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IV.

NEL FIUME DELLA TRADITIO VERBI


L’armonia tra Scrittura, Tradizione e Magistero

Alberto Franzini

Il tema del presente contributo è di importanza fondamentale: per la teologia, in quanto esso
pone le basi del retto procedere teologico secondo la visione cattolica; per la fede e l’esperienza
cristiana, che si fondano sulla rivelazione di Dio accolta e trasmessa nella e dalla comunità
credente; per la catechesi, in quanto la fede è tradenda, ossia è da trasmettere a tutti i discepoli di
Gesù come uno dei principali compiti della Chiesa di tutti i tempi; per il dialogo ecumenico, in
quanto la ricomposizione fra le Chiese e le Confessioni cristiane può avvenire proprio a partire dalla
riconsiderazione e quindi dalla riformulazione dei rapporti fra la Tradizione, la Scrittura e la Chiesa.
Il titolo contiene già una profonda suggestione: il Verbo, ossia la Parola divina che si è fatta
carne in Gesù e si è fatta storia nelle vicende di Israele e della Chiesa primitiva, è come un fiume,
che scorre e percorre l’intero arco della storia umana, dalla sorgente: «Piacque a Dio nella sua bontà
e sapienza rivelare se stesso»; alla foce: «Con questa rivelazione Dio invisibile» (cf. Col 1,15; 1Tm
1,17) «nel suo immenso amore parla agli uomini come ad amici» (cf. Es 33,11; Gv 15,14.15) «e si
intrattiene con essi» (cf. Bar 3,38), «per invitarli e ammetterli alla comunione con sé» (DV 2). La
rivelazione di Dio dunque ha lo scopo di raggiungere tutti gli uomini di tutti i tempi per renderli
definitivamente partecipi, strappandoli alla tenebra della morte eterna, della natura e della gloria
divina.
Il progetto di Dio, iniziato con la creazione del mondo e dell’uomo, si è “visibilizzato” nelle
vicende storiche di Israele, che hanno preparato l’evento centrale e fondamentale di tale progetto,
ossia l’invio del Figlio. Gesù Cristo, infatti, «con tutta la sua presenza e con la manifestazione di sé,
con le parole e con le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la sua morte e la
gloriosa risurrezione di tra i morti, e infine con l’invio dello Spirito di verità, compie e completa la
rivelazione» (DV 4). E Gesù a sua volta, inviando lo Spirito Santo e chiamando e inviando gli
apostoli, affida alla Chiesa il compito di trasmettere a tutte le genti fino alla fine dei tempi il tesoro
della rivelazione e della salvezza. È alla luce del patrimonio della rivelazione che si comprende il

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profondo rapporto fra la Tradizione, la Scrittura e la Chiesa, che, armonicamente unite fra loro,
costituiscono e assicurano la retta trasmissione della rivelazione nell’arco della storia umana. Prima
di procedere dunque all’analisi dei rapporti fra Tradizione, Scrittura e Chiesa (con il suo magistero),
è necessario comprendere il quadro globale entro il quale tali rapporti possono operare e fecondare,
quadro globale che è dato dal rapporto fra la Rivelazione e la Chiesa.

