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Salinari
DELL’ETERNITA’
Che cos’è l’eternità? Cos’è il tempo? Possiamo conoscerli? Divenire noi stessi figure
immutabili in un tempo che inesorabilmente muta? Ogni epoca ha costruito la sua
visione dell’eternità, strumentalizzandola a fini politici o religiosi. Borges, nel suo
Breve storia dell’eternità, ci parla di due grandi concezione del tempo, quella
classica, con riferimento a Platone ed ai presocratici, e quella cristiana, a partire da
Ireneo con l’affermazione del suo dogma trinitario.
Nel libro III, 7 delle Enneadi, Plotino, l’ultimo maestro dell’antichità classica,
riassume, dal suo punto di vista neoplatonico, o forse post platonico, la concezione
classica della relazione tra eternità e tempo. L’egizio parte da una affermazione
radicale: se vogliamo comprendere il tempo dobbiamo prima indagare le natura
dell’eternità poiché questa è sia il suo immobile contenitore sia il suo contenuto.
Per i «filosofi sovraumani», come Giorgio Colli definisce i presocratici, Parmenide,
Eraclito, Anassimandro, Anassimene, Empedocle, l’eternità è tutt’uno con l’Essere,
l’Uno, cioè il Principio intelligibile che viene «prima di tutto ciò che esiste». Per
Plotino esso ha creato la realtà fenomenica del cosmo per emanazione, per estasi,
cioè uscendo fuori di sé, ma venendo a sua volta ricreato attraverso il ritorno a se
stesso dell’essenza divina presente in ogni forma della creazione: “Infatti il mondo
intelligibile e l’eternità contengono entrambe le stesse cose” dice al punto 7,2 della
terza Enneade. “L’occhio con il quale io guardo Dio, è lo stesso occhio con il quale
Dio guarda me; il mio occhio e quello di Dio sono lo stesso occhio, lo stesso vedere,
e riconoscere ed amare”, ripeterà secoli dopo il mistico Meister Eckhart. E dunque,
in questa concezione circolare di continua creazione e ricreazione dell’Uno da parte
del creato, non esiste nessuna differenza tra l’Essere e l’eternità dato che,
riprendendo la definizione platonica del Timeo, esso «non era, né sarà, ma è».
Riferisce Eustochio, suo medico e allievo, che prima di morire, coerente con questa
visione del circolo ermeneutico dell’Essere da parte degli esseri, in altre parole della
rigenerazione della Zoé al di fuori del tempo, da parte delle sue Bìos create nel
tempo, Plotino abbia esclamato: “Sforzatevi di restituire il Divino che c'è in voi stessi
al Divino nel Tutto”.
E così il tempo altro non è che un momento di eternità in movimento che si affanna
nella sua corsa a spirale intorno all’anima delle cose e le rende così transeunte. Ogni
cosa creata è soggetta alla morte poiché esiste nel tempo e con esso si muove:
trascorre attraverso i suoi momenti sempre diversi anche se scaturiti dalla stessa
eterna essenza. Come ricorda Eraclito «tutto scorre, non ci si può bagnare due volte
nell’acqua dello stesso fiume». Solo l’increato quindi, l’Essere, è immerso
pienamente e stabilmente nella sua eternità che di esso è un attributo essenziale.
E allora, se così stanno le cose, come ricomporre la scissione fenomenica tra
Creatore e creatura, come ripristinare l’unità del cosmo, l’intima compenetrazione
tra l’essenza comune e le esistenze particolari da essa generate? In altre parole:
come far convergere in un unico punto metatemporale eternità e tempo?
Dice Borges commentando l’apparente aporia: “Questa avvertenza preliminare,
tanto più grave se la riteniamo sincera, sembra annientare ogni speranza di
intenderci con l’uomo che la scrisse (Plotino). Il tempo è per noi un problema, un
inquietante ed esigente problema, forse il più vitale della metafisica: l’eternità, un
gioco o una faticosa speranza”. Lo scrittore argentino passa poi a considerare la
possibile soluzione del problema analizzando in primis il senso in cui il tempo si
muoverebbe. Ma questa strada porta soltanto al punto di partenza: come in un
labirinto circolare. L’autore dell’Aleph afferma che nulla ci è dato sapere di certo del
tempo se non che esso scorre; forse dal passato verso il futuro, come comunemente
si avverte, ma anche, perché no, dal futuro verso il passato: «notturno il fiume delle
ore scorre dalla sua fonte che è il domani eterno» recita un verso di Miguel de
Unamuno.
