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Il seme dell'intolleranza

Antropologia (Università degli Studi di Napoli L'Orientale)

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Il seme dell’intolleranza
CAPITOLO 1: LA CONQUISTA DI GRANADA
Uno degli avvenimenti più importanti nella storia della Spagna fu, senza dubbio, la
conquista di Granada da parte dell’esercito cristiano che avvenne nel gennaio del
1492.
Ma a Granada, nello stesso periodo, avvennero altre due cose importanti.
Bisogna ricordare che la regina Isabella decise di finanziare il progetto di Cristoforo
Colombo il quale armerà tre caravelle e andrà in cerca di una via delle Indie
alternativa a quella controllata dal regno del Portogallo.
Inoltre, il 31 marzo, sempre a Granada, fu firmato l’editto reale di espulsione degli
ebrei.
Tale editto ebbe delle grosse conseguenze. Infatti, bisogna ricordare che in Spagna
gli ebrei avevano delle radici molto forti e con loro veniva meno una intera rete
istituzionale come scuole, luoghi di culto e cimiteri. Insieme agli ebrei, spariva anche
il pluralismo culturale e religioso del paese.
C’erano due strade per gli ebrei che abitavano in Spagna: chi decideva di restare
fedele alla propria religione era costretto all’esilio, chi invece decideva di restare in
Spagna era costretto alla conversione al cristianesimo.
In questo periodo tre grandi processi storici presero piede in Europa: il colonialismo,
l’intolleranza religiosa e l’antisemitismo.
Per molto tempo la vicenda della presa di Granada e della cacciata degli ebrei passò
in secondo piano. Infatti, la vera vicenda storica da ricordare fu considerata la
scoperta dell’America.
Adam Smith sottolineò la grandezza di questa impresa affermando che la scoperta
dell’America e il passaggio verso le Indie Orientali furono i due più grandi
avvenimenti della storia dell’umanità.
Molti altri però, come Bartolomè de las Casas, sottolinearono la crudeltà
dell’espansione europea.
Iniziò quindi a svilupparsi anche un giudizio negativo sui secoli dell’età moderna.
Tale negatività si ampliò durante il secolo scorso a causa delle due guerre mondiali e
dello sterminio sistematico di interi gruppi di persone (Shoa).
Così temi come il razzismo, l’intolleranza religiosa e l’oppressione coloniale hanno
preso un posto centrale nella ricerca storica.
La ricerca storica si è però concentrata maggiormente sui secoli della storia
contemporanea, lasciando da parte l’epoca dell’Inquisizione e delle esplorazioni
oceaniche.
Tra il passato e il presente c’è, però, un rapporto molto stretto.

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Per cercare di conoscere e di capire il presente, è necessario conoscere e capire il


passato.
Particolarmente viva continua ad essere la discussione sulle radici storiche della
Shoa. Le ricerche su questo tema non si limitano più soltanto agli anni e agli
avvenimenti della Shoa, ma scavano anche nella storia e nella cultura dell’Europa
Cristiana medievale. La ricerca storica ha fatto emergere una forte componente
cattolica nell’elaborazione dell’antisemitismo e l’esistenza di un nesso tra
l’antigiudaismo cristiano a fondamento religioso e l’antisemitismo ottocentesco e
novecentesco.

2. GRANADA 1492. UN NODO NELLA STORIA DEL MONDO


Il 1492 fu uno degli anni più importanti della storia della Spagna.
Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia portarono a termine la reconquista. La
caduta del regno moro di Granada segna il trionfo di un cristianesimo bellicoso. I
due re verranno ricordati come i Re Cattolici. Una consacrazione guadagnata,
appunto, con le armi e frutto di un cristianesimo bellicoso.

3. PRIMA DI GRANADA: ALLE ORIGINI DELL’INTOLLERANZA


Nel 1492 ebrei, eretici e selvaggi si incontrarono a Granada. Nessuna di queste tre
figure si poteva definire nuova.
In una società come quella spagnola della fine del quattrocento in cui si ignorava
ancora il principio rivoluzionario dell’uguaglianza e della libertà, la vera libertà era
data dal battesimo. Di conseguenza, coloro che non avevano ricevuto il battesimo
erano considerati privi di libertà e quindi soggetti al potere del sovrano o del papa.
Gli ebrei non avevano ricevuto il battesimo ed erano quindi soggetti al potere del
papa o del sovrano.
L’eretico era considerato un nemico pubblico, una minaccia per l’intera società
cristiana e il selvaggio veniva considerato un essere di incerta umanità.
Nel 1492 si sviluppò l’idea secondo la quale esistevano delle differenze incancellabili
tra gli esseri umani a seconda della nascita e del gruppo sociale di appartenenza. Fu
proprio in questo periodo che iniziò a prendere piede il razzismo e una forte
discriminazione verso gli ebrei.
Gli ebrei erano presenti nella penisola iberica da tempi antichissimi, la prima traccia
documentata è del III secolo.
Già all’arrivo dei visigoti, nel 613, tutti gli ebrei furono costretti a battezzarsi. Con la
conquista musulmana nel 711 fu di nuovo possibile praticare l’ebraismo. Ci furono
poi varie ondate di rigorismo musulmano che costrinsero gli ebrei a fuggire verso i
regni cristiani.

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La condizione di questa minoranza fu a lungo quella di una incerta sopravvivenza


nella terra di nessuno tra la guerra santa musulmana e la crociata cristiana.
Gli ebrei, più volte, furono costretti a battezzarsi. Il battesimo si trasformò così da
segno esteriore della fede nel cuore a semplice rituale.
Purtroppo, a causa delle violenze e delle conversioni forzate, si fece strada una
nuova categoria, quella degli ebrei renani ossia coloro che, battezzati a forza,
decidevano di non abbandonare la propria religione e continuavano a confessarla.
Contro questa categoria si svilupparono nel corso della storia delle violenze.
Le cose si aggravarono a causa degli ordini mendicanti che svilupparono una forte
predicazione antiebraica.
In Spagna l’opera dei predicatori ebbe molta fortuna, sia per la presenza di una forte
minoranza ebraica e musulmana, sia per il vincolo che si creò tra il potere politico e
gli ordini religiosi.
A partire dalla metà del duecento, francescani e domenicani fecero il loro ingresso
nella società.
Due figure di spicco dei due ordini religiosi furono Vicente Ferrer e Francesc
Eiximenis. I due predicatori affermarono che i sovrani dovevano investire ogni
energia nella conversione religiosa del popolo.
Particolarmente virulenta fu la predicazione di Vicente Ferrer. Infatti, le folle
cristiane assorbivano un messaggio di violenza e di vendetta dalla voce del
predicatore e di fatto, nella Settimana Santa i fedeli andavano a piangere per le
sofferenze del Cristo della Passione. Si scagliavano quindi contro gli ebrei, poiché
erano stati loro a volere la crocifissione di Cristo.
Con l’ingresso sulla scena della predicazione dei frati la condizione degli ebrei
spagnoli cominciò a cambiare. Nei confronti degli ebrei non ci fu soltanto un
generico clima di ostilità ma l’ebreo diventò lo stereotipo diabolico della negazione
della fede.
Uno dei miti che girarono attorno alla figura dell’ebreo fu quello dell’accusa di
sangue. Gli ebrei erano infatti sospettati di uccidere bambini cristiani e di impastare
col loro sangue il pane del rito pasquale.
A partire dal 1321 fu diffusa l’accusa agli ebrei di tramare contro i cristiani. Gli ebrei
furono accusati di avvelenare l’acqua dei pozzi. In seguito alla comparsa dell’idea
dell’ebreo visto come nemico pubblico, la Francia e l’Inghilterra decisero di cacciarli
dal proprio territorio.
Ricordiamo inoltre che nel 1348 ci fu la crisi della peste nera. Tale crisi fu
considerata come un castigo divino, come una punizione divina per la presenza di
nemici di Dio nella società.
In s

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Spagna l’ondata di violenze crebbe sempre di più fino a sfociare nel 1391 in un
grande massacro, con migliaia di morti e decine di migliaia di battesimi forzati. Si
verificò la nascita dei così detti cristiani nuovi.
La figura del converso fu circondata dal dubbio: era vera la sua conversione?
In questo periodo in Spagna si diffuse anche l’idea secondo la quale tra cristiani ed
ebrei c’era una differenza di sangue.
Nel 1449 vennero emanati gli statuti di Toledo sulla limpieza de sangre. Gli ebrei e i
loro discendenti vennero esclusi dalle cariche istituzionali. Il sangue degli ebrei
venne considerato infetto, capace di trasmettere la perfidia e l’inclinazione al
tradimento.
La tesi della differenza di sangue tra ebrei e cristiani fu divulgata dal francescano
Espina, il quale credeva che l’ebreo fosse una persona malvagia e incline al
tradimento. Egli inoltre credeva che gli ebrei non potessero cambiare davvero,
neanche con la conversione. Così, secondo lui, tutti i convertiti dovevano essere
esclusi dai corpi istituzionali di maggior potere della società spagnola.
Contro la minaccia dei giudeoconversi, Espina propose di ricorrere all’Inquisizione.
Da quel momento in poi l’istituzione dell’Inquisizione cambiò radicalmente. Infatti,
la tortura era concessa durante i processi soltanto in presenza di una prova. Molte
volte, però, la violenza e la tortura furono utilizzate contro ebrei o conversi anche in
assenza di prove.

4. LA CONVERSIONE. VERI E FALSI CRISTIANI


La religione cristiana durante la storia, si è sempre posta come religione universale,
portatrice di una verità esclusiva. Proprio per questa ragione, l’invito alla
conversione accompagna la storia della religione cristiana fin dalle origini.
Essa instaurò un rapporto di alleanza con il potere.
Concentriamoci ora sulla realtà spagnola.
Ricordiamo che nella Spagna del quattrocento ci fu un processo di unificazione sotto
un solo potere monarchico.
La nuova realtà spagnola nacque dalla fusione di regni diversi, società e lingue
differenti. L’unico collante era la religione cattolica. Ed è proprio per questo motivo
che il problema della conversione in Spagna ebbe una grande importanza,
soprattutto nel processo della formazione dell’unità statale.
Ma a lungo rimase l’ombra di una minoranza: quella degli ebrei.
L’ostilità nei confronti degli ebrei non fu mai totalmente assente. Ricordiamo, infatti,
che il movimento delle crociate, durante la reconquista, trovò un suo primo sfogo
nei battesimi forzati e violenti degli ebrei.

