CAPITOLO 6
Il deserto e il decalogo
L'Israele del deserto ricorda con nostalgia «le pentole di carne» dell'Egitto (Es 16,3).
Sappiamo però che la memoria può essere selettiva. Se leggiamo i primi quindici capitoli
dell'Esodo, il quadro è leggermente differente. Quale era la situazione d'Israele in Egitto?
Anzitutto Israele viveva in una terra straniera. Già qui dobbiamo notare una caratteristica
essenziale della situazione d'Israele: il popolo come popolo straniero. Non è l'esperienza
di qualche individuo, ma un'esperienza collettiva. L'esperienza d'Israele dell'essere
straniero in Egitto non corrisponde neanche a una divisione di classe all'interno del
popolo. Tutto il popolo, e non solo una classe, ha vissuto la stessa esperienza in terra
straniera. La Bibbia ricorda più di una volta questo fatto (Es 22,20; 23,9; Dt 10,19; 23,8;
cf. Sal 80,9). Ora lo «straniero» – sarebbe forse meglio dire «l'immigrante» – fa parte nella
Bibbia delle categorie sfavorite, con la vedova e l'orfano (cf. Es 22,21; soprattutto Dt
10,18; 24,17.21; 26,12-13; 27,19; vedi pure Is 1,17; Ger 22,3; in contrasto: Is 1,23; Ger
7,6; Sal 82,3-4; Gb 29,13; Dio protegge queste categorie: Sal 68,6; 146,9).
IL MARE LONTANO
Il popolo della Bibbia, che ha origine nel deserto, non si è mai rivolto verso il mare.
A differenza dei popoli dell'area mediterranea, che a partire dal ll millennio a.C. hanno
progressivamente esercitato un dominio marittimo nella regione, gli ebrei non hanno
partecipato ad alcuna conquista sul mare né agli scambi economici intrapresi dai loro
vicini. [...] Israele, in quanto popolo, non si è mai avventurato sui mari e questa può essere
la ragione per cui in ebraico una sola parola, yam, indica il mare, il lago e anche il fiume (il
Nilo: Na 3,8; o l'Eufrate: Ger 51,36). La povertà del vocabolario che descrive le
imbarcazioni o le manovre nautiche manifesta un'evidente assenza di pratica in questo
campo, e se alcuni passi biblici possono riferirsi ai marinai (per esempio Sir 38,31-34), le
attività marittime non ispirano descrizioni precise. Rare sono le espressioni proverbiali
prese a prestito dal mare; che si tratti di viaggi, di affari o di attività manuali, esse non
rivelano mai un'esperienza marittima come avviene nella letteratura greca e latina.
Eppure, il popolo ebraico non ignora il mare che ossessiona i suoi vicini. La Bibbia si farà
eco di quelle navigazioni, giudicate pericolose se non spaventose per l'antico Israele, ma
ciò non porterà alla nascita di una cultura del mare. Eppure, paradossalmente, tutti o
quasi i libri biblici lo menzionano, senza per questo che il loro stile risulti lezioso. Essi non
hanno, al contrario della letteratura greca o latina, vere e proprie descrizioni marittime. E
non hanno eroi marittimi, a eccezione di due personaggi molto diversi tra loro: Giona,
figura letteraria del V secolo a.C. che conosce il mare per aver soggiornato nel mostro
marino, e l'apostolo Paolo, che nel I secolo d.C. osa avventurarsi nel Mediterraneo per
trasmettere il messaggio evangelico. Nessun Ulisse che, nonostante la paura, s'arrischi
sull'acqua. Nessun Enea che subisca il mare più di quanto lo cerchi.
CHANTAL REYNIER, La Bibbia e il mare, EDB, Bologna 2013, 5-9. Traduzione di R. Alessandrini.
