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ZEEV

STERNHELL

DAL XVIII SECOLO ALLA GUERRA FREDDA

SAGGI Baldini Castoldi Dalai editore


«Si forgia, da Herder a Spengler a Meinecke, un’altra modernità
che per un secolo e mezzo non ha cessato di contrapporsi alla
modernità razionalista, proclamandone il crollo dei valori. Questi
valori potevano e s s e r e quelli del razionalismo dei Lumi,
deN’umanesimo antico coi suoi principi radicati nella legge
naturale, o della morale cristiana. I valori universali, così come i
principi dell’89, la democrazia di Weimar o la Terza Repubblica,
non sono crollati da soli. Non sono stati la ricerca della pluralità,
né lo sviluppo delle scienze della natura, la scoperta che ci
potevano essere più geometrie, così come mentalità differenti e
psicologie dissimili, che dovevano produrre necessariamente
l’idea che, allo stesso modo, c’erano più morali, più verità o più
specie umane. L’idea di differenza comporta tanti pericoli quanto
quella di uniformità. Ponendo l’accento su ciò che separa gli
uomini, rifiutando l’idea che p o ssa esistere una sola natura
umana, lo si è visto, si provoca lo sfacelo dell’umanità.»

ISBN 9 7 8 - 8 8 - 6 0 7 3 - 0 6 0 - 2

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Questo è un libro di storia delle idee. Tratta
della rivolta intellettuale contro l’ Illumini­
smo e i suoi principi fondanti (la libertà indi­
viduale, l’autonomia della ragione, il metodo
scientifico), così come si è sviluppata dal
XVIII secolo fino alla fine del X X . A partire
dalla Rivoluzione francese, Edmund Burke,
Joseph de Maistre e tutti i loro epigoni ro­
mantici hanno contrapposto alla filosofia de­
gli Enciclopedisti una concezione della vita e
della politica in cui quel che conta non è ciò
che rende gli uomini uguali ma ciò che li ren­
de diversi: la storia, la cultura, la lingua, l’et­
nia. Per duecento anni questa polemica non
si e mai sopita e anzi è stata alimentata da
nuovi autori e nuovi argomenti. Herder,
'Faine, Sorel, Spengler, Croce, Maurras, Ber­
lin, per citarne alcuni, hanno criticato l’idea
di una ragione «astratta» opponendole una
visione «concreta» della vita, in base alla
quale l’individuo è sempre immerso in una
comunità e nella Storia. E partendo da
un’approfondita analisi di questi presupposti
che Sternhell ci dimostra come il nazionali­
smo, la critica alla democrazia, il risorgere di
una religiosità militante siano il risultato non
di un movimento antimoderno, ma di una di­
versa idea della modernità che ha radici lon­
tane e con la quale dobbiamo fare i conti an­
cora oggi.
Zeev Sternhell è uno dei maggiori storici del
pensiero politico moderno. Insegna all’Uni­
versità ebraica di Gerusalemme. E autore di
opere fondamentali, che hanno fatto molto
discutere, sull’ideologia fascista e sul sionismo
(Nascita dell'ideologia fascista, Né destra né si­
nistra, Nascita di Israele) tutti pubblicati da
BCE)edilore.
Di Zeev Sternhell
nel catalogo Baldini Castoldi Dalai editore
potete leggere:

N asata dell’ideologia fascista

Né destra né sinistra. L’ideologia fascista in Francia

N asata di Israele. Miti, storia, contraddizioni


Zeev Sternhell

Contro rilluminismo
Dal XVIII secolo alla guerra fredda

TRADUZIONE DI
Massimo Giuffredi e Haría La Fata,

Baldini Castoldi Dalai


E d ito ri d al 1897

www.bcdeditore.it e-mail: info@bcdeditore.it


Traduzione dal francese
di M assim o Giuffredi e Ilaria L a Fata

Titolo originale:
«L e s anti-Lumières»

© 2006 Librairie Arthème Fayard

© 2007 Baldini Castoldi Dalai editore S.p.A. - Milano


ISB N 978-88-6073-060-2
A Z iva
INDICE

PREM ESSA ........................................................................................................ 9

INTRODUZIONE.............................................................................................. 13

CAPITOLO 1
Lo scontro delle tradizioni...........................................................................57

CAPITOLO 2
Le fondamenta di un’altra modernità...................................................... 135

CAPITOLO 3
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali....................................... 208

CAPITOLO 4
La cultura politica dei pregiudizi.............................................................. 276

CAPITOLO 5
La legge dell’ineguaglianza e la guerra alla democrazia........................ 331

CAPITOLO 6
I fondamenti intellettuali del nazionalismo............................................409

CAPITOLO 7
Crisi di civiltà, relativismo generalizzato e morte dei valori
universali all’inizio del X X secolo........................................ 464

CAPITOLO 8
G li antilluministi della guerra fredda..................................................... 548

EPILOGO .................................................!...................................................616

INDICE DEI NOMI 645


PREMESSA

Uno studio come quello proposto in questo libro richiede che ci si de­
dichi, all’interno di uno stesso quadro concettuale, a una grande varietà
di problemi, a prima vista molto diversi. Una simile impresa non è mai
facile; è anzi particolarmente ardua nel caso di cui ci occupiamo qui,
perché la contestazione dell’Illuminismo è un fenomeno complesso, dal­
le molteplici stratificazioni e sfaccettature, e le sue ramificazioni, dalle
origini ai giorni nostri, sono numerose e spesso impreviste. Questa con­
testazione permanente e allo stesso tempo in evoluzione ha finito con il
suscitare e alimentare una vera e propria cultura antilluministica, senza
la quale mi sembra difficile concepire il disastro del X X secolo.
La struttura dell’opera è analitica e non organizzata per autori, men­
tre la cronologia, nell’insieme, viene rispettata, cosa che permette di co­
gliere la dinamica dell’evoluzione delle idee. Nella mia analisi degli in­
tellettuali antilluministi ho privilegiato le loro opere essenziali, quelle
che non hanno cessato di pesare sulla vita delle idee e attorno alle quali
si è andata costruendo tutta una cultura politica. Qualsiasi lettura della
storia è una scelta e un’interpretazione, è ovvio: nessuno vi sfugge, e al­
tre scelte o altre interpretazioni diverse dalle mie sono altrettanto legit­
time. Io ho cercato quindi di seguire i consigli di Hippolyte Taine a pro­
posito di Thomas Carlyle: è proprio dello storico eliminare ogni forma
di «vegetazione parassita» che si accumula durante la ricerca per coglie­
re solo «l’utile e solido legno».
Per quanto riguarda le fonti secondarie, nella mia scelta ho utilizza­
to i lavori dal mio punto di vista più significativi, quelli che hanno sti­
molato la mia riflessione, e non tutte le opere importanti che invece lo
avrebbero meritato, se il mio obiettivo fosse stato circoscritto soltanto a
una o due figure tra quelle che sono oggetto della mia ricerca.
Il lavoro per questo libro, si è prolungato per diversi anni in quattro
paesi; mi è dunque capitato di leggere una stessa opera in due o tre edi-

9
Premessa

zioni differenti, a volte anche in lingue differenti. Ho fatto del mio me­
glio per unificare le citazioni, ma questo non è stato sempre possibile.
Comunque fornisco sempre i riferimenti completi di un’opera quando è
citata per la prima volta, ma quando un riferimento è troppo distante dal
punto in cui è apparso la prima volta i dati bibliografici compaiono di
nuovo. E per questo che non è presente una bibliografia: dal momento
che tutte le fonti sono citate in nota, mi è sembrato superfluo riprender­
le alla fine del volume in ordine alfabetico.
Tutte le volte che è stato possibile ho utilizzato i testi francesi. Quan­
do questo non è stato possibile, mi sono riferito di preferenza all’edizio­
ne inglese. In caso di dubbio ho verificato comparando l’originale alle
traduzioni, e fornisco le due citazioni. Quando sono io stesso a tradurre,
preferisco il senso letterale all’eleganza dello stile. Le traduzioni in fran­
cese dal tedesco, per quanto riguarda Herder e Spengler, e in inglese per
Meinecke, sono affidabili e fedeli, cosa che ha assai facilitato il mio com­
pito, permettendomi di confrontare l’originale ai testi francesi e inglesi.
La mia conoscenza del tedesco non mi avrebbe permesso né di risolvere.
da solo i problemi posti da certe fonti né soprattutto di procedere a una
velocità ragionevole. Al fine di facilitare la lettura delle citazioni mi sono
permesso in certi casi di modernizzare l’ortografia e di evitare un uso ec­
cessivo di corsivi e maiuscole.
Durante gli anni di questo lavoro ho contratto numerosi debiti. Il
primo con mia moglie, Ziva: ha cominciato a lavorare prima di me su al­
cuni dei problemi qui trattati ed è sua anche l’idea di questo libro che,
senza di lei, non avrebbe mai visto la luce. Il tempo e l’energia che mi ha
dedicato sono andati a scapito del suo lavoro; le sue ricerche e le sue idee
sull’architettura moderna e il suo contesto culturale, così come sugli in­
timi legami che si sviluppano tra poli di attività intellettuale hanno sti­
molato notevolmente le mie riflessioni.
Nella lettura del manoscritto, comprese le correzioni linguistiche,
Françoise Laurent ha messo la sua intelligenza, il suo senso critico, la sua
capacità di cogliere la concatenazione delle idee, uniti a quarant’anni di
amicizia, dai tempi lontani in cui, a Scienze Politiche, aveva reso leggi­
bile la mia tesi di dottorato, che è diventata poi il mio primo libro. Vor­
rei che sentisse qui l’espressione della mia profonda gratitudine.
I miei ringraziamenti vanno anche alle varie istituzioni che mi hanno
aperto le porte e che hanno favorito il mio lavoro. A Gerusalemme 1TJ-

10
Premessa

niversità Ebraica, la mia casa madre, offre un ambiente intellettuale di


grande qualità. La Israel Science Foundation, l’università e i suoi biblio­
tecari che, a dispetto dei drammatici tagli economici, sostengono la ri­
cerca per quanto concesso dai loro mezzi, così come il nostro Diparti­
mento di Scienze Politiche mi hanno fornito l’aiuto materiale che mi ha
permesso di impostare il mio progetto e di condurlo a termine.
Ho cominciato questo lavoro a Wassenaar, al Netherlands Institute
for Advanced Studies; nelle sue linee essenziali l’ho portato avanti a G e­
rusalemme e poi al Centre d’Histoire di Scienze Politiche di Parigi e al
Remarque Institute dell’Università di New York, dove è stato pressoché
portato a termine. Vorrei esprimere la mia riconoscenza ai miei colleghi,
al professor Henk Wesseling, dell’Università di Leida e rettore del NIAS
all’epoca del mio soggiorno a Wassenaar, al professor Jean-François Si-
rinelli, direttore del Centre d’Histoire di Scienze Politiche, e al suo se­
gretario generale Pascal Cauchy, al professor Tony Judt, direttore del Re­
marque Institute, e a Jair Kessler, sua direttrice amministrativa.
Un libro appartiene al suo autore, ma anche al suo editore. Come
sempre, da una ventina di anni a questa parte ho potuto beneficiare del­
l’amicizia e della profonda comprensione che Claude Durand e Denis
Maraval hanno per la natura e il senso del lavoro scientifico. Il mio ma­
noscritto deve una forma adeguata all’argomento alla professionalità e
all’amore per i lavori ben fatti di Denis Maraval. E lui che, con l’aiuto di
Nathalie Reignier-Decruck, coordinatrice editoriale la cui attenzione be­
nevola non è mai venuta meno, ha saputo trasformare un manoscritto in
libro. Christelle Kremer non si è risparmiata nella compilazione dell’in­
dice e di questo la ringrazio vivamente. Ancora prima che il libro giun­
gesse in libreria, aveva già beneficiato dell’intelligente sostegno dell’ad­
detta stampa Marion Corcin. Ancora una volta, che siano ringraziati tut­
ti i miei amici della Librairie Fayard.

11
INTRODUZIONE

La rivolta contro l’Illuminismo francese - o, più precisamente, contro


l’Illuminismo franco-kantiano - segna la nascita di una cultura politica
che pone un’alternativa globale alla visione del mondo, dell’uomo e del­
la società creati dal XVIII secolo. La modernità razionalista risale alla ri­
voluzione scientifica del XVII secolo e alla sua immediata espressione
politica in Hobbes, alla rivoluzione del 1688-1689 in Inghilterra e, in
Francia, alla querelle des Anciens et des Modemes all’inizio del Settecen­
to. Il teorico della Gloriosa Rivoluzione, Locke, sta alla politica e in ge­
nerale alle scienze umane come, nel secolo precedente, Newton stava al­
la matematica, alla fisica e alle scienze naturali. Fontenelle, morto nel
1757 all’età di cento anni, una delle migliori penne del suo tempo e uno
dei grandi modemes per la sua critica razionale, aveva, con Bayle, pre­
parato lo sviluppo filosofico del secolo successivo.
Tuttavia la vittoria di un razionalismo sia culturale che politico pro­
duce molto rapidamente una risposta violenta e si fa quindi avanti un’al­
tra cultura politica. Il pioniere della cultura antilluminista, Giambattista
Vico, pubblica nel 1725 la prima versione dei Principi di scienza nuova
d’intorno alla comune natura delle nazioni (Scienza nuova). Nella nostra
prospettiva, Vico costituisce il primo anello dell’antirazionalismo e del-
l’antintellettualismo, del culto del particolare e del rifiuto dell’universa­
le. Egli è il primo a proclamare il rigetto dei principi del diritto natura­
le. Tuttavia, poiché resta sconosciuto fuori di Napoli e poi dellTtalia fi­
no all’inizio del X IX secolo, il suo vero ruolo storico consiste più nel
consolidamento della cultura antilluministica tra Ottocento e Novecen­
to che nella sua creazione. Per cui, in termini di influenza diretta e im­
mediata, i fondatori della cultura antilluministica sono Johann Gottfried
Herder e Edmund Burke.
Dopo il V secolo ateniese, il Settecento è stato il secondo grande mo­
mento del pensiero politico. Fu allora che vennero costruite le idee mo-

13
Introduzione

derne sulla storia, sulla politica e sulla cultura. L’Illuminismo fu in pri­


mo luogo un movimento politico: «Avevo scoperto che tutto si legava in­
timamente alla politica», dice Rousseau, «e che, da qualunque lato si af­
frontasse il problema, nessun popolo sarebbe mai stato altro che quello
che la natura del suo governo lo avrebbe fatto essere. Così il grande pro­
blema del miglior governo possibile mi pareva ridursi a questo: “Qual è
la natura del governo atto a formare il popolo più virtuoso, più illumi­
nato, più saggio, il miglior popolo, insomma, usando questa parola nel
suo più alto significato?”» 1Nel XVIII secolo il potere politico era dive­
nuto il fondamento di qualsiasi potere, e l’autore del Discours sur l’iné­
galité aveva capito molto bene il suo tempo pensando che la libertà po­
litica fosse la base di tutte le altre libertà. Qui sta il motivo dell’influen­
za che ha esercitato. Hume, il filosofo politico dell’Illuminismo britan­
nico, si schiera dalla sua parte a proposito della potenza delle idee: «C o­
me non vi è partito, nell’età presente, che non sappia mantenersi in vita
senza un sistema filosofico o speculativo i cui principi siano connessi con
il suo sistema pratico e politico, così noi troviamo che ognuna delle fa­
zioni in cui la nazione è divisa ha costruito un edificio del primo tipo al
fine di proteggere e di coprire quello schema di azione che persegue».2
All’infuori di Rousseau, l’Illuminismo francese non ha conosciuto gran­
di filosofi. Locke, Hume e Kant provengono dall’Inghilterra, dalla Scozia e
dalla Germania. Per contro, in Francia sono stati molto numerosi i grandi
spiriti in grado di lottare senza sosta sia contro il male che per la diffusione
delle loro idee. Era il periodo dell’intellettuale universale rappresentato da
Voltaire, nel quale Nietzsche avrebbe visto «uno dei più grandi liberatori

1. J.-J. Rousseau, L e confessioni, trad, di Michele Rago, Einaudi, Torino 1955, p. 445.
Rousseau meditava allora sulle sue In stitution spolitiques, opera che, dice (p. 444),
«doveva a mio parere mettere il suggello alla mia reputazione». Questo libro, co­
me si sa, non ha mai visto la luce.
2. David Hume, «Sul contratto originale», trad, di Enrico Mistretta, in Opere fib so -
fiche, voi. Ili, Laterza, Roma-Bari 1987, p. 467. Ecco il testo originale: «A s no
party, in the present age, can w ell support itself, without a philosophical o r specula­
tive system o f principles, annexed to its p olitical or practical one; we accordingly
find, that each o f the factions, into which this nation is divided, has reared up a fa ­
bric o f the form er kind, in order to protect an d cover that scheme o f actions, which
it pursues», in P olitical Essays, a cura di Knud Aakonssen, Cambridge University
Press, Cambridge 1994, p. 186 (Saggio 23).

14
Introduzione

dello spirito»3. Tutti i philosophes, nel senso che questa parola ha acquisito
nel XVIII secolo, consideravano la politica come l’unico strumento in gra­
do di cambiare la vita. Mai prima di allora si era discusso tanto intensa­
mente sul mondo di domani: la politica era diventata affare di tutti.
Era il periodo dell’Encyclopédie: il Dictionnaire raisonné, tanto deni­
grato, era pieno di lacune, come la maggior parte delle opere collettive,
soprattutto quando esse mirano alla diffusione della conoscenza, ma la
sua prima edizione in ventotto volumi costituì un’impresa senza prece­
denti nella storia del sapere. Diderot e D ’Alembert pongono l’uomo al
centro dell’universo e l’individuo afferma il suo diritto alla felicità attra­
verso il progresso materiale: egli si emancipa per mezzo della ragione. Ma
allo stesso tempo l’uomo del Settecento riporta le passioni al loro giusto
posto: «Checché ne dicano i moralisti, afferma Rousseau, l’intelletto uma­
no deve molto alle passioni, le quali, per comune consenso, a loro volta
gli devono moltissimo: il nostro intelletto si perfeziona per opera della lo­
ro attività. Noi cerchiamo di conoscere soltanto perché desideriamo di
godere, e non è possibile concepire per quale motivo chi non avesse né
desideri né timori si prenderebbe la briga di ragionare».4H secolo dei Lu­
mi non è mai stato quel secolo di aridità intellettuale e di valorizzazione
dei sensi come ancora oggi lo dipingono abbondantemente i suoi nemici.
Il termine «antilluminismo» è stato probabilmente coniato da Nietz­
sche ed era di uso corrente in Germania all’inizio del X X secolo5. Non è ca-

3. Friedrich Nietzsche, Umano, troppo umano. Frammenti postum i (1876-1879), trad, di


Sossio Giametta e Mazzino Montanari, Adelphi, Milano 1965,1.1, p. 489, epigrafe del­
l’autore alla prima edizione dell’opera pubblicata in omaggio «alla memoria di Voltaire
in occasione della celebrazione dell’anniversario della sua morte, il 30 maggio 1778».
Nietzsche dichiara di offrire «al momento giusto un omaggio personale» a Voltaire.
4. J.-J. Rousseau, O rigine della disuguaglianza, a cura di Giulio Preti, Feltrinelli, Mi­
lano 2006, p. 49.
5. Cfr. Robert Wokler, «Isaiah Berlin’s Enlightenment and Counter-Enlightenment»,
in Joseph Mali e Robert Wokler (a cura di), Isaiah Berlin’s Counter-Enlightenment,
American Philosophical Society, Philadelphia 2003, pp. VII e 26. Wokler fornisce
come fonte i Nachgelassene Fragm ente della primavera e dell’estate 1877 in Nietz­
sche Werke: Kritische Gesam tausgabe, Walter de Gruyter, Berlin 1967, voi. IV/2, p.
478,22 [17]. In effetti, Nietzsche scrive: «E s giebt Kürzere und langäre Bogen in der
Culturentwicklung. D er Höhe des Aufklärung entspricht die H öhe der Gegen-Aufklä-
rung in Schopenhauer und W agner» [«Nello sviluppo della cultura vi sono archi più
lunghi e più brevi. Al culmine dell’Illuminismo corrisponde il culmine della reazio­
ne all’Illuminismo di Schopenhauer e Wagner», Umano, troppo umano, 1.1, p. 385].

15
Introduzione

suale che Nietzsche concepisca questo concetto per definire le idee di


Schopenhauer e di Wagner, e noi non dobbiamo la creazione del termine
solo al genio filosofico dell’autore di Schopenhauer come educatore, ma an­
che al fatto che è proprio negli «anni di Nietzsche» che l’antilluminismo di­
venta un vero e proprio torrente intellettuale. E allora che la rivoluzione an­
tirazionalista e antiuniversalista della fine del XVIII secolo si diffonde,
adattata ai bisogni di una società che in poche decine di anni è cambiata co­
me mai prima. In inglese la parola Counter-Enlightenment esisteva almeno
una quindicina d’anni prima del suo utilizzo, nel 1973, da parte del celebre
storico delle idee britannico Isaiah Berlin, che se ne è ritenuto l’inventore.
È stato utilizzato, dice Robert Wokler, da William Barrett, professore ame­
ricano di filosofìa ai suoi tempi molto noto e direttore della celebre rivista
di sinistra Partisan Review. Barrett fu uno dei primi accademici americani
a fare conoscere l’esistenzialismo ai suoi compatrioti. Non c’è da stupirsi se
questo concetto nietzschiano appaia proprio in un libro sull’esistenziali­
smo6. Tuttavia è stato certamente grazie all’innata propensione di Isaiah
Berlin per le formule e per la loro divulgazione che Counter-Enlightenment
ha finito per acquisire diritto di cittadinanza nel mondo anglofono.
Se questa terminologia non sembra avere un’esistenza originale in
francese è forse anche dovuto al fatto che Gegen-Aufklarung è stato piat­
tamente tradotto come « reaction à la philosophie des Lumières»7. Non ci

6. Cfr. Irration al m an: A study in E xisten tial Philosophy, Doubleday, New York 1962,
p. 274: «E xisten tialism is the counter-Enlightenm ent come a t last to philosophical
expression ». Isaiah Berlin pensava di esserne stato l’inventore, nel 1973: Wokler (si
veda la nota precedente) si riferisce a Ramin Jahanbegloo, Conversation with
Isaiah Berlin, Peter Halban, London 1992, pp. 69-70, la cui traduzione francese di
Gérard Lorirrry è apparsa sotto il titolo En toutes libertés: entretiens avec Ram in
Jahanbegloo, Ed. du Félin, Paris 1990. Ecco che cosa dice Berlin: «I don’t know
who invented the concept o f “Counter-Enlightenm ent”. Som eone m ust have said it.
C ould it be m yself? I should be som ew hat surprised. Perhaps I did. I really have no
idea». In francese è stato tradotto: « Je ne sais p as qui a inventé le concept de Con­
tre-Lum ières. Q uelqu’un a dû prononcer le mot. Est-ce que cela pourrait être m oi?
J'en sarais supris. Réellem ent, je n’en a i p as la m oindre idée» (p. 93), che non è esat­
to, perché non riporta quel «perhaps I did».
7. È proprio così che la traduzione francese rende il concetto di Gegen-Aufklarung.
Ecco il testo del paragrafo 22 [17] citato sopra: « I l y a des courbes plu s ou m oins
courtes ou longues dans le développem ent d’une civilisation. A u sommet de la phi-

16
Introduzione

si è resi conto che Nietzsche aveva inventato un concetto analitico di ca­


pitale importanza per definire un fenomeno di civiltà. In compenso, l’e­
spressione «anti-philosophes» è apparsa circa nel momento stesso in cui
gli enciclopedisti assumevano il nome di philosophess. Per cui, anche se
in francese non si parla di «anti» o di «contro» Illuminismo, l’idea in sé,
dal Settecento e per tutto l’Ottocento e Novecento, segue il suo corso:
via via che ci si avvicina al secolo appena trascorso il corpus intellettua­
le basato sulla guerra airilluminismo franco-kantiano diventa un po’ al­
la volta l’ideologia dominante del mondo contemporaneo.
Proprio come l’Illuminismo, l’antilluminismo è un movimento poli­
tico e anche il suo assalto viene sferrato prima della Rivoluzione france­
se e senza rapporti con essa. Nell’ultimo quarto di questo grande secolo
si produce in pratica un rovesciamento di valori dalle implicazioni
profonde e tenaci, il cui intero significato non sarebbe stato colto che
dopo un secolo. Burke ed Herder - e prima di loro Vico, come si è det­
to - si sono lanciati in guerra contro l’Illuminismo francese, contro il ra­
zionalismo, contro Descartes e contro Rousseau ancor prima della presa
della Bastiglia. Mezzo secolo separa la Scienza nuova di Vico, nella sua
versione definitiva del 1744, dalla caduta dell’Ancien Regime; Burke ha
scagliato le sue prime critiche più di trenta anni prima della Dichiara­
zione dei diritti dell’uomo, ed Herder, che a dispetto della sua avversio­
ne all’Illuminismo francese avrebbe accolto con entusiasmo la caduta8

losophie des Lum ières corrispond le som m et de la reaction à la philosophie des Lu­
m ières chez Schopenhauer et Wagner. Les points culm inants des petites courbes se
rapprochent le plu s de la grand courbe-rom antism e». Si veda Friedrich Nietzsche,
Œ uvres philosophiques com plètes III, Hum ain, trop humain - Un livre pour esprits
libres 1, Fragm ents posthum es (1876-1878), Gallimard, Paris 1988, pp. 437-438. In
A urora, parlando dell’«ostilità dei tedeschi contro l’illuminismo», Nietzsche op­
pone una «grande reazione» alla «grande rivoluzione»: il termine «reazione» è uti­
lizzato nel suo significato proprio e circoscritto. Si veda Friedrich Nietzsche, A u­
rora, pensieri su i pregiudizi m orali, trad, di Ferruccio Masini, Adelphi, Milano
1978, paragrafo 197, pp. 141-143.
8. H termine «axiti-philosophe» si ritrova nel 1751 nei Pensées antiphilosophiques del­
l’abate Allemand o nel 1767 nel D ictionnaire anti-philosophique di Louis Mayeul
Chaudon. Il termine compare anche in Diderot nel 1747 (Pensées philosophiques)
e nel D ictionnaire philosophique di Voltaire del 1767. Si veda Darrin M.
McMahon, «The Real Counter-Enlightenment: the Case of France», in «Isaiah
Berlin’s Enlightenment and Counter-Enlightenment» già citato.

