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I LIBRI DEL FESTIVAL DELLA MENTE

serie diretta da Giulia Cogoli


Adriano Prosperi

IL SEME DELL’INTOLLERANZA
Ebrei, Eretici, Selvaggi: Granada 1492
© 2011, Fondazione Eventi -
Fondazione Carispe
Published by arrangement with
Marco Vigevani Agenzia Letteraria
Prima edizione 2011
ISBN 978-88-97544-01-2
alla memoria di Armando
Saitta,
«Rio Darro»
Introduzione

La recente scoperta che nella mappa del genoma umano non esiste il gene
della razza ha destato scarsa meraviglia: da tempo sappiamo che le differenze
fisiche su cui si reggono i discorsi di tipo razzistico non hanno fondamento.
Non esiste il «sangue blu» della nobiltà. Non esiste la puzza dell’ebreo. È
esistita una classe di persone che si faceva vanto di non dover esercitare
nessuna attività manuale per vivere: e l’assenza di lavoro manuale si rivelava
in una epidermide delicata che lasciava trasparire una rete venosa azzurrina,
invisibile sotto la pelle callosa di contadini, marinai, commercianti. Ed è
esistita la costrizione del ghetto che, chiudendo in spazi ristretti e senza acqua
corrente la popolazione ebraica, giustificava après coup gli odori acri di corpi
e di ambienti attribuendoli alla «natura» degli ebrei. È esistita la pratica di
battere con nerbate gli schiavi africani: dal che, rovesciando la cultura in
natura, si ricavò la tesi che la pelle dei neri fosse diversa da quella dei
bianchi, destinata a ricevere bastonate perché diversamente spessa e robusta
rispetto a quella dei bianchi. Era la natura dei corpi dei neri africani a
denotare la destinazione razziale al lavoro schiavile e non viceversa. Non
molto diversa è oggi la condizione delle minoranze di immigrati o di
marginali nei paesi ricchi, che vengono sottoposte allo stesso meccanismo di
disumanizzazione attraverso il mezzo semplicissimo della limitazione dei
diritti. «Come la parità nei diritti – ha scritto Luigi Ferrajoli – genera il senso
dell’uguaglianza basata sul rispetto dell’altro come uguale, così la
diseguaglianza nei diritti genera l’immagine dell’altro come diseguale, ossia
inferiore antropologicamente proprio perché inferiore giuridicamente»1.
In tutti questi casi siamo sempre davanti a quella forma di esclusione
sociale dettata dal potere che consiste nell’invenzione di una barriera della
diversità: da una parte il vero essere umano, dall’altra il non-uomo. Come ha
osservato George Mosse, al posto della persona in carne ed ossa il punto di
vista razzista mette uno stereotipo umano. Il che consente il sistematico
rovesciamento ideologico dei dati reali e la costruzione di piramidi di
sopraffazioni su finte basi naturali.
Dunque, ogni volta dietro la supposta differenza di natura è emersa una
differenza di potere. Ma, se queste antiche legittimazioni della violenza e
dello sfruttamento sono diventate nel nostro presente del tutto prive di
credibilità, non per questo è venuta meno la produzione di «diversi», di
frazioni di umanità a regime speciale, prive di diritti, offerte al disprezzo e
all’odio delle maggioranze di «normali». L’esperienza del passato si
rispecchia in quella del presente. Se sul piano teorico le pretese di verità delle
teorie razzistiche sono state smascherate senza possibilità di difesa, sul piano
dei rapporti sociali si riaffacciano di nuovo ogni qualvolta i rapporti di potere
riaprono una fessura in questa direzione.
Abbiamo ricordato sopra che il gene della razza non esiste, ma siamo
sempre davanti a quella forma di esclusione sociale consistente
nell’invenzione di una barriera naturale della diversità: da una parte il vero
essere umano, dall’altra il non-uomo.
Sullo sfondo si avverte la ripresa dell’antisemitismo, o almeno il suo
instancabile riaffacciarsi nel discorso pubblico uscendo dal silenzio e dalla
vergogna in cui la Shoah l’aveva costretto. Verrebbe da pensare che la storia
si ripete. È una considerazione sconfortata che ha sempre goduto di larga
diffusione, come se dovessimo arrenderci davanti alle ripetute cadute
dell’intelligenza dell’homo sapiens nella barbarie. La guerra contro l’altro è
eterna, si legge nel titolo di una fortunata e vivacissima rassegna delle forme
di discriminazione, da quelle delle grandi tragedie del passato alle «piccole
storie ignobili» dei nostri giorni (piccole per chi non ne è la vittima,
naturalmente)2.
Dobbiamo dunque rassegnarci a riconoscere che qualcosa di naturale
esiste nei dati morali dell’umanità, che il costume dell’avversione verso
l’«altro» è iscritto – esso sì – nei nostri geni e che la pianta umana è un albero
storto, come ammetteva anche Kant, che mal si piega alla regola dei diritti?
Prima di chiudere con questa sconsolata ammissione, è forse il caso di
rovesciare i termini della questione e di concentrare l’attenzione non su
ipotetici fattori naturali della differenza e dell’ostilità fra esseri umani, ma sui
dati storici e sui meccanismi sociali che hanno dato vita alle forme
dell’esclusione. Non senza aver ricavato un’ultima osservazione dai risultati
della mappatura del genoma umano: a quanto si è scoperto, solo un numero
assai ridotto di geni identifica la specie umana, differenziandola da altre
specie animali che consideriamo inferiori. Nel corso dell’evoluzione delle
specie, quegli altri animali sono stati battuti e assoggettati dagli uomini. Allo
storico viene in mente l’immagine della ghianda e della quercia usata da
Marc Bloch per riassumere il senso del mutamento storico: lo sviluppo nel
tempo delle civiltà è come quello che dalla ghianda porta alla quercia,
dipende dal terreno. La risposta agli stimoli e alle occasioni offerte
dall’ambiente è la causa dello sviluppo. E Bloch aggiungeva: gli uomini sono
figli dei loro tempi più che dei loro padri.
Riconoscerlo è accettare una grande lezione, simile a quella che venne
data secoli fa dalla scoperta di Niccolò Copernico. Non siamo il centro
dell’universo; non siamo stati dotati – dalla natura, da Dio – di qualità
speciali. La specie umana si è evoluta: siamo arrivati a mandare astronavi
fuori dell’atmosfera e a contare i geni del Dna. Ma ogni nuova scoperta
scaturita dai viaggi negli spazi esterni e in quelli a noi interni ci rimanda a
delle verità amare: soli e sperduti in un angolo dell’universo, dividiamo il
nostro ambiente naturale con altre specie che abbiamo imparato a dominare e
a sfruttare, ma senza che questo discenda da un decreto originario e
immutabile e senza che si possano dire risolti i problemi di sopravvivenza
della nostra specie. Da ciò, il bisogno di ripercorrere la strada fatta con gli
strumenti della conoscenza storica per riconoscere gli errori di percorso, per
tenerne conto nel correggere – se possibile – la rotta.
IL SEME DELL’INTOLLERANZA
Ebrei, eretici, selvaggi: Granada 1492
Parte prima
ALLE ORIGINI DELL’ANTISEMITISMO
1.
1492, INIZIO DELLA STORIA MODERNA

Un momento si fissò con grande efficacia nella memoria dei


contemporanei, un momento preciso della storia europea, quello che legò le
origini del maggior impero mondiale creato da una potenza europea con tre
figure sociali di «diversi»: ebrei, eretici, selvaggi. Ecco come un cronista
italiano ne prese nota indicando sotto la stessa data due eventi distanti fra di
loro nel tempo ma legati da uno stesso filo:
A dì 2 zenaro 1492 fu presa Granata per il Re di Spagna de mane de Mori: et per quello furno cazati
li marani1.
Come mostra quest’annotazione, il giorno della conquista del regno moro
di Granada da parte dell’esercito cristiano si iscrisse molto presto tra le date
memorabili ben al di là dei confini iberici. E la sconfitta dei mori si saldò con
l’altro evento spagnolo, la cacciata dei «marrani». Ma fu in Spagna che la
caduta del regno moro di Granada si fissò immediatamente al vertice delle
memorie gloriose di una religione guerriera. Cambiò allora il calendario
festivo della Spagna cristiana e il giorno memorabile della conquista fu
festeggiato con una solennità speciale come el día de la Toma: festa civile e
religiosa insieme, subito assoggettata alla norma cattolica della santificazione
obbligatoria delle feste2.
Ma a Granada, dopo la sconfitta del regno moro, avvennero altre due cose
importanti. Furono prese due decisioni dai sovrani Isabella e Ferdinando, che
avevano unito con il loro matrimonio i regni di Castiglia e León e di
Aragona. Una è specialmente celebre e ha da sempre un posto obbligato nel
racconto della storia dell’Europa e del mondo: quella che siglò l’incontro –
mediato dal confessore della regina – di Cristoforo Colombo con Isabella e il
successivo accordo per la spedizione delle caravelle, fissato nelle
capitolaciones del 17 aprile 1492. Qui la regina Isabella, come erede dei
regni di Castiglia e di León, decide di finanziare il progetto di Cristoforo
Colombo; a lui sarà consentito di armare tre caravelle e andare in cerca di una
via delle Indie diversa e concorrenziale rispetto a quella aperta e controllata
dal regno del Portogallo. E così «por Castilla y por León / Nuevo mundo alló
Colón»3. Ma ce n’era stata un’altra di decisioni importanti che allora apparve
ben più significativa: il 31 marzo, sempre a Granada, era stato firmato l’editto
reale di espulsione degli ebrei. Colombo partì con un ricordo molto preciso di
ciò che era avvenuto «prima» e lo annotò nel suo diario di bordo:
Dopo aver cacciato tutti gli ebrei fuori da tutti i vostri regni e possedimenti [...] le Vostre Altezze mi
comandarono che con flotta adeguata mi recassi nelle suddette regioni dell’India4.
Possiamo facilmente immaginare il navigatore genovese mentre arma le
sue navi e i marinai che affardellano il loro sacco nel porto di Palos. In mezzo
alle folle festanti e ai riti religiosi di celebrazione delle conquiste militari
cristiane, quei marinai dovevano distinguersi per una loro speciale ragione di
entusiasmo: si preparavano a partire sotto il comando di un navigatore
esperto, che recava dalla sua esperienza in Portogallo la notizia delle
clamorose imprese navali sulla via delle Indie, e dunque avevano ragione di
nutrire sogni di ricchezze e di gloria.
Altri abitanti della Spagna si affollavano in quei giorni nei porti e sulle
strade che conducevano al mare o lungo il percorso verso il regno confinante
del Portogallo. Erano degli esuli, viaggiavano con donne, vecchi e bambini e
con carri di masserizie: li si poteva riconoscere non solo per la tristezza e
l’ansia dell’ignoto di chi lascia le cose dilette e le persone più care, ma anche
perché recavano sull’abito il segno speciale che le leggi imponevano agli
ebrei. Con loro, non solo spariva dalla geografia del paese una massa di
persone, ma si modificava l’assetto degli spazi abitati e veniva meno una
intera rete istituzionale: quella che aveva fino ad allora retto una micro-
società autonoma e contrassegnato il pluralismo culturale e religioso del
paese. Scomparivano luoghi di culto, scuole, cimiteri, si cancellavano le
istituzioni associative e le funzioni giuridiche e fiscali di un corpo sociale
separato. Era l’espulsione di una religione organizzata e riconosciuta come
società a parte. Il cambiamento era sostanziale e profondo sia per chi partiva
sia per chi restava. Perché molti ebrei restarono: ma come cristiani. Era una
modificazione sostanziale del carattere antico del «paese delle tre culture»5:
quello che restava delle tradizioni ebraiche e di quelle musulmane lo faceva
preparandosi a una lunga, sorda guerra di posizione. L’editto di espulsione
riguardava gli ebrei come seguaci di una religione: non parlava di quelli che
si battezzavano. Bisogna dunque correggere subito quella forma tradizionale
di narrazione di questi fatti che parla di una imposizione d’autorità della
scelta tra conversione ed esilio. L’editto reale, a rigor di termini, non impose
a nessuno il battesimo: furono gli ebrei che dovettero decidere se diventare
cristiani per poter restare, oppure pagare con l’esilio il prezzo della fedeltà
alla loro religione.
Non era la prima volta che il battesimo cristiano si offriva come l’unica
porta rimasta socchiusa per chi voleva essere accettato nel luogo dove aveva
vissuto fino ad allora: e non fu l’ultima.
Per meditare su quella scelta gli ebrei spagnoli ebbero poco tempo.
L’editto del 31 marzo, rimasto per diversi giorni sul tavolo dei sovrani, fu
pubblicato solo alla fine di aprile dopo un tira e molla di trattative, con
disperati tentativi delle vittime di evitare l’espulsione, interventi presso il
papa e offerte di danaro. Nel frattempo anche le capitolazioni sottoscritte da
Colombo si traducevano in realtà: la partenza delle navi da Palos si ebbe solo
il 3 agosto, proprio mentre scadevano le ultime ridottissime proroghe del
termine fissato per l’espulsione degli ebrei. Dunque è facile immaginare che
quelli furono mesi di un affaccendarsi frenetico per le molte migliaia di esuli.
E intanto alla loro tristezza faceva da contrappunto una feroce allegria
popolare incoraggiata da predicatori fanatici. A Burgos si canta una strofa che
recita: «Orsù ebrei, fate i bagagli, i sovrani ordinano che ve ne andiate per
mare»6.
Possiamo pertanto dire che nel 1492 ebrei, eretici e selvaggi si
incontrarono in un luogo: la città di Granada, conquistata da Ferdinando re
d’Aragona e da Isabella di Castiglia. A loro, già autori dell’istituzione
dell’Inquisizione, in occasione della vittoria finale nella guerra di crociata
contro i musulmani di Spagna si dovettero dunque due decisioni di grande
importanza storica, grazie alle quali l’età che si apriva e il mondo per la
prima volta globalizzato furono dominati da quei tre tipi di umanità che
abbiamo indicato: tre costruzioni culturali, che dietro l’essere umano nella
sua concretezza proiettarono il profilo dell’«altro», del diverso. Figure
diverse e diversamente costruite, con ingredienti tratti di volta in volta dal
sapere ufficiale, dalla fantasia e dall’esperienza.
Il personaggio dell’eretico, così com’era stato costruito dalla tradizione
ecclesiastica, era connotato dal massimo grado di negatività: era quello di chi,
entrato nella Chiesa col battesimo, se ne separava volontariamente e
sceglieva per seduzione diabolica di seguire l’errore e di perseverarvi. Lo
definiva tale l’autorità ecclesiastica, misurando le opinioni e i comportamenti
dell’individuo col metro precostituito della dottrina ortodossa.
Quanto alla figura del selvaggio, si trattava di un essere dall’incerta
umanità, un misto di esperienza reale e di rappresentazioni mentali: confinava
con quella dell’uomo selvatico, l’abitante favoloso delle selve dal corpo
coperto di peli, e con quelle dei mostri di cui si fantasticava nelle narrazioni
dei viaggiatori e dei navigatori. Ma era soprattutto nel mondo ignoto delle
isole oceaniche, oltre le rive dell’Atlantico, che si muovevano esseri
sconosciuti, fantasticati e raccontati elaborando tradizioni antiche e
frammenti di conoscenze riportate dai viaggiatori di professione – i marinai, i
frati, i nomadi di ogni genere. Nel bagaglio mentale di un esperto navigatore
come Cristoforo Colombo, le narrazioni di Marco Polo e i favolosi raccontari
circolanti sotto il nome di Giovanni da Mandavilla si erano amalgamati con le
immagini di esseri mostruosi che dovettero essere presenti nell’ambiente dei
porti e che lo accompagnarono come un’attesa fin dal suo primo sbarco
all’Hispaniola. La cultura dei navigatori aveva da tempo trasmesso immagini
delle popolazioni delle Canarie che si erano combinate con un’intera
letteratura pronta a impadronirsi delle informazioni portate dai viaggiatori per
calarle in un disegno che da tempo veniva elaborato7.
Ma il tipo umano nel quale esperienza reale e stereotipi mentali erano
costretti a intrecciarsi nella vita di ogni giorno era quello dell’ebreo: il
diverso per definizione e nello stesso tempo la presenza più familiare della
cultura e della vita quotidiana, colui di cui si ascoltava la storia nella liturgia
e si vedevano immagini nelle chiese – quelle dei profeti e dei patriarchi, ma
anche e più spesso quelle dei carnefici del Messia – e che aveva volti e
presenze ordinarie nella società dei viventi. Nell’ebreo il misto di realtà e di
immaginazione raggiungeva il massimo della fusione in quella società
spagnola dove l’ossessione dell’ortodossia e la volontà di espansione e di
conquista stavano rompendo i confini chiusi del mondo medievale.
Per una volta, dunque, tre fili diversi si intrecciarono nello stesso luogo,
nello stesso anno e nelle stesse mani: il nodo che ne risultò doveva segnare
l’intera storia del mondo. Coincidenza singolare: casuale o storicamente
necessitata? La storia è piena di coincidenze e al gioco del caso non sfuggono
né le vite degli individui né le sorti delle società umane. Ma quella che si
verificò allora nella penisola iberica fu eccezionale nei tempi e nei modi: si
incontrarono insieme le sorti di tre tipi umani sui quali doveva scatenarsi la
violenza di una sopraffazione legittimata da poteri politici e religiosi. Tre
grandi processi storici – colonialismo, intolleranza religiosa tra cristiani,
antiebraismo/antisemitismo – stavano prendendo avvio e si preparavano a
dominare la storia dell’Europa e del mondo da essa unificato. La domanda è
se quella data e quell’incontro furono realmente importanti nell’avvio di quei
processi o se quello che ce li rende significativi è solo il bisogno di
semplificazione che domina la memoria del passato. Perché un fatto è certo:
quella data ha da secoli un posto centrale nella storia come narrazione. Ancor
prima che si passasse dalle categorie tradizionali dell’articolazione epocale
della storia (le cinque monarchie del Libro di Daniele, le tre età di
Gioacchino da Fiore e così via) alle tre ère cronologiche – antica, medievale,
moderna –, l’anno 1492 apparve molto presto come il punto d’avvio di una
grande svolta storica. Ma quella svolta si è colorata di volta in volta in modi
diversi.
Per molto tempo la vicenda della presa di Granada e della successiva
cacciata degli ebrei passò in secondo piano rispetto a quello che apparve il
vero fatto storico. Che fu, in primo luogo, la scoperta dell’America – quella
che all’inizio fu creduta una delle isole delle Indie Orientali e solo dopo si
scoprì essere un intero continente, anzi un «Nuovo Mondo». Secondo Gian
Battista Ramusio, segretario del Consiglio dei Dieci di Venezia e
appassionato raccoglitore di narrazioni e documenti delle scoperte
geografiche, ciò che accadde allora permise al suo tempo di superare
finalmente il grande modello degli antichi e inaugurò un’epoca nuova. Fra
tutti gli aspetti della discontinuità, all’inizio emerse dunque la scoperta
dell’America. La diffusa coscienza dell’importanza della navigazione di
Cristoforo Colombo conferì alla visione della storia europea quel carattere
che nel Settecento fu riassunto nel concetto di progresso. «La scoperta
dell’America e del passaggio verso le Indie Orientali attraverso il Capo di
Buona Speranza, costituiscono i due maggiori e più importanti avvenimenti
registrati nella storia dell’umanità»: così scrisse nel 1776 Adam Smith
nell’opera La ricchezza delle nazioni. Era una lettura del 1492 ottimistica e
tonificante per la cultura dell’Europa occidentale. Ne è durato a lungo il
fascino, tanto che se ne trovano ancora echi nei bilanci storici e nelle
narrazioni correnti dell’età moderna8. Di fatto, il confronto tra le realizzazioni
degli antichi e quelle dei moderni, quella che fu la lunga querelle des anciens
et des modernes, fu risolto dalla coscienza diffusa che la scoperta
dell’America aveva segnato la fine dell’epoca dominata da uno sguardo volto
al passato e dall’idea della superiorità degli antichi.
Ma agli occhi di molti testimoni fu ben presto evidente che al progresso
economico europeo e all’acquisizione di nuovi credenti alla Chiesa cristiana
faceva ombra la crudeltà di quella espansione: l’atto d’accusa di Bartolomé
de las Casas risvegliò una lunga eco. Ne troviamo traccia nel modo in cui
Adam Smith temperò il giudizio positivo che abbiamo citato, lamentando «la
brutale ingiustizia degli europei» che aveva «trasformato un evento,
potenzialmente benefico per tutti, in una rovinosa sventura per molti di quei
paesi». In seguito, con la crisi del dominio europeo sul mondo, la nozione di
«età moderna» si è colorata di tinte meno rosee. La dominazione europea
apparve allo sguardo della cultura liberale francese del primo Ottocento come
l’espressione di una deprecabile volontà di dominio: Benjamin Constant mise
sotto accusa lo «spirito di conquista e di usurpazione» della civiltà europea.
Ombre cupe si addensarono sull’Europa cattolica con l’accusa dei paesi
protestanti di persecuzione dell’evangelo rinato con Lutero; e ad esse rispose
con altrettanta durezza il giudizio speculare di «rivoluzione» e di
«deformazione» vibrato dai cattolici contro la Riforma. Con la Rivoluzione
francese l’emancipazione degli ebrei dai vincoli e dalle interdizioni secolari
che li avevano colpiti non cancellò la divisione antica ma le dette caratteri
nuovi. Nel secolo scorso, due guerre mondiali e lo sterminio sistematico di
interi gruppi umani hanno conferito un carattere sempre più negativo ai
giudizi e alle considerazioni sui secoli dell’età moderna. Il razzismo,
l’intolleranza religiosa, l’oppressione coloniale dei popoli non europei,
l’antisemitismo hanno preso via via un posto eminente nelle domande che si
rivolgono alla ricerca storica. Ma, mentre accadeva tutto questo, è venuta
sbiadendo la scansione epocale della narrazione storica, e quello che è emerso
in primo piano è stato un interesse più concentrato sui secoli brevi della storia
contemporanea. La decolonizzazione, la separazione tra Chiesa e Stato, la
fondazione razionalista e scientista delle teorie razzistiche hanno fatto
apparire remota l’epoca dei processi dell’Inquisizione, dei ghetti e delle
esplorazioni oceaniche. Un caso speciale è quello dell’antisemitismo.
La parola stessa è un problema: le sue origini recenti e la matrice
culturale scientista delle teorie razzistiche di età contemporanea
impedirebbero di utilizzarla per la storia precedente, secondo coloro che
preferiscono parlare di «antigiudaismo» o «antiebraismo» per indicare
l’ostilità verso gli ebrei del mondo antico, greco e romano, e di quello di
matrice cristiana. Come per altri fenomeni storici, si confrontano nominalisti
e realisti e ci si chiede se è necessario che esista la parola perché si possa
riconoscere l’esistenza dell’oggetto. Una cosa tuttavia è evidente: chi insiste
sulla differenza tra le parole per inserire una divaricazione netta tra i
fenomeni di età contemporanea e quelli precedenti, lo fa rimarcando come
questi ultimi si fondassero su presupposti generali non di carattere scientifico.
Si vuole dunque distinguere tra l’atteggiamento di ostilità contro gli ebrei di
matrice religiosa e quello della cultura laicizzata e secolare post-illuministica.
Chi al di là delle parole cerca le analogie tra le cose, constata un fatto
singolare: se l’ostacolo religioso che suscitava l’ostilità dei cristiani era il
fatto che gli ebrei rifiutavano di credere a Gesù come Messia e non volevano
accettare il battesimo, come si spiegano le manifestazioni di odio antiebraico
rivolte contro chi aveva lasciato l’ebraismo e si era fatto battezzare? Perché,
come vedremo, questo è proprio il caso che la storia su cui ci soffermeremo
propone con tutta evidenza. E c’è poi il problema di come valutare gli effetti
sul divampare del moderno antisemitismo della lunga tradizione di ostilità nei
confronti degli ebrei veicolata dalle autorità delle Chiese europee: la
predicazione ufficiale delle Chiese cristiane e talune costanti negli
atteggiamenti del clero e negli orientamenti del papato in materia di governo
della minoranza ebraica hanno offerto materia di riflessione e di polemica a
questo riguardo9. Questo non significa che si possano cancellare le differenze
e porre sotto lo stesso segno i lunghi secoli premoderni della tradizione
antigiudaica e la vicenda del razzismo antisemita contemporaneo. Ma la
sorda resistenza di quei motivi tradizionali ne denunzia la radice profonda.
In apertura del Concilio Vaticano II i vescovi si trovarono sul tavolo un
volume che denunziava un «complotto contro la Chiesa», riprendendo l’idea
del complotto ebraico di matrice antisemita e sostenendo che «durante
diciannove secoli la Santa Chiesa [aveva] lottato accanitamente contro i
Giudei»10. Non erano convinzioni nuove o senza seguito. La tesi della verità
del complotto ebraico a prescindere dalla veridicità del libello antisemita dei
Protocolli dei savi anziani di Sion aveva pur trovato credito nell’autorevole
rivista dei gesuiti, «La Civiltà Cattolica», che dopo aver condotto una
campagna durissima contro gli ebrei alla fine dell’Ottocento colse nel 1921
l’occasione per scagliarsi contro «il vecchio giudaismo» come motore
nascosto del bolscevismo e della plutocrazia, forza occulta sempre intenta a
«dominare e sfruttare i popoli cristiani»11. Fu su queste basi che la stessa
rivista, nel 1938, cioè nel pieno delle persecuzioni naziste e mentre si
varavano le leggi razziali del fascismo italiano, accusò gli ebrei di essere un
potere pericoloso e appoggiò senza incertezze la versione fascista
dell’antisemitismo. E rivoli di questo che è diventato dopo Auschwitz una
specie di fiume carsico continuano a uscire allo scoperto ogni tanto.
Perciò senza fare l’errore di cancellare le differenze, che sono la carne e il
sangue della storia, bisognerà evitare di separare in camere stagne processi e
percorsi ricchi di analogie e non privi di parentele. E si possono sempre
confrontare dei modelli e verificarne i caratteri comuni, come ha proposto in
un saggio fondamentale Yosef Hayim Yerushalmi12, il grande storico che ha
dedicato la sua opera alle vicende dell’ebraismo iberico. Nell’inventario
dell’eredità della nostra storia occidentale l’impresa di allargare e
approfondire l’indagine oltre le colonne d’Ercole del razzismo
contemporaneo è da tempo in corso e ha permesso scoperte impreviste e
sorprese non da poco: lo si è visto quando qualcuno ha scovato e messo in
evidenza testi fortemente antiebraici di autori come Erasmo o Voltaire,
pilastri dell’idea di tolleranza e di libertà13.
C’è una zona d’ombra che la Shoah ha creato dietro di sé: come una luce
abbacinante che impedisce di vedere ciò che le sta alle spalle. In questo
tranello gli storici dell’età contemporanea hanno spesso finito col cadere.
Naturalmente l’inaudita novità di ciò che il Terzo Reich ha fatto è fuori
discussione e nessuna ricerca dei precedenti potrà mai stemperare le cose
avvenute nei lager in una specie di scala genealogica precedente. Ma il
problema del rapporto tra passato e presente continua a essere aperto e
irrisolto. La reazione degli storici alle tradizioni inventate, che tanta parte
hanno avuto nella legittimazione dei totalitarismi novecenteschi, ha messo in
crisi le costruzioni della propaganda di regime che proponevano filiazioni
dirette tra il fascismo e l’impero romano e tra il nazismo e la storia e la
cultura della Germania.
Solo ragioni propagandistiche prima – e di difesa in giudizio al tribunale
di Norimberga poi – spinsero gli ideologi del nazismo a presentarlo come
l’erede di una lunga storia tutta tedesca, che aveva i suoi pilastri in Meister
Eckart e Lutero, in Federico il Grande e Bismarck, in Wagner e Nietzsche.
Questa strategia della propaganda ebbe tale successo da essere fatta propria
dallo storico di Harvard Peter Viereck, antinazista per scelta e per vocazione
– e anche per opposizione al padre che fu un apologeta della Germania di
Hitler14. Ma il rapporto tra il passato e il futuro assomiglia ai processi
dell’eredità biologica: il nuovo è il risultato di un bricolage di elementi già
noti che producono un risultato imprevedibile. E solo l’analisi attenta può
fare emergere gli ingredienti entrati nella nuova realtà e il modo e il tempo in
cui si sono incontrati e mescolati. Perciò, se è stato salutare il rifiuto della
propaganda di regime che presentava lo Stato totalitario nazista come il frutto
maturo dell’intera storia tedesca e ne esaltava le scelte come la realizzazione
di una compatta tradizione nazionale di pensiero e di cultura, resta la
necessità di decifrare quegli ingredienti come si fa con i virus di una
infezione. Non perché si voglia «comprendere» la Shoah: davanti ai tentativi
di renderla comprensibile che si vengono proponendo per via di storia e più
ancora di romanzo, resta valido l’invito di Jean Améry a non voler
comprendere, a evitare quel tout comprendre che rischia di tradursi nel tout
pardonner. Ma conoscere si può e si deve.
Del resto, è stato proprio nell’ambito delle riflessioni e delle ricerche
intorno alla Shoah che si è fatto strada un processo a carico di quella entità
indistinta che il gusto filosofico e sociologico per le astrazioni ha definito la
«modernità». Da anni il sociologo Zygmunt Bauman sostiene che è stata la
«modernità» la premessa necessaria della Shoah15. Ma il suo è un atto
d’accusa che manca di una prova certa: astratta la nozione di «modernità»,
generiche le indicazioni sulla mentalità moderna e sull’ingegneria sociale
come caratteristiche del mondo europeo degli ultimi secoli. È appena un
piccolo passo avanti rispetto a quelle interpretazioni dell’antisemitismo e del
razzismo che rinviano a cause genericamente e geneticamente insite nella
natura umana: seppur fosse vero che i moti di rifiuto del diverso sono
incancellabili dalla natura umana e che la diffusione dell’«eterofobia», il
sentimento di ostilità verso «l’altro», è senza tempo, sarebbe pur sempre
obbligatorio cogliere le differenze tra le manifestazioni dell’avversione che si
sono storicamente determinate.
I tentativi di distinguere livelli crescenti di aggressività del pregiudizio
razziale, come quello compiuto da Pierre-André Taguieff16, restano
esercitazioni sociologiche prive di utilità per lo storico, che è in cerca di attori
e forze determinate. Ma anche nella proposta di individuare nella
«modernità» europea la radice del problema resta oscuro il nome del
colpevole. Colpevoli tutti e nessuno se è vero che la colpa d’origine
risiederebbe in una caratteristica della cultura moderna: quella di un bisogno
di distinguere e ordinare la società dividendo l’umanità per categorie.
Bauman ha offerto un’indicazione più utile quando ha parlato di «social
engineering», ingegneria sociale europea come funzione innescata da uno
specifico rapporto tra società e Stato: e questa suggestione è certamente
interessante per lo storico perché propone di guardare agli usi del potere in
un’epoca che ha visto l’origine dello Stato moderno.
Su questo punto cercheranno di concentrarsi le nostre osservazioni.
Anche per evitare i rischi di una oscillazione della ricerca divisa tra la
tentazione del risalire alle origini e la frammentazione dello scavo in
direzione di molteplici cause e differenti contesti. Il rischio del ricorso alle
origini è quello di smarrirsi nell’indistinto della perenne natura umana e della
tendenza a proiettare nell’altro da sé ciò che non si comprende, che si teme e
si odia. Più consueto è stato il tentativo fatto dagli storici di indagare episodi
concreti e di analizzare le cause politiche e sociali dell’intolleranza religiosa,
della violenza sui popoli coloniali, dell’antisemitismo: e le cause sono state di
volta in volta rintracciate in direzioni e contesti diversi. Per gli eretici, la lotta
per il potere e la formazione degli Stati nella ripresa europea medievale,
l’ascesa del papato romano nella Chiesa d’Occidente, i conflitti religiosi
dell’età della Riforma; per la discriminazione razziale e la violenza
nell’asservimento di popoli extraeuropei, il processo di formazione degli
imperi coloniali e la nascita di un’economia a scala mondiale.
Particolarmente viva è stata e continua a essere la discussione sulle radici
storiche della Shoah e sull’esistenza o meno di un nesso tra l’antigiudaismo
cristiano a fondamento religioso e l’antisemitismo delle ideologie razzistiche
ottocentesche. Al processo di Norimberga la linea di difesa adottata da Julius
Streicher, l’editore di «Der Stürmer», consistette nell’affermare che al suo
posto avrebbe dovuto trovarsi il dottor Martin Lutero. E già negli anni del
potere di Hitler i discorsi celebrativi del «giorno della Riforma» (il 31
ottobre) recarono elogi e citazioni di Lutero e di Hitler, come accadde nel
1935 a Dortmund per bocca del professor Hermann Werdermann17. Ma se
queste sono deformazioni interessate e propagandistiche, la questione della
presenza di un filone specificamente cristiano nella genealogia
dell’antisemitismo razziale è un problema reale, che investe tanto la variante
cattolica quanto quella protestante del cristianesimo europeo di età moderna.
Il tentativo della propaganda nazista prima e dell’apologetica cattolica poi di
mettere tutto sul conto della tradizione luterana e tedesca non è una risposta
adeguata. Come osservò già nel 1945 Delio Cantimori, segnalando un’opera
di propaganda nazista di monsignor Alois Hudal: «non c’è niente di
intrinsecamente opposto al cristianesimo, né di tipo protestante, né di tipo
greco-ortodosso, né di tipo cattolico, nello Stato ‘totalitario’ preso di per sé,
considerato in astratto, in teoria»18. E la ricerca storica ha fatto emergere
sempre più una componente cattolica nella elaborazione dell’antisemitismo
che sfociò nella Shoah19.
Resta da capire come e perché la componente religiosa dell’ostilità verso
gli ebrei non sia scomparsa con la crisi dell’antico regime, ma abbia trovato
nuovo alimento nel contesto del passaggio alla società nata dall’Illuminismo
e dalla Rivoluzione francese. Le ricerche che su questi temi procedono da
tempo non si limitano più agli anni e alle vicende della Shoah, ma scavano
anche nella storia e nella cultura dell’Europa cristiana medievale come pure
in quella dell’età dell’Illuminismo e della Rivoluzione. Le vie che si
dipartono da Auschwitz sono molte. E gli storici somigliano a quegli operai
che scavano una galleria e che perforano strati di roccia avvicinandosi dai due
lati della montagna al punto d’incontro: che è, in questo caso, il punto in cui
confluirà tutta la storia europea per rendere finalmente conto del percorso che
ha condotto all’esito della Shoah. Ci si avvicina per via di analisi di carattere
culturale, per permanenze di moduli concettuali, di ideologie, di formule
della propaganda: ma anche per via di comparazione di modelli. Yerushalmi
fu colpito dal ritorno di tendenze antisemite negli anni intorno al quinto
centenario della scoperta dell’America e propose di confrontare il modello
iberico di assimilazione degli ebrei e il modello tedesco di eliminazione. La
concezione iberica della purezza di sangue dei cristiani di lunga data e della
macchia ereditaria che si immaginava rendesse impuro il sangue dei
discendenti da ebrei, anche se battezzati, gli apparve come l’espressione di un
razzismo di fondo latente nella società tradizionale iberica20. Questo
naturalmente non significava per lui che l’analogia tra la concezione
dell’ebreo nella società iberica del Cinquecento e quella della Germania del
Novecento potesse essere tradotta in identità. Che in Spagna non si fosse
arrivati all’eliminazione fisica degli ebrei convertiti era un dato sufficiente a
segnalare le differenze sostanziali tra le due realtà storiche. Ma il problema
andava posto.
Per altra via le ricerche e le discussioni sulla nozione di razza hanno
permesso di sottolineare l’apporto della radice scientista della cultura
moderna alla violenza della discriminazione. Con l’affermazione
dell’esistenza in natura delle differenze di gradi di umanità, l’antica
maledizione religiosa veniva ratificata dal tribunale della ragione scientifica e
poteva prepararsi al passaggio successivo del decreto di eliminazione delle
razze inferiori come misura di igiene sociale nei confronti della
contaminazione da esse minacciata. Ma come non c’è niente di inevitabile
prima che accada e non c’è nessuna spiegazione storica che possa rendere
conto della Shoah, così è pur vero che la cesura tra l’età dell’intolleranza
religiosa e quella del razzismo scientistico non è così netta come potrebbe
sembrare.
Che cosa può dirci su problemi di tale vastità quella scena delle decisioni
di un potere monarchico nella Granada del 1492? Di primo acchito, tutto
sembra nascere da lì: quel potere decretò la cancellazione della presenza
religiosa ebraica nel momento stesso in cui avviava l’esplorazione atlantica e
rafforzava ed estendeva il tribunale dell’Inquisizione come potere politico-
religioso contro gli eretici. Ma solo un’immagine ingenuamente favolistica
del potere del re può risolvere un problema di conoscenza storica nel rinvio al
documento sottoscritto da un sovrano. L’ipotesi da verificare riguarda lo
spazio della storia politica nel flusso della storia sociale: la domanda che ci si
pone è quella elementare del rapporto tra un progetto di potere e l’origine
dell’intolleranza. Ci si chiede insomma se quello che accadde allora in
Spagna fu solo la ratifica di processi in corso nella società e l’esecuzione di
condanne già vive nelle menti, o se fu l’atto imprevedibile, arbitrario e
decisivo del potere ad aprire la via a una nuova storia. E una domanda
ulteriore riguarda l’eredità storica di quello che accadde allora, o almeno
quello che l’accadimento può insegnare a chi lo prende in esame dal punto di
vista del nostro tempo. Si tratta di capire quanto possa fare il potere politico
per dare forma agli ingredienti diffusi in una cultura e per cogliere le
occasioni offerte dalla storia. E il caso spagnolo si presenta come
specialmente significativo.
2.
GRANADA 1492.
UN NODO DELLA STORIA DEL MONDO

