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INDICE

Introduzione……………………………………………………………… p. 2

Cap. I – La schiavitù, una storia antica e moderna


§. 1.1 La storia della schiavitù, un excursus…………………………… » 5
§. 1.2 Lo schiavismo anglosassone: imperialismo e colonialismo…...... » 12
§. 1.3 La schiavitù in America, dall’Africa al Nuovo Mondo.………… » 18
§. 1.4 La fine di un’aberrazione……………….………………………. » 25

Cap. II – Donne, scrittura e problematiche sociali


§. 2.1 La letteratura anglo-americana: aspetti e caratteristiche..………. » 37
§. 2.2 Nascita di un genere: la “slave narrative”…………….…………. » 46
§. 2.3 La scrittura femminile e le questioni » 59
sociali………………….......
§. 2.4 Dalle parole ai » 66
fatti……………………………………………….

Cap. III - Phillis Wheatley e Harriet Beecher Stowe. Due voci dall’America
§. 3.1 Phillis Wheatley, le origini africane di una poetessa americana... » 73
§. 3.2 Poems on Various Subjects, Religious and Moral (1773)……… » 81
§. 3.3 Harriet Beecher Stove, l’antischiavismo di un’attivista………… » 88
§. 3.4 Uncle Tom’s Cabin (1825)……………………………………… » 98

Cap. IV – Aphra Behn e Hanna More, narrativa e poesia inglese


§. 4.1 Vita, opere e interessi di una scrittrice inglese: Aphra Ben…….. » 107
§. 4.2 Oroonoko (1688)………………………………………………. » 114
§. 4.3 Le rime di Hannah More, tra religione e filantropia……….……. » 122
§. 4.4 Slavery (1795) e The Sorrows of Yamba; or The Negro
Woman’s Lamentation (1797)…………….……………………. » 126

1
Conclusioni………………………………………………………………. » 136
Bibliografia………………………………………………………………. » 139
INTRODUZIONE

Il commercio degli schiavi fu un’odiosa pratica il cui inizio può essere


fatta risalire al XV secolo. All’epoca, Ferdinando d’Aragona e Isabella di
Castiglia, i cattolicissimi sovrani di Spagna, diedero il loro assenso alla tratta degli
Africani, convinti dai loro consiglieri che per alcune popolazioni la cattività fosse
l’unica alternativa per fuggire l’idolatria che minacciava le loro anime. Ben presto
l’esempio dei re spagnoli fu seguito dai monarchi di tutta Europa, così, nel
volgere di qualche decennio, Inghilterra, Francia e Olanda entrarono nell’ignobile,
ma certamente lucrosa, tratta degli schiavi. Dall’Angola alle coste settentrionali
del Brasile, dal Golfo della Guinea alle isole dei Caraibi, ovunque ci fossero
popolazioni indigene, queste si trasformarono in merce preziosa: manodopera. La
scoperta dell’America, in particolare, e gli interessi economici che iniziarono a
gravitare dopo i primi arrivi dei coloni europei nel Nuovo Continente,
accelerarono il fenomeno della tratta. Servirono, infatti, sempre più mani per le
piantagioni di cotone e di zucchero, come pure incrementò l’esigenza di domestici
a servizio dei coloni “bianchi”. Si stima che, nel corso del Settecento, quando
inglesi e francesi avevano ormai monopolizzato il commercio degli schiavi, le
navi negriere deportarono circa dieci milioni di africani arrivando a spopolare
intere regioni come l’Angola, il Senegal, il Congo e il Sudan occidentale.
Per moltissimo tempo nella Vecchia Europa, pochi, anzi pochissimi, fatta
eccezione per gli addetti ai lavori, furono quelli che davvero conobbero le
condizioni disumane con cui si svolgeva l’abominevole commercio. Fu solo dalla
seconda metà del XVIII secolo, infatti, che l’opinione pubblica, sensibilizzata
soprattutto da una fitta pubblicistica antischiavista, iniziò a schierarsi nei confronti
della Tratta. I primi scritti che denunciarono gli orrori dello schiavismo furono
opera di qualche “vittima” che era riuscita a emanciparsi dalla propria condizione
di schiavo e a farsi testimone delle aberrazioni e delle atrocità cui erano sottoposti
gli schiavi. La letteratura africana, che fiorì nelle isole dei Caraibi (ma anche in
America settentrionale) e che vide tra i suoi esponenti di spicco personaggi come

2
Olaudah Equiano, autore di The interesting narrative of the life of Olaudad
Equiano or Gustavus Vassa the African, non fu tuttavia l’unica a sostenere gli
africani e a contrastare la schiavitù. Cominciarono a circolare, infatti, una serie di
scritti autorevoli da parte di noti progressisti europei tesi a smontare le tesi che
volevano gli africani pari a delle scimmie antropomorfe, si pensi all’opera
dell’esploratore inglese Mungo Park, Travels in the interior District of Africa.
Sarebbe errato, tuttavia, pensare che fossero solo degli uomini ad attivarsi
nella difesa degli schiavi, fiorì, infatti, anche una letteratura femminile la quale,
seppure larvatamente – e questo non certo per la minore qualità degli scritti ma
per il ruolo marginale nel quale venivano relegate in genere le donne – contribuì
in modo significativo alla causa abolizionista. Si tratta, di fatto, di una letteratura
meno nota, che soffrì di tutte le limitazioni imposte al genere, che riuscì, tuttavia,
a farsi parte attiva nella lotta contro la schiavitù. In alcuni casi, come vedremo,
autrici come Aphra Behn, anticiparono di molto, da un punto di vista temporale, il
secolo delle grandi diatribe schiaviste e antischiaviste, facendosi portavoci ante
litteram di quel pensiero abolizionista che avrebbe trovato conferme più di un
secolo dopo.
Obiettivo di questo lavoro, dunque, l’analisi di quattro scrittrici anglofone
che hanno dedicato parte della loro produzione a sostenere l’antischiavismo,
alternando, spesso, la scrittura all’impegno civile, mettendosi in prima linea nella
battaglia abolizionista; a tale scopo si è scelto di analizzare le opere di Aphra
Behn (16401689), Phillis Wheatley (1753-1784), Hannah More (1745-1883) e
Harriet Beecher Stowe (1811-1896). Tuttavia, prima di entrare nel vivo della loro
scrittura si è reso necessario contestualizzare periodo e problematiche all’interno
delle quali queste quattro scrittrice espressero la propria creatività e la propria
ideologia.
Nel primo capitolo, dal titolo La schiavitù, una storia antica e moderna,
ripercorreremo la storia della schiavitù dalle origini fino alla conquista
dell’America e fino alla su avvenuta abolizione; nel secondo capitolo, Donne,
scrittura e problematiche sociali, approfondiremo le caratteristiche della
letteratura anglo-americana, ci soffermeremo sul rapporto tra scrittura femminile e
questioni sociali e dedicheremo l’ultimo paragrafo all’analisi di quelle azioni che

3
fecero di molte donne impegnate nella lotta abolizionista non solo delle scrittrici
ma anche delle attiviste. Il terzo capitolo sarà dedicato all’analisi di Phillis
Wheatley, e al suo Poems on Various Subjects, Religious and Moral (1773), e a
Harriet Beecher Stowe, e al suo Uncle Tom’s Cabin or Life Among the Lowly
(1852); il quarto capitolo, infine, sarà dedicato a due antesignane della scrittura
antischiavista, Aphra Behn, autrice di Oroonoko (1688) e Hannah More, con il
suo Slavery (1795) e The Sorrows of Yamba; or the Negro Woman’s Lamentation
(1797). Pur nei loro limiti, l’analisi di queste opere getteranno luce su autrici
spesso sottovalutate se non addirittura dimenticate, il cui impegno, tuttavia,
contribuì all’evoluzione della civiltà.

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Capitolo I

LA SCHIAVITÙ, UNA STORIA ANTICA E MODERNA

§. 1.1 La storia della schiavitù, un excursus


La schiavitù ha radici lontanissime; in Occidente come in Oriente, al Nord
e al Sud del mondo, infatti, è stata una pratica ampiamente praticata. È risaputo
che i Faraoni dell’Antico Egitto delegavano a migliaia di schiavi il compito di
erigere le colossali piramidi che altro non erano se non che le loro dimore per
l’aldilà1, come pure è noto che già le prime dinastie di imperatori cinesi (la Xia,
fondata dal Grande Yu nel 2200 a.C.) basavano la loro economia sulla schiavitù;
ma anche le antiche popolazioni mesoamericane come i Maya, gli Aztechi e gli
Incas avevano elaborato un modello di società basata sulla schiavitù2.
Lo stesso dicasi per la civiltà Greca dove Aristotele (384-322 a.C.) non
solo la giustificò come diritto delle genti o come diritto di conquista, ma arrivò a
parlare di “schiavo per natura” nel senso che, a suo dire, «è evidente […] che
alcuni uomini per natura sono liberi e altri schiavi, e che per essi la schiavitù è
insieme utile e giusta»3. Platone la sostenne ritenendo che coloro che venivano
vinti in guerra, i barbari, dovessero essere uccisi o, diversamente, potevano essere
graziati e diventare schiavi4; il grande filosofo ateniese non criticò mai la schiavitù
e, anzi, si può dire che la diede per scontata, come qualcosa facente parte
dell’ordine dell’oikos (casa). È anche vero, però, che nel IX Libro della
Repubblica, affrontando il tema della felicità del tiranno, Platone fa affrontare da
Socrate, in via incidentale, il tema della schiavitù, facendo paragonare il padrone
di schiavi a un tiranno5. Quindi, sebbene la Grecia antica sia considerata la culla

1
In Egitto, come spiega Walzer, la «schiavitù era una specie di dominio politico». WALZER M.,
esodo e rivoluzione, Feltrinelli, Milano, 2004, p. 27.
2
CHAUNU P., L’America e le Americhe. Storia di un continente, Dedalo, Roma, 1984, p. 19 e ss.
3
ARISTOTELE, Politica, I, 2, 5, 1254a-b-1255a.
4
PLATONE, Le Leggi, VI, 19, 776b dove scrive che «il problema degli schiavi è molto arduo».
5
PLATONE, Repubblica, IX, 758d e ss.

5
della civiltà occidentale, anche Atene, forse la città classica per antonomasia
simbolo di libertà, era il luogo che aveva il più gran numero di schiavi-merce;
alcuni storici, addirittura, ne stimano un numero di 60-80 mila 6. A Sparta, invece,
e alla sua società fortemente militarizzata, il numero degli schiavi, detti iloti,
arrivò a sfiorare le 200.000 mila unità7.
Sembra, dunque, che la storia del mondo sia stata anche una storia di
schiavitù e di schiavismi e sebbene, a qualsiasi latitudine ci si trovasse, essere
schiavo significava perdere il diritto sulla propria vita, sulla propria morte, sulla
propria famiglia, essere sfruttato senza ricevere alcun compenso in cambio e non
possedere nulla, manca, a tutt’oggi, una definizione univoca di “schiavismo”. Il
fenomeno, infatti, pur mantenendo linee essenziali di fondo che lo rendono simile
in ogni parte del mondo, è stato soggetto a mutare nel tempo e ad assumere diversi
tipi di conformazione. Presso alcuni popoli, ad esempio, schiavo si nasceva, in
altri lo si diventava a causa di una guerra, in altri ancora la condizione di schiavo
era la conseguenza di un debito non pagato. Molti i dubbi anche sull’etimologia
della parola “schiavo”. Fino al X secolo, infatti, la parola schiavi, “sclavi”
indicava i popoli slavi ma poi, tra il X e l’XI secolo venne ad assumere l’attuale
significato di “schiavi”; si pensa che il cambiamento di significato sia legato a un
rilevante fenomeno di vendita di schiavi di origine slava che furono portati in
massa nell’Europa occidentale. Gli slavi, dunque, o “sclavi” medievali si
trasformarono nel popolo asservito per eccellenza, ovvero gli “schiavi”. Questa
spiegazione sarebbe suffragata dal fatto che nelle maggiori lingue europee
moderne la parola mantiene la stessa radice: “slave” in inglese, “esclave” in
francese, “esclavo” in spagnolo, “schiavo in italiano” e “sklave” in tedesco8.
L’etimologia del termine, tuttavia, continua a sollevare un vivace dibattito e resta
una questione aperta tra gli studiosi.
Resta il fatto che nelle civiltà antiche, come pure in quelle arcaiche, la
schiavitù non solo fosse accettata ma anche regolata da leggi e da consuetudini
alla stessa stregua di qualsiasi altra pratica economica. Nella società romana, ad
6
MOSES I. FINLEY, Tra schiavitù e libertà, in SICHIROLLO L. (a cura di), Schiavitù antica e
moderna, Guida, Napoli, 1979, p. 50 (pp. 43-64).
7
BACHINI A., Gli antichi Greci, Giunti, Firenze, 2011, p. 60; per le fonti si rimanda a Eordoto,
libro IX, cap. 10.
8
RICCIARDI M., BONADONNA F. (a cura di), Oltre il testo: gli ipertesti, Franco Angeli,
Milano, 1994, p. 42.

6
esempio, il lavoro degli schiavi rappresentava una parte fondamentale
dell’economia, uno dei più remunerativi frutti delle campagne militari degli
eserciti imperiali. Come spiegano Melani e Fontanella, però,

Se è vero che l’istituto della schiavitù nella società romana perdura


nell’arco dei secoli, è altrettanto vero che esso non rimane nel tempo uguale a se
stesso. La condizione degli schiavi stessi presenza differenze profonde, fermo
restando che tutti sono uomini privati della loro libertà, che possono essere battuti,
torturati, uccisi a discrezione del padrone9.

Prima della seconda guerra punica, ad esempio, la presenza degli schiavi


non era così significativa a Roma, ma, con le guerre di espansione, cominciarono
ad arrivare nella capitale «caterve di schiavi, prigionieri di guerra venduti
all’asta»10. Più Roma si espandeva più il numero degli schiavi aumentava e, di
conseguenza, venivano emanate leggi per inquadrare giuridicamente il fenomeno.
Si pensi, ad esempio, alla Lex Poetelia (313 a.C.), relativa ai debiti e alla
schiavitù, alla Lex Cornelia (82 a.C.), che proibiva ai padroni di uccidere schiavi
che non fossero colpevoli di alcun delitto, la Lex Aelia Sentia (4 d.C.), contro la
liberazione degli schiavi, la Lex Petronia (anno 32 d.C.) che toglieva l’obbligo di
combattere nel circo se ordinato dal padrone e molte altre ancora11. Si dovettero
verificare alcuni fondamentali cambiamenti perché il fenomeno della schiavitù
cominciasse a declinare: la fine del periodo della conquista (Tardo Impero, VIII
sec. d.C.)12, la diffusione del Cristianesimo e la presenza a Roma di cittadini
“barbari” (ovvero non romani) cui fu data la cittadinanza. È interessante ricordare
che anche nella “patria del diritto” non fu mai proclamato alcun editto imperiale
che abolisse la schiavitù la quale, di fatto, tese a scomparire grazie
all’intercessione sempre più incisa della Chiesa e a una forma di emancipazione,
per così dire naturale, degli schiavi a persone libere13.

9
MELANI C., FONTANELLA F., Storia illustrata di Roma antica: dalle origini alla caduta
dell’impero, Giunti, Firenze, 2000, p. 97.
10
Ibidem.
11
FASCIONE L., Storia del diritto privato romano, Giappichelli, Torino, 2012, p. 139 e ss.
12
Anche, a detta di De Giovanni, «molti aspetti riguardanti la schiavitù nel tardo impero restano
incerti». DE GIOVANNI L., Istituzioni, scienza giuridica, codici nel mondo tardo antico: alle
radici di una nuova storia, L’Erma di Bretschneider, Torino, 2007, p. 319.
13
Sul punto, ROBLEDA O. S.J., Il diritto degli schiavi nell’antica Roma, Università Gregoriana
Editrice, Roma, 1976; FRANCIOSI G., Famiglia e persone in Roma antica, Giappichelli, Torino,
1989.

7
Finite le guerre di conquista, dunque, anche il numero delle popolazioni da
catturare calò in modo significativo; avvenne, così, che gli schiavi si
trasformarono in una merce rara e ricercata che si andò a trasformare in servitù.
Anche in questo caso si trattò di una servitù coatta, nel senso che chi nasceva
servo difficilmente poteva emanciparsi dal proprio status. La schiavitù, dunque, si
trasformò nella “servitù della gleba” di medievale memoria; una massa numerosa
di individui costretti a prestare i propri servizi nelle più disparate occupazioni. Fu
il 456 d.C. a decretare la fine dell’Impero Romano e l’entrata ufficiale, nel
Vecchio Continente, in quella che verrà definita l’epoca buia del Medioevo. La
servitù della gleba, che rappresentò la forza lavoro dell’epoca medievale - una
forma “benigna” di schiavitù che lasciava al “servo” un minimo di diritto – ridiede
a milioni di masse diseredate una parte della loro dignità 14. In questa evoluzione
culturale e sociale la Chiesa ebbe un ruolo fondamentale, prima estendendo a tutti
gli schiavi i sacramenti, poi proibendo la schiavitù per cristiani ed ebrei, quindi
ottenendo l’abolizione della schiavitù nelle terre dei re cristiani 15. C’è da dire,
però, che secondo alcuni la Chiesa tenne un comportamento non sempre chiaro e
lineare nei confronti della schiavitù e molti storici concordano nel ritenere che la
Chiesa medievale

pur sostenendo la fondamentale uguaglianza di tutti gli uomini davanti a


Dio, accetta l’istituto della schiavitù […] Sul problema dell’atteggiamento della
Chiesa nei confronti della schiavitù, dunque, si scorgono per tutto il medioevo
ombre e luci, posizioni non univoche e in definitiva poco coerenti. La Chiesa
infatti non solo non attacca l’istituto della schiavitù, ma accetta anche di avere
schiavi propri: nei documenti attestanti donazioni fatte alla Chiesa, leggiamo
molto spesso che le terre erano donate “cum servi set ancili”, cioè con gli schiavi
e le schiave viventi su quella terra16.

Oltre a quelli della Chiesa neppure vanno dimenticati gli interventi


promossi a livello istituzionale come il Liber Paradisus emanato dai Comuni che,
nel 1256, liberò nella città di Bologna i servi della gleba e gli schiavi 17.
Nonostante la schiavitù fosse uscita dalla prassi comune, non ugualmente poteva
14
CICCIA G. S., I servi della gleba nelle pieghe della storia, Pragmata, Padova, 2008.
15
STARK R., The Victory of Reason: How Christianity Led to Freedom, Capitalism, and Western
Success, Random House, New York, 2005, pp. 57-58.
16
CARLYLE R. e A., Il pensiero politico medievale, a cura di L. Firpo, Laterza, Roma-Bari, 1956,
pp. 128-152.
17
Cfr. ANTONELLI A., GIANSANTE M., Il Liber Paradisus e le liberazioni collettive nel XIII
secolo: cento anni di studi (1096-2008), Marsilio, Firenze, 2008.

8
dirsi del commercio degli schiavi che, in epoca medievale, fu assai fiorente. Uno
dei mercati più noti per potersi aggiudicare questa particolare “merce” era
Verdun, dove gli schiavi provenivano in massima parte dalla Polonia 18 e da qui
inviati, attraverso la Spagna, nei paesi Arabi. Già verso i primi decenni del XIV
secolo cominciarono ad arrivare in Europa anche i primi schiavi africani, visto
che, all’epoca, nel Paesi islamici la schiavitù non solo continuava ad essere
tollerata ma stava attraversando un periodo di grande espansione19. Si assistette, in
altre parole, a una ripresa della schiavitù solo che, alle soglie dell’era moderna,
non interessava più le popolazioni cristiane ma tutte le altre.
Nel 1430, ad esempio, gli Spagnoli colonizzarono le Isole Canarie e
schiavizzarono la popolazione locale20; appena papa Eugenio IV venne a
conoscenza di quanto stesse accadendo emise una bolla contro la schiavitù, la
Sicut Dudum (1435) che, tuttavia, non sortì alcun effetto21. Poco tempo dopo, però
Colombo sarebbe approdato a Hispaniola e poi nelle Americhe dando inizio ad
alcune delle più fosche pagine della storia europea, il quasi totale annientamento
delle popolazioni amerinde22. Nel 1519 il vescovo di Darien (Panama) sostenne
che gli amerindi erano «a mala pena uomini e la schiavitù è il mezzo più efficace
ed in realtà l’unico utilizzabile con loro»23 ma, quasi un decennio dopo, nel 1526,
Carlo V (re di Spagna e del Sacro Romano Impero), di fronte ai genocidi
commessi e all’asservimento di migliaia di uomini e donne per lo più inoffensivi,
proibì la schiavitù in tutto l’Impero emanando nel novembre del 1542 le Leggi
Nuove24.
Lo stermino e la riduzione in schiavitù delle popolazioni sudamericane fu
così cruento che anche tra le fila dei conquistadores si levarono voci di dissenso;
non possiamo non ricordare l’azione di Bartolomeo de Las Casa, ex compagno di
Cristoforo Colombo, prete e domenicano che si fece portavoce della causa degli
18
Non fu certamente un caso se la Polonia, assieme alla Lituania, fu, nel XVI secolo, uno tra i
primi Paesi a vietare il commercio di schiavi.
19
LLIFFE J., Popoli dell’Africa. Storia di un continente, Pearson Italia, Milano, 2007, p. 169 e ss.
20
PICCINNI G., I mille anni del Medioevo, Pearson Italia, Milano, 2007, p. 395.
21
SOCCI A., La guerra contro Gesù, Mondadori, Milano, 2012, p. 35.
22
PIETROSTEFANI G., La tratta atlantica: genocidio e sortilegio, Jaca Book, Milano, 2000, p.
38.
23
La citazione si trova riportata in SCAMMELL G. V., Genesi dell’Euroimperialismo, Ecig,
Genova, 2000, p. 172.
24
MIRABELLA P., L’uomo e I suoi diritti. Una riflessione etica a partire della , Effata editrice,
Milano, 2009, p. 55.

9
indigeni denunciandone gli abusi e le violenze nel suo Brevissima relazione sulla
distruzione delle Indice (1522), ma anche il dominicano spagnolo, Francisco de
Vitoria, all’epoca professore all’Università di Salamanca, che difese gli indigeni
americani in nome del diritto delle genti di restare e vivere nelle terre dei loro
antenati25. Qualche anno dopo, nel 1537, papa Paolo III, nella sua lettera Veritas
ipsa, indirizzata al cardinale Jean de Tavera, arcivescovo di Toledo, ribadiva che
gli amerindi erano esseri umani e che, dunque, non potessero essere ridotti in
schiavitù; gli stessi argomenti furono ribaditi nella bolla Sublimis Deus26.
Nonostante le voci contrarie e a favore dei popoli indios, lo sfruttamento degli
amerindi raggiunsero una tale aberrazione che alcuni esponenti del clero, come
Las Casas, preoccupati che, perpetrandone la tratta, si sarebbe giunti all’estinzione
di intere popolazioni propose di trasferire in America gli africani , anche per farli
lavorare. Tuttavia la relazione che il domenicano inviò al re di Spagna non fu ben
accetta dai coloni che lo accusarono di averli traditi e di aver abiurato alla sua
stessa religione, costringendolo ad abbandonare la diocesi e a tornare in Spagna27.
In seguito, tuttavia, lo stesso Las Casas si pentirà della sua proposta, pur non
disconoscendo il fatto, e nella sua Historia de las Indias scriverà:

Questo permesso di portare schiavi negri lo dice per primo il chierico Las
Casas, non avendo coscienza dell’ingiustizia con cui i portoghesi li catturano e li
rendono schiavi; egli, dopo essersene reso conto, non lo concesse mai più per
niente al mondo, perché li ritenne sempre ingiustamente e dispoticamente fatti
schiavi, dato che hanno gli stessi diritti degli indios28.

Le parole di Las Casas, tuttavia, sebbene non fossero state accolte da tutti
allo stesso mondo, innescarono un dibattito che sarebbe proseguito per oltre due
secoli ponendo su schiere opposti chi sosteneva la necessità di abolire la schiavitù
e chi, invece, la riteneva un fatto accettabile. Tra questi Juan Ginés de Sepúlveda
che, nel 1547, scrisse il Trattato sopra le giuste cause della guerra contro gli

25
BLACBURN R., The Making of New World Slavery. From the Baroque to the Modern, 1492-
1800, Verso, London-New York, 1997, p. 125.
26
HANKE H., Pope Paul III and the American Indians, in “Harward Theological Review”, 30,
1937, pp. 65-102.
27
ABELLÁAN J. L., Il pensiero rinascimentale in Spagna e in America, in ROBLES L. (a cura
di), E la filosofia scoprì l’America, Jaca Book, Milano, 2003, p.187 (pp. 159-200).
28
La citazione si trova riportata in Ibidem.

10
indi29 dove tentò di dimostrare perché gli indios potessero essere ridotti in
schiavitù essendo servi per natura, «per la loro condizione naturale, sono tenuti
all’obbedienza, in quanto il perfetto deve dominare sull’imperfetto»30. Per de
Sepúlveda non c’era alcun dubbio che si trattasse di uomini inferiori; ciò si
evinceva dal fatto che fossero privi di cultura e di leggi scritte, dal fatto che, alla
fine, si fossero fatti quasi annientare da un manipolo di spagnoli e che anche i più
civili tra loro, gli Aztechi, eleggessero i loro re invece che designarli per
successione ereditaria. I toni eccessivi di de Sepúlveda furono aspramente criticati
anche da quelli che gli avevano affidato il compito di redigere la relazione, tanto
che il suo manoscritto fu rifiutato dal Consiglio delle Indie e dal Consiglio reale e
l’Università di Salamanca e di Alcalà bollarono l’opera come «malsana»31.
I gesuiti tentarono di contrastare la piaga dello schiavismo praticata dai
coloni spagnoli facendo ricorso alle “reducciones” con le quali gli indios venivano
sottratti ai loro padroni ma “rinchiusi” in villaggi amministrati dagli stessi gesuiti;
in cambio veniva chiesto loro di pagare al governo di Madrid un tributo (che si
concretizzava in una certa quantità di mate, uno speciale tè che si otteneva con le
foglie della coca e di altre erbe aromatiche). Ben presto, tuttavia, i coloni si
ribellarono all’intrusione gesuitica e ottennero dalla Chiesa l’abolizione delle
reducciones32. A quel punto i gesuiti si trasformarono in latifondisti e arrivarono a
controllare, ma questo solo nel 1700, circa un terzo delle terre produttive
americane, dove lavoravano, secondo le modalità dell’economia coloniale
spagnola, mille indios ogni centocinquanta afroamericani33.
Nel frattempo Arabi e Turchi erano diventati i “signori” del commercio di
schiavi bianchi; un commercio che divenne sempre più fiorente e lucrativo con
l’espansione dell’Impero Ottomano nel Mediterraneo34. Era consuetudine dei
turchi, interessati soprattutto a reclutare manodopera maschile da destinare a
29
GLIOZZI G., La scoperta dei selvaggi. Antropologia e colonialismo da Colombo a Diderot,
Principato, Milano, 1971.
30
DE SEPULVEDA G. D., De la justa causa de la guerra contro los indios (1550), Fondo de la
Cultura Economica, Città del Messico, 1987, p. 85.
31
SÉJOURNÉ L., América Latina, in “Antiguas culturas precolombianas”, Siglo XXI de Espana
editores, México, 1976.
32
DAMBROSIO M., BARBIERI R., BERSELLI R., Il nuovo mondo: dalla scoperta delle
Americhe alla vigilia delle indipendenze, Jaca Book, Milano, 1991, p. 25.
33
SCAMMELL G. V., Genesi, cit., p. 193.
34
CANALE CAMA F., CASANOVA D., DELLI QUADRI R. M., Storia del Mediterraneo
moderno e contemporaneo, Guida, Napoli, 2009, p. 198 e ss.

11
lavori di fatica per mare e per terra, a razziare in particolar modo le coste italiane,
spagnole e slave. Neppure le donne venivano disdegnate, soprattutto se bianche e
di bell’aspetto, essendo spendibili come concubine per gli harem dei ricchi signori
ottomani. Il Mediterraneo, ben presto, si trasformò nel “mare della paura” 35,
tuttavia il fiorente traffico si arrestò dopo la sconfitta musulmana a Lepanto
(1571)36. Ma se per i Turchi la metà del XVI secolo rappresentò l’inizio del
declino nel traffico degli schiavi, altri Paesi, come l’Inghilterra, e a seguire
l’America, entrarono nella loro fase espansiva.

§. 1.2 Lo schiavismo anglosassone: colonialismo


La nascita del colonialismo anglosassone può essere fatta risalire a Enrico
VII che regnò dal 1485 al 150937. Il monarca, infatti, durante la sua reggenza,
sviluppò il commercio oltremare e il sistema marittimo inglese attraverso la
costruzione di nuove navi capaci di raggiungere mete sempre più lontane. Una
buona marina mercantile fu la conditio sine qua non perché la corona britannica
cominciasse l’era delle colonie d’oltremare e potesse dare il via a quello che sarà
ricordato nei libri di storia come il periodo dell’imperialismo inglese 38. Grazie a
Enrico VII, che incoraggiò le imprese per mare, Giovanni e Sebastiano Caboto
esplorarono nel 1497, le coste del Labrador, di Terranova e della Nuova Scozia39.
All’epoca, nonostante la buona volontà del monarca anglosassone, la
marina inglese non era ancora paragonabile alla flotta spagnola ma certamente
l’obiettivo era quello di superare l’Invincibile Armada 40, cosa che avvenne nel
1588 sotto Enrico VIII41 il quale fortificò il potere marittimo inglese e costruì la
moderna marina inglese, triplicando il numero di navi da guerra e costruendo il
35
BONAFINI G., Un mare di paura: il Mediterraneo in età moderna, Sciascia editore, Napoli,
1997.
36
RICCI G., I Turchi alle porte, Il Mulino, Bologna, 2008, p. 26 e ss che riporta che le incursioni
turche in terra italiana datano dal 1472 al 1499 e a Otranto nel 1480, dove rimasero per ben tredici
mesi.
37
DAVIES B., Isole. Storia dell’Inghilterra, della Scozia, del Galles e dell’Irlanda, Mondadori,
Milano, 2007, p. 387.
38
Ivi, p. 571 e ss.
39
ABBATISTA G., Storia moderna, Donzelli, Roma, 1988, p. 727.
40
PEITROSTEFANI G., La Guerra corsara: forma estrema del libero commercio, jaca Book,
Milano, 2002, p. 172.
41
SPINELLI A, Tra l’inferno e il mare: breve storia economica e sociale della pirateria,
Fernandel, Ravenna, 2003, p. 55.

12
primo grande vascello con cannoni pesanti a lungo raggio; oltre a ciò costruì
nuovi porti e un sistema di fari che avrebbe facilitato la navigazione delle coste 42.
Con la sconfitta dell’Invincibile Armada la flotta Inglese divenne, a tutti gli
effetti, la regina dei mari. Giunti in America, dove furono fondate le 13 colonie
Nord Americane, l’Inghilterra si accaparrò anche le province atlantiche del
Canada, arrivando a colonizzare alcune piccole isole dei Caraibi come Giamaica e
Barbados. In queste isole, dove furono impiantate colonie di zucchero, la base
dell’economia divenne schiavista; ma le colonie americane non producevano solo
zucchero; in quelle del sud, in particolare, si diffusero la coltivazione del tabacco,
del cotone e del riso, in quelle del nord la produzione di materiale destinato alla
costruzione delle navi e alla produzione di pellicce. Ben presto la colonizzazione
anglosassone nei territori immensi e vergini del Nord America si espanse a
macchia d’olio43.
Il primo insediamento coloniale inglese d’oltremare è datato 1607, a
Jamestown in Virginia44. Nek periodo che andò dal 1607 al 1783 45 il Regno Unito
estese il proprio dominio in quella che sarà ricordata come la prima fase del
colonialismo inglese, nei territori della Nuova Scozia, a Terranova, la Terra di
Rupert, le Bahamas, la Giamaica, il Belize e parte delle Piccole Antille. Olandesi
e Francesi, che erano approdati anch’essi sul suolo americano, furono
inesorabilmente cacciati dagl’inglesi che si impossessarono anche dell’Australia
(1788) e della Nuova Zelanda (1840). Tutti questi territori, naturalmente, erano
abitati dai nativi del posto e diventarono, dopo la conquista britannica, terre di
immigrazione per gli inglesi. Questo è il motivo per cui la storia dello schiavismo
anglosassone è anche la storia del colonialismo del Regno Unito 46. Nel corso
dell’epoca coloniale, caratterizzata da una politica occupazionale e di espansione
iniziata dopo la scoperta dell’America, i territori occupati divennero parte
integrante della Corona britannica che vi esportò il proprio modello di controllo
42
VECCHI A. V., Storia generale della marina militare, corredata di incisioni e carte, R. Giusti,
Livorno, 1895.
43
DETTI T., GOZZINI G., Storia contemporanea: l’Ottocento, Mondadori, Milano, 2000, p. 26.
44
un precedente esperimento era stato quello, nel 1584, di Sir Walter Religh che aveva organizzato
una prima colonia in Virginia a Roanoke ma che ebbe vita breve.
45
Anno in cui con il Trattato di Parigi fu riconosciuta l’indipendenza Stati Uniti d’America.
PLACANICA A., L’età moderna. Alle radici del presente: persistenze e mutamenti, Mondadori,
Milano, 2001, p. 310 e ss.
46
DUÈ A., L’epoca moderna del colonialismo, Jaca Book, Milano, 1998, p. 32 e ss.

13
politico ed economico assieme al proprio sistema culturale, spazzando via tutto
ciò che percepiva come alieno. In questa fase le terre venivano sfruttate a pieno
regime e le popolazioni conquistate diventavano forza lavoro coatta. Molto spesso
tuttavia queste forme di schiavitù legittimate erano giustificate da motivazioni di
stampo idealistico, in quanto i colonizzatori si ritenevano portatori di valori etici
ed esempi di una cultura superiore47.
Le tredici colonie che gli inglesi fondarono in Nord America erano
estremamente eterogenee tra loro sia per clima che per tipologia del territorio. Se
in Virginia e nel Maryland, dunque nel Sud, intorno al 1700 erano state impiantate
ampie coltivazioni di tabacco (che si rivelarono estremamente redditizie), nel New
England, dunque al Nord, inizialmente l’attività principale era soprattutto la pesca
da esportazione, e la costruzione di prodotti navali come legame, catrame, resina,
canapa, in seguito, però, si sviluppò anche l’industria cantieristica che raggiunse
livelli tale da rifornire per il 40% la flotta britannica. In genere, comunque, la
popolazione delle colonie viveva di agricoltura; mentre le campagne del Nord si
popolarono di piccoli proprietari, di solito dediti alla coltivazioni di cereali, nel
Sud si diffusero le piantagioni che producevano riso, indaco, tabacco o cotone che
venivano poi esportati. Fu soprattutto nel Sud, dunque, che il bisogno di
manodopera, e la sua scarsità, divenne da subito un problema.
Sebbene, quando si pensi alla schiavitù e all’America, vengano in mente
soprattutto le immagini degli nativi americani e degli africani deportati dal loro
continente, il Governo anglosassone non si limitò a schiavizzare gli afroamericani
ma anche i bianchi. Inizialmente, infatti, la penuria di manodopera nelle nuove
colonie fu risolta con la deportazione dei condannati che, all’epoca, erano
numerosissimi in virtù del fatto che, nel XVIII secolo, i codici penali britannici
erano estremamente severi e arrivavano a prevedere la pena capitale anche per
reati minori. Fino al 1713, anno in cui terminarono le guerre contro la Francia, ai
criminali inglesi, condannati a morte, fu offerta l’opportunità di scegliere tra la
vita e la possibilità di arruolarsi nell’esercito ma poi, dal 1717, il Parlamento
inglese approvò un atto che concedeva la grazie a chi avesse accettato di essere
deportato nelle colonie oltreoceano e qui avesse scontato un periodo di lavoro
47
DE CHIARA M., Oltre la gabbia: ordine coloniale e arte di confine, Meltemi, Roma, 2005, p.
138 che parla di «nazione civilizzatrice».

14
forzato. Fu così che tra il 1720 e il 1775 furono trasferiti in America circa 30.000
criminali, la maggior parte dei quali furono destinati nel Sud, negli stati della
Virginia e del Maryland48.
Molti coloni, soprattutto i piantatori del Sud, accolsero di buon grado la
decisione della Corona inglese ma altri si dimostrarono preoccupati delle
conseguenze sociali che una tale massa di criminali avrebbe avuto sul carattere
stesso dei coloni; alcune province, come la Pennsylvania, particolarmente
stressate dalla situazione, dopo il 1722 cominciarono ad accampare ragioni di
diversa natura, soprattutto attaccandosi a cavilli burocratici o a inventarsi intralci
statuari, per impedire l’arrivo di nuovi forzati. La Virginia, diversamente, a forza
di accettare carichi di deportati si trovò travolta da una dilagante ondata di
delinquenza. Nella Virginia Gazette del 1751 si leggeva:

Quando vediamo i nostri figli continuamente riempiti dai resoconti delle


più audaci rapine, degli assassinii più crudeli e degli altri infiniti misfatti
perpetrati dai criminali trasportati dall’Europa, quale melanconia, quali terribili
riflessioni ciò deve provocare! Che ne sarà dei nostri posteri? Questi sono alcuni
dei tuoi favori, o Britannia! Tu sei chiamata nostra Madre Patria: ma quale buona
madre mai mandò ladri e villanzoni ad accompagnare i suoi figli, a corrompere
alcuni coi loro vizi contagiosi e ad uccidere gli altri? Quale padre mai s’adoperò a
diffondere la pestilenza nella propria famiglia? In qual modo potrebbe la Britannia
dimostrare un più sovrano disprezzo per noi che vuotando le sue prigioni nelle
nostre province!49

Indipendentemente dai giudizi e dagli umori che questa insolita tratta di


“schiavi” bianchi provocava, giunti a destinazione, questi futuri “servi” dovevano
lavorare per circa sette anni, periodo che si allungava a quattordici nel caso di
commutazione di una pena di morte. Una volta scontata la propria colpa, se il reo
era ancora in vita, tornava a essere un uomo libero. Accanto a questa massa di
diseredati inglesi, per tutto il XVIII secolo le colonie del Nord America attrassero
anche un numero incredibile di emigrati tedeschi (di fede luterana perseguitati in
patria) e irlandesi (originari dell’Ulster), uomini liberi che videro nelle nuove terre
l’opportunità di rifarsi una vita o, semplicemente, di aumentare il proprio giro di

48
LUCONI S., PRETELLI M., L’immigrazione negli Stati Uniti, Il Mulini, Bologna, 2008, p. 40 e
ss.
49
Citazione tratta da HOFSTADTER R., L’America coloniale. Ritratto di una nazione crescente,
Mondadori, Milano, 1983, p. 44.

15
affari50. Nella maggioranza dei casi, tuttavia, si trattava di persone con poche
disponibilità, attratte dai reclutatori di manodopera, che li allettavano con la
promessa di facili guadagni; molti di loro, però, non raggiungevano neppure le
sponde americane e morivano miseramente nel tragitto in mare che si svolgeva in
condizioni malsane. Gottlieb Mittleberger, un immigrante tedesco nelle pagine di
Journey to Pennsylvania (1750) racconta che sulla nave erano stati stipati circa
quattrocento passeggeri, in maggioranza redemptioners tedeschi e svizzeri, cioè
emigranti impegnatisi a riscattare con il lavoro le spese del loro trasporto,
schiacciati come sardine e rannicchiati in cuccette di due piedi per sei (60x195
centimetri)51.

Durante la navigazione la nave è piena di miserandi segni di sofferenza –


cattivi odori, esalazioni, brividi, vomiti, varie forme di mal di mare, febbre,
dissenteria, dolori di testa, vampe di calore, stitichezza, pustole, scorbuto, cancro,
piaghe alla bocca e consimili malanni, tutti causati dal deterioramento e
dall’eccessiva salatura delle vivande, specie della carne, nonché dell’acqua
pessima e sporca, cose che provocano la misera consunzione e la morte di molti.
S’aggiunga a tutto questo la scarsezza di cibo, la fame, la sete, il gelo, la calura,
l’umidità, il timore, le pene, l’irritazione e i lamenti e altri guai. Inoltre, per
esempio, vi sono così tanti pidocchi, specie sui malati, che bisogna addirittura
scrostarli dai corpi52.

Quelli che sopravvivevano e arrivavano in America, se sprovvisti di


denaro, avevano come unica possibilità quella di mettersi a servizio. In molti casi,
in cambio del pagamento del viaggio, i capitani della navi vendevano gli
emigranti ai grandi proprietari terrieri, presso i quali sarebbero restati per un
tempo di circa quattro anni. Si trattava, di fatto, di un sistema di reclutamento
della manodopera, noto come indenture (ovvero servitù a contratto) che poneva la
persona in una condizione tra lo schiavo e il libero cittadino 53. Diversamente dagli
schiavi veri e propri, infatti, al servo bianco restavano alcune libertà, come quella
di possedere beni personali e poter ricorrere alle autorità nel caso di
maltrattamenti e soprusi. Non era impossibile che un servo bianco tornasse in

50
THOMAS W. I., Gli immigrati e l’America. Tra il vecchio e il nuovo mondo, Donzelli, Roma,
2000, p. 172 e ss.
51
EUNDERLICH N. D., The Pennsylvania-German in the Settlement of Maryland, Genealogical
Publishing Co., Baltimore, 1914, p. 116.
52
Citazione riportata in Ivi, pp. 34-35.
53
RODRIGUEZ J. P., Slavery in the United States: A Social, Political, and Historical
Encyclopedia, vol. 2, ABB-CLIO, Santa Barbara, 2007, p. 86 e ss.

16
poco tempo, un uomo libero. Nella realtà dei fatti, però, la maggior parte dei
questi semi-schiavi moriva durante il periodo di lavoro, estremamente duro
soprattutto quando espletato nelle piantagione del sud, e, comunque, anche se
sopravvissuto, una volta tornato libero, non aveva i mezzi né le forze per
reinserirsi nella società. Ciò che avveniva nelle colonie americane non era
esattamente speculare a quanto avveniva nella Madre patria; in Inghilterra, infatti,
le condizioni dei lavoratori erano certamente migliori e questo nonostante, ad
esempio, i minatori che lavoravano nelle miniere di carbone della Scozia fossero
vincolati a vita al loro padrone54.
Altra storia fu quella riservata agli afroamericani. Iniziamo col dire che, in
Inghilterra, intorno alla metà del Settecento, era documentata la presenza di circa
10.000 schiavi e a Liverpool, nel 1766, ne furono messi in vendita 11. Tuttavia, è
anche vero che dal 1772 la schiavitù in Inghilterra fu ufficialmente proibita grazie
all’impulso dato dalla vicenda di James Somerset, uno schiavo portato dalla
Virginia al Regno Unito dal suo padrone. Somerset aveva richiesto alla
magistratura inglese di poter tornare in Virginia, richiesta che fu accolta non tanto
per ragioni umanitarie quanto, piuttosto, per il timore della mescolanza e della
contaminazione razziale che sarebbe potuta originarsi dalla presenza di
afroamericani in Inghilterra. Il suolo britannico continuò a lungo a essere vietato
agli afroamericani anche quando, negli anni Ottanta, essi, che avevano combattuto
in America per la Corona ed erano emigrati in Inghilterra, si videro deportati in
Sierra Leone55. Prima di allora, però, si dovette consumare una delle tante pagine
buie della storia europea, quella della tratta degli schiavi.

