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L'alba di tutto ci parla del futuro

di Sandro Padula

Gli esseri umani non sono di natura buoni, come affermano la cultura cristiana e la filosofia di Jean-
Jacques Rousseau (1712–1778), e nemmeno cattivi, come invece ritengono i reazionari e il loro
amato Thomas Hobbes (1588–1679), quel teorico dello Stato assoluto che giunse ad affermare
l'idiotesca idea secondo cui la condizione dell'uomo sarebbe quella di una guerra di tutti contro tutti.
Entrambi questi miti, quello dell'uomo di natura buono o cattivo, hanno in comune l'idea secondo
cui gli esseri umani preistorici o selvaggi (come arbitrariamente furono definiti gli indigeni delle
Americhe o di altre parti del mondo colonizzato dagli occidentali) sarebbero stati stupidi, ma per
buona fortuna adesso vengono sistematicamente distrutti da “L'alba di tutto” (David Graeber e
David Wengrow, casa editrice Rizzoli, 2022), un saggio utile per la comprensione almeno della
parte più recente di quel periodo ultramillenario che, in modo convenzionale e spesso con
arroganza, chiamiamo preistoria.
L'antropologo David Graeber (New York, 12 febbraio 1961 – Venezia, 2 settembre 2020), un
anarco-comunista famoso per aver organizzato il movimento “Open Wall Street”, ha lasciato così
una specie di testamento culturale e l'ha potuto fare grazie al contributo dell'archeologo David
Wengrow che oggi, assieme a molte altre persone, ne tutela la memoria.
È un vero peccato che Graeber sia morto prematuramente perché, senza dubbio, lui da solo o
insieme ad altri avrebbe potuto realizzare anche altre opere di grande interesse culturale e politico.
Fatta questa doverosa precisazione, si può subito dire che, fin dall'inizio, gli autori del libro “L'alba
di tutto” ci presentano il filosofo-statista wendat (o urone) Kondiaronk (c. 1649-1701).
Di costui, sia pur col nome di Adario, aveva già parlato l'eploratore francese Luois Armand
Lahontan (1666-prima del 1716) nel suo “Dialogo con un selvaggio d'America”, ma Graeber e
Wengrow hanno cercato di farlo conoscere il più possibile allo scopo di criticare le filosofie di
intellettuali come Rousseau.
Per il pubblico europeo, o più precisamente per chi amava l'esistenza di centinaia di sette religiose
cristiane o faceva l'apologia del denaro, la critica indigena avrebbe potuto costituire uno shock per il
sistema, mettendo in risalto possibilità di emancipazione umana non più ignorabili. Ecco perché, al
tempo di Kondiaronk, fu inventata la classica metanarrazione storica secondo cui le libertà si
perderebbero nella misura in cui le società si fanno più grandi e più complesse.
Verso la metà del XVII secolo, molti pensatori giuridici e politici europei cominciarono ad
ipotizzare l'esistenza di uno “stato di natura ugualitario, almeno nel senso minimo di condizione
predefinita capace di accomunare società che, ai loro occhi, erano prive di governo, scrittura,
religione, proprietà privata o altri strumenti significativi per distinguersi tra loro” (pag. 58-59).
Parole come “uguaglianza” e “disuguaglianza” cominciavano soltanto allora a circolare fra gli
intellettuali europei, persone sempre più incuriosite dalla possibile strutturazione delle “società
primordiali” ma non pensavano che lì ci fossero uomini e donne particolarmente “nobili”, né
tantomeno degli scettici razionali e paladini della libertà individuale.
All'inizio, né i coloni della Nuova Francia (nel nord America) né i loro interlocutori indigeni
avevano molto da dire sull'“uguaglianza”.
“Piuttosto la discussione riguardava la libertà e l'assistenza reciproca, o forse faremmo meglio a
dire la libertà naturale o il comunismo” (pag. 59).
Su quest'ultimo concetto è comunque necessario fare alcune precisazioni.
“Dall'inizio del XIX secolo sono in corso accesi dibattiti sull'esistenza di qualcosa che si possa
legittimamente definire “comunismo primitivo”. Al centro di queste discussioni c'erano
sistematicamente le società indigene delle Foreste nordorientali, e questo da quando Friedrich
Engels usò gli irochesi come esempio principale di comunismo primitivo nell'“Origine della
famiglia, della proprietà privata e dello Stato” (1884). Qui “comunismo” si riferisce sempre alla
proprietà comune, in particolare a quella delle risorse produttive (….). Molte società americane si
potevano considerare alquanto ambigue in questo senso: le donne possedevano e lavoravano i
campi individualmente, anche se conservavano e vendevano i prodotti collettivamente, gli uomini
possedevano gli attrezzi e le armi singolarmente, anche se di solito dividevano la selvaggina e i
bottini di guerra.
