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Il deserto e il decalogo

CAPITOLO 6
Il deserto e il decalogo

L'Israele del deserto ricorda con nostalgia «le pentole di carne» dell'Egitto (Es 16,3).
Sappiamo però che la memoria può essere selettiva. Se leggiamo i primi quindici capitoli
dell'Esodo, il quadro è leggermente differente. Quale era la situazione d'Israele in Egitto?

Anzitutto Israele viveva in una terra straniera. Già qui dobbiamo notare una caratteristica
essenziale della situazione d'Israele: il popolo come popolo straniero. Non è l'esperienza
di qualche individuo, ma un'esperienza collettiva. L'esperienza d'Israele dell'essere
straniero in Egitto non corrisponde neanche a una divisione di classe all'interno del
popolo. Tutto il popolo, e non solo una classe, ha vissuto la stessa esperienza in terra
straniera. La Bibbia ricorda più di una volta questo fatto (Es 22,20; 23,9; Dt 10,19; 23,8;
cf. Sal 80,9). Ora lo «straniero» – sarebbe forse meglio dire «l'immigrante» – fa parte nella
Bibbia delle categorie sfavorite, con la vedova e l'orfano (cf. Es 22,21; soprattutto Dt
10,18; 24,17.21; 26,12-13; 27,19; vedi pure Is 1,17; Ger 22,3; in contrasto: Is 1,23; Ger
7,6; Sal 82,3-4; Gb 29,13; Dio protegge queste categorie: Sal 68,6; 146,9).

IL MARE LONTANO

Il popolo della Bibbia, che ha origine nel deserto, non si è mai rivolto verso il mare.
A differenza dei popoli dell'area mediterranea, che a partire dal ll millennio a.C. hanno
progressivamente esercitato un dominio marittimo nella regione, gli ebrei non hanno
partecipato ad alcuna conquista sul mare né agli scambi economici intrapresi dai loro
vicini. [...] Israele, in quanto popolo, non si è mai avventurato sui mari e questa può essere
la ragione per cui in ebraico una sola parola, yam, indica il mare, il lago e anche il fiume (il
Nilo: Na 3,8; o l'Eufrate: Ger 51,36). La povertà del vocabolario che descrive le
imbarcazioni o le manovre nautiche manifesta un'evidente assenza di pratica in questo
campo, e se alcuni passi biblici possono riferirsi ai marinai (per esempio Sir 38,31-34), le
attività marittime non ispirano descrizioni precise. Rare sono le espressioni proverbiali
prese a prestito dal mare; che si tratti di viaggi, di affari o di attività manuali, esse non
rivelano mai un'esperienza marittima come avviene nella letteratura greca e latina.
Eppure, il popolo ebraico non ignora il mare che ossessiona i suoi vicini. La Bibbia si farà
eco di quelle navigazioni, giudicate pericolose se non spaventose per l'antico Israele, ma
ciò non porterà alla nascita di una cultura del mare. Eppure, paradossalmente, tutti o
quasi i libri biblici lo menzionano, senza per questo che il loro stile risulti lezioso. Essi non
hanno, al contrario della letteratura greca o latina, vere e proprie descrizioni marittime. E
non hanno eroi marittimi, a eccezione di due personaggi molto diversi tra loro: Giona,
figura letteraria del V secolo a.C. che conosce il mare per aver soggiornato nel mostro
marino, e l'apostolo Paolo, che nel I secolo d.C. osa avventurarsi nel Mediterraneo per
trasmettere il messaggio evangelico. Nessun Ulisse che, nonostante la paura, s'arrischi
sull'acqua. Nessun Enea che subisca il mare più di quanto lo cerchi.

CHANTAL REYNIER, La Bibbia e il mare, EDB, Bologna 2013, 5-9. Traduzione di R. Alessandrini.

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Il deserto e il decalogo

Lo straniero

Ma perché l'immigrante viene considerato sfavorito? Quale è la sua «povertà»? Per


capirlo meglio, occorre ricordare alcuni fatti semplici. Il mondo biblico, come il mondo
antico e molte società dei cosiddetti Paesi in via di sviluppo, è un mondo dove le relazioni
umane sono primordiali. La famiglia è il fondamento della società. Nessuna
organizzazione riesce a supplirla interamente. Lo «Stato-provvidenza» non esiste. La
previdenza sociale non è stata ancora inventata. Perciò l'immigrante, perché è quasi
sempre isolato, è privo dell'appoggio sociale indispensabile a proteggerlo. In più, per
ragioni ovvie, non può beneficiare di protezione politica come gli altri cittadini. La nazione
è vista, infatti, come una specie di estensione massima della famiglia (i membri di una
nazione sono i discendenti di un unico antenato). Certo, i limiti dell'analogia fra famiglia e
nazione sono palesi; però rimane vero che, idealmente, la solidarietà all'interno della
nazione doveva rassomigliare ai rapporti che esistono all'interno di una grande famiglia.