§. 1.3 La schiavitù in America, dall’Africa al Nuovo Mondo


Dopo la scoperta dell’America e l’epoca delle grandi esplorazioni
geografiche, le potenze europee iniziarono a fare a gara per estendere i propri
territori oltremare. Mentre l’America del Sud era diventato terreno della corona
spagnola e il brasile di quella portoghese, nel Nord andavano insediandosi inglesi,
54
WOOD G. S., I figli della libertà. Alle origini della democrazia americana, Giunti, Firenze,
1996, p. 74 e ss.; PIETROSTEFANI G., La tratta atlantica: genocidio e sortilegio, cit., p. 20.
55
LINEBAUGH P. REDIKER M., I ribelli dell’Atlantico. La storia perduta di un’utopia
libertaria, Feltrinelli, Milano, 2004, p. 225 e ss.

17
francesi e olandesi. Vista l’immensità dei territori e la ricchezza delle terre, le
colonie, dovunque si trovassero, richiesero da subito una grande quantità di
manodopera in grado di svolgere lavori pesanti. Inizialmente, per lo meno nel Sud
America, si tentò di far lavorare gli indios, ma senza successo, soprattutto a causa
della moria di nativi per cause epidemiche e, comunque, per la loro
conformazione fisica che li rendeva poco adatti a certi tipi di lavori. Mentre, nel
Nord America, i coloni inglesi, francesi e olandesi tentarono di soggiogare le
popolazioni ma senza ottenere il successo sperato.

Gli “indiani d’America”, per la loro fierezza e per il loro modo di vivere
liberi in stretto contatto con la natura, non si piegarono mai a ridursi schiavi
dell’uomo bianco. Ridotti ormai a poche migliaia si dispersero nei vasti territori
del Canada, oppure si ritirarono nelle Riserve. I coloni americani si trovarono
possessori di immensi territori, ma senza mano d’opera per coltivarli. Fiorì così la
tratta degli schiavi neri e che, in pochi decenni, portò in America milioni di
uomini prelevati soprattutto dalle coste dell’Africa occidentale56.

Fu proprio in quel periodo che gli europei, sull’onda della pratica


nordafricana di far prigionieri di guerra, iniziarono a entrare in contatto con gli
schiavi africani che, già da tempo, erano entrati in contatto con gli europei
traendone solo degli svantaggi. Come riporta Kaczyński:

Nel 1444 Dinis Dias arrivo alla foce del fiume Senegal e nel viaggio di
ritorno in Portogallo portò con sé 4 prigionieri africani; così cominciò la tratta
atlantica degli schiavi che dagli inizi del Cinquecento si diresse vero l’America. Il
primo carico di schiavi africani arrivò in America nel 1503. è la più grande, più
lunga e più tragica emigrazione forzata, che durò fino al secolo XIX. Le vittime
(uccisi durante la caccia agli schiavi, morti durante il viaggio e sopravvissuti) si
contano da 11 a 100 milioni….57.

Gli africani, fisicamente parlando, si dimostrarono più adatti a sopportare


il lavoro forzato58. Di conseguenza sia gli spagnoli che i portoghesi decisero di
destinarli nelle colonie americane dando così inizio al più grande commercio di
schiavi della storia. La tratta degli schiavi attraverso l’Atlantico assunse
proporzioni inimmaginabili tanto da originare delle economie nelle Americhe

56
PIERDILUCA P., L’utopia possibile. Cambiare il mondo, Armando, Roma, 2007, p. 23.
57
KACZYŃSKI G., Processo migratorio e dinamiche identitarie, Franco Angeli, Milano, 2008, p.
15.
58
La convinzione di Barolomeo de las Casas viene riportata da LABOA J. M., La Chiesa e la sua
storia, Jaca Book, Milano, vol. 7, 2006, p. 39.

18
basate interamente sullo schiavismo. Fu così che dai Caraibi fino agli Stati Uniti
meridionali arrivarono milioni di schiavi (c’è addirittura chi parla di 13 milioni)
attraverso l’Atlantico59. Si trattò, di fatto, della più grande migrazione forzata che
la storia ricorderà alla quale persero parte tutti i Paesi europei. Nel mondo
anglosassone la tratta degli schiavi veniva indicata come “Middle passage” e stava
a indicare il tratto di viaggio che le navi europee, cariche di prodotti commerciali,
utilizzavano come merce di scambio per comprare schiavi africani da portare nelle
Americhe da dove ripartivano non solo cariche di merce umana ma anche di
materie prime60, realizzando quello che veniva chiamato “il commercio
triangolare”. La geografia dell’Europa negriera è oggi ben documentata: i grandi
porti negrieri si concentravano in un triangolo che andava da Bordeaux a
Liverpool e all’Olanda; questa parte nord-occidentale del Vecchio Continente
organizzò più del 95% delle spedizioni negriere del tempo. I grandi porti erano
quello di Liverpool, Londra, Bristol, Nantes, Le Havre-Rouen, la Rochelle,
Bordeauc, Saint-Malo61. Come spiegano Rosa e Verga,

il commercio triangolare inglese, una formula che sta a indicare quel


sistema di rapporti commerciali che gli inglesi, a partire dal primo Settecento
instaurarono tra l’Europa, l’Africa e l’America: essi fornivano alle popolazione
delle coste africane prodotti inglesi o di altri paesi europei (tessuti, armi) in
cambio di schiavi, che erano a loro volta destinati al mercato americano, dove
erano scambiati con prodotti coloniali (zucchero, tabacco), materie prime e metalli
preziosi, poi importati in Europa62.

Il mercato degli schiavi era così organizzato. I mercanti europei


acquistavano gli schiavi dai sovrani dei grandi regni africani, soprattutto della
zona costiera, i quali, a loro volta, facevano incetta di uomini attraverso delle vere
e proprie razzie nei villaggi dell’entroterra. In cambio degli uomini da portare
oltre l’Atlantico, i trafficanti bianchi offrivano armi da fuoco, manufatti e rum (si
dice un barile a schiavo). È stato stimato che circa il 15% degli schiavi africani
morisse durante la traversata63 che durava, a seconda delle condizioni metereologi
59
ELTIS D., RICHIARDSON D., The Rise of African Slavery in the Americas, Cambridge
University Press, Cambridge, 2000, p. 353.
60
WALKER T., Mothership Connections: a Black Atlantic Synthesis of Neoclassical Metaphusics
and Black Theology, New State University of New York Press, Albany, 2004, p. 10.
61
PIETROSTEFANI G., La tratta atlantica, cit., p. 148.
62
ROSA M., VERGA M., La storia moderna: 1450-1870, Pearson Italia, Milano, 2003, p. 39.
63
MANCKE E., SHAMMAS C., The Creation of the British Atlantic World, The John Hopkins
University Press, Baltimora, 2005, pp. 30-31.

19
che, da uno a sei mesi64. Col passare del tempo, naturalmente, è il miglioramento
non solo delle tecniche di navigazione ma delle stesse imbarcazioni 65 la durata
tese a ridursi fino a sei settimane 66. In genere le navi schiaviste avevano un
equipaggio di circa una trentina di membri e trasportavano centinaia di schiavi, un
rapporto squilibrato che spesso degenerava in ribellione da parte di prigionieri 67.
Ferguson, riporta alcune pagine del diario del capitano di navi negriere John
Newton, dove il capitano scriveva:

La sera, con l’aiuto della provvidenza, ho scoperto un complotto tra gli


schiavi per ammutinarsi contro di noi, soltanto poche ore prima che dovesse venir
messo a segno. Un giovane […] che per tutto il viaggio non era stato incatenato,
prima a causa di una grande ferita, e in seguito per l’apparente bontà del suo
comportamento, passò agli schiavi un gruppo osso di pesce attraverso le grate, ma
per fortuna venne visto da uno degli uomini dell’equipaggio. Lo avevano da
un’ora quando io comincia a farlo cercare, e se ne erano serviti tanto abilmente
(trattandosi di uno strumento che non fa rumore) che questa mattina ne ho trovati
quasi 20 che erano riusciti a liberasi dalle catene68.

Gli uomini venivano incatenati a coppie, in modo da risparmiare spazio; la


gamba destra di ogni schiavo era legata alla gamba sinistra dell’altro. Alle donne e
ai bambini veniva riservato un minimo di spazio in più; sia le donne che le
ragazze venivano imbarcate prive di indumenti, terrorizzate da una ciurma il più
delle volte brutale e la cui lingua risultava loro incomprensibile 69. Come
nutrimento i prigionieri ricevevano fagioli, mais, patate, riso e olio di palma in
uno o due pasti, anche se razioni erano molto scarse; il mezzo litro scarso d’acqua
era causa di molte disidratazioni. Numerose malattie erano sempre in agguato: dal
mal di mare alla diarrea, dalla dissenteria allo scorbuto. Frequenti, inoltre, le
epidemie, che spesso si risolvevano con lo gettare in mare, senza alcuna pietà,
coloro che si erano ammalati. Senza considerare le forme di depressione che

64
WALKER T., Mothership Connections, cit., p. 10.
65
Fu sostituito, ad esempio, la copertura dello scafo con lastre di rame; fatto che ridusse l’umidità
all’esterno e all’interno delle navi. FALOLA T., WARNOCK A., Encyclopedia of the middle
passage, Greenwood Publishing Group, Santa Barbara, 2007, p. XXII.
66
ELTIS D., The Rise of African Slavery in the Americas, Cambridge University Press,
Cambridge, 2000, pp. 156-157.
67
MANCKE E., SHAMMAS C., The Creation, cit., p. 31.
68
FERGUSON N., Impero. Come la gran Bretagna ha fatto il mondo moderno, Mondadori,
Milano, 2009, p. 77.
69
BOHLS E. A., DUNCAN I., Travel writing, 1700-1830, Oxford University Press, Oxford, 2005,
p. 193.

20
spesso portavano a forme di apatia che conducevano alla morte. Tramite
suicidio70.
Diversamente dagli africani, che per i negrieri e per molti coloni erano
solo dei numeri, gli europei sembravano delle figure diaboliche, addirittura
cannibali. Ferguson riporta che Olaudah Equiano, uno dei pochi africani
trasportati nelle Indie occidentali britanniche a lasciare un resoconto della sua
esperienza, raccontava della diffusa convinzione tra il popolo afroameicano che i
bianchi fossero seguaci di Mwene Puto, il Signore dei Morti, e che si
impadronisse degli schiavi per divorarli; alcuni suoi compatrioti, secondo le
parole di Olaudah, erano convinti che il vino rosso bevuto in grande quantità dagli
inglesi o comunque dagli europei fosse fatto con il sangue degli africani e che il
formaggio fosse il loro cervello71. I coloni, da parte loro nutrivano il massimo
disprezzo per gli afroamericani. Il piantatore giamaicano Edward Long arrivò a
sostenere che gli africani erano «privi di genialità, e sembrano quasi incapaci di
qualsiasi progresso di civiltà e di scienza. Non hanno alcun sistema morale […]
non hanno sensazioni morali»; erano, a detta di Long, una razza inferiore 72. James
Bosewll (1740-1795), uno scrittore scozzese, negava apertamente che «i negri
siano oppressi» e questo in virtù del fatto che «i figli dell’Africa sono sempre stati
schiavi»73. Lo Speech of Mr John Talbot Campo-bell (1736), un pamphlet
favorevole allo schiavo, scritto da un ecclesiastico di Nevis, riconosceva in modo
chiaro, e senza alcun problema, che «in base ai calcoli più diffusi, circa due quinti
dei negri di recente importazione muoiano nel periodo dell’Adattamento»74.
Il primo vero e proprio carico di schiavi, secondo il metodo dei trafficanti,
arrivò in Nord America nell’agosto del 1619, quando una nave da guerra
Olandese nel scaricò circa una ventina sulle coste della Virginia e li pose in
vendita. All’epoca, come si è detto, gli Inglesi potevano contare sulla servitù
coatta bianca ma fu evidente, sin da subito, di quanto sarebbe stato ben più
70
Si veda la ricostruzione nel romanzo di HANSEN T., Le navi degli schiavi, Iperborea, Roma,
2009, p. 75 e ss.
71
Il racconto è tratto dalle pagine di diario di John Newton, comandante, tra il 1750 e il 1751, della
nave negriera Duke of Argyle, e si trova riportato da FERGUSON N., Impero. Come la gran
Bretagna ha fatto il mondo moderno, cit., p. 77.
72
Citazione tratta da Ivi, p. 80.
73
Ibidem.
74
Citazione tratta da FELTRI F. M., Servi bianchi e servi neri nell’America anglosassone, in
“Chiaroscuro”, 2012, pp. 1-8.

21
lucrativo far lavorare degli schiavi a tutti gli effetti. Fu così che il XVIII secolo
divenne il secolo dello schiavismo, della tratta nera nelle colonie inglesi del Nord
America. Nel 1700 gli afroamericani erano circa 28.000, quasi l’11% della
popolazione globale, nel 1770 il loro numero era salito a 459.000, pari al 21,8%
della popolazione complessiva75.
Nonostante il loro costante aumento, però, nelle colonie del Nord la
schiavitù non riuscì a fare radici profonde per una serie di ragioni: il clima
impediva le piantagioni, una popolazione bianca particolarmente ostile al
diffondersi del fenomeno, ritenendo gli schiavi un potenziale, e pericoloso,
concorrente. Diversa la storia del Sud dove la coltivazione del cotone e del
tabacco necessitava di moltissima manodopera che veniva reclutata grazie ai
trafficanti europei o anche nordisti. New Port (nel Rhode Island) si distinse come
uno dei maggiori centri di tratta degli schiavi; intorno alla metà del Settecento, la
metà della flotta mercantile destinava circa 170 dei suoi vascelli per l’ignominioso
commercio. In genere questi vascelli venivano utilizzati per importare dalla Indie
Occidentali canna da zucchero e melassa che, poi, venivano lavorate e trasformate
in rum dalle industrie localizzate proprio a Rhode Island e in altre colonie del
Nord. Il rum, a questo punto, veniva portato in Guinea e diventava la moneta con
cui si acquistavano gli schiavi che erano venduti o nelle Indie Occidentali o nei
porti Sudisti. Il giro di affari, per l’epoca, era sorprendente e arricchiva
moltissimo le casse della piccola cittadina americana 76. Sebbene in questo traffico
i nordisti giocassero un ruolo di primo piano come rifornitori di “merce” umana, i
veri protagonisti della tratta furono i mercanti europei; a detta dello storico
americano Richard Hofstadter: «Dei 10548 schiavi giunti in Virginia durante gli
anni 1751-53, soltanto 1293 avevano viaggiato su navi coloniali: il ruolo del New
England nell’approvvigionamento schiavistico della Virginia fu sempre
minimo»77
Verso la fine del Settecento, gli Stati Uniti erano considerati lo Stato più
libero del mondo, quello dove la democrazia stava trasformandosi da ideale
politico a prassi. Ciò, tuttavia, strideva alquanto con l’esistenza della schiavitù.
75
FONDAZIONE GIOVANNI AGNELLI, Euroamericani: La popolazione di origine italiana
negli Stati Uniti, Milano, 1987, p. 80.
76
LINEBAUGH P. REDIKER M., I ribelli dell’Atlantico, cit., p. 206.
77
HOFSTADTER R., L’America coloniale, cit., pp. 77.

22
Neppure la Costituzione americana (1787), redatta dopo la guerra di indipendenza
in occasione della Convenzione di Filadelfia 78, si espresse in modo categorico;
non solo, infatti, lasciò a ogni singolo Stato la libertà se decidere di adottarla o
meno, ma anche sancendo all’art. IV, 3° paragrafo, che:

Chi, soggetto a contratto a termine oppure a schiavitù in uno degli Stati,


secondo le leggi ivi vigenti, si sia rifugiato in un altro Stato, non potrà, in virtù di
qualsiasi legge o regolamento quivi in vigore, essere esentato da tale vincolo, ma,
su richiesta, verrà riconsegnato alla parte cui detta prestazione è dovuta79.

Come è stato osservato da numerosi storici, l’articolo della Costituzione


americana non fa esplicito riferimento alla parola “schiavo” o “schiava” ma
ricorre a velati eufemismi “soggetto rifugiato”, “esentato….vincolo” e che la
stessa strategia linguistica si trova adottata nell’articolo I, dove al paragrafo 3,
vengono fissati i criteri per determinare i contributi fiscali e il numero dei
rappresentanti parlamentari. A tale riguardo si legge:

I rappresentanti saranno ripartiti – valido il principio anche per le imposte


dirette – fra i diversi Stati che facciano parte dell’Unione in rapporto al numero
rispettivo degli abitanti, da computarsi aggiungendo al totale delle persone libere
– comprese quelle vincolate da un contratto a termine, ed esclusi gli indiani non
soggetti a imposte – tre quinti del resto della popolazione80.

Sul punto sorsero diverse interpretazioni. In sede di Assemblea


Costituente, infatti, molti delegati nordisti avevano affermato che gli
afroamericani non dovessero essere contati nel computo complessivo della
popolazione e anche se le loro pretese non furono del tutto esaudite, alla fine il
testo fondante la nascita della democrazia americana considerava i “neri” come
persone «per tre quinti». Partendo da questi presupposti la schiavitù resto, fino
alla metà dell’Ottocento, una caratteristica fondamentale della società
anglosassone americana. E anche se la condizione di uno schiavo nero americano
nel XIX secolo era certamente migliore di quella di tanti contadini europei,
restava il fatto che continuasse a perpetrarsi oltreoceano una pratica odiosa che
78
MARANINI G., CAPOZZI E., La Costituzione degli Stati Uniti d’America, Rubettino, Soveria
Mannelli, 2003, p. 197 i quali evidenziano che «Le preoccupazioni relative alla schiavitù
s’infiltrarono anche nell’interpretazione delle clausole della costituzione relative ai diritti di
cittadinanza, e ad altre importanti materie costituzionali».
79
Il testo integrale e tradotto in italiano è consultabile in
www.consiglioveneto.it/crvportal/BancheDati/.../us/usa_sin.pdf
80
Ibidem.

23
negava a milioni di individui la propria dignità e sempre più appariva
anacronistica e stridente non solo i concetti alti che aprivano la Dichiarazione di
indipendenza del 177681, ma anche con una società che, ormai, più che
anglosassone poteva dirsi americana.
Verso l’inizio del XVIII secolo, attraverso molte difficoltà e ostacoli,
quando si concluse la guerra d’indipendenza americana (1755-1783), anche il
fenomeno dello schiavismo iniziò il suo declino. L’esperienza americana dimostrò
agli Inglesi che potevano trarre profitto dalle ex colonie controllando il
commercio senza dover pagare la loro difesa e amministrazione e fu allora che la
Gran Bretagna non solo mise fuori legge il commercio degli schiavi (1807) ma
anche cominciò a insistere con le altre nazioni affinché facessero lo stesso.

§. 1.4 La fine di un’aberrazione


Le prime tracce di un atteggiamento favorevole all’abolizione della
schiavitù si trova nell’epoca moderna e nasce soprattutto all’interno della Chiesa.
Nonostante un atteggiamento non sempre lineare, molti esponenti del clero si
opposero allo schiavismo. Se nel 1452, ad esempio, Papa Niccolò, scrisse la bolla
Dum Diversas, con la quale incitava il re del Portogallo Alfonso V a catturare i
nemici della fede (si riferiva agli indios della Guinea) e a ridurli in schiavitù
secondo il concetto di «giusta schiavitù»82, nel 1537 con la bolla Veritas Ipsa Papa
Paolo III (nota anche come Sublimis Deus o Excelsus), scriveva «Indios veros
homine esse», e arrivò a scomunicare tutti quelli che li riducevano in schiavitù e li
privavano dei loro beni, condannano apertamente le tesi razziste riconoscendo a
qualunque essere umano pari dignità. Nella bolla si leggeva:

benché fuori dal grembo della Chiesa, gli Indios e tutti gli altri popoli che
in futuro verranno scoperti dai cristiani, anche se non sono cristiani, non sono
privi, né devono essere privati della loro libertà e del possesso delle loro cose; ed
essendo uomini e quindi capaci di ricevere la fede e la salvezza non vanno

81
Per il testo in italiano della Dichiarazione si rimanda al sito http://cultura.biografieonline.it/testo-
in-italiano-della-dichiarazione-di-indipendenza-americana/; per una visione critica BONAZZI T.,
La dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America, Marsilio, Milano, 1999.
82
FIUME G., Il santo moro: i processi di canonizzazione di Benedetto da Palermo (1594-1807),
Franco Angeli, Milano, 2002, p. 189.

24
sterminati con la schiavitù ma attratti alla vita con la predicazione e con
l’esempio83.

Dopo di lui Pio VII e Gregorio XVI la condannarono inequivocabilmente


e, in particolare, Gregorio XVI, nel suo In Supremo Apostolatus del 3 dicembre
1839 condannò con durezza la schiavitù e la sua posizione fu ribadita da Leone
XIII nell’enciclica In plurimis del 1888 indirizzata ai vescovi del Brasile ultimo
baluardo dello schiavismo europeo oltremare84.
La patria di Robespierre fu tra le prime a bandire la schiavitù, nel 1791,
anche se la restaurazione successiva rievocò l’abolizione per riconfermarla nel
1815. Lungi dall’essere motivata da una presa di coscienza, la prima abolizione fu
dettata dalla “rivoluzione nera” di Haiti a una Convenzione; la schiavitù fu abolita
ma poi riesumata da Napoleone che, prima di ogni altra cosa, organizzò una
spedizione contro Haiti85. Dopo la Francia fu la volta della Danimarca nel 1792,
della Gran Bretagna nel 1807 e degli Stati Uniti nel 1808 (che proibirono il
commercio ma non la schiavitù la quale fu abolita nella prima nel 1833 e nella
aseconda nel 1860), l’Olanda nel 1814, la Svezia nel 1815, il Portogallo nel 1830.
In occasione del Congresso di Vienna, nel 1815, le potenze europee si erano
accordate per mettere fuori legge la tratta negriera; la tratta fu interrotta ma non
tanto velocemente scomparve la schiavitù. Qualche anno dopo fu la volta del
commercio: l’accordo anglo-franco-russo-austro-prussiano del 1841 bandì la tratta
degli schiavi. Questo, tuttavia, era quanto accadeva nella Madre patria ma nelle
colonie la schiavitù fu abolita solo nel 1833, per quelle inglesi, nel 1870, in quelle
spagnole. Per il Brasile si dovrà attendere il 1888 86. Il mercato degli schiavi, che
era stato fino a quel momento un mercato fiorente, si trasformò in mercato del
lavoro.
Le ragioni alla base dell’abolizionismo furono molte e disomogenee.
Ragioni di tipo religioso, morali, economiche, politiche e, anche, opportunistiche.
L’Inghilterra, ad esempio, aveva perso le colonie americane ma volto la sua
attenzione verso l’India dove trovò moltissima manodopera a bassissimo costo.
83
Il testo si trova citato in IANNARONE R., La scoperta dell’America e la prima difesa degli
Indios. I Domenicani, Bologna-Napoli, 1992, p. 180.
84
QUENUM A., Les églises chértiennes et la traite atlantique du XV au XIX siecle, Karthala,
Paris, 1993, p. 235 e ss.
85
BENOT Y., La Démence coloniale sous Napoléon, La Découverte, Parsi, 1992.
86
TASSINARI G., Stati Uniti d’America, Alpha Test, Milano, 2003, p. 103.

25
Abolire la schiavitù nelle colonie, dunque, non ebbe conseguenze negative, visto
che venivano importati nelle colonie i lavoratori indiani. C’erano, però, anche
altre ragioni più nobili. La maggior parte della popolazione europea, infatti
riteneva aberrante la schiavitù e la vedeva come un retaggio dal quale era
necessario emanciparsi. È importante evidenziare che l’emergere di una corrente
di pensiero antischiavista nel corso del XVIII secolo fu un importante punto di
rottura con il passato; mai, infatti, fino al momento dal che il mondo avesse
memoria, si era sviluppata una seria riflessione filosofica, etica o religiosa che
condannasse la schiavitù. La schiavitù era sempre stata e sempre era stata
accettata. Non è certamente un caso che fu in Europa che si andò diffondendo la
condanna e che ciò avvenisse proprio nel momento in cui i diversi Stati nazionali,
o per lo meno quelli più potenti, praticavano a loro volta la schiavitù. I primi sensi
di dissenso nascono in ambito filosofico e rappresentano un punto di non ritorno
nella storia delle idee; basti pensare, infatti, che i pensatori greci, che abbiamo
citato all’inizio di questo capitolo, come pure i primi filosofi cristiani e quelli
medievali non avevano mai messo in dubbio la schiavitù 87, che, di fatto, non
veniva stigmatizzata neppure nell’Antico come nel Nuovo Testamento 88. Il XVIII
secolo, dunque, fu la chiave di volta della riflessione sullo schiavismo messo alla
gogna non solo per i suoi eccessi ma anche come istituto in se.
Montesquieu, nel suo capitolo de L’Esprit de lois, pubblicato nel 1748, dal
titolo De l’esclavage des nègres, in modo seppure ironico demolisce tutti gli
argomenti di coloro che sostenevano la schiavitù e, alla fine del capitolo,
condanna senza possibilità di appello il ruolo giocato dagli Stati
nell’organizzazione e traffico di esseri umani:

De petits esprits exagèrente trop l’injustice que l’on fait aux Africains.
Car, si elle étais telle qu’ils le disent, ne serait-il pas venu dans la tête des princes
d’Europe, qui font entre eux tant de conventions inutiles, d’en faire une générale
en faveur de la miséricorde et de la pitié?89.

87
GARNSEY P., Ideas of Slavery from Aristotele to Augustine, Cambridge University Press,
Cambridge, 1996.
88
Sant’Agostino, ad esempio, giustificherà la schiavitù per i peccati dei vinti in guerra. De
civitates Dei, 19, 15.
89
MONTESQUIEU, L’esprit des Lois, Cap. V, Livre XI.

26
In questa prima fase gli argomenti filosofici si mescolarono a quelli
religiosi, morali ed etici ma restarono, tuttavia, delle argomentazioni che non si
tradussero in proposte pratiche per eliminare la schiavitù. Ci si limitò a
condannarla. Nonostante della schiavitù si argomentasse in termini di
“aberrazione” e “ingiustizia” non si riuscì a trasporre le argomentazioni su un
piano politico, facendo sì che il futuro delle colonie restasse saldamente legato
all’economia schiavista. Fu, in altre parole una condanna morale ma non, ancora,
politica90. È interessante tuttavia evidenziare che proprio mentre Inghilterra,
Francia e Stati Uniti cominciavono a sviluppare una riflessione contro la schiavitù
la pratica fosse nelle colonie al suo apogeo. Bisognerà attendere la generazione
seguente, quella nata tra il 1740 e il 1750, infatti, perché dalla teoria si tentasse di
passare alla pratica e si tentasse, attraverso una visione prospettiva, di guardare al
futuro delle colonie, e agli interessi delle Madri patrie, senza la schiavitù. Molto
interessante il libro di Louis-Sébastien Mercier, L’An 2440 rêve s’il n’en fut
jamais (L’anno 2440, il sogno che non è mai stato); nella storia l’autore racconta
di risvegliarsi su una panca nella Parigi dell’anno 2440, ovvero sette secoli dopo
la sua nascita, e riporta al lettore la sua esperienza nella capitale del XXV secolo
descrivendogli una città che non è più quella di Luigi XV ma trasformata dagli
immensi progressi dell’illuminismo. Uno dei capitoli del libro, che si intitola Un
singular monument, il narratore (assieme alla sua guida) arrivano a una piazza e
vedono un monumento (che non esisteva ai tempi di Luigi XV): la stata di un
uomo nero con inciso sul basamento una frase: “Al vendicatore del nuovo
mondo”. La guida, allora, racconta al protagonista che dal XVIII al XV secolo gli
schiavi americani si erano ribellati, avevano distrutto le colonie, ucciso i bianchi
proclamata l’indipendenza dal continente. Nel 2440 immaginato da Mercier la
barbarie della schiavitù era ormai scomparsa e nelle Americhe era nato il mito di
“Spartaco nero”91. Si tratta, per certi aspetti, di un testo profetico che anticipò
effettivamente quello che in parte accadde; nel senso che l’abolizione della
schiavitù fu ottenuta davvero in modo repentino e spesso violento, anche se non
portò agli accessi preconizzati da Mercier.

90
DORIGNY M., Anti-schiavismo e abolizionismo, cit., p. 117.
91
La sintesi del libro si trova riportata in Ivi, p. 120.

27
Il testo di Mercier, però, non fu l’unico. Nel 1771, ad esempio, fu edito il
saggio dell’abate Raynal, L’Histoire philosophique et politique du commerce et
des établissements des Européens dans les deux Indes, un testo di radicale
condamma sia nei confronti della schiavitù sia della tratta e del colonialismo
stesso. Nel saggio, come scrive Imbruglia, «La storia delle varie colonie è per
Raynal storia della tolleranza perché è una storia incrociata di fuga dalle
persecuzioni e di conquista di spazi di libertà» 92. Nella sua terza edizione del
1781, in particolare, il testo si avvale dei contributi di Denis Diderot che, proprio
in questo saggio, pubblicò i suoi più feroci attacchi contro lo schiavismo e il
colonialismo93. Diderot, assieme agli Enciclopedisti, attaccarono lo schiavismo e
nel suo articolo apparso nell’Enciclopedia o Dizionario ragionato delle Scienze,
delle Arti e dei Mestieri (1751) alla voce esclavage scrive:

Après avoir parcouru l’histoire de l’esclavage, nous allons prouver qu’il


blesse la liberté de l’homme, qu’il contraire au droit naturel et civil, qu’il coque
les formes des emilleurs gouvernements, et qu’enfin il est inutile par lui-meme.
[...] Tous les hommes ayant naturellement une égale liberté, on ne peut les
dépoullier de cette liberté, sans qu’ils y aient donné lieu par quelques actions
criminelles [...] Les peuples qui ont traité les esclaves comme un bien dont ils
peuvent disporse à leur gré, n’ont été que des barbares94.

Non tutta la pubblicistica antischiavista, però, fu francese e di stampo


filosofico. Anche gli inglesi, e gli europei in generale, contribuirono al dibattito.
Mungo Park, ad esempio, il celebre esploratore inglese nel suo Travels in the
interior Districts of Africa, pubblicato tra il 1795 e il 1797, ridicolizzò le teorie
razziste dei mercanti di uomini elogiando, diversamente, la sensibilità e la purezza
d’animo degli abitanti dei villaggi con cui era entrato in contatto e descrivendone
la sensibilità artistica e l’ospitalità. Mungo Park riporta la drammaticità delle
traversate atlantiche delle navi cariche di prigionieri, denunciando al mondo
abominevole mercato. Altro inglese che lottò a favore dell’abolizionismo fu

92
IMNBRUGLIA G., Il problema della tolleranza nella Histoire des deux Indes di Raynal e
Diderot, in AA.VV., La formazione storica della alterità, Olschki, Firenze, 2001, p. 1028.
93
Per una lettura critica si rimanda a BÈNOT Y., Diderot e la politica, Editori Riuniti, Roma,
1982, p 51 dove scrive: «Questo libro sovversivo ha avuto una risonanza enorme: se ne conoscono
una ventina di edizioni dal 1781 al 1787, più le falsificazioni (una quarantina), più le edizioni di
capitoli isolati. L’intera generazione del 1789 l’ha letto, e anche gli uomini del ’93. li ha
certamente aiutati a superare molti preconcetti, molti modi abituali di pensiero. Ha realmente
preparato la Rivoluzione».
94
Il testo è reperibile in http://www.1789-1815.com/esclavage.htm

28
Thomas Clarkson (1760-1846) che nel suo An Essay on the Slavery and
Commerce of the Human Species, particularly the Africans (1786) che arriverà a
spiegare i benefici dell’abolizione della schiavitù:

Most of the slaves, who were thus unconditionally feed, returned without
any solicitation to their former masters, to serve them, and stated wages; as free
men. The work, which they now did, was found to [be] better done than before. It
was also, that, a greater quantity was done in the same time. Hence less than the
former number of labourers was sufficient. From these, and a variety of
circumstances, it appeared, that their plantations were considerably more
profitable when worked by free men, than when worked, as before, by slave95.

Negli Stati Uniti la lotta abolizionista tardò a imporsi soprattutto nel Sud
del Paese perché sul sistema delle piantagioni si reggeva tutta l’economia. Per
volere di Jefferson, nel 1807, fu proibita l’importazione di schiavi, ma, ciò
nonostante, la schiavitù restò una realtà diffusa per altro mezzo secolo. Grazie al
“Risveglio protestante” diffusosi in Inghilterra e al diffondersi di alcuni romanzi
come La capanna dello zio Tom di Harriet Beecher Stowe e il giornale The
Liberator di Garrison le idee degli abolizionisti cominciarono a diffondersi. In
Inghilterra e in America, in particolare, si distinsero i Quaccheri la cui
predicazione ebbe un ruolo decisivo soprattutto nelle zone nord-orientali degli
Stati Uniti. Non a caso il Rhode Island abolì la tratta nel 1744, il Massachusetts e
la Pennsylvania nel 1780, il Connecticut, il New Hampshire, New York e il New
Jersey di seguito. Furono i Quaccheri a promuovere l’Abolition Society (1783) e a
organizzare una serie di reti segrete che favorivano la fuga attraverso il confine
canadese di molti schiavi (quella che verrà denominata la “Ferrovia Clandestina”).
Il Sud del Paese, infatti, nonostante le numerose rivolte, l’aveva mantenuta
e, anzi, ne aveva fatto la propria ricchezza economica e politica. Più il tempo
passava, infatti, e più gli Stati del Nord dimostravano di dominare tutte le sfere del
governo centrale, la posizione schiavista del sud diventava sempre più incerta. I
Sudisti cercarono fino alla fine di mantenere quelli che ritenevano dei privilegi e
di fronte all’incedere del Nord risposero con un intervento violento in Kansas e
poi con la secessione. Dopo il 1850, però, quando era stato stabilito che in alcuni
Stati lo schiavismo fosse tollerato, e anzi legale, mentre in altri assolutamente

95
Riportato da CIMITILE A. M., Emergenze. Il fantasma della schiavitù da Coleridge a
D’Aguilar, Liguori, Napoli, 2005, p. 152, nota 43.

29
vietato, erano cominciate le prime rimostranze tra schiavisti e abolizionisti per il
dominio del territorio; si trattò, inizialmente, di faida che presto si trasformarono
in una lotta cruenta che si risolse solo nel 1861. La schiavitù fu abolita
definitivamente nel 1863 grazie al XIII emendamento della Costituzione
americana, sotto la presidenza di Abramo Lincoln durante la guerra di secessione
(1861-1865).
La crociata antischiavista in America fu portata avanti sull’idea della
«americanità» degli afroamericani. Nel 1833, ad esempio, Lydia Maria Child nel
suo An Appeal in Favor of That Class of Americans Called Africans, sosteneva
che gli afroamericani erano compatrioti, non stranieri, che non erano africani più
di quanto lo fossero i bianchi inglesi. Gli abolizionisti sostenevano che era il
luogo di nascita a decretare chi fosse e chi non fosse americano 96. Questo concetto
di cittadinanza, di fatto, -che si ritroverà in seguito sancito nel XVI Emendamento
– rappresentò una spaccatura con le tradizioni della vita americana. «Noi
ammettiamo», dichiarava il “New England Magazine” nel 1832 «che l’America
sia il paese dei neri, schiavi e liberi, nella stessa misura in cui è il nostro paese» 97.
La lotta contro la schiavitù, secondo Angelina Grimké, figlia di una padrone di
schivi del Sud Carolina, era la scuola più importante della nazione «nella quale i
diritti umani vengono […] studiati a fondo»98.
Alcuni esponenti abolizionisti come William Lloyd Garrison, leader degli
abolizionisti del Nord, arrivò a bruciare il testo della Costituzione ritenendolo un
patto con il diavolo; personaggio certamente sopra le righe, Lloyd Garrison fu
ritenuto, ai suoi tempi, un “folle” se paragonato con gli abolizionisti moderati detti
“riformisti pragmatici” o realisti99. Nel Sud, invece, si racconta che a un raduno a
Buffalo, Henry Garmet, famoso abolizionista nera, fece appello agli schiavi del
Sud perché si ribellassero e si armassero contro i padroni bianchi. Si riporta che
disse:

96
CHILD L. M., An Appeal in Favour of That Class of Americans Called Africans, John Allen,
Boston, 1833.
97
Riportato da KATZ S. N., The Strange Birth and Unlikely History of Constitutional Equality, in
“Journal of American History”, dicembre 1988, 75, p. 753.
98
Citato da FONER E., Storia della libertà americana, Donzelli, Roma, 2009, p. 127.
99
AMES M., Social Killer, Isbn Edizioni, Milano, 2009, p. 63.

30
Non avete certezza del paradiso, perché sopportate di restare in uno stato
di schiavitù, in cui non siete in grado di obbedire ai comandamenti del Signore
dell’universo […] In nome di Dio misericordioso, e per il valore che ha la vita,
fate che non ci si debba più chiedere se sia meglio scegliere tra la libertà e la
morte […]. Compagni, ribellatevi, ribellatevi! Insorgete per la vostra vita e per la
vostra libertà. Il giorno e l’ora sono arrivati. Che tutti gli schiavi di questo paese
lo facciano, così i giorni della schiavitù saranno contati. Non potranno opprimervi
più di quanto non abbiano già fatto. Meglio morire da uomini liberi che vivere da
schiavi. Ricordate che siete quattro milioni! Siete abbastanza forti per tormentare i
maledetti schiavisti finché saranno felici di lasciarvi liberi100.

Nel tentativo di definire i diritti fondamentali ai quali tutti gli americani


avevano diritto, gli abolizionisti contribuirono in modo determinante alla
diffusione del concetto di uguaglianza di fronte alla legge, un’uguaglianza che
non poteva tenere in considerazione la razza, concetto sostanzialmente
sconosciuto nella giurisprudenza americana prima della Guerra Civile. Bisogna
ricordare, infatti, che il concetto di “razza” era del tutto sconosciuto presso i
popoli antichi; né l’antichità egizia, né quella greca e neppure quella romana,
infatti, lo conoscevano, così pure era rimasto un concetto latente ancora fino al
XVIII secolo quando l’interesse per le razze si fece più intenso. All’epoca della
tratta degli schiavi e dello schiavismo, dunque, le discriminazioni e le
persecuzioni non erano dettate da motivi “razziali” quanto piuttosto da ragioni
religiose, politiche, culturali o classiste, ma mai biologiche 101. Quando, però, gli
abolizionisti cominciarono a diventare numerosi e le tesi che, fino a quel
momento, avevano sostenuto la tratta degli schiavi furono smantellate una a una,
gli schiavisti si trovarono nella condizione di cercare altre argomentazioni per
giustificare il losco commercio. Montagu sostiene che

Solo quanto cominciarono ad alzarsi alcune voci contro il traffico


disumano degli schiavi e tali voci furono fatte proprie da uomini e organizzazioni
influenti, i sostenitori della schiavitù furono costretti, per difendersi, a cercare
giustificazioni di nuovo genere per controbattere le pericolose argomentazioni
degli oppositori102.

Il termine “razza”, infatti, fu utilizzato per la prima volta da Georges-Louis


Leclerc, conte di Buffon, che nel 1749 diffuse la teoria che le differenze fisiche e
psicologiche tra gli uomini fossero dovute solo ed esclusivamente a differenti
100
Ibidem.
101
SCHIROLLO L., Schiavitù antica e moderna, Guida, Napoli, 1979, p. 33.
102
MONTOGU F. A., La razza, Analisi di un mito, Einaudi, Torino, 1966, p. 37.

31
condizioni ambientali; negli anni seguenti, però, l’antropologo e fisiologo tedesco
Friedrich Blumenbach propose una classificazione dell’umanità in base ad alcune
caratteristiche fisiche (colore della pelle, statura, occhi), Franz Joseph Gall diede
avvio alla ricerca sulle diverse masse cerebrali e, infine, nel 1859, Darwin,
editando L’origine della specie, formulò l’ipotesi che solo i più adatti
sopravvivessero, affermando, così, che l’ineguaglianza delle razze fosse insita
nella natura stessa103. Quindi, nel periodo in cui abolizionisti e schiavisti stavano
combattendo la propria battaglia, altrove, e in altri ambienti, andava prendendo
corpo una pericolosa teoria in base alla quale il mondo non era popolato da
uomini ma da razze diverse, alcune delle quali dotate, naturalmente, di maggiori
capacità rispetto ad altre. Così come gli abolizionisti si opposero agli schiavisti,
non mancarono gli antropologi e gli scienziati che si opposero a quanti andavano
diffondendo l’idea che ci fossero razze inferiori e razze superiori ma, com’è noto,
neppure oggi la teoria della monogenesi è davvero universalmente accettata104.
Gli abolizionisti, comunque, si opposero all’interdizione razziale e alla
schiavitù del Sud, ma prima della Guerra Civile il movimento non riuscì mai a
trovare sostegno nel potere che, pur cambiando le amministrazioni, restava
sostanzialmente schiavista (una delle manifestazioni più invasive del potere
federale in materia di schiavitù fu la Fugitive Slave Law del 1850)105. Oltre al
concetto di uguaglianza davanti alla legge, gli abolizionisti contribuirono alla
diffusione di un nuovo vocabolario della libertà convinti del fatto che lo Stato
nazionale dovesse diventare il garante della libertà e non certamente il suo
nemico106. Gli abolizionisti erano convinti del fatto che una crociata contro la
schiavitù necessitasse di una ridefinizione della libertà dell’americanità e, in base
a questa logica, Frederick Douglass (1818-1895), schiavo di nascita che,
studiando da autodidatta, divenne il vero rappresentante degli abolizionisti
afroamericani dando origine a un movimento che, su molti punti, si
contrapponeva a quello degli antischiavisti bianchi, in particolare negando la
presunta idea che l’America fosse la terra delle libertà e arrivando ad accusare gli

103
CASINI P., Darwin e la disputa sulla creazione, Il Mulino, Bologna, 2009, p. 125
104
FREDRICKSON G. M., Breve storia del razzismo, Donzelli, Roma, 2005, p. 70.
105
Sul punto DAGGS R., Fugitive Slave Law, Books LLc, New York, 2010.
106
WIECEK W. M., The Sources of Antislavery Constituionalism in America, 1760-1848, Ithaca,
1977, pp. 248-260.