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L’uso della forza per diffondere la parola di Dio e salvare le anime non era
contemplata dal Vangelo, ma nonostante ciò fu legittimata dal papato ed in
particolare da Innocenzo III il quale affermò che i sacramenti operavano
efficacemente in coloro che in un modo o nell’altro li accettavano.
Nel 1215 il Concilio Lateranense IV, affermò che l’ebreo era malvagio e che
bisognava fare in modo che i conversi abbandonassero le pratiche dell’ebraismo.
Infatti, se si sospettava che i conversi fossero tornati alla loro religione precedente
allora bisognava procedere attraverso l’inquisizione.
L’Inquisizione medievale, come abbiamo già visto, era controllata dai francescani e
dai domenicani. Gli ebrei in quanto tali non erano soggetti alla giurisdizione
dell’inquisizione poiché essa avrebbe dovuto occuparsi soltanto della fede dei
battezzati. Nonostante ciò, il tribunale dell’Inquisizione si occupò anche di ebrei ed
infedeli.
Essa si occupò soprattutto della categoria dei conversi. Infatti, tutti gli aspetti della
vita sociale dei conversi dovevano essere attentamente osservati per cercare di
capire se la conversione era reale oppure se il converso era rimasto fedele all’antica
religione.
Dobbiamo dunque soffermarci sulle trasformazioni del meccanismo inquisitoriale
avvenute nella Spagna della fine del Quattrocento.

5. LA NUOVA INQUISIZIONE E L’OSSERVANZA DELLA FEDE


I sovrani spagnoli denunciarono al papato l’esistenza in molti luoghi di persone che
erano ritornati ai riti della religione ebraica nonostante si fossero convertiti al
cristianesimo. Era da questa offesa fatta a Dio che derivavano tutte le guerre e le
calamità della Spagna.
Pertanto il papa Sisto IV attraverso la bolla emanata nel 1478, accolse la denuncia
dei sovrani e concedette al Re di eleggere e nominare gli inquisitori.
Colui che ricevette la nomina di inquisitore dal sovrano fu Torquemada. Egli ebbe
illimitata libertà di agire.
A questo punto, arrivarono a Siviglia i primi due inquisitori nominati dal Re.
Ci furono numerose proteste che denunciarono la crudeltà delle persecuzioni del
nuovo tribunale e proprio per questo motivo il papa decise di fare un passo indietro,
e nel 1482 decise di rigettare la domanda di estendere l’Inquisizione anche nel
territorio dell’Aragona.
Ferdinando continuò allora a sottolineare il pericolo che rappresentavano coloro che
non volevano obbedire al cristianesimo e così, egli affermò che gli inquisitori
avrebbero dovuto obbedire soltanto al sovrano. A Roma il suo punto di vista fu
accolto dal papato.

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Sul fronte interno il Re si concentrò su una forte propaganda. Nacque il mito della
hispanidad come appartenenza ad un corpo unito da una religione militare e
conquistatrice, la quale aveva ricevuto da Dio il compito di combattere ebrei e
infedeli. In un territorio vasto ed occupato da varie popolazioni con varie lingue e
culture, la nazione spagnola si compattò grazie all’individuazione di un nemico
pubblico.
Nel corso di soli dieci anni l’Inquisizione si estese anche in Castiglia, con ben ventitrè
sedi.
Dietro il funzionamento di questa macchina c’era Torquemada. Fu Torquemada a
decidere le regole per il funzionamento del nuovo tribunale.
Nella sessione convocata a Siviglia del 1484 si presero delle decisioni molto
importanti per quanto riguarda il funzionamento della nuova istituzione.
I colpevoli di eresia e di ritorno ai riti ebrei avevano a disposizione un periodo di
trenta giorni dopo il quale avrebbero dovuto confessarsi e chiedere di essere
riconciliati. Se lo facevano, sarebbero stati accolti nel seno della Chiesa senza dover
scontare altre pene se non un’abiura pubblica.
Nel caso invece degli eretici catturati e imprigionati, il loro pentimento non avrebbe
impedito la perdita dei loro beni che venivano confiscati a beneficio del fisco reale.
Si stabilirono poi le regole: come garantire il segreto ai denunzianti, come svolgere i
processi e gli interrogatori e come ricorrere alla tortura.
L’inquisizione era controllata totalmente dalla monarchia.
Nel 1481 il Re chiese a Sisto IV di istituire l’inquisizione anche ad Aragona e a
Valencia. L’Inquisizione fu anche qui istituita. L’uomo incaricato di occuparsene fu,
ancora una volta, Torquemada.

6. L’ESPULSIONE DEGLI EBREI


La prospettiva imposta agli ebrei nel 1492 in Spagna fu durissima, entro un termine
brevissimo dovevano lasciare il paese oppure erano costretti a battezzarsi.
La situazione spagnola differiva in molti punti da situazioni analoghe che si stavano
verificando in Francia o in Inghilterra. Qui, infatti, gli ebrei furono espulsi dal
territorio nazionale senza essere costretti al battesimo.
In Spagna il re scelse la strada del battesimo forzato poiché egli voleva conservare
all’interno del paese una minoranza ebraica, preziosa poiché contribuiva ai
commerci e alle necessità finanziarie della società.
Gli ebrei che decisero di restare fedeli alla propria religione e che di conseguenza
dovettero abbandonare la Spagna, si diressero verso il Portogallo e verso l’Italia.

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In Italia, a Genova, Ercole I d’Este intuì l’utilità della presenza ebraica per stimolare
l’economia del suo piccolo stato e così fece giungere una lettera ai rifugiati nel porto
di Genova dicendo che sarebbe stato felice di accoglierli con le loro famiglie.
Il curato Bernaldez descrisse attentamente tutto ciò che accadde allora e soprattutto
la parte che riguarda la partenza per l’esilio degli ebrei.
Egli parla di uno sciame umano che si mise in movimento sulle strade con tutti i
mezzi possibili dopo aver liquidato in fretta e furia tutti i propri beni a prezzi molto
convenienti per i cristiani, visto che gli ebrei non potevano portare nulla con loro, né
monete né oro, né beni immobili.
La cronaca di Bernaldez mette in evidenza il fatto che la corona esercitava pressione
sugli ebrei affinché questi si battezzassero. In effetti, il risultato non mancò e in molti
decisero, durante il viaggio d’esilio, di tornare indietro e di battezzarsi.
La decisione di Ferdinando d’Aragona, vista con gli occhi di un contemporaneo,
potrebbe apparire un evento assolutamente imprevisto.
Infatti, prima del 1492, la politica reale cercò sempre di sedare i conflitti e di
garantire la protezione delle minoranze e proprio per questo motivo si interpretò in
un primo momento quell’editto come una manovra per estorcere denaro.

7. LA RESPONSABILITA’ DELLA SCELTE


Dunque, per quale ragione Ferdinando d’Aragona decise di emanare l’editto di
espulsione degli ebrei e decise di costringere alla conversione tutti coloro che
restavano in Spagna?
Ci fu un racconto storico contenuto nella storia delle origini dell’inquisizione scritta
da un inquisitore di Sicilia.
Secondo la sua tesi, la motivazione della scelta del Re fu religiosa.
Torquemada si configurerebbe come il vero motore di tutto. Questa tesi sembra
essere veritiera. Infatti, Torquemada redasse un documento pochi giorni prima
dell’editto di espulsione nel quale sottolineava la pericolosità degli ebrei per gli altri
cristiani.
Brani del testo di Torquemada sono ripresi nell’editto di espulsione di pochi giorni
dopo.
Resta un’unica domanda: perché i sovrani decisero l’espulsione degli ebrei che non
si battezzavano?
La loro decisione non sarebbe nata da una volontà di persecuzione nei loro confronti
ma, piuttosto, dal desiderio di tutelare coloro che si erano convertiti.
Infatti, i sovrani credevano che se gli ebrei avessero mantenuto contatti con i
convertiti, li avrebbero riportati a praticare i riti dell’antica religione.

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È impossibile comunque negare l’importanza che Torquemada e l’Inquisizione


ebbero in questa vicenda. Sembra quasi che l’editto di espulsione sia frutto della
subordinazione politica dei sovrani a quella religiosa dell’inquisizione.

8. GLI ESITI: PUREZZA DI SANGUE E DIFFERENZE DI RAZZA


Pian piano incominciò a farsi strada l’idea secondo la quale vi era una differenza di
natura tra ebrei e cristiani.
Secondo questa tesi, vi era una differenza incancellabile depositata nel sangue degli
ebrei. Questa differenza era trasmessa ereditariamente e, di conseguenza, tutti i
discendenti di ebrei venivano considerati inaffidabili ed inclini al tradimento.
Proprio per questa ragione, dovevano essere esclusi dagli organismi più importanti
della società spagnola.
Con l’avvio dell’Inquisizione di Torquemada, l’odio e la violenza verso i conversi
divenne più forte. Infatti, dal 1492 in poi, l’Inquisizione si occupò della ricerca del
sangue impuro, della caccia al sangue giudaico.
Tutti i discendenti di ebrei vennero sistematicamente esclusi da ogni genere di
corporazione, sia laica che religiosa.
E questo riguardò perfino chi si candidava per i Colegios mayores de Salamanca e di
Bologna, le istituzioni universitarie dove si formava il personale burocratico
imperiale.
Per accedervi bisognava escludere che nella linea degli ascendenti del candidato ci
fossero state persone della razza ebrei o mori.
Ormai, arrivati a questo punto, si ricorreva al termine razza per indicare gli ebrei o i
mori convertiti.
Il documento fondamentale di questa ricerca genealogica della purezza di sangue è
costituito da un intero genere letterario in cui venivano elencati i nomi ebraici per
individuare chi era nato da genitori battezzati.
Uno dei libri più utilizzati fu il libro Verde de Aragon. Il suo primo autore fu Anchìas,
un assessore inquisitoriale. Egli dedicò mesi a mettere per iscritto le genealogie delle
famiglie ebraiche aragonesi. L’opera venne utilizzata per la caccia al sangue giudeo
al fine di escludere i discendenti di ebrei battezzati da corporazioni, ordini e uffici di
carattere religioso e politico.
In questo periodo nasceva la tesi della differenza di razza, Juan Escobar del Corro
sostenne che chi era di ascendenza ebraica o moresca ne portava nel sangue la
macchia incancellabile.
Il Portogallo
Come abbiamo visto, la persecuzione ebraica attuata in Spagna dal 1492 in poi,
provocò un esodo degli ebrei verso il Portogallo.