17
Introduzione

della monarchia autoritaria in Francia, già dal 1769 aveva manifestato la


sua ostilità ai principi difesi dai philosophes.
Senza dubbio l’Illuminismo è percorso da correnti molteplici e con­
traddittorie, esattamente come il movimento che lo contesta, e non po­
trebbe essere altrimenti. Se il rigoglio intellettuale, il pluralismo, la dif­
ferenza e le contraddizioni interne costituiscono una caratteristica fon­
damentale dell’Illuminismo, lo stesso avviene per rantilluminismo. Di­
sconoscere queste differenze sarebbe un grave errore. L’Illuminismo non
è costituito da un corpus di idee sempre ben strutturato, quanto piutto­
sto da una tradizione intellettuale con obiettivi pratici e immediati; tut­
tavia, nonostante questa eterogeneità, esiste un denominatore comune a
tutte le forme e varianti dell’Illuminismo, così come dell’antilluminismo.
Questo perché, nonostante tutto ciò che separa Voltaire da Rousseau,
Rousseau da Condorcet, Montesquieu da Diderot e dagli enciclopedisti,
i pensatori illuministi francesi, affiancati dal loro principale alleato,
Kant, sono uniti da un certo numero di principi che costituiscono il cuo­
re della grande rivoluzione intellettuale del XVIII secolo. Senza timore
di alterare le complesse realtà del periodo che va dall’inizio del XVIII se­
colo ai giorni nostri, si può affermare che esiste una coerenza e una lo­
gica in ognuna delle due tradizioni intellettuali.
In effetti, è proprio contro questa nuova visione della storia, del­
l’uomo e della società, contro le nuove teorie della conoscenza, contro
il famoso Sapere aude kantiano che si levano tutte le varianti dell’antil­
luminismo. Da due secoli i suoi pensatori fanno guerra ad alcuni di
quei principi fondamentali che hanno reso possibili l’instaurazione
delle libertà inglesi e poi le due grandi dichiarazioni dei diritti e le due
rivoluzioni della fine del Settecento. E per questo che l’interpretazio­
ne degli eventi inglesi della fine del Seicento rappresenta un punto di
partenza imprescindibile: affinché la critica ai fondamenti del raziona­
lismo politico, e quindi del liberalismo, possa essere convincente, era
assolutamente necessario che l’anno 1689 non segnasse l’inizio di una
nuova epoca ma semplicemente la restaurazione delle vecchie libertà
inglesi. Per Hume questa teoria, legata a Burke e alla sua scuola, era
pura fantasia: le libertà inglesi costituivano una novità uscita dalla ri­
voluzione e non la resurrezione di una presunta vecchia costituzione
basata su documenti come la Magna Charta. Tutte le opere storiche di
Hume sono basate su questa idea: le vecchie carte tanto venerate non

18
Introduzione

erano in realtà che degli elenchi di privilegi che alcuni nobili avidi di
potere erano riusciti a imporre a una monarchia tendente al dispoti­
smo. Il sistema inglese non era basato né su una presunta antica costi­
tuzione né su un originario contratto di governo ma su un compro­
messo politico e una dipendenza reciproca tra corona e Parlamento, e
dunque su un equilibrio delicato9.
Tuttavia il vero obiettivo dell’esecrazione di Burke e della sua scuo­
la è proprio la Dichiarazione francese dei diritti dell’uomo e del cittadi­
no. Nel 1789 era ancora possibile occultare Locke e Hume, la Gloriosa
Rivoluzione poteva essere interpretata in modi diversi, soprattutto sul
continente, e l’America era ancora troppo lontana dai centri del potere
e della cultura per potere svolgere un ruolo d’avanguardia nell’evoluzio­
ne della civiltà. Inoltre i critici deUllluminismo fecero di tutto per ac­
creditare l’idea per cui la ribellione delle colonie inglesi d’America non
era affatto contro VAncien Regime, e ancora meno era un sollevamento
della ragione sovrana contro la storia. I più intelligenti tra loro, come il
letterato Friedrich von Gentz, traduttore e interprete tedesco di Burke -
e più tardi consigliere di Metternich - pensavano che la Dichiarazione
d’indipendenza fosse stata la copertura ideologica di cui i coloni aveva­
no bisogno per dare alla secessione una dimensione epica; nei fatti essi
non avevano alcuna intenzione di opporre i diritti dell’uomo ai diritti
specifici dei membri di una comunità storica. All’inizio dell’anno 1800
Gentz pubblicò un lungo articolo nel quale si impegnò a separare la ri­
volta delle Tredici colonie, semplice movimento di secessione con obiet­
tivi moderati, ben definiti e limitati, dalla Rivoluzione francese, fatto vio­
lento e veramente mostruoso10; l’appello ai nefasti principi di «diritti na­
turali e inalienabili» deve, secondo lui, essere considerato un errore di
giudizio. Questo saggio fu subito tradotto in inglese da John Quincy

9. David Hume, Politicai Essays, a cura di Knud Haakonseen, Cambridge Univer­


sity Press, Cambridge 1994, Introduzione, pp. XX-XXII.
10. Gentz aveva fondato a Berlino una rivista di idee, Historisches Journal, sulla qua­
le pubblicò, in aprile e maggio 1800, il suo saggio su «Le origini e i principi del­
la Rivoluzione americana comparati con le origini e i principi della Rivoluzione
francese»: Friedrich Gentz, The French and American Revolutions compared,
trad. di John Quincy Adams, introduzione di Russell Kirk, Gateways editions,
Chicago [1955], Si vedano in particolare le pp. 53 e sgg.

19
Introduzione

Adams, futuro presidente degli Stati Uniti e allora ministro plenipoten­


ziario a Berlino. Caduto nell’oblio, il testo fu ristampato nel 1955 per di­
ventare, in tempi di guerra fredda, uno dei pilastri della campagna ideo­
logica contro l’Illuminismo.
Da Adams a Russell Kirk negli anni Cinquanta fino a Gertrude Him-
melfarb ai giorni nostri, passando per Cari Becker negli anni Trenta", si
nota nei critici americani dell’Uluminismo lo stesso atteggiamento, che
consiste nel minimizzare al massimo, ossia cercare di ignorare compieta-
mente, l’influenza decisiva della filosofia dei diritti naturali sulla forma­
zione della società, dello Stato e della nazione in America*12. Non po­
trebbe essere altrimenti. Se la Rivoluzione francese è stata una rivolta
contro Dio e contro l’ordine naturale delle cose e, per di più, anticipa­
trice della Rivoluzione sovietica, e se per contro l’America era l’ultimo
bastione della libertà, diventava urgente dimenticare la portata ideologi­
ca della fondazione degli Stati Uniti per non farne che un accidente che
un governo più abile di quello di Giorgio III sarebbe stato sicuramente
in grado di evitare. Che ci si trovi alla fine del XVIII secolo o nel bel
mezzo della guerra fredda, per la visione conservatrice del mondo il sen­
so della guerra d’indipendenza americana non poteva avere un signifi-

1i . Russell Kirk, The Conservative Mind, from Burke to Santayana, Henry Regnery
Company, Chicago 1953 (sesta ristampa 1963) e la sua introduzione alle Reflec­
tions on the Revolution in France di Burke, Gateways editions, Los Angeles 1955
(Kirk, iniziatore del culto contemporaneo di Burke, è considerato uno dei primi
portavoce del conservatorismo della seconda metà del Novecento); Gertrude
Himmelfarb, The Roads to Modernity, The British, French, and American
Enlightenments, Knopf, New York 2004; Carl L. Becker, The Heavenly City of
Eighteenth Century Philosophers, Yale University Press, New Haven 1965 ( 1J ed.
1932) [La città celeste dei filosofi settecenteschi, trad, di Umberto Morra, Ric­
ciardi, Napoli 1946]. Tutti questi autori vedono in Burke il fondatore di un con­
servatorismo «illuminato», nei fatti l’unico uomo dei Lumi bene intesi; si veda
un altro recente esempio nell’antologia di Jerry Z. Muller che, come altri, asso­
cia fium e alla famiglia conservatrice: Conservatism: an Anthology o f Social and
Political Thought, Princeton University Press, Princeton 1997.
12. Si veda l'introduzione di Russell Kirk in Gentz, The French and American Revo­
lutions Compared, pp. Ill-XI. Si vedano anche le critiche rivolte a un’altra ope­
ra di Cari Becker, The Declaration of Independence, da Yehoshua Arieli, autore
dell’ammirevole Individualism and Nationalism in American Ideology, Harvard
University Press, Cambridge (Mass.) 1964, p. 369.

20
Introduzione

cato paragonabile a quello della Rivoluzione francese. La distinzione tra


una buona «rivoluzione» e una rivoluzione «utopica», quindi cattiva, sa­
rebbe stata ripresa dopo la caduta del comuniSmo e rappresenta oggi
uno degli elementi ideologici del neoconservatorismo sia negli Stati Uni­
ti che in Francia.
E tuttavia certo che se non fosse stata seguita dalla Rivoluzione fran­
cese, la conquista dell’indipendenza da parte delle colonie inglesi del-
l’America del Nord avrebbe avuto effetto limitato. Mettendo fine al-
i VAncien Regime nel paese europeo più popoloso e più potente, la Rivo­
luzione francese ha dato vita politica al corpus intellettuale deU’Illumi-
nismo. Sono proprio i fatti di Parigi tra il maggio e l’ottobre 1789, seguiti
i dalla caduta della monarchia e dalla guerra europea, che hanno fornito
al passaggio verso la modernità le dimensioni di una rivoluzione giunta
\ dal profondo del XVIII secolo” .
L’Illuminismo voleva liberare l’uomo dalle costrizioni della storia, dal
giogo delle credenze tradizionali e non verificate: per questi motivi vide
la luce il liberalismo del Secondo Trattato di Locke, della Risposta alla do­
manda: che cose l’Illuminismo? di Kant e del Discours sur l’origine de
l’inégalité di Rousseau, tre pamphlet formidabili che scandiscono la libe­
razione dell’uomo. Ma se l’Illuminismo francese, o meglio rilluminismo
franco-kantiano, così come rilluminismo inglese e scozzese producono la13

13. L’idea di una rivoluzione non solo francese ma occidentale è stata sviluppata ne­
gli anni Cinquanta del Novecento da Jacques Godechot (La Grande Nazione.
Lespansione rivoluzionaria della Francia nel mondo. 1789-1799, trad. di Franco
Gaeta, Laterza, Bari 1962) e Robert Palmer (The Age o f thè Democratic Revolu­
tion, Princeton University Press, Princeton 1959 [L'era delle rivoluzioni demo­
cratiche, trad. di Adriana Castelnuovo Tedesco, Rizzoli, Milano 1971]). In un’al­
tra opera su La controrivoluzione. Dottrina e azione (1789-1804), a cura di Enzo
Turbiani, Mursia, Milano 1988, Godechot guarda in questa prospettiva ai moti,
alle rivolte e alle rivoluzioni della fine del XVIII secolo, dalla rivoluzione gine­
vrina del 1768 durante la quale i controrivoluzionari fecero bruciare dal boia il
Contrai social sulla pubblica piazza, fino alla rivolta in Olanda del 1783-1787 e
a quella scoppiata a Liegi nel 1790. In ambedue gli ultimi casi l’ordine fu rista­
bilito grazie a un intervento straniero. Nel frattempo si erano verificati disordi­
ni anche in Inghilterra, nel 1782-1784, e di nuovo a Ginevra, dove nel 1782 gli
oligarchi chiamarono in soccorso le truppe di Berna, di Zurigo, del re di Sarde­
gna e del re di Francia.

21
Introduzione

I grande rivoluzione intellettuale della modernità razionalista, il movimen-


i to intellettuale associato alla rivolta contro i Lumi non rappresentò una
controrivoluzione, ma un’altra rivoluzione: in questo modo non nacque
tanto una contromodernità quanto piuttosto un’altra modernità, basata
sul culto di tutto ciò che distingue e separa gli uomini - la storia, la cul­
tura, la lingua - una cultura politica che nega sia ia capacità che il diritto
^della ragione di plasmare la vita degli uomini. Secondo questi teorici l’e­
splosione, la frammentazione e l’atomizzazione dell’esistenza umana, de­
rivate dalla distruzione dell’unità del mondo medievale, sono all’origine
della decadenza moderna. Essi deplorano la scomparsa di quell’armonia
spirituale fondamento all’esistenza dell’uomo medievale, distrutta dal Ri-
nascimento per alcuni o dalla Riforma per altri. Rimpiangono il tempo in
cui l’individuo, retto dalla religione fino all’ultimo respiro, contadino o
artigiano che viveva solo per il suo mestiere, inquadrato dalla società in
ogni momento, non aveva altra possibilità di esistere che come ingranag­
gio di una macchina infinitamente complessa della quale ignorava la sor­
te. Così, piegato sulla gleba senza fare domande, aveva il suo ruolo nel
cammino della civiltà umana. Il male moderno è nato quando, da sem­
plice pezzo di un meccanismo sofisticato, l’uomo è diventato un indivi­
duo in possesso di diritti naturali. Da Burke a Meinecke negli anni Tren­
ta, l’obiettivo resta la restaurazione di quell’unità perduta.
In questo modo l’orizzonte dell’individuo si trova bloccato dalla ca­
micia di forza in cui lo rinchiude la sua comunità culturale. Il primato
della tradizione, dei costumi e dell’appartenenza a una comunità cultu­
rale, storica e linguistica, è stato proclamato da Vico. L’uomo, diceva Vi­
co criticando i teorici del diritto naturale - Hobbes, Locke, Grotius e
Pufendorf - non ha creato la società di sana pianta, ma è ciò che la so­
cietà ne ha fatto, i suoi valori sono sociali e quindi relativi. La relatività
dei valori rappresenta un aspetto fondamentale della critica all’Illumini­
smo e i danni provocati da questo concetto saranno grandi. Sarà proprio
quest’altra modernità a produrre la catastrofe europea del Novecento.
La coesistenza conflittuale di queste due modernità rappresenta una
delle grandi linee ideali della storia dei due secoli che separano il nostro
mondo da quello della fine del Settecento. Qui sta un fenomeno che
molto spesso sfugge all’attenzione degli storici: se la modernità illumini­
sta è quella del liberalismo che porta alla democrazia, all’inizio del N o­
vecento l’altra modernità, scendendo dalle vette dell’alta cultura ovesta-

22
Introduzione

vano Renan o Taine, assume nelle strade la fisionomia della destra rivo­
luzionaria, nazionalista, comunitaria - per la Germania si parla anche di
«rivoluzione conservatrice» - nemica giurata dei valori universali. Re­
spingendo, dalla seconda metà del XVIII secolo, l’idea dell’autonomia
dell’individuo, là modernità antirazionalista diventa, cento anni dopo,
una forza politica dalla straordinaria capacità di rottura, che riesce a
scalzare i fondamenti della democrazia. All’inizio del X X secolo compa­
re una nuova concettualizzazione, ma i contenuti e la funzione di que-
st’altra modernità restano. Come ai tempi di Herder e di Burke, le sue
bestie nere sono sempre Kant, Rousseau, Voltaire, e in generale tutti i
philosophes.
__Conviene a questo punto insistere su un altro elemento, anch’esso di
grande importanza: una delle spinte principali di questa campagna che
continua ben oltre la fine della Seconda guerra mondiale è l’attacco sfer­
rato in nome di un certo liberalismo. Un liberalismo opposto aH’Illumi-
nismo poteva ancora avere un senso e una funzione importante fino alla
seconda metà dell’Ottocento, ma dal momento in cui, per effetto della
rapida industrializzazione del continente europeo e della nazionalizza­
zione delle masse urbane, emerge una nuova società, il liberalismo antil-
luminista - spesso seducente, perché la sua nocività non è sempre evi­
dente - mettendo in discussione la capacità dell’individuo di essere pa­
drone del mondo in cui vive, indebolisce la stessa possibilità di soprav­
vivenza della democrazia.
Questa campagna contro rilluminismo è molto più sofisticata e più
sfumata di quella dei nemici classici, apertamente autoritari, del XVIII se­
colo ma, ponendosi come obiettivo la distruzione della visione atomistica
della società, preannuncia già la nascita del comunitarismo. Contrariamen­
te a quanto si pensa oggi in certi ambiti comunitaristi americani, la corre­
zione del liberalismo col comunitarismo si è tradotta, nel corso del X X se­
colo, in una diminuzione del liberalismo, o perlomeno del liberalismo co­
me lo intendevano Constant, Tocqueville e Mili. Infatti il pluralismo dei va­
lori che ne è la bandiera conduce necessariamente verso il relativismo. La
guerra fredda e il pericolo staliniano hanno provocato un massiccio ritorno
della critica aU’Illuminismo e alla Rivoluzione francese di Burke e Taine e
una rifioritura dei vecchi temi antilluministi maturati e sviluppati nell’Ot­
tocento. Un corollario dell’antirazionalismo è il relativismo: esistono così
un relativismo nazionalista, un relativismo fascista e un relativismo liberale.

23
Introduzione

Quest’ultimo è quello di Isaiah Berlin, che nella seconda metà del X X se­
colo segue la linea di pensiero avviata da Herder, della quale l’opera di Mei-
necke costituisce, fra le due guerre, un riferimento imprescindibile.
. Certo, la conoscenza storica è aliena dai concetti degli inizi assoluti e
lo zelo storico ha provocato il deperimento delle figure fondatrici“1. Tut­
tavia, se si dovesse assolutamente trovare una data precisa per il momen­
to in cui si avvia la campagna contro i Lumi - quella che assumerà il si­
gnificato conosciuto nei secoli X IX e X X - la scelta cadrebbe necessaria­
mente sull’estate del 1774, quando il giovane Herder, per alzare una diga
contro l’influenza dellTlluminismo francese in Germania, compose in tre
settimane il suo Ancora una filosofia della storia (Auch eine Philosophie
der Geschichte), delineando così una seconda modernità. Perché proprio
a questo mira il giovane pastore luterano che prestava il suo servizio a
Biickeburg, in Westfalia, quando scaglia il primo attacco globale contro
tutto ciò che conta nel pensiero illuminista: in primo luogo contro De­
scartes che, con il suo razionalismo, emancipa le scienze matematiche e
fisiche dalla teologia; contro Montesquieu, l’autore col quale deve misu­
rarsi chiunque allora scriva di scienze umane; contro Rousseau e Voltai­
re; ma anche, con altrettanto vigore, contro Hume, Robertson, Ferguson,
Iselin, Boulanger e D ’Alembert, per nominare solo gli autori citati diret­
tamente o chiamati in causa indirettamente e allusivamente in questo
pamphlet di non comune importanza sotto ogni punto di vista.
II bersaglio principale e immediato è Voltaire, che ha appena conia­
to il concetto di «filosofía della storia» o, se si vuole, un modo filosofico
di pensare la storia. Ma, con lui, anche Montesquieu è messo in discus­
sione altrettanto duramente e questo a prima vista potrebbe sorprende­
re, tenendo conto di alcuni obiettivi che Herder si pone. E tutta la mo­
dernità razionalista a essere presa di mira, attraverso gli autori francesi e,
con loro, praticamente tutti i grandi storici e pensatori illuministi ingle­
si. Una decina di anni dopo il pamphlet di Biickeburg si apre la polemi­
ca con Kant, che suggella simbolicamente la grande divisione tra i due
rami della modernità: la modernità portatrice di valori universali, della
grandezza e autonomia dell’individuo padrone del suo destino, una mo-14

14. Hans Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, trad. di Cesare Marelli, Ma­
rietti, Genova 1992, p. 507.

24
introduzione

dernità che vede la società e lo Stato come strumenti nelle mani dell’in­
dividuo, avviato alla conquista della libertà e della felicità; e la modernità
comunitaria, storicista, nazionalista, una modernità per la quale l’indivi­
duo è determinato e limitato dalle origini etniche, dalla storia, dalla lin­
gua e dalla cultura. Per Herder l’uomo è quello che hanno fatto di lui i
suoi antenati, la «zolla» (Erdscholle) nella quale essi sono seppelliti e dal­
la quale lui stesso è nato; non sono le buone istituzioni e le buone leggi
che plasmano gli uomini, non è la politica che li modella: la politica è
esterna all’uomo, è la cultura che ne costituisce l’essenza.
__ Alla fine del decennio segnato nella vita intellettuale dallo scontro
tra Kant ed Herder, il maestro e l’allievo, in branda crolla VAncien Re­
gime e la frattura tra i due rami della modernità diventa una realtà stori­
ca. Quando il pensiero degli Illuministi franco-kantiani viene tradotto in
termini concreti dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo, dopo che era
stata formulata, in condizioni meno drammatiche ma in termini altret­
tanto chiari e fermi, anche nelle colonie inglesi d’America, Edmund
Burke diffonde le sue Riflessioni sulla Rivoluzione francese. Questo gran­
de pamphlet è preceduto da A Vindication of Naturai Society del 1756 e
dalYInchiesta sul Bello e il Sublime del 1759. Fin dagli esordi della sua at­
tività politica e intellettuale, l’autore delle Riflessioni sulla Rivoluzione
francese definisce l’Illuminismo come uno spirito che nutre un movi­
mento di cospirazione intellettuale il cui obiettivo è la distruzione della
civiltà cristiana e dell’ordine politico e sociale da essa creato. Secondo lui
infatti l’essenza dell’Illuminismo consiste nell’accettare come unico prin­
cipio quello per cui la ragione è il solo criterio di legittimità di qualsiasi
istituzione umana. La storia, la tradizione, il costume, l’esperienza non
possono pretendere di rivestire il ruolo della ragione. Sapendo che que­
sta critica da sola non potrebbe valere, Burke aggiunge che la capacità di
una società di garantire ai suoi membri una vita decente non basta più
agli Illuministi e non può più legittimare tale società. Per loro una vita
decente non è sufficiente: esigono la felicità, in altri termini l’utopia. Co­
me Herder, nello stesso momento e indipendentemente da lui, Burke ne­
ga alla ragione il diritto di mettere in discussione l’ordine esistente. I di­
ritti dell’uomo, proprio come l’idea secondo la quale la società è un pro­
dotto della volontà dell’individuo ed esiste solo per garantire il suo be­
nessere, sono una chimera pericolosa, una vera rivolta contro la civiltà
cristiana. Ciò che esiste è stato legittimato dall’esperienza, dalla saggezza

25
\ntrodiaione

collettiva, e possiede una ragione d ’essere che può non essere chiara in
ogni momento per ciascun individuo ma è il frutto della volontà divina
presente nella storia. Per questo l’ateismo è un altro modo di distrugge­
re la civiltà. Una società esiste solo tramite la venerazione della storia, il
rispetto della Chiesa costituita e delle sue élite: sostituire le élite in cari­
ca con nuovi elementi, distruggere un sistema politico legittimato dall’e­
sperienza e da una tradizione più che secolare, abbattere la potenza del­
la Chiesa, può essere paragonato alla conquista di un paese civilizzato da
parte dei barbari. Ecco perché, per garantire la continuità di ciò che esi­
ste, conviene adoperare la forza; e la difesa dei privilegi è la difesa della
civiltà. In altri termini: tutto è legittimo, tutto è permesso, tutti i mezzi
sono buoni per abbattere la rivoluzione in Francia. Devono essere mo­
bilitate tutte le forze dello Stato britannico per fermare questa rivolta
contro tutto ciò che è e deve restare sacro.
Vero pioniere del principio della guerra ideologica, Burke inventa in
effetti il concetto di «contenimento», in voga durante la guerra fredda.
Burke aveva sperimentato in America il processo di containment, che si
sarebbe poi applicato al blocco sovietico: costruire una diga intorno alle
pretese dei coloni di tradurre in termini concreti, staccandosi dalla ma­
drepatria, i loro diritti naturali e proseguire così la Rivoluzione inglese del
1689 diventava l’obiettivo principale per contenere il male in contrade
lontane e impedire il suo arrivo in Europa. Quando però quella stessa ri­
voluzione illuminista scoppia in Francia, il contenimento non può più ri­
spondere ai bisogni del momento: alle porte dell’Inghilterra, nel cuore
della civiltà occidentale, bisognava rispondere con una guerra a oltranza.
E per questo che il grande parlamentare britannico non appare tanto
come il fondatore di un conservatorismo liberale - nella tradizione tory o
nella sua versione continentale - ma come il precursore di quell’atteggia­
mento che ai giorni nostri ha preso il nome di neoconservatorismo. I libe­
rali conservatori autentici come Tocqueville o Acton in Inghilterra o, più
vicino a noi, Leo Strauss o Raymond Aron, temevano la forza corruttrice
del potere. Essi erano gli eredi di Montesquieu e di Locke e se si rivolge­
vano innanzitutto aìYEsprit des lois, dovevano molte delle loro idee al Se­
condo trattato: il loro grande obiettivo era di garantire la libertà con il fra­
zionamento del potere e con lo sviluppo della capacità dell’individuo a te­
nere testa al potere. Invece i sostenitori del neoconservatorismo sono affa­
scinati dalla forza dello Stato: il loro scopo non è limitarne l’intervento, né

26
Introduzione

nell’economia né nella società, come volevano i liberali classici, ma al con­


trario di modellare la società e il potere a loro immagine.
Burke ed Herder, il quale nel frattempo ha scritto moltissimo e so­
prattutto, negli anni che precedono il 1789, ha realizzato l’altra sua opera
maggiore, Idee per la filosofia della storia deU’umanità (Ideen zur Philo-
sophie der Geschichte der Menschheit), evolvono in contesti completamen­
te differenti. Né il loro bagaglio culturale né i loro scopi immediati sono
gli stessi, e tuttavia coi loro principi essi portano avanti e rappresentano il
rovesciamento di valori che si costruisce progressivamente durante il
XVIII secolo. Vico, morto nel 1744, era ancora praticamente sconosciuto
quando Burke ed Herder iniziarono la loro battaglia. Essi rappresentano i
due volti del primo grande attacco contro l’autonomia dell’individuo. So­
no completamente diversi nella loro visione della Rivoluzione, e più avan­
ti vedremo come, ma le motivazioni della loro rivolta contro un progetto
di civiltà razionalista, basata su valori universali, sono molto vicine, per
non dire praticamente identiche. Essi tracciano non tanto le grandi linee
di una reazione contro la modernità, quanto piuttosto i contorni di un’al­
tra modernità, ognuno a suo modo, l’uno filosofo e critico della cultura,
teorico senza alcun contatto con il mondo politico, l’altro pensatore poli­
tico ma anche politicante rotto a tutti i trucchi del mestiere.
E difficile esagerare il peso storico di Burke ed Herder, sia nell’im­
mediato che a lungo termine. In effetti questi due perni della prima ri­
volta contro il corpus ideologico costruito dal XVIII secolo francese e in­
glese, sul quale aleggia la grande opera filosofica di Kant, fissano per qua­
si due secoli il quadro concettuale della critica aU’Illuminismo. Fino ai
suoi ultimi anni il X IX secolo svilupperà i principi ereditati da Herder e
Burke, aggiungendovi elementi propri, in particolare quelli del determi­
nismo culturale che entrano nella vita intellettuale e nel discorso storico
e letterario ben prima che il darwinismo sociale e il pensiero di Gobineau
acquisissero diritto di cittadinanza. Se questo processo si è sviluppato con
tale facilità è proprio perché il determinismo culturale, che in realtà non
è molto distante dal determinismo etnico e poi razziale, già alla fine del
XVIII secolo faceva parte integrante della rivolta contro i Lumi.
La prima generazione di intellettuali antilluministi ha visto il mondo
vacillare nel 1789. Carlyle, Taine e Renan costituiscono la seconda on­
data di decostruzione di questo pensiero, quella che cresce con la de­
mocratizzazione della vita politica, prima in Inghilterra, verso il 1830,

27
Introduzione

poi in Francia all’indomani del 1848 e poi del 1870. Il secondo Bill of
Rights inglese del 1867, la Comune di Parigi, la costituzione della Terza
Repubblica annunciano l’avvento di Calibano. In questo contesto pren­
de forma una riflessione sul venir meno della civiltà occidentale e della
sua eredità medievale, una civiltà organica, comunitaria, intrisa di timor
di Dio, in preda alla decadenza democratica e aU’influenza del «mate­
rialismo». Le grandi linee che orientano allora la critica della modernità
razionalista sono fissate per un secolo e mezzo. Carlyle e Taine hanno
scritto la storia di questa lunga caduta; con Renan, essi propongono
un’analisi del male e dei rimedi: sradicare l’idea dell’onnipotenza del­
l’individuo, ricostituire comunità organiche, porre fine alla farsa del suf­
fragio universale e dell’eguaglianza. Le loro opere rappresentano altret­
tante riflessioni sulla decadenza della Francia, il cui spirito non può non
ricordare quello del Giornale di viaggio 1769, che Herder aveva riporta­
to da Parigi. La Francia è sempre l’incarnazione di una cultura raziona­
lista figlia dei Lumi, rósa dalle velleità democratiche e dall’eredità di
Rousseau. Queste riflessioni vengono fatte mentre l’Europa si trova al­
l’apice della sua potenza; la Francia sta creando il secondo impero colo­
niale del mondo e l’eguaglianza vi si insedia come mai prima e come da
nessun’altra parte. Anche Herder e Burke si erano dedicati alla deca­
denza della Francia proprio nel momento in cui essa stava per dare al
mondo una lezione di vitalità fuori del comune: questo perché per i ne­
mici dell’Illuminismo, in un mondo che adotta il razionalismo, l’univer­
salismo e l’idea del primato dell’individuo come norme di comporta­
mento, la decadenza è inevitabile.
Tuttavia se il X IX secolo, nella sua fase di maturità, conserva ancora
una certa ambivalenza, non è più così durante i suoi ultimi due decenni.
In un nuovo contesto sociale e politico, mentre l’industrializzazione mu­
ta velocemente la faccia del continente, il rifiuto dellTlluminismo esplo­
de con una energia fino ad allora sconosciuta. Non è la Grande Guerra,
come si sostiene spesso, che segna l’inizio del X X secolo. Esso nasce
quando, in un mondo che cambia a un ritmo impensabile solo vent’anni
prima, appaiono contemporaneamente nuovi stili di vita, tecniche e tec­
nologie innovative, e quando crescita economica, democratizzazione del­
la vita politica e istruzione obbligatoria diventano una realtà, mentre per
la generazione precedente erano solo chimere. Il nuovo secolo si insedia
definitivamente quando il rifiuto deH’Illuminismo diventa un fenomeno

28
Introduzione

di massa, quando la democrazia recentemente acquisita, la libertà politi­


ca e il suffragio universale appaiono agli occhi di una parte importante
delle masse urbane come un pericolo per la nazione e per la civiltà.
E in questo nuovo contesto, agli inizi del Novecento, che monta e
poi tra le due guerre dilaga la terza ondata. L’antirazionalismo, il relati­
vismo e il comunitarismo nazionalista, queste tre salde basi della guerra
airilluminismo e ai principi dell’89, rivestono sempre la stessa funzione:
combattere l’umanesimo, i valori universali tanto derisi e infine la de­
mocrazia. In questo grande laboratorio ideologico della fine dell’Otto­
cento e dell’inizio del Novecento si prepara la catastrofe europea. Le ri­
flessioni sulla decadenza, l’orrore verso una cultura di massa ma allo
stesso tempo il culto dell’anima popolare riprendono spesso alla lettera
i grandi temi del pensiero di Herder e Burke, di Carlyle e di Taine, così
come quelli dell’opera di Renan. Con Maurras non ritorna solo de Mai-
stre, ma anche i principi essenziali che ordiscono la trama del pensiero
di Burke. Leggendo Spengler, si sente un’eco drammatizzata del pensie­
ro di Herder (anche se non significa che tutto Spengler si trovi già in
Herder). Ma è altrettanto poco convincente sostenere, come spesso ac­
cade, che l’opera dell’autore del Declino dell’Occidente sia stata pensata
non solo senza legami ma addirittura contro quella di Herder. Croce, la
cui critica serrata alla filosofia dei Lumi, alla teoria del diritto naturale,
all’umanesimo e alla democrazia («il nulla») precede di vent’anni l’av­
vento al potere d d fascismo, si congiunge allo storicismo di Meinecke15.

