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Dall'unità di Dio muove il molteplice nello spazio e nel tempo per tornare all'uno nell'atto

della Sua eternità; e nell'uno soltanto può realizzarsi pienamente ogni essenza, poiché
"...Omnia essentia derivantur ab essentia divina..." (Tommaso d'Aquino, De Veritate III, 5).

In Dio, causa efficiente e causa finale sono una cosa sola, sono Carità. Creare è evocare dal
nulla; l'atto di Dio che dona vita è lo stesso atto che chiama la vita al suo unico fine. Il
comando all'abisso vuoto ed informe, e l'appello amoroso alle creature è una sola parola, il
Verbo del Figlio; e ascoltare questa parola è contemplare.

Il simbolo della croce è costituito dall'irradiarsi da un punto, ma lo stesso irradiarsi è anche


abbraccio e amore d'unità. È per questo che tutte le creature sono collegate tra loro per la
legge dell'analogia e le cose tutte si simboleggiano l'un l'altra rispecchiando in tal modo
l'unità del Creatore e del Redentore. Vivere questa analogia è dunque congiungere il
Paradiso terrestre alla Gerusalemme celeste, opposti e complementari tra loro. II primo è un
giardino, la seconda una città; il primo è ambiente vegetale, il secondo petroso e minerale; e
il vegetale ha l'appellativo di terrestre, mentre la salda rocca quadrata ha l'appellativo di
celeste. La via che unisce l'uno all'altra è Gesù, e su questa via tutte le analogie del cosmo
si ordinano nella verità che è una, poiché Cristo medesimo è via, verità e vita, è la stessa
alfa dell'Eden e la stessa omega della Gerusalemme celeste. L 'Eden da cui si diramano i
quattro fiumi di vita a mo' di croce per il mondo è il principio da cui la storia dell'umanità si è
mossa; la Gerusalemme celeste che abbraccia nelle sue quattro mura l'umanità redenta è il
secondo aspetto della croce e della creazione, quello dell'appello amoroso. E qui, nel tempo,
quasi calata dalle potenti braccia del Padre, la croce del Figlio, di Gesù; croce sulla quale
deve morire l'uomo del secolo perché risorga l'uomo dell'eternità, che del secolo sia padrone
e signore, l'uomo veramente libero.

La legge dell'analogia che ci mostra le creature come simbo1i, non in un convenzionale e


rigido allegorismo, bensì come la vita stessa delle cose veramente amate, è il linguaggio di
Dio nella creazione; e non vi sarebbe il linguaggio dell'uomo se la legge del simbolo fosse
soltanto un'astrazione. Infatti la parola umana è proprio un simbolo, il primo e l'ultimo
simbolo dell'uomo, il simbolo da cui muove tutta l'esperienza del mondo esteriore, e il
simbolo a cui l'esperienza stessa torna per farsi giudizio, preghiera, linguaggio d'amore.

La legge che ci mosse dall'Eden fu per noi legge dolorosa dal ventre della donna colpevole;
la legge che trae tutte le cose all'esistenza nel tempo muove dalla causa all'effetto; ma la
stessa legge, in quanto trae al Creatore come causa finale ultima, si rivela nel tempo come
legge del simbolo, come analogia. L 'incarnazione e la morte di Gesù, della Parola di Dio,
sono l'atto Sacro in cui il Verbo si mostra nella natura fisica a proclamare dalla croce che il
simbolo non è solo un'astrazione dell'uomo, bensì una realtà adempientesi in ogni giorno
vissuto per amore di Dio. La Messa si apre con gesti e con parole rituali e simboliche per
culminare nella reale transubstanziazione. Il sostituirsi del sacerdote alla persona di Gesù
davanti all'altare è indubbiamente un fatto simbolico, ed è soltanto simbolicamente che egli
può dire Hoc est enim Corpus meum; proprio a quelle parole il simbolo si fa realtà
sostanziale nelle specie; o, meglio, nelle specie, realtà e simbolo si incontrano come la retta
verticale incontra l'orizzontale al centro della croce. La Messa, dopo la purificazione, torna
ancora ai gesti ed alle parole simboliche per restituirci ogni simbolismo all'esperienza
quotidiana vivificato dalla Grazia di Dio; e infine, quando tutto è consumato, la liturgia ci
ripete che in principio era il Verbo, la Parola, e la Parola era presso Dio. Creazione e
redenzione, Eden e Gerusalemme celeste ritrovano ancora la loro unità nel Cristo che è via,
verità e vita.

Tutta l'azione dei secoli è assunta nell'eternità per le mani di un sacerdote su un pezzo di
pane e su un calice di vino alla pietra dell'altare. La contemplazione di chi crede e adora, e
l'azione di chi celebra e sacrifica, sono una cosa sola nel rito della Messa, affinché la
contemplazione e l'azione quotidiana siano una cosa sola nell'uomo che vive e non vuol
morire.

Non v'ha dubbio alcuno che il nostro sia un tempo estremamente pratico nel senso letterale
del termine, tempo cioè in cui a gran voce, ed anche a fatti, ci si proclama propensi
soprattutto ad agire, ad esprimersi nel movimento e quindi nella provvisorietà. "Ciò in questo
momento è pratico, ciò in questo momento non è pratico"; ecco i giudizi che il più delle volte
decidono il successo o meno di nuove creazioni o invenzioni, e persino di idee, scritti e
opere di cultura.