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Anche i portoghesi, come gli spagnoli, ritenevano il popolo ebraico sospetto e


proprio per questa ragione ci furono vari episodi di intolleranza violenta da parte dei
portoghesi.
Nel 1495 il Re Manuel chiese la mano della figlia dei Re Cattolici, Isabelita. La
promessa sposa dichiarò che non sarebbe entrata in Portogallo finché gli eretici non
fossero stati allontanati. Così, poco dopo, il re ordinò l’espulsione di tutti gli ebrei e i
musulmani non convertiti. Il risultato fu, come in Spagna, che molti furono costretti
a battezzarsi per non abbandonare il paese.
Da allora in poi, ci furono manifestazioni di violenza molto forti da parte dei
portoghesi. Il più grande ebbe luogo a Lisbona nella Pasqua del 1506 in cui la folla
dette vita ad un massacro senza fine.
Anche Portogallo la caccia ai marrani fu esercizio assiduo dell’Inquisizione.

9. EREDITA’ LUNGHE
Gli stessi ingredienti dell’antisemitismo iberico si ripresentarono in Europa a partire
dalla fine del Settecento.
Infatti, la comparazione storica fra i due periodi, fa emergere analogie di modelli e di
percorsi ma anche una certa continuità. Questo è dovuto all’eredità culturale e
religiosa di un discorso cristiano contro gli ebrei mai completamente sconfessato.
Le somiglianze nelle vicende accadute nei due periodi storici sono quindi dovuti ad
una permanenza di idee e di temi, soprattutto quelli elaborati dal cristianesimo.

Razzismo, meticciato, democrazia razziale


CAPITOLO 1. Il meticciato come problema da risolvere tra XIX e XX secolo.
Per comprendere il processo che ha portato alla valorizzazione del meticciato in
Brasile tra il 1930 e il 1940 è fondamentale considerare il quadro teorico.
Il tema razziale diviene attuale dopo l’abolizione della schiavitù nel 1888.
Infatti, prima della fine della schiavitù, il razzismo nella sua accezione biologica era
estraneo alla mentalità dei brasiliani. Anche coloro che difendevano la schiavitù
raramente facevano riferimento ad una teoria dell’inferiorità razziale.
In quel periodo, infatti, il colore non era un tratto distintivo dello schiavo. In questa
fase di transizione, in effetti, il colore fu svuotato del suo antico significato: non
poteva più indicare la condizione di libertà, poiché la libertà si stava trasformando in
una condizione comune a tutti gli individui.
Il tema del colore della pelle riapparirà nella società post-schiavista come
rielaborazione della gerarchia sociale.
Soltanto poco prima dell’abolizione della schiavitù iniziarono a svilupparsi idee
propriamente razziste.

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La diffusione delle idee razziste in Brasile è frutto dello stretto rapporto che il paese
aveva con l’Europa e soprattutto con la Francia.
Anche in Brasile, come nel resto d’Europa, c’era la voglia di sviluppare uno stato
moderno.
Le èlites intellettuali e politiche brasiliane sostenevano che fosse impossibile
formare una moderna nazione brasiliana proprio perché formata da africani e
meticci.
Per uscire da questa situazione venne elaborata la teoria del branqueamento in cui
si sosteneva che grazie ad una sempre maggior presenza di elementi bianchi e grazie
al processo di miscigenacao, i neri, proprio perché inferiori, sarebbero gradualmente
spariti.
2. Le teorie sulla razza e a loro interpretazione in Brasile
Dopo la Rivoluzione del 1789, in Europa si affermarono valori quali la libertà e
l’eguaglianza. Nello stesso periodo, però, si fecero strada anche lo sfruttamento e la
dominazione attraverso l’industrializzazione e la colonizzazione.
Abbiamo quindi una contraddizione molto forte tra valori egualitari trasmessi dalla
Rivoluzione francese e sfruttamento sistematico. Proprio per questa ragione si
sviluppò il determinismo biologico, che è il cuore dell’ideologia razzista: per
giustificare lo sfruttamento e la dominazione. Inizia anche a svilupparsi un’identità
fra tratti somatici e tratti sociologici.
In questo periodo il termine razza inizia ad essere molto utilizzato in Europa.
Anche in Brasile nel corso del XIX secolo il termine razza nella sua nuova accezione
biologica inizia ad essere molto diffuso.
In Brasile, l’abolizione della schiavitù e la nascita della Repubblica segnano la nascita
di una società fondata sull’eguaglianza, in teoria. In pratica, però, non tutti i cittadini
erano trattati in modo eguale ed è proprio questa contraddizione che spinge a
cercare una giustificazione che sarà, appunto, il razzismo nella sua accezione
biologica.
3. Omogeneità razziale e politiche d’immigrazione alla fine del XIX secolo
Uno dei temi più discussi dalla politica brasiliana alla fine del XIX secolo riguardava la
regolazione del flusso migratorio.
Infatti, si credeva che i contadini brasiliani, neri e meticci, non fossero in grado di
portare avanti un’agricoltura moderna.
Lo sviluppo dell’immigrazione in questo periodo è dovuta principalmente alla
domanda di mano d’opera in seguito all’abolizione della schiavitù.
Il governo brasiliano, infatti, anziché provare ad inserire gli ex-schiavi nel nuovo
sistema fondato sul lavoro salariato, ha preferito cercare altrove la manodopera
necessaria alla crescita economica e sociale del paese.

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4. Dall’immigrazione tedesca all’immigrazione latina


Dalla fine del XIX secolo all’inizio del XX secolo in Brasile fu favorita l’immigrazione.
Questa politica rispondeva ad esigenze di tipo razziale.
Infatti, nel 1890 venne vietato agli africani il libero accesso in Brasile e,
successivamente, anche ai cinesi.
Al contrario, fu favorita l’immigrazione di persone provenienti dall’Europa.
Nella prima fase, si cercò di far venire soprattutto persone disponibili a lavorare
nelle terre e a coltivare. In questo periodo fu favorita l’immigrazione tedesca.
I tedeschi avevano però un comportamento endogamico e l’endogamia razziale dei
tedeschi comincerà ad essere un problema quando la teoria del branqueamento si
affermerà come progetto politico.
In una seconda fase, infatti, l’immigrato perfetto divenne la figura del latino (italiani,
spagnoli e portoghesi), poiché questo era considerato più assimilabile in quanto
praticava l’esogamia raziale.
C’è quindi un forte controllo dell’immigrazione da parte della politica. L’obiettivo
ultimo era quello di creare un’unità nazionale fondata sull’omogeneità culturale e
razziale.
5. La tesi del branqueamento e la costituzione dell’unità nazionale
In questo periodo vi è una forte valorizzazione del meticciato in quanto elemento di
passaggio verso una nazione civilizzata e bianca.
Infatti, questo periodo è caratterizzato da una forte ansia e da una necessità di
costruire un’identità nazionale forte.
Con l’abolizione della schiavitù e la nascita del valore dell’eguaglianza, prendono
forma nuovi meccanismi per mantenere i discendenti degli schiavi africani in una
posizione d’inferiorità sociale. Come abbiamo già visto, per valorizzare i bianchi e
riaffermare l’inferiorità dei neri ci furono vari provvedimenti, come il controllo
dell’immigrazione o la mancata integrazione nel sistema salariato degli ex-schiavi.
Una delle teorie più importanti in questo momento è senza dubbio quella del
branqueamento. Il ruolo di questa nuova teoria è quello di riformare la gerarchia
sociale. Infatti, prima dell’abolizione della schiavitù, gli schoavi non erano
considerati dei cittadini, ed erano quindi discriminati e sottomessi proprio per
questa ragione, non a causa del colore della loro pelle.
Quando la schiavitù fu abolita e gli schiavi furono considerati cittadini come tutti gli
altri, si creò quindi un nuovo modo per discriminarli e per sottometterli. In questo
periodo vennero infatti discriminati in quanto neri e quindi a causa del colore della
loro pelle.
6. Antropologia fisica e eugenetica nel dibattito sull’immigrazione

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L’eugenetica si sviluppa in Brasile all’inizio degli anni Venti. L’eugenetica sosteneva


che la razza fosse la causa delle malattie e dell’ignoranza che caratterizzava la
maggior parte della popolazione brasiliana. Considerare il punto di vista
dell’Eugenetica è molto importante in quanto questa aveva forti ricadute sul piano
politico, soprattutto per quanto riguarda la questione dell’immigrazione.
Il dibattito sull’immigrazione si svolse nel corso del primo congresso brasiliano di
Eugenetica. Durante il Congresso si affrontarono vari temi come la degenerazione
del meticciato e la formazione della popolazione brasiliana attraverso
l’immigrazione. Quindi, il dibattito sull’immigrazione divenne così importante poiché
riguardava il processo dell’etnogenesi e infatti, tutti i partecipanti al Congresso si
dichiararono favorevoli ad un maggior controllo dei flussi immigratori.
Per gli eugenisti la popolazione brasiliana era, quindi, una razza in formazione. Era
dunque dei politici e dei ricercatori la responsabilità del controllo degli immigrati per
definire il valore eugenico o razziale della popolazione brasiliana.
7. La politica razziale negli anni Trenta
Con Vargas al potere, a causa dell’aumento della disoccupazione, si cercò di limitare
l’immigrazione.
L’Estado Novo creerà il Consiglio d’immigrazione e Colonnizzazione che garantirà
l’intervento governativo in materia d’immigrazione.
Il CIC avrà il compito di fissare le quote annuali di entrata per ciascun gruppo
nazionale e selezionare gli immigrati. Ci fu, ancora una volta, un dibattito
sull’immigrazione asiatica e africana.
In Brasile in questo periodo la preoccupazione maggiore dello stato era quella di
avviare un processo di integrazione tra i vari gruppi etnici presenti sul territorio per
evitare scontri o tensioni che caratterizzavano in quegli anni l’Europa e gli Stati Uniti.
In questo periodo lo stato diffondeva l’idea secondo la quale in Brasile la convivenza
tra i vari gruppi etnici fosse pacifica. Inoltre, la politica del meticciato cominciò ad
essere ufficiale.
È possibile, dunque, identificare una doppia tensione: da un lato, la valorizzazione
del meticciato in termini culturali e dall’altro la teoria del branqueamento.
Meticciato culturale: studio delle influenze culturali con cui ciascun gruppo ha
contribuito alla formazione del Brasile.
CAPITOLO 2: Cambiamento: il meticciato valorizzato nell’opera di Freyre
1. La formazione della cultura nazionale e il ruolo dell’intellettuale
Uno degli autori più importanti per quanto riguarda i temi dell’identità nazionale
brasiliana e del meticciato è, senza dubbio, Freyre.
Negli anni Venti e Trenta molti intellettuali e scrittori si occuparono del problema
della mancanza di un’unità nazionale in Brasile. Uno di questi fu Torres. Egli fu uno

