propria capacità, ma per mezzo dello stesso Dio.
Il che costituisce perfezione mirabile, poiché ama Dio per mezzo dello Spirito
Santo, come si amano tra loro il Padre e il Figlio, come il Figlio stesso si esprime in
san Giovanni dicendo: L’amore con cui mi hai amato sia in essi e io in loro (Gv 17,26).
La seconda perfezione è che ama Dio in Dio, poiché in questa strettissima unione,
l’anima s’immedesima nell’amore di Dio e Dio si dona a lei con strettissimo vincolo
d’amore. La terza perfezione fondamentale dell’amore è che l’anima qui ama Dio
per ciò che Egli è; non Lo ama infatti solo perché verso di lei Egli è un bene
straboccante, buono e glorioso ecc., ma lo ama molto più ardentemente perché
tutto questo Egli lo è in sé per essenza.
Dall’amore di sé all’amore di Dio,
dall’amore di Dio all’amare Dio in Dio,
dall’amare di Dio in Dio all’amare Dio per ciò che Egli è:
questo l’itinerario, nel quale è evidente la progressiva e totale CONSUMAZIONE dell’anima
in Dio, tanto che alla fine ella è una cosa sola con Lui.
Sono l’attesa e la sofferenza indicibile per l’avverarsi di questa completa unità che inducono
l’anima a invocare, a chiedere allo Spirito che finalmente squarci la tela e conceda il dolce
incontro faccia a faccia con Dio. Tutta l’opera (Fiamma d’amor viva) è pervasa da questa dolce
inquietudine che sembra stridere con il riposo di cui Giovanni aveva parlato in merito al
matrimonio spirituale, ma che, in realtà, gli è perfettamente conforme. Infatti, come scrive il
santo
l’amante infatti quanto più è piagato d’amore, tanto più è sano. E la cura che
l’amore produce è di aggiungere piaga a piaga, ferita a ferita, finché la piaga sia così
grande che tutta l’anima sia ridotta a una sola piaga d’amore. In questo modo
l’anima, già tutta cauterizzata e ridotta a una sola piaga d’amore, è tutta risanata
nell’amore perché è TUTTA TRASFORMATA IN AMORE.
Rimane quindi la dimensione del NADA a lui tanto cara, simbolizzata qui dalla metafora della
piaga, della ferita. Ed è ormai evidente che tale nada/non deve essere concepito come un non
dell’amore: prodotto dall’amore, esigito dall’amore, donato all’amore. Un non che, nella vita
e nella dottrina del santo, ha avuto come riferimento, criterio unico di lettura, di ermeneutica
e di verifica, l’amore della croce, l’amore che Gesù crocifisso è.
Nella Strofa 39 del Cantico, Giovanni della Croce cita alcuni versetti di Gv 17: è interessante
notare come non affiori una lettura dell’amore trinitario che abbia come luogo della sua
esperienza l’INTERSOGGETTIVITÀ. Eppure forse non si trovano negli Evangeli espressioni, come
quelle di Gv 17, che connettono in modo altrettanto stringente il rapporto di amore e unità
che intercorre tra il Padre e il Figlio e la presenza tra i discepoli di quello stesso legame
pericoretico di unità. Bisogna tener conto che Giovanni scrive queste pagine nel momento in
cui vive una fraternità ferita, messo in carcere proprio dai fratelli: dunque non può non esserci
una comunione intratrinitaria sviluppata nella fraternità, ma si sviluppa soprattutto nella
soggettività.
Giovanni della Croce intuisce in modo penetrante il modo in cui, nel credente, lo Spirito Santo
rende possibile l’inabitazione trinitaria promessa da Gesù a chi lo accoglie (cfr. Gv 14,23), e la
descrive con espressioni ardite che arrivano a parlare di una vera percezione dell’amore che
unisce il Padre al Figlio e il Figlio al Padre, una percezione spirituale che finalmente merita
propriamente questo nome in quanto è lo Spirito Santo.
Lo “SPIRARE in Dio la stessa SPIRAZIONE che è il legame che unisce il Figlio al Padre” è tra
le espressioni più forti che si possano trovare nella tradizione spirituale dell’Occidente e
ci fa notare ancora una volta come Giovanni porti letteralmente ad “esplodere” le
categorie della teologia scolastica che, pure, sono state quelle nelle quali egli si è
formato. Il carisma donatogli lo conduce ad una sapienza superiore, ad intus legere nel
senso più vero del verbo, in quanto si tratta di vedere nell’intimo di Dio e vedere tutte le
cose dall’intimo di Dio.
Il disegno tracciato però, ancora una volta, non esce dall’IMPOSTAZIONE INTRASOGGETTIVA tipica
della tradizione sia trinitaria che spirituale, e in questo il debito di Giovanni verso di essa è
forte e costituisce la soglia sulla quale egli si arresta.
Anche in TERESA D’AVILA, l’approdo del cammino di perfezione ha i tratti trinitari riconosciuti in
Giovanni, espressi attraverso un linguaggio più spirituale che teologico, come è ovvio che
avvenga. Nella settima mansione del Castello interiore così si esprime riguardo all’anima che
ha raggiunto il matrimonio spirituale, con significativa consonanza con il dettato di Giovanni
della Croce:
Una volta entrata nella settima stanza, la Santissima Trinità, in visione
intellettuale, come manifestazione di verità, le si rivela in tutte e tre le persone, con
un fuoco che sale al suo spirito, come nube piena di luce. L’anima, per mirabile
nozione, comprende in altissima evidenza come le tre Persone siano un’unica
sostanza, un unico potere, un unico sapere, un unico Dio. Ciò che crediamo per
fede, viene conosciuto dall’anima, potremmo dire, con la vista, ma non con gli
occhi del corpo; non si tratta di una visione immaginaria. Tutte e tre le Persone si
comunicano all’anima e le fanno comprendere le parole pronunciate da Gesù
riportate dal Vangelo; come cioè lui, Gesù, il Padre e lo Spirito Santo sarebbero
venuti ad abitare nell’anima da cui sono amati e che osserva i suoi comandamenti.