Convinti della validità della parola nonostante gli errori degli uomini e la confusione del
linguaggio nell'uso comune, moveremo da una vera e propria indagine verbale al termine
pratico e del termine teoria, d'altronde già troppe volte contrapposti tra loro come antitetici
benché in realtà si tratti soltanto di due correlativi. L'etimologia dal greco della parola pratica
è ormai alla portata comune e non riteniamo necessario soffermarvisi; bensì avvicineremo il
nostro termine in esame alla parola sanscrita Prakriti. Dalla radice KR, che significa fare,
produrre, effettuare (da cui, sebbene con diverso senso semantico, anche il nostro creare), e
quindi da KR nel senso di spandere, profondere, con il prefisso pra (confronta latino pro),
Prakriti vuol dire forza natale, causa, forse più letteralmente pro-fonditrice, pro-creatrice.
Anche la tradizione upanishadica è concorde sul significato e sui vari sensi di Prakriti. Tanto
nella cosmogonia quanto nella mistica sta ad indicare il principio femminile plastico e fluido,
ed è in un certo senso correlativo di Purusha, il principio virile e quindi veramente attivo ed
immobile. Prakriti può esser considerata come spazialità indefinita e come sostanza;
Purusha essenza e puntualità dalla quale lo spazio stesso procede in quanto virtualmente
contenuto nel punto in tutte le sue possibilità. Nella mistica Indù Purusha è simbolicamente
rappresentato da un punto che ha sede nel cuore, centro di ogni intuizione pura (e non del
sentimento, affettivo come è stato considerato in tempi più recenti ); Prakriti è l'anima nel
suo aspetto passivo e recettivo, è la madre di qualsiasi sensazione e di qualsiasi
movimento.(1) Purusha, che significa uomo, sul piano cosmico è l'âtmá quale realtà
suprema. "Quest'âtmá, che sta nel cuore, è anche più grande della terra più grande
dell'atmosfera, più grande del cielo, più grande di tutti questi mondi insieme... "
(Chhândogya Upanishad, III Prapâthaka, 14° Khanda, shruti 3). Prakriti in senso cosmico è il
principio fluido simboleggiato dall'acqua, il mare del divenire continuo ed indeterminato;
Purusha quale âtmá è l'essere, il motore immobile, fermo in sé per quanto ogni movimento
di Prakriti non sia che espressione della sua stessa quiete. Prakriti genera il movimento ed è
la radice di qualsiasi manifestazione, ma è Purusha che la feconda. Un'immagine della
Aranyaka Upanishad nel mito della creazione rende ben chiaro il rapporto tra questi due
principi: "L'âtmá, ecco ciò che era questo all'inizio, in foggia di Purusha.(2) Esso, avendo
rivolto i suoi sguardi in ogni senso, non vide altro all'infuori del proprio essere...ora,
nell'insieme, esso era così come un uomo e una donna che si abbracciano. Esso fece
cadere in due questo suo âtmá. Da ciò ebbero origine lo sposo e la sposa. È perciò che
Yâjnavalkya ha detto così: 'Noi siamo, noi due, ciascuno come una metà'. Ecco perché
questo vuoto viene colmato dalla donna. Esso la possedette, e da questo nacquero gli
uomini. Esso, che era anche essa, considerò; 'In qual modo mi possiede avendomi partorita
dal suo âtmá? Ah, bisogna che io mi trasformi.' Essa diventò vacca, l'altro toro. Egli la
possedette. Da ciò nacquero le vacche. L 'una divenne giumenta e l'altro stallone; l'una
asina e l'altro asino. Egli la possedette. Da ciò nacquero i solipedi. L 'una divenne capra,
l'altro montone; l'una pecora, l'altro ariete. Egli la possedette. Da ciò nacquero capre e
:montoni. Così propriamente tutto ciò che si propaga per coppie, sino alle formiche, esso
,emanò tutto ciò. " (Aranyaka Up. I, 4, Brahmana, 1-9.).

Tutti gli esseri viventi sono dunque generati, secondo il saggio Aranyaka, dalle successive
trasformazioni di Prakriti e per differenziarsi da Purusha senza peraltro riuscirvi dato che
ogni manifestazione possibile è già presente in lui; non solo, ma le metamorfosi di Prakriti
hanno effetto validamente creativo solo in quanto fecondate da Purusha medesimo.

Possiamo ora avvicinare il testo citato alla Genesi e vedremo come Eva sia tratta da Adamo
quale possibilità già implicita in lui, e ciò corrisponde anche all'impossibilità di Prakriti di
differenziarsi realmente da Purusha; il principio dinamico femminile non può sfuggire al
principio virile e puntuale come la carne stessa dell'uomo non può sfuggire dal corpo; "et
erunt duo in carne una" (Genesi II, 24). Un antico mito ebraico considera il peccato di Eva
come un adulterio con Satana, quindi come un rendersi indipendente da Adamo; eppure
l'atto di Eva non sarà colpito da Dio sino a quando Adamo non avrà gustato del frutto
proibito; è allora, e soltanto allora, che i progenitori si accorgono d'essere nudi. Eva tentata
tenta a sua volta, ma è Adamo che in realtà pecca; e in Adamo pecca anche Eva, come nel
nuovo Adamo, in Cristo, Eva sarà salva; e ancora in Cristo Maria è immacolata. Essa è
concepita esente da peccato ab aeterno, ma concepita sempre nel Verbo che è presso il
Padre, la sua purezza e la sua innocenza sono purezza e innocenza del Figlio.

