Settecento- è stato molto discusso nel corso dei secoli; tuttavia, non si è ancora stati in grado di
definire a pieno il processo dirompente che attraversa il secolo.
Sulla base di ciò, sarà Dorinda Outram -docente di storia all’Università di Rochester- che tenterà di
delineare la questione attraverso una serie di considerazioni che si basano tanto sugli eventi
accaduti nel corso del XVIII secolo, quanto sul modo di concepire il fenomeno dagli storici del
passato: racchiuse tutto ciò nel suo saggio L’Illuminismo pubblicato il 28 settembre del 1995.
In primo luogo, l’autrice fa un excursus ripercorrendo l’opinione di alcuni pensatori fondamentali
nel dibattito sull’Illuminismo: in molti, effettivamente, cercarono di rispondere alla domanda “Che
cos’è?” e già alla fine del Settecento il termine aveva assunto diverse accezioni. Tra i tanti studiosi
vi era il filosofo ebreo Moses Mendelssohn (1729-1786) per cui si trattava ancora di un processo
irrisolto ma che puntava ad essere una “filosofia popolare” poiché nessuno doveva essere escluso
dall’educazione all’uso della ragione. Al dibattito partecipò anche Immanuel Kant, un filosofo
prussiano che vedeva nel movimento illuminista la possibile uscita dell’uomo dal suo stato di
pigrizia intellettuale, uno stato in cui egli accetta passivamente ogni tipo di dogma. Kant affermava
“Sapere Aude!” -abbi il coraggio di sapere- che era anche il motto dell’Illuminismo. Un concetto
abbastanza attuale che dovrebbe esser ribadito alla società del presente, ammaliata dai media e
dalle pubblicità. In definitiva, per il filosofo il processo si presentava come una serie di eventi
caratterizzati da progetti intellettuali che andarono poi ad intaccare la società e la politica su scala
mondiale. Quest’ultima è precisamente l’interpretazione che Dorinda Outram prediligerà nella sua
esposizione: l’Illuminismo non è un fenomeno unitario, basti pensare che cambia in base al luogo
geografico in cui appare. Al contrario, fino a poco tempo prima, era considerato come un unico
fenomeno (soprattutto francese) sorretto dalla ragione. Inoltre, lo si racchiudeva nell’insieme
delle dottrine filosofiche e, generalmente lo si collocava nei termini delle vite di grandi pensatori,
ad esempio Peter Gay lo inquadrava tra Voltaire e Denis Diderot, Jean d’Alembert e Jean-Jacques
Rousseau. Quest’ultimo sarà l’autore di una sintesi fondamentale che sarà la prima a riconoscere il
fenomeno al di fuori del contesto europeo-occidentale: legge la dichiarazione d’indipendenza degli
Stati Uniti (4 luglio 1776) come una realizzazione dei principi illuministici – diritto alla vita, alla
libertà e alla ricerca della felicità-. Queste affermazioni furono seguite da molte altre analisi che
fornirono un quadro molto più completo dell’Illuminismo a livello mondiale.
Ad oggi l’Illuminismo viene analizzato in maniera molto più ampia, al di là dei suoi esponenti più
conosciuti: lo storico Robert Darnton affermerà che la maggior parte dei libri pubblicati nel
Settecento non erano frutto dei grandi esponenti del movimento ma soprattutto di menti
sconosciute. Questi erano scrittori i cui libri/opuscoli erano indirizzati a un mercato commerciale e
trattavano i temi più vari: lo scandalo della pornografia, recensioni, libri dell’infanzia ecc.
Questi scritti vengono raccolti sotto il nome di Grub Street. Tuttavia, l’esistenza di una comunità di
scrittori indipendente dal mecenatismo privato rende senza senso il concetto di “repubblica delle
lettere”: è evidente la differenza tra coloro che frequentavano sovrani e corti e che godevano di
una certa reputazione e coloro che lavoravano nelle cantine e nelle mansarde. I due redditi, infatti,
non erano lontanamente paragonabili.
La diffusione delle idee illuministiche è dovuta specialmente al contesto sociale in ci si trova: si
tratta di un periodo di espansione economica e di sviluppo demografico. A livello economico,
inoltre, la produzione aumentò così tanto che si passò da piccoli laboratori a grandi fabbriche,
capaci di una produzione molto più massiccia. Nella crescita della produzione e delle merci
vendute rientrano precisamente libri, opuscoli, giornali e stampe che venivano poi commerciati tra
i paesi europei. Questo traffico -culturale e non- non era limitato alle zone europee, ma si
estendeva alle colonie Americane e, inoltre, non era un traffico a senso unico: difatti, prodotti
quali tè, caffè e zucchero (provenienti dalle colonie) erano fondamentali per i caffè d’Europa che
erano diventati i principali luoghi per lo scambio delle idee.
Chiaramente, la parola stampata in un periodo del genere ricopriva un ruolo di prima importanza,
tuttavia è difficile, ad oggi, calcolare il vero tasso di alfabetizzazione nel Settecento, vi sono però
alcuni indici indiretti che sembrerebbero rendere alquanto lineare la situazione: si registra un
incremento nel numero dei libri, giornali, opuscoli stampati e poi venduti; aumentarono i titoli
pubblicati alle fiere del libro come anche il numero delle biblioteche aperte al pubblico; per
concludere, nei testamenti dei cittadini si menzionava sempre più spesso un libro -o più- tra i beni
dell’interessato. Pare evidente che nel Settecento il numero di lettori aumentò ed iniziò a
comprare libri come mai era successo fino a quel momento (a livello di quantità e varietà).