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dei primi intellettuali a pensare l’unità nazionale non in termini razziali, ma in


termini culturali. Torres sottolineò il fatto che il Brasile dipendesse economicamente
da potenze straniere, che fosse uno stato debole e che non avesse una propria
cultura. Egli credeva che fosse necessario produrre una cultura indipendente.
In questo periodo la figura dell’intellettuale comincia ad acquistare sempre maggior
importanza. L’intellettuale era infatti visto come colui che rappresentava
culturalmente una nazione e quindi le sue ideologie.
La figura dell’intellettuale inizia così a giocare un ruolo fondamentale nella
costruzione di una cultura nazionale. In questo periodo si sviluppa inoltre un
interesse per la ricerca delle radici del Brasile.
2. Il contesto storico-sociale della valorizzazione del meticciato culturale
Il libro più importante di Freyre, Padroni e Schiavi, è stato pubblicato nel “Periodo
Vargas”. Molti avvenimenti hanno una ripercussione sul pensiero degli scrittori e
degli intellettuali del tempo: la Rivoluzione del 1930, che annuncia la fine
dell’oligarchia rurale delle grandi piantagioni di caffè e la fine dell’economia centrata
sull’agricoltura d’esportazione.
Negli anni Trenta si sviluppano gli studi brasiliani e il meticciato comincia ad
assumere un carattere positivo.
3. Freyre: l’approccio culturalista allo studio del meticciato e 4. Padroni e schiavi
L’opera di Freyre, Padroni e Schiavi, racchiude molte novità. In primo luogo, egli
mette al centro del suo testo non solo i grandi proprietari terrieri ma anche gli
oppressi quindi gli indigeni e gli schiavi africani. Ma il carattere innovativo è dato dal
fatto che Freyre valorizza le culture e le tradizioni di questi gruppi che fino ad allora
erano stati sempre considerati arretrati.
In questo senso Padroni e Schiavi è in sintonia con il nuovo atteggiamento dello
Stato brasiliano, che voleva affermare un’identità nazionale che valorizzasse le
tradizioni culturali contro l’influenza straniera.
Un’altra innovazione è data dal fatto che Freyre afferma che sono la cultura e
l’ambiente a determinare un gruppo umano e non la sua razza biologica.
Il testo propone una ricostruzione della storia delle piantagioni. Descrive le abitudini
di vita nelle grandi piantagioni. In particolare Freyre si concentra sull’analisi della
famiglia patriarcale considerata il nucleo alla base della vita sociale, politica ed
economica.
Padroni e Schiavi nasce dall’interesse dell’autore di fronte al problema della
miscigenacao. Per Freyre il meticciato rappresentava l’unità nazionale.
4. La valorizzazione del meticciato attraverso la dimensione familiare
Freyre nel suo libro si sofferma sull’aspetto delle relazioni sessuali miste in quanto
egli crede che siano l’esempio della mancanza del razzismo in Brasile.

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Come abbiamo già accennato, egli si sofferma sulla famiglia patriarcale e inoltre, egli
sostiene che la casa del padrone sia il nucleo della società agraria.
È all’interno di questo spazio che vengono descritte le relazioni tra portoghesi,
indigeni, africani, padroni e schiavi. Egli volle dimostrare il carattere umano e
familiare del rapporto tra padrone e schiavo. Secondo Freyre, uno degli elementi
che ha caratterizzato il rapporto tra padroni e schiavi in Brasile è proprio questa
doppia dimensione di intimità e sfruttamento.
5. L’assenza di pregiudizi raziali tra i portoghesi
Freyre descrive la cultura e le tradizioni sia dei portoghesi che degli indigeni e degli
africani e sottolinea che la cultura portoghese conserva caratteristiche africane ed
indigene. Freyre indica gli elementi positivi delle culture non europee che fino ad
allora erano state considerate inferiori e negative.
Per quanto riguarda i portoghesi, egli muove alcune critiche ai colonizzatori e mette
in luce la crudeltà e la pigrizia dei portoghesi.
Inoltre, Freyre afferma che i portoghesi arrivarono in Brasile senza donne, quindi di
solito avevano delle indigene come partners o come spose. L’autore spiega che il
portoghese era molto attratto dalle donne di altri paesi e inoltre spiega che, questa
capacità dei portoghesi di creare una fusione, di adattarsi ed accogliere le differenze
è ciò che caratterizza la civiltà loso-tropicale, e la rende superiore ad altre civiltà.
Freyre dà molta rilevanza alla mancanza di pregiudizi razziali tra i portoghesi.
6. il meticciato nelle relazioni sessuali
Freyre afferma che le relazioni sessuali tra uomini portoghesi e donne indigene e
africane sono “naturali”.
Al contrario, sembra invece che nel meticciato la sessualità appartenga alla sfera
dei rapporti sociali. Non solo perché è legata ad essi, ma anche perché non ci può
essere meticciato senza procreazione.
CAPITOLO 3: TRA DEMOCRAZIA RAZZIALE E “SCOPERTA DEL RAZZISMO”
1. L’Europa guarda al Brasile
Al tempo, come abbiamo visto, era radicata l’idea secondo la quale in Brasile non
esistesse in razzismo. Cercheremo di capire, quindi, come viene scoperto il
“razzismo” in un paese che ha fatto dell’assenza del razzismo il fulcro della sua
identità nazionale.
Il Brasile veniva considerato un modello positivo per quanto riguarda la convivenza
tra razze. Infatti, con l’avvento delle politiche razziste in Europa, vedremo come
l’Europa guarderà al Brasile cercando modelli positivi di convivenza tra razze in un
momento così difficile come fu quello della Shoa.
2. Il progetto Unesco

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Nel 1950 fu elaborato il Progetto Unesco. Questo progetto ebbe come obiettivo
quello di cercare di capire i meccanismi di razzismo per combatterlo.
L’Unesco scelse proprio il Brasile come campo di ricerche per studiare quali fattori
contribuissero a creare un ambiente privo di discriminazione razziale.
In un primo momento, fu scelto il luogo di Salvador da Bahia, città in cui la presenza
di discendenti africani era ed è molto forte.
Il progetto fu poi esteso anche a Sao Paulo e Rio de Janeiro. Gli studiosi presero in
considerazione sia zone con un’economia rurale che zone caratterizzate da un
processo di industrializzazione.
I risultati della ricerca furono veramente interessanti. Infatti, questi mostravano
che in Brasile, il pregiudizio razziale e di colore era presente, esisteva.
Nel nord e nel nord est del Brasile, il pregiudizio razziale era meno presente. Qui la
principale differenza tra gli individui era la differenza di classe: le persone di origine
africana erano discriminate in quanto povere, non in quanto nere. Nelle grandi città
del sud-est, al contrario, il pregiudizio razziale era radicato e forte.
Quindi, il razzismo in Brasile esisteva e come.
Fernandes fu il primo ad affermare che la democrazia razziale fosse soltanto un
mito. Egli credeva infatti che il pregiudizio di colore non fosse dovuto alla classe,
ma alla razza.
3. Il continuum dei colori
Il progetto Unesco cercò anche di capire come funzionava il sistema di
classificazione raziale o dei colori in Brasile.
Ci si chiedeva: come si definisce chi è bianco e chi è nero in un paese che valorizza
la mescolanza?
Gli studi si sono centrati anche sul paragone con il sistema statunitense di
classificazione razziale, conosciuto anche come sistema bipolare (bianchi vs neri).
In Brasile, il termine colore non rimandava soltanto alla pigmentazione della pelle,
ma anche ad alcuni tratti del viso: naso, labbra e tessitura dei capelli. Il sistema
classificatorio brasiliano non aveva delle regole chiare.
Per definire il sistema di classificazione razziale brasiliano, gli studiosi utilizzano il
termine continuum. Per comprendere come funziona questo sistema, prenderemo
in come esempio i dati di una ricerca condotta in una scuola media pubblica di Rio
de Janeiro. Da quest’indagine risulta: la facilità con cui gli studenti utilizzavano più
termine di colore per auto classificarsi, e la possibilità di definire i loro parenti
stretti con colori diversi dal proprio.
Il continuum funziona negando l’opposizione bianco/nero, ma, in ogni caso, il polo
nero viene considerato quello negativo.

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4. Quantificare il razzismo: la classificazione razziale come strumento per leggere


le disuguaglianze tra bianchi e neri
Attraverso l’analisi dei dati ufficiali raccolti nei censimenti, s’intraprende un lavoro
volto ad identificare le differenze sociali tra bianchi e neri su temi come la mortalità
infantile, l’istruzione, l’ingresso nel mercato del lavoro e la mobilità sociale.
È necessario fare un passo indietro per capire come nacque la demografia razziale.
Nel 1964, con un colpo di stato, ha inizio la dittatura militare. In quegli anni, parlare
di razzismo era anti-patriottico poiché andava contro l’ideologia della democrazia
razziale. Quindi, furono interrotti anche tutti gli studi su questo argomento.
Con il governo Gisel, e con l’apertura politica che caratterizzò quel periodo, fu
possibile riprendere gli studi sul razzismo e sulle relazioni raziali.
In questo periodo, l’intellettuale Hasenbalg pubblicò Discriminacao e
Desigualidades Raciais no Brasil. L’obiettivo di Hasenbalg era quello di fare
emergere le discriminazioni di cui erano vittime i neri in Brasile.
Secondo H. due fattori concorrevano alla discriminazione razziale: la diseguale
distribuzione geografica tra bianchi e neri e il comportamento del gruppo
dominante. Per quanto riguarda il primo fattore, H. affermò che la popolazione
nera era concentrata nell’area più depressa del paese, il Nordeste. Al contrario, la
popolazione bianca abitava il Sudeste, regione più ricca. Infatti, dall’analisi dei dati
ufficiali emergeva che i neri avevano meno opportunità dei bianchi sia per quanto
riguarda il percorso scolastico che lavorativo. Inoltre, H. affermò che i neri avevano
una minore mobilità sociale rispetto ai bianchi.
5. Mercato del lavoro, povertà, unioni stabili “miste”
H. esamina anche i dati che riguardano il mercato del lavoro. Da quest’analisi
emerge che i bianchi occupavano ancora la base della gerarchia occupazionale,
mentre, i neri, svolgevano i lavori più pesanti ed erano impiegati nell’agricoltura,
nell’edilizia e nei servizi domestici.
Gli intellettuali dell’epoca analizzarono anche le unioni stabili tra persone di colore
diverso.
Analizzando i dati del 1980, Silva nota che le unioni endogamiche dal punto di vista
del colore rappresentano la maggioranza, circa il 79 per cento. Oggi, soltanto una
percentuale molto bassa di cittadini brasiliani infrange la barriera del colore
facendoci pensare che le unioni esogamiche non rappresentino una norma di
comportamento diffusa.
Questo è stato un periodo molto importante in Brasile poiché si prese finalmente
atto delle diseguaglianze socio-economiche esistenti tra bianchi e neri, per molto
tempo sommerse dalla democrazia razziale.
CAPITOLO 4: POLITICHE: IL RITORNO DELLA RAZZA