Una prima caratteristica del povero in genere, e del forestiero in particolare, sarà
quindi di non avere un appoggio umano, sociale o politico. Per questa ragione, la sua
situazione rimane sempre precaria. Di rado uno straniero può diventare ricco o acquistare
una posizione importante. La storia di Rut che mette in scena una donna, vedova e
straniera, è forse il miglior esempio nella Bibbia di questa situazione. Rut volle rimanere
con la sua suocera e tornò con lei a Betlemme. Per sopravvivere decise di andare a
spigolare nei campi altrui. Era uno dei diritti dei poveri nellaBibbia (cf. Lv 19,9-10; 23,22;
Dt 24,19-22). Ma non c'era molta speranza di migliorare la situazione. Il solo modo fu di
trovare un parente, cioè di trovare una «famiglia» per mezzo del matrimonio. Il racconto
sviluppa le varie vicende che conducono infine al matrimonio di Rut con Booz. Quell'atto
pone fine alla miseria di Rut e di Noemi, sua suocera.

La storia di Rut ci insegna almeno due cose. Primo, descrive in modo realistico la
situazione dell'immigrante, specialmente quando si tratta di una donna e di una vedova:
lo straniero è spesso povero, con poca speranza e pochi privilegi. Secondo, il racconto
mostra quale fu il mezzo adoperato per uscire dalla miseria e salire nella scala sociale: il
matrimonio, cioè il mondo delle relazioni umane fondamentali. Non si tratta di un mezzo
semplicemente economico, ma di una strategia che sa trarre profitto dalle possibilità
offerte dal mondo sociale. Rut trovò un «redentore», per usare il linguaggio biblico (Rt
3,9.12-13).

In altre parole, la situazione di povertà viene determinata in primo luogo, sembra,


dalla condizione sociale più che economica. Il povero, nella nostra mentalità è qualcuno
che non possiede niente o possiede molto poco. Nella Bibbia, la povertà economica
esiste, ma un certo numero di testi insiste piuttosto sul lato umano della condizione del
povero. Oltre la povertà economica, il povero non ha nessuno per aiutarlo. La povertà - o
la permanenza della condizione di povertà - viene spesso dalla mancanza di appoggio
umano sufficiente. E questo anche il caso d’Israele?

Tutto il popolo d'Israele viveva in una terra straniera. Ma il popolo soffre di


povertà? In realtà, non era il caso d'Israele all'inizio, perché il popolo poteva contare su
«qualcuno», cioè il faraone, amico di Giuseppe. I faraoni, per un certo tempo, si
ricordarono di Giuseppe. Si tratta anzitutto di un rapporto umano. La situazione cambia
quando arriva sul trono dell'Egitto «un faraone che non conosceva Giuseppe» (Es 1,8).
Manca la relazione umana di «conoscenza» e questo fatto capovolge la condizione
d'Israele che perde un sostegno indispensabile. E così il popolo cade nella categoria dei
«poveri», cioè degli sfavoriti della società che possono essere facilmente sfruttati. Il
faraone opprime Israele. In questo senso possiamo parlare di povertà a proposito
d'Israele in Egitto: è uno straniero che non ha nessuno per difenderlo quando viene
sfruttato e ridotto in servitù.

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Anzi, adesso Israele non è soltanto un forestiero vulnerabile, è schiavo. Il forestiero,


l'immigrante, gode di alcuni diritti. Ma uno schiavo nel mondo antico è un essere infra-
umano. Non ha più nessun diritto. Giuridicamente non esiste; è più vicino al mondo degli
animali che al mondo degli uomini perché non ha più nessuna difesa né politica, né
giuridica, né sociale. Per suffragare questa affermazione, possiamo citare un proverbio
della Mesopotamia:

L'uomo è l'ombra di un dio, uno schiavo è l'ombra di

un uomo; però il re è come la (vera) immagine di un dio

(proverbio del tempo di Esarhaddon, 680-669 ACN, cf. Anet, 426a).

Ma sarà possibile cambiare la situazione e come? Nella Bibbia, la domanda diviene


immediatamente: chi cambierà la situazione? Israele, come popolo, non ha nessuno,

sembra. Nessuno, fuorché Dio.

La Bibbia ricorda spesso l'intervento di Dio a favore d'Israele: infatti, il Dio d'Israele
è «il Signore che ha fatto uscire Israele dall'Egitto» (cf. per esempio Es 20,2). Sarà, per
così dire, la sua più grande prodezza, il suo più grande titolo e la sua vera gloria. Ma
perché Dio è intervenuto? Il racconto della Bibbia lo spiega in vari modi.

Nel Medio Oriente antico, uno dei primi compiti del sovrano era di difendere i
poveri e i deboli (cf. per esempio Sal 72 nella Bibbia). Un «visir» (il più importante ufficiale
civile dell'Egitto, incaricato, fra l'altro, dell'esercizio della giustizia a nome del suo
sovrano) afferma: «Ho salvato il timido dal violento» (Anet, 213a). Era quindi dovere del
faraone d'Egitto proteggere gli israeliti e ospiti del suo Paese. Egli invece fece il contrario.
Non si tratta solo di una situazione umanamente penosa.

