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Il seme dell'intolleranza
Il seme dell’intolleranza
CAPITOLO 1: LA CONQUISTA DI GRANADA
Uno degli avvenimenti più importanti nella storia della Spagna fu, senza dubbio, la
conquista di Granada da parte dell’esercito cristiano che avvenne nel gennaio del
1492.
Ma a Granada, nello stesso periodo, avvennero altre due cose importanti.
Bisogna ricordare che la regina Isabella decise di finanziare il progetto di Cristoforo
Colombo il quale armerà tre caravelle e andrà in cerca di una via delle Indie
alternativa a quella controllata dal regno del Portogallo.
Inoltre, il 31 marzo, sempre a Granada, fu firmato l’editto reale di espulsione degli
ebrei.
Tale editto ebbe delle grosse conseguenze. Infatti, bisogna ricordare che in Spagna
gli ebrei avevano delle radici molto forti e con loro veniva meno una intera rete
istituzionale come scuole, luoghi di culto e cimiteri. Insieme agli ebrei, spariva anche
il pluralismo culturale e religioso del paese.
C’erano due strade per gli ebrei che abitavano in Spagna: chi decideva di restare
fedele alla propria religione era costretto all’esilio, chi invece decideva di restare in
Spagna era costretto alla conversione al cristianesimo.
In questo periodo tre grandi processi storici presero piede in Europa: il colonialismo,
l’intolleranza religiosa e l’antisemitismo.
Per molto tempo la vicenda della presa di Granada e della cacciata degli ebrei passò
in secondo piano. Infatti, la vera vicenda storica da ricordare fu considerata la
scoperta dell’America.
Adam Smith sottolineò la grandezza di questa impresa affermando che la scoperta
dell’America e il passaggio verso le Indie Orientali furono i due più grandi
avvenimenti della storia dell’umanità.
Molti altri però, come Bartolomè de las Casas, sottolinearono la crudeltà
dell’espansione europea.
Iniziò quindi a svilupparsi anche un giudizio negativo sui secoli dell’età moderna.
Tale negatività si ampliò durante il secolo scorso a causa delle due guerre mondiali e
dello sterminio sistematico di interi gruppi di persone (Shoa).
Così temi come il razzismo, l’intolleranza religiosa e l’oppressione coloniale hanno
preso un posto centrale nella ricerca storica.
La ricerca storica si è però concentrata maggiormente sui secoli della storia
contemporanea, lasciando da parte l’epoca dell’Inquisizione e delle esplorazioni
oceaniche.
Tra il passato e il presente c’è, però, un rapporto molto stretto.
Spagna l’ondata di violenze crebbe sempre di più fino a sfociare nel 1391 in un
grande massacro, con migliaia di morti e decine di migliaia di battesimi forzati. Si
verificò la nascita dei così detti cristiani nuovi.
La figura del converso fu circondata dal dubbio: era vera la sua conversione?
In questo periodo in Spagna si diffuse anche l’idea secondo la quale tra cristiani ed
ebrei c’era una differenza di sangue.
Nel 1449 vennero emanati gli statuti di Toledo sulla limpieza de sangre. Gli ebrei e i
loro discendenti vennero esclusi dalle cariche istituzionali. Il sangue degli ebrei
venne considerato infetto, capace di trasmettere la perfidia e l’inclinazione al
tradimento.
La tesi della differenza di sangue tra ebrei e cristiani fu divulgata dal francescano
Espina, il quale credeva che l’ebreo fosse una persona malvagia e incline al
tradimento. Egli inoltre credeva che gli ebrei non potessero cambiare davvero,
neanche con la conversione. Così, secondo lui, tutti i convertiti dovevano essere
esclusi dai corpi istituzionali di maggior potere della società spagnola.
Contro la minaccia dei giudeoconversi, Espina propose di ricorrere all’Inquisizione.
Da quel momento in poi l’istituzione dell’Inquisizione cambiò radicalmente. Infatti,
la tortura era concessa durante i processi soltanto in presenza di una prova. Molte
volte, però, la violenza e la tortura furono utilizzate contro ebrei o conversi anche in
assenza di prove.
L’uso della forza per diffondere la parola di Dio e salvare le anime non era
contemplata dal Vangelo, ma nonostante ciò fu legittimata dal papato ed in
particolare da Innocenzo III il quale affermò che i sacramenti operavano
efficacemente in coloro che in un modo o nell’altro li accettavano.
Nel 1215 il Concilio Lateranense IV, affermò che l’ebreo era malvagio e che
bisognava fare in modo che i conversi abbandonassero le pratiche dell’ebraismo.
Infatti, se si sospettava che i conversi fossero tornati alla loro religione precedente
allora bisognava procedere attraverso l’inquisizione.
L’Inquisizione medievale, come abbiamo già visto, era controllata dai francescani e
dai domenicani. Gli ebrei in quanto tali non erano soggetti alla giurisdizione
dell’inquisizione poiché essa avrebbe dovuto occuparsi soltanto della fede dei
battezzati. Nonostante ciò, il tribunale dell’Inquisizione si occupò anche di ebrei ed
infedeli.
Essa si occupò soprattutto della categoria dei conversi. Infatti, tutti gli aspetti della
vita sociale dei conversi dovevano essere attentamente osservati per cercare di
capire se la conversione era reale oppure se il converso era rimasto fedele all’antica
religione.
Dobbiamo dunque soffermarci sulle trasformazioni del meccanismo inquisitoriale
avvenute nella Spagna della fine del Quattrocento.
Sul fronte interno il Re si concentrò su una forte propaganda. Nacque il mito della
hispanidad come appartenenza ad un corpo unito da una religione militare e
conquistatrice, la quale aveva ricevuto da Dio il compito di combattere ebrei e
infedeli. In un territorio vasto ed occupato da varie popolazioni con varie lingue e
culture, la nazione spagnola si compattò grazie all’individuazione di un nemico
pubblico.
