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IL SEME DELL’INTOLLERANZA
Ebrei, Eretici, Selvaggi: Granada 1492
© 2011, Fondazione Eventi -
Fondazione Carispe
Published by arrangement with
Marco Vigevani Agenzia Letteraria
Prima edizione 2011
ISBN 978-88-97544-01-2
alla memoria di Armando
Saitta,
«Rio Darro»
Introduzione
La recente scoperta che nella mappa del genoma umano non esiste il gene
della razza ha destato scarsa meraviglia: da tempo sappiamo che le differenze
fisiche su cui si reggono i discorsi di tipo razzistico non hanno fondamento.
Non esiste il «sangue blu» della nobiltà. Non esiste la puzza dell’ebreo. È
esistita una classe di persone che si faceva vanto di non dover esercitare
nessuna attività manuale per vivere: e l’assenza di lavoro manuale si rivelava
in una epidermide delicata che lasciava trasparire una rete venosa azzurrina,
invisibile sotto la pelle callosa di contadini, marinai, commercianti. Ed è
esistita la costrizione del ghetto che, chiudendo in spazi ristretti e senza acqua
corrente la popolazione ebraica, giustificava après coup gli odori acri di corpi
e di ambienti attribuendoli alla «natura» degli ebrei. È esistita la pratica di
battere con nerbate gli schiavi africani: dal che, rovesciando la cultura in
natura, si ricavò la tesi che la pelle dei neri fosse diversa da quella dei
bianchi, destinata a ricevere bastonate perché diversamente spessa e robusta
rispetto a quella dei bianchi. Era la natura dei corpi dei neri africani a
denotare la destinazione razziale al lavoro schiavile e non viceversa. Non
molto diversa è oggi la condizione delle minoranze di immigrati o di
marginali nei paesi ricchi, che vengono sottoposte allo stesso meccanismo di
disumanizzazione attraverso il mezzo semplicissimo della limitazione dei
diritti. «Come la parità nei diritti – ha scritto Luigi Ferrajoli – genera il senso
dell’uguaglianza basata sul rispetto dell’altro come uguale, così la
diseguaglianza nei diritti genera l’immagine dell’altro come diseguale, ossia
inferiore antropologicamente proprio perché inferiore giuridicamente»1.
In tutti questi casi siamo sempre davanti a quella forma di esclusione
sociale dettata dal potere che consiste nell’invenzione di una barriera della
diversità: da una parte il vero essere umano, dall’altra il non-uomo. Come ha
osservato George Mosse, al posto della persona in carne ed ossa il punto di
vista razzista mette uno stereotipo umano. Il che consente il sistematico
rovesciamento ideologico dei dati reali e la costruzione di piramidi di
sopraffazioni su finte basi naturali.
Dunque, ogni volta dietro la supposta differenza di natura è emersa una
differenza di potere. Ma, se queste antiche legittimazioni della violenza e
dello sfruttamento sono diventate nel nostro presente del tutto prive di
credibilità, non per questo è venuta meno la produzione di «diversi», di
frazioni di umanità a regime speciale, prive di diritti, offerte al disprezzo e
all’odio delle maggioranze di «normali». L’esperienza del passato si
rispecchia in quella del presente. Se sul piano teorico le pretese di verità delle
teorie razzistiche sono state smascherate senza possibilità di difesa, sul piano
dei rapporti sociali si riaffacciano di nuovo ogni qualvolta i rapporti di potere
riaprono una fessura in questa direzione.
Abbiamo ricordato sopra che il gene della razza non esiste, ma siamo
sempre davanti a quella forma di esclusione sociale consistente
nell’invenzione di una barriera naturale della diversità: da una parte il vero
essere umano, dall’altra il non-uomo.
Sullo sfondo si avverte la ripresa dell’antisemitismo, o almeno il suo
instancabile riaffacciarsi nel discorso pubblico uscendo dal silenzio e dalla
vergogna in cui la Shoah l’aveva costretto. Verrebbe da pensare che la storia
si ripete. È una considerazione sconfortata che ha sempre goduto di larga
diffusione, come se dovessimo arrenderci davanti alle ripetute cadute
dell’intelligenza dell’homo sapiens nella barbarie. La guerra contro l’altro è
eterna, si legge nel titolo di una fortunata e vivacissima rassegna delle forme
di discriminazione, da quelle delle grandi tragedie del passato alle «piccole
storie ignobili» dei nostri giorni (piccole per chi non ne è la vittima,
naturalmente)2.
Dobbiamo dunque rassegnarci a riconoscere che qualcosa di naturale
esiste nei dati morali dell’umanità, che il costume dell’avversione verso
l’«altro» è iscritto – esso sì – nei nostri geni e che la pianta umana è un albero
storto, come ammetteva anche Kant, che mal si piega alla regola dei diritti?
Prima di chiudere con questa sconsolata ammissione, è forse il caso di
rovesciare i termini della questione e di concentrare l’attenzione non su
ipotetici fattori naturali della differenza e dell’ostilità fra esseri umani, ma sui
dati storici e sui meccanismi sociali che hanno dato vita alle forme
dell’esclusione. Non senza aver ricavato un’ultima osservazione dai risultati
della mappatura del genoma umano: a quanto si è scoperto, solo un numero
assai ridotto di geni identifica la specie umana, differenziandola da altre
specie animali che consideriamo inferiori. Nel corso dell’evoluzione delle
specie, quegli altri animali sono stati battuti e assoggettati dagli uomini. Allo
storico viene in mente l’immagine della ghianda e della quercia usata da
Marc Bloch per riassumere il senso del mutamento storico: lo sviluppo nel
tempo delle civiltà è come quello che dalla ghianda porta alla quercia,
dipende dal terreno. La risposta agli stimoli e alle occasioni offerte
dall’ambiente è la causa dello sviluppo. E Bloch aggiungeva: gli uomini sono
figli dei loro tempi più che dei loro padri.
Riconoscerlo è accettare una grande lezione, simile a quella che venne
data secoli fa dalla scoperta di Niccolò Copernico. Non siamo il centro
dell’universo; non siamo stati dotati – dalla natura, da Dio – di qualità
speciali. La specie umana si è evoluta: siamo arrivati a mandare astronavi
fuori dell’atmosfera e a contare i geni del Dna. Ma ogni nuova scoperta
scaturita dai viaggi negli spazi esterni e in quelli a noi interni ci rimanda a
delle verità amare: soli e sperduti in un angolo dell’universo, dividiamo il
nostro ambiente naturale con altre specie che abbiamo imparato a dominare e
a sfruttare, ma senza che questo discenda da un decreto originario e
immutabile e senza che si possano dire risolti i problemi di sopravvivenza
della nostra specie. Da ciò, il bisogno di ripercorrere la strada fatta con gli
strumenti della conoscenza storica per riconoscere gli errori di percorso, per
tenerne conto nel correggere – se possibile – la rotta.