Esiste tuttavia un altro modo per usare la parola “comunismo”: non come regime di proprietà, ma
nel significato originario di “da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo i suoi
bisogni”. C'è anche un certo comunismo minimo, “di riferimento”, valido in tutte le società: l'idea
che se i bisogni di un'altra persona sono abbastanza grandi (per esempio, quella persona sta
affogando) e se il costo per soddisfarli è abbastanza modesto (per esempio, quella persona vi
chiede di gettarle una corda) naturalmente qualunque essere umano perbene acconsentirebbe.
Questo tipo di comunismo di riferimento potrebbe essere considerato la base della socievolezza
umana, perché gli acerrimi nemici sarebbero gli unici a non essere trattati in questo modo. A
variare è la misura in cui si ritiene opportuno estendere questo comunismo di riferimento” (pag. 59-
60).
Qui gli autori del libro “L'alba di tutto” hanno fatto bene a riportare la frase“da ciascuno secondo le
sue possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”, usata da Marx nella sua “Critica del
programma di Gotha” (1875), ma probabilmente avrebbero dovuto precisare che i bisogni crescono
di continuo e non tutti possono essere soddisfatti e, di conseguenza, essa andrebbe riferita solo ed
esclusivamente ai bisogni di volta in volta fondamentali di ciascuno. D'altro canto, parlando di un
comunismo basilare di riferimento, hanno fornito un'interpretazione più ampia del concetto di
comunismo primitivo.
Sia pur in modo indiretto, questo ragionamento è stato confermato da un'opera di Madame de
Graffigny intitolata “Lettere d'una peruviana” e pubblicata nel 1749, “dove un'immaginaria
principessa inca rapita espone il proprio punto di vista sulla società francese. Il libro è considerato
un punto di riferimento femminista, nel senso che potrebbe benissimo essere il primo romanzo
europeo incentrato su una donna che non finisce con il matrimonio o la morte della protagonista.
Zilia, l'eroina, è contrariata dalle vanità e dalle assurdità della società europea quanto lo è del
patriarcato” (pag.71).
Madame de Graffigny dipinse l'impero inca come un dispotismo benevolo, un regime in cui tutti
erano uguali davanti al re, e “la critica di Zilia alla Francia, come quella di qualunque straniero
immaginario scriva nella tradizione di Kondiaronk, si impernia nella società francese e nelle sue
violente disuguaglianze” (pag. 72) ma A.R.J. Turgot, un seminarista ed economista in erba, trovò
questo ragionamento inquietante e perfino pericoloso. Lui, per evidente reazione alla critica
indigena nei confronti della Francia e degli altri paesi europei, dapprima teorizzò la presunta
supremazia del progresso tecnologico come motore del miglioramento sociale generale e poi, su
questa base, affermò che l'evoluzione sociale parte sempre con i cacciatori, poi passa a una fase di
pastoralismo, quindi all'agricoltura e alla fine raggiunge la fase della civiltà commerciale urbana.
Nel giro di pochi anni questa teoria evoluzionistica della società fu ripresa da Adam Smith e
consolidata dai suoi colleghi (Lord Kames, Adam Ferguson e John Millar).
Costoro pensavano che la libertà e l'uguaglianza dei selvaggi sarebbero segni di inferiorità e
risulterebbero possibili soltanto nelle società con una generalizzata situazione di miseria; in tal
modo, condivisero e svilupparono le fantasticherie mentali presenti sia nell'opera “Il discorso
sull'origine e i fondamenti dell'ineguaglianza tra gli uomini” (1755) di Rousseau che nel
“Leviatano” (1651) di Hobbes per meglio diffondere l'infame “mito dello stupido selvaggio”.
La teoria evoluzionistica del mondo sociale diventò così uno stereotipo tanto lineare e
meccanicistico quanto eurocentrico.
“Gli imperialisti del XIX secolo adottarono questo stereotipo con entusiasmo, limitandosi ad
aggiungere una varietà di giustificazioni pseudoscientifiche – dall'evoluzionismo darwiniano al
razzismo “scientifico” – per approfondire l'idea di semplicità innocente, e dunque offrire un
pretesto per relegare i rimanenti popoli liberi del mondo (o sempre più spesso, con l'espandersi
dell'imperialismo europeo, gli ex popoli liberi) in uno spazio concettuale in cui i loro giudizi non
suonassero più minacciosi” (pag.86).
A quel tempo, se vogliamo dire le cose come stavano senza perdere tempo, imperava una grande
ignoranza. Nessuno, ad esempio, sapeva quando fosse nato il cosmo in cui viviamo.
“Agli albori del XIX secolo, gran parte degli “uomini di lettere” - scienziati compresi – dava
ancora per scontato che l'universo non fosse nemmeno esistito fino alla fine di ottobre del 4004
a.C. e che tutti gli esseri umani avessero parlato la stessa lingua (l'ebraico) fino alla dispersione
dell'umanità, dopo il crollo della torre di Babele sedici secoli dopo” (pag. 91).
Nel XXI secolo d.C. la situazione culturale è migliorata nettamente, ma sappiamo ancora poco della
preistoria e perfino dell'Homo Sapiens che, secondo gli autori del libro “L'alba di tutto” -
rifacendosi alla teoria oggi dominante - sarebbe comparso in Africa, si imbatté in Eurasia con altre
popolazioni – come i Neanderthal e i Denisovani – di cui vide l'estinzione e costituì l'essere da cui
derivano gli animali umani come noi.
