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EBREI IN EUROPA

Dalla peste nera all’emancipazione


Questa è la storia – ricca di avvenimenti – degli Ebrei dell’Europa Occidentale: si sono sparsi nel Mediterraneo sin dalla fine
dell’età romana, in una diaspora al tempo stesso volontaria, di viaggi di mercanti e di stanziamenti nei centri più
importanti del mediterraneo, e forzata, dai primi conflitti con Roma e la Giudea sotto Pompeo, che vedono a Roma i primi
ebrei schiavi, fino all’esilio forzato dopo le ultime rivolte, quando Gerusalemme diventa Elia Capitolina, città proibita agli
ebrei, che vengono esiliati nel Mediterraneo e in Oriente…
Questi insediamenti diventano nei secoli dell’inizio del Medioevo il crocevia culturale del mondo ebraico, il tramite
attraverso il quale la cultura talmudica babilonese si trasferisce in Occidente, intrecciandosi con quella locale.

I- Oltre la Catastrofe:
Nel 1348 (ebrei già espulsi da Inghilterra e Francia), mentre la peste nera infuriava in Europa, una grande
ondata di violenza si scatenò contro gli ebrei che vivevano nelle città e nelle terre del mondo cristiano: furono
assaliti dalla folla, alcuni massacrati o costretti all’esilio, accusati di avvelenare i pozzi e le sorgenti e di
diffondere la peste, furono processati e bruciati sul rogo: comunità secolari furono cancellate o decimate.

All’inizio del 300 la popolazione ebraica in Europa sarebbe stata di circa 450 mila persone, l’1% della totale. In
Francia, prima dell’espulsione del 1306, sarebbero stati 100mila. Nell’Impero sarebbero stati circa 100 mila. In
Spagna gli ebrei sarebbero stati circa 150mila, e nonostante le alterne vicende del ‘400 sarebbero cresciuti a
250mila, alle soglie dell’espulsione del 1492. In Italia, da 50mila all’inizio del ‘300 sarebbero cresciuti fino a
120mila. In Portogallo sarebbero passati da 40mila all’inizio del Trecento ad 80mila nel 1490. A questa data,
1490, le comunità dell’Europa orientale cominciavano appena a formarsi.
Nel IX secolo, è il passaggio al Nord di ebrei provenienti dall’Italia meridionale che dà origine, nelle città renane
della Germania, al formarsi delle comunità ashkenazite (dall’ebraico, ashkenazi che indica la Germania).
Tra la fine del XIII sec e il XVI secolo, gli ebrei furono espulsi da gran parte dell’Europa: in Inghilterra nel 1290; in
Francia, prima nel 1306 e poi ancora nel 1322; da molta parte della Germania (XV e XVI sec); dalla Spagna e dai
possessi spagnoli di di Sicilia e Sardegna (1492); i Provenza tra il 1498 e il 1501; Regno di Napoli 1511.
Il mondo medievale aveva accettato e tollerato al suo interno la presenza degli ebrei. Nella società cristiana
vincitrice i pagani non avevano spazio e dovevano convertirsi. La sostanziale accettazione della presenza
ebraica, invece è il frutto di un complesso processo, a carattere essenzialmente giuridico e teologico, di
definizione dell’ebreo e del suo posto nel mondo cristiano.
Nell’impero – e più tardi nei nuovi regni d’Inghilterra e di Francia – dove il diritto romano aveva lasciato il
posto, tra il IX e il X secolo, alla creazione di nuove forme giuridiche, la presenza ebraica finì per fondarsi su
particolari privilegi, simili alle carte di tuitio di età carolingia, e concessi per la prima volta nel 1090 agli ebrei in
quanto gruppo, e non più individualmente, dall’imperatore Enrico IV.
Alla base si questi privilegi, e a giustificazione della protezione che essi garantivano agli ebrei, era un rapporto
diretto con l’imperatore, Federico II, che nel 1234 li definiva come “servi nostrae camerae”, dipendenti dal
potere statale: si trattava di uno “ius singulare”, ossia di uno status del tutto artificiale.
A mano a mano che questo rapporto di possesso da parte della monarchia e dei feudatari più alti va precisandosi, la libertà
di movimento degli ebrei si riduce sempre più, mentre la pressione finanziaria su di loro cresce sino a giungere a vere e
proprie forme di espropriazione finanziaria, tant’è che in alcuni casi gli ebrei sono presi in ostaggio da signori e sovrani fino
al pagamento al tesoro reale di un riscatto. Gli ebrei non trassero beneficio da questo processo, anzi essendo diventati
direttamente dipendenti dal sovrano, finirono per essere assimilati ai sevi della gleba, che non potevano accedere a
tribunali diversi da quelli reali ed sono sottoposti all’arbitrio delle imposizioni fiscali.
Questo processo interessò, a partire dal XIII secolo, il nord ed il sud Europa: le due grandi monarchie, quella inglese
equella francese, si sbarazzarono successivamente degli ebrei (poi anche la Spagna; unica eccezione è l’Italia nei domini
non spagnoli): erano due monarche in via di centralizzazione, intente a creare gli strumenti della propria crescita
attraverso il consenso del popolo e la sua mobilitazione, che assume il carattere insieme di una partecipazione alle scelte e
alle politiche dei sovrani. Tra i simboli antichi riattivati, l’ostilità antiebraica era uno dei più efficaci e operativi.
La prima espulsione, quella inglese, riguardava una comunità di modeste dimensioni: gli ebrei si erano stabiliti
in Inghilterra solo dopo la conquista normanna, dietro concessione di Guglielmo il Conquistatore. Fino al XII
secolo erano essenzialmente mercanti, poi divenne dei prestatori; tra il 1240 ed il 1260 le comunità furono
rovinate da imposizioni fiscali assai pesanti decise da Enrico III. Per soddisfare le richieste del fisco, gli ebrei
presero a vendere o a cedere direttamente alla Corona le terre date loro in pegno dai debitori insolventi; in
cambio di una tassa straordinaria molto forte, che risolveva i bisogni finanziari del re, egli consentiva di
espellere gli ebrei dal regno. Anche in Francia la pratica del prestito aveva generato simili ansie e timori che
sfociarono nell’espulsione e anche nell’aggressione degli ebrei (Crociata dei Pastorelli nel Sud della Francia)
In Germania, in questo periodo, non ci furono espulsioni: l’ansia verso gli ebrei portò direttamente ad attacchi
di massa, allo scopo di “rendere onore alla città”. Su questo sfondo la peste fece la sua apparizione nel 1348.

La peste – Morte Nera – non era sconosciuta ne in Europa ne nel Mediterraneo, dove nell’altro medioevo
aveva infuriato per più di 2 secoli, ma se ne era perduta la memoria quando riapparve in Sicilia, tra il settembre
1347 e il gennaio 1348, portata dalle galere genovesi provenienti dall’Oriente. Dalla sicilia si diffuse nel
Mediterraneo salendo poi verso Nord, sino alla svizzera, alla Francia settentrionale e in Germania dove arrivò a
fine del 1348. Fin dalla primavera del 1348, il percorso della peste fu accompagnato dai pogrom – sommossa
sanguinosa contro gli ebrei – prima a Tolone, dove il quartiere ebraico fu saccheggiato e gli ebrei massacrati
nelle loro case, poi a Barcellona e in altre città della Catalogna colpite dall’epidemia.
Il primo massacro a Tolone nell’aprile 1348 avvenne nella notte della domenica delle Palme, inizio della
settimana Santa, che nel mondo cristiano è un periodo tradizionalmente segnato dalla manifestazione
dell’ostilità religiosa contro gli ebrei, in modo ritualizzato e codificato. La violenza popolare scatenatisi in questi
episodi, seppur spontanea e scatenata da nuove paure, trova schemi consolidati in cui incanalarsi. In Provenza
come in Catalogna le autorità condannarono decisamente i pogrom, anche la Chiesa si pronunciò in difesa degli
ebrei, in una prima bolla emanata nel luglio ad Aviglione, Clemente VI espresse la posizione ufficiale della
Chiesa: la peste non era dovuta all’azione degli uomini, essa poteva derivare solo da cause naturali cioè da
congiungimenti astrali, oppure dalla volontà divina. E’ nel luglio 1348 che gli ebrei furono accusati per la prima
volta di aver avvelenato i pozzi e le fontane per spargere la peste tra i cristiani, nel Delfinato, e da qui si sparse
in Savoia dove il conte d’Aosta Amedeo VI ordinò un’inchiesta, in seguito all’insistere della voce di
avvelenamento pubblico, 12 ebrei furono arrestati e posti alla tortura. Dietro tortura molti confessarono, le
confessioni sono simili tra loro e gli ebrei ammettono di aver sparso polveri velenose su incarichi di rabbini, in
pozzi e cisterne di vari luoghi nel corso di viaggi d’affari. Queste confessioni delineano l’immagine di una
responsabilità collettiva, tutti gli ebrei, compresi i bambini di età superiore ai 7 anni avrebbero partecipato. Il
tema del complotto è espresso con molta chiarezza: “voi cristiani avete ucciso tanti Ebrei e anche noi vogliamo
comandare, voi lo avete fatto fin troppo”. Clemente VI nell’ottobre 1348 in una seconda bolla ribadiva con
molta forza l’innocenza degli ebrei, essi non avrebbero potuto spargere il morbo, dal momento che la mortalità
che la peste provocava tra di loro non era inferiore a quella che si verificava tra i cristiani!
Alla fine del 1348, accompagnando il passaggio della peste, i massacri degli ebrei si estendono alle città tedesche e svizzere
e in molti casi, la violenza contro gli ebrei precedeva la comparsa dell’epidemia. Inoltre il percorso dell’epidemia è
preceduto soprattutto nell’area tedesca e svizzera, dal passaggio delle bande di flagellanti – movimento che aveva
complessi rituali di pellegrinaggio e autoflagellazione alla cui base vi era l’idea che si potesse attraverso il pentimento, il
rigore e la mortificazione individuale, allontanare dall’umanità la punizione collettiva che Dio aveva scatenato con
l’epidemia – che ben presto assunse un carattere eversivo, di violenza contro l’autorità cittadine, gerarchie ecclesiastiche,
ricchi. Ma il loro obbiettivo principale erano gli ebrei: ovunque in Germania, il passaggio dei flagellanti fu accompagnato
dai massacri contro di loro. In decine di città tedesche, comunità ebraiche furono sterminate. La Chiesa condannò con
decisione il movimento: alcune città provarono a chiudere le porte alla processione dei flagellanti, ma il consenso popolare
e la spinta dal basso contro gli ebrei resero molto difficile questa scelta. Ad esempio a Strasburgo nel 1329, il consiglio
cittadino, accusato di essere favorevole agli ebrei fu sostituito da un nuovo consiglio che decretò il rogo per tutti gli ebrei
della città, 2 mila persone!
Il Trecento è una soglia significativa anche per la costruzione ed il consolidamento dello stereotipo antisemita
(già presente nell’XI secolo in cui erano visti come deicidi e massacrati come uccisori di Cristo): è in questo
periodo che giungono a maturazione tutte le fantasie della cristianità che attribuivano agli ebrei l’assassinio
rituale di bambini e la dissacrazione dell’ostia. Nelle persecuzioni dell’XI secolo gli ebrei avevano avuto la scelta
tra la conversione o la morte (molti scelsero il martirio) mentre nel 300 solo nel caso di Strasburgo gli ebrei
poterono convertirsi e salvarsi. Questo indica una trasformazione dello stereotipo, un’accentuazione negativa e
l’insistenza su una sorta di naturale malvagità dell’ebreo, che era fonte di perturbamento dell’ordine naturale e
di contaminazione del mondo cristiano. Questa idea di contaminazione è un concetto antico, formulato già da
una parte della tradizione ecclesiastica, individuabile fin in alcuni testi di Paolo, come nella lettera ai Galati,
all’origine stessa della polemica antigiudaica. Ma indubbiamente nel corso dei secoli, dalla prima formulazione
paolina si realizzò uno slittamento semantico impercettibile ma fondamentale, per cui dalla contaminazione
provocata dall’errore si passò a significare la contaminazione provocata dalla persona di colui che erra.
Antisemitismo e antigiudaismo (odio teologico verso gli ebrei) hanno così una storia comune/intrecciata.
Lo stereotipo antisemita prende forza e vigore nei secoli successivi all’XI alimentandosi soprattutto dell’accusa,
di profanare le ostie consacrate e di uccidere ritualmente bambini. Le due accuse hanno la stessa struttura e
veicolano lo stesso messaggio: la ripetizione rituale da parte degli ebrei dell’uccisione di Cristo.
La prima accusa documentata di cannibalismo rituale fu quello di Fulda, in Germania, dove nel 1235 34 ebrei
furono bruciati perché accusati di aver ucciso bambini cristiani per utilizzarne ritualmente il sangue. A Fulda vi
fu un massacro indiscriminato senza processo, un pogrom basato su una voce.
La profanazione delle ostie consacrate viene rappresentata anche da Paolo Uccello nella pala conservata nel
palazzo ducale di Urbino: nel primo pannello, ci troviamo nella bottega di un prestatore ebreo, al quale una
donna cristiana consegna, in cambio della restituzione del suo mantello dato a pegno, un’ostia sacra da lei
trafugata durante la comunione. Successivamente, vediamo l’ebreo nell’atto di profanare l’ostia. Ma il sangue
che esce dal corpo torturato di Cristo rivela ai cristiani il misfatto. Così gli ebrei e perfino i bambini finiscono sul
rogo mentre la donna pentita e salvata per l’eternità (l’episodio è identificato con un caso di accusa di
profanazione verificatasi a Parigi nel XIII secolo).
Il caso più clamoroso avvenne nel 1478 nella città danubiana di Passau, dove l’intera comunità fu processata
sotto l’accusa di aver profanato un’ostia consacrata comprata da una donna cristiana.
La coincidenza della Pasqua ebraica con quella cristiana dava inoltre fondamento all’idea diffusa che gli ebrei
utilizzassero il sangue cristiano per la fabbricazione delle azzime, il pane senza lievito (pane azimo) consumato
nei giorni di Pasqua. L’accusa di uccisione, cambiò le modalità di assassinio nel corso del tempo, inizialmente si
assassinava con una crocifissione, poi invece subentrò un cannibalismo rituale che svuotava di sangue questi
bambini cristiani poi utilizzato a scopi magici o medicinali. Il più antico episodio di questo tipo di accusa è quello
di Norwich nel 1144, la scomparsa di un bambino e il successivo ritrovamento del suo cadavere diedero vita alla
prima definizione del mito, costruito da un monaco Thomas di Monmouth che creò l’accusa dal nulla al fine di
creare un nuovo santo, il piccolo William di Norwich. Così
la Chiesa, che pure era stata in grado di elaborare una teoria della presenza ebraica che la garantiva e la
rendeva stabile, ha anche fornito gli strumenti culturali/simbolici per trasformarla in oscura minaccia.
II – La chiesa e gli ebrei

il testimone necessario: Nel giugno 1493 quando gli ebrei cacciati dalla Spagna si erano accampati sulla via Appia,
l’ambasciatore spagnolo protestò alla corte papale perché il suo sovrano aveva cacciato i marrani dal suo regno come
nemici della fede cristiana, il pontefice, che era a capo di questa fede, li aveva accolti a Roma. Da secoli gli ebrei erano
avvezzi a vedere nel papato un protettore contro arbitri e violenze e ogni tentativo di peggiorare la legislazione nei loro
confronti. Ciò è a prima vista inspiegabile dato che il cristianesimo sin dalle sue origini aveva edificato gran parte della sua
teologia su una concezione negativa dell’ebreo; Paolo nella lettera ai Romani esprime per la prima volta l’idea che l’ebreo
abbia un ruolo fondamentale nell’economia della salvezza: vituperato per il pervicace rifiuto di accettare Cristo come
messia, l’ebreo doveva restare presente entro la nuova società, quale specchio rovesciato dell’identità cristiana che
andava definendosi. Questa teoria paolina sarà ripresa da Agostino, sempre nella prospettiva che gli ebrei siano testimoni
della verità del cristianesimo. I fratelli maggiori, gli ebrei, avevano perso la primogenitura, ma non per questo dovevano
sparire, il loro posto era dentro la società cristiana, in una posizione subordinata; inoltre, il loro ruolo sarebbe diventato
centrale nel momento del giudizio finale, quando solo la conversione di tutti gli infedeli e in primo luogo degli ebrei,
avrebbe consentito l’istaurarsi del Regno di Dio. Paolo aveva però formulato anche una concezione diversa, un pensiero
più diffidente verso la presenza ebraica, attento alla contaminazione che essa poteva portare al mondo cristiano: “voi non
potete bere dal calice del Signore e de’ demoni” (I lettera ai Corinzi); questa linea interpretativa trova l’espressione più
radicale nelle invettive di Giovanni Crisostomo, in cui l’ebreo è il simbolo stesso del male e le sinagoghe sono dimore di
Satana. In Oriente la convivenza non fu possibile, mentre invece fu effettiva in Occidente, un simile equilibrio fu possibile
grazie alla lettura di Agostino della tradizione della lettera ai Romani e grazie alla teoria della necessità teologica di
salvaguardare la presenza ebraica dentro il mondo cristiano. Così la chiesa costruì una complessa teoria in cui la presenza
dell’ebreo – seppur protetta dalle violenze e violazioni della sua libertà religiosa – finisce per essere inferiore e subordinata
a quella dei cristiani. È un tema che sarà rielaborato infinite volte nella storia fra gli ebrei e la Chiesa, fino alle parole iniziali
della Cum nimis absurdum, con cui nel 1555 Paolo IV istituiva il ghetto di Roma: “Poiché è assurdo e sconveniente al
massimo grado che gli ebrei, che per loro colpa sono stati condannati da Dio alla schiavitù eterna, con la scusa di essere
protetti dall’amore cristiano e tolleranti nella loro coabitazione in mezzo a noi, mostrare tale ingratitudine verso i cristiani
da pretendere dominio invece di sottomissione”

Gli ebrei nel diritto canonico: E’ necessario definire lo stato giuridico degli ebrei e le sue trasformazioni. Il diritto degli
ebrei ad essere cittadini romani era stato sanzionato nel III secolo con la concessione della cittadinanza a tutti gli abitanti
dell’Impero, che prevedeva per gli ebrei diritti pari a quelli degli altri cittadini. Le restrizioni iniziarono dopo la vittoria
cristiana; già sotto Costantino la conversione all’ebraismo divenne reato, mentre furono introdotte le prime limitazioni al
possesso degli schiavi cristiani da parte degli ebrei. Successivamente nel 388 fu proibito il matrimonio tra ebrei e cristiani.
Questa legislazione confluì nella sistemazione del codice teodosiano nato intorno alla metà del V secolo, e fu resa ancora
più restrittiva nel VI secolo, dal codice giustinianeo, destinato però ad essere introdotto in Occidente soltanto molti secoli
più tardi. Nel codice teodosiano era fondamentale l’esplicita affermazione che la religione ebraica non era proibita da
nessuna legge, formulazione che scomparirà invece nel codice giustinianeo. Ma anche nell’Occidente altomedievale, che
continuerà a basarsi sulle formulazioni giuridiche teodosiane anche dopo le invasioni barbariche, questo rimase un
principio fondamentale che garantiva la presenza ebraica come ortodossa e non eretica. Nei paesi in cui la legge romana
rimase in vigore l’ebreo restò sempre cittadino, e non straniero. In tale processo fu fondamentale il ruolo della Chiesa, le
cui formulazioni si saldarono alla tradizione giuridica romana nella creazione di un solido corpo teorico per definire e
giustificare la presenza ebraica in seno al mondo cristiano: il pontificato di Gregorio Magno, alla fine del VI secolo, decise
se fosse stato lecito far convertire gli ebrei con la forza, se le sinagoghe dovessero essere sequestrate e trasformate in
chiese (come già in parte avveniva su iniziativa del clero locale), se le leggi che imponevano l’affrancamento degli schiavi
cristiani in possesso degli ebrei dovessero essere rispettate integralmente.
Gregorio ribadì che la conversione forzata non era lecita perché essa è valida solo se spontanea, ma quando venne
interpellato sulla questione degli schiavi cristiani, Gregorio rispose che consentirne il possesso agli ebrei era una violazione
del principio della subordinazione ebraica, ed equivaleva a lasciar “calpestare le membra di Cristo dai suoi nemici”
Le formulazioni dei pontefici, dei teologi, e dei concili, che confluiscono nei secoli successivi nel diritto canonico,
sanciscono infatti uno stato degli ebrei basato su 2 aspetti: la servitù e la protezione. Fondamentale per definire questo
contratto tra ebrei e cristiani furono: la bolla Sicut Iudeaeis – il cui testo originale risale al pontificato di Callisto III – che era
un contratto che garantiva la protezione in cambio di sottomissione, e questa poteva arrivare a fare del pontefice l’arbitro
assoluto della sicurezza e credenza religiosa degli ebrei; la bolla Etsi Iudaeos, emessa da Innocenzo III nel 1205, in cui si
definiva lo stato dell’ebreo nel mondo cristiano di perpetua servitù (poteva consentirne la presenza nel mondo cristiano).
Il Papa i frati e la Legge Ebraica: alla fine del Medioevo in Europa si formarono stati laici con una politica
arbitraria nei confronti degli ebrei – ne mettevano in discussione i diritti – i quali, per difendersi, si appellavano
proprio alla Sicut Iudaeis e alla protezione del papa: “nessun governatore, tranne il signore, ha un potere più
elevato del vostro nelle terre delle Nazioni… Per questo vengo a chiedere protezione dai miei mali a nome degli
ebrei che vivono sotto la vostra giurisdizione. Perché uomini malvagi si sono levati senza il vostro consenso e
hanno attaccato gli ebrei… essi non hanno il potere di fargli abbandonare la Torah: questo potere appartiene
solo al Papa di Roma”: la giurisdizione diretta sugli ebrei che il testo attribuisce al pontefice riguardava
l’ortodossia degli ebrei, cioè l’obbedienza alla loro religione, e non il potere di costringerli alla conversione. Gli
ebrei si affidano totalmente al papa, probabilmente senza la consapevolezza dei rischi che ciò comportava, ma
il ricorso ad una Chiesa ispirata a principi di equilibrio era preferibile al ricorso a sovrani laici, imprevedibili e
disposti anche ad eliminare la presenza ebraica in società.
L’Inquisizione nasce dall’esigenza di combattere l’eresia, e fu formalizzata come istituzione giudiziaria nel 1231
quando Gregorio IX la affidò all’ordine domenicano, e inizialmente non aveva diretta giurisdizione sugli ebrei
(successivamente roghi e censura dei loro libri): l’ebraismo era tollerato e non riconosciuto come eresia, ma
piuttosto come una deviazione dal retto credo cristiano. Ma il rapporto tra ebraismo ed eresia si faceva sempre
più complesso man mano che il concetto di eresia si allargava. I domenicani, ma soprattutto i francescani (legati
ad una concezione meno rigorosamente legalitaria) cercarono di allargare la giurisdizione inquisitoriale fino a
comprendere gli ebrei; così crearono una sorta di nuova categoria eresiologica, quella dei giudaizzanti, in cui
rientravano i convertiti a forza che volevano tornare ebrei o che continuavano a praticare l’ebraismo in segreto
 in una bolla del 1267, Turbato corde, Clemente IV affidava all’Inquisizione la giurisdizione su tale eresia:
“abbiamo saputo che moltissimi reprobi cristiani sono tornati alla ritualità ebraica in modo da dannarsi”…
giudaizzante non era solo il converso che “giudaizzava”, ma anche l’ebreo che lo spingeva a farlo. La bolla
manteneva una distinzione tra ebrei e convertiti, ma apriva la strada al controllo inquisitoriale degli ebrei in
quanto complici degli eretici cristiani. Diverso era
il controllo dell’Inquisizione sulla natura della religione ebraica e sull’ortodossia dei libri ebrei: vi fu la condanna
– contemporanea all’istituzione stessa dell’Inquisizione – delle opere di Maimonide, avvenuta in Linguadoca nel
1232, e si colloca nel contesto di una disputa sulla sua opera che contrapponeva all’interno del mondo ebraico
fra razionalisti e tradizionalisti. Secondo le fonti (tutte del partito dei filosofi) gli avversari dell’opera di
Maimonide si sarebbero rivolti all’inquisizione di Montpellier per denunciarla come eretica. E
così, per la prima volta, dei teologi cristiani decidono dell’ortodossia interna ebraica: con il rogo di Maimonide
si apre la strada dell’Inquisizione verso l’intervento sul Talmud.