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Il deserto e il decalogo
Lo straniero
Una prima caratteristica del povero in genere, e del forestiero in particolare, sarà
quindi di non avere un appoggio umano, sociale o politico. Per questa ragione, la sua
situazione rimane sempre precaria. Di rado uno straniero può diventare ricco o acquistare
una posizione importante. La storia di Rut che mette in scena una donna, vedova e
straniera, è forse il miglior esempio nella Bibbia di questa situazione. Rut volle rimanere
con la sua suocera e tornò con lei a Betlemme. Per sopravvivere decise di andare a
spigolare nei campi altrui. Era uno dei diritti dei poveri nellaBibbia (cf. Lv 19,9-10; 23,22;
Dt 24,19-22). Ma non c'era molta speranza di migliorare la situazione. Il solo modo fu di
trovare un parente, cioè di trovare una «famiglia» per mezzo del matrimonio. Il racconto
sviluppa le varie vicende che conducono infine al matrimonio di Rut con Booz. Quell'atto
pone fine alla miseria di Rut e di Noemi, sua suocera.
La storia di Rut ci insegna almeno due cose. Primo, descrive in modo realistico la
situazione dell'immigrante, specialmente quando si tratta di una donna e di una vedova:
lo straniero è spesso povero, con poca speranza e pochi privilegi. Secondo, il racconto
mostra quale fu il mezzo adoperato per uscire dalla miseria e salire nella scala sociale: il
matrimonio, cioè il mondo delle relazioni umane fondamentali. Non si tratta di un mezzo
semplicemente economico, ma di una strategia che sa trarre profitto dalle possibilità
offerte dal mondo sociale. Rut trovò un «redentore», per usare il linguaggio biblico (Rt
3,9.12-13).
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Il deserto e il decalogo
La Bibbia ricorda spesso l'intervento di Dio a favore d'Israele: infatti, il Dio d'Israele
è «il Signore che ha fatto uscire Israele dall'Egitto» (cf. per esempio Es 20,2). Sarà, per
così dire, la sua più grande prodezza, il suo più grande titolo e la sua vera gloria. Ma
perché Dio è intervenuto? Il racconto della Bibbia lo spiega in vari modi.
Nel Medio Oriente antico, uno dei primi compiti del sovrano era di difendere i
poveri e i deboli (cf. per esempio Sal 72 nella Bibbia). Un «visir» (il più importante ufficiale
civile dell'Egitto, incaricato, fra l'altro, dell'esercizio della giustizia a nome del suo
sovrano) afferma: «Ho salvato il timido dal violento» (Anet, 213a). Era quindi dovere del
faraone d'Egitto proteggere gli israeliti e ospiti del suo Paese. Egli invece fece il contrario.
Non si tratta solo di una situazione umanamente penosa.
La Bibbia però insiste piuttosto sul secondo aspetto del delitto del re d'Egitto.
Adopera una parola rara per descrivere il metodo scelto per ridurre Israele in schiavitù:
«brutalità», «violenza»:
con l'argilla e i mattoni, con ogni genere di lavoro nei campi, con tutti
La parola «brutalità» si trova ogni volta alla fine della frase, in una posizione
enfatica. Ora questa parola (in ebraico: perek) appare in due contesti nella Bibbia. Il primo
è il libro del Levitico, in alcune leggi sugli schiavi, ove si dice che la Legge d'Israele
proibisce di trattare gli schiavi con «brutalità» (Lv 25,43.46.53). Il secondo è il libro di
Ezechiele, nel capitolo 34, un lungo oracolo contro i «pastori» (i re) d'Israele. Una delle
accuse di Dio contro i pastori del suo popolo è appunto di «aver governato con forza e
brutalità» («di aver pascolato le pecore con forza e brutalità», Ez 34,4). Il messaggio
sembra palese: un padrone non può trattare i suoi schiavi né un sovrano i suoi soggetti
«con brutalità». Il testo biblico di Es 1,13-14 sembra almeno suggerire nel suo uso della
parola «brutalità» che il faraone infrange una regola. Il caso è analogo: il faraone è il
sovrano, come i re d'Israele; diventa un padrone che comanda a un popolo di schiavi. In
ambedue i casi la brutalità è vietata.