Un fatto è certo: il 1492 fu l’annus mirabilis della storia della Spagna. Ma


nel definirlo tale oggi si insiste più sulle fratture che allora si aprirono che
sulle realizzazioni e sulle conquiste che allora vennero celebrate1. Cerchiamo
di riportarci al panorama che era sotto agli occhi dei contemporanei. Qui, ai
margini dell’Europa, in un paese diviso per lingue, culture e religioni, i due
sovrani dei maggiori Stati della regione hanno raggiunto un obiettivo
importante. Hanno portato a termine il processo secolare della reconquista, la
crociata interna alla penisola iberica: togliere agli eredi dei conquistatori arabi
fedeli all’Islam i regni da loro edificati.
Ferdinando il Cattolico è il re dell’Aragona. Con lui, unita in matrimonio,
opera la regina Isabella di Castiglia, che ne condivide l’esaltata esibizione di
fervore religioso e guerriero. La caduta del regno moro di Granada segna il
trionfo di un cristianesimo bellicoso diventato ideologia ufficiale della casata
regnante. Ai confini estremi della penisola è cresciuta intanto una realtà
nuova: il regno del Portogallo, il quale non solo ha portato l’attacco al mondo
musulmano al di là dello Stretto di Gibilterra, ma sta costruendo un impero
marittimo sulle coste dell’Africa e ha mandato le sue navi fin nell’Oceano
Indiano. Se nel 1492 a Granada la scoperta dell’America era ancora nascosta
nelle nebbie del futuro, l’orizzonte dei sovrani spagnoli era però occupato
dalle vicende del confinante e concorrente regno di Portogallo, nel quale la
spinta verso le Indie durava da decenni e stava proprio allora per portare
all’obiettivo straordinario dell’approdo di Vasco da Gama alle coste
dell’India.
Il referente delle due case regnanti è lo stesso: il papato. Era stata una
concessione di Niccolò V che aveva legittimato la conquista di popoli non
cristiani e la loro eventuale riduzione in schiavitù in nome dell’espansione
della fede tra i «barbari». Se ne ricorderà la coppia reale spagnola quando, al
ritorno di Colombo con le notizie delle isole sconosciute scoperte nel «mar
Oceano», si farà riconoscere dal papa spagnolo Alessandro VI Borgia il
possesso di quella parte del mondo con l’argomento della sua devota
intenzione di espandere i confini della fede2. Quanto alla lotta contro l’eresia,
si tratta di un volto del cristianesimo medievale che aveva trovato da tempo
espressione nella nascita dell’Inquisizione contro l’eretica pravità. E l’odio
nutrito nei confronti degli ebrei come popolo dei deicidi apparteneva a una
tendenza radicata tra i cristiani della penisola iberica come in genere nella
cristianità europea.
La sfida che oppone le due realtà statali, quella del piccolissimo
Portogallo e quella del grande regno di Spagna in via di formazione, ha per
campo uno scenario mondiale, nel quale ambedue avanzano facendosi scudo
di un privilegio speciale: quello ottenuto grazie alle concessioni di un papato
che si sta risollevando da una gravissima crisi e che grazie a loro può
rispolverare la teoria medievale del suo supremo potere sul mondo intero3.
Nella penisola iberica conosce una rinnovata attualità la parola d’ordine della
crociata. È una parola ormai priva di presa nel resto di un’Europa cristiana
che ha assistito senza reagire alla caduta di Costantinopoli in mani turche. Il
tentativo di Pio II di metterne in moto una per soccorrere i cristiani d’Oriente
era finito con il papa lasciato solo ad attendere all’appuntamento di Mantova i
sovrani convocati che non si fecero vedere. Ma la forza dell’idea
universalistica dell’impero cristiano come strumento di salvezza per i popoli
da esso governati si rese operante nella penisola iberica. Era un’idea antica,
ereditata dalla concezione provvidenziale della missione dell’impero romano
per la diffusione del cristianesimo: quella stessa concezione che doveva
rivelarsi centrale nell’origine dei moderni imperi coloniali4.
Tale fu il caso dell’impero che esisteva in modo embrionale nella Spagna
della fine del Quattrocento. O meglio – visto che non esisteva ancora un
regno di Spagna – nella penisola iberica. Ma se il regno di Spagna doveva
nascere formalmente solo qualche anno dopo, era già in pieno svolgimento il
processo che doveva condurre alla nascita della Spagna come potenza statale
e impero mondiale. Qui la volontà di conquista e di inclusione di genti e
territori nuovi si manifestò intanto nella forma di una recisa volontà di
esclusione per chi non si lasciava amalgamare. Nel momento stesso in cui si
compiva trionfalmente il disegno dell’unificazione di tutto il territorio sotto il
potere di sovrani cristiani, venne decisa l’espulsione di tutti coloro che non
accettavano il battesimo.
Quello che riscontriamo nel caso della penisola iberica, e della
componente spagnola in particolare, è dunque un aspetto fondamentale di un
potere imperiale in formazione. Le premesse erano state poste nel corso di
una lotta secolare contro i regni mori. Qui la cruzada era qualcosa di più della
tassa intorno alla cui riscossione si discuteva tra sovrani e pontefici. L’idea
della reconquista e la lunga durata del conflitto tra regni cristiani e regni mori
aveva segnato profondamente la storia dell’intera penisola. Tra i regni
cristiani era stato il Portogallo che aveva riportato per primo il successo e si
era proiettato verso l’Africa: la vittoria sui mori non aveva arrestato la spinta
conquistatrice. Le navi cristiane si erano affacciate sulle coste dell’Africa,
avevano aggirato dall’Atlantico gli Stati musulmani mediterranei e messo a
punto le capacità tecniche e i mezzi per completare proprio in quel 1492 il
percorso oceanico verso le coste dell’India.
Rispetto al Portogallo i regni cristiani di Spagna erano dunque in ritardo;
ma quell’anno il ritardo fu cancellato. La gloria della conquista di Granada fu
tutta di Ferdinando d’Aragona e di Isabella di Castiglia, che la storia
successiva ricorderà come i «Re Cattolici», secondo il titolo onorifico
concesso loro da Alessandro VI nel 1496. Una consacrazione religiosa
guadagnata con le armi: da qui data l’affacciarsi del volto guerriero del
cattolicesimo nell’assetto politico e nella cultura dell’Europa. Se ne vedranno
a lungo le manifestazioni: lo spagnolo Iñigo di Loyola, fattosi religioso col
nome di Ignazio, suscitò straordinarie energie con la creazione di una
«Compagnia di Gesù» modellata secondo la struttura del corpo militare
obbediente e concentrata nella visione del mondo come il campo di battaglia
globale dei due eserciti schierati sotto le opposte bandiere di Dio e del
diavolo. E a lungo durò nella cultura iberica l’idea di una necessaria
omogeneità e alleanza tra la religione e le armi, come mostra il persistente
interesse del pensiero politico spagnolo per gli scritti di Niccolò Machiavelli
sul tema.
Con quegli ingredienti venne a compimento nel XV secolo un progetto di
unificazione statale della penisola iberica lungamente perseguito. Una
complessa operazione politica sorvegliata e protetta da un papa spagnolo
portò all’unione matrimoniale delle due dinastie regnanti nella Castiglia
contadina e nell’Aragona ricca di traffici e padrona delle grandi isole della
Sardegna e della Sicilia. Dai sovrani spagnoli Cristoforo Colombo vide
accettato il suo piano, che i portoghesi avevano rifiutato: una decisione che
cambierà la storia del mondo, ma che intanto denotava la volontà di
rivaleggiare col regno confinante del Portogallo e di sfruttare fino in fondo la
congiuntura del favore papale. Non ci fu allora mossa politica in area iberica
che non avesse una radice romana. Prima ancora di scoprire l’America o la
via delle Indie i sovrani iberici avevano imparato a battere la strada di Roma:
e a lungo la scoperta di Roma doveva apparire ai loro occhi più importante di
quella delle terre sconosciute d’oltreoceano5.
Torniamo ora a quella scena iniziale delle decisioni prese nella Granada
del 1492.
La conquista della città è del gennaio. L’editto reale di espulsione degli
ebrei non convertiti firmato da Ferdinando e Isabella fu redatto a Granada il
31 marzo. A Granada, infine, avvenne l’incontro di Cristoforo Colombo con
Isabella e fu raggiunto l’accordo per la spedizione delle caravelle fissato nelle
capitolaciones del 17 aprile di quello stesso anno.
3.
PRIMA DI GRANADA:
ALLE ORIGINI DELL’INTOLLERANZA

Nel 1492 ebrei, eretici e selvaggi si incontrarono dunque a Granada, uniti


nelle scelte di Ferdinando d’Aragona e di Isabella di Castiglia. Nessuna di
quelle tre figure, lo abbiamo detto, si poteva definire nuova. Antica e
tradizionale la presenza dell’ebreo: portatore della religione del Libro, era il
testimone delle profezie bibliche che attestavano la promessa divina di
inviare il Messia. Perciò, secondo l’argomento di sant’Agostino di Ippona, la
sua permanenza tra i cristiani doveva essere mantenuta perché offriva una
testimonianza della verità della fede cristiana. Per questo lo si accettava pur
con tutte le restrizioni e i limiti di una società dove l’unico sigillo della
appartenenza sociale era il battesimo. Ma la sua condizione giuridica e
sociale era quella di un oggetto del potere, un servo. In una società che
ignorava ancora il principio rivoluzionario e giusnaturalista secondo cui tutti
gli esseri umani nascono liberi e uguali, l’unica vera libertà e uguaglianza era
quella dei figli di Dio redenti dalla servitù del peccato originale grazie al
battesimo. Gli ebrei erano i soli esseri umani all’interno della società cristiana
privi di quella libertà: la definizione giuridica della loro condizione era quella
di servi Camerae, soggetti al potere, quello del sovrano o del papa come eredi
dell’imperatore romano.
L’eretico come nemico pubblico, minaccia della società cristiana, aveva
preso corpo con l’elaborazione di istituzioni e tecniche di ricerca e di
eliminazione nell’età di Innocenzo III e Federico II; e da allora esisteva un
sistema di giustizia speciale creata ad hoc che doveva caratterizzare
profondamente gli sviluppi successivi del sistema delle pene e dei delitti in
Europa.
E anche il selvaggio non era una figura nuova, anche se le popolazioni
americane dovevano essere rivelate di lì a poco all’Europa da Cristoforo
Colombo nella relazione presentata al termine dell’impresa affidatagli nel
1492. Le immagini che gli stampatori posero in apertura della relazione di
Colombo a Luís de Santángel mostrarono le caravelle mandate dal sovrano
che approdavano su isole popolate di uomini e donne nudi. Fu la prima
apparizione dei selvaggi. E le fantasie dei lettori di tutta Europa ne furono
profondamente colpite. E tuttavia nel dare forma visiva ai tratti del selvaggio
si fece uso di ingredienti che erano già disponibili, secondo quel lavoro di
bricolage che è tipico delle culture: nella ricca popolazione di razze
mostruose immaginate dalla cultura medievale, l’homo sylvaticus o homo
agrestis offrì i suoi caratteri alla raffigurazione del selvaggio d’America1. Fin
dalla metà del Trecento infatti le notizie sugli abitanti nudi e innocenti delle
Canarie e delle immaginarie «isole felici» avevano cominciato a circolare
risvegliando la curiosità di Petrarca e di Boccaccio2. Quanto alle
rappresentazioni e alle descrizioni di carattere letterario, le retoriche
celebrative della cultura umanistica non ebbero scelta: col selvaggio nudo e
vivente allo stato di natura (in puris naturalibus) si potevano confrontare solo
le popolazioni della mitica Età dell’oro. Ma il dispositivo giuridico che
permetteva di farne oggetto di conquista e di spoliazione fino alla schiavitù
era stato messo a punto qualche decennio prima, quando il pontefice Niccolò
V aveva concesso al re Alfonso V di Portogallo piena libertà di catturare e
soggiogare «saraceni e pagani» (bolla Dum diversas del 16 giugno 1452). Da
allora un fiume di schiavi dall’Africa subsahariana aveva cominciato a
entrare nell’orizzonte economico e sociale europeo. La categoria dei
«pagani» aveva alterato il modello chiuso del rapporto conflittuale fra le tre
religioni monoteistiche mediterranee. Ed era pronta a ospitare tutte le
diversità culturali e religiose del mondo che non aveva mai conosciuto la
predicazione del Vangelo cristiano.
Presenti dunque da tempo nel mondo europeo erano non solo i tre tipi
umani ma anche e soprattutto i sentimenti di rifiuto che li definivano come
figure dell’alterità negativa. Una parola doveva accompagnare le sorti loro ed
esprimere il modo in cui si concepì allora il sentimento della differenza:
«razza». Una parola che doveva indicare per secoli una forma speciale di
esclusione sociale, anche se la sua forza negativa è stata spesso coperta e resa
inavvertita da un uso genericamente neutrale del termine in funzione
ordinatrice e descrittiva delle differenze naturali tra specie animali (uomini
inclusi). Il che ha permesso di censire nel lemmario storico nomi come quello
di Immanuel Kant che ne fece uso nella sua grande opera geografica. Talché
a un grande studioso come Leo Spitzer parve di doverne individuare l’origine
nella parola «ratio»3. Singolare proposta da parte di uno studioso di
appartenenza ebraica che accostava la ragione al concetto più violentemente
irrazionale e più lontano dal dominio della mente come dotazione universale
degli esseri umani. Finché fu Gianfranco Contini a scoprirne una radice
storica in un verso di un poema medievale dove si diceva di un cavallo che
era di «grande razzo», un francesismo da haras, allevamento. Dunque non
ratio, ma generatio, non la ragione come possesso universale della specie, ma
la differenza di seme nella riproduzione come discrimine invalicabile tra i
diversi tipi di umanità. Commentava giustamente Contini: «Per l’appoggio
terminologico di tanta abiezione, ferocia e soprattutto stupidità, quanto è più
ricreativo [invece dei riferimenti al platonismo e alla Scolastica] avergli
scovata una nascita zoologica, veterinaria, equina!»4. Ora, proprio alla data
del 1492 erano avvenute cose che avevano dato impulso alla nozione di
differenze incancellabili tra esseri umani a seconda della nascita e
dell’appartenenza a un gruppo o a un altro. La marcia del razzismo era
cominciata e le cose che accaddero in quell’anno dettero un potente impulso
al suo cammino.
Nessuna delle tre figure che abbiamo individuato, lo si è visto, appariva
all’orizzonte per la prima volta. L’esplorazione coloniale portoghese delle
coste dell’Africa aveva introdotto l’immagine dei popoli subsahariani e la
presenza fisica degli schiavi dalla pelle nera nella vita dell’Europa cristiana.
Come raccontava il veneziano Alvise da Mosto, erano moltissimi gli schiavi
che i portoghesi portavano «a vender a Portogallo» rivaleggiando con le
scorrerie dei mercanti arabi5. Per quanto riguarda gli ebrei e i musulmani, i
cristiani avevano con loro un rapporto di ostilità di diversa natura e durata,
ma che aveva segnato profondamente i caratteri e gli sviluppi della società
europea. Antico e in qualche modo connaturato al cristianesimo era il legame
col popolo della Bibbia, disperso nella diaspora dopo la conquista di
Gerusalemme del 70 d.C. La loro religione era stata conservata nel mondo
cristiano che nella Bibbia ebraica trovava l’annuncio profetico del Messia.
Ma la resistenza degli ebrei alla conversione li aveva fatti segno di
aggressioni non solo dottrinali.
La presenza degli ebrei nella penisola iberica datava da tempi
antichissimi; la prima traccia documentaria è il nome scolpito su di una pietra
tombale del III secolo: Anna «Judaea»6. All’arrivo dei visigoti dovettero fare
i conti con le conseguenze della conversione di quel popolo al cristianesimo e
con quelle della concezione privatistica del regno che imponeva ai sudditi la
religione del sovrano. Così nel 613, per ordine di re Sisebuto, tutti gli ebrei
erano stati obbligati a battezzarsi sotto pena di essere venduti come schiavi se
scoperti colpevoli di «giudaizzare». Ma con la conquista musulmana che a
partire dal 711 investì gran parte della penisola fu di nuovo possibile
professare apertamente l’ebraismo e si aprirono le porte all’immigrazione di
nuove ondate di ebrei dall’Oriente e dall’Africa, che fecero della Spagna il
centro più vivo della cultura talmudica. In seguito, cedendo la primitiva
tolleranza a ondate di rigorismo musulmano e di persecuzioni, gli ebrei
fuggirono verso i regni cristiani: fu l’inizio di un viaggio dall’estremo
Occidente europeo verso l’Oriente – un viaggio che non doveva conoscere
soste. La condizione di questa minoranza fu a lungo quella di una incerta
sopravvivenza nella terra di nessuno tra la guerra santa musulmana e la
crociata cristiana. Le relazioni fra i tre popoli del Libro lasciarono alla
minoranza ebraica una posizione più defilata, anche perché la qualità
intellettuale e le capacità operative e professionali di buona parte dei suoi
membri le garantivano funzioni importanti nell’amministrazione fiscale e nel
commercio. Invece nel rapporto dei cristiani coi musulmani, al conflitto
religioso per il dominio esclusivo dell’interpretazione della Bibbia si era
aggiunto lo scontro armato.
Rispetto al contesto europeo si può dire che in Spagna si viveva nel clima
di una crociata permanente. Qui il movimento delle crociate, scatenato dalla
caduta di Gerusalemme in mano musulmana, veniva alimentato da campagne
di predicazione che scatenavano forme di intolleranza violenta. Anche altrove
la partenza dei crociati ebbe come rituale d’avvio periodiche esplosioni di
violenza contro le comunità ebraiche rimaste nei territori dell’antico impero
romano: i «pogrom». Le ondate ricorrenti di aggressioni avevano esaltato la
coscienza ebraica del martirio per la fede e lasciato nelle piccole comunità
della diaspora la memoria benedetta di chi aveva onorato il nome di Dio:
questa memoria doveva costituire il legame identitario tra i dispersi membri
dell’antico popolo eletto almeno fino a quando nacque e si sviluppò una
storiografia moderna all’interno della cultura ebraica7.
La violenza aveva un riferimento obbligato: il battesimo. Il segno
cristiano della cancellazione delle colpe umane e dell’universale elezione a
figli di Dio era diventato la barriera del conflitto e dell’insanabile
opposizione col popolo eletto della Bibbia e col segno dell’elezione ebraica:
la circoncisione. Per questo, immemori del carattere fondamentale della loro
fede, quello che la intendeva come una scelta personale e volontaria, gli
aggressori cristiani ne imponevano l’accettazione con la violenza. Il
battesimo era allora vissuto da ambo i lati come un rito che trasformava la
persona che lo riceveva a prescindere dalla volontà del ricevente. Era un
problema nuovo, rispetto a quello che si era affacciato al tempo della
persecuzione dei cristiani nell’impero romano, quando l’apostasia di chi era
tornato a sacrificare agli dèi era stata vissuta come una colpa e una frattura
all’interno della comunità ecclesiale. C’era voluta la situazione di potere
creata dalla svolta costantiniana perché quella colpa diventasse nella
codificazione teodosiana un delitto punibile dai tribunali dei vescovi. Nella
realtà del cristianesimo medievale il delitto di apostasia prese una forma
nuova: quella di chi, battezzato a forza, rinnegava il sacramento e tornava alla
religione della sua gente. E lo strumento della pena erogata dai tribunali
ecclesiastici assunse forza ed efficacia con la nascita dell’Inquisizione come
tribunale per i delitti contro la fede.
Il battesimo, da lavacro salvifico e segno esteriore della fede nutrita nel
cuore, si trasformò dunque ben presto in un passaggio rituale dagli effetti
magici: e il suo valore di barriera materiale si accentuò nel conflitto con le
altre religioni monoteiste mediterranee. È un passaggio che ha lasciato una
traccia nelle varianti di un verso della Divina Commedia (quello di Inferno
IV, 36) dove si registrano le oscillazioni della concezione del battesimo tra
«parte» della fede e «porta» d’ingresso tra i salvati8. Una porta a senso unico:
la materializzazione del sacramento in un’operazione di trasformazione
incancellabile della persona doveva suggerire a chi lo amministrava e a chi lo
riceveva la convinzione di avere a che fare con qualcosa di definitivo. Chi lo
imponeva costringeva alla salvezza i non volenti; e chi se lo vedeva imporre a
forza ricorreva a ogni forma di difesa per evitarlo e inventava rituali
complicati di cancellazione fisica per liberarsene.
In una cronaca ebraica, quella di Rabbi Salomon, troviamo il racconto di
quel che accadde nelle comunità ebraiche della Renania tedesca nel 1096;
davanti ai crociati che tentavano di battezzare a forza i loro figli ci furono dei
genitori che ricorsero all’estrema tragica difesa dal pericolo dell’idolatria: li
uccisero9. Ma intanto nelle vicende successive del rapporto ebrei-cristiani si
fece strada una possibilità nuova tra i due estremi del martirio e della
conversione: quella di chi, battezzato a forza, non abbandonava l’antica
religione e, potendo, ritornava a professarla. Così fu per gli ebrei renani, che
poterono tornare alla propria religione col consenso dell’imperatore Enrico
IV. E la vicenda si ripeté da allora in poi più volte.
Su questa categoria creata dalla violenza si doveva sviluppare un lungo e
drammatico processo storico. Ogni ondata di aggressioni produceva
convertiti: e anche se non mancarono dubbi sulla validità del sacramento
amministrato a forza, questo non impediva che si riproducessero tentativi di
cancellare la differenza religiosa ebraica. Spingeva in quella direzione la
forza delle attese apocalittiche del compimento della storia che attendeva il
sigillo finale dalla conversione del popolo ebraico, l’ultimo a convertirsi
secondo l’interpretazione cristiana delle profezie bibliche. Le cose si
aggravarono per effetto dell’azione degli ordini mendicanti che svilupparono
una virulenta predicazione antiebraica. Li muoveva una duplice urgenza:
quella di una religione della povertà e della sofferenza che si rispecchiava
nella figura del Cristo della Passione e quella di una volontà di accelerare
l’avvento del Giudice divino dell’Apocalisse realizzandone l’ultimo
antefatto: la conversione degli ebrei, appunto, la fine della loro ostinata cecità
davanti alla verità della venuta del Messia.
In Spagna l’opera dei predicatori e l’efficacia dell’idea di crociata
conobbero una forza altrove ignota grazie alla continua attualità del conflitto
con la presenza musulmana e del confronto con la minoranza ebraica. Fu nel
contesto speciale creato da questa realtà di fatto che si sviluppò una virulenta
predicazione contro gli «infedeli» e contro gli ebrei.
Per questa via gli ingredienti dell’antiebraismo vennero messi insieme e
diffusi in modo capillare. Si accentuarono così nella realtà iberica caratteri
diffusi nel resto dell’Europa cristiana: tale fu ad esempio la tendenza dei
poteri laici ed ecclesiastici a creare per gli ebrei forme rituali di esecrazione e
di umiliazione nei palii cittadini e a imporre loro barriere di allontanamento e
di interdizione dai rapporti con la restante società cristiana. In regime di
cristianità, religione e norme di vita civile coincidevano. Si poteva anche
consentire la presenza nella società di persone di altra religione, come
accadeva nella penisola iberica medievale dove musulmani ed ebrei erano
diffusamente presenti: ma nelle Siete partidas di Alfonso «el Sabio» – un
codice di lunga durata nella tradizione spagnola – si disponeva che al
passaggio del sacerdote con l’Eucarestia anche ebrei e musulmani si
inginocchiassero con gli stessi segni di reverenza dei cristiani. E questo
semplicemente perché l’Eucarestia era la verità che passava. Chi negava
ostinatamente quella verità e lo faceva all’interno della società cristiana senza
per questo essere punito dalle norme canoniche appariva come un essere
umano difettivo. Si era formato così uno stereotipo dell’ebreo come membro
di una specie particolare. È indicativa della volontà di attribuire loro un vero
e proprio difetto di umanità quella norma penale che colpiva ebrei e animali
con l’impiccagione a testa in giù10.
Ma rispetto ad altri contesti cristiani europei c’è un tratto speciale che
caratterizza l’antigiudaismo spagnolo. Nella penisola iberica la presenza
tradizionale di una minoranza ebraica incomparabilmente più numerosa e più
fortemente radicata di quelle presenti in altri paesi europei fu la premessa che
rese l’antigiudaismo un ingrediente essenziale nel legame che si sviluppò tra
gli ordini religiosi e il potere politico. Le ambizioni politiche delle dinastie
regnanti furono stimolate da una campagna violentemente aggressiva dei
predicatori francescani e domenicani, che trovarono qui le condizioni per una
duratura alleanza col potere. Gli argomenti dell’intolleranza religiosa e
dell’ostilità verso il «popolo deicida», consueti nella predicazione e nella
elaborazione teologica e morale degli ordini minori, si poterono sostanziare
di un rapporto speciale con poteri monarchici in crescita e con una ideologia
missionaria sviluppata nel conflitto con le presenze musulmana ed ebraica. A
partire dalla metà del Duecento, francescani e domenicani fecero il loro
ingresso nella società spagnola dedicando una speciale attenzione alla
presenza degli ebrei. Le figure più autorevoli dei due ordini gareggiarono nel
dar vita a una virulenta campagna di predicazione, pervasa da visioni
apocalittiche e annunci profetici e destinata a offrire ai sovrani dell’Aragona
e della Castiglia un’alleanza politico-religiosa. Il contesto della loro azione fu
segnato dalla diffusione di quella che è stata definita una «blood piety»11, un
misticismo del sangue di Cristo e della partecipazione del cristiano al
sacrificio del Salvatore attraverso quel sangue: la definizione del dogma della
transustanziazione al Concilio Lateranense IV nel 1215 fu una tappa capitale
in questo senso. Si avviò allora una tradizione che, pur radicata nelle culture
religiose e teologiche francescana e domenicana, doveva conoscere nella
penisola iberica uno speciale successo e assumere caratteri peculiari. Chi
confronta la predicazione di un san Bernardino da Siena con quella del suo
confratello catalano Francesc Eiximenis può vedere come l’antigiudaismo
cristiano comune ai due si differenzi nei suoi esiti e assuma toni più o meno
radicali in ragione della diversità dei destinatari. Se san Bernardino si
rivolgeva a una città di mercanti a reggimento comunale, il francescano
catalano poté contare sul rapporto con una monarchia pronta a cogliere
l’impulso a fare della religione uno strumento di potere.
Negli scritti e nelle prediche del domenicano san Vicente Ferrer e del
francescano Francesc Eiximenis, la proposta avanzata ai detentori del potere
fu quella di investire ogni energia nel compito della conversione religiosa del
popolo soggetto al governo del principe cristiano. La conversione dei non
battezzati, come mezzo essenziale per costruire un regime giusto e benedetto
da Dio, fu l’obiettivo a cui si indirizzò il loro impegno. Nacque allora
l’ideologia della missione come alternativa alla crociata e furono poste le
premesse dell’espansione missionaria extraeuropea, che doveva caratterizzare
l’età delle scoperte geografiche e delle navigazioni atlantiche. Chi ha cercato
le possibili fonti delle convinzioni profetiche apocalittiche di Cristoforo
Colombo si è imbattuto nel filone di commenti all’Apocalisse di ambito
castigliano, un genere che aveva alle spalle la tradizione nata nel Trecento12.
L’impegno missionario per la conversione dei non cristiani che rese famoso
san Vicente Ferrer e il profetismo apocalittico che condivise con Francesc
Eiximenis appartenevano alla tradizione dei loro ordini religiosi: ma quella
tradizione attecchì in Spagna con caratteri speciali, sia per la presenza di una
forte minoranza ebraica e musulmana, sia per il vincolo che vi si creò tra il
potere politico e il mondo degli ordini religiosi. Nell’infiammata predicazione
e nella imponente opera letteraria dei due autori, il ricorso al profetismo
visionario e le interpretazioni del libro dell’Apocalisse furono il veicolo di
disegni e progetti di grande impatto culturale e dall’immediato valore
politico. Ne erano autori personaggi che per il loro prestigio pubblico di
religiosi e di dotti, ma ancor più per l’opera che svolgevano come predicatori
di gran seguito, erano in grado di mettere in collegamento diversi ambiti della
società e di offrire alle ambizioni di un potere monarchico in crescita una
forte motivazione e una potente cassa di risonanza.
Nella Spagna della reconquista le casate regnanti non potevano ignorare
la forza suggestiva dei miti dell’onore e della missione del potere cristiano.
Ne è documento fra gli altri il Libro del cristiano scritto da Francesc
Eiximenis tra il 1379 e il 1384: un trattato che affidava al sovrano
dell’Aragona il disegno di un assetto del corpo politico cristiano sotto il
segno della nobiltà, della lealtà e della purezza di religione. Anche della
purezza di sangue. Ed è qui che fa capolino la figura del giudeo. L’orrido
giudeo, il porco, è l’antimodello per eccellenza: non solo l’ebreo noto come
tale ma anche chi ne discendeva per legami di sangue. La maledizione del pio
francescano cala implacabile sull’arrivista che si è infiltrato a corte: e dietro
l’indegno cavaliere, l’«orrido porco» che dovrà essere espulso dalla corte, è
svelata l’identità nascosta del «figlio segreto di qualche orrido giudeo»13.
Quanto a san Vicente Ferrer, le sue intense campagne di proselitismo non
risparmiarono gli ebrei. Pochi mesi prima del grande pogrom del 1391 era
attivo in Castiglia; e se è vero che gli scritti del predicatore sono celebri
proprio per l’insistenza sulla missione come alternativa pacifica alla crociata,
non è detto che le sue immagini fiammeggianti venissero intese nel senso
giusto dagli ascoltatori quando parlava di «matar los juheos» con le parole e
non col coltello; di fatto la pressione da lui esercitata sugli ebrei perché si
battezzassero fu particolarmente forte negli anni più drammatici per le
comunità ebraiche spagnole14. E comunque le folle cristiane assorbivano un
messaggio di violenza e di vendetta dalla voce dei predicatori, che nella
Settimana Santa li muovevano a piangere per le sofferenze del Cristo piagato
e sofferente della Passione, dipinto nei grandi retabli delle chiese. Nasceva
allora l’impulso vendicativo contro i responsabili di quel martirio: gli ebrei
eredi del popolo di Gerusalemme che aveva voluto la crocefissione del Figlio
di Dio. Inutilmente gli ebrei spagnoli cercarono di distinguersi dal «popolo
deicida», inventandosi attestati apocrifi di una loro presenza in Spagna già
all’epoca del processo a Gesù; non diversamente da quegli eredi dei
musulmani di Spagna che alla fine del Cinquecento, avvicinandosi anche per
loro la tempesta dell’espulsione definitiva, cercarono di parare il colpo coi
reperti di una antichissima tradizione arabo-cristiana spagnola inventata per
l’occasione15.
Di fatto fu con l’ingresso sulla scena della predicazione dei frati e del loro
tribunale dell’Inquisizione che la condizione degli ebrei spagnoli cominciò a
cambiare. Nei confronti degli ebrei non ci fu più solo un generico clima di
ostilità, legato alla condizione sociale di questa minoranza e alla funzione di
agenzia finanziaria e fiscale svolta dai suoi esponenti più in vista. La fanatica
volontà di snidare l’eretico e di conquistare le folle fece leva sull’immagine
del Cristo della Passione come veicolo di un patetismo religioso che
assimilava il peccatore e il miscredente agli ebrei deicidi. Sull’ebreo calava lo
stereotipo diabolico della negazione della fede e della sacrilega ostinazione
nell’offesa a Cristo. Tra gli ingredienti più efficaci ci fu quello della
cosiddetta accusa del sangue, una leggenda dalle origini oscure diventata
progressivamente una minaccia incombente sulle comunità ebraiche interne
al mondo cristiano. Se nella realtà storica la Pasqua cristiana era nata dalle
radici della Pasqua ebraica, nei rapporti di forza tra la nuova religione
universale e l’antica fede ebraica quella filiazione si rovesciò in esecrazione.
Nei riti ebraici della Pasqua si credette di vedere una contraffazione dei
propri. Quella dei cristiani era una celebrazione della vita, un sacrificio senza
sangue, che attualizzava l’unico sacrificio di Gesù come vittima immolata per
la salvezza dei credenti. Il che non aveva impedito che nel mondo pagano
delle origini se ne parlasse come di riti in cui si sacrificava e si mangiava un
bambino. La stessa accusa venne lanciata ora contro gli ebrei, sospettati di
immolare per la loro Pasqua un bambino cristiano e di impastare col suo
sangue il pane del rito pasquale.
Una sommaria cronologia degli episodi – a partire dal primo caso, quello
del dodicenne William di Norwich del 1144, raccontato dal monaco Thomas
di Monmouth, fino alla vicenda del processo di Kiev nel 1913 e oltre –
mostra chiaramente che la catena di orrori prodotti da questa truce leggenda
ha toccato ogni paese europeo: con esiti diversi, tuttavia, perché se
l’imperatore Federico II di Svevia bloccò sul nascere uno di questi episodi,
altri poteri politici e religiosi ne alimentarono e sfruttarono le emergenze.
Tale fu il caso spagnolo. A Saragozza nel 1250 la tradizione ha fissato il caso
di un Dominguito del Val (al tempo del caso di Kiev ci fu chi attribuì al
segretario di Stato di papa Leone XIII, il cardinale Merry del Val, il santo
spagnolo come antenato). L’accusa del delitto rituale si saldò a quella del
complotto, un’altra costante che lega l’antigiudaismo cristiano
all’antisemitismo razziale. L’ebreo non fu visto solo come colui che uccideva
i bambini cristiani, in un contesto religioso malvagio e ostile, ma come colui
che complottava per lo sterminio di tutti i cristiani. E l’accusa del complotto
fu lanciata con la costruzione di un complotto vero e proprio. Nell’estate del
1321 fu elaborata e diffusa ad arte l’accusa agli ebrei di tramare contro i
cristiani, in accordo segreto coi lebbrosi e con l’alleanza di sovrani
musulmani: il nemico interno doveva avvelenare i pozzi aprendo così la
strada all’aggressione vittoriosa del nemico esterno16. Accusa facile a essere
creduta: non era forse l’ebreo «l’altro in mezzo a noi», colui che vivendo tra i
cristiani rideva di loro, come scriveva in quegli anni Dante Alighieri («sì che
l’ebreo di voi tra voi non rida»)? Da questi inizi prese corpo il nucleo
originario della figura del nemico interno e il processo di espulsione degli
ebrei dai regni cristiani di Francia e d’Inghilterra. La crisi della «peste nera»
del 1348 sconvolse la società europea. La paura del nemico invisibile e il
superstizioso timore di una punizione divina per la presenza di nemici di Dio
nella società portarono a scaricare su frange di emarginati e di diversi la
violenza accesa dal terrore della morte. Meccanismi dello stesso genere
dovevano riprodursi ancora nei secoli successivi.
Mentre su questo sfondo si producevano aggressioni e stragi di ebrei, in
Spagna l’ondata di violenze andò crescendo fino a sfociare nel 1391 in un
massacro di grandi proporzioni, con migliaia di morti e decine di migliaia di
battesimi forzati in tutto il paese e nelle isole Baleari. Scoppiato a Siviglia e
diffusosi in tutta la Castiglia, in conseguenza della propaganda antigiudaica
diffusa in funzione di un conflitto dinastico, il moto antiebraico portò a eccidi
di massa e alla conversione di un gran numero di ebrei per sfuggire alla
morte17. Si verificò allora l’ingresso nella società di molti nuovi cristiani,
anzi – come dovevano essere definiti – di «cristianos nuevos», visti come
contrapposti ai «cristianos viejos». Fu questa l’origine del fenomeno dei
«conversi» o «marrani», termine di origine incerta attestato già intorno al
1380 e poi usato come insulto contro gli ebrei battezzati18.
La coscienza della sopraffazione lasciò lo strascico di un odio speciale nei
confronti delle vittime. La figura del «converso» fu circondata dall’alone del
dubbio: era vera la sua conversione, oppure rimaneva nel segreto del suo
cuore l’antica ostilità contro i cristiani? Nel rapporto tra vecchi e nuovi
cristiani nasceva così il sospetto del nemico interno, del falso cristiano, tanto
più infido e pericoloso quanto più indistinguibile dai veri membri della
Chiesa. Ben si sapeva che in buona misura quelle conversioni erano frutto di
violenza. Alla base dell’odio contro i conversos c’era dunque la natura di
quella conversione: ritenuta vera per gli effetti oggettivi determinati dal
sacramento del battesimo, e perciò radicale e irreversibile, ma anche sospetta
di essere finta per quanto riguardava la fede reale del nuovo cristiano. La
permanenza degli ebrei battezzati nello stesso contesto, con gli stessi legami
sociali, con la tendenza a conservare pratiche e forme rituali antiche, li
esponeva all’accusa di ricadere nell’antica religione – di «giudaizzare». E
questo faceva avanzare sulla loro testa la minaccia di essere sottoposti al
tribunale dell’Inquisizione come apostati dal cristianesimo. La norma fu
varata con la decretale Turbato corde di papa Clemente IV e confermata nel
1274 da papa Gregorio X: riguardava i cristiani convertiti all’ebraismo ma
anche gli ebrei che li avevano indotti a tale passo.
Sulla validità formale del battesimo amministrato a forza, o comunque in
condizioni di violenza minacciata o temuta, c’era stato un pronunciamento di
Bonifacio VIII che sostanzialmente aveva confermato la validità del
sacramento. Quanto all’Inquisizione, la parola rischia di evocare l’alone cupo
dell’immagine violenta e arbitraria di quel tribunale elaborata nei secoli
moderni. In realtà, il tentativo di creare un tribunale attento alle regole e
impegnato nella ricerca (inquisitio) della verità poteva significare perfino un
progresso rispetto alla situazione precedente. Tra le regole, una in particolare
limitava il ricorso alla tortura, ammessa per i casi di eresia da papa Innocenzo
IV con la bolla Ad extirpanda (1252) ma solo in presenza di indizi importanti
e a patto di limitarne la durata e di escluderne vecchi, malati, donne incinte e
bambini. Ma la pratica della giustizia inquisitoriale doveva via via assumere
caratteri diversi a seconda delle autorità a cui fu affidata: e il passaggio dal
tribunale vescovile a quello dell’Inquisizione papale delegata ai frati fu un
momento decisivo di questa storia, prima che l’intera macchina del tribunale
venisse messa al servizio del potere politico.
L’estensione agli ebrei della giurisdizione inquisitoriale era materia
discussa: in teoria era esclusa proprio dalla non appartenenza al popolo dei
battezzati, anche se il papato si lasciò aperta la possibilità di intervento contro
le dottrine e le pratiche ebraiche ritenute difformi da una ipotetica ortodossia
ebraica e gli inquisitori affermarono, con Nicolau Eymerich, il diritto di
processare l’ebreo che negava la Trinità. Ma nei casi degli ebrei convertiti o
dei loro figli bastava il sospetto di un ritorno alla pratica dell’ebraismo per
spalancare la porta alle procedure del tribunale della fede. Registriamo questo
passaggio come un momento decisivo del nuovo orizzonte che si apriva. Nel
raggio d’azione di un tribunale al servizio dell’autorità suprema del mondo
cristiano entrava la condizione dell’ebreo convertito – il «converso».
Dovremo dunque rivolgere l’attenzione a questo aspetto della storia: non
siamo più davanti alle pulsioni incontrollabili delle folle come espressione
della forza «naturale» del pregiudizio. È entrata in scena un’istituzione dotata
di grande potere, posta nelle mani di un’organizzazione dedita all’educazione
e al governo delle coscienze e dotata di immenso prestigio. Tuttavia, prima di
approfondire la realtà spagnola a questo proposito, bisogna fare una piccola
premessa, onde evitare che l’opera dei frati e quella del tribunale ecclesiastico
dell’Inquisizione vengano classificate immediatamente sotto il segno
dell’arbitrio e della violenza. Il versante dell’ostilità verso gli ebrei fu solo
una componente interna della proposta di francescani e domenicani, che
funzionò come un risveglio religioso del cristianesimo occidentale
(Machiavelli parlò di un rinnovamento di una religione invecchiata che
altrimenti sarebbe morta). Ma il risveglio stimolò anche un rinnovato bisogno
di purezza e di interiorizzazione, unito a un senso di pericolo per
l’inquinamento minacciato dall’ebraismo come religione rituale. Il che aiuta a
comprendere perché l’ostilità verso gli ebrei doveva aumentare nell’età della
Riforma e caratterizzare uomini diversissimi come Erasmo da Rotterdam e
Martin Lutero.
In Spagna la quantità di convertiti – sia pure a forza – aveva creato una
situazione speciale: cresceva un gruppo umano che non era più definibile
come composto da ebrei, ma della cui ortodossia cristiana si avevano forti
ragioni per dubitare. Non solo: liberi dalle interdizioni che colpivano gli
ebrei, i «conversi» si vedevano aprire nuove possibilità di ascesa sociale e di
potere, mentre uscivano anche fisicamente dagli spazi fisici e amministrativi
della alijama e delle juderías. E intanto, mentre si chiudeva progressivamente
l’orizzonte occidentale europeo, una nuova realtà prendeva corpo a Oriente
con l’avanzata degli ottomani e la conquista turca di Costantinopoli nel 1453.
Da qui nacque un nuovo elemento di tensione: fu in questa direzione che si
aprì la via di fuga per gli ebrei da un mondo cristiano europeo fattosi sempre
più ostile e in particolare dalla penisola iberica. Qui la popolazione di
religione ebraica che vi era affluita conosceva situazioni di continuo pericolo
e si vedeva aperta solo la frontiera verso il Portogallo – una possibilità che
doveva chiudersi presto anch’essa, come vedremo.
Ma per comprendere appieno quanto fosse singolare la situazione creata
dalle campagne per la conversione degli ebrei, bisogna aver presente che i
battesimi forzati avevano determinato una situazione nuova non solo sul
piano giuridico (il nuovo cristiano entrava, come abbiamo visto, nella sfera
giurisdizionale dell’Inquisizione, alla quale spettò giudicare le accuse di
apostasia, cioè di ritorno alla pratica dell’ebraismo). Il conflitto era tra verità
oggettiva del sacramento e falsità soggettiva della fede del neofita. Alla base
di tutto c’era, come si è detto, la convinzione che quella conversione fosse da
un lato vera per gli effetti oggettivi determinati dal sacramento del battesimo,
dall’altro finta per quanto riguardava la fede reale del nuovo cristiano. E il
problema si è riproposto in sede storica: si tratta di capire se effettivamente i
«nuovi cristiani» erano degli ebrei mascherati o se invece avevano
abbracciato realmente la nuova fede. Vedremo come questo problema abbia
dominato le valutazioni storiografiche dell’operato delle Inquisizioni
iberiche. Ma intanto si deve rendere conto del modo in cui allora fu sostenuta
la tesi della segreta apostasia diffusa tra i cristianos nuevos. E qui emerge un
fatto significativo: la tesi fu avanzata non sulla base della realtàdi cui si
poteva fare esperienza, ma con l’argomento di una differenza fisico-morale
incancellabile tra ebrei e cristiani. Fu questo il convincimento che ispirò al
capitolo canonicale di Toledo nel 1449 la promulgazione della Sentencia-
Estatuto dove si imponeva uno sbarramento all’ingresso nel capitolo per chi
non possedeva il sangue puro (sangre limpio) del vero cristiano e aveva
invece ereditato quello impuro dell’ebreo battezzato19. Inutilmente il giurista
Montalvo oppose a questa decisione la tesi dell’efficacia universale del
battesimo. La presa dell’argomento del sangue traeva la sua efficacia da un
altro sacramento, l’Eucarestia, che univa i fedeli nel corpo mistico di una
Chiesa concepita come comunità di sangue: un’idea teologica capace di
alimentare un nazionalismo di tipo razzista. Più attenta alla natura razziale
della discriminazione fu la scrittura polemica di un «converso» di Toledo,
Fernán Díaz, che dimostrò come, nel corso dei settecento e passa anni
trascorsi dai primi battesimi di ebrei spagnoli, il loro sangue si fosse
trasmesso per molte vie, tanto che nessuno poteva essere sicuro di non averne
nelle vene20. L’argomento fu riproposto nel secolo successivo dal teologo
domenicano Tommaso de Vio da Gaeta, detto «il Caietano», che, per
dimostrare quanto fosse irragionevole l’argomento del sangue, ricordò che
dal lignaggio ebraico erano pur nati Cristo e gli apostoli.
Ma intanto in Spagna si venne diffondendo l’idea di una differenza
naturale, di sangue, tra cristiani ed ebrei. La tesi trovò una convinta difesa e
divulgazione nell’opera del francescano Alonso de Espina, un predicatore che
conobbe una popolarità straordinaria grazie alla campagna oratoria dai
violentissimi toni antigiudaici condotta in Castiglia a partire dal 1454. La
predicazione di Espina raccoglieva e rilanciava tutti i temi elaborati dalla
tradizione francescana nella sua accentuazione del tema del Cristo sofferente
della Passione e nella connessa esecrazione del popolo deicida. Vi
aggiungeva di suo una proposta radicale: bisognava escludere i convertiti da
tutti i corpi istituzionali di maggior potere e prestigio della società spagnola,
come gli ordini cavallereschi e i capitoli delle cattedrali. La differenza
sociale, che altrove si stava fissando sull’idea di nobiltà come eredità
trasmessa col sangue, nel contesto spagnolo assumeva l’aspetto di una
divaricazione incomponibile tra due diverse identità religiose: l’una autentica,
originaria e antica, l’altra recente, inaffidabile e da tenere sotto controllo.
Espina raccolse tutte le leggende relative al delitto del sangue e contribuì
personalmente a creare un caso nuovo: nel 1454 una sua denunzia contro gli
ebrei di Valladolid per il sospetto di un delitto rituale contro un bambino
cristiano fece arrestare e torturare gli accusati, che si sottrassero alla morte
solo grazie a un ordine del re.
La sua campagna antigiudaica culminò nell’opera Fortalitium fidei contra
Judaeos, Sarracenos, aliosque fidei inimicos, risalente al 145921. Qui Espina
riprese e argomentò la tesi della naturale «perfidia» ebraica, che ritrovava nei
conversos contro i quali era diretta la sua polemica. La parola «perfidia»
ritorna con ossessiva continuità nei documenti. Era da tempo il sigillo, il
segno di riconoscimento dell’ebreo, persona per definizione malvagia e
incline al tradimento. Era entrata in uso fin dal VII secolo d.C. in una
preghiera «pro perfidis Judaeis»: questa preghiera si era fissata nella forma di
una richiesta a Dio perché togliesse dagli occhi degli ebrei il velo di tenebra
che impediva loro di riconoscere Gesù come il Cristo; nella liturgia della
Messa cattolica doveva restare per molti secoli e venne cancellata solo nel
1959. Fino ad allora c’era stato solo un isolato tentativo di togliere quella
espressione da parte di un vescovo toscano durante l’età napoleonica, che
però non aveva avuto successo22. «Perfidia giudaica» era dunque
un’espressione abituale inculcata al popolo dalla fonte sacrale della liturgia
della Messa e riverberata in mille forme dalla voce dei predicatori. L’uso si
era intensificato ed era diventato specialmente aggressivo nel tardo
Medioevo. Colpendo tutto un popolo finiva coll’apparire come un carattere
naturale di chi apparteneva ad esso, non una qualità legata alla religione
ebraica, destinata a venire cancellata dal battesimo. Se da un lato la diaspora
di un popolo senza territorio non impediva che il vincolo della religione
continuasse a mantenerlo unito, dall’altro la martellante efficacia della voce
della Chiesa tendeva a trasferire quell’attributo – la «perfidia» – dalla
religione, come dato culturale, alla natura, facendone un carattere radicato nel
sangue, ereditario e incancellabile.
Inutilmente gli ebrei realmente convertiti al cristianesimo cercavano di
sostenere che la conversione creava una differenza radicale tra gli ebrei che
restavano fedeli all’antica legge e quelli che sceglievano il cristianesimo per
convinzione: fu questa la tesi sostenuta da un contemporaneo di Espina,
l’ebreo convertito che aveva preso col battesimo il nome di Pablo de Santa
Maria. La durezza dei suoi attacchi agli antichi correligionari fu quella tipica
dei convertiti, spesso fra i più violenti ed esperti accusatori dell’ebraismo. Ma
la sua tesi, che la conversione fosse una trasformazione profonda
dell’individuo, era respinta da chi, come Espina, negava che gli ebrei
potessero cambiare davvero e toglieva ogni valore al passaggio sacramentale
del battesimo: il «converso» era per lui solo un cattivo cristiano, un ebreo
nascosto e per questo ancora più pericoloso. Nel contesto creato dalle
conversioni forzate di massa, il passaggio della concezione della differenza
dalla cultura alla natura avvenne senza scosse: per Espina l’ebreo battezzato
era l’erede di una macchia originaria trasmessa di padre in figlio. Era da lì
che gli derivava una tendenza naturale a odiare i cristiani e a tradirli. Contro
la minaccia dei «giudeoconversi» Espina propose di ricorrere come rimedio a
quello che doveva rivelarsi lo strumento storico della persecuzione contro i
convertiti: l’Inquisizione. E delineò una macchina inquisitoriale molto vicina
a quella che si impiantò di lì a non molto in Castiglia: la nuova Inquisizione
doveva essere basata su di un sistema diffuso di delazioni segrete e
funzionare con regole durissime, come la confisca dei beni e l’ereditarietà
dell’esclusione sociale per i discendenti dell’eretico. Il contributo della
predicazione fratesca doveva essere determinante non solo nel diffondere
questa immagine del «converso» o «marrano», ma anche nel fissare i caratteri
che doveva assumere in Spagna il tribunale dell’Inquisizione, cioè
l’istituzione a cui affidare la difesa della fede e la ricerca degli eretici.
Parliamo di predicazione fratesca per indicare complessivamente la
multiforme attività degli ordini religiosi impegnati nell’esercizio della
predicazione e dell’amministrazione dei sacramenti. Non furono solo i
francescani a dimostrare tanta determinazione e così sinistra efficacia
nell’accendere i sentimenti delle folle: la figura del predicatore che teneva
cicli di infiammate concioni nei periodi canonici dell’anno liturgico
(l’Avvento e la Quaresima) e che dalle chiese dei conventi usciva sulle piazze
per esercitare compiti di ammaestramento delle folle ebbe un ruolo decisivo
nell’indirizzare le tensioni sociali contro gli ebrei come capro espiatorio. Le
cronache del tardo Quattrocento registrano una impressionante
intensificazione di questi episodi.
Fu nel contesto della campagna scatenata dalla predicazione antiebraica
che la leggenda del delitto rituale del sangue fu trasformata in un potente
fattore di odio, in una leva per scatenare le folle contro l’ebreo infanticida,
accusato di rovesciare il rito cristiano della Messa e il sacramento
dell’Eucarestia in un rito sanguinario al servizio di un culto diabolico.
L’accusa lanciata dalla predicazione fratesca trovò allora materia per
trasformarsi in convinzione diffusa e propagarsi come opinione popolare, con
effetti devastanti sulla convivenza di ebrei e cristiani. Lo strumento impiegato
fu quello del ricorso illimitato e incontrollato alla tortura. Lo vediamo in uso
in due episodi esemplari: quello del processo celebrato a Trento, per volontà
del principe vescovo Johannes Hinderbach nel 1484, e quello dei processi
inquisitoriali spagnoli celebrati ad Avila nel 1490-1491. In ambedue i casi
l’accusa fu la stessa: l’uccisione di un bambino cristiano per usarne il sangue
in riti di esecrazione del cristianesimo. A Trento il ritrovamento del corpo di
un bambino, Simone, fu all’origine della mostruosa macchina giudiziaria
messa in piedi dal vescovo, che con la tortura fece confessare agli ebrei di
essere i responsabili del delitto. Su questa base si giunse all’esecuzione
capitale dei presunti rei confessi e all’espulsione di tutta la comunità ebraica
cittadina. L’intera vicenda apparve, all’inviato papale Battista de’ Giudici,
viziata dall’uso illegittimo della tortura: nel processo inquisitorio la tortura
era consentita solo in presenza di elementi di prova che in quel caso non
c’erano. Le confessioni ottenute in tal modo erano dunque da considerarsi
non valide. Gli atti del processo documentano la violenza estrema delle
torture ripetutamente inflitte a uomini e donne della piccola comunità
ebraica23. Ma la volontà del vescovo di avere un suo piccolo martire cristiano
per costruirvi intorno un culto cittadino ebbe la meglio sulle riserve legali
dell’ispettore inviato da Roma, che rischiò personalmente la vita e dovette
fuggire da Trento. Fu così che si impiantò a Trento una devozione al santo
martire cristiano, mentre gli ebrei costretti ad andarsene lanciavano sulla città
la loro scomunica. Solo mezzo millennio dopo la Chiesa del Concilio
Vaticano II doveva riconoscere l’infondatezza di quella devozione. L’altro
episodio, come si è detto, avvenne in Spagna: l’oggetto del preteso delitto
rituale e della successiva venerazione fu chiamato «Il Bambino de La
Guardia» («El Niño de La Guardia»). Si trattò di una replica dello stesso
canovaccio anche se con qualche significativa differenza, come vedremo. Ma,
poiché all’epoca era già in funzione la macchina dell’Inquisizione di Spagna,
è a questa che ora dobbiamo dedicare la nostra attenzione.
Parte seconda
LA PERSUASIONE, IL CONTROLLO,
IL SOSPETTO
4.
LA CONVERSIONE.
VERI E FALSI CRISTIANI