L’attacco al Talmud Nel 1236 il convertito Nicholas Donin indirizzò al papa Gregorio IX un memoriale in 35
punti contro il Talmud, il testo fondamentale dell’ebraismo rabbinico; due erano le basi dell’accusa: il Talmud
contiene attacchi e bestemmie contro la religione cristiana; introduce una nuova Legge, orale, a fianco e in
sostituzione della Torah scritta, “così essi non si accontentano della vecchia Legge scritta data da Dio a Mosè,
ma giungono ad ignorarla affermando che Dio ha dato loro un’altra Legge chiamata Talmud, cioè un
insegnamento dato a Mosè oralmente”. Consisteva nel ritenere il Talmud una linea ereticale nell’ebraismo,
contrapposta alla tradizione ebraica del Pentateuco (Torah), condivisa anche dal cristianesimo.
Nel 1239, il papa impartiva l’ordine a tutti i sovrani europei (ma solo Luigi IX di Francia lo eseguì) di confiscare i libri ebraici
e di sottoporli ad esame degli ordini mendicanti. In una pubblica disputa, Rabbi Yechiel ben Yosef, difese il Talmud dalle
accuse di Donin. Successivamente, dopo un processo davanti al re e all’Università di Pavia, il Talmud fu condannato e
bruciato in Place de Grève, circa 10 o 12mila volumi furono dati alle fiamme. Questo episodio è stato interpretato come un
radicale cambiamento nella politica della Chiesa verso gli ebrei: stavano colpendo il loro testo normativo ed esegetico
fondamentale ed il punto di riferimento della loro prassi quotidiana di vita/pensiero.
Nel 1247 il papa Innocenzo IV, invocato dagli ebrei in seguito a successive iniziative di confisca da parte dei
francesi, riapriva formalmente l’inchiesta sul Talmud: “senza il Talmud gli ebrei non possono comprendere la
Bibbia e le altre ordinanze della loro Legge secondo la loro fede … noi abbiamo ritenuto giusto rispondere loro
che non vogliamo privarli ingiustamente dei loro libri”
Nella stessa linea si inserisce l’interpretazione che emerge tra i domenicani aragonesi della scuola di Raimondo
di Peñafort alla metà del XIII secolo: ritenevano che il Talmud potesse esser utilizzato per convincere gli ebrei
delle verità del cristianesimo e che contenesse la cristologia (dottrina trinitaria che vede Cristo come messia).
Queste dottrine furono al centro della disputa che nel 1263 a Barcellona contrappose il convertito Pablo
Christiani e Moise ben Nahman, detto nahmanide una delle autorità nel mondo ebraico, mistico e cabalista.
L’attacco di Pablo Christiani mirava a sottolineare la distinzione tra vecchia e nuova letteratura rabbinica: di
possibile utilizzazione la prima, ereticale e da proibire la seconda. Fu così una vittoria teologica dei cristiani il
fatto che Nahmanide si vedesse costretto, per difendere il Talmud dall’accusa di blasfemia, a sostenere che
solo la parte normativa, halachica, andava accettata e che quella normativa, haggadica, era di minore autorità:
“sappiate che noi abbiamo tre generi di libri: i 24 libri di quel che voi chiamate la ‘Bibbia’ a cui noi tutti
prestiamo fede totale; il ‘Talmud’ che consiste nella spiegazione dei precetti (mitzvot) della Torah; infine, il
‘Midrash’, cioè il sermone”
Sulla questione delle parti narrative del Talmud insiste anche Raimon Martini, autore di uno dei più importanti
trattati sulla veritas fidei del XIII secolo, il pugio fidei, composto nel 1278: oggetto di attacco sono quei
midrashim in cui si descrivono in maniera antropomorfica le attività di Dio.
Quando la Chiesa nel XVI secolo attaccherà il Talmud, lo farà riprendendo questa linea. La politica di Roma
continuerà ad esitare tra l’emendare e il distruggere; così, Giulio III nel 1553 giungerà a vietare e bruciare il
Talmud e nel 1557 l’Inquisizione proibirà agli ebrei di possedere dei libri in ebraico diversi dalla Bibbia.
Nel 1559 il Talmud sarà messo nell’Indice dei libri proibiti.
L’idea che il secolo XIII rappresenti una cesura fondamentale nei rapporti tra Chiesa e gli ebrei si fonda sulle
decisioni del Concili Laterano IV sugli ebrei (1215), che aprono il secolo con una serie di misure di segregazione
e discriminazione: nel 1215 gli ebrei furono obbligati – per distinguersi dai cristiani – a porre sui loro abiti un
segno distintivo (di derivazione musulmana) che variava a seconda delle circostanze e dei luoghi (una rotella di
stoffa gialla o rossa, oppure un cappello giallo, particolari mantelli, orecchini); nacque dalla volontà proclamata
di impedire illeciti contatti sessuali tra ebrei e cristiani… rapidamente indicò inferiorità ed infamia. In Italia sarà
la predicazione francescane che nel XIV e nel XV secolo lo imporrà nei comuni e nelle città. Altrettanto difficile
fu l’applicazione di altre disposizioni del Concilio Laterano IV sugli ebrei: divieto di avere serve e nutrici
cristiane; accettazione della testimonianza dei cristiani contro ebrei; proibizione agli ebrei di avere cariche
pubbliche e di apparire in pubblico durante la Settimana Santa.
La Chiesa e l’usura Nella dottrina ecclesiastica, ogni interesse percepito sul prestito è identificato con l’usura,
che, nella prima definizione medievale (806), era definita come “richiedere indietro più di quel che si era dato”.
Nel XII secolo la legge canonica la condanna, era “tutto ciò che veniva aggiunto al capitale”… In realtà la
posizione ecclesiastica era più complessa ed offriva margini per un consenso allo sviluppo del prestito.
Nel 1215, il Concilio Laterano IV sanciva che erano proibite solo per gli ebrei le usure gravi o immoderate,
lasciando così spazio alla possibilità di interpretare il divieto in senso limitativo e possibilista. Per i cristiani, il
prestito rimase sempre in assoluto un peccato e quindi proibito, anche se nella realtà questo divieto veniva
raggirato. Vi era uno scontro interno alla chiesa fra i canonisti più rigidi (volevano proibire il prestito) e l’ala più
moderata (legata alla politica papale); i canonisti più rigorosi e i frati predicatori (in particolare i francescani)
portarono avanti un attacco al prestito; per vietarlo era necessario sancire che l’usura era in assoluto da
condannarsi, perché costituiva una forma di peccato, e affermare che gli ebrei, attraverso l’esercizio del
prestito, esercitavano un’indebita supremazia sui loro debitori cristiani. Inoltre, si trattava di un profitto illecito
sul tempo che appartiene a Dio e non all’uomo: “siccome gli usurai non vendono che la speranza denaro, cioè il
tempo, essi vendono il giorno e la notte”. Alla metà del ‘500, nel suo De iudaeis, il legista Marquardus De
Susannis, riprendendo l’intera questione, sosteneva che l’usura era vietata dalla legge divina e che quindi
neanche il pontefice poteva consentirla. Per la chiesa il problema del ruolo finanziario degli ebrei era collegato
a quello del loro ruolo nella società cristiana
Realtà e mito dell’usura Nel XII secolo, Bernardo di Chiaravalle, parlando degli usurai cristiani, scriveva che
erano come “ebrei battezzati”. Nel 1213, il Concilio di Parigi, riferendosi ai prestatori cristiani, denunciava le
sinagoghe da loro innalzate.Ebrei e prestatori erano quindi identificati, ma l’attività di prestito degli ebrei si era
diffusa soprattutto dal X- XI secolo, in seguito a trasformazioni economiche di vasta portata che avevano reso
preziosa la liquidità di cui gli ebrei potevano disporre, in un mondo che ne era privo ma che ne crescente
bisogno per il suo sviluppo economico. La condanna dell’usura cristiana da parte della Chiesa e la necessità in
cui gli ebrei vennero a trovarsi di mettere a frutto i capitali ottenuti attraverso il commercio (in una società che
comunque limitava le loro attività artigianali e commerciali) trasformarono il prestito nell’attività prevalente tra
gli ebrei, anche se in misura diversa a seconda delle zone.
La posizione degli ebrei nei confronti dell’usura:
nel Deuteronomio si afferma che “Allo straniero potrai prestare ma non a tuo fratello”: (possibilità di prestare
ad interesse ai no ebrei); il Talmud non è univoco, opponeva al prestito motivazioni morali o religiose, basate
sul principio che vietava di commerciare in qualsiasi modo con gli idolatri cristiani; nel XII secolo Rabbenu Tam,
una delle più alte autorità rabbiniche francesi, poteva così affermare che “oggi abbiamo l’abitudine di prestare
contro interesse ai non ebrei perché dobbiamo pagare le tasse al re e ai signori, e tutte queste cose sono
necessarie per sostenerci. Non è più un reato prestare contro interesse”; alla fine del ‘400 in un testo
ashkenazita: “se la Torah e la sua interpretazione sono meglio sviluppate in Germania che altrove, dipende dal
fatto che qui gli ebrei si nutrono grazie al commercio del denaro con i cristiani e che quindi non hanno
necessità di lavorare. Di conseguenza, essi dispongono di più tempo per studiare la Torah”; Leon da Modena
nella sua Historia de’ riti ebraici (1616) ricostruisce in chiave apologetica il rapporto tra prestito e restrizioni
esterne: “è ben vero che la strettezza, nella quale la captività longa gli ha ridotti, essendole vietato quasi per
tutto il posseder terreni, e molt’altri modi di mercantar… si sono molto abbassati d’animo, e divenuti digenerati
dalla lealtà israelitica. Si come per la medesima cagione, s’hanno fatto lecito il pigliar usura”… infatti,
l’accostarsi degli ebrei al prestito era dovuto anche all’allontanamento dalle terre impostogli alla fine del
Medioevo e in Italia solo XVI secolo, quando fu fatto espressamente divieto si possedere terre e immobili.
Il prestito diventa tra il XII e il XVI secolo la principale attività degli ebrei, ma il processo di identificazione
dell’ebreo con il prestatore ha tutte le caratteristiche di un processo di elaborazione mitica: l’usura fu
interpretata come un atto di guerra contro la cristianità, un mezzo per succhiarne il sangue metaforicamente.
Nel mercante di Venezia di Shakespeare, l’ebreo Shylock è mosso dall’odio contro i cristiani e dal bisogno di
vendetta, non dalla volontà di accumulare denaro: “non ha occhi un ebreo? Non si nutre anche lui di cibo? Non
sente anche lui le ferite? Se ci pungete non diamo sangue noi? E se ci offendete non dovremmo vendicarci?”

Continuità e cesure: il 500 Dal XIII al XV secolo, seppur senza vere e proprie fratture, la politica della Chiesa
cominciò a mutare nei confronti degli ebrei. Il momento più drammatico fu nel 300, ma è documentato da fonti
cronachistiche ebraiche del 500, quando il papa avignonese Giovanni XXII avrebbe decretato l’espulsione degli
ebrei da Roma e da Avignone e il rogo generalizzato del Talmud (che avvenne nel 1320, contemporaneamente
allo sterminio dei lebbrosi ed ebrei in Francia con l’accusa di avvelenamento dei pozzi). L’editto di espulsione –
poi revocato dal Papa – avrebbe suscitato a Roma violenze popolari contro gli ebrei; gli ebrei romani,
appoggiati anche da Roberto d’Angiò, re di Napoli e senatore di Roma, risolsero la crisi, dietro il pagamento di
somme enormi al re e al pontefice.
Il segno maggiore della nuova ambiguità papale, e dell’incapacità del papa di garantire agli ebrei la stabilità
nella società cristiana, fu l’atteggiamento tenuto dai papi del 400 verso la predicazione francescana, la cui
violenza era divenuta fonte di gravi tensioni: Giovanni da Capistrano, uno dei principali esponenti dell’ordine,
nella prima metà del secolo fu attivo contro eretici ed ebrei in Italia, Germania e Polonia al punto da attribuirsi
l’epiteto di “flagello degli ebrei”. Contro questo i papi, da Martino V a Eugenio IV fino a Niccolò V, attuarono
una politica ambigua, che alternava tentativi di limitazione a momenti di tolleranza.
Altro segnale inquietante è la vicenda di Simonino da Trento, nel 1475, bambino assassinato per il quale furono
accusati alcuni ebrei di Trento.
Roma non sembrò difenderli come invece aveva fatto in passato per simili accuse di omicidio rituale: inviò a
Trento un commissario apostolico che tornò sostenendo l’innocenza degli ebrei e l’infondatezza dell’accusa,
ma in Curia si trovò di fronte ad autorevoli fautori dell’accusa ed ebbe la peggio nella polemica che ne seguì.
La frattura vera e propria tra Chiesa ed ebrei avvenne nel XVI secolo in età controriformistica, nel momento
dello stabilimento dei ghetti. La posizione teorica luterana, assai dura verso gli ebrei, riprendeva il filo della
tradizione ecclesiastica radicale, quella della tradizione paolina della lettera ai Galati. La chiesa cattolica invece
modificò la sua politica, impegnandosi in un progetto conversionistico di vasto respiro, creando nuovi strumenti
di intervento nella vita e nella religione, primo tra i quali il ghetto, peggiorando la condizione degli ebrei e le
modalità fondamentali della loro permanenza nella società cristiana.
Alla seconda metà del 500 la Chiesa si impegnava in un’attività pressante volta ad eliminare la presenza degli
infedeli, ma già alla fine del secolo questo progetto rivelava le sue debolezze e ambiguità.
Contemporaneamente anche negli ambienti legati alla Controriforma, si esprimevano verso una netta chiusura
verso gli ebrei, con un più generale atteggiamento di chiusura alla diversità e timore dell’eresia. Ciò è anche
imputabile alla consapevolezza da parte cattolica dei vari legami tra la cultura umanistica del secolo precedente
e la cultura ebraica, in particolare il fascino esercitato dalla sua esegesi e della Qabbalah.
E’ così che la tendenza a cambiare le norme che regolavano il patto tra ebrei e cristiani finì con l’essere il
risultato di una confluenza di intenti tra diverse linee di tendenza in seno alla Chiesa di Roma, unite nella
comune aspirazione alla conversione degli ebrei, la quale nasce anche dal clima di fervore escatologico vissuto
dai controriformisti e riformatori più radicali; nella prima metà del 500 le guerre e le eresie furono interpretate
come gli ultimi convulsi momenti del mondo prima del Giudizio universale r dell’Avvento del Regno di Dio, era
perciò necessario convertire tutti gli infedeli, in primo luogo gli ebrei.
Legato al mondo riformatore, è lo scritto di 2 monaci camaldolesi, Querini e Giustiniani, del 1513, il Libellus ad
Leonem Decem: propongono una politica conversionistica, che influenzerà dall’interno la Chiesa poiché darà
ripresa da Paolo IV, e prevedeva laddove non vi era conversione, l’espulsione dalla società cristiana degli ebrei.
Anche lo scritto del 1558 De Iudaeis er Aliis Infidelibus, del giurista Marquadus De Susannis espresse questa
linea riformatrice radicale.
Venne scoperto - nel camposanto di Roma durante la Settimana Santa del 1554 - il cadavere di un bambino
crocefisso: il popolo, aizzato dalle parole di un convertito, Hananel da Foligno, accusò gli ebrei. Mentre la folla
invocava il massacro o espulsione degli ebrei, trovando ascolto presso il papa Marcello II, il cardinale
Alessandro Farnese scopre i veri colpevoli, due spagnoli che avevano agito per denaro e in odio verso gli ebrei.
Il nuovo papa, Paolo IV, punirà con la morte i veri colpevoli… l’equilibrio era salvo

La politica delle conversioni: la spinta alla conversione non è senza ambivalenze, in quanto partecipe di due
diverse istanze: una concreta e realista volta ad ottenere la conversone con una serie di misure, di incentivi, di
pressioni; una mitica ed escatologica, volta ad affrettare l’avvento del Regno di Dio attraverso la loro
conversione. Il risultato fu una politica di ampio respiro, che utilizzava strumenti di varia natura, persuasivi e
coercitivi: la pressione fiscale, le incarcerazioni arbitrarie, la casa e il collegio dei catecumeni, le prediche
forzate. La casa dei catecumeni, fondata a Roma sotto la spinta di Ignazio di Loyola nel 1543, era destinata ad
accogliere gli ebrei e gli altri infedeli, in particolare i musulmani che volevano diventare cristiani. Tutti gli ebrei
che avevano manifestato un accenno alla conversione, dovevano passare qualche settimana nella casa dei
catecumeni e sottoporsi ad una propaganda individuale pesante. Tranne casi drammatici e limitati, si ha
l’impressione che la scelta delle autorità fosse quella di molestare il più possibile il mondo ebraico, spaventarlo,
creare uno stato d’animo di insicurezza della legge senza però mai superare i confini della legalità.
Sul modello romano, la rete delle case di catecumeni si estese nel corso della seconda metà del 500 e nel 600 a
Venezia, Bologna, Ferrare, Modena, Reggio. Qui però era forte la presenza di gruppi marginali e di poveri, che
trovavano nella conversione e nell’assistenza fornita dall’istituto una soluzione ai loro problemi. Questo
avveniva ad esempio a Torino, istituita nel 1653, i cui registri si sono conservati fino al 1720 e dal quale emerge
più uno ospizio per mendicanti che ad un luogo di prigionia e coercizione come a Roma.
Nella casa dei catecumeni di Torino, la predica forzata rappresentò l’aspetto più spettacolare assunto in questi
anni dalla spinta conversionistica. Nel 1584, con la sua istituzionalizzazione da parte della Chiesa, gli ebrei
romani vennero obbligati, in una rotazione che comprendeva gli adulti della comunità, sia uomini che donne,
ad ascoltare ogni sabato una predica che reinterpretava in senso cristiano la porzione settimanale del
Pentateuco letta la mattino in sinagoga. Montaigne nel suo viaggio a Roma del 1581 parla di Andrea del Monte,
eloquente predicatore agli ebrei tra il 1576 e il 1582, tanto efficace da suscitare le proteste della comunità, che
ottenne il suo allontanamento dalla funzione di predicatore. La partecipazione alla predica forzata fu sentita
dagli ebrei come un’umiliazione violenta, e molti furono i tentativi sia collettivi che individuali di sfuggirvi:
resistevano con cera nelle orecchie per non ascoltare, oppure parlavano tra loro nonostante i controlli, mentre
dalle tribune i cristiani osservavano lo spettacolo.
Anche la corsa degli ebrei nudi al palio assunse nel 500 e nel 600 caratteri sempre più umilianti, fino a che non
fu riscattata dalla comunità nel 1668 attraverso una tassa di 300 scudi; c’era ancora il fenomeno della sassaiola
santa dell’Umbria del 400, una sassaiola ritualizzata e regolata in modo da non scatenare eccessi incontrollati.
Si tratta quindi di un meccanismo di teatralizzazione della violenza raffrenata e simbolica.
Le conversioni erano costanti in Italia, quindi non si trattava di una politica fallimentare; ad esempio, nel ‘400
umbro, alcune comunità scomparirono del tutto, in un momento in cui la pressione conversionistica era
affidata alla predicazione francescana e ancora non assunta dalla Chiesa. A Roma nel 600 la media delle
conversioni è – come risulta dagli archivi della casa dei Catecumeni – di 10 l’anno e cresce leggermente nel 700.
Ciò nonostante la politica delle conversioni non intacca l’identità collettiva ebraica dentro il ghetto, che rimane
compatto. Il meccanismo era complesso ed operava con sottigliezza e violenza, con minacce ed incentivi, fa
leva sui vuoti, sulle paure, opprimendo psicologicamente e materialmente. Ma le conversioni rimasero un
fenomeno individuale e non collettivo o di gruppo, e questa politica che aveva come scopo la conversione di
tutti gli ebrei, se osservata dal suo obbiettivo, risulta fallimentare.
Il ghetto è l’unico metodo della Chiesa che è concreto nello spingere alla conversione, poichè incide sulla realtà
sociale della comunità, e sui suoi legami interni, mentre tutti gli altri metodi, come la casa dei catecumeni,
finirono per essere fondamentalmente una rappresentazione destinata al pubblico, un teatro delle conversioni.
III – I confini dell’Identità “l’ebreo è un uomo che gli altri uomini considerano ebreo” – Jean-Paul Sartre (1946)

L’identità forte: in un’ottica egualitaria, dove si negano le differenze, come riconoscere l’identità degli ebrei? È stato
facile rispondere fin tanto che il criterio di distinzione era stato quello religioso, l’osservanza della legge e l’appartenenza
religiosa. La risposta cristiana rovescia l’idea ebraica di elezione in una sorta di elezione negativa – segnata dalla
persistenza ostinata nell’errore – che consentiva al popolo ebreo la possibilità di una storia (senza regno, potere e stato). Il
più saldo baluardo contro ogni attacco alla sua identità sono state le forme culturali, sociali e organizzative che la
comunità ebraica si è data nei secoli, e i cui elementi sono concreti e ben documentati: l’organizzazione comunitaria e
familiare, il rapporto con lo studio e i testi sacri, la separatezza e il complesso rapporto con l’esterno. Su tutto prevale il
rapporto con la Legge e l’elaborazione rabbinica, la Halakhah (modo di procedere) cioè il corpo della Legge orale espressa
nei testi normativi fondamentali della Mishnah e Talmud, che regola e deicide ogni aspetto della vita ebraica, costituendo
davvero quella “siepe intorno alla Torah” che, dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme nel I scolo dC, fu lo
strumento di difesa della religione/identità ebraica

La percezione di sé: la separatezza: l’identità ebraica si perpetua/mantiene nella storia in primo luogo
attraverso la diversità (di organizzazione nelle strutture comunitarie/nucleo familiare/sociale) coi cristiani 
- Tempo: il giorno comincia al tramonto; l’anno comincia in autunno; la settimana è divisa in tempo del lavoro e del
Signore (il giorno sacro è il sabato, lo sabba; ma sono obbligati a rispettare la domenica anche astenendosi dal lavoro) in
cui è proibito ogni lavoro, accendere il fuoco, usare mezzi di trasporto, scrivere e percorrere lunghi tratti a piedi. -
Alimentazione: fondata sulla distinzione biblica tra animali permessi (tra i quadrupedi solo i ruminanti che abbiano lo
zoccolo diviso in due; tra i pesci solo quelli muniti di pinne e squame) e vietati (maiale: elemento ripreso poi dalla
tradizione islamica). Degli animali ammessi era consentito cibarsi solo se sottoposti a macellazione rituale (shejitah)
compiuta da un ebreo (shohet) e se privati di nervo sciatico, sangue e grasso (vietato utilizzare parti posteriori della bestia:
vendute poi ai cristiani); Inoltre è vietato: mescolare carne e latte (“non cucinerai il capretto nel latte di sua madre”), bere
vino prodotto o anche solo versato da non ebrei, condividere la tavola con i cristiani. Questi sono motivati dal concetto di
contaminazione ( da quello cristiano associato all’impurità/male degli ebrei) che non deriva dalla persona cristiana in sé
ma dal rapporto con un rito considerato idolatrico (es. eucarestia/transustanziazione)
- Religione (la parola non esiste quasi nei testi biblici; il termine corrispondente ha origini medievali è dat = legge): consiste
nel ricordare continuamente il rapporto con Dio attraverso una ritualità estesa ai più semplici gesti della vita quotidiana.
- Sacro (qadosh = separato): la concezione della sacralità spaziale nasce dalla funzione cui questo spazio adempie. Nella
Bibbia, nella descrizione delle traversie degli ebrei nel deserto, è l’Arca sacra, il luogo mobile ove è posta la sacralità, e che
funziona da sede del rapporto con la divinità. Con lo stabilirsi del popolo ebraico in Palestina, e con la costruzione del
santuario a Gerusalemme, la sacralità viene posta in un luogo fisso, cioè nella parte più interna del Santuario, il “Santo dei
Santi” ma conserva funzione simbolica: “Ma è dunque vero che Dio risiede sulla terra? Ecco, i cieli e i cieli de’ cieli non Ti
possono contenere; quanto meno questa casa che io Ti ho costruita!” (Salomone quando consacra il tempio da lui
costruito). Dopo la distruzione del tempio, la sacralità finisce sempre più per delimitare uno spazio simbolico e
immateriale, la qehilla qedoshah, sacra comunità, separata dal resto del mondo non-ebraico che la circonda; c’è la
mancanza di una divisione tra laici e sacerdoti: il rabbino non è un sacerdote, ma un maestro, un giudice.
- Studio: riguarda prevalentemente i testi sacri come il Talmud (legge orale) e la Torah (1° parte della bibbia, libri arrtibuiti
a Mosè), che per gli ebrei ha la caratteristica di uno spazio sacro, un luogo sacro dove abita Dio, molto più del luogo stesso
della sinagoga. I rotoli della Torah sono spesso sontuosamente abbigliati e al centro del rito religioso, talvolta anche
adorati. Il testo viene copiato sacralmente, e questo è un atto religioso di preghiera, ogni giorno si ha l’obbligo di legger
dei passi del testo sacro. Ogni ebreo maschio ha l’obbligo di leggere e studiare ogni giorno della sua vita, dall’età della
maggiore età religiosa fino alla morte: “Ognuno dovrebbe fissare un’ora al giorno destinata allo studio”
Gli studi erano tradizionalmente riservati agli uomini, ma donne di eccezionale sapienza potevano accedervi.
Nel XII secolo, un viaggiatore della Germania, Rabbi Petachia di Ratisbona, scriveva che l’unica figlia del Gaon di Sura (capo
dell’accademia babilonese di Sura): ”era così sapiente nella Scrittura e nel Talmud che insegnava ai giovani attraverso una
finestra. Lei si trovava all’interno dell’edificio, e i suoi studenti restavano all’esterno e non potevano vederla”
- famiglia: si affianca alla sinagoga ed infatti è un istituto fondamentale attraverso il quale si trasmette la cultura ebraica:
qui il bambino imparava i primi rudimenti dell’ebraico e cominciava a conoscere il testo ebraico delle preghiere e il canto
che le accompagnava. Gli studi superiori si iniziavano introno ai 12 13 anni, ma talvolta più precocemente, qui si
apprendevano oltre agli studi sacri anche quelli profani, come l’aritmetica, il latino, la musica, la danza. L’istruzione
superiore vera e propria – la yeshivah – era centrata sullo studio talmudico e di tutta la tradizione esegetica.
La percezione collettiva di sé: Cosa erano i gentili, cioè i non ebrei, per gli ebrei? Qual era la valutazione che essi
davano del cristianesimo? Nelle formulazioni talmudiche e nella tradizione successiva, il cristianesimo veniva
considerato idolatria, avodah zarah, come il politeismo pagano. Ma la situazione degli ebrei nella società della
diaspora, rendeva essenziale alla loro sopravvivenza materiale il rapporto con i gentili. Di qui prese l’avvio un
processo di reinterpretazione dei testi halachici che mirava a rendere lecito questo rapporto senza intaccare i
principi religiosi: così Rabbenu Tam (Francia XII sec) riuscì a reinterpretare le norme talmudiche che stabilivano
che “per i tre giorni precedenti i loro giorni di festa non bisognava avere commercio con gli idolatri”
Gli ebrei, nonostante il loro esilio, il Galut, ebbero un rapporto costante – seppur lontano – con la terra
d’Israele (Eretz Israel): “Il mio cuore è in Oriente ed io nell’estremo ponente”, cantava alle soglie del XII secolo
l’autore dell’importante scritto teorico Al Kuzari, il poeta Jehudah Halevi.
Quello del rapporto con il potere era il primo problema “politico” che gli ebrei si erano posti nel corso della loro
storia. Un gruppo che fondava la sua esistenza sulla rigorosa osservanza di una Legge si trovava di fronte il
problema di porre in rapporto la sua Legge con quella estranea e dominante, in grado di dettare le regole e
munita del potere di farle osservare. Il principio che fu elaborato nel mondo ashkenazita del XII secolo era una
rielaborazione del principio talmudico “la legge del regno è legge” che fondava sulla sottomissione alla legge
esterna la legge della comunità.

L’organizzazione comunitaria: La comunità ebraica nasce nell’Europa medioevale come organizzazione


collettiva della vita degli ebrei dentro la società cristiana, e quindi nella diaspora. Le comunità di riferimento
sono quelle ebraiche ashkenazite del XII secolo, quelle italiane del 400, quelle polacche del XVII secolo, quelle
spagnole del 2-300, quelle seicentesche di derivazione marrana. Il fondamento giuridico di questa società è la
Legge, espressa nei testi esegetici, cioè l’interpretazione della Torah tramandata dalla sapienza rabbinica.
Mentre lo strumento delle taqqanot (crediti e ordinanze) sono l’elemento di mutamento, che risente delle
contingenze storiche e adegua lo strumento giuridico tradizionale al tempo e le sue necessità.
La comunità o, come veniva chiamata nel mondo italiano, la communitas hebreorum o l’universitas hebreorum,
era però un’entità che implicava un riconoscimento esterno da parte delle autorità cristiane.
L’organizzazione comunitaria prevedeva un certo numero di ebrei, tale da richiedere un organismo di
direzione, la creazione di una sinagoga, di un bagno rituale, di un forno e di un macello; si trattava di una
diretta emanazione dell’assemblea generale comunitaria in cui il diritto di voto era riservato solo a coloro che
pagavano le tasse comunitarie. I membri dei consigli erano chiamati in ebraico in vari modi, parnassim o
memunnim. I membri delle organizzazioni comunitarie erano prevalentemente laici; accanto ad essi, esisteva
comunque una presenza che potremmo definire insieme religiosa e legale, quella dei rabbini.
Dopo il XIII secolo, in seguito alla tendenza rabbinica a concentrare nelle proprie mani il potere decisionale, si
crearono notevoli conflitti all’interno delle comunità. A volte si verificarono tentativi esterni di potenziare il
ruolo e la figura dei rabbini. In questo periodo fece la sua apparizione l’istituzione del rabbino comunitario, un
funzionario stipendiato dalle comunità. Le sue funzioni erano quelle tradizionali: insegnare, esprimere pareri in
materia rituale, essere giudice nelle materie in cui i tribunali rabbinici avevano giurisdizione, e pronunciale lo
herem (scomunica).
L’organizzazione intercomunale: Le comunità erano, nel mondo ebraico medioevale, organismi autonomi: non
esistevano organizzazioni centralizzate sovracomunitarie, e i tribunali rabbinici non avevamo alcuna
giurisdizione sulle decisioni delle altre comunità. Tale teoria dell’indipendenza reciproca era così formulata nel
1305 in un testo del rabbino catalano Solomon Ibn Adret: “Noi abbiamo emanato un bando che proibisce lo
studio della filosofia prima di una certa età nel nostro territorio. Cosa ci trovate di sbagliato? Non abbiamo
fatto questo bando per il vostro territorio. Dio ha posto un confine tra di noi, i nostri figli non sono i vostri figli,
voi potete fare quello che volete”.
Uno dei massimi livelli di centralizzazione mai raggiunto nelle comunità ebraiche è quello rappresentato dalla
carica –attribuita dall’esterno – di Rab de la Corte castigliano Abraham Bwnveniste nel 1432, nell’intento di
ristabilire le comunità castigliane. Il termine “Rab” non indica un rabbino nel senso usuale del termine – a cui
veniva riconosciuta un’autorità al di sopra delle autonomie comunitarie: la sua figura rappresentava l’istanza
decisionale massima su materie fondamentali come la ripartizione delle imposte, le decisioni dei tribunali, la
scelta delle rappresentazioni comunitarie.
L’esperienza più prolungata e perfezionata di centralizzazione intercomunale fu quella polacca, in cui la vita
ebraica fu governata per circa 2 secoli, tra la metà del XVI e il 1764, da un organismo centralizzato, il Consiglio
delle Quattro Terre, formato da una rappresentanza di capi delle comunità e da un tribunale composto dai
principali rabbini, che avevano giurisdizioni fiscali, amministrative e giudiziarie.
All’origine dell’organizzazione troviamo l’imposizione da parte dei sovrani di un’autorità che sovraintendesse
agli affari ebraici: il magister judaeorum, un non ebreo che nell’Impero del IX secolo sovraintendeva agli affari
ebraici, l’archisynagogus, l’episcopus judaeorum, il presbyter judaeorum, tutti titoli che indicavano, dolo l’Xi
secolo in Inghilterra e nell’Impero, degli ebrei posti alla guida delle loro comunità dal potere esterno.