La Bibbia però insiste piuttosto sul secondo aspetto del delitto del re d'Egitto.
Adopera una parola rara per descrivere il metodo scelto per ridurre Israele in schiavitù:
«brutalità», «violenza»:

E gli egiziani fecero lavorare (o ridussero in schiavitù) i figli di

Israele con brutalità. Amareggiarono la loro vita con lavoro pesante,

con l'argilla e i mattoni, con ogni genere di lavoro nei campi, con tutti

i lavori che fecero loro fare con brutalità (Es 1,13-14).

La parola «brutalità» si trova ogni volta alla fine della frase, in una posizione
enfatica. Ora questa parola (in ebraico: perek) appare in due contesti nella Bibbia. Il primo
è il libro del Levitico, in alcune leggi sugli schiavi, ove si dice che la Legge d'Israele
proibisce di trattare gli schiavi con «brutalità» (Lv 25,43.46.53). Il secondo è il libro di
Ezechiele, nel capitolo 34, un lungo oracolo contro i «pastori» (i re) d'Israele. Una delle
accuse di Dio contro i pastori del suo popolo è appunto di «aver governato con forza e
brutalità» («di aver pascolato le pecore con forza e brutalità», Ez 34,4). Il messaggio
sembra palese: un padrone non può trattare i suoi schiavi né un sovrano i suoi soggetti
«con brutalità». Il testo biblico di Es 1,13-14 sembra almeno suggerire nel suo uso della
parola «brutalità» che il faraone infrange una regola. Il caso è analogo: il faraone è il
sovrano, come i re d'Israele; diventa un padrone che comanda a un popolo di schiavi. In
ambedue i casi la brutalità è vietata.

La legge però è la Legge di Dio e non soltanto uno dei «diritti umani». Dio è il
custode dell'ordine sacro di uno Stato e solo Dio sta al di sopra del re. Se interviene, sarà
per far rispettare la sua Legge. Ma la Bibbia sembra indicare una direzione diversa. Dio
risponde al «grido» d'Israele (cf. per esempio Es 2,23-25; 3,7.9). Dio non interviene contro
il faraone ma piuttosto a favore d'Israele. Infatti, Dio è come un sovrano il cui primo
dovere è di salvare i poveri in pericolo. Il «grido» d'Israele, in questo contesto, è più di un
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gemito di sofferenza, diventa preghiera e appello con connotazioni giuridiche: è una


richiesta di aiuto indirizzata a un «giudice». Quindi Dio sta per prendere il posto del
faraone come difensore dei deboli.

Qui possiamo chiederci perché Israele si rivolge a Dio e perché Dio risponde al
grido d'Israele. Una prima ragione può essere perché egli è il sovrano, il giudice
universale. Ma c'è in più un'altra ragione: l'alleanza con i patriarchi (Es 2,24, cf. 6,5). C'è
una relazione stretta che unisce Dio a Israele. Dio ha concluso un'alleanza, un patto con
Abramo, Isacco e Giacobbe. La relazione è stata un'iniziativa di Dio, non di Israele. Perciò
Dio si è legato e il suo dovere adesso è di intervenire come farebbe in Israele il «parente
più stretto», il cosiddetto «redentore» (cf. Es 6,6; «vi riscatterò»).

L'uscita dall'Egitto

L'intervento di Dio sarà la liberazione d'Israele. Tutti conoscono bene la storia


dell'uscita dall'Egitto. Purtroppo, forse, non tutti sono abbastanza attenti all'originalità
della soluzione adottata da Dio. Dio non propone una rivoluzione di palazzo, la scelta di
un nuovo faraone; neanche preconizza un cambiamento strutturale, giuridico, politico, un
riconoscimento, da parte del faraone, dei diritti d'Israele; non si fa l'avvocato né di
trattative pacifiche e pazienti né di una rivoluzione armata. La liberazione, per Dio,
significa solo: «uscire», «partire». Pensa così fin dall'inizio e non cambierà parere: «Son
sceso per liberarlo (il mio popolo) dalla mano degli egiziani e per farlo salire da questa
terra a una terra buona e vasta, a una terra dove scorre il latte e il miele» (Es 3,8). Quando
Mosè inizierà le trattative col faraone, non farà concessioni: «Così dice il Signore: lascia
partire il mio popolo» (5,1; cf. 7,16.26; 8,16; 9,1.13; 10,3). Rimanere in Egitto, migliorare le
condizioni di vita sono temi ai quali Mosè non fa nessun accenno in questi capitoli.

Che cosa significa «partire», «uscire»? Il racconto dell’Esodo insiste su tre elementi
importanti: rottura completa con il passato, vissuta come una morte e l'entrata in una
nuova vita; esperienza di creazione; soggiorno nel deserto.

Lasciare l'Egitto significa non solo lasciare un Paese e un passato, significa pure
lasciare indietro un certo tipo di vita con le sue implicazioni. Significa una rottura di legami
inconsci e tale rottura è sempre dolorosa. Appena usciti dall'Egitto, infatti, i figli d'Israele
vorranno tornarvi:

E dissero a Mosè:

«Forse non vi erano abbastanza tombe in Egitto, sicché tu ci hai presi

per morire nel deserto? Che cosa hai fatto, facendoci uscire dall'Egitto?

Non era quello il discorso che ti facevamo in Egitto: "Lasciaci in pace,

serviamo l'Egitto perché preferiamo servire l’Egitto piuttosto che morire

nel deserto"?» (Es 14,11-12).