La Sacra Scrittura ci mostra Adamo creato per ultimo, mentre la Aranyaka Upanishad pone
l'uomo al primo posto nella successione delle creature; ma la differenza sta nel fatto che il
testo indù vuole proclamare l'uomo, quale microcosmo, sintesi di tutto il creato virtualmente
contenuto in lui, la Sacra Scrittura, invece, vuol stabilire l'ordine, per così dire, storico della
creazione, poiché, come avremo modo di considerare, la tradizione ebraico-cristiana è
l'unica a fondarsi su di un testo che sia simbolico e storico al tempo stesso; infatti la Torah, la
legge, è anche e prima di tutto vita. Del resto nella genesi "Il Signore Dio disse ancora: 'Non
è bene che l'uomo stia solo: io gli farò un aiuto convenevole a lui'. E il Signore Iddio, avendo
formate dalla terra tutte le bestie della campagna e tutti gli ucceI1i del cielo, li menò ad
Adamo, che vedesse qual nome porre a ciascuno di essi, e qualunque nome Adamo avesse
posto a ciascun animale fosse il suo vero nome. Ed Adamo pose nome ad ogni animale
domestico, ed agli uccelli del cielo e ad ogni fiera della campagna; ma non si trovava ad
Adamo aiuto convenevole a lui" (Genesi II, 19-20). Adamo cerca l'aiuto, il principio pratico, e
lo cerca in tutti gli animali sottoponendoli quasi ad una seconda creazione, quella del
linguaggio. Erano stati creati tutti per il Verbo di Dio, e l'uomo, ad immagine e somiglianza di
Dio, ha il dono del verbo.

Dio aveva già pronunciato su ciascun animale il suo vero nome all'atto della creazione;
Adamo alla vista dell'animale creato sente quel nome nella sua stessa anima e lo pronuncia
con voce umana per la prima volta.
E può farlo, perché tutto il creato sente presente in sé come immagine di Dio da un lato e del
cosmo dall'altra. Ma non può trovare il suo aiuto, il suo principio pratico, fuori di sé stesso
alla stregua degli altri animali creati a coppie; il principio pratico di Adamo ha da essere
principio pratico universale, già implicito quindi nella sua stessa pienezza spirituale. Solo
una proiezione di se stesso può essergli aiuto adeguato in quanto espressione della sua
unità ad attuarsi nel molteplice; ed è così che Eva è tratta dal suo fianco pur rimanendo
sempre una con lui, e a lui porgendo sempre presente tutta la molteplicità delle creature.

In quanto al termine teoria, dal greco theôría che a sua volta deriva da theôréo e questo da
théo, significa contemplazione, considerazione; e théôrós è lo spettatore, colui cioè che non
agisce, benché ogni azione sulla scena venga svolta per lui ed in lui si compia; e sempre
nello spettatore il dramma ha da trovare il suo vero senso se effettivamente è opera d'arte.
Spesso, per molti scrittori tra i quali Sofocle, ha soprattutto il significato di spettatore al riti
sacri; dunque il senso di contemplazione ne risulta ancor più evidente. Theôrís è invece la
nave sacra sulla quale viaggiavano gli ambasciatori, ed è anche la via che gli ambasciatori
percorrono; in Eschilo è addirittura la via che porta attraverso Acheronte.

Potrebbe sembrare a prima vista che tanto il termine theôrís quanto il termine theôría
debbano più riferirsi all'idea della pratica e dell'azione intesa come movimento, dato che il
verbo théô (da cui appunto theôrís) significa corro, tanto detto di uomini quanto di veicoli; ma
a ben considerare théô è da avvicinarsi a thyô che significa alito con forza, e quindi rende
l'idea del soffio dello spirito esprimente il principio virile. È il senso del raptus della
contemplazione, l'attimo del fulmine di Giove simboleggia l'eternità. Infatti la contemplazione
è l'atto più alto dell'anima, là dove memoria, volontà e intelletto sono un sol punto, e a quel
punto è assunto e salvato l'universo; il contemplante è ambasciatore tra Dio e la creazione,
ambasciatore di un divino commercio che è quello della redenzione, cioè del riacquisto
dell'universo nell'uomo ricomprato alla Grazia a prezzo del sangue di Gesù. È la via, la scala
di Giacobbe per la quale gli angioli discendono sulla terra e risalgono al cielo; e la
contemplazione è anche la strada che passa per Acheronte e conduce nell'abisso
dell'anima, in interiore homine, dove ha sede la verità.

Il macrocosmo e il microcosmo, la creazione e l'uomo, possono entrambi paragonarsi alla


ruota. Nella tradizione cristiana il paragone è di Boezio, ma è presente in ogni tradizione
spirituale come nel buddismo, nell'induismo e nella mitologia classica. È il rosone che si apre
sulla facciata delle nostre chiese, il loto su cui siede il Buddha, la ruota del Sole e del tempo
che dalla romanità antica è passata alle meridiane dei nostri monasteri. Se percorriamo nella
sua lunghezza, movendo dalla periferia al centro il raggio di una ruota in azione, possiamo
constatare che la velocità dei giri diminuisce sempre più in ragione proporzionale al nostro
avvicinarci al centro stesso, benché immutata rimanga .la velocità del moto di rotazione
dell'intera ruota. E ciò perché più angusta è la circonferenza percorsa da un punto del raggio
in ragione della minor distanza che la separa dal centro; e il centro è un unico punto, un
punto fermo girante solo su se stesso; da questo punto, percorrendo l'asse, l'uomo si
trascende. Il centro è d'altronde il punto che determina i giri di tutta la ruota, è il Purusha
contemplante, mentre il resto della ruota è Prakriti, il mondo della prassi, quello che i
buddisti chiamano mare del Sâmsâra. Ancora una volta il simbolo dell'acqua è collegato alla
pratica e al divenire.
Se trasferiamo il simbolismo della ruota dall'uomo alla creazione intera, quel punto fermo è
l'eternità dalla quale si snodano gli evi, si squadernano i secoli, si riversano i giorni a piene
mani sulla faccia della Terra. La periferia della ruota, il mondo pratico nella sua
manifestazione estrema, è il mondo fluido delle sensazioni e dei sensi; quello che Pascal
chiamerebbe mondo del divertimento, da de-vèrtere, allontanarsi dal punto centrale. Per
Agostino e per Boezio entrare in interiorem hominem significa trascendere i sensi nel
sentimento, quindi nella ragione, ed infine nell'intuito, nel cuore dello spirito, nell'amore vero
che nel poema di Dante "...muove il Sole e le altre stelle" (Paradiso, XXXIII, 145). E infatti
quel punto è, come abbiamo detto, la via dell'asse, la via del cielo, la via sacra di Isaia, il
theôrós ("osservatore", ambasciatore) che unisce l'uomo a Dio. I termini theôría e theós
muovono dalla stessa radice.