Nel corso di soli dieci anni l’Inquisizione si estese anche in Castiglia, con ben ventitrè
sedi.
Dietro il funzionamento di questa macchina c’era Torquemada. Fu Torquemada a
decidere le regole per il funzionamento del nuovo tribunale.
Nella sessione convocata a Siviglia del 1484 si presero delle decisioni molto
importanti per quanto riguarda il funzionamento della nuova istituzione.
I colpevoli di eresia e di ritorno ai riti ebrei avevano a disposizione un periodo di
trenta giorni dopo il quale avrebbero dovuto confessarsi e chiedere di essere
riconciliati. Se lo facevano, sarebbero stati accolti nel seno della Chiesa senza dover
scontare altre pene se non un’abiura pubblica.
Nel caso invece degli eretici catturati e imprigionati, il loro pentimento non avrebbe
impedito la perdita dei loro beni che venivano confiscati a beneficio del fisco reale.
Si stabilirono poi le regole: come garantire il segreto ai denunzianti, come svolgere i
processi e gli interrogatori e come ricorrere alla tortura.
L’inquisizione era controllata totalmente dalla monarchia.
Nel 1481 il Re chiese a Sisto IV di istituire l’inquisizione anche ad Aragona e a
Valencia. L’Inquisizione fu anche qui istituita. L’uomo incaricato di occuparsene fu,
ancora una volta, Torquemada.
In Italia, a Genova, Ercole I d’Este intuì l’utilità della presenza ebraica per stimolare
l’economia del suo piccolo stato e così fece giungere una lettera ai rifugiati nel porto
di Genova dicendo che sarebbe stato felice di accoglierli con le loro famiglie.
Il curato Bernaldez descrisse attentamente tutto ciò che accadde allora e soprattutto
la parte che riguarda la partenza per l’esilio degli ebrei.
Egli parla di uno sciame umano che si mise in movimento sulle strade con tutti i
mezzi possibili dopo aver liquidato in fretta e furia tutti i propri beni a prezzi molto
convenienti per i cristiani, visto che gli ebrei non potevano portare nulla con loro, né
monete né oro, né beni immobili.
La cronaca di Bernaldez mette in evidenza il fatto che la corona esercitava pressione
sugli ebrei affinché questi si battezzassero. In effetti, il risultato non mancò e in molti
decisero, durante il viaggio d’esilio, di tornare indietro e di battezzarsi.
La decisione di Ferdinando d’Aragona, vista con gli occhi di un contemporaneo,
potrebbe apparire un evento assolutamente imprevisto.
Infatti, prima del 1492, la politica reale cercò sempre di sedare i conflitti e di
garantire la protezione delle minoranze e proprio per questo motivo si interpretò in
un primo momento quell’editto come una manovra per estorcere denaro.
9. EREDITA’ LUNGHE
Gli stessi ingredienti dell’antisemitismo iberico si ripresentarono in Europa a partire
dalla fine del Settecento.
Infatti, la comparazione storica fra i due periodi, fa emergere analogie di modelli e di
percorsi ma anche una certa continuità. Questo è dovuto all’eredità culturale e
religiosa di un discorso cristiano contro gli ebrei mai completamente sconfessato.
Le somiglianze nelle vicende accadute nei due periodi storici sono quindi dovuti ad
una permanenza di idee e di temi, soprattutto quelli elaborati dal cristianesimo.
La diffusione delle idee razziste in Brasile è frutto dello stretto rapporto che il paese
aveva con l’Europa e soprattutto con la Francia.
Anche in Brasile, come nel resto d’Europa, c’era la voglia di sviluppare uno stato
moderno.
Le èlites intellettuali e politiche brasiliane sostenevano che fosse impossibile
formare una moderna nazione brasiliana proprio perché formata da africani e
meticci.
Per uscire da questa situazione venne elaborata la teoria del branqueamento in cui
si sosteneva che grazie ad una sempre maggior presenza di elementi bianchi e grazie
al processo di miscigenacao, i neri, proprio perché inferiori, sarebbero gradualmente
spariti.
2. Le teorie sulla razza e a loro interpretazione in Brasile
Dopo la Rivoluzione del 1789, in Europa si affermarono valori quali la libertà e
l’eguaglianza. Nello stesso periodo, però, si fecero strada anche lo sfruttamento e la
dominazione attraverso l’industrializzazione e la colonizzazione.
Abbiamo quindi una contraddizione molto forte tra valori egualitari trasmessi dalla
Rivoluzione francese e sfruttamento sistematico. Proprio per questa ragione si
sviluppò il determinismo biologico, che è il cuore dell’ideologia razzista: per
giustificare lo sfruttamento e la dominazione. Inizia anche a svilupparsi un’identità
fra tratti somatici e tratti sociologici.
In questo periodo il termine razza inizia ad essere molto utilizzato in Europa.
Anche in Brasile nel corso del XIX secolo il termine razza nella sua nuova accezione
biologica inizia ad essere molto diffuso.
In Brasile, l’abolizione della schiavitù e la nascita della Repubblica segnano la nascita
di una società fondata sull’eguaglianza, in teoria. In pratica, però, non tutti i cittadini
erano trattati in modo eguale ed è proprio questa contraddizione che spinge a
cercare una giustificazione che sarà, appunto, il razzismo nella sua accezione
biologica.
3. Omogeneità razziale e politiche d’immigrazione alla fine del XIX secolo
Uno dei temi più discussi dalla politica brasiliana alla fine del XIX secolo riguardava la
regolazione del flusso migratorio.
Infatti, si credeva che i contadini brasiliani, neri e meticci, non fossero in grado di
portare avanti un’agricoltura moderna.
Lo sviluppo dell’immigrazione in questo periodo è dovuta principalmente alla
domanda di mano d’opera in seguito all’abolizione della schiavitù.