Non sappiamo di preciso se l'Homo Sapiens sia comparso solo in Africa oppure – come alcuni
ritengono negli ultimi decenni – in diverse aree del mondo (Africa, Europa, Asia, Sud-est asiatico e
Cina) in modo quasi contemporaneo. Non sappiamo nemmeno quale fosse il rapporto fra l'Homo
Sapiens da un lato e popolazioni come i Neanderthal e i Denisovani dall'altro. Qualche dietrologo,
pensando alle macabre attività dei nazisti diretti da Hitler o all'apocalissi del 1945 costituita dalle
bombe nucleari statunitensi sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki, è giunto a ipotizzare che
l'Homo Sapiens abbia sterminato altre popolazioni, ma su questo non esistono al momento delle
prove sufficienti.
I dietrologi, discepoli coscienti o incoscienti di Thomas Hobbes, sono sempre uguali: risultano
essere tanto reazionari quanto presuntuosi e ignoranti!
Partiamo perciò dal fatto che esiste quell'Homo Sapiens, da cui ognuno di noi deriva, e dall'ipotesi,
la più realistica possibile, che l'Homo Sapiens non sia stato e non sia né buono né cattivo in sé.
Dovremmo imparare ad essere, in maniera gramsciana, sia pessimisti con l'intelligenza che ottimisti
con la volontà su noi stessi. Questa è la premessa per ampliare la conoscenza e il sapere di ognuno.
Il resto sono davvero chiacchiere.
In questo senso, dovremmo da un lato ragionare e socializzare ciò che abbiamo già acquisito dal
punto di vista culturale e dall'altro, sulla base delle nuove conoscenze, rielaborare frequentemente le
nostre idee e le nostre teorie in ogni campo del sapere.
Il mondo sociale e anche fisico dei nostri lontani avi, come già sappiamo, era molto diverso da
quello in cui viviamo e probabilmente la situazione rimase immutata almeno fino al 40000 a.C.
circa. Inoltre, come stiamo iniziando a capire, è possibile dedurre che l'organizzazione sociale dei
nostri antenati fosse, con tutta probabilità, molto variegata.
Il comunismo primitivo non era solo e semplicemente il possesso collettivo dei mezzi di
produzione; aleggiava su tutte le società preistoriche o “primitive”, anche quelle con poca proprietà
comune, rendendole meno inique nei rapporti fra uomo e donna e nel complesso dei rapporti sociali;
aveva la capacità di revocare i dirigenti in modo frequente; rispettava di più i beni comuni naturali e
sociali indispensabili alla vita; non di rado praticava l'economia del dono e comunque cercava
sempre di soddisfare i bisogni collettivi e individuali di carattere fondamentale.
Per parecchio tempo si è pensato che gli uomini primitivi fossero stupidi, ma verso la metà del XX
secolo le cose iniziarono a cambiare.
Allora l'antropologo Claude Lévi-Strauss (Bruxelles 1908 - Parigi 2009) cominciò a ritenere che i
primi esseri umani fossero al nostro stesso livello intellettuale.
In questo quadro, per la precisazione nel 1944, pubblicò un saggio sull'attività politica della piccola
popolazione dei nambikwara “che abitava in un'inospitale regione della Savana nel Mato Grosso
nordoccidentale, in Brasile” (pag 112).
I nambikwara facevano una vita relativamente semplice e, stante la loro cultura materiale molto
rudimentale, venivano considerati come una finestra affacciata sul Paleolitico, ma ciò, secondo
Lévi-Strauss, è un errore in quanto loro vivevano all'ombra dello Stato moderno “praticando il
baratto con gli agricoltori e gli abitanti delle città e talvolta offrendosi come braccianti. Alcuni
potrebbero persino essere discendenti di coloro che fuggivano dalle città o dalle piantagioni” (pag.
112)
Ad ogni modo, sempre secondo quell'antropologo, i loro modi di organizzare la vita possono essere
utili a farci capire quali fossero le condizioni più generali della condizione umana, in particolare per
quanto concerne la politica.
I nambikwara nominavano capi con il compito di guidarli. Questi dirigenti, a loro volta e a
differenza dei politici moderni e contemporanei, non erano però faccendieri, quindi non facevano
alleanze o compromessi fra diversi collegi elettorali o gruppi di interesse, e non avevano molte
differenze, a livello di ricchezza o di status, col resto della popolazione. Nello specifico, loro
facevano da mediatori fra due sistemi sociali ed etici totalmente diversi.
Negli anni Quaranta del XX secolo, “i nambikwara vivevano in quelle che, di fatto, erano due
società differenti. Durante la stagione delle piogge occupavano villaggi di varie centinaia di
persone in cima alle colline e praticavano l'orticoltura. Nel resto dell'anno si disperdevano in
piccole bande di foraggiatori” (pag 113).