La natura della rivelazione

Sulla natura della rivelazione è d’obbligo il ricorso al documento conciliare Dei Verbum, che
rappresenta nel nostro tempo il rinnovamento più significativo in materia, un documento recepito e
continuamente citato nei documenti successivi della Chiesa . Secondo la rinnovata impostazione
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conciliare, la rivelazione non consiste solo in un insieme di verità o di formulazioni, ritenute “vere”
perché “insegnate” da Dio quale suprema Verità, ma consiste soprattutto in un rapporto dialogico
fra Dio e l’uomo, rapporto nel quale non sono solo le affermazioni a giocare il ruolo primario, ma
sono da una parte l’autodonazione di Dio all’uomo, e dall’altra la libera, personale e insieme
comunitaria risposta dell’uomo a quel Dio che a lui si è donato. La rivelazione assume dunque la
forma, più che di un’istruzione o di una comunicazione di verità (aspetto, quest’ultimo, certo
ineliminabile, ma non ne è l’elemento più caratteristico), di una relazione vitale: «Dio parla agli
uomini come ad amici» (DV 2), di un dialogo tra Dio e l’uomo, un dialogo avvenuto all’interno di
una vicenda storica e che si è realizzato grazie a tutte le risorse e a tutte le dimensioni (positive e
negative) della struttura dell’umano. La DV sottolinea infatti che questa «economia della
rivelazione» (un’espressione conciliare felicemente ripresa dai Padri della Chiesa) avviene «con
eventi e parole intimamente connessi tra loro» (DV 2). Tale binomio, che il testo conciliare ha
tentato di illustrare con espressioni piuttosto contorte, getta luce sulle modalità con cui si è
concretamente realizzato il disegno di Dio: non soltanto con le parole, ossia gli insegnamenti, la
predicazione, la dottrina, ma anche mediante gli eventi, ossia gli avvenimenti storici. Ciò costituisce
il superamento di quella visione dottrinalistica e istruttivo-nozionistica della rivelazione che era
prevalente nella teologia scolastica e neoscolastica e, conseguentemente, anche nella catechesi fino
al Vaticano II. Il recupero degli eventi da una parte rende ragione del rinnovato concetto di
rivelazione: la rivelazione non è solo un discorso sulla salvezza, ma è la stessa salvezza nell’evento
del suo manifestarsi; non è soltanto una summa di affermazioni su Dio, ma è Dio stesso che,
decidendo di «far conoscere il mistero della sua volontà» (DV 2), si autocomunica all’uomo.
1
Cf. ad es. l’esortazione apostolica di Giovanni Paolo II Catechesi tradendae (1979), il Catechismo della Chiesa
cattolica (1992), l’esortazione apostolica di Benedetto XVI Verbum Domini (2010).
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Dall’altra parte rende ragione dell’importanza delle strutture conoscitive, semantiche, esistentive ed
esistenziali dell’uomo: la rivelazione presuppone sempre in certo modo la comprensione che l’uomo
ha di se stesso in un particolare momento storico e in una data situazione culturale, e richiede
l’attivazione di tutte le sue facoltà.
Ciò porta a una prima conclusione: la rivelazione di Dio si è andata compiendo dentro ad un
processo storico e dunque dentro ad un flusso trasmissivo. La “Tradizione”, nel suo significato
semantico (dal latino: tradere, trasmettere) e anche teologico, è l’ambiente vitale nel quale ha preso
corpo la relazione fra Dio e Israele, fra Dio e il Figlio Gesù, fra Dio e la Chiesa. La rivelazione non
è una sorta di meteorite caduta dal cielo, non è una Parola divina tangenzialmente giustapposta al
mondo umano, non è una realtà già preformata nel seno di Dio e alla quale l’uomo si potrebbe
accostare solo con stupore e tremore; bensì è una Parola che, certo provenendo da Dio, solo
incontrando la libera risposta dell’uomo può impiantarsi nei solchi della storia e assumere una
consistenza e una visibilità storica, come ben suggerisce un celebre testo di Isaia . Esiste una 2

rivelazione di Dio non solo perché c’è un movimento di discesa, ma anche di ascesa; non solo
perché c’è un movimento di andata, ma anche di ritorno; non solo perché Dio ha parlato, ma anche
perché l’uomo ha risposto, costruendo in tal modo, come interlocutore di Dio, il patrimonio della
rivelazione: senza il sì di Abramo, senza il sì di Gesù e senza il sì di Maria, senza il sì dell’umano,
Dio sarebbe rimasto muto, inconoscibile e inattivo sulla scena della storia umana.