La legge però è la Legge di Dio e non soltanto uno dei «diritti umani». Dio è il
custode dell'ordine sacro di uno Stato e solo Dio sta al di sopra del re. Se interviene, sarà
per far rispettare la sua Legge. Ma la Bibbia sembra indicare una direzione diversa. Dio
risponde al «grido» d'Israele (cf. per esempio Es 2,23-25; 3,7.9). Dio non interviene contro
il faraone ma piuttosto a favore d'Israele. Infatti, Dio è come un sovrano il cui primo
dovere è di salvare i poveri in pericolo. Il «grido» d'Israele, in questo contesto, è più di un
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Il deserto e il decalogo
Qui possiamo chiederci perché Israele si rivolge a Dio e perché Dio risponde al
grido d'Israele. Una prima ragione può essere perché egli è il sovrano, il giudice
universale. Ma c'è in più un'altra ragione: l'alleanza con i patriarchi (Es 2,24, cf. 6,5). C'è
una relazione stretta che unisce Dio a Israele. Dio ha concluso un'alleanza, un patto con
Abramo, Isacco e Giacobbe. La relazione è stata un'iniziativa di Dio, non di Israele. Perciò
Dio si è legato e il suo dovere adesso è di intervenire come farebbe in Israele il «parente
più stretto», il cosiddetto «redentore» (cf. Es 6,6; «vi riscatterò»).
L'uscita dall'Egitto
Che cosa significa «partire», «uscire»? Il racconto dell’Esodo insiste su tre elementi
importanti: rottura completa con il passato, vissuta come una morte e l'entrata in una
nuova vita; esperienza di creazione; soggiorno nel deserto.
Lasciare l'Egitto significa non solo lasciare un Paese e un passato, significa pure
lasciare indietro un certo tipo di vita con le sue implicazioni. Significa una rottura di legami
inconsci e tale rottura è sempre dolorosa. Appena usciti dall'Egitto, infatti, i figli d'Israele
vorranno tornarvi:
E dissero a Mosè:
per morire nel deserto? Che cosa hai fatto, facendoci uscire dall'Egitto?
Bisognava scegliere fra l'Egitto e il deserto, perdere tutti i vantaggi della vita
egiziana e perderli per sempre. Israele se ne accorge ben presto. Durante tutto il
soggiorno nel deserto, la tentazione sarà la stessa: tornare in Egitto (Es 16,2-3; 17,3; Nm
11,4-6; 14,2; 20,2-5; 21,45; Sal 78,40). Per ritrovare questi vantaggi, il popolo era pronto a
riprendere la via che conduceva alla schiavitù. Paradossalmente, Israele preferiva la
schiavitù alla libertà. Non voleva tagliare i legami che lo trattenevano in Egitto. In questo
modo Dio dovette combattere su due fronti: contro l'Egitto, che non voleva perdere i suoi
schiavi, e contro Israele, che non voleva separarsi dai suoi padroni.
Il racconto del passaggio del mare descrive in termini simbolici e poetici questa
rottura con il Paese egiziano. Finalmente Dio e Mosè fanno attraversare il mare al popolo.
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Il deserto e il decalogo
Questa esperienza del potere di Dio creatore contiene un ultimo elemento di rilievo.
La vera liberazione d'Israele significa liberazione non solo dall'Egitto e dalla schiavitù, ma
pure dalla mentalità di schiavo. E la radice della mentalità di schiavo è la paura. Quando i
figli d'Israele videro l'esercito egiziano che li aveva raggiunti presso il mare, «ebbero una
grande paura» (Es 14,10). Paura davanti al faraone e al suo esercito, paura di morire (cf.