15. Friedrich Meinecke, Die Enstebung des Historismus, R. Oldenbourg Verlag, Mün­
chen 1959 [Le origini dello storicismo, trad, di M. Biscione, C. Gundolf, G. Zam­
boni, Sansoni, Firenze 1973]. Il termine historismus fu usato per la prima volta nel
1797 da Friedrich Schlegel e da subito acquisì un significato vicino a quello che
avrebbe preso in seguito. Nel 1857 un lavoro su Vico vedeva l’elemento essenzia­
le di una visione storicista nell’idea esaminata sopra, secondo la quale gli uomini
non conoscerebbero altra realtà che la storia. La riflessione sullo storicismo conti­
nuò per tutto l’Ottocento e l’inizio del X X secolo e culminò con Meinecke. Per i
diversi significati che assume questo concetto e anche per la sua storia si veda un
articolo che fornisce anche una vasta bibliografia: Georg G. Iggers, «Historicism:
The History and Meaning of the Term», journal of the History o f Ideas, voi. 56 (1),
1995, pp. 129-152. Di Iggers si consulti anche The German Conception of History:
the National Tradition of Historical Thought from Herder to the Present, Wesleyan
University Press, Middletown 1983 (prima edizione 1968).

29
Introduzione

Il 1936 era proprio un anno mal scelto, si direbbe, per dichiarare


guerra all’Illuminismo francese e fare l’apologià della specificità tedesca,
per celebrare la gloria dei Iati spontanei e irrazionali della vita e per re­
criminare sull’incapacità di comprenderli da parte del razionalismo oc­
cidentale. Tuttavia è esattamente quello il momento in cui Meinecke de­
finì la natura dello storicismo, che egli associa in primo luogo a Herder:
«Il principio primo dello storicismo consiste nel sostituire a una consi­
derazione generalizzante e astrattiva delle forze storico-umane la consi­
derazione del loro carattere individuale»16. Come ogni concetto ampio,
la nozione di storicismo - Historismus, nella sua lingua d’origine - ha
delle varianti, sia nazionali che di grado. Ma tutte queste varianti hanno
una base comune: oltre al valore positivo che viene accordato alla storia
intesa come progresso umano nella sua realtà immanente, vi si trova
l’opposizione al diritto naturale, all’intellettualismo, all’universalismo e
al razionalismo. Ne consegue che lo storicismo distrugge l’idea di una
natura umana comune, di una ragione universale dalla quale emanereb­
be una legge universale: in essa non si vede che un’astrazione priva di si­
gnificato e soprattutto ipocrita. Da Herder fino a Meinecke, Io storici­
smo, per riprendere la spiegazione data dallo stesso Meinecke, è un fe­
nomeno di rivolta contro l’idea che l’uomo «fosse rimasto in tutti i tem­
pi sostanzialmente lo stesso».
Quindi lo storicismo nega «l’atteggiamento giusnaturalistico del
pensiero, predominante sin dall’antichità, [che] inculcava la fede nella
immutabilità della natura umana, anzi, della ragione umana». Esso si op­
pone alla teoria del diritto naturale secondo la quale la ragione «asseri­
sce le stesse cose in ogni tempo, è capace di trovare delle verità eterne,
di valore assoluto, le quali corrispondono in pieno alla razionalità dQ

16. Meinecke, Die Entstehung des Historismus, p. 2: «Der Kern des Historismus be­
steht in der Ersetzung eine generalisierenden Betrachtung geschichtlich - mensch­
licher Kräfte durch eine individualisierende Betrachtung». Si veda anche la ver­
sione inglese: Historism. The Rise o f a New Historical Outlook, trad, di J.E. An­
derson, pref. di Isaiah Berlin, Routledge and Kegan Paul, London 1972, p. LV:
«The essence o f historism is the substitution o f the process o f individualising ob­
servation for a generalising view o f human forces in history». Si vedano anche le
pp. 2-4 (pp. LVI-LVII della traduzione inglese) [Le origini dello storicismo, pp.
X e X XI],

30
Introduzione

tutto l’universo». Meinecke era convinto che lo storicismo tedesco co­


stituisse «il grado più alto che sia stato raggiunto nella intelligenza delle
cose umane»17. Meinecke segue Troeltsch, che nel 1925, in Lo spirito te­
desco e l’Europa occidentale (Deutscher Geist und Westeuropa), caratte­
rizza lo spirito occidentale con la sua credenza in un diritto naturale, nel­
l’unità del genere umano e in alcuni valori universali. Invece lo spirito te­
desco si definisce attraverso una concezione pluralista della storia, una
fioritura di individualità nazionali senza alcun metro comune18. I due
storici parlano di ciò che separa la Germania dall’Occidente, ma in
realtà si tratta dell’abisso che separa la modernità dell’Uluminismo dalla
modernità antirazionalista e la Germania non ha il monopolio di questo
attacco contro il razionalismo e l’universalismo dei Lumi. Da Vico, il pri­
mo grande nemico del razionalismo, del diritto naturale e di un mondo
in cui la provvidenza è assente, fino a Croce e a Sorel, due suoi grandi
ammiratori, da Herder a Meinecke, fino a Barrès e a Spengler, la vene­
razione del particolare e il rifiuto dell’universale costituiscono il deno­
minatore comune a tutti i pensatori antilluministi, indipendentemente
dal loro ambiente e dalla loro epoca.
È Herder che ha lanciato sulla scena europea una visione della sto­
ria fatta di culture che, anche quando non sono incomunicabili, consi­
derano ogni apporto straniero pericoloso per la loro autenticità. Inoltre,
come testimonia la visione che Herder ha della Francia, queste culture
diventano facilmente antagoniste, proprio il contrario della visione di
Voltaire, di Montesquieu o di Rousseau. Ogni civiltà ha i suoi valori, pe-
culiarTe unici; ogni civiltà giunge all’apice e poi subisce un declino irre­
versibile. Con il suo culto per le individualità, storiche e culturali, Her­
der fonda lo storicismo e instaura il relativismo dei valori e delle verità,
cosa che è effettivamente alla base della frammentazione del genere
umano, della distruzione dell’idea di umanità che procede di pari passo
verso la pienezza dei tempi. Tuttavia Herder resta cristiano, come lo era
stato Vico: la provvidenza che regna sulla Storia conduce l’uomo verso

17. Meinecke, Die Entstehung des Historismus, pp. 2-4 (pp. LVTLVII della tradu­
zione inglese) [Le origini dello storicismo, pp. X-XII].
18. Max Rouché, La Philosophie de l’histoire de Herder, Société d’Editions Les Bel­
les Lettres, Paris 1940, p. 583.

31
Introduzione

la pratica delle virtù dell’umanità. Dio vi realizza il suo progetto di edu­


cazione del genere umano ma, poiché ogni nazione deriva direttamente
da Dio, l’idea razionalista di un progresso continuo deve necessaria­
mente scomparire. Lo storicismo continua il suo corso da Herder fino a
Meinecke ma il dualismo herderiano ancorato alla sua fede cristiana, che
Meinecke non manca di ricordare e del quale conserva ancora qualche
traccia, si smorza progressivamente. Con Spengler sparisce quanto ne
era ancora rimasto nel X IX secolo.
Infatti lo storicismo, o l’idea della individualità irriducibile delle cul­
ture e dei popoli, è proprio il concetto utilizzato per mostrare ciò che se­
para la modernità razionalista dalla sua antitesi. Non si tratta solo di una
sorta di constatazione neutra e priva di qualsiasi giudizio di valore, cioè
che sulla superficie terrestre ci sono un gran numero di culture e una va­
rietà infinita di usanze, di leggi e di comportamenti. Sua diretta conse­
guenza è la relatività generalizzata. Questa relatività è molto più radica­
le in Spengler che in Herder, ma i principi sono identici. Il relativismo di
Spengler è un relativismo integrale, nel senso in cui Maurras intendeva
la natura del suo nazionalismo. Il percorso di Herder è ancora incerto
ma già ben strutturato e il suo relativismo costituisce il primo anello di
una catena che termina con uno smembramento del mondo europeo.
Herder attacca le idee francesi, Nietzsche quelle inglesi, il che, alle soglie
del X X secolo, è la stessa cosa: come cento anni prima, si tratta ancora e
sempre del razionalismo, dell’idea di progresso, dell’utilitarismo e infine
dei diritti dell’uomo e dell’eguaglianza.
Il fascino esercitato dall’attacco storicista contro l’Illuminismo fran­
cese si manifesta negli anni Cinquanta sulla generazione della guerra
fredda. E allora che si forma la scuola totalitaria della quale Isaiah Ber­
lin, affascinato da Vico ed Herder ma anche da Machiavelli, ammiratore
di Meinecke e stroncatore di Rousseau, più vicino a Burke che a Toc­
queville e a J.S. Mill, è una colonna portante. Con l’ingresso di Berlin
sulla scena, la contestazione dell’Illuminismo riceve un nuovo slancio e
acquisisce una dimensione ulteriore. Infatti, nel mezzo del X X secolo, la
riflessione sull’Uluminismo e sulla modernità si sviluppa all’ombra delle
due rivoluzioni che, dal punto di vista degli anni Cinquanta, sembrano
essere collegate l’una all’altra. Nel 1972 Berlin scrive una prefazione elo­
giativa alla traduzione inglese di Die Entstehung des Historismus di Mei­
necke, apparsa nel 1936, e saggi non meno elogiativi su Herder e Vico.

32
Introduzione

Questi libri ebbero allora un enorme successo proprio perché, ripren­


dendo le grandi linee del pensiero di Burke e di Taine, Berlin, come la
Arendt e Talmon, va a toccare le corde giuste dell’intellighenzia liberale
dell’epoca, alla quale la scuola totalitaria forniva una spiegazione at­
traente e semplice dei mali della guerra fredda. L’autore di Vico and Her­
der applica le critiche e i principi comuni alle tre generazioni che aveva­
no portato avanti il rifiuto della modernità razionalista e di una visione
ottimista del progresso dell’umanità alla situazione di un mondo sul qua­
le aleggia la minaccia bolscevica, facilmente concepita come una versio­
ne moderna dell’odiato giacobinismo.
Personaggio di grande carisma, dalla fine degli anni Cinquanta Berlin
gode di un prestigio senza pari nel mondo anglosassone. Morto nel 1997,
ai nostri giorni in certi ambienti intellettuali americani è oggetto di un ve­
ro e proprio culto, tanto da diventare quasi intoccabile. Era un uomo fuo­
ri del comune, e su questo tutti quelli che lo hanno conosciuto sono d’ac­
cordo. Esule in Inghilterra nell’ultima fase dell’infanzia, rimase fedele alle
sue origini ebraiche e per tutta la sua vita dimostrò una incrollabile dedi­
zione alla causa del nazionalismo ebraico. Immensamente colto, Berlin
giunse rapidamente ai vertici della carriera universitaria. Dall’inizio degli
anni Sessanta fu l’intellettuale britannico più noto al pubblico colto, quel
pubblico al quale si indirizzavano la sue conferenze e i suoi scritti. Nobili­
tato dalla regina nel 1957, presidente e fondatore del Wolfson College a
Oxford nel 1966, presidente della British Academy negli anni Settanta, eb­
be un ruolo di primo piano nella vita intellettuale del suo paese di adozio­
ne ma anche nel mondo anglofono in generale: mentre tutti i pensatori di
Oxford si inoltravano nella filosofia analitica, Berlin ha saputo salvare la
storia delle idee e preservarle lo statuto di disciplina autonoma.
La sua opposizione aU’Illuminismo, che si pone dal punto di vista di
un difensore della libertà, è particolarmente sintomatica e richiede una
riflessione, non fosse altro perché Berlin riprende la parte essenziale del­
le argomentazioni avanzate da Meinecke quarant’anni prima. Per Berlin,
esempio eccellente degli antilluministi «molli», così come per Meinecke,
sembra non esistere un nesso di causa ed effetto tra la guerra al raziona­
lismo, all’universalismo e al diritto naturale e l’avanzata del fascismo e
del nazismo. Certo, durante una delle numerose interviste che rilasciò
negli ultimi anni di vita, Berlin ebbe qualche parola elogiativa per i Lu­
mi, ma l’insieme del suo lavoro si inserisce bene nella linea di un rifiuto

33
Introduzione

totale dei loro fondamenti e principi19. A volte sembra che Berlin non
fosse del tutto consapevole della portata del proprio pensiero o della
portata della linea di pensiero iniziata da Herder. Ipnotizzato dalla guer­
ra fredda, si scaglia all’attacco di Rousseau, poi dell’idea di libertà «p o­
sitiva» per scrivere, in nome del pluralismo, un vibrante elogio della li­
bertà «negativa». In una serie di lavori, in particolare quelli che furono
pubblicati in Controcorrente e in II legno storto dell’umanità, egli rese un
servizio enorme a tutti gli odierni nemici del razionalismo e dell’univer-
salismo: prima dei postmoderni e in un contesto essenzialmente politico,
nonostante il fatto che il suo pensiero non sia monolitico e che abbia an­
zi molte ambiguità, prova come si possano contestare i fondamenti del­
l’Illuminismo restando su posizioni liberali: nell’introduzione a Contro-
corrente, che chiede a Roger Hausheer di scrivere in nome suo, tutto è
esplicitato: Berlin considera i principi deH’Illuminismo francese come
fondamentalmente opposti a quelli di una giusta società. Inoltre la sua
interpretazione deH’Illuminismo riprendeva l’essenziale delle idee riba­
dite di generazione in generazione dai tempi di Herder e Burke. Ai no­
stri giorni questi stereotipi ritornano con forza nel neoconservatorismo.
Lo scontro permanente che oppone un insieme di idee ancorate ai
principi illuministi e un corpus ideologico che si considera come un’al­
ternativa a esse è divenuto così una delle grandi costanti del nostro mon­
do. Questo confronto può cambiare volto o dimensione, può esserne
privilegiato un aspetto piuttosto che un altro, ma dalla seconda metà del
XVIII secolo il rifiuto deirilluminismo appartiene al nostro orizzonte in­
tellettuale e politico.
Qui bisogna sottolineare che molto spesso il peso dei pensatori di que­
sta corrente si è fatto sentire solo diversi anni dopo la pubblicazione delle
loro opere maggiori. Tuttavia ognuno di loro ha avuto immediatamente un
grosso successo. Da Burke fino a Meinecke, passando per Taine, Renan,
Carlyle, Maurras, Barrès, Croce e Spengler, ognuno degli autori qui studia­
ti è stato un autore di successo se non proprio un caposcuola riconosciuto.
E tutti, allo stesso tempo, si sono considerati come combattenti coinvolti in
uno scontro di civiltà. Da Herder e Burke, partiti in guerra contro la civiltà

19. Isaiah Berlin, lin toutes libertés: entretiens avec Ramin Jahanbegloo, trad. di G é­
rard Lorimy, Fd. du Félin, Paris 1990. Si veda il nostro cap. 7.

34
Introduzione

razionalista e anticristiana dell’Illuminismo franco-kantiano, fino a Berlin,


mobilitato nella guerra ideologica contro il comunismo, quel comunismo di
cui vedeva in Rousseau e nel XVIII secolo le origini morali e intellettuali
profonde, sono tutti soldati di una grande crociata. Tutti si considerano, se­
condo l’espressione di Berlin, nuotatori «controcorrente».
Nei fatti, la corrente era quella dell’Illuminismo franco-kantiano, la
corrente della democrazia e della sovranità del popolo nel senso proprio del
termine, il senso che gli attribuirono Rousseau, Bentham, MiU e Tocque­
ville, quello di un sistema in cui la libertà fosse compatibile con l’egua­
glianza, in cui l’eguaglianza fosse compatibile con l’autonomia dell’indivi­
duo e con la sua sovranità, in cui la libertà non fosse definita solo come un
non intervento nella sfera individuaKTdTdSscuno ma còme il diritto impre­
scrittibile dell’uomo di essere padrone del proprio destino. In tutti questi
uomini sono comuni la sete di anticonformismo e la sensazione di militare
nella battaglia per la salvaguardia di un'intera civiltà. Herder e Burke, sia il
filosofo che l’uomo politico, si ergono contro il diluvio filosofico illumini­
sta, il primo contro il razionalismo e il deismo, il secondo contro la tradi­
zione liberale che risaliva a Locke. Carlyle si schiera contro l’Inghilterra dei
due Bills of Rights che spingono il paese sulla via della democrazia; Renan
e Taine cercano di salvare il loro paese, e con lui tutta la civiltà occidentale,
dalla democrazia trionfante nella Francia della Terza Repubblica. All’inizio
del Novecento Croce avrebbe proseguito i loro sforzi e piaudito alla nasci­
ta del fascismo, affossatore dell’odiato XVIII secolo, così come Spengler
avrebbe contribuito energicamente alla caduta del regime di Weimar.
Maurras avrebbe visto nella sconfitta della Francia del 1940 la tanto attesa
occasione per seppellire i Lumi francesi, i principi dell’89, la Rivoluzione e
la Repubblica. Di fronte a un’Europa dominata intellettualmente da un’in­
tellighenzia di sinistra, spesso simpatizzante comunista, Berlin, sulle orme
di Meinecke, imposta ancora una volta il processo all’Illuminismo raziona­
lista. Per tutti questi intellettuali il razionalismo è la radice del male: con­
duce all’utopia, all’idea, di tutte la più nefasta, secondo la quale l’uomo è in
grado di cambiare il mondo; uccide gli istinti e le forze vitali; distrugge i le­
gami quasi carnali che uniscono i membri di una comunità etnica; ci fa vi­
vere in un mondo chimerico. E non è un caso che, a forza di considerarsi
difensori di una corrente minoritaria, tutti questi anticonformisti finiscano
col creare una nuova forma di conformismo e con il promuovere molte idee
che in poco tempo sarebbero diventate altrettanti luoghi comuni.
introduzione

_ Un elemento importante del pensiero antilluminista fino alla secon­


da metà del Novecento è la concezione del ruolo dello Stato. Nessuno
degli intellettuali analizzati qui, eccetto Berlin, che scriveva nella secon­
da metà del Novecento, teme la potenza dello Stato quando questa fre­
na la spinta della democrazia e viene esercitata al servizio delle élite e
dell’ineguaglianza. Non sono fanatici del laissez-faire, Carlyle è il primo
a testimoniarlo, o difensori incondizionati delle libertà individuali con­
tro lo Stato: Croce non ha esitato ad accordare il suo sostegno a Musso­
lini durante la fase decisiva dell’ascesa al potere. Essi sono distanti dal­
l’idea di uno Stato «guardiano notturno»; un governo forte in quanto ta­
le non li spaventa molto, non più di uno Stato bellicoso, anzi. Per loro la
guerra è insieme naturale e necessaria ed è l’espressione della vitalità di
una comunità. Tutti subiscono il fascino delle vittorie riportate dagli
eserciti della Rivoluzione, della dittatura napoleonica, della Prussia vit­
toriosa sulla Francia nel 1870, dell’annientamento della Comune, della
messa in sordina della democrazia durante la Prima guerra mondiale.
Tutti praticano qualche forma di nazionalismo.
Per loro frenare e neutralizzare il potenziale rivoluzionario e preser­
vare l’ineguaglianza non significa abbandonare le nuove classi sociali sor­
te dall’industrializzazione al libero gioco delle forze economiche, che ine­
vitabilmente produce miseria e di conseguenza rivolte e rivoluzioni. Solo
Herder, originario delle marche dell’Est europeo, vissuto in un ambiente
investito da una vera industrializzazione solo mezzo secolo dopo la sua
morte, è poco consapevole della crescita delle nuove classi sociali. Vice­
versa l’astio di Burke ha un motivo forte nella spinta dei nuovi centri ur­
bani, e il timore di vederli influire sulla vita politica dà origine alla sua fe­
roce opposizione a qualsiasi riforma del sistema elettorale, poiché ogni
cambiamento avrebbe potuto far vacillare il potere dell’aristocrazia asso­
ciata alla grande borghesia mercantile. Lui stesso dovette la sua elezione
a Bristol alla fama di parlamentare favorevole a un compromesso con i co­
loni americani (la prosperità del porto della città dipendeva per buona
parte dal commercio atlantico). Tutti i suoi successori, alle prese con le
dure realtà dei due secoli successivi, saranno perfettamente consapevoli
del ruolo che può avere uno Stato che interviene nell’economia per ca­
nalizzare e padroneggiare la democrazia. Procedendo nel X IX secolo, il
ruolo dello Stato diviene quello di contenere le velleità egualitarie, defi­
nite come un attentato all’ordine naturale delle cose o anche come pure

36
Introduzione

e semplici illusioni demagogiche. L’inevitabile democratizzazione e il pro­


gressivo accesso al suffragio universale della popolazione (maschile) non
hanno riconciliato i liberali ostili aH’Illuminismo con i principi della de­
mocrazia, ma hanno fatto loro accettare la sgradevole - e per loro peri­
colosa - realtà della democrazia politica. Alcuni, come Croce, hanno re­
sistito fino alla morte della democrazia: il fronte si era ormai spostato ver­
so la difesa delle élite sociali e culturali su un nuovo terreno e bisognava
proteggere l’alta cultura dal pericolo costituito dall’istruzione primaria
obbligatoria. Un obiettivo fondamentale di questa nuova forma di libera­
lismo, che propongo di definire «liberalismo bloccato», è stato quello di
limitare gli effetti della democrazia e impedirne l’espansione circoscri­
vendola al suffragio universale. Dapprima si trattava del diritto di voto:
durante i critici anni 1830-1870 Carlyle, Renan e Taine fecero di tutto per
evitare che il suffragio universale (maschile) divenisse la regola in Francia
e in Inghilterra. Insieme alla paura di vedere affermarsi la «libertà positi­
va», nel significato definitivamente acquisito da questo termine con
Isaiah Berlin alla fine degli anni Cinquanta, cioè la libertà dell’individuo
di decidere chi avrà il diritto di governare in suo nome e di imporgli la
propria autorità così come di mettere a profitto la legge della maggioran­
za per influire sull’economia e sulla società, giunge il timore di un co­
stante calo del livello culturale: la paura di un sistematico logorio della
cultura alta e di una perdita della posizione che le spetta nella vita socia­
le non hanno mai smesso di modellare la visione di un Carlyle, di un Re­
nan, di un Taine, come di un Croce o di un Meinecke.
— Ecco perché le riflessioni sulla decadenza occupano un posto cen­
trale nel loro pensiero. Ecco anche perché la religione è vista come uno
strumento di salvezza sociale: la religione, spesso, anche se non sempre,
senza fede né metafisica, ricopre un ruolo determinante, almeno fino al­
la metà del X X secolo in Europa, e negli Stati Uniti fino ai giorni nostri.
Nessuno di questi pensatori prova rispetto morale per la società borghe­
se, ma essi vedono nella proprietà privata un pilastro sacrosanto dell’or­
dine costituito. Storici delle idee e critici della cultura che si considerano
anche filosofi, tutti valutano la nazione come la cornice migliore dell’or­
ganizzazione sociale. Il tipo di solidarietà originato dalla nazione sembra
loro più solido di qualsiasi altro cemento sociale. Non è un caso se anche
Burke è ritenuto uno dei fondatori del nazionalismo: per esserlo i suoi ti­
toli sono meno evidenti di quelli di Herder ma non meno reali.

