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PALERMO

FACOLTA’ TEOLOGICA DI SICILIA «SAN GIOVANNI EVANGELISTA»

ISTITUTO SUPERIORE DI SCIENZE RELIGIOSE SAN LUCA

Elaborato annuale - Liturgia fondamentale

Il rito come raccordo tra teologia e antropologia.

Allievo Docente

Gabriella Scalas Ch.ma Prof.ssa Valeria Trapani

Anno II

Anno accademico 2019 – 2020


Gli risposero:
Rabbì, dove abiti?
Disse loro: Venite e vedrete.
Gv.1,38-39.
1. Introduzione

Il tema che mi accingo a sviluppare riguarda il rito in quanto dimensione liturgica cristiana

attorno a cui si è faticosamente costruito il dialogo tra liturgia, teologia intesa in senso ampio e scienze

umane(antropologia) per affrontare quel «disagio dell’uomo moderno di fronte alla celebrazione

cristiana»1 che i liturgisti chiamano questione liturgica. Andrea Grillo, liturgista, spiega che, pur

essendo stata discussa per lo più da autori del ‘900, la questione liturgica trova le sue radici in una

frattura con la tradizione che non è stata indotta dal Concilio Vaticano II, come molti ingenuamente

credono. Essa, piuttosto, molto probabilmente ha le sue radici lì dove tutta la crisi teologica ha avuto

inizio e cioè quando la «ghigliottina ha tagliato la testa al re di Francia»2. Questo evento da un

punto di vista politico, etico e religioso ha fatto cadere il principio di autorità e tradizione senza il

quale la liturgia non funziona restando il rito un gesto privo di senso3.

Il fatto poi che l’ideologia moderna abbia sostituito il principio caduto con il principio del consenso

ha di fatto annichilito ogni capacità educativa e formativa della liturgia. E del resto, Grillo osserva

correttamente che un padre non chiede al figlio come educarlo, lo fa secondo la propria autorevolezza

e senza chiedere il consenso al figlio. Diversamente ogni sua parola cadrebbe nel vuoto.

La teologia reagisce a questo fermento continuando a proporre i propri riti in modo irriflesso

fino a ridurli a mera prassi celebrativa. Solo dopo un lungo e difficile percorso si assisterà alla nascita

della teologia liturgica con il relativo modello epistemologico, la riscoperta della liturgia come fonte

per la teologia, quindi i primi tentativi di reintegrazione del rito come fondamento della fede; ma

anche la riflessione sul culto non più come protestatio fidei (nel culto il credente manifesta la propria

fede diceva Tommaso D’Aquino) ma come actus fidei (nel culto il credente agisce la fede, la vive) e

quindi il culto come azione in atto da esperire attraverso il corpo in unione con lo spirito, fino ad

arrivare alla vera svolta antropologica che sugella l’intero percorso di riforma dei riti con il concetto

1
A.Grillo - C.Valenziano, L’uomo della liturgia, Cittadella editrice, Assisi, 2017,17.
2
Ib,,19.
3
Cf. Ib, 18-19.
3
di iniziazione ai riti e dai riti che fa del culto quel momento in cui l’uomo veramente esperisce il

rapporto con Dio in modo così totalizzante da fare della lex orandi non solo la sua lex credendi ma

anche la sua lex vivendi.

2. Il problema del metodo storico e il cammino verso una nuova scienza

Come anticipato nell’introduzione, la frattura con la tradizione e il successivo sviluppo

culturale moderno hanno creato una grossa crisi nella teologia classica la quale non riesce a dare

risposte soddisfacenti e adeguate alle questioni che la società post-tradizione pone in maniera

pressante e severa tra cui, appunto, la questione liturgica. In generale, una reazione evidente a questa

crisi è la differenziazione teologica e il prodursi di diverse discipline che in certo modo, tentano di

superare la frattura.4 Il problema che sorge da questi tentativi è che si ha una propensione a farne

solo una parte della verità non tenendo conto della loro capacità di cogliere l’intero della verità pur

«con la loro unilaterale prospettiva».5 La mancanza di questa visione sintetica e globale di ogni

disciplina fa sì che le teologie tra di loro non dialoghino ponendo a sistema ognuno la propria

prospettiva sulla globalità, ma agiscano ognuna per conto proprio strutturandosi per un compito

parziale e privandosi di quella dimensione interdisciplinare che rappresenta «una conditio sine qua

non del sapere teologico contemporaneo»6. Non è un caso che lì dove si cimenterà nella progettazione

di una «teologia pura, la teologia moderna rimarrà vittima del teorema sulla purezza antropologica

che affascina e illude il pensiero moderno»7. Su questo versante, quindi, il problema della liturgia

sarà quello fare in modo che le varie discipline che, a vario titolo, riguardano l’ambito liturgico e

riflettono sul “rito”, possano interagire in modo equilibrato e fruttuoso.