La società interna: l’alto livello di omogeneità etnica/sociale interna alla comunità dipende dalla forte mobilità
naturale di questo popolo, accresciuta dalle migrazioni imposte dalle persecuzioni esterne; ciò determinò una
situazione in cui gli ebrei di diversa origine etnica si trovavano a convivere.
Conflitti assai ridotti caratterizzarono le piccole comunità nate sul prestito, e formate prevalentemente da
banchieri e dalle loro famiglie. In Italia, Venezia e Roma hanno comunità assai diversificate socialmente. A
Roma esisteva una forte conflittualità interna, che porta a risse, violenze e furti ma anche a liti civili su affitti,
eredità o affari. In generale però la coesione interna comunitaria aveva la meglio sulle spinte disgregatrici,
perché il contenimento delle tensioni sociali viene ad identificarsi con il mantenimento e la difesa dell’identità
culturale e religiosa.
Le tensioni potevano nascere anche dalle diversità etniche interne alla comunità; ad esempio, a Roma, la
comunità fu trasformata nella sua organizzazione interna dall’afflusso dei profughi seguito al 1492, che divise
gli ebrei italiani dagli ebrei oltremontani. Dopo la seconda metà del 500, i matrimoni misti diventarono più
frequenti nella società ebraica romana.
A Venezia, la divisione che si era affermata tra gli ebrei era quella – sancita negli anni 30 del XVI secolo – tra
ashkenaziti ed italiani da una parte, perlopiù prestatori, e i sefarditi, levantini e ponentini, cioè portoghesi
dall’altra, perlopiù mercanti. Ma la divisione dei due ghetti non era rigidissima e le mura stesse del ghetto
consentirono l’inizio di un processo fusionale.
Ad Amsterdam, dove i primi insediamenti erano portoghesi, ma dove a partire dalla guerra dei Trent’anni si
stanziarono anche numerosissimi ebrei ashkenaziti, le due comunità restarono sempre nettamente divise. La
compagnia creata ad Amsterdam nel 1615 allo scopo di dotare le fanciulle povere di “nazione portoghese”
escludeva dalla sua attività assistenziale le ragazze ashkenazite, ma vi comprendeva quelle – di “nazione
portoghese” ma formalmente cristiane – che vivevano in Francia o in altri paesi in cui gli ebrei non erano
tollerati. E non vi è dubbio che l’accentuazione del valore del sangue/stirpe siano tratti caratteristici della
cultura del mondo ebraico portoghese di questi anni. L’accentuazione del criterio etnico è infatti retaggio
particolare dei marrani, cioè di quanti erano passati attraverso l’esperienza familiare della conversione e della
pratica cristiana.
La struttura familiare: è all’organizzazione sociale che veniva affidata la trasmissione dell’identità ebraica. Un
ruolo fondamentale era quello della famiglia, che rappresenta il nucleo intorno a cui ruotano non solo la vita
quotidiana ma anche le forme stesse della ritualità/socialità/sapere. Nel mondo cristiano l’ideale di castità è
molto forte, così come la sublimazione della sessualità; invece, nel mondo ebraico la castità è considerata con
sospetto e la vita matrimoniale è il compimento della persona e della sua religiosità: sposarsi e trasmettere le
tradizioni è un mitzvah, un dovere religioso.
La famiglia ebraica è patriarcale ma alla donna si garantivano sicurezze economiche ed affettive, che la
proteggevano dalla situazione di moglie abbandonata. Le donne maltrattate dai mariti esistevano, ma
godevano della protezione delle corti rabbiniche e del mondo ebraico circostante, a differenza del mondo
cristiano, i maltrattamenti alla moglie erano considerati unanimemente riprovevoli. L’uso poligamico in
famiglia, consentito nella Bibbia, è già scomparso quando nell’XI secolo, quando viene formalmente abolito in
un’ordinanza emanata da Rabbenu Gershom.
Il matrimonio ebraico non è indissolubile come quello cristiano ma prevede l’esistenza del divorzio, ghet, nato
come istituto riservato all’uomo, cioè come atto di ripudio della moglie, il divorzio viene subordinato al
consenso della donna nell’XI secolo, in una taqqanah emanata da Rabbenu Gershom: anche la donna poteva
chiedere il ghet. Una dettagliata normativa, nota sotto il nome di legislazione sulla “donna ribelle”, definisce le
modalità anche economiche del divorzio in rapporto ai comportamenti della coppia.
Il ruolo del padre è soprattutto “giuridico”; la donna-madre, invece, ha nella vita ebraica un ruolo “naturale”
fondamentale: la trasmissione dell’identità ebraica; il legame materno rappresenta l’indissolubilità
dell’elezione divina, che passa attraverso la trasmissione femminile: nel caso di unione tra cristiani ed ebrei, il
figlio di una madre ebrea e un padre non ebreo è ebreo, quello di padre ebreo e madre non ebrea è un gentile
Nella casa molti aspetti religiosi spettano alla donna: il suo ruolo nella trasmissione delle pratiche rituali e
conoscenze religiose è fondamentale. Nel mondo spagnolo del ‘400, sono le donne a trasmettere, nelle famiglie
marrane, la tradizione nascosta degli insegnamenti ebraici. La
famiglia ebraica della Germania di questi anni vi appare come famiglia nucleare, che prende cioè soltanto due
generazioni, quella dei genitori e dei figli. Largo spazio è dedicato all’affettività. Un
modello familiare assai diverso ci trasmettono le memorie di Gluckel di Hameln, un’ebrea tedesca vissuta nella
seconda metà del XVII secolo, che scrisse le sue memorie in due diverse fasi della vita, per trovare consolazione
da due successive vedovanze. Quando si fidanza, ha 12 anni e alla data del matrimonio, 14. Nel mondo
ebraico orientale, il ruolo della donna è decisamente subordinato a quello dell’uomo. È nell’uso che sia la
donna a lavorare e guadagnare, affinchè l’uomo possa vivere dedicando tutto il suo tempo allo studio della
Legge.
IV – Gli ebrei in Spana

Una storia diversa: Antica è la presenza di ebrei in Spagna, filtrata da miti e leggende della memoria storica: la
Spagna fu identificata con la biblica Sefarad, probabilmente l’antica Sardi, in Asia Minore, come riferimento agli
“esiliati di Gerusalemme che sono in Sefarad”: di qui il termine “sefariditi”, con cui tutt’ora vengono designati
gli ebrei di origine spagnola.
Nate nel X secolo, nel clima culturale dell’accademia talmudica di Cordova, queste leggende raccontavano una
storia diversa da quella degli altri ebrei, e trasmettevano l’immagine di una sorta di preminenza degli ebrei di
Spagna sulle altre comunità della diaspora. Si faceva risalire l’origine degli ebrei in Spagna ad un periodo ancora
precedente, cioè ad un mitico viaggio in occidente del babilonese Nabucodonosor. Precedentemente alla
caduta del secondo Tempio, gli ebrei si sarebbero stanziati sul suolo spagnolo: motivo questo che rivela
l’intento di difendersi dall’accusa di deicidio.
Le prime testimonianze sugli ebrei spagnoli sono degli ultimi secoli dell’Impero romano: iscrizioni trilingui in
greco, latino ed ebraico, canoni conciliari come quello di Elvira del IV secolo, la lettera del vescovo di Maiorca,
Severo, che racconta la conversione forzata al cristianesimo degli ebrei di Minorca, del 418. Le testimonianze
del periodo musulmano ci danno l’immagine di una presenza consistente e radicata. In un responso di una delle
massime autorità rabbiniche babilonesi del IX secolo, Lucena è definita come “città di molti ebrei, dove non
abita nessun gentile”, mentre di Cordova, capitale del califfato, si dice che solo pochi ebrei vi abitavano e che i
musulmani vi erano in maggioranza. Granada e Tarragona sono chiamate dai geografi arabi del X e XII secolo
“città popolate di ebrei”. È solo a partire dal XIII secolo che l’esistenza di registri fiscali degli ebrei spagnoli ci
consente di arrivare a stime meno approssimative. La Castiglia non avrebbe contato, alla fine del Duecento, più
di tremilaseicento famiglie di ebrei, in tutto ventimila persone, pari allo 0,4% dell’intera popolazione. Il mondo
ebraico spagnolo è prevalentemente urbano. Solo nel 400 le comunità si disseminano in Castiglia su vasti
territori e cesseranno di essere prevalentemente urbane.
L’immagine stereotipata che il senso comune storiografico ci ha proposto della storia spagnola di questi secoli è
quella di un’intolleranza crescente, legata al processo secolare di Reconquista portata avanti dai regni cristiani
contro i musulmani. Il clima della crociata avrebbe così dissolto quei valori di tolleranza e sincretismo culturale
e religioso che avrebbero caratterizzato sia la Spagna musulmana sia i primi secoli di quella cristiana, e avrebbe
aperto la strada all’inquisizione/persecuzioni/espulsioni. L’episodio più noto della storia degli ebrei spagnoli,
prima del dominio musulmano, è il tentativo dei sovrani visigoti, da poco convertiti dall’arianesimo al
cattolicesimo, di imporre loro con la forza la conversione. L’editto che sanciva la conversione forzata fu
emanato da Sisebuto (re visigoto) nel 613; fu attuato solo parzialmente grazie all’opposizione dell’aristocrazia
che proteggeva gli ebrei. Nel 694, dopo inutili tentativi di portare a termine questo progetto di uniformità
religiosa, fu convocato il concilio di Toledo, che alla presenza dei sovrani stabilì che gli ebrei dovevano essere
posti in schiavitù, le loro proprietà confiscate, i loro figli separati dalle famiglie e allevati da cattolici.
Nel 711 gli arabi invasero la penisola iberica, e vi si stabilirono. Le cronache contemporanee raccontano che gli
ebrei tradirono i sovrani visigoti e aprirono le porte agli invasori (leggenda che è eco delle ansie e dei sospetti
verso gli ebrei del mondo cristiano della Reconquista). La conquista araba rappresentò per gli ebrei spagnoli la
fine delle persecuzioni religiose, ma non del loro stato giuridico di inferiorità (la loro presenza era subordinata
al pagamento di una tassa annuale che sostituiva il servizio militare e garantiva loro la protezione).
Le norme che regolavano i rapporti tra musulmani e i “popoli del Libro” (cristiani ed ebrei) erano state
introdotte dal patto di Omar (VII secolo): uso del segno distintivo, il divieto di montare a cavallo, di portare
armi, di costruire chiese o sinagoghe superiori a una certa altezza. Ma, entro questi limiti, gli ebrei godono di
libertà religiosa. È questo il periodo in cui i contatti con la cultura ebraica d’Oriente, in particolare con le
accademie babilonesi, introducono nel mondo ebraico occidentale il Talmud: la Legge orale elaborata in
Palestina e Babilonia si impone in tutta la diaspora. L’ebraico si afferma come la lingua ufficiale delle comunità,
sostituendo l’aramaico, il greco e il latino.
L’immagine che ci trasmettono i poeti ebrei è quella di una civiltà piena di seduzioni e attrattive, colta e
raffinata. Quando il poeta Moshè Ibn Ezra di Granada, fuggì al Nord, nei regni cristiani, il contrasto gli sembrava
assai forte: “Il destino mi ha condotto in una contrada / ove si sgomenta e si ribella il mio spirito: / barbara
gente dalla lingua rozza / il cui solo aspetto mi fa disperare”.
La rovina della comunità di Granada incrementò il passaggio degli ebrei nel mondo cristiano, che si accentuò
ancora di più nel XII secolo, quando la conquista dell’Andalusia da parte degli Almohadi dette inizio a una
politica di vera e propria persecuzione che lasciò sia agli ebrei che ai mozarabi solo la scelta fra la conversione e
la morte. È la fine della civiltà arabo-ebraica dell’Andalusia. Nel corso del XII secolo, protetti dal favore dei
sovrani cristiani, gli ebrei si stanziarono in Aragona, Catalogna e Castiglia: la città castigliana di Toledo diventa
un centro culturale di primo piano, in cui traduttori ebrei e cristiani volgono dall’arabo in latino le opere dei
filosofi e degli scienziati dell’antichità greca (opera aristotelica)

La società ebraica nella Spagna cristiana: nel mondo cristiano di questi secoli, gli ebrei, come i musulmani, si
configurano come una “microsocietà” inserita dentro la più vasta società cristiana. Ciò che la cartterizza e
legittima è il rapporto diretto che la lega alla monarchia. Alla base di questo vincolo di dipendenza dalla Corona,
era il fatto che gli ebrei erano una proprietà legale del sovrano, facevano parte del “tesoro reale” ed erano
definiti dalla terminologia ufficiale “forziere della Corona”. La terminologia giuridica rivela che gli ebrei
rappresentavano per le monarchie spagnole una docile fonte di reddito. Le tasse che gravavano su di loro
erano più alte/numerose di quelle dei cristiani.
Al livello più alto della gerarchia vi erano gli “ebrei di corte” che coprivano ruoli amministrativi, funzionari,
erano appaltatori generali delle imposte, funzionari e tesorieri di corte. Negli ultimi decenni del 400, i Re
Cattolici ripresero a servirsi degli ebrei nel processo di trasformazione e centralizzazione dello Stato, rendendoli
i maggiori amministratori dello stato.
Scendendo nella scala sociale vi erano all’interno delle aljamas (“comunità ebraiche”, termine di radice araba)
mestieri numerosi e diversificati. Gli ebrei erano proprietari di terre (in particolare vigne, infatti erano
produttori di vino) e coltivatori. Fino al XII secolo essi furono anche agricoltori, poi nel corso del XIII secolo, la
documentazione testimonia la netta prevalenza delle vendite di terre sugli acquisti: è il segno di una
propensione al capitale mobile e non alla proprietà immobiliare. La sfera della circolazione, cioè il commercio
ed il prestito, diventa nel XIII secolo il terreno privilegiato dell’attività ebraica.
In Aragona gli ebrei esercitavano attività più specializzate (commercio/lavorazione del corall/seta/gioielli, le
rilegature preziose dei libri) o, all’altro estremo, più umili (vendita di stracci).
A partire dal ‘300 il prestito ebraico entra in crisi: in alcuni casi si accentuò la tendenza a fare degli ebrei gli
intermediari/prestanome di finanziatori cristiani.

Le “aljamas”: conflitti interni e autonomia giudiziaria: Alcuni elementi importanti di differenziazione


contraddistinguono l’organizzazione comunitaria spagnola da quella del resto d’Europa, pur nella sostanziale
omogeneità delle forme politiche, sociali, culturali e religiose. Fondamentale era la sua alta conflittualità
interna: forti tensioni sociali per l’esistenza di gruppi privilegiati, ma anche una particolare struttura di clan
familiari e di gruppi, agitati da continue lotte di potere.
Altro elemento di diversità era l’autonomia giudiziaria di cui godevano le comunità aragonesi e castigliane, cioè
il diritto di esercitare pieni poteri giudiziari sia in materia civile che criminale (eredità del periodo musulmano);
questa autonomia fu abolita soltanto nel 1480 in seguito alla politica centralizzatrice di Isabella e Ferdinando.
Fondamentale fu, nel XIII secolo, l’estensione della giurisdizione dei tribunali comunitari ai malsinos (gli
informatori), termine ebraico assunto poi dal castigliano, a designare i calunniatori e i delatori.
Negli anni 1380-90 la lotta contro i malsinos divenne, in alcune comunità, un mero pretesto per duri conflitti tra
i gruppi e i clan che si accusavano a vicenda di malsineria. Già alla fine del XIII secolo la massima autorità
rabbinica aragonese Solomon Ibn Adret, poteva scrivere che “colui che opera per la riforma dell’ordine sociale
delle comunità non deve giudicare conformemente alle leggi stipulate nella Torah, ma secondo quello che
richiede la situazione attuale”
Solo le aljamas poterono così, uniche tra le comunità, rendere esecutive le ordinanze, emanare sanzioni
giudiziarie contro ogni trasgressione delle regole comunitarie, controllare i costumi e l’osservanza religiosa dei
loro membri.
La polarizzazione e il conflitto all’interno della società ebraica spagnola hanno esercitato una funzione
integratrice più che disgregatrice, come dimostra il caso degli ebrei di corte e l’indubbio consenso interno su
cui si fondava il loro potere. Giustificava tale consenso e rendeva accettabili i privilegi di cui godevano gli ebrei
di corte: l’esonero dalle tasse, concesso dai sovrani, ma gravante sulla comunità, esercitavano il ruolo di
mediatori tra la corte e la comunità.
La svolta politica che incise pesantemente sulla situazione degli ebrei in Aragona ed in Castiglia, è stata
individuata nel periodo delle guerre civili e di cambiamenti dinastici che interessarono la Castiglia alla metà del
XIV secolo, e che sono passati alla storia con il nome di rivoluzione Trastamara.
Già nel XIII secolo la pressione legislativa sugli ebrei si era appesantita, delimitando progressivamente i loro
spazi all’interno della società spagnola, i divieti di proprietà terriera e le limitazioni del prestito ne
rappresentano gli aspetti più significativi. Inoltre, i sovrani si rivelano disposti a percepire nella legislazione
civile tutta una serie di disposizioni verso gli ebrei, come il divieto di avere al proprio servizio dei cristiani, o di
magiare, bere o bagnarsi con i cristiani, o di prestar loro cure mediche; tutte queste disposizioni furono riprese
sia nel famoso codice Las Siete Partidas emanato nel 1265 da Alfonso X di castiglia.
L’attenzione al problema della contaminazione portava nel tardo XIII secolo le autorità locali della Linguadoca
ad emanare una serie di ordinanze volte ad evitare che “nessun ebreo, cortigiana o lebbroso si azzardino a
toccare pane, pesci, carni o frutta senza poi comprarli”
All’inizio del XIV secolo, la situazione degli ebrei diventa particolarmente critica nel Regno d’Aragona,
interessato da una migrazione di ebrei cacciati dalla Francia. Nel 1320 la Crociata dei Pastorelli, dopo aver
devastato il sud della Francia, avervi massacrato e convertito con forza gli ebrei, si volge contro l’Aragona e loa
Navarra, massacrando gli ebrei a Monclus.
Nel 1348 durante la peste, la Catalogna e Valenza sono al centro di violenze e massacri; al crescendo di violenze
si accompagna l’azione dell’Inquisizione, che indaga nella vita degli ebrei e dà la caccia ai convertiti ritornati
all’ebraismo. Inizia così la ricerca di terre più sicure, un movimento migratorio verso la Castiglia, non sottoposta
alla giurisdizione inquisitoriale. Ma sarà da Siviglia, cioè dalla castigliana regione dell’Andalusia, che partirà alla
fine del 300 la scintilla destinata a portare a quasi totale distruzione il mondo ebraico spagnolo.

L’anno della distruzione: il pogrom (violenze sociali motivate dalla pretesa di una purezza religiosa) che nel 6
giugno 1391 distrusse la maggior parte delle comunità castigliane e andaluse – massacrati ebrei ed altri
battezzati – ebbe la sua origine a Siviglia, centro da più di un decennio della predicazione dell’arcidiacono di
Ecija, Ferran Martinez, vicario dell’arcivescovo, che con grande seguito/popolarità aizzava le folle a distruggere
sinagoghe o a scacciare gli ebrei: aveva continuato ad alimentare le tensioni fino a che, nel 1390, la morte
improvvisa di Giovanni I di Castiglia e dell’arcivescovo, non gli avevano lasciato mano libera. Presto il
movimento si estese in tutto il Regno di Castiglia e in Catalogna.
Tra i massacratori vi sono marinai, vagabondi, borghesi e anche aristocratici. Nell’insieme le autorità municipali,
non favorirono le violenze ma tennero spesso comportamenti ambigui e si dimostrarono comunque troppo
deboli per impedirle e per ristabilire l’ordine in tempi brevi, così i pogrom si estesero e prolungarono nel
tempo, con effetti devastanti sulle comunità, molte delle quali scomparvero del tutto. La
comunità di Valenza fu completamente distrutta il 5 agosto 1391. Gli ebrei scampati al massacro trovarono
rifugio nel castello. Nei due giorni successivi, le autorità fecero imprigionare alcuni dei responsabili,
condannandoli all’impiccagione. Al grido di “lunga vita al Re e al popolo”, il popolo insorse di nuovo, liberando i
prigionieri e minacciando di attaccare le case dei patrizi. Fu allora che un nobile, Pons de La Sala, deviò gli
attaccanti contro il castello dove si rifugiavano gli ebrei. Sarebbero passati altri 2 mesi prima della
restaurazione dell’ordine cittadino.
Nella regione di Aragona, dove l’atteggiamento della monarchia fu assai più saldo, il disastro fu limitato e le
comunità sopravvissero alla distruzione.
Quella del 1391 sarebbe stata una delle numerose crisi rivoluzionatrie – dal tumulto fiorentino dei Ciompi ai
moti dei Lollardi in Inghilterra – che nella seconda metà del ‘300 agitarono l’intera Europa.
I riti di violenza che si esprimono nei pogrom restano un atto essenzialmente religioso.
Solo la monarchia e in parte la nobiltà avevano preso una posizione di rispetto delle leggi e della linea
tradizionale: gli ebrei appartenevano alla Corona, erano il “forziere” dei sovrani e dovevano essere protetti.
Solo dopo il secondo decennio del ‘400 la situazione delle comunità potrà avviarsi verso un parziale
ristabilimento. Anche allora, nello sforzo di ricostruire le comunità, si inseriva la politica conversionistica fatta
ormai propria dalla corona.

La spinta verso la conversione: Prima che il progetto di conversione degli ebrei passasse direttamente nelle
mani dei sovrani di Aragona e Castiglia, esso era stato al centro dello sforzo missionario dell’ordine domenicano
che, fin dal XIII secolo, aveva accompagnato il processo della Reconquista. Fu così che i domenicani aragonesi,
guidati da Raimondo di Peñafort, idearono nuovi strumenti per ottenere la conversione di ebrei e musulmani. Il
più importante fu la predica forzata, introdotta nel 1242, quando il sovrano autorizzò i predicatori ad entrare
nelle sinagoghe e a predicarvi. Nell’Aragona del XIII e XIV
secolo, le prediche forzate, nella sinagoga o in cattedrale, furono più volte autorizzate dai sovrani nonostante la
resistenza ebraica, che vedeva in essa la violazione del proprio diritto alla libera religione. A predicare erano
soprattutto ebrei convertiti. Con il consolidamento delle
monarchie, la fine della Reconquista, la spinta verso la conversione diventa parte integrante della dinamica
politica in Spagna. La crisi del 1391 non
si chiuse con la fine delle violenze aperte. Attacchi ai quartieri ebraici e distruzione delle sinagoghe vi furono
anche tra il 1415 e il 1417, ma la nuova offensiva agli ebrei era affidata più che ai pogrom alla predicazione.
Protagonista ne fu Vincente Ferrer che, a partire dal 1411, suscitò entusiasmi frenetici tra la popolazione
castigliana e spinse interi gruppi di ebrei al fonte battesimale.
Una tradizione accettata contrappone la predicazione di Ferrer a quella di Ferran Martinez: il primo – poi fatto
santo dalla chiesa – attento a non oltrepassare i confini della legalità, il secondo rozzo organizzatore si assassini
Nel 1412, la Corona di Castiglia a Valladolid emanò una durissima legislazione che imponeva agli ebrei quartieri
riservati, l’obbligo del segno distintivo e di abiti particolari diversi da quelli dei cristiani, il divieto di tagliare la
barba e capelli, il divieto di prestito, l’esclusione dall’amministrazione e dalla quasi totalità dei mestieri, il
divieto ai medici di curare pazienti cristiani, il divieto agli artigiani di vendere ai cristiani.
Benedetto XIII, con l’aiuto del converso Jeronimo di Santa Fe, organizzava, a Tortosa, una grande disputa
pubblica con i rabbini del Regno d’Aragona: fu un vero e proprio processo al Talmud, portato avanti tramite
intimidazioni di ogni tipo. Per due anni, 1413 e 1414, gli ebrei vennero condotti a migliaia ad assistervi: le
conversioni furono numerose, soprattutto tra gli strati più elevati, tra gli ebrei di corte e i rabbini. Questa
disfatta teologica ebraica, ebbe un effetto più distruttivo dei pogrom del 1391: tra 1412 e 1419, la sola
predicazione di Vincete Ferrer porta 15 o 20 mila conversioni.
Nel 1415, Benedetto XIII emanava una bolla in cui riprendeva le disposizioni delle ordinanze di Valladolid,
aggiungendovi la confisca del Talmud e di tutta la letteratura rabbinica, oltre che all’obbligo per gli ebrei di
assistere a 3 sermoni l’anno. Ferdiando I d’Aragona ne confermava la validità nel regno: in Castiglia ed Aragona
degli ebrei viene messa in discussione la stessa esistenza.