Per alcune scuole filosofiche indiane addirittura il tempo presente non esiste dato
che «l’arancia sta per cadere dal ramo, o è già a terra: nessuno la vede cadere». In
Altre inquisizioni il già direttore della Biblioteca Nazionale Argentina introduce poi,
come ulteriore elemento di complessità, l’evidenza che se il tempo è un processo
mentale «come possono condividerlo migliaia di individui, o anche due soli di essi?».
Non abbiamo prove di nessuna di queste ipotesi o paradossi, conclude, se non
l’unica certezza generica - ma il generico può essere più intenso del concreto ci
ricorda Rilke - del suo fluire entro quella stessa eternità che sembra averlo generato.
Ed ecco che Plotino, a questo punto disperante e disperato, introduce forse il vero
argomento della sua speculazione filosofica, la sua versione ante litteram di quella
che Severino Boezio, tre secoli dopo, nel 525, in attesa dell’esecuzione capitale,
riprenderà nel suo De philosophiae consolatione con la celebre definizione:
“Aeternitas est interminabilis vitae tota et perfecta possesio”. La domanda
dell’antico maestro di Licopoli è infatti la stessa dell’antimoderno maestro di Buenos
Aires: “Bisogna dunque che anche noi partecipiamo dell’eternità, ma come se siamo
nel tempo?”. La risposta plotiniana è sconvolgente: non si tratta di capire l’eternità
attraverso la comprensione della misura o del senso del tempo che in essa e da essa
fluisce, quanto di comprendere che il tempo è la vita dell’anima e che essa,
discendendo direttamente dall’Essere, è il nostro tramite per l’eternità.
Qui, la suggestiva espressione di Keatz «fare anima», ripresa da Hillman per
illustrare la sua concezione psicanalitica dei miti greci, assume un significato di
merito e di metodo. Il problema è che l’anima è preda di una «potenza inquieta»
che la distoglie dalla percezione dell’Essere e la riporta continuamente «a far
passare in altro» ciò che invece si deve contemplare estasiandosi: in questo modo
perverso il tempo «imita soltanto l’eternità volgendosi intorno all’anima, sempre
disertore di un passato, sempre anelante l’avvenire».
Che fare? Poiché necessariamente il tempo è immagine dell’eternità, l’anima deve
vivere la sua relazione con le cose sensibili così come il tempo vive la sua relazione
con l’eterno; in altre parole «fare anima» significa l’estasi di fronte al Mondo, il
ritrovare lo stupore infantile nei confronti del creato. Solo questa estasi terrena,
analoga a quella che l’Essere ha vissuto quando, uscendo da sé, ha generato il
Cosmo, può riportare l’anima al suo creatore immergendola nell’eternità e così
contribuire a rigenerarla.
È dunque il tempo estatico quello che riunisce in un unico momento metatemporale
tempo ed eternità. Da cosa partire per estasiarsi? Qui l’autore delle Enneadi
riprende il filo del suo maestro Platone e ci ricorda che la Bellezza è l’anima del
Mondo: Afrodite, l’anadiomenon, la sempre rigenerata dalle acque delle creazione -
dalla spuma (afros in greco) nata attorno ai genitali di Urano, come narra Esiodo
nella sua Teogonia - è il veicolo che ci farà estasiare al suo cospetto. Eros, il grande
daimon della creazione vitale, ci spingerà oltre l’apparenza delle forme che scorrono
per svelarci l’essenza ontologica della Bellezza. Come per Platone, anche per Plotino
la follia che viene dalle Ninfe sarà la strada verso il ricongiungimento con l’Uno.
I posseduti dalle Ninfe, i «linfatici», come li chiamavano i latini (lymphaticos), e come
sino alla prima metà del secolo scorso venivano chiamati i bambini dall’incarnato
pallido, tendenzialmente gracili e psichicamente sensibili, sognatori propensi a
perdersi vivendo i loro stessi sogni ad occhi aperti - tra i quali i medici annoveravano
lo scrivente - costoro, dicevamo, sono allo stesso tempo immersi in una felicità
ineffabile, estatica, che Aristotele, nella sua Etica a Eudemo, chiama eudaimonía, per
distinguerla qualitativamente dagli altri quattro tipi di felicità: «O forse la felicità non
può venire a noi in nessuno di questi modi, bensì in due altri, e cioè o come accade
ai nymphólēptoi e ai theólēptoi, che entrano come in una ebbrezza
(enthousiázontes) per ispirazione di un essere divino, o altrimenti attraverso la
fortuna (molti infatti dicono che la felicità e la fortuna sono la stessa cosa)».