Al centro di questa storia c’è la figura del convertito: anzi, del


«converso». Si tratta di una figura chiave e di una definizione che ci porta al
centro della questione aperta nella Spagna del tardo Quattrocento. L’invito
alla «conversione» accompagna la storia della religione cristiana fin dalle
origini. Religione universale, che si rivolgeva a tutti con l’offerta di una
verità esclusiva dalla cui accettazione faceva dipendere la salvezza delle
anime nella vita eterna del Regno di Dio, essa instaurò un rapporto di
alleanza con la struttura del potere imperiale a partire dall’età di Costantino il
Grande. La conversione al cristianesimo dell’impero romano, che Edward
Gibbon ritenne causa del declino e della caduta della potenza imperiale e che
la storiografia ecclesiastica ha considerato un evento provvidenziale, era stata
seguita dalla conversione dei sovrani dei popoli barbari dilagati in Occidente.
Con episodi come la conversione di re Edwin a York e il battesimo di
Clodoveo ebbe inizio la storia dell’Europa cristiana: episodi emblematici
della saldatura tra potere ecclesiastico e sovranità politica1. Gli altri due
monoteismi del mondo mediterraneo, quello ebraico e quello islamico,
declinarono in maniera diversa la loro pretesa di verità esclusiva. Da queste
origini discende un carattere permanente dell’invito cristiano alla
conversione: la tendenza a contrarre alleanze occasionali con il potere
politico e a svolgere una funzione specifica nella costruzione di realtà statali.
Ora, nel quadro dell’Europa del secolo XV, l’originalità del mondo iberico
spicca rispetto a un sistema politico europeo nel quale religione e Stato
avevano trovato da tempo un assetto di alleanza stabile. Sia le monarchie
nazionali, sia quel che restava della costruzione dell’impero romano cristiano
avevano risolto da tempo il problema di saldare le gerarchie sociali e
politiche con il cemento della religione e con l’alleanza con la Chiesa. Di
conseguenza l’invito cristiano alla conversione vi assumeva un carattere
strettamente individuale.
Invece nella penisola iberica la presenza della minoranza ebraica e
l’avanzata islamica nel Mediterraneo garantivano la permanenza di una
pulsione universalistica insoddisfatta e di una tensione aggressiva verso il
raggiungimento di una totale unità religiosa che le crisi sociali e politiche
scaricavano contro i diversi: i dissidenti («eretici»), i seguaci del diavolo
(streghe e stregoni) e, naturalmente, gli ebrei. La predicazione francescana,
termometro fedele e moltiplicatore sociale dell’intolleranza e della volontà di
conversione, portò anche sulle piazze italiane il vento dell’antigiudaismo: ma
qui le autorità laiche seppero intervenire. Il celebre predicatore Bernardino da
Siena si scagliò più contro la divisione delle «parti» – guelfi e ghibellini –
che contro gli ebrei: e dalle sue prediche risulta che l’obbligo del segno
distintivo imposto dal Concilio Lateranense IV per individuare gli ebrei e
separarli dal resto della popolazione non era molto seguito nell’Italia del
tempo2. Dunque nell’Italia delle città le tensioni registrate dai predicatori
erano d’altro tipo. Erano quelle di un mondo diviso da lotte di parte e conflitti
sociali e di potere di gran lunga più forti e preoccupanti delle divisioni
religiose tra cristiani ed ebrei.
Diversa la realtà iberica. In Spagna il processo di unificazione sotto un
solo potere monarchico fu portato al successo grazie alla spinta di una guerra
di conquista motivata dall’eliminazione delle differenze di religione. La
nuova realtà che nacque dalla fusione di regni e comunità politiche, sociali e
linguistiche diverse e divise fu unita dalla religione. La Spagna dovette essere
prima di tutto cristiana per poter essere unita. E questo significò che ogni
spagnolo doveva essere cristiano, dunque battezzato, dunque non ebreo né
musulmano. Perciò in questo paese, dove l’unità religiosa cristiana fu a lungo
un processo in divenire, il problema della conversione ebbe un posto
importante, anzi decisivo, nel processo della formazione dell’unità statale. In
Spagna l’unità di religione fu il carattere originale di una realtà politica
espressa e rappresentata da un potere sovrano centrale ben prima che si
formasse una unità culturale, linguistica, istituzionale. Ma a lungo rimase su
quell’unità religiosa conquistata con le armi l’ombra di una minoranza
inassimilabile: quella degli ebrei. Nella forma latina o in quella derivata
spagnola (conversos), si fece avanti nei secoli del tardo Medioevo, nelle
preoccupazioni delle principali autorità religiose e politiche dell’Europa
cristiana, il problema di chi fossero e di come andassero trattati quegli ebrei
che per lo più non per libera scelta ma sotto violente pressioni avevano
accettato di ricevere il battesimo. Gli ebrei, sempre loro. Non perché
mancassero altre forme di diversità religiosa; per non parlare delle differenze
di tradizioni e di culture tra i cristiani battezzati, c’erano nella penisola
iberica anche i musulmani rimasti in terra riconquistata dai cristiani e per
questo chiamati mudéjares e poi – a reconquista completa – più generalmente
moriscos. Erano una presenza antica, che aveva dato alla società della
penisola iberica caratteri speciali. La capitolazione di Granada avvenne in
forme tali da garantire ai mudéjares una relativa libertà; e quando nel
febbraio 1502 Isabella impose l’alternativa tra battesimo ed espulsione anche
alla popolazione musulmana questo riguardò per il momento solo la
Castiglia3. Per varie ragioni dunque fu l’immagine dell’ebreo il problema
fondamentale di un cristianesimo dominato da un’ansia apocalittica di
espansione conquistatrice – apocalittica perché dal compimento dell’unità del
mondo nel segno del Vangelo dipendeva la fine della storia, la consummatio
del mondo col ritorno di Cristo e il giudizio finale. Gli ebrei che resistevano
alla conversione impedivano o almeno ritardavano il raggiungimento
dell’obiettivo.
Se per secoli gli ebrei erano stati accettati nel mondo cristiano, era stato in
nome della loro funzione di testimoni. L’aveva detto sant’Agostino: per lui,
la diaspora era stato l’evento voluto da un disegno divino, affinché la
testimonianza delle profezie dell’Antico Testamento si diffondesse nel
mondo4. Ma l’antica ostilità non era scomparsa e diventava feroce sentimento
popolare attraverso il canale della predicazione fratesca. E fu così che il
movimento delle crociate per il recupero della Terrasanta trovò un suo primo
sfogo nei saccheggi ai banchi ebraici e nei battesimi violenti di ebrei che
dovevano ripetersi lungo tutta l’avanzata della reconquista. Le violenze erano
legittimate dall’imperiosa necessità di salvare le anime, anche se – almeno in
via teorica – l’uso della forza per salvare le anime non era consentito ai
cristiani: la voce del Vangelo doveva essere un annuncio lieto nel contenuto e
mite nella forma. Chi voleva poteva accoglierlo: ma doveva volerlo. Nessuno
viene alla fede senza volerlo, aveva detto sant’Agostino5. Questo principio fu
ripetuto da diverse autorità della Chiesa con specifico riferimento al problema
del battesimo degli ebrei. Che non dovesse essere forzato lo aveva ribadito il
IV Concilio di Toledo del 633. Ma il canone conciliare non si era fermato
qui: bisognava prendere atto della realtà e spiegare che cosa si doveva fare se
e quando la conversione era avvenuta con la forza e i sacramenti cristiani
erano stati amministrati all’ebreo. La realtà della violenza si scavò la via nelle
formulazioni canoniche col metodo della scelta del male minore. Bisognava
impedire che da questa radice nascesse il male assoluto, quello dell’apostasia,
e che invece di godere della rinascita cristiana il nuovo battezzato
sperimentasse la morte eterna: perché quello era il metro con cui giudicare
ogni cosa. E perciò il Concilio di Toledo segnò la via da percorrere:
bisognava sottrarre i bambini ebrei battezzati alle loro famiglie e affidarli ai
monaci o a famiglie cristiane perché venissero istruiti nelle cose della fede6.
Le autorità ecclesiastiche, pur deprecando a parole il ricorso alla violenza
nei secoli delle crociate, invitarono sempre a tener conto del fatto che i
sacramenti operavano efficacemente in coloro che in un modo o nell’altro li
accettavano. Lo scrisse con la massima chiarezza Innocenzo III, il papa che
dette alla difesa della purezza della fede il primo posto nei suoi programmi e
sistematizzò il ricorso al processo inquisitoriale contro l’eresia. Si partiva dal
presupposto del potere irresistibile e automaticamente operante del
sacramento: chi lo riceveva, sia pure per evitare sofferenze e torture, ne
recava un’impronta indelebile e subiva una trasformazione sostanziale. Da lì
si doveva procedere innestando su quella radice la pianta del nuovo uomo.
Non si potevano seguire due vie né indossare un vestito fatto di due fibre
diverse, affermò nel 1215 il canone 70 del Concilio Lateranense IV, in un
testo che fissò il modello negativo dell’ebreo come essere cieco, malvagio e
agente del demonio: bisognava che si costringessero con ogni mezzo
(«omnimodo») i «conversi» a distaccarsi dalle pratiche dell’antica fede,
perché fare dietro-front sulla via del Signore una volta che la si era imboccata
era assai peggio che non riconoscerla del tutto.
Da orientamenti di questo tipo nacquero le decisioni del Concilio di
Valladolid del 1322 che stabilì di ospitare i «conversi» in ospedali e luoghi di
beneficenza per insegnare loro professioni capaci di inserirli nella società
cristiana. Ma fu nel 1391 che si verificò l’ingresso forzato nella società di un
gran numero di cristianos nuevos, mentre si introduceva l’obbligo per chi non
si era convertito di ascoltare prediche e si alzavano barriere legali sempre più
alte tra le due fedi7. Si profila così una realtà sociale che può essere definita
schizofrenica: da un lato, si intensificavano le proposte e gli interventi per la
conversione di ebrei e infedeli, dall’altro, crescevano le accuse e i sospetti
contro i convertiti. Il Concilio di Basilea dedicò la sua diciannovesima
sessione (7 settembre 1434) al tema «Ebrei e neofiti» e approvò un decreto
col quale imponeva l’istituzione di cicli di prediche ad hoc in tutti i luoghi
dove si trovavano ebrei e altri «infedeli». Le dovevano tenere uomini esperti
nelle lingue ebraica, araba, greca e caldea. Ma al metodo della persuasione si
affiancava quello della forza e della minaccia: bisognava tenere separati ebrei
e cristiani e rendere visibile l’identità degli ebrei con appositi segni. Ancor
più dettagliato fu il decreto per la parte relativa ai convertiti: bisognava
allontanarli dalla loro gente, spingerli a unirsi in matrimonio con i cristiani,
sorvegliare la loro partecipazione ai riti cristiani, punire i contravventori con
l’intervento del braccio secolare. E se si sospettava che i «conversi» fossero
tornati alla loro religione precedente (come il cane che torna a inghiottire il
suo vomito) allora bisognava procedere contro di loro a norma di legge e
trattarli «tanquam perfidos haereticos»8: l’Inquisizione, insomma. Dunque se
l’invito a entrare doveva essere fatto col metodo della persuasione, i nuovi
entrati si dovevano preparare a un futuro di controllo assiduo e al sospetto
permanente di una loro tendenza al tradimento segreto. Il linguaggio di
Alonso de Espina era solo più esplicito e più radicale.
Era sempre giustificato quel sospetto? E c’era solo diffidenza e
pregiudizio ostile da parte cristiana e all’interno della Chiesa spagnola? In
ambedue i casi la risposta è no. Come scrisse Joshua Halorki, rabbino di
Alcañiz in Aragona, rivolgendosi al suo maestro Shlomo Halevi che si era
convertito al cristianesimo prendendo il nome di Pablo de Santa Maria, non
mancavano certamente i motivi che potevano portare un ebreo a scegliere di
farsi cristiano. Secondo Halorki se ne potevano indicare almeno quattro, dei
quali tre deteriori ma uno almeno di innegabile buona qualità: l’ambizione di
acquistare posizioni d’onore in società e aumentare le proprie ricchezze; la
disperazione per le condizioni di vita dell’ebraismo in esilio; l’effetto di una
eccessiva speculazione filosofica; la convinzione di aver scoperto nel
cristianesimo l’inveramento delle profezie bibliche9. All’antico maestro ora
diventato un cristiano fervente Joshua Halorki riconosceva i caratteri della
conversione sincera. E lo Scrutinium Scripturarum (1434), l’opera
lungamente meditata con cui il «nuovo cristiano» Pablo de Santa Maria si
rivolse agli ebrei per convincerli della verità del cristianesimo, ne offre una
prova indiscutibile. Inoltre le testimonianze della religiosità dei «conversi»,
che incontriamo tra le figure più eminenti della Chiesa e della cultura
religiosa spagnola dei secoli XV e XVI, non lasciano dubbi al riguardo.
L’elenco dei nomi sarebbe lungo. Il loro contributo all’elaborazione di una
religiosità dai caratteri speciali nella tradizione del cristianesimo iberico è
emerso dal restauro attento del mondo degli alumbrados, dei mistici e degli
eretici10. Ma non si può dimenticare che c’erano tuttavia anche gli altri motivi
elencati da Halorki: le tribolazioni degli ebrei sotto i cristiani, unite alla
speranza di conquistare col battesimo una condizione di vita migliore e più
libera, potevano spingere a quel passo. Per arginare il sentimento di
disperazione che tornava a serpeggiare di nuovo in un popolo che conservava
memoria delle violenze dei visigoti e dell’intolleranza islamica e che aveva
conosciuto le stragi del 1391, Joshua Halorki tentava di consolare i suoi
correligionari evocando il mito di un grande regno ebraico erede delle dieci
tribù scomparse e collocato in Oriente, al di là del mondo islamico. Quel mito
consolatorio doveva riaffacciarsi spesso. E doveva essere ben presente nelle
menti se proprio in direzione del mondo mediterraneo orientale dovevano
dirigersi di lì a non molto parecchi esuli dalla Spagna.
Sta di fatto che, al di là dell’astratta discussione se la conversione fosse
vera o falsa, ben più ricco di scoperte si è rivelato il campo dell’indagine
sugli aspetti concreti dell’innesto della nuova fede su quella antica. Già si è
detto della speciale religiosità «conversa» come contributo della cultura
ebraica d’origine a quella cristiana spagnola. L’originalità degli effetti
dell’innesto è stata confermata dallo studio di ciò che accadde nel campo
delle immagini devote: i nuovi cristiani provenienti da una religione che,
come l’Islam, vietava l’uso di rappresentazioni figurative si cimentarono non
solo con la produzione delle immagini ma dettero espressione a una nuova e
diversa sensibilità su come ci si dovesse comportare davanti ad esse. Ne dà
prova l’animata discussione che nacque per loro contributo intorno al
problema se quelle immagini dovessero essere adorate e considerate veicoli
di miracoli o semplicemente venerate. Non fu un caso se lo stesso confessore
della regina Isabella, fra Hernando de Talavera, di origini ebraiche, si
soffermò in modo speciale su questo campo dell’esperienza religiosa11.
Quanto alla questione del controllo, va detto che la voce di chi chiedeva
l’Inquisizione non fu l’unica a levarsi nella Spagna del Quattrocento e del
Cinquecento. La proposta di un metodo fondato sul dialogo, sulla
disponibilità all’ascolto, sul ricorso alla «correctio fraterna» e non alla
violenza («correptio»), si fece strada in diversi importanti ambienti della
Chiesa spagnola e alimentò una lunga resistenza all’avanzata
dell’Inquisizione12. E perfino la Sentencia-Estatuto del 1449, che escludeva i
discendenti da ebrei dalle cariche municipali, suscitò reazioni tali che finì col
rimanere inapplicata13. Da tutto questo si ricava una sola conclusione: non ci
fu un’ondata collettiva di odio per gli ebrei a reclamare l’introduzione
dell’Inquisizione. Senza la volontà politica dei Re Cattolici e senza l’assidua
trattativa da loro condotta con Roma quell’esito non ci sarebbe stato.
Per quanto riguarda l’Inquisizione medievale, delegata dal papa ai
domenicani e ai francescani, gli ebrei in quanto tali non erano soggetti alla
sua giurisdizione. Eppure nel corso del tempo, attraverso passaggi successivi,
furono proprio gli ebrei a costituire il problema più assillante dei custodi della
ortodossia. Vale la pena di ricordare che la custodia del bonum fidei era
compito dei vescovi. Ma la vigorosa ripresa del papato e la sua affermazione
come autorità centrale della Chiesa d’Occidente si tradussero nella
elaborazione di norme per individuare e colpire le eresie e nella ricognizione
di nuovi e più efficaci strumenti di intervento. Quegli strumenti si offrirono al
papato grazie alla nascita dei nuovi ordini minori. Fu alla fervente iniziativa
dei seguaci di san Francesco e di san Domenico che vennero affidati la
sorveglianza e l’intervento antiereticale. E quella sorveglianza tendeva a
estendersi a tutti i pericoli che minacciavano l’ortodossia: nonostante la
norma ufficiale secondo cui era della fede dei battezzati che il nuovo
tribunale doveva occuparsi, non di quella di ebrei e infedeli. Se la nascita e la
diffusione di movimenti religiosi come i catari e i valdesi avevano offerto la
materia per avviare il lavoro dell’Inquisizione fratesca, ben presto altre realtà
le si offrirono. Come abbiamo visto, la penisola iberica, dove i regni
musulmani avevano creato condizioni specialmente adatte al pluralismo
religioso e culturale, fu il campo di battaglia della reconquista guerresca da
parte dei regni cristiani, ma fu anche il luogo dove la nuova Inquisizione
costruì rapporti di collaborazione coi poteri politici. Inoltre, nel corso della
progressiva avanzata cristiana, la carica intollerante della fede guerriera dei
crociati si tradusse in ripetute esplosioni di violenza contro gli ebrei. Basta
ripercorrere rapidamente la storia medievale dei tribunali inquisitoriali
spagnoli per avere un’idea del conseguente cambiamento di orizzonte
dell’istituzione.
In alcune parti della penisola iberica, l’Inquisizione in quanto ufficio
delegato dal papa ai frati minori fu introdotta molto presto. In Catalogna e
nell’Aragona l’avvio dell’azione di un tribunale affidato ai domenicani si
ebbe nel corso del secolo XIII: fu la risposta al problema della presenza di
valdesi nelle terre dei Pirenei, e soprattutto di catari emigrati dalla vicina
Francia e in particolare dalla contea di Tolosa per la persecuzione in atto.
L’impegno dei domenicani nell’organizzazione del tribunale e nella
definizione delle sue procedure lasciò una traccia profonda nella storia
dell’azione inquisitoriale grazie al trattato di Nicolau Eymerich, il
Directorium Inquisitorum (1376), riproposto con aggiornamenti nel secolo
XVI da Francisco Peña. L’opera di Eymerich venne composta mentre alle
primitive materie della sorveglianza inquisitoriale si andavano sostituendo
nuove piste in direzione degli ebrei: la violenza degli eccidi contro di loro
(nel 1356 e nel 1391) stava facendo aumentare il numero dei convertiti. E con
i convertiti più o meno a forza nasceva il sospetto sull’autenticità della
conversione stessa. Da lì derivarono le nuove regole elaborate per gli
inquisitori: tutti gli aspetti della vita sociale e dei comportamenti dei
conversos dovevano essere attentamente osservati. E nasceva una nuova
categoria inquisitoriale, quella dei «giudaizzanti». La questione della vera o
finta conversione doveva crescere fino a determinare il ricorso al tribunale
della fede. Prima di affrontare la storia della fondazione del nuovo tribunale
dell’Inquisizione in Spagna, bisognerà dunque cercare di rispondere alla
domanda se gli ebrei convertiti fossero diventati realmente cristiani oppure
celassero nel segreto la fedeltà all’antica religione.
Come abbiamo accennato, questa domanda, dopo avere occupato la
mente degli inquisitori, si è trasferita agli scritti degli storici: due tipi umani
che hanno qualcosa in comune nella ricerca della verità e che nel caso della
Spagna hanno conosciuto una sovrapposizione nell’iniziatore della moderna
ricerca su documenti d’archivio, Juan Antonio Llorente. Nella sua Histoire
critique de l’Inquisition d’Espagne (1811), questo antico impiegato del
tribunale fuggito in Francia si presentò come l’unico autore capace di
penetrare nel cuore più segreto del funzionamento del tribunale grazie
all’esperienza di letture di bolle papali e incartamenti processuali accumulata
negli anni. La sua verità era quella che si poteva ricavare dai processi: in
quelle carte egli vedeva ripetersi continuamente la tragedia di una violenza
del potere sulle coscienze di persone colpevoli solo di mantenere viva nel
cuore la fede che erano stati costretti ad abiurare. Veniva così alla luce
l’esistenza di un movimento sotterraneo di sopravvivenza segreta
dell’ebraismo che univa i conversos agli ebrei non battezzati. Le indagini
condotte in seguito sulla questione della condizione degli ebrei nella Spagna
cristiana hanno portato alla luce una gran quantità di documenti nuovi e
hanno potuto risalire dai riassunti schematici dei processi visti da Llorente (le
relacciones de causas spedite alla «Suprema» di Madrid) ai fascicoli
processuali originali. Ma con il secolo XX nuove domande si sono proposte.
Se si tiene presente il fatto che una delle opere più importanti sulla questione
fu pubblicata da un ebreo tedesco, Ytzhak Baer, tra il 1929 e il 193614, si
capirà perché sulla vicenda finisse col calare l’ombra dell’antisemitismo
contemporaneo e si rafforzasse la tesi secondo la quale conversos ed ebrei
facevano parte di uno stesso popolo ed erano uniti dalla stessa fede. Baer
riconosceva che l’Inquisizione all’inizio si era mossa seguendo correttamente
le regole procedurali: ma alla fine la vittoria dell’intolleranza e dei pregiudizi
di «antisemiti medievali» aveva travolto l’impianto dei processi e aperto la
strada all’arbitrio15. Non tutti furono d’accordo su questo. Un altro ebreo
tedesco, Fritz Heymann, costretto a lasciare la Germania e a trovare un
precario rifugio in Olanda prima di essere deportato nei campi di sterminio, si
dedicò a una ricerca sui conversos o «marrani» che rimase purtroppo non
pubblicata: nelle conferenze che tenne sull’argomento, l’autore sostenne la
tesi che in genere gli ebrei battezzati fossero effettivamente convertiti o
avessero comunque accettato sinceramente la nuova religione e che furono
l’odio e i pregiudizi della popolazione e il sospetto dell’Inquisizione a farli
ritenere degli apostati16. È su questa strada che in tempi recenti si è mosso
Benzion Netanyahu, autore di un’opera con la quale si è proposto come
fondatore di una «nuova scuola»17: la sua tesi è che l’attacco contro i
conversos sarebbe stato determinato dalla volontà del sovrano di impadronirsi
dei loro beni, con il meccanismo della confisca inquisitoriale che colpiva
l’eretico. Da ciò sarebbe derivata la falsificazione sistematica della vera
posizione religiosa dei conversos, ricacciati a furia di processi e di esecuzioni
verso l’appartenenza a una religione che avevano sinceramente abbandonato.
La fondazione religiosa dell’attuale Stato ebraico si affaccia sullo sfondo
di questa tesi come l’esito necessario di un processo storico segnato dal
rifiuto dei poteri cristiani, unici responsabili della permanenza inalterata di un
popolo unito dal meccanismo di esclusione che lo ha colpito. Ben più di
queste generalizzazioni fondate su presupposti ideologici, sono le ricerche
sulle fonti storiche lasciate dall’Inquisizione che hanno arricchito il quadro
delle conoscenze sulle scelte religiose effettive degli ebrei di origine iberica.
Il quadro che emerge ad esempio dalla vicenda della comunità ebraica di
Maiorca, nascosta a lungo da simulazione e dissimulazione e distrutta nei
roghi del Sant’Uffizio del 1691, è quello di lunghe fedeltà alla propria
religione trasmesse nel segreto di mondi chiusi18. Non diversa in questo dalla
vicenda degli ebrei emigrati nell’America spagnola, minacciati dalla
vigilanza inquisitoriale ed esposti al rischio del disvelamento delle loro
convinzioni: il che poteva accadere anche per le diverse scelte di fedeltà
religiosa che si potevano dare all’interno della stessa famiglia, come accadde
in Cile nel 1639 al baccelliere Francisco Maldonado da Silva, mandato al
patibolo perché denunziato per ebreo dalla propria sorella19.
Ma anche una rapida considerazione della quantità di studi e di
discussioni generatasi intorno alla vicenda dell’ebraismo iberico e della sua
cancellazione può dare un’idea di quanto sia progressivamente cresciuta,
nella coscienza storiografica del mondo contemporaneo nato dalla
Rivoluzione francese, l’importanza di quanto accadde in Spagna alla fine del
Quattrocento. Vi riconosciamo un caso della natura prospettica della
conoscenza storica. La costruzione di una prospettiva che conduca al tempo
nostro e ce ne sveli le premesse e la lunga maturazione ha fatto emergere
all’orizzonte del passato un momento originario del disegno che conduce fino
a noi: quello della cancellazione radicale della presenza ebraica nella penisola
iberica, cioè nel luogo dove quella minoranza aveva costruito una secolare
eredità di presenza. Il punto di vista dei contemporanei agli avvenimenti fu
assai diverso. La vicenda dell’espulsione degli ebrei dalla Spagna lasciò
poche tracce nelle opinioni e nelle valutazioni del tempo: l’Europa cristiana
era abituata alle misure di esclusione degli ebrei e alle espulsioni che ne
cancellavano la presenza via via da grandi porzioni del continente. Nei
confronti della religione ebraica era solidamente radicato un pregiudizio
negativo e ostile che affiora continuamente nelle testimonianze, come lo
zampillo occasionale di un largo fiume sotterraneo. I riformatori e i leader
religiosi cristiani dell’epoca, quando non sfogavano pulsioni intolleranti
contro i veri ebrei, se la prendevano con quanto c’era ai loro occhi di
ebraismo nel cristianesimo: il ritualismo, l’osservanza superstiziosa di
determinate pratiche alimentari o la recitazione di preghiere incomprensibili
erano ai loro occhi la prova che dentro il corpo della religione cristiana era
sopravvissuta un’anima ebraica. Riformarla significava prima di tutto
espellere i resti di quella eredità. Su questo doveva battere con insistenza un
uomo di lettere, generalmente alieno da pulsioni aggressive e intolleranti,
come Erasmo da Rotterdam. E tuttavia su almeno un punto anche quest’uomo
condivise qualcosa dell’esperienza di ebrei e marrani: si trovò esposto
all’attacco della stessa istituzione che conduceva la guerra contro di essi,
l’Inquisizione spagnola.
Come abbiamo visto, al centro della discussione tra gli storici c’è proprio
la funzione svolta dai tribunali dell’Inquisizione nel rapporto con
l’antisemitismo popolare da un lato e con le ambizioni del potere politico
dall’altro. Dobbiamo dunque soffermarci sulle trasformazioni del
meccanismo inquisitoriale avvenute nella Spagna della fine del Quattrocento.
5.
LA NUOVA INQUISIZIONE
E L’OSSERVANZA DELLA FEDE