L'azione è il passaggio dalla potenza all'atto. Per San Tommaso Dio è atto puro; e nell'uomo,
immagine di Dio, l'atto puro è contemplazione, quindi atto di Dio e dell'uomo al tempo
stesso, o meglio presenza di Dio nell'uomo, che l'uomo in quanto creatura non potrebbe
essere capace da solo di atto puro. La pratica è la forza, l'aiuto ad attuare ciò che nell'uomo
è potenziale; non vi può essere vera azione efficace che non proceda dalla teoria, dalla
contemplazione, dall'atto sacro della Grazia e della libera volontà che aduna, unifica e
assume in Dio il mondo della pratica, del divenire e della dynamis. Per passare
efficacemente dalla potenza all'atto, quindi, è indispensabile ispirarsi all'atto già realizzato
quale modello anteriore ad ogni azione e quale causa finale di ogni divenire; e quest'atto è
appunto la presenza di Dio nell'uomo che si fa esperienza operante proprio nella
contemplazione.

L'uomo esteriore diviene sempre, e col divenire quasi si identifica, ma l'atto interiore con la
sua presenza puntualizza ogni azione nell'identità del Sé. L'io psichico e sensoriale è
mutamento continuo, alternarsi incessante di gioia e di dolore, di pianto e di riso, di
godimento e di sofferenza; il se spirituale ed interiore è atto della presenza, è continuità di
ciò che diviene o sembra divenire, che non potrebbe divenire, né constatare alcun
mutamento, se non fosse sempre lo stesso, come Prakriti non genererebbe se Purusha non
la fecondasse rimanendo in sé inalterato malgrado ogni trasformazione. E in questa
presenza a sé stesso e a Dio sta la memoria, l'intelletto e la volontà dell'uomo, che per San
Bonaventura è immagine della Trinità nell'anima umana; sta la sua responsabilità tra il bene
e il male; la responsabilità della scelta sul piano della dialettica, mentre sul piano dell'unità,
della sintesi, dell'abbraccio con Dio, sta la piena realizzazione della personalità, il
conseguimento del fine eterno; del fine che è principio, perché è ben quel Fine che crea
l'uomo evocandolo dal nulla.

Una pratica che non muova dalla teoria, un agire che non muova dalla contemplazione, è un
assurdo, perché non v'è azione che non abbia il suo principio e il suo fine nell'atto pur
muovendo dalla potenza, nel Verbo che è parola di Dio e dà vita e voce all'uomo. Una
pratica che non è vera azione non crea, perché è priva di atto, cioè della parola che ha
creato l'universo. Adamo può dar nome agli animali perché contempla Dio, e Dio glieli indica
uno per uno davanti ai suoi occhi ancora casti ed innocenti.

Quando si nega la contemplazione per la cosiddetta azione pura in una vita soltanto pratica,
in realtà si continua a contemplare e si contempla male. L'uomo si ribella così al suo primo
Fattore e al tempo stesso alla puntualità del proprio essere che è immagine di Dio, alla
radice della personalità che è il nome dell'uomo pronunciato dal Creatore nel fondo di ogni
anima. La mistica della pratica è mistica del subcosciente, del caotico fluttuare di immagini e
di impressioni incontrollate dalla volontà; e la scelta dell'uomo tende allora a deturparsi in
bestiale riflesso condizionato; ogni vera libertà viene negata dall'arbitrio della libido in quello
che per San Tommaso d'Aquino è il mondo dell'irascibile e del concupiscibile. È la mistica
del nostro tempo; al Verbo si sostituisce lo slogan; la distrazione o l'ossessione alla
redenzione.

Dobbiamo render conto d'ogni parola oziosa, d'ogni parola cioè che non sia libera e
consapevole adesione alla parola di Dio; e sono parole oziose tutte le azioni che non
muovono dall'atto interiore della Grazia per elezione veramente libera, cioè per elezione nel
bene. Se le parole che non procedono dalla parola divina sono parole oziose, le azioni che
non procedono dall'atto interiore della contemplazione sono dissipazione nel mondo della
pura pratica, dell'illusione. E pertanto questa illusione acquista di giorno in giorno, per
l'insipiente, una sua realtà, copia scimmiesca della realtà creata da Dio; e l'uomo, che
nonostante tutto è immagine della divinità, crea il suo mondo demoniaco, l'inferno
dell'angoscia.

Per San Bernardo di Chiaravalle l'immagine di Dio nell'uomo è la libertas a necessitate,


libertà dalla necessità per la quale l'elezione dell'uomo è sempre libera. "La libertà dalla
necessità conviene ugualmente e indifferentemente a Dio e ad ogni creatura ragionevole in
generale, tanto buona che cattiva; non la si perde ne per il peccato ne per la miseria; non è
più grande per il giusto che per il peccatore, ne più piena per l'angelo che per l'uomo". (De
Gratia et libero arbitrio IV, 9). Si può coartare l'azione esteriore, non l'elezione della libera
scelta; si può forzare qualcuno a fare qualcos'altro da quanto ha scelto, ma non lo si può
obbligare a scegliere diversamente dalla sua volontà.(3) Questa libertà è dunque lasciata
intatta dal peccato originale.

Non cosi, sempre per San Bernardo, le due somiglianze che sono la libertas a peccato e la
libertas a miseria.