37
Introduzione

Conviene ribadire ancora che, pur non essendo tutti sostenitori del­
l’intera eredità dell’Ancien Regime, la maggior parte dei detrattori dell’Il-
luminismo, tranne forse Herder, ritiene che quella forma di organizzazio­
ne sociale abbia avuto aspetti positivi e sufficienti per togliere ogni giu­
stificazione alla Rivoluzione francese. Burke, che nelle sue Riflessioni sul­
la Rivoluzione francese mostra un paese prospero e tutto sommato felice,
governato da un re bonario e preoccupato del benessere dei suoi sudditi,
stabilisce la linea argomentativa per due secoli: se anche non raggiunge la
perfezione, l’ordine esistente permette comunque di condurre una vita
decente, o in altri termini una vita civile. La permanenza della civiltà oc­
cidentale, la grande civiltà cristiana, è garantita solo se la realtà non è le­
sa in quello che ha di essenziale. Tuttavia i nemici dellTlluminismo, non
lo ripeteremo mai abbastanza, non vivono rivolti al passato. Non mostra­
no nostalgia per il passato prossimo ma per una storia altamente selettiva
e molto spesso, perlomeno fino all’inizio del X X secolo, per la cultura or­
ganica del Medioevo cavalleresco e cristiano come lo vedono loro.
La scelta degli autori qui analizzati attiene alla loro influenza diretta e
immediata sulla vita intellettuale del loro tempo e dal carattere rappresen­
tativo ed emblematico delle loro opere. Al centro di questo lavoro si tro­
vano proprio le figure ambigue, quelle che non sono tutte di un pezzo e
sfuggono così alle categorizzazioni facili. «Spettatori coinvolti», non si pre­
sentano in bianco e nero e sono per questo i più interessanti e i più signi­
ficativi20. Alcune loro opere mostrano un’evidente duplicità, frutto di con­
traddizioni che dipendono dall’evoluzione delle persone e dall’influenza
degli eventi. A volte essi stessi correggono le loro prese di posizione a di­
stanza di qualche anno o decina di anni. Fra tutti questi autori si sono in­

20. È per questo che oggetto principale di questo libro non sono i nemici classici
della Rivoluzione francese e della democrazia, le figure fatte tutte di un pezzo o
gli antiliberali famosi, nonostante il fatto che una visione d’insieme della nostra
problematica renda inevitabile la loro presenza. Tra molte altre opere importan­
ti si possono consultare tre studi particolarmente pertinenti: Albert O. Hirsch-
man, Retoriche dell'intransigenza, trad, di Giovanni Ferrara degli Liberti, Il Mu­
lino, Bologna 1991; Stephen Holmes, The Anatomy of Antiliberalism, Harvard
University Press, Cambridge (Mass.) 1993 [Anatomia dell’antiliberalismo, trad,
di Rodolfo Rini, Edizioni di Comunità, Milano 1995] e Richard Wolin, The Se­
duction o f Unreason: the Intellectual Romance with Fascism from Nietzsche to
Post-Modernism, Princeton University Press, Princeton 2004.

38
Introduzione

tessuti dei legami duttili e insieme complessi. Sono tutti d’accordo nel ve­
dere nell’azione l’esito del pensiero. Tutti si volgono al loro mondo non so­
lo per comprenderlo e per imparare a viverci ma anche per cambiarlo, per
dirla con Marx. Per loro il pensiero rimane intimamente connesso all’a­
zione; erano tutti intellettuali impegnati nel senso proprio del termine e
tutti avrebbero sottoscritto questa ammissione di Renan, fatta l’indomani
di Sedan: «Ci tengo particolarmente a evitare il rimprovero di avere rifiu­
tato alle questioni del mio tempo e del mio paese l’attenzione dovuta da
ogni cittadino [...] Prima di proclamare che il saggio deve rinchiudersi nel
pensiero puro, bisogna esser sicuri che si sono esaurite tutte le possibilità
di far sentire la voce della ragione»21. A eccezione di Herder, che viveva in
un ambiente dove gli affari pubblici erano privilegio di un piccolo nume­
ro di dignitari intorno al monarca, tutti gli altri erano affascinati dalla po­
litica, in tutti l’attualità si innestava sulla riflessione storica e tutti sono
giunti alla politica attraverso la storia. Gli autori di cui ci occupiamo qui
sono contemporaneamente attori e osservatori. Nessuno di loro ha lascia­
to un lavoro politico sistematico, ma hanno tutti prodotto opere di analisi
politica e di battaglia intellettuale scritte per incidere sul presente. Alcuni,
come Herder, Burke, Carlyle o Renan, pur pubblicando libelli scritti in
fretta, hanno nondimeno realizzato dei classici del pensiero politico.
Tuttavia, visto che le domande concrete che si posero tutti questi au­
tori erano di interesse generale, le loro risposte dovevano assumere im­
mediatamente un valore universale. Tutti erano non solo storici e critici
della cultura, «filosofi della storia», secondo la loro definizione, storici
delle idee, dell’arte, delle religioni o della letteratura, ma anche pubbli­
cisti di fama e di talento, impegnati nella vita pubblica dei loro rispetti­
vi paesi. Anche quando non furono uomini politici attivi per tutta la vi­
ta, come Burke, uno dei primi grandi intellettuali divenuto un politico
professionista, vi si dedicavano di tanto in tanto. Come Barrès, deputa­
to a Parigi, come Croce, che fu deputato, senatore e ministro negli anni
Venti, come Renan, che si candidò con poca fortuna alle elezioni politi­
che per due volte, nel 1863 e nel 1871. Quando scrivevano del passato,

21. E. Renan, La Réforme intellectuelle et morale de la France, in La Réforme intel­


lectuelle et morale, Calmann-Lévy, Paris, 12' ed., Œuvres complètes, s.d. [1929],
Préface, pp. II-I1I.

39
Introduzione

pensavano tutti al presente e si interessavano al passato solo per trovare


risposte ai brucianti problemi del loro tempo. Questo rimprovero, se
davvero lo è, lo faceva già Gibbon a Voltaire.
Ma il rimprovero più consueto che gli intellettuali antilluministi han­
no sempre rivolto agli Illuministi è di non essere mai usciti dai loro studi
né dal dominio dell’astrazione e quindi di conoscere poco e male il mon­
do come è realmente. All’origine di questa leggenda c è Burke, uno dei
migliori oratori parlamentari del suo tempo. In effetti questa è solo una
favola, poiché, lungi dal restare immersi in problemi solo teorici, i grandi
intellettuali illuministi ragionavano in primo luogo sulle questioni politi­
che e sociali concrete del loro tempo. Peraltro molti di loro ricoprivano
cariche pubbliche importanti come Turgot, Montesquieu o l’appaltatore
generale delle imposte Helvétius, oppure lavoravano per i ministri o per
i loro uffici, come Voltaire e Mably o come Hume, capo di gabinetto pres­
so l’ambasciatore britannico a Parigi e poi per sei mesi incaricato d’affa­
ri. Inoltre, come ha ben dimostrato Daniel Roche, le accademie di pro­
vincia, quei grandi luoghi del pensiero illuminato che furono i principali
capisaldi della lotta contro VAncien Regime, erano al servizio delle loro
città, delle loro province e dello Stato22. È interessante notare come l’ac­
cusa di irrealismo e di utopismo indirizzata per due secoli agli Illuministi
francesi dai loro avversari non è stata di solito rivolta ai tedeschi del
XVIII secolo. Eppure, se c’erano intellettuali scissi dalla vita politica, era­
no proprio quelli tedeschi. Ma siccome la maggior parte dei filosofi e de­
gli scrittori d’Oltrereno, dopo il secondo Fichte ed Hegel, andavano in
soccorso dell’ordine esistente, si presumeva che fossero persone pratiche,
consapevoli delle difficoltà dell’amministrazione dei popoli.
La coerenza del pensiero antilluminista dipende anche dal fatto che
tutti gli autori dopo Burke ed Herder si sono letti l’un l’altro con grande

22. Keith Michael Baker, «O n the problem of the Ideological Origins of the French
Revolution», in Dominick LaCapra e Steven L., Kaplan, Modern European Intel­
lectual History. Reappraisals and New Perspectives, Cornell University Press,
Ithaca 1982, a p. 207 cita Daniel Roche, Le siècle des Lumières en province.
Académies et académiciens provinciaux, 1680-1789, Mouton, Paris 1978, t. I, p.
206. Si veda anche, dello stesso autore, La France des Lumières, Fayard, Paris
1993, e L’Illuminismo: dizionario storico, a cura di Vincenzo Ferrane e Daniel
Roche, Laterza, Roma-Bari 1997.

40
Introduzione

attenzione. Per lo storico delle idee che si dedica oggi alla loro opera, es­
sa costituisce certo materiale di prima mano, ma allo stesso tempo ognu­
no di essi è interprete del pensiero dei predecessori, storici delle idee, cri­
tici della cultura, filosofi politici e anche pubblicisti di fama. E un feno­
meno interessante in sé e non privo di significato che tutti questi autori,
da Burke a Herder fino a Berlin, prendano spesso di mira una caricatura
dell’Illuminismo e non quello che è in realtà; ma di questori occupere­
mo piu avanti. Si sa che gli studi sulle influenze sono tra i più complessi
che esistano. In questo caso però le cose sono relativamente semplici:
Taine scrive molto su Burke e Carlyle, Meinecke dedica lunghe analisi a
Burke e un centinaio di pagine a Herder e risponde a Cassirer senza no­
minarlo, Renan vede in Herder il più grande filosofo venuto al mondo
dopo Platone, Carlyle, affascinato dalla Germania, importa in Inghilterra
il pensiero del movimento Sturm und Drang del quale aveva fatto parte il
giovane Herder. Croce legge Vico con lo stesso entusiasmo di Meinecke
per Herder, e alcune formule usate per glorificare l’opera dell’autore del­
la Scienza nuova e per denigrare l’Illuminismo si ritrovano vent’anni più
tardi nei lavori di Meinecke e poi nei saggi di Berlin. Nel 1895 George
Sorel pubblica un lungo studio su Vico che precede di oltre quindici an­
ni quello di Croce. Tra i fondatori italiani delle scienze sociali, che si ispi­
rano anche a Croce e che saranno tra i più acerrimi nemici del XVIII se­
colo, non si contano i debiti nei confronti di Taine. Berlin scrive con ana­
logo entusiasmo su Vico, Herder e Meinecke, attaccando allo stesso mo­
do rilluminismo francese e, con la sua versione del loro pensiero, ag­
giungendo un nuovo anello alla cultura politica antilluminista.

Questo lavoro è dunque rivolto alla comprensione e alla ricostruzio­


ne, al di là di ogni contraddizione, dei fondamenti intellettuali comuni
agli antilluministi. In primo luogo, io penso che i rapporti tra le idee, la
politica e la cultura siano rapporti diretti. In secondo luogo, non è mia
intenzione fornire in questo libro una realtà culturale, ideologica e poli­
tica in tutti i particolari né rappresentare esattamente il pensiero di ogni
autore in tutta la sua complessità, ma mostrare ciò che questa realtà ha
di essenziale e di tipico.
In effetti, se lo storico delle idee non vuole scrivere un semplice rac­
conto, cronologico o tematico, se vuole capire alcuni fenomeni di civiltà,
gli riesce difficile non mettersi alla scuola di Tocqueville, sempre alla ri-

41
Introduzione

cerca delle «idee madri»2’. Questo principio, la cui paternità appartiene a


Montesquieu, è stato ripreso dapprima da Taine esattamente nei termini
usati da Tocqueville2'1e poi da Max Weber, che ha riformulato l’idea in ter­
mini di idealtipo. Per Weber - questo si sa, ma è sempre utile ricordarlo -
l’idealtipo è un «quadro concettuale» che, «considerato nella sua purezza
concettuale, [...] non può mai essere rintracciato empiricamente nella
realtà»23245. L’autore di L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, solita­
mente rivendicato dai sociologi, come Tocqueville prima di lui o dopo di
lui il Raymond Aron delle Etapes de la pénsée sociologique, era in realtà
uno storico delle idee. Lo stesso avviene per quanto riguarda il filosofo
Ernst Cassirer. Se la sua Filosofia dell’Illuminismo, pubblicata nell’ottobre
1932, resta ancora oggi il più importante lavoro su questo tema, è perché
il discepolo di Kant lavorava nella scia di Weber. Da Tocqueville ad Aron,
questi grandi storici delle idee riuscivano ad andare all’essenziale e a co­
gliere le grandi linee di un fenomeno, pur sapendo che non stavano co­
gliendo tutti i particolari e tutte le componenti esatte di una data situazio­
ne storica26. Un concetto storico come, nel nostro caso, l’antilluminismo -

23. Alexis de Tocqueville, L’Antico regime e la Rivoluzione, a cura di Corrado Vivan-


ti, Einaudi, Torino 1989, p. 230, e Corrispondenza tra Alexis de Tocqueville e
Arthur de Gobineau (1843-1859), a cura di Luigi Michelini Tocci, Longanesi, Mi­
lano 1947, p. 201. Si veda anche la seconda parte di L’Antico regime e la Rivolu­
zione, p. 429: «Il mio pensiero naufraga nei particolari e non riesce a estrarre idee
madri»; e, più avanti, in fondo alla stessa pagina, «A priori non potrei fare niente
di buono, ma forse dall’esame dei particolari nasceranno le idee madri».
24. Hippolyte Taine, Le origini della Francia contemporanea. Cantico regime, a cura
di Piero Bertolucci, Adelphi, Milano 1986, p. 375.
25. Max Weber, Saggi sul metodo delle scienze storico-sociali, a cura di Pietro Rossi,
Edizioni di Comunità, Torino 2001, p. 188.
26. Raymond Aron, Le tappe del pensiero sociologico, trad. di Aldo Devizzi, Monda-
dori, Milano 1981, pp. 453-455. Tra i numerosi lavori dedicati a Max Weber, si
consulti: Walter Runciman, A critique of Max Weber s philosophy o f social Scien­
ce, Cambridge University Press, Cambridge 1972; Nasser Behnegar, Leo Strauss,
Max Weber and thè scientific study o f politics, University of Chicago Press, Chi­
cago (111.) 2003; Karl Lowith, Max Weber and Karl Marx, a cura di Tom Botto­
more e William Outhwaite, Routledge, London 1993 [Max Weber e Karl Marx,
trad. di Anna Kùnkler, in Marx, Weber, Schmitt, Laterza, Roma-Bari 1994]; Max
Weber: Criticai Responses, a cura di Brian S. Turner, Routledge, London 1999, 3
voli.; si veda in particolare il voi. Il, Max Weber: criticai assessment, a cura di Pe­
ter Hamilton, Routledge, London 1991 (8 voli.).

42
Introduzione

e qui bisogna insistere per evitare qualche malinteso nella dimostrazione


che si svolgerà in questo libro - non comprende i caratteri di tutti gli in­
dividui inclusi nell’estensione del concetto stesso, né i caratteri medi degli
individui presi in esame, ma mira al tipico, all’essenziale.
Dobbiamo soffermarci anche su un altro importante elemento espli­
cativo. Mettendo in risalto l’esistenza di un denominatore comune alle
diverse varietà di antilluminismo, insistendo sulla coerenza interna delle
loro componenti, io prendo necessariamente posizione nel dibattito con­
temporaneo sulla storia delle idee. Da oltre quarant’anni io considero la
storia delle idee come uno strumento eccezionale per ragionare sui fon­
damenti dei postulati più solidi27. Nella sua introduzione alla raccolta di
saggi di Isaiah Berlin, Controcorrente, Roger Hauser, che scriveva in no­
me e per conto di Berlin, ha efficacemente mostrato quello che provano
tanti storici delle idee: la loro disciplina soffre spesso di una situazione
ambigua, cioè di una disaffezione le cui motivazioni non sono sempre vi­
sibili. Può darsi che tali motivazioni dipendano dal fatto che la storia del­
le idee pone questioni inquietanti, spesso dolorose, facendo così vacilla­
re credenze e certezze stabilite. In effetti, essa svela gli schemi, le cate­
gorie, i concetti guida con i quali noi ordiniamo e interpretiamo la mag­
gior parte della nostra esperienza, soprattutto nel campo della morale,
della politica e dell’estetica28.
Nessun’altra disciplina sa mettere in luce allo stesso modo la conti­
nuità di una tradizione, la filiazione delle idee e la loro carriera spesso
avventurosa e singolare ma sempre affascinante. Nessun’altra disciplina
è in grado di cogliere meglio le scosse ai valori di una civiltà e la tradu­
zione in termini politici dei cambiamenti che avvengono. Ciò porta evi­
dentemente a interrogarsi sugli intimi legami esistenti tra la riflessione fi­
losofica, la ricerca storica, la produzione letteraria e la politica. Mentre
in Francia la storia del pensiero è sempre stata il parente povero, in Ita­
lia, in Germania, in Inghilterra e negli Stati Uniti sotto l’influenza della
grande ondata di immigrati tedeschi, per la maggior parte ebrei in fuga

27. Mi permetto qui di rimandare alla mia Introduzione alla nuova edizione di Ni
droite ni gauche. L’idéologie fasciste en France, Fayard, Paris 2000.
28. Roger Hausheer in Isaiah Berlin, Controcorrente. Saggi di storia delle idee, a cu­
ra di Henry Hardy, intr. di Roger Hausheer, trad. di Giovanni Ferrara degli
Liberti, Adelphi, Milano 2000, p. XXIII.

43
Introduzione

dal nazismo, negli anni Trenta ebbe inizio e continuò per tutto il dopo­
guerra un vero rinnovamento intellettuale, che fu anche un esame di co­
scienza. Questa riflessione sul disastro europeo fu spesso incentrata su
un profondo interrogativo circa lo storicismo o, in altri termini, sul si­
gnificato che il rifiuto dei valori universali può avere per un’intera civiltà.
La storia delle idee vedeva così uno sviluppo notevole un po’ ovunque,
eccetto in Francia.
Bisogna ancora dire che sottovalutare la forza delle idee è un erro­
re non soltanto comodo ma anche molto comune. Le idee spingono
l’uomo all’azione e, anche se si trattasse solo della razionalizzazione del­
le pressioni psicologiche o sociali o dei processi economici, le costru­
zioni intellettuali assumono rapidamente una propria potenza e diven­
gono forze politiche autonome. E difficile capire come la sola forza de­
gli eventi avrebbe potuto produrre quei fenomeni senza precedenti
quali furono in primo luogo la Rivoluzione francese e poi le rivoluzioni
del Novecento.
In Francia, contrariamente a quanto succede nel mondo anglofono
o nella sfera d’influenza della cultura tedesca, la storia delle idee non ha
mai acquisito un vero diritto di cittadinanza, e questa discussione con­
temporaneamente concettuale e storica appare spesso evitata. L’ho già
ribadito altrove: quando il weberiano Aron scrisse un bel libro sulla sto­
ria delle idee, ritenne utile, per essere preso in considerazione, intito­
larlo Le tappe del pensiero sociologico. Bisognerà poi attendere il 1966
perché Fayard pubblichi la traduzione del grande libro di Cassirer su
La filosofia dell’Illuminismo, uscito in lingua originale nel 1932. Del re­
sto, il famoso lavoro di Arthur O. Lovejoy, The Great Chain o f Being,
considerato nel mondo anglofono il fondamento della storia delle idee
come disciplina universitaria autonoma, non è mai stato tradotto in
Francia29.

29. Arthur O. Lovejoy, The Great Chain of Being: A Study in the History of an Idea,
Harper Torchbooks, New York 1965 [La grande catena dell’essere, trad, di Lia
Formigari, Feltrinelli, Milano 19661. Si vedano l’introduzione e in particolare le
pp. 21-29. La prima edizione di questo lavoro risale al 1936. Nel gennaio 1940 Lo­
vejoy fondò il notissimo Journal o f the History of Ideas. Sulla personalità di Lovejoy
si veda Gladys Gordon-Bournique, «A.O. Lovejoy and the “History of Ideas”»,
Journal of the History of Ideas, voi. 48, II, aprile-giugno 1987, pp. 209-210.

44
Introduzione

In una serie di conferenze tenute ad Harvard nella primavera 1933,


Lovejoy propone il concetto dell’idea in quanto unità autonoma (unit-
idea). Secondo lui lo storico può isolare questo concetto e seguirne l’e­
voluzione attraverso tutte le sfere del pensiero: la storia, la filosofia, la
letteratura, la politica, l’arte o la religione, e questo fa sì che «la stessa
idea ricompaia, spesso notevolmente camuffata, nelle sfere più diverse
del mondo intellettuale»’0. L’evoluzione di un’idea, nelle sue diverse
sfaccettature, forme e accezioni, può essere seguita contemporaneamen­
te in diverse discipline e per periodi molto lunghi, fin dalle origini del
pensiero in Grecia. Lovejoy definisce così i contorni del suo progetto: lo
storico delle idee può attingere a più di una disciplina, a più di un aspet­
to della vita intellettuale e, cosa non meno importante, anche a epoche
diverse. Lovejoy è convinto che le «sfere più diverse del mondo intellet­
tuale» abbiano in comune molto più di quanto generalmente si creda.
Questa visione multidimensionale della storia delle idee costituisce il
contributo più importante e durevole che Arthur Lovejoy e i suoi se­
guaci hanno dato alla riflessione storica. L’autore di The Great Chain of
Being ha avuto anche il grande merito di porre con rigore le questioni di
continuità e influenza nei lunghi periodi storici, che sicuramente sono
tra le più ardue e delicate, anche se è comunque ovvio che continuità
non significa determinismo.
Viceversa la sua idea dell’autonomia dei concetti in rapporto al loro
contesto culturale, linguistico e politico, nel complesso accolta molto fa­
vorevolmente alla sua apparizione, ha rapidamente prestato il fianco al­
la critica. È Lovejoy stesso ad aprire la sua nuova rivista al dibattito che
durerà oltre mezzo secolo’1. La critica più importante è naturalmente ri­
volta al postulato secondo il quale un’idea può essere percepita come un
elemento autonomo. I primi censori si levano dunque in nome del con­
testo, dello spirito di un’epoca e infine della storia delle idee come Gei-301

30. Lovejoy, The Great Chain of Being, p. 15: «The same idea often appears, someti­
mes considerably disguised, in most diverse regions of the intellectual world» [La
grande catena dell’essere, p. 22].
31. Si veda il fascicolo di aprile-giugno 1987 del journal o f the History o f Ideas, voi.
48, II, e segnatamente l’articolo di Daniel J. Wilson «Lovejoy’s The Great Chain
of Being after Fifty Years», pp. 187-206. Si veda anche Thomas Bresdorff, «Lo-
vejoy’s idea of “Idea”», New Literary History, voi. 8, II, 1977, pp. 195-212.

45
Introduzione

stesgeschichte. Il Geist non ha qui alcuna connotazione mistica o mitolo­


gica, ma rappresenta semplicemente l’insieme delle caratteristiche e del­
le componenti di un periodo o di un movimento che lo storico percepi­
sce come unità e il cui impatto è superiore a quello di ognuna delle sue
componenti’2. Di fronte a queste obiezioni, Lovejoy difende il suo meto­
do, che consiste semplicemente nel passare i testi al setaccio per vedere
se una stessa componente ritorni davvero in due o più contesti diversi” .
Si pone così, quando la storia delle idee diventa a pieno titolo una disci­
plina universitaria, la questione del contestualismo.
Nello stesso periodo, in uno storico francese delle idee come Max
Rouché, autore dell’opera fino a oggi più completa su Herder, anche se
magari invecchiata, spunta l’idea secondo la quale una grande opera ha
sempre due significati: quello che le dà l’autore e quello che le attri­
buiranno le generazioni successive. Qui si pone inevitabilmente il pro­
blema di sapere se tutte le interpretazioni sono ugualmente valide. Se
è normale che generazioni diverse cerchino in un’opera un significato
che risponde alle loro domande, dove passa il confine tra un’interpre­
tazione legittima e una distorsione, volontaria o no? Chi è abilitato a ri­
solvere la questione? Herder può essere contemporaneamente un
grande umanista e il precursore di un nazionalismo biologico? E anche
Nietzsche sarebbe allo stesso tempo un individualista sfrenato, antina­
zionalista e filoebraico, e uno dei fondatori del nazismo? Esistono al­
meno dei criteri che ci permettano di comprendere le intenzioni del­
l’autore, contrariamente a quanto pensava Jacques Derrida, al di là del­
le contraddizioni di cui è fatalmente costellata ogni opera importante?
Non è forse evidente che un testo deve essere letto solo alla luce degli
scopi che si prefissava l’autore? Ma non è anche evidente che, dal mo­
mento in cui viene messa in circolazione, un’opera assume un’esisten­
za e un significato propri ed esercita un’influenza che non è sempre, e32

32. Leo Spitzer, « Geistesgeschichte vs. History of Ideas as applied to Hitlerism»,


journal o f the History of Ideas, voi. 5, II, aprile 1944, pp. 194-203. Spitzer rim­
provera a Lovejoy anche di separare ragione e sentimento.
33. Arthur O. Lovejoy, «Reply to Professor Spitzer», journal of the History of Ideas,
voi. 5, III, giugno 1944, pp. 204-205. E interessante constatare come Lovejoy ri­
sponda in anticipo, nelle prime pagine del suo articolo, a quella che più tardi
sarà la critica postmoderna.

46
Introduzione

spesso non lo è affatto, nelle intenzioni dell’autore? Quando un’opera


viene fatta propria e saccheggiata senza vergogna come quella di Nietz­
sche da parte dei nazisti, non conviene quantomeno domandarsi se es­
sa non vi prestasse il fianco? La lunga lotta dell’autore di A l di là del
bene e del male contro l’Illuminismo, l’umanesimo, l’eguaglianza, la
democrazia, che ha avuto un ruolo di primo piano nell’educazione di
un’intera generazione di tedeschi, non ha forse contribuito ad aprire
una breccia che ha permesso un’usurpazione in sé inaccettabile? Come
mai una tale disavventura non è potuta capitare alle opere di Tocque­
ville o di Benjamin Constant?
Questi interrogativi torneranno più volte. Al momento vorrei sem­
plicemente far notare che la prima difficoltà posta dal metodo Lovejoy
viene meno quando il periodo analizzato possiede un’indiscussa unità.
Seguire l’evoluzione di un concetto o di un’idea, sia l’idea di progresso,
di libertà o il concetto di storia, dall’antichità a oggi pone chiaramente
allo storico, più che al filosofo, problemi di estrema complessità. Se un
tale approccio permette a volte risultati che colpiscono, può anche esse­
re all’origine di distorsioni concettuali o di errori colossali. Lo stesso ac­
cade quando ci si interroga sulla dimensione sociale delle ideologie o sul­
la loro effettiva influenza sul corso degli eventi. La ricerca, a secoli di di­
stanza, di influenze dirette o nascoste può essere fruttuosa, come per
esempio nel caso di una riflessione sulla presenza di radici platoniche nel
pensiero di Rousseau, ma può anche risultare uno sterile esercizio. Tut­
tavia, così come è ovvio che Machiavelli, di norma insignito del titolo di
fondatore della scienza politica, non poteva fare riflessioni sulla politica
come le facciamo noi oggi, è chiaro che era in grado, come Aristotele, di
fare osservazioni interessanti sulla natura umana, sul potere, lo Stato,
l’arte di guidare gli uomini o la religione. Alcune sue osservazioni po­
trebbero essere di oggi se, proprio grazie al suo lavoro, non fossero di­
ventate luoghi comuni. Tanto più che Machiavelli ha continuato a esse­
re letto e riletto nel XVIII e X IX secolo proprio perché storici, scrittori,
uomini politici o anche semplicemente molti lettori colti pensavano che
l’autore del Principe e dei Discorsi avesse espresso qualche idea utile al
loro tempo. Tutti gli uomini sono figli del loro secolo, e Chateaubriand
lo ricordava molto opportunamente nel momento in cui il vecchio mon­
do dell'Ancien Regime spariva per sempre. Prima di lui, Voltaire pensa­
va analogamente che «ogni uomo è formato dal suo secolo» e aggiungeva:

47
Introduzione

«Ben pochi si innalzano sopra i costumi del tempo»’*4. Sono proprio que­
sti uomini eccezionali che riescono a vedere oltre l’orizzonte e oltrepas­
sare il loro momento storico. I problemi posti da Dante o san Tommaso
d ’Aquino non sono più i nostri. Questo non significa che il dibattito me­
dievale sul conflitto latente o aperto fra i due poteri, quello spirituale e
quello temporale, sia privo di senso attuale. Le questioni di principio che
potevano essere sollevate dall’opposizione di Chiesa e Stato mantengo­
no il loro significato, non fosse altro perché quei principi possono esse­
re tradotti in termini che ci sarebbero familiari. Il pluralismo non è altro
che il primo di questi termini.
Tuttavia, ancora una volta, queste problematiche spariscono quan­
do l’ambito della ricerca è limitato a un periodo che costituisce una ve­
ra e propria unità di tempo storico. E il caso di quello che va dalla fine
del XVII secolo ai giorni nostri. E utile ricordarlo ancora, non fosse al­
tro perché una delle grandi linee d’attacco contro l’Illuminismo passa
attraverso l’idea secondo la quale la Rivoluzione francese è stata un’e­
splosione religiosa preparata da illuminati e condotta da fanatici, cre­
denti convinti quanto gli uomini del Medioevo, partiti alla ricerca di ve­
rità eterne e del paradiso terrestre. L’idea che la Rivoluzione presentas­
se un carattere fondamentalmente religioso era tutt’altro che originale.
Lanciata a suo tempo da de Maistre, ripresa da Tocqueville, sviluppata
da Hippolyte Taine sotto il velo di una ricerca storica positivista, accre­
ditata negli Stati Uniti negli anni Trenta dallo storico Cari Becker,
vent’anni dopo essa avrebbe entusiasmato la scuola totalitaria. Mentre
la guerra fredda era al culmine, avanzava l’idea secondo la quale l’uto­
pia illuminista aveva partorito la Rivoluzione sovietica, poi lo stalinismo
e i gulag. Adorno e Horkheimer propendevano invece per una filiazio­
ne tra Illuminismo e nazismo. Questo attacco, si sa, continua ancora og­
gi sotto diverse forme. Per esempio, secondo Derrida, che usa questa
argomentazione contro Husserl, ci sarebbe solo un passo tra l’umanesi­
mo, quale che sia, e il razzismo, il colonialismo e l’eurocentrismo. Nei
fatti, qualsiasi umanesimo coinciderebbe con una tendenza all’esclu-

34. Voltaire, Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni e sui principali fatti della sto­
ria da Carlomagno sino a Luigi XIII, trad. di Marco Minerbi, CdL, Milano 1966,
4 voli., t. II, cap. 82, p. 360.