Un altro celebre passo, in merito all’inabitazione trinitaria, è contenuto nelle Relazioni.
La mia anima cominciò ad INFIAMMARSI, sembrandomi che chiaramente vi era
presente tutta la Santissima Trinità in visione intellettuale […]. Mi pareva che a
parlare fossero contemporaneamente le tre Persone, e che si rappresentassero
differentemente nella mia anima. […]. Compresi le parole del Signore, quando dice
che nell’anima in grazia inabiteranno le tre Persone divine, perché le vedevo, come
ho detto, dentro di me.
Manca, non nella vita, ma nella dottrina spirituale dei due riformatori del Carmelo, la luce
interiore per riconoscere il valore che l’ingresso nel mistero trinitario di Dio, realtà di
comunione nella distinzione, determina nella considerazione della DIMENSIONE
INTERSOGGETTIVA. Il riferimento ultimo rimane sempre L’ANIMA DEL SINGOLO CREDENTE: se è vero
che l’unione con Dio ricevuta per grazia la porta a guardare e amare i fratelli con l’amore
e la misericordia di cui ha fatto vitale esperienza, è però vero che il primato del livello
intrasoggettivo rimane l’indiscussa fonte, l’unico orizzonte nel quale l’incontro con il Dio-
Amore avviene e può avvenire.
IV. La “trinitizzazione”: il castello esteriore
Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che
tu mi hai mandato. E la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché SIANO UNA
SOLA COSA COME NOI SIAMO UNA SOLA COSA. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti
nell’unità e il mondo conosca che tu mi hai mandato e che li hai amati come hai amato
me (Gv 17, 21-23).
Alla promessa di Gesù di venire a prendere dimora con il Padre in colui che lo accoglie nella
fede, Gesù fa seguire non più una promessa ma una PREGHIERA rivolta direttamente al Padre
nella quale egli chiede e invoca, per così dire, il movimento reciproco: non la Trinità che viene
ad abitare nell’anima del credente, ma i credenti che ENTRANO nella Trinità, nello stesso
mistero di unità che costituisce l’essenza comunionale di Dio («Io e il Padre siamo una cosa
sola», Gv 10,30, nell’intensa espressione della Vulgata: «Ego et Pater unum sumus»). In Gv 17
l’orizzonte trinitario della vita dei credenti si rivela chiamato ad assumere profondità e
ampiezze IMPOSSIBILI: Gesù non teme di parlare di un come che ha dell’inaudito. Siamo chiamati
a essere uno COME Lui e il Padre sono uno. In Gv 17 lo Spirito, mai direttamente menzionato,
è l’anima più profonda della preghiera di Gesù, nome ultimo del mistero di unità che Gesù
celebra e chiede sia donato a coloro che il Padre gli ha affidato. L’identità della Chiesa dei
credenti, della comunità dei salvati, ha il suo luogo di origine nel seno del Padre nel quale il
Figlio abita e ha il suo dove. La Chiesa è nata dall’ORAZIONE di Gesù, racchiusa sin dall’inizio nelle
viscere dell’amore trinitario. Il ‘900 è stato un secolo in cui la preghiera di Gesù al Padre, l’unica
richiesta che Egli ha innalzato per i suoi prima di lasciare questo mondo e tornare al Padre, ha
trovato eco profonda nell’esperienza spirituale di molte tra le figure di santità più luminose di
questa epoca. E non è un caso che si tratti, nella maggioranza dei casi, di donne.
Scrive Coda:
Tra i segni dei tempi che sembrano caratterizzare il passaggio epocale tra il secondo e
il terzo millennio cristiano, senza dubbio v’è anche l’emergere del profilo mariano della
Chiesa e lo stagliarsi di quello che Giovanni Paolo II ha definito il GENIO FEMMINILE. Non si
tratta soltanto, a ben vedere, d’un compito da eseguire – anche se il cammino da
percorrere è ancora lungo e accidentato –, ma di un dono da accogliere. Nell’alveo della
tradizione cristiana assistiamo a un inedito e spontaneo coniugarsi di mistica e pensiero
in alcune figure di donne, che lasciano in preziosa eredità non solo un ricco patrimonio
di spiritualità consonante con le esigenze dell’oggi, ma anche il modello e la forma di
quel «nuovo pensare» la fede e, in essa, il senso dell’essere e dell’esistere da e in Dio,
cui il nostro tempo aspira.
È a una di queste esperienze carismatiche che volgiamo ora la nostra attenzione e,
precisamente, a quella del CARISMA DELL’UNITÀ donato a CHIARA LUBICH e alle sue prime
compagne. La serva di Dio ha coniato un’immagine particolarmente forte per esprimere la
novità di tale inedito orizzonte della vita spirituale del cristiano: ha parlato di CASTELLO
ESTERIORE, in palese dialogo con l’immagine teresiana. Così si esprime la fondatrice dell’Opera
di Maria: «è mirabile il disegno di Dio: questo Regno dei cieli, questo castello esteriore in cui
Dio è fra noi». Interessante è cogliere in lei la consapevolezza che illuminò la scoperta del
nuovo castello in continuità con quello teresiano:
con grande sorpresa e meraviglia, conoscendo la via spirituale dei membri del
movimento, abbiamo osservato come anch’essi, vivendo la spiritualità evangelica
dell’unità, attraversassero le medesime tappe, prove analoghe e sperimentassero effetti
spesso identici a quelli descritti da Teresa d’Avila. Pur essendo la nostra una vita che si
realizza in mezzo al mondo e quella di Teresa in un convento, LA CRESCITA DELLA VITA
DELL’ANIMA ERA ANALOGA. Questa constatazione, comunque, ci meravigliò, ci riempì di
gratitudine e ci spinse a continuare con impegno crescente la strada che stavamo
percorrendo.