Il processo trasmissivo della rivelazione: rivelazione e Chiesa

Se la storia di Israele, di Gesù e della Chiesa delle origini costituisce il momento fondativo e
costitutivo della rivelazione, per cui la rivelazione è “chiusa”, al punto che «l’economia cristiana in
quanto è alleanza nuova e definitiva, non passerà mai, e non è da aspettarsi alcuna nuova
rivelazione pubblica prima della manifestazione gloriosa del Signore nostro Gesù Cristo (cf. 1Tm
6,14 e Tt 2,13)» (DV 4), non è certo chiuso il processo che fa di tale rivelazione una realtà viva, che
si attualizza in ogni epoca della storia.
Se è esistita una storia della rivelazione – che, secondo l’unanime consenso della dottrina della
Chiesa, si è conclusa con il chiudersi del tempo apostolico – non può non esistere una storia della
fede, ossia una storia dell’accoglimento umano di tale rivelazione, una storia di appropriazione, di
approfondimento e di attualizzazione della rivelazione da parte dei credenti: una storia che non può
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«Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla
fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia, così sarà della mia parola uscita
dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza avere operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per
cui l’ho mandata» (Is 55, 16-17).
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essere ridotta ad una trasmissione meccanica e ad una comunicazione letteralistica e
fondamentalista degli eventi e delle parole della rivelazione; né può essere ridotta ad un
accoglimento semplicemente passivo di una essenza (di una verità) destinata a rimanere immutabile
lungo lo scorrere del tempo; bensì una storia mediante la quale lo Spirito, in perenne dialogo con
l’umanità, porta a compimento e a maturazione la verità di Cristo, secondo una celebre
affermazione dell’apostolo: «Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità»
(Gv 16,13). Esiste dunque una tensione salutare fra la definitività della rivelazione originaria e la
sua pienezza futura, o, se si preferisce, fra il momento costitutivo della rivelazione e il momento
trasmissivo. Qui sta il senso del tempo ecclesiale e, si può dire, il senso della “Tradizione” nella sua
più ampia accezione, come vedremo: «La Chiesa, nel corso dei secoli, tende incessantemente alla
pienezza della verità divina, finché in essa giungano a compimento le parole di Dio» (DV 8). La
fedeltà al depositum fidei, come viene spesso chiamato il patrimonio della rivelazione divina, è
certo un invito ad una custodia scrupolosa delle verità di fede per non disperderne la ricchezza, ma
nello stesso tempo tale fedeltà non è statica, bensì dinamica, perché dice anche trasmissione di tale
deposito nel tempo sempre cangiante dell’uomo, incarnato in una precisa situazione culturale.
Trasmissione vuol dire approfondimento e progresso nella conoscenza.
Questo è il motivo per cui la DV, rinunciando a una visione di tipo documentaristico, non ha
parlato di fonti, ma di trasmissione della rivelazione. Del resto, proprio l’inizio del secondo capitolo
afferma l’esistenza di un nesso molto stretto – contenutistico e metodologico – fra il momento
costitutivo della rivelazione e il momento trasmissivo: «Dio, con la stessa somma benignità, dispose
che quanto egli aveva rivelato per la salvezza di tutte le genti, rimanesse sempre integro e venisse
trasmesso a tutte le generazioni» (DV 7). La rivelazione e la sua trasmissione non sono due
momenti giustapposti estrinsecamente, né tanto meno talmente separati da essere quasi in
opposizione tra loro. Essi, invece, esprimono l’unica volontà salvifica di Dio, che ha
irrevocabilmente disposto – attraverso la storia fondativa dell’economia della rivelazione – di
permearne l’intera storia umana. Lo stesso Gesù, che ha portato a compimento la rivelazione non
solo con la sua predicazione, ma con la totalità della sua vita, ha affidato agli apostoli il compito di
trasmettere il Vangelo. Il comando di Gesù fu concretamente eseguito in due modi.
Il primo modo comprende non solo la predicazione orale, ma anche «gli esempi e le istituzioni»
mediante cui gli apostoli «trasmisero sia ciò che avevano ricevuto dalla bocca, dal vivere insieme e
dalle opere di Cristo (ex ore, conversatione et operibus Christi), sia ciò che avevano imparato per
suggerimento dello Spirito Santo» (DV 7). Si tratta già di una prima descrizione della complessa
realtà della Tradizione: una realtà che nasce ancor prima degli scritti sacri, così come, nel Primo