48
Introduzione

sione” . Non è necessario dire che questa condanna totale dell’umanesi­


mo falsa completamente sia lo spirito illuminista franco-kantiano che
quello inglese e scozzese.
Bisogna soffermarsi ancora brevemente su un altro aspetto della vi­
vace polemica in merito alla natura, al senso e alla metodologia della sto­
ria delle idee che da un quarto di secolo oppone scuole, conventicole e
correnti di pensiero. Si tratta dell’approccio a mio parere meno fertile,
un procedimento associato al contestualismo linguistico nella sua ver­
sione «dura», quella che rifiuta qualsiasi metodo analitico che utilizzi al­
tri elementi esplicativi che non siano il linguaggio e il vocabolario. Per
questa tendenza esiste solo il testo, vale a dire che sarebbero degne di
analisi solo le forme del discorso. Se, come pensano alcuni, le intenzioni
dell’autore ci sfuggono fatalmente perché la nostra storicità implica l’im­
possibilità di valicare il nostro orizzonte storico, se il senso di un testo at­
tribuito da uno storico non è quello voluto dall’autore ma condizionato
dalle origini, dalle idee e dai valori di cui lo storico è portatore e depo­
sitario, se inoltre, come sostiene Derrida, l’intenzione di un autore è per
noi un principio inaccessibile, perché noi non potremo mai conoscere lo
stato intellettuale e le disposizioni mentali di qualcun altro’6, allora la
storia delle idee si scontra con ostacoli insormontabili’7. Il problema, né3567

35. Alain Renaut, «Les humanismes modemes», in A. Renaut (a cura di), Histoire de la
philosophie politique, t. Ili, Lumières et Romantisme, Calmann-Lévy, Paris 1999, p. 45.
36. Cfr. Mark Bevir, che propone un’eccellente critica al contestualismo linguistico:
«The Errors of Linguistic Contextualism», History and Theory, 31 (8), 1992, pp.
276-298. Dello stesso autore si veda anche The Logic o f the History o f the Ideas,
Cambridge University Press, Cambridge 1999. Si veda inoltre John E. Toews,
«Intellectual History after the Linguistic Turn», American Historical Review, voi.
92, IV, 1987, pp. 879-907; Anthony Padgen, «Rethinking the Linguistic Turn:
Current Anxieties in Intellectual History», Journal of the History of Ideas, voi.
49, III, 1988, pp. 519-530.
37. Per il problema della storia delle idee contro la storia culturale, qui non affronta­
to, cfr. Nancy J. Christie, «From Intellectual to Cultural History: The Comparati­
ve Catalyst», Journal of History and Politics, voi. 6,1988-1989, pp. 79-100. Riguar­
do all’importanza dell’«archeologia del sapere» per lo storico si veda, tra gli altri,
Larry Shiner, «Reading Foucault: Anthi-Method and the Genealogy of Power-
Knowledge», Llistory and Theory, voi. 21, III, 1982, pp. 382-397; Jeffrey Weeks,
«Foucault for Historians», History Workshop Journal, voi. 14, 1982, pp. 106-119.

49
Introduzione

più né meno, verte infatti sulle nostre capacità di comprendere il signifi­


cato dei testi sui quali lavoriamo.
Fortunatamente questi testi sono tutt’altro che indecifrabili. Quen-
tin Skinner fa giustamente notare come, a forza di concentrarsi esclusi­
vamente sul linguaggio di un autore, noi corriamo il rischio di inserirlo
in una tradizione politica totalmente diversa, ingannandoci così comple­
tamente anche sul senso del suo pensiero politico’8. Di conseguenza la
corrente contestualista moderata accetta che si rifletta sulle intenzioni di
un autore, e quindi sul significato di un testo anche al di là del contesto
linguistico. Tuttavia, dopo questi saggi consigli, Skinner, che è senza
dubbio il maggiore contestualista «tenero», si avventura anche lui in
un’impresa di classica decostruzione della storia delle idee. In un bril­
lante articolo che ha avuto una profonda influenza da quando è stato
pubblicato nel 1969, egli demolisce un’idea che ha sempre giustificato lo
studio della storia del pensiero politico: quella secondo la quale i grandi
autori del passato avrebbero posto delle questioni che sono ancora le no­
stre, e cercato soluzioni a problemi che ancora oggi abbiamo. In un te­
sto che è diventato una sorta di bolla pontificia postmoderna, Skinner
sostiene che ogni autore che, in ogni tempo e in ogni luogo, si dedichi a
un dato problema, si trova in una situazione unica e scrive per alcuni let­
tori e non per altri, cerca soluzioni a domande concrete che sono esclu­
sivamente sue. In questo modo qualsiasi testo, qualsiasi enunciato di fat­
ti, qualsiasi principio, qualsiasi idea tratta della specificità di una situa­
zione e dell’unicità di un momento. E quindi futile e ingenuo parlare di
«verità universali» o di «problemi immortali»: non è possibile andare ol­
tre il proprio tempo e il proprio luogo, non esistono questioni eterne co­
me non ci sono concetti eterni, ma soltanto concetti specifici, ben defi­
niti, che appartengono a società specifiche e dunque diverse. Questa è
l’unica verità generale che possa esistere, non solo per quanto riguarda
il passato ma anche per il presente3839.

38. Quentin Skinner, «Some problems in the Analysis of Political Thought and Ac­
tion», in ). Tully (a cura di), Meaning and Context: Quentin Skinner and His Cri­
tics, Polity Press, Cambridge 1988, p. 106.
39. Quentin Skinner, «Meaning and Understanding in the History of the Ideas», Hi­
story and Theory, 8, 1969, pp. 49-53. Si veda anche Dominick LaCapra e John P.

50
Introduzione

Se i postmoderni avessero semplicemente voluto dire che ogni ge­


nerazione deve pensare per se stessa, cercare da sé la soluzione dei pro­
pri problemi e non sperare di trovare in Aristotele, sant’Agostino o
Machiavelli risposte concrete, in grado di guidare l’azione politica im­
mediata, avrebbero enunciato una verità evidente. Se avessero sempli­
cemente voluto mostrare che i problemi posti da Platone erano quelli
della democrazia ateniese e non quelli della democrazia francese di og­
gi, avrebbero semplicemente formulato una verità lapalissiana. Ma non
è questo il loro obiettivo; la loro posizione è più complessa perché, in
effetti, consiste nel negare l’esistenza di verità e di valori universali.
Tramite il contestualismo, il particolarismo e il relativismo linguistico,
concentrandosi solo su ciò che è unico e specifico e negando l’univer­
sale, ci si trova giocoforza sul versante deH’antiumanesimo e del relati­
vismo storico.
Basta analizzare il XVIII secolo per rendersi conto della profondità
del fossato che separa, su entrambe le sponde dell’Atlantico, la moder­
nità razionalista dai suoi nemici. Al di là di tutto quanto poteva distin­
guere i fondatori degli Stati Uniti e gli uomini della Rivoluzione france­
se, essi avevano in comune l’eredità di Locke e della Gloriosa Rivoluzio­
ne del 1689, di Rousseau e Voltaire, di Madison e Hamilton, di Condil­
lac, di Condorcet e di Saint-Just, un buon numero di concetti e di con­
vinzioni: erano senza dubbio tutti persuasi di operare in un contesto spe­
cifico, per cambiare o creare una data situazione in un luogo ben defini­
to ma anche di formulare dei principi di portata universale. Lavoravano
tutti per il presente, volevano cambiare il mondo che era loro e solo lo­
ro, ma allo stesso tempo avevano tutti la chiara consapevolezza di essere
gli autori di atti che impegnavano i posteri senza possibilità di ritorno.

Diggins, «The Oyster and the Pearl: The Problem of Contextualism in Intellec­
tual History», History and Theory, vol. 23, II, 1984, pp. 151-169; «Rethinking In­
tellectual History and Reading Texts», History and Theory, vol. 19, II, 1980, pp.
245-276; Eric Miller, «Intellectual Discourse after the Earthquakes: a Study in
Discourse», History Teacher, vol. 30, III, 1997, pp. 357-371; due articoli di D o­
nald R. Kelley, «Horizons of Intellectual History: Retrospect, Circumspect, Pro­
spect», journal of the History of Ideas, vol. 4 8 ,1, 1987, pp. 143-170 e «What is
Happening to the History of Ideas», journal of the History of Ideas, vol. 51, I,
1990, pp. 3-25.

51
Introduzione

In effetti nessun’altra epoca se non PHIuminismo, questo straordina­


rio esordio dell’età moderna, può vantarsi di avere sviluppato una con­
sapevolezza tanto esplicita della frattura col passato. Mentre il Medioe­
vo cercava la sua legittimità nel solco del sistema intellettuale del perio­
do classico, la modernità nascente si considerava una rottura storica sen­
za precedenti. L’«età moderna» si era volontariamente ed espressamen­
te presentata come tale e aveva voluto prendere le distanze dall’epoca
che la precedeva definendola «Medioevo» e interponendola tra sé e l’an­
tichità. La stessa parola Lumières rappresentava proprio la presa di co­
scienza delle intenzioni razionali dell’epoca nuova: la consapevolezza di
sé è uno dei fenomeni costitutivi dell’inizio di una fase storica. L’età mo­
derna non esiste prima del momento in cui si dichiara tale; certo la de­
nominazione non ne fu il motore, dice Hans Blumenberg, ma essa ne eb­
be costantemente bisogno per strutturarsi40. Molto più delle generazioni
precedenti, gli Illuministi hanno avuto la percezione di una rottura deci­
siva e dell’inizio di qualcosa di irreversibile.
L’esempio più probante della duplice dimensione assunta dalle loro
opere è senza dubbio il destino del famoso Federalista, il più importan­
te lavoro di filosofia politica mai realizzato negli Stati Uniti. Questo li­
bro, si sa, non è altro che una raccolta di manifesti elettorali. Scritta tra
il 27 ottobre 1787 e il 16 agosto 1788, durante la campagna condotta nel­
lo Stato di New York per la ratifica della Costituzione promulgata nel
1787, questa serie di 85 articoli pubblicata sulla stampa della città di
New York aveva un obiettivo primario, chiaro e ben definito: in primo
luogo convincere la popolazione di quello Stato decisivo che tanto la li­
bertà quanto la proprietà privata sarebbero state preservate e protette
nel quadro di uno Stato federale con un forte potere centrale. In secon­
do luogo, bisognava dimostrare che la libertà non dipendeva dalle di­
mensioni di un paese ma da buone istituzioni: a questo proposito, gli au­
tori si richiamano all’autorità del «celebre Montesquieu». Il loro terzo
scopo è di provare che poteva esistere una democrazia che non fosse di­
retta ma rappresentativa. Infine, essi vogliono dimostrare che la libertà
esige che siano ben formulati i limiti dei diritti della maggioranza. Men­
tre stavano conducendo una battaglia elettorale fondamentale, i tre

40. Sul concetto di epoca, si veda Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, p. 499.

52
Introduzione

autori, che scrivevano con lo pseudonimo di Publius, erano perfetta­


mente consapevoli del valore universale dei loro scritti e dei loro atti.
Alexander Hamilton, James Madison e John Jay sapevano che l’espe­
rienza alla quale invitavano i loro concittadini non aveva precedenti e
rappresentava una rivoluzione di carattere universale. La Costituzione si
riferiva a problemi concreti che gli americani della fine del XVIII seco­
lo dovevano affrontare e fu votata proprio perché rispondeva ai loro bi­
sogni e alle loro speranze, ma essa formulava anche principi generali che
per i fondatori erano buoni e giusti, e quindi valevoli per tutti gli uomi­
ni in ogni tempo e in ogni luogo41. Nel corso di questi ultimi due secoli
tale giudizio non è stato smentito. Ancora oggi negli Stati Uniti il Fede­
ralista gode dello statuto riservato ai testi sacri della storia americana ed
è secondo per autorità solo alla Costituzione.
La campagna raggiunse l’apice quando, nel marzo 1788, i primi 36
articoli furono pubblicati in volume. Due mesi dopo, il 28 maggio, ap­
parve un secondo volume con gli articoli dal 37 all’85. Un anno dopo, al­
l’inizio di maggio del 1789, a Parigi si aprivano gli Stati generali. Mentre
Madison, oggi riconosciuto come il «padre della Costituzione», diveniva
per otto anni il leader intellettuale del Congresso, prima di essere il ter­
zo presidente degli Stati Uniti, mentre Hamilton diveniva il grande mi­
nistro delle Finanze che George Washington, eletto il 6 aprile 1789, at­
tendeva, e John Jay assumeva la presidenza della Corte suprema, in
Francia cominciava la Rivoluzione. Nel gennaio del 1789 nelle tredici
vecchie colonie si svolgevano le prime elezioni federali; in Francia veni­
vano promulgate le lettere patenti per regolare le elezioni per gli Stati ge­
nerali e l’abate Sieyès pubblicava Quest-ce que le tiers état? Sei mesi do­
po, il 17 giugno, il Terzo Stato prendeva il nome di Assemblea naziona­
le e il 27 giugno lo stesso re ordinò l’unificazione dei tre ordini. L’Ancien
Regime non esisteva più. Qualche settimana dopo veniva promulgata la
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Testo quanto mai di
circostanza, quello strumento di attacco nato in momenti di crisi e di ri­
volte fissava la data di nascita dei nuovi tempi. Nello stesso momento, i

41. Un altro problema, quello doloroso e vergognoso della schiavitù nel Sud o della
discriminazione istituzionalizzata fino agli anni Sessanta del Novecento, non può
essere affrontato qui.

53
Introduzione

paragrafi della Dichiarazione proclamavano in poche formule sintetiche


le idee principali deU’Illuminismo francese. I principi dell’89 stavano per
fare il giro del mondo.
Il Federalista da solo è in grado di confutare le basi di un certo po­
stmodernismo applicate alla storia delle idee. Si tratta in effetti di un
esempio pressoché ideale: uomini che, in una fase critica della loro co­
munità, vengono chiamati a risolvere problemi politici concreti in un
paese ai margini della civiltà e offrono risposte di valore universale rea­
lizzando un classico del pensiero politico. Lo stesso avviene per Edmund
Burke: è improbabile che, se la Rivoluzione fosse stata solo una reazione
a una crisi di regime, un palliativo destinato a porre fine alle rivolte gra­
narie o al fallimento finanziario, magari un incidente di percorso o il ri­
sultato di una macchinazione, Burke si sarebbe mai innalzato al livello
della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e che il suo pamphlet, Rifles­
sioni sulla Rivoluzione francese, destinato semplicemente a colmare una
breccia dalla quale egli vedeva precipitare il diluvio, sarebbe stato, dopo
oltre due secoli, il manifesto intellettuale del conservatorismo d’assalto.
Divenuto molto rapidamente la bibbia del conservatorismo rivoluziona­
rio che si sarebbe manifestato alla svolta del X X secolo, questo procla­
ma alimenta oggi il neoconservatorismo. La ragione è che, rivolgendosi
ai suoi compatrioti per parlare loro della Costituzione inglese o della Ri­
voluzione del 1689, occupandosi degli usi e dei costumi del suo paese, o
difendendo le tradizioni inglesi, Burke formula un certo numero di prin­
cipi altrettanto astratti e altrettanto universali di quelli espressi dai tanto
esecrati rivoluzionari francesi.
Prendendole difese della storia, dei pregiudizi e della religione con­
tro la ragione, della comunità contro l’individuo, rifiutando i principi del
contrattualismo e i dogmi che l’Europa doveva alla scuola giusnaturali-
sta, lo stesso Burke provocò a sua volta una risposta. I diritti dell’uomo,
l’altro magnifico pamphlet che si deve a Thomas Paine, divenne altret­
tanto popolare. «Il grande americano», come era talvolta definito in In­
ghilterra, divenuto cittadino francese, come l’altro radicale Jeremy
Bentham e come Schiller, per decreto dell’Assemblea nazionale, e poi
eletto deputato del Pas-de-Calais, aveva già pubblicato, due anni prima
del Federalista, Il senso comune, opera che lo rese celebre. Così gli auto­
ri del Federalista, Burke e Paine, entrambi noti nei loro rispettivi am­
bienti, tra il 1788 e il 1791 scrissero alla svelta tre pamphlet su questioni

54
Introduzione

scottanti che tuttavia stabiliscono principi fondamentali per la vita poli­


tica e sociale.
Quasi un secolo prima, scrivendo il Secondo trattato sul Governo, an­
che Locke aveva un obiettivo immediato, ben comprensibile ai suoi con­
temporanei come anche per noi: voleva dare una base ideologica al cam­
biamento di regime che si stava compiendo in Inghilterra. Dopo cinque
anni di esilio in Olanda, ritorna con Guglielmo d’Orange e giustifica il
trionfo della rivoluzione del 1689. Ancora una volta fu uno scritto di cir­
costanza a impregnare rapidamente il dibattito politico, proprio come do­
po le due rivoluzioni della fine del Settecento. Per Rousseau l’autore del
Secondo trattato è il «saggio Locke»; viceversa, per de Maistre l’odio ver­
so Locke è l’inizio della saggezza. Le dichiarazioni americane dei diritti
mettono in pratica il pensiero di Locke. Quanto a Burke, non potendo at­
taccare apertamente il teorico della Gloriosa Rivoluzione ma richiaman­
dosi a modo suo a quella stessa Rivoluzione, nelle sue Riflessioni non lo
nomina nemmeno una volta. Per Burke, Locke semplicemente non esiste,
così come non esistono i fondatori degli Stati Uniti. Era il modo più sem­
plice, anche se non il più serio, per non misurarsi con la teoria dei diritti
dell’uomo verso la quale il fondatore del conservatorismo nutriva un vero
orrore. E per questo che Burke non si inscrive nella grande tradizione del
liberalismo inglese, non ne è un anello, come invece si crede spesso: al con­
trario Burke fonda una nuova tradizione politica, quella di un liberalismo
«bloccato», «incompleto» o «mutilato», di sua concezione. Ai nostri gior­
ni, questa varietà di liberalismo assume l’aspetto del neoconservatorismo.
Quando Fichte, nel 1806-1807, redige i suoi Discorsi alla nazione te­
desca in una Berlino occupata da Napoleone, non ha altro scopo che lan­
ciare un appello alle armi, ma così facendo adatta il pensiero di Herder
alla situazione creata dalla conquista della Germania da parte delle trup­
pe francesi e diviene uno dei grandi profeti del nazionalismo. Quando i
rapporti di forza si rovesceranno, nel 1871, all’indomani di Sedan, Re­
nan scriverà la Réforme intellectuelle et morale de la France, un saggio vi­
rulento contro il Settecento francese dove, come Taine ne Les Origines
de la France contemporaine, considera l’Illuminismo, la Rivoluzione,
Rousseau e la democrazia responsabili della decadenza francese. Lo stes­
so tipo di argomentazioni ritorneranno dopo la disfatta del 1940 e, nei
mesi in cui inizia la Rivoluzione nazionale, la Réforme verrà letta come
se fosse fresca di stampa.

55
Introduzione

Tutti questi autori erano coscienti del carattere storico delle loro
idee, ma allo stesso tempo tutti ponevano questioni fondamentali sulla
natura umana o sulla vita dell’uomo in società e cercavano di delineare
una buona società. Tutti intendevano andare oltre il loro contesto im­
mediato e tutti erano consapevoli di affermare un certo numero di verità
fondamentali, di «principi eterni» e non si sentivano schiavi di paradig­
mi: il fatto che alcuni scrittori contemporanei ricoprano questi termini di
sarcasmo non cambia nulla alla realtà. Tutti volevano interrogarsi sulla
nascita e la caduta delle civiltà e non esitavano a porsi in una prospetti­
va lunga venticinque secoli dialogando con Platone.
In questa riflessione sulle sorti delle civiltà si fa strada, all’inizio del
Novecento, l’idea che l’Illuminismo non appartenga solo al Settecento e
che in effetti sia una forma di civiltà che dall’Atene di Pericle fino alla
Cina di Confucio, appartiene alle fasi di decadenza, quando i miti spari­
scono e si afferma il regno della ragione. Il pensiero illuminista può dun­
que essere ritrovato in ogni tempo e in ogni luogo nel mondo e rappre­
senta una minaccia permanente per la cultura bene intesa.

56
CAPITOLO 1

Lo scontro delle tradizioni

Per abbracciare in tutta la sua ampiezza il significato della campagna


contro rilluminismo francese e comprenderne tutta la complessità, bi­
sogna cominciare dal periodo tra il XVII e il XVIII secolo. Il trionfo dei
Modernes nella famosa querelle, avviata nel 1687 nello stesso momento
in cui in Inghilterra si prepara la Gloriosa Rivoluzione, annuncia il pri­
mo successo dei Lumi. Furono proprio questi i due aspetti della prima
vittoria dei nuovi valori.
La Gloriosa Rivoluzione fu una consacrazione formidabile, intellet­
tuale e politica, che ebbe come principi ideologici i due Trattati sul go­
verno di Locke. Nel momento in cui in Inghilterra il regime stava rapi­
damente cambiando, senza resistenze o spargimenti di sangue, la Fran­
cia, sul finire del regno di Luigi XIV, può lanciarsi solo in una lunga e
dura "battaglia intellettuale. Questa enorme differenza tra le due situa­
zioni'segnò in modo indelebile l’Illuminismo francese e avrebbe per­
messo di parlare ormai, dalla fine del XVIII e per tutto il X IX secolo, di
uno scontro di civiltà. Nelle condizioni politiche e nel contesto sociale
prevalenti ih Trancia nel Settecento la consapevolezza delle ingiustizie e
dei mostruosi abusi che costituivano la realtà dei tempi, la guerra all’au­
toritarismo, la lotta per la libertà e per il diritto degli uomini a liberarsi
dal giogo del passato avrebbero assunto le forme di una violenta campa­
gna ideologica e culturale.
Il rifiuto dell’esistente produce una spinta senza precedenti nella ri­
flessione storica: non si era mai tanto discusso così sul mondo di doma­
ni; si medita sul passato ma non ci si inchina né di fronte alla sua auto­
rità né a quella del presente, e se non ci si inchina di fronte al presente è
perché si è convinti di avere il diritto e la capacità di modellare il futuro.
« “Quanto al modo in cui il mondo è stato governato [...] fino a oggi,
non deve interessarci altro che per fare un buon uso degli errori e dei
progressi che la storia ci mostra”, scrisse Tom Paine nella sua famosa

57
Lo scontro delle tradizioni

confutazione alle Riflessioni sulla Rivoluzione francese di Burke. Chi è


vissuto cento o mille anni fa è stato a suo tempo moderno, così come noi
lo siamo oggi. Anche rispetto a lui vi sono stati degli antichi, e altri an­
cora ve ne furono rispetto a questi ultimi; anche noi, a nostra volta, sa­
remo chiamati antichi. [...] La verità è che questi frammenti di antichità,
con il dimostrare tutto, non provano nulla. E un continuo contrapporsi
di autorità ad autorità, fino a che non si risale all’origine divina dei di­
ritti dell’uomo nella creazione.»1
Contrariamente a un’idea diffusa dai primi nemici dei Lumi, che il
X IX secolo non ha mancato di adottare, il tempo di Voltaire, di Gibbon
e di Hume segna in realtà il vero inizio della storiografia moderna. La sto­
riografia è divenuta possibile solo con l’esordio della critica, e la critica è
possibile solo dal momento in cui l’individuo afferma la propria autono­
mia. La storiografia diviene una forma di attività intellettuale solo quan­
do l’uomo cessa di cercare la volontà divina nella storia e si affida alla ra­
gione individuale per comprendere il passato e preparare il futuro.
Il tratto distintivo dell’Illuminismo è la critica, in nome della ragio­
ne, dell’ordine politico esistente ma anche della morale, della religione,
del diritto, della storia. Kant lo sapeva e Cassirer e Husserl hanno volu­
to fare l’elogio della ragione in un momento difficile della storia del lo­
ro secolo. La critica globale dell’esistente segna l’inizio nella modernità.
E proprio durante gli ultimi anni del XVII secolo che la modernità co­
mincia a insediarsi come l’espressione di una rottura che si vuole radica­
le contro il passato (l’antichità) e soprattutto contro i suoi modelli nor­
mativi. Con la famosa disputa des Anciens et des Modernes si produce
una rottura peculiare, praticamente senza precedenti, che consacra i
contenuti di rivolta, di innovazione e di critica che si volevano associare
all’idea di modernità. La controversia esplosa alla fine del Seicento fu
l’ultima della lunga catena di riflessioni sugli antiqui e i moderni, il cui
inizio risale a Cassiodoro, lo storico di Teodorico il Grande, all’indoma­
ni della caduta dellTmpero romano d’Occidente2. Il dibattito sulla mo-

1. Thomas Paine, l diritti dell’uomo e altri scritti politici, a cura di Tito Magri, trad,
di Marina Astrologo, Editori Riuniti, Roma 1978, p. 143.
2. Si veda Tilo Schabert, «Modernity and History I: What is Modernity?», in The
promise of History: Essays in Political Philosophy, Walter de Gruyter, Berlin e New
York 1986, pp. 9-21.