In altri contesti la Lubich intenzionerà questa stessa realtà, questa nuova esperienza spirituale,
attraverso il lemma TRINITIZZAZIONE. La prospettiva racchiusa in questo termine dona di
comprendere come la giusta ermeneutica della frase appena citata non possa essere, in fondo,
che questa: nel castello esteriore Dio è fra noi perché lì, ben più radicalmente, accade la realtà
del Dio fra Dio. Ma dire Dio fra Dio è dire Dio Trinità: solo nella Trinità Dio è fra Dio, perché
tra il Padre e il Figlio vi è sempre Dio, lo Spirito dell’amore.
TRINITIZZAZIONE, DUNQUE, COME ESPERIENZA DEL DIO FRA DIO.
Quello che per la prima volta si è dato nella storia della spiritualità cristiana e, di lì, è diventato
un punto di assoluto momento nell’ininterrotto cammino della Chiesa verso tutta la verità (cfr.
Gv 16,13) che la teologia è chiamata a servire, è il fatto che l’identità trinitaria di Dio non viene
più riconosciuta ed esperita solo quale principio, sostegno e fine di tutte le cose e di ogni
autentica relazione ma, ben di più, come EVENTO che, accadendo nella relazione intersoggettiva
tra i credenti in Cristo, rende QUESTI STESSI legami autentico LUOGO di esperienza del dar-Si e dir-
Si di Dio Trinità, reale partecipazione alla pericoresi delle tre divine Persone.
Vertice di luminosità abbagliante, che già aveva per così dire “accecato” uno spirito eletto quale
fu Agostino d’Ippona (cfr. De Trinitate VIII); luce che è venuta a noi nel buio assoluto nel quale
avvenne la consegna dell’amore fino alla fine: il buio, il nulla che è Gesù Abbandonato, che
grida la sua fede nell’Abbà mentre regna il buio su tutta la terra e nel suo cuore.
È certo che in punto di morte rimase annientato anche nell’anima, senza consolazione
o sollievo alcuno: il Padre Lo lasciò infatti in una così profonda aridità, anche secondo la
parte inferiore, che sulla Croce non poté fare a meno di prorompere nel grido: Dio mio,
Dio mio! perché mi hai abbandonato? (Mt 27,46). Fu l’abbandono più desolante che
abbia mai sensibilmente sperimentato nella sua vita. Fu proprio in quell’abbandono che
compì l’opera più grande di quante ne abbia fatte in tutta la sua vita in terra e in cielo,
con miracoli e prodigi: cioè l’opera di riconciliare e unire il genere umano con Dio,
mediante la grazia. Lo ripeto, questo avvenne in quel tempo e in quell’istante in cui
Nostro Signore era più che mai ridotto al nulla: annientato nella stima degli uomini, che
vedendolo morire, anziché apprezzarlo in qualche cosa, si burlavano di Lui; annientato
nella sua natura umana, poiché morendo si annullava; annientato infine nel sostegno e
conforto spirituale del Padre, che in quei momenti Lo abbandonò lasciandoLo così
annientato e ridotto quasi a nulla, e quindi pagasse interamente il debito e unisse l’uomo
con Dio. […] Questo perché l’uomo spirituale capisca il mistero della porta e della vita di
Cristo per unirsi a Dio, e sappia che quanto più si annienta per amore di Dio secondo le
due parti, sensitiva e spirituale, tanto più si unisce a Lui e tanto più grande è l’opera che
compie. E quando fosse ridotto a nulla, ciò che costituirà la perfetta umiltà, allora sarà
compiuta l’unione spirituale tra l’anima e Dio, che costituisce il più grande e sublime
stato cui si possa giungere in questa vita. Questa unione con Dio non consiste dunque in
svaghi, gioie, consolazioni o sentimenti spirituali, ma in una viva morte di Croce, sensitiva
e spirituale, cioè interiore ed esteriore.
(GIOVANNI DELLA CROCE, Salita del monte Carmelo)
Dio lo aveva lasciato solo. Era questo il dolore più lancinante, di fronte al quale nessuna
sofferenza terrena poteva reggere al paragone. Eppure ciò costituiva da parte di Dio la
prova suprema d’un amore eccezionale. Pareva conducesse alla morte, mentre era la
strada verso la vita. Nessun cuore umano è mai piombato in una notte così oscura come
quella che avvolse l’Uomo-Dio nel Getsemani e sul Golgota. Nessuno spirito umano, per
avido di ricerca che sia, potrà mai penetrare nell’immenso mistero dell’abbandono divino
da cui fu afflitto l’Uomo-Dio alle soglie della morte. Ma Gesù può dar modo a certe anime
elette di provare almeno parzialmente questa estrema amarezza. Sono i suoi amici più
fedeli, ai quali chiede l’ultima prova del loro amore. Se essi non indietreggiano, ma si
lasciano trascinare volentieri nella notte oscura, quest’amore diventa la loro guida.
(EDITH STEIN, Scientia crucis)
In una parola:
nel CASTELLO INTERIORE di Teresa d’Avila è Dio che, dalla stanza più interna, illumina tutto il
castello;
in Chiara Lubich, la luce che illumina tutto il CASTELLO ESTERIORE, e che è sempre Dio, è la
NON LUCE dell’abbandono di Gesù.
Scrive Chiara:
San Giovanni della Croce non poteva andar più in là [Dove questo “non poteva” – direi
– significa che sin lì l’aveva portato Dio, non oltre]: arrivò a disporre la sua anima nella
migliore disposizione perché Dio la riempisse. Infatti egli con la sua notte oscura fu il
POLO NEGATIVO che unito a Dio – POLO POSITIVO – fece splendere o scaturire la Luce in sé. Noi
siamo [chiamati a essere] polo negativo e polo positivo tra fratelli. […] Il loro contatto dà
la Luce di Gesù fra essi e quindi in ambedue. Portiamo [così] il Regno di Dio sulla terra.