Ciò fu possibile soprattutto grazie ai prezzi relativamente bassi delle biblioteche circolanti e, senza
ombra di dubbio, alla stampa. Inoltre, i caffè mettevano a disposizione riviste ai propri clienti al
prezzo di una tazza di caffè. Questi strumenti permisero la diffusione della carta stampata non
solo agli strati più bassi della società ma anche alle donne. Nonostante ciò, esse verranno sempre
considerate un passo -e anche più- dietro l’uomo, il che sarà un’ulteriore prova dell’inesistenza
della “repubblica delle lettere”. Si giudicava la donna come incapace di contribuire al patrimonio
delle idee, lo stesso Rousseau affermerà la tendenza della donna ad essere troppo sensibile e, di
conseguenza, poco incline alla ragione. Ella era inoltre volta alla funzione di compagna e
procreatrice, niente più. Una filosofia di pensiero che ancora oggi è condivisa dalla maggior parte
della popolazione, il che mette in luce la condizione raccapricciante del mondo in cui ci troviamo:
un mondo che aspira al progresso ma che non si accorge di esser rimasto incastrato in una
mentalità abominevole che appartiene al passato.
La difesa di quest’ideale di uguaglianza (non del tutto rispettato) portò, ad esempio in Gran
Bretagna, alla formazione di vere e proprie società volte allo scambio di idee; al contempo ebbe
conseguenze importanti sulla massoneria, un’istituzione del secolo i cui membri ripudiavano le
distinzioni sociali e si impegnavano a rendere le idee cardine dell’Illuminismo il perno della società
contemporanea. In luoghi come l’Italia e la Francia nacquero le accademie. Tutte queste istituzioni
sono accessibili solo a chi pagava una determinata somma. Ciò, quindi, escludeva i ceti popolari, i
quali accedevano alle idee illuministe in altro modo: la Bibliothèque bleue, la quale fu al centro
degli studi di alcuni storici del 1975. Si tratta di una collezione di libri di qualità molto più scadente
rispetto a quella dedicata alle élites della società, i quali riguardavano, per esempio, consigli
sull’agricoltura, biografie di criminali o parafrasi di romanzi cavallereschi. Tutto ciò portò alla
nascita dell’opinione pubblica: una forza che diviene pian piano sempre più importante e che al
giorno d’oggi è un’arma violenta: quest’ultima, manipolata da tutti i mezzi capaci di influenzarla, si
insedia nelle menti di individui di ogni fascia d’età provocando, sovente, danni irrevocabili.
Una delle domande più gettonate, che anche Immanuel Kant si pose, riguardava il limite
dell’Illuminismo. Fino a dove, quest’ultimo, poteva spingersi prima di mettere in subbuglio
l’assetto tradizionale della società? Il presentarsi di una situazione tale era inevitabile: troppi
interrogativi su principi che fino ad allora non erano mai stati messi in discussione avrebbero
sicuramente portato a cambiamenti radicali.
In riferimento alla relazione tra Illuminismo e potere, il limite fu senza dubbio oltrepassato.
Nell’Ottocento gli storici tedeschi cominciarono a parlare di un assolutismo illuminato che indicava
una monarchia basata sulle idee illuministiche. Dopo la prima Guerra Mondiale vennero fatti nuovi
tentativi per descrivere questo rapporto: la Commissione internazionale per le scienze storiche
istituì un processo di ricerca internazionale su quello che decisero di denominare “dispotismo
illuminato”. Nel 1937 la conclusione a cui gli studiosi arrivarono era un rapporto tra Illuminismo e
governi che si limitava all’influenza dei pensatori francesi sulle monarchie. Dopo il 1945 questo
concetto venne ampiamente criticato: vero è che i monarchi rivendicavano un’autorità assoluta,
ma effettivamente nessun sovrano governava senza il controllo di una qualsiasi altra istituzione.
Inoltre, abbiamo ormai appurato che l’Illuminismo era un fenomeno che variava di stato in stato,
di regione in regione, quindi anche il rapporto tra il movimento e il governo doveva
necessariamente essere diverso in base al territorio preso in considerazione.
Un’altra critica rivolta al “dispotismo illuminato” era incentrata sul limite che esso poneva
nell’individuare quando un monarca agiva secondo norme dettate da princìpi illuminati e quando
si trattava di atti radicati in ideologie più antiche.
Si arriva a dubitare sul fatto che l’Illuminismo abbia davvero avuto un ruolo così rilevante per
quanto riguarda i governi: l’approccio marxista sarà proprio incentrato su questa convinzione;
nell’ottica marxista l’Illuminismo è un’ideologia prettamente borghese, ed è ormai risaputo che la
monarchia esisteva per difendere gli interessi dell’aristocrazia feudale. In realtà, questo tipo di
visione è completamente inapplicabile in quanto, per esempio, nell’Europa centro-orientale il
numero di burgeois era estremamente ridotto.
La storiografia del passato, definendo l’Illuminismo come un fenomeno unitario, ha sicuramente
complicato il lavoro degli studiosi odierni, il cui obiettivo è quello di concepire la relazione tra il
movimento e i governi inquadrandolo nel contesto di appartenenza, regionale o nazionale, in base
all’estensione di uno Stato e alla sua forma di governo.
In effetti in molti stati vi era già un sistema di idee sulla natura, sul funzionamento e sulla
legittimazione dei governi più antico dell’Illuminismo: il cameralismo. Quest’ultimo si diffuse
perlopiù in aree europee di lingua tedesca e austriaca, comprese Svezia, Danimarca e Russia.
Quest’ideologia affermava che i sovrani dovevano tentare di controllare nei minimi dettagli la vita
dei loro sudditi al fine di ottenere una popolazione forte, sana e fedele. La diffusione di questo
pensiero fu garantita mediante università e scuole che impartivano insegnamenti burocratici di
stampo cameralista ed illuminista. Ciò portò ad un’omogeneità del pensiero amministrativo nelle
regioni influenzate dal cameralismo.