58
Lo scontro delle tradizioni

dernità continua dal XII al XVIII secolo. Questo perché, come ha mo­
strato Jiirgen Habermas, l’idea di modernità si ritrova ogni volta che in
Kuropa si prende coscienza di un’epoca nuova3. La scuola detta di Char-
tres, con Bernardo di Chartres e Giovanni di Salisbury, sviluppa l’idea
secondo la quale gli antichi erano dei «giganti» sulle cui spalle stavano
dei «nani», ma, grazie alla loro posizione, i nani potevano vedere più
lontano degli antichi. Nel XVI secolo il dibattito oppone due schiera-
menti ben definiti: con Rabelais, Giordano Bruno e Jean Bodin, con
Francis Bacon all’inizio del secolo successivo, i moderni non temono più
di affermare la propria superiorità45.
Di fronte si erge lo schieramento degli antichi: in un bel capitolo dei
suoi Essais, giustamente intitolato «Della consuetudine e del non cam­
biare facilmente una legge accolta», dopo avere evocato i grandi nomi
dei tempi antichi, da Socrate e Platone a Ottavio e Catone, Montaigne
proclama: «La novità mi disgusta, sotto qualsiasi aspetto si presenti, e ho
ragione, perché ne ho veduti effetti molto dannosi. [...] Ma anche il mi­
glior pretesto per un’innovazione è molto dannoso: adeo nibil motum ex
antiquo probabile est»?.
A metà del XVII secolo Pascal assume una posizione di compromes­
so in quello che sembra l’ultimo sforzo per salvare il salvabile dell’auto­
rità degli antichi6. Tuttavia diventa sempre più difficile mantenere questo
complesso equilibrio, man mano che un numero crescente di europei si
convince che i capolavori di Corneille, Racine e Molière, di Poussin,
Charles Le Brun e Claude Perrault erano ben altro che una semplice imi­
tazione degli Anciens. Per molti il secolo di Luigi XIV non era inferiore

3. Jiirgen Habermas, «L a modernité: un projet inachevé», Critique, n. 413, ottobre


1981. Su questo argomento si veda Zeev Sternhell, «L a modernité et ses ennemis:
de la révolte contre les Lumières au rejet de la démocratie», in Leternel retour.
Contre la démocratie, l’idéologie de la décadence, Presses de la Fondation nationa­
le de sciences politiques, Paris 1994.
4. Tilo Schabert, «Modernity and History I: What is Modernity?», p. 13.
5. Michel de Montaigne, Saggi, a cura di Fausta Garavini, 2 voli., Adelphi, Milano
1992, pp. 155-156. Si veda anche la p. 154 su «quel buono e grande Socrate» che
«rifiutò di salvarsi la vita con la disobbedienza a un magistrato, e proprio a un ma­
gistrato assai ingiusto e iniquo». Traduzione del testo latino: «Tant’è che nessun
cambiamento dell’antico uso merita approvazione».
6. Schabert, «Modernity and History I: What is Modernity?», pp. 13-15.

59
Lo scontro delle tradizioni

all’età di Augusto. Il 27 gennaio 1687, all’Académie française, Charles


Perrault recitò un famoso poema sul secolo di Luigi il Grande, dichiara­
to superiore all’antichità7. La famosa querelle imperversa fino alla sua
conclusione, un quarto di secolo dopo, con la Lettre à l’Académie di Fé­
nelon. Nel 1715, alla vigilia della morte, l’autore delle Aventures de Télé­
maque mette fine a quella che chiama «la disputa» o anche «la guerra ci­
vile àe\YAcadémie»'. «Io non esalto gli Antichi come modelli senza im­
perfezioni; io non voglio togliere a nessuno la speranza di vincerli. Mi au­
guro al contrario di vedere i Moderni vittoriosi con lo studio degli stessi
Antichi che avranno sconfitto»8. In verità, nelle sue implicazioni profon­
de, la Lettre à l’Académie manifesta un carattere molto più moderno dei
pamphlet controrivoluzionari della fine del Settecento: lungi dall’inchi-
narsi ciecamente di fronte al genio dei tempi antichi, Fénelon non esita a
esaltare i suoi contemporanei: «Bisogna confessare che tra gli Antichi ci
sono pochi autori eccellenti, e che i Moderni ne hanno alcuni le cui ope­
re sono preziose»9. L’arcivescovo di Cambrai non manca di sottolineare le
debolezze e i difetti degli Anciens, specialmente in filosofia, ma si soffer­
ma anche sulle difficoltà intellettuali e storiche provate dal lettore mo­
derno che affronta le loro opere. In questo modo egli afferma non solo il

7. Si veda Charles Perrault, Parallèle des Anciens et des Modernes en ce qui regarde
les Art et les Sciences, Eidos Verlag, Munich 1964, pp. 165-171 (fac-similé dell’e­
dizione del 1688).
8. Fénelon, «Reflexions sur la Grammaire, la Rhétorique, la Poétique et l’Histoire
ou Mémoire sur les travaux de l’Académie française à M. Dacier», in Œuvres, II,
a cura di Jacques Le Brun, Gallimard, Paris 1997, p. 1197. Il titolo consueto con
cui questo testo è universalmente noto è «Lettre à l’Académie». In appendice a
questo volume si trovano le prime due versioni di quel testo, che ebbe innume­
revoli edizioni (pp. 1199-1237). In una prima versione Fénelon osserva che «la
guerra civile déiVAcadémie» può avere effetti benefici permettendo un certo per­
fezionamento del gusto. Se egli teme per «gli autori pieni di talento e delicatezza
che oseranno abbandonare e disprezzare gli Anciens», non è perché chiede loro
di inchinarsi a essi. Al contrario: «Mi auguro che li superino, ma credo che si
debba imparare a superarli dagli stessi Anciens, posto che vi si possa riuscire» (p.
1225). Si veda anche p. 1220: «D a parte mia vorrei che i Modernes superassero
tutti gli Anciens».
9. Ibid., p. 1191. Si veda anche p. 1224: «Abbiamo solo un numero molto piccolo di
autori eccezionali tra i greci e i latini. Ne abbiamo di eccellenti in diversi generi
nel nostro secolo e nella nostra nazione».

60
Lo scontro delle tradizioni

diritto all’innovazione ma anche a un continuo cammino in avanti, in no­


me del progresso dello spirito umano e dell’indipendenza di ogni gene­
razione. Del resto l’autore di Télémaque esprime un sentimento assai mo­
derno della superiorità del suo secolo «che sempre più esce dalla barba­
rie»,10 dice. Qualche pagina prima ricorda i franchi di Clodoveo, che non
erano altro che «una turba errante e selvaggia, e se si è potuto scorgere
un raggio di nascente educazione sotto l’impero di Carlo Magno, [...] la
rapida caduta della sua dinastia ricacciò l’Europa in una barbarie spa­
ventosa. San Luigi fu un prodigio di ragione e di virtù in un secolo di fer­
ro. Noi usciamo a malapena da questa lunga notte».11
In questo modo la modernità ideologica acquisisce la sua definitiva
patente di nobiltà e viene stabilita l’idea di progresso lineare: il presente
è concepito come infinitamente superiore al passato prossimo e non sof­
fre alcun complesso di fronte alla grandezza dell’antichità. Nei fatti la
sua superiorità comincia già ad affermarsi chiaramente. Il culto del Me­
dioevo che appare all’inizio del XVIII secolo con Vico e alla sua fine con
Herder e si sviluppa con forza durante il primo romanticismo non costi­
tuisce in alcun modo una forma di ritorno alla fede o una scoperta di una
brillante civiltà perduta, ma soltanto una rivolta contro i Lumi. Non è un
caso che questa venerazione di un mondò scomparso abbia inizio con gli
autori della Scienza nuova e di Ancora uria 'filosofia della storia. Per certi
versi l’agostiniano Fénelon, autore della Famosa Dcmonstratìon de l’exi-
stence de Dieu, che scrive tra il XVII e il XVIII secolo, è più vicino ai
grandi «pagani» deH’Illuminismo francese che non ai loro nemici, i Vi­
co, Hamann, Herder, Burke o de Maistre, baluardi della fede e delle
Chiese stabilite.
La Lettre presenta un altro aspetto interessante. II suo autore si au­
gura che YAcadémie «ci fornisca un trattato sulla storia»: Fénelon la
considera una disciplina chiave, uno strumento incomparabile «che
chiarisce le origini, e spiega attraverso quale cammino i popoli siano
passati da una forma di governo a un’altra». Ma per fare la storia oc­
corrono bravi storici: lo storico si dedicherà prima di tutto a «dipinge­
re gli uomini eminenti e a scoprire le cause degli eventi». Egli dovrà

10. ìbid., p. 1191.


11. Ibid., pp. 1179-1181.

61
Lo scontro delle tradizioni

dare prova di obiettività, di senso critico, di curiosità, non sarà acceca­


to dal patriottismo, presenterà i fatti senza pregiudizi, non si lascerà ac­
cecare dalle idee correnti («egli segue il suo gusto senza consultare quel­
lo del pubblico»12).
Il bravo storico non cade nell’anacronismo e non si lascia coinvolge­
re nella ricerca di innumerevoli «fatti minuti»; bisogna lasciare «questa
superstiziosa esattezza ai compilatori». Non è un «arido e triste realizza­
tore di annali» che potrebbe produrre solo «una storia per così dire tri­
tata in piccoli pezzi e senza alcun filo di vivace narrazione». Lo storico
degno di questo nome deve invece ricostruire «esattamente la forma di
governo e i particolari dei costumi della nazione di cui scrive la storia,
per ogni secolo». E in questo che egli deve dare prova di precisione: nel
tratteggiare le epoche, le strutture di potere e, come diremmo noi, le
mentalità e le strutture sociali, perché è proprio questo che vuol dire Fé-
nelon, ed è proprio questa la lezione che imparerà Voltaire: «Ogni na­
zione ha i suoi costumi molto diversi da quelli dei popoli vicini. Ogni po­
polo cambia spesso per i propri costumi». Qui si trova anche l’origine di
quelle famose scoperte che di solito si accreditano a Herder. Nell’idea di
Fénelon, il bravo storico è come il bravo pittore: «La perfezione princi­
pale di una storia consiste nell’ordine e nella sistemazione. Per giungere
a questo bell’ordine, lo storico deve abbracciare e possedere tutta la sua
storia. La deve vedere interamente, con un solo sguardo. Bisogna che la
giri e la rigiri da tutti i lati, finché non abbia trovato il suo vero punto di
vista. Bisogna mostrarne l’unità e ricondurre, per così dire, a una sola
causa tutti gli eventi principali che ne dipendono»13.
Lettore esigente, Fénelon conclude con una critica concisa ma ser­
rata ai grandi storici dell’antichità: Erodoto, Senofonte, Polibio, Tucidi­
de, Sallustio, Tacito, tutti hanno i loro difetti, spesso grandi14. Al lettore
non resta che concludere da solo: il mondo va avanti e il futuro appar­
tiene ai Modernes.
In effetti, la rivoluzione scientifica e quindi sociale verificatasi nel
XVII secolo, che consacra la vittoria dei Modernes e la cui ultima tappa

12. Ibid.,p. 1178.


13. Ibid., pp. 1178-1181.
14. Ibid., pp. 1183-1184.

62
Lo scontro delle tradizioni

si svolge negli anni di «crisi della coscienza europea», secondo la fortu­


nata espressione di Paul Hazard15, favorisce l’emergere di una intuizione
poco comune nella storia della nostra civiltà: l’idea, anzi ormai la con­
vinzione, che gli uomini abbiano il diritto di costruire un mondo diver­
so da quello che hanno ereditato. In questo modo la storia cessa di co­
stituire un’autorità tutelare: se, come pensa Fénelon, il mondo è appena
uscito dalla barbarie, è escluso che vada a cercare le sue norme di com­
portamento in quella lunga notte dalla quale è emerso da poco. Così si
libera uno straordinario serbatoio di energia, prima intellettuale e poi
politica. Ogni generazione si sentirà libera di lanciarsi non solo alla sco­
perta dell’univèrso fisico ma della storia, dell’antropologia, delle nuove
strutture politiche e sociali. L’individuo si sentirà padrone della propria
esistenza, pari ai più potenti, in grado di crearsi un mondo che i suoi an­
tenati non potevano nemmeno sognare. Comincera a chiedere conto e a
interrogarsi sulle ragioni delle sventure che lo colpiscono: è la famosa
domanda che emerge all’inizio del primo capitolo del Contrai social e
nelle cento pagine del Discours sur l'origine de l’inégalité parmi les hom-
mes, dove Rousseau si interroga sulle origini della società civile e, così fa­
cendo, ci offre uno straordinario saggio di antropologia filosofica senza
Dio. Rousseau, come uòmo dei Lumi crea una storia delle origini del­
l’umanità che distrugge la concezione religiosa della vita. È per questo
che fu il pensatore più odiato dai nemici dei Lumi, colui che eliminò la
Rivelazione dalla vita degli uomini e colui che, ai primi passi del capita­
lismo, alzò la bandiera della rivolta contro le ingiustizie sociali. All’origi­
ne del male si trovano le strutture sociali e non la natura umana, la pro­
prietà e aH'origine dei mali della società borghese per come essa funzio­
na nel Settecento, dove la libertà non esiste e dove domina l’inegua­
glianza. Contrariamente a un’idea radicata, Rousseau non era un pessi­
mista: se l’autore del Discours sur les Sciences et les Arts non può essere
annoverato tra i teorici dell’idea di progresso, per lui l’uomo era co­
munque padrone del proprio destino. Per gli Illuministi il male non sta­
va nell’uomo ma nella condizione sociale, nell’ignoranza, nella supersti­
zione e nella povertà.

15. Paul Hazard, La crisi della coscienza europea, a cura di Paolo Serini, Il Saggiato­
re, Milano 1968, 2 voli.

63
Lo scontro delle tradizioni

Alain Renaut ha brillantemente dimostrato che Rousseau è davve­


ro il primo a formulare l’idea che la libertà umana si manifesti con la
capacità di affrancarsi dalla natura, quindi per mancanza di definizio­
ne o di essenza. Noi conosciamo la metafora sartriana del tagliacarte
che compare in uno dei testi più famosi del pensiero del Novecento,
Lexistentialisme est un humanisme. In quella famosa conferenza del
1945, l’autore di L'Etre et le Néant insiste sulla differenza di principio
tra umanità e «cosità»: rimprovera alla teologia e alla filosofia tradizio­
nale di avere concepito l’uomo sul modello dell’oggetto fabbricato e
Dio, analogamente, su quello dell’artigiano supremo. In una simile vi­
sione del mondo la libertà umana sparisce, poiché l’uomo si ritrova pri­
gioniero di una natura, assegnato a una finalità o a un modello, dal qua­
le non può evadere più di quanto non possa farlo il tagliacarte. L’uma­
nesimo autentico, invece, è caratterizzato dall’idea che « c ’è almeno un
essere che esiste prima di potere essere definito, e questo essere è l’uo­
m o»16. A totale insaputa di Sartre, dice Renaut, indicando così un
aspetto fondamentale del pensiero del XVIII secolo, misconosciuto
perché mal compreso, questa concezione fenomenologica o esistenzia­
lista dell’umanesimo, lungi dal rompere con la filosofia dei Lumi, si ri­
congiungeva invece alle principali tesi di Kant o di Fichte sull’umanità
dell’uomo intesa come storicità: queste tesi erano in gran parte eredità
di Rousseau17.
In effetti, nel suo Discours sur l’origine de l’inégalité parmi les hom-
mes, Rousseau per primo formula quest’idea che sarà ripresa da Kant,
come mostra Renaut, in Idea di una storia universale. «Ogni animale ha
delle idee, poiché ha dei sensi; dice Rousseau, e anzi, fino a un certo pun­
to, combina le sue idee. L’uomo, in ciò, non differisce dall’animale che
per il più o il meno [...]. Dunque, quello che dà all’uomo un posto spe­
cifico tra gli animali non è tanto l’intelletto quanto la sua qualità di agen­
te libero. [...] La spiritualità della sua anima si manifesta soprattutto nel­
la coscienza di questa libertà.»18

16. Citato in Alain Renaut (si veda la nota seguente).


17. Alain Renaut, «Les humanismes modernes», in Alain Renaut (a cura di), Histoire
de la philosophie politique, t. III, Lumières et Romantisme, Calmann-Lévy, Paris
1999, p. 38.
18. J-J. Rousseau, Origine délia disuguaglianza, pp. 47-48.

64
Lo scontro delle tradizioni

Rousseau mostra che è per diretta conseguenza di questa capacità di


non essere prigioniero dei condizionamenti naturali che solo l’uomo si
scontra con i problemi della storia individuale e della storia collettiva: at-
iraverso l’educazione e attraverso la politica. Una simile rielaborazione
antinaturalista dell’uomo, una simile rinnovata concezione dell’uomo,
non potevano essere pensate senza profonde ripercussioni nell’ordine
politico. Rousseau, e poi Kant, mostrano in questo modo che l’uomo è
perfettibile e che questa perfettibilità è un continuo annullamento della
natura, dunque una costruzione di sé tramite se stessi e di conseguenza
una storicità. È la storicità di un distacco dai condizionamenti naturali
continuamente rinnovato. L’importanza di quanto Rousseau abbozzava,
dice Alain Renaut, non si potrà mai considerare eccessiva. L’autore del
Discours sur l’origine de l’inégalitéparmi les hommes aveva trovato la pri­
ma protezione radicale contro il razzismo: « l’uomo selvaggio», pur co­
minciando la sua evoluzione «attraverso funzioni puramente animali» e
ricordando ancora l’animalità a causa della sua assenza di storicità, non
è assolutamente un animale. E diretto da facoltà comuni a tutti gli uo­
mini in ogni tempo e in ogni luogo. Queste facoltà, anche se ancora po­
co sviluppate, portano in germe il segno di una libertà infinita il cui svi­
luppo è concepito come un processo di distacco dalla natura. Per Rous­
seau l’umanità restava sempre una sola e medesima umanità19.
Questo umanesimo è alla base dell’odio dal quale Kant, sotto questo
aspetto allievo di Rousseau, e lo stesso Rousseau furono perseguitati per
due secoli. Conviene del resto aggiungere che Rousseau aveva combat­
tuto in anticipo l’idea secondo la quale il concetto di natura umana pre­
sente in tutti gli uomini poteva portare a una tirannia dell’universale. Le
critiche rivolte alla filosofia universalista moderna per non avere denun­
ciato la schiavitù dimenticano non solo Rousseau, ma Montesquieu e
Voltaire, gli enciclopedisti e gli Illuministi inglesi. Ma.è soprattutto la Ri­
voluzione a essere trascurata. Di fatto, la schiavitù è stata abolita dalla
Rivoluzione francese. Gli schiavi, come gli ebrei, furono liberati e, per la
prima volta nella storia, tutti gli uomini che vivevano all’interno dello
stesso paese, la Francia, dovevano sottostare alle stesse leggi e diventa­
vano cittadini liberi ed eguali nei diritti. Per Kant, come per Rousseau

19. Renaut, «Les humanismes modernes», pp 38-41.

65
Lo scontro delle tradizioni

prima di lui, tutti gli uomini, chiunque essi siano, appartengono a que­
sto mondo umano che è la storia concepita come perfettibilità.
Fontenelle, una delle bestie nere di tutti i nemici dei Lumi, come
Georges Sorel all’inizio del Novecento, che vedono in lui il simbolo del
male, esprimerà prima di Kant e di Rousseau la magnifica fiducia in se
stesso dell’uomo moderno. Gli uomini sono gli stessi in ogni tempo e in
ogni luogo: «In virtù di che cosa il cervello di allora avrebbe dovuto es­
sere meglio organizzato?» Non è forse chiaro che «la natura ha tra le ma­
ni una certa pasta che è sempre la stessa, e che gira e rigira incessante­
mente in mille modi»? «I secoli non producono alcuna differenza natu­
rale tra gli uomini. [...] Eccoci dunque tutti perfettamente eguali, anti­
chi e moderni, greci, latini e francesi.»20 Gli Anciens non hanno fatto al­
tro che precedere i Modernes nel tempo, e questo crea l’illusione che es­
si abbiano inventato tutto. Al loro posto, i Modernes sarebbero giunti
agli stessi risultati. Ma, nei fatti, i Modernes sono giunti a risultati mai ot­
tenuti dagli Anciens. Questi non avevano solo pregi, anzi: colmi di difet­
ti e debolezze, hanno «utilizzato la maggior parte delle idee false che si
potevano produrre. Era assolutamente necessario pagare all’errore e al­
l’ignoranza il tributo che essi hanno pagato». Quello che, secondo Fon­
tenelle, mancava indubbiamente agli Anciens era il metodo scientifico, o
ciò che egli definisce esattezza e rigore: «Non di rado deboli rapporti,
piccole somiglianze, fantasie poco solide, discorsi vaghi e confusi, ven­
gono presi per dimostrazioni»21. I secoli passati non hanno avuto alcun
Descartes: grazie a questo balzo in avanti, in tutti i campi del sapere re­
gna «una precisione e un’esattezza, fino a ora sconosciute»22. Ecco per­
ché «essendo dunque illuminati dalle concezioni degli antichi, e dai loro
stessi errori, non è sorprendente che li superiamo»23. Le generazioni si
succedono e gli ultimi venuti saranno sempre superiori ai loro predeces­
sori: «È evidente che tutto ciò non ha fine, e che gli ultimi fisici o mate­
matici dovranno naturalmente essere i più abili»24. Il progresso delle co-

20 . Fontenelle, Digressione sugli antichi e sui moderni, a cura di Alfonso M. Iacono,


Manifestolibri, Roma 1996, pp. 25-27 e 31.
21 . Ibid., pp. 39-41.
22 . Ihid., p. 43.
23. Ibid., p. 39.
24. Ibid., p. 41.

66
Lo scontro delle tradizioni

noscenze è infinito, e si è sempre i Modernes di qualcuno: «Vi era un


tempo in cui i latini erano i moderni, e allora si lamentavano del culto
per i Greci»;25 «bisogna poter digerire che Demostene e Cicerone ven­
gano comparati con un uomo che può anche avere un cognome france­
se».26 L’autore di Entretiens sur la pluralità des mondes habités invita
ugualmente i suoi contemporanei a liberarsi dalla propensione degli uo­
mini ad «abbandonare la ragione per i pregiudizi». E utile riconoscere
che «la lettura degli antichi ha dissipato l’ignoranza e la barbarie dei se­
coli precedenti», e che il mondo deve alla rinascita dei greci e dei latini
il fatto di essere uscito dai «secoli barbari che hanno fatto seguito a quel­
li di Augusto»,27 ma questo non significa che ci si debba inchinare per
sempre di fronte alla saggezza degli Anciens.
Qui si vede, come in una sorta di microcosmo, tutto quello che se­
para lo spirito dei Lumi dai suoi nemici. In effetti non soltanto il Me­
dioevo idealizzato da Herder e dai romantici appare come un periodo di
barbarie, ma Fontenelle paragona l’evoluzione dell’umanità a quella di
un individuo, con una sola ma fondamentale differenza riguardo a Vico,
a Herder, a Spengler: il progresso è infinito. L’uomo ha avuto la sua in­
fanzia, ha la sua età matura, «ma debbo confessare che quell’uomo non
avrà vecchiaia [...], in altre parole gli uomini non degenereranno mai, e
le idee sane di tutte le buone menti che si succederanno, si aggiungeran­
no sempre le une alle altre»28.
La vittoria dei Lumi nel XVIII secolo non poteva più essere messa
in dubbio: essa fu resa possibile da un lato dal magistero esercitato da
Locke e dal successo del razionalismo universale di Christian Wolfe, e
dall’altro lato dall’insuccesso della Scienza nuova di Vico. «Voi che vive­
te, e soprattutto voi che cominciate a vivere nel XVIII secolo, rallegrate­
vi.»29 Tutte le argomentazioni dell’apologià dei Modernes vengono mobi­
litate per delineare, come fa Chastellux, un quadro apocalittico della

25. Ibid., p. 63. Si veda anche p. 47.


26. Ibid., p. 49.
27. Ibid., pp. 53-55.
28. Ibid., p. 51.
29. Chastellux, De la Félicité publique, citato in Paul Hazard, La Pensée européenne
au XVIII siècle de Montesquieu à Lessing, Fayard, Paris 1995; Hachette, «Plu­
riel», p. 271.

I
67
Lo scontro delle tradizioni

brutalità e barbarie dei costumi antichi e per concludere che «quei mo­
numenti di crudeltà provano sufficientemente la superiorità della nostra
filosofia moderna su quella che ha potuto uniformarsi a tali abomini»’0.
Lo stesso quadro di barbarie ritorna in Volney che, in più, si prende gio­
co dell’adorazione superstiziosa per i greci e i romani, dei quadri idillia­
ci che dipingono la libertà e l’eguaglianza di cui essi avrebbero goduto,
quando invece Sparta e Roma erano oligarchie brutali che tenevano sot­
to il loro giogo intere popolazioni di schiavi e di plebei parimenti mise­
rabili. Lo stesso Chateaubriand sapeva che le antiche Repubbliche non
potevano nemmeno supporre l’esistenza della «libertà figlia dei lumi»3031.
Tuttavia, pur avendo una chiara coscienza della specificità del loro
tempo e facendo valere la consapevolezza della modernità, gli Illuministi,
proprio come i loro successori del X IX e X X secolo, non vedono la loro
epoca come «ultima e singolare». Senz’altro la loro era una grande epo­
ca, ma il cammino in avanti non si sarebbe mai fermato. Spesso la storia
dell’Europa appare sotto forma di un vasto movimento di preparazione
dei tempi moderni: l’esordio della democrazia può essere intuito già nei
presocratici. Ma non c’è nessuna «fine della storia»: nessuna epoca, nes­
sun popolo può pretendere di avere raggiunto l’optimum. Non c’è alcu­
na linea di arrivo. Invece Burke considerava il suo mondo come la perfe­
zione; con l’Inghilterra del XVIII secolo, secondo i suoi principi genera­
li, si era raggiunto il massimo. Egli aveva pensato alla fine della storia due
secoli prima di uno dei suoi seguaci neoconservatori, Francis Fukuyama32.
E proprio a questa scuola di pensiero che appartiene l’idea della fine della

30. Chastellux, De la Yélicité publique, citato in Jean-Fabien Spitz, La libertépoliti-


que: Essai de Généalogie conceptuelle, Presses universitaires de France, Paris
1995, p. 498.
31. Frangois-René de Chateaubriand, Memorie d'oltretomba, a cura di Ivana Rossi,
Einaudi-Gallimard, Torino 1995, 2 voli., prima parte, libro VI, cap. 7, p. 225.
Chateaubriand narra il suo arrivo nel 1791 a Filadelfia, dove doveva incontrare
Washington: «la libertà che conoscevo era quella degli antichi, la libertà figlia dei
costumi in una società nascente; ignoravo però la libertà figlia dei lumi e di una
vecchia civiltà, quella libertà di cui la Repubblica rappresentativa ha dimostrato
la realtà: voglia Dio che sia duratura!»
32. Francis Fukuyama, The End of History and thè Last Man, The Free Press, New
York 1992 (si veda il nostro Epilogo) [La fine della Storia e l ’ultimo uomo, trad.
di Delfo Ceni, Rizzoli, Milano 2003],

68
Lo scontro delle tradizioni

storia che all’inizio dell’ultimo decennio del Novecento accende l’imma­


ginazione degli ambienti neoconservatori americani.
Contrariamente a un luogo comune, la critica universale, nella quale
Paul Hazard a ragione vede l’anima dell’Illuminismo, non aveva inten­
zione di cambiare l’uomo ma soltanto lo stato sociale. La critica era con­
cepita come uno strumento migliorativo della condizione umana, uno
strumento per il progresso e la felicità. La felicità diventava un diritto, la
cui idea si sostituiva a quella di dovere. Era lo scopo di tutti gli esseri in­
telligenti, il punto verso il quale tutte le loro azioni convergevano. In que­
sto modo si annunciava la fine della brama di assoluto” . La filosofia do­
veva essere guidata dalla pratica, non avrebbe più dovuto essere altro che
la ricerca della felicità. Il bene dell’individuo diventava l’obiettivo finale
di qualsiasi azione politica e sociale: era questo il contributo fondamen­
tale della scuola giusnaturalista. Il pensiero di Locke, il suo teorico più fa­
moso, domina il XVIII secolo, anche dopo la comparsa di Rousseau. A
partire da Hobbes, alla metà del XVII secolo, di cui Locke segue il pen­
siero, si afferma progressivamente la sovranità della ragione, che si svi­
luppa definitivamente cento anni dopo. Anche quando si è d’accordo sui
suoi limiti, la si sa incapace di conoscere la sostanza e l’essenza, non ci so­
no dubbi sul suo ruolo: scoprire, osservare i fatti e analizzarli, portare al­
la luce gli elementi del reale, paragonarli, scoprire i legami che li unisco­
no e trarne delle leggi. Il metodo sarà dunque quello dell’esperienza. La
ragione ha l’incarico di rivelare la verità e denunciare l’errore; essa è uni­
versale, identica in tutti gli uomini, e da essa non dipendono solo la scien­
za e le arti ma anche l’avvenire del genere umano.
Ma «che cosa significa illuminare»? chiedono gli uomini del XVIII
secolo tramite Moses Mendelssohn” . E Kant che, in un testo famoso,
uno dei più belli mai prodotti dai pensatori del suo tempo, pubblicato
nel dicembre 1784, avrebbe dato in poche pagine, sulle quali non ci stan­
cheremo mai di tornare, la definizione più esatta di Illuminismo, e quel­
la più vicina allo spirito dei philosophes: «Lilluminismo è l’uscita del-34

33. Paul Hazard, La Pensée européenne au X V llle siècle, pp. 18-33.


34. M. Mendelssohn, «Sur la question: que signifie éclairer?», in I. Kant, Qu est-ce
que les Lumières?, Traduction, préface et notes de Jean Mondot, Publications de
l’université de Saint-Étienne, Saint-Étienne 1991, pp. 67 e sgg.