I capi cercavano di agire come leader eroici durante le “avventure nomadi” della stagione secca e di
guidare gentilmente gli altri, nella costruzione di case e nella cura degli orti, nella stagione delle
piogge. Nonostante queste interessanti analisi, il libro di Lévi-Strauss sui nambikwara cadde presto
nell'oblio.
David Graeber e David Wengrow hanno pensato però che, per conoscere meglio le caratteristiche
fondamentali degli uomini preistorici o di quelli definiti “selvaggi”, bisogna valorizzare i risultati
culturali migliori non solo dell'archeologia (ad esempio sui siti dell'era glaciale con sepolture
sfarzose e architettura monumentale) ma anche dell'antropologia e, sulla scia delle analisi di Lévi-
Strauss, giungono ad affermare che i nambikwara – e pure i winnebago e i nuer del XX secolo – ci
permettono di comprendere l'esistenza sia di variazioni stagionali della vita sociale delle prime
società umane sia di individui anomali capaci di svolgere ruoli politici significativi durante il
Paleolitico.
Purtroppo, come si è accennato, lo studio di Lévi-Strauss sui nambikwara non fu ripreso da altri
antropologi e, come successe anche al “Saggio sulle variazioni stagionali delle società eschimesi”
(1903) di Marcel Mauss e Henri Beuchat, fece parte della letteratura antropologica dimenticata.
La ricerca antropologica e archeologica è comunque andata avanti e oggi si può affermare che, negli
ambienti altamenti stagionali dell'ultima era glaciale, i nostri lontani antenati, oscillando fra sistemi
sociali alternativi, si comportavano in modo molto simile agli inuit, ai nambikwara o ai crow.
Gli ordini sociali, pur avendo dei gruppi dirigenti, non diventavano mai fissi e immutabili per molto
tempo. C'era un movimento della e nella materia sociale che di fatto, a furia di revocare e cambiare
quei gruppi dirigenti, aboliva lo stato di cose esistente.
Quando iniziarono allora a cristallizzarsi i sistemi sociali degli esseri umani basati sulla
disuguaglianza?
Alcuni, dai tempi di Jean-Jacques Rousseau in poi, hanno pensato che la Rivoluzione del Neolitico,
con l'invenzione dell'agricoltura e i connessi accumuli di eccedenze (cereali, prodotti caseari,
eccetera), avrebbe provocato la vera disuguaglianza, ma a determinarne la nascita non fu
automaticamente l'agricoltura e nemmeno la produzione di beni eccedenti.
In primo luogo, “la comparsa di mondi culturali locali durante il Mesolitico aumentò le probabilità
che società relativamente autonome abbandonassero la dispersione stagionale e si adattassero a
una sorta di sistema gerarchico verticistico permanente” (pag. 139).
Inoltre, precisando qui un argomento non affrontato in maniera approfondita dall'opera di Graeber e
Wengrow, la produzione di beni eccedenti è qualcosa che precede la stessa invenzione
dell'agricoltura. Dato che durante il Paleolitico e il Mesolitico gli uomini impiegavano la raccolta, la
pesca e la caccia come fonti primarie di cibo, è probabile che allora la produzione di beni eccedenti
fosse collegata soprattutto all'essiccare e all'affumicare pesci e carni in eccesso rispetto ai bisogni
fisiologici immediati e, tanto per fare un altro esempio, all'abbrustolire una parte di semi e insetti
per meglio conservarli.
“La prevalenza nel sito Mesolitico danese di Svaerdborg di ossa della testa di lucci fa pensare che
qui avvenisse un processo di trattamento per conservare le parti più importanti dal punto di vista
nutritivo, scartando le teste stesse”.
(https://www.treccani.it/enciclopedia/le-paleoscienze-le-conoscenze-scientifiche-dell-uomo-di-25-
000-anni-fa_%28Storia-della-Scienza%29/).
Al di là delle specifiche forme e caratteristiche del plusprodotto prima del Neolitico e quindi prima
della stessa invenzione dell'agricoltura, qui si sta parlando di una tesi elaborata da Karl Marx:
l'esistenza del plusprodotto, derivante da un corrispondente pluslavoro, come produzione specifica
degli animali umani.
“Una delle cose che ci distinguono dagli animani non umani è che questi ultimi producono solo ed
esclusivamente ciò di cui hanno bisogno; gli esseri umani producono sempre molto di più. Siamo
creature dell'eccesso, ed è questo a renderci insieme la più creativa e la più distruttiva di tutte le
specie. Le classi dirigenti non sono altro che quelle che hanno organizzato la società in modo da
potersi impossessare della maggior parte delle eccedenze, a prescindere dal fatto che questo
avvenga attraverso un tributo, la schiavitù, i dazi feudali o la palese manipolazione dei meccanismi
del libero mercato” (pag. 142).
A dire il vero, anche il più equilibrato e meno manipolato sistema capitalistico può garantire
l'esistenza del plusprodotto, ma il ragionamento di Graeber e Wengrow è in sostanza corretto.