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1. Classificazioni razziali
A partire dagli anni Novanta, il movimento negro (pluralità di organizzazioni non
governative impegnate nella lotta contro il razzismo) fu importantissimo.
La classificazione razziale diventa elemento centrale nella lotta al razzismo del
movimento negro.
Prima di esaminare le politiche del movimento negro che riguardano la
classificazione razziale, è bene spiegare come funziona essa a livello istituzionale.
In Brasile, il censimento include la domanda relativa al colore della pelle. Le
categorie attualmente in uso sono: branco, preto, pardo, amarelo e indigeno. Il
movimento negro afferma che tale classificazione non è affidabile in quanto non
tiene presente la soggettività nella percezione del colore di chi compie l’auto
classificazione.
Il movimento negro afferma, infatti, che la popolazione di origine africana scelga un
colore più chiaro al momento dell’auto classificazione e questo porterebbe ad una
sottostima del numero dei discendenti africani in Brasile.
Il dibattito riprese in occasione dell’inchiesta PNAD. Durante questa inchiesta la
domanda sul colore venne posta in due forme diverse: una aperta, in cui la persona
poteva definirsi liberamente, e una chiusa, nella quale la persona doveva
identificarsi in uno dei colori proposti dall’auto classificazione del censimento.
I risultati dell’inchiesta relativi alla prima domanda mostrarono che, i colori scelti
maggiormente furono bianco e moreno. Ciò mostra che nonostante i brasiliani
avessero una vasta gamma di termini per indicare il colore della pelle, la
maggioranza utilizzava soltanto alcuni di essi.
Silva giunge dunque alla conclusione che i dati ufficiali sul colore sono affidabili.
Negli ultimi anni, il movimento negro impiega la classificazione bianco/negro e lo fa
principalmente per creare una sorta di legame di identità tra tutti coloro che hanno
origini africane. Anche i media utilizzano sempre più spesso la classificazione
bianco/negro.
2. Il movimento negro e le politiche per la promozione dell’uguaglianza sociale
Un primo passo per quanto riguarda la lotta al razzismo è rappresentato dalla
nuova costituzione approvata nel 1988. In essa il razzismo viene definito un crimine
soggetto alla pena di reclusione. Inoltre, in questi anni, sempre più organizzazioni
sociali si impegnarono per rendere consapevole la popolazione brasiliana
dell’esistenza del razzismo in diversi ambiti della vita sociale come il mercato del
lavoro, la sanità, l’istruzione, il cinema o la tv.
Nel 1955 il movimento negro organizzò una marcia a Brasilia per chiedere
all’esecutivo di realizzare pienamente la democrazia e di eliminare le differenze tra
bianchi e neri. L’allora presidente della Repubblica, ammette l’esistenza del

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razzismo e afferma la necessità di combatterlo attraverso politiche pubbliche.


Venne creato un gruppo di lavoro per lo sviluppo di politiche pubbliche di
valorizzazione della popolazione negra. Quest’organo aveva la responsabilità di
creare delle proposte per l’inclusione dei neri nella società.
Un altro grande passo avanti ci fu quando il Brasile partecipò alla Conferenza delle
Nazioni Unite contro il razzismo e la Xenofobia.
Dopo la partecipazione alla conferenza, il Ministero per lo sviluppo agrario riservò il
20 per cento degli incarichi amministrativi ai neri e a Rio de Janeiro fu approvata
una legge che riservava il 40 per cento dei posti nelle università statali di questo
stato ai neri e ai pardos.
Nonostante siano stati fatti dei grossi passi avanti, il movimento negro chiede oggi
un impegno maggiore da parte dello stato. Secondo Silva Jr. infatti, la società
brasiliana è stata sfigurata da secoli di discriminazione ed oggi non basta che lo
stato si astenga dal praticare la discriminazione nelle sue leggi, ma deve esserci
un’eguaglianza di opportunità e democrazia.
3. Un esempio di azioni positive: le quote per negros nelle università pubbliche
Il movimento negro afferma che l’istruzione di qualità è un fattore molto
importante.
L’università è, senza dubbio, il luogo di formazione più importante poiché è qui che
si formano le elite politiche e scientifiche.
Purtroppo, il sistema universitario brasiliano non è esente da ingiustizie.
In Brasile, la scuola pubblica è di pessima qualità e non prepara gli studenti ad
affrontare futuri studi. Infatti, chi ha la possibilità, manda i propri figli in scuole
private. Al contrario, le università pubbliche sono molto prestigiose in Brasile. Per
accedervi, però, bisogna superare un test. Gli studenti che hanno frequentato la
scuola pubblica, solitamente, non riescono a superare questa prova poiché non
hanno la preparazione necessaria. Mentre, chi ha frequentato una scuola privata
non ha problemi.
Per cui, gli studenti neri, che sono i più poveri e che quasi sempre hanno
frequentato una scuola pubblica, vengono esclusi dalle università. E questo è uno
dei dati che meglio esemplifica la differenza tra bianchi e neri.
Per risolvere questo problema, èstata messa a punto una politica da alcuni stati e
alcune università, la politica delle quote universitarie.
Un esempio è la politica attuata dall’Università di Rio de Janeiro. Qui, il 45 per
cento dei posti al vestibular è destinato agli studenti con situazioni economiche
difficili, di cui 20 per cento negros e 20 per cento studenti che vengono dalle scuole
pubbliche. Gli studenti che rientrano nelle quote devono comunque passare il test.

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4. Le critiche alla politica delle quote universitarie per negros: la difesa delle
democrazia razziale
La principale critica mossa alla politica delle quote è quella di aver creato un
principio formale di differenziazione raziale laddove prima non c’era.
Gli autori che vanno contro la politica delle quote universitarie riconoscono
l’esistenza del razzismo ma sono ancora legate alle ideologie di Freyre e alla
valorizzazione della mescolanza.
Maggie e Fry sono due antropologi che sostengono questa ideologia. Essi
difendono la democrazia razziale e sostengono che i neri vengano esclusi e
discriminati in quanto poveri e non in quanto neri.
Ci sono state molte reazioni negative sull’argomento della politica delle quote
universitarie. Secondo Mendes Pereira, questo accade poiché, in Brasile c’è stata
una storica tendenza ad omettere l’esistenza del razzismo. Tale tendenza viene
invertita con gli studi dei dati statistici provocando un vero e proprio choc nei
cittadini brasiliani.
Il panorama sociale brasiliano è infatti contraddittorio: sul piano dell’identità
nazionale viene valorizzata la mescolanza, ma in alcuni contesti, come quando deve
essere scelto un candidato per un lavoro, ad esempio, c’è una forte discriminazione
in base al colore.
5. Razza e classe
Esiste un altro tipo di critica mossa al sistema delle quote universitarie. Secondo il
pensiero di alcuni ricercatori, il vero problema del Brasile starebbe nelle disparità
socio economiche e nella povertà. Essi sostengono che la politica delle quote
esclude i bianchi poveri. I sostenitori di questa teoria sono a favore di una politica
che tocchi la classe popolare e i poveri come un tutto.
Il problema, secondo i ricercatori, è che con la politica delle quote si è creata una
divisione razziale laddove potrebbe non esserci visto che esistono solo poveri.
6. L’accusa di razzialismo
Affrontiamo ora l’ultima critica mossa al sistema delle quote universitarie. Secondo
alcuni critici, la politica del movimento negro che si basa sulla costruzione di
un’identità negra, implicherebbe il recupero della nozione di razza.
Le quote universitarie, secondo i critici, non fanno altro che rafforzare la credenza
dell’esistenza delle razze invece di combatterla.

CONTRO IL RAZZISMO
Guido Barbujani: invece della razza
Nel 1954 negli Stati Uniti si vive ancora in regime di segregazione raziale. I cittadini
neri non possono frequentare le stesse scuole dei bianchi, gli stessi cinema,

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ristoranti, sale d’aspetto e toilettes. Inoltre, in alcuni stati il matrimonio misto fra
bianchi e neri è reato. Così sanciscono le cosiddette Jim Crow Laws.
Nel maggio del 1954 qualcosa comincia a cambiare. Viene abolita la segregazione
scolastica e, inoltre, un anno dopo una donna rifiuterà di cedere il posto ad un uomo
bianco in un autobus dando così la spinta all’abolizione delle Jim Crow Laws.
Sessant’anni dopo, nel 2014, Wade presenta il suo nuovo libro. In questo libro, egli
spiega che considerazioni politiche o sociali ci spingono a combattere il razzismo ma
che la genetica ci riporta con i piedi per terra e ci costringe a riflettere sulle profonde
differenze che esistono fra gli esseri umani, le quali sono inscritte nel nostro DNA e
sono frutto della nostra appartenenza a razze diverse.
Ovviamente, la teoria di Wade non può essere veritiera. Infatti, genetisti di tutto il
mondo hanno smentito la sua teoria. Per dire che l’umanità è divisa in razze non
basta la banale constatazione che siamo diversi, ma tali differenze dovrebbero
suddividersi in gruppi omogenei. Ciò non accade.
Cos’è una razza biologica?
È possibile affermare che: in tutte le specie in cui ci sono chiare differenze,
anatomiche o genetiche, sufficienti per attribuire ogni individuo o quasi a un gruppo
ben definito, si può parlare di razze biologiche.
Ogni individuo o quasi non è un concetto un po’ vago?
Linneo, il fondatore della tassonomia, pensava che le diverse specie fossero state
create così come e vediamo adesso. Il tempo ha smentito la sua teoria.
In effetti, già con Darwin e Lamarck le specie vengono concepite come entità
dinamiche, non immobili, che si evolvono nel corso del tempo.
È chiaro quindi che le specie si formano con l’andare delle generazioni.
L’evoluzione modifica gli organismi. Quindi, quella che in un certo momento è una
singola specie, potrebbe suddividersi in due gruppi che più in là andranno a formare
specie diverse. Le razze sono appunto questi gruppi. Due o più popolazioni della
stessa specie, avviate sulla strada che potrebbe portarle ad essere specie diverse,
ma non ancora arrivate a destinazione.
Perché emergano delle differenze biologiche tra gruppi di individui è essenziale
l’isolamento: qualche barriera che impedisca l’incrocio fra individui di specie diversa.
Dove ci sono delle barriere naturali, come ad esempio i fiumi, si creano gruppi
distinti che con il tempo costituiranno razze diverse, e, con altro tempo, specie
diverse. Dove, al contrario, queste barriere sono assenti, gli scambi sono più
frequenti e le caratteristiche biologiche degli individui si rimescolano in
continuazione.
E l’uomo, allora?