Es 14,11-12). Il passaggio del mare obbliga Israele a superare la sua paura della morte:
entra nel mare e nella notte. Obbedisce così al consiglio di Mosè: «Non temete» (Es
14,13). Il passaggio del mare sarà allo stesso tempo un passaggio dalla paura davanti al
faraone al «timore di Dio» (cf. Es 14,31: «E il popolo temette il Signore e credette nel
Signore e in Mosè suo servo»).
Per rispondere alla domanda, bisogna sottolineare alcuni fatti. Primo, tutto il
popolo fa la stessa esperienza. Non vi sono differenze sociali: tutti hanno sete, tutti hanno
fame, tutti sono spossati. Le condizioni di vita sono esattamente le stesse. Il deserto fa
sparire tutte le distinzioni e crea un'uguaglianza altrimenti difficilmente realizzabile.
Secondo, tutti dipendono da Dio. Dal momento che tutti sono sprovvisti di tutto,
nessuno può sfruttare la situazione a suo favore. Nessuna classe, nessun gruppo riesce a
emergere o ad appropriarsi di beni che non esistono. L'esistenza è paragonabile a quella
di alcuni popoli che riescono solo a sopravvivere. Sono «società di sopravvivenza», come
le chiamano gli etnologi. Normalmente in queste società non ci sono strutture di potere,
perché la lotta per la vita quotidiana richiede tutte le energie e detta la condotta: gli
imperativi della natura sono troppo forti per lasciare spazio a decisioni umane di tipo
politico. La società d'Israele nel deserto è di questo tipo. Per esempio la manna (Es 16)
cade ogni giorno salvo il sabato, ma non è possibile conservarne il giorno dopo. Nessuno
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Il deserto e il decalogo
dunque può arricchirsi o fare commercio usando la manna. Ve n'è solo per una giornata e
la quantità che ciascuno raccoglie basta solo per la sua famiglia (Es 16,16-18). Ricchezza
e povertà non possono esistere in una tale società, nessuno è privilegiato. Per un
confronto, basta ricordare Gs 7. Il primo «peccato» commesso nella terra promessa fu
quello di Akan. Dopo la vittoria di Gerico e contro l'ordine di Dio, prese per sé qualche
oggetto dal bottino di guerra. Non resistette alla tentazione di arricchirsi, ma fu scoperto e
condannato (cf. At 5,1-11).
Terzo, la dipendenza da Dio è totale e uguale per tutti. Nemmeno Mosè o Aronne
possono godere una situazione privilegiata. Perciò Israele entra in un universo nuovo
dove fa l'esperienza della sua fragilità radicale, come popolo, e impara a ricevere ogni
giorno da Dio il dono dell'esistenza. L'esperienza è radicale nel senso che non si tratta
più di beni più o meno necessari. La posta in gioco non è un avere, un potere o un volere,
ma il vivere come tale. Spesso il popolo mormora perché sente la morte vicina. Questa
domanda cancella tutte le altre (cf. Es 16,3; 17,3; Nm 11,6; 14,2-3; 20,4; 21,5). In realtà, la
vita è impossibile nel deserto: nessuno ci abita (cf. Ger 2,6; 17,6; Is 34,10; Dt 8,15). Da
questo punto di vista, non vi sono differenze: la vita è la stessa per tutti. Tutto il popolo fa
la stessa esperienza, un'esperienza che crea solidarietà e getta le fondamenta di
un'esistenza dove le differenze di tipo economico spariscono.
Il decalogo
L'alleanza del Sinai risolve il problema delle differenze sociali fra ricchi e poveri?
Pochi testi trattano direttamente delle possibili tensioni fra classi sociali o dei doveri dei
ricchi verso i poveri. La ragione è semplice: non vi sono né ricchi né poveri in questo
momento. Davanti a Dio, che appare nell'impressionante teofania del Sinai, tutti sono
uguali. Ma qual é quest'uguaglianza? Un'analisi di Es 20,2 darà una prima risposta.
Quando Dio parla al suo popolo e proclama il decalogo, inizia il suo discorso così:
Non farti immagini, nessuna figura di quello che si trova nel cielo,
sopra, e sulla terra, sotto, e nelle acque sotto la terra (Es 20,4).
tore.