Un altro dato da mettere a fuoco è dato dal fatto che nell’ambito del sapere teologico si impone il

metodo storico, cioè la storia della teologia diventa modo di fare teologia. Questa consapevolezza

modifica profondamente il ruolo del rito liturgico nell’ambito della riflessione teologica. Il rito viene

4
Cf. A.Grillo, La nascita della Liturgia nel XX secolo, Cittadella editrice, Assisi 2003,16.
5
Ib.,15.
6
Ib.,16.
7
Ib.,18.
4
tematizzato in senso storico, perde la sua connotazione di azione implicitamente contenuta nel

sacramento e di conseguenza la sua importanza, la sua natura fontale, mandando in crisi l’intera

prassi. Di fatto è la natura di fons della liturgia il vero problema fondamentale che si nasconde

dietro questa improvvisa vocazione storica dello studio liturgico e teologico. Quindi si impone la

necessità di trovare rimedio facendo riferimento allo stesso ressourcement fino a rimettere il rito al

suo posto originario come fondamento della fede. La necessità di rispondere a queste due crisi porterà,

nel tempo la nascita di una disciplina chiamata teologia (o scienza) liturgica. Per parlare della nascita

della teologia liturgica ed in particolare del modo con cui i vari teologi coinvolti hanno elaborato un

modello epistemologico che permetterà di ridefinire la questione attorno al rito, bisogna tentare di

capire da un punto di vista storico/teologico tutta questa complessa dinamica, sviluppatasi negli

ultimi due secoli, narrando «l’articolazione riflessa del rapporto tra culto rituale e teologia così come

si è evoluta nel passaggio dal mondo tradizionale a quello secolarizzato»8 secondo la chiave

presupposizione rimozione / sovra-determinazione e successiva reintegrazione del rito nel

fondamento della fede. Sinteticamente quindi descriverò qui le varie fasi.

2.1. La presupposizione del rito

Iniziamo quindi con il dire che dalle origini fino al 1700/1800 la fede e la teologia hanno

naturalmente presupposto il rito, cioè la dimensione rituale che portava con se, strutturalmente legata,

l’identità religiosa ma anche sociale, antropologica e sociologica. Va da se che fin tanto che il ritus è

stato presupposto non c’è stata la necessità di un intellectus ritus cioè di mettere a tema la liturgia

come argomento teologico.

8
A.Grillo, La nascita della Liturgia nel XX secolo, Cittadella editrice, Assisi 2003,81.
5
2.2. La rimozione/sovradeterminazione del rito

Questa assenza implicita ben presto si è trasformata in negazione attraverso una progressiva

limitazione dello sguardo sull’esperienza rituale e tutto quello che poteva risultare problematico per

il discorso di fede. In effetti negli anni a cavallo tra il 1700 e il 1800 la prorompente tendenza

secolarizzatrice penetra nella Chiesa e per prima mette in crisi proprio la liturgia e il “rito in quanto

tale” facendolo diventare irrilevante, segno della tradizione, dell’eteronomia e dell’autorità. La

teologia non reagirà subito ma correrà ai ripari solo un secolo più tardi secondo due direttrici

principali: da una parte rimuovendo il rito - come fosse un elemento imbarazzante - dal fondamento

del discorso su Gesù e quindi ipotizzando di poter costruire un intero sapere su Gesù facendo a meno

di un riferimento fondante al rito. A questo proposito un antropologo Americano, Victor Turner

denuncia l’incompetenza rituale della chiesa che non ha saputo salvare il rito facendo leva sulla sua

caratteristica liminale. Turner sostiene infatti che è proprio questa qualità formale, ripetitiva,

globalmente arcaica che permette al rito di veicolare valori ed esperienze che trascendono da quelle

“mondane”. La mancanza della liminalità del rito (ormai rimosso) ha prodotto «un rito in presa

diretta con la vita quotidiana» inducendo i fedeli a non frequentare più la messa.9

Dall’altra, assecondando i risultati delle scienze umane, tra cui l’antropologia, che intanto avevano

assunto, in completa autonomia, il fenomeno rituale come campo di indagine. 10

Questo modo di affrontare la questione rituale portò la sovra-determinazione del rito a cui fu attribuita

la possibilità di recuperare il senso della fede secondo le sue caratteristiche di immediatezza pur senza

mediazione teologica. Per questo nel tentativo di superare il rubricismo che aveva caratterizzato la

tradizione liturgica precedente, attuando una prima svolta antropologica si opera un primo tentativo

di riforma dei riti, si pensa ad un nuovo culto per l’uomo e quindi si formulano nuove dinamiche

rituali sempre più giuridizzate o spiritualizzate, assunte in modo irriflesso e ridotte a mera prassi