32
abolizionisti bianchi di preconcetti razziali 107. «Non può essere libero», scriveva
anche l’abolizionista nero Martin Delany, «nessuno che non sia parte
dell’elemento dominante del paese in cui vive» e molti, come lui, erano convinti
che non sarebbe mai stato possibile essere uomini liberi in America 108. Sebbene gli
antischiavisti bianchi non fossero del tutto liberi da quei preconcetti di cui li si
accusava, in genere erano sinceri e convinti quando sostenevano che la vera
libertà equivalesse all’eguaglianza civile e non si lesinarono nello sferrare
battaglie legali e politiche pur di contrastare la discriminazione razziale nel
Nord109.
Con circa un decennio di ritardo rispetto alle colonie, anche in Inghilterra
cominciarono a diffondersi le prime associazioni antischiaviste che si
mobilitarono affinché la schiavitù fosse abolita. Se, infatti, la prima associazione
antischiavista nacque a Filadelfia nel 1775, per volere di Benjamin Franklin,
seguita da Boston, Baltimora e New York, in Inghilterra si dovrà attendere il XIX
secolo. Fino ad allora, infatti, l’Europa si era mostrata scettica circa il fatto che in
America chi era arrivato a definirsi un “libero americano” avesse concepito tale
libertà solo per se stesso e non per tutti, quindi compresi gli afroamericani. Fu a
Londra, comunque, che nacque la prima associazione antischiavista europea e ciò
fece della capitale inglese in centro del movimento abolizionista nel Vecchio
Continente. Tutto ciò che poteva servire per diffondere le nuove idee – pamphlet,
opuscoli, brochure - veniva prodotto nel Regno Unito da dove, poi, raggiungeva il
continente. Infatti, molti testi che circolavano in Francia verso la fine degli anni
Ottanta del Settecento non erano altro che una traduzione o un adattamento di
quanto scritto in Inghilterra. Data di nascita ufficiale del movimento abolizionista
fu il 1787 quando fu inaugurato il “Comitato per l’abolizione della tratta” fondato
da William Wilberforce e Thomas Clarckson il quale si fece promotore di una
diffusa campagna d’opinione appoggiata da petizioni sottoscritte da decine di
migliaia di cittadini il cui obiettivo era quello di ottenere dal Parlamento di
Londra il voto di una Legge (Bill) che vietasse la tratta da parte di cittadini del

107
GIUSTI L. M., Letteratura anglo-americana, Alpha Test, Milano, 2002, p. 45.
108
FIELDS J. B., Slavery and Freedom on the Middle Ground: Maryland During the Nineteenth
Century, Yale University Press, New Have, 1985, pp. 30-35.
109
FONER E., Storia della libertà americana, cit., p. 128.

33
Regno Unito110. Nel 1789, però, il movimento fu contrastato da una campagna
sostenta dagli ambienti del commercio, della marina e delle colonie, che
riuscirono a convincere la maggior parte dei deputati della Camera dei Comuni a
votare per il mantenimento dello status quo111. A quel punto, il primato
dell’iniziativa abolizionista europea passò alla Francia che, nel frattempo, stava
vivendo gli anni della Rivoluzione; qui nacque l’Associazione Les Amis des Noirs
emanazione del comitato londinese, che si assunse la responsabilità di diffondere
le idee abolizioniste inglesi e americane112.
Dagli Stati Uniti, dunque, passando per l’Inghilterra e poi per la Francia si
andò ramificando un’organizzazione di stampo internazionale che permise una
circolazione e uno scambio di informazioni, materiali e uomini. Idea condivisa era
che fino a quando le potenze europee fossero state convinte che la loro ricchezza
dipendesse dalle colonie che producevano zucchero, cotone o tabacco,
difficilmente avrebbero preso l’iniziativa di abolire la schiavitù e che solo
un’azione concertata tra le nazioni avrebbe potuto mettere fuori legge l’orrendo
commercio. Come rimarca Dorigny, però,

…è importante sottolineare che nessuna di queste associazioni prevedeva


un’abolizione immediata del sistema: seguendo il loro pensiero, non vi sarebbe
stata una grand soir nel corso della quale si sarebbe proclamato pubblicamente
che non esistevano più schiavi dalla entrata in vigore di un decreto emanato dalla
madrepatria. All’opposto di questo schema tutti proponevano piani ben costruiti
per un’abolizione graduale. La gradualità era la regola, potendo realizzarsi il
processo di abolizione su una, due o tre generazioni, con l’idea che gli schiavi
adulti che erano tali alla fine del XVIII secolo sarebbero rimasti schiavi; pertanto
per essi non vi sarebbe stata alcuna innovazione. Si rivelava necessario migliorare
le loro condizioni di vita e di lavoro, ma la loro liberazione sarebbe stata
impossibile, essendo riservata alle sole generazioni future113.

Le cose, tuttavia, non andarono esattamente come erano state previste


dagli abolizionisti. L’abolizione della schiavitù non seguì una schema preciso e,
110
DORIGNY M., Anti-schiavismo e abolizionismo. Dibattiti e discussioni in Francia tra
diciottesimo e diciannovesimo secolo, in CASADEI T., MATTARELLI S. (a cura di), Il senso
della Repubblica. Schiavitù, Franco Angeli, Milano, 2009, p. 123 (pp. 111-132).
111
WALVIN J., England, Slaves and Freedom, 1776-1838, Penguin Books, London, 1986; ID., A
Short History of Slavery, Penguin Books, London, 2007.
112
Il 19 febbraio 1788 fu creata l’Associazione Les Amis des Noirs a Parigi fodnata da Jacques-
Pierre Brissot ed Étienne Clavière. DORIGNY M., GAINOT B., La Société des Amis des Noirs,
1788-1799. Contribution à l’histoire des abolitions de l’esclavage, Editions Unesco, Paris, 1998.
113
DORIGNY M., Anti-schiavismo e abolizionismo. Dibattiti e discussioni in Francia tra
diciottesimo e diciannovesimo secolo, in cit., p. 124.

34
soprattutto, non vi fu alcuna concertazione di nazioni. La cronologia dei decreti di
abolizione lo dimostra. Ogni metropoli e ogni Stato, infatti, scelse il come e il
quando a seconda di ragioni e circostanze che gli furono propri e che differirono
da Paese a Paese. In quegli anni di intensissimo dibattito fiorì una corposa
letteratura antischiavista per lo più bianca, non per mancanza di voci provenienti
da chi aveva vissuto in prima persona la tragica vicenda dell’asservimento agli
europei, e per i quali l’America era stata tutt’altro che la terra delle opportunità,
quando per un disinteresse diffuso di editori e lettori, verso la verità.

35
Capitolo II

Donne, scrittura e problematiche sociali

§. 2.1 La letteratura anglo-americana: aspetti e caratteristiche


Quando si parla di letteratura anglo-americana si fa riferimento a quella
letteratura della quale fanno parte quelle opere che vengono prodotte nell’America
coloniale, prima dagli inglesi e poi da quelli che diventeranno a tutti gli effetti gli
americani. Nell’ambito di questa trattazione, naturalmente, non affronteremo tutta
la storia evolutiva della letteratura anglo-americana, ma ci focalizzeremo su quella
delle origini fino al 1852 quando Harriet Beecher Stowe pubblicò Uncle Tom’s
Cabin or Life Among the Lowly.
Iniziamo col dire che si è soliti suddividere la letteratura angloamericana
in tre periodi - quello coloniale, che va dal 1607 al 1810, il periodo romantico, che
va dal 1810 al 1865, e il periodo realista successivo al 1865 114; quindi, per entrare
più compiutamente nell’argomento e affrontare un discorso sulla nascita e
sull’evoluzione della letteratura angloamericana, si deve partire, necessariamente,
da un presupposto: ovvero che si trattò, per lo meno nella sua fase iniziale, di una
narrativa fortemente influenzata dal pensiero puritano115. La dottrina puritana
condivideva la teologia calvinista e sosteneva la Chiesa Congregazionista - il
termine stava a indicare sia la teologia sia il tipo di organizzazione ecclesiastica -,
la teologia puritana comprendeva la predestinazione e il patto tra Dio e la
comunità dei santi visibili. In virtù di questo patto, secondo i puritani, se il fedele
avesse avuto fede in Cristo e nella sua opera si sarebbe salvato; perché ciò
accadesse ogni individuo doveva vivere coerentemente con la propria fede in
modo tale da assolvere al ruolo che gli era stato assegnato. La spiritualità puritana

114
PELLEGRINI C., Storia delle letterature moderne d’Europa e d’America, vol. 3, Vallardi,
Milano, 1960, p. 289.
115
Voce Puritanesimo, in Dizionario Oxford della Letteratura Americana, Gremese editore, Roma,
1999, p. 310.

36
era basata sulla valorizzazione dell’interiorità e della morale e questo portò i
fedeli a rifuggire da qualunque cosa che li allontanasse dalla purezza morale e li
avvicinasse al peccato116.
Inizialmente, quando i primi coloni (Pilgrims) arrivarono nelle colonie
oltreoceano, quello che gli si presentò di fronte era un “New World” 117, un
universo da scoprire e pronto a essere raccontato. I primi scrittori, quindi, scelsero
la forma del memoriale per lasciare testimonianza delle proprie impressioni, per
riportare luoghi, persone e circostanze di quella che appariva una magnifica
avventura. Emersero, da subito, due distinti filoni: quello degli scrittori animati da
spirito di avventura, il cui desiderio è quello di far conoscere il Nuovo Mondo e
raccontare, anche romanzandole, le loro vite meravigliose e, dall’altra, quello dei
Puritani, il cui unico obiettivo era quello di dimostrare che Dio, essendo
favorevole alle loro scelte, li sottoponeva alla prova più dura, che era quella di dar
loro una terra selvaggia da trasformare nella terra promessa118. Si fece strada, non
a caso, la figura di un “Adamo americano” 119, una sorta di nuovo eroe che avrebbe
poi trovato incarnazione nei tratti del capitano John Smith.
Uno dei primi a raccontare dell’America, o meglio di quello che venne
denominato New England e della Virginia, fu proprio, lui, John Smith (1586-
1631), un avventuriero che, dopo una vita trascorsa tra mille peripezie, emigrò in
America e fondò la colonia di Jamestowen (1607), in Virginia, dedicandosi al
commercio e ricavandone ampio profitto, soprattutto per le trattative con gli
Indiani120. Gli scritti di Smith hanno il carattere del memoriale, di una forma
documentale con intenti anche pratici. Obiettivo di Smith, infatti, era quello di
incentivare l’immigrazione, di conseguenza i suoi racconti tendevano a fornire
descrizioni positive ed entusiasmanti sul Nuovo Mondo; A true relation of
occurences and accidents in Virginia, è il primo libro in inglese scritto in America,

116
QUANTIN J. L., Il rigorismo cristiano, Jaca Book, Milano, 2002, p. 113.
117
Cfr. PHILBRICK N., The Mayflower and the Pilgrims’s New World, Puffin Books, London,
2009.
118
GIUSTI L. M., Letteratura angloamericana, Alpha Test, Milano, 2002, p. 13 e ss. che cita
Merry Mount e William Bradford.
119
PISANTI T. (a cura di), Poesia dell’America puritana, Edizioni Studio Tesi, Pordenone, 1986,
p. xlvi.
120
Cfr. SANTOS DOAK R., Smith: John Smith and the Settlement of Jamestown, Copassa Point
Books, Minneapolis, 2003.

37
datato 1608121. Spinto dal desiderio di pubblicizzare in modo positivo le colonie
inglesi oltreoceano, non tutto ciò che Smith raccontava, probabilmente,
corrispondeva a verità; in General Histoire of Virginia (1624) 122, ad esempio,
riporta addirittura del suo leggendario incontro con Pocahontas della quale lasciò
pure un ritratto particolareggiato 123 I suoi libri, che mescolavano realtà e fantasia,
ebbero un’importanza fondamentale nella storia e nell’evoluzione della letteratura
dell’epoca coloniale, definendone i tratti e le caratteristiche distintive. Tutti scritti
in terza persona, il filone smithiano conteneva esempi e variazioni narrativi – ad
esempio episodi di prigionia presso i capi indiani e storie di liberazione grazie alla
leggendaria figlia di questi, Pocahontas appunto. Ciò che emergeva dalle pagine di
Smith era il ritratto di un’America dalla società aperta dove, pur non appartenendo
ad alcuna élite, si poteva vivere una vita prospera e felice. Come scrive
Radzinowicz,

Smith’s eagerness not only to do justice to himself but the new country,
and to open to all courageous men the possibility of fame and fortune fuelled a
prose not itself a model for subsequence American writing which, put to the
service of a ‘matter of America’, did influence American writing. The persistence
of the Indian maiden in American poetry as well as in American prose bears
witness to Smith’s success in myth-making124.

Di tutt’altro tenore i racconti di William Bradford (1590-1657), un uomo


estremamente religioso che arrivò in America a bordo della Mayflower con
l’intento di professare la sua fede. Bradford, in breve, divenne governatore di
Plymoyth e si distinse per la sua devozione alla causa puritana. La sua scrittura è
maestosa e molto sentita, esalta la grandezza del progetto divino e appare ricca di
parallelismi con le Sacre Scritture. Nel suo Of Playmouth plantation (1647) 125 lo
scrittore racconta la vita di una comunità felice e fiduciosa verso il futuro che
affronta le difficoltà con spirito di sacrificio e grande fede in Dio. Quella di
Bradford è una scrittura dove prevalgono temi come il senso di colpa, l’etica
121
SMITH A., A True Relation, 1608; A man of Virginia (1612), Wiggin and Lunt, s.l., 1866.
122
SMITH A., General History of Virginia (1624), vol. I, Applewood Books, Bedford, 2006.
123
Ivi, p. 105.
124
RADZINOWICZ M. A. (a cura di), Colonial Prose. John Smith to Thomas Jefferson, Press
Syndicate of the University of Cambridge, Cambridge (NY), 1984, p. 41.
125
BRADFORD W., Of Plymouth Plantation (1647), a cura di G. Johnson, Xilibris Corporation,
Bloomington, 2006.

38
protestante del lavoro, l’individualismo e la natura contrattuale del rapporto tra
singolo e società, e nella quale appaiono ricorrenti le citazioni di Jonathan
Edwards (1595-1655), autore di Good News from New England (1624), il
maggiore teologo puritano del tempo. Come scrisse Perry Miller «Puritanism is
the essence of Protestantism, and Jonathan Edward is the quintessenze of
Puritanism»126; dalle opere di Edwards emergeva il costante desiderio di stabilire
una relazione tra l’uomo e la grazia divina; per tale motivo, rispetto allo stile
smithiano, quello dei proseliti di Edwards fu certamente più sobrio e lineare, in
grado di essere compreso da tutti, così come il testo biblico, ed esente da qualsiasi
forma di retorica. Si inserì in questo filone anche la scrittura di John Winthrop
(1588-1649), avvocato e giurista nonché leader dei puritani e governatore del
Massachussetts, il quale scrisse un diario, ritrovato nel 1790 e pubblicato postumo
nel 1825, The History of New England, dove l’autore aveva raccolto materiali di
vario genere volti a documentare la vita e la filosofia puritana nel nuovo mondo 127.
Accanto a questi, che possono essere considerati dei veri e propri scritti letterari,
si aggiungano i sermoni scritti dai predicatori, e spesso teologi, come John Cotton
(1584-1652) e Thomas Hooker (1586-1647)128.
Nella scia puritana si inseriscono pure libri di poesia, come il The Whole
Book of the Psalmes (1640), il primo libro stampato in America, tradotto a cura di
tre puritani Richard Mather, John Eliot e Thomas Weld, «con lo scopo specifico
di sacrificare l’eleganza a favore della fedeltà al testo biblico» 129. La poesia era
molto diffusa anche negli almanacchi e in altre pubblicazioni, ma il verso era
sempre strumentale alla diffusione delle Sacre scritture. È interessante ricordare
che il primo poeta “americano” di un certo spessore fu una donna, Anne
Bradstreet (1612-1672), che si dedicò a una serie di poemetti didascalico-
meditativi e che elaborò una serie di versi dal carattere elegiaco-riflessivo a
sfondo religioso e familiare. Ecco un piccolo estratto delle Contemplations
(1650):
126
MILLER P., Jonathan Edwards (1949), University of Massachusetts Press, Amherst, 1981, p.
30.
127
BREMER F. J., John Winthrop: Biography as History, The Continuum International Publishing
Group Inc, New York, 2009, pp. 5-13.
128
MARIANI A., Dizionario Oxford della Letteratura americana, Gremese editore, Roma, 1999,
p. 87 e 168.
129
Ivi, p. 39.

39
Under the cooling scad of a stately elm,
Close sat I by a river’s goody side,
Where gliding streams the rocks did owerwhelm;
A lovely place with pleasures dignified.
I, once that loved the shady woods so well,
Now thought the rivers did the trees excel,
An if the sun would over shine, there would I dwell130.

Certamente, tuttavia, il libro più noto del New England puritano fu The
day of Doom (1662) di Michael Wigglesworth (1631-1705), racconto del giudizio
universale destinato a un pubblico di uomini e donne devote; il poemetto, come
scrive Pisanti,

…offre […] con le sue paurose visioni e le incrollabili convinzioni etiche e


concettuali, un rigoroso esempio di “poesia applicata”, un esempio
didascalicamente chiaro di rapporto tra assunto teologico e intensificazione
poetica […] Wigglesworth è ossessionato dal tema del giudizio; ma il terribile lato
di tragedia cosmica che è in un tale tema si diluisce in una presentazione di
sequenze e dettagli paurosi, attraverso un incalzante, feroce ma affannato
accumulo di particolari. È al terrore del castigo che Wigglesworth conferisce il
promo posto nella sua fede131.

Chiudiamo, infine, con un accenno a Edward Taylor (1644-1729) che nel


suo Preparatory Meditations (1682 e oltre) usò uno stile dialogato in diretto
contatto con Dio132 e Cotton Mather (1663-1728), letterato e teologo
estremamente prolifico, «a leading figure in New England’s third Puritan
generation […] Mather was the most productive scholar and author that the New
World produced in its first century»133, che nei sette volumi del suo Magnalia
Christi Americana (1702) raccontò l’avventura dei coloni fin dalle origini

130
Riportato in ELLIOTT C. W., The New England History from Discovery of the Continent by
the Northem, ad. 986 to the period when the colonies declared their independence, A.D. 1776, vol.
I, Charles Scribner, New York, 1857, p. 447.
131
PISANTI T., Lo specchio e il ragno. Letteratura americana delle origini, Guida, Napoli, 1977,
p. 23.
132
Per un approfondimento, CHARLES M., Diction in Edward Taylor’ Preparatory Meditations,
in “American Speech”, XLI, 1966, pp. 243-253; ID., Edward Taylor’s Preparatory Meditations: a
Decorum of Imperfection, in “Publications of the Modern Language Association”, LXXXIII,
1968, pp. 1423-1428.
133
CONN P. J., Literature in America. An Illustrated History, The Press Syndicate of the
University of Cambridge, new York, 1989, p. 30 e 31.

40
inserendo lotte religiose e mescolandole a quelle contro le streghe di Salem e gli
indiani134.
I punti di riferimento della cultura puritana furono i modelli classici e
biblici. Ciò che interessava gli scrittori puritani, infatti, era soprattutto di restare
fedeli al testo religioso e al suo messaggio spirituale. Questo desiderio di ricreare
un’intimità col divino si espresse in una serie di autobiografie e biografie che
furono il genere più in voga per tutto il Seicento e il Settecento e che si diffusero
nella forma delle conversion narratives, storie fortemente caratterizzate dalla
funzione redentiva135. Si distinsero i Diary di Samuel Sewall (1652-1730) «che
riflette la trasformazione da società puritana a società borghese» 136 e i Captivity
tales di Mary Rowlandson (1635-1729), «prima opera femminile ad essere
pubblicata originariamente nel New England»137, dove la donna racconta i suoi tre
mesi di prigionia presso una tribù indiana e dove i protagonisti, messi alla prova,
vengono soccorsi dalla provvidenza.
Dì lì a breve, tuttavia, il puritanesimo avrebbe perso il suo vigore per una
serie di ragioni prima fra tutti l’accelerazione economica dovuta anche ai veloci
passi avanti compiuti dal progresso tecnologico, che mise in secondo piano
l’autorità ecclesiastica a favore di quella civile ed economica. Con l’evolversi
delle città, della produzione, la nascita dei primi agglomerati umani e la
rivoluzione industriale, il rigore morale che aveva caratterizzato i primi
insediamenti e le colonie delle origini si trasformò in una sorta di formalismo dal
sapore fortemente provinciale. Nel frattempo, dall’Europa, provenivano gli echi
della rivoluzione illuministica che apportò importanti cambiamenti anche in
America dove la filosofia lockiana del patto sociale e dei diritti naturali contribuì a
diffondere e a favorire l’idea della necessità di affidare il potere in mano ai laici 138.
Il passaggio non fu indolore e, anzi, tra il 1739 e il 1742, l’America, come
reazione, fu attraversata da un revivalismo religioso sostenuto da una serie di

134
Ivi, p. 34.
135
Cfr. CALDWELL P., The Puritan Conversion Narrative: the Beginnings of American
Expression, Press Syndicate of the University Cambridge Press, New York, 1985.
136
VITTORINI E., EINAUDI G., Il politecnico, edizioni 29-39, Einaudi, Torino, 1946, p. 26.
137
ROWLANDSON M., La sovranità e la bontà di Dio. Racconto della prigionia e della
liberazione di Mary Rowlandson, a cura di M. Vallone, Morlacchi, Firenze, 2008, p. xvi.
138
CARETTA I., ELEVATI C., WINTERS M., Filosofia. Dall’Umanesimo a Kant, Alptha Test,
Milano, 2001, p. 84.

41
predicatori che, di fronte al cambiamento, risposero con un ritorno alla parola
divina139. Contro un Benjamin Franklin (1706-1790), emblema stesso
dell’America illuministica, si opposero personaggi come il già citato Jonathan
Edwards, rappresentante dell’ortodossia calvinista che tentò, inutilmente, di
riportare il puritanesimo delle origini. Si legge:

It is difficult, if not impossible, to think of two more widely studied


colonial figures than Benjamin Franklin and Jonathan Edwards. […] As Franklin
and Edwards have been studied individually over the generations, so also have
that been looked together in comparative exercises […] In all of those studies the
two emerge as quintessential ‘representative men’140

L’America del Settecento, comunque, era una terra pronta ad accogliere


concetti nuovi e soprattutto a porre l’uomo al centro dell’universo, rendendolo
artefice del proprio destino. Fu in quel periodo, non a caso, che le colonie
intrapresero un cammino verso l’acquisizione di una propria identità, sganciata da
quella inglese. Dell’avvenuto passaggio si trova traccia nell’Autobiography
(1867) di Benjamin Franklin, in Le lettere di una agricoltore americano di
Crévecoeur (pseudonimo di Michel-Guillarume–Jean de Crèvecoeur, (1735-1813)
e nell’autobiografia di Thomas Jefferson (1743-1826)141; a Settecento inoltrato,
bisogna ricordarlo, la prosa non poteva ancora considerarsi veramente letteraria,
ed è per questo motivo che prevalevano soprattutto opere e libelli il cui obiettivo
era quello di argomentare sulla stabilità politica ed economica del Paese. Sembra,
comune, che fu grazie al quacchero Thomas Paine (1737-1809), e al suo testo
Common Sense (1776), se le colonie trovarono il coraggio per emanciparsi dalla
madrepatria. Il testo, che vendette il sorprendente numero di centoventimila copie,
partendo dai principi dell’Illuminismo dimostrava la necessità di separare le
colonie dall’Inghilterra e di come questa fosse l’unica scelta possibile. Paine, in
altre parole, sosteneva la necessità che le colonie ottenessero l’indipendenza.
Dopo la guerra d’indipendenza, numerose furono gli scritti, saggi e articoli, intrisi

139
DETTI T., GOZZINI G., Storia contemporanea. L’Ottocento, Pearson Italia, Milano, 2000, p.
207.
140
OBERG B., STOUT H. S. (a cura di), Benjamin Franklin, Jonathan Edwards: the
Representation of American Culture, Oxford University Press, New York, 1993, p 3.
141
Si rimanda alla versione di BARBATO M., Thomas Jefferson o della felicità. Autobiografia di
Thomas Jefferson, Sellerio, Palermo, 1999.

42
di sentimenti politici e civili, come ad esempio la raccolta The Federalist curata da
Alexander Hamilton (1757-1804), James Madison (1751-1836) e John Jay (1745-
1829), esempio di linguaggio lucido, chiaro e conciso con il quale venivano
espressi e analizzati i principi costituzionali142.
Mentre infervorava la battaglia, nasceva in America un gruppo di
intellettuali e poeti del Connecticut, i cosiddetti Hartford Wits, cui va riconosciuto
il merito di essere stati i primi ad aver tentato, attraverso la poesia, di definire
l’identità americana e quelli che sarebbero stati i futuri destini del Paese 143. Si
affiancarono ad autori come Timothy Dwight (1752-1817) e Joel Barlow (1754-
1812), altri esponenti del mondo della cultura più propensi ad appoggiare un
genere burlesco e dell’epica burlesca, come John Trumbull (1750-1831) o scrittori
come Philp Freneau (1752-1832), che si distinse per le satire e le poesie sulla
rivoluzione americana. Freneau, inoltre, subì l’influenza della poesia preromantica
inglese e ne traspose nelle sue liriche i tipici temi notturni e sepolcrali adattandoli;
si pensi a The House of Night (1775) o al The Indian burying ground (1778),
liriche che si distinguono per una discreta musicalità e per la varietà di toni144.
Gli anni della Rivoluzione (1776-1783) si caratterizzano anche per il
diffondersi di quella che fu nota come captivity tales o capativity narrative, ovvero
una scrittura confessionale che poneva al centro dei racconti la deportazione in
Europa da parte degli inglesi145. Ma il primo e vero romanzo - in ritardo rispetto
all’Europa - arrivò solo nel 1789, l’anonimo The Power of Sympathy, or the
Triumph of Nature attribuito a William Hill Brown (1765-1793), una
pubblicazione che infranse uno degli ultimi tabù ereditati dalla tradizione puritana,
adottando una scrittura ricca di artifici narrativi e che dava libero spazio agli
intrecci146. Il primo scrittore di professione, però, è considerato Charles Brocken
Brown (1771-1810) i cui romanzi risentirono molto dell’influenza del romanzo
142
GIUSTI L. M., Letteratura angloamericana, cit., p. 28.
143
TISE L. E., The American Counter Revolution: a Retreat from Liberty, 1783-1800, Stackpole
Books, Mechanicsburg (PA), 1998, p. 129 e ss.
144
Cfr. DE LANCEY E. F., Philip Freneau, BiblioLife, New York, 2010.
145
PAUL B. (a cura di), White Slaves, African Masters: an Anthology of American Barbary
Captivity Narratives, The University of Chicago Press, Chicago, 1999; STRONG P. T.,
Transforming Outsiders: Captivity, Adoption, and Slavery Reconsidered, in “A Companion to
American Indian History”, a cura di J. Deloria, N. Salisbury, Blackwell Publishers, Oxford, 2202,
pp. 339-356.
146
VICKERS A., The New Nations, Greenwood Press, Westport, 2002, p. 159 e ss.

43
gotico inglese pur rielaborandolo in un’ottica simbolizzante che riporta ad alcune
atmosfere tipiche di una scrittura alla Edgar Allan Poe147.
Si può dunque affermare che si ebbe una prima e vera letteratura
angloamericana solo negli anni prossimi alla guerra d’indipendenza (1775-1782).
Prima di allora, infatti, qualsiasi modello venne mutuato dalla letteratura inglese.
Fu solo verso la metà dell’Ottocento che si andò affermando una letteratura
autenticamente americana, si trattò di una vera e propria conquista perché
emanciparsi dal passato e dalla presenza ingombrante degli anglosassoni fu tutto
meno che facile. Fu negli anni della grande espansione americana, dunque, si
affermò anche il grande romanzo americano. Scrittori come Nathaniel Hawthorne
(1804-1864), autore di The Scarlet Letter (1850), Edgar Allan Poe (1809-1849), la
cui fama si legò soprattutto ai Tales, Herman Melville (1819-1891), autore
dell’indimenticabile Moby Dick (1851), divennero i caposcuola di una scrittura
che si poneva come unico obiettivo quello di sondare l’animo umano 148. Ma
accanto a questi grandi nomi se ne andarono affiancando altri, minori, i quali dal
Sud del Paese, dove all’epoca era in atto la Guerra di Secessione, dalle file degli
abolizionisti sentirono il bisogno di lasciar traccia dei propri pensieri, di
testimoniare le proprie esperienze: si trattò, per lo più di scritti polemici, legati a
un messaggio preciso, denunziare la schiavitù e diffondere la causa antischiavista.
§. 2.2 Nascita di un genere: la “slave narrative”
La slave narrative è una forma letteraria che nasce dall’esperienza di
alcuni schiavi africani deportati nei secoli della colonizzazioni inglese sulle rive
del Nuovo Continente. Si trattò di una narrativa che, inizialmente, diede voce ai
coloni inglesi bianchi e poi, in un secondo momento, agli stessi africani sulla vita
e le vicende legate allo schiavismo perpetrato in America e poi anche in
Inghilterra a danno degli africani149. Il periodo di fioritura di questo particolare
genere letterario fu il XVIII secolo e, quasi da subito, si distinse per i toni
particolarmente intensi, per il coinvolgimento emotivo degli scrittori e anche per i
147
BRADFIELD S., Dreaming Revolution: Transgression in the Development of American
Romance, University of Iowa Press, Iowa, 1993, p. 23.
148
WEST RAY B., Il racconto in America, 1900-1950, Edizioni di storia e letteratura, Roma,1955,
p. 13 e ss.
149
Cfr. DAVIS C. T., GATES L. H. (a cura di), The Slave’s Narrative, Oxford University Press,
New York, 1985; WILSON STARLING M., The slave narrative: its place in American History,
Howard University Press, New York, 1988.

44
temi, spesso crudi, che venivano trattati. Libri come Uncle Tom’s Cabin, al quale
dedicheremo un approfondimento nei prossimi capitoli, rappresentarono la visione
degli abolizionisti, ma a questa fecero da contraltare libri a commento, e contrari
al messaggio contenuto nel raccolto della Beecher Stowe, come quelli di William
Gilmore Simms (1806-1870) dove si difendeva a spada tratta il sistema
schiavista150.
Se in America sia i coloni sia gli stessi deportati dall’Africa erano ben
consapevoli di cosa fosse la schiavitù, di quanto agghiaccianti fossero le
deportazioni e spaventose le condizioni di vita degli schiavi, privi, praticamente,
di qualsiasi diritto e tutela, in Europa, a parte quelli che si arricchivano con la
tratta, non si sapeva quasi nulla di quanto stava avvenendo oltreoceano. Solo a
metà del XVIII secolo, sensibilizzata da una pubblicistica antischiavista sempre
più incisiva, anche l’opinione pubblica del Vecchio Continente, compresa
l’Inghilterra, cominciò a prendere posizione contro la vergognosa piaga della
tratta. Inizialmente fu proprio grazie alla diffusione della slave narrative se le
storie e le vicende degli schiavi cominciarono a diventare di dominio comune
anche tra chi, lontano dalle sponde americane, era rimasto all’oscuro di tutto151.
In genere si tende a suddividere la slave narrative nordamericana in tre
forme o stili diversi: racconti di redenzione religiosa, racconti con intenti
abolizionisti e racconti di progresso152. Queste tre fasi, come vedremo, sono
dominate dalla scrittura di ex schiavi che, attraverso alterne e diverse vicende,
riuscirono a emanciparsi e a impossessarsi, da soli o aiutati, della lingua inglese,
riuscendo, così, a dar voce alla propria inquietudine. Sarebbe errato e riduttivo,
tuttavia, ritenere che la slave narrative fosse solo e unicamente una scrittura di
matrice africana; molti scrittori bianchi, infatti, sensibili alle sofferenze degli
schiavi e sostenitori della causa abolizionista diedero il loro contributo accusando,

150
RIDGELY J. V., Woodcraft: Simms’s First Answer to Uncle Tom’s Cabin, in “American
Literature”, vol. 31, n. 4, gennaio 1960, pp. 421-433; WATSON C. S., Simm’s Reviewof Uncle
Tom’s Cabin, in “American Literature”, vol. 48, n. 3, novembre 1976, pp. 365-368.
151
DURANTE A. (a cura di), Jean –Antoine Condorcet. Gli sguardi dell’illuminista. Politica e
ragione nell’età dei Lumi, Dedalo, Roma, 2009, p. 18 dove l’Autrice ricorda che, nel 1788, fu
fondata in Francia la Société des amis des Noirs della quale Condorcet fu presidente e che si
oppose al Club Massiac dei planteurs che non volevano in alcun modo rinunciare alla loro
posizione di privilegio.
152
MCKAY N., GATES A. (a cura di), The Norton Anthology of African American Literature,
Norton & Company, New York, 2004, p. 35.

45
con i loro scritti, le vergogne e i crimini di cui gli si macchiavano gli schiavisti.
Per questo motivo, abbiamo deciso di dividere le opere degli scrittori
afroamericani da quelle degli scrittori anglosassoni, utilizzando all’interno di ogni
filone un ordine cronologico. Per iniziare partiamo dal filone afroamericano.
Il primo filone di scritti si inserisce nel periodo compreso tra il 1770 e il
1820, periodo in cui la slave narrative si arricchisce di racconti incentrati
soprattutto sulla possibilità di un viaggio mistico che portava lo schiavo alla
redenzione cristiana. Nella maggior parte di questi scritti gli autori, più che
considerarsi schiavi si consideravano africani. Si trattò di una prima ondata di
racconti che trovò la sua patria di elezione nel Regno Unito. Si pensi, ad esempio,
al racconto A Narrative of the Most Remarkable Particulars in the Life of James
Albert Ukawsaw Gronniosaw, an African Prince (1772), scritto da Ukawsaw
Gronniosaw, noto anche come James Albert (1705-1775 circa), uno schiavo
liberato la cui autobiografia viene considerata la prima scritta da un africano, in
inglese, e pubblicata in Gran Bretagna (a Bath) 153. La storia fornisce un vivido
racconto della vita del protagonista, dalla sua cattura in Africa che lo portò in
America (a Colchester e a Kidderminster) a vivere una vita miserevole. Come
sostiene Novak:

The slave narrative, one of the most unique genres in American literature,
affords the reader an intimate view into the life of the slave in the history of the
United States. Like any narrative, the slave narrative tells a story, in this case an
autobiography or memoir capturing that part of the author’s life as a slave […]
While one finds many interesting element in the slave narrative, those particular
set into place by Gronniosaw become especially important to the genre. The act of
dictating one’s story to another, a scribe, comes from necessity, of course154.

Un altro interessante esempio è quello di Olaudah Equiano, noto anche


come Gustavo Vassa (1745-1797 circa), The Interesting Narrative and the life of
Olaudah Equiano or Gustavus Vassa, the African, Londres (1789); storia di un
giovane nato in un villaggio nei pressi del fiume Niger che, rapito ancora
153
UKAWSAW GRONNIOSAW J. A., Narrative of the Most Remarkable Particulars in the Life
of James Albert Ukawsaw Gronniosaw, an African Prince (1722), BiblioBazar, New York, 2010;
JUANG R., M., MORRISSETTE N. (a cura di), Africa and the Americas: Culture, Politics and
History, vol. I, ABC-CLIO, Santa Barbara (CA), 2008, p. 532 e ss.
154
NOVAK T., Slave narrative, in PAGE Y. W. (a cura di), Icons of African American Literature.
The black Literary World, ABC-CLIO, Santa Barbara (Ca), 2011, p. 390 (pp. 389-406).

46
bambino, fu imbarcato come schiavo e impiegato come servo domestico in
America. Pubblicato per la prima volta a Londra nel 1789, il testo, sembra sia
stato tradotto sulla carta «by the elegant pen of a young lady of the town of
Leominster»155. La storia di Equiano fu certamente singolare, considerando che,
nel 1789, anno di pubblicazione del suo libro, da uomo libero egli perorò davanti
al Parlamento la causa abolizionista della schiavitù156; nella sua autobiografia, che
divenne famosa anche in America, lo scrittore descrive la sua pervasiva
sensazione di sradicamento e le difficoltà della sua condizione.

Every circumstance I met with, served only to render may state more
painful, and heightened my apprehension and my option of the cruelty of the
whites157.

Anche il Narrative of the Life and Adventures of Venture, a native of


Africa: But resident Above Sixty Years in the United State of America, by
Venture Smith (1798) fa parte di questa prima ondata di scrittori della slave
narrative. Venture Smith (1739-1805), infatti, era un africano che, catturato
bambino, fu trasportato nelle colonie americane per essere venduto come schiavo;
da adulto, però, ottenne la libertà per se stesso e per la sua famiglia e racconta le
vicende della sua vita in quella che è la sua autobiografia romanzata. Come scrive
Brooks, Venture «such as Boston King, John Marrant, George Liele, and Janes
Gronniosaw took advantage of the “voice in the text” to set their beliefs and sense
of humaniy on an equal plane with those of whites. Venture Smith, a self-
purchased free black, made similar use of literacy to demonstrate his equality»158.
A questo primo filone ne segue un secondo che iniziò a diffondersi a
partire dalla metà del 1820. Si trattò di un tipo di scrittura sempre autobiografica
ma con un obiettivo differente rispetto al precedente; gli scrittori, infatti,

155
EDWARDS P., Eighteenth-Century Writing in English, in GÉRARD A. S. (a cura di) A
Comparative History of Literature in European Languages. European-language writing in sub-
saharina Africa, vol. 1, John Benjamains Publishing, New York, 1986, p. 58 (pp. 57-76).
156
ENO BELEINGA S. M., BRAMBILLA C., Letterature dell’Africa, Jaca Book, Milano, 1994,
p. 285.
157
EQUIANO O., The Interesting Narrative of the Life of Olaudah Equiano or, Gustavus Vassa,
the African, Written by Himself, vol. 1, Kessinger Publishing, New York, 2004, p. 26.
158
BROOKS J., Literacy in the Colonial Period, in FINKELMAN P. (a cura di), Encyclopaedia of
African American History, 1619-1895- From the Colonial Period to the Age of Frederick
Douglass, 3 voll., Oxford University Press, Oxford, 2006, p. 286 (pp. 285-288).

47
s’iniziano a prefiggersi come obiettivo quello di generare entusiasmo e attirare
sostenitori dalla parte della causa abolizionista. Gli scritti propongono una forma
più letteraria che, in certi casi, introduce anche se ancora a livello embrionale,
delle forme dialogate, tra il 1835 e il 1865 vengono pubblicati circa una ottantina
di libri e tra i tanti se ne possono citare due tra i più significativi A Narrative of
Frederick Douglass, An American Slave, Written by Himself (1845) di Frederick
Douglass (1818-1895), e Incidents in the Life of a Slave Girl (1861) di Harriet
Jacobs (1813-1897), scritto con lo pseudonimo di Linda Brent, che si trova ormai
al limite dell’arco temporale che abbiamo deciso di considerare. William Andrews
scrive:

The slave narrative took on its classic form and tone between 1840 and
1860, when the romantic movement in American literature was in its most
influential phase […] Douglass’s celebration of selfhood in his 1845 Narrative
might easily be read as black contribution to the literature of roman individualism
and anti-institutionalism. Ten years later Douglass’s second autobiography, My
Bondage and My Freedom, deconstructs hi 1845 self-portrait with typical
romantic irony159.

La storia di Douglass è, per certi aspetti, esemplare. Nato nella Contea di


Talbot nel Maryland, Frederick visse parte della sua infanzia con i nonni, visto
che la madre morì quando aveva sette anni. La sua sorte, tuttavia, cambiò quando
dalla piantagione di Wye House, dove lavorava, fu prelevato da Lucretia e
Thomas Auld che lo presero presso il loro servizio, trattandolo, tuttavia, più che
altro come un membro della propria famiglia. Lo stesso Douglass riporterà di aver
imparato l’alfabeto grazie alle amorevoli cure di Lucretia. Dopo una serie di
traversie, l’uomo arrivò alla fattoria di un certo William Freeland dal quale, però,
fuggì nel 1838. Ottenuta la libertà Douglass si dedicò alla stesura della sua
autobiografia, uno scritto ricco di pathos e di significati 160. Alessandro Portelli,
scrive:

La formazione di una coscienza, la costruzione di sé come passaggio


ineludibile per una liberazione spirituale e materiale insieme. Non è un documento
159
ANDREW W., An Introduction to the Slave Narrative, Prentice Hall, New Jersey, 1993, p. 78.
160
Cfr. WASHINGTON B. T., Frederick Douglass: a Biography, Small Maynard & Company,
New Jersey, 2012.

48
umano, i patetici ricordi di un fuggiasco e di una vittima, ma l’orgogliosa
affermazione di una irriducibile coscienza intellettuale che crea se stessa
attraverso la voce e la scrittura,a svelando i paradossi dell’identità personale
nazionale161.

Il racconto della Jacobs, invece, Incidents in the Life of a Slave Girl, narra
le vicende di una donna figlia di due schiavi mulatti dai quali ereditò la medesima
condizione. La storia di Herriette è una storia di abusi, fisici e morali, perpetrati ai
suoi danni da uno dei suoi padroni, James Norcom, che non solo abusò di lei per
oltre dieci anni ma che pure le negò il diritti di sposarsi con Samuel Sawyer, un
uomo bianco con il quale la donna ebbe due figli i quali, però, diventarono
proprietà di Norcom che continuò a tormentarla minacciandola di vendere i suoi
figli se non avesse soddisfatto i suoi desideri sessuali. Alla fine, ottenuta la libertà,
Herriette si trasferì a New York, era il 1842; qui trovò lavoro come infermiera
avendo la fortuna che il suo capo fosse il noto abolizionista Nathaniel Parker
Willis. Essendo, di fatto, una fuggitiva, e a causa di una legge del 1850 ancora
perseguibile per legge dal suo antico proprietario, la donna decise di pubblicare la
storia della sua vita adottando uno pseudonimo, e la storia cominciò a essere
pubblicata sul “New York Tribune”. La sua vicenda, tuttavia, a causa dei racconti
legati agli abusi sessuali subiti, fu ritenuta troppo scandalosa per l’epoca e il
quotidiano decise di interromperne la pubblicazione; per lo stesso motivo, a
lungo, la Jacobs non riuscì a trovare nessun editore disposto a pubblicarle il
manoscritto fino a quando un editore di Boston comprò i diritti della storia,
Thayer and Eldbridge, ma fallì prima che il libro fosse dato alle stampe. Dopo
mille peripezie, alla fine, il libro fu edito, era il 1861 162. Nell’introduzione, scritta
dall’autrice stessa, si legge:

Reader be assure this narrative is no fiction. I am aware that some of my


adventures may seem incredible; but the aware, nevertheless, strictly true. I have
no exaggerated the wrong inflicted by Slavery; on the contrary, may descriptions
fall far short of the facts. […] I have not written my experiences in order to attract
attention to myself; on the contrary, it would have been more pleasant to me to
have been silent about my own history. Neither do I care to excite sympathy for
161
PORTELLI A., La linea del colore: saggi sulla cultura afroamericana, Manifestolibri, Roma,
1994, p. 78.
162
ACCARDO A., Il racconto della schiavitù negli Stati Uniti d’America, Bulzoni, Roma, 1996,
p. 26 e ss.