Se l'immagine è rimasta, la somiglianza è perduta con la colpa di Adamo; l'uomo può


disporre di libero arbitrio e di libero consiglio, ma non del libero complacito. L 'uomo, dice
San Bernardo, è curvo e le sue brame come il suo sguardo son rivolti verso la terra; e il suo
raddrizzamento è appunto l'adempimento della legge con l'aiuto della Grazia; e attraverso
alla penitenza sotto la legge, l'uomo si raddrizza a guardare il cielo nella contemplazione.

Tra i moderni autori di teologia mistica molti hanno definito San Bernardo un mistico pratico,
e come lui mistici pratici sono stati chiamati tutti quei santi che non hanno trattato della
mistica il senso metafisico, o meglio che non hanno dedotto teorie metafisiche dalla
contemplazione. A nostro avviso si tratta di un equivoco alla base del quale v'è la solita
confusione di linguaggio, che è la causa prima d'ogni equivoco del genere. San Bernardo
ammonisce, alludendo ad Abelardo e agli aristotelici del suo tempo (aristotelici pretomisti,
d'altronde), che Gesù e gli apostoli non ci hanno insegnato a filosofare, bensì a vivere
cristianamente. È appunto questa affermazione la bandiera che unisce tutti coloro che
vedono nell'abate di Chiaravalle il mistico della pratica.(4) Ma in realtà teoria, come abbiamo
visto, significa contemplazione, e non vi può essere mistica che non sia contemplativa e
quindi teorica. Procedere altrimenti, e cioè contemplare senza basi teoriche, porta prima o
poi ad equivocare tra il mondo psichico delle sensazioni e il mondo spirituale delle immagini
e delle intuizioni, tra il mondo delle affettività e il mondo della carità; come troppo spesso
avviene. Del resto è tanto vero che San Bernardo è stato un grande teorico, che quasi non si
può parlare o scrivere di mistica cristiana senza citare i suoi testi; non solo, ma fu, durante la
sua vita terrena e nei suoi scritti, in affinità con la scuola di San Vittore che è stata scuola di
mistica speculativa per eccellenza. D'altronde il pratico nel vero significato della parola fu
proprio Abelardo, che sul piano dialettico si svolse tutta l'opera sua; piano dialettico che non
essendo ben ancorato, nel caso di Abelardo, all'unità puntuale dell'atto contemplativo, può
ben dirsi pratico anziché teorico. La vera metafisica è anche meta-razionale, poiché
razionalità e dialettica fanno anch'esse parte della physis; tanto che Aristotile aveva chiamati
afisici i discepoli della scuola eleatica in quanto si trovavano nell'impossibilità di spiegare il
movimento del divenire rispetto all'essere puro. San Tommaso d'Aquino è un metafisico non
certo per la veste dialettica della sua Somma quanto per il contenuto di essa che addirittura
la trascende. La Somma in sé è logica, ed è metafisica in quanto procede da meditazione e
da contemplazione interiore. Metafisica è necessariamente l'unità della sua opera, ma la
parola di quest'unità invano la cercheremmo tra quelle righe stupende, ché solo Dio la
pronunciò in Tommaso; e solo Cristo, il Verbo, la confermò al Dottore Angelico: "Bene de me
dixisti, Thoma".

San Bernardo c'insegna che il simile può conoscere solo il simile, e l'anima può conoscere
Dio perché di Dio è immagine; per la penitenza e la conoscenza si può, con l'aiuto della
Grazia, raddrizzare l'uomo, finalmente integro nella sua unità interiore, a guardare il cielo.

Questa immagine da cui la pratica è fecondata all'azione consacrante il reale, si manifesta


nella parola interiore che si profila a sua volta nella parola espressa e nell'opera umana.

Per quanto sfigurata dall'uso errato nel linguaggio comune e deturpata in conseguenza del
peccato, la parola dell'uomo nella sua più intima essenza è divina; solo che questa divinità
va sentita e gustata nella sapienza, nel sapore più intimo d'ogni sillaba alla luce della
rivelazione. Già i sapienti delle Upanishad cercavano il senso profondo delle parole nella
relazione del suono di esse con l'essenza della cosa significata. Tali interpretazioni verbali
erano molto simili all'apparenza (e all'apparenza soltanto) a dei giuochi di parole, e venivano
chiamate nirukta.

Siamo di fronte ad un'altra parola composta della lingua sanscrita; dalla radice VAC, nel
senso di parlare, dire; uktí significa tanto detto quanto interpellato, ed anche parola.
Preceduto dalla particella negativa o intensiva nih- (nir- davanti a sonora), significa
letteralmente non detto, non esplicito di per sé, e quindi espresso, spiegato, manifestato da
qualcuno o, più generalmente, dalla Tradizione. Il termine nirukta vuol dire insomma
spiegazione del senso occulto delle parole, di quanto cioè non è detto chiaramente ed
esplicitamente, ma già presente in modo implicito nel senso delle parole in esame. E in tale
accezione l'aspetto intensivo del prefisso nih- si mostra quanto mai evidente. Per venire alla
tradizione occidentale, Platone amava spesso considerare le parole in modo molto simile a
quello dei saggi indù. Più tardi si è voluto dire che il fondatore dell'Accademia aveva
commesso degli errori nel darci l'etimologia di alcune parole greche, ma in realtà in ciò non
commise errore alcuno per il fatto che non ebbe la minima intenzione di fare dell'etimologia
almeno nel senso corrente del termine.
I Padri della Chiesa non potevano non assaporare anch'essi le parole, che il Cristianesimo è
appunto religione del Verbo, e nelle loro opere furono larghi di interpretazioni in tutto simili ai
nirukta.