Come loro due hanno scritto, “nel XIX secolo, Marx e molti altri radicali immaginarono che fosse
possibile amministrare queste eccedenze collettivamente, in modo equo (…), ma i pensatori
contemporanei tendono ad essere più scettici. In realtà, l'opinione oggi prevalente tra gli
antropologi è che l'unico modo per mantenere una società ugualitaria è eliminare la possibilità di
accumulare qualunque tipo di eccedenza” (pag. 142-143).
Volendo essere precisi, Graeber e Wengrow non si sono azzardati a dire in maniera chiara ed
esplicita quale sarebbe il modo migliore per far vivere, nel futuro, una società ugualitaria. Infatti,
consapevoli che gli esseri umani producono sempre molto di più dei bisogni immediati, non hanno
mai scioccamente teorizzato né la necessità di una generica decrescita economica né quella di una
società ugualitaria senza plusprodotto.
Loro hanno studiato abbastanza bene il pensiero di Marx sul tema del plusprodotto, riguardante in
primo luogo i beni di consumo di massa e i mezzi di produzione, e del pluslavoro che lo crea. Di
conseguenza, forse conoscevano anche questa osservazione del rivoluzionario nato a Treviri:
“Il pluslavoro in generale, inteso come lavoro eccedente la misura dei bisogni dati, deve sempre
continuare ad esistere. Nel sistema capitalistico come in quello schiavistico ecc., assume
semplicemente una forma antagonistica ed è completato dall'ozio assoluto di una parte della
società. Una determinata quantità di pluslavoro è necessaria per l'assicurazione contro le
disgrazie, per il necessario e progressivo ampliamento del processo di riproduzione corrispondente
allo sviluppo dei bisogni ed all'incremento della popolazione, che dal punto di vista capitalistico si
chiama accumulazione” (Marx, “Il Capitale”, libro III, capitolo 48, “La formula trinitaria”).
Secondo diversi antropologi, al contrario, l'assenza del plusprodotto, quindi pure la non presenza
del pluslavoro che lo crea, sarebbe una sorta di garanzia per la vita stessa delle società ugualitarie.
Graeber e Wengrow non hanno riflettuto molto su questa fantasiosa concezione propagandata da
quegli antropologi, ma forse avrebbero potuto spiegare a sufficienza che, per forza di cose, senza
plusprodotto le società ugualitarie sono destinate ad essere società ugualitarie della miseria.
Immaginare delle società ugualitarie dignitose senza plusprodotto è infatti un'idea sbagliata dalle
fondamenta e quindi priva di senso logico. Invece, non sempre le idiozie appaiono come tali agli
occhi di ognuno!
L'antropologo britannico James Woodburn nei decenni del dopoguerra fece delle ricerche tra gli
hadza, una popolazione della Tanzania, e dopo aver fatto dei paragoni fra questa popolazione da una
parte e i boscimani san e i pigmei mbuti dall'altra (oltre che rispetto a diverse e piccole società di
foraggiatori nomadi al di fuori dell'Africa, come i pandaram dell'India meridionale o i batak della
Malesia), giunse alla conclusione che le società davvero ugualitarie sarebbero quelle con economie
«a rendimento immediato».
Le popolazioni come gli hadza sembravano applicare principi di uguaglianza non solo ai beni
materiali, sempre condivisi o fatti circolare, ma anche al sapere erboristico o sacro e al prestigio (i
bravi cacciatori vengono sistematicamente sbeffeggiati e sminuiti).
Dalla visione di Woodburn pare che la popolazione degli hadza sarebbe giunta “a conclusioni molte
diverse da quelle di Kondiaronk e, in precedenza, di diverse generazioni di critici delle Prime
nazioni, che ebbero tutti qualche difficoltà anche solo a immaginare come le differenze in termini di
ricchezza potessero tradursi in disuguaglianze sistemiche di potere. Si ricordi che (…) all'inizio la
critica indigena americana riguardava qualcosa di molto diverso, ossia la presunta capacità delle
società europee di promuovere l'assistenza reciproca e di proteggere le libertà personali. Solo in
seguito, una volta che gli intellettuali indigeni ebbero imparato a conoscere meglio i meccanismi
delle società francese e inglese, la loro critica cominciò a concentrarsi sulle disuguaglianze in
termini di proprietà. Forse dovremmo seguire il loro ragionamento iniziale.” (pag. 144).
A questo punto, dopo aver precisato che “... gli hadza, i wendat e i popoli «ugualitari» come i nuer
non sembravano interessati tanto alle libertà formali quanto a quelle sostanziali” (pag. 145), cioè
avere la possibilità effettiva di viaggiare e di vivere in un contesto di assistenza reciproca che
favorisse l'autonomia individuale, Graeber e Wengrow da un lato lasciano sfumare l'altrui idea della
possibilità di società ugualitarie con economie «a rendimento immediato»; dall'altro si pongono un
problema molto diverso: “il vero enigma non è quando siano comparsi per la prima volta i capi, o
addirittura i re e le regine, bensì quando non sia più stato possibile cacciarli via a risate dalla
corte” (pag. 148).