In questo contesto nacquero anche movimenti di riforma religiosa quali il giansenismo;
quest’ultimo mirava al ritorno della semplicità della chiesa primitiva e, proprio per questo, veniva
appoggiato da tutti quei governi che volevano ridimensionare il potere della Chiesa cattolica. Tra
questi troviamo Giuseppe II, il quale attaccò la presenza ecclesiastica nell’istruzione e aprì ai laici
l’accesso all’insegnamento universitario. Inoltre, Giuseppe II promulgò delle leggi che vietavano
alcune pratiche ecclesiastiche che danneggiavano l’economia: il numero eccessivo di monaci e
suore o le così tanto sfarzose cerimonie religiose. L’obiettivo primario era l’assunzione del
controllo dell’educazione di modo che si potesse trasferire la fedeltà dal papa al sovrano.
Al contempo, un numero sempre maggiore di governi aderiva all’ideale di tolleranza ed è proprio
la campagna per l’introduzione di quest’ultima che diventa chiara l’adesione di alcuni sovrani alle
idee illuministiche. Anche l’azione contro il ruolo economico della chiesa fu intrapresa da una
vasta gamma di territori e, anche in questo caso, si tratta di uno degli aspetti trattati nel dibattito
illuministico che ebbe impatto diretto sui governi.
Alla fine del secolo, tuttavia, iniziarono ad intensificarsi i conflitti tra l’Illuminismo e la monarchia,
ciò indica come i governi abbiano sfruttato le idee del movimento prettamente per diminuire i
freni che venivano posti all’apparato statale: effettivamente, queste ultime, in qualche modo
giustificavano le riforme di misura sociale ed economica che i sovrani attuavano.
Tra la fine del Seicento e la rivoluzione francese (1789) emerse un nuovo campo di studi chiamato
“economia politica”, una disciplina caratteristica dell’Illuminismo: essa descriveva, a livello globale,
l’attività commerciale occupandosi di questioni come il consumo, la valuta, la produzione.
Il contenuto di questa disciplina pare riconducibile a quella che consideriamo oggi “economia”,
tuttavia i contemporanei non utilizzarono mai questo termine per definirla, la denomineranno
però “economia politica” per sottolineare il suo carattere quasi del tutto politico. Con la diffusione
della disciplina emersero numerose riviste su temi intellettuali (mercantilismo, cameralismo o
fisiocrazia) esposti secondo un linguaggio matematico. Vennero, inoltre, introdotti degli
insegnamenti proprio incentrati su questa materia. La sua diffusione è determinata perlopiù
all’attività economica e politica che ha caratterizzato il mondo settecentesco.
Il Settecento fu un secolo tratteggiato da numerose guerre su scala mondiale, il che implicava
ingenti spese che causarono l’indebitamento delle grandi potenze e conseguentemente la
diffusione delle banche statali. I risultati di questo processo passano alla storia come “rivoluzione
finanziaria.
Nacquero molte ideologie che discutevano attorno alla questione del successo di uno stato e sul
suo legame con l’economia. Tra queste vi era il “mercantilismo” per cui la forza di uno stato
dipendeva dalla quantità di oro e di argento posseduta e la concorrenza economica determinava il
fallimento o la vittoria di una sola parte. Al contrario, pensatori come Adam Smith sostenevano
che tutte le potenze prosperavano in un contesto di competizione economica.
Adam Smith è tradizionalmente considerato il teorico contemporaneo contro il mercantilismo
poiché trovava assurdo che la ricchezza di uno stato dipendesse dall’accumulazione monetaria;
egli proveniva dalla Scozia, un paese molto povero e arretrato, perciò è interessante che
nonostante le sue origini fosse in contatto con la corrente di pensiero economica più avanzata del
tempo: la fisiocrazia (per cui l’agricoltura era l’unico sistema produttivo). Egli, tuttavia, divergeva
con i fisiocrati in molti elementi della dottrina. Per esempio, se i fisiocrati applicavano la dottrina
del “laissez faire” solo all’agricoltura, Smith la estendeva a tutti i campi, specialmente all’industria.
Il pensiero smithiano sarà fondamentale nel Settecento, in particolare per il suo concetto di
“divisione del lavoro”: non vi sarà più il singolo artigiano ma più operai a cui si affida una fase
ciascuno del processo di produzione. Ciò avrebbe permesso una maggiore specializzazione e una
maggiore velocità di esecuzione. Questo meccanismo sarà il fondamento del secolo e sarà
sostenuto da altri personaggi rilevanti come, ad esempio, Denis Diderot. In merito ad essa però,
Smith riconosceva due facce della medaglia: da un lato si aumentava la prosperità, dall’altro si
diffondeva tra la gente la noia e la ripetitività che ne danneggiava la sanità mentale.
L’economia politica raggruppava, a sua volta, vari filoni di pensiero. Anche quei paesi che non
possedevano territori coloniali avevano elaborato le proprie ideologie economiche. Tra queste il
cameralismo (già citato precedentemente). I sovrani con idee cameraliste miravano ad assumere il
controllo delle risorse finanziarie necessarie allo sfruttamento su larga scala delle risorse naturali.
La dottrina sosteneva che uno dei compiti fondamentali del sovrano era la cura del proprio popolo
che, però, diventava sempre più difficile nel momento in cui i governi furono costretti ad
indebitarsi a causa delle numerose guerre del secolo.
Con il passare del tempo le idee cameraliste si fecero sempre più imponenti e comportarono uno
stretto controllo della vita del popolo, impattando sullo stato: venne introdotta la “polizia”, i teatri
venivano sottoposti a controlli e i libri a censura. Anche la tolleranza religiosa diminuì.
Tutto il discorso circa il cameralismo rende evidente il nesso tra economia politica e politica stessa.