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Testamento, le vicende storiche e le tradizioni orali dei profeti e dei sapienti nascono ancor prima
della loro stesura scritta.
Il secondo modo coincide con la messa in iscritto, sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, degli
eventi salvifici e del messaggio di Dio: nascono in tal modo i libri sacri di entrambi i Testamenti,
che fissano, per così dire, gli insegnamenti, le vicende storiche e le tradizioni orali trasmesse da una
generazione all’altra. La tradizione ebraica ci ricorda che gli eventi fondamentali della storia
salvifica erano tramandati in famiglia e in sinagoga dentro ad una narrazione orale e lo studio della
formazione dei Vangeli ci certifica che i testi scritti sono il risultato finale della predicazione della
Chiesa primitiva, avvenuta in momenti diversi e soprattutto calata in situazioni culturali e quindi
semantiche molto diverse tra loro, che hanno dato forma diversa alle narrazioni evangeliche che
oggi possediamo.

Tradizione e Scrittura

Il cambio di prospettiva è notevole. Tradizione e Scrittura non vengono più viste come due fonti,
come due archivi dotati di consistenza propria, ma come due testimonianze che, inserite vitalmente
nell’organismo ecclesiale, assolvono al compito di notificare e di attualizzare nella storia la
rivelazione di Dio. La realtà della Scrittura assume sempre meno i connotati di documento, per
rivestire sempre di più la forma di testimonianza, definitivamente fissata per iscritto e quindi
permanentemente normativa, degli eventi della rivelazione accaduti “una volta per sempre”. La
realtà della Tradizione, superando la visione ristretta che l’aveva ridotta a bagaglio delle
interpretazioni scritturistiche ad opera dei Padri della Chiesa e a sommario delle definizioni del
magistero ecclesiastico, viene fatta coincidere con la vita stessa della Chiesa, per quel che di
sostanzialmente divino e apostolico è presente in essa. Se la Scrittura «è parola di Dio in quanto è
messa per iscritto sotto l’ispirazione dello Spirito Santo», la Tradizione «trasmette integralmente la
parola di Dio» (DV 9). Sta qui la differenza più profonda fra Scrittura e Tradizione: mentre la
Scrittura è il risultato scritto dell’atto stesso di parlare da parte di Dio - sia pure mediante le
complesse modalità umane, «poiché Dio nella sacra Scrittura ha parlato per mezzo di uomini alla
maniera umana» (DV 12) -, la Tradizione è essenzialmente l’atto di trasmissione fedele di tale
parola. Ma sta qui anche il loro interno e necessario rapporto nei confronti della Parola di Dio:
entrambe, sia pure con modalità diverse, sono in relazione con la Parola di Dio, impiantata nella
storia salvifica, ispirata nella Scrittura e trasmessa nella Tradizione. Entrambe, pur essendo
formalmente due modalità distinte per la trasmissione della rivelazione, «sono tra loro strettamente

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congiunte e comunicanti», perché «scaturiscono dalla stessa divina sorgente, formano in certo qual
modo una cosa sola e tendono allo stesso fine». Questo è il motivo per cui «l’una e l’altra devono
essere accolte e venerate con pari sentimento di pietà e rispetto» (DV 9).
Ma è sul concetto e sulla realtà della Tradizione che la Dei Verbum ha preso una rotta
decisamente innovativa: innovativa rispetto alla teologia degli ultimi secoli, ma in piena continuità
con la teologia patristica e medioevale. La svolta può essere rintracciabile in un passo di DV 8, che
non ha ricevuto la dovuta attenzione da parte dei commentatori. Quando la costituzione conciliare
afferma che la Tradizione fa più profondamente comprendere e rende ininterrottamente operanti le
Scritture, arriva a concludere: «così Dio, che ha parlato in passato, non cessa di parlare con la Sposa
del suo diletto Figlio, e lo Spirito Santo, per mezzo del quale la viva voce del Vangelo risuona nella
Chiesa, e per mezzo di questa nel mondo, introduce i credenti a tutta intera la verità». È la
“contemporaneità” della rivelazione di Dio a tutte le generazioni della storia che costituisce la vera
svolta innovativa: Scrittura e Tradizione cessano di essere solo “fonti documentarie” della
rivelazione (quasi dei contenitori di eventi e di insegnamenti del passato) e diventano le modalità
sempre vive di un dialogo ininterrotto fra Dio e la Chiesa, fra Dio e l’umanità; diventano quasi il
sacramento che rende ininterrottamente presente la rivelazione. Soprattutto, la Tradizione viene
vista non soltanto come res quae traditur (ossia come Tradizione divino-apostolica, che trasmette
alcune verità del tempo costitutivo della rivelazione non sempre chiaramente certificate dalla
Scrittura), ma anche e soprattutto come actus tradendi, ossia come l’atto trasmissivo – secondo tutte
le modalità del vivere ecclesiale: e in questo senso anche la stessa Scrittura è un momento della
Tradizione – dell’intero patrimonio rivelato, senza il quale atto, tale patrimonio, presente nelle sue
“fonti costitutive” di Scrittura e Tradizione, rimane una ricchezza soltanto documentaristica ma
perde tutta la sua vitalità. La Scrittura, senza la Tradizione (intesa come actus tradendi) è lettera
morta, è documento d’archivio. La Tradizione, senza la Scrittura, perde il suo radicamento ispirato e
rischia di essere solo opera umana. La Tradizione è essenzialmente l’attualizzazione di quei
contenuti rivelati che sono presenti nelle Scritture; mentre la Scrittura è una realtà che solo nella
Tradizione viva della Chiesa può diventare “efficace”, ossia ininterrottamente operante . 3