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Su questo punto le opinioni sono molto diverse. Alcuni credono che nell’uomo ci
siano delle vere e proprie razze biologiche. Altri, al contrario, pensano che la razza
sia soltanto una convenzione sociale.
Ma se il tema è così controverso, come mai il concetto di razza è così diffuso?
Il concetto di razza è così radicato anche perché ha origini molto antiche. Già
nell’Atene del V secolo, Aristotele e Pericle, dividevano l’umanità in due razze:
<quelli come noi> e <quelli diversi da noi>, greci e barbari.
Nel settecento, si diffonde l’idea secondo la quale la razza stia nel sangue e che si
trasmetta ai propri figli. Questa ideologia è rimasta indiscussa a lungo.
Infatti, dal settecento ad oggi, ci sono stati molti tentativi di compilare un catalogo
delle razze umane.
Tali cataloghi sono incoerenti, soggettivi e privi di valore scientifico.
Nell’Ottocento si diffonde l’idea secondo la quale per formare uno stato c’era
bisogno di una stessa lingua, di una terra ed anche e soprattutto di una purezza
razziale.
Nel 1963 c’è una svolta: un antropologo americano, Livingston, pubblica un saggio
Sull’inesistenza delle razze. In questo saggio egli spiega che, gli esseri umani non
sono tutti biologicamente uguali, ma che le loro differenze non si conformano alla
definizione di razza. Da quel momento in poi le cose cambiano.
Non tutti accettano subito tale teoria. Dobzhansky, ad esempio, ribadisce che
l’umanità sia suddivisa in razze.
Alla luce dei fatti, Livingstone aveva ragione. A livello di DNA ognuno di noi è uguale
al 99,9% a qualsiasi sconosciuto di qualsiasi continente, mentre le nostre differenze
rappresentano lo 0,01% del totale del genoma.
Il primo a descrivere su scala globale come si distribuiscono le nostre differenze
geniche è stato Lewontin. Lewontin afferma che la nostra percezione che ci siano
grandi differenze tra i gruppi umani è sbagliata. Egli afferma inoltre che la
differenziazione raziale umana ha un effetto distruttivo sulla società e visto che è
stato dimostrato che non ha nessun significato genetico, bisognerebbe abolirla.
Il tempo gli ha dato ragione. Infatti, oggi sappiamo che se prendiamo una ad una le
varianti del nostro DNA e ne studiamo la distribuzione geografica, oltre l’80% è
cosmopolita, cioè presente in tutti i continenti.
Persone con caratteristiche genetiche simili si trovano anche in posti molto lontani.
Il DNA contenuto nelle nostre cellule è un testo vastissimo, sei miliardi e mezzo di
caratteri.
Oggi, è possibile leggere interamente questo testo. I primi a cui è stato letto il
genoma completo sono due famosi genetisti americani e un genetista coreano.

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I genetisti americani sono entrambi di origine europea e si vede, ma i loro genomi


somigliano molto di più a quelli del genetista asiatico. In più, si somigliano meno tra
di loro.
Questo vuol dire che in ogni popolazione ci sono individui molto diversi tra di loro.
Non è possibile quindi applicare lo stereotipo razziale poiché questo tenta di
attribuire alle persone caratteristiche simili, commettendo un grave errore biologico.
Visto che la genetica è così complicata, non conviene lasciar perdere il DNA?
Non è più semplice studiare il colore della pelle? Purtroppo non funziona così. Il
colore della pelle deriva da molti fattori, non solo dai geni ma anche dall’esposizione
alla radiazione solare.
Il colore della pelle dipende da almeno 70 geni differenti, che si combinano in modi
diversi. Inoltre, c’è anche il discorso della selezione naturale.
Molto probabilmente quando i nostri progenitori africani avevano il corpo
completamente coperto di peli, la loro pelle era bianca. Man mano che il corpo si
scopriva, e che regioni sempre più vaste erano prive di peli, le ghiandole sudoripare
restavano esposte ai raggi ultravioletti. Quindi, la pelle divenne man mano più scura
per ridurre gli effetti nocivi della radiazione ultravioletta.
Le cose cambiarono quando alcune popolazioni si spostarono al Nord ed in Europa.
Qui, l’esposizione solare era ridotta e quindi non nociva.
Quindi, la selezione naturale ha fatto sì che le popolazioni che abitano i tropici,
l’Africa, l’india del Sud e l’Australia abbiano un colore della pelle simile, più scuro. Al
contrario, le popolazioni dell’Europa e dell’Asia hanno una carnagione più chiara.
Wade
Abbiamo visto che è impossibile dividere l’umanità in razze biologiche per diverse
ragioni. In primo luogo, abbiamo visto che per dire che l’umanità è divisa in razze
non basta affermare che ci siano delle differenze tra gli esseri umani. Infatti, bisogna
anche che queste differenze ci permettano di collocare ogni individuo nella
categoria giusta ed è impossibile.
Wade, non la pensa nello stesso modo. Secondo lui è possibile dividere l’umanità in
razze e, purtroppo, non è soltanto lui a pensarla così. In America, numerosi medici
confrontano parametri clinici di pazienti appartenenti a razze diverse secondo il
censimento americano.
Peccato che i censimenti americani cambino ogni dieci anni, e che quindi non
servano assolutamente a capire le nostre differenze biologiche.
Dal 2000, ad esempio, gli ispanici, o latinos, sono stati riconosciuti come razza negli
stati Uniti. Per far parte di questa categoria occorre essere originario dell’America
Latina o della Spagna ed essere di madrelingua spagnola. Due caratteristiche che
non hanno nulla a che vedere con i geni.

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Ma allora come mai Wade continua a sostenere l’esistenza delle razze umane? È
semplice. Gli servono per dimostrare che se certi paesi sono più avanzati degli altri
non è per motivi storici o culturali, ma per una diversa qualità genica. In questo
modo le disuguaglianze economiche e sociali non vanno combattute perché naturali.
Wade fa due esempi. Secondo lui, l’Inghilterra avrebbe fatto per prima la rivoluzione
industriale per ragioni genetiche. Infatti, gli inglese avevano molta voglia di lavorare.
Inoltre, secondo Wade gli ebrei sarebbero più intelligenti di tutti gli altri. Hanno
vinto, infatti, il 32% dei premi Nobel nel XX secolo pure rappresentando solo lo 0,2%
della popolazione. Secondo Wade, non può trattarsi soltanto di eccellenza culturale,
ma deve esserci qualche ragione genetica.
Egli dimentica che, alla fine della Seconda guerra mondiale, quattro ebrei su cinque
risultavano, agli occhi degli psicologi americani, ritardati mentali.
Wade non dimostra ciò che dice, e non ci prova nemmeno. Egli fa parte del filone
del realismo razziale che propone soluzioni semplici a problemi complessi. Il
realismo razziale è antiscientifico.
Queste tesi, anche se puerili e infondate, esercitano un certo fascino. Infatti,
pensare che sia tutto già scritto nei geni ci dà l’impressione di vivere in un modo
facilmente comprensibile. Ma questa non è assolutamente scienza. (Lombroso e la
tendenza criminale misurata in base alla forma del cranio.)
Conclusione: quindi non si può più dire razza?
Razza è una parola ambigua. Le razze biologiche nell’uomo non esistono e nessuno è
in grado di definirle. In più, la storia ci insegna che le divisioni razziali disgregano la
società e creano soprusi. Meglio usare la parola popolazione al posto di razza.
Marco Aime: si dice cultura, si pensa razza.
Come abbiamo visto, molti studiosi nel tempo hanno cercato di calcolare il numero
delle razze umane, senza mai arrivare ad una conclusione soddisfacente e che
mettesse d’accordo tutti. Ben presto, in molti, hanno iniziato a catalogare le razze
dalle inferiori alle superiori, la superiore era ovviamente quella bianca ed
occidentale.
Sarebbe bello poter parlare del concetto di razza al passato, ma purtroppo non è
così. È sufficiente prendere in esame gli insulti lanciati giornalmente contro i rom, gli
immigrati, gli ebrei o i neri. Anche i politici molte volte fanno dichiarazioni intrise di
razzismo. È accaduto, ad esempio, nel 2008 quando il ministro Calderoli ha detto che
esistono etnie più propense al lavoro e altre con maggiore predisposizione alla
delinquenza.
Come abbiamo visto, per molto tempo il razzismo venne considerato biologico. Oggi
il pensiero razzista e le discriminazioni si basano sulle differenze culturali.