Bisognava scegliere fra l'Egitto e il deserto, perdere tutti i vantaggi della vita
egiziana e perderli per sempre. Israele se ne accorge ben presto. Durante tutto il
soggiorno nel deserto, la tentazione sarà la stessa: tornare in Egitto (Es 16,2-3; 17,3; Nm
11,4-6; 14,2; 20,2-5; 21,45; Sal 78,40). Per ritrovare questi vantaggi, il popolo era pronto a
riprendere la via che conduceva alla schiavitù. Paradossalmente, Israele preferiva la
schiavitù alla libertà. Non voleva tagliare i legami che lo trattenevano in Egitto. In questo
modo Dio dovette combattere su due fronti: contro l'Egitto, che non voleva perdere i suoi
schiavi, e contro Israele, che non voleva separarsi dai suoi padroni.

Il racconto del passaggio del mare descrive in termini simbolici e poetici questa
rottura con il Paese egiziano. Finalmente Dio e Mosè fanno attraversare il mare al popolo.
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Il passaggio si fa di notte. Nel mondo dei simboli, la notte e il mare corrispondono


al mondo della morte. Entrare nel mare e attraversare la notte significa entrare nel mondo
della morte, significa morire simbolicamente. Uscire dal mare e dalla notte significa
iniziare una vita nuova, al di là della notte e della morte, nella luce del mattino di un
mondo nuovo. Non è possibile sviluppare qui questo universo di simboli e di significati
abbastanza ricchi che ritroviamo nel rito del battesimo. Basta dire che Israele muore ed
entra in una vita nuova quando passa il Mare dei Giunchi. Muore al suo passato egiziano
per iniziare un'esperienza totalmente differente. Certo, il passaggio del mare inaugura
solo la trasformazione. Ma la rottura è compiuta. Israele, per così dire, ha bruciato i ponti.
Ormai il mare separa Israele dall'Egitto.

La nascita d'Israele come popolo è davvero un'opera del Dio creatore


dell'universo. Il racconto usa il vocabolario della creazione per descrivere la separazione
delle acque e l'apparizione della «terra asciutta» (vedi Es 14,16.22.29 e Gen 1,9-10).
Esodo 16 presenta un'altra funzione del Dio creatore: nutre il suo popolo, come ha dato
cibo alle creature dell'universo (vedi Es 16,15 e Gen 1,29-30; 6,21; 9,3 che contengono lo
stesso vocabolario). Pertanto il racconto biblico fa percepire l'evento dell'esodo come
una nuova creazione. Il Dio che salva Israele è il Creatore dell'universo e la liberazione
d'Israele è un'opera simile alla creazione stessa.

Questa esperienza del potere di Dio creatore contiene un ultimo elemento di rilievo.
La vera liberazione d'Israele significa liberazione non solo dall'Egitto e dalla schiavitù, ma
pure dalla mentalità di schiavo. E la radice della mentalità di schiavo è la paura. Quando i
figli d'Israele videro l'esercito egiziano che li aveva raggiunti presso il mare, «ebbero una
grande paura» (Es 14,10). Paura davanti al faraone e al suo esercito, paura di morire (cf.
Es 14,11-12). Il passaggio del mare obbliga Israele a superare la sua paura della morte:
entra nel mare e nella notte. Obbedisce così al consiglio di Mosè: «Non temete» (Es
14,13). Il passaggio del mare sarà allo stesso tempo un passaggio dalla paura davanti al
faraone al «timore di Dio» (cf. Es 14,31: «E il popolo temette il Signore e credette nel
Signore e in Mosè suo servo»).

Israele lascia indietro il suo passato di schiavo ma trova davanti a sé il deserto,


cioè il niente. L'esperienza del deserto è il momento decisivo e più difficile per Israele, è il
luogo dove Israele compie il tirocinio alla libertà. Li Israele impara la legge della
responsabilità e assimila progressivamente le strutture di un mondo dove i rapporti sociali
sono totalmente differenti.

Ma perché bisogna soggiornare nel deserto? Il deserto è il luogo della povertà


completa. Israele, nel deserto, è ancora più povero che in Egitto. Non ha niente. Non ha
nessuno, per parlare come la Bibbia. Non ha nessuno, salvo Dio. D'altra parte, se non c'è
niente, salvo Dio, è questo il luogo dove Dio può manifestare più chiaramente il suo
potere di creatore. L'esperienza d'Israele sarà quindi un'esperienza di dipendenza. Ma
non è forse proprio l'esperienza della povertà e di una povertà degradante?

Per rispondere alla domanda, bisogna sottolineare alcuni fatti. Primo, tutto il
popolo fa la stessa esperienza. Non vi sono differenze sociali: tutti hanno sete, tutti hanno
fame, tutti sono spossati. Le condizioni di vita sono esattamente le stesse. Il deserto fa
sparire tutte le distinzioni e crea un'uguaglianza altrimenti difficilmente realizzabile.