Il primo e fondamentale teatro del mutamento fu la Castiglia. Qui non


esisteva il tribunale dell’Inquisizione fratesca. E questo fu l’argomento usato
per chiedere che si provvedesse a introdurlo. L’esigenza di istituire anche in
Castiglia quello strumento ormai consueto di controllo dell’ortodossia nacque
come conseguenza inevitabile dell’accusa agli ebrei battezzati di essere
rimasti segretamente fedeli alla loro religione: questa fu la molla che fece
avviare tutta l’operazione e motivò la supplica al papa di istituire una
Inquisizione contro l’eretica pravità anche nel regno di Castiglia. La
preoccupazione di tutelare l’integrità e l’osservanza della fede cristiana fu
condivisa da molti personaggi del mondo ecclesiastico e politico spagnolo e
si diffuse facilmente nel contesto della reconquista e nel clima di una crociata
vissuta come dovere sacro militare e religioso. Ma le ipotesi che presero
forma furono diverse. Secondo alcuni, potevano essere i vescovi a svolgere il
compito di controllo e di educazione religiosa del loro popolo. Il conflitto tra
una Chiesa dei vescovi e una Chiesa dei frati era scritto nella realtà del corpo
ecclesiastico da tempo. Ma in Spagna l’episcopato aveva conservato robuste
fondamenta e resisteva all’invadenza degli ordini mendicanti. Fu decisiva in
questo contesto la pressione di una precisa volontà del potere reale,
determinato a perseguire l’ipotesi dell’istituzione del tribunale fratesco con
inquisitori forniti di poteri delegati dal papa. Ma non erano più i tempi della
crociata contro gli albigesi quando i frati operavano con il consenso e l’aiuto
di poteri feudali di limitate dimensioni. Questa volta si dovevano fare i conti
con l’abilità e l’ambizione di un personaggio speciale: Ferdinando
d’Aragona. Il favore di cui costui poté godere presso il papa francescano
Sisto IV gli consentì di ottenere la bolla del 1° novembre 1478, Exigit
sincerae devotionis affectus. Il testo papale assumeva per buona la denunzia
fatta dalla coppia dei sovrani spagnoli: l’esistenza in molti luoghi e città dei
loro regni di persone che, «rigenerate da Cristo col Santo Battesimo senza
essere state obbligate a riceverlo», si erano rese colpevoli di ritorno ai riti e ai
costumi degli ebrei mantenendo sotto l’apparenza di cristiani la «perfida
superstizione ebraica», non solo, ma osando perfino infettare col loro veleno i
figli e i conviventi, colpa della tolleranza (il termine ha un significato
negativo) dei prelati1; e tutto questo senza temere le pene promulgate da
Bonifacio VIII. Era da questa offesa fatta a Dio che derivava la triste
condizione di guerre e di altre calamità dell’intero paese. Pertanto il papa,
tributando ampi riconoscimenti al fervore religioso del sovrano per il suo zelo
di fede per la salvezza delle anime, e attendendo il successo di Granada e la
conversione degli infedeli che vi abitavano, sottolineava la gravità del
pericolo segnalatogli dal re nella sua petizione e accoglieva la sua richiesta di
aiuto.
Sisto IV concedeva al re di eleggere e nominare (ed eventualmente
rimuovere e sostituire) tre vescovi, o arcivescovi o altre persone di almeno
quarant’anni, scelte tra il clero secolare o quello regolare, esperte di teologia
e di diritto canonico, alle quali conferire su quel tipo di reati la stessa
giurisdizione che avevano vescovi e inquisitori: con in più il diritto di
accrescere il numero di queste persone a seconda del bisogno, affinché ne
derivassero frutti di esaltazione della fede e salvezza delle anime. Gli eletti
del re dovevano essere inviati nelle città e nelle diocesi con i poteri di
giurisdizione appartenenti agli inquisitori dell’eretica pravità. E questo con
gli auguri che giungesse allo sperato successo la conquista del regno di
Granada e di tutti i luoghi popolati da infedeli da convertire. Ma il compito
fondamentale era intanto quello di espellere dai regni cattolici la «perfidia»:
questo il termine chiave, che evocava immediatamente la figura cattolica
dell’ebreo2.
Dunque nella trattativa con Roma il sovrano spagnolo riuscì a far passare
una novità sostanziale, quella che gli lasciava mano libera nella nomina degli
inquisitori. La messa in opera del potere delegato avvenne immediatamente:
con provvedimento datato Medina del Campo 27 settembre 1480, i sovrani
conferivano in nome del papa e in nome proprio l’ufficio di inquisitori a due
eletti. Il 2 gennaio 1481 un decreto reale firmato a Siviglia informava i duchi,
i marchesi, i conti e tutte le autorità religiose e laiche della Castiglia che il re
intendeva esercitare l’ufficio dell’Inquisizione concessogli dal papa e
avvertiva tutti di non prestare aiuto ai cattivi cristiani, eretici e infedeli, che al
suo arrivo erano fuggiti da Siviglia e cercavano protezione. Ai disobbedienti
il re minacciava la scomunica maggiore e le altre pene di cui disponeva per
l’autorità apostolica e per quella reale congiunte nella sua persona3.
Le divisioni politiche e religiose dei territori sui quali dominavano i Re
Cattolici trovarono la prima forma di unione nella figura del domenicano
Tomás de Torquemada, che nel compilare le istruzioni per il suo santo ufficio
si presentò come il «primo Inquisitore generale dei regni e signorie di
Spagna»4. Torquemada aveva ricevuto dal sovrano la nomina e aveva
cumulato così nella sua persona e nell’autorità dei suoi ministri e commissari
i poteri di delegato della Sede Apostolica e quelli affidatigli dal sovrano. I
documenti attuativi con cui si fece seguito in Spagna alla concessione papale
sottolinearono l’assoluta discrezionalità del potere sovrano e l’illimitata
facoltà di agire concessa agli inquisitori da esso scelti. Sembrava chiudersi
così una questione di cui si discuteva da tempo, quella di come affrontare
l’accusa di «giudaizzare» rivolta agli ebrei convertiti. Si erano avviate
iniziative diverse, come quella di una Inquisizione episcopale sulla questione.
E ci fu una inchiesta affidata al generale dei geronimiani Alonso de Oropesa.
Proprio da ambienti legati alla regina Isabella, dove i conversos potevano
contare sul confessore della regina Hernando de Talavera, «converso» lui
stesso, si fece avvertire la resistenza alla nuova Inquisizione che si tradusse
nell’invio di Talavera a Siviglia, incaricato dall’arcivescovo Pedro González
de Mendoza di una missione in mezzo agli ebrei battezzati di quella grande
città. A questo punto, dopo ben due anni dalla data della bolla istitutiva
(segno della resistenza sorda opposta dai partigiani di una scelta diversa),
arrivarono a Siviglia i primi due inquisitori nominati dal re. Intanto il disegno
del nuovo assetto inquisitoriale si completava al prezzo di una durissima lotta
su due fronti: su quello interno, con i poteri laici ed ecclesiastici schierati in
difesa dei diritti e dei privilegi tradizionali (fueros); all’esterno, col papato
che tentò di correggere il tiro rispetto a quella prima bolla. Sisto IV si dovette
rendere conto della gravità della concessione dalle reazioni che gli giunsero
dalla Spagna, ma Ferdinando fu abilissimo nel mandare avanti l’impresa su
due binari distinti: da un lato, una trattativa col papa solo formalmente
remissiva e dall’altro la deliberata violenza con cui scatenò l’azione
inquisitoriale sotto la duplice insegna del potere sacro del papa e del potere
temporale del re. Le proteste suscitate dalla crudeltà delle persecuzioni di cui
si era reso responsabile il nuovo tribunale, con procedure affrettate e
irregolari, sentenze ingiuste, torture feroci («diris tormentis»), carcerazioni ed
esecuzioni capitali seguite da sequestri dei beni, trovarono un’eco nella nuova
bolla di Sisto IV del 29 gennaio 1482 che rigettò la domanda dei re spagnoli
di estendere la nuova Inquisizione al territorio della corona di Aragona.
Il percorso delle trattative con Roma fu lungo e tormentato. Le lettere di
Ferdinando ribatterono con durezza le accuse e sottolinearono la gravità del
pericolo rappresentato dal «contagio» di coloro che non volevano obbedire
non solo alla legge dei cristiani, ma neppure ad alcun tipo di legge: era
dunque necessario, secondo lui, che gli inquisitori dell’eresia venissero
istituiti sulla base esclusiva dell’obbedienza al sovrano («secundum
beneplacitum et voluntatem meam»)5. Di fatto, ebbe partita vinta su ambedue
i fronti, quello romano e quello interno. A Roma il suo punto di vista fu
accolto dal papato. Ne rimase lunga memoria nella tradizione ufficiale. A
secoli di distanza lo storico gesuita che ha pubblicato i documenti della
vicenda lo ha fatto proprio, affermando che i «conversos del judaismo» erano
«un verdadero peligro para la nación»6. Sul fronte interno l’élite sociale di
origine ebraica, già in gran parte battezzata, subì un attacco violentissimo con
l’accusa di cripto-giudaismo. I roghi e i sequestri dei beni ne spezzarono la
resistenza. E all’opera di costruzione degli strumenti giuridici di affermazione
del potere reale si aggiunse una mobilitazione senza precedenti della
propaganda, cioè degli strumenti per la creazione di una identità collettiva.
Nacque allora, per opera di legioni di frati predicatori e di ordini religiosi
militari, il mito della hispanidad come appartenenza a un corpo unito da una
religione militare, conquistatrice, saldata dalla missione ricevuta da Dio di
combattere infedeli ed ebrei. In un vasto territorio abitato da popolazioni di
lingua, cultura e assetto sociale diversissimi la nazione spagnola si compattò
e prese consistenza grazie alla identificazione di un nemico comune. Niente
rappresenta tutto questo meglio dell’episodio raccontato al suo biografo da
Ignazio di Loyola: la discussione del giovane cavaliere Iñigo de Loyola con
un moro intorno alla questione della verginità della Madonna e la
convinzione del cavaliere che fosse suo dovere uccidere quel moro per
difendere l’onore della Madonna. Quel cavaliere solitario non era molto
diverso dalle folle che un secolo dopo, al canto di inni esaltanti l’immacolato
concepimento della Madonna, costrinsero il re di Spagna a spingersi fino a
minacciare di rompere col papato, restio a cedere alle richieste di un regno
fanaticamente convinto della sua missione storica e religiosa7.
Fu grazie alla creazione di quella identità collettiva che nel tardo secolo
XV un antigiudaismo popolare, sobillato dai frati, scatenò la violenza delle
folle. Come vedremo più avanti, l’accusa di delitto rituale del sangue col
celebre caso del «Niño de La Guardia» dette l’impulso decisivo per l’avvio
della fase finale di impianto del tribunale. Una fase relativamente lunga: a
Toledo, sede del cardinale primate Pedro González de Mendoza, il nuovo
tribunale poté entrare solo nel 1485 dopo aver funzionato provvisoriamente
per qualche tempo nella vicina Ciudad Real. Di fatto nel corso di un decennio
la rete dei tribunali fu estesa in maniera capillare coprendo ben ventitré sedi
in Castiglia. La loro azione si sviluppò con grande rapidità e durezza. Dietro
il funzionamento della nuova macchina si staglia la presenza dell’uomo al
quale Ferdinando il Cattolico si affidò per questa impresa: il domenicano
Tomás de Torquemada, nipote di Juan de Torquemada (un illustre
«converso» diventato cardinale e autore di una importante Summa de
Ecclesia). Fu Torquemada a scegliere le persone da nominare nelle varie sedi;
e si dovette a lui la stesura delle istruzioni per il funzionamento del nuovo
tribunale. Quest’uomo doveva lasciare sulla storia dell’Inquisizione di
Spagna il marchio del suo nome. Della sua realtà umana e delle sue idee
sappiamo abbastanza poco, come se l’impresa a cui si dedicò lo avesse
assorbito completamente. E, pur avendo anch’egli in famiglia ascendenze di
ebrei convertiti, non esitò a chiedere al papa Alessandro VI nel 1496 uno
statuto di esclusione dei «conversi» dal convento domenicano di San
Tommaso d’Aquino da lui fondato ad Avila8. La sua dura convinzione della
necessità di un rigoroso sistema di sorveglianza antiereticale trovò
espressione nelle norme elaborate per il funzionamento della macchina
inquisitoriale: norme dettagliate, messe a punto in una serie di riunioni e
diventate il codice dell’intera Inquisizione spagnola. Ne fu fatta una raccolta
pubblicata a stampa a Granada nel 1537: ma la loro efficacia fu immediata.
Si possono considerare a titolo d’esempio le norme approvate nella
sessione convocata a Siviglia il 29 novembre 14849. Fu una riunione
significativa anche nella forma: si aprì nel nome di Dio e in quello del re e fu
presieduta da Torquemada come priore del monastero di Santa Cruz di
Segovia, confessore del re e suo inquisitore. Qui si decisero le forme
procedurali e le regole che dovevano essere applicate uniformemente e alla
lettera da tutto il corpo degli inquisitori. Si partiva dal rituale dell’ingresso
nei luoghi di loro pertinenza: che doveva avvenire in un giorno di festa,
convocando il popolo e le autorità in cattedrale ad ascoltare la predica
solenne di presentazione e a giurare alla fine, con la mano alzata sui Vangeli
e sulla croce, di favorirne l’opera. Il rituale prevedeva che a questo punto si
desse pubblica lettura del testo dell’editto: con questo atto si doveva
notificare l’apertura del periodo di grazia (trenta giorni) entro il quale i
colpevoli di eresia, di apostasia, di riti e cerimonie di ebrei (reati
sovrapponibili, che coincidevano nella stessa figura sociale, quella del
«converso») si dovevano presentare per confessare e per chiedere di essere
riconciliati. Se lo facevano, li si sarebbe accolti nel seno della Chiesa senza le
pene di carcere perpetuo o di morte e senza confisca dei beni, ma al solo
prezzo di una abiura pubblica, della perdita di ogni ufficio pubblico e
dell’obbligo di recare da allora in poi segni evidenti della loro condizione di
penitenti (nelle vesti, nel divieto di andare a cavallo e così via). Nel caso
invece dell’eretico o dell’apostata catturati e incarcerati, il loro pentimento
non avrebbe impedito la perdita totale di tutti i beni posseduti nel momento in
cui erano caduti in eresia. Quei beni dovevano essere confiscati a beneficio
del fisco reale se i colpevoli erano secolari. Si entrava poi nel territorio delle
regole: come ricorrere alla tortura, garantire il segreto ai denunzianti,
svolgere gli interrogatori, processare i morti anche da trenta o quaranta anni,
svolgere ricerche e processi anche nei domini dei Grandi di Spagna, e così
via. Regole molto precise furono elaborate da Torquemada per la
conservazione degli atti, che dovevano essere a disposizione per il lavoro del
tribunale, ma sottratti a occhi profani da un segreto rigorosissimo. La
disciplina monastica e la fanatica determinazione del priore di Santa Cruz nel
dedicarsi a un’impresa di quel genere emergono anche nelle istruzioni di tipo
morale e disciplinare elaborate per regolare vita e costumi degli inquisitori e
indurli a sentirsi membra di un corpo saldo e compatto. La personalità di
Torquemada e la potenza dell’ordine domenicano stimolarono la formazione
di uno spirito di corpo e di una coscienza del proprio potere tali da imporsi
allo stesso sovrano, anche al di là delle sue convinzioni. Il che rende
secondario il problema della religiosità di Ferdinando. Il legame che si
instaurò tra lui e le sue milizie fratesche passò attraverso la personalità
dell’uomo prescelto per guidarle: un uomo che si preoccupava di fissare nei
minimi dettagli il funzionamento dell’insieme e che richiedeva dedizione
completa ai fini superiori della difesa della fede, ma che si preoccupava
anche di eliminare ogni arbitrio e non nutriva nessuna ambizione che andasse
al di là del dovere di adempiere a un compito inderogabile e supremo. Più che
un individuo speciale, un tipo umano senza tempo. Non per niente il nome di
Torquemada doveva entrare in uso nel linguaggio quotidiano per indicare
l’uomo che, in nome di un’ideologia superiore, applica norme di una
burocratica crudeltà senza coinvolgimento personale, con una impassibilità
che non esclude nemmeno lampi di apparente benignità.
Le preoccupazioni del priore di Santa Cruz per certi aspetti dell’esistenza
dei rei – per esempio come provvedere a nutrire coloro che venivano
obbligati al carcere perpetuo in casa propria – potrebbero sembrare
l’espressione di un sentimento di pietà umana: e invece erano dettate dalla
volontà di non lasciarsi sfuggire nessun dettaglio nella sistemazione
burocratica preventiva dei casi della vita. La struttura del tribunale da lui
organizzato è quella di una burocrazia celeste al servizio del potere politico.
Un’aggiunta alle ordinanze, datata Siviglia 9 gennaio 1495, si chiude con
l’ultimo avvertimento di colui che si firma come il semplice «frater Thomas»
priore di Santa Cruz e inquisitore generale: un invito agli inquisitori a
risolvere i casi da lui non previsti ricorrendo a Dio, al diritto e alle loro buone
coscienze, senza disturbare le loro Altezze reali. Per i casi gravi, pertinenti al
servizio di Dio e alla gloria della Santa Fede cattolica, dovevano invece
scrivere subito ai sovrani. Il potere del re come suprema autorità in materia
religiosa prende dunque il posto di quello papale, di cui non si fa cenno. La
nuova Inquisizione nasceva sotto il segno di una dedizione assoluta alla
monarchia, vista come detentrice del compito di tutelare la religione
spagnola. La saldatura tra religione e potere avviatasi nel tempo delle lotte
della reconquista diventava così un carattere preminente della nuova realtà
della Spagna.
E qui si aprirebbe la considerazione degli interessi concreti della
monarchia nel dare avvio alla macchina fratesca. La creazione di un tribunale
sacro per la religione, ma soggetto integralmente al re, garantiva vantaggi
politici e finanziari enormi. La sua forza era l’unica capace di spezzare le
resistenze della grande nobiltà e delle città e di far affluire nelle casse del re
gli ingenti frutti delle confische. Ma accanto all’aspetto materiale e pratico
dei vantaggi politici ed economici che il sovrano poteva attendersi dalla sua
creatura c’era la svolta della storia del paese in una precisa direzione:
l’intolleranza religiosa diventava la ragione stessa della nuova realtà politica
unitaria che si era venuta affermando. E questa svolta fu determinata dalla
volontà del potere monarchico. Di tale volontà Torquemada fu il lucido e
inesorabile esecutore: le sue norme fecero dell’Inquisizione spagnola una
struttura efficiente, centralizzata e capace di pervadere tutto il corpo della
società, garantendo al re uno strumento di inarrivabile potenza, proprio
perché fondato su una delega totale da parte del supremo potere spirituale e
nello stesso tempo assistito dalle armi del potere temporale. Davanti agli
uomini dell’Inquisizione cedettero le pretese delle autonomie e dei privilegi
tradizionalmente riconosciuti alle diverse componenti del complicato insieme
di domìni riuniti nel nome del sovrano. Specialmente significativo in questo
senso fu il caso del regno aragonese.
A Saragozza, capitale dell’Aragona, il primo avvio del nuovo tribunale
avvenne nel 1482. Nel 1481 Ferdinando d’Aragona aveva chiesto a Sisto IV
la facoltà di introdurre anche nei suoi regni di Aragona e di Valencia e nel
principato di Catalogna quello stesso modello di tribunale che era stato
concesso per la Castiglia con la bolla del 1478. E qui si ebbe una prova della
determinazione del sovrano nel giocare di astuzia e di sorpresa: poiché il papa
resisteva, il re fece ricorso al generale dei domenicani chiedendogli di
nominare nuovi inquisitori, ai quali subito dopo si provvide a conferire i
poteri reali indicati nella bolla del 1478. In questa occasione Ferdinando
dovette far fronte al tentativo di Sisto IV di rimangiarsi la concessione più
importante, quella che metteva la nomina degli inquisitori nelle mani del
potere laico. Il papa infatti negò il suo consenso all’operazione richiamandosi
al fatto che l’Aragona disponeva già di una sua Inquisizione e impose che
fossero revocati i poteri delegati concessi ai nuovi eletti. Sisto IV era in
quegli anni destinatario di proteste e di pressioni che nascevano dagli
ambienti colpiti dalla durissima azione sviluppata dagli uomini del nuovo
tribunale spagnolo. Per questo cercò di rimangiarsi le concessioni già fatte e
intervenne sui processi che si stavano celebrando, tentando di correggerne la
conduzione e imponendo di consentire agli imputati di ricorrere in appello a
Roma. La serrata trattativa che ne nacque si concluse con un accordo che era
solo apparentemente un compromesso. La corrispondenza di Ferdinando il
Cattolico con il pontefice e con i suoi incaricati mostra la tenacia e la
destrezza con cui il sovrano riuscì a tener fermo il punto centrale della
concessione al prezzo di finzioni e di astuzie: fu così che Sisto IV si convinse
a nominare personalmente un nuovo inquisitore generale preposto ai domìni
di Aragona, Valencia e Catalogna. L’uomo prescelto fu il candidato proposto
dal re: fra Tomás de Torquemada, ancora una volta. A lui furono riconosciute
dalla bolla di nomina le stesse facoltà di cui già disponeva come inquisitore
generale di Castiglia. Delega papale e potere regio di proposta coincidevano
nella scelta dell’uomo che accentrava così su di sé un immenso potere. Alla
data di questa bolla, 17 ottobre 1483, si può dire nata l’Inquisizione di
Spagna come potere di governo religioso e politico accentrato nelle mani del
sovrano e di una burocrazia celeste, che in nome della fede agiva senza limiti
di alcun genere che non fossero le sue stesse regole – quelle regole che
Torquemada aveva creato. Il vastissimo territorio su cui si svolgeva la sua
azione conosceva così una prima forma di unificazione, ben prima che nel
1516 il titolo di re di Spagna calasse sulla testa di un giovanissimo Carlo di
Asburgo.
6.
L’ESPULSIONE DEGLI EBREI