9
Cf. R.Tagliaferri, Elementi fondamentali della liminalità del rito, in G. Bonaccorso, La liminalità del Rito, Edizioni
Messaggero, 2014 Padova,61-62.
10
Cf. A.Grillo, La nascita della Liturgia nel XX secolo, Cittadella editrice, Assisi 2003,27.
6
celebrativa. In entrambi i casi la dimensione rituale è quindi presente negli accidenti ma rimossa nella

sostanza.11

2.3. I primi tentativi di reintegrazione del rito e il primo impulso alla riforma liturgica.

In questo stesso periodo si assiste ad una ripresa della tradizione antica che vede nel culto e

nel rito un significato teologico profondo, che non si arrende alla separazione tra liturgia e teologia e

che non vuole sottostare alle regole del metodo storico critico o a scontri con le nuove scienze e così

tra i numerosi fenomeni culturali che caratterizzano la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo

nasce anche il Movimento Liturgico che tenta di rispondere ad una questione che si era andata

imponendo in ambito liturgico sacramentario sul rapporto fondamentale tra fede e rito. La natura

essenziale questo rapporto è il perno attorno al quale si caratterizza il grande impulso allo studio

cristiano nato negli ambienti benedettini e poi nel più ampio ambiente liturgico della prima metà del

XX secolo.

3. La nascita della teologia liturgica e il suo statuto epistemologico

Con l’obiettivo di rispondere alla questione liturgica smarcandosi dalle trame fitte dello

storicismo per restituire alla liturgia (e al rito quindi) la sua caratteristica di fonte nella rivelazione

all’uomo del mistero di Dio e per la fede dell’uomo in Cristo, il Movimento Liturgico lavora allo

statuto epistemologico di questa nuova Teologia Liturgica, la cui caratteristica viene ben descritta

dalle parole di Andrea Grillo: «il fondamento teologico (evento) e la mediazione liturgica (fenomeno)

nella riflessione del ML tendono essenzialmente alla loro riconciliazione».12

In particolare, quindi, con questo metodo teorico si tenta di raggiungere un rapporto teologia/liturgia

in cui la teologia non funzionalizzi a se l’atto liturgico come fosse solo protestatio fidei ma lo riceva

con fons della propria esperienza, come actus fidei, per ricollocarlo a pieno titolo nel fondamento

stesso dell’atto di fede in modo da essere essa stessa (la teologia) modificata. Un modello che non sia

11
Cf. A.Grillo, La nascita della Liturgia nel XX secolo, Cittadella editrice, Assisi 2003,84-85.
12
Ib.,52.
7
assorbito dallo storicismo critico e che ritrovi quel principio di non indifferenza per mezzo del quale,

come anticipato all’inizio di questo scritto, ogni disciplina contribuisca all’intera verità con la propria

prospettiva in nome di quella interdisciplinarietà, senza la quale non si può fare veramente teologia.

Vari autori hanno contribuito a creare questo presupposto. Ricordiamo, per esempio, Odo

Casel che, preoccupato per il fatto che con la fede costretta in un sistema concettuale astratto da una

parte e la vita di fede irretita dall’intimismo dall’altra, il cristianesimo si fosse ridotto a dogma e

morale mentre l’esperienza spirituale di fede (preghiera e sacramenti) veniva vissuta come esercizio

personale per l’ascesi. Il monaco di Maria-Laach nel suo lavoro si concentra sul concetto di Mysterion

inteso come «esperienza cultuale e mistica del divino che non si lascia ridurre a livello razionale e

morale».13 Se il mistero (cioè gli eventi storico salvifici e, soprattutto la morte e resurrezione di

Cristo) è un’azione sacra il cui modo di essere partecipato dalla comunità è anche esso una azione

sacra allora il culto è appunto questa azione di partecipazione. Il culto è azione che dice il mistero,

è esso stesso mistero, il mistero del culto nella inevitabile valenza liturgica e rituale. Quindi il mistero

è evento salvifico e azione liturgica: storia e rito. Il centro dell’interesse diventa quindi l’azione

rituale simbolica che ha in sé la valenza ergologica (l’azione) e la valenza simbolica che rimanda

agli eventi salvifici. Ecco quindi la necessità per Casel di una liturgia che sia simbolo: celebrazione

rituale di un atto divino. Puntando su questo concetto di mistero si capisce che non si può comprendere

la liturgia usando solo la ragione o gli argomenti tecnico-scientifici. Quel solo vuole intendere che

nel pensiero di Dom Casel non c’è una netta contrapposizione tra teologia liturgica e storia/nuove

scienze umane(antropologia) ma piuttosto l’integrazione di queste competenze all’interno di un

nuovo approccio teologico alla cosiddetta gnosi cristiana - una gnosi che presuppone la fede: che si

modelli all’interno del mistero rivelato e celebrato, creando un sapere (o meglio un metodo teologico)

che assomigli alla liturgia in modo che possa interpretarla al meglio.14

13
G.Bonaccorso, La Liturgia e la fede. La teologia e l’antropologia del rito, Edizioni Messaggero, 2014 Padova,61.
14
Cf. Ib.,59-63.
8
Nell’applicazione di questo metodo teologico si rivela una apertura alla storia delle religioni e alla

fenomenologia del sacro. Casel si è avventurato nello studio degli antichi misteri greci, dove sacro e

rito interagiscono secondo un modello molto simile a quello presente nel mistero del culto cristiano.