IL SEME DELL’INTOLLERANZA
Ebrei, eretici, selvaggi: Granada 1492
Parte prima
ALLE ORIGINI DELL’ANTISEMITISMO
1.
1492, INIZIO DELLA STORIA MODERNA
1. In Spagna
L’efficacia dell’opera svolta dall’Inquisizione fu grandissima. La si
potrebbe riassumere con le parole di Francesco Guicciardini, che fu
ambasciatore in Spagna nel 1512:
Nelle cose della fede providono, ordinando con autorità apostolica inquisitori per tutto el regno, che
hanno, confiscando e’ beni di chi si trovava culpato, ed ardendo le persone qualche volta, sbigottito
ognuno; e fu talvolta che a Corduba arsono in una mattina cento e dugento persone, in modo che infiniti
se ne partirono, che erano infetti; quegli che sono rimasti la vanno simulando, ma è opinione che se la
paura cessassi, ancora assai ne tornerebbono al vomito [...]. Giustamente fu dato loro [ai sovrani] dal
papa il nome di Catolici re. In modo che oggi in tutta Spagna non abita se non cristiani, eccetto che ne’
regni di Aragona dove abitano moltissimi Mori, usando loro moschee e cerimonie; e ve li hanno
soportati lunghissimo tempo quegli re, perché pagano dazi assai1.
Come ben vide Guicciardini, la macchina messa in opera era dunque tale
da sbigottire. Il segreto della sua potenza era molto semplice. L’inquisitore
operava sulla base della delega papale: era dunque titolare dell’autorità
apostolica e come tale superiore a qualsiasi altro tribunale. Chi gli resisteva
incorreva nell’accusa di eresia e veniva punito con la confisca dei beni e con
l’arresto. A quella papale si sommava l’autorità del sovrano che garantiva ai
frati l’appoggio di una protezione armata. L’istituzione funzionò sulla base di
una rigida gerarchia che sottoponeva i commissari locali alle direttive di un
Consiglio centrale della «Suprema e universale Inquisizione» informata sui
processi attraverso le «relazioni di cause». Bastava il nome della «Suprema»
per terrorizzare. Davanti a lei non si poteva opporre alcun privilegio:
nemmeno quello dei Grandi di Spagna, l’élite di potere di cui i sovrani
dovevano tenere conto in ogni momento per la loro politica, soprattutto per
quanto riguardava i legami di fedeltà alla corona e la necessità di aiuto
militare2. E non è certo trascurabile l’impor-tanza finanziaria della regola che
imponeva il sequestro dei beni dei «rei» al primo avvio del procedimento
inquisitoriale: il sovrano si impadroniva per questa via di risorse finanziarie
che lo rendevano indipendente dai contributi fiscali di una società dove
l’esenzione fiscale copriva nobiltà e clero.
Una imponente attività processuale si sviluppò con l’arresto, la tortura, il
sequestro dei beni e il rogo di un gran numero di persone. Ma l’efficacia
dell’opera del tribunale non si misura solo con i dati dell’attività giudiziaria
pura e semplice. La sua presenza bastò a creare una nuvola di terrore
all’orizzonte delle comunità ebraiche. L’accusa di «giudaizzare» si prestò a
usi ricattatori nelle controversie private, nei conflitti di potere o nei tentativi
di impadronirsi dei beni di qualcuno. Fu per questa via che nelle comunità
cittadine e nei corpi più potenti e influenti dell’ordinamento spagnolo si
giunse all’esclusione di tutti i conversos. Non seguiremo gli sviluppi
dell’azione dell’Inquisizione: basterà dire che intorno alla sua struttura e al
suo operato si sviluppò una lotta sorda da parte di chi tentava di limitare lo
strapotere del nuovo organismo e di criticarne le procedure. La garanzia del
segreto sui nomi degli accusatori apriva la via a delazioni e calunnie di ogni
genere. E l’uso della tortura fu caratterizzato da forme di arbitrio
incontrollato. Non mancarono resistenze e reazioni. La destituzione
dell’inquisitore generale Diego de Deza nel 1508, sostituito col cardinale
Francisco Jiménez de Cisneros, fu l’esito di uno dei momenti di tale conflitto.
L’oggetto primario dell’opera del nuovo tribunale fu a lungo connotato
esclusivamente dai conversos. Solo col secondo decennio del Cinquecento si
affacciarono nuove figure di eretici, gli alumbrados. Nel 1525 fu convocata
una giunta per discutere la questione dei moriscos, mentre nel 1527 una
giunta fu convocata a Valladolid per discutere il caso della diffusione di
scritti e di idee di Erasmo da Rotterdam. Ma intanto si faceva strada la tesi
della differenza di natura tra gli ebrei e i cristiani: e si spostava qui il conflitto
con la minoranza di origine ebraica che era rimasta dopo il 1492 accettando il
battesimo. La scelta politica del sovrano era stata quella di cancellare la
differenza religiosa che gli impediva di mettere d’accordo l’imperiosa
esigenza di compattezza religiosa del suo Stato col bisogno di sfruttare le
speciali capacità culturali e commerciali della minoranza ebraica. La reazione
che prese corpo non si limitò a sospettare di insincerità la conversione al
cristianesimo, ma si richiamò alla tesi di una differenza incancellabile
depositata nel sangue degli ebrei e trasmessa ereditariamente: una differenza
che rendeva tutti i discendenti di ebrei inaffidabili, infidi, pronti al
tradimento. E per questo – se ne deduceva – dovevano essere esclusi da ogni
possibilità di essere ammessi all’interno degli organismi più importanti e più
delicati della società spagnola, quelli dove gli ordini privilegiati del regno
collocavano i loro membri. Come abbiamo visto, la prima introduzione della
clausola della limpieza de sangre come sbarramento contro i «conversi» si
ebbe a Toledo nel 1449, con l’approvazione di uno statuto che vietava loro
l’accesso al capitolo della cattedrale. Da lì il meccanismo dell’esclusione
doveva dilatarsi ed estendersi a interi ordini religiosi e a ogni corporazione,
tagliando fuori chi era di discendenza ebraica dai corpi più importanti e
influenti della società. Lo stesso dicasi a maggior ragione per l’Inquisizione,
perché non si poteva consentire che la milizia creata per proteggere la
purezza della fede fosse inquinata dalla presenza di sangue ebraico. Dai
vertici della società si venne scendendo fino alle confraternite religiose e ai
collegi universitari. Il più sollecito a introdurre norme precise a questo
riguardo fu l’organismo più antico e più significativo, l’ordine di Santiago
Matamoros, l’antico ordine monasticomilitare. Nelle prove per l’ammissione
all’ordine si impose di verificare se il candidato era discendente di cristiani
«viejos, limpios», o se invece derivava da «raza de judío, moro, o
converso»3. Ma fu con l’avvio dell’opera dell’Inquisizione costruita da
Torquemada che il ricorso sistematico al sospetto nei confronti dei
«conversi» si rivelò in tutta la sua devastante violenza. Ne fu vittima un
intero ordine religioso, quello dei geronimiani tra il 1486 e il 1487. E da
allora in poi gli statuti di esclusione dei «cristiani nuovi» si diffusero a
valanga. Il laborioso sistema del processo di accertamento inquisitoriale a
carico dei sospettati o accusati di falsa conversione o di ritorno all’ebraismo
fece crescere un clima di inquietudine e di incertezza nella società che non
risparmiò nessuna istituzione. L’ossessione della purezza del sangue si
diffuse fino a permeare profondamente il funzionamento delle istituzioni e le
vite dei singoli. Per i «conversi» divenne un’abitudine quella di vivere
simulando e dissimulando, come scrisse nei suoi versi il medico e poeta
Francisco López de Villalobos: «Y vivo disimulando / mil angustias
lastimeras, / que me hieren lastimando / y, con risa simulada, / disimulo el
llanto cierto»4.