Infatti Dio è fra noi e attraverso noi questa corrente d’amore (che è la corrente
dell’Amore trinitario) passa per il mondo in tutte le membra del Corpo Mistico, tutto
illuminando.
Un’esperienza che può essere accostata all’intuizione della Lubich pare essere, sotto questo
preciso aspetto, quella vissuta da ANGELA DA FOLIGNO (Libro IX del Memoriale), che detta a Fratel
A.:
Una volta l’anima fu elevata e vedevo Dio in tanto splendore e in tanta pienezza, che
così tanto non avevo mai visto né in quel modo pienissimo. Non vedevo lì amore, e allora
persi quell’amore che portavo e divenni non amore. E dopo, dopo questo, lo vidi in una
tenebra, e dico in tenebra perché è il maggior bene che si possa pensare e capire; e tutto
ciò che si può pensare e capire non lo tocca o gli si avvicina. Allora fu data all’anima una
fede certissima, una speranza sicura e fermissima, una sicurezza di Dio continua che mi
tolse ogni timore. E in quel bene che si vede nella tenebra mi raccolsi tutta, e divenni
così sicura di Dio, che mai potrei dubitare di lui e di non avere Dio in modo certissimo. E
in quel bene così efficacissimo che si vede nella tenebra la mia speranza fermissima è
tutta raccolta e sicura.
La differenza tra il non amore di cui Angela fa esperienza nella sua visione di Dio Trinità e quello
che invece è consegnato nell’esperienza della Lubich tuttavia è notevole, pur rimanendo
affascinante e intrigante il parallelo tra le due mistiche. In Chiara il NON AMORE assume il volto
ben preciso di Gesù Abbandonato, il quale, per essere accolto, chiede al credente di perdere
Dio in sé per il Dio nel fratello. Scrive Chiara:
La dottrina della Chiesa è come un albero fiorito sviluppatosi attraverso i secoli. Il
nostro Ideale [il carisma dell’unità] dà ad esso una nuova fioritura: quasi ricopre la
chioma di quest’albero d’un nuovissimo manto di fiori e sembra – e lo è – che tutto
l’albero tenda a questa fioritura, sia in funzione di essa, per essa […]. Dio che è in me,
che ha plasmato la mia anima, che vi riposa in Trinità (con i santi e con gli Angeli), è
anche nel cuore dei fratelli. Non è ragionevole che io Lo ami solo in me. Se così facessi il
mio amore avrebbe ancora qualcosa di personale, d’egoistico: amerei Dio in me e non
Dio in Dio, mentre questa è la perfezione: DIO IN DIO (ché è Unità e Trinità). Dunque la
mia cella, come direbbero le anime intime a Dio e noi [diremmo] il mio Cielo, è in me e
come in me nell’anima dei fratelli. E come Lo amo in me, raccogliendomi in esso –
quando sono sola –, Lo amo nel fratello quando egli è presso di me. Allora non amerò il
silenzio ma la parola (espressa o tacita), la comunicazione cioè del Dio in me col Dio nel
fratello. E se i due Cieli si incontrano ivi è un’unica Trinità ove i due stanno come Padre e
Figlio e tra essi è lo Spirito Santo. […] Ma occorre perdere il Dio in sé per Dio nei fratelli.
E questo lo fa soltanto chi conosce ed ama Gesù Abbandonato.
Quella descritta icasticamente in questo testo è esattamente la dinamica di TRINITIZZAZIONE DEI
LEGAMI TRA I FRATELLI, resa possibile dalla rivelazione della verità della persona umana quale
destinataria del dono della partecipazione alla vita divina avvenuto in Gesù Abbandonato.
a. Trinitizzazione dei legami
Parlare di trinitizzazione rimanda al darsi di un evento caratterizzato anzitutto dall’ESSERE UN
DONO GRATUITO: si tratta di una determinazione dei legami intersoggettivi che non è
naturalmente ovvia e non è nemmeno una dimensione che andrebbe, per così dire, a
sovrapporsi a una comprensione della relazione pensata a monte di questo stesso dono. Si
ripresenta in questo ambito la stessa necessità del ripensamento del rapporto natura-grazia,
o, se si preferisce, libertà-grazia che tanto ha segnato il rinnovamento dell’antropologia
teologica nel periodo post-conciliare.
Parlare di trinitizzazione dei legami, quindi:
mentre assicura a tale evento la qualità di dono proveniente dalla Trinità stessa in virtù
dell’incarnazione del Figlio, della di lui morte e risurrezione e dell’effusione dello Spirito,
vuol sottolineare con altrettanta decisione e audacia la non allusività di quanto il lemma
afferma:
i legami intersoggettivi, allorché liberamente accolgono e si lasciano
determinare dall’indeducibile ed eccedente forma dell’agápe trinitaria, sono,
per grazia, REALMENTE TRINITIZZATI, sono reale esperienza, CRISTOLOGICAMENTE
MEDIATA E PNEUMATOLOGICAMENTE DONATA, della partecipazione alla vita stessa di
Dio.
Con le parole di Chiara:
L’unità! Ma chi potrà azzardarsi a parlare di lei? È ineffabile come Dio. Si sente, si vede,
si gode ma… è ineffabile! Tutti godono della sua presenza, tutti soffrono della sua
assenza.
È pace, gaudio, amore, ardore, clima di eroismo, di somma generosità. È Gesù fra noi.
Solo se abbiamo il distintivo dell’unità tra noi possiamo dirci veramente cristiani. Quando
l’unità col fratello si fa difficile, occorre non spezzare mai, ma piegarsi, finché l’amore fa
il miracolo d’un cuore solo e d’un’anima sola. Meglio il meno perfetto, ma in unità coi
fratelli, che il più perfetto, ma in disunità con essi, perché la perfezione non sta nelle
idee o nella sapienza, ma nella carità. Niente di più organizzato di ciò che l’amore ordina
e nulla di più libero di ciò che l’amore unisce. Chi vive in Dio è uno con tutti e tutto e tutto
e da tutti distinto. Quando due anime s’incontrano sono due Cieli che s’uniscono e danno
alle due anime gioia e pace e serenità e luce e ardore “alla Trinità”.