Averroismo e apostasia: Nei primi anni del 400, gli ebrei di Spagna sembrano così entrati in una crisi senza
ritorno provocata dalla rinuncia, dall’abbandono, dalle conversioni su vasta scala; queste furono in buona parte
il risultato di imposizioni e violenze, ma il preferire le conversioni alla morte, e l’aggirare la conversione forzata
col mantenimento di una fedeltà nascosta all’ebraismo fu da parte degli ebrei spagnoli una scelta consapevole
e teorizzata. Ma in Germania, ai massacri che dalle Crociate in poi avevano scandito la vita delle comunità si era
risposto con il Qiddush ha-Shem, la santificazione del nome di Dio, cioè con il martirio, sia per mano cristiana
sia sotto la forma ritualizzata del suicidio, in cui gli ebrei uccidevano moglie e figli prima di darsi la morte.
In Spagna, il Qiddush ha-Shem resta un fenomeno minoritario: posti di fronte all’alternativa tra conversione o
morte, scelgono maggiormente la prima. C’è chi ha attribuito le ragioni di questa scelta al contatto profondo
degli ebrei spagnoli con il mondo cristiano, alla diffusione di teorie filosofiche-razionalistiche e scettiche che ne
avrebbero logorato l’identità religiosa e facilitato il passaggio alla religione dominante.
“Forse le meditazioni filosofiche ti hanno spinto a rovesciare le nozioni comuni e a considerare gli uomini
attaccati alla religione come se si occupassero di oggetti frivoli e vani, ed è per questa ragione che aspiri a quel
che è più gradevole per la soddisfazione del corpo e la tranquillità dello spirito, per essere senza turbamenti,
senza timori e senza angosce” scriveva al convertito Solomon Halevi – sotto il nome di Pablo de Santa Maria –
il suo amico Josue ha Lorki, che poco dopo sarebbe passato anch’esso al cristianesimo prendendo il nome di
Jeronimo di Santa Fe.
Era nella città provenzale di Lunel che si erano trasferiti, durane la persecuzione degli Almohadi, gli intellettuali
andalusi, dando vita ad una scuola di traduttori dall’arabo delle opere della tradizione aristotelica-averroista e
dei filosofi ebrei medievali che imprime un carattere accentuatamente razionalistico alla cultura provenzale di
questi secoli: in quella provenzale, la diffusione della filosofia era al suo apice e aveva portato a un vivace
contrasto tra i tradizionalisti provenzali e spagnoli a proposito del pensiero maimonideo, e in genere del
rapporto con la scienza dei gentili. Ciò nonostante, quando le violenze ed espulsioni colpirono nel 1320 le
comunità della Francia meridionale, non si verificheranno conversioni di massa simili a quelle che
caratterizzeranno la Spagna alla fine del 300. Ma il passaggio dall’averroismo all’apostasia non era scontato
neanche il Spagna, come dimostrano le opere apologetiche ebraiche composte dopo il 1391, in cui
argomentazioni prettamente razionalistiche e filosofiche venivano costantemente utilizzate a difesa della
religione ebraica contro i cristiani.
Nella cultura spagnola e provenzale della fine del Medioevo, le interpretazioni allegoriche dei testi sacri, diffuse
in ambiente razionalista, rappresentarono effettivamente un fattore di crisi della religione tradizionale,
introducendo l’idea di un doppio livello di lettura dei testi biblici: uno letterale, destinato ai più, l’altro
allegorico, destinato ai pochi elettori in grado di cogliere le verità filosofiche. Ma conseguenze analoghe
avrebbe portato anche il pensiero mistico e cabalista diffusosi in Spagna nel secolo XIV attraverso la scelta di
privilegiare una lettura simbolica dei testi e di interpretare l’osservanza della Legge come la strada per cogliere
la divinità. Non è così un paradosso che proprio al misticismo, e in particolare alle sue espressioni messianiche,
sia stata collegata la spinta verso la rinuncia alla fede dei padri che caratterizza il mondo spagnolo di questi
secoli, mentre la “classica fede” ashkenazita, tranquilla accettazione del volere divino, lontana da ogni
entusiasmo messianico, si sarebbe rovesciata nel rituale sacrificale del Qiddush ha-Shem.
Fin dal XII secolo trovò spazio/diffusione una dottrina che giustificava, sia pur sempre entro i limiti della Legge,
la conversione accettata sotto la minaccia di morte. Colui che aveva dato forza teorica e solide basi halachiche a
questa scelta era stato il massimo pensatore ed esegeta dell’ebraismo medievale, Moshè ben Maimon meglio
conosciuto come Maimonide (1135-1204). Nel suo Trattato sulla Santificazione del Nome, scritto nel 1162-63, a
Fez, intervenne, contro chi sosteneva che bisognava accettare il martirio piuttosto che professare l’Islam, a
difesa di coloro che “costretti dalla persecuzione, osservano in segreto i comandamenti”. Al centro del trattato
di Maimonide è la distinzione tra violazione spontanea e forzata dei comandamenti, “perché, come si potrebbe
portare lo stesso giudizio rispetto a colui che ha agito volontariamente?”. Ne consegue la necessità di
salvaguardare il principio dell’osservanza segreta; di qui la sua raccomandazione fondamentale “A chi ci
interroga per sapere se deve farsi uccidere oppure riconoscere (la missione profetica di Maometto), noi
rispondiamo: che riconosca Maometto e non si faccia uccidere”. L’ebreo che avesse accettato la conversione
forzata, doveva, per non diventare un trasgressore volontario dei comandamenti, abbandonare il luogo della
persecuzione: “deve partire, lasciando tutto ciò che gli appartiene e viaggiare giorno e notte fino a che non
trova un luogo dove possa praticare la sua religione. E il mondo è grande e vasto”
Il primo a mettere in discussione l’identificazione fra cristianesimo e idolatria fu, nella Provenza tra XIII e XIV
sec, R. Menahem ha-Meiri, un difensore del pensiero maimonideo nella disputa con i tradizionalisti. Egli partiva
da una distinzione tra le nazioni idolatriche dei tempi talmudici e i gentili del suo tempo: ciò contribuì ad
abbassare il livello di conflittualità con il mondo cristiano.
Tra conversione e ricostruzione: dopo l’elezione al soglio pontificio di Matino V, nel 1417, la situazione delle
comunità aragonesi e castigliane si ristabilì gradualmente. Nel 1419 il nuovo re d’Aragona, Alfonso V, abrogò la
prammatica reale dell’antipapa Benedetto XIII. Da quel momento in poi, gli ebrei avrebbero potuto di nuovo
possedere/leggere il Talmud e la letteratura rabbinica, esercitare i mestieri da cui la bolla li aveva esclusi ed
avere i propri tribunali: in sostanza, tornare alla situazione precedente il 1391.
Le conversioni, seppur di massa, avevano inciso maggiormente sui gruppi sociali più elevati: ebrei di corte,
rabbini, medici e notabili erano passati al cristianesimo, con l’effetto di cambiare la composizione sociale del
mondo ebraico spagnolo. Ai suoi vertici troviamo ora soprattutto i medici, mentre la gran massa della
popolazione ebraica viene ad essere composta da piccoli artigiani, prestatori e mercanti impoveriti. Anche la
geografia delle comunità è mutata. La maggior parte delle comunità del Regno d’Aragona sono distrutte o assai
ridotte in dimensione. La maggior parte degli ebrei vive ora in Castiglia, dove non esistevs inquisizione,
sparpagliata in numerosissime piccole comunità. Nel corso del secolo vi è un accrescimento demografico e un
ristabilirsi delle comunità. Questo processo fu agevolato dalle Corone, in particolare da quella di Castiglia,
preoccupate dell’impoverimento complessivo del mondo ebraico e della riduzione della sua capacità di
contribuzione fiscale.
La ripresa delle comunità castigliane successiva al 1419 fu opera di Abraham Benveniste, ebreo di corte,
nominato nel 1429 dal re di Catsiglia “rabino mayor”, ispiratore di quel sinodo delle comunità castigliane,
riunito a Valladolid nel 1432, che diede vita ad una riorganizzazione comunitaria.
Teoricamente un ebreo convertito al cristianesimo restava ebreo: per il Talmud “anche se Israele ha peccato,
rimane Israele”; fin dall’XI secolo questa formulazione fu trasformata in principio giuridico.
Il problema di valutare se un ebreo restasse tale anche dopo il battesimo si poneva in rapporto a problemi
giuridici concreti – vincoli matrimoniali, eredità, società commerciali.
Una donna che fosse sposata a un convertito poteva risposarsi o doveva prima ottenere il divorzio dal marito
divenuto cristiano? Era lecito prestare ad interesse ad un convertito? La risposta che i maestri ashkenaziti
avevano dato a queste domande era stata costantemente basata sul presupposto che un ebreo peccatore
restava un ebreo. Altra era la percezione diffusa con cui nel mondo ebraico erano giudicati i convertiti, visti
come cristiani, che trovava giustificazione nell’atteggiamento cattolico e persecutorio di molti di loro.

L’inquisizione spagnola: Nel corso del XV secolo, l’obbiettivo principale dell’attacco contro il mondo ebraico
comincia a non essere più l’ebreo pubblico, cioè colui che ha rifiutato la conversione, ma il converso.
Ferdinando e Isabella decisero di introdurre anche in Castiglia l’Inquisizione romana, presente in Aragona già
dal XIII secolo: nasceva così l’Inquisizione spagnola approvata da Sisto IV con una bolla del 1 novembre 1478. Il
potere di nominare o deporre i sovrani era totalmente demandato ai sovrani. Da parte sua la monarchia
istituiva nel 1480 il Consiglio dell’Inquisizione, in cui sedeva l’inquisitore generale (che dal 1483 al 1498 fu il
domenicano Tomas de Torquemada, confessore di Isabella) stringendo così legami indissolubili tra lo Stato e
l’inquisizione. Nel 1480 cominciano i processi a Siviglia contro i giudaizzanti. In seguito ad un tentativo di
ribellione dei conversos, ardono i primi roghi. Da allora in Spagna sarà frequente il macabro spettacolo degli
autodafè (in portoghese, atto di fede), le sentenze emanate pubblicamente e con grandi formalità
dall’Inquisizione, cui seguiva, a conclusione della cerimonia, il rogo dei condannati, operato dalle autorità
secolari perchè l’Inquisizione non poteva spargere direttamente il sangue. L’opposizione all’Inquisizione venne
dai conversos, ma anche dai sostenitori delle autonomie municipali e cittadine, e perfino dal clero locale, sia dai
vecchi che dai nuovi cristiani e già nel 1482 una bolla di Sisto IV condanna i metodi inquisitori ali e reclama il
controllo dei tribunali vescovili su quelli dell’Inquisizione. Ma il fronte di opposizione anti-inquisitoriale si ruppe
nel 1485 dopo che i conversos assassinarono nella cattedrale di Saragozza l’inquisitore Pedro de Arbues. Intere
famiglie appartenenti alle classi più elevate finirono sul rogo.
I processi andavano dimostrando che i nuovi cristiani nascondevano in cuore la fedeltà alla religione dei padri e
facevano venire alla luce complicità e protezioni tra ebrei e conversos: gli ebrei pubblici non si converitvano e
favorivano il rientro in senso all’ebraismo dei conversos. A partire dal 1484 gli ebrei aragonesi furono chiamati a
testimoniare nelle case inquisitoriali contro i giudaizzanti.
Il “santo niño de la Guardia”: la Spagna – volta alla centralizzazione dei Re Cattolici - ricorse allo strumento
tradizionale dell’accusa di omicidio rituale. L’accusa di La Guardia nacque nel 1490 in seguito al casuale arresto
di un converso in possesso di un’ostia consacrata. Interrogato sotto tortura, l’imputato aveva confessato,
coinvolgendo altre persone, sia nuovi cristiani che ebrei pubblici, di aver assassinato un bambino per
adoperarne il corpo a fini magici. Il bambino – che non era mai esistito e quindi privo di nome – è passato alla
storia sotto il nome di santo niño de La Guardia. Il processo, conclusosi con un solenne autodafé, che ebbe
vasta risonanza in tutta la Spagna, fu anomalo perché chiamava in causa insieme ebrei e conversos
L’immagine a cui si intendeva dar vita, era quella di un complotto di ebrei e nuovi cristiani contro la cristianità

L’espulsione: Le misure prese contro gli ebrei negli anni precedenti l’espulsione sono state interpretate come le
tappe successive di un processo ineluttabile e preparato da lungo tempo, che poi porterà all’espulsione; in
realtà, l’espulsione può essere interpretata anche come l’esito dell’oscillazione dei Re Cattolici tra la
conservazione della Legge tradizionale e le esigenze destabilizzanti dell’omogeneità religiosa e politica.
L’espulsione del 1492 derivò dall’inserimento in questo quadro di un elemento diverso, cioè la consapevolezza
del fallimento della politica conversionistica, e il tentativo estremo di salvarne i risultati conseguiti fino a quel
momento attraverso il taglio definitivo del cordone ombelicale che ancora legava ebrei pubblici e conversos.
Alla soluzione dell’espulsione si arrivò attraverso una linea spezzata che andava dalle istanze tradizionali di
stabilità ad una politica conversionistica essenzialmente destabilizzante e che con la prima entrava in
contraddizione. E il movente religioso, la necessità di isolare i nuovi cristiani dagli ebrei, fu alla base dell’editto
di Ferdinando e Isabella: “Gli ebrei cercano con tutti i mezzi possibili di sottrarre i fedeli cristiani alla nostra
Santa Fede Cattolica, di distoglierli, di sviarli e attirarli alla loro fede e opinioni dannate: li istruiscono delle
cerimonie ed osservanze della loro Legge, organizzano delle riunioni dove dicono e insegnano loro ciò che
devono credere e praticare seguendo la loro Legge, si occupano della circoncisione loro e dei loro figli”
Almeno fino al 1499, il rientro degli esiliati fu facilitato dalla Corona, che consentì a quanti si convertivano
prima di attraversare la frontiera, il recupero dei beni venduti o sequestrati in Spagna.
La scelta tra la conversione o l’esilio passava attraverso le famiglie, dividendole. Parte della famiglia, sovente le
donne, scelse così di partire per mare, mentre gli altri optavano per il battesimo.
Nel 1492 una parte degli esiliati si rifugiò a Navarra, piccolo stato dell’Occidente retto da una dinastia francese.
La Navarra aveva, nel corso della sua storia, offerto rifugio agli ebrei andalusi cacciati dagli Almohadi, a quelli
cacciati dalla Francia ed infine a quelli castigliani dopo i pogrom del 1391. A Navarra, la vita degli ebrei, a parte
qualche momento di crisi, era caratterizzata da notevole integrazione economica e sociale: essi potevano
vivere anche in mezzo ai cristiani e godere di diritti su terreni o case, esercitavano una vasta gamma di mestieri.
Nel 1498 la crescente influenza spagnola – che avrebbe portato alcuni anni dopo all’annessione della Navarra
alla Spagna – determinò i sovrani navarresi all’espulsione degli ebrei; la maggior parte dei navarresi scelse la
conversione, andando ad aumentare il nuemro dei conversos.

Gli ebrei in Portogallo: Una grande parte degli ebrei esiliati dalla Spagna avevano trovato rifugio in Portogallo,
incoraggiati dalla protezione del re Manuel, che considerava questo afflusso di profughi come un’occasione per
mettere a frutto le ricchezze e le capacità economiche ebraiche. Al momento dell’espulsione spagnola, re
Manuel aveva concesso a tutti il diritto di stabilirsi, limitatamente ad un periodo di 8 mesi, sul territorio
portoghese dietro pagamento di una tassa pro capite. Ma nel 1496, in seguito al suo matrimonio con l’Infanta
Isabella, cedendo alle pressioni spagnole, il sovrano decise la conversione forzata di tutti gli ebrei presenti in
Portogallo. In un primo momento, fu emanato un bando di espulsione che lasciava 10 mesi di tempo agli ebrei
per convertirsi o lasciare il regno. A questo fece seguito però, nel marzo 1497, un decreto che imponeva la
conversione a tutti i bambini tra i 4 ed i 14 anni col battesimo (poi affidati a famiglie cristiane). Nei mesi
successivi, furono imprigionati e torturati gli adulti convertiti. L’editto era un’iniziativa della Corona, ed incontrò
l’opposizione decisa della Chiesa portoghese che lo dichiarò contrario ai canoni ecclesiastici.
I moventi della corona erano finanziari ed economici, non religiosi, in particolare si voleva salvaguardare la
presenza degli ebrei come reddito fiscale per la corona, e anche come condizione di sviluppo economico e
commerciale; però questa esigenza entrò in contraddizione con la richiesta della Spagna di “purificare il regno
dalla presenza degli ebrei”: il re scelse, con una decisione spregiudicata e contraria alla tradizione, di
mantenere gli ebrei del regno, ma di sottoporli al battesimo.
Fu un evento assai traumatico per gli ebrei, rimase a lungo impresso nella memoria delle successive
generazioni. Le parole con cui lo descrive un marrano portoghese processato dall’Inquisizione veneziana nel
1555 hanno una forte carica emozionale: “in quel che se batizavano li Zudei in Portogalo per forza si
chaturavano li figlioli delli padri et li mettevano fra Christiani et battizavano per volontà o per forza (…) m’è
stato detto da mio padre che io fui tolto dal petto di mia madre et che fui batezato”
In uno spazio di tempo brevissimo, il Portogallo era diventato un regno senza ebrei.
Nel 1506 un’epidemia di peste devasta la città, un pogrom di vaste dimensioni si scatenò a Lisbona contro i
conversos, la violenza di sviluppò secondo gli schemi consueti, tranne che per il fatto che si scatenò contro
cristiani e non ebrei. Il movimento iniziò con il linciaggio di un neofita cristiano che si era mostrato scettico sulle
virtù miracolose di un crocifisso e si allargò rapidamente a colpire tutti i conversos. Alla testa del popolo vi
erano due domenicani, che saranno però giustiziati alla fine delle violenze, che incitavano la folla ad uccidere.
Il pogrom in Portogallo dimostra quale fosse la percezione delle masse cittadine di questi neofiti, che venivano
comunque considerati ebrei, perciò andava restaurato l’ordine religioso, turbato dalla tolleranza del potere
verso la fedeltà dei conversos all’ebraismo, per porre fine alla punizione divina che sotto forma di peste
infuriava in città. Dopo il ristabilimento dell’ordine, i conversos chiesero al sovrano di riaprire le frontiere e di
permettere loro di lasciare il paese. Il decreto che liberalizzava l’emigrazione fu emanato nel 1507 e consentì a
molti di partire verso terre più ospitali dell’Impero turco.
Questa politica consentì loro di sopravvivere sotto la protezione dalla Corona fino al 1515, data in cui il re mutò
improvvisante la sua linea e chiese al pontefice di introdurre in Portogallo l’Inquisizione spagnola.
All’origine di questo mutamento di politica, vi era soprattutto il bisogno si individuare nuovi canali di controllo
sui beni dei conversos. Il tentativo fallito, in un primo momento, sarà ripreso nel 1522 sotto Giovanni III
successore di re Manuel, ma anche questa volta le trattative con il papato andarono per le lunghe per la
riluttanza di Roma a concedere al Portogallo uno strumento che già deplorava di aver concesso alla più potente
spagna, sia per la vivace reazione dei conversos che tentarono di impedire questa svolta pagando al pontefice
ingenti somme. Sono nel 1536 il Portogallo avrà vinta partita, e l’Inquisizione farà la sua apparizione tra i
conversos portoghesi. Dal 1536 in poi, lasciare le terre d’Inquisizione diventerà una questione di sopravvivenza
per i conversos che vivevano in portogallo.

La “limpieza de sangre”: Neppure l’esilio riuscì a spezzare del tutto il legame degli ebrei con la terra spagnola,
quella Sefarad che resterà mitica nella loro memoria.
Vediamo apparire nel 400 un’idea del tutto nuova, quella della purezza di sangue, che modifica profondamente
il quadro ideologico dei rapporti tra ebrei e cristiani. Esiste una contraddizione profonda e insanabile tra l’idea
della conversione e una concezione che sottolinea il sangue, a dispetto della fede religiosa che si professa.
Anche se le discriminazioni nascono dal sospetto verso il cripto giudaizzante, esse finiscono rapidamente per
assumere un sapore decisamente razzista. L’Ebreo resta, a dispetto della conversione, colui nelle cui vene
scorre sangue ebraico. Le prime disposizioni che impediscono ai nuovi cristiani convertiti dopo il 1391 di
accedere a cariche pubbliche, ordini religiosi e corporazioni, appaiono alla metà del secolo e si moltiplicano
successivamente fino ad assumere pieno valore di legge nella metà del ‘500. Le prime ad adottarlo furono le
corporazioni. Alla fine del secolo gli ordini cavallereschi ne seguirono l’esempio, mentre i cristiani nuovi
venivano esclusi dai collegi universitari, i Colegios Mayores.
Quello dei gesuiti, l’ordine in cui Ignazio di Loyola si era opposto agli statuti, e un cui generale, Lainez, era lui
stesso un discendente di conversos, li adottò solo nel 1592.
Nel 1536, Carlo V concesse la sanzione imperiale agli statuti di limpieza de sangre e poco dopo anche la chiesa
fu costretta a sanzionarli.
V – Gli ebrei in Italia

Mentre per gli ebrei d’Europa il ‘300 è stato il secolo di violenze, espulsioni ed esili, in Italia esso ha segnato
l’inizio di un periodo di grande espansione, in cui nuove comunità si sono costituite e in cui Stati e città italiani
sono divenuti terra di rifugio per gli esuli dalla Germania, Francia, e infine Spagna.
L’Italia è quell’Isola della rugiada divina, I Tal Ya, descritta in questa fantasiosa etimologia diffusa già in età
molto antica tra gli ebrei. Gli ebrei italiani si spostano in qualche caso costretti dalle espulsioni, come nel Regno
di Napoli, o mossi da necessità dei traffici commerciali e finanziari. Il vuoto che si crea a Roma con il
trasferimento della sede papale ad Avignone: spinge infatti molti ebrei romani a cercare luoghi più propizi di
residenza nei comuni e nelle signorie dell’Italia centro-settentrionale.
Dopo la Peste Nera, numerosi sono gli ebrei ashkenaziti che scendono in Italia, cacciati dalla Germania da
massacri e ripetute espulsioni locali, e dalla Francia dalle espulsioni generali del Trecento. È questa duplice
corrente migratoria – da Roma verso il Nord e dai paesi d’Oltralpe verso il Sud – che darà vita, a partire da fine
del Duecento e lungo tutto il Trecento, alle comunità di banchieri che costellano città e comuni dell’Italia
centro-settentrionale. Un’Italia meridionale che si riprende stentatamente dalla crisi, una Roma marginale,
un’Italia centro-settentrionale che va solo ora popolandosi.