La svolta del 1492, cancellando la presenza degli ebrei dalla Spagna, ben
lungi dal mettere fine all’odio religioso nei loro confronti, accelerò la sua
trasformazione in odio razziale. Da allora in avanti, la caccia al sangue
giudaico, come macchia incancellabile e segreta che poteva essere nascosta
nella storia genealogica di qualsiasi persona, mise in moto interminabili
inchieste, che il segreto rendeva ancor più inquietanti e temute e che si
concludevano spesso con misure durissime per i beni e per la vita di chi ne
era la vittima. Le carte processuali del tribunale della fede venivano
consultate alla ricerca di eventuali antenati della persona sospettata: e così la
condanna del passato ne produceva a cascata altre nel presente. Gli archivi
dell’Inquisizione spagnola portano testimonianze dell’accanito impegno che
quel tribunale investì nella direzione della ricerca di tracce del sangue
impuro. L’Andalusia, terra di presenze inquietanti di altre culture e religioni,
ne fece le spese in modo particolare5.
Al versante propriamente inquisitoriale di questa storia si accompagnò,
come abbiamo visto, quello delle norme di esclusione approvate via via da
ogni genere di corporazione, laica o religiosa: già nel primo Cinquecento
l’obbligo di accertare la genealogia dei propri membri si era estesa fino alle
minori corporazioni di mestiere e alle confraternite cittadine. Nella
confraternita di Santa Maria a Saragozza la questione della verifica della
limpieza de sangre comparve negli statuti fin dal 1528. E scattarono i
processi: bastava il sospetto che uno dei membri avesse un nome di origine
ebraica per avviare ricerche, individuare e ascoltare testimoni, ricostruire
genealogie risalendo lontano nel tempo. Fu una vera ossessione che portò a
una infinita ricerca di informazioni sulla genealogia di chi si candidava per
entrare a far parte di una corporazione, una confraternita, un capitolo
canonicale. E questo riguardò perfino chi si candidava per i Colegios
mayores di Salamanca e di Bologna, le istituzioni universitarie dove si
formavano i letrados, cioè il personale burocratico di cui il grande impero
spagnolo aveva necessità. Era un percorso battuto dai giovani che cercavano
di sfuggire a un destino di povertà attraverso gli studi, residua porta di
accesso alle rendite e agli onori dell’ufficio. L’ammissione al collegio o
colegiatura era il primo varco che attraverso l’ufficio e la connessa prebenda
apriva le porte per l’ingresso nella nobiltà. Era il mondo del privilegio che
schiudeva le sue porte: questo spiega perché la battaglia sulle genealogie dei
candidati, che era dovunque accanita e senza esclusione di colpi, qui mettesse
in gioco gente del popolo, legata da vincoli di vicinato quotidiano con le
famiglie dei giovani concorrenti. La genealogia del giovane che bussava alla
porta del collegio veniva vagliata attraverso indagini di informatori che
raccoglievano testimonianze giurate sulla sua famiglia di origine. Bisognava
escludere che nella linea degli ascendenti del candidato ci fossero state
persone della «razza», ebrei o mori. La lettura della documentazione raccolta
negli archivi dei collegi fa emergere tutta l’incertezza dell’operazione e tutti i
complicati legami di amicizia o di ostilità che entravano in gioco. Basti dire
che la norma del segreto, ufficialmente richiesto a tutti per tutelare la
regolarità delle inchieste, veniva aggirata tranquillamente. Inoltre i testimoni
potevano essere comprati o intimiditi. Ed erano in genere restii a fare
dichiarazioni che potevano creare loro inimicizie e fastidi. Per farli parlare si
ricorreva alle minacce e all’esibizione di titoli di autorità di pura invenzione.
E non era infrequente il caso di testimoni che, stretti fra diverse forze in
gioco, correggevano e smentivano le prime dichiarazioni. La memoria lunga
del villaggio e la trasmissione orale dei nomi e dei ricordi genealogici era
quella tipica delle società preindustriali6. Ma nel caso spagnolo quella
memoria era attivata in una direzione del tutto diversa da quello che accadeva
all’epoca nel resto d’Europa: lo sforzo di ricordare si concentrava intorno alla
questione della razza e all’individuazione della «macchia» del «converso».