Il governo brasiliano, infatti, anziché provare ad inserire gli ex-schiavi nel nuovo
sistema fondato sul lavoro salariato, ha preferito cercare altrove la manodopera
necessaria alla crescita economica e sociale del paese.
Come abbiamo già accennato, egli si sofferma sulla famiglia patriarcale e inoltre, egli
sostiene che la casa del padrone sia il nucleo della società agraria.
È all’interno di questo spazio che vengono descritte le relazioni tra portoghesi,
indigeni, africani, padroni e schiavi. Egli volle dimostrare il carattere umano e
familiare del rapporto tra padrone e schiavo. Secondo Freyre, uno degli elementi
che ha caratterizzato il rapporto tra padroni e schiavi in Brasile è proprio questa
doppia dimensione di intimità e sfruttamento.
5. L’assenza di pregiudizi raziali tra i portoghesi
Freyre descrive la cultura e le tradizioni sia dei portoghesi che degli indigeni e degli
africani e sottolinea che la cultura portoghese conserva caratteristiche africane ed
indigene. Freyre indica gli elementi positivi delle culture non europee che fino ad
allora erano state considerate inferiori e negative.
Per quanto riguarda i portoghesi, egli muove alcune critiche ai colonizzatori e mette
in luce la crudeltà e la pigrizia dei portoghesi.
Inoltre, Freyre afferma che i portoghesi arrivarono in Brasile senza donne, quindi di
solito avevano delle indigene come partners o come spose. L’autore spiega che il
portoghese era molto attratto dalle donne di altri paesi e inoltre spiega che, questa
capacità dei portoghesi di creare una fusione, di adattarsi ed accogliere le differenze
è ciò che caratterizza la civiltà loso-tropicale, e la rende superiore ad altre civiltà.
Freyre dà molta rilevanza alla mancanza di pregiudizi razziali tra i portoghesi.
6. il meticciato nelle relazioni sessuali
Freyre afferma che le relazioni sessuali tra uomini portoghesi e donne indigene e
africane sono “naturali”.
Al contrario, sembra invece che nel meticciato la sessualità appartenga alla sfera
dei rapporti sociali. Non solo perché è legata ad essi, ma anche perché non ci può
essere meticciato senza procreazione.
CAPITOLO 3: TRA DEMOCRAZIA RAZZIALE E “SCOPERTA DEL RAZZISMO”
1. L’Europa guarda al Brasile
Al tempo, come abbiamo visto, era radicata l’idea secondo la quale in Brasile non
esistesse in razzismo. Cercheremo di capire, quindi, come viene scoperto il
“razzismo” in un paese che ha fatto dell’assenza del razzismo il fulcro della sua
identità nazionale.
Il Brasile veniva considerato un modello positivo per quanto riguarda la convivenza
tra razze. Infatti, con l’avvento delle politiche razziste in Europa, vedremo come
l’Europa guarderà al Brasile cercando modelli positivi di convivenza tra razze in un
momento così difficile come fu quello della Shoa.
2. Il progetto Unesco
Nel 1950 fu elaborato il Progetto Unesco. Questo progetto ebbe come obiettivo
quello di cercare di capire i meccanismi di razzismo per combatterlo.
L’Unesco scelse proprio il Brasile come campo di ricerche per studiare quali fattori
contribuissero a creare un ambiente privo di discriminazione razziale.
In un primo momento, fu scelto il luogo di Salvador da Bahia, città in cui la presenza
di discendenti africani era ed è molto forte.
Il progetto fu poi esteso anche a Sao Paulo e Rio de Janeiro. Gli studiosi presero in
considerazione sia zone con un’economia rurale che zone caratterizzate da un
processo di industrializzazione.
I risultati della ricerca furono veramente interessanti. Infatti, questi mostravano
che in Brasile, il pregiudizio razziale e di colore era presente, esisteva.
Nel nord e nel nord est del Brasile, il pregiudizio razziale era meno presente. Qui la
principale differenza tra gli individui era la differenza di classe: le persone di origine
africana erano discriminate in quanto povere, non in quanto nere. Nelle grandi città
del sud-est, al contrario, il pregiudizio razziale era radicato e forte.
Quindi, il razzismo in Brasile esisteva e come.
Fernandes fu il primo ad affermare che la democrazia razziale fosse soltanto un
mito. Egli credeva infatti che il pregiudizio di colore non fosse dovuto alla classe,
ma alla razza.
3. Il continuum dei colori
Il progetto Unesco cercò anche di capire come funzionava il sistema di
classificazione raziale o dei colori in Brasile.
Ci si chiedeva: come si definisce chi è bianco e chi è nero in un paese che valorizza
la mescolanza?
Gli studi si sono centrati anche sul paragone con il sistema statunitense di
classificazione razziale, conosciuto anche come sistema bipolare (bianchi vs neri).
In Brasile, il termine colore non rimandava soltanto alla pigmentazione della pelle,
ma anche ad alcuni tratti del viso: naso, labbra e tessitura dei capelli. Il sistema
classificatorio brasiliano non aveva delle regole chiare.
Per definire il sistema di classificazione razziale brasiliano, gli studiosi utilizzano il
termine continuum. Per comprendere come funziona questo sistema, prenderemo
in come esempio i dati di una ricerca condotta in una scuola media pubblica di Rio
de Janeiro. Da quest’indagine risulta: la facilità con cui gli studenti utilizzavano più
termine di colore per auto classificarsi, e la possibilità di definire i loro parenti
stretti con colori diversi dal proprio.
Il continuum funziona negando l’opposizione bianco/nero, ma, in ogni caso, il polo
nero viene considerato quello negativo.
1. Classificazioni razziali
A partire dagli anni Novanta, il movimento negro (pluralità di organizzazioni non
governative impegnate nella lotta contro il razzismo) fu importantissimo.