49
my own suffering. But I do earnestly desired to arouse the women of the North to
a realizing sense of the condition of two millions of women at the South, still in
bondage, suffering what I suffered, and most of them far worse. I want to add my
testimony to that of abler pens to convince the people of the Free States what
Slavery really is. Only by experience can any one realize how deep, and dark, and
foul is that pit of abominations163.

Fino a questo punto abbiamo analizzato, senza la pretesa di risultare


esaustivi, alcune delle opere scritte da autori afroamericani inerenti lo schiavismo;
la maggior parte dei quali, come si è detto, furono pubblicate in Inghilterra 164. Ora,
dunque, come abbiamo anticipato, passiamo al vaglio quel filone della slave
narrative che vide protagonisti scrittori bianchi, limitando il nostro campo di
indagine agli scrittori inglesi e americani, che vivevano Inghilterra o andati a
vivere nelle colonie oltreoceano, e che si sentirono di dover esprimere attraverso
la scrittura il loro dissenso nei confronti della società schiavista. Questo è il
motivo per cui la maggior parte di questi autori si collocano, temporalmente, nella
fase che anticipa la guerra di secessione periodo nel quale si intensificò l’opera
degli abolizionisti165.
Anche prima di questa “rinascenza”, comunque, si trova traccia di scritti di
autori bianchi che esprimevano contrarietà nei confronti della piaga dello
schiavismo. Ricordiamo, ad esempio, i sonetti del britannico Robert Sothey
(1774-1843), che risalgono alla fine del Settecento; in particolare, in un sonetto
contro la schiavitù, il poeta giustifica la vendetta violenta degli schiavi dopo
essere stati oggetto di tante ingiustificate violenze. Si legge.

Did then the bold Slave rear at last the Sword


Of Vengeance? drench’d he deep its thirsty blade
In the cold bosom of his tyrant lord?
Oh! Who shall blame him? Thro’ the midnight shade
Still o’er tortur’d memory rush’d the thought
Of every past delight; his native grove,
Friendship’s best joys, and Liberty and Love,
All lost for ever! Then Remembrance wrought
163
BRENT L., (JACOBS H.), Incidents in the Life of a Slave Girl (1861), Manor, Rockcille
(Maryland), 2008, pp. 9-10.
164
Per un approfondimento DAVIS C. T., GATES L. H., The Slave’s Narrative, Oxford
University Press, Oxford, 1985.
165
CIMILITE A. M., Emergenze. Il fantasma della schiavitù da Coleridge a D’Aguiar, Liguori,
Napoli, 2005, p. 47 e ss.

50
His soul to madness; round his restless bed
Freedom’s pale spectre stalk’d, with a stern smile
Pointing the wounds of slavery, the while
She took her chains and hung her sullen head:
No more on Heaven he calls with fruitless breath,
But sweetens with revenge, the draught of death166.

Siamo in pieno dibattito sulla natura dell’uomo, è il secolo di Kant, Hume


e Rousseau il quale nel suo Discours sur l’origine de l’inégalité (1755) dichiara
che tutti nascono liberi e uguagli e che nessuno deve e può rinunciare
naturalmente alla libertà ed essere a forza ridotto in schiavitù 167; poi, nel 1762,
sempre Rousseau scrive il Contract social, «Gli schiavi perdono tutto nelle loro
catene, anche il desiderio di liberarsene; amano la loro servitù come i compagni di
Ulisse amavano il loro abbruttimento. Se dunque ci sono schiavi per natura, è
perché ci sono stati schiavi contro natura. La forza ha creato i primi schiavi, la
loro viltà li ha perpetuati» 168. Le idee rousseauiane, e non solo, fecero presto
sentire i loro echi in Inghilterra ma anche in America, informando scrittori e
intellettuali di quelle idee che, a breve, avrebbero trovato nel motto dei
rivoluzionari liberté, egalité, fraternité, la sua massima espressione 169. In quegli
anni, in Francia, si erano costituite numerose società come quella degli Amis des
Noirs (1788), fondata da un piccolo circolo d’intellettuali che richiamava agli
ideali dell’Illuminismo, in particolare a Rousseau170; un anno prima, il 15 maggio
1787, un gruppo di inglesi (quaccheri e metodisti per lo più) spinti dal desiderio di
fondare Providence of Freedom era approdato sulle coste dell’Africa con
l’obiettivo di mettere in pratica proprio quei principi che avevano trovato la loro
terra di elezione in Francia171.
La scrittura antischiavista bianca, dunque, fu fortemente influenzata da un
clima culturale che raggiungerà la sua maturità negli anni precedenti e coevi alla

166
Ivi, p. 42.
167
ROUSSEAU. J. J., Origine della disuguaglianza, a cura di G. Preti, Feltrnelli, Milano, 2001, p.
10 e ss.
168
ROUSSEAU J. J., Il contratto sociale, Feltrinelli, Milano, 2003, p. 65.
169
TOTH C. W., Liberté, egalité, fratermité: the American Revolution & the European Response,
Whitston Publishing Co., New York, 1989.
170
WESTERMAN F., El negro e io, Iperborea, Milano, 2009, p. 62.
171
Ivi, p. 157.

51
Guerra Civile (1861-1865)172. Si tratta, come si è detto, di un elemento da non
sottovalutare perché ciò impedirebbe di capire a fondo per quale motivo anche
scrittori non africani che non avevano vissuto né in prima né per interposta
persona l’esperienza della schiavitù si cimentarono nella scrittura di opere così
lontane e avulse dalla loro quotidianità.
Nel frattempo, anche in America, erano avvenuti molti cambiamenti: la
popolazione era salita sopra i 31 milioni di abitanti e il numero degli Stati
americani era raddoppiato grazie al progressivo spostamento della frontiera verso
sud-ovest173. Vennero fondate nuove università tra cui Mount Holyoke, la prima
università femminile, su iniziativa di Mary Lyon 174 e, in campo scientifico,
economico e commerciale erano state introdotte delle significative innovazioni
tecnologiche che avevano posto le premesse alla futura e imminente
industrializzazione175. A questi profondi mutamenti si affiancarono, da un punto di
vista sociale, le lotte degli abolizionisti e a una sempre più pressante propaganda
umanitaria che porterà alla fine dello schiavismo; a questo filone, come avremo
modo di evidenziare, se ne affiancò uno di tipo sentimentale che troverà la sua
massima espressione in opere come quella di Harriet Beecher Stowe il cui ruolo
nell’abolizione della schiavitù sarà determinante.
Quello, comunque, fu il periodo dei grandi progetti utopistici come la
“Brook Farm” di George Ripley (1802-1880)176 e la “Fruitlands” di Bronson
172
La guerra civile americana è anche nota come guerra di secessione o grande ribellione. Fu
combattuta nel periodo che andò dal 1861 al 1865 tra gli Stati Uniti d’America e gli Stati
Confederati dl’America, un’entità politica che era nata dopo la secessione degli stati del Sud..
dopo che Abraham Lincoln fu eletto primo presidente degli Stati Uniti, 11 stati del Sud, tutti dediti
allo schiavismo, dichiararono la propria secessione e formarono la Confederazione degli Stati
d’America. Alla fine, tuttavia, dopo aver resistito per ben quattro anni, il Sud schiavista dovette
arrendersi e la schiavitù fu abolita. Cfr. LURAGHI R., La guerra civile americana, Il Mulino,
Bologna, 1978.
173
DELLACASA G., Stati Uniti d’America, in BASDEVANT-GAUDEMET B. (a cura di), Storia
dell’Europa Moderna: secoli XVI-XIX, Jaca Book, Milano, 1993, p. 273 (pp. 271-273).
174
PIERONI BORTOLOTTI F., BUTTAFUOCO A., Sul movimento politico delle donne: scritti
inediti, Utopia, Firenze, 1987, p. 232.
175
Com’è noto la rivoluzione industriale fu un processo avviatosi in Inghilterra a partire dal 1780
e che sbarcò in America verso il 1850. TASSINARI G., Stati Uniti d’America, Alpha Test,
Milano, 2003, p. 85 e ss.
176
“Brook Farm” fu un esperimento utopistico, durato dal 1841 al 1847, di vita in comunità, ideato
dal trascendentalista ed ex pastore comunitario George Ripley e da sua moglie Sophia. La fattoria
fu sita in un terreno di circa 100 ettari a West Roxbury, nel Massachusetts, e si ispirava ai concetti
socialisti di Charles Fourier (1772-1837), filosofo ed economista francese. Idea base
dell’esperimento era che il lavoro fisico potesse accordarsi perfettamente a quello intellettuale e
che anzi fosse la conditio sine qua non per il benessere mentale oltre che spirituale. Inizialmente

52
Alcott (1799-1888)177, comunità di intellettuali basate sulla condivisione, che
coniugavano attività manuale con un certo tipo di riflessione rivolta alla ricerca di
un equilibrio in grado di assicurare a tutti i benefici dell’istruzione e i profitti del
lavoro178. Queste comunità si basavano sul presupposto dell’assoluta uguaglianza
dei partecipanti, sul rifiuto del concetto di proprietà individuale e sul ritorno alla
coltivazione diretta; i trascendentalisti 179, così venivano chiamati, detestavano lo
spirito competitivo della società mercantile e l’uso delle macchine nella nascente
industria. Nella loro concezione filosofica non c’era spazio per una società di
diseguali e, dunque, tantomeno per una società schiavista. Culturalmente
parlando, questo periodo può essere considerato un vasto e ininterrotto processo di
affrancamento dall’eredità del Puritanesimo180, anche se in campo letterario ogni
allusione, anche blandamente blasfema, continuò ancora per lungo tempo a essere
oggetto di censura. Come spiega Rosati, infatti, che «l’essenza intima del
trascendentalismo è religiosa, che esso è una reazione del puritanesimo, quale
poteva esiste nere nel mondo romantico, contro il razionalismo illuministico col
suo deismo e contro l’arida teologia unitariana. […] Ma i tempi, nondimeno,
erano mutati, e non si andrebbe lontano dal vero dicendo che uno dei risultati
fondamentali del lavoro teorico di Emerson fu l’aver svincolato il concetto di
male dal concetto di peccato»181.

aderirono una quindicina di persone, tra cui Nathaniel Hawthorne che ne trasse ispirazione per il
suo romanzo the The Blithedale romance (1952). EMERSON R. W., Pensa chi sei. Poteri e leggi
del pensiero. Istinto e ispirazione. Memoria, a cura di S. Paolucci, Donzelli, Roma, 2009, p. 46
nota 34
177
“Fruitlands” fu fondata ad Harvard nel 1842 dal trascendentalista Bronson Alcott che sperava
che sperava di coniugare moralità e capitalismo.
178
ENDICOTT SEARS C., Bronson Alcott’s Fruitlands, Fruitland Museums, Harvard, 2005.
179
Il trascendentalismo fu un movimento filosofico e politico che si sviluppò nell’America del
Nord (specificatamente nel New England a Concord circa nel 1836) nei primi decenni
dell’Ottocento; il termine trascendentale deriva dal fatto che punto di partenza dei trascendentalisti
fu l’affermazione di trascendentale di Kant come unica realtà. Il movimento si presentò come
antirazionalista ed esaltatore dell’individuo nei suoi rapporti con la natura e la società. A parte
qualche vago richiamo alla tradizione romantica europea il trascendentalismo si presenta come un
affermazione dell’originalità della cultura americana rispetto a quella del Vecchio continente. Tra i
massimi rappresentanti ricordiamo Ralph Waldo Emerson (1803-1882) e Henry David Thoreau.
GIUSTI L. M., Letteratura angloamericana, cit. p. 38; anche MARIANI A. (a cura di),
Trascendentalismo, in Dizionario Oxford della letteratura americana, cit., p. 383.
180
GIUSTI L. M., Letteratura angloamericana, cit., p. 38.
181
ROSATI S., L’ombra dei padri. Studi sulla letteratura americana, Edizioni di Storia e
Letteratura, Roma, 1958, p. 14.

53
In generale, comunque, è possibile affermare che per la prima volta
l’America prese coscienza di possedere un’identità ben definita e distinta da
quella della ex-Madrepatria, e la letteratura americana andò progressivamente
acquistando una propria specifica fisionomia indipendente da quella inglese. Il
periodo che andò dal 1850 al 1855 fu caratterizzato da una ricca fioritura di
letteratura americana prodotta per lo più da un ristretto numero di autori che si
conoscevano e frequentavano gli stessi ambienti letterari; si trattò di un
quinquennio è definito “rinascimento americano”, inteso come riscatto dal passato
puritano e ripresa e sviluppo di alcune tematiche del romanticismo inglese (ad
eccezione di quelle pessimistiche, languide e melanconiche). Si tratta,
naturalmente, di una classificazione, peraltro anche criticata 182. È anche vero,
tuttavia, come evidenzia Cimilite che

La schiavitù è un tema largamente trattato nella letteratura di quegli anni e


molto presente nei dibattiti degli ‘illuminati’ romantici inglesi. È vero che le storie
della letteratura e la critica letteraria hanno fino a poco tempo fa praticamente
ignorato la quantità di testi del periodo sull’argomento; oggi tuttavia, grazie anche
all’orientamento delle ricerche degli ultimi anni, svolte sotto la spinta degli studi
culturali e post-coloniali, c’è una netta inversione di tendenza, che sta mettendo in
luce come il tema della schiavitù si sia insinuato nella spazio letterario dell’epoca,
e ne sta rivelando l’ampia presenza negli scritti politici, nella fiction e in poesia183,
Interessante esempio di scrittura bianca antischiavista, quella di William
Cowper (1731-1800), che nella sua poesia Charity (1782) presentava lo stato di
libertà come naturale e arrivava a scrivere una sorta di inno abolizionista ante
litteram.

Again – the bland of commerce was design-d


To associate all the branches of mankind;
And if a boundless plenty be robe,
Trade is the golden girdle of the globe.
Wise to promote whatever end he means,
God opens fruitful Nature’s various scenes:
Each climate needs what other climes produce,

182
Si tratta di un’espressione coniata dal critico letterario Francis Otto Matthiessen e che fa
riferimento al progetto del trascendentalismo e al movimento letterario e culturale sorto alla vigila
della secondo rivoluzione industriale. MATTHIESSEN F. O., American Renaissance, Oxford
University Press, New York, 1968.
183
La citazione è tratta da CIMILITE A. M., Emergenze. Il fantasma della schiavitù da Coleridge
a D’Aguiar, cit., p. 34

54
And offers something to the general use;
No land but listens to the common call,
And in return receives supply from all.
[…]
Oh most degrading of all ills that wait
On man, a mourner in his best estate!
All other find submission more than half a cure;
Grief is itself a medicine, and bestow’d
To improve the fortitude that bears the load;
To teach the wanderer, as his woes increase,
The path of wisdom, alal whose paths are peace;
But slavery!- Virtue dreads it as her grave:
Patience itself is meanness in a slave….184

In un’altra lirica, The Negro Complaint (1788), il poeta ritornava sul tema
della schiavitù, sulle sue aberrazioni, sulle condizioni disumane che produceva.
Altro l’esempio è quello dello scozzese James Thomson (1700-1748) il quale, nel
suo Autumn, poema contenuto in The Seasons, raccontava di un tifone e di una
nave negriera e dell’epidemia su questa scoppiata. Ne proponiamo uno stralcio:

Let others brave the flood in quest of gain,


And beat, for joyless months, the gloomy wave.
Let such as deem it glory to destroy,
Rush into blood, the sack of cities seek;
Unpiere’d, exuting in the widow’s wail,
The virgin’s skriek, and infant’s trembling cry.
Let some, far distant from their native soil,
Urg’d or by want or harden’d avarice,
Finds other lands beneath another sun.
Let this through cities work his eager way,
By legal outrage and establishe’d guile,
The social sense extinct; and that ferment
Mad into tumult the seditious herd,
Or melt them down to slavery.185

Nella narrativa, invece, si distinse l’opera di Richard Hildreth (1807-1865)


The Slave: Or Memoirs of Archy Moore (1836), versione poi allungata nel 1852
con il titolo The white slave, nel quale l’Autore combinava molti degli elementi
tipici della slave narrative con argomentazioni abolizionistiche, mescolandole in
una trama di sapore sentimentale. Il libro si apriva con queste parole:

184
COWPER W., Charity, (1782) in http://www.brycchancarey.com/slavery/cowperpoems.htm
185
THOMSON J., The Seasons, J. Sharpe, Chiswwick, 1819, p. 165.

55
YE who would know what evils man can inflict upon his fellow without
reluctance, hesitation, or regret; ye who would learn the limit of human
endurance, and with what bitter anguish and indignant hate, the heart may swell,
and yet not bust, peruse these Memoirs!186.

La storia, narra di Archy Moore, è quella di uno schiavo africano dalla


pelle chiara. Si tratta di un romanzo la cui ispirazione venne a Hildreth durante un
soggiorno nelle colonie del Sud, esperienza che lo sorprese per i trattamenti cui
venivano sottoposti gli schiavi di colore. Molti abolizionisti non accolsero
benevolmente la storia, criticando il fatto che tutto ciò che veniva raccontato non
era altro che frutto della fantasia dello scrittore. Ci fu anche, però, chi sostenne
l’opera; in una lettera al “Boston Liberator”, in particolare, l’abolizionista e
scrittrice Lydia Maria Child arrivò ad affermare che il lavoro di Hildreth era più
potente della storia scritta dallo schiavo Charles Ball. «The extracts I have seen
from Charles Ball are certainly highly interesting» 187, scrisse, and they have a
peculiar interest, because an actual living man tells us what he has seen and
experienced; while Archy Moore is a skillful grouping on incidents which, we all
know, are constantly happening in the lives of slaves. But it cannot be equal to
Archy Moore!»188. La storia di Archy Moore anticipò la disposizione ad accettare
storie di pura immaginazione come se fossero lavori dal valore politico e sociale.
Charles Nichols sostenne che il libro di Hildreth era «the real source for Uncle
Tom’s Cabin»189.
Ma oltre ai componimenti, ai saggi e ai romanzi che fecero da eco alla
slave narrative raccontata dai protagonisti in prima persona – escludendo per ora e
volutamente l’apporto delle scrittrici cui dedicheremo maggior spazio nel
prossimo paragrafo – non bisogna neppure dimenticare che questo tipo di
narrativa funzionò da catalizzatore per altri scrittori che, di fatto, non erano

186
HILDRETH R., The Slave: Or Memoirs of Archy Moore (1836),Whiplle and Damrell, Boston,
1840, p. 5.
187
Citato in BROWDER L., Slippery Characters: Ethnic Impersonators and American Identities,
The University of North Carolina Press, Chapel Hill, 2000, p. 16.
188
Citazione tratta da MENDELSOHN D., But Enough aboaut me, in “The History of Memoirs:
The New Yorker, 25 gennaio 2010, p. 7 (pp. 1-13).
189
NICHOLS C., The Origins of Uncle Tom’s Cabin, in “The Phylon Quarterly”, vol. 19, n. 3, 3rd
qtr. 1958, pp. 328-334.

56
interessati specificatamente alle problematiche legate allo schiavismo e
all’abolizionismo ma che, comunque, trassero spunto dal clima culturale che si era
creato grazie alla diffusione della slave narrative. Partendo dalla misera
condizione degli schiavi, infatti, molti scrittori trassero spunto per considerazioni
più profonde sulla società nella sua interezza, sulle ingiustizie sociali e sulla
necessità di maggiori diritti per tutti. Alcuni scrittori del calibro di Charlotte
Brontë, W. M. Thackery, Elizabeth Gaskell e lo stesso Charles Dickens, pur non
affrontando direttamente il tema della schiavitù, furono fortemente influenzati
dalla slave narrative dimostrando quanto fosse profondo l’impatto di questa
sull’immaginazione letteraria inglese. Soo e Lee scrivono:

For Bronte, the plight of the American slave resonated with her own
experience of “governessing-slavery” and offered a structural model for Jane
Eyre. For Thackeray, the slave narrative was a competing literary genre, one
whose conventions could be exploited and irreverently applied to the situation of
the British hack writer in Pendennis (1848-1850). For Gaskell, the slave narrative
was a source of inspiration for North and South (1855) and its depiction of the
English working class and the geographical and economic division that plagued
the British nation. […] As for Dickens, the slave narrative provided a model
through which to comment on the British class system and its treatment of
convicts in Great Expectations (1860-1861)190.

Ma se alcuni scrittori trassero spunto e ispirazione dalla slave narrative


altri contribuirono in modo diretto alla sua produzione e molti di questi furono
donne. È impossibile, di fatto, dar conto di quante furono le opere scritte in quegli
anni sul tema ma certamente, diversamente da quanto prima avvenuto, il tema
della schiavitù coinvolse profondamente molte donne, inglesi e americane, oltre
che, naturalmente, le stesse afroamericane. Molte presero coraggio e si esposero
in prima persona anche perché, come vedremo, difendere la causa abolizionista
significava lottare per liberare le donne dal gioco maschile.

§. 2.3 La scrittura femminile e le questioni sociali

190
SUN J., LEE J., The American Slave narrative and the Victorian Novel, Oxford University
Press, Oxford-New York, 2010, p. 9.

57
Prima di analizzare nello specifico alcune opere della letteratura
angloamericana abolizionista è bene chiarire che, all’epoca, non era affatto
scontato che le donne potessero dedicarsi alla scrittura e, soprattutto, che
potessero esprimere pareri su questioni di carattere sociale e politico. La
letteratura femminile è stata a lungo considerata un genere minore rispetto a
quella maschile e certamente meno copiosa e meno divulgata di quest’ultima,
fatto, questo, che le impedì di diffondersi con la stessa facilità della sua omonima
maschile. Relegate a lungo all’interno di ruoli predeterminati dalla cultura
maschile dominante di moglie e di madre, alle donne fu a lungo impedito
l’accesso alla cultura. Sebbene tutta una serie di fattori, di tipo storico, ambientale,
di costume, abbiano ostacolo l’espressione letteraria femminile, essi, tuttavia, non
sono riusciti mai veramente a soffocarle e fin dalla poetessa Saffo (sec. VII a. C.),
per poi passare attraverso personaggi come Maria di Francia (sec. XII), Jane
Austen (1775-1817) o Elizabeth Barret Browning (1806-1861) - solo per citarne
alcune - le donne hanno sempre trovato, anche se a fatica, il modo di esprimersi.
Così pure nella Londra Vittoriana come nell’America puritana o abolizionista, la
voce delle donne, anche se a fatica, riuscì ad emergere.
Se volessimo individuare il momento il cui alle donne, per la prima volta,
fu concesso il diritto di esprimersi su temi che non fossero unicamente legati al
loro ruolo di madre, di moglie o di devota del signore, bisognerebbe,
probabilmente, guardare al periodo della Rivoluzione francese (1789-1799); in
quel momento, infatti, grazie all’influsso dell’Illuminismo, tutta l’Europa si
dimostrò pronta ad accogliere i germi di un nuovo modo di sentire anche nei
confronti delle donne. Per la prima volta alle donne fu concesso di confrontarsi
con la storia; Olympe de Gouges (1748-1793) scrisse la Déclaration des droits de
la femme et de la citoyenne (1791) mentre l’inglese Mary Wollstonecraft (1759-
1797) pubblicò a famosa A Vindication of the Rights of Woman (1792)191.
Tra le donne antesignane del genere, ricordiamo l’inglese Ann Yearsley
(1753-1806) che scelse la poesia per esprimere il suo disappunto nei confronti
della schiavitù; in a A Poem on the Inhumanity of the Slave Trade (1788) scriveva

191
WOLLSTONECRAFT M., Vindication of the Rights of Woman, a cura di D. Lynch, W. W.
Norton, New York, 2009.

58
Away, thou seller of mankind! Bring on
Thy daughter to this market! bring thy wife!
Thine aged mother, though of little worth,
With all thy ruddy boys! Sell them, thou wretch,
And swell the price of Luco192.

Anche Hannah More (1745-1833), una filantropa anglosassone nota per i


suoi scritti a sfondo religioso, dedicò un poema alla schiavitù, Slavery del 1788,
ma fu anche nota per il suo sostegno alla causa abolizionista e fece parte del
gruppo di William Wilberforce (1759-1833)193. Eccone uno stralcio:
She spreads her blest commission from above,
Stamp’d with the sacred characters of love;
She tears the banner stain’d with blood and tears
And, LIBERTY! thy shining standard rears!
As the bright ensign’s glory she displays.
See pale OPPRESSION faints beneath the blaze!
The giant dies! no more his frown appals,
The chain untouch’d, drops off; the fetter falls.
Astonish’d echo tells the vocal shore,
Opression's fall’n, and Slavery is no more
The dusky myriads crowd the sultry plain,
And hail that mercy long invok’d in vain.
Victorious Pow’r! she bursts their tow-fold bands,
And FAITH and FREEDOM spring from Mercy’s hands194.

In seguito, fu la Rivoluzione francese, dunque, che segnò lo spartiacque tra


quello che le donne potevano essere prima, ovvero custodi e testimoni del
moralismo, di un discorso pedagogico o sentimentale, a quello che poterono
essere dopo, osservatrici del loro tempo, testimoni dei cambiamenti in atto,
reporter della realtà che le circondava. Il romanzo, in particolare, divenne lo

192
La citazione è tratta da CIMILITE A. M., Emergenze, ult. cit.,
193
Wilberforce fu un politico inglese che, nel 1787, annunciò alla Camera dei Comuni che avrebbe
posto alla loro attenzione una mozione per l’abolizione del commercio degli schiavi; nel 1807,
dopo anni di strenue opposizioni, la Camera, tra gli applausi e le ovazioni, approvò con 267 voti su
283 l’abolizione del commercio degli schiavi che divenne esecutivo a partire dal 1808. Pollock
scrisse di lui «Non c’è dubbio che Wilberforce abbia cambiato la prospettiva morale della Gran
Bretagna […] La riforma dei costumi morali crebbe nelle virtù vittoriane, e Wilberforce stupì il
mondo quando “rese la bontà attraente”. Indipendentemente dalle sue manchevolezze, la vita
pubblica britannica della metà del diciannovesimo secolo divenne famosa per la sua enfasi sul
carattere, sulla morale, sulla giustizia, ed il mondo degli affari britannico per la sua integrità».
POLLOCK J., A man who changed his times, in GUINESS O. (a cura di), Character Counts:
Leadership Qualities in Washington, Wilberforce, Lincoln, and Solzhenitsyn, Baker Book House,
1999, p. 87.
194
MORE H., Slavery, A Poem, Cadell, T, 1788, vv. 281-295, in
http://www.brycchancarey.com/slavery/morepoems.htm

59
strumento culturale per eccellenza capace di dar forma a una vasta gamma di
problemi politici, civili e morali che le donne potevano presentare dal loro punto
di vista195 arrivando finalmente a dar voce a un modo di sentire e di guardare alla
realtà del tutto femminile.
Non si trattò, naturalmente, di un mutamento repentino. Le donne che
nacquero prima del 1820, infatti, difficilmente si aprirono al mondo della cultura
senza riluttanza, temendo che questo potesse in qualche modo avere ricadute
negative sulla loro vita privata. Non a caso molte scrittrici preferirono utilizzare
degli pseudonimi in genere maschili e certamente più spendibili nel mercato
letterario. Dopo la Restaurazione (1814 e oltre) 196, però, si pose il problema dei
conservatori che non solo limitarono la libertà di leggere ma anche quella di
pubblicare197 ma, fortunatamente, verso la metà del secolo, si assistette a una
nuova fase che trovò nuova linfa vitale proprio in Inghilterra con l’inizio dell’età
vittoriana198 e, in altre parti d’Europa, in coincidenza con i movimenti
risorgimentali e le rivendicazioni politiche. Fu in quegli anni che la letteratura
femminile assunse una connotazione sociale e ideologica; le scrittrici della nuova
generazione, quelle nate tra il 1820 e il 1840, finalmente poterono pubblicare con
una discreta facilità, cominciarono a essere retribuite, potevano usare pseudonimi
femminili e si emanciparono anche dalla sudditanza del modello di scrittura
maschile. La terza generazione, infine, quella nata tra il 1840 e il 1860, si ritrovò a
lottare con lo stereotipo dell’immagine femminile proposta dai positivisti che
rimarca le inferiori capacità biologiche, e dunque anche cerebrali, delle donne che

195
Iniziamo col dire che il romanzo il quale, dunque, si impone come genere letterario a partire dal
Settecento, in un’epoca nella quale fiorivano sistemi filosofici che avevano come obiettivo, così
spiegava Calvino, «quello di abbracciare tutto l’universo, in un’epoca di concezioni del mondo
totali» (CALVINO I., Mondo scritto e mondo non scritto, Mondadori, Milano, 2002, pp. 24-25).
Fu solo nell’Ottocento, però, che il romanzo conobbe il suo massimo successo grazie alla
dilatazione del pubblico borghese e popolare e anche per la riduzione del costo dei libri dovuta alla
maggiore economicità della carta (STONE L., The Family, Sex and Marriage in England 1500-
1800, Weidenfeld and Nicolson, London, 1977, pp. 254-255.
196
Cfr. BURKE E., Riflessioni sulla Rivoluzione in Fracia, Cappelli, Bologna, 1935.
197
Cfr. OMODEO A., La cultura francese nell’età della Restaurazione, Mondadori, Milano, 1946.
198
Cronologicamente parlando l’epoca vittoriana si colloca tra il 1837 e il 1901, periodo durante il
quale l’Inghilterra si trova immersa nell’industrialismo trionfante che dà luogo alle prime
rivendicazioni sindacali. Si assiste, da una parte, alla scalata sociale e politica di una classe
borghese che, grazie alla dottrina del liberismo, pensa a se stessa come alla classe dominante del
futuro e, dall’altra, a una classe operaia sfruttata e negletta che inizia a reclamare i propri diritti.
DETTI T., GOZZINI G., Storia contemporanea, II. Il Novecento, Mondadori, Milano, 2002, p. 49.

60
le avrebbero rese inadatte all’attività letteraria199. Questo, tuttavia, non impedì alle
donne di proseguire nella loro lotta per la conquista dei loro diritti.
Certo è che nel XVIII secolo l’Inghilterra era tra i Paesi europei quello che
meglio di altri accettava le donne scrittrici. Il Regno Unito diede i natali a Jane
Austen (1775-1817) che svelò gli arcani del mondo borghese e dimostrò in
Orgoglio e Pregiudizio le straordinarie vette cui poteva puntare la scrittura
femminile200. Specularmente a quanto avveniva nel Vecchio Continente anche in
America le donne in generale, e le scrittrici in particolare, dovettero combattere
numerose battaglie per veder riconosciuto il loro diritto all’espressione.
L’american Judith Sergent Murray (1751-1820) definì nei suoi scritti il modello
della nuova donna americana, rivendicando il suo diritto a un’educazione
adeguata; il nuovo modello di donna che emergeva dalle sue Lettere doveva
occuparsi della famiglia mentre il marito era al fronte, era il prototipo di una
donna pragmatica che non aveva tempo né per moda né per frivolezza e che si
dedicava allo studio con la tipica serietà dell’etica protestante 201. Anche oltre
Oceano, dunque, le donne rivendicavano il diritto di far sentire la propria voce e
come scrisse Angelina Grimké ciò cui le donne volevano era la creazione di «un
nuovo ordine delle cose» in grado di garantire uguali diritti per tutto; fu con le
Epistle to the Clergy of the Southern States e Letters on the Equality of the Sees
and the Condition of Women (1838) della sorella Sara Gimké (1792-1873) che
nacque il femminismo protestante contemporaneo e che la causa del femminismo
si sposò con quella dello schiavismo. In una lettera intercorsa tra le due sorelle e il
fratello Theodore Weld si legge:

And can you not see that women could do, and would do a hundred times
more for the slave if she were not fettered? Why! we are gravely told that we are
out of our sphere even when we circulate petitions; out of our “appropriate
sphere” when we speak to women only; and out of them when we sing in the
churches. Silence is our province, submission our duty. If then we “give no reason
for the hope that is in us”, that we have equal rights with our brethren, how can

199
FRANCO V., Care ragazze: un promemoria, Donzelli, Roma, 2011, p. 43, la quale ricorda che
Comte come Mill riproposero la teoria dell’inferiorità biologica delle donne e della necessità che
tornasse a ricoprire il ruolo tradizionale di angeli del focolare,.
200
GIUSTI L. M., Letteratura inglese, cit., p. 33.
201
SKEMPT S., First Lady of Letters: Judith Sargent Murray and the Struggle for Female
Independence, University of Pennsylvania Press, Philadelphia, 2009, p. 224 e ss.

61
we expect to be permitted much longer to exercise those rights? ...If we are to do
any good in the Anti Slavery cause, our right to labour in it must be firmly
established...O that you were here that we might have a good long, long talk over
matters and things, then I could explain myself far better. And I think we could
convince you that we cannot push Abolitionism forward with all our might until
we take up the stumbling block out of the road...How can we expect to be able to
hold meetings much longer when people are so diligently taught to despise us for
thus stepping out of the ‘sphere of woman!’ […] What then can woman do for the
slave when she is herself under the feet of man and shamed into silence? ...202.

Nel periodo compreso tra il XVIII e il XIX secolo, la società era in


fermento, le donne stavano cominciando a uscire dai ruoli angusti dove la società
maschilista le aveva relegate, e così come aumentarono le donne che scrivevano di
sé e dei propri sentimenti, così pure aumentarono le donne che scrivevano contro
la schiavitù. Molti studiosi ritengono che il loro impegno abolizionista servisse a
promuovere il nascente femminismo di quell’epoca; e, in effetti, in molti dei loro
testi, le scrittrici sembravano proiettare sugli schiavi il senso di impotenza e di
inferiorità che provavano per se stesse, in quanto relegate in un rigido sistema
patriarcale del tempo203. La studiosa americana Moira Ferguson esprime un
interessante punto di vista rispetto al motivo per cui una parte dell’opinione
pubblica inglese, soprattutto quella femminile, fu così profondamente coinvolta
dalla causa abolizionista e perché dedicò tempo e impegno nello scrivere pagine
con lo scopo principale di far conoscere al mondo le nefandezze commesse contro
gli schiavi americani.

…anti-slavery protest in prose and poetry by Anglo-Saxon female authors


contributed to the development of feminism over a two-hundred-year period.
Concurrently, their texts misrepresented the very African-Carribean slaves whose
freedom they advocated. These writers, moreover, displaced anxieties about their
own assumed powerlessness and inferiority onto their representation of slaves.
The condition of white middle-class women’s lives – their conscious or
unconscious sense of themselves as inferior-set the terms of the anti-slavery
debate.204.

202
Angelina Grimké to Theodore Weld and John Greenleaf Whittier, Brookline (Mass.), 8 th Mo
20 (1837) in http://www.teachushistory.org/second-great-awakening-age-reform/resources/private-
debate-about-abolition-womens-rights
203
GIUSTI L. M., Letteratura inglese, cit., p. 37.
204
FERGUSON M., Subject to others: British Women Writers and Colonial Slavery, 16701834,
Taylor & Francis, New York, 1992, p. 3.

62
A detta della Cimilite, però, la “forzata” (resa tale dalla concomitanza di
circostanze) analogia donne-schiavi portò le scrittrici, nel tentativo di denunciare
il mercato umano, a ricorrere a immagini stereotipate degli africani che
sembravano di fatto diversi sia dalle donne sia dalla loro razza e, quel che era
peggio, emergevano come una massa totalmente indifferenziata di non-
individui»205. Ma a parte questa mis-rappresentazione degli schiavi afro-caraibici,
il tentativo delle abolizioniste bianche ebbe un risvolto per certi aspetti
sorprendente, e anche paradossale, «la costruzione di una totale alterità della razza
africano - caraibica rispetto a quella bianca – che infine rivela a sua volta il latente
razzismo di molta scrittura abolizionista di quel tempo»206.
È anche vero, tuttavia, che in Inghilterra, così come in altri Paesi europei,
il movimento abolizionista si caratterizzò per una molteplicità di posizioni, in
molti casi assai contrastanti tra loro207. Certamente, tuttavia, all’interno del
movimento femminista opporsi alla dominazione coloniale dell’uomo bianco e
offriva alle donne, sia bianche sia nere, la possibilità di dar voce alla loro
esperienza di sottomissione208. Una di queste interpreti fu l’americana Lydia Maria
Child (1802-1880) che scese in campo per difendere la causa abolizionista,
esponendosi in prima fila e dedicandosi alla stesura di molti saggi e testi con il
chiaro obiettivo di far circolare le idee abolizioniste; nel suo The Evils of Slavery
and the Cure of Slavery (1836), ad esempio, la Child diede voce a numerosi
schiavi e governatori contrari allo schiavismo, incalzando l’America sostenendo
che «has no excuse left to screen her from the strong disapprobation of the
civilized worl»209. I suoi testi affrontavano temi come la supremazia bianca a e la
predominanza maschile nella società; nel 1833 scrisse Appeal for that class of
Americans called Africans, il primo saggio contro lo schiavismo. Il testo della
Child è «an important and early antislavery book. Sober and factual, it traced the
205
CIMILITE A. M., Emergenze. Il fantasma della schiavitù da Coleridge a D’Aguiar, cit., p. 37.
206
Ivi, p. 40.
207
DURANTE G., La nuova carata dei poteri. Dispotismi, interessi e possibilità dell’eguaglianza,
in GRAZIELLA D. (a cura di), Condorcet. Gli sguardi dell’illuminista. Politica e ragione nell’età
dei lumi, Dedalo, Roma, 2009, p. 16 (pp. 5-26).
208
COPPOLA M., “Per strada e nel cortile”: lo spazio del creolo nella poesia caraibica gemminile,
in, LAFOREST M. H. (a cura di), Questi occhi non sono per piangere. Donne e spazi pubblici
Liguori, Napoli, 2006, p. 49 (p. 45-64).
209
CHILD M., The Evils of Slavery and the Cure of Slavery, Charles Whiplle, Newburport,
(1836), p. 19.

63
history of slavery, described its evils, and rejected African colonization as a
solution; a concluding chapter “Prejudices against People of Color, and Our
Duties in relation to this Subjects”, denounced laws against miscegenation, the
unequal educational and employment, the unequal educational and employment
opportunities offered the Negro, and segretation in churches, theatre, and
staegoacher»210. Nel suo Appeal si legge:

The history of the negro, whether national or domestic, is written in blood.


Had half the skill and strength employed in the slave−trade been engaged in
honorable commerce, the native princes would long ago have directed their
energies towards clearing the country, destroying wild beasts, and introducing the
arts and refinements of civilized life. Under such influences, Africa might become
an earthly paradise;-the white man's avarice has made it a den of wolves.211.

I romanzi della Child, più che per la creatività, vanno ricordati per la
ricchezza di umanità e per l’intento didascalico; Hobomok (1824) ad esempio,
ambientato nel Massachusetts ai tempi in cui era governatore John Endecott
(1589-1665) un integerrimo puritano, mentre in The Rebels o Boston Before the
Revolution (1825) metteva al centro del racconto la figura del “nobile
selvaggio”212.
Quelle citate, naturalmente, sono solo alcune delle scrittrici che dal
Vecchio come da Nuovo Continente, fecero sentire la loro voce infittendo pagine
di pensiero contro la schiavitù. Molte altre, infatti, furono le donne che scelsero la
scrittura come strumento per esprimere il proprio punto di vista e diffondere il
proprio pensiero. Alcune di loro, come argomenteremo nel terzo e nel quarto
capitolo di questo lavoro, si distinsero per la forza delle parole con cui espressero i
loro pensieri, ma altre non si fermarono alla scrittura e dalle parole passarono ai
fatti.

210
FILLER L., Lydia Maria Child, in JAMES E. T. (a cura), Notable American Women a
Biographical Dictionary, Harvard University Press, Boston, 1971, p. 331 (pp. 330-333).
211
CHILD M., Appeal for that class of Americans called Africans, p. 7. in
http://munseys.com/diskseven/anap.pdf
212
MARAINI A. (a cura di), voce Ann Mary Child, in Dizionario Oxford della letteratura
americana, cit., p. 77.

64
§. 2.4 Dalle parole ai fatti
Quando iniziò la tratta degli schiavi fino alla Guerra di secessione e
all’abolizione della schiavitù, era idea largamente condivisa che la sfera pubblica
fosse di “proprietà” maschile, ciò nonostante molte donne del Nord America non
si limitarono a scrivere contro lo schiavismo ma vestirono i panni di militanti
abolizionisti, «In decine di migliaia raccolsero petizioni, racimolarono fondi, e in
altri modi ancora ne promossero la causa. Ciò cambiò il modo di pensare di molte
di loro»213; come scrisse Abby Kelley (1811-1887) «Lottando per spezzare le
catene [degli schiavi] abbiamo scoperto che, senza alcun dubbio, eravamo noi
stesse ad essere in ceppi»214. Quello che avvenne, in altre parole, fu che sentirsi
incluse in una dimensione di schiave, essendo donne che vivevano in una società
patriarcale e maschilista, molte donne cominciarono a ridefinire la differenza
sociale come ineguaglianza sociale; riflettendo sulla schiavitù e percependo la
forte analogia con quella condizioni, molte scrittrici intuirono che anche la loro
condizione dovesse emanciparsi non solo politicamente ma anche
economicamente, culturalmente, socialmente e giuridicamente. Ragionando in
questa direzione donne come Mary Wollstonecraft (1759- 1787) erano arrivate,
negli anni Novanta del XVIII secolo, a elaborare l’analogia tra matrimonio e
schiavitù215.
Qualunque fossero le ragioni, quando le idee abolizioniste iniziarono a
circolare nel Nord delle colonie, soprattutto nella Nuova Inghilterra, molte donne
si impegnarono attivamente contro la schiavitù. La prima donna a tenere una
conferenza pubblica in America fu Maria Stewart che (1803-1880) che, nel 1832,
esortò i bostoniani a partecipare alla battaglia abolizionista; la sua apparizione e le
sue parole suscitarono una grande scandalo tanto che la stessa Stewart fu costretta
a lasciare la città, e questo perché, allora e ancora per molto tempo, il fatto che
una donna prendesse la parola in pubblico, e addirittura arringasse la folla,
sarebbe stato considerato del tutto inadeguato 216. Nonostante un clima sociale che
remava loro contro, le abolizioniste non si fermarono e anzi molte altre,
213
FONER E., Storia della libertà americana, Donzelli, Roma, 2009, P. 119.
214
Citazione tratta da ID., Ibidem.
215
Ivi, p. 120.
216
OLSON L., Freedom’s Daughters. The Unsung Heroines of the Civil Rights Movement from
1830 to 1970, Touchstone, New York, 2001, pp. 27-28.