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In Europa, in questo periodo, si stanno diffondendo sempre più i partiti xenofobi. La


retorica di questi partiti si basa su diversi concetti, i principali sono: popolo o etnia,
autoctonia, radici e tradizione. L’ideologia dei partiti xenofobi può essere
semplicemente riassunta: ogni popolo ha diritto alla propria cultura, che va tutelata.
Il contatto con altre culture va evitato poiché esiste il rischio di una contaminazione.
Per evitare la contaminazione, occorre che ciascuno rimanga a casa propria.
Prendiamo ora in esame i vari concetti prima elencati.
Popolo: per popolo si intende un gruppo di individui legati alla propria terra che
hanno determinate tradizioni, comportamenti e modi di fare.
Radici: gli esseri umani, secondo questa accezione, sarebbero simili agli alberi, legati
indissolubilmente alla propria terra. Una tale concezione esprime una forte chiusura
nei confronti dell’altro.
La metafora delle radici, presa letteralmente, ci dice che non potremmo essere
diversi da ciò che siamo e che la nostra cultura e la nostra identità sono segnate sin
dalla nascita, come se fossero dei dati biologici.
Huntington riprende questa ideologia nel suo celebre Saggio, Lo scontro delle civiltà.
H. afferma che il pianeta è diviso in blocchi culturali e che saranno questi blocchi a
giocare un ruolo fondamentale nelle guerre future.
Uno scenario del genere ipotizza una sorta di determinismo culturale secondo il
quale ogni individuo nato in una certa parte del mondo deve avere necessariamente
una certa cultura e praticare una certa religione.
Ma cos’è la cultura? Molti manuali di antropologia utilizzano la definizione di Tylor:
la cultura è quell’insieme di conoscenze, credenze, arte, morale, legge, costume e
ogni altra capacità e usanza acquisita dall’uomo come appartenente ad una società.
Due passaggi di questa citazione sono fondamentali: <è acquisita dall’uomo> = qui
l’autore sottolinea che la cultura non è un elemento innato, ma il prodotto di
un’educazione; <come appartenente ad una società> = qui l’autore afferma che la
cultura è il frutto di relazioni fra più individui. È dal dialogo, dallo scambio che nasce
ogni cultura.
Infatti, siamo una specie migrante. I continui incontri e scambi hanno mescolato i
nostri geni al punto da non rendere più sostenibile una classificazione razziale, ma
non solo: hanno anche mescolato le culture al punto di poter oggi affermare che
ogni cultura è multiculturale. Non è, cioè, il prodotto immutabile del rapporto tra
uomo e individuo.
Tradizione: La tradizione è qualcosa che affonda le sue radici in un passato lontano
ma che continua ad esistere nel presente. Ma come ci hanno mostrato alcuni
studiosi, le tradizioni non sempre affondano le loro radici in tempi remoti. Una
tradizione, per radicarsi, deve soddisfare qualche bisogno della comunità.

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La parola tradizione viene utilizzata anche, come abbiamo visto, in ambito politico,
ma con un significato totalmente differente. In politica, l’aggettivo tradizionale
finisce per coincidere con naturale. Perché dove il problema è culturale si può
scegliere, laddove il problema è naturale non c’è possibilità di scelta. Ancora una
volta assistiamo ad un congelamento artificiale di un processo dinamico.
Autoctonia: i partiti xenofobi rivendicano, sempre più frequentemente, un <noi>
fatto di persone che sono nate e cresciute nello stesso posto e che sono figli e nipoti
di persone nate nello stesso posto. Questa ideologia impedisce il confronto con
culture provenienti dall’esterno ed indica una chiusura nei confronti dell’altro.
Secondo questa ideologia, le culture per non contaminarsi non devono mischiarsi.
C’è una somiglianza per quanto riguarda l’ideologia con le leggi razziali emanate dal
governo fascista: “La popolazione italiana è nella maggioranza di origine ariana.
Questa popolazione ariana abita da diversi millenni la nostra penisola. Esiste ormai
una razza italiana e una purissima parentela di sangue che unisce gli italiani di oggi.
Come si vede, il passaggio da autoctonia a razzismo non è così complicato.
Una nuova frontiera
Le nuove categorie dove sfocia il razzismo sono l’etnicità, la religione e il modo di
comportarsi.
Con la postmodernità sono venute meno delle grandi ideologie come l’illuminismo,
il marxismo e l’idealismo e il capitalismo ha preso il sopravvento. In questo vuoto
ideologico si inseriscono partiti con ideologie etnonazionaliste come la lega in Italia
o il Front National in Francia. Le narrazioni proposte da questi partiti non sono
necessariamente vere, ma servono a risolvere i problemi del presente ed il
malcontento.
L’esistenza e il successo di questi partiti dimostrano che le caratteristiche principali
dell’Europa di oggi non sono la democrazia e il pluralismo.
Dalla razza all’identità
La cultura diventa così il discriminante. Una cultura concepita come dato biologico,
immutabile. Un recinto nel quale un individuo è condannato a rimanere per il solo
fatto di essere nato in una qualche parte del mondo.
Il razzismo biologico, dava vita a categorie basate sui tratti somatici. Il razzismo
culturale tende a rifiutare ogni contatto con il gruppo discriminato. Il razzismo
biologico tendeva a sottomettere mentre, quello culturale tende ad allontanare, a
separare.
Federico Faloppa: Per un linguaggio non razzista
Lanciare il sasso, nascondere la mano
Il razzismo, in Italia, è considerato causa di stigma sociale. Infatti, nessuno vuole
sentirsi bollare come razzista. Perciò, anche persone che utilizzano spesso frasi o

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gesti razzisti diranno <non sono razzista>, <questo non è razzismo>, <sono solo
realista>. Il parlante, in questo modo, si impedisce di ammettere ciò che pensa.
Le parole per dirlo
Dare una definizione ad un termine non è sempre facile. E non è facile neanche dare
una definizione al termine razzismo.
Il razzismo <classico> veniva chiamato biologico. Infatti, si credeva che le
caratteristiche morali e psicologiche di una persona provenissero dal suo patrimonio
genetico. In più, si credeva che esistessero razze superiori e razze inferiori. Oggi
quest’ideologia è quasi del tutto sparita. Il pensiero razzista ai giorni nostri poggia su
basi sociali e culturali.
Le nuove articolazioni del pensiero razzista tendono a giustificare politiche e
pratiche finalizzate ad escludere determinati gruppi di persone come i migranti o le
minoranze etniche.
Infatti, come già Baker scrisse nel 1981, il nuovo razzismo diffonde l’idea secondo la
quale gruppi di persone portatori di una certa cultura siano incompatibili con la
cultura dominante e siano quindi una minaccia per la sua integrità.
Basta rimuovere la parola?
In Italia, nell’ottobre del 2014, due importarti antropologi chiesero al Presidente
della Repubblica di rimuovere la parola razza dall’articolo 3 della costituzione. È una
proposta che ha le sue ragioni: togliere visibilità al razzismo sradicando la sua base
lessicale. Questa proposta, però, lascia un po’ perplessi.
Certo, la Costituzione dovrebbe conformarsi con le novità sociali, giuridiche e
culturali del tempo. Ma il linguaggio si modifica a partire dall’uso dei parlanti. Nel
linguaggio di oggi, la parola razza non è stata sostituita da nessun altra parola
(gruppo etnico, etnia, tradizione ecc.)
Testo e contesto
Alla fine della seconda guerra mondiale, il termine razza era di uso corrente ed è
proprio per questo motivo che il termine fu utilizzato nella carta costituzionale.
Non bisogna dimenticare che il lessico e la sintassi della Costituzione furono discussi
scrupolosamente. Infatti, la carta costituzionale doveva essere semplice ed
accessibile a tutti. In Italia, in questo periodo, la maggior parte della popolazione era
analfabeta o semianalfabeta e proprio per questo motivo furono scelte frasi limpide
e brevi e vocaboli facilmente comprensibili.
Durante la seduta della prima sottocommissione, un deputato del partito liberale
suggerì di sostituire la parola razza con stirpe che gli sembrava più consona alla
dignità umana. La sua proposta fu però rifiutata poiché il termine razza era stato
inserito all’interno della costituzione proprio per ripudiare la politica razziale del
fascismo.

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Dovere di critica
Sarebbe bene invece lasciarla la parola razza all’interno dell’articolo 3 della
Costituzione così, ogni qualvolta l’articolo viene letto in classe o a casa la
Costituzione ci aiuterebbe a ricordare non solo ciò che accade oggi, ma anche ciò
che è accaduto ieri, e a discuterne.
Invece di eliminare la parola razza dalla Costituzione sarebbe molto più produttivo
se gli studiosi cercassero di capire perché anche in assenza di razze umane, il
razzismo non è scomparso.
Oggi, ad esempio, insulti razzisti appaiono anche sul web e soprattutto sui social
network. Davvero la libertà di espressione significa poter insultare facendo ricorso
ad un vocabolario razzista persone con colore diverso della pelle, malati e stranieri?
L’ascesa dello hate speech
Molti commenti o testi offensivi e razzisti sul web, rimangono visibili nonostante il
loro contenuto violento. Proprio per questo motivo, l’Associazione Carta Bianca di
Roma ha lanciato una campagna contro lo Hate speech proprio per far rimuovere
dai siti internet commenti razzisti o violenti.
Lo hate speech sta ad indicare delle espressioni la cui funzione è quella di esprimere
intolleranza e odio verso una persona o un gruppo di persone.
Ormai, le persone attive sui social network sono milioni e milioni e proprio per
questo motivo e difficilissimo controllare la qualità di ciò che gli utenti pubblicano
ogni giorno. Nonostante ciò, alcuni social network come YouTube vietano
esplicitamente lo hate speech, mentre Facebook allarga un po’ le maglie: vieta lo
hate speech con eccezione di messaggi con chiari fini umoristici o satirici.
A noi la scelta (ma che sia consapevole)
La lotta al razzismo passa anche dall’utilizzo critico dei vocaboli. Alcuni vocaboli sono
considerati più offensivi di altri. Vale la pena ricordare l’esempio del paradigma
negro-nero-di colore. Fino agli anni Settanta questi tre termini sono stati usati come
sinonimi. Il termine negro, però, era quello più utilizzato in quanto identificava una
razza, la razza negra. Nonostante ciò, il termine veniva usato senza creare scandalo.
All’inizio degli anni Settanta, in seguito alle lotte nei neri americani, alcuni traduttori
cominciarono ad utilizzare il termine neri al posto di negri perché più fedele
all’americano black. Cominciò a diffondersi anche il termine di colore. Nonostante
ciò, negli anni Ottanta il termine negro non provocava scandalo.
Qualcosa cambiò negli anni Novanta quando importammo dall’Inghilterra il dibattito
sul politicamente corretto e cominciammo a capire che alcuni vocaboli sono più
offensivi di altri.
Oggi, il termine negro è avvertito come discriminate e si tende a preferire il termine
nero.