La classificazione razziale diventa elemento centrale nella lotta al razzismo del
movimento negro.
Prima di esaminare le politiche del movimento negro che riguardano la
classificazione razziale, è bene spiegare come funziona essa a livello istituzionale.
In Brasile, il censimento include la domanda relativa al colore della pelle. Le
categorie attualmente in uso sono: branco, preto, pardo, amarelo e indigeno. Il
movimento negro afferma che tale classificazione non è affidabile in quanto non
tiene presente la soggettività nella percezione del colore di chi compie l’auto
classificazione.
Il movimento negro afferma, infatti, che la popolazione di origine africana scelga un
colore più chiaro al momento dell’auto classificazione e questo porterebbe ad una
sottostima del numero dei discendenti africani in Brasile.
Il dibattito riprese in occasione dell’inchiesta PNAD. Durante questa inchiesta la
domanda sul colore venne posta in due forme diverse: una aperta, in cui la persona
poteva definirsi liberamente, e una chiusa, nella quale la persona doveva
identificarsi in uno dei colori proposti dall’auto classificazione del censimento.
I risultati dell’inchiesta relativi alla prima domanda mostrarono che, i colori scelti
maggiormente furono bianco e moreno. Ciò mostra che nonostante i brasiliani
avessero una vasta gamma di termini per indicare il colore della pelle, la
maggioranza utilizzava soltanto alcuni di essi.
Silva giunge dunque alla conclusione che i dati ufficiali sul colore sono affidabili.
Negli ultimi anni, il movimento negro impiega la classificazione bianco/negro e lo fa
principalmente per creare una sorta di legame di identità tra tutti coloro che hanno
origini africane. Anche i media utilizzano sempre più spesso la classificazione
bianco/negro.
2. Il movimento negro e le politiche per la promozione dell’uguaglianza sociale
Un primo passo per quanto riguarda la lotta al razzismo è rappresentato dalla
nuova costituzione approvata nel 1988. In essa il razzismo viene definito un crimine
soggetto alla pena di reclusione. Inoltre, in questi anni, sempre più organizzazioni
sociali si impegnarono per rendere consapevole la popolazione brasiliana
dell’esistenza del razzismo in diversi ambiti della vita sociale come il mercato del
lavoro, la sanità, l’istruzione, il cinema o la tv.
Nel 1955 il movimento negro organizzò una marcia a Brasilia per chiedere
all’esecutivo di realizzare pienamente la democrazia e di eliminare le differenze tra
bianchi e neri. L’allora presidente della Repubblica, ammette l’esistenza del
4. Le critiche alla politica delle quote universitarie per negros: la difesa delle
democrazia razziale
La principale critica mossa alla politica delle quote è quella di aver creato un
principio formale di differenziazione raziale laddove prima non c’era.
Gli autori che vanno contro la politica delle quote universitarie riconoscono
l’esistenza del razzismo ma sono ancora legate alle ideologie di Freyre e alla
valorizzazione della mescolanza.
Maggie e Fry sono due antropologi che sostengono questa ideologia. Essi
difendono la democrazia razziale e sostengono che i neri vengano esclusi e
discriminati in quanto poveri e non in quanto neri.
Ci sono state molte reazioni negative sull’argomento della politica delle quote
universitarie. Secondo Mendes Pereira, questo accade poiché, in Brasile c’è stata
una storica tendenza ad omettere l’esistenza del razzismo. Tale tendenza viene
invertita con gli studi dei dati statistici provocando un vero e proprio choc nei
cittadini brasiliani.
Il panorama sociale brasiliano è infatti contraddittorio: sul piano dell’identità
nazionale viene valorizzata la mescolanza, ma in alcuni contesti, come quando deve
essere scelto un candidato per un lavoro, ad esempio, c’è una forte discriminazione
in base al colore.
5. Razza e classe
Esiste un altro tipo di critica mossa al sistema delle quote universitarie. Secondo il
pensiero di alcuni ricercatori, il vero problema del Brasile starebbe nelle disparità
socio economiche e nella povertà. Essi sostengono che la politica delle quote
esclude i bianchi poveri. I sostenitori di questa teoria sono a favore di una politica
che tocchi la classe popolare e i poveri come un tutto.
Il problema, secondo i ricercatori, è che con la politica delle quote si è creata una
divisione razziale laddove potrebbe non esserci visto che esistono solo poveri.
6. L’accusa di razzialismo
Affrontiamo ora l’ultima critica mossa al sistema delle quote universitarie. Secondo
alcuni critici, la politica del movimento negro che si basa sulla costruzione di
un’identità negra, implicherebbe il recupero della nozione di razza.
Le quote universitarie, secondo i critici, non fanno altro che rafforzare la credenza
dell’esistenza delle razze invece di combatterla.
CONTRO IL RAZZISMO
Guido Barbujani: invece della razza
Nel 1954 negli Stati Uniti si vive ancora in regime di segregazione raziale. I cittadini
neri non possono frequentare le stesse scuole dei bianchi, gli stessi cinema,
ristoranti, sale d’aspetto e toilettes. Inoltre, in alcuni stati il matrimonio misto fra
bianchi e neri è reato. Così sanciscono le cosiddette Jim Crow Laws.
Nel maggio del 1954 qualcosa comincia a cambiare. Viene abolita la segregazione
scolastica e, inoltre, un anno dopo una donna rifiuterà di cedere il posto ad un uomo
bianco in un autobus dando così la spinta all’abolizione delle Jim Crow Laws.
Sessant’anni dopo, nel 2014, Wade presenta il suo nuovo libro. In questo libro, egli
spiega che considerazioni politiche o sociali ci spingono a combattere il razzismo ma
che la genetica ci riporta con i piedi per terra e ci costringe a riflettere sulle profonde
differenze che esistono fra gli esseri umani, le quali sono inscritte nel nostro DNA e
sono frutto della nostra appartenenza a razze diverse.