La prospettiva imposta agli ebrei nel 1492 fu semplice nella forma,


durissima nella sostanza: entro un termine brevissimo – il 31 luglio dello
stesso anno, con al massimo qualche giorno di tolleranza – dovevano
andarsene dalla Spagna. C’era un’alternativa tacita, presente alle menti anche
se l’editto non ne parlava: quella del battesimo. Da un certo punto di vista
questo documento appare come la tappa finale di una marcia progressiva,
l’ultimo anello di una catena di violenze scatenate dalla predicazione dei frati
e compiute da folle fanatizzate, quale si era vista anche in altre parti
d’Europa. La soluzione finale scelta da Ferdinando d’Aragona differiva però
su almeno due punti da altri casi apparentemente analoghi che si erano avuti
in Inghilterra e in Francia: là l’espulsione degli ebrei era stata decretata senza
costringerli al battesimo. In Spagna invece si scelse la via di esercitare la
massima pressione possibile per conservare all’interno del paese la presenza
di una minoranza ebraica, preziosa perché contribuiva attivamente ai
commerci e alle necessità finanziarie della società e si prestava, specialmente
per cultura e capacità, alle esigenze amministrative dell’apparato statale. Si
cancellava la diversità di religione e si conservavano come cristiani quelli che
erano stati ebrei fino a prima del battesimo. L’assimilazione religiosa
avveniva per un atto del potere statale e non più per via di violenza di folle
fanatizzate. Se lo consideriamo da questo punto di vista, il caso spagnolo
appare come il primo tentativo di soluzione radicale della questione ebraica
nell’Europa cristiana: gli altri due saranno l’emancipazione come frutto dei
princìpi illuministici della Rivoluzione francese e il genocidio nazista.
L’altro punto caratterizzante della politica di Ferdinando d’Aragona era
consistito nella previa creazione e messa in opera dell’Inquisizione, con la
quale, come abbiamo visto, aveva dato forma nuova a un’istituzione
preesistente, rendendola un efficace strumento nelle mani del potere politico.
Per tutti gli osservatori contemporanei dei fatti spagnoli quella che
avvenne allora fu la «cacciata delli ebrei dalla Spagna», come scrisse il 21
maggio 1492 l’ambasciatore ferrarese Giacomo Trotti a Ercole I d’Este1. Una
cacciata dolorosa, intollerabile per chi viveva da sempre in quel paese e
poteva vantare per la propria gente una presenza ben più antica di quella degli
invasori germanici o musulmani. Da questo momento le cronache del tempo
registrarono le vicende degli ebrei profughi dalla Spagna, per via di terra
verso il vicino Portogallo o per via di mare verso l’Italia. Chi scelse di restare
fedele alla propria religione dovette liquidare tutto e prepararsi a partire.
Partire per tornare, in molti casi: ci fu chi si arrese e tornò sui suoi passi
chiedendo il battesimo. Quanti partirono, quanti restarono? Le valutazioni
oscillano tra i 40.000 e i 350.000. Un curato spagnolo che fu testimone
oculare dell’esodo, Andrés Bernaldez, parla di 170.000 persone2. Ma è
difficile proporre un calcolo numerico attendibile. La cosa è resa complicata
da molte ragioni: in primo luogo dalla mancanza di dati demografici per una
minoranza che veniva censita sommariamente in funzione delle imposizioni
fiscali e non aveva registri di atti di nascita individuali. Ma la pressione
crescente nei confronti di questa minoranza, dai tempi delle crociate in
avanti, si è tradotta in numerose registrazioni di tracce della sua presenza,
specialmente in corrispondenza con i momenti più critici del rapporto con il
resto della popolazione e con i poteri religiosi e politici. Di fatto si può dire
che le comunità ebraiche erano presenti in tutti i centri urbani e quasi del tutto
assenti nei minori nuclei rurali. Più numerose in Castiglia, erano diffuse
anche in Aragona. Nel regno di Valencia si parla di circa un quinto della
popolazione3. Nella corona di Aragona si parla di circa 6000 famiglie, per un
totale approssimativo di 50.000 persone. Nelle città maggiori raggiungevano
percentuali significative; e qui esistevano le loro istituzioni che si
autoamministravano (aljamas). Ma c’erano anche nuclei di popolazione
ebraica distribuiti nei piccoli centri, per esempio lungo il cammino di
Santiago. Nel loro insieme costituivano una piccola minoranza (intorno al
3%) della popolazione spagnola ma esercitavano funzioni importanti di
carattere finanziario (prestatori, appaltatori di gabelle), o esercitavano
professioni socialmente importanti (medici, chirurghi) e attività artigianali e
commerciali. Il che rendeva particolarmente visibile la loro presenza e
contribuiva ad alimentare una diffusa ostilità da parte della popolazione
minuta della penisola. Calcoli prudenti parlano di circa 70.000 esiliati, di cui
50.000 per la sola Castiglia4. Il linguaggio impersonale e burocratico delle
registrazioni delle tasse pagate (per esempio, per attraversare il regno di
Valencia il prezzo era di otto soldi e quattro denari a testa) e del costo per i
contratti di imbarco sulle navi è la testimonianza che ci resta della storia
dell’esilio di chi scelse di andarsene.
La tragedia collettiva dell’abbandono frettoloso della propria casa si
svolse nella più cupa incertezza del futuro. Ci fu chi scelse di rifugiarsi nel
luogo più vicino e più familiare: il Portogallo. Chi preferì l’esodo per mare
andò incontro al futuro più tenebroso. L’Italia fu «el primero y más
importante»5 degli obiettivi, data la vicinanza con le coste spagnole e lo
stretto rapporto con l’Aragona e la Catalogna, oltre alla presenza del papato,
alla cui protezione gli ebrei si affidarono. Sulle coste italiane giunsero almeno
dai 10 ai 15.000 profughi che si distribuirono poi in diverse città o ripartirono
verso i porti dell’Africa mediterranea. Quelli della penisola italiana erano i
più vicini, ma non furono i più accoglienti, almeno all’inizio: le navi cariche
di ebrei spagnoli rimasero confinate in una zona a parte del porto di Genova.
La città osservava rigorosamente la politica di non ammettere ebrei e per
questo non permise loro di entrare, se non accettavano di battezzarsi. Ci si
limitò a concedere pochi giorni di tempo per riparare le navi e ripartire. Il
cronista Bartolomeo Senarega annotò con viva partecipazione umana
l’aspetto spettrale per magrezza e sofferenza di quei profughi, che gli
apparvero come dei viventi cadaveri6. Si scatenava in quegli anni l’epidemia
della sifilide, un male che apparve allora incurabile, e a quell’umanità
desolata fu attribuita anche la responsabilità della nuova peste. Tuttavia nel
caleidoscopio italiano ci fu posto anche per reazioni più accoglienti: Ercole I
d’Este intuì l’utilità della presenza ebraica per stimolare la vita economica del
suo piccolo Stato, e il 20 novembre fece giungere agli ebrei rifugiati nel porto
di Genova, una lettera d’invito che diceva: «Noi siamo multo ben contenti
che vengano ad habitare qua, cum le loro famiglie»7.
Da questi echi casuali e frammentari della tragedia degli ebrei spagnoli si
intravede la cupezza dell’orizzonte che si aprì allora per chi aveva messo in
gioco la vita sua e l’avvenire della sua famiglia pur di restare fedele alla
propria religione. Per loro il futuro doveva restare gravato dalla minaccia di
quel continuo invito alla conversione che li accompagnò sulle strade
dell’esilio mentre lasciavano la Spagna. Il curato Andrés Bernaldez ha
lasciato una descrizione vivissima e partecipe di quello che accadde allora,
sia pure dal punto di vista di un sacerdote cristiano che desiderava la
scomparsa dell’ebraismo come religione. La sua testimonianza parla di uno
sciame umano che si mise in movimento sulle strade con tutti i mezzi
possibili, a piedi, a cavallo di asini, muli e cavalli, su carri, dopo avere
liquidato in fretta e furia tutti i propri beni. Quella vendita era stata oggetto di
transazioni assai convenienti per gli acquirenti cristiani, visto che gli ebrei
non potevano portare via nulla: non beni immobili, né oro né monete, solo
lettere di cambio su cui i banchieri fecero gravare interessi usurari. La sorte
dei beni comuni delle aljamas fu particolarmente complicata. In molti casi il
ricavato fu investito per pagare le spese di viaggio ai più poveri. Ma che fare
dei cimiteri? Emblematico il caso del cimitero ebraico di Vitoria, venduto al
consiglio cittadino a patto che lo si utilizzasse esclusivamente per il pascolo8.
Strategie speciali erano state decise per consolidare legami che l’esodo
minacciava di sciogliere: per esempio, prima di mettersi in viaggio sembra
che i genitori avessero combinato tutti i matrimoni possibili per i figli minori.
Poi c’erano le vicende inevitabili in ogni esodo: vecchi e malati che
morivano, bambini che nascevano. E tutt’intorno una pressione continua per
piegare la resistenza alla conversione.
Come abbiamo visto, l’editto reale non faceva parola del battesimo
cristiano come alternativa all’espulsione, ma in compenso l’offerta fu ripetuta
in ogni momento e in ogni luogo durante i mesi precedenti all’espulsione. La
cronaca di Bernaldez mette in evidenza la pressione esercitata dalle autorità
religiose per produrre quella conversione che l’editto reale tacitamente
suggeriva come via di salvezza. Prima di partire e lungo il percorso sulle
strade dell’esodo, gli ebrei dovettero subire le assillanti prediche del clero
cristiano per la conversione: nelle sinagoghe, nelle chiese, per le strade, i
predicatori ripetevano l’invito a convertirsi, a lasciare la falsa religione per
quella vera. E il risultato non mancò: le conversioni maturarono anche
durante il viaggio degli esuli, quando ci fu chi decise di tornare indietro nei
luoghi abbandonati. Molti si decisero a quel passo nell’ambascia degli ultimi
giorni, quando ci fu chi si recò di notte a ricevere il battesimo. E ci furono i
casi dei ritorni dall’esilio di coloro che si ripresentarono a distanza di tempo
alle frontiere del paese con attestati di battesimo, come passaporto per poter
rivedere le antiche case.
La decisione di Ferdinando d’Aragona, una volta presa, si è iscritta in un
percorso che è apparso già tracciato. Anche se, osservata con gli occhi dei
contemporanei, poté apparire un evento imprevisto caduto come un macigno
su di una minoranza ebraica che non se l’attendeva e che era ancora
impegnata nelle feste per la conquista di Granada9. Al sovrano si guardava
come al protettore di una minoranza che subiva «persecuzioni e sofferenze»,
come scrivevano gli ebrei di Castiglia nel 148710. E per questo si interpretò in
un primo momento quell’editto come una manovra per estorcere danaro.
Isaac ben Yehudà Abravanel, membro eminente della comunità castigliana (è
stato definito il «ministro delle finanze» di Isabella di Castiglia) tentò di
cancellare la minaccia offrendo un grosso compenso. L’episodio rientra in
una tradizione antica di estorsioni: una tradizione che doveva mantenersi
ancora a lungo fuori della Spagna nei rapporti tra comunità ebraiche e poteri
politici. In questo caso la storia ebbe un diverso svolgimento. Il perché
rimane problematico. Una spiegazione possiamo chiederla al testo stesso
dell’ordine sovrano. Qui la causa della decisione è indicata nell’influenza
corruttrice che gli ebrei esercitavano sui battezzati cercando di attirarli alla
loro fede, insegnando riti e cerimonie della legge mosaica, distribuendo libri
di preghiere, praticando circoncisioni e così via. Ciò che avrebbe reso
inevitabile arrivare fino all’espulsione sarebbe stato il fallimento delle misure
prese fino ad allora per alcune parti del regno. Di fatto un provvedimento di
espulsione era stato già emesso in Andalusia il 1° gennaio 1483: e misure
altrettanto radicali erano state prese nel maggio 1486 contro gli ebrei di
Saragozza. Nel testo dell’editto generale del 1492 quei precedenti furono
richiamati come prove che i sovrani avevano tentato di correggere i
comportamenti degli ebrei con misure severe in ambiti locali prima di passare
a una misura di portata generale11. Ma il documento propone una realtà molto
semplificata quando fa apparire il comportamento dei sovrani come dettato da
una progressiva perdita di pazienza nei confronti di una minoranza
intrattabile.
La politica di Ferdinando d’Aragona nei confronti degli ebrei era stata
fino ad allora condotta secondo linee tradizionali, con accordi che lasciavano
intravedere una continuità senza scosse dei rapporti con le comunità ebraiche
e con singoli loro membri. Nel corso degli anni precedenti alla scelta del
1492, la politica reale appare ispirata dalla volontà di sedare i conflitti e di
garantire la protezione a coloro che erano giuridicamente definiti servi
Camerae, o, come più semplicemente affermavano i documenti ufficiali dei
sovrani, «miei», e dunque «sotto la mia protezione»12. Socialmente isolati e
in possesso di notevoli ricchezze, gli ebrei erano davvero una risorsa preziosa
per il re. E nei loro confronti non si trovano indicazioni di misure destinate a
penalizzarli. Gli atti della monarchia nei confronti delle comunità mostrano
che fino alla fine del 1491 si prevedeva la permanenza degli ebrei in Spagna
per diversi anni a venire; e i permessi e le restrizioni relativi ai mudéjares o
mori erano ispirati agli stessi criteri che ritroviamo nelle misure relative agli
ebrei. Del resto furono gli ebrei stessi a considerare in un primo momento
quell’editto come una delle solite minacce architettate per estorcere danaro
dalle loro tasche. Nel mese di aprile 1492, trascorso senza che l’editto già
pronto e firmato venisse pubblicato, dovettero essere molti i tentativi di
esorcizzare lo spettro dell’espulsione offrendo danaro in cambio. Fu allora
che avvenne l’episodio ricordato dell’offerta di danaro fatta al re da Isaac ben
Yehudà Abravanel. Ma la leggenda narra che contro di lui apparve Tomás de
Torquemada, che col crocifisso in mano accusò il re di vendere Cristo non
per 30 danari come Giuda ma per 30.000 monete d’argento13.
Parte terza
IL POTERE DELLA FEDE,
LA FEDE DEL POTERE
7.
LA RESPONSABILITÀ DELLE SCELTE

Che cosa spinse dunque i Re Cattolici a prendere quella decisione che


appare per diversi aspetti in contraddizione con la loro politica precedente?
La domanda si presentò alle menti dei contemporanei. Se ne diffusero subito
narrazioni e interpretazioni di ogni genere. Una tradizione documentata tra gli
ebrei espulsi mise in relazione stretta i due avvenimenti della conquista di
Granada e dell’espulsione. La storia raccontata nel poema di Salomone Ben
Samuel Hasefardi, un membro della generazione dell’esilio, ha l’andamento
di una favola: sarebbe stata la regina Isabella ad approfittare dello stato
d’animo del marito, gonfio di orgoglio per la grande impresa vinta. Il re dice
alla regina: chiedimi quello che vuoi. E la regina: voglio la cacciata degli
ebrei dalla Spagna1. Dunque il motore primo della decisione sarebbe qui la
fede religiosa di una donna che risponde allo stereotipo di moglie cattolica
prima ancora che alla sua alta funzione di regina. E c’è un altro racconto,
altrettanto colorito e fantasioso, ma di una fantasia cupa, imbevuta del mito
del complotto ebraico contro i cristiani. Lo si legge nel Libro verde, un testo
redatto all’inizio del Cinquecento nell’Aragona: ne torneremo a parlare più
avanti per il ruolo nefasto che svolse nella storia della società spagnola.
Anche qui la storia ha i colori di una fiaba. Il protagonista è un bambino di
nome Juan, Giovanni, il figlio di re Ferdinando d’Aragona: il piccolo don
Giovanni si era invaghito di un gioiello curioso, un globo d’oro che il medico
del re – un ebreo – teneva al collo. Un giorno riuscì a impadronirsene e subito
lo aprì: e a questo punto la fiaba svela le ossessioni cupe della paura, un
sentimento che nei protagonisti delle fiabe infantili ha depositato gli spettri
storicamente incombenti sulle società. All’interno del globo d’oro il bambino
trovò una pergamena dipinta con l’immagine di un Cristo crocifisso che
baciava il culo di un cane. E fu il terrore infantile del figlio a far scoprire a
Ferdinando d’Aragona quanto vicino al trono fosse giunta la minaccia
diabolica. Da cui la decisione di un re padre: tutti gli ebrei dovevano
andarsene dal regno. Ma la storia non finisce qui. Ecco due lettere: nella
prima gli ebrei di Spagna minacciati di espulsione scrivono a quelli di
Costantinopoli per chiedere aiuto e consiglio sul da farsi. Nella risposta di
quelli di Costantinopoli si legge un consiglio diabolico: quello di fingersi
convertiti e di operare segretamente per la rovina di quella religione che
abbracciavano solo in apparenza. Conveniva accettare il battesimo, dal
momento che vi erano costretti: ma dovevano allevare i figli nell’odio dei
cristiani. I cristiani lasciano ai discendenti degli ebrei l’esercizio della
mercatura? I figli degli ebrei devono mandare in rovina i mercanti cristiani. I
cristiani distruggono le sinagoghe? I figli degli ebrei battezzati devono
diventare chierici e distruggere le chiese. I cristiani vi lasciano vivere? Fate
diventare medici i vostri figli perché facciano morire i cristiani. E così via2.
L’invenzione del complotto giudaico non era nuova. L’apocrifa
corrispondenza tra i nemici interni e quelli esterni e l’idea di un piano
terribile di rovina e di morte contro i cristiani avevano avuto un precedente in
un altro momento in cui si era fatto ricorso alla costruzione del falso
complotto ebraico come proiezione e legittimazione del complotto di poteri
cristiani contro gli ebrei. Quella che tornava in questa corrispondenza
apocrifa era la tesi del complotto tra ebrei spagnoli e l’Oriente mediterraneo,
diffusa nel già ricordato episodio dell’estate del 1321. E si legava questa
volta all’accusa del complotto dei convertiti contro i cristiani e all’ossessione
della presenza di esseri dal sangue maledetto nascosti tra i cristiani. Accanto
a queste tradizioni favolose e agli apocrifi ci fu però anche un racconto
storico, sia pure composto a distanza di un secolo dagli avvenimenti del
1492. Quello che si legge nella storia delle origini e dello sviluppo del
Sant’Uffizio dell’Inquisizione, scritta e pubblicata da Luís de Páramo,
inquisitore della Sicilia, nel 1599, attribuisce il merito della decisione di
rifiutare l’argento degli ebrei castigliani a una drammatica e violenta
perorazione di Tomás de Torquemada comparso davanti al re impugnando
minacciosamente un crocifisso3. Dunque secondo questa tesi la motivazione
religiosa sarebbe stata la causa fondamentale di quello che accadde. La
decisione del sovrano di ricorrere all’espulsione generale come unica
alternativa alla conversione sarebbe nata dalla sua coscienza di cristiano
scosso dalla reprimenda del suo confessore. Torquemada si verrebbe a
configurare come il vero motore di tutto. A questa interpretazione ha dato un
forte sapore di verità la scoperta di un documento del 20 marzo 1492, dunque
di poco precedente all’editto reale di espulsione, redatto proprio da
Torquemada e inviato al viceré della Catalogna, don Enrique de Aragón y
Pimentel, e al vescovo di Gerona: qui il Grande Inquisitore affrontava il
problema dei giudaizzanti e sottolineava con toni di estremo allarme
l’impudente esibizione della loro apostasia e la gravità del pericolo che
rappresentavano per gli altri cristiani4. Brani di questo testo sono
puntualmente ripresi nel decreto di espulsione di undici giorni dopo. Letti in
successione, i documenti mostrano una stretta parentela: il testo della «carta»
di frate Tomás de Torquemada fu usato come primo abbozzo nella redazione
dell’editto. E per di più un riconoscimento ufficiale del contributo del frate lo
si legge nel testo dell’editto inviato, sempre il 31 marzo, da Ferdinando alle
autorità del regno dell’Aragona. Qui il sovrano raccontò che era stato proprio
il «venerabile padre priore di Santa Croce» a intervenire con tutto il peso del
suo ufficio di inquisitore e di confessore reale, cioè di colui che aveva in
custodia la coscienza del re. Sarebbe stato dunque merito o colpa di
Torquemada l’aver convinto Ferdinando d’Aragona che bisognava espellere
per sempre gli ebrei come portatori di una lebbra contagiosa. Era veramente
così che erano andate le cose?
Il racconto di Luís de Páramo e l’editto aragonese concordano nel
confermare il contributo dato alla decisione dell’espulsione da Torquemada e
dalla sua Inquisizione, la creatura alla quale Ferdinando e Isabella avevano
dato vita. E c’è un punto sul quale la tradizione raccolta da Luís de Páramo, e
da lui usata per celebrare l’importanza e l’efficacia positiva dell’Inquisizione,
ha ancora qualcosa di importante da segnalare. Poco prima del decreto di
Granada c’era stato in Spagna un caso di presunto delitto rituale ebraico che
aveva suscitato grande emozione: quello del «Santo Bambino» de La
Guardia. Il 1° giugno 1490 nei pressi di Toledo, nel villaggio di La Guardia,
era stata scoperta un’ostia consacrata nel bagaglio di un ebreo battezzato di
nome Benito García. Era la materializzazione di un incubo lungamente
elaborato: il complotto ebraico, l’idea degli ebrei come assassini che si
nutrivano del sangue dei bambini cristiani e preparavano veleni di magica
efficacia contro la società che li ospitava. Lo aveva alimentato la propaganda
devota, voluta dalle autorità ecclesiastiche, che aveva reso popolare la fede
nel dogma della presenza reale di Cristo in carne e sangue nell’Eucarestia.
Dal miracolo che si narrava fosse avvenuto a Parigi nel 1290, quando
un’ostia trafugata e offesa da un ebreo aveva preso a sanguinare, era nata una
tradizione parallela a quella della leggenda dell’infanticidio rituale ebraico.
Parallela e convergente: visioni dell’ostia consacrata come abitata da un
bambino avevano avuto una funzione importante nel diffondere la fede nella
presenza reale di Cristo sull’altare. Nel caso del «converso» di La Guardia,
subito sospettato e accusato di apostasia e di pratiche magiche, le due
tradizioni si congiunsero: l’accusa di delitto rituale si sommò a quella di
complotto giudaico contro il mondo cristiano. Fu questo il carattere che
differenziò la vicenda spagnola dagli altri casi di presunti delitti rituali ebraici
che si verificarono in quegli anni. Arrestato e torturato dall’Inquisizione,
Benito García confessò cose inaudite. Disse di aver crocifisso un bambino
cristiano insieme ad alcuni ebrei battezzati e ad altri non battezzati: con il
sangue e il cuore strappato al bambino e le specie eucaristiche avevano messo
in atto una cerimonia diabolica per farne un potente veleno destinato a
causare la morte dei cristiani e il trionfo del giudaismo. Poi ritrattò, accusò
del delitto un altro «converso», Alonso Franco: anche Alonso Franco
confessò e fece altri nomi. Nel dicembre 1490 si aprì il processo formale. Il
presunto bambino ucciso non fu mai trovato. Il che non impedì che lo si
proclamasse santo martire della fede. Un auto da fé ad Avila vide la morte sul
rogo di due ebrei e tre «conversi» il 16 novembre 14915. La sentenza fu
stampata e diffusa. L’episodio circolò rapidamente nel contesto di altri casi di
processi per delitti rituali imputati a ebrei. Ma fu proprio l’emozione creata
dal clamore della vicenda che, secondo Páramo, spinse alla decisione di
espellere tutti gli ebrei dalla Spagna: un atto che apparve come un potente
contributo al trionfo della religione cristiana. Fu per aver seguito l’interesse
esclusivo della fede che il papa Alessandro VI Borgia concesse nel 1496 ai
sovrani spagnoli quel titolo di «Re Cattolici» di cui dovevano fregiarsi da
allora in poi e che è rimasto come il loro titolo più noto in sede storica.
Riassumendo. Siamo partiti da una coppia reale che al culmine di un
trionfale successo militare e politico prende due decisioni di grande peso
destinate a segnare la storia futura della Spagna e del mondo europeo: dal
paese che hanno unificato con la loro alleanza matrimoniale e con la forza
delle armi cacciano una minoranza di diversa religione e fanno partire una
spedizione navale verso le Indie. In questa luce il decreto del 31 marzo
appare come l’atto di una volontà sovrana, libera creatrice di storia. Ma una
rapida considerazione dei precedenti storici dell’espulsione degli ebrei ha
fatto emergere una tradizione di ostilità e di rifiuto da parte della popolazione
cristiana, che potrebbe ridurre di molto la misura della libertà del potere nel
prendere quella decisione, fino a farlo apparire come la ratifica di qualcosa
che era già stato deciso dal consenso della popolazione. Dunque, il potere
politico centrale risulterebbe essere solo un luogo di ratifica di processi e
orientamenti diffusi. Infine, è emersa tra il trono e la folla una terza realtà:
quella dell’azione decisiva svolta da un’agenzia di potere religioso capace di
influire fortemente sul corso degli eventi, sia esercitando pressioni
direttamente sul sovrano, sia alimentando le tensioni sociali e orientando le
pulsioni di intolleranza con la fabbricazione di uno stereotipo pauroso, quello
dell’ebreo nascosto sotto l’apparenza di cristiano e pronto a operare magie
terrificanti con il potere del sacramento cristiano e con il sangue raccolto con
l’infanticidio rituale.
Resta aperta una domanda elementare: perché dunque Ferdinando
d’Aragona e Isabella di Castiglia decisero l’espulsione degli ebrei che non si
battezzavano? Dopo aver tentato di seguire la successione dei fatti, si deve
ora cercare di rispondere alla domanda centrale, quella delle cause di una
decisione che fu importante e di grande rilievo, non solo per le vittime che ne
subirono le conseguenze, ma per l’intera società spagnola. È vero quello che
molti hanno fatto presente: non era la prima espulsione da uno Stato europeo.
Ma è anche vero che in nessuna realtà europea la presenza ebraica era così
antica, diffusa e numerosa, radicata nel costume e nella vita del paese come
in Spagna. Dunque, non è possibile ridurre la vicenda alla replica spagnola di
una pratica consueta nella storia medievale del cristianesimo europeo. Che ci
fosse bisogno di fornire una spiegazione della decisione reale fu un’esigenza
avvertita in primo luogo da chi quella decisione l’aveva presa. Torniamo a
considerare, allora, in qual modo Ferdinando e Isabella presentarono le
ragioni che a loro dire li avevano spinti a quel passo. Il documento dell’editto
di espulsione del 1492 propone una spiegazione che mostra come quella
misura fosse stata concepita per tutelare i cristiani «nuovi», i «conversi». Vi
si ricorda che si era tentato con una decisione presa nelle Cortes di Toledo del
1480 di separare rigidamente ebrei e «conversi» in modo da evitare la
contaminazione di questi ultimi. Ma la misura si era rivelata inadeguata per la
tendenza degli ebrei a mantenere contatti con quelli di loro che si erano
convertiti e a riportarli a pratiche rituali e abitudini di vita tipiche della loro
fede. Perciò si era pensato di colpire con l’espulsione la sola Andalusia dove
la presenza ebraica era particolarmente nutrita. Alla fine, dopo avere ascoltato
il parere dei Grandi di Spagna, del Consiglio reale, di prelati e cavalieri, ci si
era convinti che l’unica misura fosse quella di confinarli per sempre fuori del
regno con il divieto di mai più ritornarvi. Il documento presentava la
decisione presa come una misura concepita senza una speciale volontà
persecutoria: a chi sceglieva di andarsene veniva consentito il tempo di
disporre delle proprie sostanze garantendo libertà di movimenti e di
operazioni fino al termine fissato al mese di luglio.
Il documento reale propone dunque una giustificazione del
provvedimento come l’esito di un percorso senza scosse e senza
contraddizioni. L’espulsione degli ebrei sarebbe stata l’esito di un progetto
elaborato da tempo e arrivato finalmente a una conclusione in qualche modo
obbligata dal comportamento degli ebrei. La scelta non sarebbe nata da una
speciale volontà di perseguitare gli ebrei, ma piuttosto dal desiderio di
tutelare la condizione di quelli di loro che si erano convertiti. Saremmo
dunque davanti a una giustificazione religiosa dell’atto: la tutela della
salvezza delle anime dei battezzati da parte di sovrani profondamente
convinti delle loro responsabilità cristiane. Da qui la legittimità dell’elogio
che papa Alessandro VI rivolse ai sovrani conferendo loro il titolo di «Re
Cattolici».
L’editto nella versione che Ferdinando destinò ai suoi regni ereditari
rafforza questa interpretazione rinviando all’opinione del suo confessore:
quel Torquemada priore di Santa Croce che era anche il supremo inquisitore
di Spagna. Come abbiamo già visto, la scoperta recente della «carta»
indirizzata da Torquemada al vescovo di Gerona il 20 marzo 1492, cioè
pochissimi giorni prima della firma dell’editto reale di espulsione (31 marzo),
ha fornito un argomento molto solido a chi vuole vedere nella decisione dei
sovrani solo l’esito della pressione del fanatico domenicano. Nel documento
dell’inquisitore si leggono intere frasi che ritroviamo nell’editto reale per
l’Aragona. È evidente, dunque, che chi ha redatto il documento reale aveva
sott’occhio il testo di Torquemada e lo ha seguito alla lettera su punti
fondamentali. E su questa base si riaffaccia con vigore la tesi che già
all’epoca attribuì all’influsso dell’Inquisizione e del suo supremo potere la
decisione di cancellare la presenza ebraica in Spagna. L’impegno della
struttura inquisitoriale e di tanti predicatori nell’alimentare l’odio della
popolazione cristiana consente del resto di considerare Torquemada come
l’interprete spagnolo più potente e autorevole di quell’antigiudaismo che i
frati di san Francesco e di san Domenico si erano da tempo impegnati a
diffondere in mezzo al popolo in tutta la Chiesa occidentale. Potremmo così
considerare l’editto di espulsione come un documento frutto della
subordinazione del potere politico dei sovrani a quello religioso
dell’Inquisizione.
Ma proprio per la posizione speciale che la struttura fratesca
dell’Inquisizione aveva nel rapporto tra popolazione e potere politico,
bisogna tener conto dell’opera effettivamente messa in atto da quel tribunale
prima e dopo l’editto del 1492: si trattò di una campagna che mirava alla
eliminazione della presenza ebraica, sia di quella che restava fedele alla
religione avita, sia di quella che aveva attraversato il confine del battesimo e
conservava una posizione eminente nella società spagnola. Siamo qui davanti
a quello che è stato definito un «nuovo antisemitismo»6, diverso
dall’antigiudaismo cristiano tradizionale, proprio perché considerava
pericolosa la figura del «converso» e moltiplicava i tentativi di svelare la
nascosta perfidia di cristiani «nuovi» dalle inquietanti caratteristiche
religiose. In teoria l’espulsione degli ebrei doveva cancellare le divisioni di
fede nella penisola spagnola. Se le cose andarono diversamente fu perché lo
strumento per garantire l’unità e la purezza della fede, quella Inquisizione
creata in accordo con fra Tomás de Torquemada, alimentò per sua stessa
natura e grazie alle sue procedure il sospetto sull’autenticità delle
conversioni, stimolò la conflittualità sociale nei confronti dell’élite della
minoranza «conversa» e dette la stura alla volontà di accaparramento dei beni
dei sospettati e dei processati. La conversione aveva cancellato d’un colpo le
antiche barriere protettive che impedivano ai tribunali della fede di occuparsi
degli ebrei. E l’esercizio del sospetto preventivo e della violenza persecutoria
incanalata nelle procedure burocratiche del tribunale ecclesiastico trovò
proprio nell’incerto e problematico terreno della cultura e della condizione
sociale dei cristiani «nuovi» la materia per scatenare tutte le sue potenzialità
aggressive.
Resta un’ultima possibilità, quella che la decisione sia stata presa da un
potere monarchico determinato a cogliere l’occasione delle tensioni suscitate
dai processi inquisitoriali e dal sentimento antigiudaico diffuso in larga parte
della popolazione, e specialmente tra le classi popolari, per fare un passo
decisivo sulla via della creazione di un’unità del paese fondata su di una
religione guerriera e intollerante. Di fatto, come sappiamo, quella
compattezza religiosa fu limitata dal trattamento speciale riservato ai
moriscos, che restarono presenti nella società spagnola per più di un secolo
prima che anche per loro scattasse il provvedimento di espulsione. Ma anche
la loro fu considerata una «razza» diversa per sangue oltre che per religione:
e non c’è dubbio che l’autorappresentazione dell’identità spagnola nel corso
di tutta questa epoca trovò nella religione un valore fondamentale come
patrimonio da conservare senza macchia e da affermare con la forza delle
armi contro eretici e infedeli. Non fu certo per caso se i primi a reagire contro
la tesi di Machiavelli dell’effetto negativo della religione cristiana sul valore
militare e sul vincolo del credente con lo Stato furono proprio dei lettori
spagnoli. La considerazione del processo storico che iniziò con l’espulsione
degli ebrei e si concluse con quella dei moriscos ha fatto parlare di un
complessivo processo di ridefinizione dell’identità spagnola, che ne cancellò
un peculiare tratto originario: quello della convivenza di culture diverse7. Ma
se non vogliamo attribuire a re Ferdinando e alla regina Isabella una piena
consapevolezza di un disegno così vasto, dobbiamo almeno riconoscere che
alcuni dati storici indiscutibili dimostrano il carattere strumentale e strategico
del rapporto della monarchia con la Chiesa e specialmente con l’Inquisizione.
Fu Ferdinando d’Aragona a volere a ogni costo l’impianto di un tribunale
ecclesiastico dotato di tutti i poteri che il papato poteva concedere, ma da lui
governato sia nella scelta degli inquisitori sia nello sfruttamento dei vantaggi
economici e politici offerti da quell’eccezionale strumento. E al di là
dell’Inquisizione, fu decisiva per lui l’alleanza con Roma: e per la monarchia
spagnola la scoperta di Roma tra Quattrocento e Cinquecento fu un evento
politico fondamentale. Come per la via delle Indie, anche la via di Roma era
una scoperta che altri avevano già fatto: come abbiamo detto, fin dal 1452 la
monarchia portoghese aveva ottenuto dal pontefice romano Niccolò V di
poter legittimare le conquiste coloniali e la riduzione in schiavitù dei popoli
scoperti con l’argomento della salvezza delle anime. Il papato era da decenni
al centro di una gara tra i sovrani del Portogallo e quelli della Castiglia nel
contesto della contesa per il controllo dei traffici di merci e di schiavi lungo
le coste africane8. Il legame che anche il sovrano della nuova realtà iberica
volle costruire con Roma negli anni di Alessandro VI, approfittando della
presenza sul trono papale di uno spagnolo, aveva alle spalle una lunga
vicenda e costituiva per lui un obiettivo politico fondamentale.
8.
GLI ESITI: PUREZZA DI SANGUE E DIFFERENZE DI
RAZZA