L’unità, il COME NOI della preghiera di Gesù (cfr. Gv 17,11b), secondo la Lubich si realizza solo
nella forma della PARTECIPAZIONE ALL’ABBANDONO DI GESÙ, a quel NULLA che lo rende UNO con il
Padre proprio perché DISTINTO DA LUI. Ma questo è quanto ad-viene proprio nel realizzarsi fra
noi della partecipazione all’agápe stesso che Dio è, in virtù dell’effusione dello Spirito nei
nostri cuori.
Scrive la fondatrice dell’Opera di Maria in un testo da noi citato poco sopra:
non amerò il silenzio ma la parola (espressa o tacita), la comunicazione cioè del Dio in
me col Dio nel fratello. E se i due Cieli si incontrano ivi è un’unica Trinità ove i due stanno
come Padre e Figlio e tra essi è lo Spirito Santo. (…) Ma occorre perdere il Dio in sé per
Dio nei fratelli. E questo lo fa soltanto chi conosce ed ama Gesù Abbandonato.
Perdere il Dio in sé per Dio nei fratelli è un esercizio particolarmente impegnativo, anche
e soprattutto in ambito teologico, dove la presunzione può farsi più sottile. Ecco perché la
Lubich afferma che può vivere questa dinamica solo chi CONOSCE e AMA Gesù Abbandonato.
GESÙ ABBANDONATO è esperienza della DISUNITÀ («Dio mio, Dio mio, perché mi hai
abbandonato?» Mc 15,34): esperienza che in lui è amore, amore nella forma del non,
della perdita più radicale;
Solo GESÙ ABBANDONATO è esperienza dell’UNITÀ («Padre, nelle tue mani consegno il mio
spirito» Lc 23,46): che in lui è ancora una volta sempre e solo amore.
Lui solo è la fede che spera contro ogni speranza (cfr. Rm 4,18). Solo lasciandosi
gratuitamente introdurre insieme dalla potenza dello Spirito Santo nella conoscenza
reciproca del Padre e del Figlio, attraverso i sacramenti e nella vita della Chiesa, può essere
possibile ricevere il pensiero di Cristo: e passare così dalla figura di Babele, dove il linguaggio
diventa veicolo di separazione dell’uomo dall’uomo quale conseguenza della sua hýbris nei
confronti di una divinità considerata come potenza da eguagliare, alla figura della
Pentecoste, dove la diversità delle lingue non viene annullata, ma finalmente sperimentata
come alterità che realizza, proprio perché tale, il miracolo dell’unico linguaggio dell’amore.
LA VERA UNIONE DIFFERENZIA, direbbe Teilhard.
b. Una concezione trinitaria della persona
L’intersoggettività che scaturisce dalle viscere della Trinità viene dunque all’uomo come dono
dall’alto e gli rivela il suo ESSERE-DALLA-E-PER-LA-COMUNIONE. L’intersoggettività tra le persone è
frutto dell’opera dello Spirito, come già aveva intuito Agostino nel Libro XV del De Trinitate
(17.31).
La Lubich amava fare un paragone tra la nota immagine della salita del monte di Giovanni della
Croce e la spiritualità dell’unità a lei donata: L’ESPERIENZA DEI LEGAMI TRINITARI TRA I FRATELLI, in virtù
della presenza del Crocifisso risorto in mezzo ai suoi, COLLOCA I CREDENTI IMMEDIATAMENTE SUL
CRINALE DELLA VETTA DELLA MONTAGNA. Lo Spirito Santo agisce sul nulla d’amore di ciascuna
persona, rendendole l’una per l’altra luogo dell’accadere della pericoresi trinitaria nelle
relazioni tra i credenti.
Amare Dio nel fratello, per quanto possa spingersi – come di fatto testimonia la storia della
spiritualità – fino alle vette dell’eroismo di una dedizione incondizionata, non rappresenta
ancora il vertice dell’amore: tale è solo la relazione come sussistente quale si dà in Dio Trinità,
Padre, Figlio e Spirito Santo. Ma se amandoci gli uni gli altri conosciamo Dio, perché Dio è
amore e perché nell’incarnazione del Verbo questo amore ha assunto una forma
autenticamente umana (cfr. 1Gv 4,7-8), le relazioni tra i fratelli nella fede si aprono ad
accogliere ed ESSERE realmente la traduzione nel tempo dell’eterna PERICORESI INTRATRINITARIA.
E, ancora una volta, ciò che nella storia della teologia si è arrivati solo a intuire e/o additare di
lontano, ossia che anche la persona umana, in virtù dell’incarnazione del Verbo, può essere
definita anch’essa come relazione sussistente, è lucidamente riconosciuto possibile da Chiara
solo in virtù di Gesù Abbandonato.
c. Il “luogo” della trinitizzazione
Intuizioni carismatiche come quella della Lubich conducono la teologia in generale, e la teologia
spirituale in modo del tutto particolare, a esplorare un vertice di attuazione esperienziale del
Dio fra Dio nel suo essere il DIO FRA NOI nel quale gli strumenti per dire una simile realtà sono
ancora in fase embrionale. Ma la chance è di assoluta importanza. Come aveva intuito
Agostino, l’AMORE AL FRATELLO è davvero il LUOGO nel quale cercare e vedere Dio Trinità, nel quale
toccarlo con mano. Per dirla con le parole di FLORENSKIJ:
toccare con mano Dio – penso, se questo è possibile, allora solo attraverso
l’animo di un altro, un Amico.
Se una tale esperienza è possibile, occorre chiedersi:
quale sia il LUOGO nel quale essa si dà
e, in esso, il CENTRO dal quale si irradia e si effonde, si partecipa.