Per illustrare meglio il significato del secondo comandamento e il suo rapporto con
il tema povertà/ricchezza conviene leggere Es 32, la storia del vitello d'oro. Lì, per la
prima volta, Israele disubbidisce, viola il secondo comandamento. Ma che cos'era il
vitello d'oro e perché Dio considerò questo peccato molto grave?
Il vitello era di metallo prezioso. Il metallo rappresenta nel mondo antico ricchezza,
potenza, solidità, permanenza. Aronne chiese al popolo tutti i suoi gioielli d'oro per fare il
vitello (Es 32,2-4). Non è semplice interpretare questo dato, ma si può pensare che Israele
volesse indicare che il vitello rappresentava un valore supremo, ciò che aveva di più
prezioso, più solido, una presenza permanente in mezzo al campo. Ma Dio rifiutò di
identificarsi con questi valori.
Infine occorre sottolineare che l'idolo è un vitello. Nel mondo antico, il vitello è la
divinità della fertilità e della fecondità (cf. la possibile allusione a orge sessuali in Es 32,6).
La fertilità dei campi e delle greggi era una condizione essenziale per la sopravvivenza in
una società sempre minacciata da catastrofi naturali. Nel deserto, la fertilità è ridotta al
minimo e possiamo pensare che Israele esprimesse nel culto del vitello d'oro il suo
desiderio di non soffrire più la fame.
La fecondità umana, il fatto di avere figli numerosi, era pure un fatto importante in
una società il cui fondamento era la famiglia. Una famiglia numerosa era garanzia di
sicurezza nei momenti difficili (cf. Sal 127,3-5; Dt 28,11; Rt 4,11; Gb 29,5; e le storie dei
patriarchi o di Anna, la madre di Samuele in 1 Sam 1). Insomma, Israele proietta nel suo
Dio la sua brama di sicurezza materiale simboleggiata dall'oro e dalla figura del vitello.
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Il deserto e il decalogo
Il sabato
Un altro comandamento merita una spiegazione: il quarto che tratta del sabato (Es
20,8-10).
Ricordati del giorno del sabato per santificarlo; sei giorni lavorerai e farai
ogni tua opera; il settimo giorno è un sabato per il Signore tuo Dio;
non farai nessuna opera, tu, tuo figlio e tua figlia, tuo servo e tua serva,
il tuo bestiame e lo straniero che vive nelle tue città, perché in sei giorni
sabato e lo santificò.
Bisogna notare subito che il libro dell'Esodo collega il comandamento del sabato
con il racconto della creazione. Il libro del Deuteronomio farà il legame piuttosto con
l'esodo stesso (Dt 5,12-15). Perché questa menzione della creazione?
Forse conviene ancora una volta leggere un testo narrativo per capire un po'
meglio il senso dell'ordine di Dio. Es 16 racconta come Israele scoprì il sabato. Dio fece
cadere la manna ogni giorno, salvo il sabato. La ragione profonda si trova forse nel
versetto 29: «Dio vi ha dato il sabato». Il testo usa il verbo «dare», che usa pure per la
manna. Dio dà il cibo (versetti 8.15.29b) e Dio dà il tempo (versetto 29a). Sono due segni
della dipendenza dal Creatore. Chi non lavora il sabato riconosce che c'è un'opera più
importante della sua, quella di Dio. La vita è un dono, il tempo è un dono. La vita non è il
frutto del lavoro dell'uomo. Il comandamento del sabato ricorda la priorità del dono sulle
nostre realizzazioni umane, della gratuità del dono iniziale su tutte le altre iniziative. Vi è un
assoluto che relativizza il mondo della produzione economica (cf. Am 8,5 per una
conferma).