La stampa fu fondamentale, anche in questo caso, nella diffusione della disciplina nelle zone
dell’Europa occidentale; in quella centro-orientale, un ruolo primario era ricoperto dalle università
ed i testi universitari (generalmente molto noiosi). Nell’Europa dell’occidente, i temi trattati in
questi manuali riguardavano discorsi molto più ampi, tra i quali il lusso. Su quest’argomento
riscuoterà gran successo l’opera di Bernard Mandeville “The Fable of the Bees” (1715) che tratterà
il concetto di lusso sotto un punto di vista illuministico inteso come prodotto del carattere umano,
guidato dalle passioni e dagli impulsi, noncurante dei sistemi morali. Si trattava, per lui, di un
corrotto abbandono a desideri materiali.
Importante in questo secolo sarà soprattutto l’azione dei fisiocrati, a cui fino ad ora non abbiamo
dato una vera e propria definizione: essi erano un gruppo di economisti politici che metteva al
centro del proprio pensiero la produzione agricola, che poteva procurare del bene ai cittadini
(afflitti dalla fame) e al sovrano (arricchendolo). L’agricoltura era l’unico settore capace di dar vita
a prodotti che superavano il prezzo di produzione, al contrario di altri settori considerati sterili. È
per questo che volevano aumentare la produzione agricola che avrebbe arricchito il re andando a
costruire quell’ideale di “dispotismo legale”, rendendolo indipendente dai Parlements. Come già
accennato, i fisiocrati sostenevano fortemente la liberalizzazione del commercio agricolo, in
particolare del grano. Il che portò ad una serie di rivolte come la guerre des farines (1774-1775).
Il Settecento fu caratterizzato da scoperte geografiche che comportarono crescenti contatti tra
culture. Precedentemente, le esplorazioni e i viaggi avevano come unico scopo la conquista, la
violenza ed il saccheggio; è dal XVIII secolo che si diffonde l’idea di esplorazione come fonte
primaria di conoscenza, una concezione che sarà caratteristica dell’Illuminismo. Molte furono le
esplorazioni del periodo, ma quella che costituì una svolta radicale nel secolo fu senza dubbio
l’esplorazione marittima del Pacifico che avrà un impatto determinate sulla popolazione europea e
sui dibattiti relativi alla natura dell’uomo. Attraverso le esplorazioni di personaggi come James
Cook gli europei acquisirono per la prima volta una conoscenza accurata del Pacifico. Nel 1771
Cook fu inviato nel Pacifico per osservare il transito di Venere e in seguito a questa spedizione,
andrà alla scoperta di molti territori fino ad allora ignoti, come per esempio le Hawaii.
Fino al 1790 l’oceano veniva solcato da poche navi europee l’anno, ma a fine secolo la situazione
venne stravolta e una quantità enorme di flotte europee e americane entrarono in gioco con il fine
di coinvolgere le nuove terre nel sistema commerciale. Tutto ciò fu reso possibile solo ed
esclusivamente grazie al contatto con gli indigeni, indispensabili agli esploratori per
approvvigionarsi di acqua e cibo. Questi incontri, però, non erano solo volti a questo: gli europei
avevano fame di conoscenza, volevano sapere di più su ciò che si ritrovarono davanti. Tra questi vi
era proprio Cook, il quale era considerato un osservatore di popoli, che mai partiva impreparato
sul territorio su cui approdava. Il più grande ostacolo era sicuramente il linguaggio: non v’erano
lingue simili tra gli europei e i tahitiani, questo fu proprio il motivo della permanenza prolungata di
Cook sull’isola (solitamente il contatto tra europei ed indigeni era solo passeggero) che gli permise
di iniziare ad instaurare rapporti con gli isolani anche attraverso l’apprendimento delle reciproche
lingue. In queste situazioni, di fondamentale importanza erano gesti e oggetti che aiutavano la
comunicazione. L’assenza di un linguaggio comune rende questi incontri abbastanza pericolosi:
molto spesso, a causa dell’incomprensione, del linguaggio del corpo e dei gesti differenti in
ciascuna lingua, si sfociava nella violenza.
Le esplorazioni del Pacifico ebbero un impatto non indifferente sull’opinione pubblica europea: i
pensatori illuministi avevano creato un ideale quasi fantastico del Pacifico che spesso e volentieri
non corrispondeva alla realtà. Gli stessi viaggiatori si troveranno in difficoltà di fronte alla richiesta
di descrivere questi luoghi. Alcuni, come Bougainville, paragonarono le isole del Pacifico ad
un’isola presente nell’Odissea (l’isola di Citera), mentre altri, come Cook lasciarono il compito di
esporre le loro esperienze a scrittori più competenti, lasciando loro una serie di appunti che
racchiudeva il loro viaggio. Cook assegnò questo compito a John Hawkesworth, il quale però non si
attenne agli appunti ma andò ben oltre. La sua opera, tuttavia, riscosse un enorme successo: i
lettori trovarono nel libro l’esatta immagine che avevano costruito nella loro mente: un mondo
utopico in cui regnava la pace. Soprattutto in quell’epoca in cui il controllo, la censura e
l’invadenza erano all’ordine del giorno, i lettori si rifugiavano in questo mondo in cui guerre,
competizione e controllo non esistevano, esisteva però la piena libertà. Questi desideri utopistici
saranno posti al centro del commercio nel Settecento con la vendita di libri, opere teatrali,
immagini prodotte da artisti di professione appositamente trasportati dalle navi. Questo flusso di
informazioni ed immagini fu recepito dalla popolazione in modo vorace, soprattutto dal pubblico
illuminato. Una questione di estrema rilevanza sollevata da questi incontri fu quella circa la
definizione di umanità: gli isolani erano sicuramente uomini, però non ci si spiegava perché
fossero così doversi rispetto agli europei. Cominciarono così i dibattiti illuministici rivolti alla razza.