Essendo il gratuito e indeducibile ingresso da parte degli uomini nella vita trinitaria stessa di
Dio, tale luogo non potrà che essere CRISTOLOGICAMENTE DETERMINATO: se è nella sua Pasqua di
morte e risurrezione che Gesù ha rivelato l’identità ultima di Dio Trinità, e se è lo Spirito Santo
che ne dona la partecipazione, la possibilità di fare esperienza di legami realmente trinitizzati
avrà il suo fulcro nel centro stesso dell’evento pasquale, ovvero nel FINO ALLA FINE dell’amore
di Gesù.
Come è nell’evento pasquale che la relazione tra Dio Trinità e l’umanità viene non
semplicemente restituita alla sua originaria bellezza, ma, per così dire, condotta a una
forma tale che giustamente Paolo può parlare di nuova creazione in Cristo Crocifisso e
Risorto, così è sempre NELL’EVENTO PASQUALE che la relazione intersoggettiva tra gli uomini
viene parimenti condotta, in Cristo e nella dynamis dello Spirito, alla stessa FORMA TRINITARIA
DELLA PERICORESI.
E ciò si attua nella Persona del Verbo incarnato, che esibisce così una reciprocità rispetto al
dono totale del Padre manifestatosi nel consegnare il Figlio per il mondo, e, in dipendenza da
questa, un’altrettanto totale reciprocità nei confronti dell’uomo, cui Egli, come buon
samaritano, si è fatto non solo prossimo ma realmente servo (cfr. Gv 13), amandoci non solo
“come se stesso”, ma “più di se stesso”. Tale dinamica di reciprocità al Padre e a noi, è
intrinsecamente RECIPROCANTE e lo è NELLA Persona dello SPIRITO SANTO: in Rm 8, Gal 4 e in 1Gv
4, la partecipazione da figli adottivi alla figliolanza singolare di Gesù con l’Abbà è sempre
presentata come un evento che si attua per opera dello e nello Spirito Santo; ed è sempre lo
stesso Spirito a determinare, nella Chiesa, legami che vivono della logica dell’agápe, di fronte
alla quale non solo non c’è nessuna legge ma anche nient’altro – fede compresa – che possa
costituire la verità dei legami tra i credenti in Cristo.
Ora, una simile reciprocità è stata rivelata e PAGATA A CARO PREZZO da Gesù in modo eminente
nell’ORA del suo abbandono. Ciò significa che l’agápe di Dio viene all’uomo IN GESÙ
ABBANDONATO, che davvero è la pupilla attraverso la quale l’Abbà guarda e salva il mondo; e
significa pure, e insieme, che l’esperienza dell’agápe di Dio tra gli uomini, viene a noi sempre
e solo in Gesù Abbandonato, l’unico nel quale mi è possibile riconoscere nel volto del fratello
l’immagine del Dio invisibile:
GESÙ È GESÙ ABBANDONATO. Perché Gesù è il Salvatore, il Redentore, e redime quanto
versa sull’umanità il Divino, attraverso la Ferita dell’Abbandono, che è la PUPILLA
dell’Occhio di Dio sul mondo: un Vuoto Infinito attraverso il quale Dio guarda noi: la
finestra di Dio spalancata sul mondo e la finestra dell’umanità attraverso la quale (si)
vede Dio.
È Gesù Abbandonato che rende possibile l’unione di Dio (POLO POSITIVO) con l’uomo (POLO
NEGATIVO); ma è sempre Gesù che nell’abbandono rende possibile ciò che mai la creatura
avrebbe potuto immaginare: fare esperienza che i due poli sono rappresentati dai credenti in
Cristo, i quali, lasciandosi fare una cosa sola con Gesù, sono da lui condotti, nella potenza
dello Spirito, nel seno del Padre.
Unendosi a Cristo, che per amore si è spinto nella kenosi più totale e si è identificato con noi
perché potessimo entrare nell’abbraccio di misericordia del Padre, anche il cristiano può
vivere quella che A. ROSMINI ha chiamato INOGGETTIVAZIONE: ovvero, io posso scegliere di
perdere tutto ciò che mi determina, tutto ciò sul quale pronuncio la parola “mio”, per
assumere fino in fondo, come mie, le determinazioni dell’altro. Si tratta cioè di comprendere
che il vero modo per essere un “soggetto” è essere nella persona amata, una cosa sola con lei,
superando la tentazione dell’ASEITÀ, del considerarmi come un io indipendentemente dalla
relazione con l’altro. Perdere la vita per trovarla cessa così di essere un’ingiunzione moralistica
– e diventa invece vera indicazione morale, ossia determinazione pratica della coscienza – o
un cammino di discepolato che presuppone un’esteriorità rispetto al maestro, e inaugura
un’inaudita reciproca immanenza tra Cristo e i suoi – vissuta nelle relazioni intersoggettive –
che, come Gesù ha promesso, non solo lo renderà presente in mezzo ai suoi, ma sarà il venire
della Trinità nel cuore dei credenti, l’essere una cosa sola come lo sono Gesù e il Padre nel
vinculum amoris che è lo Spirito.
d. La forma eucaristica della trinitizzazione
Questo è quanto avviene in modo eminente nel sacramento dell’Eucaristia:
è nel CORPO DATO di Gesù, nel suo SANGUE VERSATO, che si rende possibile l’INOGGETTIVAZIONE
DEI CREDENTI in Cristo e, in tal modo, il loro essere sin d’ora partecipi – nella forma incoativa
propria della condizione viatrice – della vita divina;
ma lo rende possibile in virtù di quella INOGGETTIVAZIONE DI CRISTO nell’umanità, in ogni
uomo, grazie alla quale quella vita divina ha raggiunto l’umanità sin nell’abisso del
peccato, nel sub-abbraccio del quale con tanta bellezza ha parlato von Balthasar.
Gesù ha operato un simile atto di amore proprio nella drammatica esperienza dell’abbandono.