In questo senso, giusto per osservare come i primi anni del 900 non fossero ancora così maturi per la

comprensione di un pensiero di tale portata, è da osservare come la teologia di Odo Casel sia stata

ricondotta per moltissimo tempo a teologia dei misteri cioè in termini di ipotesi storica sull’origine

dei sacramenti cristiani dai misteri pagani. Proprio il contrario dell’obiettivo di Casel il quale voleva

solo superare la contrapposizione tra teologia storica e teologia speculativa dei sacramenti tipica della

modernità, per riguadagnare alla liturgia quell’orizzonte di pensiero totale, di capacità sintetica che

caratterizza ogni rapporto di Dio con l’uomo. Gli verrà riconosciuto il merito molto più avanti,

soprattutto grazie a pensatori del calibro di Y.M.Congar.

Anche Romano Guardini nel 1921 prospettò la necessità di uno studio della liturgia che non

si limitasse all’ambito della ricerca storica ma che si sviluppasse come un metodo sistematico e che

si concentrasse «sull’esperienza globale dell’azione cultuale».15 Il punto di vista di Guardini non

intendeva elaborare una teologia della liturgia da contrapporre al cammino storico ma nasceva dalla

consapevolezza che lo studio di una realtà storica come la liturgia cristiana non può essere ridotta

entro i limiti della storiografia né il valore di verità di quella realtà può identificarsi con i significati

emersi dalla storiografia. Del resto la verità è il significato che si produce nell’esperienza del reale e

certo lo storico non può produrre verità su realtà esperite da altri in momenti passati. Nella liturgia

l’esperienza che si fa è quella rituale e lo storico non può esperire i riti antichi ma può al massimo

interpretare secondo la propria sensibilità i testi che gli sono derivati. L’intento di Guardini era quindi

quello di passare dalla semantica storica alla verità di teologia dei riti. Elaborò per questo un metodo

teorico che vedesse la liturgia sia come fatto passato, oggetto delle attenzioni del metodo storico che

come fatto presente e futuro oggetto dell’attenzione del metodo teologico. In questo modo, metodo

15
G. Bonaccorso, La Liturgia e la fede. La teologia e l’antropologia del rito, Edizioni Messaggero, 2014 Padova,55.

9
storico e teologico non si sarebbero sovrapposti e anzi la teologia avrebbe fondato e illuminato la

dimensione storica.16

Da quanto detto, risulta chiaro che la preoccupazione di Guardini era quella di passare da una liturgia

studiata sui libretti ad una liturgia realmente educativa. Spiega Grillo che per Guardini era certamente

necessaria una preparazione intellettuale o esperenziale sulla liturgia ma la formazione e l’educazione

liturgica è quella formazione e quell’educazione che la liturgia realizza, mettendo in luce che la

liturgia non è discorso ma azione che agendo insegna come si insegna ad un bambino a parlare o a

mangiare : parlando e mangiando.17

Si potrebbe citare Festugière per concludere la triade che si è occupata di questo momento

riflessivo, ma credo sia più suggestivo citare il pensiero di Maurice Blondel (un filosofo laico) a

proposito della Tradizione, avvertendo subito che Congar ci insegna che la liturgia è - insieme alle

scritture e ai Padri della chiesa - un monumento della Tradizione. Scrive Blondel:

«La tradizione apporta alla coscienza distinta alcuni elementi fino ad allora racchiusi nelle

profondità della fede e della prassi, piuttosto che espressi, riferiti e riflessi. Quindi tale facoltà

conservatrice e preservatrice è al tempo stesso istruttiva e iniziatrice. Rivolta amorosamente verso

il passato, dov’è il suo tesoro, essa va verso l’avvenire dov’è la sua conquista e la sua luce. Anche

le cose che va scoprendo, essa ha l’umile sentimento di ritrovarle fedelmente. Non ha innovazioni

da fare, poiché possiede il suo Dio e il suo tutto; ma ha sempre nuovi elementi da insegnarci,

poiché incessantemente fa passare qualcosa dall’implicito vissuto all’esplicito conosciuto».18

Quindi Blondel vedeva nella fede vissuta e quindi anche nella celebrazione la possibilità di afferrare

la totalità della realtà di Dio trasmettendolo immediatamente a quella coscienza riflessa che

diversamente non avrebbe colto che una parte del tutto. Questo perché aggiunge Blondel «l’azione

16
Cf. A.Grillo, La nascita della Liturgia nel XX secolo, Cittadella editrice, Assisi 2003,60.
17
Cf. A.Grillo - C.Valenziano, L’uomo della liturgia, Cittadella editrice, Assisi, 2017,15.
18
Y. M. Congar, La Tradizione e la vita della Chiesa, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo(MI) 1983,37.
10
ha il privilegio di essere chiara e completa anche nell’implicito; mentre il pensiero, col suo carattere

analitico, assume la forma della scienza con lenta e brancolante riflessione».19

C’è, in conclusione, una tensione forte a superare lo storicismo critico, a enucleare il «proprium

della domanda teologica rispetto alla consolidata sapienza storica intorno all’evoluzione dei riti

cristiani»20 ma anche a superare la segmentazione delle discipline. In questo senso si capisce che una

buona interazione tra la teologia e la liturgia deve passare necessariamente dal dialogo con

l’antropologia.