1. In Spagna
L’efficacia dell’opera svolta dall’Inquisizione fu grandissima. La si
potrebbe riassumere con le parole di Francesco Guicciardini, che fu
ambasciatore in Spagna nel 1512:
Nelle cose della fede providono, ordinando con autorità apostolica inquisitori per tutto el regno, che
hanno, confiscando e’ beni di chi si trovava culpato, ed ardendo le persone qualche volta, sbigottito
ognuno; e fu talvolta che a Corduba arsono in una mattina cento e dugento persone, in modo che infiniti
se ne partirono, che erano infetti; quegli che sono rimasti la vanno simulando, ma è opinione che se la
paura cessassi, ancora assai ne tornerebbono al vomito [...]. Giustamente fu dato loro [ai sovrani] dal
papa il nome di Catolici re. In modo che oggi in tutta Spagna non abita se non cristiani, eccetto che ne’
regni di Aragona dove abitano moltissimi Mori, usando loro moschee e cerimonie; e ve li hanno
soportati lunghissimo tempo quegli re, perché pagano dazi assai1.
Come ben vide Guicciardini, la macchina messa in opera era dunque tale
da sbigottire. Il segreto della sua potenza era molto semplice. L’inquisitore
operava sulla base della delega papale: era dunque titolare dell’autorità
apostolica e come tale superiore a qualsiasi altro tribunale. Chi gli resisteva
incorreva nell’accusa di eresia e veniva punito con la confisca dei beni e con
l’arresto. A quella papale si sommava l’autorità del sovrano che garantiva ai
frati l’appoggio di una protezione armata. L’istituzione funzionò sulla base di
una rigida gerarchia che sottoponeva i commissari locali alle direttive di un
Consiglio centrale della «Suprema e universale Inquisizione» informata sui
processi attraverso le «relazioni di cause». Bastava il nome della «Suprema»
per terrorizzare. Davanti a lei non si poteva opporre alcun privilegio:
nemmeno quello dei Grandi di Spagna, l’élite di potere di cui i sovrani
dovevano tenere conto in ogni momento per la loro politica, soprattutto per
quanto riguardava i legami di fedeltà alla corona e la necessità di aiuto
militare2. E non è certo trascurabile l’impor-tanza finanziaria della regola che
imponeva il sequestro dei beni dei «rei» al primo avvio del procedimento
inquisitoriale: il sovrano si impadroniva per questa via di risorse finanziarie
che lo rendevano indipendente dai contributi fiscali di una società dove
l’esenzione fiscale copriva nobiltà e clero.
Una imponente attività processuale si sviluppò con l’arresto, la tortura, il
sequestro dei beni e il rogo di un gran numero di persone. Ma l’efficacia
dell’opera del tribunale non si misura solo con i dati dell’attività giudiziaria
pura e semplice. La sua presenza bastò a creare una nuvola di terrore
all’orizzonte delle comunità ebraiche. L’accusa di «giudaizzare» si prestò a
usi ricattatori nelle controversie private, nei conflitti di potere o nei tentativi
di impadronirsi dei beni di qualcuno. Fu per questa via che nelle comunità
cittadine e nei corpi più potenti e influenti dell’ordinamento spagnolo si
giunse all’esclusione di tutti i conversos. Non seguiremo gli sviluppi
dell’azione dell’Inquisizione: basterà dire che intorno alla sua struttura e al
suo operato si sviluppò una lotta sorda da parte di chi tentava di limitare lo
strapotere del nuovo organismo e di criticarne le procedure. La garanzia del
segreto sui nomi degli accusatori apriva la via a delazioni e calunnie di ogni
genere. E l’uso della tortura fu caratterizzato da forme di arbitrio
incontrollato. Non mancarono resistenze e reazioni. La destituzione
dell’inquisitore generale Diego de Deza nel 1508, sostituito col cardinale
Francisco Jiménez de Cisneros, fu l’esito di uno dei momenti di tale conflitto.
L’oggetto primario dell’opera del nuovo tribunale fu a lungo connotato
esclusivamente dai conversos. Solo col secondo decennio del Cinquecento si
affacciarono nuove figure di eretici, gli alumbrados. Nel 1525 fu convocata
una giunta per discutere la questione dei moriscos, mentre nel 1527 una
giunta fu convocata a Valladolid per discutere il caso della diffusione di
scritti e di idee di Erasmo da Rotterdam. Ma intanto si faceva strada la tesi
della differenza di natura tra gli ebrei e i cristiani: e si spostava qui il conflitto
con la minoranza di origine ebraica che era rimasta dopo il 1492 accettando il
battesimo. La scelta politica del sovrano era stata quella di cancellare la
differenza religiosa che gli impediva di mettere d’accordo l’imperiosa
esigenza di compattezza religiosa del suo Stato col bisogno di sfruttare le
speciali capacità culturali e commerciali della minoranza ebraica. La reazione
che prese corpo non si limitò a sospettare di insincerità la conversione al
cristianesimo, ma si richiamò alla tesi di una differenza incancellabile
depositata nel sangue degli ebrei e trasmessa ereditariamente: una differenza
che rendeva tutti i discendenti di ebrei inaffidabili, infidi, pronti al
tradimento. E per questo – se ne deduceva – dovevano essere esclusi da ogni
possibilità di essere ammessi all’interno degli organismi più importanti e più
delicati della società spagnola, quelli dove gli ordini privilegiati del regno
collocavano i loro membri. Come abbiamo visto, la prima introduzione della
clausola della limpieza de sangre come sbarramento contro i «conversi» si
ebbe a Toledo nel 1449, con l’approvazione di uno statuto che vietava loro
l’accesso al capitolo della cattedrale. Da lì il meccanismo dell’esclusione
doveva dilatarsi ed estendersi a interi ordini religiosi e a ogni corporazione,
tagliando fuori chi era di discendenza ebraica dai corpi più importanti e
influenti della società. Lo stesso dicasi a maggior ragione per l’Inquisizione,
perché non si poteva consentire che la milizia creata per proteggere la
purezza della fede fosse inquinata dalla presenza di sangue ebraico. Dai
vertici della società si venne scendendo fino alle confraternite religiose e ai
collegi universitari. Il più sollecito a introdurre norme precise a questo
riguardo fu l’organismo più antico e più significativo, l’ordine di Santiago
Matamoros, l’antico ordine monasticomilitare. Nelle prove per l’ammissione
all’ordine si impose di verificare se il candidato era discendente di cristiani
«viejos, limpios», o se invece derivava da «raza de judío, moro, o
converso»3. Ma fu con l’avvio dell’opera dell’Inquisizione costruita da
Torquemada che il ricorso sistematico al sospetto nei confronti dei
«conversi» si rivelò in tutta la sua devastante violenza. Ne fu vittima un
intero ordine religioso, quello dei geronimiani tra il 1486 e il 1487. E da
allora in poi gli statuti di esclusione dei «cristiani nuovi» si diffusero a
valanga. Il laborioso sistema del processo di accertamento inquisitoriale a
carico dei sospettati o accusati di falsa conversione o di ritorno all’ebraismo
fece crescere un clima di inquietudine e di incertezza nella società che non
risparmiò nessuna istituzione. L’ossessione della purezza del sangue si
diffuse fino a permeare profondamente il funzionamento delle istituzioni e le
vite dei singoli. Per i «conversi» divenne un’abitudine quella di vivere
simulando e dissimulando, come scrisse nei suoi versi il medico e poeta
Francisco López de Villalobos: «Y vivo disimulando / mil angustias
lastimeras, / que me hieren lastimando / y, con risa simulada, / disimulo el
llanto cierto»4.
La svolta del 1492, cancellando la presenza degli ebrei dalla Spagna, ben
lungi dal mettere fine all’odio religioso nei loro confronti, accelerò la sua
trasformazione in odio razziale. Da allora in avanti, la caccia al sangue
giudaico, come macchia incancellabile e segreta che poteva essere nascosta
nella storia genealogica di qualsiasi persona, mise in moto interminabili
inchieste, che il segreto rendeva ancor più inquietanti e temute e che si
concludevano spesso con misure durissime per i beni e per la vita di chi ne
era la vittima. Le carte processuali del tribunale della fede venivano
consultate alla ricerca di eventuali antenati della persona sospettata: e così la
condanna del passato ne produceva a cascata altre nel presente. Gli archivi
dell’Inquisizione spagnola portano testimonianze dell’accanito impegno che
quel tribunale investì nella direzione della ricerca di tracce del sangue
impuro. L’Andalusia, terra di presenze inquietanti di altre culture e religioni,
ne fece le spese in modo particolare5.
Al versante propriamente inquisitoriale di questa storia si accompagnò,
come abbiamo visto, quello delle norme di esclusione approvate via via da
ogni genere di corporazione, laica o religiosa: già nel primo Cinquecento
l’obbligo di accertare la genealogia dei propri membri si era estesa fino alle
minori corporazioni di mestiere e alle confraternite cittadine. Nella
confraternita di Santa Maria a Saragozza la questione della verifica della
limpieza de sangre comparve negli statuti fin dal 1528. E scattarono i
processi: bastava il sospetto che uno dei membri avesse un nome di origine
ebraica per avviare ricerche, individuare e ascoltare testimoni, ricostruire
genealogie risalendo lontano nel tempo. Fu una vera ossessione che portò a
una infinita ricerca di informazioni sulla genealogia di chi si candidava per
entrare a far parte di una corporazione, una confraternita, un capitolo
canonicale. E questo riguardò perfino chi si candidava per i Colegios
mayores di Salamanca e di Bologna, le istituzioni universitarie dove si
formavano i letrados, cioè il personale burocratico di cui il grande impero
spagnolo aveva necessità. Era un percorso battuto dai giovani che cercavano
di sfuggire a un destino di povertà attraverso gli studi, residua porta di
accesso alle rendite e agli onori dell’ufficio. L’ammissione al collegio o
colegiatura era il primo varco che attraverso l’ufficio e la connessa prebenda
apriva le porte per l’ingresso nella nobiltà. Era il mondo del privilegio che
schiudeva le sue porte: questo spiega perché la battaglia sulle genealogie dei
candidati, che era dovunque accanita e senza esclusione di colpi, qui mettesse
in gioco gente del popolo, legata da vincoli di vicinato quotidiano con le
famiglie dei giovani concorrenti. La genealogia del giovane che bussava alla
porta del collegio veniva vagliata attraverso indagini di informatori che
raccoglievano testimonianze giurate sulla sua famiglia di origine. Bisognava
escludere che nella linea degli ascendenti del candidato ci fossero state
persone della «razza», ebrei o mori. La lettura della documentazione raccolta
negli archivi dei collegi fa emergere tutta l’incertezza dell’operazione e tutti i
complicati legami di amicizia o di ostilità che entravano in gioco. Basti dire
che la norma del segreto, ufficialmente richiesto a tutti per tutelare la
regolarità delle inchieste, veniva aggirata tranquillamente. Inoltre i testimoni
potevano essere comprati o intimiditi. Ed erano in genere restii a fare
dichiarazioni che potevano creare loro inimicizie e fastidi. Per farli parlare si
ricorreva alle minacce e all’esibizione di titoli di autorità di pura invenzione.
E non era infrequente il caso di testimoni che, stretti fra diverse forze in
gioco, correggevano e smentivano le prime dichiarazioni. La memoria lunga
del villaggio e la trasmissione orale dei nomi e dei ricordi genealogici era
quella tipica delle società preindustriali6. Ma nel caso spagnolo quella
memoria era attivata in una direzione del tutto diversa da quello che accadeva
all’epoca nel resto d’Europa: lo sforzo di ricordare si concentrava intorno alla
questione della razza e all’individuazione della «macchia» del «converso».
Questo è lo scenario svelato dalle testimonianze orali registrate con
giuramento dagli inviati dei collegi. Qui emerge la prova che si ricorreva
ormai abitualmente al termine di «razza» per indicare i «conversi» di origine
ebraica o musulmana. I testimoni giuravano che la persona di cui si trattava
non aveva «ninguna macula ni raça». L’espressione indicava la macchia che
distingueva tutti i confesos, cioè chi aveva abiurato un’eresia o un’altra
religione: «raça de confeso», si diceva a Cordova nel 1532; o anche «raça de
moros, judíos, herexes ni luteranos», diceva un teste a Paredes de Nava nel
15627. Alla base di simili immagini c’era la convinzione della trasmissione
ereditaria attraverso il sangue di un carattere morale: una convinzione
ratificata dalle norme dell’Inquisizione, che trasferivano sui figli gli effetti
della condanna dei padri. La Chiesa alimentò in tal modo un’idea razzista di
comunità che faceva delle classi popolari la vera nobiltà unita in un sol corpo
dal sangue di Cristo. L’ultimo «campesino» poteva rivendicare con orgoglio
questo suo titolo di merito e guardare con sospetto le classi dominanti
colpevoli di aver mescolato il loro sangue con quello non «limpio» degli
ebrei attraverso i matrimoni di interesse coi più ricchi tra i «conversi».
Il documento fondamentale di questa ricerca genealogica della purezza di
sangue è costituito da un intero genere letterario, quello dei Luceros y
Tizones, elenchi di nomi ebraici elaborati per individuare chi era nato da ebrei
battezzati8. Alle origini del genere incontriamo il Libro verde de Aragón, un
testo singolare di cui abbiamo già ricordato la narrazione delle circostanze in
cui sarebbe maturata la decisione di Ferdinando d’Aragona di cacciare gli
ebrei dalla Spagna9. Come spesso accade in questa storia, non si tratta solo di
un documento di quel che accadde, ma di un testo che agì piegando gli eventi
in una precisa direzione. Il Libro verde fu per più di un secolo uno strumento
attivo della caccia al sangue ebraico e della persecuzione dei «nuovi
cristiani». E anche qui incontriamo l’opera dell’istituzione forgiata per
eliminare la presenza ebraica.
Il suo primo autore fu infatti un assessore dell’Inquisizione di Saragozza,
Juan de Anchías, un uomo che aveva trattato moltissimi processi fin dal
primo avvio del nuovo tribunale, costruendosi così una conoscenza di nomi e
di persone che mise a frutto per snidare dai loro nuovi assetti nella società dei
battezzati tutti i nati da ebrei, anche se avevano avuto un solo lontano
progenitore ap-partenente al popolo giudeo. Juan de Anchías narra nel
prologo dell’opera di aver lasciato la città nel 1507 per sfuggire a
un’epidemia di pestilenza e di essersi rifugiato per diversi mesi a Belchite, un
piccolo centro dell’Aragona, oggi monumento della memoria della guerra
civile spagnola. La peste era considerata allora il segno dell’ira divina per le
offese e le colpe degli uomini. E tollerare la presenza di ebrei per ragioni di
convenienza economica o politica era ritenuta un’offesa fatta a Dio. La
minaccia della peste portava di solito all’imposizione di restrizioni o
all’espulsione degli ebrei. Nel secolo XVI se ne ebbe una verifica nella
Repubblica di Venezia, lo Stato italiano più aperto alla libertà dei traffici e
dei commerci. Qui pure era diffusa anche tra gli uomini della classe di
governo la convinzione che cacciare gli ebrei fosse un modo per garantirsi la
protezione divina; e fu per questo che nel 1555 un’epidemia di peste portò
all’espulsione degli ebrei da Udine10.
Dunque non fu per puro caso che Juan de Anchías decise di dedicare i
mesi di lontananza dall’ufficio a mettere per iscritto le genealogie delle
famiglie ebraiche aragonesi. Lo fece per offrire lo strumento necessario a
individuare le ascendenze degli ebrei rimasti in Spagna dopo il 1492:
bisognava aiutare chi voleva evitare di «mezclar su limpieza con ellos». Le
genealogie raccolte nel libro dall’esperienza dei processi e dalle narrazioni
fatte all’autore da vecchi ebrei avevano come punto di partenza un blocco di
173 nomi dei convertiti al tempo di san Vicente Ferrer e continuavano poi
con elenchi di persone che erano state bruciate o penitenziate. L’opera non fu
stampata, ma circolò ampiamente e venne ulteriormente elaborata da altre
mani, ma soprattutto venne utilizzata per la caccia al «sangue giudeo», con
esiti devastanti: bastava una denunzia o un sospetto per macchiare l’onore
della persona incriminata, escluderla dall’accesso a corporazioni, ordini e
uffici di carattere religioso e civile, e imporre procedure complicate e costose
di accertamento della limpieza, che si svolgevano coinvolgendo personale
dell’Inquisizione per lo più pronto a farsi corrompere.
Così grazie alla memoria scritta del battesimo i discendenti dei primi
«conversi» venivano inchiodati all’invalicabile dato dell’appartenenza di
sangue. Non importava che la persona in questione fosse vivente: si facevano
ricerche anche per i morti. E le inchieste riempivano fascicoli ponderosi di
processi che duravano a lungo, anche per decenni11. Nelle probanzas per
l’accesso ai collegi universitari, come quello di San Clemente di Bologna, la
ricerca era complicata dal fatto che non si voleva metterne il controllo in
mano all’Inquisizione, con il rischio di lasciare nelle mani di quel tribunale la
concessione delle prebende dei collegiali: ma le vie d’uscita escogitate per
risolvere il problema esposero al rischio di giuramenti falsi e suscitarono
grandi tensioni attestate fin dalla metà del Cinquecento12. Per quanto riguarda
l’Inquisizione, la regola del controllo della limpieza de sangre per tutti i
candidati a entrare nella struttura del tribunale fu imposta alla metà del
Cinquecento da Diego de Espinosa. La stessa Compagnia di Gesù doveva
essere investita da critiche per avere avuto un generale come Diego Laínez, di
origine «conversa». Vale la pena di osservare che l’introduzione e l’impiego
dello sbarramento della prova del sangue limpio furono favoriti
tradizionalmente dai sovrani di Spagna, che con Carlo V e Filippo II
gratificarono l’Inquisizione di grande attenzione e impulso13. E in prosieguo
di tempo la norma del sangue limpio conquistò un posto centrale in quella
Spagna dove, com’è stato osservato, «la presenza di ebrei era solo un ricordo,
e il numero di spagnoli giudaizzanti era insignificante»14. Lo stesso avvenne
in Por-togallo: qui la regola del «sangue puro» fu fissata nelle Ordinazioni
del re Emanuele fin dall’edizione del 1514 e rimase in vigore fino a un
decreto del 1773, estendendosi via via a una serie di categorie: non solo
discendenti di ebrei ma anche di musulmani e poi neri, mulatti, gitani,
abitanti delle colonie. La cosa assunse «le proporzioni di un’ossessione
collettiva, che investiva l’intera società, dai semplici artigiani alla più alta
nobiltà di corte»15. Si può dire che nella penisola iberica il sospetto
dell’impurità bastava a infamare e a escludere le persone, nonostante le
laboriose e lunghissime procedure di «abilitazione» affrontate da chi ne era
vittima. Naturalmente questa macchina sociale dell’infamia ebbe il suo centro
fondamentale nel tribunale dell’Inquisizione che, dopo aver creato le
condizioni e fornito gli strumenti della caccia all’impurità, sviluppò al
massimo grado le dinamiche processuali di accertamento.
Una disposizione («pragmatica») di re Filippo IV nel 1623 ordinò di
bruciare tutte le raccolte di dati genealogici in possesso di privati (usati per
ricatti e vendette) e limitò a tre le inchieste inquisitoriali a cui poteva essere
assoggettata una stessa persona. Ma questa misura non impedì che si
affermasse una definizione di tipo naturalistico e razziale della trasmissione
di padre in figlio dei caratteri negativi dell’ebreo. Un trattato di Juan Escobar
del Corro, dedicato alla definizione della purezza e della nobiltà16, sostenne
che era la trasmissione del sangue dei «gentili» convertiti a denotare la
purezza dei cristiani viejos, mentre chi era di ascendenza ebraica o moresca o
eretica ne portava nel sangue la macchia incancellabile. Era la tesi della
differenza di razza: e nei documenti dell’epoca si parla normalmente di «raza
de Moros y Judíos»17. L’attenzione della cultura del tempo per le nuove
conoscenze scientifiche sul corpo umano e sulla dinamica della riproduzione
assunse così nella cultura spagnola, dominata da un’esaltata devozione alla
Madonna concepita senza macchia originale, l’aspetto di una ribadita
affermazione della differenza razziale nella trasmissione delle male
inclinazioni attraverso il seme virile.
2. Il Portogallo
L’alternativa imposta con tempi drammaticamente stret-ti agli ebrei di
Spagna nel 1492 era stata se accettare il battesimo o andarsene. Con questo si
sarebbe dovuto risolvere il problema: la purezza della «vera» religione
doveva regnare incontrastata nel paese riscattato dalla crociata della
reconquista. Come abbiamo visto, non fu così: restava in Spagna la
minoranza dei «conversi». Nei loro confronti si aprì una guerra diversa,
basata non più sulla differenza di religione ma su quella di sangue.
L’intolleranza religiosa di cui i Re Cattolici avevano cavalcato le pulsioni
diventava ora discriminazione raz-ziale. L’unità statale della Spagna fondata
sulla religione produceva all’interno e all’esterno frutti dello stesso genere: la
conquista delle nuove terre scoperte veniva legittimata dalla missione
religiosa della evangelizzazione. E ben presto, con l’allargarsi della protesta
religiosa della Riforma di Lutero, l’impero di Carlo V doveva affrontare un
pesante programma di guerre di religione. Ma intanto la scelta del 1492
produceva i suoi primi frutti con l’apertura di una crisi carica di conseguenze
nei rapporti col paese confinante e rivale: il Portogallo. Vediamone i dati
essenziali.
La questione degli ebrei e dei «conversi» o «mar-rani» come ormai
venivano definiti occupò un posto importante nella storia dei rapporti di
potere tra i due regni che si dividevano la penisola iberica, la Spagna e il
Portogallo. La persecuzione antiebraica in corso in Spagna provocò un esodo
dei perseguitati verso il Portogallo. Davanti ai problemi di convivenza creati
dall’immigrazione di una popolazione sospetta di apostasia, che godeva però
di una certa protezione da parte della monarchia, si moltiplicarono episodi di
intolleranza violenta da parte della popolazione. Intanto le ragioni della
politica dinastica accentuavano la pressione della Spagna sul piccolo regno
del Portogallo. Nel 1495 re Manuel chiese la mano di Isabelita, la figlia dei
Re Cattolici. La promessa sposa dichiarò che non intendeva entrare in
Portogallo prima che gli «eretici» fossero stati allontanati18, facendo valere la
concezione che vedeva nella presenza di ebrei un fattore di impurità e una
minaccia di punizioni divine – un’idea che aveva forte presa su tutta la
popolazione cristiana. I desideri della futura sposa furono realizzati quando il
4 dicembre 1496 il re Manuel I emanò un bando generale nel quale intimava
l’espulsione di tutti gli ebrei e musulmani non battezzati entro l’ottobre
149719. L’editto fu seguito da norme contraddittorie che rivelavano esitazioni
e preoccupazioni davanti alla minaccia di un ab-bandono del paese da parte di
una minoranza ebraica essenziale per l’apparato amministrativo e
commerciale del paese (per i musulmani, la pronta reazione degli Stati
islamici mediterranei che minacciarono ritorsioni fece passare in secondo
piano la loro situazione). Di fatto la partenza degli ebrei fu ostacolata e
praticamente impedita mentre le violenze della conversione forzata creavano
una popolazione di «battezzati in piedi»20. La soluzione scelta fu quella di
obbligare gli ebrei al battesimo impedendone l’emigrazione e garantendo
però ai battezzati a forza un lungo periodo di sospensione da ogni processo
per apostasia: un editto del maggio 1497 fissò un periodo di venti anni
durante il quale non ci sarebbero state misure di accertamento sulla religione
dei neoconvertiti. A loro però fu impedito di vendere i propri beni e di
lasciare il paese con la propria famiglia. Questa scelta, dovuta alla volontà di
garantirsi la permanenza di una minoranza importante nell’economia e nelle
strutture amministrative del regno, creò una situazione esplosiva: furono
poste le premesse di un conflitto durissimo tra i «marrani» e la popolazione
cristiana. Da allora in poi il minimo motivo poté scatenare violenze collettive,
veri e propri pogrom. Il più grave fu quello che ebbe luogo a Lisbona nella
Pasqua del 1506. In una città terrorizzata da un’epidemia di peste bastò
l’incidente di un «nuovo cristiano» che aveva criticato un falso miracolo
organizzato dai domenicani per scatenare il linciaggio; e la predicazione
infiammata di due domenicani messisi a capo della folla dette il via a un
massacro senza fine. Il re don Manuel dovette allontanarsi da una città
incontrollabile e vi poté tornare solo a distanza di diversi giorni. Le misure
punitive da lui prese furono enfatizzate nelle testimonianze ebraiche, sempre
portate a ritenere favorevole il potere reale e a temere l’ostilità popolare,
laddove era stato il meccanismo stesso della conversione obbligata senza
libertà di andarsene dal paese a creare le condizioni del sospetto e dell’odio
dei cristiani «vecchi»21.
Da queste premesse doveva nascere la lunga vicenda dei «marrani»
portoghesi, pronti a tornare alla professione dell’ebraismo laddove se ne dava
loro la possibilità – e dunque nelle città e nei porti del grande commercio
internazionale come Anversa, Venezia, e negli altri luoghi che si aprirono alla
loro emigrazione, dalla Ferrara estense all’impero ottomano. Ma la diffidenza
e la persecuzione dei convertiti dovevano segnare per secoli la società
portoghese. Mentre gli esuli si disperdevano per l’Europa, affollavano le
capitali del commer- cio e della finanza e completavano il loro percorso rifu-
giandosi nel Mediterraneo orientale sotto la protezione dell’impero ottomano,
la figura dell’ebreo portoghese battezzato, indicato con l’epiteto insultante di
«marra no», diventava il simbolo della scissione fra apparen za e realtà,
dell’incertezza religiosa e della finzione. In Portogallo la caccia al finto
convertito fu l’esercizio assiduo della macchina inquisitoriale assistita dalla
mi croconflittualità sociale dei piccoli centri. Per secoli la scoperta di
comunità locali di conversos, sospettabili di ritorni segreti all’antica
religione, accese roghi e popolò le chiese di abitelli di «penitenziati»,
mantenendo viva la memoria dell’infamia, quella sociale dell’apostata e
quella storica dell’intolleranza. E anche in Portogallo si ripeté la vicenda
dell’alleanza tra la monarchia ereditaria e l’Inquisizione, con la prevalenza
sempre più netta della macchina inquisitoriale nella pratica e nelle leggi dell
mtolleranza. Re Manuel aveva dichiarato con apposite leggi del 1502 e del
1507 che non ci sarebbe stata nessuna discriminazione tra vecchi e nuovi
cristiani nell’accesso agli uffici e agli onori. Ma alla metà del Cinquecento
una supplica rivolta al re rivelò che la porta delle istituzioni confraternali,
dette le Misericordias, era sbarrata per i discendenti da ebrei convertiti; e la
Compagnia di Gesù fece sua la norma dell’esclusione per i candidati di
origine ebraica22. L’alleanza tra la casa regnante e l’Inquisizione trovò
condizioni peculiari nel Portogallo del Cinquecento: basti pensare che qui
l’inquisitore generale fu per molti anni il cardinal Henrique, fratello del re
Giovanni III.
9.
EREDITÀ LUNGHE

L’esperimento iberico spicca per la sua originalità nel contesto del


disegno generale dei rapporti tra cristiani ed ebrei nell’Europa di antico
regime. L’accendersi di un an tigiudaismo violento caratterizzò la società
cristiana nei secoli del tardo Medioevo e del Cinquecento. Sul fronte del
rifiuto troviamo personaggi diversi, accomunati dalla loro volontà di
riformare la Chiesa e di rinnovare la vita religiosa dei cristiani. Vincenzo
Querini e Tommaso Giustiniani, i due patrizi veneziani fattisi monaci,
affrontarono la questione di come trattare gli ebrei in un capitolo del loro
Libellus presentato a papa Leone X nel 1513 in vista della ripresa del
Concilio Lateranense V. Era un piano di «bona et santa refformatione»1: qui
la questione degli ebrei fu trattata insieme a quella dei popoli scoperti al di là
dell’Oceano, di cui Vincenzo Querini aveva avuto notizia durante la sua
permanenza come ambasciatore alla corte imperiale. Si trattava di affrontare
in ambedue i casi il compito di un’opera di conversione dalle dimensioni
imponenti, vista la «innumerabilis populorum multitudo» di quelle isole o
forse di quel continente dove gli abitanti erano del tutto ignari della
predicazione del Vangelo: ma c’era anche una «infinita» gente ebraica dentro
e fuori dei confini cristiani che resisteva a causa della sua perfidia e durezza
di cuore («cervicosa perfidia», «obdurata [...] cordis perfidia») e minacciava
di allearsi alle forze degli «infedeli» – e qui affiorava l’antica tradizione del
complotto ebraicomusulmano. Nei loro confronti bisognava ricorrere a rimedi
drastici secondo i due camaldolesi, che proposero al papa di generalizzare per
tutta la cristianità il modello spagnolo: battezzarli se accettavano o disperderli
fuori del mondo cristiano, fissando un preciso termine di tempo entro il quale
dovevano essere obbligati a scegliere. Se poi i non convertiti si fossero
perduti disperdendosi fuori del mondo cristiano, poco male. Anche perché ai
confini del mondo cristiano c’erano altri popoli che aspettavano di essere
evangeliz-zati: quelli scoperti oltre Oceano2. La loro proposta non ebbe
seguito, almeno per il momento, ma è indicativa del nesso tra fervore
religioso cristiano e intolleranza antiebraica spinta fino all’estremo.
L’ansia della conversione si diffuse allora per impulso dei movimenti di
riforma della Chiesa, concordi nell’obiettivo di cancellare l’ebraismo quanto
discordi e ferocemente divisi nella lotta fraterna tra sette e Chiese. Simboli
tradizionali della differenza religiosa e linguaggi dell’avversione subirono un
violento avvitamento, che si rese evidente al di qua e al di là delle nuove
frontiere religiose create dalla frattura dell’unità della Chiesa occidentale. La
figura dell’ebreo dal naso adunco, avido e traditore, campeggiò nella pittura a
soggetto sacro dei grandi maestri cristiani, da Albrecht Dürer in avanti. Un
censimento delle definizioni usate per gli ebrei nella cultura cristiana dal
tardo Medioevo in poi mostrerebbe lo spostamento tendenziale
dell’immagine di quel popolo oltre i confini dell’umanità, verso il mondo
delle bestie: volpi, serpi, soprattutto e sempre «porci». Una scrofa che allatta
maiali ed ebrei insieme era scolpita nella chiesa di Wittenberg: Lutero la vide
e se ne ricordò mentre scriveva il violento pamphlet antigiudaico con cui
reagì alla delusione delle prime speranze di convertire al suo cristianesimo il
popolo della Bibbia; un libello diventato celebre nel secolo XX solo perché la
propaganda nazista ne fece uso e gli imputati nazisti si appellarono a quel
documento per giustificarsi. Ma nel secolo XVI quel documento apparve del
tutto condivisibile al cardinal Giovanni Morone, rappresentante della linea
moderata e riformatrice della Chiesa cattolica. Morone era un importante
uomo di Chiesa, dominato da un’ansia di riforma religiosa che gli attirò i
sospetti dell’Inquisizione e gli valse un lungo processo, ma fece in tempo a
gover-nare l’ultima fase del Concilio di Trento e a metterne in atto le
decisioni nella sua opera episcopale. Tuttavia si trovò d’accordo con gli
insulti e le aggressioni di Lutero contro gli ebrei, tanto che progettò di
tradurre e diffondere sotto falso nome il violento pamphlet antigiudaico del
riformatore tedesco. Si tratta di episodi che attestano l’incupirsi dell’orizzonte
per la minoranza ebraica in terra cristiana nel Cinquecento. A questa data era
stata già elaborata tutta la panoplia dei simboli dell’esclusione. Era nato il
ghetto ed erano stati inventati i segni di identificazione pubblica: per i paesi
dove gli ebrei come tali erano tollerati, e dunque per alcuni Stati italiani,
c’era la lingua di panno giallo cucita sulla manica o sul cappello; per i paesi
iberici dove gli ebrei erano stati costretti al battesimo, chi veniva scoperto
ancora fedele all’antica religione andava incontro alla morte nel teatro urbano
dell’esecuzione capitale o subiva la vergogna degli abitelli infamanti da
indossare a vita. Alcuni di questi abitelli – tuniche con disegni di diavoli e di
fiamme infernali – si conservarono nei secoli successivi appesi alle pareti
delle chiese spagnole.
Come abbiamo detto, il caso spagnolo è particolar-mente significativo
perché mostra la tendenza a trasformare la differenza ebraica da religiosa in
naturale appena l’ebreo si battezzava e diventava cristiano. All’editto reale
spagnolo del 1492 si dovette il tentativo più radicale di risolvere il problema:
con l’imposizione del battesimo la barriera della differenza religiosa veniva
cancellata, l’ebreo diventava cristiano. Ebbene, come abbiamo visto, da quel
tentativo di dare una soluzione definitiva al problema doveva risultare un
esito del tutto imprevisto: la barriera rimase ma subì una metamorfosi,
diventando collettiva ed ereditaria da religiosa e individuale e passando dalla
cultura alla natura. E da lì doveva nascere un incrudimento della
persecuzione.
Gli stessi ingredienti dell’antisemitismo iberico dovevano ripresentarsi in
Europa a partire dalla fine del Settecento: l’idea del complotto ebraico come
congiura di un nemico interno attecchì in una società nella quale era stata
chiusa l’epoca dei ghetti e gli ebrei erano stati liberati – «emancipati» – da
tutte le limitazioni dei diritti individuali fino ad allora imposti. Se in Spagna
si era cancellata la differenza ebraica imponendo il battesimo, nell’Europa
della Rivoluzione francese si apriva la porta alla cancellazione di ogni
differenza tra gli uomini con l’affermazione del principio di uguaglianza,
fondato sulla comune appartenenza alla stessa specie umana. Ma proprio da lì
doveva partire un’evoluzione dell’antisemitismo che si basò su ingredienti
molto simili a quelli antichi: l’idea del complotto contro la società e
l’affermazione della incancellabile differenza di sangue della razza ebraica.
Come ha scritto Yerushalmi, «l’elemento critico è, ovviamente,
l’apparizione in entrambi i casi del concetto razziale degli ebrei»3. E il
problema è stato da lui correttamente formulato quando ha osservato che,
anche se dopotutto l’Inquisizione non era la Gestapo, «l’esperienza iberica
non deve essere considerata meramente come un precedente esotico degli
eventi successivi». In questo caso la comparazione storica fa emergere non
solo analogie di modelli e di percorsi, ma anche la presenza di un fattore di
continuità di lunga durata: e questo è costituito dall’eredità culturale e
religiosa di un discorso cristiano contro gli ebrei mai completamente
sconfessato dalle autorità supreme delle Chiese e pervenuto nella Spagna del
Quattrocento a esiti radicali. Esiti che rimasero isolati, tuttavia: la società
cristiana di antico regime era capace di moderare l’ostilità antiebraica.
Quando il cardinal De Luca si vide posto il problema se gli ebrei convertiti
dovessero farsi assolvere da una speciale irregolarità nella promozione a
benefìci ecclesiastici, rispose che solo in Portogallo si dava una situazione del
genere a causa dell’impurità di sangue loro attribu-ita («impuritas sanguinis
ratione originis»). Dunque là i discendenti da ebrei dovevano ottenere una
dispensa speciale. Ma se si trattava di ebrei residenti in una città italiana il
difetto non sussisteva più. De Luca ricordava anche che la religione cristiana
era nata dalla predicazione di apostoli ebrei e che la condizione di «servi» nel
loro caso era da interpretare come una servitù interiore, restando per il resto
liberi. E concludeva che la Chiesa cattolica tollerava costumanze e opinioni
prevalenti in determinati paesi ma non ne generalizzava il valore4.
Ma nell’epoca che si avanzava la crisi degli antichi parametri culturali
religiosi poté liberare dagli ultimi freni una tendenza della società europea di
antico regime a conferire connotati razziali alle differenze sociali e a fondare
sul sangue la giustificazione delle sopraffazioni. I pregiudizi di razza, nella
Francia dove gli ebrei erano assenti, trovarono posto nella legittimazione cor-
rente dei privilegi nobiliari e Gesù fu accolto in società in quanto discendente
dalla stirpe regale di David5. Una «cupa religione dell’onore e del sangue»,
come l’ha definita Carlo Dionisotti, era allora all’ordine del gior-no, pronta a
sostituire quella della comune fratellanza cristiana.
Accanto al tema della differenza naturale, di sangue, l’antisemitismo
dell’età contemporanea ereditò dal passato preindustriale il mito del
complotto giudaico: restava sordamente presente nel passaggio tra le due
epoche la non cancellata accusa cristiana, consolidata nella liturgia cattolica
della Messa, della «perfidia» ebraica, e la riaffiorante permanenza dell’accusa
del «delitto rituale». Il presente ha dato la mano al passato grazie alla
pervasività e alla lunga permanenza di temi e idee in una cultura che ha
lungamente riciclato moduli elaborati dall’ostilità cristiana. Qui si intravede
un raccolto abbondante per chi setaccia i prodotti e i percorsi della cultura del
Novecento europeo: mentre Martin Heidegger leggeva gli scritti del fanatico
predicatore Abraham a Sancta Clara, lo scrittore Emilio Cecchi nel ventennio
fascista diffondeva col suo bello stile gli argomenti di monsignor Umberto
Benigni6. E nel contesto italiano delle leggi razziali del 1938, per l’autorevole
editorialista de «La Civiltà Cattolica» il problema ebraico era quello di
«premunire gli altri dalla loro strapotenza» e di accusare gli ebrei per
le passate persecuzioni, da essi scatenate o promosse contro la Chiesa, in accordo sia con la
massoneria, troppo da essi sostenuta, sia con altri partiti sovversivi ed anticristiani, dalla ‘grande’
rivoluzione francese specialmente, fino ai nostri giorni7.
Ogni volta che le crisi della società europea hanno fatto emergere poteri
fondati sulla paura, la regressione dei valori illuministici e rivoluzionari dei
diritti individuali ha spinto ad attingere all’antico deposito: o, se vogliamo
prendere in prestito l’insulto antico contro gli ebrei battezzati e gli eretici
recidivi, «ha fatto tornare i cani al vomito».
L’indicazione che emerge dalla considerazione di ciò che accadde nella
penisola iberica negli anni iniziali di quella che è stata definita l’età moderna
non va intesa tuttavia nel senso di una continuità sotterranea di tendenze e di
pregiudizi perenni, sempre uguali e sempre pronti a riaffacciarsi. E nemmeno
si può par-lare di una trasmissione diretta di strumenti, concetti e istituzioni
dai ghetti cristiani ai lager nazisti. La vicenda spagnola appare piuttosto come
un modello da tenere presente per confrontarlo con l’altro modello, quello
dell’antisemitismo diffuso in Europa a partire dal Set-tecento. Nell’un caso e
nell’altro ad essere cancellata fu la barriera dell’appartenenza religiosa e delle
connesse interdizioni, che isolavano e individuavano l’ebreo come figura a
parte nella società cristiana. Nella Spagna di Ferdinando d’Aragona
l’imposizione del battesimo portò all’immissione nella società di «conversi»
dotati degli stessi diritti di tutti i battezzati. La reazione sociale nei confronti
di una minoranza, finalmente libera di sviluppare le sue capacità e i suoi
notevoli mezzi culturali e finanziari, consistette, come abbiamo visto, nello
spostare dalla differenza religiosa alla differenza di razza e di sangue la
barriera protettiva che era venuta meno. Qualcosa di analogo accadde quando
tra Settecento e Ottocento una nuova legislazione figlia dell’Illuminismo e
della Rivoluzione francese portò all’emancipazione degli ebrei. L’ebreo
emancipato, invece di scomparire nel corpo di una società che si era messa
alle spalle le antiche barriere divisorie tra battezzati e circoncisi, si configurò
con i tratti di una differenza nuova e diver-samente minacciosa.
Tutto questo permette di individuare alcune cause specifiche di una forma
concreta di razzismo e ci riporta sul terreno familiare allo storico, che è
appunto quello della ricerca delle cause e non quello dell’astratta indagine
sulle origini8. Le delusioni della libertà si tradussero nella rinascita
dell’antisemitismo come forma storica di una radicata attitudine antiebraica
della cultura cristiana9. C’è dunque un singolare parallelismo tra la vicenda
dell’antisemitismo religioso di marca iberica del 1492 e anni seguenti e
quella dell’antisemitismo secolarizzato dell’età contemporanea: se nel primo
caso la cancellazione della differenza di religione per mezzo del battesimo
accese un sospetto e un odio inestinguibile contro il «converso», nel secondo
caso la rivoluzione dei diritti dell’uomo e dell’individualismo economico
offrì al tradizionale antigiudaismo cristiano l’occasione per confluire nella
corrente del nuovo antisemitismo. Contro l’ebreo emancipato, diventato
simbolo del potere del danaro, si allearono i bisogni di sicurezza e le paure
regressive davanti alla nuova realtà. E non mancarono di rivelarsi di nuovo
utilizzabili molti reperti accantonati dagli avi cristiani nella soffitta della
polemica religiosa. Fu così che rinacque a nuova vita il mito del complotto
ebraico.
PER CONCLUDERE: UN PROTAGONISTA

Ogni storia che si rispetti ha bisogno di un protagonista. E quella che


abbiamo raccontato ha un alone così vasto di tempi e di spazi che si rischia di
perderne di vista i contorni concreti. Sembra giusto perciò ricordare in
conclu-sione che al centro della vicenda che abbiamo cercato di ricostruire
spicca la figura di un protagonista: Ferdinando V d’Aragona, il «Re
Cattolico». È nelle sue mani che abbiamo visto concentrarsi gli strumenti
fondamentali ed è da lui che furono fatte le scelte decisive. Su di lui è stato
scritto moltissimo. L’analisi dei meccanismi e dei passaggi attraverso i quali
quest’uomo pose le basi di un potere che lo portò rapidamente al vertice delle
potenze statali europee ha impegnato grandi storici. Ma il più grande fra tutti
resta un suo contemporaneo. Le pagine che Niccolò Machiavelli gli dedicò in
alcuni capitoli centrali del Principe furono scritte mentre Ferdinando
d’Aragona era ancora in vita e rivelano una straordinaria capacità di distacco
intellettuale. A Machiavelli egli apparve come il modello di un «quasi
principe nuovo, perché d’uno re debole è diventato per fama e per gloria el
primo re de’ cristiani»: e questo grazie a imprese «tut-te grandissime e
qualcuna estraordinaria». Quali fossero queste imprese Machiavelli lo
raccontò nella pagina di apertura del capitolo XXI. Era stata l’impresa di
Granada a porre «il fondamento dello stato suo»: con il lento avvio della
campagna militare Ferdinando aveva potuto tenere impegnata a lungo la
grande nobiltà castigliana, impedendole di accorgersi del modificarsi dei
rapporti di forza che intanto andava portando a effetto; determinante fra
questi era stata la costruzione di un potente esercito. Ferdinando l’aveva
messo insieme «con danari della Chiesa e de’ populi». Il fine apparentemente
religioso della guerra contro gli «infedeli» aveva giustificato la messa a
disposizione del sovrano della decima della crociata e l’imposizione di
gravami fiscali appositi. Grazie a quello strumento militare la potenza di
Ferdinando era poi cresciuta in Europa e fuori d’Europa rendendolo appunto
«il primo re» fra tutti i sovrani cristiani.
Tutto questo processo storico che Niccolò Machiavelli osservava
all’inizio del secondo decennio del Cinquecento aveva avuto origine da una
eccezionale capacità di simulare e dissimulare. Grazie all’affettazione di
motivi e ideali religiosi, Ferdinando aveva costruito una immagine pubblica
di sé dominata dalla fede e dalla pietà cristiana. L’uso di argomenti religiosi
da parte di questo sovrano rappresentò per Machiavelli il modello più nitido
di come, nella «realtà effettuale» a lui contemporanea, lo Stato che noi
chiamiamo «moderno» potesse essere costruito «servendosi sempre della
religione». Dal personaggio di Ferdinando d’Aragona Machiavelli ricavò il
profilo di come un principe doveva presentare se stesso ai popoli: non
importava che avesse le qualità morali e le convinzioni di fede richieste dalla
tradizione degli «specula principum» medievali. Bastava l’apparenza: «li
uomini in universali iudicano più alli occhi che alle mani». Era quello che
faceva quel «principe de’ presenti tempi» che Machiavelli preferiva non
nominare ma che era proprio Ferdinando; un sovrano abilissimo nel
presentarsi con i tratti di una religiosità di facciata non corrispondente ai
sentimenti nascosti dell’uomo:
non predica mai altro che pace e fede, e dell’una e dell’altra è inimicissimo: e l’una e l’altra, quando
e’ l’avessi osservata, gli arebbe più volte tolto e la riputazione e lo Stato1.
In tutto questo l’espulsione dei «marrani» ebbe, secondo Machiavelli, un
ruolo fondamentale:
Oltre a questo, per potere intraprendere maggiore imprese, servendosi sempre della religione, si
volse a una pietosa crudeltà cacciando, e spogliando, del suo regno e’ marrani: né può essere questo
esemplo più miserabile né più raro2.
Machiavelli non poté conoscere la quasi totalità delle fonti storiche
relative alla politica del sovrano aragonese di cui oggi disponiamo: ma questo
non gli impedì la nettezza e la lucidità del giudizio. Fu mettendo insieme
molti pezzi distinti – l’abile politica matrimoniale, il successo della
reconquista di Granada, l’antigiudaismo fratesco, la fanatica dedizione di
Torquemada alla lotta contro i conversos, il favore papale – che Ferdinando
d’Aragona dette avvio alla creazione di una potente monarchia nazionale e le
fornì una missione religiosa capace di saldare la presa del potere sulle
profonde dif-ferenze del paese. Ma fra tutte fu fondamentale l’attenzione alla
costruzione di una propria immagine pubblica dominata dalla fama di
religiosità. Una immagine sedu-cente. Come scrisse Machiavelli: «el vulgo
ne va preso con quello che pare e con lo evento della cosa: e nel mondo non è
se non vulgo». Di quel «vulgo» non faceva parte un altro personaggio che
aveva pensato sempre e solo «ad ingannare uomini»: papa Alessandro VI. Ma
papa Borgia aveva mostrato di apprezzare l’esibizione di pietà del sovrano
aragonese. Il nome di Alessandro VI non poteva mancare nei capitoli di
questa sezione del Principe tutta dedicata alle arti della seduzione e dell’uso
strumentale della religione. Ebbene, come si è detto, fu proprio questo il
personaggio che concesse a Ferdinando e a Isabella il titolo di «Re Cattolici»
in premio dell’espulsione degli ebrei. Da quella pietosa crudeltà, o cru-dele
religione di facciata di un uomo che predicò pace e fede e che, secondo
Machiavelli, fu nemico di ambedue, nacque il primo seme di un frutto
avvelenato: quello che sui fondamenti dell’antigiudaismo tradizionale vide la
costruzione della prima forma moderna dell’antisemitismo. Ne fu veicolo
l’istituzione creata da Ferdinando d’Aragona, l’Inquisizione di Spagna. Ma la
realizzazione fondamentale del Re Cattolico fu il modello di potere politico
da lui creato.
Il secolo della Riforma e della Controriforma non perdonò a Machiavelli
l’avere guardato così lucidamente alla realtà effettuale e lo accusò di avere
inventato lui l’arte di sfruttare la religione come strumento di potere. Non
l’esempio dato da Ferdinando d’Aragona fu considerato «miserabile», ma
l’analisi di Machiavelli. Tuttavia non bastò proibire la lettura dei suoi scritti;
bisognò affaticarsi a confutarne il contenuto. Ma le negazioni affermano, le
confutazioni spesso confermano. Alla fine del Cinquecento, il gesuita
Ribadeneyra, nel confutare le dottrine attribuite all’odiato Machiavelli,
riconosceva nell’espulsione degli ebrei del 1492 l’atto di nascita della
potenza spagnola che allora dominava il mondo. Secondo lui, con quella
decisione i Re Cattolici avevano dimostrato di preferire la purezza della fede
ai benefìci finanziari che la presenza degli ebrei avrebbe potuto portare alle
casse dello Stato. E Dio aveva ricompensato la Spagna
purificando questi regni da ogni perfidia e sporcizia di sette false, conservandoli fino ad ora nella
integrità e purezza della fede cattolica e in giustizia e pace, e dando alla Spagna altri regni, e scoprendo
per opera sua un nuovo mondo, con tanti e così grandi tesori e ricchezze, il che è uno dei più grandi
miracoli che ci siano stati3.
La sporcizia era ancora quella: ebrei, eretici e selvaggi.
APPENDICE

Avvertenza
Ringrazio il professor Michele Olivari per la lettua di questa traduzione e
i suggerimenti.