I banchi di prestito: stanziandosi nelle città italiane, sia gli ebrei romani sia quelli tedeschi diedero vita a
comunità centrate intorno all’attività di uno o più prestatori: si formò un ambiente composito di artigiani e
mercanti. L’invito allo stanziamento del prestatore ebreo partiva dalle autorità municipali, bisognose di liquidi
per le necessità cittadine, o anche solo desiderose di creare banchi di prestito su piccola scala per mitigare la
piaga della povertà.
Le città stipulavano generalmente un vero e proprio patto, che concedeva il prestatore e al suo seguito la
cittadinanza per un certo numero di anno e stabiliva le condizioni dell’apertura di banco di prestito e della sua
gestione. Attraverso questi documenti (le condotte: contratti temporanei che fissavano l’ammontare del
capitale che il prestatore si impegnava ad investire nel banco e il limite dell’interesse esigibile) è possibile
risalire all’origine di tali insediamenti. Norme specifiche riguardavano la possibilità di avere una sinagoga, un
cimitero, un macello rituale e di osservare le festività ebraiche e di osservare le festività ebraiche, come anche
di prestare nei giorni delle festività cristiane.
È così che a partire dalla fine del Duecento i banchieri ebrei provenienti da Roma aprono i loro banchi in
numerosi centri dell’Umbria, Marche, Toscana, Emilia, Veneto; nello stesso periodo, gli ebrei ashkenaziti
scendono numerosi verso le città italiane e aprono banchi. Un caso particolare fu quello di Milano, dove un
decreto del 1320 imponeva l’allontanamento degli ebrei, preludio a una politica che avrebbe sostanzialmente
impedito qualsiasi stabile stazionamento di ebrei nella città.
Gli ebrei francesi si stanziano in Piemonte e in Monferrato. Non tutte le città italiane accettarono o
sollecitarono la presenza ebraica: ne è un esempio Firenze, in cui i banchieri ebrei furono ammessi solo nel
1427 in cui la concorrenza della grande banca fiorentina lasciò comunque al prestito ebraico margini di
sviluppo assai ristretti. Per eliminare l’attività del prestito ebraico non bastavano le prediche contro l’usura, ma
era necessario trovare strumenti che lo sostituissero.
Il Monte di Pietà, ideato dai francescani nella seconda metà del ‘400, obbediva a queste esigenze. La sua
creazione era preceduta da un’intensa attività di predicazione, destinata a creare il consenso delle masse
popolari, e a suscitare le loro ansie di partecipazione al processo di purificazione della società cristiana
dall’usura ebraica. Si trattava di dimostrare che il mondo cristiano poteva risolvere dal suo interno, sulla base di
principi di carità e amore verso i poveri, i problemi che fino a quel momento erano stati risolti attraverso gli
ebrei. Il Monte è, nella sua prima fase, una via di mezzo tra un istituto bancario e un’istituzione caritatevole.
L’interesse richiesto – dal 5 al 10% - era una copertura delle spese di gestione, il che non impedì ad agostiniani
e domenicani di attaccare il Monte come una forma di prestito su interesse. Nel corso del ‘500, il Monte si
avviò a trasformarsi in un istituto di credito vero e proprio, con investimenti produttivi e interessi legalizzati.
La banca cristiana aveva così soppiantato quella ebraica. Il Monte di pietà servì a catalizzare la crisi e
trasformarla in una vittoria della religione contro il male. La battaglia francescana era rivolta a combattere
insieme la povertà e l’usura ebraica.
Il caso di Venezia è assai particolare perché il prestito – sia ebraico che cristiano – vi era stato proibito fin dal
1245. Prestatori cristiani esistevano però sia a Mestre che a Treviso, e a loro si rivolgevano i veneziani,
nonostante i divieti. È solo dopo la guerra di Chioggia (1378-81), causa di una forte carenza di liquidità a
Venezia, che la città lagunare muta la sua politica tradizionalmente avversa al prestito, e consentire a chiunque
di prestare per 5 anni al tasso massimo del 10% su pegno e del 12% su obbligazione. Nel 1385 la concessione fu
rinnovata per altri 10 anni, questa volta con un esplicito riferimento ai prestatori ebrei, a cui veniva offerta la
scelta tra pagare al tesoro veneziano la somma di 4mila ducati l’anno e mantenere il tasso d’interesse
precedente oppure ridurre del 2% il tasso.
Agli ebrei veniva inoltre promesso un luogo dove abitare insieme pro commodo eorum (per loro vantaggio). Nel
1386, un terreno veniva loro concesso per adibirlo a cimitero. Ma si trattava solo di una parentesi: nel 1394 il
senato di Venezia decideva che alla scadenza della condotta nel 1396, non l’avrebbe rinnovata e avrebbe
espulso gli ebrei dalla città. A questi ultimi era ormai vietato risiedere a Venezia per più di 15 giorni.
E’ nel 1492 la prima menzione di un’università o comunità degli ebrei abitanti nella città di Venezia e in altre
città o luoghi della terraferma, ribadita nella legislazione dei primi anni del ‘500.
Nel 1513, dopo un tentativo di far tornare i prestatori a Mestre, Venezia consentì infine il prestito nella città.
La creazione del ghetto nuovo avrebbe segregato gli ebrei in una zona periferica vicino a Cannaregio.
La comunità ebraica di Venezia nasce come una comunità di banchieri: qui spingono a privilegiare il prestito ai
poveri e a mantenere molto bassi i tassi di interesse. Successivamente, i banchi saranno trasformati in “banchi
dei poveri”, facendo di Venezia l’unica città in cui “il Monte di Pietà viene esercitato dagli ebrei”.
Il caso veneziano ci permette anche di cogliere con chiarezza il passaggio dal prestito cristiano a quello ebraico,
motivato dalla minor convenienza del primo, i cui alti tassi di interesse erano difficilmente controllabili dalle
autorità, e i cui profitti erano meno facilmente assoggettabili ad imposizioni fiscali.
Importante è il caso di Bologna in cui la presenza di banchieri cristiani – bolognesi e più tardi toscani –
organizzati nell’Arte dei campsores (cambiatori e prestatori), riuscì ad impedire fino alla seconda metà del ‘300
la presenza dei prestatori ebrei.
La creazione di un Monte, nel 1473, non portò all’allontanamento degli ebrei. Solo l’instaurazione del dominio
papale a Bologna, e l’espulsione decretata dalla Bolla Caeca et obdurata del 1539 porranno fine all’esistenza
delle comunità. Gli ebrei partirono infatti da Bologna, diretti a Ferrara e a Mantova, nel novembre 1593.
E’ il caso di Siena, dove il comune invitò i prestatori ebrei a stabilirsi in città nel 1309, e dove il prestito ebraico
sembra aver esercitato, oltre alla funzione di prestito per i poveri, soprattutto quella di finanziamento delle
casse comunali. Intorno al 1420, il comune rinunciò al rinnovo della condotta con gli ebrei e tentò di gestire
direttamente il prestito. Ma già pochi anni dopo , nel 1437, doveva nuovamente rivolgersi agli ebrei.
In Umbria, una delle zone più antiche di insediamento dei banchi, all’inizio del ‘300, facilitati dal minor tasso
d’interesse, gli ebrei sembrano avervi soppiantato ormai del tutto i banchieri cristiani. Gli stanziamenti ebraici
in Umbria erano una cinquantina.
Nel ‘400, quando l’attività dei francescani incrementa e moltiplica i Monti di Pietà, i banchi ebraici entrano in
crisi. È allora che troviamo gli ebrei occupati in numerose attività mercantili e artigianali: vetturai, mercanti di
zafferano, di pelli, straccivendoli, merciai e fin 3 ebrei di Perugia iscritti all’Arte dei pittori.
In molte città umbre, la predicazione francescana, in particolare quella di Bernardino da Feltre, e la creazione
dei Monti porta all’estinguersi delle comunità, alle espulsioni, a conversioni. Così a Gubbio, ad Assisi, a Spello e
nella stessa Perugia, nel 1485, un terzo degli ebrei scelse la conversione e molti altri optarono per l’esilio.
Gli ebrei nell’Italia meridionale e in Sicilia: per gli ebrei dell’Italia meridionale, il secolo XIV inizia
disastrosamente a causa della conversione forzata imposta nel 1292 dai sovrani angioini. La vicenda è ricordata
in una predica del 1304 del domenicano Giordano da Rivalto che fa risalire ad un’accusa di omicidio rituale
nelle Puglie. In realtà, realizzata tra il 1290 e 1294, lascia aperti molti problemi.
Il ruolo di primo piano che sembra vi abbia giocato l’inquisizione la fa apparire anomala rispetto al fatto che le
espulsioni più o meno contemporanee degli ebrei dalla Francia e dall’Inghilterra furono iniziativa dei sovrani e
non del clero. Molti elementi concorrono a sottolineare il ruolo giocato dalla monarchia angioina nella politica
conversionistica, primo fra tutti la forte pressione fiscale cui gli ebrei erano sottoposti nei decenni precedenti,
che impoverì fortemente le comunità e favorì gli elementi di pressione esterna. 7 mila su 15 mila scelsero la
conversione; coloro che non accettarono il battesimo andarono ad alimentare il flusso delle migrazioni verso
Nord (Mantova) e verso la Sicilia. Ben presto, però, negli anni immediatamente successivi, le comunità distrutte
cominciarono a ricostruirsi.
Nel 1442, col passaggio alla dinastia aragonese, gli ebrei dell’Italia meridionale godettero di una parentesi
privilegiata. Alfonso I tolse ai tribunali vescovili la giurisdizione sugli ebrei, creando una magistratura apposita,
il bajulo, e accordò loro l’abolizione del segno distintivo.
Sotto Ferrante, gli ebrei godettero della completa libertà di movimento e del diritto di piena cittadinanza. Nella
seconda metà del ‘400, essi raggiungevano i 50 mila, ripartiti in 150 diverse località: molti erano banchieri, altri
artigiani e commercianti. Anche in Sicilia gli ebrei erano assai numerosi; nel 1492, quando l’editto poneva fine
alla loro presenza millenaria sull’isola, essi sarebbero stati tra i 35 e i 50 mila. L’elemento più significativo
dell’organizzazione sociale/economica degli ebrei siciliani era la mancanza del prestito, proibito dalla Corona su
richiesta delle stesse comunità. Gli ebrei siciliani erano mercanti, agricoltori, artigiani, lavoratori/commercianti
del pesce, produttori/venditori di vino, gioiellieri.
Rabbi Ovadiah di Bertinoro, nel 1488, lasciò un prezioso resoconto del viaggio da lui compiuto per stabilirsi a
Gerusalemme: la povertà degli ebrei siciliani, in gran parte lavoratori manuali; l’esistenza di pesanti
discriminazioni, come l’obbligo del segno, quello di curare la pulizia dei palazzi reali.
Nella seconda metà del ‘400, si verificarono i pogrom e massacri a Noto, Modica, e in altre zone della Sicilia. Ma
l’espulsione fu un fattore esterno, frutto di un’imposizione dei re spagnoli, e fu osteggiata dal viceré e dai
rappresentanti delle maggiori città. Il termine finale per l’esilio fu fissato al 12 gennaio 1493. La medesima sorte
era toccata, fin dal luglio, 1492, agli ebrei in Sardegna; qui gli ebrei erano presenti in due grosse comunità, una
a Cagliari e l’altra ad Alghero (qui essi svolgevano un ruolo importante nel commercio verso la Spagna e le
Baleari e godevano di privilegi particolari, come l’esonero dal segno). Lo stato giuridico degli ebrei sardi era
molto simile a quello d siciliani; a differenza di questi ultimi, però, essi potevano esercitare il prestito.
Nel 1492, la maggior parte degli ebrei partì dal porto di Cagliari in direzione delle coste africane, da dove
successivamente prenderanno la strada dell’Impero turco.
L’invasione francese del 1494 fece da catalizzatore delle tensioni nel Regno di Napoli (lo Corona aveva qui
accolto la maggior parte degli esuli spagnoli). Mentre i francesi scendevano verso Napoli, le masse meridionali
si assunsero il compito di sbarazzarsi degli ebrei, forse nella certezza che dalla Francia essi non avrebbero
potuto ricevere protezione né aiuto.
Nonostante Federico III d’Aragona, nello scorcio di secolo che precedette il passaggio del Regno di Napoli alla
Spagna, tentasse di tornare alla politica precedente, forti erano le spinte all’interno della società a trasformare
il Regno di Napoli in un regno senza ebrei. Nel 1502, però, l’avvento del dominio diretto della Spagna rendeva
irreversibile l’espulsione, attuata in successive ondate nel 1510, nel 141 e infine nel 1541
Gli ebrei a Roma: gli ebrei vivevano a Roma fin dall’età antica, con una continuità che rendeva la comunità
romana unica in tutta la diaspora. Nel corso dei secoli nessuna espulsione li aveva scacciati dalla città. All’inizio
dell’XI secolo cominciano ad apparire le prime tracce della loro presenza.
Gli ebrei romani si trovavano di fronte – mescolati ed intrecciati – sia potere politico cittadino che il papato,
cioè la somma autorità religiosa del mondo cristiano.
Dopo il XIV secolo l’intreccio tra sovranità temporale e spirituale del pontefice diventa più stretto.
La prima descrizione della comunità romana ci viene da Beniamino da Tudela, un mercante ebreo spagnolo del
XII secolo che ci ha lasciato una cronaca preziosa del viaggio da lui compiuto attraverso la maggior parte del
mondo conosciuto. Nel suo passaggio a Roma, beniamino incontrò circa 200 famiglie di ebrei che vivevano
tranquillamente e che non erano assoggettati ad alcuna imposizione fiscale.
Nel ‘300, il passaggio di tanti ebrei romani al nord ridusse notevolmente le dimensioni della comunità romana.
L’organizzazione comunitaria romana – risalente all’XI secolo – era basata su un’assemblea generale che
decideva a maggioranza su un potere esecutivo formato da 3 fattori, che duravano circa 4 mesi.
Dopo aver abitato, fino al XIII secolo, il quartiere di Trastevere, nel ‘300 gli ebrei cominciarono a stabilirsi nel
quartiere S. Angelo – dove poi sarà edificato il ghetto.
Le bolle “liberalizzanti” con cui Martino V, nel 1419 e poi 1429, ribadiva la qualifica degli ebrei di cittadini,
consentiva loro la libera associazione con i cristiani. Più ambigua fu la politica del suo successore Eugenio IV,
che inizialmente confermava la linea di garanzie date agli ebrei, ma che nel 1442 emanava una bolla di segno
diametralmente opposto nella quale gli ebrei venivano sottoposti a molte restrizioni che andavano dalla
proibizione del commercio e del prestito fino al divieto dello studio dei libri talmudici. La bolla del 1442 fu però
revocata nel giro di pochi mesi, in seguito ad un forte donativo da parte degli ebrei romani.
Che banchi di prestito e di pegno esistessero sembra assai probabile, ma non resta traccia di contratti. A
documentare in maniera inequivocabile l’esistenza a Roma di banchieri ebrei sono i Capitoli di Daniele da Pisa,
che nel 1524 riorganizzano la struttura della comunità, dividendola in tre classi di censo di cui la prima è quella
dei banchieri. Un importante gruppo privilegiato tra gli ebrei romani sembra essere quello dei medici. Gli ebrei
sono, assai sovente, gli archiatri pontefici, come quel Bonet de Lattes, provenzale, che fu medico di Alessandro
VI, Giulio II e Leone X. I medici ebrei godevano a Roma di un trattamento e di un prestigio particolare: essi
erano esonerati dal portare il segno distintivo, e al loro nome era permesso una qualifica onorifica.
Un importante elemento dei rapporti tra comunità romana e papato erano le imposizioni fiscali sulla comunità.
Se nel secolo XII gli ebrei romani erano esonerati da ogni imposta, nel ‘300 essi erano ormai sottoposti a una
notevole pressione finanziaria. L’origine della prima tassa pagata dagli ebrei romani risale al 1310, quando
iniziarono a versare un tributo annuo di 10 fiorini d’oro per riscattarsi dall’obbligo di partecipare ai giochi
carnevaleschi di Agone e Testaccio, dove si trovavano esposti alla violenza e irrisione popolare. A questa tassa
fu aggiunta la somma di 30 fiorini, in ricordo dei 30 denari con cui Giuda avrebbe venduto Cristo.
Alla fine del ‘400, gli ebrei romani sono sottoposti ormai ad una pressione fiscale fortissima, che si accentuerà
nell’età del ghetto. Fu introdotta, a metà del ‘400, un’altra tassa – la vigesima – diretta sui redditi, imposta agli
ebrei per sopperire ai bisogni della crociata contro i turchi. Nella seconda metà del ‘500, l’inasprirsi della
tassazione sugli ebrei assumerà un dichiarato e consapevole carattere ideologico.
L’avventura di David Reubeni: l’ondata messianica che nel mondo ebraico accompagnava l’espulsione non si
limitava a suscitare l’interesse degli ebrei, ma risvegliava quello di un mondo cristiano sempre più pervaso da
un forte misticismo apocalittico. In questo clima, il passaggio tra Roma e il Portogallo di un avventuriero ebreo
creò adesioni e curiosità insospettate e sembrò incarnare l’abisso esistente tra il clima italiano e le tensioni
esacerbate del mondo iberico.
David Reubeni sbarcò a Venezia sul finire del 1523. Diceva di venire dal deserto di Habor, in Arabia.
Nella città di Laguna, egli non prese alloggio nel ghetto, si presentò come ebreo e alluse oscuramente alla sua
missione. Riprese poi la strada verso Roma, ove giunse il 21 febbraio 1524. Qui si presentò al cardinale Egidio
da Viterbo e successivamente di Daniele da Pisa, personaggio dei più autorevoli della comunità romana. Ma in
generale, l’accoglienza resagli dalla comunità romana non fu delle migliori. Nel suo Diario, egli si riferisce a
tensioni e inimicizie e racconta che “due malvagi calunniatori andarono a dire al papa: questo ambasciatore
ebreo che dice che è inviato dal Signore mettigli fuoco e brucialo, vedrai se Dio lo salva dal fuoco”. Ciò
nonostante, David ottenne notevole credito presso la corte di Clemente VII. David gli espose le sue richieste: “e
ne risultò che questo David è mandato per stipulare un patto col papa e chiedergli armi da guerra, cioè armi da
fuoco cortetti e falconetti e loro simili per mezzo del re del Portogallo per fare una guerra contro i re ismaeliti
fino al Santuario di Dio”. David ottenne da Clemente VII delle lettere di raccomandazione per il re del Portogallo
e per il sovrano di Etiopia. David potè quindi recarsi in Portogallo, allora nel pieno delle lunghe trattative con
Roma che porteranno nel 1536 all’introduzione del regno dell’Inquisizione. In questo contesto, l’arrivo di una
figura come la sua non poteva mancare di suscitare una vasta ondata di aspettative nel mondo sempre più
complesso e soffocato dei conversos, e non molto diverse da quelle ansie millenaristiche che agitavano anche il
mondo cristiano e che nella seconda metà del secolo avrebbero dato vita al sebastianismo, il movimento che
dopo la morte del re Sebastiano, nel 1578, si alimentò delle speranze popolari nella sua resurrezione. Lo scopo
ufficiale della missione di David in Portogallo era quello di stringere con il re Giovanni III un’alleanza in funzione
antiturca e di ottenere in cambio le nuove armi dell’artiglieria. È probabile che dietro a tale progetto ve ne
fosse un altro segreto di far ritornare all’ebraismo le masse dei conversos portoghesi e di farle emigrare nella
terra di Israele, una volta che questa fosse stata riconquistata dai turchi. Il mondo dei connnversos portoghesi
accolse il suo arrivo come quello di un liberatore e di un messia; un giovane converso, Diogo Pires, tornò
clamorosamente all’ebraismo e si unì al progetto di David. Tale episodio destò un grosso scandalo negli
ambienti di corte, e spinse Giovanni III a rinnegare tutte le sue promesse di alleanza e a cacciarlo dal paese:
Pires, sotto il nuovo nome di Shelomò Molko, si rifugiò a Gerusalemme. Intorno al 1530 tornò in Italia, e a
Venezia ritrovò Molko, tornato dalla Palestina e sa Salonicco, dove era diventato studioso e mistico di fama.
Lasciata l’Italia, Rubeni e Molko andarono a Ratisbona per chiedere udienza a Carlo V; tuttavia, questa non fu
concessa e Molko fu arrestato dall’imperatore, poi bruciato come giudaizzante a Mantova nel 1532. David
Rubeni farà la stessa fine a Badajoz nel 1538.
Questa vicenda è rivelatrice per molti elementi: la differenza tra il mondo italiano e quello sefardita, tra il
messianismo degli ebrei spagnoli e dei conversos e lo scetticismo di quegli ebrei veneziani e romani che
consideravano Reubeni un pericoloso impostore.
Nel 1533 Clemente VII espresse, nella bolla sempiterno regi, che le conversioni portoghesi del 1497 venivano
esplicitamente definite come conversioni forzate e i conversos ritornati all’ebraismo venivano sottratti alla
giurisdizione dell’Inquisizione; mirava a tracciare una distinzione netta tra conversione spontanea e forzata,
quindi a salvaguardarne l’idea stessa. L’opzione di paolo IV, quando nel 1555 sceglierà di perseguitare i marrani
di Ancona, sarà diametralmente opposta.
Tra esterno e interno: gli ebrei e la cultura del Rinascimento: come un’amante molto desiderata e da cui
tuttavia ci si vorrebbe allontanare, la cultura ebraica è insieme accarezzata e respinta dai sapienti e dai filosofi
dell’umanesimo italiano. Illustrata dai letterati, filosofi e scienziati oltre che dagli studi tradizionali, la cultura
ebraica dell’Italia di questi secoli è ricca e complessa, e si esprime in molte forme, alcune interne al mondo
ebraico e alla tradizione, altre influenzate dall’universo cristiano, partecipi dello sforzo umanistico.
Perché gli umanisti si potessero accostare ai testi ebraici, era innanzitutto necessario che si impadronissero
degli strumenti filologici e critici necessari alla loro comprensione diretta. Agli ebrei veniva così richiesto di
insegnare la propria lingua ai cristiani e di far loro da guida ai testi biblici e rabbinici. Ciò che suscitava
l’interesse del mondo umanistico era il pensiero cabalistico. Ma cos’era questa tradizione cabalistica, oggetto di
tanta appassionata scoperta nel mondo italiano del Rinascimento? In ebraico, qabbalah vuol dire “tradizione
riceuvta” e designa la particolare forma assunta dal misticismo in Provenza nel XII secolo e in Spagna nel XIII
secolo. Forti legami esistono tra il sistema cabalistico e un testo, diffuso nel Medioevo, attribuibile a un periodo
incerto tra il II e VI, il Libro della Creazione, Sefer Yezirah. Alle origini del movimento esoterico cabalistico, nella
Provenza del XII secolo, troviamo un testo di difficile datazione e di incerta provenienza e genesi, il Sefer Bahir,
cui precisi elementi gnostici penetrano nella dottrina ebraica. Il testo fondamentale della Qabbalah è il Libro
dello Splendore, lo Zohar, composto in Spagna alla fine del XIII secolo.
Dopo il 1492, la Qabbalah si trasformò profondamente, divenendo al tempo stesso un patrimonio allargato e
un’arma nelle mani di tutti. Questa trasformazione sarà opera della scuola mistica luriana: Moshè Cordovero e
Itzaak Luria. L’obiettivo della Quabbalah era quello di giungere a ricomporre l’unità infranta di Dio. I concetti di
presenza di Dio e di frantumazione della sua unità verranno reinterpretati come il corrispondente nel mondo
divino dell’esilio terreno, e la ricomposizione dell’unità divina divenne la chiave della redenzione. Questi
simboli divennero forze potentissime nel grande movimento messianico di Sabbatay Tsevi del 1666.
Nascono così, a partire dal 1516, alcune grandi imprese editoriali: la prima edizione a stampa completa della
Bibbia rabbinica, e quella del Talmud di Babilonia e di Gerusalemme.
Questo mondo di convertiti non mancava di suscitare nel mondo ebraico preoccupazione; l’appropriazione
della cabbala da parte dei sapienti cristiani era funzionale a una visione che mirava alla conversione degli ebrei
Tale progetto poteva, nei suoi momenti più alti, assumere l’aspetto utopico della credenza in un’unica sapienza
comune a tutti i filosofi e dotti; questo era il progetto di Pico della Mirandola: la conversione degli ebrei ne era
un momento essenziale (non mirava ad un’appropriazione indebita della loro religione). Attorno a questa figura
si raduna un gruppo di convertiti, partecipi dei suoi ideali filosofici e legati ai suoi progetti. Alcuni di questi –
come Flavio Mitridate che divenne dopo la conversione un dotto umanista – rappresentano il frutto più
significativo ed estremo del fascino esercitato dal platonismi fiorentino su alcuni intellettuali ebrei.
Gli esponenti di quel movimento che è stato di recente definito con l’espressione di “umanesimo ebraico” –
come David ben Judah Messer Leon – preferirono inserire le nuove esigenze portate dal movimenti umanistico
dentro la cultura interna ebraica e la vita civile e religiosa delle comunità, entrando in una sorta di
competizione con l’umanesimo cristiano. Non fu questo il percorso di Avraham Yagel, rabbino, medico e
cabalista, che visse a Mantova tra la fine del ‘500 e i primi decenni del ‘600; egli tentò di conciliare la cultura
ebraica con quella cristiana; è in lui costante il richiamo ad una sorta di antica preminenza della conoscenza e
della scienza ebraica, unito però alla credenza sostanziale in una prisca veritas (verità antica), molto simile a
quella di Pico. Il problema che intellettuali come Yagel si trovavano di fronte era di conciliare la credenza in una
prisca theologia con quella che la verità appartenesse esclusivamente al mondo ebraico: qui stava il punto
critico di ogni operazione culturale sincretistica.
Dall’altra parte, nel mondo cristiano, l’attrazione per la cultura ebraica doveva, per essere accettata, essere
inserita entro lo schema della conversione.
Reuchlin, dotto umanista ed ebraista, legato a Pico e Erasmo, e in nessun modo “filosemita”, si schierò contro
l’offensiva che veniva portata avanti da due convertiti, Pffeferkorn e Von Karben per imporre il sequestro dei
libri rabbinici.
VI – L’età dei ghetti

Il ghetto tra reclusione e protezione: Paolo IV istituiva il ghetto di Roma con la bolla Cum nimis absurdum, nel
1555 (esisteva quello di Venezia già dal 1516): da quel moment in poi, in tutte le località dello Stato della
Chiesa in cui vi erano ebrei, essi avrebbero dovuto vivere concentrati in un sola strada, separata dalle abitazioni
dei cristiani, e con una sola via di comunicazione con l’esterno, chiusa da un portone. Si stabilì inoltre che non ci
sarebbe potuta essere più di una sinagoga e che gli ebrei non avrebbero potuto avere proprietà immobiliari e
che avrebbero dovuto vendere immediatamente ai cristiani quelle che già avevano. La scelta della Chiesa è
quella di una rigida segregazione, per necessità di salvaguardare lo stato di inferiorità degli ebrei.
Molte ipotesi sono state fatte sull’origine del termine “ghetto”: la più probabile è che si tratti di un toponomio
che designasse la zona del ghetto già prima che fosse destinata all’abitazione degli ebrei, e che derivasse
dall’attività delle fonderie (getto, da gettare); un’altra ipotesi è quella che lo fa risalire al termine usato per
definire il molo – la gettata – del porto di Genova dove, nell’esodo della Spagna del 1492, gli ebrei si
fermarono, sottoposti a molte angherie da parte dei genovesi e senza poter entrare in città; il termine più usato
nei documenti ebraici è hasser, recinto. Il primo uso del termine ghetto in un documento papale risale alla bolla
Dudum a Felicis emanata da Pio IV nel 1562. Ma è solo a partire dalla fine del secolo che il suo uso si
generalizza, entrando a Roma nella documentazione ebraica, dove prende la forma ghet, libello di divorzio.
Il ghetto appariva ormai come una separazione definitiva dalla società dei cristiani: agli ebrei era stato imposto
il divorzio, il ghet, dal mondo esterno.
Dal 1555 fino al ‘700, tutti gli Stati italiani che non avevano espulso gli ebrei finirono per chiuderli nei ghetti
(furono costruiti anche a Bologna, Ancona, Ascoli, Imola e Recanati)
Con la bolla Haebreorum gens di Pio V (1569) furono mantenuti in vita solo i ghetti di Roma e Ancona, mentre
vennero espulsi gli ebrei dalle altre località.
Nel 1593, Clemente VIII, con la bolla Ceca et obdurata, sanciva l’esistenza dei soliti ghetti di Roma, Ancona,
Avignone. Quando Ferrara passò sotto il dominio della Chiesa, furono creati i ghetti di Ferrara, Cento e Lugo.
Nel 1634 anche il ducato di Urbino passò alla Chiesa e furono istituiti i ghetti di Urbino, Pesaro, Senigallia.
In Toscana, i granduchi permisero il libero insediamento degli ebrei a Pisa e a Livorno, ma costruirono ghetti a
Firenze e Siena, sia in piccoli borghi, come Monte San Savino e Pitigliano. Nel 1658 dopo esser diventata porto
franco, Genova, che aveva sempre attuato verso gli ebrei una politica di limitati e temporanei permessi di
soggiorno e di bilanciate espulsioni, consentì ad un nucleo di ebrei di stanziarsi stabilmente in città, nel ghetto.
Il ducato di Milano non conobbe ghetti, perché gli ebrei vi furono espulsi in maniera definitiva nel 1597.
In Piemonte, la creazione dei ghetti fu assai tarda. Nel 1679-80 il ghetto fu istituito a Torino, e a partire dal 1723
fu esteso a molte località abitate dagli ebrei. Nello stato veneto, tra fine ‘500 e inizi ‘600, ghetti furono istituiti a
Verona, Padovs, Rovigo.
La chiusura forzata di ebrei si era verificata anche altrove: nel 1462 nel ghetto di Francoforte, in spagna nel
1480 divenne norma generale la segregazione, anche con motivazioni ideologiche.
Quel che caratterizzava il ghetto come fenomeno italiano non è solo il termine con cui finisce per essere
universalmente designato, ma essenzialmente la caratterizzazione ideologica che assume, che è diversa da
quella esclusivamente segregazionista. Con la creazione del ghetto, la Chiesa riaffermava ancora una volta la
necessità della presenza ebraica nel suo seno. Ma più di prima, questa presenza doveva essere subordinata
l’esaltazione della verità cristiana. Il ghetto finiva così per essere il primo strumento della politica
conversionistica tentata dalla Chiesa della Controriforma. l’invenzione di uno spazio artificiale in cui rinchiudere
gli ebrei in attesa della loro conversione, perciò poteva anche essere considerato come un recinto (hasser=
recinto in ebraico) di un istituto di correzione, allargato a contenere tutti gli ebrei.
Il Rabbi di Bacherach, il grande poeta tedesco dell’Ottocento Heinrich Heine, ebreo convertito, dava del ghetto
di Francoforte: aveva due porte a sbarrarne gli accessi, che nelle festività ebraiche venivano chiuse dall’interno
e in quelle cristiane dall’esterno.
Lo spazio del ghetto: il ghetto di Venezia, il primo ad essere edificato, è anche l’ultimo fra i ghetti italiani ed
europei ad essere rimasto intatto: i suoi cancelli furono abbattuti dopo la caduta della Serenissima nel luglio
1797, durante l’occupazione francese. Nel 1516 il ghetto venne realizzato mediante l’apposizione di due
cancelli sui due ponti che collegavano l’isola del ghetto alle altre isole; le finestre e le porte esterne delle case
del ghetto dovevano essere murate e ogni altra apertura chiusa; inoltre, gli ebrei non potevano essere
proprietari di case; i precedenti abitanti furono sfrattati, e i proprietari di queste case poterono affittarle agli
ebrei con un aumento del 30% del canone. Il “ghetto nuovo” si apriva su un vasto campo circolare.
Sotto i portici delle case avevano sede i banchi di prestito e le botteghe. Quando le condizioni di
sovraffollamento, nel 1541, spinsero i mercanti levantini – i sefarditi provenienti dall’Impero turco – a chiedere
delle condizioni migliori di permanenza nella città, fu deliberata la creazione di quel che fu chiamato “ghetto
vecchio”, che sorse accanto al “ghetto nuovo”. Esso era destinato ad ospitare soltanto gli ebrei levantini. Di
questo allargamento è frutto l’istituzione, nel 1633, del ghetto nuovissimo, senza botteghe né sinagoghe,
destinata solo all’abitazione. Le sinagoghe erano 3 nel ghetto nuovo, la Scola tedesca e la Scola Canton di rito
askenazita, e la Scola italiana, e due nel ghetto vecchio, la Scola levantina e la Scola spagnola, di rito spagnolo.
Già tre mesi dopo il decreto Cum nimis absurdum, nell’ottobre 1555, venne terminata la costruzione del muro
di cinta, il cui onere finanziario, 300 scudi, gravò sulla comunità. Le porte che davano accesso al ghetto
restavano aperte dall’alba ad un’ora dopo il tramonto. Il rione S. Angelo era già precedentemente abitato dai
4/5 della popolazione ebraica romana, ma vi abitavano anche cristiani, e vi erano anche ebrei proprietari di
abitazioni. Con la bolla di Paolo IV, i romani ebrei furono costretti a vendere entro breve tempo, e quindi a
prezzi stracciati, i propri possessi immobiliari. Nei primi decenni del ‘500, vi erano a Roma 9 o 10 sinagoghe, poi
con il ghetto furono ridotte a 7, poi a 5 e accorpate in un unico edificio, in piazza delle Cinque Scole: la scola del
tempio, la siciliana, la catalana, la nova e la castigliana. E’ infatti un ghetto che sopravvive all’età dei ghetti, le
sue porte si aprirono definitivamente/completamente solo nel 1870, con l’entrata a Roma dei piemontesi e la
fine del dominio temporale dei papi.