Ovviamente, la teoria di Wade non può essere veritiera. Infatti, genetisti di tutto il
mondo hanno smentito la sua teoria. Per dire che l’umanità è divisa in razze non
basta la banale constatazione che siamo diversi, ma tali differenze dovrebbero
suddividersi in gruppi omogenei. Ciò non accade.
Cos’è una razza biologica?
È possibile affermare che: in tutte le specie in cui ci sono chiare differenze,
anatomiche o genetiche, sufficienti per attribuire ogni individuo o quasi a un gruppo
ben definito, si può parlare di razze biologiche.
Ogni individuo o quasi non è un concetto un po’ vago?
Linneo, il fondatore della tassonomia, pensava che le diverse specie fossero state
create così come e vediamo adesso. Il tempo ha smentito la sua teoria.
In effetti, già con Darwin e Lamarck le specie vengono concepite come entità
dinamiche, non immobili, che si evolvono nel corso del tempo.
È chiaro quindi che le specie si formano con l’andare delle generazioni.
L’evoluzione modifica gli organismi. Quindi, quella che in un certo momento è una
singola specie, potrebbe suddividersi in due gruppi che più in là andranno a formare
specie diverse. Le razze sono appunto questi gruppi. Due o più popolazioni della
stessa specie, avviate sulla strada che potrebbe portarle ad essere specie diverse,
ma non ancora arrivate a destinazione.
Perché emergano delle differenze biologiche tra gruppi di individui è essenziale
l’isolamento: qualche barriera che impedisca l’incrocio fra individui di specie diversa.
Dove ci sono delle barriere naturali, come ad esempio i fiumi, si creano gruppi
distinti che con il tempo costituiranno razze diverse, e, con altro tempo, specie
diverse. Dove, al contrario, queste barriere sono assenti, gli scambi sono più
frequenti e le caratteristiche biologiche degli individui si rimescolano in
continuazione.
E l’uomo, allora?
Su questo punto le opinioni sono molto diverse. Alcuni credono che nell’uomo ci
siano delle vere e proprie razze biologiche. Altri, al contrario, pensano che la razza
sia soltanto una convenzione sociale.
Ma se il tema è così controverso, come mai il concetto di razza è così diffuso?
Il concetto di razza è così radicato anche perché ha origini molto antiche. Già
nell’Atene del V secolo, Aristotele e Pericle, dividevano l’umanità in due razze:
<quelli come noi> e <quelli diversi da noi>, greci e barbari.
Nel settecento, si diffonde l’idea secondo la quale la razza stia nel sangue e che si
trasmetta ai propri figli. Questa ideologia è rimasta indiscussa a lungo.
Infatti, dal settecento ad oggi, ci sono stati molti tentativi di compilare un catalogo
delle razze umane.
Tali cataloghi sono incoerenti, soggettivi e privi di valore scientifico.
Nell’Ottocento si diffonde l’idea secondo la quale per formare uno stato c’era
bisogno di una stessa lingua, di una terra ed anche e soprattutto di una purezza
razziale.
Nel 1963 c’è una svolta: un antropologo americano, Livingston, pubblica un saggio
Sull’inesistenza delle razze. In questo saggio egli spiega che, gli esseri umani non
sono tutti biologicamente uguali, ma che le loro differenze non si conformano alla
definizione di razza. Da quel momento in poi le cose cambiano.
Non tutti accettano subito tale teoria. Dobzhansky, ad esempio, ribadisce che
l’umanità sia suddivisa in razze.
Alla luce dei fatti, Livingstone aveva ragione. A livello di DNA ognuno di noi è uguale
al 99,9% a qualsiasi sconosciuto di qualsiasi continente, mentre le nostre differenze
rappresentano lo 0,01% del totale del genoma.
Il primo a descrivere su scala globale come si distribuiscono le nostre differenze
geniche è stato Lewontin. Lewontin afferma che la nostra percezione che ci siano
grandi differenze tra i gruppi umani è sbagliata. Egli afferma inoltre che la
differenziazione raziale umana ha un effetto distruttivo sulla società e visto che è
stato dimostrato che non ha nessun significato genetico, bisognerebbe abolirla.
Il tempo gli ha dato ragione. Infatti, oggi sappiamo che se prendiamo una ad una le
varianti del nostro DNA e ne studiamo la distribuzione geografica, oltre l’80% è
cosmopolita, cioè presente in tutti i continenti.
Persone con caratteristiche genetiche simili si trovano anche in posti molto lontani.
Il DNA contenuto nelle nostre cellule è un testo vastissimo, sei miliardi e mezzo di
caratteri.
Oggi, è possibile leggere interamente questo testo. I primi a cui è stato letto il
genoma completo sono due famosi genetisti americani e un genetista coreano.
Ma allora come mai Wade continua a sostenere l’esistenza delle razze umane? È
semplice. Gli servono per dimostrare che se certi paesi sono più avanzati degli altri
non è per motivi storici o culturali, ma per una diversa qualità genica. In questo
modo le disuguaglianze economiche e sociali non vanno combattute perché naturali.
Wade fa due esempi. Secondo lui, l’Inghilterra avrebbe fatto per prima la rivoluzione
industriale per ragioni genetiche. Infatti, gli inglese avevano molta voglia di lavorare.
Inoltre, secondo Wade gli ebrei sarebbero più intelligenti di tutti gli altri. Hanno
vinto, infatti, il 32% dei premi Nobel nel XX secolo pure rappresentando solo lo 0,2%
della popolazione. Secondo Wade, non può trattarsi soltanto di eccellenza culturale,
ma deve esserci qualche ragione genetica.
Egli dimentica che, alla fine della Seconda guerra mondiale, quattro ebrei su cinque
risultavano, agli occhi degli psicologi americani, ritardati mentali.