Inoltre, grazie a questa concezione rinnovata di Tradizione, si rende ragione del progresso
dogmatico, ossia dello sviluppo che il dato rivelato riceve nel corso dei secoli: uno sviluppo non dei
contenuti – che rimangono permanenti e immutabili – ma della loro intelligenza e del loro

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Cf. DV 8: «La Tradizione fa conoscere alla Chiesa il canone integrale dei libri sacri, e in essa fa più profondamente
comprendere e rende ininterrottamente operanti le stesse sacre lettere». Cf. anche Verbum Domini 17: «La Chiesa vive
nella certezza che il suo Signore, il quale ha parlato nel passato, non cessa di comunicare oggi la sua Parola nella
tradizione viva nella Chiesa e nella Sacra Scrittura. Infatti, la Parola di Dio si dona a noi nella Sacra Scrittura, quale
testimonianza ispirata della rivelazione, che con la viva tradizione della Chiesa costituisce la regola suprema della
fede».
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significato. La rivelazione, infatti, non è soltanto un patrimonio da custodire, ma un patrimonio da
investire, da trasmettere, da attualizzare, perché la salvezza di Dio vuol raggiungere tutti gli uomini
di tutti i tempi: la comprensione di ciò che viene trasmesso infatti «cresce sia con la riflessione e lo
studio dei credenti […], sia con la profonda intelligenza che essi provano delle cose spirituali, sia
con la predicazione di coloro che con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di
verità» (DV 8).

Chiesa e magistero

La Parola di Dio è affidata all’intera Chiesa, come esplicitamente afferma la Dei Verbum , in 4

virtù del fatto che, mediante il battesimo, tutto il popolo di Dio «partecipa all’ufficio profetico di
Cristo col diffondere ovunque la viva testimonianza di lui, soprattutto per mezzo di una vita di fede
e di carità, e con l’offrire a Dio un sacrificio di lode, cioè frutto di labbra acclamanti al suo nome
(cf. Eb 13,15)» (LG 12). Sotto quest’aspetto è stata lasciata volutamente cadere, al Vaticano II, la
distinzione, un tempo classica, fra Chiesa docente e Chiesa discente, perché ambigua: tutta la
Chiesa infatti è discente nei confronti della Parola di Dio, compreso il magistero, come
espressamente ricorda Dei Verbum ; e tutta la Chiesa è chiamata ad annunciare il Vangelo, e quindi
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esercita una funzione di docenza nei confronti del mondo.