DISPOSIZIONI PER IL VESCOVO DI GERONA


DELL’INQUISITORE GENERALE TORQUEMA
DA (20 MARZO 1492)

Illustrissimo signor don Enrique, infante di Aragona e viceré del


principato di Aragona per il re nostro signore.
Io fra Tomás de Torquemada dell’ordine dei predicatori, priore del
monastero di Santa Cruz di Segovia, confessore del re e della regina nostri
signori e membro del Consiglio reale, inquisitore generale dell’eretica pravità
in tutti i loro regni e signorie dato e deputato dalla Santa Sede Apostolica,
notifico e faccio sapere a vostra illustre Signoria e al molto reverendo
vescovo di Gerona e ai suoi vicari generali e ufficiali e agli altri giudici
ecclesiastici e al facente funzione di governatore generale del suddetto
principato e al bayle1, al veguer2, a consiglieri, giurati, paeres3, giudici4 e a
tutti e ciascun altro ufficiale e ai loro luogotenenti e a tutti gli scudieri e
«buoni uomini» della detta città e vescovato di Gerona e degli altri borghi e
luoghi della diocesi, e a tutte e a ciascuna delle persone particolari, sia
ecclesiastiche sia secolari, di qualunque stato e condizione siano, e a
chiunque di coloro ai quali questa mia carta sarà mostrata o ne sapranno, che
dalle inquisizioni fatte e che si fanno in questi regni e in questo episcopato è
risultato e consta da processi e atti d’inquisizione il gran danno causato ai
cristiani dalla partecipazione, conversazione e comunicazione mantenuta coi
giudei. [...] È provato che [i giudei] hanno procurato per diverse vie e in
diverse forme e maniere di [...] e sottrarre alla nostra santa fede cattolica e
separarli da essa e attrarli e pervertirli alla loro maledetta credenza e
opinione, istruendoli nelle cerimonie e osservanze della loro legge, facendo
incontri nei quali leggevano e insegnavano quello che dovevano credere e
osservare della detta legge, procurando di circoncidere loro e i loro figli,
dando loro libri dai quali imparare le orazioni che dovevano fare ogni anno e
trovandosi insieme a loro nei periodi dei loro digiuni per leggere e insegnare
loro le storie della loro legge, informandoli per tempo della data delle pasque,
delle feste e dei digiuni, avvisandoli di quello che dovevano osservare e fare,
dandogli e portandogli con le proprie mani pane azzimo e carne macellata
ritualmente per celebrare le dette feste e pasque, istruendoli sulle cose che si
devono nascondere sia nel mangiare sia nelle altre cose, persuadendoli per
quanto potevano affinché osservassero e adempissero la loro legge,
facendogli credere che la legge dei cristiani è finta [«burla»] e che i cristiani
sono idolatri, secondo quanto appare e risulta da gran numero di testi e di
confessioni sia degli stessi giudei sia di coloro che furono pervertiti e
ingannati da loro, il che ha apportato gran danno e detrimento e obbrobrio
alla nostra santa fede cattolica, come appare manifestamente a tutti i membri
di questi regni e di questo episcopato.
E poiché conviene trovare rimedio perché cessi così grande obbrobrio e
offesa della religione cristiana e non ci sia occasione di offenderla ancora di
più, sia in coloro che finora Dio ha voluto salvare sia in quelli che caddero e
si emendarono e si sono convertiti alla nostra Santa Madre Chiesa, e
riconoscendo e confessando i loro errori hanno fatto penitenza che non
abbiano a cadere di nuovo in essi, il che facilmente potrebbe accadere data la
debolezza della nostra umanità e la scienza e suggestione diabolica che ci fa
guerra, se non venisse eliminata la causa principale [...] la partecipazione e
comunicazione che i giudei hanno finora mantenuto e [...] investito e
insegnato a tale scopo: perciò ho deciso di notificarlo e farlo sapere al re e
alla regina nostri signori.
E dal momento che le loro altezze, come sovrani cattolici, concessero di
provvedere in materia, accettarono volentieri che io provvedessi per mio
ufficio nella seguente forma, per-tanto, col volere e il consenso delle loro
altezze, ho deciso di redigere questa mia carta, per il tenore della quale ordino
a tutti e a ciascun giudeo e giudea, di qualsiasi età, della detta città ed
episcopato di Gerona e di tutti i suoi borghi e località e a ognuno di essi che
entro la fine del mese di luglio dell’anno in corso partano e se ne vadano e
fuoriescano dalla detta città e dall’episcopato e dai borghi e località di esso
con tutti i loro figli e figlie, famigliari e dipendenti, e che non ritornino più in
perpetuo né nell’episcopato né in parte alcuna di esso, preavvertendoli che, se
non faranno così e saranno trovati nella detta città ed episcopato o entro i loro
confini, procederò e ordinerò di procedere contro di loro a termini di legge.
E affinché questo possa essere meglio realizzato e messo in esecuzione,
esorto e supplico la Vostra illustrissima Signoria e il molto reverendo
vescovo e i suoi vicari generali e funzionari e gli altri giudici ecclesiastici e
comando in virtù dell’obbedienza e sotto pena di scomunica ai suddetti
giudici e funzionari secolari e ai loro luogotenenti e a ciascuno scudiero e
«uomo buono» della detta città di Gerona e degli altri borghi e località del
detto suo episcopato e a tutti e a ciascuna persona singola così ecclesiastica
come secolare, di qualunque stato e condizione [...], e a ciascun [...] che
facciate osservare e mettere in pratica tutto ciò che è indicato in questa mia
carta, sia in generale sia nei singoli dettagli.
E se i suddetti giudei e qualcuno di loro non faranno e non metteranno in
pratica quello che viene comandato da parte mia a loro entro il termine
suddetto e saranno ribelli e disob-bedienti ai miei ordini entro i primi nove
giorni successivi alla scadenza assegnata – giorni che fisso con le tre
intimazioni canoniche e termine perentorio, dandogli tre giorni per ogni
scadenza e dilazione – non dovete partecipare né comunicare pubblicamente
o privatamente con i detti giudei e giudee né con nessuno di loro né li dovete
accogliere nei vostri luoghi o nelle vostre case né favorirli né dargli o fargli
dare sussistenza o alimenti per il loro mantenimento, né trattare con loro per
comprare, vendere o scambiare o fare altre cose quali che siano. Dovete
escluderli da ogni partecipazione o contatto con voi in tutte le cose, e né ora
né mai né in alcun modo dovete consentire, permettere o dar modo a che
qualcuno dei detti giudei e giudee, di quelli abitanti della detta città di Gerona
e del suo episcopato e di tutti gli altri borghi e località come pure di quelli di
qualunque altra parte, sostino o vengano o stiano in detta città e nel suo
episcopato.
E facendo e comportandovi così farete ciò che è vostro dovere al servizio
di Nostro Signore e a esaltazione della nostra santa fede cattolica.
Ma comportandovi diversamente e facendo il contrario, una volta passato
il termine di tempo, ripetute le dette ammonizioni canoniche, dichiariamo e
promulghiamo ora per allora, con questa scrittura e per mezzo di essa,
sentenza di scomunica maggiore contro di voi e contro ciascuno che tra voi
facesse il contrario: mi riservo l’assoluzione da tale scomunica e sotto la detta
pena e sentenza di scomunica ordino ai suddetti giudici e funzionari secolari
della detta città ed episcopato che facciano pubblicare e bandire questa mia
carta nei luoghi pubblici della suddetta città e dei borghi e località del
suddetto episcopato, ogni volta che [a] questo saranno invitati e ordiniamo
agli scrivani che saranno di ciò richiesti di [fornire in] forma autentica
l’attestazione della [avvenuta] suddetta lettura e pubblicazione.
E allo stesso modo, in virtù dell’obbedienza, comando a tutto il clero
titolare di benefìci con cura d’anime di tutte le chiese della detta città ed
episcopato che nei giorni di domenica e di festa, quando faranno le preghiere
[«plegarías»], annuncino pubblicamente ai loro parrocchiani che i sopradetti
giudei debbono andare via entro il tempo indicato e che da allora in poi non
possano avere rapporti con loro sotto pena di scomunica.
A testimonianza della qual cosa ordiniamo che questa carta sia data e la
diamo firmata dal nostro nome e sigillata col nostro sigillo, avvalorata col
nostro segreto, data nel borgo di Santa Fe, il 20 marzo, anno mille e
quattrocento novantadue dalla nascita del nostro salvatore Gesù Cristo.
Per mandato di sua reverenda paternità: Johannes de Revenga.

II

EDITTO DI ESPULSIONE
Don Ferdinando e donna Isabella, per grazia di Dio re e regina di
Castiglia, León, Aragona, Sicilia, Granada, Toledo, Valencia, Galizia,
Maiorca, Siviglia, Sardegna, Cordova, Corsica, Murcia, Jaen, Algarve di
Algesiras, Gibilterra, isole di Canaria, conti di Barcellona e signori di
Biscaglia e di Molina, duchi di Atene e di Neopatria, conti del Rossiglione e
di Sar-degna, marchesi di Oristano e di Goceano.
Al principe don Giovanni, nostro carissimo e amatissimo figlio, e agli
infanti, prelati, duchi, marchesi, conti, maestri degli ordini, priori, ricchi,
commendatori, alcaldi dei castelli e delle fortificazioni dei nostri regni e
signorie, e ai consigli, corregidori, sindaci, autorità di giustizia5, cavalieri,
scudieri ufficiali, e «uomini dabbene»6 della nobilissima e realissima città di
Toledo e di tutte le città e borghi e luoghi del suo arcivescovato e di tutte le
altre città e borghi e luoghi dei suddetti nostri regni e signorie, e a tutti gli
ebrei e a ciascuno di loro così maschi come femmine di qualunque età e a
tutte le altre persone di qualsiasi legge, stato, dignità, preminenza e
condizione, che possono in qualunque maniera essere interessati al contenuto
di questo nostro documento: salute e grazia.
Sapete bene o dovreste sapere che, essendo noi stati informati che in
questi nostri regni c’erano alcuni mali cristiani che giudaizzavano e
apostatavano dalla nostra santa fede cattolica e che di questo era in gran parte
causa la comunicazione degli ebrei coi cristiani, nelle Cortes che facemmo
nella città di Toledo nel passato anno 1480 ordinammo che i suddetti ebrei
dovessero ritirarsi in posizione appartata nelle «giuderie» e nei quartieri
separati in tutte le città e borghi e località dei nostri regni e signorie e qui
vivessero e abitassero, contando che con questa loro separazione si ottenesse
il rimedio. Inoltre abbiamo provveduto e ordinato che si facesse inquisizione
nei suddetti nostri regni, la quale come sapete si è fatta e si fa da più di dodici
anni, e grazie all’inquisizione si sono trovati molti colpevoli, com’è noto; e a
quanto siamo stati informati dagli inquisitori e da molte altre persone,
religiosi, ecclesiastici e secolari, si hanno prove evidenti del grande danno
che i cristiani hanno sofferto e continuano a soffrire a causa dei rapporti di
consuetudine, conversazione e comunicazione che hanno avuto e continuano
ad avere con gli ebrei. E si prova che gli ebrei procurano sempre per ogni via
possibile di pervertire e allontanare dalla nostra santa fede cattolica i fedeli
cristiani e dividerli da lei e attirarli e pervertirli alla loro maledetta credenza e
opinione, istruendoli nelle cerimonie e osservanze della loro legge, facendo
incontri nei quali leggono per loro e gli insegnano quello che debbono
credere e osservare secondo la loro legge, procu-rando di circoncidere loro e i
loro figli, dando loro libri dai quali imparare le loro orazioni da recitare e
spiegando loro i digiuni che debbono fare e facendo incontri con loro per
leggere e insegnare loro le storie della loro legge, informandoli per tempo
della celebrazione della pasqua e di quello che si deve osservare e fare in tale
occasione, dandogli e portandogli dalle proprie case il pane azzimo e la carne
macellata ritualmente, istruendoli sulle cose che si devono nascondere per
osservare la loro legge sia nel mangiare sia in altre cose e persuadendoli per
quanto possono affinché osservino e adempiano la legge di Mosè, facendogli
presente che non c’è altra legge né altra verità fuorché quella. E tutto questo
risulta da molte dichiarazioni e confessioni sia degli stessi giudei sia di coloro
che furono pervertiti e ingannati da loro, il che ha apportato gran danno e
detrimento e obbrobrio alla nostra santa fede cattolica.
E benché fossimo informati di questo da molte parti prima d’ora e
comprendessimo che il vero rimedio a tutti questi danni e inconvenienti
consisteva nell’impedire del tutto la comunicazione dei detti giudei coi
cristiani e cacciarli da tutti i nostri regni, ci volemmo contentare di ordinar
loro di andarsene da tutte le città e borghi e luoghi dell’Andalusia, dove
sembra che avessero fatto maggior danno, credendo che questo sarebbe
bastato perché quelli che abitavano le altre città e borghi e luoghi dei nostri
regni e signorie cessassero di commettere le cose che abbiamo detto. E
poiché siamo stati informati che né quell’ordine né le esecuzioni di giustizia,
che sono state effettuate contro qualcuno dei detti giudei che erano stati
scoperti molto colpevoli dei suddetti crimini e delitti contro la nostra santa
fede cattolica, sono bastati come rimedio efficace per far sì che cessasse un
così grande obbrobrio e offesa della fede e religione cristiana, e poiché ogni
giorno si scopre e si constata che si commettono quelle colpe e sembra che i
detti giudei vadano sempre più perseverando nel loro cattivo e dannato
proposito nei luoghi dove vivono e hanno relazioni sociali, e affinché non vi
sia modo di offendere ancor più la nostra santa fede cattolica sia in quelli che
finora Dio ha voluto preservare sia in coloro che caddero e si emendarono e
ritornarono alla Santa Madre Chiesa, il che potrebbe accadere per la
debolezza della nostra umanità e per la suggestione del diavolo che ci fa
continuamente guerra, se non si toglie la causa principale di questo col
cacciare i detti giudei dai nostri regni – e questo perché quando un crimine
grave e detestabile è commesso da membri di un corpo collegiale o
corporazione, ciò è giusto motivo perché tale collegio o corporazione venga
sciolto e annullato e gli uni siano puniti a causa degli altri e chi è da meno a
causa dei maggiorenti, e perché quelli che col loro contagio mandano in
perdizione l’onesto e buon vivere delle città e dei borghi e che possono
provocare la dannazione degli altri siano fatti espellere fuori delle
popolazioni: e se questo è vero per ragioni meno importanti di danno allo
Stato, tanto più lo è per il crimine più grande e più pericoloso e contagioso
qual è questo.
Pertanto noi, col consiglio e il parere di alcuni prelati e grandi e cavalieri
dei nostri regni e di altre persone di scienza e coscienza del nostro Consiglio,
avendo dedicato al problema una lunga deliberazione, decidiamo e ordiniamo
di far partire tutti i suddetti giudei e giudee dai nostri regni e che mai più
debbano tornare nei suddetti regni né in alcuno di essi. E a tale riguardo
ordiniamo di promulgare questo nostro documento, col quale ordiniamo a
tutti i giudei e a tutte le giudee di qualunque età siano, che vivono e abitano e
stanno nei suddetti nostri regni e signorie, tanto chi ne sia nativo quanto chi
non lo sia, che siano venuti e abitino in essi in qualunque maniera e per
qualunque ragione, che entro la fine del mese di luglio dell’anno in corso
partano da tutti i nostri regni e signorie coi loro figli e figlie e i loro
dipendenti e famigliari giudei grandi e piccoli di qualunque età siano. E che
non osino tornare in quei luoghi né abitarvi né viverci da nessuna parte né di
passaggio né in altra maniera, sotto pena che, se non faranno così e saranno
trovati nei nostri regni e signorie e ci verranno in una qualunque maniera,
incorreranno nella pena di morte e confisca di tutti i loro beni a beneficio
della nostra camera e fisco. E che in tale pena incorrano per il fatto stesso,
senza altro processo, sentenza o dichiarazione. E ordiniamo e proibiamo che
nessuna persona dei suddetti nostri regni, di qualunque stato, importanza e
condizione, osi ricevere, accogliere o proteggere pubblicamente o
segretamente nelle sue terre o case o in parte alcuna dei suddet-ti nostri regni
e signorie uomo o donna di giudei una volta trascorso il detto ultimo dì di
luglio, sotto pena di perdita di tutti i suoi beni, vassalli e fortezze e altri
possedimenti, come pure di perdita di qualunque compenso ricevuto da noi
per la nostra camera e fisco.
E affinché i suddetti giudei e giudee possano entro la fine del detto mese
di luglio disporre di sé e dei loro beni e attività, con la presente dichiarazione
li prendiamo e riceviamo sotto la nostra protezione e rifugio e difesa reale e
garantiamo la sicurezza loro e quella dei loro beni in modo che durante il
detto tempo fino alla fine di luglio possano circolare e stare sicuri, e possano
vendere, barattare e alienare tutti i loro beni mobili e immobili e disporne
liberamente e a loro piacere, e che durante il detto tempo non gli sia fatto
alcun male o danno o offesa alcuna alle loro persone o ai loro beni contro
giustizia, pena le sanzioni in cui incappano coloro che infrangono il nostro
salvacondotto reale. E così pure diamo licenza e facoltà ai detti giudei e
giudee di poter trasferire fuori dei nostri regni e signorie i loro beni e le loro
attività per mare e per terra, col limite che non esportino né oro né argento né
moneta corrente, né le altre cose vietate dalle leggi dei nostri regni, fatta
esclusione delle mercanzie che non siano di merci vietate e delle lettere di
cambio.
E inoltre ordiniamo a tutti i consigli, magistrati di giustizia, corregidori,
cavalieri, scudieri, funzionari e «buoni uomini» della detta città di Toledo e
delle altre città e borghi e luoghi dei nostri regni e signorie e a tutti i nostri
vassalli, sud-diti e nativi che osservino e facciano osservare e mandare a
effetto questa nostra lettera e tutto quello che vi si contiene, e offrano e
facciano dare ogni favore e aiuto che sarà necessario per questo, sotto pena di
perdere il nostro favore e della confisca di tutti i loro possedimenti e uffici
per conto della nostra camera e del fisco. E affinché questo giunga a
conoscenza di tutti e che nessuno possa allegare ignoranza, ordiniamo che
questa nostra missiva sia bandita sulle piazze e sui mercati e nei luoghi
consueti della detta città e delle principali città, borghi e luoghi della sua
archidiocesi da parte di un banditore e davanti a un pubblico scrivano. Gli uni
e gli altri non fate né facciano niente oltre a questo in alcun modo, sotto pena
di perdere il nostro favore e della privazione degli uffici e confisca dei beni a
favore della nostra camera e fisco, per ciascuno di quelli che faranno il
contrario di ciò che è ordinato. E di più ordiniamo a colui che vi mostrerà
questa nostra missiva che vi citi a comparire davanti a noi nella nostra corte,
ovunque essa si troverà, entro i quindici giorni immediatamente successivi a
quello della citazione, sotto la detta pena, sotto la quale ordiniamo a ogni
scrivano pubblico, che a tale scopo fosse convocato, che rilasci seduta stante
a colui che vi mostri la lettera una attestazione contrassegnata con la sua
sigla, affinché noi sappiamo come si esegue il nostro ordine.
Data nella molto nobile città di Granada il dì 31 del mese di marzo, anno
dalla nascita di nostro signor Gesù Cristo mille e quattrocentonovanta due.
Io il re. Io la regina.
Io Johan de Coloma segretario del re e della regina nostri signori la feci
scrivere per loro ordine.
Registrata: Bernal Diaz Almaçan, cancelliere.

III

[PER IL REGNO DELL’ARAGONA]

Noi, don Ferdinando, ecc, all’illustrissimo principe don Giovanni nostro


carissimo e amatissimo primogenito e uni versale erede dei nostri regni e
terre, salute e una paterna benedizione; e ai luogotenenti generali nostri,
arcivescovi, vescovi, e altri prelati, e ai duchi, marchesi, conti, visconti,
nobili, baroni e a chiunque sia signore di vassalli, e ai gover-natori, autorità
di giustizia, bayles, merinos7 e a qualunque altro funzionario nostro e dei
nostri regni e signorie, e delle città e borghi e luoghi e a ciascuno di loro,
maggiori e minori, e alle dette città e borghi e luoghi e ai loro consigli e a
tutti i sudditi e a ciascuno di loro, di qualunque condizione, stato e sesso e
dignità e condizione che siano: salute e affettuosa considerazione.
E alle comunità [«aljamas»] di ebrei e a ciascuna di esse e a ciascun
ebreo, uomini e donne di ogni età, dei nostri regni e signorie, abitanti di qua
come di là dal mare, rendiamo noto e vi facciamo sapere che siamo stati
informati dai padri inquisitori dell’eresia e apostasia, che hanno sede nelle
diocesi dei nostri regni e signorie, che ci sono stati molti e diversi cristiani
che sono tornati o passati ai riti giudaici e a stare e vivere nella legge e
superstizione giudaica, facendo le loro cerimonie e osservando quella legge
fino a tornare alle abominevoli circoncisioni, bestemmiando il santo nome di
Gesù Cristo nostro signore e redentore, separandosi dalla dottrina evangelica
e dalla sua santissima legge e dal vero culto di essa, e che della detta eresia e
apostasia sono stati causa i giudei e le giudee che nei detti nostri regni e
signorie dimorano e abitano, a causa della conversazione che avevano e
hanno coi detti cristiani, i quali, trascurando il timore del re, con grande
studio, cura e sollecitudine li inducevano e attraevano alla detta legge
mosaica, dogmatizzando e insegnando i precetti e le cerimonie di tale legge, e
inducendoli a osservare il sabato e le pasque e le feste giudaiche, ragione per
cui i detti padri inquisitori di alcune città e terre nostre, col nostro consenso e
la nostra volontà, cacciarono i giudei che vi stavano, giudicando che per
separare i cristiani ed educarli e abituarli nella santa fede cattolica, non ci
potesse essere altro rimedio, facendoci presente, a discarico del suo ufficio e
della nostra coscienza, il venerabile priore di Santa Cruz, inquisitore generale
dell’eretica pravità nei nostri regni e signorie, che, per estirpare del tutto la
detta eresia e apostasia da tutti i suddetti nostri regni e signorie, dovremmo
cacciare da lì del tutto perpetuamente e per sempre i detti giudei e giudee,
affermando che una tale lebbra e tanto contagiosa non poteva essere curata se
non con la detta espulsione, e che a lui per la sua carica correva l’obbligo di
prendere tale provvedimento, supplicandoci af-finché gli concedessimo il
nostro consenso e favore col dare ordine in tal senso.
E noi, che desideriamo in modo speciale che nel tempo nostro la santa
fede cattolica sia esaltata e fatta prosperare e che l’eretica pravità sia del tutto
estirpata dai nostri regni e signorie, con matura e provvida deliberazione del
nostro sacro Consiglio reale, ricevuta maggior informazione sulla detta
suggestione perfida e diabolica dei detti giudei, di cui la nostra coscienza di
re è informata e accertata con verità, constatiamo che la natura e la
condizione dei giudei è, per la loro finta cecità e grande ostinazione,
desiderosa e sollecita e perfino baldanzosa nel rovinare i cristiani e astuta e
molto insinuante nell’attirarli alla loro giudaica perfidia, specialmente coloro
che ritengono di poter sedurre più facilmente perché sono provenienti da loro.
E dal momento che gli ebrei per la loro colpa sono sottomessi a servitù
perpetua e sono servi e schiavi nostri e se vengono sopportati e tollerati è per
nostra pietà e grazia, e, se non sono riconoscenti ma ingrati col non vivere
tranquilli e comportandosi come si è detto, è cosa giustissima che perdano la
nostra grazia e che, privati di essa, siano trattati da noi come eretici e fautori
della detta eresia e apostasia; e che tale crimine commesso da singoli membri
di un corpo collettivo è cagione che l’intera corporazione sia sciolta e
cancellata e che siano puniti i meno per i più e gli uni per colpa degli altri. E
oltre a ciò, in aggiunta al loro modo perverso e pervertito di vivere,
constatiamo che i detti giudei divorano e fagocitano con grandissime e
insopportabili usure le proprietà e le sostanze dei cristiani esercitando in
modo iniquo e senza pietà la pravità usuraria pubblicamente e allo scoperto
contro i detti cristiani trattandoli come nemici e ritenendoli idolatri, del che
sono giunte alle nostre orecchie gravi lamentele dei sudditi e nativi nostri, e
poiché abbiamo prestato con somma diligenza attenzione alla cosa ci siamo
resi conto che non si poteva porre rimedio al problema finché i detti giudei
abitano in mezzo a loro. E anche se per noi sarebbe lecito e consentito punirli
con pene maggiori e di più grande portata, adeguate ai detti loro
comportamenti tanto malvagi e detestabili, per i quali non c’è speranza di
correggerli dato il loro ostinato rifiuto della fede, tuttavia ab-biamo deciso di
infliggere loro questa pena, che, per quanto sia minore di quella che meritano,
riteniamo tuttavia che sia adatta perché provvede alla salvezza delle anime
dei cristiani sudditi e connaturali nostri e alla loro conservazione, e per-ché la
loro salvezza consiste nel separarli dalla frequentazione e comunicazione con
giudei e giudee, poca o molta che sia, da cui in tutto il corso del passato è
stata causata la detta eresia e apostasia e depauperamento delle proprietà dei
cristiani. Se si tiene conto del fatto che i cristiani venuti ad abitare in qualche
luogo debbono essere espulsi da città e borghi se sono usurai manifesti e
sovvertitori del casto e onesto vivere, e che altrettanto si deve fare con coloro
che possono minacciare gli altri di contagio e in altri casi di più lieve entità
pertinenti alla pubblica utilità e al buon ordine civile, a maggior ragione
devono essere espulsi e trasferiti in altro luogo gli infedeli usurai che
seducono apertamente i cattolici e sono fautori di eretici in mezzo ai cristiani
cattolici, al fine di preservare e conservare le anime dei cristiani e la religione
cristiana: e questo perché togliendo l’occasione dell’errore si toglie l’er-rore.
Perciò – essendo consapevoli del fatto che i corpi di tutti i giudei che
dimorano nei nostri regni e signorie sono nostri e che ne possiamo disporre e
decidere a nostro piacimento per il nostro potere reale e suprema potestà,
facendo uso di tale potere e di tale potestà in questa materia così urgente e
necessaria, conformandoci col detto padre priore inquisitore generale,
favorendo il Santo Ufficio della detta Inquisizione, per l’autorità della quale il
detto padre, provvedendo cat-tolicamente col nostro consenso e per nostra
volontà, nelle sue lettere consiglia la detta espulsione in nome della fede e per
il maggior bene delle anime, dei corpi e delle proprietà dei cristiani nostri
sudditi – con questo nostro editto reale, valido in perpetuo e per sempre,
ordiniamo di cacciare e cacciamo da tutti i nostri regni e signorie occidentali
e orientali tutti i suddetti giudei e giudee, grandi e piccoli, che stanno e si
trovano nei detti regni e signorie nostre, tanto nelle terre sottoposte al re
quanto in quelle della Chiesa e nelle altre di pertinenza di qualsivoglia
suddito e conterraneo nostro e in qualunque altra che si trovi nei detti regni e
signorie nostre, i quali giudei e giudee debbano e siano tenuti ad andarsene e
se ne vadano da tutti i nostri regni e signorie a partire da ora fino a tutto il
mese di luglio prossimo futuro, in modo che, superato il detto termine, nessun
giudeo o giudea grande o piccolo, di qualunque età, non possa stare né stia in
luogo alcuno dei detti regni nostri e signorie, né possano tornare in essi per
starvi o passare da lì quale che sia il percorso, sotto pena di morte e di perdita
dei beni a favore della nostra camera e del fisco, la quale pena sia tale da
incorrervi ipso facto senza processo o dichiarazione di alcun genere.
Nella stessa e identica pena incorrerà qualunque persona di qualsivoglia
importanza o dignità e di qualunque stato e condizione, la quale dopo la
scadenza suddetta accoglierà, terrà o offrirà ricetto nei nostri regni e signorie
o in qualunque parte di essi a giudeo o giudea di qualunque età, poiché chi
farà tal cosa commetterà delitto di ricettatore e fautore di eretici. Ma fino al
termine di quaranta giorni a partire da quando i detti giudei e giudee saranno
andati via, noi prendiamo sotto la nostra protezione e difesa gli uni e le altre e
i loro beni sotto la nostra sicurtà e salvaguardia reale, in modo che nessuno
osi fare loro del male o danneggiarli nelle per-sone e nei beni: chi lo farà
incorrerà nel reato di violazione della nostra mallevadoria.
Pertanto rendiamo noto il nostro intento a voi illustrissimo principe e
figlio nostro, e diciamo, esortiamo e diamo incarico a voi, prelati ed
ecclesiastici, e comandiamo a voi duchi, marchesi, conti, visconti, nobili,
baroni, magistrati, sudditi e nativi nostri, affinché osserviate e facciate
osservare realmente ed efficacemente il presente editto nostro in tutto quello
che può concernere ciascuno di voi, guardandovi dal fare il contrario o
consentire direttamente o indirettamente a che si faccia se gli ecclesiastici
desiderano ottenere la nostra grazia e gli altri desiderano evitare le dette pene,
ira e indignazione nostra, senza che ostino a ciò leggi, privilegi, costituzioni,
usi e costumi di qualunque tipo dei nostri regni e signorie e di ciascuno di
essi, che non possono riguardare ciò che è contenuto in questo nostro editto
né possono ordinare o disporre cose in contrario dal momento che il citato
editto è stato fatto e predisposto in favore della fede, con l’assenso e per
iniziativa del Santo Ufficio dell’Inquisizione, per autorità del quale si
provvede alla detta espulsione. E tenendo conto del fatto che le dette
comunità [«aljamas»] di giudei e i singoli membri di esse e tutti gli altri
giudei collettivamente e individualmente sono dipendenti dai cristiani,
disponiamo e ordiniamo che dei loro beni mobili e immobili, diritti, titoli ed
effetti si faccia ciò che è previsto in un altro nostro prov-vedimento che sarà
pubblicato in questa stessa data: cioè che vengano loro lasciati e restituiti e
che se li possano portare via secondo la forma indicata nel suddetto
provvedimento nostro.
E affinché non si possa allegare ignoranza di ciò che si è detto sopra,
ordiniamo che il contenuto dell’editto sia proclamato a voce di pubblica grida
nei luoghi consueti a ciò deputati nelle città dei suddetti nostri regni e
signorie. E a testimonianza della nostra volontà ordiniamo che il presente
documento sia sigillato sul dorso col nostro sigillo segreto.
Dato nella nostra città di Granada il 31 del mese di mar-zo l’anno dalla
nascita di Nostro Signore mille quattrocento novantadue.
Io il Re.
NOTE

Introduzione
1L. Ferrajoli, Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, Roma Bari 2002,
p. 26.
2G.A. Stella, Negri froci giudei & Co, Milano 2009.
1. 1492, inizio della storia moderna
1 Cronica Estense di fra’ Paolo da Lignago, ms. in Archivio di Sta to di
Modena, riportato da A. di Leone Leoni, La Nazione ebraica spagnola e
portoghese di Ferrara (1492-1559), t. II, Firenze 2010, p. 572.
2Cfr. A.K. Harris, From Muslim to Christian Granada. Inventing a City’s
Past in Early Modern Spain, Baltimore (MD) 2007, pp. 92-106. Sulla lunga
storia che così si concludeva cfr. A. Saitta, Dalla Granada mora alla
Granada cattolica. Incroci e scontri di civiltà, Roma 2006 (prima ed. Roma
1968).
3Il motto è riportato come epigrafe nel volume di J.H. Elliott, The Old
World and the New, 1492-1650, Cambridge 1970.
4Il giornale di bordo: libro della prima navigazione e scoperta delle
Indie, Nuova Raccolta Colombiana, a cura di P.E. Taviani e C. Varela, vol. I,
t. I, Roma 1988, pp. 9-11.
5Sui limiti della validità di questa definizione, cfr. A. Vanoli, La Spagna
delle tre culture: ebrei, cristiani e musulmani tra storia e mito, Roma 2006.
6«Ea Iudíos, a enfardelar / que mandan los Reyes / que passeys la mar»
(F. García Casar, Las comunidades judías en la corona de Castilla al tiempo
de la expulsión: densidad geografica, población, in Judíos, sefarditas,
conversos. La expulsión de 1492 y sus consecuencias, atti del congresso
internazionale tenutosi a New York nel 1992, a cura di A. Alcalá, Valladolid
1995, pp. 21-31, in part. vedi p. 21).
7Cfr. J. Gil, Miti e utopie della scoperta, Cristoforo Colombo e il suo
tempo, trad. it., Milano 1991, pp. 40-53; e per la storia dei contatti con le
Canarie e le Azzorre a partire dalla metà del Trecento, cfr. D. Abulafia, La
scoperta dell’umanità. Incontri atlantici nell’età di Colom bo, trad. it.,
Bologna 2010, capp. 1 e 2.
8Si veda l’ampio e suggestivo quadro disegnato da Serge Gru- zinski, Les

quatre parties du monde. Histoire d’une mondialisation, Paris 2004.