69
Lo scontro delle tradizioni

l’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità
è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro.
[...] Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligen­
za! E questo il motto deH’lluminismo»55. L’appello di Kant all’emancipa­
zione del soggetto umano dagli intralci della storia e della religione è un
corollario della sua visione dei Lumi come un processo dinamico, un
continuo cammino verso un’autoemancipazione sempre più avanzata.
Questa visione ottimistica della storia è basata sul concetto del primato
dei diritti dell’uomo: sotto l’influenza di Rousseau, Kant comincia a con­
siderare la libertà come il primo principio della morale, e la teoria del
contratto sociale gli appare ormai come la sola filosofia politica compa­
tibile con una simile concezione della morale56. Kant ha sottolineato il
suo debito con Rousseau: «Rousseau mi ha corretto [...] Lio imparato a
rispettare gli uomini e mi sentirei all’improvviso più inutile di un comu­
ne lavoratore se non credessi al tempo stesso che le mie osservazioni pos­
sano rappresentare un valore per tutti, in grado di costruire diritti del­
l’umanità»57. Egli vedeva nell’autore del Contrat social il Newton della
morale: «Rousseau fu il primo a scoprire, nella molteplicità delle forme
assunte dall’uomo, la sua natura profondamente nascosta»58.
Per Kant gli uomini del suo tempo non erano ancora padroni del lo­
ro destino, non si erano ancora liberati dai pregiudizi e dalle superstizio­
ni, ma, se l’età non era ancora illuminata, era già quella della ragione e
della critica. È proprio da questa critica razionale delle certezze e dei va­
lori tradizionali che procede la teoria dei diritti naturali, il principio del35678

35. Kant, «Risposta alla domanda: che cos’è rilluminismo?», in Scritti di filosofia po­
litica, a cura di Dario Faucci, trad. di Gioele Solari e Giovanni Vidari, La Nuo­
va Italia, Firenze 1967, p. 25 (corsivo nel testo). Sulla critica di questo testo da
parte di Michel Foucault, si veda il suo «Q u ’est-ce que les Lumières?», in Ma­
gazine littéraire, aprile 1993, pp. 62-74. Si veda anche Maurizio Passerin d’En-
trèves, Cntique and Enlightenment: Michel Foucault on «Was ist Aufklärung»,
Institut de ciències politiques i socials, Barcelone 1996.
36. F.C. Beiser, Enlightenment, Revolution and Romanticism. The Genesis o f Modem
German Political Thought, 1790-1800, Flarvard University Press, Cambridge
(Mass.) 1992, pp. 30-33, 37.
37. Kant, Annotazioni alle Osservazioni sul sentimento del hello e del sublime, a cu­
ra di Maria Teresa Catena, Guida, Napoli 2002, p. 64.
38. Ibid., p. 80.

70
Lo scontro delle tradizioni

primato dell’individuo in rapporto alla società e l’idea per la quale il be­


rte e la felicità devono sempre essere l’obiettivo di ogni azione politica. E
la critica razionale dell’ordine esistente che permette di concepire la so­
cietà come un aggregato di individui e lo Stato come uno strumento tra
le mani dell’individuo. E dunque la critica che produce la nostra visione
edonista e utilitaristica della società e dello Stato: per tutto il X IX e il X X
secolo la reazione contro i Lumi definirà in termini di «materialismo» que­
sto concetto del primato assoluto dell’individuo in rapporto alla colletti­
vità. Rapidamente «materialismo» - liberalismo (nel senso che questo ter­
mine assume in Inghilterra e negli Stati Uniti), democrazia, socialismo -
diventa la parola chiave per eccellenza per designare il male.
La liberazione dell’individuo, nel senso che Kant ha dato a questo
processo, trova la sua concretizzazione nella Rivoluzione francese. Kant è
rimasto fedele alla Rivoluzione malgrado il trauma del 1793 e continua a
pensare che la ragione non solo permetta ma addirittura obblighi a cam­
biare la società conformemente ai principi della giustizia. Nel 1797 egli
continua a esprimere la sua convinzione che l’uomo possa migliorarsi39. La
Rivoluzione traduce anche in termini politici la visione storica dell’Illumi-
nismo: una visione lineare che concepisce il futuro come la realizzazione
dei progetti utopici del presente40. «Le utopie», scrive Octavio Paz, «sono
i sogni della ragione. Sogni attivi che si trasformano in rivoluzioni e rifor­
me.»41 In pratica, la negazione del valore intrinseco dell’utopia non è che
un altro modo di scalzare i fondamenti della modernità in ciò che essa ha
in sé, come la definisce Jürgen Habermas, del progetto illuminista42.
Kant, questo si sa, non riconosceva agli individui il diritto di resi­
stenza al potere politico, e in questo egli si pone al di qua non solo di
Locke ma anche di Hobbes. Se quest’ultimo non accordava agli uomini
il diritto alla ribellione, lascia comunque intravedere la possibilità che il
potere, mettendo in pericolo la vita dell’individuo, perda la sua ragione
d’essere e quindi la sua legittimità e finisca per corrompersi, cosa che
rappresenta un altro modo di aprire uno spiraglio alla rivolta. Su questo

39. Beiser, Enlightenment, Revolution and Romanticism, p. 38.


40. F. Lattraverse, W. Moser (a cura di), «Avant-propos», in Vienne au tournant du
siècle, Albin Michel, Paris 1988, pp. 9-10.
41. O. Paz, «Poésie et modernité», Le Débat, septembre 1989, p. 4.
42. J. Habermas, «L a modernité: un projet inachevé», Critique, 413, octobre 1981.

71
Lo scontro delle tradizioni

punto Kant respinge le premesse dalla scuola giusnaturalista. Per lui un


diritto alla rivolta è una contraddizione in termini. Inoltre, al cittadino è
interdetto porre la questione dell’origine legittima o meno del sistema
politico vigente. Nietzsche gli avrebbe rimproverato duramente questo
conformismo tipico degli intellettuali, senza ricordare che si tratta so­
stanzialmente degli intellettuali tedeschi: «Già Kant fu, come noi scien­
ziati solitamente siamo, pieno di riguardi, sottomesso e, nei suoi rappor­
ti con lo Stato, senza grandezza»43. Ecco almeno un rimprovero che non
poteva essere rivolto ai philosophes francesi.
Secondo Kant, che cosa rimane allora al cittadino pensante? Un’ar­
ma sola, ma decisiva: la critica; un solo mezzo, ma sicuro ed efficace:
diffondere i Lumi, sviluppare VAufklärung. Quindi è nella libertà data
alla riflessione dei cittadini non violenti che Kant vede la grandezza del­
la sua epoca. È giunto il giorno in cui l’uomo può uscire da questa im­
maturità « imputabile a se stesso». Nessuna rivoluzione violenta farà na­
scere una vera riforma dei modi di pensare, anche se la facesse finita col
dispotismo e la repressione: solo VAufklärung può impedire che i vecchi
pregiudizi siano sostituiti da altri che non avrebbero maggior valore.
Perché il progresso proceda, la sola cosa che ha veramente valore per la
morale del mondo e per una politica che si consideri una politica dell’u­
manità, «non occorre altro che la libertà; e la più inoffensiva di tutte le
libertà, quella cioè di fare pubblico uso della propria ragione in tutti i
campi»44. «In tutti i campi» e «pubblico uso», queste sono le parole chia­
ve, dice Eric Weil: nulla può sottrarsi alla critica, né la religione, né i
principi della legislazione, né la Chiesa, né lo Stato; e questa critica do­
vrà essere fatta pubblicamente45.
L’Illuminismo è stato proprio un processo di lento passaggio dallo
stato di tutela allo stato di libertà. In questo si tratta davvero, come no­
ta Habermas, di un «progetto incompiuto»46. Ma questa è la nostra vi-

43. F. Nietzsche, Schopenhauer come educatore, a cura di Mazzino Montanari,


Adelphi, Milano 1985, p. 87.
44. Kant, «Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo?», in Scritti di filosofia po­
litica, pp. 25 e 27.
45. Eric Weil et olii, La Philosophie politique de Kant, Presses universitaires de Fran­
ce, Paris 1962, pp. 16-17.
46. Si veda Jiirgcn Habermas, «L a modernité: un projet inachevé» (sopra citato).

72
Lo scontro delle tradizioni

sione delle cose, non quella degli uomini del XVIII secolo: uno come
Voltaire era convinto dell’imminenza della vittoria, prodotto naturale
della rivoluzione intellettuale di cui era testimone. Né i tempi, né le opi­
nioni, né i costumi sono più gli stessi, «da circa cinquant’anni quasi tut­
ta l’Europa ha cambiato aspetto»/7 scriveva nel 1763: non cera alcuna
ragione di ritenere che questo cammino potesse fermarsi. Kant, testimo­
ne della Rivoluzione, si entusiasma per i fatti di Parigi. Il conflitto delle
facoltà, ultimo opuscolo pubblicato da vivo nel 1798, esprime l’ottimi­
smo di una generazione che ha visto la libertà prevalere in America, VAn­
cien Régime abbattuto, la Dichiarazione dei diritti dell’uomo proclama­
ta a Parigi e certe tendenze liberali apparire persino in Prussia. «La ri­
voluzione di un popolo ricco di spirito, rivoluzione che abbiamo visto
accadere ai nostri giorni, può riuscire o fallire; può essere [...] colma di
miserie e atrocità [...] questa rivoluzione, dico, trova però nell’animo di
tutti gli spettatori [...] una partecipazione, sul piano del desiderio, pros­
sima all’entusiasmo [...] che può essere causata solo da una disposizio­
ne morale intrinseca al genere umano.»4748 E Kant prosegue: i popoli avan­
zano verso una «forma politica» basata sull’amministrazione dello «Sta­
to, sotto l’unità del capo supremo (il monarca), secondo leggi analoghe
a quelle che un popolo darebbe a se stesso in base a principi giuridici
universali»4950.Ecco perché «anche senza il dono dello spirito profetico, io
ritengo di poter predire, in base agli indizi e ai segni premonitori dei no­
stri giorni, che il genere umano raggiungerà questo fine e quindi, al tem­
po stesso, che il suo avanzamento verso il meglio non sarà da qui in poi
del tutto impedito». La Rivoluzione francese è dunque il fenomeno che
attesta il cammino in avanti; «ha svelato una capacità e una disposizio­
ne» inerenti alla natura umana: «Solo questo fenomeno poteva promet­
tere d’unire nel genere umano, in base a interni principi giuridici, natu­
ra e libertà». Nonostante tutto, persino le atrocità, «quell’avvenimento è
troppo grande [...] per non tornare [...] alla memoria dei popoli»’1.

47. Voltaire, Trattato sulla tolleranza, a cura di Lorenzo Bianchi, Feltrinelli, Milano
2003, p. 50.
48. Kant, Il conflitto delle facoltà, a cura di Domenico Venturelli, Morcelliana, Bre­
scia 1994, p. 165 (corsivo nel testo).
49. Ibid., p. 169 (corsivo nel testo).
50. Ibid.,pp. 169-170.

73
Lo scontro delle tradizioni

Non che questo progresso sia automatico, precisa Ruyssen. Mentre l’a­
nimale si rimette passivamente alla legge della natura, nell’uomo natura
e libertà sono riunite. Per natura, gli uomini sarebbero tentati di com­
portarsi come gli animali, come quelle «docili pecore guidate, nutrite e
validamente protette da un padrone buono e accorto». Ma «a un essere
dotato di libertà non basta infatti godere il comodo della vita»: egli può
accettare «per il popolo al quale appartiene, solo quel governo in cui il
popolo partecipa alla formazione delle leggi»51. Ormai la specie umana è
in stato di allerta; conosce la sua forza. Dopo di ciò la lezione da trarre
dalla filosofia della storia non è una promessa ma un appello, un’eco del­
l’imperativo; invita l’essere ragionevole ad assumersi la responsabilità del
proprio destino52.
Il conflitto delle facoltà mette il punto finale all’appello lanciato nel­
la sua Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo? uscita nel 1784.
Nel 1790 Kant scrive ancora: «La prima massima [pensare per se stessi]
è quella di una ragione che non è mai passiva. L’inclinazione alla passi­
vità e di conseguenza all’eteronomia della ragione si chiama pregiudizio-,
il più grande di tutti consiste nel rappresentarsi la natura come se essa
non fosse sottomessa alle regole che l’intelletto le dà per fondamento
grazie alla propria legge essenziale, ed è la superstizione. La liberazione
dalla superstizione si chiama Illuminismo» ” . Il libero pensiero, il pensie­
ro liberato, è quello autonomo, quello che è autorizzato solo dal tribu­
nale del proprio intelletto, dice Françoise Proust, quello che si dà le sue
leggi da sé e riconosce come legittime solo le leggi naturali e morali che
gli fornisce la sua ragione. Questo è il senso che la parola «legge» assu­
me nel Settecento: la legge è l’opposto dell’arbitrio poiché è universale e
permette di risolvere il problema posto da Rousseau: trovare una forma
di legame tale per cui si sia liberi pur essendo costretti a obbedirvi. Que­
sto legame è la legge, alla quale l’uomo obbedisce liberamente perché è
la legge della sua ragione5'1. Questa arringa in difesa dei principi illumi-

51. Ibid., pp. 167-168.


52. Théodore Ruyssen, «La Philosophie de l’histoire selon Kant», in La Philosophie
politique de Kant, p. 51.
53. Françoise Proust, Introduction, in I. Kant, Vers la paix perpétuelle et autres tex­
tes, p. 6.
M. //*./. p ?.

74
Lo scontro delle tradizioni

nisti era una splendida risposta a Herder e a Burke, e anche, senza che
Kant avesse mai sentito parlare di lui, a Vico.
Una restaurazione e due rivoluzioni più tardi, un altro liberale illumi­
nato, Tocqueville, riassume ciò che per tutti gli Illuministi fu l’idea di li­
bertà, agli antipodi di quella alla quale credeva Burke: «Secondo la con­
cezione moderna, democratica e oserei dire giusta della libertà, ogni uo­
mo che si presume abbia ricevuto dalla natura le cognizioni necessarie per
comportarsi, reca in sé dalla nascita un diritto eguale e imprescrittibile a
vivere indipendente dai suoi simili, per tutto quanto si riferisce alla sua
persona, e a decidere come meglio crede del proprio destino»55. E così che
Tocqueville riunisce i due aspetti dell’idea di libertà che Benjamin Con­
stant, dopo Kant, aveva già esposto, che Burke aveva voluto ignorare e
che cento anni dopo Isaiah Berlin distinguerà56. In questo senso egli si pre­
senta come un liberale autentico, un liberale dei Lumi, e così facendo pro­
va che non esiste altro liberalismo se non quello legato ai principi illumi­
nisti. Qualche riga più avanti Tocqueville traccia il quadro concettuale del
nazionalismo liberale: «L’idea per cui ogni individuo, e per estensione
ogni popolo, ha il diritto di guidare le proprie azioni, un’idea ancora oscu­
ra, definita in modo incompleto e mal formulata, si introdusse a poco a
poco in tutti gli animi»57. Anni luce separano l’idea di nazione di Burke da
quella di Tocqueville. Per l’autore de LAncien Regime fu nel XVIII seco­
lo che si produsse la trasformazione che avrebbe permesso l’emergere dei
concetti di libertà moderna, libertà individuale e libertà collettiva.
Contrariamente a Burke, secondo cui la rivoluzione in Francia na­
sceva dalla rivolta contro la civiltà cristiana, Tocqueville si rende perfet­
tamente conto della realtà del XVIII secolo. Esaminando, sessant’anni
dopo, i cahiers preparati dai tre ordini alla vigilia della convocazione de­
gli Stati generali, quelli della nobiltà e del clero così come quelli del Ter­
zo Stato, egli scopre, «quasi con terrore, che quanto si chiede è l’aboli­
zione simultanea e sistematica di tutte le leggi e tutti gli usi vigenti nel
paese»58. Non è dunque la «cabala letteraria» parigina che ha la respon­

55. Alexis de Tocqueville, LAntico regime e la Rivoluzione, p. 32.


56. Si veda il cap. 8.
57. Tocqueville, LAntico regime e la Rivoluzione, p. 33.
58. Ibid., p. 233.

75
Lo scontro delle tradizioni

sabilità dei fatti del 1789. Per Tocqueville questa rivoluzione in arrivo
non è il prodotto di una vasta cospirazione contro la civiltà cavalleresca
e cristiana, come pensa Burke, ma piuttosto delle realtà deil’Ancien Re­
gime. Egli concentra la risposta in due capitoli di L’Ancien Regime et la
Revolution. 11 capitolo XII del secondo libro si intitola «Come, nono­
stante i progressi della civiltà, la condizione del contadino francese fos­
se talora peggiore nel XVIII secolo di quanto era stata nel XIII». Ecco
perché Tocqueville è spesso più vicino a Rousseau che a Burke, perlo­
meno quando si tratta dei contadini deU’Ancien Regime e non degli ope­
rai in rivolta del giugno 1848. Gran signore, egli capiva quel testo di
Rousseau che raccontava il suo incontro con un contadino al quale egli
aveva chiesto da mangiare: tale esperienza fu «il germe di quell’odio ine­
stinguibile che poi mi si sviluppò nel cuore contro le vessazioni subite
dallo sventurato popolo e contro i suoi oppressori»59. Ecco qualcosa che
Burke, e dopo di lui Taine, accecati dall’odio per ITlluminismo francese
e per la Rivoluzione, non avevano nemmeno tentato di capire.
Nel capitolo successivo, primo del terzo libro, Tocqueville cerca di
capire «Come, verso la metà del secolo XVIII, i letterati divennero i prin­
cipali uomini politici del paese, e quali conseguenze ne risultarono». Da
una parte, la loro stessa condizione li «disponeva a prediligere le teorie
generali e astratte in materia di governo e ad abbandonarvisi ciecamen­
te», ma allo stesso tempo Tocqueville chiarisce che, pur non partecipan­
do gli intellettuali francesi del XVIII secolo alla vita pubblica come in In­
ghilterra, essi non restavano comunque estranei alla politica: «Si occupa­
vano costantemente di materie attinenti al governo; era questa, a onor del
vero, la loro principale attività». In effetti sono queste le questioni fon­
damentali oggetto del loro interesse: «Ogni giorno li si udiva dissertare
sull’origine della società e sulle loro forme primitive, sui diritti primor­
diali dei cittadini e su quelli dell’autorità, sui reciproci rapporti, naturali
e artificiali, degli uomini, sui difetti o sulla legittimità delle consuetudini,
e sui principi stessi delle leggi. Addentrandosi di giorno in giorno fin nel­
le stesse basi della costituzione del loro tempo, ne esaminavano con cu­
riosità la struttura e ne criticavano l’assetto generale». E qui viene l’es­
senziale: «Non a caso i filosofi del secolo XVIII avevano in genere con-

59. J.-J. Rousseau, Le confessioni, pp. 179-180.

76
Lo scontro delle tradizioni

cepito nozioni tanto opposte a quelle che stavano ancora alla base della
società del loro tempo; tali idee erano state loro suggerite dalla visione di
quella medesima società che tutti avevano sotto gli occhi. Lo spettacolo
di tanti privilegi abusivi o ridicoli [...] spingeva, o meglio ancora faceva
simultaneamente precipitare l’animo di costoro verso l’idea di una natu­
rale eguaglianza delle condizioni. Nel vedere tante istituzioni anomale e
bizzarre, frutto d’altri tempi, [...] era facile per quei filosofi ripudiare le
cose antiche e la tradizione». E questa società, la sola che sia veramente
stata una società bloccata, una società senza futuro, a far sì che gli uomi­
ni di lettere francesi fossero «naturalmente sospinti a voler ricostruire la
società del loro tempo secondo un progetto totalmente nuovo, che cia­
scuno di loro tracciava alla sola luce della propria ragione»60.
Ecco in che cosa consiste «la filosofia politica del secolo XVIII», di­
ce Tocqueville, quando «si prescinde dai particolari per risalire alle idee
madri»: gli scrittori di quel tempo, quali che siano le loro differenze,
«pensano che convenga sostituire con regole semplici ed elementari, at­
tinte alla ragione e alla legge naturale, le consuetudini complesse e tra­
dizionali che reggono la società del loro tempo»61. Molto spesso lo stes­
so Tocqueville appare come un uomo del XVIII secolo per il suo profon­
do legame col razionalismo sperimentale. In UAncien Regime et la Re­
volution egli dedica alcune pagine straordinarie all’elogio degli uomini
del 1789: «È l’89, tempo d’inesperienza senza dubbio, ma anche di ge­
nerosità, di entusiasmo, di virilità e di grandezza, tempo di imperitura
memoria, verso il quale si volgeranno con ammirazione e rispetto gli
sguardi degli uomini, quando coloro che l’hanno visto e noi stessi sare­
mo da tempo scomparsi». Tocqueville prosegue, con un brano il cui ri­
lievo è evidente: «In quel momento i francesi si sentirono abbastanza fie­
ri della loro causa e di se stessi da credere di poter essere uguali nella li­
bertà. In mezzo a istituzioni democratiche introdussero quindi dapper­
tutto istituzioni libere»62. Qui Tocqueville, che non viene praticamente
ricordato da Berlin, risponde in anticipo all’autore di Due concetti di li­
bertà'. la libertà negativa significa difesa dell’individuo contro un’interfe-

60. Tocqueville, LAntico regime e la Rivoluzione, pp. 229-231.


61. Ibid., p. 230.
62. Ibid., pp. 301-302.

77
Lo scontro delle tradizioni

renza esterna, la libertà positiva è modellare il proprio mondo nell’egua­


glianza. Tocqueville lo vuole sottolineare e continua: «Non solo ridusse­
ro in polvere quella legislazione antiquata che divideva gli uomini in ca­
ste, in corporazioni, in classi, e rendeva i loro diritti anche più ineguali
delle loro condizioni, ma spezzarono in un colpo solo le altre leggi, ope­
ra più recente del potere regio, che avevano sottratto alla nazione il li­
bero godimento di se stessa»6364.
Questa società che, agli occhi di Tocqueville, non meritava di so­
pravvivere, rappresentava esattamente l’ideale di Burke, per il quale la so­
cietà del suo tempo andava preservata non per il semplice fatto che esi­
steva ma perché era la migliore possibile: ecco tutta la differenza tra un
liberale conservatore e il padre del neoconservatorismo. Non è un caso
che questo elogio del 1789 fatto da Tocqueville venga solo una pagina do­
po le dure critiche rivolte a Burke. Per Tocqueville, Burke non è altro che
un autore di «eloquenti pamphlets» che non ha visto «in quali condizioni
[...] quella monarchia, da lui rimpianta» aveva ridotto il paesew. Altrove
Tocqueville critica Burke per non avere capito la vera natura della Rivo­
luzione francese, venuta a spazzare via le vecchie istituzioni comuni a tut­
ta Europa, quella che Burke chiama l’«antica legge comune d’Europa»65.
Qui sembra che Tocqueville si inganni: Burke comprendeva bene la na­
tura di quella rivoluzione ed era proprio quella la causa del suo furore.
Ma è interessante osservare come Tocqueville faccia poco caso a Burke ne
l 'Ancien Regime. A giudicare dall’elenco dei brani copiati o riassunti in
vista della redazione del seguito de L’Ancien Regime, Tocqueville ha pra­
ticamente letto tutto Burke e considera una «mente potente» l’autore del­
le Riflessioni, ma lo vede accecato dalI’«odio [...] contro i nostri novato­
ri»; ammirevole quando si occupa di particolari, il suo orizzonte resta
però estremamente limitato: «il carattere generale, l’universalità, la por­
tata finale della Rivoluzione ai suoi inizi gli sfuggono assolutamente. Re­
sta come sotterrato nel vecchio mondo e nello strato inglese di esso, e non
capisce la cosa nuova e universale che sta accadendo»66.

63. Ibid., p. 302. Nel campo «conservatore» sarà capace di un simile elogio solo il
giovane Renan, proprio all’inizio della sua carriera.
64. Ibid., pp. 299-300.
65. Ibid., p. 71.
66. Ibid., pp. 596-597. Si vedano anche le pp. 597-598.