In un certo senso potremmo dire che se l'etimologia delle parole ne è la storia, il senso
simbolico ne è l'anima. Ma qui ci sia permessa una considerazione: abbiamo più volte, nel
corso di questo capitolo, avvicinate le esperienze e le tradizioni indù, buddhista,
greco-romana all'esperienza e alla tradizione cristiana come a trovare in quest'ultima la loro
unità e, perché no?, anche in parte la loro conferma. Porremo ora ben netta una distinzione
per la quale, ben lungi dal negare le altre vie tradizionali, si renderà, sotto certi aspetti, più
palese quell'adempimento nel Cristianesimo che già Clemente alessandrino ed Origene
avevano proclamato nei riguardi dei misteri. Nella tradizione indù, Krishna scende ad
incarnarsi sulla Terra per portare la salvezza agli uomini; ma Krishna, per gli stessi
Brahmani, è un mito, un simbolo in cui d'altra parte è pienamente racchiuso il profondo
mistero dell'Incarnazione e quindi della Verità rivelata.

Figlio di Giapeto, Prometeo, che dopo aver creato il primo uomo porta il fuoco della
tradizione spirituale all'umanità (anche il Paracleto nella Pentecoste scenderà sotto forma di
lingue di fuoco) e paga il riscatto incatenato dal Padre alla roccia, è anch'esso un mito;
nessun pontefice romano, che si sappia, lo ha mai ritenuto una persona storica. Non così
per Cristo. Egli è la Parola dei Padre che si incarna misticamente nell'umanità per Noè, nei
semiti per Abramo; e nel popolo di Israele per Giacobbe. Si incarna misticamente ancora in
Giuda, e quindi storicamente in grembo a Maria nell'anno 753 dell'era romana sotto Augusto
imperatore; ed è censito in Bethlem, città di David. È per questo che, come abbiamo poco
prima osservato, la Sacra Scrittura ebraico-cristiana è l'unica che sia al tempo stesso testo
sacro e testo storico. È infatti il Verbo, il Figlio che, secondo Origene, prima di farsi persona
umana si fa verbo grammatico nella scrittura. Se storia e contenuto spirituale sono per il
cristiano una cosa- sola nelle Scritture, ne consegue necessariamente che senso simbolico
delle parole ed etimologia debbano quasi coincidere.

Sant'lsidoro di Siviglia, a cui Dante ricorrerà per il suo De vulgari eloquentia e per
l'interpretazione del nome di Dio nella Commedia, sembra essere stato il primo nell'intuire la
forza creatrice che si rivela anche nella storia della parola umana. Etymologiae è appunto il
titolo della sua opera principale; un'enciclopedia di venti libri. Secondo Isidoro l'essenza
delle cose si riconosce dall'etimologia dei nomi che le designano. Infatti il nome pronunciato
da Adamo su ciascun animale era il suo vero nome; era un modo di manifestarsi del Verbo
di Dio, dell'uno sulla molteplicità delle cose create. Ricorrere all'etimo è in un certo qual
modo avvicinarsi all'unità da cui le parole si diramano, è risalire la via dalla creatura al
Creatore passando per la natura della stessa cosa creata.

È vero che Sant'lsidoro ritiene lecito, laddove sia difficile trovare la vera etimologia di un
sostantivo, ricorrere ad una etimologia fittizia; ma ciò non deve essere, nemmeno in questo
caso, inteso come un mero giuoco di fantasia (che d'altronde mal converrebbe alla serietà
del grande dotto sivigliano), bensì ad un impegno di assaporare nel suono e nel modo di
articolarsi di ogni parola il significato di essa in analogia al termine che più le assomiglia o
sembra convenirle. Dove non può giungere l'umano studio dell'etimologia, dunque, Isidoro
ritiene giusto e lecito tornare al simbolismo verbale.
Per il cristiano, se il Salvatore è il Verbo è, in un certo senso, anche l'etimo degli etimi, il
senso che dà voce ad ogni parola come è la Luce che illumina ogni uomo veniente al
mondo. Scoto Eriugena, pur considerando, e diremmo, quasi soppesando le parole nel loro
senso letterale, ci pone in guardia di fronte ad un linguaggio insufficiente ed inadeguato alla
sapienza perché di invenzione umana e convenzionale. Ci sia permesso dimostrare, e
cercheremo di farlo nel prossimo capitolo, che il linguaggio in se non sembra potersi ritenere
inventato dall'uomo. Si può tuttavia parlare di corruzione dovuta appunto all'aver considerato
il linguaggio pura e semplice convenzione dall'uomo stesso stabilita. È in sostanza effetto
del peccato originale commesso da Adamo proprio per sostituirsi a Dio, e coloro che al
peccato di Adamo aderirono si ritennero inventori di ciò che Dio aveva donato all'uomo.
Questo è, a nostro avviso, uno dei molti significati (tutti d'altronde complementari tra loro)
dell'episodio genesiaco della Torre di Babele costruita alla conquista del cielo. L 'uomo,
infatti, che per primo ha preteso esser creatore del linguaggio ha con ciò stesso preteso di
creare la propria salvezza e di poter contemplare veramente senza la Grazia di Dio. Restano
vere, d'altra parte, le parole di Scoto al riguardo in quanto il linguaggio si è reso quasi
inefficace alla evocazione del reale. Nell'evocazione sta infatti il vero valore della parola, ma
è necessaria a ciò la consapevolezza primordiale del linguaggio. Per la potenza evocatrice
della parola il linguaggio dell'uomo è ben adeguato a parlare di Dio. Il nome stesso
dell'Altissimo pronunciato da Adamo in stato di Grazia doveva avere la forza di imporlo al
mondo creato, all'Eden ovunque avesse voluto; parimenti il sacerdote del Nuovo Testamento
ha il potere di portare Cristo, in corpo, anima e divinità, ovunque voglia portarlo. Come il
peccato, secondo San Tommaso, ha macchiato la natura dell'uomo, la quale tuttavia è
rimasta buona nella Sua essenza, così la parola umana in sé non ha perduto nulla della sua
potenza evocatrice per il fatto stesso che è rimasta tradizionale malgrado ogni
degenerescenza. Il potere di evocare è stato perduto dall'uomo perché considerandosi
creatore del linguaggio come atto convenzionale ha usato ed usa delle parole soltanto quali
termini dialettici a determinare cose e concetti. Ma in realtà la parola in quanto nome è un
centro prima d'essere un termine; come vedremo più oltre, nominare una cosa è esprimerne
quasi l'essenza; e solo in un secondo aspetto, inferiore al primo, è determinare, cioè
distinguere una cosa dalle altre. Se il processo discorsivo consiste nell'uso dialettico della
parola sul piano razionale, l'atto evocativo consiste nel pronunciare la parola come simbolo
adeguato ed efficace ad esprimere l'intuizione manifestantesi sul piano superrazionale ove
soggetto ed oggetti si incontrano nell'atto della conoscenza, o meglio nell'atto in cui la
conoscenza si fa possesso nel superamento del processo discorsivo medesimo.