Per ciò felicità e fortuna condividono la stessa natura, come lo stato di chi è
posseduto dalle Ninfe o da un dio. Qui bisogna ribadire che, per i Greci, e dunque
anche per l’ellenizzato Plotino, la possessione divina era una modalità primaria per
accedere alla conoscenza dell’Invisibile, della «prima materia» della quale sono
composte tutte le cose, l’essenza immutabile del Mondo.
Ed è proprio di questa essenza che sono fatte le Ninfe, espressione archetipica delle
potenze elementari e soprattutto metamorfiche, come il tempo che scorre e cambia
la forma esteriore delle cose. Il tempo «grande scultore» come scriveva Marguerite
Cleenewerck de Crayencour, al secolo Marguerite Yourcenar. Come Eros, fluido nella
forma, ed Afrodite dai dardi più veloci nata dalla spuma spermatica, le Ninfe sono
l’eternità ed al contempo ce la offrono: il mutevole dell'Invisibile che ha l’acqua
come elemento materiale; le fonti e i fiumi come labirinti nei quali perdersi, il mare
e gli stagni come occhi che ci mirano insonni, sono tutte immagini di essa.
La seconda eternità
«Il miglior documento sulla prima eternità è il quinto libro delle Enneadi, sulla
seconda, o cristiana, l’undicesimo libro delle Confessioni di sant’Agostino». Così
Borges chiarisce il passaggio dalla visione classica a quella cristiana dell’eternità. La
nuova religione universale non poteva imprimere il suo sigillo all’eternità, far
coincidere l’Evo cristiano con una nuova concezione monoteista del tempo. La
visione platonica del rapporto tra eternità e tempo subisce dunque una mutazione
drammatica in seguito alla nascente egemonia culturale del cristianesimo.
L’eternità cristianizzata è il prodotto dell’incontro tra le tre figure trinitarie. Primo
Artefice di questa mutazione ontologica che la allontana dalla diretta
contemplazione dell’umanità per sottometterla al divino, è Ireneo (130-202),
martire sotto l’imperatore Marco Aurelio e Padre della Chiesa. Il vescovo di Lione
decreta dal dirupo di Fourvière, l’antico sito romano di Forum vetus, che il Verbo è
generato dal Padre, lo Spirito santo è prodotto dal Padre e dal Verbo (il Cristo); da
queste due innegabili operazioni dogmatiche, ci fa notare Borges: “Gli gnostici
solevano inferire che il Padre era anteriore al verbo, ed entrambi allo Spirito: questa
inferenza, dunque, dissolveva la Trinità: Ireneo chiarì che il duplice processo –
generazione del Figlio dal Padre, emanazione dello Spirito da ambedue – non
accadde nel tempo, ma esaurisce di colpo il passato, il presente e l’avvenire. Il
chiarimento prevalse ed ora è dogma. Così fu promulgata l’eternità, prima tollerata
appena all’ombra di qualche screditato testo platonico”.
Ireneo concepisce e sancisce in questo modo, per confutare una eresia che poteva
rivelarsi esiziale per la Chiesa paolina, un «atto senza tempo» che crea l’eternità. E
dunque, per il cristiano, il primo momento coincide con la creazione che a sua volta
non esiste se non nella volontà dell’Onnipotente di farla esistere. Quindi l’eternità
altro non può essere che uno degli attributi divini. Le cose temporali, tra cui
l’umanità, si distinguono allora da quelle divine per il fatto che sono prive di
potenzialità creativa. Questo significa, in sostanza, che il tempo degli uomini non è
commensurabile a quello trinitario, che così resta imperscrutabile e misterioso per
definizione: non vi è partecipazione all’eternità se non indirettamente attraverso
l’atto di fede che essa esiste poiché creata da Dio. Come scrisse riassumendo
mirabilmente questa terribile distanza tra tempo umano e tempo divino San
Paolino: “Toto coruscat trinitas mysterio”, cioè rifulge la Trinità in un totale mistero.