Oltre a ciò il sabato sopprime tutte le differenze sociali. Vale per tutti, persino per il
bestiame. Davanti all'opera di Dio creatore non conta altro. Lui solo è il Creatore. Tutto il
resto è creato. Questa differenza fa sparire tutte le altre, come per esempio quella fra
ricchi e poveri, o fra indigeni e stranieri. Per tutti, il tempo è un'esperienza della
condizione di creatura che riceve la vita e il tempo prima di poterli usare.
servitore Uria (2Sam 11). La storia di Nabot (1Re 21,1-24) è l'esempio più conosciuto di
un re (e di una regina) che non resistono alla tentazione di impadronirsi di un campo. In
conclusione, il comandamento difende soprattutto i più deboli contro i più potenti.
Il codice dell'alleanza
Una lettura rapida del codice dell'alleanza (Es 20,22– 23,33) fa percepire
immediatamente che non siamo più nel deserto. Il destinatario delle leggi è un piccolo
pastore o un agricoltore. Il codice menziona spesso il bue, meno l'asino, ogni tanto la
pecora e la capra. Parla di campi di cereali, di vigneti e di oliveti (22,4-5; 23,1011). Il
popolo vive in case, non sotto tende (22,1). Non vi sono commercianti, artigiani,
funzionari, sacerdoti, militari in queste leggi (esistevano forse, ma non sono menzionati).
La maggioranza della popolazione è addetta alla produzione dei beni di prima necessità
(settore primario). Il codice si rivolge in primo luogo a loro. Come eccezioni, troviamo una
volta «capo» in 22,27 e una volta «arbitri» (?) in 21,22.
L'importanza dell'educazione
L'Egitto non ci ha lasciato nessun codice di leggi. Forse perché il faraone, che era
un'incarnazione della divinità, non poteva essere sottomesso a un testo scritto. Era lui la
legge. La Mesopotamia, invece, ci ha lasciato famosi codici di legge (per esempio il
codice di Hammurabi). Ma le leggi mesopotamiche furono scritte soprattutto per i
funzionari, i giudici e gli ufficiali della corte. In Israele, la legge appartiene a tutti. Significa
che tutti sono responsabili davanti alla legge. Siccome l'autorità della legge non viene da
un re o da un gruppo di funzionari incaricati di farla rispettare, ma direttamente da Dio, la
forza della legge non viene tanto da un potere temuto o dalle sanzioni imposte.
L'«argomento persuasivo» è più frequente della «forza deterrente». Perciò il codice
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Il deserto e il decalogo
Su alcuni punti particolari, il libro del Levitico è più radicale del libro dell'Esodo. Il
libro riflette una mentalità più matura. In gran parte fu scritto dopo l'esilio. Sono tre i segni
più importanti di questa mentalità: le leggi sugli schiavi, sugli stranieri e sulla proprietà.
Se il codice dell'alleanza suppone che vi siano schiavi israeliti, questo non è più
permesso dal Levitico. Gli schiavi possono essere solo stranieri (25,44). Le leggi sugli
schiavi e la schiavitù si imperniano su un principio che conclude tutte le leggi di Lv 25:
uscire dalla terra d'Egitto. Sono io il Signore, vostro Dio (Lv 25,55).
Il popolo appartiene a Dio, e a Dio solo, perché lui solo l'ha liberato e ha dunque un
diritto sulla sua esistenza. L'esodo è quindi il fondamento del diritto alla libertà per tutti i
membri del popolo d'Israele:
Poiché coloro che ho fatto uscire dall'Egitto sono i miei servitori: non
Anche le leggi che prendono in considerazione gli stranieri sono differenti da quelle
che troviamo nell'Esodo. La legge va oltre il dovere di protezione, parla di un rapporto di
solidarietà:
Come un oriundo tra di voi sarà colui che viene a stabilirsi presso di voi.
Lo amerai come te stesso, perché voi siete stati immigranti nella terra
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Il deserto e il decalogo
prossimo: «Ama il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore» (19,18). Nuovamente
l'esperienza dell'esodo è fondamentale in questo contesto.
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