Wade non dimostra ciò che dice, e non ci prova nemmeno. Egli fa parte del filone
del realismo razziale che propone soluzioni semplici a problemi complessi. Il
realismo razziale è antiscientifico.
Queste tesi, anche se puerili e infondate, esercitano un certo fascino. Infatti,
pensare che sia tutto già scritto nei geni ci dà l’impressione di vivere in un modo
facilmente comprensibile. Ma questa non è assolutamente scienza. (Lombroso e la
tendenza criminale misurata in base alla forma del cranio.)
Conclusione: quindi non si può più dire razza?
Razza è una parola ambigua. Le razze biologiche nell’uomo non esistono e nessuno è
in grado di definirle. In più, la storia ci insegna che le divisioni razziali disgregano la
società e creano soprusi. Meglio usare la parola popolazione al posto di razza.
Marco Aime: si dice cultura, si pensa razza.
Come abbiamo visto, molti studiosi nel tempo hanno cercato di calcolare il numero
delle razze umane, senza mai arrivare ad una conclusione soddisfacente e che
mettesse d’accordo tutti. Ben presto, in molti, hanno iniziato a catalogare le razze
dalle inferiori alle superiori, la superiore era ovviamente quella bianca ed
occidentale.
Sarebbe bello poter parlare del concetto di razza al passato, ma purtroppo non è
così. È sufficiente prendere in esame gli insulti lanciati giornalmente contro i rom, gli
immigrati, gli ebrei o i neri. Anche i politici molte volte fanno dichiarazioni intrise di
razzismo. È accaduto, ad esempio, nel 2008 quando il ministro Calderoli ha detto che
esistono etnie più propense al lavoro e altre con maggiore predisposizione alla
delinquenza.
Come abbiamo visto, per molto tempo il razzismo venne considerato biologico. Oggi
il pensiero razzista e le discriminazioni si basano sulle differenze culturali.
La parola tradizione viene utilizzata anche, come abbiamo visto, in ambito politico,
ma con un significato totalmente differente. In politica, l’aggettivo tradizionale
finisce per coincidere con naturale. Perché dove il problema è culturale si può
scegliere, laddove il problema è naturale non c’è possibilità di scelta. Ancora una
volta assistiamo ad un congelamento artificiale di un processo dinamico.
Autoctonia: i partiti xenofobi rivendicano, sempre più frequentemente, un <noi>
fatto di persone che sono nate e cresciute nello stesso posto e che sono figli e nipoti
di persone nate nello stesso posto. Questa ideologia impedisce il confronto con
culture provenienti dall’esterno ed indica una chiusura nei confronti dell’altro.
Secondo questa ideologia, le culture per non contaminarsi non devono mischiarsi.
C’è una somiglianza per quanto riguarda l’ideologia con le leggi razziali emanate dal
governo fascista: “La popolazione italiana è nella maggioranza di origine ariana.
Questa popolazione ariana abita da diversi millenni la nostra penisola. Esiste ormai
una razza italiana e una purissima parentela di sangue che unisce gli italiani di oggi.
Come si vede, il passaggio da autoctonia a razzismo non è così complicato.
Una nuova frontiera
Le nuove categorie dove sfocia il razzismo sono l’etnicità, la religione e il modo di
comportarsi.
Con la postmodernità sono venute meno delle grandi ideologie come l’illuminismo,
il marxismo e l’idealismo e il capitalismo ha preso il sopravvento. In questo vuoto
ideologico si inseriscono partiti con ideologie etnonazionaliste come la lega in Italia
o il Front National in Francia. Le narrazioni proposte da questi partiti non sono
necessariamente vere, ma servono a risolvere i problemi del presente ed il
malcontento.
L’esistenza e il successo di questi partiti dimostrano che le caratteristiche principali
dell’Europa di oggi non sono la democrazia e il pluralismo.
Dalla razza all’identità
La cultura diventa così il discriminante. Una cultura concepita come dato biologico,
immutabile. Un recinto nel quale un individuo è condannato a rimanere per il solo
fatto di essere nato in una qualche parte del mondo.
Il razzismo biologico, dava vita a categorie basate sui tratti somatici. Il razzismo
culturale tende a rifiutare ogni contatto con il gruppo discriminato. Il razzismo
biologico tendeva a sottomettere mentre, quello culturale tende ad allontanare, a
separare.
Federico Faloppa: Per un linguaggio non razzista
Lanciare il sasso, nascondere la mano
Il razzismo, in Italia, è considerato causa di stigma sociale. Infatti, nessuno vuole
sentirsi bollare come razzista. Perciò, anche persone che utilizzano spesso frasi o
gesti razzisti diranno <non sono razzista>, <questo non è razzismo>, <sono solo
realista>. Il parlante, in questo modo, si impedisce di ammettere ciò che pensa.
Le parole per dirlo
Dare una definizione ad un termine non è sempre facile. E non è facile neanche dare
una definizione al termine razzismo.
Il razzismo <classico> veniva chiamato biologico. Infatti, si credeva che le
caratteristiche morali e psicologiche di una persona provenissero dal suo patrimonio
genetico. In più, si credeva che esistessero razze superiori e razze inferiori. Oggi
quest’ideologia è quasi del tutto sparita. Il pensiero razzista ai giorni nostri poggia su
basi sociali e culturali.
Le nuove articolazioni del pensiero razzista tendono a giustificare politiche e
pratiche finalizzate ad escludere determinati gruppi di persone come i migranti o le
minoranze etniche.
Infatti, come già Baker scrisse nel 1981, il nuovo razzismo diffonde l’idea secondo la
quale gruppi di persone portatori di una certa cultura siano incompatibili con la
cultura dominante e siano quindi una minaccia per la sua integrità.
Basta rimuovere la parola?
In Italia, nell’ottobre del 2014, due importarti antropologi chiesero al Presidente
della Repubblica di rimuovere la parola razza dall’articolo 3 della costituzione. È una
proposta che ha le sue ragioni: togliere visibilità al razzismo sradicando la sua base
lessicale. Questa proposta, però, lascia un po’ perplessi.