Questo è lo scenario svelato dalle testimonianze orali registrate con
giuramento dagli inviati dei collegi. Qui emerge la prova che si ricorreva
ormai abitualmente al termine di «razza» per indicare i «conversi» di origine
ebraica o musulmana. I testimoni giuravano che la persona di cui si trattava
non aveva «ninguna macula ni raça». L’espressione indicava la macchia che
distingueva tutti i confesos, cioè chi aveva abiurato un’eresia o un’altra
religione: «raça de confeso», si diceva a Cordova nel 1532; o anche «raça de
moros, judíos, herexes ni luteranos», diceva un teste a Paredes de Nava nel
15627. Alla base di simili immagini c’era la convinzione della trasmissione
ereditaria attraverso il sangue di un carattere morale: una convinzione
ratificata dalle norme dell’Inquisizione, che trasferivano sui figli gli effetti
della condanna dei padri. La Chiesa alimentò in tal modo un’idea razzista di
comunità che faceva delle classi popolari la vera nobiltà unita in un sol corpo
dal sangue di Cristo. L’ultimo «campesino» poteva rivendicare con orgoglio
questo suo titolo di merito e guardare con sospetto le classi dominanti
colpevoli di aver mescolato il loro sangue con quello non «limpio» degli
ebrei attraverso i matrimoni di interesse coi più ricchi tra i «conversi».
Il documento fondamentale di questa ricerca genealogica della purezza di
sangue è costituito da un intero genere letterario, quello dei Luceros y
Tizones, elenchi di nomi ebraici elaborati per individuare chi era nato da ebrei
battezzati8. Alle origini del genere incontriamo il Libro verde de Aragón, un
testo singolare di cui abbiamo già ricordato la narrazione delle circostanze in
cui sarebbe maturata la decisione di Ferdinando d’Aragona di cacciare gli
ebrei dalla Spagna9. Come spesso accade in questa storia, non si tratta solo di
un documento di quel che accadde, ma di un testo che agì piegando gli eventi
in una precisa direzione. Il Libro verde fu per più di un secolo uno strumento
attivo della caccia al sangue ebraico e della persecuzione dei «nuovi
cristiani». E anche qui incontriamo l’opera dell’istituzione forgiata per
eliminare la presenza ebraica.
Il suo primo autore fu infatti un assessore dell’Inquisizione di Saragozza,
Juan de Anchías, un uomo che aveva trattato moltissimi processi fin dal
primo avvio del nuovo tribunale, costruendosi così una conoscenza di nomi e
di persone che mise a frutto per snidare dai loro nuovi assetti nella società dei
battezzati tutti i nati da ebrei, anche se avevano avuto un solo lontano
progenitore ap-partenente al popolo giudeo. Juan de Anchías narra nel
prologo dell’opera di aver lasciato la città nel 1507 per sfuggire a
un’epidemia di pestilenza e di essersi rifugiato per diversi mesi a Belchite, un
piccolo centro dell’Aragona, oggi monumento della memoria della guerra
civile spagnola. La peste era considerata allora il segno dell’ira divina per le
offese e le colpe degli uomini. E tollerare la presenza di ebrei per ragioni di
convenienza economica o politica era ritenuta un’offesa fatta a Dio. La
minaccia della peste portava di solito all’imposizione di restrizioni o
all’espulsione degli ebrei. Nel secolo XVI se ne ebbe una verifica nella
Repubblica di Venezia, lo Stato italiano più aperto alla libertà dei traffici e
dei commerci. Qui pure era diffusa anche tra gli uomini della classe di
governo la convinzione che cacciare gli ebrei fosse un modo per garantirsi la
protezione divina; e fu per questo che nel 1555 un’epidemia di peste portò
all’espulsione degli ebrei da Udine10.
Dunque non fu per puro caso che Juan de Anchías decise di dedicare i
mesi di lontananza dall’ufficio a mettere per iscritto le genealogie delle
famiglie ebraiche aragonesi. Lo fece per offrire lo strumento necessario a
individuare le ascendenze degli ebrei rimasti in Spagna dopo il 1492:
bisognava aiutare chi voleva evitare di «mezclar su limpieza con ellos». Le
genealogie raccolte nel libro dall’esperienza dei processi e dalle narrazioni
fatte all’autore da vecchi ebrei avevano come punto di partenza un blocco di
173 nomi dei convertiti al tempo di san Vicente Ferrer e continuavano poi
con elenchi di persone che erano state bruciate o penitenziate. L’opera non fu
stampata, ma circolò ampiamente e venne ulteriormente elaborata da altre
mani, ma soprattutto venne utilizzata per la caccia al «sangue giudeo», con
esiti devastanti: bastava una denunzia o un sospetto per macchiare l’onore
della persona incriminata, escluderla dall’accesso a corporazioni, ordini e
uffici di carattere religioso e civile, e imporre procedure complicate e costose
di accertamento della limpieza, che si svolgevano coinvolgendo personale
dell’Inquisizione per lo più pronto a farsi corrompere.
Così grazie alla memoria scritta del battesimo i discendenti dei primi
«conversi» venivano inchiodati all’invalicabile dato dell’appartenenza di
sangue. Non importava che la persona in questione fosse vivente: si facevano
ricerche anche per i morti. E le inchieste riempivano fascicoli ponderosi di
processi che duravano a lungo, anche per decenni11. Nelle probanzas per
l’accesso ai collegi universitari, come quello di San Clemente di Bologna, la
ricerca era complicata dal fatto che non si voleva metterne il controllo in
mano all’Inquisizione, con il rischio di lasciare nelle mani di quel tribunale la
concessione delle prebende dei collegiali: ma le vie d’uscita escogitate per
risolvere il problema esposero al rischio di giuramenti falsi e suscitarono
grandi tensioni attestate fin dalla metà del Cinquecento12. Per quanto riguarda
l’Inquisizione, la regola del controllo della limpieza de sangre per tutti i
candidati a entrare nella struttura del tribunale fu imposta alla metà del
Cinquecento da Diego de Espinosa. La stessa Compagnia di Gesù doveva
essere investita da critiche per avere avuto un generale come Diego Laínez, di
origine «conversa». Vale la pena di osservare che l’introduzione e l’impiego
dello sbarramento della prova del sangue limpio furono favoriti
tradizionalmente dai sovrani di Spagna, che con Carlo V e Filippo II
gratificarono l’Inquisizione di grande attenzione e impulso13. E in prosieguo
di tempo la norma del sangue limpio conquistò un posto centrale in quella
Spagna dove, com’è stato osservato, «la presenza di ebrei era solo un ricordo,
e il numero di spagnoli giudaizzanti era insignificante»14. Lo stesso avvenne
in Por-togallo: qui la regola del «sangue puro» fu fissata nelle Ordinazioni
del re Emanuele fin dall’edizione del 1514 e rimase in vigore fino a un
decreto del 1773, estendendosi via via a una serie di categorie: non solo
discendenti di ebrei ma anche di musulmani e poi neri, mulatti, gitani,
abitanti delle colonie. La cosa assunse «le proporzioni di un’ossessione
collettiva, che investiva l’intera società, dai semplici artigiani alla più alta
nobiltà di corte»15. Si può dire che nella penisola iberica il sospetto
dell’impurità bastava a infamare e a escludere le persone, nonostante le
laboriose e lunghissime procedure di «abilitazione» affrontate da chi ne era
vittima. Naturalmente questa macchina sociale dell’infamia ebbe il suo centro
fondamentale nel tribunale dell’Inquisizione che, dopo aver creato le
condizioni e fornito gli strumenti della caccia all’impurità, sviluppò al
massimo grado le dinamiche processuali di accertamento.