4. La necessità antropologica

4.1. Il problema spirituale e pastorale

A questo proposito Crispino Valenziano racconta che «nell’immediata vigilia della Mediator

Dei che Chenu instituisce la questione del rilievo fenomenologico del rito in quanto tale, accostando

la antropologia alla liturgia e spingendo la teologia alla svolta antropologica»21 e quindi a

tematizzare il sacramento in modo diverso da come si faceva nella teologia liturgico/scolastica. Chenu

vide in questo accostamento un impegno spirituale e pastorale del Movimento Liturgico e in questo

impegno evidentemente Chenu avvertiva forte la sofferenza del versante pastorale della liturgia

sacramentale. In effetti i problemi c’erano.

Pensiamo alla questione della spiritualità dei sacramenti che si era imposta in modo acuto e che fu

discussa in ben due documenti del magistero: la Mediator Dei prima e la Sacrosanctum Concilium in

seguito. Nei due documenti magisteriali viene denunciata prima dell’urgenza di arginare il fenomeno

di una spiritualità personalistica con l’opposizione di una spiritualità ecclesiale/comunitaria e poi

l’incapacità di trovare delle categorie concettuali adeguate per pensare la spiritualità liturgica

19
Y.M. Congar, La Tradizione e la vita della Chiesa, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo(MI) 1983,38.
20
Cf. A. Grillo, La nascita della Liturgia nel XX secolo, Cittadella editrice, Assisi 2003,61.
21
C.Valenziano, Prospettiva culturale antropologica sulla liturgia, in A.J. Chupungco, Scienza Liturgica, II, Edizioni
Piemme, Casale Monferrato (AL) 1999,196.

11
sacramentale come fondamento della spiritualità cristiana (cosi che la spiritualità cristiana non venga

derubricata a spiritualità ordinaria).

Ora, questo problema sacramentale, si manifestava nel livello più profondo, dal basso, dove vive il

luogo proprio dei sacramenti e della liturgia: la comunità celebrante che fa, cioè, esperienza

rituale. Tutte le questioni, cioè, inevitabilmente sfociavano «negli imbarazzi della nostra prassi

celebrativa sacramentale, delle nostre eucarestie o dei nostri vespri, dei nostri battesimi o delle

nostre penitenze».22 Era quindi evidentemente connessa alla questione liturgica e anch’essa richiama,

inconsapevolmente, la reintegrazione del rito.

A questo punto della vicenda è palese che una riforma del rito era in atto. Eppure essa non basta

perché ancora nelle prassi celebrative si nascondevano ancora grossi problemi teorici e viceversa in

essi si riflettono le aporie di una teologia imbrigliata nelle trame della speculazione razionale. La

lezione di Casel, Guardini, Blondel ecc…ancora non era evidentemente stata ben interiorizzata dalla

Chiesa.

4.2. Il problema del linguaggio

Il problema di fondo stava nel fatto che nel tentativo di riformulare le questioni teologiche

fondamentali (comprese quelle sacramentali) si faceva un errore di prospettiva nel ritenere che per la

spiegazione dei sacramenti fosse insufficiente l’argomentazione della teologia scolastica.

Per chiarire meglio la questione riportiamo come in un saggio di E. Mazza dedicato all’eucarestia23

si rileva in che modo Tommaso D’Aquino arrivi alla natura sacramentale dell’eucarestia, mediante

l’analisi metafisica del pane e del vino, come se il sacramento potesse essere studiato sotto tutti i suoi

aspetti in termini di sostanza ed accidenti. La parte celebrativa del sacramento, però, non è un ens ma

una azione e come tale non può essere spiegata secondo la linea dell’aquinate.

L’aporia sta nel fatto che Tommaso d’Aquino non si poneva affatto il problema del rito, essendo esso

presupposto, così come lo era l’unione di corpo e spirito, di intelletto e sensibilità che invece l’uomo

22
A.Grillo, La nascita della Liturgia nel XX secolo, Cittadella editrice, Assisi 2003,132.
23
Cf.Ib.,137.
12
moderno scinde. «L’idea di protestatio fidei porta l’uomo moderno a collocarsi stabilmente al di

sopra del suo corpo»24 cioè riflette su qualcosa che ritiene di aver colto senza neanche aver

sperimentato.

Per chiarire questo aspetto Crispino Valenziano25 presenta un esempio. Egli immagina intanto che ci

sia la comunione al calice e si pone la domanda «che logica strana è mai questa, che nel momento in

cui il calice del sangue si avvicina a me io canto: “Padre, se è possibile, allontanalo da me”? É un

controsenso». In effetti mentre si dice una cosa se ne sta facendo un’altra.