Certo, la Costituzione dovrebbe conformarsi con le novità sociali, giuridiche e
culturali del tempo. Ma il linguaggio si modifica a partire dall’uso dei parlanti. Nel
linguaggio di oggi, la parola razza non è stata sostituita da nessun altra parola
(gruppo etnico, etnia, tradizione ecc.)
Testo e contesto
Alla fine della seconda guerra mondiale, il termine razza era di uso corrente ed è
proprio per questo motivo che il termine fu utilizzato nella carta costituzionale.
Non bisogna dimenticare che il lessico e la sintassi della Costituzione furono discussi
scrupolosamente. Infatti, la carta costituzionale doveva essere semplice ed
accessibile a tutti. In Italia, in questo periodo, la maggior parte della popolazione era
analfabeta o semianalfabeta e proprio per questo motivo furono scelte frasi limpide
e brevi e vocaboli facilmente comprensibili.
Durante la seduta della prima sottocommissione, un deputato del partito liberale
suggerì di sostituire la parola razza con stirpe che gli sembrava più consona alla
dignità umana. La sua proposta fu però rifiutata poiché il termine razza era stato
inserito all’interno della costituzione proprio per ripudiare la politica razziale del
fascismo.
Dovere di critica
Sarebbe bene invece lasciarla la parola razza all’interno dell’articolo 3 della
Costituzione così, ogni qualvolta l’articolo viene letto in classe o a casa la
Costituzione ci aiuterebbe a ricordare non solo ciò che accade oggi, ma anche ciò
che è accaduto ieri, e a discuterne.
Invece di eliminare la parola razza dalla Costituzione sarebbe molto più produttivo
se gli studiosi cercassero di capire perché anche in assenza di razze umane, il
razzismo non è scomparso.
Oggi, ad esempio, insulti razzisti appaiono anche sul web e soprattutto sui social
network. Davvero la libertà di espressione significa poter insultare facendo ricorso
ad un vocabolario razzista persone con colore diverso della pelle, malati e stranieri?
L’ascesa dello hate speech
Molti commenti o testi offensivi e razzisti sul web, rimangono visibili nonostante il
loro contenuto violento. Proprio per questo motivo, l’Associazione Carta Bianca di
Roma ha lanciato una campagna contro lo Hate speech proprio per far rimuovere
dai siti internet commenti razzisti o violenti.
Lo hate speech sta ad indicare delle espressioni la cui funzione è quella di esprimere
intolleranza e odio verso una persona o un gruppo di persone.
Ormai, le persone attive sui social network sono milioni e milioni e proprio per
questo motivo e difficilissimo controllare la qualità di ciò che gli utenti pubblicano
ogni giorno. Nonostante ciò, alcuni social network come YouTube vietano
esplicitamente lo hate speech, mentre Facebook allarga un po’ le maglie: vieta lo
hate speech con eccezione di messaggi con chiari fini umoristici o satirici.
A noi la scelta (ma che sia consapevole)
La lotta al razzismo passa anche dall’utilizzo critico dei vocaboli. Alcuni vocaboli sono
considerati più offensivi di altri. Vale la pena ricordare l’esempio del paradigma
negro-nero-di colore. Fino agli anni Settanta questi tre termini sono stati usati come
sinonimi. Il termine negro, però, era quello più utilizzato in quanto identificava una
razza, la razza negra. Nonostante ciò, il termine veniva usato senza creare scandalo.
All’inizio degli anni Settanta, in seguito alle lotte nei neri americani, alcuni traduttori
cominciarono ad utilizzare il termine neri al posto di negri perché più fedele
all’americano black. Cominciò a diffondersi anche il termine di colore. Nonostante
ciò, negli anni Ottanta il termine negro non provocava scandalo.
Qualcosa cambiò negli anni Novanta quando importammo dall’Inghilterra il dibattito
sul politicamente corretto e cominciammo a capire che alcuni vocaboli sono più
offensivi di altri.
Oggi, il termine negro è avvertito come discriminate e si tende a preferire il termine
nero.
Il razzismo è una strategia sociale. Il club della <razza superiore>, che gode di diritti e
privilegi cerca in tutti i modi di continuare a mantenere la propria posizione sociale.
E a tale scopo, non è necessaria la violenza bruta. Occorre piuttosto una struttura
che, senza far rumore, legittimi il divario tra la “razza superiore” e quella inferiore.
Per illustrare le dinamiche sociali all’interno delle quali si sviluppa il razzismo,
l’autrice parte da un fatto di cronaca. Nel 2014, a Tor Sapienza, i residenti
attaccarono un centro di accoglienza per minori non accompagnati creando
numerosi scontri, incendi e proteste contro i giovani profughi e contro gli abitanti
del vicino campo rom. Secondo l’opinione degli abitanti della borgata, tutti i mali di
Tor Sapienza e dell’Italia in generale, deriverebbero dagli stranieri che minacciano la
sicurezza e portano degrado. Per capire davvero come stanno le cose, però, bisogna
ricostruire la storia.
Tor Sapienza nasce nel 1923. Negli anni Sessanta, anni del boom economico, nella
borgata nascono numerosi complessi industriali e così Tor Sapienza diventa un
quartiere abitato da operai e soprattutto da immigrati provenienti dal Sud. La
borgata è ancora una realtà dignitosa, dove si lavora, si vive e si ci svaga. I problemi
iniziano con la crisi petrolifera del ’73. Molte fabbriche chiudono e così, Tor Sapienza
perde i suoi abitanti, si spopola.