Taluni, come George-Louis Buffon, ammettevano l’unità della razza umana e affermavano che le
differenze tra gli individui erano scaturiti da fattori esterni quali, ad esempio, il clima. Linneo, un
contemporaneo di Buffon, invece, suddivideva l’umanità prima in quattro categorie in base al
colore della pelle, in seguito aggiunse altre categorie. Ciò mette in luce il carattere contraddittorio
degli illuministi sulla categorizzazione della razza. Questi tentativi, in ogni caso, si rivelarono inutili
in quanto non risolsero nessuno dei problemi pratici che si ponevano gli illuministi, prova ne è il
fatto che non si arrivò a prendere una posizione riguardo alla schiavitù (un’istituzione sicuramente
inconciliabile con i valori dell’Illuminismo). Anche per quanto riguardava il colonialismo le posizioni
non erano ben chiare: vi era una divisione tra coloro che vedevano nel colonialismo un vantaggio
anche per i colonizzati e chi, come Rousseau, sosteneva che anche in questo caso si andasse ad
intaccare il principio illuminista di eguaglianza. Nel 1779 si verificò l’assassinio di Cook nelle
Hawaii, un evento che offuscò l’immagine utopica delle isole del Pacifico che poi entrerà
completamente in crisi alla fine del 700. Le filosofie illuministiche relative agli altri popoli saranno
oggetto di critica di Johann Gottfried Herder per la loro contraddittorietà.
Questa contraddittorietà risiede anche sul rapporto tra l’Illuminismo e la schiavitù. Quest’ultima è
un’istituzione esistita nella maggior parte delle società umane e, nonostante fosse sotto gli occhi
di tutti, non suscitò mai sdegno o repulsione, né fu contestata. Tutto ciò fino al Settecento,
momento in cui iniziarono a nascere le prime opposizioni e dopo il 1770, addirittura, gruppi
antischiavisti come la Société des Amis des Noirs. Alcune conquiste in merito all’argomento furono
ottenute: nel 1788 il traffico di schiavi fu dichiarato illegale in svariati stati degli Stati Uniti
d’America. Nella colonia francese di Santo Domingo, invece, saranno proprio rivolte degli stessi
schiavi a conquistare, per un breve periodo, la loro libertà. Si parla appunto di contraddittorietà in
quanto, proprio quando il numero di schiavi arrivò al culmine vi erano molti pensatori, come
Rousseau che si concentravano sui temi dell’uguaglianza e della libertà, eppure un sistema come la
schiavitù (incentrato sullo sfruttamento) era tollerato e, anzi, ritenuto necessario per le economie
caraibiche basate sulle piantagioni. Infatti, per le colonie europee dell’epoca, gli schiavi erano il
punto forte dell’economia. Nonostante ciò, essa divenne sempre più inconcepibile dal punto di
vista morale. Gli schiavi erano privi di qualsiasi legame con la società e, dunque, a completa
disposizione del padrone. Il prezzo d’acquisto di uno schiavo ed il suo mantenimento avevano un
costo del lavoro inferiore a qualsiasi prezzo di mercato. Ciò svincolava dalla carenza di
manodopera. Possiamo quindi affermare con convinzione che le economie delle colonie e,
conseguentemente, anche delle metropoli, determinavano precisamente dalla schiavitù. Anche lo
stesso traffico di schiavi conferiva vantaggi economici: c’era chi investiva in quel commercio, chi si
arricchiva con il perfezionamento delle navi dedite al trasporto di schiavi. In definitiva, gran parte
della popolazione si arricchì grazie a tutti gli aspetti della schiavitù e questi salari contribuivano a
tenere a galla le economie locali. Quindi, mettere in discussione la schiavitù avrebbe comportato il
crollo della struttura economica. Perciò fu necessario così tanto tempo prima di organizzare una
mobilitazione contro questo sistema. Un problema rilevante, fu denotato dal numero sempre
maggiore di schiavi battezzati, a cui quindi si concedeva un’uguaglianza di spirito che andava in
contraddizione con la disuguaglianza giuridica (questo stesso discorso valeva per le donne). A
livello religioso, però, all’interno della Bibbia non v’è mai accenno a posizioni contro lo schiavismo;
al contrario, nell’Antico Testamento si afferma che i patriarchi possedevano schiavi, lo stesso
Adamo ne aveva posseduti alcuni.
Alla fine del secolo si diffonde la convinzione che la fisionomia degli africani di pelle nera fosse
esattamente quella di una razza predisposta alla schiavitù, ritroviamo in realtà questo luogo
comune anche nell’opera “Robinson Crusoe” di Daniel Defoe nella figura di Friday, un uomo di
pelle scura descritto come un uomo dal fisico imponente. Ciò potrebbe indicare la radicazione
della credenza già all’inizio del secolo, risalendo l’opera al 1719. Facilmente si collegava la razza
alla schiavitù, soprattutto in virtù del fatto che dalla fine del Seicento gli schiavi erano perlopiù di
pelle nera. Sarà Montesquieu, nella sua opera del 1748 “Esprit des lois” a deridere la
giustificazione della servitù basata sulle caratteristiche fisiche. Nel Settecento, tuttavia, la
riflessione sulle differenze tra i vari esseri umani nelle diverse parti del mondo fu risolta in modi
differenti: Montesquieu, ad esempio, come Buffon, sosteneva che queste differenze erano
conseguenze dell’esposizione a climi caldi e che all’inizio si trattava di uomini bianchi. Alla fine del
secolo però si intraprese un approccio diverso e ci si basò sull’anatomia: le differenze tra le razze
andavano ben oltre il clima e l’ambiente, ma dipendevano dalla conformazione del cranio e dalla
conformazione della pelle. Allo stesso modo si esaminò il corpo femminile e si scoprì che le cavità
craniche di quest’ultimo erano più piccole rispetto a quello maschile il che servì ad accrescere
l’ego del maschilismo confermando, a detta loro, la tesi dell’inferiorità intellettuale delle donne.