La FORMA EUCARISTICA dell’amore è la FORMA DEL LÓGOS: nella storia della teologia e della mistica
ciò è sempre stato intuito, presentito, pensato. Il passo che forse oggi si presenta come un
kayrós proprio del nostro tempo, è la comprensione che di un tale lógos eucaristico, centro
dell’experientia fidei propria dell’analogia caritatis additata da Agostino, è dato all’uomo di
fare grata esperienza nell’accadere di legami intersoggettivi trinitizzati.
È questa la radice della straordinaria novità che il PATTO con Foco (nome nuovo dato a Igino
Giordani, laico sposato con cui Chiara stringe un “patto” spirituale) rappresenta non solo nella
storia della Lubich e degli inizi dell’Opera di Maria ma nella storia della spiritualità cristiana
tout court:
Foco, innamorato di santa Caterina, aveva cercato sempre nella sua vita una vergine
da poter seguire. Ed ora aveva l’impressione d’averla trovata fra noi. Per cui un giorno
mi fece una proposta: farmi il voto d’obbedienza, pensando che così facendo avrebbe
obbedito a Dio […]. Io non capii in quel momento né il perché dell’obbedienza, né
questa unità a due […] Nello stesso tempo però mi sembrava che Foco fosse sotto
l’azione d’una grazia, che non doveva andar perduta. Allora gli dissi pressappoco così:
«Può essere veramente che quanto tu senti sia da Dio […]». E aggiunsi: «Tu conosci la
mia vita: IO SONO NIENTE. Voglio vivere, infatti, come Gesù Abbandonato che si è
completamente annullato. ANCHE TU SEI NIENTE perché vivi alla stessa maniera. Ebbene,
domani andremo in chiesa ed a Gesù Eucaristia che verrà nel mio cuore, come in un
calice vuoto, io dirò: Sul nulla di me patteggia tu unità con Gesù Eucaristia nel cuore di
Foco. E fa in modo, Gesù, che venga fuori quel legame fra noi che tu sai. Poi ho
aggiunto: E tu, Foco, fa altrettanto». L’abbiamo fatto e siamo usciti di chiesa. Foco
doveva entrare dalla sagrestia per fare una conferenza ai frati. Io mi sono sentita spinta
a ritornare in chiesa. Entro e vado davanti al tabernacolo. E lì sto per pregare Gesù
Eucaristia, per dirGli: “Gesù”. Ma non posso. Quel Gesù, infatti, che stava nel
tabernacolo, era anche qui in me, ero anch’io, ero io, immedesimata con Lui. Non potevo
quindi chiamare me stessa. E lì ho avvertito uscire dalla mia bocca spontaneamente la
parola “Padre”. E in quel momento mi sono trovata in seno al Padre.
La relazione intersoggettiva tra i fratelli, in virtù della partecipazione e della incorporazione alla
Carne di Gesù, viene dunque ad implicare una negazione di sé autentica, reale e totale, un
farsi realmente NULLA perché sia Gesù a PATTEGGIARE UNITÀ. Tale dinamica, però, non comporta
una esclusione dell’altro dall’ambito ontologico e spirituale riservato alla propria
determinazione: al contrario, proprio negandomi, facendomi nulla per amore dell’altro, lo
riconosco come costituente, nella sua alterità, la mia identità. Proprio come nell’Eucaristia di
Gesù, nella quale Egli, donandosi fino alla fine, perdendo la vita, perdendo lo Spirito in sé per
donare a noi la vita divina di figli adottivi, solo così la ritrova, la riceve risorta, vittoriosa nei
confronti del peccato e della morte. Quella che siamo così condotti a pensare e vivere è invece
un’identità non affermata nella esclusione di uno spazio, bensì nella forma di una perfetta
IDENTITÀ TRA SÉ E L’ALTRO, di quell’essere una cosa sola che, alla luce del mistero trinitario, può
essere compreso non come escludente l’alterità, bensì come unico modo nel quale ciascuno
è ripristinato nella propria personalità.
Ma – e questo è un elemento essenziale – al movimento di perdita di sé che ogni fratello
vive nell’amore dell’altro, corrisponde il RECIPROCO movimento del fratello che, a sua
volta, offre tutto se stesso per me in unione a Gesù Abbandonato.
e. La trinitizzazione alla prova: la perdita della perdita
Viene da chiedersi: cosa resta della dimensione di RECIPROCITÀ RECIPROCANTE quando il fratello
con il quale si è vissuto e ricevuto il dono di partecipare all’amore stesso che è Dio nel modo
più alto concesso in questa vita sceglie di rifiutare o rinnegare questa unità? Cosa resta di
fecondità e apertura dove vi sia separazione tra i fratelli che pur avevano già sperimentato la
grazia dell’unità?
Comprendiamo come sia forse questo il luogo nel quale la scelta di Gesù Abbandonato appare
in tutta la sua drammaticità, mettendo in luce nel modo più doloroso l’essenza di quel fino
alla fine che è la forma dell’amore più grande (cfr. Gv 13,1; 15,13). Giungiamo, nel caso del
tradimento, della rottura dell’unità con me da parte del fratello, a una sorta di mistica della
sofferenza, dell’oblazione, che, di fatto, riguarda il mio offrire a Dio il cuore spezzato dal
fratello. Occorre asserire con forza che tale esperienza di dolore non solo non chiude in una
visione individualistica della modalità di sequela di Gesù Abbandonato, ma anzi può condurre
a comprendere nella forma più drammatica – e quindi più forte possibile – l’assoluta
centratura trinitaria nella quale, e solo nella quale, poter riconoscere anche NELLO SCACCO
DELL’AMORE LA FORMA TRINITARIA DELL’AGÁPE.
La rinuncia da parte del fratello a vivere e dimorare fra Dio e Dio è forse, nella logica del
castello esteriore, l’apostasia più tragica, in quanto tocca non semplicemente la non
corrispondenza a un imperativo morale o spirituale, bensì gli strati ontologici più profondi
della persona concepita come relazione sussistente. Ma comprendiamo anche come sia
proprio questa tragica possibilità il luogo nel quale l’amore trinitario è venuto storicamente
all’uomo: l’abbandono di Gesù sulla croce, il suo esser stato fatto peccato, maledizione per
noi, al posto nostro (cfr. 2Cor 5,21; Gal 3,13), è stata la forma nella quale l’agápe che è Dio si
è comunicata a noi.