Una disposizione («pragmatica») di re Filippo IV nel 1623 ordinò di
bruciare tutte le raccolte di dati genealogici in possesso di privati (usati per
ricatti e vendette) e limitò a tre le inchieste inquisitoriali a cui poteva essere
assoggettata una stessa persona. Ma questa misura non impedì che si
affermasse una definizione di tipo naturalistico e razziale della trasmissione
di padre in figlio dei caratteri negativi dell’ebreo. Un trattato di Juan Escobar
del Corro, dedicato alla definizione della purezza e della nobiltà16, sostenne
che era la trasmissione del sangue dei «gentili» convertiti a denotare la
purezza dei cristiani viejos, mentre chi era di ascendenza ebraica o moresca o
eretica ne portava nel sangue la macchia incancellabile. Era la tesi della
differenza di razza: e nei documenti dell’epoca si parla normalmente di «raza
de Moros y Judíos»17. L’attenzione della cultura del tempo per le nuove
conoscenze scientifiche sul corpo umano e sulla dinamica della riproduzione
assunse così nella cultura spagnola, dominata da un’esaltata devozione alla
Madonna concepita senza macchia originale, l’aspetto di una ribadita
affermazione della differenza razziale nella trasmissione delle male
inclinazioni attraverso il seme virile.
2. Il Portogallo
L’alternativa imposta con tempi drammaticamente stret-ti agli ebrei di
Spagna nel 1492 era stata se accettare il battesimo o andarsene. Con questo si
sarebbe dovuto risolvere il problema: la purezza della «vera» religione
doveva regnare incontrastata nel paese riscattato dalla crociata della
reconquista. Come abbiamo visto, non fu così: restava in Spagna la
minoranza dei «conversi». Nei loro confronti si aprì una guerra diversa,
basata non più sulla differenza di religione ma su quella di sangue.
L’intolleranza religiosa di cui i Re Cattolici avevano cavalcato le pulsioni
diventava ora discriminazione raz-ziale. L’unità statale della Spagna fondata
sulla religione produceva all’interno e all’esterno frutti dello stesso genere: la
conquista delle nuove terre scoperte veniva legittimata dalla missione
religiosa della evangelizzazione. E ben presto, con l’allargarsi della protesta
religiosa della Riforma di Lutero, l’impero di Carlo V doveva affrontare un
pesante programma di guerre di religione. Ma intanto la scelta del 1492
produceva i suoi primi frutti con l’apertura di una crisi carica di conseguenze
nei rapporti col paese confinante e rivale: il Portogallo. Vediamone i dati
essenziali.
La questione degli ebrei e dei «conversi» o «mar-rani» come ormai
venivano definiti occupò un posto importante nella storia dei rapporti di
potere tra i due regni che si dividevano la penisola iberica, la Spagna e il
Portogallo. La persecuzione antiebraica in corso in Spagna provocò un esodo
dei perseguitati verso il Portogallo. Davanti ai problemi di convivenza creati
dall’immigrazione di una popolazione sospetta di apostasia, che godeva però
di una certa protezione da parte della monarchia, si moltiplicarono episodi di
intolleranza violenta da parte della popolazione. Intanto le ragioni della
politica dinastica accentuavano la pressione della Spagna sul piccolo regno
del Portogallo. Nel 1495 re Manuel chiese la mano di Isabelita, la figlia dei
Re Cattolici. La promessa sposa dichiarò che non intendeva entrare in
Portogallo prima che gli «eretici» fossero stati allontanati18, facendo valere la
concezione che vedeva nella presenza di ebrei un fattore di impurità e una
minaccia di punizioni divine – un’idea che aveva forte presa su tutta la
popolazione cristiana. I desideri della futura sposa furono realizzati quando il
4 dicembre 1496 il re Manuel I emanò un bando generale nel quale intimava
l’espulsione di tutti gli ebrei e musulmani non battezzati entro l’ottobre
149719. L’editto fu seguito da norme contraddittorie che rivelavano esitazioni
e preoccupazioni davanti alla minaccia di un ab-bandono del paese da parte di
una minoranza ebraica essenziale per l’apparato amministrativo e
commerciale del paese (per i musulmani, la pronta reazione degli Stati
islamici mediterranei che minacciarono ritorsioni fece passare in secondo
piano la loro situazione). Di fatto la partenza degli ebrei fu ostacolata e
praticamente impedita mentre le violenze della conversione forzata creavano
una popolazione di «battezzati in piedi»20. La soluzione scelta fu quella di
obbligare gli ebrei al battesimo impedendone l’emigrazione e garantendo
però ai battezzati a forza un lungo periodo di sospensione da ogni processo
per apostasia: un editto del maggio 1497 fissò un periodo di venti anni
durante il quale non ci sarebbero state misure di accertamento sulla religione
dei neoconvertiti. A loro però fu impedito di vendere i propri beni e di
lasciare il paese con la propria famiglia. Questa scelta, dovuta alla volontà di
garantirsi la permanenza di una minoranza importante nell’economia e nelle
strutture amministrative del regno, creò una situazione esplosiva: furono
poste le premesse di un conflitto durissimo tra i «marrani» e la popolazione
cristiana. Da allora in poi il minimo motivo poté scatenare violenze collettive,
veri e propri pogrom. Il più grave fu quello che ebbe luogo a Lisbona nella
Pasqua del 1506. In una città terrorizzata da un’epidemia di peste bastò
l’incidente di un «nuovo cristiano» che aveva criticato un falso miracolo
organizzato dai domenicani per scatenare il linciaggio; e la predicazione
infiammata di due domenicani messisi a capo della folla dette il via a un
massacro senza fine. Il re don Manuel dovette allontanarsi da una città
incontrollabile e vi poté tornare solo a distanza di diversi giorni. Le misure
punitive da lui prese furono enfatizzate nelle testimonianze ebraiche, sempre
portate a ritenere favorevole il potere reale e a temere l’ostilità popolare,
laddove era stato il meccanismo stesso della conversione obbligata senza
libertà di andarsene dal paese a creare le condizioni del sospetto e dell’odio
dei cristiani «vecchi»21.