Tuttavia, la scienza, come la religione, non poteva considerarsi decisiva in quanto non si mostrava
né a favore degli schiavisti né agli antischiavisti. In molti, come Jefferson, erano convinti
dell’umanità degli schiavi ma non presero mai iniziative per porre fine alla schiavitù. La situazione
si complica ancora di più quando si analizza il pensiero illuminista che lega schiavitù e libertà. La
proprietà era un concetto complementare a quello di libertà: questo diritto e il possesso di schiavi,
proteggeva i sudditi dai dispotismi del sovrano. Quindi, qualsiasi progetto volto all’emancipazione
degli schiavi metteva a repentaglio le fondamenta stesse della libertà. I movimenti antischiavisti,
tuttavia, portarono a qualcosa: un esempio ne è il caso Somerset, il quale per la prima volta si
concluse con la liberazione di uno schiavo. L’Illuminismo mirava al soggetto umano universale,
libero e dotato di ragione, un ideale molto lontano considerata la schiavitù. Allo stesso tempo fu
una vittoria il fatto che si cominciò realmente a pensare a quest’istituzione come una vera e
propria problematica e, forse, questo traguardo lo si deve ai principi di uguaglianza e benevolenza
dell’Illuminismo.
Come già detto, però, questi principi sovente non vengono rispettati, questo è il caso del ruolo
della donna. In base a quest’ultima considerazione Mary Wollstonecraft scrisse “Vindication of the
Rights of Woman” considerata una delle opere alla base del pensiero femminista. Fu uno dei primi
libri ad affrontare le contraddizioni nelle idee illuministiche in merito all’identità di genere.
Gli illuministi si sforzarono di definire la figura della femminilità e nacquero numerosi tentativi
medici e scientifici di sottolineare le differenze naturali della figura, cercando di giustificare in tal
modo le differenze sociali tra uomini e donne. Attribuendo alla donna uno status di inferiorità si
riportava nella vita domestica ciò che gli illuministi criticavano fortemente in altri contesti: per
esempio il privilegio detenuto dal sovrano o dagli aristocratici. L’Illuminismo si basava su “ragione”
e “virtù” come applicabili a tutti gli esseri umani, eppure, considerando la donna un essere
prettamente irrazionale (come faceva Rousseau), il discorso non sussisteva. La Wollstonecraft
allora, afferma pungentemente, che data questa irrazionalità delle donne sarebbe stato
opportuno escluderle da ogni tipo di contesto sociale e ridurle allo status di animali. Il progetto
universale illuminista è quindi impossibile da applicare poiché metà della popolazione non
possedeva i requisiti adatti per poter far parte di questa società razionale.
Interessante è anche l’equazione che vede nel sesso femminile l’esemplificazione della Natura (la
quale non aveva ancora un significato vero e proprio). Una delle interpretazioni che potremmo
dare a questa relazione è la visione della natura come un qualcosa che gli esseri umani hanno
piegato e conformato a loro uso: allo stesso modo la donna doveva essere sottomessa. Oppure,
era probabile che gli illuministi giocassero con la concezione di Natura identificandola come
“altro”, qualcosa di non definito oppure asserivano al fatto che essa condizionasse le donne nella
loro emotività. Ad ogni modo, sicuramente veniva utilizzato per allontanare la figura della donna
da quella dell’uomo. Vigeva la convinzione della concisione della sfera femminile con quella
domestica (radicata nei secoli precedenti) che era sostenuta dagli illuministi che tra le loro mani
affermavano di avere “evidenze mediche”. Nonostante ciò, la partecipazione delle donne al
movimento intellettuale fu notevole: molte, ad esempio, si guadagnavano da vivere attraverso
forme di produzione culturale varie. Tuttavia, erano considerate un pericolo dalle figure maschili
poiché si preoccupavano che potessero dare al movimento un carattere irrazionale (intrinseco
della figura femminile). Altro ruolo estremamente rilevante della donna sarà determinante per la
sfera pubblica: esse saranno fondamentali nell’organizzazione dei salotti letterari. Già nel ‘600 la
donna partecipava a questi salotti che erano tipici della società di corte francese, questi ultimi nel
Settecento si espansero a un ambiente che andava oltre l’aristocrazia: ciò fu dovuto alle dame che
si circondavano di uomini o donne, spesso di rango inferiore, e incoraggiavano la produzione di
una cultura letteraria comune. Ciò rendeva più eterogenea l’opinione pubblica lontana dalle corti
e permetteva anche a chi non faceva parte dell’aristocrazia di guadagnare credito e pubblico
anche attraverso il mecenatismo. Tutto ciò scatenò la furia di scrittori come Rousseau che andava
contro il primato femminile in un contesto che prima era del tutto maschile ma anche
all’estensione della cultura che divenne accessibile a tutti. Altri filosofi francesi, al contrario
sostenevano che la figura della donna non era volta solo e soltanto alla procreazione
(Montesquieu), che tra uomini e donne non v’erano grandi differenze (Diderot) e che le donne
fossero capaci tanto quanto gli uomini (Voltaire).