Secondo, tutti dipendono da Dio. Dal momento che tutti sono sprovvisti di tutto,
nessuno può sfruttare la situazione a suo favore. Nessuna classe, nessun gruppo riesce a
emergere o ad appropriarsi di beni che non esistono. L'esistenza è paragonabile a quella
di alcuni popoli che riescono solo a sopravvivere. Sono «società di sopravvivenza», come
le chiamano gli etnologi. Normalmente in queste società non ci sono strutture di potere,
perché la lotta per la vita quotidiana richiede tutte le energie e detta la condotta: gli
imperativi della natura sono troppo forti per lasciare spazio a decisioni umane di tipo
politico. La società d'Israele nel deserto è di questo tipo. Per esempio la manna (Es 16)
cade ogni giorno salvo il sabato, ma non è possibile conservarne il giorno dopo. Nessuno
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dunque può arricchirsi o fare commercio usando la manna. Ve n'è solo per una giornata e
la quantità che ciascuno raccoglie basta solo per la sua famiglia (Es 16,16-18). Ricchezza
e povertà non possono esistere in una tale società, nessuno è privilegiato. Per un
confronto, basta ricordare Gs 7. Il primo «peccato» commesso nella terra promessa fu
quello di Akan. Dopo la vittoria di Gerico e contro l'ordine di Dio, prese per sé qualche
oggetto dal bottino di guerra. Non resistette alla tentazione di arricchirsi, ma fu scoperto e
condannato (cf. At 5,1-11).

Terzo, la dipendenza da Dio è totale e uguale per tutti. Nemmeno Mosè o Aronne
possono godere una situazione privilegiata. Perciò Israele entra in un universo nuovo
dove fa l'esperienza della sua fragilità radicale, come popolo, e impara a ricevere ogni
giorno da Dio il dono dell'esistenza. L'esperienza è radicale nel senso che non si tratta
più di beni più o meno necessari. La posta in gioco non è un avere, un potere o un volere,
ma il vivere come tale. Spesso il popolo mormora perché sente la morte vicina. Questa
domanda cancella tutte le altre (cf. Es 16,3; 17,3; Nm 11,6; 14,2-3; 20,4; 21,5). In realtà, la
vita è impossibile nel deserto: nessuno ci abita (cf. Ger 2,6; 17,6; Is 34,10; Dt 8,15). Da
questo punto di vista, non vi sono differenze: la vita è la stessa per tutti. Tutto il popolo fa
la stessa esperienza, un'esperienza che crea solidarietà e getta le fondamenta di
un'esistenza dove le differenze di tipo economico spariscono.

Il decalogo

L'alleanza del Sinai risolve il problema delle differenze sociali fra ricchi e poveri?
Pochi testi trattano direttamente delle possibili tensioni fra classi sociali o dei doveri dei
ricchi verso i poveri. La ragione è semplice: non vi sono né ricchi né poveri in questo
momento. Davanti a Dio, che appare nell'impressionante teofania del Sinai, tutti sono
uguali. Ma qual é quest'uguaglianza? Un'analisi di Es 20,2 darà una prima risposta.
Quando Dio parla al suo popolo e proclama il decalogo, inizia il suo discorso così:

Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla

terra d'Egitto, dalla casa di schiavitù.

L'importanza della frase non può sfuggire. Il primo comandamento è in realtà un


riassunto della storia della salvezza. L'atto salvifico di Dio apre il discorso dell'alleanza e
della legislazione. La grazia precede la Legge, nell'Antico come nel Nuovo Testamento.
Se Dio può richiedere qualche cosa da Israele, è perché ha dato qualche cosa a Israele,
ha agito a suo favore.

Il favore di Dio non è un bene materiale, un contributo al benessere d'Israele o un


appoggio qualunque a un'impresa del popolo. Se Israele esiste, è a causa di Dio, Se non
vi fosse stato l'intervento di Dio, Israele non esisterebbe. E nel deserto, l'esistenza
d'Israele è un costante «prodigio», un «miracolo» permanente. Perciò il debito d'Israele
non è per un qualche particolare beneficio. Deve tutto al suo Signore. Non solo non ha
niente che non viene da lui, ma non è niente senza di lui.

Le implicazioni di questa affermazione sono numerose. Ci soffermeremo su tre


elementi e vedremo come il decalogo, il testo più importante dell'alleanza, illustri la
teologia contenuta in nuce in Es 20,2.

I due primi comandamenti del decalogo sono una conseguenza diretta


dell'affermazione di Es 20,2: per Israele «non c'è altro Dio che il Signore». In un linguaggio
un po' più moderno, potremmo probabilmente tradurre: «Israele non deve niente a
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nessun'altra potenza del mondo». Il secondo comandamento è molto esplicito a questo


proposito:

Non farti immagini, nessuna figura di quello che si trova nel cielo,

sopra, e sulla terra, sotto, e nelle acque sotto la terra (Es 20,4).

Il comandamento suppone una divisione dell'universo in tre parti, secondo la


cosmologia del tempo: cielo, terra, acque sotto la terra (oceano che sopporta la terra,
terra a galla sulle acque). Esclude dal culto d'Israele tutto ciò che contiene l'universo: il
Dio d'Israele è il Creatore e non una creatura. Questa distanza è infinita e niente
nell'universo creato può in modo adeguato rappresentare il Crea

tore.