Proprio per il valore evocativo della parola in se, le parole oziose son da considerarsi segni
di dissipazione. Ci sarà chiesto conto di esse quando le vedremo tutte sul volto del Verbo,
unica parola creatrice e salvatrice di Dio tornata sul mondo per giudicarlo.

Contemplare è dunque anche ricercare, e con la Grazia di Dio riacquistare, il senso delle
nostre parole nella Parola Sua, per la restaurazione effettiva del Regno dei Cieli in noi e sul
mondo. La parola di Adamo, aveva dato il vero nome agli animali, la parola dell'uomo caduto
nella colpa ha turbato l'universo intero, perché la parola gli fu data per creare in Dio e per
Dio, ed egli invece creò e crea soltanto per se. Il suo creato stride così davanti all'ordine che
il Verbo ha dato al mondo, e il mondo stesso ci appare guasto. Stride prima di tutto nella
anima umana, che, nella ribellione addirittura istintiva della colpa alla voce di Dio che lo crea
ad ogni istante, è spontanea senza essere sincera; la personalità si disintegra, l'io si fa
legione come i demoni che fuggivano all'ingiunzione di Gesù. E la salvezza che Cristo ci ha
indicata sta invece nell'unità; ha fondato la Chiesa, ha istituito l'Eucarestia ut unum sint,
affinché siano uno. Sono tre parole rigurgitanti di pace e di casto riposo; uno l'uomo nella
sua personalità reintegrata dalla Grazia, una l'umanità sotto un solo pastore, uno l'universo
nel Verbo, uni i secoli gravidi di giorni, uni gli evi della Sua eternità, uno lo spazio immenso
nel punto eterno di Dio. Uno come uno è il Verbo col Padre, come è una la Trinità
nell'uguaglianza della distinzione che è legge d'armonia.

Ci ha lasciata l'Eucarestia Gesù, per rimanere con noi fino alla fine dei secoli, e ci ha
mandato il Paracleto, le lingue di quel fuoco che già aveva bollato le labbra di Isaia, perché
fino alla fine dei secoli, l'ha promesso, rimarrà nella parola della Chiesa col suo Spirito; non
soltanto racchiuso come un punto segreto, ma vivificante come il Suo punto eterno sull'evo e
sul tempo; non sepolto come il cadavere in disfacimento, ma fecondante come il seme che
prima di germogliare già tutta contiene potenzialmente e puntualizza la spiga; come il primo
seme di grano che già conteneva virtualmente tutti gli altri generati al mondo. Se nei
sacramenti, e nell'Eucarestia in particolar modo, sta la salvezza dell'anima, nella parola sta
la salvezza della civiltà; e non v'è contemplazione vera che sulla civiltà non riversi i suoi
effetti e la sua luce. "Dai frutti li riconoscerete...". Una spiritualità che non dà frutti non è
contemplazione, bensì astrazione, non è Carità, bensì egoismo, non è solitudine, ma
diserzione, non è povertà, bensì miseria. Se agire senza contemplare è dissipazione della
parola, contemplare senza fecondare l'azione umana è farsi sale scipito, sale inutile, sale
gettato per terra ad essere calpestato dagli uomini.

Non a caso il termine antitetico a quello di civiltà è barbarie, e barbaro significa balbuziente.
L'incivile infatti non parla chiaramente, perché i suoi gesti non sono azioni vere, non sono
azioni fecondate dal Verbo. Il barbaro balbetta nelle sue opere, balbetta nel suo volto, nella
somiglianza con Dio. Egli stesso ci appare come una parola detta male.

Salvezza dell'anima dalla dannazione e salvezza della civiltà non sono mai apparse tanto
interdipendenti come ai nostri tempi. Proprio perché il nostro è il tempo della disintegrazione
e dell'atomismo, il bisogno di unità si fa più palese. C'è una speranza di riportare il mondo
all'unità e la pratica alla luce della teoria, sì che l'azione sia specchiarsi dell'atto interiore sul
creato intero, e questa speranza riposa sul Vangelo come nuovo Testamento, nuovo patto e
nuova promessa. In quanto alla possibilità di attuare questa speranza si può contare a
nostro avviso proprio sulla parola. Il primo requisito chiesto dalle schiere angeliche agli
uomini desiderosi di pace è la buona volontà; è l'apertura naturale dell'anima alla Grazia di
Dio. La parola umana che non sia oziosa esprime appunto la volontà interiore di salvezza; il
primo pensiero che l'uomo formula a se stesso nel segreto dell'anima sua è un desiderio di
gioia e di pace, e volge subito la parola delle sue labbra ove crede di trovarla; senza saperlo
comunica con la parola un immenso tesoro da riscoprire, il tesoro del suo stesso essere e
della sua storia che è storia di Cristo nel cuore dell'uomo dal primo giorno della sua
creazione.