Da queste premesse doveva nascere la lunga vicenda dei «marrani»
portoghesi, pronti a tornare alla professione dell’ebraismo laddove se ne dava
loro la possibilità – e dunque nelle città e nei porti del grande commercio
internazionale come Anversa, Venezia, e negli altri luoghi che si aprirono alla
loro emigrazione, dalla Ferrara estense all’impero ottomano. Ma la diffidenza
e la persecuzione dei convertiti dovevano segnare per secoli la società
portoghese. Mentre gli esuli si disperdevano per l’Europa, affollavano le
capitali del commer- cio e della finanza e completavano il loro percorso rifu-
giandosi nel Mediterraneo orientale sotto la protezione dell’impero ottomano,
la figura dell’ebreo portoghese battezzato, indicato con l’epiteto insultante di
«marra no», diventava il simbolo della scissione fra apparen za e realtà,
dell’incertezza religiosa e della finzione. In Portogallo la caccia al finto
convertito fu l’esercizio assiduo della macchina inquisitoriale assistita dalla
mi croconflittualità sociale dei piccoli centri. Per secoli la scoperta di
comunità locali di conversos, sospettabili di ritorni segreti all’antica
religione, accese roghi e popolò le chiese di abitelli di «penitenziati»,
mantenendo viva la memoria dell’infamia, quella sociale dell’apostata e
quella storica dell’intolleranza. E anche in Portogallo si ripeté la vicenda
dell’alleanza tra la monarchia ereditaria e l’Inquisizione, con la prevalenza
sempre più netta della macchina inquisitoriale nella pratica e nelle leggi dell
mtolleranza. Re Manuel aveva dichiarato con apposite leggi del 1502 e del
1507 che non ci sarebbe stata nessuna discriminazione tra vecchi e nuovi
cristiani nell’accesso agli uffici e agli onori. Ma alla metà del Cinquecento
una supplica rivolta al re rivelò che la porta delle istituzioni confraternali,
dette le Misericordias, era sbarrata per i discendenti da ebrei convertiti; e la
Compagnia di Gesù fece sua la norma dell’esclusione per i candidati di
origine ebraica22. L’alleanza tra la casa regnante e l’Inquisizione trovò
condizioni peculiari nel Portogallo del Cinquecento: basti pensare che qui
l’inquisitore generale fu per molti anni il cardinal Henrique, fratello del re
Giovanni III.
9.
EREDITÀ LUNGHE
Avvertenza
Ringrazio il professor Michele Olivari per la lettua di questa traduzione e
i suggerimenti.
II
EDITTO DI ESPULSIONE
Don Ferdinando e donna Isabella, per grazia di Dio re e regina di
Castiglia, León, Aragona, Sicilia, Granada, Toledo, Valencia, Galizia,
Maiorca, Siviglia, Sardegna, Cordova, Corsica, Murcia, Jaen, Algarve di
Algesiras, Gibilterra, isole di Canaria, conti di Barcellona e signori di
Biscaglia e di Molina, duchi di Atene e di Neopatria, conti del Rossiglione e
di Sar-degna, marchesi di Oristano e di Goceano.
Al principe don Giovanni, nostro carissimo e amatissimo figlio, e agli
infanti, prelati, duchi, marchesi, conti, maestri degli ordini, priori, ricchi,
commendatori, alcaldi dei castelli e delle fortificazioni dei nostri regni e
signorie, e ai consigli, corregidori, sindaci, autorità di giustizia5, cavalieri,
scudieri ufficiali, e «uomini dabbene»6 della nobilissima e realissima città di
Toledo e di tutte le città e borghi e luoghi del suo arcivescovato e di tutte le
altre città e borghi e luoghi dei suddetti nostri regni e signorie, e a tutti gli
ebrei e a ciascuno di loro così maschi come femmine di qualunque età e a
tutte le altre persone di qualsiasi legge, stato, dignità, preminenza e
condizione, che possono in qualunque maniera essere interessati al contenuto
di questo nostro documento: salute e grazia.
Sapete bene o dovreste sapere che, essendo noi stati informati che in
questi nostri regni c’erano alcuni mali cristiani che giudaizzavano e
apostatavano dalla nostra santa fede cattolica e che di questo era in gran parte
causa la comunicazione degli ebrei coi cristiani, nelle Cortes che facemmo
nella città di Toledo nel passato anno 1480 ordinammo che i suddetti ebrei
dovessero ritirarsi in posizione appartata nelle «giuderie» e nei quartieri
separati in tutte le città e borghi e località dei nostri regni e signorie e qui
vivessero e abitassero, contando che con questa loro separazione si ottenesse
il rimedio. Inoltre abbiamo provveduto e ordinato che si facesse inquisizione
nei suddetti nostri regni, la quale come sapete si è fatta e si fa da più di dodici
anni, e grazie all’inquisizione si sono trovati molti colpevoli, com’è noto; e a
quanto siamo stati informati dagli inquisitori e da molte altre persone,
religiosi, ecclesiastici e secolari, si hanno prove evidenti del grande danno
che i cristiani hanno sofferto e continuano a soffrire a causa dei rapporti di
consuetudine, conversazione e comunicazione che hanno avuto e continuano
ad avere con gli ebrei. E si prova che gli ebrei procurano sempre per ogni via
possibile di pervertire e allontanare dalla nostra santa fede cattolica i fedeli
cristiani e dividerli da lei e attirarli e pervertirli alla loro maledetta credenza e
opinione, istruendoli nelle cerimonie e osservanze della loro legge, facendo
incontri nei quali leggono per loro e gli insegnano quello che debbono
credere e osservare secondo la loro legge, procu-rando di circoncidere loro e i
loro figli, dando loro libri dai quali imparare le loro orazioni da recitare e
spiegando loro i digiuni che debbono fare e facendo incontri con loro per
leggere e insegnare loro le storie della loro legge, informandoli per tempo
della celebrazione della pasqua e di quello che si deve osservare e fare in tale
occasione, dandogli e portandogli dalle proprie case il pane azzimo e la carne
macellata ritualmente, istruendoli sulle cose che si devono nascondere per
osservare la loro legge sia nel mangiare sia in altre cose e persuadendoli per
quanto possono affinché osservino e adempiano la legge di Mosè, facendogli
presente che non c’è altra legge né altra verità fuorché quella. E tutto questo
risulta da molte dichiarazioni e confessioni sia degli stessi giudei sia di coloro
che furono pervertiti e ingannati da loro, il che ha apportato gran danno e
detrimento e obbrobrio alla nostra santa fede cattolica.