Il Settecento è anche il secolo dell’avvio di una delle componenti più potenti del XXI secolo: la
scienza. Inizialmente, lo statuto intellettuale della scienza era contestato e le sue organizzazioni
istituzionali erano molto deboli. Nessuno, nelle strutture educative, prestava attenzione alla
disseminazione di conoscenze scientifiche. Le parole “scienza” e “scienziato”, In realtà, non furono
coniate fino al 1830 (in francese o in tedesco indicavano conoscenze generiche, non applicate alla
natura), l’espressione più vicina esistente era “filosofia naturale”. Inoltre, la scienza settecentesca
è sicuramente molto diversa rispetto a quella odierna: non era inquadrata in un ambito
intellettuale ben delineato, ma risolveva problemi abbastanza generali come il rapporto tra l’uomo
e la natura o la conoscenza del mondo esterno. Ne deduciamo che il vero oggetto di studio della
scienza era la natura che era definita dall’Illuminismo una “norma etica” contrapposta al concetto
di civiltà (corrotta e infelice): tutto ciò che era naturale era buono. La scienza, nel settecento,
faceva parte di altre discipline tutte riunite proprio sotto il nome di filosofia naturale. Si trattava
dello studio della natura e del mondo, concepite come creazioni divine; le risposte ottenute da
questo studio saranno determinanti nel dibattito teologico dal momento in cui si perseguirà
l’ideale di cristianesimo ragionevole. Difatti, teologia e filosofia naturale saranno strettamente
legate, anche in virtù del fatto che la disciplina diverrà una prerogativa del clero. Si fa spazio una
concezione diversa di natura rispetto a quella che ritroviamo nell’Illuminismo: essa diventa
un’entità frutto della mano ordinatrice di Dio che, appunto per rispettare quest’ordine, deve
obbedire a determinate leggi. In molti si scaglieranno contro la nuova disciplina considerandola
una mera curiosità: caratteristica che nel Medioevo e nel Rinascimento era considerata una forma
di lussuria scatenata dagli impulsi. Coloro che riuscirono ad andare oltre il concetto di curiosità
rimanevano comunque perplessi su determinati aspetti: non si spiegavano come fosse possibile
giungere alla conoscenza del mondo esterno e come, una volta raggiunta, si potesse essere sicuri
delle conoscenze acquisite. Molti studiosi, come Giambattista Vico, sostenevano che,
effettivamente, la scienza non poteva essere una forma sicura di conoscenza e che per trovare
principi universali si dovesse guardare a tutto ciò che è stato creato dall’uomo (la storia e le
istituzioni umane) in quanto la scienza fisica può solo essere oggetto alla formulazione di ipotesi.
Quindi, se da un lato vi era chi sosteneva la cooperazione tra filosofia naturale e teologia, dall’altro
vi erano filosofi che affermavano che mai e poi mai gli esseri umani avrebbero potuto raggiungere
una conoscenza dell’ordine naturale: questo fu il primo passo per il distanziamento della scienza
da qualsiasi altra disciplina. Quindi, ci si chiedeva, se perlomeno la scienza fosse in grado di
costruire un quadro del mondo esterno coerente (dato che in molti avevano sostenuto
l’impossibilità di giungere alla conoscenza di quest’ultimo) ed effettivamente era possibile
attraverso i nessi di causalità, che diventarono fondamentali nella filosofia naturale: una cosa ne
causava un’altra. Tuttavia, anche questi nessi vennero criticati: Hume, difatti, affermava che essi
derivavano da sequenze analoghe (abitudini) e che non era scontato che conducessero alla verità.
Inoltre, secondo il filosofo vi erano numerosissimi ostacoli nel raggiungimento della verità
sull’ordine naturale. Un apporto fondamentale che contribuì alla nascita dell’Illuminismo, è senza
dubbio quello di Isaac Newton, il quale fornì delle risposte importanti in merito alle leggi che
ordinano l’universo. Queste furono diffuse dai divulgatori i quali, tuttavia, introdussero anche
delle proprie impressioni come per esempio l’interpretazione di un sistema autoregolato. Newton
prontamente smentì queste impressioni e affermò che l’energia dell’universo era esauribile e che
per il funzionamento di quest’ultimo l’intervento del suo Creatore era fondamentale. Su questa
base in molti considerarono lo scienziato come difensore della religione, altri come un eretico. Via
via la concezione naturale che si diffuse iniziò a discostarsi sempre di più dagli scopi teologici e
acquisì un ruolo fondamentale nelle menti della popolazione: tutto ciò grazie alla scienza.
In generale, nell’Ottocento quest’ultima (prima molto criticata), iniziò ad essere considerata
plausibile e più accessibile. Si diffusero nel mercato testi di divulgazione scientifica; accademie
pubbliche e private incoraggiarono le ricerche della disciplina; tutta la popolazione fu inclusa in
ambito scientifico: anche le donne. La scienza stava sicuramente rimpiazzando il ruolo della
religione divenendo la disciplina culturale dominante, soprattutto perché aveva cominciato a
permettere il controllo e lo sfruttamento della natura e della società.
In quanto alla religione vi è una divergenza abbastanza profonda tra le descrizioni sul suo rapporto
con l’Illuminismo contemporanee e quelle delle epoche seguenti. I contemporanei sostengono
forti atteggiamenti anticristiani da parte degli illuministi che saranno le fondamenta del declino del
cristianesimo: Peter Gay, per l’appunto, l’appellò come “paganesimo moderno” o, addirittura,
Michel Vovelle parlerà di “scristianizzazione”. Studiosi, invece, come Keith Thomas videro uno
stravolgimento del significato della fede religiosa la cui dimensione soprannaturale viene
completamente eliminata. Il grande filosofo Friedrich Hegel, vedeva nell’Illuminismo un forte
spirito religioso e lo considerava una continuazione della Riforma protestante il cui scopo era la
libertà di spirito. Il problema di fondo sarà però la concezione di “cristianesimo ragionevole” che
rischiava di portare alla distruzione della fede stessa poiché veniva assimilata ai bisogni e
all’intelletto dell’uomo che diventa autonomo ed autosufficiente. Quest’ideale viene perseguito in
quanto si cerca di rendere la religione accessibile e comprensibile a tutti, in modo incentivare la
conversione senza la necessità dell’utilizzo della forza. Il problema di ciò sarebbe stato la messa in
discussione della Bibbia poiché sarebbe stato impossibile spiegare gli avvenimenti soprannaturali lì
presenti come i miracoli: ci si chiedeva il perché Dio avrebbe dovuto violare le sue stesse leggi. Ad
ogni modo, la relazione tra cristianesimo ed Illuminismo per Hegel è abbastanza stretta.