Se la Tradizione e la Scrittura assicurano l’integrità della Parola di Dio nella sua attualizzazione
storica, il magistero della Chiesa, esercitato dai legittimi pastori, rappresenta l’istanza oggettiva che
garantisce la retta trasmissione della rivelazione, mettendola autorevolmente al riparo dai pericoli
della manomissione, della falsificazione, della soggettivizzazione, del depauperamento, della
strumentalizzazione ideologica, come dimostra la storia della fede in questi venti secoli. La
fondazione biblica della funzione magisteriale si trova abbondantemente esposta nel capitolo III
della Lumen gentium. La ragione fondamentale della necessità di un magistero nella Chiesa riposa,
oltre che sulle autorevoli parole di Gesù, anche su una motivazione di convenienza che appartiene
alla rationabilitas fidei. Il popolo di Dio non può rimanere in una permanente incertezza attuale
circa la verità della fede. Di fronte a problemi nuovi, la comunità cristiana non può limitarsi a
“ripetere” le formule del passato, ma deve costruire una propria risposta: una risposta, però, che sia
in continuità sia con la storia della fede delle precedenti generazioni, sia con il patrimonio fondativo
della rivelazione presente nella Tradizione e nella Scrittura. Proprio per garantire la continuità della
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«La Sacra Tradizione la Sacra Scrittura costituiscono un solo sacro deposito della parola di Dio affidato alla
Chiesa» (DV 10).
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«Il magistero non è al di sopra della Parola di Dio, ma la serve, insegnando soltanto ciò che è stato trasmesso» (DV
10).
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fede e per assicurare il rapporto veritativo fra il dato originario e l’attuale trasmissione della fede,
diventa necessaria un’istanza dotata di autorevolezza. La certezza nell’ambito della fede è, infatti,
cosa troppo importante perché la sua garanzia sia lasciata in balia della soggettività del singolo,
delle fluttuazioni della storia, delle opinioni che spesso si trovano in palese opposizione fra loro. Da
qui la presenza di un magistero nella Chiesa, «la cui autorità è esercitata nel nome di Gesù Cristo»
(DV 10) e che risiede nel collegio dei Vescovi in comunione con il Vescovo di Roma, che è
subentrato, con le dovute differenze, al collegio degli apostoli nel quale Pietro rivestiva un
“primato” che si è andato chiarendo, consolidando e anche precisando lungo i secoli. Possiamo
riassumere i compiti del magistero secondo due istanze fondamentali.
La regolamentazione linguistica. La verità, qualunque sia il suo ambito (filosofico, scientifico,
letterario…) può essere conosciuta e notificata solo per il fatto di essere concepita in un orizzonte di
pensiero e quindi tradotta nelle strutture semantiche di una determinata cultura. Una verità che
fosse solo “apofatica” non potrebbe mai nutrire la finalità di penetrare nello spazio storico
dell’uomo. Da qui si comprende non solo il necessario farsi linguaggio umano della Parola di Dio,
ma anche la necessaria e permanente riespressione della sua predicazione e della sua
attualizzazione. Proprio perché il linguaggio è l’uomo stesso nel suo accedere alla verità, o, se si
preferisce, è la verità stessa nel suo aprirsi all’uomo, nasce la necessità di un’istanza di
regolamentazione del linguaggio, affinché l’espressione della stessa verità possa imporsi nei
confronti di tutte le sue possibili contraffazioni e alterazioni. Anche la fede cristiana non può essere
indipendente dalla parola che la esprime. L’istituzione di un compito magisteriale − che affonda le
sue radici nelle parole stesse di Gesù − rappresenta l’attuazione storico-positiva di questa istanza
che è presente all’interno stesso del processo per cui la verità si manifesta all’uomo. Tale istanza
magisteriale non è certo un potere arbitrario a se stante, ma ha la sua ragion d’essere come servizio
ecclesiale alla rivelazione divina. In questo modo sono nati, ad esempio, i simboli di fede. Tali
simboli non possono non essere autenticati dal magistero della Chiesa, il quale non inventa la verità
e neppure si sostituisce all’intera Chiesa nel cammino verso la verità, ma accompagna tutto il
processo ecclesiale, sanzionandone l’esito finale con il proprio carisma di interpretazione autentica.
Unità della fede e nella fede. Se la fede non è solo un dono personale, in quanto inserisce la
persona in una comunità e in una storia, ne deriva che l’accoglimento della fede, come anche il suo
annuncio che ne è all’origine, non possono essere lasciati all’arbitrio del singolo, ma sono fatti
ecclesiali. L’unità della Chiesa si costruisce attorno alla verità che è Dio nella sua economia di
salvezza. La Chiesa non è un insieme di individui ciascuno dei quali ha con Dio un rapporto
verticale dentro al quale viene esaurito ogni dialogo salvifico. La Chiesa è un popolo storico e come
tale non può non avere con Dio anche un rapporto di tipo storico-comunitario. I simboli di fede,