Secondo la loro opinione, le nuove scoperte sugli antichi cacciatori-raccoglitori nell'America del
Nord, precisamente a Poverty Point nella Lousiana, e in Giappone stanno ribaltando le idee a
proposito dell'evoluzione sociale. A Poverty Point ci sono i resti di massicci terrapieni eretti dai
nativi americani intorno al 1600 a.C. . Si tratta di “un sito dell'età della pietra in un'area dove non
c'è pietra” (pag.157) e forse lì furono presenti migliaia di persone in particolari periodi dell'anno.
“In Giappone e nelle isole vicine, un'altra designazione culturale monolita, «Jömon», domina oltre
diecimila anni di storia dei foraggiatori, dal 14000 al 300 a.C. circa” (pag.161).
Sembra incredibile, ma è vero!
Quei progetti monumentali – che non sappiamo se abbiano coinvolto re o leader di altro tipo –
cambiano “per sempre la natura della discussione sull'evoluzione sociale nelle Americhe, in
Giappone, in Europa e senza dubbio in quasi tutti gli altri luoghi. Chiaramente i foraggiatori non si
rifugiarono dietro le quinte alla fine dell'era glaciale, in attesa che un gruppo di agricoltori del
Neolitico riaprisse il teatro della storia” (pag.163).
L'idea di bande di foraggiatori pigri, infantili e spensierati e quella secondo cui la «civiltà»
propriamente detta – città, artigiani specializzati, specialisti di conoscenze esoteriche – sarebbe stata
impossibile senza l'agricoltura sono prive di fondamento.
In maniera analoga, non esistono prove sufficienti sull'origine della disuguaglianza sociale, della
proprietà privata e dello Stato.
Per quanto riguarda la proprietà privata si può comunque dire che essa ebbe un inevitabile rapporto
con il sacro di cui è coetanea.
Senza dubbio la costruzione dei terrapieni a Poverty Point, ma pure dei siti di Sannai Maruyama, la
chiesa dei giganti a Kastelli in Finlandia o le antiche tombe dei personaggi illustri del paleolitico
superiore, furono, in un certo senso, luoghi sacri.
Poco prima degli albori dell'agricoltura, i sistemi sociali erano molto differenziati. Ad esempio, i
foraggiatori canadesi avevano gli schiavi e i loro vicini californiani no. Due vicine società
costituirono quindi due diverse aree culturali.
“Le «società di cattura» delle Americhe consideravano il reperimento degli schiavi una modalità di
sostentamento a pieno titolo, ma non nel consueto senso di produzione di calorie. I predoni si
ostinavano a dire che gli schiavi venivano catturati per la loro forza vitale o «vitalità», un'energia
che poi veniva consumata dal gruppo conquistatore” (pag. 205).
Nelle Americhe “un manipolo di società mise in atto queste relazioni in modo letterale. Il punto
importante riguardo alle «modalità di produzione» o alle «modalità di sostentamento» è che questo
tipo di sfruttamento prendeva spesso la forma di rapporti costanti tra società” (pag. 205-206).
Come riportano Graeber e Wengrow, nella sezione nordoccidentale della California c'era – secondo
l'etnografo Alfred Kroeber – una «zona di frantumazione», “un territorio di diversità inconsueta,
capace di fare da ponte fra le due grandi aree culturali del litorale del Pacifico. (Lì) alcune (…)
micronazioni parlavano lingue della famiglia athabaska; altre, negli ordinamenti interni e
nell'architettura, conservavano tracce di aristocrazia che ne collocano le origini sulla costa
nordoccidentale. Eppure, salvo rarissime eccezioni, nessuno praticava lo schiavismo” (pag. 215).
“La schiavitù affonda le radici nella guerra ma, ovunque la incontriamo, è anche, anzitutto,
un'istituzione domestica. La gerarchia e la proprietà possono derivare dalle idee del sacro, ma le
forme più brutali di sfruttamento hanno origine nelle relazioni sociali più intime, come perversioni
dell'affetto, dell'amore e della premura” (pag. 224-225).
Ciò significa che la schiavitù non esisteva solo nel “mondo antico” ma, sia pur in modo diverso e
limitato, anche nella preistoria.
Nella preistoria la schiavitù era figlia delle guerre vittoriose e delle perversioni dell'affetto,
dell'amore e della premura,
Il lavoro di ricerca di Graeber e Wengrow smonta così tutta una serie di luoghi comuni sulla
preistoria e, come vedremo, mette in discussione anche l'idea secondo cui ci sarebbe stato un
rapporto di interdipendenza fra la nascita delle città e dell'agricoltura.
La città di Catalhoyuk, situata sulla pianura di Konya, nella Turchia centrale, nacque intorno al
7400 a.C., fu abitata per circa millecinquecento anni; si estendeva per 13 ettari, aveva circa 5 mila
abitanti e finora è considerata come quella più antica del mondo.