La società del ghetto: il problema più impellente e grave di fronte a cui si trovarono gli abitanti del ghetto,
soprattutto i maggiori, di Roma e Venezia, fu il sovraffollamento: nel 1630 il livello di affollamento era cinque
volte quello del resto della città; le case erano molto alte, in un susseguirsi di stanze dai soffitti bassissimi per
permettere la massima sovrapposizione di piani. A Roma, l’allargamento del ghetto fu attuato nel 1589 da Sisto
V. Ma quali erano le cause del consistente aumento di popolazione del ghetto? Nello stato pontificio la
migrazione sefardita si verificò negli anni successivi all’espulsione di Spagna e precede di molto l’istituzione del
ghetto; non si verificò un aumento della natalità, anzi, i matrimonio nel ghetto diminuiscono: il tasso di
mortalità tra gli ebrei rimane più basso rispetto al resto della popolazione, soprattutto per l’osservanza di
norme igieniche dovute ai rituali religiosi, e a una minore incidenza del bere e delle malattie veneree.
La mancanza di spazio segnò profondamente consuetudini e pratiche degli abitanti del ghetto, al divieto
generalizzato di possedere immobili, gli ebrei supplirono con uno strumento particolare, derivante
dall’adattamento di un antico strumento del diritto ebraico, la cazacà (possesso), già in uso in anni precedenti
nel ghetto, fornì agli ebrei la base giuridica per un possesso stabile della casa dove abitavano. Nel 1604 questo
strumento divenne lo ius cazacà una sorta di diritto di inquilinato, non un proprietà, che poteva essere
venduto, ipotecato, diviso e trasmesso in eredità, sebbene l’inquilino continuasse a pagare l’affitto al reale
proprietario cristiano. Nei ghetti del 600 si arriveranno a vendere porzioni piccolissime di cazacà come una
stanza o uno spazio-letto. Se di trasformazione si può parlare per la società del ghetto, essa è prevalentemente
il frutto del suo progressivo e costante impoverimento determinato dalla reclusione. Una delle risorse principali
impiegate dalla società ebraica per far fronte a questo impoverimento fu il moltiplicarsi delle compagnie
assistenziali o confraternite.
A Ferrara, la Ghemilut hasadim (compagnia della Carità e Morte), la prima compagnia ebraica ad essere
fondata in Italia, si pone a modello delle successive analoghe confraternite, essa aveva il compito di occuparsi
della sepoltura di tutti i membri della comunità ebraica, non solo i poveri, come invece facevano le compagnie
cristiane, mentre limitava ai membri dirigenti della comunità l’assistenza in caso di malattia.
Tra ‘600 e ‘700 le confraternite ebbero la loro massima incidenza sulla vita comunitaria, formando una rete che
suppliva alle carenze dovute all’impoverimento. La più antica delle confraternite a Roma fu anche qui la
Ghemilut hasadim, già presente nel secolo XVI, e la Chiesa aveva concesso alla confraternita una deroga alle
disposizioni che vietavano agli ebrei il possesso di immobili, essa infatti era autorizzata ad acquistare terreni e
case ma solo per uso cimiteriale, e a partire dal 1645 acquisti di un valore inferiore a 5 mila scudi.
Nel 1743 la Congregazione del S. Uffizio dava 126 famiglie “capitaliste”

Il ghetto e l’esterno: una lunga abitudine di provvedimenti parziali e sovente revocati, minacce e oscillazioni
rendevano incapaci gli ebrei di cogliere appieno la portata della loro svolta. La percezione del ghetto era
ambivalente/contraddittoria: da un lato, preoccupava la precarietà dell’esistenza a causa del sovraffollamento,
della pressione proselitistica e della miseria crescente, dall’altra, ci troviamo di fronte ad un inaspettato senso
di sicurezza della propria identità.
La consapevolezza reale del peggioramento delle condizioni di vita degli ebrei si mostra solo nel ‘600 ed
emerge dai comportamenti collettivi e individuali (tensioni, risse frequenti), dovuti alla situazione economica
precaria e all’epidemia di peste (1656) che non risparmiò il ghetto.
Nel 1557-58 l’Inquisizione sferrò un grave attacco al normale svolgimento dell’attività religiosa ebraica,
chiudendo tre delle 7 sinagoghe romane, la Quattro Capi, la Scola Nova e la ashkenazita, in seguito al sequestro
dei locali della Scola askenazita di un’opera esegetica proibita. Le sinagoghe furono riaperte dopo molti mesi,
dietro pagamento di una forte multa.
Nel 1736, due ladri, accusati di furto con scasso in numerosi negozi nel ghetto, furono condannati a morte dal
tribunale del governatore e impiccati.
Nel sei-settecenti, diventa frequente il tiqqun, un rituale che si svolgeva al di fuori dello spazio delle sinagoghe,
ad opera di confraternite, il cui senso era quello cabalistico “di intervenire per mezzo della kavannah
(intenzione) nei processi cosmici”; consisteva nella recita notturna (veglia) di studio e di preghiere di lutto per la
distruzione del Tempio in occasione della vigilia di alcune festività.
Le devozioni delle confraternite iniziano a svolgersi nelle ore notturne: a tale mutamento non è estraneo l’uso
di una nuova bevanda, considerata un potente stimolante mentale in grado di consentire la lucidità necessaria
agli studi notturni, il caffè, la cui introduzione nei ghetti italiani – come già nel ‘500 nell’Impero Ottomano tra le
sette mistiche islamiche – resta legata a forme devozionali misticheggianti.
VII - L’età moderna: esordi e ritorni

I due secoli compresi tra l’espulsione della Spagna del 1492 e la clamorosa apparizione nel 1666 del preteso
messia Sabbatay Tsevi sono per gli ebrei un periodo di mutamento e di trasformazione. Gli esiliati dalla Spagna
si spargono nel Mediterraneo verso l’Impero turco, mentre quelli portoghesi creano intense correnti di traffico
commerciale, dando vita a comunità importanti come quelle di Livorno e di Amsterdam, e stabiliscono in
Inghilterra e Francia i primi nuclei di una rinnovata presenza ebraica. Nello stesso periodo in Italia e Germania,
gli ebrei sono espulsi o rinchiusi nei ghetti, e migrano ad est in Polonia o in Lituania. Nel giro di un secolo muta
del tutto la geografia dei loro insediamenti in Europa: si vengono a definire tre aree distinte, una caratterizzata
dall’immobilità le altre due dalla mobilità; delle due aree mobili possiamo definire la prima sefardita basata sul
commercio internazionale e sul cosmopolitismo, la seconda askenazita che si disperde/migra in piccoli villaggi e
si occupa di nuove professioni.

Gli ebrei in Germania: la storia delle comunità tedesche tra il XIV e XVI secolo fu caratterizzata da sporadiche
violenze, da espulsioni locali e richiami, ma non da un’espulsione generale e definitiva. Nel 400 nuove violenze,
dopo i pogrom del 1348-49, ed espulsioni ricorrenti come a Vienna nel 1421, e poi a Colonia, Augusta, Baviera.
Alla fine del 400 e nel primo decennio del 500 la spinta all’espulsione si estende dalla Germania alla Svizzera,
alla bassa Austria. Fino alla Riforma il movimento di espulsioni sembra derivare dalle città e dal basso clero,
oppure dai frati e il ruolo dei principi resta quello di freno/mantenimento della politica tradizionale. Con lo
scoppio della riforma luterana, la situazione di complicò: inizialmente la posizione di Lutero verso gli ebrei fu
presa come positiva rispetto alla tradizionale dottrina cattolica, ma poi negli anni 30 del 500 fu chiaro che essa
di basava, come quella cristiana, sulla tradizione paolina della lettera ai Galati. Lutero adottò una linea simile a
quella dei francescani, invocandone l’espulsione. Invano, nel 1536, il leader degli ebrei tedeschi Josel di
Rosheim, tentò di fargli cambiare opinione: egli era una figura chiave nei rapporti tra le comunità tedesche e il
potere imperiale. Nominato nel 1503 da Massimiliano d’Asburgo, capo degli ebrei tedeschi, mantenne questa
posizione di preminenza durante il regno di Carlo V. Con l’inizio della Riforma, nel clima di instabilità sociale e
politica creatosi in Germania a partire dal 1520, Josel di Rosheim in quanto capo degli ebrei tedeschi, si vide
spesso costretto ad intervenire per proteggere le comunità da espulsioni e violenza, in Alsazia, in Sassonia,
dove nel 1536 riuscì a fermare l’espulsione degli ebrei. Travolti nella lotta tra Riforma e Controriforma, gli ebrei
vivevano una situazione assai difficile, in cui la protezione imperiale rappresentava naturalmente una garanzia
assai superiore a quella offerta dagli Stati luterani.
Nella Dieta di Augusta del 1530 e in quella di Spira del 1544, Carlo V aveva intanto riconfermato i privilegi degli
ebrei, e a Ratisbona ne aveva esteso la portata; mentre gli ebrei si schieravano con gli Asburgo, gli Stati
luterani continuavano nelle espulsioni; mentre negli stati ecclesiastici gli ebrei non furono scacciati.
Nel 1570 l’ondata delle espulsioni sembra esaurirsi, gli ebrei vengono richiamati in alcune zone, ad Amburgo
che precedentemente non aveva mai accettato gli ebrei; nel 1590 si stabilì un gruppo di portoghesi, questa
comunità divenne la seconda grandezza del Nord Europa dopo Amsterdam nel XVII secolo. Nel 1582 un sinodo
generale di ebrei tedeschi sanciva la riorganizzazione delle comunità in Germania, stabilendo 5 corti rabbiniche
principali, di cui una a Francoforte (qui dal 1462 gli ebrei sono chiusi in un ghetto). In Boemia, territorio degli
Asburgo, durante il regno di Ferdinando I, un crescendo di pogrom e di violenze favorite dal sovrano stesso e
culminate nel 1557 nell’espulsione da tutte le città tranne Praga. L’espulsione però non fu attuata in completo.
Nel 1570 sale al trono Massimiliano II, il nuovo sovrano cancella l’espulsione degli ebrei dalla Boemia; il
successore Rodolfo II va oltre concedendo ulteriori privilegi e garanzie di non espulsione, che consentirono la
crescita demografica degli ebrei in Boemia. Nel 1620 la battaglia di Montagna Bianca avrebbe distrutto la
cultura boema e la corte del regno, ma gli ebrei furono comunque risparmiati dalle distruzioni, almeno a Praga.
La guerra dei 30 anni non sembra interrompere la crescita demografica delle comunità in Germania; tuttavia,
la crisi generale non toccò il mondo ebraico, anch’esso colpito da epidemie, guerra e povertà.
Dalla Germania in preda alla più grave crisi della sua storia, molti degli ebrei presero il cammino della Polonia, o
dell’Olanda o della Svizzera; anche se spesso gli ebrei erano protetti dagli eserciti imperiali perchè importanti
come rifornitori bellici, senza i rifornimenti garantiti dalla loro rete commerciale le truppe sarebbero rimaste
senza cibo e senza cavalli, senza le contribuzioni più o meno forzate della comunità ebraica, gli imperiali e gli
svedesi sarebbero rimasti privi di liquidità e quindi impossibilitati a proseguire la guerra. Avvenne così proprio
grazie a questa condizione di protezione e di sfruttamento che molte comunità ebree durante la guerra
crebbero e allargarono le proprie attività. Una nuova ondata di espulsioni e violenze vi fu alla fine della guerra
del 30 anni, nel 1648 al 1670. Alla testa del movimento sono ancora una volta le città, mentre la sconfitta
asburgica nella guerra mette in crisi la tradizionale protezione imperiale della presenza ebraica.
Nel 1659 vi fu l’espulsione, di 4 mila ebrei da Vienna, ma si trattò di un fenomeno di breve durata. Già dopo il
1673 la situazione si ristabilì quasi ovunque, anche a Vienna. Questa tolleranza della presenza ebraica nei vari
stati ha ben poco a che vedere col nuovo concetto di tolleranza religiosa elaborato da Erasmo da Rotterdam in
questo periodo, e anche lui non esitò a escludervi gli ebrei. Lutero che pur avendo infranto la mediazione
religiosa della chiesa, aveva invocato contro gli ebrei misure repressive ed espulsioni. Ciò che caratterizza
questa tolleranza è in realtà l’aderenza ai modelli di comportamento tradizionali, che furono mantenuti
nonostante le guerre, nonostante gli esempi della Spagna e del Portogallo e nonostante la nuova politica di
Roma. Tra l’altro il caso della Germania è diverso da quello italiano e quello di Spagna dello stesso periodo,
infatti in Germania non vi fu alcun tentativo di convertire gli ebrei, almeno su vasta scala, e di conseguenza in
area germanica non si pose mai il problema dei conversos.

La diaspora portoghese In portogallo, diversamente dalla Germania, avvenne una diaspora della nazione a cui
presero parte sia gli ebrei pubblici che quelli battezzati ma che volevano tornare all’ebraismo. Nella prima metà
del 500 il mediterraneo è percorso da un flusso costante di ebrei spagnoli che si spostano verso Oriente,
cercando riparo e protezione dalle espulsioni spagnole, siciliane e napoletane. Formata prevalentemente da
ebrei pubblici e conversos, questa ondata migratoria si sposta verso l’oriente. Dopo la prima migrazione dalla
Spagna e dall’Italia meridionale fa seguito, dopo la conversione di massa di tutti gli ebrei in portogallo, una
seconda ondata, influenzata dalle alterne vicende della monarchia portoghese. Il movimento migratorio si
intrecci e si confonde con il commercio e le esigenze di traffico in cui i portoghesi ebrei occupano posti di
rilievo, dopo il 1530 la corrente di traffico commerciale che collega l’Imparo turco con l’Occidente attraverso i
Balcani è in mano agli ebrei tant’è che a Venezia si istituisce nel 1541 il ghetto vecchio, per i levantini cioè i
portoghesi già emigrati in Oriente che però tornano nel mediterraneo per motivi appunto commerciali. I
documenti parlano di vite divise dai viaggi incessanti, di famiglie separate, di doppi nomi, di passaggi frequenti
dall’ebraismo al cristianesimo. Il termine portoghese dispregiativo con cui i nuovi cristiani provenienti dalla
penisola iberica sono stai chiamati dai contemporanei e che essi stessi hanno adottato era marrani (in
castigliano significa porco, in arabo ciò che è proibito: mahran), usato in Spagna a designare i converti già alla
fine del 300. Il termine comunque designa un ebreo spagnolo o portoghese convertito al cristianesimo che
continua a professare occultamente la religione ebraica. Il nome si riferisce ad un’esperienza storica concreta
cioè alle conversioni della Spagna del tardo 300 o 400, e che dopo l’espulsione è caratterizzata da criptoebrei
che simulano la fede cristiana, la questione marrana portò molto spesso ad identificare tutti i convertiti con i
cripto giudaizzanti, tant’è che spesso il termine ebreo equivaleva a marrano. Qualunque sia stata la dimensione
di questa diaspora marrana alla fine del 400, ben presto essa si intreccia e si confonde con il più vasto e
massiccio movimento degli esiliati nel 1492 ed è solo nei primi decenni del XVI secolo che i portoghesi vanno ad
aggiungersi a questa ondata migratoria, mutandone le caratteristiche e consentendo da parte della percezione
esterna di identificare i marrani con i conversos portoghesi. La principale destinazione di queste migrazioni era
l’Impero turco dove il sultano aveva già nel 1492 invitato a stabilirsi gli esiliati di Spagna, e dove vie erano
possibilità di crescita economica, il mondo dei turchi ottomani era libertà e sicurezza per gli ebrei. La
popolazione ebraica nel 500 aumenta nell’impero turco, inoltre vi erano anche migrazioni interne allo stesso
impero, e talvolta non volontarie, esisteva l’uso del surgun, cioè trasferimento forzato di gruppi di popolazione,
usato dagli ottomani per creare insediamenti ebraici in città cristiane conquistate di recente.
Alla fine del 500 la stessa Spagna diventa terra di rifugio per giudaizzanti portoghesi, soprattutto durante gli
anni dell’annessione del Portogallo alla Corona spagnola tra il 1580 ed il 1640, in particolare dopo la morte di
Filippo II il duca di Lerma che favorì l’immigrazione portoghese in Castiglia, con una serie di concessioni
liberalizzanti, e di incentivi economici atti ad attrarre in Castiglia mercanti e finanzieri portoghesi. La Spagna
resta comunque un paese ove gli ebrei non possono stare e i nuovi cristiani sono sottoposti alla giurisdizione
inquisitoriale. Nel 1645 con la ripresa dei processi dell’inquisizione in Spagna, si crea una nuova ondata
migratoria, e si riversa in Olanda, Inghilterra e Germania, ma anche in Italia ove l’Inquisizione era molto meno
opprimente che in Spagna o portogallo.

La comunità di Amsterdam L’origine della comunità di Amsterdam si intreccia strettamente con le vicende della
guerra che alla fine del 500 portò alla nascita della Repubblica delle Province Unite, sia con quelle
dell’emigrazione portoghese verso i Paesi Bassi spagnoli, in particolare verso Anversa, il centro principale del
traffico portoghese delle spezie, dove molti portoghesi si erano stabiliti fin dalla fine del 400. Ad un
salvacondotto concesso nel 1526 ai nuovi cristiani provenienti dal Portogallo, che li aveva attirati in gran
numero in città, Carlo V alternava processi contro i giudaizzanti e tentativi di controlli delle loro pratiche
religiose, quindi i portoghesi di Anversa vivevano sotto la maschera cristiana. Nel 1549 l’imperatore ordinava
l’espulsione di tutti i portoghesi giunti ad Anversa dopo il 1543, ma poi questo provvedimento fu scarsamente
applicato. Furono la guerra di indipendenza contro la Spagna ed in particolare il blocco del porto di Anversa nel
1595 da parte della Repubblica delle Provincie Unite a determinare il crollo del commercio della città e il
trasferimento di una notevole parte dei portoghesi di Amsterdam. Sembra che questo trasferimento si stato
all’origine della comunità di Amsterdam. Altri marrani giunsero direttamente dal Portogallo nelle province. A
stabilirsi ad Amsterdam furono in un primo momento i portoghesi seguiti in misura crescente dagli ashkenaziti;
questi ultimi nel 1635 diedero vita ad una loro comunità e, tra il 1660 e il 1673, anche gli ebrei polacchi ebbero
una loro comunità separata. Inizialmente i portoghesi ebrei continuarono ad esercitare ad Amsterdam lo stesso
traffico delle spezie che avevano ad Anversa, poi assunsero un’importanza crescente grazie al traffico e alla
lavorazione di diamanti, provenienti dall’India attraverso il Portogallo, attività recente ove erano liberi di
crescere. Nel corso del 600 il ruolo del commercio ebraico in Olanda crebbe enormemente attraverso la
creazione di un vero e proprio triangolo commerciale con le Indie Occidentali per l’importazione delle spezie e
del tabacco. Già negli anni 70 del 600 la nascita delle comunità di Amsterdam fu ricostruita in chiave mitica da
poeti e storici, la memoria che si voleva ricreare a meno di un secolo dalla fondazione, era quello dello slancio
religioso che aveva portato i portoghesi ad Amsterdam, sfidando rischi e pericoli, ma anche quella della difficile
ricostruzione dell’identità religiosa di quei padri fondatori nati cristiani ed incapaci di leggere le iscrizioni
ebraiche sulla porta della casa del rabbino askenazita incontrato in Germania e destinato a diventare maestro
del loro ritorno al mondo ebraico. Così nacque la storia della bella Maria Nunes (Nugnes) fuggita dal Portogallo
e catturata con la sua nave dagli inglesi, portata a Londra e accolta alla corte di Elisabetta dove era stata chiesta
in moglie da un duca innamoratosi di lei; ma Maria sdegnando le lusinghe dell’amore, chiede ed ottiene di
proseguire il suo viaggio per l’Olanda e qui dopo pochi anni avrebbe sposato il cugini Manuel Lopes Homem,
con il rito ebraico, e il suo matrimonio sarebbe stato il primo ad essere celebrato ad Amsterdam secondo il tiro
ebraico. Vi è anche un’altra storia che narra l’origine della comunità ebraica ad Amsterdam, e troviamo una
mescolanza di leggenda e realtà fattuale, infatti pur nella fantasia sia Maria Nugnes che la storia di Jacob Tirado
sono figure documentata; ad esempio sappiamo che Maria Nugnes dopo il suo matrimonio ebraico del 1612
tornò a Lisbona col marito e si stabilì a Siviglia ridiventando cristiana, mentre gli altri membri della famiglia
rimasero ad Amsterdam. Il passaggio dalla tacita tolleranza della pratica religiosa ebraica al riconoscimento
ufficiale del culto pubblico, con la concessione di sinagoghe e cimiteri, non fu facile per le proteste dei calvinisti.
Nel 1614 gli Stati decisero di affrontare il problema della presenza ebraica in Olanda, e consultano l’autorevole
studioso di diritto internazionale, fondatore del giusnaturalismo, Ugo Grozio. Il suo parere fu favorevole alla
presenza degli ebrei, i quali dovevano avere la libertà di commercio ed industria, ma Grozio propose anche
misure limitative, come la proibizione dei contatti sessuali tra cristiani ed ebrei, l’esclusione degli ebrei dai
pubblici uffici e la proibizione della conversione dal cristianesimo all’ebraismo.
Tutte misure in linea con la tradizione di giustificare e di limitare la presenza ebraica, come era stata espressa
dal diritto romano, a cui Grozio, giurista, fa esplicito e costante riferimento. Quindi non si teorizza una
tolleranza religiosa o un cambiamento di prospettiva giuridica. Nonostante le riserve di molte città olandesi che
non volevano accettare la presenza ebraica, nel 1615 gli ebrei furono autorizzati dagli Stati Generali a praticare
pubblicamente l’ebraismo, ma rimanevano proibiti i matrimoni misti e ogni polemica contro il cristianesimo.
Nel 1619 anche la città di Amsterdam consentì agli ebrei la libera professione dell’ebraismo, che di fatto essi
esercitavano già, ma rimanevano stranieri; mentre nel 1657 la cittadinanza fu concessa solo ai mercanti più
importanti. Ormai Amsterdam era divenuta la Gerusalemme d’Olanda, celebrata da scrittori e poeti come una
terra di libertà per gli ebrei. Nel 1671 si inaugura ad Amsterdam la grande sinagoga ashkenazita, nel 1657
quella portoghese, l’Esnoga, uno dei più grandi e sontuosi edifici della città, ed era la prima volta che in Europa
gli ebrei avevano ricevuto il permesso di costruire in pietra i loro edifici di culto. L’organizzazione comunitaria
portoghese ebbe ad Amsterdam una storia complessa: nel 1618 esistevano tre diverse congregazioni
portoghesi che nel 1639 di fusero in un’unica grande comunità chiamata Talmud Torah, come la comunità
ponentina di Venezia, che fu dotata di ampi poteri, garantiti dalle autorità cittadine e organizzata sul modello
veneziano. Questo modello di comunità unica ed accentrata finì per imporsi sulla tendenza alla moltiplicazione
degli organismi comunitari che caratterizzavano il mondo ebraico portoghese, determinando come ad
Amburgo nel 1657 l’unione delle comunità esistenti o ispirando (come negli statuti di costituzione della
comunità portoghese di Londra nel 1664) l’esplicito divieto di costruire altre comunità in città. La dimensione
della comunità di Amsterdam e il ruolo economico, religioso e culturale che essa assunse sin dal primo 600,
giustificano la sua indiscussa egemonia politica nei confronti dei portoghesi delle altre città olandesi e la sua
preminenza nel mondo ebraico portoghese. I problemi della comunità di Amsterdam riguardavano la necessità
di inserire persone che erano state anche cristiane, nella rigida osservanza delle regole ebraiche, in passaggio
non facile; in un primo momento il ritorno dei portoghesi all’ebraismo avvenne con la mediazione di rabbini
esterni, tedeschi, veneziani, marocchini e comunque molti marrani mostrarono resistenze a conformarsi
completamente alle regole di vita della comunità. Vi erano addirittura alcuni portoghesi che vivevano ai margini
della comunità, che non pagavano le tasse comunitarie e non partecipavano ai momenti ebraici, perciò il loro
legame col mondo ebraico era quasi esclusivamente etnico e la loro identità ebraica assai problematica era un
fenomeno senza precedenti nel mondo ebraico sino ad allora. Al contrario altri membri di questa stessa
comunità mantennero legami forti con il loro mondo di origine a tal punto da intraprendere viaggi nei Paesi
Bassi, in Spagna, in Portogallo, ove non si poteva essere ebrei… probabilmente essi furono costretti a
riassumere la maschera cristiana. Questi viaggi in terra d’idolatria dalla comunità di Amsterdam erano molto
osteggiati, tanto che nel 1644 si stabilì che chi abbandonava il giudaismo e si recava in terre come Spagna e
Portogallo, commettendo idolatria nel fingersi cristiano, doveva essere sottoposto a forti sanzioni; si tratta di
viaggi derivanti da necessità commerciali, sintomatici anche delle difficoltà di adattamento dei conversos alla
vita della comunità. Questa debole identità ebraica, di alcuni membri della comunità, rese chiara l’esigenza di
un organo che rendesse esecutive le ordinanze interne e le facesse osservare ai membri: questo strumento fu
concesso dalle autorità cittadine fin dai primordi della comunità ad Amsterdam, ed erano i parnassim, cioè le
autorità comunitarie che potevano lanciare lo herem, la scomunica: era uno strumento sociale, un interdetto
che colpiva la vita comunitaria, i legami sociali e familiari; ad Amsterdam, dove l’identità ebraica era assai
fragile, esso poteva portare o al consolidamento dell’obbedienza o all’abbandono definitivo della comunità: lo
herem fu emanato con frequenza ma in genere per brevi periodi di tempo e con cautela; esso poteva essere
usato per vari motivi, dalle trasgressioni morali o sessuali, all’inosservanza dei comandamenti. Il fenomeno
dell’eterodossia di una parte non indifferente della cultura ebraica del 600 è considerato come il frutto di una
pratica marrana della dissimulazione del passaggio tra mondi diversi; ha somiglianze ed affinità con il
movimento libertino e la filosofia deista che emergono contemporaneamente nel mondo cristiano.
Emblematico è Spinoza, origine marrana (famiglia portoghese vissuta come i cattolici e poi tornati all’ebraismo
ad Amsterdam) l’ebreo scomunicato dalla sua gente che diviene nel mondo cristiano simbolo dell’ateismo,
dell’empietà filosofica e della negazione di ogni rivelazione, ma anche filosofo amato dai sapienti.
Il ritorno degli ebrei in Francia dal 1394 non esistevano più ebrei nel regno francese, in Provenza l’espulsione
era avvenuta più tardi, alle soglie del 500 e nella regione avignonese, che faceva parte dello Stato della Chiesa.
Gli ebrei continuavano a vivere nei ghetti. La Francia del 500 era un regno dove teoricamente gli ebrei non
dovevano risiedere, in realtà le tracce di presenza ebraica ci sono già alla fine del XV secolo, quando gruppo di
conversos dalla penisola iberica si stabiliscono prima del 1492 nella Francia meridionale. In Franca, anche senza
poter tornare all’ebraismo, essi potevano vivere come nuovi cristiani liberi, senza le pressioni dell’Inquisizione
spagnola; essi non erano criptogiudazzanti, ma il timore della sorveglianza dell’Inquisizione e la degenerazione
in Spagna del clima generale verso i conversos era tale da far prendere in considerazione la necessità di
emigrare nonostante l’abbandono definitivo e veritiero dell’ebraismo. Sicuramente però vi erano nella Francia
del 500 conversos portoghesi che però continuano ad essere ebrei osservando il Sabato di riposo e evitando la
carne di maiale, ma la presenza di questi gruppo di convertiti più o meno apertamente giudaizzanti non crea un
vero e proprio problema marrano in Francia. Fin dalla metà del 500 la presenza portoghese fu protetta da
sovrani francesi, interessati allo sviluppo economico del commercio. Nel 1550 Enrico II concedeva a neofiti ex
ebrei del Portogallo di stabilirsi a Bordeaux e di aiutare il regno con le loro industrie e manifatture. Enrico II nel
1474 riconferma il privilegio e aggiunge il divieto di molestarli/maltrattarli/costringerli ad uscire dalla città.
Il primo nucleo ricostruito dell’ebraismo francese fu realizzato non solo dai conversos spagnoli e portoghesi, ma
anche dagli ebrei ashkenaziti che si stabilirono a Metz dalla metà del 500. Ad essi si garantiva il culto pubblico
ed essa diverrà una delle principali comunità ebraiche francesi. Poi durante il regno di Maria de Medici, nel
1615 fu emanato un editto di espulsione che si riferiva alla presenza clandestina di ebrei e anche a streghe e
maghi di Parigi, ma non fu applicato. L’accostamento di ebrei e stregoni prende spunto anche da scandali
avvenuti a corte, intorno ai favoriti della regina, in particolare l’italiano mago Concino Concini accusato
(ingiustamente) di essere giudeo. Probabilmente l’editto è una reazione a questa situazione di corte e all’odio
che Parigi aveva per la reggente italiana. Nonostante ciò l’editto resta misterioso dato che ufficialmente al 1615
non esistevano ebrei in Francia. Questo editto comunque non interruppe il processo di ristabilimento degli
ebrei in Francia. Nel 1633 un decreto di Richelieu sanzionava la presenza di portoghesi in Francia, seppur
costretti a svolgere privatamente il culto, essi erano tornati apertamente ebrei. Durante il governo di Richelieu
e la guerra dei 30 anni, la presenza ebraica si consolidò ulteriormente, da una parte la rete commerciale dei
portoghesi e le relazioni internazionali degli ebrei si rivelarono preziose in un conflitto di così vasta portata. Gli
ebrei a Metz continuarono a svolgere un ruolo prezioso nell’approvvigionamento delle truppe francesi, in
particolare per fornirli di cavalli. Nel 600 la politica di Colbert si era svolta nei binari di quella di Richelieu e di
Enrico IV però con la seconda fase del regno di Luigi XIV conosce una svolta in senso repressivo. L’espulsione
dei protestanti, la guerra contro l’Olanda, l’ossessione dell’unità religiosa sono le premesse politiche e religiose
per una nuova stretta ove si agitano i fantasmi del’espulsione. La storia degli ebrei francesi nel 700 vedrà
aumentare la differenza tra i portoghesi del sud e gli ashkenaziti dell’est. Nel 1776 i portoghesi ottengono la
libertà di stabilirsi e fissare ovunque la loro residenza, ma poi con lo scoppio della rivoluzione saranno i primi a
raggiungere l’emancipazione, che sarà ancora negata per un po’ agli ebrei di Metz e dell’Alsazia.