In realtà si stanno mettendo insieme due linguaggi diversi, uno verbale e uno non verbale per

permettere di cogliere la struttura della Parola riportata nel Sacramento che può essere colta solo se

si sperimenta che «intanto il calice del sangue ti viene offerto, affinchè tu te ne comunichi, perché il

padre non ha allontanato il calice dal Figlio ma glielo ha fatto bere fino in fondo, altrimenti tu di

questo calice non ne berresti».26

Di fatto noi non ci comunicheremmo se il Padre non avesse fatto morire il Figlio sulla croce e quindi

noi comunicandoci sperimentiamo il fatto che «l’eucarestia ci viene offerta come frutto della sua

morte». Se dovessimo immaginare un sacramento come questo vissuto in modo concettuale

concluderemmo che non se ne può fare un discorso: «o lo sperimenti o è meglio non cantarlo».27

Va da sé quindi che l’uomo moderno non riesce a capire il rito come esperienza se non viene invitato

esplicitamente ad esperirlo usando delle categorie linguistiche che gli permettano di comprendere il

perché Pascal diceva «Inginocchiati e capirai» reagendo ai primi colpi della modernità del res

cogitans e res extensa cartesiana.28

In questo modo appare chiaro che la concettualizzazione dell’aquinate era perfettamente

adeguata alla cultura del tempo, mentre non aveva più le qualità linguistiche adatte per comunicare

con la cultura moderna. L’errore, ultimamente, non era nella spiegazione della scolastica ma nel

24
A. Grillo - C. Valenziano, L’uomo della liturgia, Cittadella editrice, Assisi, 2017,21.
25
Cf.Ib.,89-90.
26
Ib.,90.
27
Ib.
28
Cf. Ib.,21
13
volerla riproporre al mondo moderno e restando nella totale incapacità di garantire la piena

comprensione dell’oggetto sacramento.

É qui che si innesca un cambio di prospettiva nella questione liturgico-sacramentale; un

cambio che vede un sacramento non più come genus signi et causae ma come genus symboli et ritus.

Secondo questa nuova visione, la celebrazione liturgica non è solo una realtà da spiegare ma un luogo

di ricomprensione teologica della realtà.

Se la visione razionalistica di una teologia che pretende ancora di rifarsi alla scolastica e al genere

segni piuttosto che al genere ritus impedisce la penetrazione esperenziale del dato salvifico e quindi

alla stessa teologia pastorale, viene a mancare una approfondita riflessione per fare emergere il

rapporto speculare tra pastorale e storia salvifica e quindi fare dell’atto della celebrazione un luogo

soteriologicamente centrale. Dire che il sacramento è in genere ritus piuttosto che signi è un altro

modo per dire che il sacramento non è qualcosa su cui si discute ma che si coglie immediatamente

mediante l’azione liturgica.

Questo porta inevitabilmente a dover ricercare forme di comunicazione o modelli linguistici che

permettano celebrazioni in cui non solo la parola pronunciata ma la stessa forma comunica, cioè si fa

messaggio in modo che la pragmatica condizioni la semantica. Il compito non è semplice perché

rischia di non riuscire ad equilibrare il rapporto dialettico tra immediatezza rituale e mediazione

teologica finendo per cadere nell’identificazione del rito con l’oggetto della fede e quindi

nell’incomprensione del sacramento e nell’inefficacia soteriologica.29

29
Cf. G. Bonaccorso, La Liturgia e la fede.La teologia e l’antropologia del rito, Edizioni Messaggero,2014 Padova,84-
85.
14
4.3. La svolta antropologica

Ed è qui che la teologia sente l’urgenza di interpellare in modo serio e maturo la disciplina

antropologica. Il motivo implicito per il quale non c’è mai stata una vera comprensione tra teologia e

antropologia pare sia la mancanza di «chiarezza sulla diversità dei livelli su cui intessere il loro

rapporto».30 Questo è dipeso dal fatto che la teologia non ha mai distinto tra le varie branche

dell’antropologia. Essa è stata per lo più definita come sapere tecnico sorto alla fine del ‘700 «con le

caratteristiche di una interpretazione radicalmente naturale»31 della essenza e della cultura

dell’uomo e in genere la teologia ne ha fatto una scienza unica che ha sbrigativamente definito non

teologia proiettando su di essa tutto ciò che voleva che fosse. Per cui anche la filosofia (sapere con

cui la teologia ha imparato a convivere) è diventata antropologia.

Solo da una decina di anni si è fatta strada l’idea di una seconda svolta antropologica, in cui

«il riferimento non è dunque più ad una cultura antropologica originale (dell’uomo contemporaneo

occidentale), ma ad una cultura antropologica originaria (dell’homo anche religiosus) »32 per tentare

di capire come e perché la secolarizzazione abbia sottratto all’uomo una risorsa che era fondamentale

per l’integrità del suo profilo naturale. In questo nuovo corso si fa strada l’antropologia culturale

che costituisce il modo migliore per una riabilitazione del confronto con il rito per l’accesso alla

religione/fede cristiana.