All’Illuminismo dobbiamo anche (e soprattutto) l’ideale di tolleranza che va diffondendosi nel
Settecento e che oggi è -o dovrebbe essere- alla base delle relazioni umane. Due importanti
misure vennero prese nel periodo illuminista: in Inghilterra il Toleration Act (1689) ed in Francia
diversi decreti a favore del tema (1787).
All’indomani della pace di Vestfalia (1648), gli stati non si mostrarono più così accaniti riguardo
l’uniformità religiosa: nasce un sentimento di repulsione nei confronti del caos e della
devastazione provocati dalle guerre di religione; inoltre si cominciò a pensare che la fede fosse un
fattore frutto di coscienza e ragione (che proveniva dall’interiorità), era pertanto inutile perseguire
la conformazione. Tuttavia, non tutti i monarchi si trovarono d’accordo con questo concetto,
soprattutto perché in molti stati la legittimità di un sovrano derivava proprio dall’adesione ad un
determinato credo religioso. Per esempio, Maria Teresa d’Austria considerava sua missione agire
come sovrano cattolico; mente Federico II di Prussia adottò ben presto la politica di tolleranza nel
suo regno. Sicuramente tutto ciò derivava anche dal contesto in cui ci si trovava: la Prussia era un
territorio in continua espansione alla ricerca di manodopera in tutta Europa, sarebbe stato
impossibile imporre un unico credo in un territorio del genere.
Un problema che metteva in continua contrapposizione Illuminismo e teologia era il fatto che i
philosophes portavano avanti un concetto di bontà umana, mentre i teologi la peccaminosità di
quest’ultimo. Mettendo in discussione il peccato originale, allora si sarebbe messa in discussione
anche la natura di Cristo: che senso aveva la crocifissione se l’uomo non aveva bisogno di
redimersi dalla sua condizione peccaminosa?
Una soluzione a tutti gli interrogativi posti sulla religione sarebbe stato il deismo: professione con
una totale avversione per la rivelazione; oppure l’abbandono dell’idea di un cristianesimo
ragionevole. Tutti questi dibattiti sulla religione ebbero un impatto enorme sulla politica: si
cominciò a parlare di comunità religiosa e comunità politica, finalmente, come due entità diverse.
Ulteriori dibattiti si incentravano sul ruolo determinante dell’Illuminismo nella rivoluzione francese
(1789). Una figura di spicco all’interno del dibattito fu il conservatore abate Barruel (1741-1889),
un ex gesuita, egli scrive un’opera dal titolo “Mémoires pour servir à l’histoire du jacobinisme” in
cui considerava la rivoluzione il frutto di una cospirazione dei philosophes illuministi riuniti in
organizzazioni come le logge massoniche in Europa e gli illuminati in Germania: mentre i
philosophes e le loro idee intaccavano determinati principi e valori della società, illuminati e logge
massoniche si introducevano al governo. Questo stesso concetto di cospirazione era stato ripreso
dal periodico “Année littéraire” ed emergeva sotto un punto di vista eretico che i lettori
associavano alle eresie protestanti che portarono alla devastazione delle guerre religiose tra
Cinquecento e Seicento. Il giornale sfruttava così le preoccupazioni e le ansie della Francia
settecentesca: ciò portò a far nascere ampi consensi nei riguardi delle tesi di Barruel: ancora una
volta, quindi, ci troviamo di fronte al potere dominante della stampa.Una tesi contrastante era
portata avanti da Alexis de Tocqueville, il quale ammetteva una continuità tra Settecento e
rivoluzione, ma questa continuità non risiede nell’Illuminismo, bensì nella centralizzazione del
potere da parte dello stato (teoria elaborata dopo l’ascesa al potere di Luigi Napoleone). Sono
state elaborate numerose tesi nel corso dei secoli, tuttavia non si è ancora arrivati ad una
conclusione: sicuramente ha influito in ciò il cambiamento della nostra percezione di Illuminismo e
di rivoluzione stessa. Difatti, rischiamo di oscurare problemi se tentiamo di collegare i due
fenomeni tenendo a mente soltanto la rivoluzione francese: ad esempio, la rivoluzione americana
è stata spesso considerata come quell’evento che ha evidenziato il legame tra idee illuministiche e
rivoluzione basato sul principio repubblicano dell’Illuminismo (fondato sull’indipendenza di
ciascun individuo) e dall’idea di progresso, ottimismo e fede nella ragione umana. L’intero corso
dell’Illuminismo fu segnato da rivolte e rivoluzioni ed alcune di esse furono addirittura considerate
parte del movimento illuminista stesso. Nel 700, il termine “rivoluzione” viene concepito come in
astronomia: “orbita completa” e venne poi adattato in ambito politico con il significato di un
qualcosa che implica un ritorno allo stato di cose originario. Tuttavia, dopo il sollevamento delle
colonie americane del 1775, esso assunse un significato diverso: una rottura volta all’instaurazione
di un ordine nuovo. Quest’ultima definizione sarà quella adottata per la rivoluzione francese.
L’Illuminismo, in definitiva, contribuirà in qualche modo allo scoppio della rivoluzione ma non sarà
il fondamento di essa.
Federica Di Pietro (527405); Lingue, letterature
straniere e tecniche della mediazione linguistica