Il ristabilimento degli ebrei in Inghilterra: Diverso da quello francese fu il processo che portò al ristabilimento
degli ebrei in Inghilterra alla seconda metà del 600. Come in Francia, in Inghilterra non vi erano più ebrei da
molti secoli, era però ancora vivo lo stereotipo del’ebreo malvagio (nel Mercante di Venezia c’è l’ebreo usuraio)
a questa mitologia negativa però si contrappone una politica definita filosemitismo, ove confluivano aspettative
millenaristiche e ansie di conversione degli ebrei, problematiche di tolleranza e libertà religiosa e curiosità
intellettuali verso la tradizione/lingua ebraica. Forti erano i legami di tali ambienti intellettuali con il mondo
ebraico olandese, in particolare con un rabbino di Amsterdam, Menasseh ben Israel, con cui personaggi della
cultura inglese come John Dury e Samuel Hartlib avevano intrecciato scambi culturali e corrispondenze.
Menasseh ben Israel era nato in una famiglia di conversos, aveva forti propensioni messianiche, interessi
cabalistici, e nel mondo dei cristiani che hanno interessi filosemiti, Menasseh assume il ruolo di portavoce del
mondo ebraico di fronte ai cristiani (nei suoi scritti li rassicurava riconoscendone il ruolo)
In questo terreno, Manasseh elaborò il suo progetto di riammissione degli ebrei in Inghilterra. Il suo obbiettivo
era annullare l’espulsione degli ebrei dall’Inghilterra del 1290, e giungere ad un richiamo formale degli ebrei in
terra inglese. La scelta era quindi quella di un riconoscimento di principio e non di una estensione graduale del
diritto di culto e libertà religiosa, come in Francia. Tra l’altro anche a Londra esistevano gruppi di cripto
giudaizzanti, di portoghesi che vivevano clandestinamente sotto l’identità di sudditi di Spagna e Portogallo e
sotto la maschera del cattolicesimo. Nel 1648-49, una petizione di Johanna Carteright e di suo figlio Ebenzer di
nazionalità inglese ma residenti ad Amsterdam, chiedevano in una petizione indirizzata al Consiglio di Guerra di
consentire il loro rientro, in Inghilterra, ma nonostante la presenza nel Consiglio di fautori della libertà religiosa,
si decise per respingerla ribadendo la tolleranza religiosa ai soli cristiani; una successiva petizione è del 1554 di
Manuel Martinez Dormido, un portoghese stabilitosi in una colonia olandese del Brasile, e nella sua petizione a
Cromwell chiedeva l’intercessione dell’Inghilterra, nel recupero dei sui beni sequestrati dai portoghesi, che da
poco avevano conquistato il Brasile, e la riammissione degli ebrei sul suolo inglese. La petizione fu respinta. La
questione dell’emigrazione dei “portoghesi” dal Brasile, e quella dei loro insediamenti nelle colonie del Nuovo
Mondo, si presentava come connessa con il problema della riammissione degli ebrei in Inghilterra. Dopo il
1645, durante la guerra tra Portogallo e Olanda per il possesso del Brasile e dopo la caduta del’Oliveres in
Spagna (aveva portato ad una ripresa dei processi inquisitori ali), l’emigrazione dei conversos si era intensificata
ed era alla ricerca di nuovi sbocchi nelle colonie inglesi del nuovo mondo. E’ quindi possibile che alle origini del
progetto di Menasseh ben Israel vi fossero anche queste motivazioni e che la comunità di Amsterdam si facesse
portavoce delle spinte sefardite alla colonizzazione, anche se i suoi dirigenti non diedero a Menasseh appoggi
ufficiali. In ogni caso, l’iniziativa di Menasseh ne Israel veniva formulata in una prospettiva messianica con
venature politiche antispagnole e anti-inquisitoriali. Ugualmente religioso e politico era il clima che la rendeva
realizzabile in Inghilterra. Nel 1651 preparando la sua venuta in Inghilterra Menhasseh ben Israel presentò al
Parlamento una prima petizione che chiedeva la riammissione degli ebrei; ma lo scoppio della guerra tra
Inghilterra ed Olanda impedì che il progetti avanzasse, Menahasseh arriva a Londra solo nel 1655 portando con
se una petizione The Humble Addresse, rivolta a Cromwell: chiese che gli ebrei fossero riammessi in Inghilterra
come cittadini e che potessero godere della libertà di avere pubbliche sinagoghe e cimiteri, della tolleranza
religiosa, il diritto di essere giudicati secondo la propria legge ed infine una piena libertà di commercio. La
decisione fu affidata ad una commissione nominata dal Consiglio di Stato che risulta formata da 28 membri,
ecclesiastici, mercanti e giuristi. Il 4 dicembre alla Conferenza di Whitehall, Cromwell sottopose la questione
degli ebrei, e nonostante fosse dibattuta sia dal punto di vista giuridico che religioso, fu respinta, ed il tentativo
di Menasseh den Israel fallì.
Nel 1656 durante la guerra tra Spagna ed Inghilterra, gli inglesi vollero sequestrare tutti i beni dei sudditi
spagnoli residenti in Inghilterra: la risposta dei marrani di Londra fu una pubblica confessione dell’ebraismo, a
seguito della quale gli ebrei di Londra gettarono la maschera cristiana e praticarono il culto liberamente. Nel
1664 questa presenza degli ebrei a Londra fu formalizzata da Carlo II, e di l’ la comunità crebbe anche per
l’afflusso di tedeschi e portoghesi ebrei. Le uniche conversioni riguardavano gli ebrei più ricchi e i sefarditi, che
accoglievano i costumi della società inglese con meno riserve.

Gli ebrei in Europa orientale: Assai pochi erano prima del secolo XVI gli ebrei presenti in Polonia, Lituania e nei
paesi dell’Europa orientale, in tutto poche decine di migliaia, un’esigua minoranza dell’intera popolazione
ebraica. Prima dello sterminio nazista, gli ebrei dell’Europa orientale erano diventati la parte più consistente
della diaspora, circa 7 milioni. La storia dell’Europa dell’est è una storia diversa da quella Occidentale: diverse
sono le modalità di insediamento, i mestieri, le condizioni sociali e le forme di espressione della loro religiosità.
Nel tardo XIII secolo inizia l’esodo lento e prolungato che avrebbe portato gli ebrei, in particolare quelli
tedeschi che rifuggono dai Pogrom delle loro terre, ad emigrare nelle terre polacche e lituane, e più tardi in
quelle russe. Alcuni tra i primi ebrei ad arrivare in Polonia durono quelli appartenenti al movimento del
pietismo ashkenazita che cercavano spazi meno affollati in cui praticare la loro osservanza particolarmente
rigorosa. Nel 1264 Boleslao di Polonia concesse uno statuto che poneva gli ebrei sotto la protezione e
giurisdizione dei sovrani e dell’alta nobiltà rendendo quindi il loro status giuridico molto simile a quello degli
ebrei nell’Impero e nel resto d’Occidente. In Polonia era incoraggiato il prestito che insieme alle tasse rendeva
gli ebrei polacchi fornitori di liquidità alla monarchia. Ma solo nel 500 prese avvio l’espansione degli ebrei in
Europa Orientale, anche in Lituania, Galizia, Russia ed Ucraina. Tra le attività esercitate dagli ebrei in Polonia la
più caratteristica fu la gestione delle terre signorili, detta Arenda (affitto) e diffusa a partire dalla seconda metà
del XVI secolo nelle terre della Polonia Orientale, in cui gli ebrei subentravano come affittuari gestori di vendita
sia dei prodotti agricoli ai grandi proprietari terrieri, questi ultimi propensi a non gestire direttamente le proprie
attività. Gli ebrei così gestiscono proprietà terriere, si occupano della vendita del vino, del grano, inserendo i
prodotti in circuiti internazionali e importando dall’Olanda o da Amburgo spezie e gioielli per l’alta società
polacca. Nella Polonia occidentale, l’esistenza di forti corporazioni e di una borghesia cristiana in espansione
chiuse agli ebrei l’accesso all’artigianato e ai traffici commerciali, impedendone quindi la possibilità di stabilirsi;
ad esempio, a Varsavia godeva del diritto giuridicamente riconosciuto del non tolerandis iudaeis. In altre zone
(baltiche , es. Cracovia) gli ebrei erano molo limitati. Complessivamente l’insediamento degli ebrei nell’Est si
presenta con caratteristiche diverse da quelle in Occidente: è più rurale che urbano, e spesso nei villaggi e nelle
piccole città ove si insediano, la popolazione ebraica è maggiore di quella cristiana… qui portano la loro lingua,
un misto di tedesco ed ebraico detto yiddish a divenire nel XVI secolo una forma letteraria. La forma
comunitaria ebraica era una piramide istituzionale alla cui base erano le comunità locali, le kehilot, e al cui
vertice era il Consiglio delle Quattro Terre, che per due secoli dalla seconda metà del 500 fino al 700 governò la
vita degli ebrei polacchi con reali poteri giurisdizionali. Il ruolo degli ebrei nel mondo orientale è soprattutto
quello di mediatori tra i nobili e i contadini, tra città e campagna… tuttavia, era sempre presente la barriera
distintiva e le chiusure culturali: il mondo rurale cristiano vedeva nel popolo ebraico la longa manus del signore
feudale oltre che l’estraneo che aveva assassinato Cristo. Nel 400 la predicazione violenta di Giovanni da
Capistrano aveva familiarizzato il mondo polacco con le classiche accuse cristiane in un periodo dove, nel resto
dell’Europa occidentale, erano quasi del tutto scomparse. In Russia, le accuse cristiane, come quella di omicidio
rituale, avranno lunga vita, speso seguite da condanne e pogrom. L’episodio più grave avvenne nel 1648,
quando la rivolta dei cosacchi di Chmienlnicki contro i polacchi coinvolse le comunità ucraine e lituane in una
catastrofe. L’insurrezione - guidata da un capo cosacco alleato con i tartari, Bogdan Chmielnnicki - diede inizio
ad un lungo periodo di guerre (“diluvio dei vent’anni”): scoppiò nel 1647, nel clima delle tensioni politiche e
sociali tra la monarchia polacca (cattolici Uniati: ortodossi che riconoscevano l’autorità di Roma) e i cosacchi
(cattolici ortodossi). Il principale obbiettivo furono le violenze agli ebrei, alle quali si unirono i contadini ucraini:
vedevano negli ebrei, affittuari di villaggi e città e collettori delle tasse, degli alleati della nobiltà polacca. I
massacri contro gli ebrei continuarono fino al 1655. Molti ebrei scamparono a questa ondata di violenza, grazie
alla migrazione vesto Ovest, ma ritornarono alla fine delle violenza, o anche abbracciando la confessione
ortodossa, per poi tornare all’ebraismo successivamente. Nonostante la catastrofe che colpì gli ebrei in questo
periodo, la crescita demografica in Polonia non s’interruppe, ma a ciò si accompagnò una pauperizzazione
entro la comunità, e un aumento della povertà e delle distanze sociali. L’insurrezione di Chmielnicki ebbe
motivi politici, ma dagli ebrei e nella loro memoria viene ricondotta ai termini del martirio, tant’è che tra gli inni
composti in questo periodo vi è El male’ Rahamin, che gli ebrei religiosi cantavano al momento di essere
assassinati nei campi di sterminio hitleriani. Questo clima era destinato ad avere profonde ripercussioni nella
vita religiosa e sarà alla base dell’aspettativa messianica che 20 anni dopo i massacri accompagnerà in Polonia e
in tutti l’Est la vicenda di Sabbatay Tsevi, e successivamente la nascita del movimento hassidico, fondato nel
secondo quarto del 700 in Podolia e Volina, da Ysrael Baal Shem (o Baal Shem Tov) Maestro del Buon Nome:
alimentava la tradizione cabalistica luriana (nata a Safed nel 500 e diffusasi in Oriente nel 600) in stretta
connessione con le aspettative messianiche del periodo sabbatiano. Alla trasformazione che il cassidismo
portava nella vita religiosa e nei comportamenti del mondo ebraico, non era estranea, d’altronde, la crisi che
colpì nel secolo XVIII le comunità polacche e orientali, indebolite nella loro struttura organizzativa e segnate da
profonde divaricazioni sociali interne. Ma il movimento hassidico, non può essere letto nei termini riduttivi del
rapporto con il disagio e la rivolta sociale, il movimento fu infatti una radicale innovazione, e mutò in
profondità l’intero mondo ebraico dell’Europa Orientale.
Alla base dell’elaborazione hassidica vi era l’accentuazione dell’esperienza religiosa individuale, scopo
essenziale di tale esperienza era la comunione mistica con la divinità. Questo però non portava la svalutazione
dell’osservanza religiosa, i cui riti venivano mantenuti e anzi potenziati dall’esperienza religiosa soggettiva. La
possibilità di comunicare misticamente con Dio faceva del fedele un “pneumatico”, cioè un individuo ispirato
dallo spirito santo e gli attribuiva al tempo stesso una forte autorità religiosa. L’hassidismo comunque trova
radici nella mistica e cabalistica precedente, ma non ha un pensiero originale proprio e finisce per adottare una
mitologia popolareggiante; una novità è costituita dall’accentuazione carismatica del capo religioso, del rebbe,
e soprattutto dello tzaddiq, il santo, il tramite con la divinità, intorno a cui si riuniscono i discepoli e che diventa
nei villaggi polacchi del 700 e dell’800 il principale punto di riferimento della religiosità popolare. A partire dalla
seconda metà del 700 il cassidismo uscì dai confini originari e si diffuse tra gli ebrei di Polonia, Russia, Bosnia,
Ungheria e Romania, raggiungendo la sua massima ampiezza nel XIX secolo. Questo processo fu contrastato
duramente dalla parte degli ebrei rimasta legata al giudaismo rabbinico. In Polonia il movimento si diffuse
rapidamente dell’intero mondo ebraico, esso restò in minoranza in Lituania, dove ancora assai vivi erano gli
studi talmudici che avevano fatto del paese un centro culturale di prim’ordine e avevano dato vita a scuole di
grande importanza. Il massimo esponente della reazione rabbinica alla diffusione del cassidismo in Lituania fu
Elijah di Vilna, il cosiddetto Gaon di Vilna, attivo nella seconda metà del 700, esperto matematico oltre che
grande talmudista, e sostenitore di una sintesi tra tradizione talmudica e Quabbalah. Il misticismo hassidico
quale veniva elaborato nella Polonia del primo 700, nonostante la sua derivazione diretta dalla tradizione
mistica e cabalistica precedente, era caratterizzato dalla rinuncia al messianismo. Questa rinuncia fu l’effetto di
un episodio clamoroso del 1666 che generò nelle terre dell’Impero turco come nell’Occidente e nell’Est polacco
emozioni violente e profonde disillusioni, ossia l’avventura messianica di Sabbatay Tzevi. Alla mistica dei
seguaci polacchi di Sabbatay Tzevi si riallaccia strettamente, pur con significative differenze, il movimento
hassidico, ed è alla sua avventura che si possono ricondurre le trasformazione che avvengono nel mondo
ebraico alla fine del XVII secolo.

La fine del messianismo: La vicenda romanzesca e paradossale di Sabbatay Tsevi , un ebreo di Smirne che nel
1666 proclamò di essere il messia, sconvolse profondamente il mondo ebraico, prima di essere imprigionato
dai turchi e convertirsi all’Islam sotto minaccia di morte. Questo episodio è stato interpretato come l’ultima
volta prima che l’universo ebraico si è espresso nella forma dell’utopia e ha ripercorso antiche strade,
consumandole definitivamente in una fiammata di entusiasmo e di disperazione. La modernità nel mondo
ebraico entra proprio tramite la vicenda di questo messia apostata e del suo profeta Nathan di Gaza. Sabbatay
Tsevi nacque a Smirne nel 1626, figlio di un mercante agiato, si dedicò prima agli studi rabbinici, poi a quelli
cabalistici. Il suo percorso ereticale comincia nel 1651 quando, pur non proponendo si come un messia,
comincia a proclamare l’avvicinarsi dell’era messianica. In questo entusiasmo messianico Sabbatay asserisce
che la legge ebraica non deve essere più osservata, doveva essere trasgredita, proprio per significare e
affrettare l’avvento del messia. Nel 1665 comincia la vera avventura, con l’incontro di Nathan di Gaza, che sarà
il suo profeta e cervello dell’impresa. Ed è proprio a Gaza che Nathan, si proclamò messia. In terra d’Israele le
reazioni del mondo ebraico non furono univoche, ma da qui il movimento si espande e la notizia di questo
messia giunge anche in Europa, suscitando grande fermento. Successivamente fu arrestato dai turchi, costretto
a scegliere tra l’Islam o la morte: scelse l’apostasia e si convertì, vivendo ancora 10 anni una vita da musulmano
e da ebreo, continuandosi a proclamare come messia e cercando di convertire all’Islam i suoi seguaci. I
maggiori proseliti di Sabbatay venivano dalle comunità marrane, ad Amsterdam, Livorno e Amburgo.
La notizia del messia fu accolta con un entusiasmo di massa, con feste e celebrazioni. Sabbatay lasciò
un’impronta fortissima nella coscienza ebraica, a molti livelli. L’interruzione nel mondo ebraico, prima del
cabalismo luriano e poi della mistica del messia di Smirne, mostrano come l’ebraismo fosse più elastico ed
influenzabile alle sollecitazioni esterne di quanto non si potesse credere fino ad allora.
VIII - OLTRE IL GHETTO

Il miglioramento degli ebrei Tra la fine del 700 e la seconda metà dell’800, gli ebrei raggiunsero la piena
emancipazione in tutta l’Europa occidentale in Inghilterra come in Francia, in Germania, Austria, Italia. Essi
poterono godere di tutti i diritti civili e politici, vivere ovunque lo desiderassero (senza ghetti), possedere
proprietà immobiliari, essere eletti membri del Parlamento e pubblici amministratori, entrare a far parte della
società circostante. Questo obbiettivo non era stato facile, e fu preposto e discusso nel 700 da un vivace
dibattito sulla concezione dell’emancipazione agli ebrei, sulla loro uguaglianza come cittadini. In un mondo
avviato alla modernità; non garantire la parità dello stato civile agli ebrei era stata un’indegna ingiustizia ma
anche un ostacolo all’omogenizzazione delle strutture dello Stato. Nel 1789 durante il dibattito dell’Assemblea
costituente, il deputato monarchico costituzionale Clermont-Tonnerre sostenne l’uguaglianza degli ebrei “tutto
deve essere negato agli ebrei in quanto nazione, tutto deve essere concesso agli ebrei in quanto individui”: gli
ebrei erano ammessi in società a patto che rinunciassero al loro particolarismo (nell’ottica illuminata del tempo
era una conseguenza della loro arretratezza dovuta all’esclusione dalla vita culturale, politica, dalla loro
separazione dalla società). Fu così che in un primo momento, i sostenitori dell’emancipazione degli ebrei, la
definirono come “miglioramento” o “rigenerazione civile e morale”… una rinuncia alle loro particolarità.

L’haskalah: Il mondo ebraico veniva così chiamato a confrontarsi con il cambiamento. Il clima culturale
illuministico rendeva obsoleti e insufficienti i vecchi moduli di trasformazione interna del mondo ebraico che
ancora un secolo prima, con la vicenda di Sabbatay Tsevi aveva gettato i germi importanti di un mutamento nel
rapporto tra l’ebreo e la tradizione religiosa culturale. Il movimento dell’illuminismo ebraico è l’Haskalah, sorto
nella Germania del 700, sotto la netta influenza del pensiero illuminista e diramatosi poi in gran parte del
mondo ebraico tra 700-800. I pensatori dell’Haskalah sostenevano un’interpretazione razionalistica della
teologia ebraica e rifiutavano le tendenze mistiche e cabalistiche; criticavano i tradizionali metodi di studio
talmudici e peroravano la necessità di aprire alla filosofia e alla cultura ebraica e quella esterna, e sostenevano
una concezione universalistica dell’ebraismo, interpretato quale fiaccola dell’umanità, cultura portatrice di
principi etici rivolti a tutte le nazioni e non solo al mondo ebraico. Una simile trasformazione non poteva
lasciare intatta la sfera dell’osservanza religiosa. L’attacco alle norme ebraiche avvenne prima con la distinzione
tra norme halachiche e usanze (minhagim): la critica venne introdotta anche nella sfera della pratica religiosa.
Moses Mendelssohn, massimo esponente dell’haskalah nella Germania di quegli anni, mantenne viva
l’osservanza religiosa e polemizzò in difesa della religione ebraica contro quelli che lo invitavano ad abbracciare
il cristianesimo in nome della filosofia. L’idea del mondo illuminista tedesco, di una sostanziale affinità tra un
ebraismo illuminato e razionale ed un cristianesimo a sua volta reinterpretato, tendeva ad attenuare i confini
tra ebraismo e cristianesimo. I confini tra assimilazione e conversione andavano sfumando nella Berlino
dell’Haskalah mentre fiorivano i contatti tra ebrei e cristiani in questi salotti berlinesi animati da Salomon
Maimon che propose una conversione al protestantesimo in nome di una religione naturale o con David
Friedlander, che propose una conversione al cristianesimo (rappresentava solo il momento più estremo e
radicale di un processo che continuava a svolgersi entro i confini dell’ebraismo). L’esito di questo processo di
secolarizzazione della teologia ebraica fu l’adattamento alle nuove tendenze culturali e politiche del tempo
della liturgia del pensiero ebraico. In Germania, la religione ebraica divenne vicina ad una religione
sentimentale di stampo pietistico protestante, e fu accentuato proprio il sentimento religioso in
contrapposizione al formalismo dei riti tradizionali, i quali vennero modificati con l’introduzione degli inni e con
l’uso della lingua tedesca… si tentò di trasformare la sinagoga come un luogo di decoro e di edificazione.
Il tentativo di aderire a dei modelli di rispettabilità attraversa tutto il percorso dell’ebraismo tra illuminismo e
movimenti riformati e ne rappresenta uno dei momenti principali. Il movimento del’Haskalah influenza nel
corso dell’800 l’intero mondo ebraico. Germi di dubbio si insinuarono nel mondo ebraico che si divise tra
tradizionalisti ed illuminati (maskilim), in alcuni casi il pensiero degli illuminati si saldava con ideologie interne
alla tradizione ebraica, con la tradizione razionalistica o con gli esiti del pensiero ebraico rinascimentale che
dall’Italia era arrivato in Europa soprattutto attraverso il pensiero tardo cinquecentesco del Maharal di Praga.
I percorsi dell’emancipazione: L’emancipazione degli ebrei rappresenta in realtà solo un momento della più
generale trasformazione degli Stati europei verso la modernità. Essa accompagna un processo che è generale, il
processo di trasformazione e modernizzazione della società che cambia il volto del’Occidente dopo la prima
Rivoluzione industriale e la Rivoluzione francese. Essa è un esito solo secondario, della laicizzazione della
società, che determina un diverso rapporto con gli ebrei, perché elimina le ragioni ideologiche che avevano
garantito l’equilibrio tra la presenza degli ebrei e la loro inferiorità e subordinazione. Un’analoga rottura
del’equilibrio si era verificata in una prima fase di laicizzazione degli Stati moderni alla fine del Medioevo, e
aveva avuto esito non l’integrazione degli ebrei bensì la loro espulsione dalla maggior parte dell’Occidente. Nel
XVII secolo la loro riammissione, non aveva in un primo momento implicato la necessità di una loro
integrazione nella società circostante tramite un’emancipazione politica, ma solo tramite la solo
naturalizzazione ce forniva una base legale per la loro residenza. La naturalizzazione infatti in una società divisa
tradizionalmente in gerarchie sociali, non implicava la concessione di uguali diritti, infatti in questa società
gerarchizzata i rapporti tra Stato e religione erano tali da permettere una discriminazione dei cittadini in base
alla loro appartenenza religiosa. Tra la fine del XVII secolo e i primi del XVIII secolo Locke e Toland i teorici di
una separazione tra Stato e Chiesa, fanno emergere dai loro scritti la necessità di affiancare alla
naturalizzazione degli ebrei anche la loro uguaglianza di diritti con gli altri cittadini. Ora nell’età della
laicizzazione illuminista, la questione dell’emancipazione diventava ineliminabile. Contraria rimaneva la Chiesa
cattolica, ovunque il clero voleva mantenere la subordinazione degli ebrei in nome delle ragioni religiose. I
percorsi dell’emancipazioni sono stati molteplici, ma in molti casi l’integrazione sociale ha preceduto
l’emancipazione politica, e nella maggior parte degli stati europei il processo è stato graduale. Era questa la
tenenza della Francia e della Germania, In una prospettiva di conquiste graduali si colloca l’editto di tolleranza
del 1781 emanato dall’imperatore Giuseppe II, accolto con grande entusiasmo dagli ebrei che concedeva
sostanzialmente la cittadinanza agli ebrei austriaci, boemi, moravi e ungheresi, pur mantenendo discriminazioni
e disuguaglianze. Nella Francia rivoluzionaria, l’idea di uguaglianza per tutti fu così forte che permise agli ebrei
un’emancipazione rapida e completa, Nel gennaio 1790 un primo decreto del’Assemblea Nazionale
costituente, emancipava infatti i sefarditi nella zona sudoccidentale della Francia e un secondo decreto del
settembre 1791, emancipava tutti gli altri ebrei francesi cioè gli ashkenaziti che vivevano in Alsazia, Lorena e
Metz. Così il paradosso giuridico della presenza ebraica cadeva sotto la scure egualitaria della Rivoluzione
francese che non consentiva più particolarismi o privilegi e rendeva tutti cittadini con uguali diritti e doveri. La
Rivoluzione francese era stata preceduta oltreoceano dalla Rivoluzione Americana dove già la dichiarazione
d’indipendenza aveva sancito gli stessi principi ed emancipato politicamente gli appartenenti a tutte le religioni,
compresi i 2 mila ebrei che vivevano in America. In Europa durante le guerre rivoluzionarie e napoleoniche, le
armate francesi imposero l’uguaglianza degli ebrei insieme al loro dominio: in Belgio, negli Stati tedeschi, in
Olanda e negli Stati italiani; anche in Prussia si arrivò nel 1812 alla concessione agli ebrei di una quasi totale
emancipazione, con la sola limitazione della possibilità di ottenere cariche statali. Dopo il crollo dell’impero
napoleonico, mentre l’emancipazione restava in Francia un diritto definitivamente acquisito, molte limitazioni
furono reintrodotte in Austria Prussia e negli Stati tedeschi. Questo ritorno al passato era connesso con
l’arresto della modernizzazione, di cui l’emancipazione ebraica è solo un aspetto. La rivoluzione tedesca del
1848 concesse agli ebrei la piena uguaglianza secondo il modello francese. Il Parlamento di Francoforte, infatti,
votò una legge dei Diritti fondamentali del Popolo Tedesco che impediva limitazioni dei diritti civili o politici per
ragioni religiose, ma dopo con il clima reazionario successivo al fallimento della rivoluzione, questa legge fu
resa inoperante. In Germania ed Austria il futuro dell’emancipazione si legava così al processo di
trasformazione in senso liberale dello Stato. Nell’impero austro-ungarico, la piena emancipazione politica sarà
raggiunta solo nel 1867, in Prussia e nella maggior parte degli Stati tedeschi nel 1869, alla vigilia
dell’unificazione del Reich. Essa fu preceduta però da un processo generale di trasformazione economica, che
mutò radicalmente la faccia del mondo ebraico tedesco. Nel 700 ancora gli ebrei tedeschi erano una comunità
povera, fortemente differenziata socialmente e dispersa. Alla metà dell’800 invece il quadro è agli antipodi: gli
ebrei nelle città sono in forte ascesa economica, le disuguaglianze sociali interne sono attenuate.
Il processo di trasformazione economica e sociale del mondo ebraico tedesco precede così il riconoscimento
della piena emancipazione e appare come il frutto del più generale processo di modernizzazione sociale ed
economica della Germania. Questo processo non è un conflitto insanabile tra la perdita d’identità e identità
stessa, ma è un processo attivo di creazione di una subcultura fortemente specificata e identificata con
l’ebraismo, ma permeata di valori emancipatori, universalistici e critici della tradizione. In Francia il
riconoscimento all’emancipazione fu votato nel 1789, e fu una conquista definitiva, ma esso non fu seguito da
un altrettanto rapido processo di integrazione sociale e politica. Dopo la spinta assimilazionista del periodo
napoleonico, fino a prima del 1870, gli ebrei restano marginali nella società e nella politica francese. Dopo il
1870, negli anni della Terza Repubblica, l’integrazione politica e sociale degli ebrei è al massimo livello, il forte
stato francese fu l’unico ove gli ebrei penetrarono nelle cariche più alte dello Stato. Il forte livello di
integrazione raggiunto dagli ebrei francesi sotto la Terza repubblica non implicava l’abbandono dell’identità
ebraica. Inoltre, in Francia in questo periodo giungono molti ebrei dall’est, dopo i pogrom del 1880 in Russia.
Ma questo afflusso provoca un risorgere del particolarismo ebraico, e un riaffermare la propria identità etnica a
fine 800 gli ebrei russi si stabiliscono in un unico quartiere il Marais, ci costruiscono un’isola etnica. In
Inghilterra il processo che portò gli ebrei all’emancipazione fu molto specifico, in Francia e Germani nel 700 la
società laica chiede agli ebrei una modernizzazione, mentre in Inghilterra il processo fu spontaneo, precoce e
privo di risvolti ideologici e teorici. L’haskalah penetrò in Inghilterra solo superficialmente e assai scarso fu lo
sviluppo della Riforma. Alla metà del 700, gli ebrei inglesi avevano già assimilato uno stile di vita simile a quello
dei non ebrei, si erano tagliati la barba, frequentavano caffè e teatri (ciò dapprima caratterizzò gli strati sociali
più alti e poi quelli più umili con qualche ritardo). L’inserimento sociale degli ebrei era quindi precoce e
generale: dal 1656 gli ebrei godevano del diritto di cittadinanza, ma non avevano piena uguaglianza politica e
civile, e quest’ultimo elemento precludeva alcune strade (laurearsi in antiche università come Oxford e
Cambrige, l’elezione a cariche pubbliche). Nel 1871 saranno eliminate anche queste proibizioni e saranno
concessi pieni diritti agli ebrei. (L’emancipazione sociale precedette quella politica di circa mezzo secolo)