E benché fossimo informati di questo da molte parti prima d’ora e
comprendessimo che il vero rimedio a tutti questi danni e inconvenienti
consisteva nell’impedire del tutto la comunicazione dei detti giudei coi
cristiani e cacciarli da tutti i nostri regni, ci volemmo contentare di ordinar
loro di andarsene da tutte le città e borghi e luoghi dell’Andalusia, dove
sembra che avessero fatto maggior danno, credendo che questo sarebbe
bastato perché quelli che abitavano le altre città e borghi e luoghi dei nostri
regni e signorie cessassero di commettere le cose che abbiamo detto. E
poiché siamo stati informati che né quell’ordine né le esecuzioni di giustizia,
che sono state effettuate contro qualcuno dei detti giudei che erano stati
scoperti molto colpevoli dei suddetti crimini e delitti contro la nostra santa
fede cattolica, sono bastati come rimedio efficace per far sì che cessasse un
così grande obbrobrio e offesa della fede e religione cristiana, e poiché ogni
giorno si scopre e si constata che si commettono quelle colpe e sembra che i
detti giudei vadano sempre più perseverando nel loro cattivo e dannato
proposito nei luoghi dove vivono e hanno relazioni sociali, e affinché non vi
sia modo di offendere ancor più la nostra santa fede cattolica sia in quelli che
finora Dio ha voluto preservare sia in coloro che caddero e si emendarono e
ritornarono alla Santa Madre Chiesa, il che potrebbe accadere per la
debolezza della nostra umanità e per la suggestione del diavolo che ci fa
continuamente guerra, se non si toglie la causa principale di questo col
cacciare i detti giudei dai nostri regni – e questo perché quando un crimine
grave e detestabile è commesso da membri di un corpo collegiale o
corporazione, ciò è giusto motivo perché tale collegio o corporazione venga
sciolto e annullato e gli uni siano puniti a causa degli altri e chi è da meno a
causa dei maggiorenti, e perché quelli che col loro contagio mandano in
perdizione l’onesto e buon vivere delle città e dei borghi e che possono
provocare la dannazione degli altri siano fatti espellere fuori delle
popolazioni: e se questo è vero per ragioni meno importanti di danno allo
Stato, tanto più lo è per il crimine più grande e più pericoloso e contagioso
qual è questo.
Pertanto noi, col consiglio e il parere di alcuni prelati e grandi e cavalieri
dei nostri regni e di altre persone di scienza e coscienza del nostro Consiglio,
avendo dedicato al problema una lunga deliberazione, decidiamo e ordiniamo
di far partire tutti i suddetti giudei e giudee dai nostri regni e che mai più
debbano tornare nei suddetti regni né in alcuno di essi. E a tale riguardo
ordiniamo di promulgare questo nostro documento, col quale ordiniamo a
tutti i giudei e a tutte le giudee di qualunque età siano, che vivono e abitano e
stanno nei suddetti nostri regni e signorie, tanto chi ne sia nativo quanto chi
non lo sia, che siano venuti e abitino in essi in qualunque maniera e per
qualunque ragione, che entro la fine del mese di luglio dell’anno in corso
partano da tutti i nostri regni e signorie coi loro figli e figlie e i loro
dipendenti e famigliari giudei grandi e piccoli di qualunque età siano. E che
non osino tornare in quei luoghi né abitarvi né viverci da nessuna parte né di
passaggio né in altra maniera, sotto pena che, se non faranno così e saranno
trovati nei nostri regni e signorie e ci verranno in una qualunque maniera,
incorreranno nella pena di morte e confisca di tutti i loro beni a beneficio
della nostra camera e fisco. E che in tale pena incorrano per il fatto stesso,
senza altro processo, sentenza o dichiarazione. E ordiniamo e proibiamo che
nessuna persona dei suddetti nostri regni, di qualunque stato, importanza e
condizione, osi ricevere, accogliere o proteggere pubblicamente o
segretamente nelle sue terre o case o in parte alcuna dei suddet-ti nostri regni
e signorie uomo o donna di giudei una volta trascorso il detto ultimo dì di
luglio, sotto pena di perdita di tutti i suoi beni, vassalli e fortezze e altri
possedimenti, come pure di perdita di qualunque compenso ricevuto da noi
per la nostra camera e fisco.
E affinché i suddetti giudei e giudee possano entro la fine del detto mese
di luglio disporre di sé e dei loro beni e attività, con la presente dichiarazione
li prendiamo e riceviamo sotto la nostra protezione e rifugio e difesa reale e
garantiamo la sicurezza loro e quella dei loro beni in modo che durante il
detto tempo fino alla fine di luglio possano circolare e stare sicuri, e possano
vendere, barattare e alienare tutti i loro beni mobili e immobili e disporne
liberamente e a loro piacere, e che durante il detto tempo non gli sia fatto
alcun male o danno o offesa alcuna alle loro persone o ai loro beni contro
giustizia, pena le sanzioni in cui incappano coloro che infrangono il nostro
salvacondotto reale. E così pure diamo licenza e facoltà ai detti giudei e
giudee di poter trasferire fuori dei nostri regni e signorie i loro beni e le loro
attività per mare e per terra, col limite che non esportino né oro né argento né
moneta corrente, né le altre cose vietate dalle leggi dei nostri regni, fatta
esclusione delle mercanzie che non siano di merci vietate e delle lettere di
cambio.
E inoltre ordiniamo a tutti i consigli, magistrati di giustizia, corregidori,
cavalieri, scudieri, funzionari e «buoni uomini» della detta città di Toledo e
delle altre città e borghi e luoghi dei nostri regni e signorie e a tutti i nostri
vassalli, sud-diti e nativi che osservino e facciano osservare e mandare a
effetto questa nostra lettera e tutto quello che vi si contiene, e offrano e
facciano dare ogni favore e aiuto che sarà necessario per questo, sotto pena di
perdere il nostro favore e della confisca di tutti i loro possedimenti e uffici
per conto della nostra camera e del fisco. E affinché questo giunga a
conoscenza di tutti e che nessuno possa allegare ignoranza, ordiniamo che
questa nostra missiva sia bandita sulle piazze e sui mercati e nei luoghi
consueti della detta città e delle principali città, borghi e luoghi della sua
archidiocesi da parte di un banditore e davanti a un pubblico scrivano. Gli uni
e gli altri non fate né facciano niente oltre a questo in alcun modo, sotto pena
di perdere il nostro favore e della privazione degli uffici e confisca dei beni a
favore della nostra camera e fisco, per ciascuno di quelli che faranno il
contrario di ciò che è ordinato. E di più ordiniamo a colui che vi mostrerà
questa nostra missiva che vi citi a comparire davanti a noi nella nostra corte,
ovunque essa si troverà, entro i quindici giorni immediatamente successivi a
quello della citazione, sotto la detta pena, sotto la quale ordiniamo a ogni
scrivano pubblico, che a tale scopo fosse convocato, che rilasci seduta stante
a colui che vi mostri la lettera una attestazione contrassegnata con la sua
sigla, affinché noi sappiamo come si esegue il nostro ordine.