Per illustrare meglio il significato del secondo comandamento e il suo rapporto con
il tema povertà/ricchezza conviene leggere Es 32, la storia del vitello d'oro. Lì, per la
prima volta, Israele disubbidisce, viola il secondo comandamento. Ma che cos'era il
vitello d'oro e perché Dio considerò questo peccato molto grave?

Il vitello d'oro fu fabbricato da Aronne. Aronne non voleva, di primo acchito,


sostituire il Signore con un'altra divinità. Il vitello d'oro era un modo di dare a Israele un
segno visibile della presenza del suo Dio. Il peccato, però, fu di aver «fatto», «fabbricato»,
questo segno. Dio stesso sceglie e dà i segni della sua presenza, non Israele. Dio ha fatto
Israele. Israele non può farsi il suo dio. Non può rovesciare il suo rapporto con Dio.

Il vitello era di metallo prezioso. Il metallo rappresenta nel mondo antico ricchezza,
potenza, solidità, permanenza. Aronne chiese al popolo tutti i suoi gioielli d'oro per fare il
vitello (Es 32,2-4). Non è semplice interpretare questo dato, ma si può pensare che Israele
volesse indicare che il vitello rappresentava un valore supremo, ciò che aveva di più
prezioso, più solido, una presenza permanente in mezzo al campo. Ma Dio rifiutò di
identificarsi con questi valori.

Infine occorre sottolineare che l'idolo è un vitello. Nel mondo antico, il vitello è la
divinità della fertilità e della fecondità (cf. la possibile allusione a orge sessuali in Es 32,6).
La fertilità dei campi e delle greggi era una condizione essenziale per la sopravvivenza in
una società sempre minacciata da catastrofi naturali. Nel deserto, la fertilità è ridotta al
minimo e possiamo pensare che Israele esprimesse nel culto del vitello d'oro il suo
desiderio di non soffrire più la fame.

La fecondità umana, il fatto di avere figli numerosi, era pure un fatto importante in
una società il cui fondamento era la famiglia. Una famiglia numerosa era garanzia di
sicurezza nei momenti difficili (cf. Sal 127,3-5; Dt 28,11; Rt 4,11; Gb 29,5; e le storie dei
patriarchi o di Anna, la madre di Samuele in 1 Sam 1). Insomma, Israele proietta nel suo
Dio la sua brama di sicurezza materiale simboleggiata dall'oro e dalla figura del vitello.

Ma perché Dio e Mosè reagiscono in modo così violento? Perché, molto


probabilmente, Israele rinnega le sue origini. Negare che il Signore sia il solo Dio d'Israele
significa rigettare la propria identità. La sicurezza materiale, la ricchezza, la fecondità dei
campi, di greggi o delle famiglie non può essere la salvezza d'Israele. Non è stato il
principio della sua esistenza e non può diventarlo. La radice della sua esistenza si trova
altrove.

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Il deserto e il decalogo

Il sabato

Un altro comandamento merita una spiegazione: il quarto che tratta del sabato (Es
20,8-10).

Ricordati del giorno del sabato per santificarlo; sei giorni lavorerai e farai

ogni tua opera; il settimo giorno è un sabato per il Signore tuo Dio;
non farai nessuna opera, tu, tuo figlio e tua figlia, tuo servo e tua serva,

il tuo bestiame e lo straniero che vive nelle tue città, perché in sei giorni

il Signore fece il cielo e la terra e il mare e tutto ciò che contengono e si

riposò il settimo giorno, perciò il Signore benedisse il giorno del

sabato e lo santificò.

Bisogna notare subito che il libro dell'Esodo collega il comandamento del sabato
con il racconto della creazione. Il libro del Deuteronomio farà il legame piuttosto con
l'esodo stesso (Dt 5,12-15). Perché questa menzione della creazione?

Forse conviene ancora una volta leggere un testo narrativo per capire un po'
meglio il senso dell'ordine di Dio. Es 16 racconta come Israele scoprì il sabato. Dio fece
cadere la manna ogni giorno, salvo il sabato. La ragione profonda si trova forse nel
versetto 29: «Dio vi ha dato il sabato». Il testo usa il verbo «dare», che usa pure per la
manna. Dio dà il cibo (versetti 8.15.29b) e Dio dà il tempo (versetto 29a). Sono due segni
della dipendenza dal Creatore. Chi non lavora il sabato riconosce che c'è un'opera più
importante della sua, quella di Dio. La vita è un dono, il tempo è un dono. La vita non è il
frutto del lavoro dell'uomo. Il comandamento del sabato ricorda la priorità del dono sulle
nostre realizzazioni umane, della gratuità del dono iniziale su tutte le altre iniziative. Vi è un
assoluto che relativizza il mondo della produzione economica (cf. Am 8,5 per una
conferma).

Oltre a ciò il sabato sopprime tutte le differenze sociali. Vale per tutti, persino per il
bestiame. Davanti all'opera di Dio creatore non conta altro. Lui solo è il Creatore. Tutto il
resto è creato. Questa differenza fa sparire tutte le altre, come per esempio quella fra
ricchi e poveri, o fra indigeni e stranieri. Per tutti, il tempo è un'esperienza della
condizione di creatura che riceve la vita e il tempo prima di poterli usare.