Mi pare utile dare, anche sinteticamente, una lettura sulla modalità con cui questo rapporto tra

discipline si articola. Secondo Terrin bisogna evitare di leggere l’antropologia in chiave teologica ma

rimanere sul terreno antropologico per porre l’attenzione sull’uomo e sulla comunità che celebra la

liturgia. «Lo scopo è cercare stimoli e dare suggerimenti per aiutare la liturgia a comprendersi dal

basso»,33 cercare il cultuale nel culturale direbbe Crispino Valenziano, operando una ermeneutica di

30
A.Grillo, La nascita della Liturgia nel XX secolo, Cittadella editrice, Assisi 2003,89.
31
Ib.
32
Ib.,91.
33
A.N.Terrin, Antropologia Culturale, in Nuovo Dizionario di Liturgia, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo(Mi)
1993,82.
15
connaturalità tra la cultura e il culto, tra l’uomo e la liturgia nel leggere quel doppio momento

discendente e ascendente in cui Dio dona la salvezza e l’uomo questuante, ringrazia per il dono cioè

nell’interpretare «il modo in cui avviene il passaggio dal rituale alla comprensione della liturgia

cristiana nella sua caratteristica di azione di Dio e della Chiesa»,34 rendendo al rito la sua dignità

fontale per la teologia. Nel momento rituale, secondo Terrin, il credente e la comunità cercano

anzitutto la propria identità secondo un meccanismo di bisogno/risposta, limite/superamento del

limite, sconfitta nel reale quotidiano/vittoria o ripresa nell’immaginato, desiderio-di-

senso/donazione-di-senso.

Questo non significa dare ragione alla tesi funzionalistica e sociale, come non significa affermare che

per il cristiano nella celebrazione liturgica il mistero di Cristo e della Chiesa rivesta un ruolo

secondario e subordinato. Significa piuttosto riconoscere che l’uomo non dimentica mai sé stesso e il

suo ambiente vitale neanche al culto della chiesa. Significa anche che la dimensione simbolica,

trascendente, intenzionale del rito cristiano passa attraverso la dimensione funzionale e sociale della

celebrazione del rito.

Per fare un esempio esplicativo immaginiamo che ci sia un uomo con una incognita da affrontare: un

bisogno, un esame da superare, un esito di analisi. Se è un credente quest’uomo molto probabilmente

eseguirà un rito di crisi che può essere l’accendere una candelina al santo affinché interceda presso

Dio o affrontare un pellegrinaggio verso un luogo sacro, o la celebrazione dell’eucarestia finalizzata

all’ottenimento di una grazia importante. L’uomo che ha bisogno, supera la soglia, il limine per

raggiungere la trascendenza per mezzo di un rito. Certo, sappiamo bene che questi riti sono stati

accostati alla magia e rimossi dalla secolarizzazione ed in particolare dalla sociologia (con la

complicità della teologia). Tuttavia l’antropologia, più prudentemente, si è limitata a studiarli in

quanto fenomeni dell’uomo religioso e ha osservato che «il risultato e l’efficacia strumentale cui i

riti tendono è contornata da un insieme di sentimenti che da una parte aiutano a sperare e ad agire

34
A.N.Terrin, Antropologia Culturale, in Nuovo Dizionario di Liturgia, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo(Mi)
1993,82.
16
sperando, mentre dall’altra rinforzano positivamente il credo cristiano»35 e rinforzano anche la

personalità.

Come si può intuire tutto questo rappresenta un passo in avanti importante rispetto ad una riforma dei

riti che rispondeva all’ingenua credenza che «il problema rito per il mondo moderno sia la mancanza

di rappresentazione del teologico rispetto ad una società mutata».36

Capire che il problema del rito è ben più profondo e attiene al rito proprio per ciò che è così come è

rispetto all’uomo (anche cristiano) contemporaneo, ha permesso una modalità di approcciare la

questione liturgica: l’iniziazione dei riti (ai riti e dai riti).

In questa nuova “modalità” Chenu direbbe appunto che l’uomo e la liturgia ritrovano una

connaturalità37 cioè quella dimensione quasi paradossale di “intenzione e di affezione allo stesso

tempo”, simile all’innamoramento, di derivazione socio culturale che permette all’uomo di trovare un

senso per la partecipazione ad un rito. Ed è connaturalità in atto (perché la «liturgia è azione in

atto»38) e quindi parteciparvi non significa semplicemente tradurre concretamente delle idee

teologiche, ma è farsi dare da pensare, farsi suscitare pensiero, farsi operare simbolicamente fino a

che si strutturino il corpo e il cuore, farsi iniziare, farsi formare non solo in quanto cristiano ma anche

come persona. Significa, in ultimo imparare a vivere così come si prega e si crede.