Data nella molto nobile città di Granada il dì 31 del mese di marzo, anno
dalla nascita di nostro signor Gesù Cristo mille e quattrocentonovanta due.
Io il re. Io la regina.
Io Johan de Coloma segretario del re e della regina nostri signori la feci
scrivere per loro ordine.
Registrata: Bernal Diaz Almaçan, cancelliere.
III
Introduzione
1L. Ferrajoli, Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, Roma Bari 2002,
p. 26.
2G.A. Stella, Negri froci giudei & Co, Milano 2009.
1. 1492, inizio della storia moderna
1 Cronica Estense di fra’ Paolo da Lignago, ms. in Archivio di Sta to di
Modena, riportato da A. di Leone Leoni, La Nazione ebraica spagnola e
portoghese di Ferrara (1492-1559), t. II, Firenze 2010, p. 572.
2Cfr. A.K. Harris, From Muslim to Christian Granada. Inventing a City’s
Past in Early Modern Spain, Baltimore (MD) 2007, pp. 92-106. Sulla lunga
storia che così si concludeva cfr. A. Saitta, Dalla Granada mora alla
Granada cattolica. Incroci e scontri di civiltà, Roma 2006 (prima ed. Roma
1968).
3Il motto è riportato come epigrafe nel volume di J.H. Elliott, The Old
World and the New, 1492-1650, Cambridge 1970.
4Il giornale di bordo: libro della prima navigazione e scoperta delle
Indie, Nuova Raccolta Colombiana, a cura di P.E. Taviani e C. Varela, vol. I,
t. I, Roma 1988, pp. 9-11.
5Sui limiti della validità di questa definizione, cfr. A. Vanoli, La Spagna
delle tre culture: ebrei, cristiani e musulmani tra storia e mito, Roma 2006.
6«Ea Iudíos, a enfardelar / que mandan los Reyes / que passeys la mar»
(F. García Casar, Las comunidades judías en la corona de Castilla al tiempo
de la expulsión: densidad geografica, población, in Judíos, sefarditas,
conversos. La expulsión de 1492 y sus consecuencias, atti del congresso
internazionale tenutosi a New York nel 1992, a cura di A. Alcalá, Valladolid
1995, pp. 21-31, in part. vedi p. 21).
7Cfr. J. Gil, Miti e utopie della scoperta, Cristoforo Colombo e il suo
tempo, trad. it., Milano 1991, pp. 40-53; e per la storia dei contatti con le
Canarie e le Azzorre a partire dalla metà del Trecento, cfr. D. Abulafia, La
scoperta dell’umanità. Incontri atlantici nell’età di Colom bo, trad. it.,
Bologna 2010, capp. 1 e 2.
8Si veda l’ampio e suggestivo quadro disegnato da Serge Gru- zinski, Les
alla sua condizione di «converso» la perdita del posto di me dico di corte (cfr.
J.I. Gutiérrez Nieto, La limpieza de sangre, in Insti tuciones de la España
moderna, 2: Dogmatismo e intolerancia, a cura di E. Martínez Ruiz e M. de
Pazzis Pi Corrales, Madrid 1997, pp. 33-47, vedi in part. p. 41).
5 Documenti di processi e controversie degli anni 1544-1545 sono citati
da C. Civale, «Con secreto y disimulación». Inquisizione ed eresia nella
Siviglia del secolo XVI, Napoli 2007, p. 97.
6 Cfr. F. Zonabend, La mémoire longue. Temps et histoire au vil lage,
Paris 1980.
7 B. Cuart Moner, La ciudad escucha, la ciudad decide. Informacio nes
de linajes en los colegios mayores durante el s. XVI, in J.I. Fortea Pérez,
Imagenes de la diversidad. El mundo urbano en la Corona de Castilla (ss.
XViXVII), Santander 1997, pp. 391-419, vedi in part. p. 410. Cfr. anche de
Miramon, Noble Dogs, Noble Blood, cit.
8 Cfr. V. Infantes, Luceros y tizones: biografía nobiliaria y venganza
Quirini und Pietro Bembo, in Id., Kirche des Glaubens Kir- che der
Geschichte, Freiburg 1966, vol. I, pp. 153-166, vedi in part. p. 166).
2 Libellus ad Leonem X, in GB. Mittarelli, A. Costadoni, Annales
Camaldulenses, Venetiis 1773, coll. 621-625. Cfr. dello scrivente La Chiesa
e gli ebrei nell’Italia del ’500, in Ebraismo e antiebraismo: immagine e
pregiudizio, Firenze 1989, pp. 171-183.
3 Yerushalmi, Assimilazione e antisemitismo razziale, cit., pp. 46-47. Alla
Copertina 2
Frontespizio 4
Dedica 6
Introduzione 7
IL SEME DELL’INTOLLERANZA. Ebrei, eretici, selvaggi: Granada 1492 10
Parte prima Alle origini dell’antisemitismo 11
1. 1492, inizio della storia moderna 12
2. Granada 1492. Un nodo della storia del mondo 24
3. Prima di granada: alle origini dell’intolleranza 28
Parte seconda La persuasione, il controllo, il sospetto 45
4. La conversione. veri e falsi cristiani 46
5. La nuova inquisizione e l’osservanza della fede 57
6. L’espulsione degli ebrei 66
Parte terza Il potere della fede, la fede del potere 72
7. La Responsabilità delle scelte 73
8. Gli esiti: purezza di sangue e differenze di razza 81
9. Eredità lunghe 92
Per concludere: un protagonista 98
Appendice 101
I. Disposizioni per il vescovo di Gerona dell’Inquisitore generale Torquemada (20 marzo
1492) 101
II. Editto di espulsione 104
III. [Per il regno dell’Aragona] 109
Note 114