Una sua caratteristica era che non aveva un centro riconoscibile, né strade o edifici comuni: “era
solo un fitto agglomerato di case, tutte di pianta e dimensioni simili, ciascuna accessibile tramite
una scala a pioli dal tetto” (pag. 229).
Scoperta negli anni Sessanta del XX secolo, all'inizio fece pensare che fosse un monumento alle
origini dell'agricoltura, ma le cose cambiarono grazie a nuovi metodi di lavoro usati a partire dagli
anni Novanta.
Si capì che i teschi e le corna di bovini presenti nei saloni centrali delle case non erano di animali
domestici ma di feroci uri selvatici. Inoltre, si comprese che le statuine d'argilla, trovate nel relativo
sito archeologico, raffiguravano delle donne sedute ma non erano rappresentazioni delle “dee della
fertilità” o di obsolete fantasie vittoriane sul «matriarcato primitivo» e potrebbero essere state
l'equivalente delle Barbie.
Graeber e Wengrow fanno comunque ulteriori precisazioni. Secondo loro, l'attuale rifiuto dell'idea
del «matriarcato primitivo» da parte di antropologi e archeologi deriva in gran parte da una
incomprensione dei risultati delle analisi dell'archeologa lituano-americana Marija Gimbutas che,
negli anni Sessanta e Settanta del XX secolo, costituì un punto di riferimento per la conoscenza
della tarda preistoria nell'Europa Orientale.
Lei, a differenza di quanto affermavano i suoi critici più rigidi che spesso non avevano nemmeno
letto le sue opere, non voleva affatto modernizzare la ridicola fantasia vittoriana del «matriarcato
primitivo».
In realtà, leggendo i libri della Gimbutas come «Le dee e gli dei dell'antica Europa» (1982), si
capisce che lei aveva intenzione di creare una narrazione grandiosa sulle origini della società
eurasiatica. A tale scopo usò il concetto di “aree culturali” e concluse che, per certi aspetti ma non
per tutti, era vera “la vecchia storia vittoriana degli invasori ariani e degli agricoltori che
veneravano le dee” (pag. 233).
L'archeologa cercava di capire quali fossero i contorni generali della tradizione culturale che
chiamava «antica Europa», un'area costituita da villaggi neolitici stanziali concentrati sui Balcani e
sul Mediterraneo orientale, ma estesi anche più a nord, dove – a suo parere – c'era una buona parità
fra uomini e donne e non esistevano grandi differenze di status e ricchezza.
Quell'area, comprendeva società molto pacifiche che, sul piano religioso, avevano “un pantheon
comune sotto l'egida di una dea comune” (pag. 234). Secondo i suoi calcoli, resistette dal 7000 al
3500 a.C. e proprio nel terzo millennio avanti Cristo andò verso una fine catastrofica perché a quel
tempo i Balcani furono invasi da una migrazione di popoli di allevatori – i cosiddetti kurgan –
originari della steppa pontica, a nord del Mar Nero.
Per la precisione, l'archeologa Gimbutas non riteneva che il matriarcato fosse la condizione
originaria del genere umano, ma voleva difendere – come hanno scritto Graeber e Wengrow –
“l'autonomia e la priorità rituale delle donne nel Neolitico mediorientale ed europeo” (pag. 234).
Il fatto entusiasmante è che, diversi decenni dopo, l'analisi del DNA antico – non disponibile
all'epoca di Gimbutas – abbia spinto diversi e prestigiosi archeologici a riconoscere che una parte
della sua ricostruzione era probabilmente corretta.
Se ciò è vero anche solo in linea di massima, “allora ci fu davvero un'espansione dei popoli di
allevatori dalle praterie a nord del Mar Nero più o meno nel periodo individuato da Gimbutas, cioè
il terzo millennio avanti Cristo” (pag. 236).
Sull'altra parte della sua tesi, bisogna precisare che l'archeologa non sostenne mai in maniera aperta
e ufficiale l'esistenza dei matriarcati neolitici.
Graeber e Wengrow spiegano che il matriarcato inteso come una società in cui le donne detengono
la maggior parte delle posizioni politiche formali è stato un fenomeno molto raro nella storia
dell'umanità. Invece il matriarcato inteso come una situazione in cui “il ruolo della madre
all'interno della famiglia diventa il modello e la base economica per l'autorità femminile in altri
settori della vita” è stato qualcosa di abbastanza reale e forse “anche Kondiaronk si muoveva in un
sistema di questo tipo” (pag. 237).
Fatte queste puntualizzazioni, i due autori passano a smontare la fantasiosa idea di Rousseau
secondo cui l'agricoltura avrebbe avuto bisogno della recinzione di campi fissi per nascere; fanno
osservare che dal 10 mila a.C. al 7 mila a.C. ci fu un lungo periodo di passaggio verso l'agricoltura
neolitica, un'agricoltura che all'inizio risultava “orientata verso il possesso collettivo delle terre”
(pag. 254) e nacque “nell'Asia sudoccidentale come una serie di specializzazioni nella coltivazione
delle piante e nell'allevamento del bestiame, disseminate in varie parti della regione, senza un
epicentro” (pag. 263).