L’emancipazione in italia: Anche in Italia il processo di emancipazione degli ebrei ha molte caratteristiche di
particolarità e specificità, la più significativa è l’assenza di una trasformazione interna del mondo ebraico, non
c’è una riforma o una qualche rielaborazione dell’Haskalh. L’emancipazione degli ebrei in Italia ha scarse radici
nell’illuminismo ebraico e si intreccia essenzialmente con vicende esterne. La libertà e portata agli ebrei italiani
dalle armi francesi e poi introdotta dalle repubbliche giacobine e nel Regno d’Italia. La fine dell’esperienza
napoleonica reintroduce le antiche discriminazioni: nel Regno di Sardegna gli ebrei sono confinati nuovamente
in ghetto e lo stesso a Modena e nello Stato pontificio. Solo nelle regioni sotto l’Austria o ad influenza austriaca,
come la Toscana attuano progetti riformistici nello spirito del 700. Quindi l’emancipazione degli ebrei è
destinata inevitabilmente a seguire le sorti del processo risorgimentale, il movimento costituzionale e poi
quello rivoluzionario del 1848 portarono all’uguaglianza di tutti i cittadini, e quindi anche gli ebrei. Dopo la
sconfitta delle rivoluzioni del 48 l’emancipazione fu nuovamente abrogata a Modena,in Toscana e a Roma; solo
in Piemonte Vittorio Emanuele II lasciò intatto l’editto che nel 1848 aveva concesso l’uguaglianza agli ebrei. Ed
è sulla scia delle guerre del Risorgimento e della costruzione dello Stato unitario che gli ebrei raggiungono i
pieni diritti di cittadini: Lombardia, Toscana, Emilia Romagna, Parma, Modena e infine a Roma nel 1870. Le
vicende degli ebrei romani sono significative: qui i cancelli del ghetto erano stati abbattuti una prima volta nel
1798, con l’occupazione francese, e una seconda volta nel 1847 con l’inizio liberale del pontificato di Pio IX e
con la Repubblica romana. Ma al ritorno del governo pontifico, gli ebrei persero l’uguaglianza appena
conquistata, e restarono nel ghetto fino al 20 settembre 1870, fino alla caduta del potere temporale dei papa.
Il ghetto di Roma è così l’ultimo ad aprirsi agli ebrei romani, la più antica comunità della diaspora occidentale e
la più ampia in Italia: sono gli ultimi a raggiungere l’emancipazione. Gli ebrei immersi com’erano
nell’immobilismo sociale e culturale e non parteciparono attivamente al processo risorgimentale, infatti solo
pochissimi ebrei, appartenenti alle èlites, erano considerati giacobini, cioè rivoluzionari. La partecipazione del
mondo ebraico italiano al processo risorgimentale sembra riguardare più le comunità piemontesi o toscane,
che il ghetto romano.
Le conseguenze di questa improvvisa emancipazione sulla comunità si fanno sentire, la comunità del ghetto
entra in crisi, sia per la ridefinizione degli spazi abitativi, che per l’integrazione nel mondo lavorativo,
fondamentalmente la povertà insiste sulla comunità ebraica. A Roma il processo di trasformazione sembra
essersi avvantaggiato soprattutto per ebrei di altre comunità trasferitisi nella capitale dopo il 1870, come
Ernesto Nathan di famiglia ebraica pisana, sindaco di Roma dal 1907 al 1913. Ma a partire dal primo decennio
del 900 subentra una prima fase di ridefinizione interna, di riorganizzazione di ripresa identitaria, che non
contrasta ma accompagna il processo di integrazione, sempre più accentuato e destinato ad essere interrotto
dolo dalle leggi razziali del 1938.

Le risposte ebraiche alla modernità: Varie e molteplici furono le reazioni al processo si emancipazione, fin
dall’inizio però vi fu il timore ebraico che il mondo esterno e la modernità potessero intaccare l’identità
ebraica, in seguito all’integrazione sociale, alla paura dell’assimilazione/acculturazione (non perdita ma
rimodellamento dell’identità); anche se effettivamente il mondo esterno pressava gli ebrei affinché
rinunciassero alla loro specificità e si assimilassero, conformassero. Uno dei momenti di più forte assimilazione
si verificò in Francia nei primi anni del regime napoleonico, nel 1806: chiesero agli ebrei di pronunciarsi sul loro
rapporto con la società civile e sulla possibilità di accordare la Legge ebraica con le leggi civili dello Stato, quindi
a prendere un impegno formale con la patria. Si tenne perciò un Gran Sinedrio (nome ripreso da quello del
supremo tribunale dell’antica Israele): i temi affrontati riguardavano il diritto matrimoniale ebraico e il suo
rapporto con quello statale, la possibilità di matrimoni misti e la fedeltà alla nazione. Il problema dei matrimoni
misti era visto da Napoleone come uno strumento di integrazione, era uno strumento recente consentito dalla
separazione tra Chiesa e Stato e quindi dall’introduzione del matrimonio civile; gli ebrei ebbero un’opinione
duttile sull’argomento, affermando il valore civile del matrimonio misto pur rinunciando a sanzioni religiose da
parte ebraica contro ch lo avesse contratto. Altre decisioni del Sinedrio vi fu quella di sostituire l’organizzazione
comunitaria con concistori locali subordinati ad un concistoro centrale, riforma che è rimasta in vigore fino ad
oggi. L’identità ebraica cambia sotto la spinta delle pressioni esterne, e perde le sue tradizionali forme
collettive, fino ad assumere connotazioni sempre più individuali. Assai significativa appare in questo contesto
l’adozione del nome di famiglia, un provvedimento imposto da Napoleone (ruppe l’antica struttura
comunitaria) che cambiò nel mondo ebraico mentalità e percezioni, trasformando il rapporto degli ebrei, come
comunità, e lo Stato e portandolo ad un rapporto tra cittadino e Stato, ove il filtro comunitario perde
importanza. Il confronto col mondo esterno, toccò anche il nocciolo delle dottrina religiosa e le pratiche di
culto: la prima esperienza di culto riformato, profondamente influenzata dal movimento berlinese
dell’Haskalah, si realizzò ad Amburgo nel 1818 dove fu fondato un tempio (termine moderno per sinagoga) ove
si svolgeva un rituale modificato e dove le preghiere erano prevalentemente in tedesco. Negli anni ‘30 del
secolo la riforma si diffuse in Germania ad opera di una nuova generazione di rabbini educati nelle università
tedesche. Tra di essi, colui che può essere considerato il padre del movimento riformato fu Abraham Geinger: il
giudaismo viene ridotto a principio etico universale, per distinguervi norme e leggi non essenziali, e quindi tali
da poter essere abolite o modificate, ove fossero entrate in contrasto con le istanze razionaliste e di
modernizzazione. Le riforme si concentrarono sull’uso della lingua vernacolare nelle preghiere. Nel 1845 il
movimento organizzatosi in conferenze periodiche di rabbini si scisse, con Zacharias Frankel, su posizioni più
conservatrici. Il movimento riformatore subì una pausa d’arresto negli anni successivi al 1848, dato che vi erano
molti rabbini tra i fautori della rivoluzione: le autorità tedesche proibirono il movimento riformatore e molti
rabbini migrarono in America, ove il rito riformato si sarebbe diffuso ampiamente, Un altro aspetto preso
dall’incontro con il mondo moderno fu lo sviluppo in seno all’ebraismo della Wissenshaft des Jidenthums, un
approccio di studio critico al passato ebraico. Essa nacque in Germania nella prima metà dell’800, e si sviluppò
principalmente nel campo filosofico e storico, determinando la nascita di un nuovo e moderno tipo di sapere
ebraico. I fondatori della Wissenschcraft sono Geiger, Leopold Zunz e Henrich Graetz, essi nel tentativo di
inserire la storia del popolo ebraico nel quadro più vasto della cultura europea, sia dal punto di vista filologico
che metodologico che filosofico e ideologico.
La Wissenschcraft aprì le porte alla rinascite dell’ebraismo nella cultura europea, e fornì al mondo ebraico
strumenti moderni per poter percepire il proprio passato. Contemporaneamente alla riforma si andava
riorganizzato anche il partito tradizionalista, coloro che volevano combattere la riforma e il cambiamento in
nome della tradizione, si nominarono ortodossi o neo-ortodossi e proponevano l’osservanza integrale delle
norme dell’Halachah, il fondatore fu il rabbino di Francoforte Samson Raphael Hirsh, che considerava
l’integrazione degli ebrei e la loro emancipazione un fattore positivo, e condivideva con l’Haskalah un ideale
universalistico degli ebrei, che però identificava non con un principio etico ma con la Torah e l’osservanza delle
sue norme. I principi di autoesclusione delle comunità ebraiche dal mondo esterno, in favore di un ritorno alla
tradizione si diffusero soprattutto in Ungheria e nell’Europa orientale, in situazioni di chiusura.

Dalla Russia all’America La popolazione ebraica dell’Europa orientale era dal 700 in forte e costante aumento
demografico: nel XIX secolo la maggioranza degli ebrei presenti in Europa viveva ormai in Russia, Polonia,
Lituania, Ungheria. Alla fine dell’età napoleonica, mentre in Occidente il processo di emancipazione si avviava
verso il suo culmine, gli ebrei russi erano però lontani da ogni prospettiva di emancipazione: le capitali come
Mosca e San Pietroburgo erano vietate agli ebrei, e grosse limitazioni erano imposte alla loro presenza in altre
città, come Kiev e Varsavia… nel corso dell’800, solo pochissimi ebrei risiedessero in aree urbane importanti.
Nel 1835 sotto il regno di Nicola I (1825-55) fu costruito il Distretto di Insediamento, una fascia territoriale
consentita agli ebrei che si estendeva dal Baltico al Mar Nero, e comprendeva la Lituania-Bielorussia, l’Ucraina
e la Nuova Russia; essi vivevano in condizioni di grande povertà e oppressione, sottoposti ad una coscrizione
pesantissima che durava 25 anni e strappava alle famiglie bambini di 10 anni per renderli soldati, le istituzioni
comunitari erano limitate o furono distrutte, inoltre veniva lasciato spazio ai tentativi di conversione e
all’antisemitismo del clero ortodosso e al dilagare dell’odio verso gli ebrei negli strati più bassi della
popolazione. Nonostante la stagnazione, il cambiamento aveva toccato anche il mondo degli ebrei dello shtletl:
fin dai primi dell’800 l’influenza dei maskilim era cresciuta entro la comunità. Nonostante i maskilim fossero in
realtà un gruppo ristretto la loro influenza andava ora consolidandosi, orientando l’opinione pubblica
attraverso i giornali, assumendo un ruolo di guida che gli stessi tradizionalisti non erano spesso in grado di
contestare. Con il regno di Alessandro II insieme ad una spinta generale di modernizzazione del paese,
migliorarono le condizioni di vita degli ebrei. il servizio militare fu ridotto a 5 anni, fu allargata la libertà di
movimento, le università parzialmente aperte agli ebrei. La strada sembrava aperta verso un graduale processo
di emancipazione, ma nel 1881 l’assassinio dello zar ad opera di un gruppo di socialisti rivoluzionari fece
precipitare la situazione. Una serie di pogrom si scaternò contro gli ebrei, negli attacchi si mescolano motivi di
odio teologico antigiudaico, molto diffusi nella chiesa ortodossa, l’ostilità panslava verso la modernità e
l’Occidente, e l’ostilità del regime zarista contro gli ebrei identificati come rivoluzionari. Rilevante fu il pogrom
di Kishinev, una cittadina della Bassarabaia dove il pogrom ottenne il via della chiesa locale e delle autorità, e il
volgo fece strage di ebrei senza pietà. L’impoverimento crescente degli ultimi decenni dell’800 accompagnato
da un indebolimento delle strutture comunitarie, aveva dato vita ad un ampio proletariato ebraico. Nel mondo
ebraico si erano diffuse idee socialiste e rivoluzionarie; i giovani gettavano il loro bagaglio religioso per darsi
alla politica, creando il partito operaio ebraico Bund nel 1897. Il cambiamento era radicale, sociale, economico
e culturale. Altro fenomeno importante è l’emigrazione di molti ebrei russi verso l’America. La situazione era
disperata e nella conferenza ebraica di Sanpietroburgo del 1882, si discute il problema dell’emigrazione, ed
emergono le due alternative: o ottenere i diritti civili, oppure andare via, “ovunque ci porti il nostro sguardo”.
Nei 33 anni che intercorrono tra il 1881 e la prima guerra mondiale, vari milioni di ebrei russi emigrano in
America, ove la società in espansione gli permetteva diritti civili e politici come tutti gli altri migranti.
Il nuovo antisemitismo: Gli ebrei rimasti in Russia - sia i tradizionalisti che i rivoluzionari - avrebbero continuato
a scontrarsi con gli attacchi degli antisemiti anche dopo l’emancipazione, concessa dalla Rivoluzione russa e poi,
nel corso del 900, nelle persecuzioni staliniste e comuniste. L’incontro degli ebrei con l’antisemitismo assumeva
in Russia e nell’Europa orientale aspetti drammatici. Le radici di questa storia risalgono all’origine del
emancipazione ebraica, che incontrò opposizioni sia interne all’ebraismo che esterne: sin dal 700 in Francia,
molti tra i philosophes avversarono l’emancipazione degli ebrei; solo Montesquieu espresse aperta tolleranza,
ma altri come Diderot e Voltaire esclusero gli ebrei dal diritto alla tolleranza e considerarono l’arretratezza
degli ebrei come caratteristica naturale e ineliminabile, e non come il frutto della segregazione. Voltaire avvio
una polemica antiebraica che intendeva colpire anche i cristiani e la Chiesa; alcuni individuano proprio in lui, e
nella ripresa del paganesimo contro la tradizione giudaico-cristiana, il fondatore di un nuovo antisemitismo
moderno. Ad ogni modo la polemica antiebraica degli illuministi, si andò quindi ad unire a quella dei clericali, e
della sinistra giacobina, per opporsi ai decreti di emancipazione degli ebrei ashkenaziti. Ad esempio figure
come Marat, apertamente contrario all’emancipazione ebraica, subiva le suggestioni dell’ideologia voltairiana e
si saldava al populismo per seguire gli umori delle masse. Alla metà dell’800 l’emancipazione era un fatto
compiuto in gran parte dell’Europa occidentale, e aveva toccato nel profondo il mondo ebraico nonostante le
resistenze e riaffermazioni di fedeltà alla tradizione. Ma questo non portò alla progressiva scomparsa
dell’antisemitismo dei tempi delle discriminazioni religiose, che si espresse nella modernità in modi nuovi e
assai consoni alle circostanze: si giunge con Hitler a distruggere quasi per interno il mondo ebraico europeo. Le
componenti di questo nuovo antisemitismo moderno sono molte, la maggiore è però quella razzista, derivante
dal clima culturale della divisione dell’umanità in razze biologiche (semiti, negri, slavi ed ebrei sarebbero quelle
inferiori), un atteggiamento quindi diverso sia dall’universalismo cristiano che da quello laico e illuminista. Nella
Germania dell’800 si forma il mito ariano, cioè l’invenzione dell’esistenza di una razza indoeuropea ariana,
identificata con i Germani e i nordici, pura e superiore alle altre. Ma ancora prima dell’affermarsi di queste
dottrine razziali, fin dalla Restaurazione, il clima culturale si era orientato verso una romantica spiritualità
cristiana che aveva lasciato riemergere la diffidenza verso gli ebrei, e questa concezione si andò intrecciando
poi alle dottrine razziali. Anche la Chiesa cattolica dopo la metà dell’800 rinnova l’armamentario antigiudaico, e
sintomatico al riguardo, è il caso Mortara del 1858, il ratto di un bambino ebreo a scopi conversionistici,
verificatosi sullo scorcio del dominio romano a Bologna; la Chiesa di Pio IX sfidò, senza deflettere, la
disapprovazione dell’intero mondo occidentale e anche della sua protettrice politica, la Francia del secondo
Impero, in un clima di notevole isolamento. Inoltre alla fine del secolo, giornali cattolici vicini alla curia, come
l’organo dei gesuiti “La civiltà cattolica” o “l’osservatore romano”, pubblicavano articoli di sostegno alle accuse
di omicidio rituale che colpivano in quegli anni gli ebrei in Russia, Cecoslovacchia e Ungheria, e per la prima
volta nella lunga storia della Chiesa, queste accuse trovavano credito ai massimi livelli. Difficile è comprendere i
motivi di ripresa di queste mitologie negative… forse si può riferirle allo stato di disorientamento in cui versa la
Chiesa dopo la perdita del potere temporale, privata degli obblighi e dell’equilibrio necessari all’esercizio del
potere politico, e che per secoli ne avevano costituito l’essenza stessa; sembra che gli ebrei per la chiesa della
seconda metà dell’8oo fossero i nemici, esponenti di una modernità detestata e combattuta.
Nel 1899 in Boemia ci fu un processo per omicidio rituale ad ebrei, ed esponenti del mondo cattolico inglese:
cercarono di ottenere dalla Santa Sede una condanna formale dell’accusa di omicidio, e il tribunale del
Sant’Uffizio non potè prendere posizione, non fornì questa dichiarazione formale, ma comunque non prese le
distanze da questo antisemitismo. Gli ultimi due decenni dell’800 vedono affermarsi in Germania, Austria e
Francia l’antisemitismo politico: in Germania entrerà nell’ideologia nazionalista, e trovava le sue radici sia nel
razzismo biologico sia nell’identificazione dell’ebreo con i valori borghesi ed utilitaristici, tipici di una società
materialistica, e nella contrapposizione ad essi dei valori dello spirito e natura contro quelli della cultura.
L’ebreo assurge a simbolo della modernità intesa come materiale e priva di anima e scrupoli. Tutti questi
fermenti culturali trovano un catalizzatore nel nazionalismo tedesco, nel suo rifiuto di liberalismo e nella
crescita di movimenti politici aggressivi e violenti che preparano il terreno per il consenso popolare
all’antisemitismo nazista.
In Francia il movimento antisemita assume grande consistenza agli inizi degli anni 80 dell’800 nel clima di
conflitto tra le forze antidemocratiche e reazionarie e i liberali della terza repubblica. Libri come La France Juive
di Drumont, un violento pamphlet, si diffuse grazie ai giornali di grande tiratura e diffuse l’idea di un complotto
degli ebrei contro la Francia, sostenendo di annullare loro l’uguaglianza datagli con la Rivoluzione Francese. Se
questi filoni ideologici appartengono alla destra nazionalista, l’antisemitismo in questi anni si diffonde anche a
sinistra, soprattutto per il versante di attacco al capitalismo: ne “La Questione ebraica” di Marx troviamo i
prodromi dell’identificazione dell’ebreo con il capitalismo. Queste forze si saldano con il nascente e virulento
nazionalismo e con i rinnovati aneliti antisemiti. Questo clima è quello che precede il noto affaire Dreyfus,
momento di massima tensione antisemita. Alfred Dreyfus era un capitano ingiustamente condannato nel 1894
per spionaggio a favore della Germania e deportato all’Isola del Diavolo; contro di lui si schierarono i clericali, i
monarchici, l’esercito e i nazionalisti, che incitavano all’odio verso gli ebrei, in sua difesa si levarono le forze
repubblicane, i liberali, i socialisti, l’ala di sinistra e di centro della Terza repubblica. Il caso divenne politico e di
scontro generale, e portò alla separazione in Francia tra Stato e Chiesa: si chiuse con la vittoria dei dreyfus, fu
graziato e liberato, poi nel 1906 formalmente riabilitato come generale. Il caso dreyfus portò alla luce
l’esistenza di un problema irrisolto come quello della persistenza dell’antisemitismo in una società fortemente
integrata. Theodor Herzl, un ebreo ungherese corrispondente da Parigi di un giornale viennese, durante
l’affaire di Dreyfus, disse la sua sulla questione: l’emancipazione era un fallimento e l’antisemitismo era una
costante nella società, l’unica strada per salvarsi era per gli ebrei quella di lasciare la diaspora e creare un
proprio stato ebraico. Nel 1896 la pubblicazione del libro di Theodor Herzl, “Lo Stato ebraico”, e poi il primo
Congresso sionista a Basilea davano forma la progetto politico del sionismo. L’humus antisemita ove nasce in
Francia l’affaire dreyfus ha fatto supporre agli storici che sia stata la Francia, e non la Germania, la patria che
darà vita all’antisemitismo nazista. Negli anni introno al 1897-98 a Parigi, nel mezzo dell’affaire dreyfus, nacque
un’arma contro gli ebrei, il libro “Protocolli dei savi di Sion”: pretendeva di essere il testo di riunioni di questi
fantomatici Savi, capi degli ebrei di tutto il mondo, ritrovata casualmente e pubblicata; presenta un piano di
conquista del mondo da parte delle elites ebraiche, i grandi finanzieri capitalisti, i ricchi, e si teneva in piedi
sfruttando idee portanti destinate a grande fortuna: quella che gli ebrei mirassero a distruggere la civiltà
cristiana, ma soprattutto l’dea del complotto, anch’essa di matrice religiosa, ma che era capace di mobilitare le
masse. Il libro ebbe grande diffusione in Russia e, dopo gli anni 20, fu un vero e proprio best sellers tradotto in
tutto il mondo, nonostante già nel 1921 fosse stato riconosciuto e provato dal Times di Londra che si trattava di
un falso. Libro prediletto di Hitler, esso è ancora oggi pubblicato da gruppi neonazisti in Europa occidentale, e
ristampato anche nei paesi arabi. Il divampante antisemitismo, oltre che nelle società emancipate
dell’Occidente, anche in una società come quella dell’Europa orientale, contrassegnata dall’assenza di una vera
emancipazione ebraica e da un equilibrio diverso dagli altri paesi tra spinte alla modernizzazione e persistenza
di modelli tradizionali nella vita degli ebrei, ci pone il problema di una caratterizzazione più o meno unitaria
dell’antisemitismo. Nel mondo occidentale, gli ebrei da decenni avevano abbandonato i segni della loro
diversità come barbe o abiti, erano indistinguibili, ma questo non aveva comportato l’abbandono dello
stereotipo della diversità fisica dell’ebreo, che anzi accrebbe nella società emancipata, sotto lo stimolo di teorie
positivistiche e razziali. L’ebreo assume tratti tipici quasi caricaturali come il naso lungo ed adunco; così
l’integrazione sembra porre nuovi problemi e la differenza annullata dalle trasformazioni interne del mondo
ebraico sembra porsi sotto nuove spoglie in termini mitici: l’ebreo integrato e assimilato è omologato alla
società ma mantiene intatte le sue caratteristiche di ambiguità e continua ad essere percepito come
sostanzialmente diverso.

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