Nell’abbandono di Gesù sulla croce, il Padre ha accettato di lasciarsi “strappare” via il
Figlio, di “perderlo”, di allontanarlo da sé, abbandonandolo attivamente, perché la
libertà di Gesù potesse dispiegarsi compiutamente nella forma del non dell’amore che
sola poteva riscattare la cattiva negazione del peccato dell’uomo.
E Gesù Abbandonato è colui che, per così dire, PERDE LA PERDITA: dona tutto, senza
trattenere nulla per sé, perché così ha visto fare dal Padre suo (cfr. Gv 8,38), PERDENDO
PERÒ ANCHE LA CONSAPEVOLEZZA DELLA DONAZIONE, perdendo cioè anche la perdita
dell’abbandono. Altrimenti l’abbandono non sarebbe stato radicalmente tale.
La PERDITA DEL FRATELLO introduce l’amante in quella forma di fedeltà che ultimamente ha il solo
nome di CROCE: è solo nella partecipazione all’amore fino alla fine di Gesù che è possibile non
spezzare l’unità con il fratello anche quando egli ha deciso di vivere la sua vita lontano da noi.
Non però sentendosi dalla parte di chi ha capito e nonostante tutto ama ma, come Gesù e solo
in lui, accettando di avvertire nella propria anima la ferita che il fratello ha scelto – spesso
senza piena consapevolezza. Se il fratello amato è l’abbandonante, l’unico modo per amarlo
e essere uno con lui sarà quello di FARMI ABBANDONANTE CON LUI, di lasciare che una parte del
cuore mi sia strappata via: e vivere tutto questo solo per amore. Proprio là dove è stata inferta
la ferita all’amore, l’amore nella forma della ferita, del vuoto, del non amore, potrà essere
pegno di risurrezione e di vita.
È quanto ha descritto P.A. FLORENSKIJ a proposito dell’amicizia:
Il pensiero stesso di poter sostituire una persona con un’altra si basa sull’accettazione
della OMOIUSIA ed è quindi peccaminoso e porta alla morte. Attraverso un
incomprensibile atto di elezione UNA PERSONA DIVENTA UNICA, è chiamata alla sublime e
regale dignità di Tu. Quando essa ha acconsentito a questa scelta, ha detto “sì” e si è
posta sul capo la corona della grandezza, che cosa vuole ancora l’Io? Una cosa sola: il
suo amore. L’Io afferma il proprio atto d’amore come eterno per valore e quindi esige
che rimanga, che non venga meno. Quest’affermazione interiore si esprime come zelo
o gelosia di incarnare nel tempo il proprio atto eterno di elezione dell’amato Tu. L’Io
desidera che il Tu non gli sia d’ostacolo nell’amore, cioè che nei rapporti con lui sia
veramente Tu. Che il Tu si comporti come unico, che non scenda dal piedestallo
dell’appartato, del singolare, dell’eletto! Non importa se nella folla e per la folla l’eletto
Tu è la persona più comune; per l’Io che lo ha scelto deve essere Tu e nient’altro che Tu,
altrimenti è impossibile l’amore, altrimenti non può incarnarsi nel tempo l’atto stesso
della scelta, altrimenti “il tempo” dell’amore non sarà “immagine mobile dell’eternità”
dell’elezione. Nei rapporti con l’Io il Tu deve comportarsi da Tu e non come uno dei tanti,
deve portare la corona regale e non la berretta da notte. La coscienza della necessità di
questo Tu affinché sia possibile l’amore comporta il desiderio di attuare questa elezione
e quindi di rinsaldarla e conservarla: tutto questo insieme è la GELOSIA. Ma se il Tu non
lo vuole, se continua a violare la dignità e l’alta posizione che liberamente ha assunto,
se il Tu dopo aver detto “sì” quando gli hanno proposto una nuova essenza, per
leggerezza o per testardaggine, o per insufficienza di sincerità nell’assumere la propria
alta funzione, dimostra con la sua condotta che l’Io per lui non è Io, se desidera essere
Tu ma non vuole riconoscere che l’Io è l’Io? In questo caso l’Io non può e non deve non
reagire e questa reazione è la gelosia verso il proprio amore, cioè la cura affinché resti
immacolato, genuino e infine affinché si conservi. Questa esigenza nei riguardi del Tu in
nome della possibilità stessa dell’amore comporta il desiderio di realizzare questa
elezione, di rinsaldarla e conservarla e tutto questo insieme è la gelosia. Una delle due:
o il Tu deve riconoscere questa reazione, questa lotta per l’amore, questa gelosia, e
cambiarsi, oppure deve rinunciare alla propria dignità, riconoscersi soltanto una persona
comune, scendere dal trono nella folla grigia, passare dalla festa alla condizione
quotidiana. È IMPOSSIBILE PER L’IO AMARE E NON ESSERE GELOSO QUANDO IL TU CESSA IN EFFETTI DI
ESSERE TU, È IMPOSSIBILE CHE NON TENTI DI FARLO DIVENTARE DI NUOVO TU. Se non si riconosce
all’Io il diritto della gelosia, non gli rimane che di rovesciare il Tu dal trono. L’Io deve
dimenticare il Tu, cessare di amarlo, perché solo così è possibile sollevare il Tu
dall’esigenza dell’amore reciproco. Però il Tu si è innestato nell’Io ed è divenuto una
parte di lui. DISAMARLO SIGNIFICA PRIVARSI DI UNA PARTE DI SE STESSO, dimenticare significa
amputare una parte della propria carne viva. Così avviene quando per rispetto alla
libertà altrui bisogna strappare dal proprio petto l’amore insieme al cuore stesso.