Per arrivare a questi livelli, i modelli linguistici che un liturgista può adottare devono essere

strettamente uniti al contesto culturale al quale, peraltro va prestata un’adeguata attenzione per

captare le modifiche delle prospettive attraverso le quali l’uomo tenta di dare senso alla vita.

In questo modo la celebrazione potrà avere un vero senso soteriologico e il rito potrà essere veramente

performativo non esaurendo il suo effetto con la celebrazione stessa, ma occupandosi di tutta la vita

del cristiano per educarla a saper comunicare con Dio attraverso i segni sacri e incidendo sulla loro

35
Ib.,83.
36
A.Grillo, La nascita della Liturgia nel XX secolo, Cittadella editrice, Assisi 2003,23.
37
G.Bonaccorso, La Liturgia e la fede. La teologia e l’antropologia del rito, Edizioni Messaggero, 2014 Padova,83.
38
Ib.,87.
17
identità (sulla formazione della loro identità) così come fanno le condizioni storico-culturali che nel

tempo mutano.39

5. Conclusione

Descrivendo la liturgia come monumento della tradizione, Congar scrive «Atto, celebrazione

reale e rito, la liturgia ha un eccezionale valore di totalità».40 E aggiunge che se un testo, anche

biblico viene colto sempre parzialmente, la liturgia invece si presenta come azione sintetica capace

di trasmettere tutta la realtà in un minimo segno. Congar cità pure S. Ilario che sosteneva come la

«dottrina trinitaria era tutta custodita nel battesimo, con l’efficacia delle parole mediante le quali

veniva amministrato».41 Prosegue sostenendo che «lo stesso rito è un meraviglioso conservatore

dell’integrità di un deposito e che solo grazie al rito, il Movimento Liturgico ed ecclesiologico ritrova

intatto un tesoro fino a ieri incompreso».42 Incalza facendo notare come il rito (in generale la liturgia)

riesca ad unire il valore più comunitario e quello più personale, il corpo e lo spirito, il fatto gerarchico

e il fatto popolare, il sacerdote e il popolo fedele che mirabilmente educa senza essere sterile dottrina

o morale.43 In fondo la vita cristiana ai tempi di Gesù il cristianesimo non era dottrina ma esperienza

di quello che significava vivere presso Gesù, nella sua sequela. Lo stesso è oggi per l’uomo «prodotto

da una pratica intelligente e docile della liturgia: un uomo pacificato ed unificato sono nel tessuto della

sua umanità dalla penetrazione quasi insensibile ma potente della fede, lungo un’esistenza di preghiere

e celebrazioni per mezzo delle quali ha imparato la lingua della Chiesa»44 e quindi dell’amore di Dio.

Con questa riflessione matura di uno dei maggiori padri conciliari del 900 concludo, sperando

di aver reso giustizia ad un argomento avvincente e complesso che certo meritava uno studio più

ampio e approfondito.

39
Cf. Ib.
40
Y.M. Congar, La Tradizione e la vita della Chiesa, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1983,137.
41
Ib.
42
Ib.,138.
43
Ib.
44
Ib.,139.

18
6. Bibliografia

G. Bonaccorso, La Liturgia e la fede. La teologia e l’antropologia del rito, Edizioni Messaggero,


2014 Padova.
Y. M. Congar, La Tradizione e la vita della Chiesa, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo Milano
1983.
A. Grillo, La nascita della Liturgia nel XX secolo, Cittadella editrice, Assisi 2003.
A. Grillo – C. Valenziano, L’uomo della liturgia, Cittadella editrice, Assisi, 2017.
R. Tagliaferri, Elementi fondamentali della liminalità del rito, in G. Bonaccorso, La liminalità del
Rito, Edizioni Messaggero, 2014 Padova.
A.N. Terrin, Antropologia Culturale, in Nuovo Dizionario di Liturgia, Edizioni Paoline, Cinisello
Balsamo(Mi) 1993.
C. Valenziano, Prospettiva culturale antropologica sulla liturgia, in A.J. Chupungco, Scienza
Liturgica, II, Edizioni Piemme, Casale Monferrato (AL) 1999.

19
Indice
1. Introduzione ............................................................................................................................................. 3
2. Il problema del metodo storico e il cammino verso una nuova scienza .................................................. 4
2.1. La presupposizione del rito.................................................................................................................. 5
2.2. La rimozione/sovradeterminazione del rito ....................................................................................... 6
2.3. I primi tentativi di reintegrazione del rito e il primo impulso alla riforma liturgica. .................... 7
3. La nascita della teologia liturgica e il suo statuto epistemologico ........................................................... 7
4. La necessità antropologica ........................................................................................................................ 11
4.1. Il problema spirituale e pastorale ..................................................................................................... 11
4.2. Il problema del linguaggio ................................................................................................................. 12
4.3. La svolta antropologica ...................................................................................................................... 15
5. Conclusione ................................................................................................................................................ 18
6. Bibliografia................................................................................................................................................. 19

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