65
soprattutto spinte da motivazioni quasi religiose, si aggregarono alla causa;
raccoglievano fondi attraverso iniziative di beneficienza, scrivevano petizioni che
venivano inoltrate al Congresso e si assumevano impegni che le esponevano in
modo particolare come, appunto, tenere conferenze, scrivere articoli e pubblicare
riviste. Come scrive Benussi «Le abolizioniste però non si limitavano a questo;
alcune di loro sfidavano la legge nascondendo schiavi fuggiaschi e consentendo
loro di raggiungere luoghi sicuri come il Canada»217.
Un caso esemplare fu quello di Harriert Tubman (1822-1913), nota anche
come “Mosé della gente nera”, un’ex schiava la quale, una volta fuggita, aveva
aiutato altri schiavi a fuggire tramite un’organizzazione nota come “underground
railrod”218. La Harriet – così riporta Sarah Bradford – utilizzava una particolare
canzone per avvertire i fuggiaschi a prepararsi alla partenza:

Dark and thorny is de pathway


Where de pilgrim masckes his ways;
But beyond dis vale of sorrow
Lie de fields on endless days219.

Il primo congresso delle donne americane contro la schiavitù fu


organizzate a New York nel 1837; fu un evento al quale presero parte donne
bianche e afroamericane fatto, questo, che fu malvisto dall’opinione pubblica. Il
Congresso che si tenne l’anno seguente a Philadelphia, infatti, ebbe un esito
tragico; la sala delle conferenze fu bruciata e quella fu solo la prima di una lunga
serie di aggressioni le quali, tuttavia, non impedirono alle abolizioniste di
rincontrarsi220. È interessante ricordare che anche gli abolizionisti non vedevano di
buon occhio l’attivismo femminile; nel 1840, infatti, quando a Londra si tenne il
primo raduno abolizionista internazionale, alle donne fu permesso di parlare ma
non fu data la possibilità di parlare221.

217
BENUSSI S., Le donne afroamericane negli Stati Uniti. La lunga lotta per i diritti civili, Franco
Angeli, Milano, 2007, p. 28.
218
Si trattava di una rete informale di itinerari segreti e luoghi sicuri che vennero utilizzati nel XIX
secolo dagli schiavi neri in America per fuggire in Stati dopo la schiavitù era vietata. BIAL R.,
The Underground Railroad, Houghton Mifflin Harcourt, Boston, 1999, p. 48 e ss.
219
HOPKINS BRADFORD H., Harriet, the Moses of her People, Geo R. Lockwood and Son,
New York, 1886, p. 37.
220
BENUSSI S., Le donne afroamericane negli Stati Uniti, cit., p. 29.
221
Ibidem.

66
L’americana Mary Ann Shadd Cary (1823-1893), ad esempio, di padre
nero e madre mulatta, fu oltre che a una scrittrice e giornalista statunitense anche
un’attivista abolizionista. A Windsor, dove si stabilì con il fratello Isaac, fondò
una scuola integrata da un punto di vista razziale grazie all’appoggio
dell’American Missionary Association222. Poi, a causa di un alterco con
l’abolizionista americano Herny Bibb (1815-1854) sulle pagine del giornale di
quest’ultimo, The Voice of the Fugitive, la Shadd fondò un suo giornale The
Provincial Freeman nel 1853, esperimento che durò poco per riprendere con
nuova veste e grazie alla nuova alleanza con Samuel Ringgold Ward (1817-1866),
un afroamericano che scappò dalla schiavitù e divenne oltre che un abolizionista
un editore statunitense223. Il giornale diede spazio a temi con la riforma morale, i
diritti civili e la discriminazione razziale. Nel corso della sua vita la Shadd fu
anche ufficiale di reclutamento per arruolare volontari afroamericani per
l’Esercito dell’Unione, insegnò nelle scuole dei neri e, dopo essersi laureata come
avvocato (la seconda donna di colore negli Stati Uniti a ottenere una laurea in
legge) scrisse due periodici: il National Era e il People’s Advocat224.
Molte scrittici divisero il loro tempo tra le pagine dei loro libri, saggi,
articoli e l’attivismo vero e proprio. Molto di loro, cui dedicheremo i prossimi due
capitoli di questo lavoro, dovettero lottare duramente per far sentire la propria
voce; basti pensare che nel 1632 in un documento intitolato The Lawes Resolution
of Womens Right si leggeva «In questa unione che chiamiamo matrimonio ci si
lega. È vero che marito e moglie sono una persona sola, ma capite in quale modo
[…] La nuova persona è superiore alla donna; il suo compagno, il suo padrone» 225;
questa situazione di sudditanza, che non era affatto mutata nei tempi della Guerra
americana, continuava a rendere impossibile alla maggior parte delle donne di
esprimersi e agire, e lo rendeva possibile solo a quelle che si trovavano in una
condizione sociale privilegiata, magari perché mogli di uomini in vista. Indicativo
222
Cfr. FOUNTAIN D. L., Slavery, Civil War, and Salvation: African American Slaves and
Christianity (1830-1870), Louisiana State University Press, s.l., 2010.
223
RINGOOLD WARD S., Autobiography of a Fugitive Negro: His Anti-slavery labours in the
United States, Canada & England, The University of North Carolina at Chapel Hill, 1817, in
http://docsouth.unc.edu/neh/wards/ward.html.
224
RHODES J., Mary Ann Shadd Cary: the Black Press and Protest in the Nineteenth Century,
Indiana University Press, Bloomington, 1999.
225
Citazione tratta da ZINN H., Storia del popolo americano. Dal 1942 a oggi, Il Saggiatore,
Milano, 2010, p. 79.

67
il fatto che si trattasse di una situazione difficile da superare il che, anche dopo la
Rivoluzione, nessuna delle nuove Costituzione statali riconobbe alle donne il
diritto di voto a parte il New Jersey (ma che poi l’abolì nel 1807)226.
È anche vero, tuttavia, che dopo tante battaglie, più o meno alla luce del
sole, così come l’abolizione della schiavitù anche l’uguaglianza delle donne era
nell’aria. In seguito – per dare uno sguardo a quello che avvenne dopo e che in
parte fu messo in moto anche dall’attivismo delle donne contro la schiavitù - la
reazione allo Spencerismo, che supportava il nuovo aggressivo mercato
capitalistico, si espresse nel cristianesimo sociale nel riformismo di economisti
come Henry Gorge e Richard Ely, nel movimento delle settlement houses 227. della
sociologa e pacifista americana Jane Addams (1860-1935) e la riformista sociale e
politica Florence Kelly (1859-1932), nel pragmatismo, nel realismo giuridico e
nella stessa sociologica che, proprio in questo periodo, nasceva negli Stati Uniti
come scienza animata da un impulso riformista volta ad acquistare un potere di
controllo sociale228 Il Nationalist Movemnt229 rappresentò una delle manifestazioni
più significative del bisogno sentito dalle classi medie di cambiamento; si trattò di
un movimento socialista sui generis nato sulla scia del successo ottenuto dal
romanzo utopico Looking Backward 2000 – 1887 di Edward Bellamy (1850-
1898)230, che si inseriva nel solco della tradizione del socialismo umanista con
l’intenzione di resta al di fuori dalle idee rivoluzionarie marxiste. Molte donne
delle classi medie, così come lo furono l’inglese Elizabeth Gaskell (1810-1865),
226
Ivi, p. 82.
227
Cfr. FRIEDMAN M. e B., Settlement Houses: Improving the Social Welfare of America’s
Immigrants, The Rosen Publishing Group, New York, 2006.
228
WEIL M., Model Development in Community Practice: An Historical Perspective, in WEIL M.
(a cura di), Community Practice: Conceptual Models, Harworth Press, New York, 1996, p. 9 e ss.
(pp. 5-68).
229
Col termine “nationalism”, Bellamy e il suo movimento intendeva riassumere un programma
politico il cui obiettivo era la nazionalizzazione delle maggiori imprese di interesse pubblico, come
le ferrovie, che doveva rappresentare non un interesse di classe, ma l’interesse dell’intera nazione.
La scelta del termine nazionalismo indicava chiaramente la volontà di questo movimento di
distinguersi dal socialismo marxista. In un articolo dal titolo “Why the name nationalism?”;
Bellamy spiegava che esso, «unlike socialism as commonly under stood, is not a class movement
but for the whole country», in LIPOW A., Authoritarian Socialism in America, University of
California Press, Berkeley - Los Angeles- Oxford, 1991, p. 185.
230
La storia narrava di Julian West, una persona sofferente d’insonnia che si faceva curare con
l’ipnosi e che restava addormentata per 113 anni, risvegliandosi nella Boston del 2000 dove
trovava un mondo del tutto diverso dal quello dove viveva, un mondo dove vigevano la pace, la
fratellanza, l’uguaglianza, la cooperazione. BELLAMY E., Guardando Indietro, Mondadori,
Milan, 1982.

68
autrice di Women and Economcis (1898), appartenenti tra l’altro al variegato
mondo dei women clubs, impegnato nel settore religioso – filantropico, nella lotta
contro l’alcolismo e la prostituzione, e nell’ambito delle riforme sociali a livello
municipale, considerarono il socialismo bellamiano come una teoria molto più
attraente della prospettiva offerta dal marxismo, non solo perché più graduale ma
anche perché essa non subordinava la liberazione della donna alla prospettiva
dell’emancipazione delle classi lavoratrici. Il mondo, all’epoca, era ancora per
molti aspetti off limits per le donne e la prospettiva di Bellamy non solo apriva
all’altro sesso le porte del mondo del lavoro e della scuola, ma affrontava nella
sua utopia il problema della redistribuzione del carico domestico 231. Anche se nel
suo romanzo, Bellamy non riconosceva in toto alle donne pari capacità
intellettuali e diritti rispetto agli uomini, tuttavia la donna veniva emancipata dalla
schiavitù del lavoro domestico, grazie all’introduzione delle cucine, lavanderie,
imprese di pulizie e cooperative così come era stato precedentemente preconizzato
in un altro romanzo utopico della scrittrice femminista Marie Howland (1836-
1921), Papa’s Own Girl (1874)232.
È anche vero, tuttavia, che dopo che nel 1870, quando tre quarti degli Stati
avevano ratificato il Quindicesimo Emendamento, e agli afroamericani fu
concesso il diritto di voto sulle stesse basi dei bianchi, venne meno l’alleanza tra
abolizionismo e femminismo e questo perché l’Emendamento ignorava
completamente il suffragio femminile233. Suffragiste come Susan Antony e
Elizabeth Cady Stanton sciolsero l’American Equal Rights Association, fondata
assieme a Frederick Douglass e, grazie al mecenatismo del milionario
231
Così STRAUSS S., Gender, Class and Race in “Utopia”, in PATAI D. (a cura di), Looking
Backward, 1998 - 1888: Essays on Edward Bellamy, University of Massachussetts Press, Amherst,
1988, pp. 68-90. Forse, proprio per il peso che la presenza femminile aveva nei clubs nazionalisti,
Bellamy nel suo secondo romanzo, Equality (1897), concesse il suffragio anche alle donne.
232
Marie Stevens Howland era un’intellettuale cosmopolita, con stretti rapporti con i socialisti
utopisti francesi di ispirazione fourierista. La Howland scrisse il romanzo utopico Papa’s own Girl
(1874), storia di un padre e una figlia che vivevano nel New England e dove l’eroina, Clara Fores,
vive come una donna d’affari, e tradusse l’opera (Social Solutions, 1873) con la quale Jean -
Baptiste Godin, il principale discepolo europeo di Fourier, descrisse l’esperienza del Familistére,
la comunità socialista che egli fondò a Guise, in Francia. Sulla Howland, si rimanda a HAYDEN
D., The Grand Domestic Revolution: A History of Feminist Designs for American Homes,
Neighborhoods, and Cities, The MIT Press, Cambridge (Mass.) - London, 1983, pp. 91-113.
233
DU BOIS E. C., Feminism and Suffrage: the Emergence of an Independent Women’s
Movement, Cornell University Press, Ithaca, 1979, p. 69 e ss.; IDDINGS P., When and Where I
Enter: the Impact of Black Women on Race and Sex in America, Banta Books, New York, 1984,
pp. 65-68.

69
democratico George Train, diedero origine a un nuovo giornale femminista
Revolution nel quale espressero con estrema rabbia il fatto di vedersi superare, nel
diritto al voto, dagli afroamericani. Non tutte, naturalmente, furono dello stesso
parare, Lucy Stone e Julia Ward House, ad esempio, ritennero che non si dovesse
dare particolare risalto alla cosa e che, comunque, «se la razza nera non avesse
avuto alcun diritto anche la lotta delle donne, pensavano, avrebbe perso di
significato234. Ma qualunque fossero le opinioni e le reazioni, i tempi erano maturi
per un radicale cambiamento; ora che la schiavitù degli afroamericani era stata
abolita non restava che lottare per l’emancipazione delle donna. Tutto quello che
avvenne, fu frutto di lunghe battaglie cui parteciparono, direttamente o
indirettamente, molte donne; ad alcune di queste dedicheremo un
approfondimento particolare nei prossimi capitoli.

234
LORINI A., Ai confini della libertà. Saggi di storia americana, Donzelli, Roma, 2001, p. 69.

70
Capitolo III

PHILLIS WHEATLEY E HARRIET BEECHER STOWE. DUE


VOCI DALL’AMERICA

§. 3.1 Phillis Wheatley, le origini africane di una poetessa americana


Le notizie biografiche su Phillis Wheathley non sono facilmente reperibili;
si sa, tuttavia, che sia nata verso il 1753 nel Gambia o Ghana (le origini restano
incerte)235 e che sia stata rapita e portata in America (a Boston) nel 1761 a bordo
di una nave negriera (il viaggio durò ben due mesi) nota come Phyllis, dalla quale
prese il nome di battesimo236. Jordan scrive: «Nel 1761, tanto tempo prima della
rivoluzione che ha prodotto questi Stati Uniti, tanto tempo prima che il concetto di
libertà disturbasse i crimini insolenti di questo continente, nel 1761, quando
Phillis, a sette anni, stava ferma in piedi, così come doveva, quando stava ferma in
piedi quasi nuda, piccola come può esserlo una bambina di sette anni, tutta sola,
sulla terra ferma finalmente, finalmente, dopo i lunghi annichilenti orrori del
Passaggio di mezzo. Phillips, ferma in piedi sulla rozza piattaforma del banditore
d’asta: Phillis In Vendita»237.
A Boston, Phillis fu acquistata da una ricca coppia di commercianti, John e
Susanna Wheatley la quale, in particolare, fu attirata dall’ «humble and modest

235
Alcuni biografi sostengono che la Wheatley nacque in Senegal, altri in Gambia. SCHIAVINI C,
Atlantico nero, in MAFFI M., SCARPINO C., SCHIAVINI C., ZANGARI S. M., Americana.
Storie e culture degli Stati Uniti dalla A alla Z, Il Saggiatore, Milano, 2012, p. 52.
236
Proprietario della Phillis era un certo Timothy Fitch (1725-1790), un mercante di schiavi che
viva a Medford, in Massachusetts, che a volte risiedeva a Boston. I documenti testimoniano che l’8
novembre 1760 l’uomo ordinasse al suo impiegato Peter Gwinn, comandante della “my Brigg
Phills” di andare con la truppa in “Sinigall”, nella costa ovest dell’Africa dove avrebbe potuto
comprare un centinaio di schiavi in cambio di circa 2,640 galloni di rum e altre mercanzie. Il
viaggio, che si svolse in tempo di guerra e non sotto i migliori auspici, si rivelò, economicamente
parlando, un disastro per «its lenght, mortality rate, and cargo» (Nota 15). De 95 schiavi che erano
stati imbarcati in Africa ne arrivarono a Boston solo 74; una dei sopravvissuti fu proprio la
Wheatley. CARRETTA V., Phillis Wheatley: Biography of a Genius in Bondage, the University
of Georgia Press, Athens (Georgia), 2011, p. 5 e 7.
237
JORDAN G., Il difficile miracolo della poesia nera in America: una sorta di sonetto per Phillips
Wheatley, in “Ácoma”, n. 3, anno II, 1995, pp. 4-5 (pp. 4-13).

71
demeanor»238 della bambina. Come spiega Carretta: «Her small size and missing
front teeth told potential buyers that she was only about seven years old. She was
what was called a refuse slave, one whose age render her of little market value. To
the Boston merchant John Wheatley, however, she was the figth he wanted to give
his wife, Susanna»239. La signora Wheatley volle acquistarla per due motivi:
preparala, vista la giovane età, ai lavori domestici, visto che alcuni dei suoi
domestici che se ne occupavano avevano ormai una certa età, e per tenerle
compagnia una volta che la figlia, Mary, avrebbe lasciato la casa paterna per
intraprendere la sua vita da adulta240. Secondo Carretta, tuttavia, la ragione fu
anche un’altra; «Just a few weeks before the Wheatleys purchased Phillis the had
observed the ninth anniversary of the death of their daughter Sarah» 241, fatto,
questo, che spiegherebbe la straordinaria relazione che si venne a creare tra
Susanna e la bambina. La coppia, da subito, si rese conto delle qualità della
piccola Phillis e decise, pertanto, di impartirle una prima rudimentale educazione
seguendola nello studio del latino e della storia e, in seguito, incoraggiandola a
proseguire gli studi.
Come scrive Ruf, «In the household of the Wheatleys, Phillis did not only
learn to read and write but was also instructed in the Christian religion» 242. Era
opinione largamente condivisa dall’élite bianca, infatti, anche di quella che si
dimostrava più ben disposta nei confronti dei neri, che questi, per poter in qualche
modo inserirsi nella società anglosassone, dovesse prima di tutto abbandonare il
proprio paganesimo originario fatto, questo, che li avrebbe resi delle “real
person”. Non mancarono, naturalmente, quanti criticarono aspramente questo
meccanismo, considerandolo un modo per controllare e sottomettere gli africani.
Gates scrive: «By the middle of the eighteenth century the black slave had sunk,
with hushed murmurs, to his place at the bottom of a new economic system, and
was unconsciously ripe for a new philosophy of life. Nothing suited his condition
then better than the doctrines of passive submission embodied in the newly
238
ODELL M. M., Memoir and Poems of Phillis Wheatley (1834), Geo. W. Light, Boston, 2003, p.
9.
239
CARRETTA V., Phillis Wheatley: Biography of a Genius in Bondage, cit., p. 1.
240
RICHMOND M. A., Bid the Vessal Soar, Howard UP, Washington, 1974, p. 15.
241
CARRETTA V., Phillis Wheatley: Biography of a Genius in Bondage, cit., p. 14.
242
RUF B., “Writing in White Ink”. Textual Strategies of Resistance in Zora Neale Hurstons
“Their Eyes Were Watching God” and Alice Walker’s “The Colour Purple”, Grin Verlag, Berlin,
2007, p. 37.

72
learned Christianity. Slave masters early realized this, and cheerfully added
religious propaganda within certain bounds»243. Il viaggio dalla sua terra natale
alle sponde di là dall’Atlantico rappresenterà per Phillis, come dirà ella stessa una
volta convertita al cristianesimo, una vera e propria benedizione, avendole dato
l’opportunità di sapere che esiste un Dio, quindi un percorso verso la fede che
conferì un «marchio indelebile» alla sua identità di autrice e di persona;
lasciandole, ironia della sorte, un nome, quello per l’appunto di Phillis, che era il
nome della nave negriera che l’aveva condotta nel Nuovo Mondo244.
Il principale tutore di Phillis, fu il figlio dei Wheatley, Nathaniel, che le
insegnò l’inglese, il latino, la storia, la geografia, i primi rudimenti della religione
cattolica e che la iniziò alla lettura della Bibbia (Phillis Wheatley fu battezzata
presso la Old South Meeting House) 245. Dopo poco più di un anno di istruzione,
Phillis poteva leggere in inglese e capire «difficult passages in the Bible» 246;
scrive Jordan, «Sedici mesi dopo il suo ingresso nella casa dei Wheatley, Phillis
parlava la lingua dei suoi padroni. Phillis leggeva correntemente le Scritture. A
otto anni e mezzo, questa bambina nera, o “Musa d’Africa”, come si sarebbe
descritta in seguito, era pienamente istruita nella lingua di questa terra schiavista.
Era competente e chiedeva ansiosamente di più: più libri, più informazioni. E
Suzannah Wheatley amava questa figlia della sua capricciosa buona sorte. Era
contenta di istruire, educare e guidare questa ragazza nera, questa nera creatura
prediletta da Dio. E così, in cucina, Phillis si immerse in studi degni, tutto
sommato, di un’istruzione classica accessibile a giovani maschi bianchi a
Harvard»247. A quattordici anni, era il 1767, Phillis pubblicò la sua prima poesia
To the University of Cambridge; non si trattava di un semplice limerick248 o di
versi sparsi, ma di trentadue versi sciolti 249; la novità assoluta della scrittura della

243
GATES H. L., The Norton Anthology of African American Literature, W. W. Norton, New
York, 1997, p. 708.
244
SCHIAVINI C, Atlantico nero, in cit., p. 52.
245
REUBEN P. P., Phillis Wheatley (1753-1784), in “PAL: Perspectives in American Literature. A
Research and Reference Guide. An Ongoing Project”, in
http://www.csustan.edu/english/reuben/pal/chap2/wheatley.html#bio
246
RICHMOND M. A., Bid the Vessal Soar, cit., p. 15.
247
JORDAN G., Il difficile miracolo della poesia nera in America, cit., p. 6.
248
Il limerick è un breve componimento in poesia, tipico della lingua inglese, privo di contenuto
ma costruito secondo regole ben precise. Cfr. MANFREDI M., TRUCCO M., Il libro dei
Limerick. Filastrocche, poesie e nonsense, Vallardi, Milano, 1994.
249
CARRETTA V., Phillis Wheatley: Biography of a Genius in Bondage, cit., p. 59.

73
Wheatley era, prima di tutto, il pubblico al quale la ragazza si rivolgeva. Non a
schiave come lei ma all’élite culturale del Paese, in particolare agli studenti di
Harvard; e ciò, come avrebbe detto due secoli dopo di lei un’altra poetessa, June
Jordan, «non era naturale»250.
Phillis passava la maggior tempo sui libri ma doveva, comunque,
occuparsi di alcune faccende domestiche. Nel corso della sua permanenza presso
la dimora dei Wheatley fu trattata quasi come una figlia anche se, quando la
coppia si recava fuori e la portava con sé, la giovane non poteva sedere al loro
tavolo251. Grazie ai Wheatley, Phillis poté frequentare i circoli letterari della
Boston dell’epoca, trovarsi a contatto con importanti prelati e altri membri della
società252 e questo, sicuramente, ebbe un’influenza molto positiva sulla sua
formazione culturale. Non mancarono le occasioni in cui le venne chiesto di
scrivere poesie su commissione, per eventi speciali e occasioni particolari. Per
questa sua spiccata abilità Richmond l’ha definita «intellectual adornment», una
novità per la società bostoniana, una sorta di «exotic curiosity» del quale i
Wheatley facevano volentieri sfoggio253. Richmond aggiunge anche che,
nonostante il colore della sua pelle, Phillis, grazie alla sua «Puritanical whitness of
her thoughts» vinse l’ostilità di molti254.
Nel 1770 Phillis scrisse un omaggio in versi a George Whitefield (1714-
1770), un noto predicatore anglicano che contribuì a diffondere il Grande
Risveglio255 in Inghilterra e soprattutto nelle colonie inglesi americane256. Il
poema, spiccatamente celebrativo, non fu l’unico nel suo genere, ma ricevette
unanime consenso e divenne presto noto non solo in tutta Boston ma anche nel
250
JORDAN G., Il difficile miracolo della poesia nera in America, cit., p. 4.
251
ODELL M. M., Memoir and Poems of Phillis Wheatley (1834), cit., p. 15.
252
Ivi, p. 11.
253
RICHMOND M. A., Bid the Vessal Soar, cit., p. 18.
254
Ivi, p. 19.
255
Il Primo Grande Risveglio fu un movimento di rinascita protestante che ebbe grande diffusione
tra le colonie americane tra il 1730 e il 1750, contribuì in modo significativo a unificare le
credenze religiose delle colonie. Iniziato con Jonathan Edwards, un predicatore del Massachusetts,
che si fece promotore del ritorno alle radici calviniste dei Padri Pellegrini, fu poi portato avanti da
predicatori come l’inglese George Whitefield il quale, in particolare, quando nel 1740 visitò le
colonie pose la questione della schiavitù al centro del Grande Risveglio. Pubblicò una lettera agli
abitanti di Maryland, Virginia, Nord e Sud Carolina dove, commentando alcune ribellioni che
avevano all’epoca scosso la Virginia e il Sud Carolina, si disse sorpreso che non ce ne fossero state
di più. Era sua convinzione, infatti, che tali ribellioni fosse un “giudizio” di Dio. LINEBAUGH P.,
REDIKER M., I ribelli dell’Atlantico. La storia perduta di un’utopia libertaria, Feltrinelli,
Milano, 2004, p. 197.
256
LASCH C., Il paradiso in terra. il progresso e la sua critica, Feltrinelli, Milano, 1992, p. 243.

74
resto delle colonie e in Inghilterra. Il successo, sostiene Richmond, catapultò
Phillis «from the level of local celebrity to the plateau of poet with a reputation
throughout the Colonies and […] oversas»257. Il poema in onore a George
Whitefield, di fatto, non fu che un primo assaggio di quella che sarebbe stata la
poetica della Whitleay tutta permeata di tematiche cristiane; più di un terzo dei
suoi scritti, infatti, sarà costituito da elegie ma il resto dei suoi componenti
affronterà temi religiosi, classici o astratti.
Nel 1768, Phillis scrisse una poesia in onore di Lord Dartmouth per aver
convinto re Giorgio III ad abrogare la legge sul pagamento del bollo 258. Rari i
versi che la poetessa dedicò, per lo meno esplicitamente, alla sua condizione
sociale e al problema della schiavitù tranne, come vedremo, On Being Brought
from Africa to America (1773)259 nel quale alla disperazione per la sua condizione
di schiava si unisce il desiderio di un’America libera dall’oppressione di una
Madre patria divenuta ormai troppo ingombrante. Sempre nel 1773, a causa di una
salute piuttosto cagionevole, i Wheatley mandarono la Wheatley in Europa dove
viveva il loro figlio; all’età di circa venti anni, Phillis ebbe la rara opportunità, per
una donna dell’epoca, di viaggiare per conoscere luoghi e persone e fare
esperienze di vita260. Così come Olaudah Equiano, del quale la Wheatley era
contemporanea, divenuta ormai nota grazie alla sua produzione letteraria, Phillis
«come poi molti altri ex schiavi e loro discendenti in seguito al sommovimento
rivoluzionario, […] attraversò l’Atlantico diverse volte. I suoi viaggi la portarono
a Londra, dove frequentò alcuni circoli sociali d’élite e manifestò le sue simpatie
abolizioniste»261.
La promozione delle poesie della Wheatley e la sua accettazione da parte
del pubblico, considerando che si trattava dell’opera prima di una schiava di

257
RICHMOND M. A., Bid the Vessal Soar, cit., p. 24.
258
Tra il 1764 e il 1765 il Parlamento inglese aveva varato lo Stamp Act che imponeva una tassa su
tutti gli atti pubblici e lo Sugar Act che stabiliva che i coloni potessero acquistare solo lo zucchero
dei Caraibi Inglesi la cui adozione erano stati causa di grandi malumori. ROSA M., VERGA M.,
La storia moderna: 1450-1870, Pearson Italia, Milano, 2003, p. 112 e ss.
259
SKIPP F. E., American Literature, Barron’s Educational Series Inc., New York, 1992, p. 17 e
ss.
260
MARTINEZ C., La poesia della rivoluzione, in PORTELLI A. (a cura di), La formazione di
una cultura nazionale: la letteratura degli Stati Uniti dall’indipendenza all’età di Jackson, 1776-
1850, Carocci, Roma, 1999, p. 129 e ss. (pp. 127-141).
261
GILROY P., The Black Atlantic. L’identità nera tra modernità e doppia coscienza, Meltemi,
Roma, 2003, p. 20.

75
colore delle colonie, non fu affatto facile anche perché molti non riuscivano a
credere che una donna di colore potesse essere tanto intelligente e dotata da
scrivere poesie così raffinate. La situazione degenerò a tal punto che Phillis
dovette difendere le proprie capacità letterarie in tribunale. Venne sottoposta a un
esame da un gruppo di eruditi e personalità di Boston, tra cui John Erving, il
Reverendo Charles Chauncey, John Hancock, il governatore dello stato Thomas
Hutchinson e il suo vice Andrew Oliver; ma, alla fine, la Commissione non poté
che concludere che era stata effettivamente Phillis a scrivere le poesie che le
venivano attribuite e le rilasciò un attestato che fu poi inserito nella prefazione del
suo Poems on Various Subjects, Religious and Moral 262, libro che la poetessa
dedicò a Lady Huntingdon (della cerchia di George Whitefield), conosciuta
probabilmente a Londra263 e che fu l’unica a credere in lei, aiutandola nella
pubblicazione del libro. Come ricorda Richmond, quello della Phillis fu il primo
libro di una donna di colore a essere pubblicato264.
A causa del peggioramento delle condizioni di salute del signor Wheatley,
che morirà nel 1774, il soggiorno europeo di Phillis dovette bruscamente
interrompersi. Prima della sua morte, tuttavia, il signor Wheatley liberò Phills che
ottenne l’emancipazione il 18 ottobre 1773. Nel frattempo le colonie erano entrate
in guerra e ciò provocò un interesse crescente da parte dei lettori nelle questioni
legate al conflitto; nel corso della guerra di indipendenza americana Phillis
divenne una grande sostenitrice della causa dell’indipendenza 265 e continuò a
produrre versi e componimenti. Nel corso del conflitto, in particolare, la Wheatley
scrisse due poesie di guerra, To His Excellency General Washington266, che sarà
pubblicato nel “Pennsylvania Magazine” dell’aprile del 1776267 (lo stesso anno
sarà ricevuta dal generale Washington268), mentre, due anni dopo, pubblicò un
altro poema di guerra, Thoughts on His Excellency Major general lee being

262
GATES L. G., The Trials of Phillis Wheatley: America’s First Black Poet and Her Encounters
With the Founding Fathers, Civitas Book, New York, 2003, p. 33.
263
BROWN L. C., Moral Capital: Foundations of British Abolitionism, The University of North
Carolina Press, Oakland, 2006, p. 337.
264
RICHMOND M. A., Bid the Vessal Soar, cit., p. 33.
265
Ivi, p. 37.
266
DORSEY P. A., Common Bondage: Slavery as Metaphor in Revolutionary America, The
University of Tennessee Press, Knoxville, 2009, p. 260, nota 49.
267
RICHMOND M. A., Bid the Vessal Soar, cit., p. 7.
268
Ibidem.

76
Betray’d into the Hands of the Enemy by the Treachery of Pretended Friend
(1778)269.
Nel 1778 Phillis sposò un droghiere afro-americano, John Peters dal quale
ebbe tre bambini, due dei quali, però, morirono prematuramente. John, tuttavia,
non si dimostrò un abile imprenditore e passò da un’attività all’altra senza
successo fino a trascinare la famiglia sull’orlo della povertà. La guerra, inoltre,
aveva reso difficile alla Whitley di poter contare su un’entrata sicura grazie al suo
lavoro di scrittrice; si trovò costretta, dunque, a lavorare come domestica. Nel
1784, dopo che il marito l’aveva abbandonata, Phills morirà assieme all’unico
figlio che le era rimasto; entrambi furono sepolti in una tomba anonima. Phillis,
all’epoca, aveva 31 anni.
Nei primi anni del 1800 gli abolizionisti pubblicarono le sue opere per
mostrare che gli schiavi erano dotati di un talento e di un’intelligenza pari a quella
dei bianchi270. Grazie alla pubblicazione di Poems on Various Subjects Phillis
Wheatly è considerata «la più famosa africana sulla faccia della terra»271. Voltarire
scrisse a un amico che la Wheatley aveva dimostrato che anche le persone di
colore potevano scrivere poesie272; John Paul Jones chiese a un suo sottoposto di
consegnare alcuni suoi componimenti a «Phillis, l’africana favorita delle Nove
Muse e di Apollo»273. I grandi uomini del suo secolo, tuttavia, si divisero: ci fu chi
la rivendicò come la prova evidente dell’umanità dei neri, «singolare genio e
raffinatezza sono tali che fanno onore non solo al suo sesso ma alla natura
umana», scriverà l’antischiavista Benjamin Rush274. Altri, come Samuel Johnson,
massimo esponente della critica letteraria inglese ai tempi della Whitley, la
paragonò a un “pechinese ammaestrato”, dicendosi convinto che gli africani non
sapessero far altro che imitare “come le scimmie” 275. Thomas Jefferson, difensore
269
CARRETTA V., Phillis Wheatley, cit., p. 158.
270
PURDIE SALAS L., Phillis Wheatley: colonial American poet, Capstone Press, Mankato
(Minnesota), 2006, p. 24.
271
GATES L. H., The Trials, cit., p. 33.
272
SANTOS DOAK R., Phillis Wheatley: Slave and Poet, Compass Point Books, Minneapolis,
2005, p. 60.
273
GATES L. H., The Trials, cit., p. 33.
274
RUSH B., An Address to the Inhabitants of the British Settlements in America Upon Slave
Keeping (1773), citato in GATES H. L., Phillis Wheatley and the «Nature of the Negro», in
Figures in Black. Words, Signs, and the «Racial» Self, Oxford University Press, New York-
Oxford, 1987, p. 68.
275
Citazione tratta da PORTELLI A., Canoni americani. Oralità, letteratura, cinema, musica,
Donzelli, Roma, 2004, p. 22.

77
dell’uguaglianza tra gli esseri umani ma proprietario di schiavi, disse che se quelle
della Whitley erano le poesie migliori che gli africani sapessero fare, allora erano
davvero degli esseri inferiori, «La religione ci ha dato una Phillis Whately [sic],
ma non ha potuto darci un poeta» e le sue poesie «sono al di sotto della dignità
della critica»276. Bisognerà attendere gli anni Sessanta del Novecento, la nascita
dei movimenti nazionalisti, il Black Power e la Black Aesthetic, quindi la nascita
degli studi afroamericani e di una nuova teoria critica, se i testi della Wheatley,
come di tutti gli altri scrittori, romanzieri e poeti ex-schiavi, cominciassero a
essere valutati per il loro valore autonomo e intrinseco.
Non vi è dubbio che il lavoro di Phillis Wheatley è stato particolarmente
significativo soprattutto se valutato nell’epoca in cui fu prodotto. Fu, quello,
infatti, un periodo di sottomissione nel corso del quale questa ex-schiava riuscì a
dimostrare che anche le persone di colore erano dotate di “intelletto” al pari dei
bianchi. Le sue poesie, come vedremo, erano caratterizzate da uno stile
controllato, dai «rigid boundarires» e dall’«ornate diction of neoclassicism» tanto
di moda all’epoca277. L’Enciclopedia Britannica definisce la sua una poesia
«exceptionally mature»278, la critica ritiene il suo lavoro fondamentale per il
genere della letteratura afro-americana279 e la Whitley è considerata una della più
grandi personalità afro-americane280. Come ricorda Carretta, infatti, «Wheatley
has achieved iconic status in American culture. Elementary, middle, and high
schools throughout the United States bear her name. A prominent statue in Boston
memorializes her. Wheatley has been the subject of numerous recent stories
written for children and adolescents. Her appeal is understandable: the prejudices
against her race, social status, gender, and age notwithstanding, in 1773 she
became the first person of African descent in the Americas to publish a book» 281.
Giudizi di grande valore giustificati da una poetica intesa e ricca di suggestioni.

276
JEFFERSON TH., Notes on the State of Virginia (1787), Harper, New York, 1965, p. 135.
277
RICHMOND M. A., Bid the Vessal Soar, cit., p. 54.
278
Cfr. Phillis Wheatley, in http://www.britannica.com/EBchecked/topic/641615/Phillis-Wheatley
279
GATES L. H., The Trials, cit., p. 5.
280
MOLEFI K. A., 100 Greates African Americans: A Biographical Encyclopedia, Prometheus
Books, New York, 2002, p. 8.
281
CARRETTA V., Phillis Wheatley: Biography of a Genius in Bondage, cit., p. ix.

78
§. 3.2 Poems on Various Subjects, Religious and Moral (1773)
Poems on Various Subjects, Religious and Moral, primo e unico libro
pubblicato della Wheatley282, fu edito a Londra nel 1773 (bisognerà attendere il
1786 per l’edizione Americana)283. Delle trentasette poesie solo una, On Being
Brought from Africa to America, tratta direttamente dell’esperienza della
Wheatley come schiava deportata a forza dall’Africa all’America. Nella poesia la
giovane, allora sedicenne, scriveva che era stata la “Misericordia” a condurla dalla
sua terra “pagana” al Nuovo mondo per insegnare alla sua mente e alla sua anima
ottenebrata che esisteva un Dio e anche un Salvatore; la Phillis racconta di aver
vissuto a lungo nell’ignoranza e di non aver neppure cercato la redenzione, non
conoscendone affatto l’esistenza. Poi, rivolgendosi a coloro che disprezzano i neri,
perché li considerano un marchio diabolico, dice loro che i neri possono, al pari
dei bianchi, essere affinati alle schiere angeliche. Si legge:

Twas mercy brought me from my Pagan land,


Taught my benighted soul to understand
That there’s a God, that there’s a Savior too:
Once I redemption neither sought nor knew
Some view our sable race with scornful eye,
“Their colour is a diabolic die.”
Remember, Christians, Negroes, black as Cain
May be refin’d, and join the angelic train.

La poesia, definita «the most reviled poem in African American


literature»284, è stata paragonata per i sentimenti che esprime a quella di una
poetessa coeva alla Wheatley, Jane Dunlap (1765-1771), The Ethiopians Shall
Strecht out thei hands to God, or a Call to the Ethiopians, pubblicata nel 1771,
tanto che qualcuno si è chiesto se la Dunlap non avesse letto il manoscritto della
Wheatley285. Secondo Skipp, è evidente nel modo di poetare della Wheatley,
l’influenza dei neoclassici inglesi che tolsero al suo lavoro originalità e

282
DUBRULLE E., voce Wheatley Phillis (c. 1753-1784), in RODRIGUEZ J. P. (a cura di); The
historical encyclopedia of world slavery, ABC-CLIO, Santa Barbara, 1997, p. 693 (pp. 692-693).
283
Come scrive la Accardo «perché Boston non era ancora pronta ad accettare un libro di
un’afroamericana». ACCARDO A., Il racconto della schiavitù negli Stati Uniti d’America,
Bulzoni, Roma, 1996, p. 98.
284
CARRETTA V., Phillis Wheatley: Biography of a Genius in Bondage, cit., p. 60.
285
SHIELDS J. C., Phillis Wheatley’ Poetics of Liberation, The University of Tennessee Press,
Knoxville, 2010, p. 6.

79
freschezza, ma al quale ella seppe conferire «an impressive degree» 286. Per
McCuley, invece, nella lirica è presente l’uso del linguaggio biblico in senso di
protesta, un atteggiamento che l’Autrice definisce «othered other»287 e che viene
spiegato dalla O’Neale come un modo per la Wheatley di sfidare la presunzione
della società coloniale che utilizzava la cristianità per giustificare il suo possesso
di schiavi288.
Jordan, diversamente, meno attenta allo stile ma più ai contenuti, si
domanda dove la Phillis prese le idee per questo componimento ed evidenzia, a
posteriori, quella che ritiene un’assurdità, ovvero il fatto che la Wheatley definisca
“pagana” l’Africa e “misericordioso” il furto fatto alla sua vita; per la Jordan si
tratta «di comuni, inique assurdità che si trovano nella letteratura bianca, la
letteratura che Phillis Wheatley assimilò, senza possibilità di scelta al riguardo» 289.
Ciò nonostante, secondo la Jordan, in questa poesia, che ritiene “soprendente”, la
Wheatley formula affermazioni importantissime quando rivela l’esistenza di un
tempo nel corso del quale non le era dato cercare la redenzione in quanto
sconosciuto; con questi versi, infatti, la Wheatley conferisce dignità al suo essere
stata “prima” qualcuno di altro, e che il suo essere nera, come Caino, non le
impedirà di diventare un angelo del Signore. Trasformandosi, in pochi versi, da
schiava ad angelo dell’Onnipotente.
Circola, rispetto al componimento, un interessante aneddoto il base al
quale Henry Louis Gates, uno dei più eminenti studiosi di letteratura
afroamericana, avrebbe ricevuto uno strano messaggio «sent from a public fax
machine in Madison, Connecticut. Mr. Grico – a freelance writer – had evidently
become fascinated with anagrams, and wished to alert me to quite a stunning
anagram indeed. ‘On Being Brought from Africa to America’, this eight-line
poem, was in its entirety, an anagram, he pointed out. If you simply rearranged the
letters, you got» si otteneva un componimento esplicitamente abolizionista che
finiva con l’appello «America, manumit our race. I thank the Lord» una rima in

286
SKIPP F. C., American Literature, cit., p. 17.
287
McCULLEY T. O., Queering Phillis Wheatley, in SCHIELDS J. C., LAMORE E. D., New
Essays on Phillis Wheatley, University of Tennessee Press, Knoxville, 2011, p. 201 (pp. 191-208).
288
O’NEALE S., A Slave’s Subtle War: Phillis Wheatley’s Use of Biblical Myth and Symbol, in
“Early American Literature”, 21, 2, 1986, pp. 144-166.
289
JORDAN G., Il difficile miracolo della poesia nera in America, cit., p. 7.

80
un metro che la Wheatley non scrisse mai e che non avrebbe certamente
riconosciuto290.
Ssecondo Carretta la ragione per cui la Wheatley non fece mai alcun
riferimento al suo “Middle Passage” è dovuto al fatto che fu un esperienza
talmente traumatica che «she was never able or willing ro reimagine it» 291. Il
viaggio, tuttavia, che la condusse dall’Africa all’America fu un viaggio di morte;
molti schiavi che furono traghettati lungo l’Atlantico insieme a lei morirono e
sebbene la Wheatley non sentisse mai l’esigenza di tornare su quel triste episodio
della sua vita, un numero sorprende di liriche giovanili, soprattutto contenute nella
raccolta del 1773, trattano del tema della morte: On the Death of a young Lady of
five Years of Age, On the Death of a young Gentleman, To a Lady on the Death of
her Husband, To a Lady on the Death of three Relations, To a Clergyman on the
Death of his Lady, A Funeral Poem on the Death fo an Infant aged twelve
Months, To a Lady, To a Lady and her Children on the Death of the Lady’s
Brother and Sister, and a Child of the Name of Avis, aged one Year, On the Death
of Dr. Samuel Marshall, On the Death of J. C. and Infant, To the Hon. T. H. Esq;
on the Death of his Daughter Niobe in Distress for her Children slain by Apollo,
from Ovid’s Metamorphoses, Book VI, and from a View of the Painting of Mr.
Richard Wilson, To his Honour the Lieutenant-Governor, on the Death of his
Lady. Si tratta di ben 12 liriche su 37 molte delle quali, come si evince dai titoli,
dedicate a bimbi morti prematuramente; secondo Carretta, questo senso della
morte era la conseguenza del trauma subito nel corso del “middle passage”
durante il quale la Wheatley, probabilmente, vista la giovane età non dovette
subire abusi sessuali come le altre schiave, «But her presumed relative freedom of
movement and freedom from the torea of physical abuse would not have
compensated for the unimaginable fear that a young child must have felt in such a
situation»292.
Nella produzione della poetessa, tuttavia, il tema della schiavitù si trova
spesso presentato in modo indiretto e mescolato a temi come l’evangelismo e il
patriottismo. Ad esempio, nella lirica To The Right Honourable William, Earl of
290
Riportato da JACKSON V., The poet’s Poetess, in LARSON K. (a cura di), Nineteenth-Century
American Poetry, Cambridge University Press, London, 2011, p. 72, nota 21 (pp. 54-75).
291
CARRETTA V., Phillis Wheatley: Biography of a Genius in Bondage, cit., p. 10.
292
Ibidem.