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Buonismo e politicamente corretto


Sul politicamente corretto si è scritto e letto molto. Meno si è analizzato il termine
buonismo. Molti ricorderanno ancora di quell’articolo uscito su <Il Giornale> il
giorno successivo ad una delle più gravi stragi in mare di sempre, quella di
Lampedusa: “Tragedia dell’immigrazione. Trecento morti di buonismo”.
Il termine buonismo si affermò intorno alla metà degli anni Novanta. All’epoca
indicava idee di sinistra ritenute dalla destra ipocrite in relazione ai fenomeni
migratori. Alla fine degli anni Novanta, il Vocabolario Treccani diede una definizione
di buonismo: < ostentazione di buoni sentimenti, di tolleranza, di benevolenza.>
Oggi, il buonista è colui che ha idee non conservatrici e non violente. Oggi il termine
è dispregiativo.
In questi anni si assiste ad un abuso del termine “buonista”. Infatti, soprattutto per
quanto riguarda il problema dell’immigrazione, chiunque dimostri un minimo di
apertura e chiunque sviluppi qualche proposta non militaresca o poliziesca viene
accusato di essere un buonista.
Ma non è buonismo chiedere corridoi umanitari, chiedere la cittadinanza italiana per
chi è nato e cresciuto in Italia e denunciare le condizioni insostenibili dei campi rom.
Si tratta di chiedere che la legge sia uguale per tutti e di pretendere il rispetto dei
diritti umani. Non è buonismo chiedere che uno stato democratico protegga i più
deboli.
Purtroppo, oggi, i cosiddetti “buonisti” sono bersaglio di chi non cerca di
confrontarsi ma di zittire l’altro per oscurarne le proposte, insultandolo.
Osservare, smontare, rielaborare
Imparare ad osservare i testi, capire l’informazione che veicolano e se la fonte è
affidabile oppure no dovrebbe far parte del bagaglio di qualsiasi cittadino
mediamente informato e che sia provvisto di tessera elettorale.
Nel 2014 fu pubblicato sulla Repubblica un articolo intitolato: “Il rom non esiste
torniamo a chiamarli zingari”. Che fastidio dava all’autore, nel 2014, che si usasse il
termine rom al posto di zingaro? C’era forse qualche problema legato alla
linguistica? No. Inutile porre l’accento su questo tema, semmai l’accento dovrebbe
porsi su altri problemi come gli atti di razzismo che ogni giorno i rom sono costretti a
subire come ci ricorda la cronaca (esponenti di Forza Nuova che impedirono ad
alcuni bambini rom di frequentare un asilo a Roma). L’emergenza, quindi esiste ma è
sociale e anche comunicativa: i mezzi di comunicazione dovrebbero dare
un’informazione equilibrata e priva finalmente di stereotipi.
CLELIA BARTOLI: CONCENTRARE, SEGREGARE, ASSISTERE
Sistema razzismo

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Il razzismo è una strategia sociale. Il club della <razza superiore>, che gode di diritti e
privilegi cerca in tutti i modi di continuare a mantenere la propria posizione sociale.
E a tale scopo, non è necessaria la violenza bruta. Occorre piuttosto una struttura
che, senza far rumore, legittimi il divario tra la “razza superiore” e quella inferiore.
Per illustrare le dinamiche sociali all’interno delle quali si sviluppa il razzismo,
l’autrice parte da un fatto di cronaca. Nel 2014, a Tor Sapienza, i residenti
attaccarono un centro di accoglienza per minori non accompagnati creando
numerosi scontri, incendi e proteste contro i giovani profughi e contro gli abitanti
del vicino campo rom. Secondo l’opinione degli abitanti della borgata, tutti i mali di
Tor Sapienza e dell’Italia in generale, deriverebbero dagli stranieri che minacciano la
sicurezza e portano degrado. Per capire davvero come stanno le cose, però, bisogna
ricostruire la storia.
Tor Sapienza nasce nel 1923. Negli anni Sessanta, anni del boom economico, nella
borgata nascono numerosi complessi industriali e così Tor Sapienza diventa un
quartiere abitato da operai e soprattutto da immigrati provenienti dal Sud. La
borgata è ancora una realtà dignitosa, dove si lavora, si vive e si ci svaga. I problemi
iniziano con la crisi petrolifera del ’73. Molte fabbriche chiudono e così, Tor Sapienza
perde i suoi abitanti, si spopola.
Così, imprese edili con pochissimi scrupoli iniziarono a costruire in questa zona
anonimi casermoni di cemento, squallide torri dormitori erette con materiali
scadenti. Questi casermoni saranno abitati dai baraccati e dai poveri. Così, in poco
tempo, è stato risolto il problema abitativo di molte persone creando, però, un vero
e proprio disastro sociale. È stata infatti applicata la cosiddetta “formula ghetto”. Il
povero, inserito in un ambiente degradato sarà destinato alla marginalità. Infatti, in
questi luoghi mancano negozi, uffici, trasporti che collegano al resto della città e il
buio delle strade e la mancanza di controllo favorisce la delinquenza.
Accantonare i poveri in luoghi degradati e periferici crea l’illusione che la città si sia
liberata dal degrado e dal pericolo.
Oggi, come accadde allora, si continua a segregare nelle periferie disagiate non solo i
nostri poveri, ma anche gli immigrati e le minoranze creando ghetti nei ghetti e
creando una vera e propria guerra tra poveri.
Il sistema di accoglienza italiano, la fabbrica della marginalità
Vediamo ora qual è il sistema di accoglienza degli immigrati in Italia.
Come mai molti degli immigrati accolti nei centri sono arrivati con dei barconi e non
con un comodo aereo, evitando di rischiare la pelle?
Il motivo è che, quando un siriano, nigeriano o un qualsiasi altro cittadino di uno
Stato dal quale provengono la maggior parte dei profughi si reca all’ambasciata di un
paese europeo per chiedere un visto, questo gli viene negato.

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Così, chi cerca di scappare da guerre e persecuzioni non ha altra scelta che rivolgersi
alla criminalità organizzata e affrontare lunghi viaggi attraversando il deserto e poi il
mare e riportando numerosi traumi sia fisici che psicologici.
Chi è abbastanza fortunato da essere soccorso in mare, portato in salvo e accolto da
un paese europeo, avrà anche il visto. Quel famoso visto che poteva essere dato sin
dall’inizio evitando stragi, morti, lunghi viaggi, traumi, ferite, evitando di far
arricchire le mafie ed evitando i finanziamenti per i soccorsi in mare.
Inoltre, una persona che arriva fisicamente e psicologicamente integra in un paese e
che non ha dovuto bruciare tutti i suoi risparmi per pagare le mafie per compiere il
viaggio, non ha bisogno di essere assistita anzi, con il suo piccolo gruzzolo potrà
portare un beneficio all’economia del paese ospitante.
Parliamo ora delle strutture che si occupano dell’accoglienza dei migranti in Italia.
L’impianto dei centri di accoglienza presenta tre cruciali criticità: tempi, luoghi e
controlli.
a) I tempi: i tempi di permanenza descritti dalla legge sono diversi per ogni
tipologia di centro d’accoglienza. In un Cara (centro per coloro che presentano
una richiesta d’asilo e aspettano di essere esaminati da una commissione) la
permanenza massima dovrebbe essere di un mese ma finisce per variare da
due mesi a quattro anni. L’immigrato è sfinito e stanco della situazione. Infatti,
egli vorrebbe immediatamente guadagnare qualcosa per aiutare la famiglia o
semplicemente per pagare i suoi debiti. Invece, si ritrova in un limbo senza via
di uscita. Lo stato italiano, inoltre, gli vieta di lavorare per almeno sei mesi.
b) I controlli: in alcune strutture non sono consegnate né lenzuola, né abiti, il
cibo scarseggia come anche i servizi igienici, manca l’acqua calda e il
riscaldamento. Manca la mediazione linguistica, i corsi di italiano e l’assistenza
legale, psicologica e sanitaria. Insomma, si cerca in tutti i modi di
massimizzare i profitti senza badare ai bisogni dei profughi. Infatti, le
dinamiche corruttive non mancano poiché è assai appetibile per mafiosi ed
imprenditori accaparrarsi denaro pubblico con facilità.
c) I luoghi: il problema sta soprattutto nell’ubicazione di questi centri. Infatti, essi
sorgono quasi sempre il luoghi ostili, condannando gli ospiti
all’emarginazione. I centri sono distanti dai luoghi abitati e sono posizionati in
luoghi economicamente depressi dove trovare un lavoro è impossibile.
La guerra tra poveri e la <<pax>> dei ricchi
Il discorso che si sente spesso pronunciare da comuni cittadini è: non possiamo
permetterci di spendere tanto denaro per gli stranieri quando tanti italiani sono
senza lavoro e senza prospettive.

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Ma perché i cittadini pensano che l’unica soluzione per risolvere i problemi degli
italiani sia risparmiare sugli immigrati bisognosi di aiuto?
Il sistema di accoglienza italiano è popolato da imprenditori cinici, associazioni e
cooperative no profit che in realtà sono approfittatrici e da amministratori
negligenti e corrotti.
Questo gruppo di potenti più che ai bisogni delle persone in difficoltà, pensa ad
arricchirsi.
Eppure, i cittadini italiani faticano ad identificare come responsabili questo
gruppo di potenti e queste associazioni e tendono a riversare la propria rabbia
sugli immigrati che non hanno nessuna responsabilità.
In questo contesto, la retorica razzista che identifica il male nello straniero
distrae l’opinione pubblica dai veri problemi. Così, chi broglia e alimenta le
ingiustizie continua ad agire indisturbato.
In sintesi, quella che appare una guerra tra poveri è, in realtà, una guerra ai
poveri.
Peccato che gli effetti dell’esclusione sociale non riguardano solo gli esclusi ma,
alla lunga, tutti ne pagano le conseguenze.
Se una maggioranza non cresce economicamente, il suo disagio si ripercuote
sulla maggioranza. In che modo? L’emarginazione e la povertà comportano
l’esposizione a malattie fisiche e mentali che richiedono una maggiore spesa
sociale. Inoltre, l’emarginazione e la povertà favoriscono lo sfruttamento per
quanto riguarda il lavoro.
Pertanto, per preoccuparsi del proprio benessere, occorre anche preoccuparsi
del benessere degli altri.

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