9Cfr. G. Miccoli, L’atteggiamento delle Chiese durante la Shoah, in
Storia della Shoah, a cura di M. Cattaruzza, M. Flores, S. Levis Sullam ed E.
Traverso, Torino 2005, vol. II, pp. 745-793; D. Kertzer, I papi contro gli
ebrei. Il ruolo del Vaticano nell’ascesa dell’antisemitismo moderno, trad. it.,
Milano 2001 (ed. or. 2001).
10 M. Pinay, Complotto contro la Chiesa, Roma 1962, p. 4 (l’opera è

consultabile presso la Biblioteca della Fondazione per le Scienze religiose di


Bologna).
11 Cfr. R. Taradel, B. Raggi, La segregazione amichevole. «La Ci viltà
Cattolica» e la questione ebraica 1850-1945, Roma 2000, p. 49.
12 Y.H. Yerushalmi, Assimilazione e antisemitismo razziale: i mo delli
iberico e tedesco (ed. or. 1982), introduzione di D. Bidussa, trad. it., Firenze
2010. Sulla discussione che ne è seguita cfr. in ultimo i sag gi di D.
Nirenberg (Was there Race before Modernity? The Example of «Jewish»
Blood in Late Medieval Spain) e di R. Pochia Hsia (Religion {yz and Race:
Protestant and Catholic Discourses on Jewish Conversions in the Sixteenth
and Seventeenth Centuries), raccolti rispettivamente alle pp. 232-264 e 265-
275 di The Origins of Racism in the West, a cura di M. Eliav-Feldon, B. Isaac
e J. Ziegler, Cambridge 2009.
13 Cfr. ad esempio H.A. Oberman, Würzeln des Antisemitismus.
Christenangst und Judenplage im Zeitalter von Humanismus und Re
formation, Berlin 1983 (seconda ed.).
14 P. Viereck, Dai Romantici a Hitler, trad. it., Torino 1948 (ed. or.
1941). Fondamentale su questo libro l’ampia discussione di D. Cantimori, La
«Metapolitica», in Id., Studi di storia, Torino 1962, pp. 727-744. Su Peter
Viereck e suo padre, George Sylvester, un ammira tore della Germania e di
Hitler, sono utili le pagine dell’autobiografia di A.M. Schlesinger Jr., Il mio
secolo americano. Ricordi di una vita. 1917-1950, trad. it., Milano 2001, pp.
291-293.
15 Cfr. Z. Bauman, Modernità e olocausto, trad. it., Bologna 1987; Id.,
Modernity, Racism, Extermination, in Theories of Race and Rac ism, a cura
di L. Back e J. Solomos, LondonNew York 2009, pp. 277-293.
16 P.-A. Taguieff, La force du préjugé: essai sur le racisme et ses
doubles, Paris 1988.
17 Si veda dello scrivente il saggio Lutero e gli ebrei, ora raccolto in

Eresie e devozioni, Roma 2010, vol. III, pp. 209-254.


18 Cantimori, La «Metapolitica», cit., p. 743.
19 Cfr. M. Battini, Il socialismo degli imbecilli. Propaganda,
falsificazione, persecuzione degli ebrei, Torino 2010, che ha ripreso e
tradotto in ricerca storica la tesi dell’antisemitismo come tradizione
fondamentale dell’Europa cristiana e postcristiana avanzata da Stefa no Levi
Della Torre, Mosaico, Torino 1994, p. 92.
20 Yerushalmi, Assimilazione e antisemitismo razziale: i modelli iberico e
tedesco, cit.
2. Granada 1492. Un nodo della storia del mondo
1 «Los acontecimientos de 1492, ‘annus mirabilis’ de la compleja historia
de España, abrieron en el proceso de su configuración como nación y estado
modernos una brecha que no se ha cerrado todavía» (Alcalà, Presentación, in
Judíos, sefarditas, conversos, cit., p. 7).
2 La bolla Inter cetera di papa Borgia datata 3 maggio 1493 e le due
successive bolle del 3 e 4 maggio coi privilegi e con le più preci se
demarcazioni dei confini della divisione del mondo tra Spagna e Portogallo
sono pubblicate in America Pontificia primi saeculi evan gelizationis, a cura
di J. Metzler, Città del Vaticano 1991, vol. I, pp. 71-83. Ivi, p. 74, il rinvio
alla bolla Romanus Pontifex del 18 gennaio 1455 concessa al re del
Portogallo.
3 Cfr. P. Prodi, Il sovrano pontefice. Un corpo e due anime: la monarchia

papale nella prima età moderna, Bologna 2006, cap. 1.


4 Di questa tradizione Anthony Pagden ha sottolineato il versante della
tendenza inclusiva in Signori del mondo. Ideologie dell’impero in Spagna,
Gran Bretagna e Francia, 1500-1800, trad. it., Bologna 2005 (ed. or. 1995).
5 Losservazione è di T Dandelet, Spanish Rome, 1500-1700, New Haven
2001.
3. Prima di Granada: alle origini dell’intolleranza
1 F. Pereda (in The Shelter of the Savage. From Valladolid to the New
World, in «Medieval Encounters», 16, 2010, pp. 268-359) ha analizzato in
questa chiave la popolazione di figure scolpita sulla facciata del collegio di
San Gregorio, costruita tra il 1486 e il 1499, ponendola in rapporto con le
xilografie della lettera di Colombo. E vedi C. Ginzburg, Hybrids: Learning
from a Gilded Beaker (Antwerp, c 1530), in Renaissance GoBetweens.
Cultural Exchange in Early Modern Europe, a cura di A. Höfele e W. von
Koppenfels, BerlinNew York 2005, pp. 121-138.
2 Cfr. Abulafia, La scoperta dell’umanità, cit., pp. 62-65.
3 L. Spitzer, Ratio > Race, in «The American Journal of Philo logy», 62,
2, 1941, pp. 129-143.
4 G. Contini, I più antichi esempi di «razza», in «Studi di filologia
italiana», XVII, 1959, pp. 325-330. Ora raccolto in Id., Frammenti di
filologia romanza. Scritti di ecdotica e linguistica, 1932-1989, a cura di G.
Breschi, Firenze 2007, vol. II, pp. 1319-1326, vedi in part. p. 1326. E vedi la
voce «Razza» in Dizionario etimologico della lingua italiana, a cura di M.
Cortelazzo e P. Zolli, Bologna 1985, vol. 4, pp. 1037-1038. La casistica degli
usi di «razza» si è col tempo arricchita di esempi, che hanno confermato la
scoperta di Contini: cfr. C. de Miramon, Noble Dogs, Noble Blood: the
Invention of the Concept of Race in the Late Middle Ages, in The Origins of
Racism in the West, cit., pp. 200-216.
5 Le navigazioni atlantiche del veneziano Alvise da Mosto, a cura di T.
Gasparrini Leporace, Roma 1966, pp. 25-27.
6 Y.H. Yerushalmi, Le judaisme séfarade entre la croix et le croissant, in
Sefardica. Essais sur l’histoire des Juifs, des marranes et des nouveaux-
chrétiens d’origine hispanoportugaise, Paris 1998, pp. 13-36, vedi in part. p.
13. Dal saggio di Yerushalmi riprendo anche le altre indicazioni sulla lunga
storia medievale degli ebrei nella penisola iberica.
7 Il passaggio dalla memoria alla storia è al centro del saggio di Y.H.

Yerushalmi, Zakhor. Storia ebraica e memoria ebraica, trad. it., Firenze


2011 (ed. or. 1982).
8 «Non ebber battesmo / ch’è porta della fede che tu credi». Ringrazio
Chiara Franceschini per aver attirato la mia attenzione su que sto passo. Da
notare l’analogia tra battesimo e circoncisione come due porte, l’una della
«legge vecchia» degli ebrei l’altro della «nuova» nel passo di una predica di
fra’ Giordano da Pisa segnalato da Michele Barbi, «Bullettino della Società
dantesca italiana», XII, 256.
9 Cfr. N. Falbel, Kidush Hashem: Crónicas hebraicas sobre las Cruzadas,
São Paulo 2001, pp. 73 sgg. Si veda il volume collettivo Salvezza delle anime
disciplina dei corpi. Un seminario sulla storia del battesimo, Pisa 2006.
10 Così negli statuti borgognoni del 1384 ripresi in quelli cittadini del
Canavese (cfr. A. Bertolotti, Passeggiate nel Canavese, vol. III, Ivrea 1873,
pp. 161 e 167 sgg.).
11 C.W. Bynum, The Blood of Christ in the Later Middle Ages, in
«Church History», 71, 2002, pp. 685-714. L’enfatizzazione dell’ap-
partenenza al sangue purificante di Cristo contro i gruppi sociali dal sangue
non limpio è stata interpretata come una rivoluzione del popolo cristiano
spagnolo non solo contro ebrei e musulmani ma anche contro la nobiltà (G
Anidjar, Lines of Blood: «Limpieza de sangre» as Political Theology, in
Blood in History and Blood Histories, a cura di M. Gadebusch Bondio,
Firenze 2005, pp. 119-136).
12 Cfr. A. Milhou, Colón y su mentalidad mesiánica en el ambiente
franciscanista español, Valladolid 1983.
13 L ’exemplum del portatore occulto di sangue giudeo si legge nei Dotze
llibre del Crestiá, II/2, Girona 1986, pp. 259-260, ed è stato segnalato da P.
Evangelisti, Il bene della «res publica», la legittimità del mercato e
l’«infidelitas» giudaica. Testi e discorsi francescani nel Medi terraneo
bassomedievale, in Le radici storiche dell’antigiudaismo, nuove fonti e
ricerche, a cura di M. Caffiero, Roma 2009, pp. 19-39, vedi in part. pp. 22-
23. Nella fitta bibliografia spagnola esistente in materia manca uno studio
adeguato sulla circolazione dei temi antigiudiaci nei testi dei due celebri santi
predicatori del Trecento spagnolo.
14 J. Pérez, Los judíos en España, Madrid 2005, pp. 130-138 (che rinvia a
M.A. Sánchez Sánchez, Predicación y antisemitismo: el caso de san Vicente
Ferrer, in Proyección histórica de España en sus tres culturas, a cura di L.
Sanz, t. III, Salamanca 1993, che non mi è stato possibile consultare).
15 Cfr. Los Plomos del Sacromonte. Invención y tesoro, a cura di M.
Barrios Aguilera e M. García Arenal, Valencia 2006.
16 Cfr. C. Ginzburg, Storia notturna. Una decifrazione del Sabba, Torino
1989, pp. 5-35. Su Federico II vedi H. Houben, Federico II e gli ebrei, in
«Nuova rivista storica», 85, 2001, pp. 325-346.
17 I calcoli più attenti parlano di circa 100.000 battezzati: cfr. Y. Yovel,
The Other Within: The Marranos: Split Identity and Emerging Modernity,
Princeton 2010 (sulle cui tesi generali però cfr. le riserve di J.H. Elliott,
Modernizing the Marranos, in «The New York Review of Books», vol. 57,
11 marzo 2010).
18 Il termine è di incerto e discusso significato originario: forse un insulto
(«porco»), forse deformazione di una voce araba (mahran, «proibito»). Cfr.
la voce «Marranesimo» di C.B. Stuczynski, in Dizio nario storico
dell’Inquisizione, diretto dallo scrivente con la collabo razione di V. Lavenia
e J. Tedeschi, Pisa 2010, vol. II, pp. 989-997.
19 Cfr. A.A. Sicroff, Les controverses des statuts des «pureté de sang» en
Espagne du XV au XVIIe siècles, Paris 1979 (cito dalla edi zione spagnola:
Los statutos de limpieza de sangre. Controversias entre los siglos XV y XVII,
Madrid 1985, pp. 52-56).
20 Ivi, pp. 59-60. Sull’origine teologica di un’idea razzista di co munità

vedi Anidjar, Lines of Blood: «Limpieza de sangre» as Political Theology,


cit.
21 Cfr. S. Pastore, voce «Espina», in Dizionario storico dell’Inqui sizione,
cit., vol. II, pp. 550-552.
22 Cfr. GM. Croce, Pio VII, il cardinal Consalvi e gli ebrei (1800- 1823),
in Pio VII papa benedettino nel bicentenario della sua elezione, atti del
congresso storico internazionale, CesenaVenezia, 15-19 set- tembre 2000,
Cesena 2002, pp. 54-58.
23 Cfr. A. Esposito, D. Quaglioni, Processi contro gli ebrei di Tren to,
voll. 2, Padova 2008.
4. La conversione. Veri e falsi cristiani
1 Su questo carattere della storia delle conversioni come storia del potere
ha richiamato l’attenzione Bruno Dumézil, Les racines chrétiennes de
l’Europe. Conversion et liberté dans les royaumes bar-bares VeVIIIe siècle,
Paris 2005.
2 San Bernardino da Siena, Prediche volgari sul Campo di Siena 1427, a
cura di C. Delcorno, Milano 1989, vol. I, p. 657.
3 Cfr. A. Saitta, Dalla Granada mora alla Granada cattolica, cit.; vedi
anche H. Kamen, Spain’s Road to Empire. The Making of a World Empire
1492-1763, London 2002, pp. 18-22. Un’ampia rassegna di studi è offerta da
M. GarcíaArenal, Religious Dissent and Minorities: The Morisco Age, in
«The Journal of Modern Studies», a. 81, 2009, pp. 888-920.
4 Sant’Agostino, De civitate Dei, XVIII, 46.
5 «Nemo potest credere nisi velit, nemo velle nisi vocetur» (De diversis
quaestionibus ad Simplicianum, PL 40).
6 J. Vives, Concilios visigóticos e hispanoromanos, Barcelona Madrid
1963, p. 257. Cfr. C. Del Valle Rodríguez, En los orígenes del problema
conversos, in Tratado contra los madianitas e ismaelitas, de Juan de
Torquemada, Madrid 2002, pp. 35-36.
7 Cfr. I. Iannuzzi, El poder de la palabra en el siglo XV: Fray Hernando
de Talavera, Salamanca 2009, pp. 305-314.
8 Conciliorum oecumenicorum decreta, a cura dell’Istituto per le ^g)
Scienze religiose, Bologna 1973, pp. 483-485.
9 Cfr. M. Glatzer, Crisi de fe judía en España a fines del siglo XIV y
principios del XV, in Judíos, sefarditas, conversos, cit., pp. 55-68, vedi in
part. pp. 55-56.
10 Cfr. Stefania Pastore, Un’eresia spagnola: spiritualità mistica,
alumbradismo e inquisizione (1449-1559), Firenze 2004. E vedi il bi lancio
critico di L.A. Homza, The Merits of Distruption and Tumult: New
Scholarship on Religion and Spirituality in Spain during the Six teenth
Century, in «Archiv für Reformationsgeschichte», 100, 2009, pp. 212-228.
11 Cfr. F. Pereda, Las imágenes de la discordia: Política y poética de la
imagen sagrada en la España del Cuatrocientos, Madrid 2007.
12 È merito di Stefania Pastore avere riscoperto questo lato della vicenda
(cfr. Il vangelo e la spada. L’Inquisizione di Castiglia e i suoi critici. 1460-
1598, Roma 2003).
13 Lo aveva sottolineato A. Sicroff, come ricordò Yerushalmi in
Assimilazione e antisemitismo razziale, cit., p. 39.
14 Y. Baer, Die Juden im christlichen Spain, Berlin 1936, trad. in ebraico
nel 1959, in inglese tra il 1961 e il 1966; citiamo dalla ristampa inglese, A
History of the Jews in Christian Spain, Philadelphia1992.
15 «The inquisitors had usually taken pains, according to their rights to
proceed in accordance with the rules of law and justice, demonstrating facts
which were unquestionably correct [...]. Now, however, they began
conducting a trial [...] on the basis of vilest slanders which emanated solely
from the imaginations of medieval antisemites» (ivi, vol. II, p. 398).
16 F. Heymann, Morte o battesimo. Una storia dei marrani, Firenze 2007.
17 B. Netanyahu, Toward the Inquisition. Essays on Jewish and
Conversos History in Late Medieval Spain, New York 1997. La de finizione
di «New School», proposta da Netanyahu, distingue oggi i seguaci di questa
tesi, mentre la storiografia precedente va sotto il nome di «Old School».
18 Cfr. A. Selke, Los Chuetas y la Inquisición. Vida y muerte en el ghetto
de Mallorca, Madrid 1971.
19 Cfr. L. García de Proodian, Los judíos en América. Sus activi dades en
los virreinatos de Nueva Castilla y Nueva Granada, s. XVII, Madrid 1966,
pp. 340-357. Sulle condizioni in cui si mantenne la religione segreta degli
ebrei cfr. D.M. Gitlitz, Secrecy and Deceit. The Religion of the CriptoJews,
Albuquerque 2002. Una esplorazione suggestiva di casi è l’oggetto del
volume di N. Wachtel, La fede del ricordo, trad. it., Torino 2003 (ed. or.
2001).
5. La nuova Inquisizione e l’osservanza della fede
1 «Pro christianis aparentia se gerentes, ad ritus et mores iudeo rum

transire vel redire et iudaice superstitionis ac perfidie dogmata et precepta


servare», Bulario pontificio de la Inquisición española en su periodo
constitucional (1478-1525) según los fondos del Archivo Hi stórico Nacional
de Madrid. Edición crítica por el P. Bernardino Llorca S.J., Roma 1949, pp.
48-54, vedi in part. p. 51.
2 Il documento nella versione spagnola è riportato nella silloge cu- rata da
M. Jiménez Monteserín, Introducción a la Inquisición española. Documentos
básicos para el estudio del Santo Oficio, Madrid 1980, pp. 50-56.
3 Ivi, pp. 50-62.
4 Ivi, p. 82 (è la prima delle Ordenanzas antiguas de la Inquisición
pubblicate a Granada nel 1537 e più volte ristampate).
5 Lettera del 13 maggio 1482 (Bulario pontificio de la Inquisición
española, cit., p. 74).
6 B. Llorca, Prólogo a Bulario pontificio de la Inquisiciòn española, cit.,
p. 23.
7 Cfr. dello scrivente L’Immacolata a Siviglia e la fondazione sacra della
monarchia spagnola, in «Studi storici», 47, 2, aprilegiugno 2006, pp. 481-
510.
8 Sicroff, Los statutos de limpieza de sangre, cit., p. 119.
9 Cfr. Monteserín, Introducción a la Inquisición española, cit., pp. 86-
105.
6. L’espulsione degli ebrei
1 A. Balletti, Gli Ebrei e gli Estensi, Reggio Emilia 1930, p. 76.
2 Le pagine delle sue Memorias del reinado de los Reyes Católicos sono
riprese e citate da Pérez, Los judíos en España, cit., pp. 191-212 e passim.
3 Cfr. M.A. Motis Dolader, Las comunidades judías en la Corona de
Aragón en el siglo XV: demografía, in Judíos, sefarditas, conversos, cit., pp.
32-54, vedi in part. p. 33.
4 Cfr. García Casar, Las comunidades judías en la corona de Castilla al

tiempo de la expulsión, cit., p. 28.


5 R. Bonfil, Italia: un triste epilogo de la expulsión de los judíos de
España, in Judíos, sefarditas, conversos, cit., pp. 246-268, vedi in part. p.
247. Nella valutazione del numero dei profughi seguiamo qui l’analisi di
Bonfil.
6 Bartholomei Senaregae, De rebus Genuensibus commentaria ab anno
1488 usque ad annum 1514, a cura di E. Pandiani (L.A. Mura tori, Raccolta
degli storici italiani dal Cinquecento al Millecinquecento,24/8), Bologna
1932, pp. 24-25.
7 Lettera al protonotario Corrado Stanga, Ferrara 20 novembre 1492
(edita da Aron di Leone Leoni, La nazione ebraica spagnola e portoghese di
Ferrara (1492-1559), cit., t. II, pp. 572-573).
8 Fu ricomprato nel 1952 dalla comunità ebraica di Bayona, che espresse
così la sua gratitudine alla città per l’accoglienza offerta ai profughi ebrei
della persecuzione nazista discendenti dagli espulsi del 1492 (cfr. Pérez, Los
judìos en España, cit., p. 192n).
9 Così risulta dalle testimonianze dei contemporanei. Cfr. M. Krie gel, La
prise d’une décision: l’expulsion des juifs d’Espagne en 1492, in «Revue
historique», t. 260, 1978, pp. 49-90.
10 Ivi, p. 49; cfr. l’originale in Baer, A History of the Jews in Chris tian
Spain, cit., vol. II, p. 385.
11 Cfr. il testo dell’editto in Appendice. L’argomento dei prece denti

tentativi fu usato da Ferdinando d’Aragona anche in altri docu- menti coevi,


per esempio in uno scritto del 31 marzo 1492 indirizzato al conte di Ribadeo
(Kriegel, La prise d’une décision, cit., p. 50n). E vedi Baer, A History of the
Jews in Christian Spain, cit., vol. II, n. 378, p. 405.
12 Così Isabella di Castiglia in un atto del luglio 1477 (Kriegel, La prise
d’une décision, cit., p. 52).
13 Cfr. Pérez, Historia de una tragedia. La expulsión de los judíos de
España, Barcelona 1993, p. 110. Il racconto dell’intervento drammatico di
Torquemada si legge in Luís de Páramo, De origine et progressu Officii
Sanctae Inquisitionis, Madrid 1598. Cfr. la voce «Páramo» di M. Rivero
Rodríguez in Dizionario storico dell’Inquisizione, cit., vol. III, pp. 1170-
1171.
7. La responsabilità delle scelte
1 Kriegel, La prise d’une décision, cit., p. 87.
2 Cfr. A. Gallego Barnes, El libro verde de Aragón. La peur de la tache,
in L’individu face à la société: quelques aspects des peurs sociales dans
l’Espagne du Siècle d’Or, Toulouse 1994, pp. 27-37 (ed. spagnola: «El libro
verde de Aragón» o el miedo a la Mancha, in Aragón Sefarad, a cura di A.
Romero Santamaría, Zaragoza 2005, vol. 1).
3 de Páramo, De origine et progressu Officii Sanctae Inquisitionis, cit.,
pp. 143-144.
4 Cfr. Kriegel, La prise d’une décision, cit., p. 79. Il documento è
conservato nell’Archivo della Corona de Aragón ed è stato pubbli cato da R.
Conde y Delgado de Molina, La expulsión de los judíos de la Corona de
Aragón. Documentos para su estudio, Zaragoza 1991, pp. 197-199. Lo si
riporta in Appendice in versione italiana. Il testo spagnolo è stampato in
appendice al libro di Pérez, Historia de una tragedia, cit., pp. 143-146.
5 L’episodio è celebre e si trova in tutte le storie dell’Inquisizione di
Spagna. Cfr. H.C. Lea, A History of the Inquistion of Spain, New York 1906-
1908, t. I, p. 460. Maurice Kriegel (El edicto de expulsión: motivos, fines,
contexto, in Judíos, sefarditas, conversos, cit., pp. 134-149, vedi in part. p.
137) ha osservato che, a differenza del caso di Trento di poco precedente
(1484), in quello di La Guardia il tema centrale è quello del complotto
ebraico. David Gitlitz (Las presuntas profanaciones judías del ritual
cristiano en el decreto de expulsión, in Judíos, sefarditas, conversos, cit., pp.
150-169), osserva che il processo «es un caso paradigmatico de juicio
político» (ivi, p. 153).
6 Così propone di definirlo Kriegel, El edicto de expulsión, cit., p. 137.
7 Ivi, p. 144.
8 Una messa a punto di questa vicenda nel volume di G Marcocci,
L’invenzione di un impero. Politica e religione nel mondo portoghese (1450-
1600), Roma 2011.
8. Gli esiti: purezza di sangue e differenze di razza
1 F. Guicciardini, Relazione di Spagna, in Id., Opere, a cura di V. De
Caprariis, MilanoNapoli 1961, p. 35.
2 Cfr. il censimento della nobiltà castigliana nell’opera a cura di M.C.
Quintanilla Raso, Títulos, grandes del Reino y grandeza en la sociedad
política. Fundamentos en la Castilla medieval, Madrid 2006.
3 Cfr. Pruebas para ingreso de religiosos en la Orden de Santiago.
Catálogo de los expedientes y relaciones de religiosos existentes en el
Archivo Histórico Nacional, a cura di A.L. Javierre Mur e M.A. Pérez
Castañeda, Madrid 1976, pp. 11-12. Sull’argomento è ancora fonda mentale
lo studio di Sicroff, Los statutos de limpieza de sangre, cit. Un caso speciale
fu quello di Maiorca, su cui vedi E. Porqueres, Gli statuti di purezza del
sangue: il caso di Maiorca, in «Quaderni storici», 85, La prova, a cura di C.
Ampolo, 1994, p. 153.
4 Umanista, medico e poeta, Villalobos (1473-1549) sembra aver dovuto

alla sua condizione di «converso» la perdita del posto di me dico di corte (cfr.
J.I. Gutiérrez Nieto, La limpieza de sangre, in Insti tuciones de la España
moderna, 2: Dogmatismo e intolerancia, a cura di E. Martínez Ruiz e M. de
Pazzis Pi Corrales, Madrid 1997, pp. 33-47, vedi in part. p. 41).
5 Documenti di processi e controversie degli anni 1544-1545 sono citati
da C. Civale, «Con secreto y disimulación». Inquisizione ed eresia nella
Siviglia del secolo XVI, Napoli 2007, p. 97.
6 Cfr. F. Zonabend, La mémoire longue. Temps et histoire au vil lage,
Paris 1980.
7 B. Cuart Moner, La ciudad escucha, la ciudad decide. Informacio nes
de linajes en los colegios mayores durante el s. XVI, in J.I. Fortea Pérez,
Imagenes de la diversidad. El mundo urbano en la Corona de Castilla (ss.
XViXVII), Santander 1997, pp. 391-419, vedi in part. p. 410. Cfr. anche de
Miramon, Noble Dogs, Noble Blood, cit.
8 Cfr. V. Infantes, Luceros y tizones: biografía nobiliaria y venganza

política en el Siglo de Oro, in «Crotalón. Anuario de Filologìa españo la», 1,


1984, pp. 115-127.
9 La prima edizione a stampa venne pubblicata nel 1929 (El libro verde
de Aragón. Documentos aragoneses publicados por Isidro de las Cajigas,
Madrid s.a.). Sui manoscritti rimasti e sulla vicenda del testo cfr. Gallego
Barnes, El libro verde de Aragón, cit.
10 Cfr. dello scrivente L’Inquisizione romana e gli ebrei, in L’Inquisizione
e gli ebrei in Italia, a cura di M. Luzzati, RomaBari 1994, p. 82.
11 Fino a «veintiseis años de investigaciones», secondo Encarna Maria
Jarque Martinez (Los procesos de limpieza de sangre en la Zaragoza de la
edad moderna, Zaragoza 1983, p. 9) che intitola il primo ca pitolo del suo
censimento dei processi ancora conservati La obsessión de la pureza de
sangre. Cfr. R. López Vela, Limpieza de sangre. Spagna, in Dizionario
storico dell’Inquisizione, cit., vol. II, pp. 913-916.
12 Sulla laboriosità delle probanzas, cfr. lo studio di B. Cuart Moner,
Papeles de colegiales. Los expedientes «de vita et moribus» de los colegiales
mayores salmantinos del siglo XVI, in Universidades hispánicas: Colegios y
conventos universitarios en la edad moderna, a cura di L.E. Rodríguez San
Pedro Bezares e J.L. Polo Rodríguez, in «Miscelánea Alfonso IX», 2008, pp.
15-73. E per quanto riguarda il collegio spagnolo di Bologna cfr. Id.,
Colegiales mayores y limpieza de sangre durante la Edad Moderna. El
estatuto de S. Clemente de Bolonia (ss. XV-XIX), Salamanca 1991.
13 Così osserva R. López Vela nella voce «Inquisizione spagnola», in
Dizionario storico dell’Inquisizione, cit., vol. II, pp. 827-845.
14 Sicroff, Los statutos de limpieza de sangre, cit., p. 259.
15 Cfr. J. de FigueroaRego, Limpieza de sangre. Portogallo, in Di
zionario storico dell’Inquisizione, cit., vol. II, pp. 910-913.
16 Tractatus bipartitus de puritate et nobilitate probanda, pubblica to a
Lione nel 1633. Cfr. su di lui Sicroff, Los statutos de limpieza de sangre, cit.,
pp. 262 sgg.
17 Così in un trattato di fra’ Gerónimo de la Cruz, stampato a Saragozza
nel 1637 (cfr. ivi, pp. 276-277).
18 Cfr. A. de la Torre, L. Suárez Fernández, Documentos referentes a las
relaciones con Portugal, Valladolid 1958-1963, vol. 7, 8, 11, t. III, pp. 1-7,
doc. 467, e pp. 12-15, doc. 470. Idd., La expulsión de los judíos de España,
Madrid 1991.
19 Cfr. J. Amador de los Rios, Historia social política y religiosa de los
judíos de España y Portugal, Madrid 1960, e F. Soyer, The Persecu tion of
the Jews and Muslims of Portugal. King Manuel and the End of Religious
Tolerance (1496-7), LeidenBoston 2007.
20 Cfr. G. Marcocci, «Per capillos adductos ad pillam». Il dibattito
cinquecentesco sulla validità del battesimo forzato degli ebrei in Portogallo
(1496-1497), in Salvezza delle anime disciplina dei corpi. Un seminario sulla
storia del battesimo, Pisa 2006, pp. 339-423.
21 Yerushalmi parla di stereotipi caratteristici della mentalità dei cristiani
«nuovi» (Le massacre de Lisbonne, in Id., Sefardica, cit., p. 115).
22 Cfr. A.J. Saraiva, The Marrano Factory. The Portuguese Inquisi tion
and Its New Christians 1536-1765, LeidenBostonKöln 2001, pp. 116-122.
9. Eredità lunghe
1 Così nel frammento di progetto del 1513 (edito da H. Jedin, Vincenzo

Quirini und Pietro Bembo, in Id., Kirche des Glaubens Kir- che der
Geschichte, Freiburg 1966, vol. I, pp. 153-166, vedi in part. p. 166).
2 Libellus ad Leonem X, in GB. Mittarelli, A. Costadoni, Annales
Camaldulenses, Venetiis 1773, coll. 621-625. Cfr. dello scrivente La Chiesa
e gli ebrei nell’Italia del ’500, in Ebraismo e antiebraismo: immagine e
pregiudizio, Firenze 1989, pp. 171-183.
3 Yerushalmi, Assimilazione e antisemitismo razziale, cit., pp. 46-47. Alla

discussione che ne è seguita è dedicato un saggio analitico molto ricco di D.


Nirenberg (Was there Race before Modernity?, in The Origins of Racism in
the West, cit., p. 261) che si conclude con l’invito a scavare ancora intorno a
questo problema: «more works need to be done».
4 G.B. De Luca, Theatrum veritatis et iustitiae, lib. XIV, Venezia apud
Paulum Balleonum 1706, disc. XXXXIV.
5 Cfr. A. Devyver, Le sang épuré. Les préjugés de race chez les gen
tilshommes français de l’Ancien Régime (1560-1720), Bruxelles 1973, p. 104.
6 Cfr. G. Rigano, Note sull’antisemitismo in Italia prima del 1938, in
«Storiografia», 12, 2008, pp. 215-267. L’interesse giovanile di M. Heidegger
per P. Abraham a Sancta Clara è stato sottolineato da Vic tor Farias,
Heidegger e il nazismo, Torino 1988. Sul caso italiano cfr. I. Pavan,
L’impossibile rigenerazione. Ostilità antiebraiche nell’Italia liberale (1873-
1913), in «Storia e problemi contemporanei», 50, gen naio 2009, pp. 35-63.
7 P.E. Rosa S.I., La questione giudaica e «La Civiltà Cattolica», in «La

Civiltà Cattolica», 89, 1938, IV, pp. 3-16, vedi in part. p. 4.


8 Che è l’appunto da muovere al pur ricco dossier raccolto nel volume
The Origins of Racism in the West, cit.
9 Cfr. M. Battini, Il socialismo degli imbecilli, Torino 2010.
Per concludere: un protagonista
1 Niccolò Machiavelli, Il principe, cap. XVIII (cfr. Niccolò Ma chiavelli,
Opere, a cura di C. Vivanti, vol. I, Torino 1997, p. 167). Qui il nome è
taciuto prudentemente, ma il profilo è stato generalmente riconosciuto come
quello del personaggio di Ferdinando d’Aragona.
2 Machiavelli, Il principe, cap. XXI (ivi, pp. 179-180).
3 «El mismo Dios aventajadamente se le pagó, limpiando estos reinos de
toda fealtad e inmundicia de falsas sectas, y conservándolos hasta ahora en la
entereza y puridad de la fe católica, y en justicia y en paz, y dándoles otros
reinos, y descubriendo por su mano un nuevo mundo, con tantos y tan
grandes tesoros y riquezas, que es uno de los mayores milagros que le ha
habido en él» (P. de Ribadeneyra, La religión y virtudes que debe tener el
príncipe cristiano para gobernar y conservar sus estados, contra lo que
Nicolás Maquiavelo y los políticos deste tiempo enseñan, in Id., Obras
escogidas, a cura di D. Vicente de la Fuente, vol. 60, Madrid 1919, p. 481a).
Appendice
1 Bayle è un sindaco o giudice locale, come l’alcalde in Castiglia.
2 Figura di sovrintendente con poteri giudiziari.
3 I paeres sono autorità amministrative minori.
4 L ’alguazil ha poteri giudiziari e di polizia.
5 Il testo indica accanto agli alguaziles anche i merinos, altra figura con
poteri giudiziari: sono coloro che hanno la titolarità di una giuri sdizione
regia superiore, di carattere territoriale.
6 Categoria di cittadini dotati di status particolare e privilegiato.
7 Per il bayle vedi sopra, nota 1; per i merinos vedi sopra, nota 5.
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Copertina 2
Frontespizio 4
Dedica 6
Introduzione 7
IL SEME DELL’INTOLLERANZA. Ebrei, eretici, selvaggi: Granada 1492 10
Parte prima Alle origini dell’antisemitismo 11
1. 1492, inizio della storia moderna 12
2. Granada 1492. Un nodo della storia del mondo 24
3. Prima di granada: alle origini dell’intolleranza 28
Parte seconda La persuasione, il controllo, il sospetto 45
4. La conversione. veri e falsi cristiani 46
5. La nuova inquisizione e l’osservanza della fede 57
6. L’espulsione degli ebrei 66
Parte terza Il potere della fede, la fede del potere 72
7. La Responsabilità delle scelte 73
8. Gli esiti: purezza di sangue e differenze di razza 81
9. Eredità lunghe 92
Per concludere: un protagonista 98
Appendice 101
I. Disposizioni per il vescovo di Gerona dell’Inquisitore generale Torquemada (20 marzo
1492) 101
II. Editto di espulsione 104
III. [Per il regno dell’Aragona] 109
Note 114

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