81
Dartmouth His Majesty’s Principal Secretary of State of North America, ecc.,
sebbene velatamente, la Wheatley mescola il sentimento evangelico a quello
patriottico e antischiavista. Si legge:

No more America in mournful strain


Of wrongs, and grievance unredress’d complain,
No longer shalt Thou dread the iron chain,
Which wanton tyranny with lawless head
Has made, and with it meant t’enslave the land
Should you, my Lord, while you peruse my song,
Wonder from whence my love of Freedom sprung,
Whence flow these wishes for the common food,
By feeling hearts alone best understood,
I, young in life, but seeming cruel of fate
Was snatch’d from Afric’s fancy’d happy seat.
What pangs excruciating most molest
What sorrows labour in my parent’s breast?
Steel’d was that soul and by no misery mov’d
That from a father seized his babe belov’d
Such, such my case. And can I then but pray
Others may never feel tyrannic sway?

Nella lirica la Wheatley parla di un’America che rinnega la “catena di


ferro”, pronta a riparare le offese fatte, decisa a non ripetere la tirannia sfrenata e
senza legge che rese la schiavitù possibile. Quindi segue l’invocazione al Signore,
a quel Dio che ha conosciuto nella terra dove è stata tratta come schiava, e parla a
Lui del suo amore per la libertà e del desiderio di un “cibo comune”. Strappata,
giovane, dalla sua terra africana, terra che definisce “diletta” e “felice”, ripensa ai
suoi cari e alle sofferenze che il suo rapimento deve aver inferto loro, un dolore
che, forse, ha indurito i loro cuori. Questa sua esperienza, scrive, è ciò che la
muove a non volere mai che altri soffrano ciò che lei e la sua famiglia hanno
patito, motivo per cui il suo appoggio non può che andare alla causa
antischiavista293.
Nel periodo in cui la Wheatley scrive questa poesia e On Being Brought
from Africa to America, la sua emancipazione dalla schiavitù non era ancora
avvenuta il che, probabilmente, giustifica la sua titubanza a esprimersi in toni
chiari ed espliciti come farà in seguito. Non mancano in queste due liriche il

293
Stesso sentimento, espresse ancora più esplicitamente, si trova anche in un’altra lirica di
qualche anno posteriore, On the Death of General Wooster (1778).

82
suggerimento dell’avversione divina alla schiavitù il che, allusivamente, è un
rimprovero ai proprietari, in particolare cristiani, di schiavi 294. In diverse liriche,
come ha evidenziato Scheick, la Wheatley, parafrasa Isaia, che diventa una sorta
di “seconda voce” che le permette di condannare lo schiavismo, si pensi, ad
esempio, a Goliath of Garth (paragradi del 1 Sam. 17) e anche in Isaiah LXIII. 1-
8, liriche che, apparentemente, possono sembrare espressione di quello che
Scheick definisce un «logonomic conflit»295 e che, per tale motivo, sono stati poco
considerati dalla critica; per Scheick, tuttavia, ««They not only provide insight
into the poet’s manner in “On Being Borught from Africa to America”; they also
evidence an artistic performance barely glimpsed by most readers of Wheatley
poetry»296. In Goliath of Garth si legge:

The battle his, the conquest he bestows,


“And to our pow’r consigns our hated foes”.
Thus David spoke; Goliath heard and came
To meet the hero in the field of fame.
Ah! fatal meeting to thy troops and thee,
But thou wast deaf to the divine decree;
Young David meets thee, meets thee not in vain;
[…]
Scarce had he spoke, when the Philistines fled:
But fled in vain; the conqu’ror swift pursu’d:
What scenes of slaughter! and what seas of blood!
There Saul thy thousands grasp’d th’ impurpled sand
In pangs of death the conquest of thine hand;
And David there were thy ten thousands laid:
Thus Israel’s damsels musically play’d.

Foster, in particolare, ha evidenziato che in questa lirica la Wheatley


considera Davide come un servo dalle umili origini e come un poeta che viene da
una terra lontana297 ed è possibile, secondo Scheick, che la Wheatley, in quanto
donna di colore che viveva in una Boston sostanzialmente bianca, possa aver

294
SCHEICK W., Phillis Wheatley’s Appropriation of Isaiah, in “Early American Literature”, 22,
fall. 1992, p. 137 (pp. 135-140).
295
Ricordiamo che i sistemi logonomici sono quelli che prescrivono chi nella società è deputato a
produrre e chi a ricevere significati sociali, in modo tale che sia possibile distinguere tra regimi di
produzione e regimi di ricezione. HODGE R., KRESS G., Social Semiotics, Polity, Oxford, 1988,
pp. 3-12.
296
SCHEICK W., Authority and Female Authorship in Colonial America, The University Press of
Kentucky, Lexington, 1998, p. 110.
297
FOSTER F., Written by Herself: Literary Production of African American Women, 1746-1892,
Indiana University Press, Bloomington, 1999, p. 41.

83
trovato nella biblica figura di David la rappresentazione di se stessa, al quale
andava il favore divino per il fatto di essere un individuo, per il colore della pelle,
in minoranza rispetto ai suoi simili298. Come la Wheatley,anche David è
disarmato, ma viene in nome del Signore e questo gli garantisce in qualche modo
la vittoria, vittoria che la poetessa conquista attraverso le parole dei suoi versi. Il
ricorso a una “seconda voce”, in questo caso quella di Isaia, è, come ha
evidenziato Slemon, una tecnica ricorrente nella «resistance literature»299.
Questo tipo di interpretazione sembra sostenuta da numerosi predicatori
del diciottesimo secolo che concordavano con la Wheatley nel considerare David
un prescelto da Dio per liberare i popoli della terra dalla schiavitù; furono proprio
alcuni di questi prelati, dai loro pulpiti, la principale fonte di conoscenza del testo
biblico da parte della Wheatley che, in seguito, lo fece sua e lo reinterpretò 300
rendendo le proprie “parole” simile alle armi bibliche. Attraverso la figura del
biblico Davide la Wheatley racconta, in versi, lo strazio di un popolo ridotto in
schiavitù e deportato da schiavisti (Filistei) travestiti da cristiani301. Come ha
scritto Henry, «for those like David, who come swordless but in the name of God,
the chief implement of victory is their adversaries’ own language turned against
them»302. Questo approccio risulta particolarmente interessante in quanto permette
di ricostruire, attraverso la lettura di questa “seconda voce”, una serie di ricchi e
spesso celati riferimenti sulla schiavitù in molte liriche di questa raccolta. In tutti i
casi, infatti, è dove maggiore appari la parafrasi del Testo sacro che la Wheatley
rimanda a significati altri in particolare allo schiavismo.
Come si è detto, le opere della Wheatley furono particolarmente importanti
in quanto la scrittrice, così come lo fu Equiano, appartenne alla generazione che
aveva effettivamente sofferto il trauma del middle passage, esperienza, questa,
che aveva lasciato su chiunque ne fosse stato oggetto segni indelebili a livello sia
fisico sia psicologico e di cui, poi, si trova intensa traccia nei componimenti.
298
SCHEICK W., Authority and Female Authorship in Colonial America, cit., p. 111.
299
SLEMON S., Unsetting the resistance Theory for the Second Word, in “World Literature
Written in English”, 28, 1990, p. 31 (pp. 30-41).
300
GREENSLADE S. L., The Cambridge History of the Bible, 3. vol., Cambridge University
Press, Cambridge, 1963, p. 493; FRERICHS E. S. The Bible and Bibles in America, Scholars,
Atlanta 1988, p. 4.
301
SCHEICK W., Subjection and prophecy in Phillis Wheatley’s verse paraphrases of scripture, in
“College Literature”, vol. 22, n. 3, 1995, pp. 122-131.
302
HENRY M., Commentary on the Whole Bible, 1706, 2, p. 378.

84
Come osserva Gillroy «attraverso la loro notevole padronanza del genere, dello
stile e dell’idioma espressivo, questi testi ci richiedono una sofisticata capacità di
comprensione del sincretismo, dell’adattamento e della mescolanza culturale.
Possiamo naturalmente individuare elementi nell’opera della Wheatley che
tradiscono la presenza residua di religiosità africana. […] ma le […] opere
esigono di essere valutate in termini diversi, come formazioni composite» 303.
L’opera della Wheatley resta tuttora oggetto di grande interesse da parte della
critica letteraria che continua a valutare la sua padronanza del neoclassicismo
inglese, l’adesione alla lotta rivoluzionaria americana e la sua denuncia, anche se
spesso velata o “parafrasata” dal testo biblico, sulla schiavitù. Se, infatti, la
Wheatley ringrazia “Twas mercy brought me from my Pagan land” altrove
esprime tutto il suo disappunto sulla tratta degli schiavi, considerandola
un’ingiustizia e un’immoralità304. Resta il fatto, come scrive la Jordan, che la
Wheatley con la sua produzione contribuì a diffondere un sentimento di disagio
nei confronti della tirranide e «il contenuto costantemente concreto del suo tributo
ai rivoluzionari che avrebbe forgiato l’America, uno stato nazionale indipendente,
proprio la specifica sostanza quotidiana della sua poesia pone Phillis Wheatley
come la prima poeta decisamente americana in questo continente, nera o bianca,
maschio o femmina»305.

§. 3.3 Harriet Beecher Stowe, l’antischiavismo di un’attivista


Harriet Elisabeth Beecher nacque a Litchfield, nel Connecticut, il 14
giugno 1811306, settima di 13 figli307 (tra cui Henry Ward Beecher che diventerà un
famoso ministro e conferenziere congregazionalista)308, dall’appassionato ministro
presbiteriano Lyman Beecher (1775-1863) e Roxana Foote. Suo padre Lyman era
un rigido calvinista, piuttosto arcigno in famiglia ma di convinzioni antischiaviste
e, in palese contraddizione con tutti i propri modelli di vita, fervente ammiratore
303
GILLROY P., The Black Atlantic, cit., p. 20.
304
Ivi, p. 21.
305
JORDAN G., Il difficile miracolo della poesia nera in America, cit., p. 9.
306
McFARLAND P., Loves of Harriet Beecher Stowe, Grove Press, New York, 2007, p. 112.
307
HEDRICK J., Fanny Fern: an Independence Woman, Oxford University Press, Oxford-New
York, 1994, p. 6.
308
GRANDE G., Voce Stowe, Harriet (Elisabeth) Beecher, in Dizionario della letteratura
Americana, cit., p. 363.

85
del dissoluto lord Byron309; la madre, certamente, avrebbe potuto compensare
l’anaffettività paterna ma, disgraziatamente, morì quando Harriet non aveva
ancora quattro anni. Completamente assorbito dal suo ufficio, Lyman aveva
pochissimo tempo da dedicare all’educazione dei figlioli e così, dopo due anni di
vedovanza, tornò a sposarsi310.
Delicata e impressionabile, Harriet trovò nella lettura un formidabile
moltiplicatore alle proprie fantasie. Leggeva di tutto: testi religiosi, biografie,
racconti storici. Le erano vietati i romanzi, considerati, secondo la rigida morale
del tempo, non adatti a una fanciulla. Gli unici consentiti dall’intransigente
genitore erano i romanzi storici di Walter Scott, ma, di nascosto, Harriet leggeva
le Mille e una notte. Nel corso della sua gioventù Elisabeth frequentò una scuola
privata gestito dalla sorella Catherine, dove ricevette un’educazione maschile
nelle materie classiche, incluso lo studio delle lingue e della matematica 311. Tra i
suoi compagni di classe vi era Sarah P. Willis che, in seguito, scriverà sotto
pseudonimo, Fanny Fae312. Come ricorda Grande, « Harriet passò la gioventù
chiusa nel suo mondo interiore, dedita a costruzioni fantastiche, in parte
compensate dalle idee liberali dello zio, Samuel Foote, e dalla lettura di romanzi
d’avventura come quelli di Scott, che influenzarono poi la sua produzione»313.
La stessa Harriet racconta che, seduta ben composta nel proprio banco,
fingeva di svolgere i compiti, mentre, invece, seguiva interessata le lezioni di
storia e retorica che gli insegnanti rivolgevano ai ragazzi più grandi. A soli dodici
anni ottenne un riconoscimento pubblico per aver scritto una relazione su un tema
indicativo di una grande precocità intellettuale: Si possono ricavare dalla natura
le prove dell’immortalità dell’anima? Incoraggiata da questo primo successo, la

309
HEDRICK J. D., Harriet Beecher Stowe: a Life, Oxford University Press, Oxfrod-New York,
2004, p. 167
310
Ivi, p. 169.
311
Catharine Beecher era stata la fondatrice di uno dei primi istituti superiori per l’educazione
femminile negli Stati Uniti e nota autrice di trattati di economica domestica; la sorella, Isabelle
Beecher Hooker, era attiva nell’alta più radicale del movimento suffragista e legata da amicizia a
Victoria Woodhull, scandalosa esponente del movimento dell’amore libero. FRANCO V., Una
donna alla ricerca della libertà, Prefazione a PERKINS GILMAN C., La terra delle donne.
Herland e altri racconti (1891-1916), a cura di A. Sacchi, Donzelli, Roma, 2011, p. XIX (pp. IX-
XVI).
312
WARREN J., Harriet Beecher Stowe: a Life, Oxford University Press, Oxford-New York,
1992, p. 21.
313
GRANDE G., Voce Stowe, Harriet (Elisabeth) Beecher, in Dizionario della letteratura
Americana, cit., p. 363.

86
ragazza si buttò nello studio; un anno dopo traduceva Ovidio in versi inglesi e
sempre in versi scrisse un dramma, il Cleone del quale si hanno pochissime
notizie (si sa solo che probabilmente si trattava della storia di un nobile greco alla
corte di Nerone, Cleone che, tra continui scrupoli morali e contraddizioni
religiose, finiva naturalmente per convertirsi al cristianesimo) 314. All’età di 21 ani,
nel 1832, Elisabeth partì dal Connecticut e si trasferì a Cincinnati nell’Ohio, una
città separata dagli Stati schiavisti del Kentucky dal fiume Ohio, per raggiungere
il padre che, nel frattempo, era diventato presidente del Seminario Teologico di
Lane. Nel 1833, la Stowe fu autrice di un libro di testo, Primary Geography for
Children, richiestole dalla sorella che lamentava la mancanza di un buon manuale
di geografia315.
Fu nel Semi-Colon Club, fondato a Cincinnati nel 1820 che accettava
anche le donne, un salotto letterario e club sociale di cui facevano parte le sorelle
della Beecher, Caroline Lee Hentz, Salomon P. Chase, Emily Backwell e altri316,
che Elisabeth incontrò Calvin Ellis Stowe (1802-1886), allora vedovo, e
professore nel seminario di teologia del padre. Nel club, dove la giovane Elisabeth
si recava una volta alla settimana per ascoltare e discutere le varie tematiche
proposte dai membri, alla fine delle discussioni i partecipanti si davano alle
danze317. I saggi che venivano proposti erano in seguito raccolti in pubblicazioni
periodiche nel “Western Monthly”, edito da Judge James Hall, che era anche
membro del club. Nel 1834, il settimanale di Cincinnati “Chornicle”, diffuso da
un membro del Semi-Colon Club, cominciò a pubblicare i saggi della Stowe e, nel
1835, la scrittrice cominciò a scrivere anche per “The Evangelist” (di New York).
Come spiega Parfait «The circulation of article and stories from one periodical to
another was extremely common and represented one way for writers to become, if
not wealthy, at least better knows»318; come spiegherà la Stowe stessa «A young
314
LUCIANI L., L’abolizione della schiavitù passò anche attraverso la sua penna, marzo 2006, in
http://scienzaepace.unipi.it/old/index.php?option=com_content&view=article&id=291:harriet-
beecher-stowe-la-piccola-signora-della-grande-causa&catid=14:pace-e--cammini-di-pace
315
HEDRICK J. D., Harriet Beecher Stowe, cit., p. 70.
316
TONKOVIC N., Domesticity with a difference: the Non fiction of Catherine Beecher, Sarah J.
Hale, Fanny Fern, and Margaret Fuller, University Press on Missisippi, Jackson, 1997, p. 12.
317
TONKOVICH N., Writing in Circles: Harriet Beecher Stowe, the Semi-Colon Club, and the
Construction of Woman’s Authorship, in HOBBS C. (a cura di), Nineteenth-Century Women
Learn to Write, University Press of Virginia, Charlottesville, 1995, pp. 145-175.
318
PARFAIT C., The Publishing History of Uncle Tom’s Cabin, 1852-2002, Ashgate Publishing
Company, Aldershot, 2007, p. 8.

87
man (or woman), unknown, and without patronage or means of putting himself
forward, writes a sketch or article, and sends it to a paper. If there is anything in it,
he hears from it. Somebody is pleased, and lets him know it. The piece, perhaps,
is copied into another paper, into a third; by and by, it goes travelling round the
country. The paper he sent it to, seeing that it takes, writes for more of the same
sort»319
In quegli anni, in occasione di una visita in Kentucky, la giovane scrittrice
ebbe modo di osservare la vita degli schiavi, restandone profondamente segnata;
questa esperienza, abbinata ai sentimenti antischiavisti predominanti nella scuola
del padre, formeranno l’humus della sua scrittura. Harriet e Calvin si sposarono il
6 gennaio del 1836320. Verso suo marito, un uomo molto colto e preparato, la
Stowe non provò mai un sentimento profondo. Poche ore prima delle nozze, in
una lettera a un’amica, Harriet confidava che, sebbene inizialmente avesse
provato un’apprensione indicibile, man mano che si avvicinavano le nozze la sua
tensione saliva tanto da non lasciarle chiudere occhio, soprattutto per l’ansia che
le metteva il cambiamento di vita cui stava andando incontro, ma che, tuttavia,
giunto il giorno del matrimonio sentiva di non provare più nulla. Per Luciani è
ipotizzabile che Harriet acconsentisse a quel matrimonio per non pesare più sulla
propria famiglia, numerosa e continuamente alle prese con non facili problemi
economici; e, forse, proprio le ragioni che la portarono all’altare con Calvin, nei
primi anni di convivenza, la signora Stowe si rivelò tutt’altro che una compagna
accondiscendente, senza contare i rovesci economici e i problemi di salute che la
famiglia dovette affrontare321.
Non mancarono momenti in cui la coppia non aveva letteralmente di che
sfamarsi ma Harriet, in quelle occasioni, diede prova di grandi capacità umane e,
mentre la famiglia cresceva (la coppia ebbe ben sette figli), riuscì a trovare la sua
via come scrittrice. «Between 1836 and 1850», come scrive Bell, «she gave birth
to seven children, she suffered at least two miscarriages, she was frequently
prostrated by her pregnancies and recoveries, and when she was well enough to

319
BEECHER STOWE H., How Many I Know that I Can Make a Writer?, in “Hearth and Home”,
1/6, 30 gennaio 1869, p. 88; si veda, anche, McGILL M., American Literature and the Culture of
Reprinting, 1834-1853, Philadelphia University Press, Philadelphia, 2003.
320
McFARLAND P., Loves of Harriet Beecher Stowe, cit., p. 21.
321
LUCIANI L., L’abolizione della schiavitù, in sito cit.

88
write, there was a growing family to care for»322. Il carico di lavoro domestico e la
quantità di cure parentali che le vennero richieste fu tale che, nel 1839, Harriet
non ne poté più; in una lettera scritta a un’amica dice: «I’am determined not to be
a mere domestic slave, without even the leisure to excel in my duties» 323. Stretta
nel nuovo ruolo di moglie, la Stowe spesso scappava dai suoi doveri domestici per
scrivere dei brevi racconti. Supportata dal marito e dalla sorella, tuttavia, le fu
presentato un editore che, nel 1843, pubblicò una sua raccolta di brevi storie dal
titolo The May Flower. Qualche anno dopo la famiglia del marito fu funestata dal
suicidio del fratello George mentre, nel frattempo, era nata la terzogenita della
donna, una bambina che le richiese tante e tali attenzioni da farla ammalare. A
quel punto la sorella, Catharine, pagò a Harriet un soggiorno in un centro di cura
termale dove la Stowe restò per ben 15 mesi; al suo ritorno a Cincinnati diede alla
luce il suo sesto figlio324.
Di fronte alla necessità di aumentare il misero budget familiare, Harriet
decise di mettere a disposizione della famiglia la sua predisposizione alla scrittura;
fu così, spinta dalle necessità materiali, che iniziò a scrivere novelle che ebbero
una buona accoglienza da parte dei lettori. Inoltre riuscì a produrre articoli di
costume e racconti che iniziarono a farla conoscere a un numero sempre più vasto.
Questa fase della vita di Herriet Beecher-Stowe, tuttavia, si chiuse tragicamente
nel 1849325 a causa della morte di un figlio (Charles) avvenuta nel corso di
un’epidemia di colera; si trattò di un evento doloroso al quale, fortunatamente,
fece eco un discreto miglioramento delle condizioni economiche della famiglia.
Di questa vicenda, tuttavia, la Stowe scriverà: «It was at his dying bed that I
learned what a poor slave mother may feel when her child is torn away from her.
In those depths of sorrow which seemed to me immeasurable, it was my only
prayer to God that such anguish might not be suffered in vain… I felt that I could
never be consoled for it unless this crushing on my own heart might enable me to
work out some great good to others»326. L’anno successivo, infatti, sarebbe stato
322
DAVITT BELL M., Culture, Genre and Literary Vocation: Selected Essays on American, The
University of Chicago Press, London, 2001, p. 167.
323
Citato in Ivi, pp. 167-168.
324
CARLSON J., Uncle Tom’s Cabin and the Abolitionism Movement, The Rosen Publishing
Group, New York, 2004, pp. 28-29.
325
DAVITT BELL M., Culture, Genre and Literary Vocation: Selected Essays on American, cit.,
p. 168.
326
Citato in Ibidem.

89
l’anno che avrebbe assegnato alla Stowe un posto nell’Olimpo degli scrittori; la
maggiore serenità finanziaria le permise di dedicarsi in modo più attivo alla vita
politico-culturale della società americana del suo tempo divisa sulla questione
della schiavitù tra abolizionisti e antiabolizionisti.
Nel 1850, quando il Congresso americano approvò il Fugitive Slave, che
vietava di dare assistenza agli schiavi latitanti, Harriet si era trasferita con la
famiglia in una casa vicino al Bowdoin College a Brunswick, nel Maine, dove il
marito stava insegnando. Il 9 marzo 1850 la donna scrisse a Gamaliel Bailey,
allora direttore del settimanale antischiavista “National Era”, informandolo del
fatto che aveva intenzione di scrivere una storia che avesse come tema la
schiavitù. «I feel now that the time is come when even a woman or a child who
can speak a word for freedom and humanity is bound to speak… I hope every
woman who can write will not be silent»327.
In base alla Fugitive slaw law328 nessuno schiavo fuggiasco poteva trovare
asilo negli Stati dell’Unione e tutti i cittadini americani erano obbligati a restituire
al proprietario ogni schiavo nero fuggito al Nord; per rendere più malleabili gli
eventuali scrupoli morali degli ufficiali pubblici, ai quali veniva affidato l’ingrato
compito di decidere del destino dello schiavo, fu previsto un premio in denaro. Al
Nord, naturalmente, le proteste non mancarono e l’atteggiamento fu, non solo,
quello di rifiutarsi di catturare gli schiavi fuggiaschi, ma anche di aiutarli
raggiungere la libertà in Canada, appoggiandosi alla già citata underground
railroad, la “ferrovia sotterranea” che favoriva gli schiavi in fuga. Di fronte a
quella che gli abolizionisti considerarono l’ennesima ingiustizia e un vero e
proprio atto di crudeltà contro la popolazione di colore, Harriet, che già nel 1836
aveva assistito al saccheggio degli uffici e della redazione del “Philantrope”,
giornale abolizionista diretto da un amico della famiglia Stowe, da parte di
proprietari di schiavi, e si era resa conto che il sindaco della città aveva
appoggiato i teppisti, aveva espresso la sua indignazione che pubblicamente ed

327
HEDRICK J., Fanny Fern: an Independente Woman, cit., p. 6.
328
Il Fugitive Slave Act fu, di fatto, una concessione agli stati del Sud, in cambio dell’ammissione
nell’Unione dei territori ottenuti con la guerra messicana (in particolare la California) come stati
non schiavisti. Grazie alla legge i proprietari schiavisti potevano prendere facilmente gli ex
schiavi, o anche altri neri, sostenendo che erano fuggiti. I neri del nord si opposero alla legge
criticando in modo molto duro il presidente Fillmore, che l’aveva firmata, e il senatore Daniel
Webster, che l’aveva appoggiata. ZINN H., Storia del popolo Americano, cit., p. 127.

90
energicamente329. Fu proprio in quegli anni che Harriet ricevette una lettera da sua
cognata nella quale le scriveva: «Se avessi una penna eloquente come la tua,
scriverei un libro per mostrare alla nazione quale abominio sia la schiavitù», si
dice che a questa lettera la Stowe esclamasse «Sì! Se Dio mi dà vita, scriverò un
libro»330.
Poco dopo, nel giugno del 1851, all’età di 40 anni, fu pubblicata la prima
puntata di quelle che sarebbe diventato il suo capolavoro Uncle Tom’s Cabin,
sulle pagine del “National Era”, un giornale abolizionista del quale divenne una
contribuente regolare. Originariamente la Stowe utilizzò il sottotitolo The Man
that was a Thing ma, subito dopo, il titolo si trasformò in Life among the Lowly331.
Le puntate furono pubblicate settimanalmente dal 5 giugno 1851 al 1° aprile
18952, mentre il libro fu pubblicato solo nel marzo del 1852 da John P. Jewett con
una tiratura iniziale di 5,000 copie332. Ciascuno dei due volumi includeva tre
illustrazioni e la pagina del titolo disegnata da Hammat Billings 333. In meno di un
anno il libro vendette trecentomila copie334. A dicembre le vendite cominciarono a
diminuire e l’editore decise di passare a un’edizione più economica per facilitare
l’acquisto del romanzo335.
Mentre Harriet aveva dato alle stampe il suo romanzo, il marito, Calvin
Ellis, che era un convinto abolizionista, sosteneva la uderground railroad,
nascondendo presso la sua abitazione, molti schiavi fuggitivi; Harriet fu,
oltremodo un’attivista, ma dopo l’uscita del suo libro fu accusata di non conoscere
davvero il mondo che aveva raccontato costringendola, per difendersi dall’accusa,
a pubblicare A Key to Uncle Tom’s Cabin (1853) nel quale la scrittrice raccolse
una serie di documenti, registrazioni di tribunale, articoli di giornale e lettere
private per dimostrare lo zelo che aveva riposto nella sua scrittura. I lettori del
Sud, naturalmente, si sentirono oltraggiati dal romanzo della Stowe e
considerarono il libro una «crude caricature» anche se nel suo A Key la scrittrice si
329
LUCIANI L., L’abolizione della schiavitù passò anche attraverso la sua penna, in sito cit.
330
Ibidem.
331
McFARLAND P., Loves of Harriet Beecher Stowe, cit., p. 112.
332
Ivi, pp. 80-81.
333
PARFAIT C., The Publishing History of Uncle Tom’s Cabin, 1852-2002, Ashgate Publishing,
London, 2007, pp. 71-72.
334
MORGAN J. A., Uncle Tom’s Cabin as Visual Culture, University of Missouri Press, 2007, pp.
136-137.
335
PARFAIT C., The Publishing History of Uncle Tom’s Cabin, 1852-2002, cit., p. 78.

91
profuse nello spiegare che ciò che raccontava, sebbene in forma romanzata,
corrispondesse a verità: «This work, more, perhaps, than any other work of fiction
that ever was written, has beeb a collection adn arrangment of real attere, grouped
together with reference to a general result, in the same manner that the mosaic
artist groups his fragments of various stones into one general picture. His is a
mosaic of gems – this is a mosaic of facts»336.
Nel 1853, la Stowe si recò a Londra dove fu ricevuta con grandi onori e
tanto entusiasmo da volerlo immortalare nelle pagine di Sunny Memories of
Foreign Lands (1854). Sempre per sostenere la causa dell’antischiavismo scrisse
un secondo romanzo, Dred: A Tale of the Great Dismal Swamp (1856) dove
affrontava l’effetto negativo che la schiavitù aveva sui bianchi. Questi due primi
romanzi, come scrive Boitani, sono frutto del clima abolizionistico, bianco e nero,
del fanatismo religioso puritano e dai racconti degli ex-schiavisti; da questi
caratteri, secondo Boitani, la «Stowe deriva […] i motivi, i caratteri ed i “plots”
delle proprie storie; la “pietà” di Uncle Tom’s Cabin è troppo nota […] meno noto
è forse che il tema di Dred deriva dalle Confessions of Nat Turner del 1821; e del
resto anche il personaggio dello Zio Tom è tratto dalla Autobiography di Josiah
Henson del 1851»337.
Riguardo allo stile e al modo in cui la Stowe trattò le sue fonti, Moers
sostiene che: «Il metodo – e l’ingenuità – derivano da Scott, il romanziere che ella
preferiva e che più aveva studiato. Pare quasi che ella si sia immersa negli scritti
di schiavi fuggiaschi ed in altri documenti della schiavitù e che poi si sia inventata
… un’immaginaria società di negri inverosimilmente pittoreschi ed abbia
presentato la sua creazione come idealmente rappresentativa della complessa
realtà, cioè come “verità assoluta”»338. Non fu tanto lo stile che fece guadagnare
alla Stowe un successo così incredibile; il suo «racconto sentimentale e
moralistico, che fu tradotto in tutte le lingue o quasi, riguarda meno le sue
intrinseche qualità letterarie che la passione con la quale il suo autore vi difende la
più nobile delle cause: l’abolizionismo della schiavitù. Pubblicato quasi

336
BEECHER STOWE H., A Key to Uncle Tom’s Cabin, vol. I, John P. Jewett, Boston, 1854, p. 5.
337
BOITANI P., Prosatori negri americani del Novecento, Edizioni di Storia e letteratura, Roma,
1973, p. 26.
338
MOERS E., Mrs. Stowes Vengeance, in “The New York Review of Books”, XV, 4, settembre 3,
1970, p. 27.

92
contemporaneamente, Moby Dick (1851), il capolavoro di Melville, ricevette, al
contrario, un’accoglienza sfavorevole»339. Dopo aver ottenuto tanto successo, la
Stowe fu contattata da Harriet Jacobs, autrice di Incidents in the Life of a Slave
Girl, la quale, per risolvere le difficoltà legate alla scrittura, si rivolse alla Stowe
«ma il progetto i fare della grande scrittrice abolizionista la propria “autrice” era
naufragato sia per la poca delicatezza mostrata da Stowe, sia perché Jacobs
pensava che “[La storia della mia vita] non ha bisogno di alcun trattamento
romanzesco»340.
Grazie anche al libro della Stowe, l’agitazione antischiavista si trasformò
in una guerra aperta. Dieci anni dopo l’uscita del suo capolavoro, infatti, gli Stati
del Nord dichiararono guerra agli stati del Sud, iniziando una guerra che sarebbe
durata ben cinque anni. Per nulla preoccupata del conflitto, la Stowe visse la
dichiarazione di guerra come necessaria; si trattava, ai suoi occhi, di un conflitto
che vedeva contrapposti il Bene e il Male. La scrittrice era ben consapevole degli
orrori e delle sofferenze inferte dalle guerre, ma era pronta ad affrontarli
ritenendoli il necessario corollario di ogni evento bellico; era sua convinzione,
inoltre, che il sangue americano che sarebbe stato sparso non era altro che la
doverosa espiazione del sangue africano fatto scorrere per secoli dagli schiavisti
nel suo paese341.
Intensa e ininterrotta, nel frattempo, al ritmo di un libro l’anno, fu la sua
produzione letteraria. Nel 1859 scrisse The Minister’s Wooing, contennte un
attacco all’estremismo calvinista, nel 1862 The Pearl of Orr’s Island342. Dopo
l’inizio della Guerra Civile, la Stowe viaggiò a Washington DC e lì ebbe
l’opportunità di incontrare il Presidente Anbramo Lincoln. Era il 25 novembre
1862343. Si racconta che dopo l’incontro, Lincoln salutasse la Stowe con le
seguenti parole «so you are the little woman who wrote the book that started this

339
SOUILLER D., Il campo anglosassone, in SOUILLER D., TROUBETZKOY W. (a cura di),
Letteratura comparata, vol. 3, Armando editore, Roma, 2002, p. 161 (pp. 113-166).
340
Lettera di Harriet Jacobs a Amy Post del 4 aprile 1853, in JACOBS H., Incidents in the Life of a
Slave Girls. A Norton Critical Edition, a cura di N. Y. McKay, F. Smith, W. W. Norton &
Company, New York-London, 2001, p. 235.
341
RICHARDSON J. M., Christina Reconstruction: the American Missionary Association and
Southerm Blacks, 1861-1890, The University of Alabama Press, Tuscaloosa, 2009, p. 164 e ss.
342
GRANDE G., Voce Stowe, Harriet (Elisabeth) Beecher, in, cit., p. 363.
343
McFARLAND P., Loves of Harriet Beecher Stowe, cit., p. 163.

93
great war»344. In effetti dell’incontro si seppe poco o nulla; la figlia della Stowe,
Hattie, raccontò che «It was a very droll time that we had at the White house [sic]
I assure you… I will only say now that it was all very funny – and we were ready
to explode with laughter all the while» 345. La Stowe, in una lettera al marito, restò
sul vago dicendo solo «I had a real funny interview with the President»346.
Nel 1870, scriveva Lady Byron Vindicated (1870), nel quale sosteneva che
Byron avesse avuto rapporti incestuosi con la sorella; il libro le procurò l’accusa
di voler fare dello scandalismo e le attirò contro il disfavore dell’opinione
pubblica inglese. Lo stesso anno il fratello del marito, Henry Ward Beecher, fu
accusato di adulterio e divenne oggetto di uno scandalo nazionale. Il marito di
Harriet, incapace di resistere alla tensione, fuggì in Florida, chiedendo alla
famiglia che lo tenesse informato sulle sorti del fratello, inviandogli i giornali che
trattassero il caso347; Calvin Ellis, comunque, restò sempre accanto al fratello della
cui innocenza rimase profondamente convinto348.
Negli anni a seguire, numerosi furono i libri pubblicati dalla Stowe: Pink
and White: Tyranny (1871), una satira sociale, My Wife and I (1871), un libro
sulla rivendicazione femminile, Sam Lawson’s Oldtown Fireside Stories (1872),
We and Our Neigbors (1875), sempre sulla rivendicazione femminile, Poganuc
People (1878) dove raccontò della sua infanzi. Si trattò, per lo più, di romanzi e
storie legate alla sua infanzia e alla giovinezza rivissute con acuta e intima
partecipazione. Nessuna di queste, e delle opere minori, che la Stowe scrisse nel
corso della sua vita, però, eguagliò più il successo di Uncle Tom’s Cabin, un
romanzo che è diventato un classico della letteratura mondiale. Nonostante il suo
nome restasse abbinato alla scrittura e all’antischiavismo, la Stowe, che non fu per
nulla indifferente alle grandi miserie materiali e morali che la guerra civile aveva
lasciato dietro di sé, decise di dedicare il resto della sua vita a istruire ed educare
quel popolo nero al cui affrancamento aveva così potentemente contribuito; fondò
la Hartford Art School che, in seguito, divenne parte dell’Università di Hatford.

344
BENNETT W. J., America: From the Age of Discovert to a World at War, 1492-1914, Thomas
Nelson Inc, 2006, p. 284.
345
HEDRICK J., Harriet Beecher Stowe: a Life, Oxford University Press, New York, 1995, p. 306.
346
APPLEGATE D., The Most Famous Man in America: the Biography of Henry Ward Beecher,
Three Leaves Press, New York, 2006, p. 444.
347
APPLEGATE D., The Most Famous Man in America, cit., p. 444.
348
McFARLAND P., Loves of Harriet Beecher Stowe, cit., p. 270.

94
Acquistò, quindi, una tenuta in Florida, Mandarin, dalla cui veranda continuò a
rispondere a tutte quelle lettere che da ogni parte del mondo le arrivavano. Morirà
il 1° luglio 1896, all’età di 85 anni ad Hartford, e fu sepolta nello storico cimitero
di Phillis Academy ad Andover, Massachussets349.

§. 3.4 Uncle Tom’s Cabin or Life Among the Lowly (1852)


Uncle Tom’s Cabin è un romanzo che racconta in modo emozionale e
partecipativo il tema della schiavitù. Il clamore intorno alla storia, lo straordinario
numero di copie vendute, suscitò l’opposizione del sud schiavista e
antiabolizionista; si pensi che nel corso della sua uscita 300 bambine a Boston
vennero chiamate “Eva”, dal nome di una delle protagoniste, e fu aperto un parco
a New York con lo stesso nome350. Uncle Tom’s Cabin oltre agli effetti prodotti
nel suscitare sentimenti antischiavisti, fu un caso letterario essendo il primo
romanzo a vendere un milione di copie351. Nell’edizione del 21 settembre 1852 la
Stowe scrisse una lunga prefazione al suo romanzo, nella quale ne spiegava le
ragioni. Eccone un piccolo estratto:

The scenes of this story, as its title indicates, lie among a race hitherto
ignored by the associations of polite and refined society; an exotic race, whose
ancestors, born beneath a tropic sun, brought with them, and perpetuated to their
descendants, a character so essentially unlike the hard and dominant Anglo-Saxon
race, as for many years to have won from it only misunderstanding and contempt.
[…]
The object of these sketches is to awaken pathy and feeling for the African
race, as they among us; to show their wrong and sorrows, under a system so
necessarily cruel and unjust as to defeat and do away the good effects of all that
can be attempted for them, by their best friends, under it352.

La vicenda del romanzo è ambientata nel Kentucky dove, un ricco


proprietario di schiavi, ma persona di grande umanità, Arthur Shelby, si trova
costretto a vendere a un crudele mercante di schiavi (Haley), due dei suoi schiavi:
lo zio Tom, il suo braccio destro, ed Harry, un bimbo mulatto di cinque anni,
349
Harriet Elizabeth Beecher Stowe (1811-1896)- Find a Grave Memorial, in
http://www.findagrave.com/cgi-bin/fg.cgi?page=gr&GRid=992
350
HEDRICK J., Harriet Beecher Stowe: a Life, cit., p. 306.
351
Nota 4.
352
BEECHER STOWE H. M., Uncle Tom’s Cabin or Life Among the Lowly, vol. I, cit., p. I e VI-
VII.

95
figlio di Elisa e George Harris. Prima che la transazione sia avvenuta, però, Elisa
riesce a mettersi in fuga col figlio; la donna, nonostante braccata da due scagnozzi
di Haley, trova riparo presso una colonia di Quaccheri e viene accolta dalla
famiglia Bird prima di essere raggiunta dal marito, George, con il quale, insieme
al figlio, riparano in Canada dove iniziano una nuova vita da uomini liberi. Tom,
invece, che era sinceramente legato al suo padrone, decide di restare, capendo che
le ragioni che lo avevano costretto a venderlo erano di pura necessità; così, da
buon cristiano qual era, lascia la famiglia, e segue Haley. Il figlio tredicenne di
Shelby, George, promette a Tom che prima poi lo andrà a cercare per liberarlo.
Tom viene imbarcato su un piroscafo con il mercante di schiavi e qui, per il buon
carattere, viene liberato dalle catene; incontra Eva St. Claire, una bimba che
viaggiava con il padre, un proprietario terriero della Lousiana. Un giorno la bimba
per un incidente cade in mare; Tom, allora, si getta prontamente nell’acqua e la
tira fuori. Il padre, riconoscente, lo acquista dal mercante. Eva, tuttavia, muore, e
il padre, nel corso di una rissa, nel tentativo di dividere i due litiganti, viene
colpito e muore anch’egli. Tom, allora viene comprato da Simon Legree, un uomo
privo di scrupoli e crudele, che possiede una piantagione di cotone sul Red River;
di fronte alla richiesta del nuovo padrone di trasformarsi in una sorta di aguzzino,
Tom rifiuta e il nuovo padrone lo fa uccidere. George Shelby, nel frattempo
divenuto adulto, si mette sulle tracce di Tom per riscattarlo. Arriva tuttavia
quando Tom, ormai, è morente, ma questo servirà a George come grande
insegnamento. Tornato in Kentucky, infatti, libererà tutti i suoi schiavi.
Partiamo da un interrogativo, perché “uncle”? Uncle, di fatto, era un
appellativo paternalistico che veniva utilizzato per gli schiavi di una certa età;
tuttavia, è anche vero che quando lo “zio” Tom entra in scena nel romanzo ha due
bambini piccoli e una neonata sulle ginocchia, il che fa pensare, immediatamente,
che lui e la moglie Chloe siano ancora in età fertile. È lo stesso Tom, in seguito, a
spiegare che sono i bambini a chiamarlo così, mentre i suoi coetanei lo chiamano
semplicemente Tom. La Stowe, tuttavia, resta vaga sulla cronologia del suo
personaggio; a volte sembra che ne parli come se fosse un saggio patriarca altre
come un bambino dalla franchezza infantile. Come scrive Portelli «Bambino e
patriarca, “zio” e padre (biologico e spirituale: Cassy lo chiama “father Tom”),

96
solo in punto di morte – sono passati anni, è a pezzi per le violenze subite – dice
“questo povero vecchio corpo”»353.
Protagonista indiscusso del romanzo, dunque, è Tom, un uomo di colore
che nel racconto diventa l’emblema del vero cristiano; umile e paziente come
Giobbe nell’affrontare dolori e avversità della vita, leale e pieno d’amore nei
confronti di tutti, compresi i bianchi, completamente devoto alla bimba bianca
(Eva) che gli confida le sue pene. Tom, il personaggio, appare talmente superiore
all’ambiente dell’epoca, bianco o nero che fosse, che qualsiasi lettore protestante
non poteva che sentirsi umiliato al suo confronto. La sua superiorità rese difficile
parlare dei neri in termini di “bestialità biologica” mettendo a disagio anche molti
di quelli che si professavano abolizionisti. Nel romanzo, infatti, la Stowe non
risparmia nessuno e descrive la superficialità di molti “falsi” antischiavisti nella
figura della parente bianca (Ophelia) che in visita al Nord alla piantagione,
tradisce completamente le sue posizioni cristiane, nel provare disagio a toccare la
schiava-bambina Topsy e questo perché la sua pelle nera la ripugna; Ophelia,
infatti, «had a prejudice against negroes» e «never could bear to have [..] touch» 354
la ragazza355.
Il personaggio di Topsy, sebbene nell’economia del romanzo, sia
secondario, ha attirato l’attenzione della critica. Come spiega Brown, infatti, «But
Topsy’s story as Stowe tells it, serves not to illuminate the environmental and
individual experiences that make up her life, but to fulfill Eva’s evangelical
mission. The slavegirl’s ultimate conversion helps to depict a socially engaged
operation of Christianity in which blacks as well as whites live as God’s beloved
children, all entitled to the same rights responsibilities. An unloved child, Topsy
elicits sympathy and occasions the passionately charitable feeling that Eva models
for readers of Uncle Tom’s Cabin»356.