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insieme alle definizioni dogmatiche, hanno realizzato anche questa esigenza: quella di confessare
comunitariamente la fede. Il magistero interviene nel processo ecclesiale della confessione di fede
con la sua specifica funzione: quella di autenticare autorevolmente un cammino ecclesiale, affinché
esso sia da tutti e senza equivoci riconosciuto come degno di essere percorso e in certi casi (come
nei dogmi) di esserlo definitivamente e infallibilmente; o quella di correggere un eventuale
cammino distorto o di chiarire autorevolmente un cammino che si presenta incerto, o di
incoraggiare sviluppi che si presentano come positivi.
Nell’esaminare il rapporto fra l’autorità del magistero e l’unità della Chiesa non si deve cedere a
configurazioni di opposizione, che la nostra fede non autorizza affatto, anche se sono riscontrabili
inevitabili tensioni sul piano storico. Il rapporto tra magistero e Chiesa non è da vedersi come
rapporto tra un corpo di docenti che hanno il privilegio di una relazione segreta ed esoterica con il
mondo divino, e una comunità che giace nelle tenebre. Il corpo magisteriale non può mai essere
pensato e collocato al di sopra o al di fuori della Chiesa. Il rapporto con la Parola di Dio da parte
della Chiesa non passa anzitutto attraverso la strettoia della funzione magisteriale, come se il
magistero fosse l’unico ed esclusivo canale di trasmissione della rivelazione. Il ruolo del magistero
è da comprendersi all’interno della Chiesa, come servizio autorevole e insostituibile alla Parola di
Dio consegnata alla Chiesa e vissuta nella Chiesa. Ecco perché il consenso comunitario non è da
concepire solo come qualcosa che viene dopo la proposta magisteriale, che si presenterebbe come
una proposta assolutamente nuova. Il consenso non può sostanzialmente mancare, non solo perché
il popolo di Dio è chiamato all’obbedienza della fede, ma anche perché il consensus deriva dal
sensus fidei, che precede e legittima lo stesso intervento del magistero, intervento nel quale i
credenti ritrovano la propria fede, in una forma autorevolmente certa. Il rapporto fra magistero e
confessione ecclesiale della fede non va concepito a senso unico, ma in modo circolare: è la Chiesa
che confessa con certezza la verità e che quindi non può sbagliarsi nel credere; affinché poi il
sensus fidei diventi comunitario, ossia diventi consensus, e non rimanga in uno stadio di incertezza
o di oscurità, sorge il bisogno di un servizio specifico, che si è andato sempre più precisando e che
la fede cristiano-cattolica ritiene legittimamente derivato da Cristo stesso, cioè il servizio apostolico
quale si è concretizzato nel magistero dei Vescovi in unione con il Vescovo di Roma . 6

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Così si esprime LG 12: «La totalità dei fedeli che hanno ricevuto l’unzione dello Spirito Santo (cf. 1Gv 2,20.27)
non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua proprietà che gli è particolare mediante il senso soprannaturale
della fede in tutto il popolo, quando dai Vescovi fino agli ultimi fedeli laici esprime l’universale suo consenso in
materia di fede e di costumi. Infatti, per quel senso della fede, che è suscitato e sorretto dallo Spirito di verità, il popolo
di Dio, sotto la guida del sacro magistero, al quale fedelmente si conforma, accoglie non la parola degli uomini ma, qual
è in realtà, la parola di Dio (cf. 1Ts 2,13), aderisce indefettibilmente “alla fede trasmessa una volta per tutte ai santi”
(Gd 3), con retto giudizio penetra in essa più a fondo e più pienamente l’applica nella vita».
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