È forse il caso anche di menzionare, almeno brevemente, il comandamento che


proibisce di rubare. Spesso il testo ha fornito argomenti a coloro che volevano difendere
ad ogni costo la proprietà privata. Tuttavia sembra che questi argomenti si appoggino
piuttosto su elementi indispensabili per poter sopravvivere: la moglie (la famiglia), la casa,
il servo, la serva, il bue, l'asino (Es 20,17). Nel contesto dell'Esodo e delle condizioni di
vita della maggioranza della popolazione del mondo biblico, il testo che tratta del furto
sembra difendere l'esistenza dei piccoli proprietari. Rubare un asino o un bue non sembra
essere un furto raro (cf. Es 22,3). Ma il furto è grave. La legge parla in realtà dell'asino e
del bue al singolare. Molto spesso, il contadino ne aveva uno solo. Essere sprovvisto di
questi due animali rendeva il lavoro dei campi impossibile. La conseguenza era la miseria:
la vittima cadeva in una condizione di dipendenza. Ma chi poteva rubare, se non, molto
spesso, i potenti? (cf. 1Sam 8,11-17; 1Re 21,1-24; Nm 16,15; 1Sam 12,3; Is 5,8-10). Due
testi sono abbastanza chiari. In Nm 16,15, Mosè si adira contro i ribelli Datan e Abiram e
dice: «Neppure un asino ho preso a uno di loro e non ho fatto del male a nessuno di loro».
Samuele reagisce in maniera analoga in 1 Sam 12,3, quando vuole dimostrare la sua
innocenza: «Eccomi, rispondetemi dinanzi al Signore e davanti al suo messia
(consacrato): A chi ho preso il bue? A chi ho preso l'asino? A chi ho fatto l'estorsione?...».
Questi testi evidenzia no il sospetto che pesava sui capi e sui potenti. La tentazione di
rubare e di abusare della loro posizione era reale. Il re Davide «ruberà» la moglie del suo
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Il deserto e il decalogo

servitore Uria (2Sam 11). La storia di Nabot (1Re 21,1-24) è l'esempio più conosciuto di
un re (e di una regina) che non resistono alla tentazione di impadronirsi di un campo. In
conclusione, il comandamento difende soprattutto i più deboli contro i più potenti.

Alla luce di queste premesse, il codice dell'alleanza (Es 20,23) e certi

passi del Levitico acquistano un rilievo speciale.

Il codice dell'alleanza

Una lettura rapida del codice dell'alleanza (Es 20,22– 23,33) fa percepire
immediatamente che non siamo più nel deserto. Il destinatario delle leggi è un piccolo
pastore o un agricoltore. Il codice menziona spesso il bue, meno l'asino, ogni tanto la
pecora e la capra. Parla di campi di cereali, di vigneti e di oliveti (22,4-5; 23,1011). Il
popolo vive in case, non sotto tende (22,1). Non vi sono commercianti, artigiani,
funzionari, sacerdoti, militari in queste leggi (esistevano forse, ma non sono menzionati).
La maggioranza della popolazione è addetta alla produzione dei beni di prima necessità
(settore primario). Il codice si rivolge in primo luogo a loro. Come eccezioni, troviamo una
volta «capo» in 22,27 e una volta «arbitri» (?) in 21,22.

La stratificazione sociale è minima. Però vi sono poveri, deboli e sfavoriti


(22,24-26; 23,6.11; 23,3), schiavi e schiave (israeliti, verosimilmente: 21,2-11.26-27;
23,12; ecc.) e stranieri (22,20; 23,9.12). Infine la Legge protegge la vedova e l'orfano
(22,21-23). Come in tutto il mondo dell'Oriente antico, la legge difende i poveri e i deboli.
L'originalità della Bibbia si trova altrove, in alcuni fondamenti delle leggi: la sacralità della
vita e l'importanza dell'educazione.

In Mesopotamia, un delitto contro la proprietà è molto grave. Il castigo è spesso la


pena capitale. La proprietà sembra essere pertanto un elemento chiave della società
mesopotamica. Le cose sono alquanto diverse nel codice dell'alleanza. Il principio più
importante è il rispetto della vita e questo principio prevale su quello della proprietà. Per
esempio, c'è una legge che difende la vita del ladro (22,2), inoltre vi sono poche
differenze sociali di fronte alla legge, a differenza di quanto avviene in Mesopotamia. Gli
schiavi non vengono sempre trattati come uomini liberi (cf. 21,2-5.20-21.32), però la legge
li protegge esplicitamente (21,26-27: la «legge del taglione» vale anche per loro). La
sacralità della vita non cede il passo a nessun altro principio, sembra, nemmeno a quello
della proprietà che è all'origine delle differenze fra classi sociali.