“O Topsy, poor child, I love you!” Eva declares. “I love you, because you
haven’t had any daughter, or mother, or friends; - because you’ve been a poor,
353
PORTELLI A., Canoni americani: oralità, letteratura, cinema, musica, cit., p. 137.
354
BEECHER STOWE H., Uncle Tom’s Cabin, cit., p. 95.
355
VALTZ MANNUCCI L., La genesi della Potenza Americana. Da Jefferson a Wilson,
Mondadori, Milano, 2007, p. 49.
356
BROWN G., Reading and children: Uncle Tom’s Cabin and the Pearl of Orr’s Island, in
WEINSTEIN C. (a cura di), Harriet Beecher Stowe, Cambridge University Press, New York,
2004, p. 83 (pp. 76-91).

97
abused child!. I love you, and I want you to be good. I am very unwell, Topsy,
and I think I shan’t live a great while”357.
[…]
“Mamma, you believe, don’t you, that Topsy could become and angel, as
well as any of us, if she were a Christian?”358

Dopo che Eva muore, Ophelia, che aveva sempre manifestato un chiaro
distacco nei confronti della bimba, porta la bimba con sé nel New England dove
Topsy diventa evangelista.

At the age of womanhood, she was, by her own request, baptized, and
became a member of the Christian church in the place; and showed so much
intelligence, activity, and zeal, and desire to do good in the world, that she was at
last recommended, and approved as a missionary to one of the stations in Africa;
and we have heard that the same activity ad ingenuity, which when a child made
her so multiform and restless in her developments, is now employed, in a safe and
wholesome manner, in teaching the children of her own country359.

Attraverso questa visione la Stowe pare appellarsi ai bianchi americani e ai


loro doveri cristiani; il fatto, tuttavia, che la scrittrice decida di far convertire
Topsy «makes the Christian narrative unconvincing or unsatisfying for this very
embrace of two such different children, for its simple erasure of racial difference
and macis history. For the non-believing or sceptical reader, Topsy’s conversion,
instead of strengthening the sentimental impact of the novel, seems an obvious
sentimental convention, a formal plot device that doesn’t achieve Stowe’s
intended effect (the conversion of whites). Topsy’s mischief and initial unusual
literary associations remains so memorable that her conversion disappoints
readers who sympathize with her precisely because of her endearing independent
child his ways»360. Le conclusioni, considerate da alcuni addirittura razziste, non
tolgono tuttavia valore al racconto della Stowe e alla sua portata antischiavista; il
suo, infatti, resta un messaggio preciso e incisivo che si dimostrò in grado di
cambiare il comportamento di molti361 e il loro modo di pensare.
Il libro, definito un romanzo sentimentale, è ricco di scene
“strappalacrime”, che contribuirono, però, a facilitarne la diffusione e il successo
presso il pubblico. Ogni scena, tuttavia, è strumentale alla scrittrice per
357
BEECHER STOWE H., Uncle Tom’s Cabin, cit., p. 94.
358
Ivi, p. 99.
359
Ivi, vol. II, p. 296.
360
BROWN G., Reading and children: Uncle Tom’s Cabin and the Pearl of Orr’s Island, cit., p. 84.
361
Ibidem.

98
sottolineare l’aberrazione della schiavitù. La scena della morte di Eva è una delle
più famose del libro,

There stood the two children, representatives of the two extremes of


society. The fair, high-bred child, with her goldnne head, her deep eyes, her
spiritual, noble brow, and prince-like movements; and her black, keen, subtle,
cringing, yet acute neighbour. They stood the representatives of their races. The
Saxon, born of ages of cultivation, command, education, physical and moral
eminence; the Afric, born of ages of oppression, submission, ignorance, toil, and
vice!362

Come evidenzia la Bowlby, «In marking the racial difference as social


[…], this passage avoids ascribing to all the characteristics that follow the visual
opposition of ‘fair’ and ‘dark’ any natural or necessary consequences. And this is
the overt force of Stowe’s anti-slavery argument: to disprove the distinctions
made by whites on the ground of race in favour of an appeal to a common
humanity rooted in the Christian heart»363. Si trovano in questa scena tutte le
caratteristiche della narrativa sentimentale, il potere emotivo delle lacrime, l’etica
dell’autosacrificio, le madri angeliche e le innocenti piccole bimbe. Questo
aspetto della scrittura della Stowe le valse forti critiche; si disse che nel suo
romanzo il senso della misura fosse un ospite occasionale, che il linguaggio fosse
“grondante e didascalico”, che gli spargimenti di lacrime fossero troppi, che le
prediche religiose e gli ammonimenti politici pure, così come eccessivi l’amore
filiale, quello universale, le visioni e gli inginocchiamenti, i singhiozzi e le mani
giunte, senza dimenticare la morte di innocenti e bambini 364. Tuttavia, in molti
concordarono sul fatto che «al di là della ricerca spinta della commozione, della
compassione e dell’orrore, i cambiamenti d’animo, le conversioni, le
illuminazioni, i pentimenti e le redenzioni di cui è costellato (dal cacciatore di
schiavi redento dai quaccheri fino alla conversione dei kapò Sambo e Quimbo)
servono soprattutto a dettare il cambiamento che porterà il destinatario a “feel
right”, sentire giusto e agire di conseguenza»365.

362
BEECHER STOWE H., Uncle Tom’s Cabin, cit., p. 43.
363
BOWLBY R., Breakfast in America. Uncle Tom’s cultural histories, in BHABHA H. K. (a cura
di), Narration and Nation, Routledge, London, 1990, p. 200 (pp. 197-212).
364
PORTELLI A., Dai diamanti nella polvere all’angelo dei sotterranei: per una tipologia del
patetico, in “Calibano”, 6, 1981, pp. 101-133.
365
PORTELLI A., Canoni americani. Oralità, letteratura, cinema, musica, cit., p. 140.

99
Secondo la Thompkins, si trattò di valori testuali che avevano
nell’America del tempo un grande valore, tanto da sviluppare una critica radicale
e progressiva nei confronti dello schiavismo, arrivando a far formulare delle
alternative di tipo sociale; tuttavia, a suo dire, il fine ultime della Uncle Tom’s
Cabin non era l’abolizione della schiavitù ma «The new matriarchal […]
constitutes the most politically subversive dimension of Stowe’s novel, more
disruptive and far reaching in its potential consequences than ever the starting of
war or the freeing of slaves»366. Il punto di partenza doveva essere quello della
madre buona e virtuosa dalla quale si sarebbe diffuso l’ “influsso” della nuova
società dove la persuasione morale avrebbe preso il posto della forza 367. Di parere
del tutto opposto la Douglas la quale, pur riconoscendo le «ottime» qualità del
libro della Stowe368, lesse nei tratti sentimentali l’emergere, seppure elegante, di
una superficialità assolutamente femminile tale che, a suo dire, il romanzo andava
letto come presagio dell’America commercializzata di «una perpetua Festa della
Mamma»369 o come «un’utopia fatta in serie»370.
Alcuni commentatori, inoltre, hanno sostenuto che il romanzo anticipi le
questioni riguardanti l’interpretazione del testo della storia americana e, in tal
senso, viene spesso citato questo brano:

Topsy, who had stood like a black statue during this discussion, with hands
decently folded, now, at a signal from Miss Ophelia, went on:
“Our first parents, being left to the freedom of their own will, fell from the
state wherein they were created”.
Topsy’s eyes twinkled, and she looked inquiringly.
“What is it, Tospy?” said Miss Ophelia.
“Please, Missis, was data r state Kintuch?”
“What state, Topsy?”
“Dat state dey fell out of. I used to hear Mas’r tell how we came down
from Kintuck.”
St. Clare laughed.
“You’ll have to give her a meaning, or she’ll make one,” said he. “There
seems to be a theory of emigration suggested there”371.
366
THOMPKINS J., Sentimental power: Uncle Tom’s Cabin and the politics of literary history, in
SHOWLATER E. (a cura di), The New Feminist Criticism: Essays on Women, Literature and
Theory, Virago, London,1986, p. 98 (pp. 81-104).
367
Ivi, p. 97.
368
DOUGLAS A., The Feminization of American Culture, Discus, New York, 1978, p. 295.
369
Ivi, p. 5.
370
Ivi, p. 79.
371
BEECHER STOWE H., Uncle Tom’s Cabin, cit., pp. 51-52.

100
La “teoria dell’emigrazione” cui fa riferimento Topsy372, in effetti, si
allontana dal discorso di Miss Ophelia e le questioni che questa suggerisce
riguardano la definizione di uno “stato”, sia esso inteso come “stato d’animo” sia
in termini “geografici”. In ogni caso, secondo Bowlby, «These questions are at
once theological, political, and personal: Stowe’s theories about the progress or
decline of America reveal parallel question about the progress and decline of
persons. In struggling with issues of identity and development on all these levels,
the novel finds itself embroiled in complications of regional, racial, and sexual
differences and the question of whether they are natural – God- given or
variable»373. La scelta della Stowe di affidare a Topsy il ruolo di formulare delle
domande ingenue, ma comunque perspicaci, riflette l’ambivalenza diffusa lungo
tutto il romanzo teso a trovare delle risposte sullo stato dell’America dell’epoca.
Per la Bowlby, la “teoria dell’emigrazione” può fare riferimento al movimento da
un luogo originario e incontaminato a uno diviso e alienato, oppure può essere
intesto come il movimento verso una terra promessa, nella quale si approda, dopo
una recuperata armonia374. È evidente, in sostanza, che il romanzo si piega a
diverse chiavi di lettura e chele teorie della Stowe, qua e là disseminate a volte in
modo quasi occulto per tutto il romanzo, sul progresso e sul declino dell’America,
fanno emergere questioni anche più profonde, legate al progresso e al destino
delle persone intese come individui e non come collettività.
Il testo, naturalmente, fu sottoposto a numerosissime analisi. Louis
Parrington, ad esempio, scrisse: «Malgrado gli ovvi difetti di struttura e il
sentimentalismo, è un grande documento umano, che lacerò l’atmosfera di
protezione attorno alla sacrosanta istituzione, rivelandone la fondamentale
ingiustizia»375; Wilson, diversamente, sostenne che «Esporsi nella maturità alla
lettura della Capanna dello zio Tom può dimostrarsi una sconcertante esperienza.
È un’opera notevole, molto più di quanto ci sia mai stato dato di sospettare. C’è,
in realtà, nella Capanna dello zio Tom, come nel suo successore, Dread, un intero

372
Topsy è una giovane schiava di origini ignote al servizio di Eva.
373
BOWLBY R., BOWLBY R., Breakfast in America. Uncle Tom’s cultural histories, in cit., p.
200.
374
Ibidem.
375
PARRINGTON L. V., Storia della cultura americana, vol. II, Einaudi, Torino, 1969, pp. 465-
472.

101
dramma di costume, di attitudini morali, di punti di vista intellettuali che in
qualche modo assomiglia a quello che Dickens ha fatto e che Zola avrebbe subito
dopo continuato, per quanto riguarda i rapporti fra le classi sociali»376.
Nei confronti di quest’opera, tuttavia, la critica si è dimostrata assai
mutevole: «Glorificato sul piano morale dai suoi contemporanei, è stato espulso
dal canone estetico dal New Criticism; nella fase militante, quando l’identità del
critico si misurava sulla capacità di dimostrare le tendenze reazionarie e borghesi
di qualunque testo, è stato trattato da opera sentimentale, reazionaria e razzista;
quando la critica militante si è assicurata teste di ponte accademiche, e il buon
critico è diventato colui che di qualunque testo riesce a dimostrare la qualità
sovversiva, allora anche Uncle Tom’s Cabin è diventato politicamente corretto,
una bandiera del sentimental power»377.
Non vi sono dubbi sul fatto che il romanzo sia una denuncia allo
schiavismo, una realtà fatta di fruste e soprusi fisici, come pure che la scrittrice
non avesse alcun dubbio sul fatto che gli schiavi fossero assolutamente
consapevoli delle crudeltà che venivano inferte loro e che per questo motivo,
appena l’occasione si presentava, andassero incontro a qualsiasi rischio, nel
tentativo di liberarsi dalle proprie catene378. Ma se è comprovato il successo che il
libro riscosse tra i “bianchi” cosa ne pensarono gli afroamericani? Facendo
riferimento a un’indagine condotta da Albion Tourgee, Donovan riporta che
«Choosing the most intelligent colored people’s available he ‘found that most ex-
slaves did not think Uncle Tome was too meek as later generations of black
activists would. Instead they thought of him as unrealistically critical of his
masters. Tom spoke out more frankly than a real slave might have dared to» 379.
Gli intervistati, di fatto, si divisero: da una parte quelli che non espressero alcun
parere e, dall’altra, quanti accettarono completamente la storia ritenendola più
efficace di quelle scritte da molti schiavi neri. Donavan, in particolare, riportando
l’esperienza di una donna, Stella Martin, venduta come schiava, ricorda che la
376
WILSON E., Patriotic Gore, Studies in the Literature of the American Civil War, Oxford
University Press, New York, 1966, pp. 5-8.
377
PLACIDO B., Le due schiavitù. Per un’analisi dell’immigrazione americana, Einaudi, Torino,
1975; PORTELLI A., Canoni americani. Oralità, letteratura, cinema, musica, cit., p. 139.
378
VALTZ MANNUCCI L., La genesi della Potenza Americana. Da Jefferson a Wilson, cit., p.
50.
379
DONOVAN J., Uncle Tom’s Cabin: Evil, Affliction, and Redemptive Love, Twayne, Boston,
1991, p. 17.

102
donna avesse affermato che «Mrs. Stowe [has] thrown sufficient light upon the
horrible and inhuman agency of slavery»380, ma ci fu anche chi, come Gosset,
sostenne che non avendo in prima persona sperimentato la schiavitù, la Stowe non
avesse potuto raccontarla fino in fondo381. Resta il fatto, comunque, e al di là delle
critiche, che dopo la pubblicazione di Uncle Tom’s Cabin, «African American
who wanted to speak about blackness in America and be heard had to do it
through Stowe or not at all»382.

380
Ivi, p. 18.
381
GOSSET T., Uncle Tom’s Cabin and American culture, Sother Methodist University Press,
Dallas, 1985, p. 361.
382
CANTAVE S., Who Gets Create the Lasting Images? The Problem of Black Representation in
Uncle Tom’s Cabin, in AMMONS E. (a cura di), Harriet Beecher Stowe’s. Uncle Tom’s Cabin,
Oxford University Press, Oxford-New York, 2010, p. 200 (pp. 193-206).

103
CAPITOLO IV

APHRA BEHN E HANNA MORE, NARRATIVA E POESIA


INGLESE

§. 4.1 Vita, opere e interessi di una scrittrice inglese: Aphra Ben


Aphra (o Eaffry) Behn, sulla cui infanzia si hanno notizie per lo più scarse
e contraddittorie, nacque, probabilmente, nel Kent, vicino a Canterbury, il 10
luglio 1640 da Bartholomew Johnson, un barbiere, e Elizabeth Denham, una balia,
sposatisi nel 1638. Secondo altre fonti, però, Aphra fu figlia di John e Amy Amis
e, in seguito, adottata dai Johnson383. Sembra certo, comunque, a parte i suoi
natali, che la bimba trascorse l’infanzia con i Johnson e poiché Elizabeth Denham
lavorava come badante presso la famiglia del barone John Colepeper, si presume
che la giovane Aphra sia cresciuta a stretto contatto con i figli del medesimo.
Questo fu il motivo per cui, in seguito, il figlio più giovane del nobile inglese,
Thomas Colepeper, descrisse Aphra come sua sorellastra 384. Rispetto alla sua
educazione, è plausibile pensare che Aphra abbia ricevuto un’educazione
cattolica; una volta ammise che era stata «designed for a nun» e il suo credo
cattolico, e le sue amicizie ad esempio con Henry Neville (1564-1615) 385,
383
TODD M. J., The Secret Life of Aphra Behn, Rutgers University Press,
London, 1996, p. 14 e ss.; FALCONE R., Aphra Behn: l’infrazione del canone,
Edizioni scientifiche italiane, Napoli, 2004, p. 86.
384
BARASH C., English Women Poetry, 1649-1714: Politics, Community
and Linguistic Authority, Oxford University Press, Oxford-New York, 1996, p.
104, nota 12.
385
Neville era un diplomatico di corte, discendente da Enrico VIII, sulla
cui vita circolano diverse e interessante ipotesi; si dice, infatti, che fosse parente di
Mary Arden, madre di William Shakespeare, e che forse lo stesso drammaturgo
deve a lui la sua fortuna come scrittore. JAMES B., RUBINSTEIN W., The Truth

104
cominciarono a trasformarsi in un problema quando386, nel 1680, si aprì in
Inghilterra un periodo anti-cattolico (di cui si troverà traccia in The Rover) 387, che
si concluse con la “exclusion-crisis” (1679-1681)388.
Nel 1663, poco più che ventenne, sembra che Aphra visitasse una colonia
inglese sul fiume Suriname, dove si coltivava lo zucchero, nella costa est del
Venezuela (regione in seguito conosciuta come Suriname) e pare che fosse
durante quel viaggio che incontrò un principe africano schiavizzato la cui storia
ispirò le bellissime pagine di Oroonoko, or the Royal Slave389. Una volta tornata in
Inghilterra, Aphra sposò Johan Behn, un mercante tedesco di origine olandese;
sebbene le notizie sulla coppia siano tuttora avvolte dal mistero, sembra, tuttavia,
che il matrimonio durasse solo qualche anno. Thomas Colepeper «records a
marriage between Aphra’s sister Frances and a man whose name is obscurely
written but might be Wrils or even Wrede and who was a captain. In the same
paragraph, he notes the marriage between Aphra and ‘Mr Beene’. The ‘Memoirs’

Will Out: Unmasking the Real Shakespeare, Pearson, London, 2005.


386
CRINÒ A. M., Fatti e figure del Seicento anglo-toscano: documenti
inediti sui rapporti di letterati, diplomatici, culturali fra toscana e Inghilterra,
Olschki, Firenze, 1957, p. 195.
387
GOREAU A., Reconstructing Aphra: a social biography of Aphra Behn,
Dial Press, New York, 1980, p. 243.
388
All’origine della “crisi di esclusione” vi fu la legge di esclusione
proposta durante uil regno di Carlo II Stuart; nell’occasione un gruppo di membri
del Parlamento inglese aveva cercato di far approvare una legge che escludesse il
duca di York Giacomo, fratello minore del re e suo successore al trono, dalla linea
di successione (da qui il termine “esclusione”), a causa della sua fede religiosa
apertamente cattolica. Si temeva, infatti, che una volta salito al trono Giacomo
avrebbe imposto una forma di governo assoluto, simile a quello francese,
impregnato di cattolicesimo. HARRIS T., Revolution: The Great Crisis of the
British Monarchy (1685.1720), Penguin Books, London, 2006.
389
CAMERON W. J., New Light on Aphra Behn: an investigation into the
facts and fictions surrounding her journey to Surinam in 1663, and her activities
as a spy in Flanders in 1666, University of Auckland, Auckland, 1961, p. 101.

105
adds the information that Mr Behn was a Londoner, a ‘merchant of Duch
extraction’»390. Alcuni studiosi, però, sostengono che il matrimonio non sia mai
avvenuto e che la donna l’abbia fatto credere solo per essere considerata vedova,
status più consono a ciò che aveva in mente di fare, ovvero dedicarsi alla scrittura.
La Todd, a riguardo, aggiunge che Aphra aveva certamente valutato i vantaggi
che le sarebbero derivati dallo sposare un uomo benestante e che questa,
nonostante la mancanza di amore, la convinse a convolo rare a giuste nozze391.
Dal 1666 la Behn cominciò a frequentare la Corte, probabilmente grazie
all’influenza di Thomas Colepeper e altri conoscenti. Convinta monarchica, le
simpatie di Aphra andavano soprattutto agli Stuart, in particolare al duca cattolico
di York (James Stuart)392; la sua dedizione resta testimoniata dalla poesia The
Rover II, dedicata al duca dopo che, per la seconda volta, era stato esiliato 393. La
situazione, in Inghilterra, si era fatta particolarmente difficile soprattutto dopo che
il Parlamento aveva contestato e resa illegale l’incoronazione di Carlo II avvenuta
nel 1649; il Paese, in quegli anni, visse un periodo d’interregno noto anche come
“English Commonwealth” e fu retto da Oliver Cromwell il quale, sconfitto il
monarca, lo costrinse a riparare in Europa 394. La Behn non si limitò a prestare la
sua penna per la causa monarchica ma fece molto di più; divenuta una convinta
sostenitrice dei Tory, fedeli alleati del re in quanto convinti del suo “divine
right”395, la scrittrice diresse molti dei suoi attacchi ai Whigs; «In public spirits

390
Citazione tratta da TODD M. J., The Secret Life of Aphra Behn, cit., p.
67.
391
Ivi, p. 68.
392
CARLISLE R. P., GOLSON G., Colonial America from Settlement to
the Revolution, ABC_CLIO, Santa Barbara, 2006, p. 107 e ss.
393
GOREAU A., Reconstructing Aphra: a social biography of Aphra Behn,
cit., p. 247.
394
HARRIS T., Restoration: Charles II and his kingdoms, 1660-1685,
Allen Lane, London, 2005.
395
GOREAU A., Reconstructing Aphra, cit., p. 246.

106
call’d good o’ th’ Commonwealth… So tho’ by different ways the fever seize…
in all ‘tis one and the same mad disease»396.
Verso la metà del Seicento, però, era il 1666, le fu offerto dal monarca in
persona il ruolo di spia politica ad Anversa, proprio quando era scoppiata la
Seconda guerra anglo-olandese tra l’Inghilterra e l’Olanda (1665-1667). Per
l’occasione la Behn utilizzò lo pseudonimo di Astrea, nome col quale in seguito
avrebbe pubblicato buona parte dei suoi scritti 397. Il suo ruolo come spia del re fu
deciso da William Scot, figlio di Thomas Scot (il recigida di Carlo I che era stato
condannato a morte il 17 ottobre 1660)398. La sua attività spionistica, però, si
rivelò ben poco lucrativa, visto che Carlo II era lento nei pagamenti (o non la
pagava affatto) e le spese all’estero erano alte. Todd spiega che «To work a spy
and to ascend the social scale, to acquire education informally and through the
good will of toner, Behn had had to live much on the surface of life,
wentriloquising, imitating, and always playing a part. Indeed she may well have
concluded that this role-playing was that life was about and that there was only a
surface. The theatre displayed surface»399. Fu così che, una volta all’estero, sotto
le mentite spoglie di Astrea, la Behn dovette indebitarsi per tornare a Londra dove
tentò inutilmente di farsi pagare dal sovrano; la sua posizione debitoria degenerò
tanto che la donna fu arrestata per debiti. In seguito, però, fu rilasciata dietro il
pagamento di una cauzione di cui non si conosce la fonte; «How, or by whom, her
debts were paid off in unclear, but by 1699 she was out of prison and had begun to
write plays for a living»400. Da quel momento divenne una delle prime donne a

396
Ivi, p. 248.
397
TODD M. J., The Secret Life, cit., p. 130.
398
WORDEN B., The Rumpt Parliament 1648-53, Cambridge University
Press, New York, 1977, p. 49
399
TODD M. J., The Secret Life, cit., p. 128.
400
OWENS W. R., Remaking the canon: Aphra Behn’s The Rover, in
OWENS W. R., GOODMAN L. (a cura di), Shakespeare, Aphra Benh and the
Canon, Roytledge, London, 1996, P. 135 (pp. 193-250).

107
mantenersi grazie al proprio impegno di scrittrice; come scrive Summers, Aphra
fu «One of the first English people to earn her livelihood by authorship»401.
In qualità di scrittrice, e ben inserita nel mondo di corte, la Behn ebbe
l’opportunità di venire a contatto con diversi drammaturghi, tra cui John
Dryden402, la cui frequentazione la convinse, dal 1670, a dedicarsi alla scrittura di
una serie di opere teatrali e romanzi, oltre a poesie e pamphlet. Il suo primo lavoro
fu The Forced Marriage, commedia che fu rappresentata al Duke’s Theatre che
riscosse, da subito, un grande successo, tanto da venir replicata per sei sere
consecutive; oltre alla popolarità la commedia fu fonte di guadagno visto che,
all’epoca e per legge, il guadagno di ogni terzo giorno di rappresentazione
spettava all’autore403. Da quel momento e fino alla sua morte (1689), la carriera
artistica della Behn fu costellata da una serie di successi, soprattutto per quanto
riguarda l’apprezzamento del pubblico; tra i suoi lavori più amati The Rover,
Love-Letters, Between a Nobelman and His Sister e Oroonoko. Nel 1688, un anno
prima della sua morte, la Behn scrisse A Discovery of New Worlds, traduzione di
una volgarizzazione di un saggio astronomico di Bernard le Bovier de Fontenelle
dal titolo Entretiens dur la pluralité des mondes, scritto in forma di racconto, così
come era nel suo stile, ma con un approccio più religioso; come spiega Pastori «In

401
SUMMERS M., The Works of Aphra Behm William Heineam, London,
1913, p. 51.
402
Dryden (1631-1700) fu un drammaturgo e critico letterario inglese,
divenuto noto soprattutto con l’ascesa al trono di Carlo II. Numerosi i suoi
panegirici tra cui To His Sacred Majesty: A Pannegyric of hi Coronation (1662) e
To My Lord Chancellor (1662). Dopo il bando puritano e la riapertura dei teatri,
Dryden si occupò soprattutto di drammi, diventando un drammaturgo apprezzato.
RAWSON C. J., SANTESSO A. (a cura di), John Dryden (1631-1700): His
Politics, His Plays, and His Poetis, Rosemont Publishing & Printing Corp.
Danvers, 2004.
403
MUNNS J., “Good, Sweetm Honey, Sugar-Candied Reader”: Aphra
Behn’s Foreplay in Forewords, in HUNTER H. (a cura di), Rereading Aphra
Behn: History, Theory and Criticism, University of Virginia Press, Washington,
1993, p. 51 (pp. 44-62).

108
the Discovery of a New Worlds, she not only translates his “conversations” on the
plurality of worlds, but adds her own commentary in the preface. Behn criticized
Fontenelle’s inconsistent characterization of the female lead, remarking that the
marquise dit not demonstrate the gradual acquisition of real learning but suddenly
was able to grasp difficult astronomical concepts without prior preparation and
coult speak like “the greatest Philosophers” in Europe»404.
Sebbene fosse una scrittrice e una drammaturga amata dal pubblico, la
critica non ebbe per Aphra grandi parole di apprezzamento. Il fatto di essere la
prima donna a utilizzare il proprio nome, e non uno pseudonimo maschile, non le
valse alcun plauso ma, semmai, feroci critiche. Fu definita la “poetessa
prostituta”405, proprio perché vendeva il suo ingegno invece del suo corpo. Ella
stessa affermò di scrivere «[...] per la parte maschile che è in me, per il poeta che è
in me[...]»406. Come autrice di teatro, la Behn non agì diversamente da quanto
aveva fatto Shakespeare; riesumò intrecci e storie già esistenti e li manipolò
secondo il suo estro creativo; in qualità di scrittrice, invece, indagò in modo
originale e spregiudicato sulle classi sociali, sulla politica, sui rapporti tra i sessi e
le razze. In qualità di poetessa introdusse nei classici temi della poesia arcadica
note di un erotismo allegro e sfacciato, nonché un sano umorismo; i temi che la
Behn trattò nelle sue poesie, infatti, andavano dall’impotenza all’omosessualità,
dalle sue relazioni con uomini a quelle con le donne 407. La libertà con cui la Behn
trattò questi temi era certamente insolita per quell’epoca; alla fine del

404
PASTORI G., Behn, Aphra, in HARVEY J., OGILVIE M. (a cura di),
The Biographical Dictionaru of Women in Science: Pioneering Lives from
Ancient Times to the Mid-20yth Century, vol. 1, Routledge, New York, 2000, p.
107 (pp. 105-107).
405
FALCONE R., Aphra Behn: l’infrazione del canone, cit., p. 14.
406
PAPETTI V., La commedia: da Shakespeare a Sheridan, Edizioni di
Storia e Letteratura, Roma, 2007, p. 42.
407
STEWART A. M., Rape, Patriachy, and the Libertine Ethos: the
Function of Sexual Violence in Aphra Behn’s ‘The Golden Age’ and the Rover,
Part. I, in “Restoration and Eighteenth-Century Theatre research 12”, n. 2, 1997,
pp. 26-27.

109
diciassettesimo secolo, infatti, sebbene alle scrittrici venisse attribuita una naturale
abilità nel trattare le questioni amorose, era loro proibito trattare di temi quali
l’erotismo o qualsiasi altra “sconcezza” (come appunto temi quali l’impotenza o
l’omosessualità). Le critiche nei suoi confronti furono tanto feroci che le
costarono anche dopo la morte, una sorta di ostracismo da parte dei critici e degli
studiosi408.
Le sue commedie furono spesso incentrate sulla satira della società inglese
contemporanea e sul ruolo imposto alle donne; uno dei temi più ricorrenti nei suoi
lavori fu quello dei matrimoni combinati, ma non mancarono neppure le critiche
alle istituzioni tra cui la schiavitù. Sebbene in quello che è considerato uno dei
capolavori della slave narrative, ovvero Oroonoko, or the Royal Slave, scritto ben
venti anni dopo la sua esperienza di viaggio in Suriname, la Behn non arrivasse
mai a criticare apertamente la schiavitù, l’opera fu considerata da alcuni il primo
romanzo abolizionista nel quale, per la prima volta, si tratteggiava la figura del
“nobile selvaggio” in letteratura. La critica, tuttavia, sul punto si spaccò. Lamarra,
ricorda che «Alcuni critici hanno visto in Oroonoko un testo precursore della
tradizione abolizionista: cioè un libro serio, morale, impegnato, che l’autrice
avrebbe voluto distinguere dai racconti di puro intrattenimento. Oroonoko sarebbe
l’antenato di Friday nel Robinson Crusoe di Danierl De Foe e magari di zio Tom
nel celebri libro di Henrietta Beecher Stowe. Sarà anche vero; ma in quanto eroe
della liberazione degli schiavi […] Oroonoko, che vendeva i suoi prigionieri di
guerra agli Inglesi e agli Spagnoli, è poco convincente»; è anche vero, però, come
aggiunge Lamarra, che «D’altronde alcune pagine di Oroonoko sulla dignità
dell’uomo e sulla intollerabilità della condizione di schiavo hanno una loro
consistenza morale. Al di là delle folli stravaganze del racconto, delle
esagerazioni, delle incredibili coincidenze, della ferocia fanta-esotica delle morti e
delle torture, della rigidità falso-classica degli atteggiamenti morali, la curiosità
della scrittrice si indirizza anche verso la problematica etica della schiavitù, anche
se vista in chiave non dello schiavo qualunque ma dello schiavo eccezionale,

408
FALCONE R., Aphra Behn, cit., p. 193 e ss.; GIACOBINO M.,
Guerriere ermafrodite cortigiane: percorsi trasgressivi della soggettività femminile
in letteratura, Il dito e laluna, Milano, 2005, p. 16 e ss.

110
l’eroe indomito che il servaggio distrugge ma non umilia» 409. Sembra, dunque,
questo ci suggerisce Lamarra, sia necessario di fronte a questo lavoro della Behn,
andare oltre le intenzioni presunte o reali della scrittrice e valutare, soprattutto, le
reazioni della sua scrittura.

§. 4.2 Oroonoko, or the Real Slave (1688)


Quando, nel 1663 Aphra Behn arrivò nel Suriname 410 trovò una colonia
con un piccolo insediamento inglese che si trovava lì da circa 20 anni. Non si
conosce il motivo per cui Aphra decise di compiere questo viaggio in Suriname;
dalle notizie che trapelano dalla sua vita sembra che il motivo sia stato quello di
accompagnare la famiglia, ma, sul punto, come su molti altri, resta ancora un
alone di mistero. Gli inglesi residenti nella colonia erano serviti da una
popolazione di schiavi che lavoravano nelle piantagioni di zucchero e che
svolgevano anche tutte quelle mansioni di cui gli inglesi non erano disposti a
occuparsi. La Brown sostiene che quando la Behn arrivò nella colonia, e nell’anno
della sua permanenza, dal 1663 al 1664, trovò una situazione di tensione politica,

409
ALMANSI G., BÉGUIN C., Introduzione, in BEHN A., Oroonoko. Lo
schiavo reale, a cura di A. Lamarra, Guida, Napoli, 1986, p. 11.
410
All’inizio del XVI secolo il Suriname fu esplorato da inglesi, francesi e
spagnoli che costituirono delle piantagioni. Prima colonia inglese, in seguito fu
conquistata dagli olandesi nel 1667 e restò sotto il loro governo fino al 1954 con il
nome di Guaiana Olandese. Già dal 1621 in Suriname, per la coltivazione dello
zucchero, era florido il commercio degli schiavi grazie alla West-Indische
Compagnie. Fu la WIC, infatti, a introdurre il commercio atlantico triangolare che
legò l’una all’altra le comunità manifatturiere europee, quelle africane dedite al
reclutamento di schiavi e le comunità delle piantagioni nelle Americhe. Nel 1664
anche Colbert aveva organizzato due compagnie, la Compagnia delle Indie
Orientali e la Compagnia delle Indie Occidentali; ma le compagnie francesi non
riuscirono mai a eguagliare i risultati delle avversarie inglesi e olandesi.
ARRIGHI G., SILVER B. J., Caos e governo del mondo. Come cambiano le
egemonie e gli equilibri planetari, Mondadori, Milano, 2003, pp. 116-117.

111
«The rendering of the colonists’s council, and the account of the contests for
jurisdiction over Oroonoko reflect the reigning atmosphere of political tension in
Suriname during the time of Behn’s visit in 1663 and 1664, thug without
assigning political labels to the disputants»411.
Nel 1662, non a caso, prima che la Behn arrivasse, Wialliam Byam, allora
governatore della colonia e figura chiave nella lotta reale per il controllo delle
Barbados, aveva accusato un gruppo di Indipendentisti, guidati da Robert
Sandford (proprietario della piantagione vicina a quella di Robert Harley, a St.
Johns’s Hill, residenza del narratore del libro della Behn) di cospirazione, nel
tentativo di esiliarli dalle colonie. «Behn herself», prosegue la Brown, «may have
been engaged with these volatile politics through an alliance with a radical
namend Wialliam Scot, who went to the colony to escape prosecution for hight
treason in England, and whose father Thomas figured prominently on the
Parliamentary side during the devolution and Commonwealth» 412. Si tratta,
naturalmente, solo di supposizioni. Questa, in sintesi, la trama del romanzo:

La storia narrata racconta la triste vicenda di un nobile africano,


Oroonoko, nipote di un sovrano, che s’innamora, ricambiato, di Imoinda, la figlia
del maggiore dei generali del re; questi, a sua volta, si era invaghito della ragazza
e l’aveva costretta a entrare nel suo harem (l’Otan). A un certo punto i due giovani
pianificano una fuga grazie alla complicità di due amici, Onahal e Aboan, ma
vengono scoperti. Il re, indispettito dal fatto che la donna dica di preferire la morte
al diventare sua sposa, la vende come schiava; Oroonoko, invece, viene attirato in
una trappola e catturato da un negriero inglese e condotto in Suriname insieme
all’amata. Nella colonia ai due protagonisti vengono dati nuovi nomi, Caesar a lui
e Clemente a lei. Nonostante schiavi, sembra che i due possano coronare
finalmente il loro sogno d’amore, ma, si tratta di una vana speranza, perché la
bellezza della giovane attira, questa volta, l’interesse del vicegovernatore della
colonia (Byam).
Oroonoko, allora, organizza una rivolta di schiavi che, però, si conclude in
un nulla di fatto. Byam, per sedare gli animi, inizialmente promette di risparmiare
i ribelli ma, una volta che il clima si è calmato, fa fustigare Caesar (ex Oroonoko)
il quale decide, per vendicarsi, di ucciderlo. Convinto, inoltre, che una volta
perpetrato il suo piano, gli inglesi se la sarebbero presa con Imoinda, decide di

411
BROWN L., The romance Of Empire: Oroonoko and the Trade in
Slaves, in GAY D. J. (a cura di), The New 18th Century, Nethuen, New York,
1987, p. 56 (pp. 41-61).
412
Ibidem.

112
uccidere anche lei. La donna, convinta dalle parole dell’amato, accetta il suo
destino e lascia che Oroonoko la pugnali. Trovato piangente sul corpo dell’amata,
il giovane viene arrestato e sottoposto a smembramento. Nel corso del terribile
supplizio, il giovane non emette mai un lamento e continua, quasi come se nulla
fosse, a fumare la sua pipa.

Indipendentemente dalle critiche che seguirono l’uscita del libro e, in


seguito, i dubbi esposti da una parte della critica che non credeva nella fede
abolizionista della Behn, il romanzo affrontava per la prima volta il tema dello
schiavismo dal punto di vista delle vittime. Per il suo libro la Aphra scelse un tono
colloquiale, dialogando di continuo con il lettore, assicurandolo di essere stata
presente ai fatti e fornendogli una quantità impressionante di dettagli su tutto ciò
che accadde sotto il suo sguardo. Nel romanzo, infatti, che alterna una narrazione
in prima a una in terza persona, la scrittrice si presenta come una giovane donna
inglese della buona società al cui padre era stato affidato l’incarico di
vicegovernatore della colonia; nel corso della traversata, tuttavia, la scrittrice
decide di far morire il padre fatto questo che costringe la famiglia, una volta
giunta a destinazione, di trovarsi alloggiata in una delle dimore più belle
dell’isola. Da questa sua posizione privilegiata, nelle vesti della giovane donna
inglese, la scrittrice narra le vicende degli schiavi africani che si intrecciano alle
vicende di Oroonoko e Imoinda. Come scrive la Di Rienzo, «Il principe schiavo
parla attraverso l’io narrante femminile: la posizione da outsider di Aphra nella
società in cui vive le conferisce l’autorità necessaria a dare voce ad un altro
“diverso”; la schiavitù non è criticata in modo diretto, ma la figura di Oroonoko è
ritratta in modo così positivo rispetto alle figure dei colonizzatori da non lasciare
adito a dubbi»413.
Strutturalmente parlando, il romanzo della Behn, pur raccontando della
vita di Oroonoko, e dunque potendosi considerare una biografia del medesimo,
non segue uno schema rigido. La storia si apre con le rassicurazioni della scrittrice
rispetto alla veridicità del suo racconto:

«I do not pretend, in living you the history of this Royal Slave, to


entertain my reader with adventures of a feigned hero, whose life and fortunes
413
DI RIENZO M. G., Aphra Behn, in
http://www.culturagay.it/cg/biografia.php?id=73

113
fancy may manage at the poet’s pleasure; nor in relating the trueth, design to
adorn it with any accidents but such as arrived in earnest to him: and it shall come
simply into the world, recommended by its own proper merits and natural
intrigues; there being enough of reality to support it, and to render it diverting,
without the addition of invention.
It was myself an eye-witness to a great part of what you will find here set
down; and what I could not be witness of, I received from the mouth of the chief
actor in this history, the hero himself, who gave us the whole transactions of his
youth…»414.

Come evidenziano Almansi e Béguin, è importante la necessità della Behn


di attestare la veridicità della sua storia anche, a volte, ogni oltre possibile
razionalità. Tutto il racconto, infatti, viene spacciato dalla scrittrice come verità
storica, geografica, zoologica (anche le scimmie dal volto umano e i leoni in
miniatura e i serpenti lunghi cinquanta metri, e così via); ed è sempre la stessa
autrice, poi, che testimonia di aver accompagnato Oroonoko a cacciare tigri
feroci415. Anche rispetto all’ultima sezione del romanzo, la terza, dove la scrittrice
narra le tragiche vicende cui vanno incontro il “principe schiavo” e la sua amata,
molti ricercatori si sono domandati se le vicende raccontate dalla Behn fossero
frutto della sua fantasia oppure se, come voleva lasciare intendere la scrittrice,
fossero autentiche. I dubbi nascono dal fatto che all’interno del romanzo Aphra
riporta una serie d’inesattezze che gettano un’ombra sulla veridicità tutta della sua
storia; la Behn, ad esempio, riporta di aver visto dei «new-ravished sheep» 416,
ovvero dei montoni, che, all’epoca, non solo non sarebbero sopravvissuti nella
colonia ma la cui presenza avrebbe reso ingiustificata l’esportazione dei
governatori di grandi quantitativi di carne dalla Virginia. C’è da dire, tuttavia, che
la Behn, come molti scrittori della sua epoca, non era per niente interessata alla
verosimiglianza sia in senso topografico sia culturale e che, dunque, non curò più
di tanto luoghi o ambientazioni417. In seguito, tuttavia, grazie agli approfondimenti

414
BEHN A., Oroonoko or the Royal Slave, The Echo Library,
Teddington, 2009, p. 3.
415
ALMANSI G., BÉGUIN C., Introduzione, in ID., Oroonoko. Lo
schiavo reale, cit., pp. 10-11.
416
BEHN A., Oroonoko or the Royal Slave, cit., p. 54.
417
TODD J., The Secret Life, cit., p. 38.

114
di Ramsaran e Dhuicq emerse che, al di là di quelle che potevano essere
considerate delle “licenze poetiche”, il testo della Behn era comunque ricco di
particolari interessanti sulla vita della colonia418. È stato notato, ad esempio, che
tutti gli europei che la scrittrice menziona erano persone realmente presenti
all’epoca nella colonia e che nel descriverli la scrittrice si mantenne molto
attinente alla realtà. Il che ha fatto supporre che la storia sia in parte il frutto di
un’esperienza vissuta419; è necessario scrivere “in parte”, però, perché è noto che
nella vicenda il padre della giovane europea che viaggiò verso il Suriname morì
durante la traversata mentre è risaputo che ciò non avvenne al padre della Behn420.
Stessi dubbi circolano sulla presunta o reale esistenza di Oroonoko e sulla
veridicità delle vicende che lo vedono protagonista nella storia. Nessuno, infatti, è
stato ancora in grado di produrre una documentazione che attesti l’avvenuto
incontro tra la Behn e questo schiavo e neppure dell’esistenza stessa del
medesimo. Ciò ha indotto a ritenere che si tratti di un personaggio di pura
fantasia, anche se non mancano nelle pagine della storia molti agganci con la
realtà. La morte stessa di Oroonoko, e le mostruose amputazioni cui fu sottoposto,
richiamano in maniera sorprendente la vicenda di un certo John Allis, un colono
dedito all’alcol accusato di aver tentato di assassinare Lord Willoughby
(governatore delle Barbados) e di aver tentato di togliersi la vita subito dopo. Non
riuscendoci fu messo alla gogna in pubblico e barbaramente giustiziato, dovendo
sopportare le stesse atroci sevizie che la Behn sceglie per Oroonoko 421. Va detto,
tuttavia, rispetto alle caratteristiche somatiche di Oroonoko, così come le descrive
la Behn, appaiono poco plausibili essendo descritte come un misto tra una
bellezza africana e una greca; anche il nome del protagonista non pare veritiero,
richiamando nomi in lingua yoruba, mentre la maggior parte degli schiavi in
Suriname erano di origine ghanese. A tale riguardo è stato suggerito che la scelta

418
RAMSARAN J. A., Notes on “Oronooko”, in “Notes & Queries”, 1960,
p. 144; DHUICQ B., Additional Notes on “Oroonoko”, in Ivi, 1979, pp. 524-526.
419
TODD J., The Secret Life, cit., p. 38.
420
Ivi, p. 40.
421
BEHN A., Oroonoko, a cura di J. Todd, Penguin Books, London, 2003,
p. 98, nota 168; anche Ivi, p. 54.