Non si pensi con questo che ciascun uomo, o meglio ciascun cristiano debba diventare un
glottologo; nulla potrebbe essere più grottesco di una simile pretesa. Chi è chiamato da Dio
alla sapienza ed alla scienza ha da farlo per la Chiesa intera, poiché nella Chiesa siamo
veramente uno; in quanto agli altri, alla maggioranza dei devoti, basta abbiano sempre
davanti ai loro occhi la massima evangelica: "...Ovunque due o tre si uniranno in mio nome
io sarò tra loro...". Vedremo più oltre molti sensi di queste parole, per ora basti ricordare
come San Bernardino da Siena, il santo umanista che venerò, sulle orme di San Francesco,
la Parola di Dio anche nelle parole umane, porse alla devozione di tutto il popolo il
trigramma del nome di Gesù. Tutti i fedeli possono tener presente il sapore di quel nome in
ogni parola da essi pronunciata; e quindi, con la Grazia di Dio e nella comunione dei santi,
potranno valersi dell'opera dei dotti uniti sulla croce al sangue di tutti i martiri nella
confessione della Fede e nella Carità. La via della contemplazione, del resto auspicata per
tutti da San Francesco di Sales e dal Le Fevre S.I., è aperta anche per i più incolti; la parola
scorrerà più limpida sulle loro labbra; ed ogni sì sarà sì, ed ogni no sarà no. A poco a poco
l'integralità dell'uomo, della somiglianza di Dio, sarà operata sull'immagine, e la libertas a
necessitate ritroverà il libero complacito.

L'uomo parla, e quando ha fame chiede pane, quando ha bisogno di gioia chiede vino,
quando ha bisogno di conforto chiede amore; l'uomo parla, e qui, lo ripetiamo, è la possibilità
della sua salvezza. L'uomo parla, quando vuole giustizia chiede sangue, senza saperlo
pronuncia la verità grande del Golgota. L'uomo legge, e quando non sa leggere ascolta
meravigliato. L'uomo scrive, e quando non sa scrivere nemmeno il suo nome fa un segno di
croce.

(1) I due principi della manifestazione Purusha e Prakriti si possono paragonare Yin e Yang
della Tradizione cinese; di questi il primo indica la stabilità, il secondo il movimento; il primo
la luce, il secondo l'ombra; il primo il positivo, il secondo il negativo. Resta pur tuttavia da
osservare che questi due correlativi sono da considerarsi come agenti in tutto sul medesimo
piano di relazione, laddove Purusha ci è presentato dalla Tradizione Upanishadica come
superiore a Prakriti.

(2) Come si vede, âtmá in foggia di Purusha corrisponde già ad Adamo avente ancora in sé
la donna che sarà poi formata dalla sua stessa costola. Come Prakriti non è che proiezione
dello stesso Purusha, così Eva è proiezione ed alterità di Adamo.

(3) Naturalmente Bernardo di Chiaravalle scriveva in un tempo in cui nemmeno si


sospettava la possibilità, mediante certi farmachi, di dirigere e di determinare dall'esterno
proprio la volontà dell'individuo. Ciò è possibile ai nostri giorni in seguito agli ultimi ritrovati
della scienza; ma in realtà la volontà del soggetto in tali casi è solo sospesa e non
veramente diretta; tanto è vero che un uomo sotto l'azione di tali farmachi non è mai ritenuto
responsabile delle proprie intenzioni. Ad ogni buon conto la dottrina di Bernardo resta, anche
in tal punto, validissima, poiché non è in seguito al peccato originale in quanto tale che
l'uomo potrebbe essere, mediante i farmachi suddetti, guidato da altri nell'uso della propria
volontà. Certo è un fatto sintomatico che tali ritrovati siano stati scoperti dalla scienza proprio
in un tempo in cui l'ateismo è particolarmente diffuso.

(4) Si potrà obbiettare come gli studiosi di mistica usino spesso, ad es. parlando di San
Bernardo, il termine pratica in un senso tutto particolare per distinguere dagli altri il mistico
che realizza, con la Grazia di Dio, una vita di vera contemplazione più che profondersi in
dotte dissertazioni teologiche. Su ciò possiamo concordare pienamente; il guaio è che la
forza di certi termini è tale che a poco a poco, usando spesso la voce pratica in riferimento
alla mistica vera e propria, siamo pervenuti ai nostri giorni all'esaltazione di quelle forme di
misticismo che sono di carattere pratico nel senso più letterale del termine. Oggi da troppi
religiosi quasi si diffida delle vocazioni contemplative per volgersi compiaciuti solo sull'uomo
che lavora nel mondo. È un fatto che ogni volta si usi un termine per designare, sia pure in
modo meramente convenzionale, qualcosa di ordine superiore al significato che è proprio al
termine stesso, gradatamente la cosa designata tende a degradarsi, nella mente di chi parla,
fino a rispondere letteralmente al significato del vocabolo usato per determinarla. Al
contrario, quando si usa un termine di significato superiore alla cosa designata, è sempre il
termine usato che a poco a poco si degrada fino a scadere di significato. Ad esempio, la
parola sacrificio, da sacrum-facere, mentre nel suo senso autentico significa
far-che-sia-sacro attraverso l'atto rituale, oggi è preso quasi esclusivamente nel senso di
privazione; e sacrificio è chiamata qualsiasi rinuncia anche nell'ordine più profano; solo nel
linguaggio semidotto è ancora usato nel suo significato autentico.

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