Graeber e Wengrow sottolineano inoltre – cosa che quasi nessuno ha mai fatto prima, nemmeno
Lévi-Strauss nel suo “Pensiero selvaggio” – l'importanza delle donne, grazie ai loro saperi
accumulati, nella nascita dell'agricoltura neolitica.
Senza i saperi e i poteri-qualità delle donne, molto probabilmente, l'agricoltura neolitica non si
sarebbe configurata così come quando nacque ed avrebbe avuto bisogno di molto più tempo e di
maggiori contraddizioni per svilupparsi.
Ad esempio, la Mezzaluna fertile del Medio Oriente aveva diverse situazioni fra la zona dei
bassipiani (come quelle nella valle del Giordano) e quella degli altipiani (le pianure e le colline
pedemontane della Turchia orientale).
La struttura sociale nei bassipiani era poco gerarchizzata, mentre negli altipiani era autoritaria.
In entrambi i casi, la nascita dell'agricoltura non significò anche l'inizio della proprietà privata
terriera.
“Emerge che, per gran parte del suo passato, la nostra specie è stata bravissima a entrare e uscire
liberamente dall'agricoltura (…), oppure a indugiare sulla sua soglia” (pag. 280).
L'agricoltura “tendeva ad attecchire dove le risorse selvatiche erano più rare. Era l'eccezione nelle
strategie del primo Olocene, ma aveva un potenziale di crescita esplosivo, soprattutto dopo che il
bestiame domestico si aggiunse alle colture dei cereali” (pag. 294-295).
Spesso si credeva che “la comparsa delle prime città, delle prime grandi concentrazioni di persone
insediate in via permanente in un'unico luogo, corrispondeva anche all'ascesa degli Stati” (pag.
297).
Invece, “in alcune regioni, come ormai sappiamo, le città si governarono per secoli senza tracce
dei templi e dei palazzi che sarebbero sorti solo in seguito; in altre, i templi e i palazzi non
comparvero mai. In molte città antiche, nulla dimostra l'esistenza di una classe di amministratori o
di qualunque altro tipo di ceto dominante. In altre, il potere centralizzato sembra comparire e poi
scomparire. A quanto pare, il semplice fatto della vita urbana non implica necessariamente una
forma particolare di organizzazone politica, e non la implicò mai” (pag. 297-298).
Molte persone pensano che le prime città grandi e popolose comparvero in Eurasia, ma ciò avvenne
nel mesoamerica, per la precisione nella valle del Messico e a circa 40 chilometri dalla moderna
Città del Messico. Stiamo infatti parlando della città di Teotihuacán che, abitata dal popolo dei
mexica, nacque attorno al 100 a.C. ed ebbe il suo declino intorno al 600 d.C. .
Oggi sappiamo che “Teotihuacán aveva trovato il modo di autogovernarsi senza sovrani, come
avevano fatto le città molto più antiche dell'Ucraina preistorica, della Mesopotamia nel periodo di
Uruk e del Pakistan nell'età del Bronzo. Poi lo fece con una base tecnologica molto diversa, e su
scala ancora più larga” (pag. 352).
Secondo Esther Pasztory, una storica dell'arte ungherese-americana, la città di Teotihuacán “non era
solo antidinastica nello spirito, ma era essa stessa un esperimento utopistico di vita urbana” (pag.
354).
Se non c'è identificazione fra nascita delle città e nascita dello Stato, ciò vuol dire che per il
momento non è possibile trovare le “origini dello Stato”.
Lo Stato, il cui termine fu coniato dal giurista francese Jean Bodin alla fine del XVI secolo, ha
bisogno – secondo Graeber e Wengrow – di tre elementi: il controllo della violenza (cioè il
monopolio della violenza), il controllo delle informazioni e il carisma personale (pag. 388).
Quelli che “ora consideriamo Stati non si rivelano affatto una costante della storia. Non sono il
risultato di un lungo processo evolutivo che iniziò nell'iniziò nell'età del Bronzo, bensì una fusione
di tre forme politiche – sovranità, amministrazione e competizione carismatica – che hanno origini
diverse. Gli Stati moderni sono semplicemente un modo in cui i tre principi di dominazione sono
riusciti a unirsi, ma questa volta con l'idea che il potere dei re sia detenuto da un'entità detta «il
popolo» (o la «nazione») e che le burocrazie esistano a beneficio del suddetto «popolo», e in cui
una variazione sui vecchi premi e competizioni degli aristocratici è stata ribattezzata
«democrazia», il più delle volte sotto forma di elezioni nazionali” (pag. 456-457).
Il libro “L'alba di tutto” cerca di dimostrare la validità della critica indigena all'Europa moderna.
Per fare questo, da un lato mette in discussione, sia pur in maniera implicita, una concezione
lineare, evoluzionistica ed eurocentrica delle epoche della storia. Dall'altro lato permette di
precisare cosa potrebbe essere stato il comunismo primitivo e soprattutto di pensare a come
cambiare rotta per abolire di frequente lo stato di cose esistente.

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