Così, imprese edili con pochissimi scrupoli iniziarono a costruire in questa zona
anonimi casermoni di cemento, squallide torri dormitori erette con materiali
scadenti. Questi casermoni saranno abitati dai baraccati e dai poveri. Così, in poco
tempo, è stato risolto il problema abitativo di molte persone creando, però, un vero
e proprio disastro sociale. È stata infatti applicata la cosiddetta “formula ghetto”. Il
povero, inserito in un ambiente degradato sarà destinato alla marginalità. Infatti, in
questi luoghi mancano negozi, uffici, trasporti che collegano al resto della città e il
buio delle strade e la mancanza di controllo favorisce la delinquenza.
Accantonare i poveri in luoghi degradati e periferici crea l’illusione che la città si sia
liberata dal degrado e dal pericolo.
Oggi, come accadde allora, si continua a segregare nelle periferie disagiate non solo i
nostri poveri, ma anche gli immigrati e le minoranze creando ghetti nei ghetti e
creando una vera e propria guerra tra poveri.
Il sistema di accoglienza italiano, la fabbrica della marginalità
Vediamo ora qual è il sistema di accoglienza degli immigrati in Italia.
Come mai molti degli immigrati accolti nei centri sono arrivati con dei barconi e non
con un comodo aereo, evitando di rischiare la pelle?
Il motivo è che, quando un siriano, nigeriano o un qualsiasi altro cittadino di uno
Stato dal quale provengono la maggior parte dei profughi si reca all’ambasciata di un
paese europeo per chiedere un visto, questo gli viene negato.
Così, chi cerca di scappare da guerre e persecuzioni non ha altra scelta che rivolgersi
alla criminalità organizzata e affrontare lunghi viaggi attraversando il deserto e poi il
mare e riportando numerosi traumi sia fisici che psicologici.
Chi è abbastanza fortunato da essere soccorso in mare, portato in salvo e accolto da
un paese europeo, avrà anche il visto. Quel famoso visto che poteva essere dato sin
dall’inizio evitando stragi, morti, lunghi viaggi, traumi, ferite, evitando di far
arricchire le mafie ed evitando i finanziamenti per i soccorsi in mare.
Inoltre, una persona che arriva fisicamente e psicologicamente integra in un paese e
che non ha dovuto bruciare tutti i suoi risparmi per pagare le mafie per compiere il
viaggio, non ha bisogno di essere assistita anzi, con il suo piccolo gruzzolo potrà
portare un beneficio all’economia del paese ospitante.
Parliamo ora delle strutture che si occupano dell’accoglienza dei migranti in Italia.
L’impianto dei centri di accoglienza presenta tre cruciali criticità: tempi, luoghi e
controlli.
a) I tempi: i tempi di permanenza descritti dalla legge sono diversi per ogni
tipologia di centro d’accoglienza. In un Cara (centro per coloro che presentano
una richiesta d’asilo e aspettano di essere esaminati da una commissione) la
permanenza massima dovrebbe essere di un mese ma finisce per variare da
due mesi a quattro anni. L’immigrato è sfinito e stanco della situazione. Infatti,
egli vorrebbe immediatamente guadagnare qualcosa per aiutare la famiglia o
semplicemente per pagare i suoi debiti. Invece, si ritrova in un limbo senza via
di uscita. Lo stato italiano, inoltre, gli vieta di lavorare per almeno sei mesi.
b) I controlli: in alcune strutture non sono consegnate né lenzuola, né abiti, il
cibo scarseggia come anche i servizi igienici, manca l’acqua calda e il
riscaldamento. Manca la mediazione linguistica, i corsi di italiano e l’assistenza
legale, psicologica e sanitaria. Insomma, si cerca in tutti i modi di
massimizzare i profitti senza badare ai bisogni dei profughi. Infatti, le
dinamiche corruttive non mancano poiché è assai appetibile per mafiosi ed
imprenditori accaparrarsi denaro pubblico con facilità.
c) I luoghi: il problema sta soprattutto nell’ubicazione di questi centri. Infatti, essi
sorgono quasi sempre il luoghi ostili, condannando gli ospiti
all’emarginazione. I centri sono distanti dai luoghi abitati e sono posizionati in
luoghi economicamente depressi dove trovare un lavoro è impossibile.
La guerra tra poveri e la <<pax>> dei ricchi
Il discorso che si sente spesso pronunciare da comuni cittadini è: non possiamo
permetterci di spendere tanto denaro per gli stranieri quando tanti italiani sono
senza lavoro e senza prospettive.
Ma perché i cittadini pensano che l’unica soluzione per risolvere i problemi degli
italiani sia risparmiare sugli immigrati bisognosi di aiuto?
Il sistema di accoglienza italiano è popolato da imprenditori cinici, associazioni e
cooperative no profit che in realtà sono approfittatrici e da amministratori
negligenti e corrotti.
Questo gruppo di potenti più che ai bisogni delle persone in difficoltà, pensa ad
arricchirsi.
Eppure, i cittadini italiani faticano ad identificare come responsabili questo
gruppo di potenti e queste associazioni e tendono a riversare la propria rabbia
sugli immigrati che non hanno nessuna responsabilità.
In questo contesto, la retorica razzista che identifica il male nello straniero
distrae l’opinione pubblica dai veri problemi. Così, chi broglia e alimenta le
ingiustizie continua ad agire indisturbato.
In sintesi, quella che appare una guerra tra poveri è, in realtà, una guerra ai
poveri.
Peccato che gli effetti dell’esclusione sociale non riguardano solo gli esclusi ma,
alla lunga, tutti ne pagano le conseguenze.
Se una maggioranza non cresce economicamente, il suo disagio si ripercuote
sulla maggioranza. In che modo? L’emarginazione e la povertà comportano
l’esposizione a malattie fisiche e mentali che richiedono una maggiore spesa
sociale. Inoltre, l’emarginazione e la povertà favoriscono lo sfruttamento per
quanto riguarda il lavoro.
Pertanto, per preoccuparsi del proprio benessere, occorre anche preoccuparsi
del benessere degli altri.