L'importanza dell'educazione

L'Egitto non ci ha lasciato nessun codice di leggi. Forse perché il faraone, che era
un'incarnazione della divinità, non poteva essere sottomesso a un testo scritto. Era lui la
legge. La Mesopotamia, invece, ci ha lasciato famosi codici di legge (per esempio il
codice di Hammurabi). Ma le leggi mesopotamiche furono scritte soprattutto per i
funzionari, i giudici e gli ufficiali della corte. In Israele, la legge appartiene a tutti. Significa
che tutti sono responsabili davanti alla legge. Siccome l'autorità della legge non viene da
un re o da un gruppo di funzionari incaricati di farla rispettare, ma direttamente da Dio, la
forza della legge non viene tanto da un potere temuto o dalle sanzioni imposte.
L'«argomento persuasivo» è più frequente della «forza deterrente». Perciò il codice
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Il deserto e il decalogo

dell'alleanza utilizza spesso le cosiddette «sentenze esplicative». Nel codice dell'alleanza


sono molto più frequenti che nei codici extra-biblici (cf. 21,21; 22,20.26; 23,7.8.9.15).
Alcune leggi sono accompagnate solo da un motivo o non prevedono nessuna sanzione
esplicita (22,20; 23,1-19). Fra queste «sentenze esplicative», troviamo alcune volte la
menzione dell'esperienza dell'esodo (22,20: «Tu non molesterai il forestiero né
l'opprimerai, perché foste forestieri nella terra d'Egitto»; 23,9: «Non opprimerai il
forestiero: voi conoscete la vita del forestiero, poiché forestieri foste in terra d'Egitto»;
23,15: «Osserverai la festa degli Azzimi; per sette giorni mangerai azzimi, nella data
fissata del mese di Abib, perché in quello sei uscito dall'Egitto»). In questa maniera, le
leggi fanno appello piuttosto al profondo senso religioso e umano del popolo, cercano di
educare più che di impaurire. La legge d'Israele non è, in questo senso, una legge
imposta da un gruppo più potente a tutta la popolazione.

Questi pochi punti mostrano come l'esperienza dell'esodo pervade il corpo


legislativo d'Israele. I principi del codice dell'alleanza evidenziano un senso della sacralità
della vita e uno spirito molto democratico per quel tempo, altra conseguenza
dell'esperienza dell'esodo.

Le leggi del Levitico

Su alcuni punti particolari, il libro del Levitico è più radicale del libro dell'Esodo. Il
libro riflette una mentalità più matura. In gran parte fu scritto dopo l'esilio. Sono tre i segni
più importanti di questa mentalità: le leggi sugli schiavi, sugli stranieri e sulla proprietà.

Se il codice dell'alleanza suppone che vi siano schiavi israeliti, questo non è più
permesso dal Levitico. Gli schiavi possono essere solo stranieri (25,44). Le leggi sugli
schiavi e la schiavitù si imperniano su un principio che conclude tutte le leggi di Lv 25:

Poiché per me i figli d'Israele sono servitori, loro che ho fatto

uscire dalla terra d'Egitto. Sono io il Signore, vostro Dio (Lv 25,55).

Il popolo appartiene a Dio, e a Dio solo, perché lui solo l'ha liberato e ha dunque un
diritto sulla sua esistenza. L'esodo è quindi il fondamento del diritto alla libertà per tutti i
membri del popolo d'Israele:

Poiché coloro che ho fatto uscire dall'Egitto sono i miei servitori: non

devono essere venduti come si vendono gli schiavi (Lv 25,42).

Anche le leggi che prendono in considerazione gli stranieri sono differenti da quelle
che troviamo nell'Esodo. La legge va oltre il dovere di protezione, parla di un rapporto di
solidarietà:

Se verrà a stabilirsi presso di voi un immigrante, non molestarlo.

Come un oriundo tra di voi sarà colui che viene a stabilirsi presso di voi.
Lo amerai come te stesso, perché voi siete stati immigranti nella terra

d'Egitto. Io sono il Signore vostro Dio (19,33-34; cf. 25,35).

Lo straniero è assimilato al «fratello», al «prossimo». Notiamo che la Legge


prescrive di «amare» il forestiero, come lo stesso libro del Levitico prescrive di amare il

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Il deserto e il decalogo

prossimo: «Ama il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore» (19,18). Nuovamente
l'esperienza dell'esodo è fondamentale in questo contesto.

Quando le leggi trattano della proprietà, introducono un principio simile. Nessuno è


proprietario d'Israele, salvo Dio, come abbiamo visto. E nessuno sarà proprietario della
terra salvo Dio: «La terra non sarà venduta perdendone ogni diritto, perché mia è la terra e
voi siete residenti e ospiti presso di me» (25,23); «Io sono il Signore che vi ha fatto uscire
dalla terra d'Egitto, per darvi la terra di Canaan, per essere vostro Dio» (25,38). Le
conseguenze di questo principio vengono spiegate a lungo nel capitolo. Per esempio,
durante l'anno del Giubileo, tutte le terre e le case che uno ha dovuto vendere per pagare
i suoi debiti tornano al loro primo proprietario (Lv 25,8-38). Nel caso estremo nel quale
qualcuno ha dovuto vendersi come schiavo, la schiavitù non può durare: finisce con
l'anno del Giubileo (25,39-43). I limiti del diritto di proprietà e delle leggi economiche sono
molto precisi e i principi formulati con chiarezza.

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