115
del nome vada ricercata in alcuni precedenti letterari, certamente noti alla Behn,
come Oroondate, personaggio della Cassandra di La Calprenéde 422 e anche de Le
Etiopiche di Elidoro di Emesa423. Alcuni dati storici del romanzo, tuttavia,
risultano storicamente attendibili. Che la colonia del Suriname importasse,
all’epoca in cui è ambientata la storia, degli schiavi è certamente un dato
confutabile, come pure che in massima parte venissero utilizzati nella colonia per
coltivare la canna da zucchero. Anche tutta la vicenda della cattura di Oroonoko è
assolutamente plausibile; nel 1662, infatti, è storicamente attestato, il duca di
York aveva ricevuto la commissione di fornire 3000 schiavi nei Caraibi e Lord
Willoughby era risaputamente un commerciante di schiavi.
Su quelle che fossero le convinzioni della Behn circa lo schiavismo e
l’abolizionismo, invece, restano ancora parecchi dubbi. A detta della Todd, la
Behn non si oppose in modo diretto allo schiavismo perché convinta che fosse
nella naturalità delle cose che i più forti sottomettessero i più deboli 424. Sembra,
inoltre, che il marito, Johan Behn, fosse stato uno schiavista e che se Aphra avesse
nutrito profondi sentimenti abolizionisti non avrebbe potuto sposarlo; anche se, di
fatto, com’è noto, il loro non fu un matrimonio d’amore e, comunque, durò ben
poco. La Todd è convinta che la Behn si oppose al marito e che il suo sentimento
antischiavista fosse sincero. Qualunque fossero state le ragioni che avevano
motivato la Behn a scrivere Oroonoko fu soprattutto nel XVIII secolo, quando la
società britannica cominciò a prendere coscienza dei problemi morali ed etici che
erano insiti nello schiavismo, che il romanzo cominciò a essere considerato un
romanzo antischiavista e abolizionista. Nel 1899, Wilbur Cross, definì il lavoro
della Behn il primo romanzo umanitario inglese425 e parlò della scrittrice come di
una antiabolizionista antelitteram.

422
TODD J., The Secret Life, cit., p. 61.
423
HUGHES D., Versions of Blackness: Key texts on Slavery from the
Seventeenth Century, Cambridge University Press, Cambridge, 2007, p. xviii
424
TODD J., The Secret Life, cit., pp. 61-63.
425
CORMAN B., Women Novelists Before Jane Austen: The Critics and
their Canons, University of Toronto Press, Buffalo, 2008, pp. 152-153.

116
Il libro, che divenne un best seller, fu pubblicato più volte e incluso in
diverse raccolte; tradotto in francese e in tedesco. In Francia, come scrisse Seber,
«il romanzo doveva avere conseguenze incalcolabili sul pensiero umanitario
francese»426, divenne uno dei libri più letti di tutto il Settecento. La sua fortuna fu
tale che Antoine de la Place, noto traduttore dell’epoca, lo tradusse per la prima
volta nel 1745, poi 1755, nel 1769 e infine nel 1779 (settima traduzione). In
quest’ultima versione il romanzo fu definito “storico” 427. Prima ancora del 1745,
però, nel 1696, ne fu tratta una versione teatrale da Thomas Southerne 428; nel 1751
il dramma apparve in francese e poi nel 1789 in tedesco. Ancora a Ottocento
inoltrato il romanzo continuò a riscuotere un grande successo e la storia di
Oroonoko a commuovere gli spettatori tanto che «i ricchissimi abitanti di una
grande città mercantile inglese non permetteranno mai che il dramma venga
rappresentato nel loro sontuoso teatro. A Liverpool la tragedia di Oroonoko non
sarà mai recitata proprio perché è il luogo in cui dovrebbe essere messa in scena
più spesso che altrove: qui infatti molta gente si è arricchita grazie al commercio
degli schiavi»429. Bisognerà attendere il XX secolo perché la fortuna del romanzo
cominci a svanire; unica traduzione nota fu quella di Ann Lemoine del 1800, ma

426
SEBER E. D., Oroonoko in Francia in XVIII century, in “Publications
of the Modern Language Association”, vol. LI, 1936, p., 953
427
Ibidem.
428
Thomas Southerne (1660-1746) fu un drammaturgo irlandese, cui va il
merito di aver portato al successo la versione teatrale di Oroonoko. Il dramma,
messo in scena nel 1695, restò fedele al romanzo a parte un’eccezione: Imoinda
nella tragedia era una donna bianca e come nell’Otello l’attore principale maschile
recitava in blackface (ovvero un attore bianco veniva truccato in modo tale da
sembrare di colore) a un’eroina bianca. SOUTHERN T., Oroonoko, in
SUTHERLAND J. (a cura di), Restoration Tragedies, Oxford University Press,
London, 1977, pp. 355-438.
429
Citazione tratta e tradotta da SEY K., A. Behn’s Oroonoko, Ghana
Publishing Corporation, Ghana, 1977, p. VI.

117
nel 1930 Philip Henderson lo inserì tra gli Shorter Novels pubblicati dalla
Everyman’s Library, fatto, questo, che ridiede vita e notorietà al romanzo430.
Come si è detto ci fu chi ritenne il romanzo della Behn il primo romanzo
«emancipazionista»431, il primo ad aver dato voce all’umanità calpestata degli
schiavi, anticipando, addirittura di un secolo, il romanzo della Beecher Stowe. Sul
punto, tuttavia, la critica si divise. Molti, infatti, ritennero troppo forzato questo
parallelismo tra il libro della Behn e quello della Stowe, soprattutto fu criticato
alla Behn di aver scelto come protagonista della sua storia un personaggio che, in
prima persona, si era macchiato dell’infame commercio umano. Questa scelta ha
indotto molti studiosi a mettere in dubbio la posizione della scrittrice nei confronti
della schiavitù; alcuni, però, come Ka Sey, hanno sostenuto che la questione non
si presentò ai tempi della Behn e questo in virtù del fatto che i contemporanei
della scrittrice accolsero il suo lavoro come un romance, ovvero come una favola
che trattava di cose favolose a differenza di una novel che è rappresentazione della
vita e dei costumi reali al tempo in cui è stata scritta432. Certo è, comunque, che
per tutto il XVIII secolo la versione teatrale superò quella cartacea e ancora nel
XIX secolo la rilettura di Southerne fu preferita a quella della Behn e ci fu
addirittura chi, come Roy Potter, sostenne che fu grazie al drammaturgo inglese se
il romanzo di Aphra fu letto in un’ottica antischiavista e che, anzi, fu la versione
teatrale a indurre nel pubblico questo importante cambiamento di prospettiva433.

§. 4.3 Le rime di Hanna More, tra religione e filantropia

430
HENDERSON O., Shorter novels. Seventeeth century… Oranuts &
Artesia. Oroonoko. The Isle of Pines. Incognita, Dent, 1930.
431
BAKER E., The Novels of Mrs Behn, Routledge, London, 1905, p.
XXIII.
432
SCHOLES R., KELLOG R., La Natura della Narrativa, Il Mulino,
Bologna, 1970, pp. 7-8.
433
PORTER R., The Creation of the Modern Wolrd, W. W. Norton, New
York, 2000, p. 361.

118
Hannah More nacque a Fishponds nel 1745, nella parrocchia di Stapleton,
vicino a Bristol, da Jacob More, un maestro originario di Charleston (Norfolk),
originario di una famiglia fervente presbiteriana di Norfolk, che era diventato
membro della Chiesa di Inghilterra e che aveva nelle intenzioni l’obiettivo di
perseguire una carriera di tipo ecclesiale; per una serie di vicende, tuttavia, che lo
privarono di una eredità, indussero Jacob More a trasferirsi a Bristol, dove si
dedicò all’insegnamento434; poche o nulle le informazioni sulla madre435. Quarta di
cinque figli, la More visse un’infanzia all’interno di una famiglia molto unita. Sia
lei che le sorelle dovettero al padre la loro formazione; fu Jacob, infatti, che
impartì alle figlie (tutte femmine) i primi rudimenti di latino, matematica e
francese. La sua predisposizione allo studio e alla scrittura, che emersero già in
giovanissima età, furono caratteristiche che l’accompagnarono per tutta la vita 436.
Nel 1758 il padre e la seconda-moglie si trasferirono a Stony Hull dove aprirono
una scuola per ragazzi; qui, in seguito, insegnerà la stessa Hannah437.
Le prime composizioni della More furono dei drammi pastorali, scritti
mentre insegnava a scuola e adatti per essere recitati dalle studentesse. Il primo
scritto risale al 1762 e prese il titolo di The search after Happiness, nel 1780 ne
erano state vendute più di 10 mila copie438. Metastasio fu uno dei modelli letterari
della More che, in particolare, sull’Attilio Regolo basò il suo dramma The
Inflexible Captive. Qualche anno dopo, nel 1767, la More si fidanzò con William
Turner di Tyntesfield (Wraxall, nel Somerset), ma visto che dopo sei anni non
erano ancora state fissate le nozze, a causa di un atteggiamento altalenante da
parte di Turner, nel 1773 il fidanzamento si ruppe. Sembra che la More ne uscì

434
ROBERTS W., MORE H., Memoirs of the life and correspondence of
Mrs. Hannah More, volò 1, R. B. Seeley and W. Burnside, London, 1835, p. 7.
435
DEMERS P., The World of Hannah More, The University Press of
Kentucky, Lexington, 1996, p. 3.
436
LESLIE S., More Hannah, in SIDNEY L., Dictionary of National
Biography, Smith, Elder & Co., London, 1894, pp. 414-420.
437
Ibidem.
438
SKEED S. J., More Hannah (1745-1833), Oxford University Press,
Oxford, 2004.

119
devastata e soffrì di un forte esaurimento nervoso; la sua situazione precaria la
portò a risiedere a lungo in Uphil, vicino a Weston-super-Mare. Come
risarcimento accettò che l’ex fidanzato le versasse 200 sterline l’anno; questa cifra
le diede una certa indipendenza e la libertà di dedicarsi alla scrittur. Fu così,
infatti, che tra il 1773 e il 1774 la More, insieme alle sorelle Sara e Marta, si recò
a Londra (fu, quello, solo il primo di una serie di viaggi che a cadenza annuale
avrebbe reiterato). Nella city, la More ebbe l’occasione di conoscere, tra gli altri,
David Garrick il noto attore e drammaturgo del quale aveva scritto alcune righe
sulla sua versione del Re Lear439.
Nel volgere di poco tempo la More cominciò a frequentare i circoli
letterari londinesi frequentati, tra gli altri, da personaggi del calibro di Samuel
Johnson, Joshua Reynolds ed Edmund Burke e divenne anche uno dei membri più
insigni del gruppo “Bluestocking” al quale aderivano donne impegnate in
conversazioni politiche e in studi letterari e intellettuali; quindi arrivò a
frequentare anche l’elitario salotto di Elizabeth Montagu dove ebbe l’occasione di
conoscere Frances Boscawen, Elizabeth Carter, Elizabeth Vesy e Hester Chapone,
alcune delle quali divennero sue grandi amiche. Il salotto non era frequentato solo
da donne ma anche da uomini di diverse estrazioni sociali, spesso rappresentanti
di spicco dell’establishment culturale inglese440. In seguito, nel 1782, la More
scrisse un poema, Bas Blue, pubblicato nel 1784, sul suo circolo letterario del
quale celebrava le amicizie maturate. Garrick, scrisse il prologo e l’epilogo per la
sua tragedia Percy, che riscosse un grande successo al Covent Garden nel
dicembre del 1777, mentre The Fatal Falsehood, prodotto nel 1779 dopo la morte
di Garrick, si rivelò un flop tale che mai, dopo quella volta, la More scrisse ancora
per il teatro441.

439
STEPHEN CIT.
440
KELLY G., Bluestocking Feminism: Writing of the Bluestocking
Circle, 1738-1785, Pickering & Chatto, London, 1999.
441
BURWICK F., MOORE GOSLEE N., LONG HOEVELER D., The
Encyclopedia of Romantic Literature, Blackwell Publishing, New York, 2012, p.
882

120
Nel 1781 Hannah fu al centro di una spiacevole vicenda; conobbe la
poetessa Ann Yearsley (nota abolizionista) la quale, quando si ammalò, le diede in
beneficienza una grossa somma di denaro; Lactilia, come veniva chiamata la
Yearsley, pubblicò numerose poesie nella raccolta Several occasions nel 1785
arrivando a guadagnare circa 600 sterline; sia la More che la Montagu tennero i
profitti affinché il marito della Yearsley non se ne approfittasse, ma la Yearsley le
accusò di aver rubato i soldi e le costrinse a restituirli. Questa incresciosa
situazione costrinse la More a uscire dai circoli intellettuali londinesi.
Nel 1782 Hannah pubblicò dei Drammi Sacri che sarebbero stati editi per
ben diciannove edizioni; questi drammi e le poesie Vas Bleu e Florio (1786)
segnarono la sua graduale transizione verso una prospettiva di vita più seria, che
fu poi espressa in modo compiuto attraverso la prosva nei suoi Thoughts on the
Importance of the Manners of the Great to General Society (1788) e in An
Estimate of The Religion of the Fashionable World (1790). In quel periodo la
More era in contatto con William Wilberforce e Zachary Macaulay (entrambi
attivisti abolizionisti) e simpatizzava con la loro visione evangelica, e fu proprio
in quel periodo che pubblicò Slavery, una poesia sulla schiavitù: era il 1788. Nello
stesso periodo fu amica di Beilby Porteus, vescovo di Londra e noto per la sua
posizione abolizionista, che la introdusse all’interno di un gruppo di attivisti
contro la schiavitù del quale facevano parte Wilberforce, Charles Middleton e
James Ramsay, la cui base era a Teston, nel Kent442,
Nel 1785 Hannah comprò una casa a Cowslip Green, vicino Wringyon, nel
nord del Somerset, dove si trasferì adeguandosi alla vita di campagna insieme alla
sorella Marta; in quegli anni scrisse molti libri e trattati etici tra cui Strictures on
the Modern System of Female Education (1799), Hints towards Forming the
Character of a Young Princess (1805), Celebes in Search of a Wife (1809),
Practical Piety (1811), Christian Morals (1813), Character of St Paul (1815),
Moral Sketches (1819). La More, dunque, si dimostrò una scrittrice piuttosto
prolifica e i suoi scritti si caratterizzaroano per un stile discorsivo, animato e
informale. L’originalità fu la forza della sua scrittura, caratteristica, questa, che

442
CHRISOLM H., More Hannah, in Encyclopeida Britannica, Cambridge
University Press, Cambridge, 1911.

121
probabilmente le valse tanta popolarità. Su richiesta di Porteus la More scrisse
molte rime ispirate e racconti in prosa la prima delle quali fu Village Politics
addressed to all the mechanics, journeymen, and laborers in Great Britain, di Will
Chip (1792), con le quali si propose l’obiettivo di controbattere le dottrine di
Thomas Paine e l’influenza della Rivoluzione francese. Rispetto allo schiavismo,
tuttavia, la sua posizione divenne più radicale solo verso la fine del XVIII secolo.
Il successo di Village Politics indusse la More e Porteus a iniziare la serie
di Cheap Repository Tracts che dal 1795 al 1797 furono prodotte tre al mese;
forse la più famosa di queste fu The Shepherd of Salisbury Plain, storia di una
famiglia che aveva scelto di vivere in modo eccezionalmente frugale traendone
grande soddisfazione. Il lavoro fu tradotto in molte lingue e ne furono stampate
circa 2 milioni di copie in un anno, contribuendo a diffondere valori quali la
povertà, l’umiltà, la sobrietà, l’amore per la Costituzione inglese, l’odio verso la
Francia, la fede in Dio e la bontà della piccola nobiltà. Verso la fine del 1780,
Hannah e la sorella Marta iniziarono a dedicarsi ad attività filantropica nella zona
del Mendip, incoraggiate da Wilberforce che era rimasto colpito dalle miserevoli
condizioni della gente del posto durante la sua visita a Cheddar nel 1789 443. La
More ebbe un ruolo fondamentale nella creazione di dodici scuole, dove si recava
a leggere la Bibbia e si occupava del catechismo; oltre a prendere parte attiva ad
alcune attività filantropiche, la scrittrice donò ingenti somme di denaro al vescovo
Philander Chase per la fondazione del Kenyon College, che, ancora oggi, vede un
suo ritratto appeso nella Pierce Hall444. Nonostante le loro buone intenzioni, non
tutti giudicarono positivamente le azioni delle sorelle More; furono soprattutto i
contadini a muovere loro le critiche più dure, timorosi che troppa istruzione
potesse allontanare le nuove generazioni dai campi, e una parte del clero che la
accusò di tendenze metodiste. Ciò nonostante, negli ultimi anni della sua vita, la
More fu fatta oggetto di molte visite da parte di filantropi che la andavano a
trovare e con i quali conversò amabilmente fino alla fine che accorse a Clifton il 7
settembre 1833.

443
COYSH A. W., MASON E. J., WAITE V., The Medips, Robert Hale,
London, 1977.
444
Cfr. Keyton Hall site, in http://www.kenyon.edu/x22810.xml

122
§. 4.4 Slavery (1795) e The Sorrows of Yamba; or The Negro Woman’s
Lamentation (1797)
La Carefulli sostiene che le battaglie della More «per l’alfabetizzazione dei
poveri e per l’abolizione della schiavitù restano tra le pagine più illuminate della
storia d’Inghilterra»445. La More fu un’accesa nemica dell’ipocrisia colonialiste e
si oppose sempre e con energia alle ragioni che venivano addotte per giustificare
le guerre. Per la scrittrice, infatti, le uniche ragioni che motivavano le guerre erano
di carattere economico e nulla avevano a che fare con il proselitismo religioso;
queste sue considerazioni si trovano chiaramente espresse in Percy, dove si legge:

«[…] non il bastone, non l’abito del pontefice, lo sguardo santo, l’occhio
elevato, né la Palestina distrutta, né le sponde della Giordania inondate di sangue,
no, né l’estinzione del mondo orientale né tutta la folle, perniciosa, bigotta rabbia
dei vostri crociati potranno corrompere quel Potere che vede il motivo dietro
l’atto. Quanto è cieco credere che la crudele guerra possa compiacere il Principe
della pace! Egli, che ha eretto il suo altare nel cuore, aborrisce il sacrificio del
sangue umano e tutta la falsa devozione di quello zelo che massacra il mondo per
salvare il quale si sacrificò»446.

Per Demarry non c’è alcun dubbio che la More fu un personaggio


fondamentale nella lotta contro l’abolizione della schiavitù447 e questo in virtù del
fatto che l’esperienza diretta che aveva fatto della tratta degli schiavi la motivò a
farsi portavoce della causa abolizionista 448. Per questo motivo la More insistette

445
CRISAFULLI L. M., La poesia romantica inglese, in ANSELMI G. M.
(a cura di), Mappe della letteratura europea e mediterranea. III. Dal Barocco
all’Ottocento, Mondadori, Milano, 2000, p. 299 (pp. 293-310).
446
Citazione tratta BRAMANI L., Mozart massone e rivoluzionario,
Pearson Italia, Milano, 2005, p. 322.
447
DEMARAY D. E., The Innovation of John Newton (1725-1807);
synergism of Word and Music in Eighteenth Century Evangelism, Edwin Mellen
Press, New York, 1988, p. 153.
448
PUGLISI J. F., TOBLER S., testimoni della fede nelle chiese della
Riforma, Città Nuova, Firenze, 2010, p. 276.

123
con Lady Middleton affinché facesse leva sul manager del Drury Lane Theatre a
Londra e portasse in scena Oroonoko, spiegando che in questo modo sarebbe stato
possibile trasmettere un messaggio antischiavista a tremila persona a notte449.
La More, nella sua prolifica produzione, scrisse una delle poesie
antischiaviste più note, Slavery, come esplicito manifesto di propaganda volto ad
aiutare Wilberfoce nella sua campagna di apertura al Parlamento contro il
commercio degli schiavi nel 1788450. Per l’occasione scrisse alla sorella: «I grieve
that I did not set about it sooner; a sit must now be done in such a hurry… but
good or bad, if it does not come out at the particolar moment when the discussion
comes on in Parliament, it will not be worth a straw» 451. In una nota al suo poema,
la More aggiunse:

«The writer of these lines has seen complete set of chains, fitted to every
separate limb of these unhappy, innocent men; together with instruments for
wrenching open the jaws, contrived with such ingenious cruelty as would shock
the humanity of an inquisitor»452.

Scritto nel 1788 su invito della Society for the Abolition of the Slave trade
come propaganda per l’Abolition Bill, il poema della More si apre con una lunga
filippica contro la «mad Liberty» dei riformatori che dormono i loro sonni
tranquilli a casa:

If heaven has into being deign’d to call


Thy light, O LIBERTY! to shine on all;
Bright intellectual Sun! why does thy ray
To earth distribute only partial day?
Since no resisting cause from spirit flows

449
Letter from Hannah More to Lady Middleton, Cowslip Green, 10
settembre 1788, in CHATTERTON G. (LADY) (a cura di), Memorials, personal
and Historical, of Admiral Lord gambier, Hust & Blackett, London, 1861, p. 169.
450
MORE H., Slavery, a Poem, T. Cadell, London, 1788.
451
ROBERTS W, Memoirs of the Life and Correspondence of Hannah
More, R. B. Seeley, London, 1834, vol. II, p. 97.
452
Citazione tratta Hannah More, from Slavery, a Poem, in
http://www.wwnorton.com/college/english/nael/18century/topic_2/more.htm

124
Thy penetrating essence to opose;
No obstacles by Nature’s hand imprest,
Thy subtle and ethereal beams arrest;
Nor motion’s laws can speed thy active course;
Nor strong repulsion’s pow’rs obstruct thy force;
Since there is no convexity in MIND,
Why are thy genial rays to parts confin’d? (1-12).

Nel suo poema la More racconta della capacità tutta Africana di sentire:
«Tho’ few can reason, all mankind can feel» (150) e, come Moira Ferguson
evidenzia, «Even though Africans are ugly, rationally inferior, and basically
savage, Christian values dictate that the do feel» 453. Nel suo poema la More
deplora il nuovo razzismo filosofico impersonificato da autori come Hume e
Voltarie

Perish th’ illiberal thought which wou’d debase


The native genius of the sable race!
Perish the proud philosophy, which sought
To rob them of the pow’rs of equal thought! (59-62)

Nelle sue parole ritorna più volte il tema dei diritti umani:

What page of human annals can record


A deed so bright as human rights restor’d ?
O may that god-like deed, that shining page,
Redeem our fame, and consecrate our age! (259-262)

Il diritto alla libertà era molto caro alle menti settecentesche britanniche e
americane che erano visti come popoli liberi che vivevano in una sorta di «età
illuminata»454. E fu proprio per la contraddizione evidente che questi due popoli,
che avevano posta la libertà nel proprio stendardo, vivevano perpetrando il
commercio degli schiavi che nel 1788, centenario della Gloriosa Rivoluzione, gli

453
FERGUSON M., Subject to Others: british Women Writers and
Colonial Slavery, 1670-1834, cit., pp. 8-9.
454
BRADBURN S., An Address to The People called Methodists
concerning the Eveil of Encouraging the Slave Trade, 1792, p. 6.

125
abolizionisti sentirono di dover rimarcare l’amore per la libertà che la Gran
Bretagna sbandierava ai quattro venti. La stessa Hannah More scrisse:

Shall Britain, where the soul of freedom reigns,


Forge chains for others she sherself disdains? (251-252)

Per gli abolizionisti americani evangelici, come Jonathan Edwards Jr.,


Samuel Hopkins e Benjamin Rush, la schiavitù era incompatibile con la
Dichiarazione di Indipendenza che aveva affermato solennemente che tutti gli
uomini erano creati uguali e dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili. E
su questa falsariga nel suo Poema la More critica con veemenza la tratta degli
schiavi e cerca di convincere i lettori ad ascoltarla455 e ad adottare una posizione
abolizionista;

Does then th’immortal principle within


Change with the casual colour of a skin? (63-64).

Due rime, quelle succitate, nelle quali la poetessa rimarca, anche attraverso
un sapiente uso stilistico, la sua posizione antischiavista. Nel suo “a” riferito a
“skin” è possibile cogliere la sensibile ma profonda intenzione di indurre nel
lettore un atteggiamento positivo nei confronti dei “non –bianchi” in quanto
persone uguale ai “bianchi”, dunque degne degli stessi diritti umani. Lungo tutto il
poema, la More ribadisce che il colore della pelle non determina la personalità
degli individui e sottolinea tale principio quando parla del coloro casuale della
pelle e, più specificatamente, del « casual colour of a skin». Quando si pensa a
“una pelle”, infatti, si può formare nella mente l’immagine della pelle di un
animale, magari di quella che un commerciante ha strappato dal suo corpo; così
nel poema questa “a” svolge la medesima funzione, perché la presenza di questo
articolo indeterminativo crea la nozione di rimozione figurativa della pelle di uno
schiavo che la indossa. Attraverso questa metaforica “escoriazione” 456, la More

455
BLACK J., The Broadview Anthology of British Literature: The
Restoration and the Eighteenth Century, Broadview Press, Buffalo, 2012, p. 830.
456
Voce “casual”, in Oxford English Dictionary, Oxford University Press,
Oxford, 2013.

126
induce il lettore a focalizzarsi su quello che è il punto nodale del suo Poema:
separare la pelle fisica dallo schiavo in modo da vedere che, al di sotto, egli è un
essere umano come lo è chi “indossa” una pelle bianca. La “a”, dunque, serve a
instillare nella mente del lettore che chi indossa una pelle diversa non è uno
schiavo ma solo un essere umano. Il principio immortale cui la scrittrice fa
riferimento è lo stesso per ogni persona; è ciò che sta “within” si trova in
opposizione alla “skin” che non rappresenta altro se non che un involucro. Questi
concetti vengono rimarcati ulteriormente dalla parola “causal” che esprime la
mancanza da parte dello schiavo di un libero arbitrio nello scegliere la propria
pelle, concetto che ribadisce qualche rima dopo «[The slaves] stand convinte-of a
darker skin!»” (134).
Alcuni critici più che soffermarsi sulla sua abilità come poetessa hanno
evidenziato che ciò che maggiormente rileva negli scritti della More sono proprio
i concetti trasmessi: la devozione verso il cristianesimo, la vita domestica, la
parità dei diritti umani. Quando scrive «Thy followers only have effac’d the
shame/Inscribed by SLAVERY on the Christian name» (250-251), la More
intende far provare vergogna a quelli che in seno alla cristianità inglese
sostenevano la schiavitù e il suo traffico e questo perché un simile atteggiamento
era assolutamente contraddittorio con i principi della Chiesa; «The are not
Christians who infest thy shore» (188) e che per diventare degni di essere cristiani
essi dovevano eliminare qualsiasi comportamento che macchiasse «lustre of the
Christian name» (275). Nei suoi versi, inoltre, la More si rivolge in particolare alle
donne, sperando di far leva sul loro naturale attaccamento alla famiglia; e racconta
loro di questi schiavi africani strappati dalle loro famiglie, mariti allontanati dalle
moglie e mogli depredate dei propri figli, «The burning village and the blazing
town: […]/The shrieking babe, the agonizing wife!» (98-100). La scrittrice si
focalizza più volte sulle famiglie degli schiavi «That self same stuff which erst
proud empires sway’d» (79) e «high-soul’d passion» (72), in modo tale da
eliminare l’idea di inferiorità, aumentando le qualità degli africani.
Come abbiamo avuto modo di evidenziare, nonostante le accortezze
letterarie e contenutistiche, ci fu chi dubitò sui reali sentimenti della More nei
confronti della schiavitù. In Slavery, ad esempio, la More scriveva che gli

127
Africani agivano con un «firm, tho’ erring zeal» (68) e definiva le loro menti «a
savage root» (73). Questo tipo di affermazioni hanno suggerito che la More
considerasse gli schiavi mentalmente ben disposti e fisicamente ben dotati ma, in
generale «ignorant and blind» (147). Per la More era un imperativo dei bianchi
come liberare e guidare gli Africani verso una vita migliore. Si tratta, a ben
vedere, di una forma di razzismo molto innocente e che molto probabilmente la
scrittrice, nel comporre il suo Poema, dovette utilizzare soprattutto perché in quel
periodo, con la Rivoluzione Francese che si stava preparando, non c’era molto
margine di spazio per atteggiamenti eccessivamente anarchici e sediziosi.
Sebbene Slavery sia uno dei poemi più noti della More non fu l’unico ad
affrontare la tematica antischiavista. Dopo aver ottenuto un certo effetto in
Parlamento, infatti, la More decise di scrivere qualcos’altro a sostengo
dell’antischiavismo ma, questa volta, per un pubblico più vasto di lettori in modo
tale da diffondere al massimo le sue convinzioni. Fu così che nacque The Sorrows
of Yamba or The Negro Woman’s Lamentation (1797); poema nel quale si
racconta la storia di Yamba, donna africana strappata dalla sua terra natale e
trasferita via mare in Inghilterra. La prima tentazione di Yamba è quella di
togliersi la vita ma i suoi propositi suicidi vengono meno quando incontra un
missionario che la introduce al Cristianesimo. Si tratta, di fatto, di un poema, che
alterna sentimenti di paura e disperazione a una lucida visione politica; la forte
intenzione realistica della scrittrice, tuttavia, perde vigore nella descrizione
stereotipata di Yamba.

Why man he came from far,


Sailing o’er the briny flood;
Who, with help of British Tar,
Buys up human flesh and blood (17-20).

Sulla nave, la donna e gli altri schiavi sono «[d]riven like Cattle to a fair»
(57); molte sono violentate, si ammalato, e sono lasciati morire, inclusio il figlio
di Yamba; «Naked on the platform lyin» (33), «Shrieking, sickening, faintin,
dying» (35) e «My poor child was cold and dead» (48). La More fornisce una
descrizione molto realistica di quello che gli schiavi dovettero subire, si sofferma
sui dettagli e sui particolari; il suo vocabolario si concentra sulla violenza, sul

128
dolore e la disperazione, soprattutto nelle prime 26 strofe. Yamba versa in uno
stato di tale costernazione che non vede altra uscita se non quella di togliersi la
vita «Death itself I long’d to taste» (79). Oltre a denunciare la disumanità dei
mercanti di schiavi e la miseria nella quale viene relegata la gente di colore, la
More attacca violentemente le leggi britanniche, «British laws shall ne’er befriend
me,/They protect not slaves like me» (71-72); chiama gli inglesi «[s]ons of
murder» (161) e ironicamente si riferiste all’inno patriottico di James Thomson,
Rule Britannia.

Ye that boast ‘Ye rule the waves’,


Bid no Slave-ship foil the sea;
Ye, that ‘never will be slaves’,
Bid poor Afric’s land be free (165-168).

Yamba non sogna l’uguaglianza ma di potersi riunire all’amato marito,


«Still shalt see the man I love; / Join him to the Christian band» (182-183) e
«imagines an Africa free from British incursions»457. Sebbene la More si schieri
dalla parte degli africani il suo modo di descriverli, anche in questo poema,
restava ambiguo. Sceglie, ad esempio, di far parlare Yamba in modo volutamente
scorretto, quasi a rimarcarne la poca istruzione. Quando dice: «English
Missionary Good;/He had Bible book in hand;/Which poor me no understood»
(82-84), è chiaro che Yamba si riferisce a se stessa come a una “poor Negro
woman” incapace di capire il Dio bianco della Bibbia missionaria. L’idea che gli
africani fossero ignoranti e incapaci di parlare e leggere correttamente l’inglese
era uno stereotipo molto diffuso ai tempi della More e il fatto che Yamba, nel
poema, arrivi addirittura a benedire la sua condizione di schiava perché le aveva
permesso di conoscere il Cristianesimo, ha sollevato non pochi interrogativi da
parte della critica. Le rime «Now I’ll bless my cruel capture, / (Hence I’ve know a
Saviour’s name)» (126-127) rimandano immediatamente alla volontà di molti
missionari di convincere gli africani ad aderire al cristianesimo quasi a forza.

457
RICHARDSON A., The Sorrow of Yamba, by Eaglesfield Smith and
Hannah More: Authorship, Ideology, and the Fractures of Antislavery Discourse,
in “Romanticism on the Net”, n. 28, novembre 2002, in http://
www.erudit.org/revue/ron/2002/v/n28/007209ar.html>,

129
Yamba, dunque, è un poema che, sostanzialmente, più che opporsi allo
schiavismo, celebra la religione che salva Yamba stessa alla quale solo le ultime
stanze regalano un po’ di felicità,

There no fiend agin shall sever


Those whom God hath join’d and blest;
There they dwell with him for ever,
There ‘the weary are at rest’ (185-188).

È anche vero, tuttavia, che molte campagne antischiaviste furono guidate


ai tempi della More da sostenitori della fede evangelica, spinti dal desiderio di
divulgare e diffondere il punto di vista cristiano secondo il quale tutti gli uomini
sono uguali. Essi credevano che l’istituzione della schiavitù contraddicesse la loro
moralità e per questo tentarono di aiutare gli schiavi credendo di avere una
responsabilità morale nel porre la parola fine alla tratta degli schiavi africani.
Nel caso di Yamba è innegabile che la lunghezza del poema giochi un
ruolo importante in quanto permette ai lettori una lettura cronologica degli eventi
che si succedono nella vita della donna; la sua partenza forzata dall’Africa, la sua
vita a bordo della nave negriera, il suo desiderio di morire, il suo incontro con il
missionario, la sua scoperta del cristianesimo, la sua aspirazione a vedere il suo
paese libero e la possibilità di ritrovare il suo amato marito in cielo.
Stilisticamente parlando il poema stupisce per l’uso frequente dei termini dialettali
e per la sintassi spezzata; «Which porr me no understood» (84), «Sooth’d and
pitied all my woe» (94); «E’en to Mass pardons offer’d» (107), «O, ye slaves
whom Massa beat» (113), «Flowing thro’ the guilt of man» (124) sono solo alcuni
esempi. Questo, insieme all’uso della sincope e dell’apocope, aiuta a rendere il
discorso di Yamba particolarmente esotico; non bisogna dimenticare, infatti, che
l’esotismo fosse un aspetto importante del Romanticismo e in gran parte costituito
da stereotipi. Durante il periodo della tratta alla maggior parte degli schiavi era
negata qualsiasi educazione formale; numerose leggi vietavano la loro
alfabetizzazione, divieto che tardò moltissimo a essere eliminato; questo fece sì
che molti afroamericani inventassero un proprio linguaggio, fatto che portò i
bianchi a descriverli come persone incapaci di parlare in modo appropriato; Moira
Ferguson ha evidenziato che l’uso del dialetto serviva per evidenziare la

130
«stupidity of slaves» e li poneva in una posizione di inferiorità rispetto agli
Inglesi458. Nel caso di Yamba, il fatto che essa fosse incapace di capire la Bibbia
senza l’aiuto del «good white missionary» (21) rinforza la sua presunta
«stupidity». Questi accorgimenti stilistici furono utili alla More per dare al suo
personaggio non solo un carattere esotico ma anche una personalità infantile che
poteva ben sposarsi con la volontà della More di rendere accessibile il suo
personaggio anche a lettori di estrazione più umile e questo, al di là di quelli che
possono essere additati come limiti culturali della scrittrice, risultò uno
stratagemma stilistico che rese comprensibile a molti l’umanità dietro il color di
“a skin”.

458
FERGUSON M., Subject to Others: British Women Writers and
Colonial Slavery, 1670-1834, Routledge, New York, 1992, p. 103.

131
CONCLUSIONI

La letteratura femminile è stata a lungo considerata un genere “minore”


rispetto a quella maschile e, in effetti, il numero delle scrittrici è stato per molto
tempo inferiore a quello degli scrittori in virtù del fatto che alle donne è stata
letteralmente impedita la piena espressione e l’accesso alla cultura, relegate al loro
ruolo domestico e al loro destino biologico. Il tema della letteratura femminile,
contrapposta a quella maschile, che resta, a tutt’oggi, un tema alquanto
controverso, non è stato oggetto precipuo del nostro studio, tuttavia l’esistenza di
una “questione” rileva in quanto permette di capire quanta difficoltà e quanta
volontà le scrittrici che abbiamo analizzato dovettero mettere in campo per portare
a termine la loro lotta contro lo schiavismo e l’affermazione di un pensiero libero.
Già per le donne era difficile essere prese sul serio, già era estremamente
utopico pensare di vivere di scrittura, perché difficile trovare un editore e un
pubblico che desse loro credito, ancora più complesso se ciò di cui si sceglieva di
scrivere andava contro un’opinione largamente diffusa che era quella che gli
africani erano schiavi di natura o, meglio, che tutti coloro che non erano europei
lo fossero. Numerosi fattori di ordine storico, ambientale, di costume e anche
contingenze esterne ostacolavano l’espressione letteraria femminile, ma
nonostante ciò voci femminili autorevoli riuscirono a imporsi nei secoli
trasformando le donne da oggetti letterari a soggetti, da muse ispiratrici ad autrici.
Per la loro innata sensibilità, per quel senso di solitudine, infelicità e oppressione
che molte di loro provavano in quanto “recluse” all’interno di una società che
aveva costruito per loro dei “ruoli” dai quali era quasi impossibile uscire, molte
scrittrici non si limitarono a scrivere di “sentimenti” ma scelsero di impugnare la
penna come se fosse una spada per reclamare o denunciare diritti a volte ignorati e
altre volte calpestati come nel caso dello schiavismo.
Forse perché tenute a latere del mondo della politica, escluse dalle cariche
di governo ed emarginate dagli ambienti dove si decidevano delle sorti del
mondo, le penne di autrici come la More, la Behn, la Beecher Stowe e la

132
Wheasley, forse proprio per questa loro “non appartenenza” forzata a nessun
partito politico o centro di potere, furono più “libere” di esprimere il loro punto di
vista poetico e politico al contempo. Tenute in poca o nessuna considerazione, le
scrittrici che sposarono la causa abolizionista contribuirono, anche se
larvatamente, in modo decisivo all’abolizione dello schiavismo. Basti pensare al
celebre romanzo della Beecher Stowe per capire la portata della letteratura
femminile all’abolizione della schiavitù; pubblicato a Boston nel 1851 Uncle
Tom’s Cabin contribuì più di molte parole spese dagli abolizionisti e di qualsiasi
altro libro dei colleghi scrittori maschi a sensibilizzare gli americani sul problema
della schiavitù. Non fu certo un caso se lo stesso Lincoln definì la Stowe «la
piccola donna che vinse la guerra».
Ma se il romanzo della Stowe, che è cronologicamente l’ultimo edito di
quelli analizzati, sferzò la scoccata finale alla causa abolizionista, non bisogna
dimenticare, né sottovalutare, anche il contributo delle altre scrittici. Fu anche
attraverso le loro rime e le loro prose che vinse la causa antischiavista; anzi, è
giusto affermare che le autrici che precedettero la Stowe le prepararono il campo
e, per certi aspetti, si esposero di più vivendo in periodi per le donne ancora più
difficili. È vero, tuttavia, che in molti degli scritti analizzati, le autrici, per
denunciare il mercato umano, fecero ricorso a immagini stereotipate che attirarono
le critiche e i dubbi non solo di autori loro coevi ma anche dei posteri circa la loro
reale posizione nei confronti dello schiavismo. Ci fu chi, soprattutto a posteriori,
considerò che le immagini stereotipate degli africani, descritti ora come
essenzialmente “diversi” ora come “massa-indifferenziata”, contribuirono
soprattutto alla mis-rappresentazione degli schiavi afro-caraibici, dimostrando il
latente razzismo di molta scrittura abolizionista di quel tempo. Lo schiavo, per
essere umano, doveva soffrire e per diventare davvero umano doveva convertirsi
al Cristianesimo; gli schiavi venivano per lo più descritti come sottomessi, ridotti
quasi sempre a un silenzio spesso auto-inferto e relegati a una posizione
marginale. E se è certamente vero che questi elementi si ritrovano, in tutto o in
parte, nei testi analizzati, è anche vero che non mancano momenti di pura poesia
dove allo schiavo è dato il diritto di ribellarsi, di mettere in atto una vendetta
anche sanguinaria, gli si riconosce la capacità di sopportare il dolore con

133
grandissima dignità e tutto ciò contribuisce a emancipare lo schiavo africano dalla
sua immagine stereotipata.
Non tutti gli schiavi di cui racconta la More, la Behn, la Beecher Stowe e
la Wheasley sono vivi ma silenziosi e, comunque, al di là dei limiti che possono
essere ascritti a queste quattro autrici, non bisogna sottovalutare il loro tentativo di
restituire dignità a tutti gli uomini, schiavi compresi, uno sforzo che costò ad
alcune di loro la reputazione. Molti scrittici, come molti scrittori, inglesi, tra il
diciassettesimo e il diciannovesimo secolo si schierarono apertamente contro la
schiavitù, facendo emergere nei loro scritti le ambivalenze e le contraddizioni di
chi si era dichiarato contro il mercato degli schiavi, mettendo in evidenza le ansie
della cultura illuminata del momento, ma che tuttavia viveva la vita facendosi
“servire” da qualcun altro.
Nei testi della More, della Behn, della Beecher Stowe e della Wheasley gli
schiavi appaiono ora sottomessi e senza parole, ora dotati di una straordinaria
forza per riconquistare la libertà perduta; vengono invocati concetti come libertà e
uguaglianza anche se a volte ridotti a immagini ferme e prive di impatto, Ma è pur
vero, ed è questo che va soprattutto riconosciuto, che queste quattro interpreti
certamente avrebbero avuto vita più facile se avessero scelto di assolvere al
“ruolo” che la società affidava loro, di moglie e madri, pur tuttavia decisero di
uscire da quella “gabbia dorata” e gettarsi nel mondo per diventare delle
protagoniste. Poco importa, dunque, se a volte i loro scritti appaiono ingenui,
superficiali, contraddittori e a volte anche “razzisti”, si tratta, infatti, di giudizi che
vengono dati a posteriori quando è difficile capire realmente lo sforzo di queste
donne che scelsero comunque una strada difficile e posero la loro penna al
servizio di una causa certamente più grande di loro.

134
BIBLIOGRAFIA

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