78
Lo scontro delle tradizioni

Contrariamente a Renan, Tocqueville mostrerà la grandezza della Ri­


voluzione alla vigilia della morte, nella sua opera più matura e, cosa an­
cora più significativa, questo elogio verrà dopo quello del XVIII secolo:
«Fu in quel secolo che per la prima volta si sentì parlare dei diritti gene­
rali dell’umanità, di cui ogni uomo può reclamare pari godimento come
legittimo e inalterabile retaggio, e dei diritti generali della natura di cui
ogni cittadino deve avvalersi»67.
Tocqueville è molto più vicino agli uomini del XVIII secolo che a
quelli del liberalismo bloccato della guerra fredda di un Berlin o del li­
beralismo neoconservatore di oggi, sia per la sua consapevolezza dell’e­
sistenza di «leggi fisse che non è forse impossibile scoprire»68 che per la
sua visione della Rivoluzione francese come una necessità. Egli pensa
che essa «sia scaturita spontaneamente da quello che precede»69 e che
«attuò improvvisamente [...] ciò che alla lunga si sarebbe compiuto len­
tamente da sé»: comunque, anche se non si fosse verificata nello stesso
modo o non avesse avuto luogo affatto, «il vecchio edificio sociale sa­
rebbe egualmente crollato dappertutto, prima o poi a seconda dei luo­
ghi»70. Alexis de Tocqueville è il più importante pensatore francese do­
po Rousseau e l’ultimo grande liberale. Nell’Ottocento in Francia gli
può essere paragonato solo Benjamin Constant e nel resto d’Europa so­
lo J.S. Mili è al suo livello. In effetti Constant e Tocqueville appartengo­
no a una tradizione politica che finisce con la morte dell’autore di La Dé-
mocratie en Amérique. Le due maggiori figure della seconda metà del
X IX secolo francese, Taine e Renan, appartengono già a un’altra scuola.
Tocqueville, e per molti aspetti Constant, anche se più problematico,
partecipano della tradizione razionalista e umanista deU’llluminismo
francese. Per contro, Hippolyte Taine prosegue e sviluppa la tradizione
di Burke, adattandola alla realtà della seconda metà dell’Ottocento.
,. Come Burke, Taine risale il corso della storia e in alcune dense pagi­
ne tratteggia un quadro affascinante del «terribile scontro» verso il qua­
le corrono le due tradizioni politiche, quella dei Lumi e la sua antitesi,

67. Ibid., p. 33.


68. Ibid, p. 15.
69. Ibid., p. 298.
70. Ibid., p. 11.

79
Lo scontro delle tradizioni

durante i due secoli precedenti la Rivoluzione francese. In questo modo


si produce quell’impatto violento che Taine definisce un scontro di ci­
viltà. L’autore della Histoire de la littérature anglaise si dedica a questa
contrapposizione che scuote il mondo già dalla fine del XVIII secolo in
un importante capitolo dedicato al suo grande predecessore, Burke. In
effetti, tra tutti i lettori delle Riflessioni sulla Rivoluzione francese, Hip-
polyte Taine è senza dubbio quello le cui opere sono piti conformi allo
spirito di Burke. I tedeschi Gentz e Rehberg erano stati tra i primi a ca­
pirlo subito e a cogliere il senso a lungo termine della sua campagna con­
tro i Lumi, il razionalismo e la democrazia. Ma l’allineamento di Taine a
Burke è molto più significativo: un secolo dopo la Rivoluzione, quando
il pensiero liberale classico aveva appena realizzato i suoi frutti migliori,
con La Démocratie en Amérique e On Liberty di J.S. Mill, Taine si rial­
laccia all’opera del pamphlettista irlandese.
La lettura di Burke che fa Taine è appassionata ma non sorprende.
Per lui «questo lungimirante politico si avvicina al genio»71. Tutta la sua
interpretazione della storia dellTnghilterra confrontata con quella della
Francia ricalca la visione che Burke ha reso celebre nella sua campagna
contro la Rivoluzione. Per cui l’autore delle Origines mostra come gli in­
glesi giungano «conservatori e cristiani alle soglie della Rivoluzione fran­
cese e invece i francesi liberi pensatori e rivoluzionari»7273.Confrontando
l’Inghilterra dell’ordine costituito con la Francia rivoluzionaria, concor­
da con il suo grande mentore nel dire che «mai il contrasto tra due spi­
riti e due civiltà è stato marcato in modo più visibile, ed è ancora una vol­
ta Burke che, con la superiorità di un pensatore e l’ostilità di un inglese,
si è incaricato di mostrarcelo»7*. Qualche pagina dopo, Taine ritorna su
questa idea: nella Rivoluzione francese non esplode «tanto l’urto di due
governi, ma di due civiltà e di due dottrine. Le due enormi macchine,
lanciate a tutta velocità e con tutto il loro peso, si erano scontrate fron­
talmente non per caso, ma per destino. Un’età intera di letteratura e di
filosofia aveva accumulato il carbone che riempiva i loro fianchi e co­
struito i binari che dirigevano la loro corsa». Così sono state lanciate

71. Taine, Histoire de la littérature anglaise, 17” ed., t. Ili, p. 324.


72. Ibid., p. 316.
73. Ibid., p. ò l i.

80
Lo scontro delle tradizioni

«crociata contro crociata» e l’Inghilterra «impaurita era tanto fanatica


quanto la Francia entusiasta». Taine mostra Pitt che rifiuta ai Comuni
«di trattare con una nazione di atei» e cita due importanti testi di Burke
come esempio del «furore dell’esecrazione, dell’invettiva e della distru­
zione» che regnavano allora: la Lettera a un nobile lord e le due Lettere
su una pace regicida74.
Come si è giunti a questo scontro di civiltà? La dimostrazione di
Taine riprende le argomentazioni di Burke quasi al completo. Non è sol­
tanto unidimensionale come lo era stata quella del deputato di Bristol
ma ancora molto ingenua. Se Burke aveva una scusa, il bisogno di pro­
paganda, da parte di Taine, a metà Ottocento, ci si poteva aspettare di
più. Cominciando dalla Costituzione inglese, egli constata che, contra­
riamente a quanto sembra di primo acchito, essa non è un ammasso di
privilegi, cioè di ingiustizie consacrate, ma un corpo di contratti, cioè di
diritti riconosciuti. Ognuno ha il suo diritto, piccolo o grande, che di­
fende con tutte le sue forze e del quale non cederà mai anche una pic­
cola parte. È con questo sentimento, dice Taine, che si conquista e si
mantiene la libertà politica: «E questo sentimento che, dopo avere rove­
sciato Carlo I e Giacomo II, si precisa in principi nella dichiarazione del
1688 e si sviluppa in dimostrazioni con Locke»7576.È così che Taine inter­
preta Locke: i due Trattati sul governo costituiscono una codificazione
delle libertà inglesi e non una teoria dei diritti naturali. Si tratta di uo­
mini liberi, dice, che «avendo trattato tra loro, sono ancora liberi. La lo­
ro società non fonda i loro diritti, li garantisce»'6. Ma i diritti garantiti so­
no diritti storici, non diritti naturali, gli uomini che fondano la società
non escono dallo stato di natura ma da uno stato storico che risale al­
meno al XIII secolo. Per quanto riguarda i diritti dei sudditi inglesi, i più
grandi come i più piccoli, non è «una filosofia che li fonda, è un atto e
un fatto, intendo la Magna Charta, la Petizione dei Diritti, YRabeas Cor­
pus Act e tutto l’insieme delle leggi votate in Parlamento». E Taine ag-

74. Ibid., p. 325. Se ne veda la traduzione francese, qui utilizzata per la scelta dei
brani, in appendice a Burke, Réflexions sur la révolution de Lrance, trad. de Pier­
re Andler, présentation de Philippe Raynaud, annotation d’Alfred I ierro et
Georges Liébert, Hachette (coll. «Pluriel»), Paris 1989, pp. 467-603.
75. Ibid., pp. 288-289.
76. Ibid., p. 290.

81
Lo scontro delle tradizioni

giunge un elemento per lui essenziale, ma che farebbe sorridere un Con­


stant o un Tocqueville, o persino un Carlyle, che non era vittima dell’i­
dealizzazione burkiana della Francia monarchica: tutti quei diritti «sa­
ranno anche ineguali, ma lo sono solo per accordo reciproco»77.
E per questo che la Costituzione è un contratto e l’inglese è pronto
a insorgere in ogni momento, fino allo stremo delle forze, per difender­
ne i diritti stabiliti. Quegli uomini si appassionano agli affari pubblici
perché sono i loro affari, mentre in Francia sono solo quelli del re e di
madame de Pompadour. La vita politica, così come la vita religiosa, è tra­
boccante di attività e dimostra una veemenza straordinaria, i giornali e i
pamphlet proliferano78. «C ’è qualcosa di Milton e di Shakespeare in que­
sta teatrale cerimonia, in questa solennità appassionata» che scopriamo
in un Pitt, un Chatham, un Fox, uno Sheridan o un Burke79. Finalmente
il cerchio si chiude: «Centocinquant’anni di riflessioni morali e di lotte
politiche hanno unito l’inglese alla religione positiva e alla costituzione
vigente». Quegli stessi «centocinquant’anni di educazione e di idee ge­
nerali hanno convinto i francesi ad avere fiducia nella bontà umana e
nella ragion pura»80.
Segue, per otto pagine, una sintetica esposizione del contenuto del­
le Riflessioni sulla Rivoluzione francese, costellata di citazioni lunghe e
ben scelte. Non deve stupire la totale mancanza di senso critico: nella
Histoire de la littérature anglaise Taine, lo storico, non solo non sente al­
cun bisogno di interrogarsi sul contenuto dell’attacco partigiano, spesso
falso, di un Burke impegnato nella quotidiana lotta politica, ma si ade­
gua senza incertezze al suo pamphlet. È totalmente distante dalla dura
critica di Burke fatta da Tocqueville in LAncien Regime. Nelle Origines
andrà ancora più lontano e farà suoi gli aspetti meno credibili della po­
lemica burkiana della quale imiterà il violento stile da crociata. È così
che l’odio di Burke per i rivoluzionari rivive con vigore, nella forma e nel
contenuto, sotto la penna dello storico francese per essere trasmesso di­
rettamente alla generazione della svolta del secolo. Si vedrà allora che le

77. Ibid., p. 291.


78. Ibid., pp. 288-300.
79. Ibid., p. 300.
80. Ibid., p. 316.

82
Lo scontro delle tradizioni

argomentazioni di Maurras non saranno differenti, anche se al fondato­


re deli’Action française non piaceva avere debiti con gli stranieri. Farà
quindi riferimento a de Maistre, per cui, verso il 1900, è difficile trovare
grosse differenze di principio tra l’opera di Burke e di de Maistre e la
i assa di scritti del teorico del nazionalismo integrale. Qui si pone subi­
to la domanda come mai anche Taine non si richiami all’autorità del­
l’autore delle Considérations sur la France. La risposta probabilmente sta
nel fatto che de Maistre si era fatto una fama di «reazionario» infre­
quentabile ed era del tutto di moda. Invece Burke era un autore rispet­
tabilissimo, considerato il rappresentante di quanto di meglio c’era nel
pensiero politico inglese dopo il 1789. Bisognerà aspettare Maurras per­
ché un ritorno a de Maistre non venga considerato un’aberrazione.
L’Inghilterra ideale descritta da Burke rappresenta per Taine il mo­
dello assoluto del regime perfetto. E Taine cita per pagine e pagine i pas­
saggi più netti, quelli che rappresentano il cuore del pensiero dell’auto­
re delle Riflessioni. Taine con Burke ricorda Renan con LIerder: i due
grandi nomi della Francia della fine dell’Ottocento trovano fonte di ispi­
razione solo nelle due culture politiche che hanno saputo resistere alla
Rivoluzione. «Non ci siamo lasciati vuotare dei nostri sentimenti per
riempirci artificialmente, come uccelli imbalsamati in un museo, di pa­
glia e cenci e insipidi frammenti di carta esaltanti i diritti dell’uomo.»81
Questa citazione di Burke spiega, secondo Taine, perché l’Illuminismo
non abbia avuto lo stesso effetto in Francia e in Inghilterra, perché i due
popoli si trovino, alla fine del XVIII secolo, in uno stato mentale com­
pletamente diverso e abbiano una visione opposta del bene politico e so­
ciale. È così che Taine può leggere con invidia quanto scritto da Burke:
«Noi consideriamo i re con venerazione, i Parlamenti con affetto, i ma­
gistrati con sottomissione, i preti con rispetto, i nobili con deferenza»82.
Lo stesso avviene quando continua a elencare, parlando in nome di
Burke e identificandosi con il proprio eroe a tal punto da utilizzare la pri­
ma persone plurale - Burke si esprimeva in nome di tutti gli inglesi - ogni
elemento che separa una cultura politica comunitaria e storicista dall’in-

81. Ibid., p. 318. Questo passo di Burke si trova in «Riflessioni sulla Rivoluzione
francese», in Scritti politici, a cura di Anna Mastelloni, Utet, Torino 1963, p. 256.
82. Ibid., p. 319.

83
Lo scontro delle tradizioni

dividualismo francese: «Noi ripudiamo questa ragione miope e volgare


che separa l’uomo dai suoi legami e non vede in lui che il presente, che
separa l’uomo dalla società e lo conta solo come una testa in un gregge».
«Noi disprezziamo» - qui si trova un citazione diretta di Burke - « “que­
sta filosofia di scolari e quest’aritmetica di doganieri” con la quale voi ri­
tagliate lo Stato e i diritti secondo i chilometri quadrati e le unità nume­
riche.»83 Quindi la Costituzione non è un contratto fittizio inventato da
Rousseau, ma un contratto reale ove tutte le parti si collegano le une al­
le altre e si sentono collegate, è un’eredità trasmessa da una generazione
all’altra; non c’è società senza credenze, nelle quali la giustizia ha la sua
origine, l’ateismo non è solo contro la ragione degli inglesi ma anche con­
tro i loro istinti, ed essi sono protestanti non per indifferenza ma per ze­
lo. Il rifiuto dei diritti della maggioranza e della sovranità del popolo è
assoluto. Qui Taine cita un altro brano importante: «Una vera aristocra­
zia naturale non è un interesse separato né separabile dallo Stato. Quan­
do le grandi moltitudini agiscono insieme sotto questa disciplina della
natura, io riconosco il popolo', ma se voi separate la specie volgare degli
uomini dai loro capi naturali per schierarli in battaglia contro i loro capi
naturali, in questo gregge sbandato di disertori e vagabondi io non rico­
nosco più il venerabile corpo che voi chiamate popolo»84. Infine si trova
l’orrore per l’eguaglianza o per il «livellamento sistematico» che, dopo
avere disorganizzato la società, porta al potere «avvocati attaccabrighe,
usurai spinti da torme di donne svergognate, di albergatori, di scrivani,
di garzoni di bottega, di parrucchieri, di ballerini di teatro»85. Secondo
Burke, ripreso da Taine senza esitazioni, quest’opera di distruzione è ir­
reversibile e il livellamento così prodotto finirà, «anche se la monarchia
riprendesse mai la sua autorità in Francia, con il consegnare la nazione al
potere più arbitrario che sia mai apparso sotto il cielo»86.

83. Ibid., pp. 322-323.


84. Ibid., pp. 321-322.
85. Ibid., p. 323. Qui Taine ha pensato di addolcire il testo di Burke, pur citandolo
tra virgolette, certo ritenendo che il pamphlettista irlandese si esprimesse in ter­
mini un po’ troppo forti: utilizzando il termine «albergatori» l’autore delle Ori­
gines getta un velo pudico sul testo originale che parla di «tenutari di alberghi,
di taverne e di bordelli» («keepers of hotels, lavems and brothels»),
86. Ibid., p. 324. Citazione diretta di Burke, abbastanza fedele anche se parziale.

84
Lo scontro delle tradizioni

A eccezione di Herder, nessun critico dei Lumi prima di Burke ave­


va attaccato con una tale violenza le basi stesse del pensiero illuminista.
Infatti, contrariamente al luogo comune oggi largamente accettato sia in
Francia che nel mondo anglofono, l’importanza di Edmund Burke non
sta nel suo ruolo di baluardo della tradizione del liberalismo inglese ma
nelle sue funzioni di fondatore - con Herder - di una nuova tradizione
politica, quella di un’altra modernità, fondata sul primato della comu­
nità e sulla subordinazione dell’individuo alla collettività8'. Presa nel suo
insieme, l’opera del pamphlettista irlandese intende in realtà seppellire
le tesi del giusnaturalismo e del contratto sociale, di cui il Secondo trat­
tato di Locke è il manifesto inglese più compiuto, e che è anche uno dei
fondamenti deH’Illuminismo. In effetti la concezione del bene politico
elaborata da Burke rifiuta la concezione kantiana dell’autonomia del­
l’uomo e la libertà si riduce a privilegi ereditati e consacrati dall’uso. Per
lui non esistono i diritti dell’uomo come li concepiva Locke8788. Ma il con­
tributo più importante di Burke, e di Herder prima di lui, fu quello di

87. Un Burke liberale, illuminista, per come lo intendono i neoconservatori, emer­


ge, cosa che non sorprende molto, dalle opere di Gertrude Himmelfarb - The
Roads to Modernity: The British, French and American Enlightenments, Knopf,
New York 2004 - e di Conor Cruise O ’Brien, The Great Melody: A Thematic
Biography and Commented Anthology of Edmund Burke, The University of Chi­
cago Press, Chicago 1992. Il pioniere moderno del culto di Burke fu Russell
Kirk, autore di The Conservative Mind, from Burke to Santayana, H. Regnery,
Chicago 1953 (con diverse riedizioni, l’ultima del 2001) e di Edmund Burke, À
Genius Reconsidered, Arlington House, New York 1967. Un lavoro collettaneo,
pubblicato in occasione del bicentenario della nascita di Burke, vuole mostrare
un pensatore giunto a salvare il liberalismo da se stesso e fornire una visione glo­
bale della sua opera, compresa la sua influenza fino ai giorni nostri: Ian Crowe
(a cura di), Edmund Burke, His Life and Legacy, Four Courts Press, Dublin 1997.
88. Nonostante ciò in certi ambienti liberalconservatori Burke è considerato un ere­
de di Locke: questa è la posizione sia di O ’Brien che di Isaiah Berlin. Si veda la
loro corrispondenza in O ’Brien, The Great Melody, appendice, pp. 609 e 612.
Qui si impongono due osservazioni: Berlin confessa di conoscere di Burke solo
quello che sanno tutti, senza rendersi conto che quello che sanno tutti è spesso
falso, mentre in Cruise O ’Brien il nome di Locke compare una sola volta (p. 451)
in un lavoro di seicento pagine. O ’Brien sa molto bene che Burke aborriva le ba­
si del pensiero di Locke e si azzarda ad avanzare l’idea di cui sopra, che sa esse­
re falsa, solo in un articolo della New York Review o f Books senza riprenderla nel
suo libro su Burke, se non nella corrispondenza con Berlin in appendice.

85
Lo scontro delle tradizioni

mettere in risalto la linea di confine che passava tra i sostenitori di una


spiegazione razionale dei fenomeni culturali, sociali e politici, e coloro
che privilegiano un approccio antirazionalistico.
Considerato uno dei più importanti pensatori politici dopo la Rivo­
luzione francese, Burke non ha scritto una sola opera teorica. Però tutto
il suo lavoro intellettuale e politico si è sviluppato in una cornice concet­
tuale chiara e ben definita, dalla quale non si è mai scostato. Dopo la sua
Inchiesta sul Bello e il Sublime, scritta nell775, all’inizio della sua carrie­
ra, per combattere il razionalismo e l’idea dei diritti naturali, che non ha
avuto seguito ma che trenta anni dopo contribuì ad alimentare le sue Ri­
flessioni sulla Rivoluzione francese, Burke non ha mai smesso di lottare
per la stessa causa89. Nel suo formidabile pamphlet vengono riprese e rac­
colte tutte le idee più importanti formulate nei suoi scritti e discorsi poli­
tici degli anni Settanta e Ottanta del Settecento, a volte riformulate per le
necessità della più grande lotta politica della sua vita. È per la loro carat­
teristica di condensato di una gran mole di scritti destinati all’attività po­
litica immediata e dove si esprimono tutti i temi del liberalismo bloccato,
centrato su un rifiuto globale e totale dei Lumi, che le Riflessioni hanno
avuto un successo immediato e durevole e anche varia discendenza. In
questo periodo che cambia la faccia del mondo, le opere di circostanza
che si rivelano essenziali per la posterità non costituiscono un’eccezione:
I Diritti dell’uomo di Paine possiedono lo stesso vigore e la stessa qualità,
le Ricerche sulla Rivoluzione francese di August Wilhelm Rehberg,90 che
tuttavia non hanno mai raggiunto la fama delle Riflessioni, sono in realtà

89. I primi scritti di Burke sono raccolti nel volume I, pubblicato nel 1997, di The
Writings and Speeches o f Edmund Burke, Clarendon Press, Oxford 1989-2000.
La pubblicazione di questa esemplare edizione scientifica (anche se a volte net­
tamente apologetica su alcune questioni spinose come la tratta dei neri) sotto la
cura generale di Paul Langford, non è ancora terminata. Le citazioni di questa
edizione figureranno come «edizione di Oxford».
90. Si dispone ora di una traduzione recente in francese del primo volume: Recher­
ches sur la Révolution française, traduction, annotations et introduction de Lukas
K. Sosoe, préface de Alain Renaut, Vrin, Paris 1998. Lo scritto di questo alto fun­
zionario dello Stato di Hanover, pubblicato nel 1793, rappresenta l’equivalente
tedesco delle Riflessioni di Burke. Non ha mai potuto avere in Germania, presso
un pubblico già «burkizzato», come lo definisce Alain Renaut, il successo godu­
to dal parlamentare britannico, e in Francia è rimasto praticamente ignoto. Non

86
Lo scontro delle tradizioni

lavori importantissimi, e negli Stati Uniti II Federalista ha ancora oggi


un’influenza ineguagliata.
«L’autore delle Riflessioni sulla Rivoluzione francese», dice Burke,
«ha udito molto parlare di questi moderni lumi, ma non ha ancóra avu­
to la buona fortuna di vederne molti.»91 In compenso ha visto come «una
rivoluzione silenziosa nel mondo morale precedeva e preparava la rivo­
luzione politica»,92 come «la camarilla letteraria formò anni addietro
qualcosa di simile a un vero e proprio piano per la distruzione della re­
ligione cristiana»93. E proprio il rifiuto totale della Rivoluzione, senza la
minima esitazione, che non ha smesso di colpire l’immaginazione dei
contemporanei e delle generazioni successive fino a oggi. Il primo a rac­
cogliere il testimone, l’anno stesso della morte del pamphlettista irlan­
dese, è de Maistre. Leggendo de Maistre dopo Burke, ci si chiede in virtù
di quale gioco di prestigio uno sia conosciuto come liberale rispettabile
mentre l’altro appaia come un iperreazionario per alcuni o come il pri­
mo fascista per un Isaiah Berlin. Di sicuro non si trovano in Burke le fa­
mose formule demaistriane - «la guerra è divina» - o le immagini di car­
neficina che abbondano nell’autore delle Soirées de Saint-Pétersbourg,

c’è dubbio che il libro di Rheberg sia superiore a quello di Burke, abbia una
profondità che manca al pamphlettista britannico, ma non presenti vera origina­
lità rispetto alle Riflessioni. Si vedano per esempio le pp. 99-104 (114-117 del ci­
tato testo francese) sulla negazione dei diritti universali, del razionalismo, dell’e­
guaglianza tra gli uomini, dell’idea di contratto, dell’autonomia dell’individuo e
delle generazioni rispetto a quelle precedenti o della possibilità di cambiare una
Costituzione a maggioranza. Dire che «la Dichiarazione francese è un’accozzaglia
di massime filosofiche molto approssimative» e che «contiene solo diritti del cit­
tadino e per niente i doveri», affermare che «lo spirito metafisico si era impadro­
nito di tutte le menti dell’Assemblea nazionale» (pp. 135-136), nel 1793, e ancor
più in seguito, non era una novità per i critici della Rivoluzione. Che la poca fa­
ma di Rehberg rispetto alla gloria di Burke sia un’ingiustizia è sicuro, ma è pro­
prio il successo di Burke (che per altro Rehberg non manca di citare), durato fi­
no ai nostri giorni, che contribuisce all’oblio di tutti gli altri scritti dell’epoca ba­
sati sugli stessi principi miranti a scalzare le fondamenta dei Lumi francesi.
91. Edmund Burke, «Ricorso dai nuovi agli antichi Whig», in Scritti politici, p. 523.
92. Burke, «Deuxième lettre, sur le génie et le caractère de la révolution française,
dans ses rapports avec les autres nations» (Deuxième lettre sur la paix régicide),
in Réflexions sur la révolution de France, p. 600.
93. Burke, «Riflessioni sulla Rivoluzione francese», in Scritti politici, p. 285.

87
Lo scontro delle tradizioni )
/

ma il suo incitamento alla forza per soffocare nel sangue il nuovo regime
francese, il suo messianesimo antirivoluzionario, il suo orrore per quella
«falsa filosofia» che aveva infettato la società fino alle persone eminenti
di questo mondo non sono affatto inferiori alla veemenza del diplomati­
co savoiardo94. Ma per Burke la Rivoluzione non è il prodotto della vo­
lontà divina, è l’operato degli «uomini cattivi», quegli intellettuali che di­
struggono la religione, che scalzano la legittimità dell’ordine sociale tac­
ciandolo di essere profondamente ingiusto; essa è il prodotto del falli­
mento di una classe dirigente indebolita dalla prosperità come da una
falsa filosofia e dell’avanzata di un’altra classe sociale dagli oscuri dise­
gni. Da una parte Burke fa un’apologià òdi!Ancien Regime non ripresa
nemmeno da critici dei Lumi e della Rivoluzione come Carlyle, Renan o
Taine ma che si ritroverà in de Maistre e in parte anche in Maurras: egli
vede nell’Europa degli anni precedenti la Rivoluzione francese la più
bella età della storia umana95. Non pensava, come Tocqueville, che la vi­
ta del contadino francese nel XVIII secolo fosse più dura che nel Me­
dioevo96. Però egli comprende il carattere conflittuale della società fran­
cese e, come Carlyle, è consapevole della decadenza che caratterizza i
suoi ceti privilegiati.
Proprio Burke, il primo grande critico dell’intellettualismo, è stato
anche il pioniere della guerra totale, il primo a capire che si sarebbe po­
tuto bloccare la filosofia dei Lumi solo se le si fosse opposta una con­
trofilosofia altrettanto potente, poggiata su baionette tanto acuminate

94. Michael Freeman pensa a ragione che in un testo del 1795, Letter to William El-
lìot, Burke fornisca il miglior sunto del suo punto di vista sulle cause della Rivo­
luzione in Francia. Si veda il suo «E. Burke and thè Sociology of Revolution»,
Politicai Studies 25 (4), 1977, p. 466. In effetti questo scritto riprende per som­
mi capi ma in modo più sintetico tutte le argomentazioni già anticipate in modo
più diffuso nelle Riflessioni.
95. E. Burke, Letter to William Elliot, 26 May 1795, The Wrìtings and Speeches of
Edmund Burke (edizione di Oxford), voi. IX, p. 39. Questa lettera fu scritta in
risposta a una dura critica delle idee di Burke fatta dal duca di Norfolk ]’8 mag­
gio 1795 alla Camera dei lord. Norfolk pensava che non solo le idee di Burke
«distruggevano i diritti costituzionali degli inglesi, ma erano diametralmente op­
poste ai principi whig [che erano] i principi della Rivoluzione del 1688». Si ve­
da il testo completo di queste lettere alle pp. 29-44.
96. Alexis de Tocqueville, E Antico regime e la Rivoluzione, p. 209.

88
Lo scontro delle tradizioni

quanto quelle giacobine. Burke fu il primo a lanciare una campagna


ideologica che egli voleva vedere concretizzata con l’invasione della
Francia e la distruzione totale deU’aborrito regime. Quel sedicente libe­
rale non arretrava di fronte a nessun mezzo in grado di estirpare il male.
Per questo stesso motivo fu il primo teorico del cordone sanitario, l’in­
ventore dell’idea secondo la quale era utile contenere la peste ideologica
prima di partire alla riconquista. Fino ai suoi ultimi giorni non ha mai
smesso di predicare la guerra a oltranza contro la Francia rivoluzionaria,
la distruzione del regime, la conquista del territorio e la restaurazione
dell’antico ordine, come misura difensiva di fronte alla minaccia morta­
le che gravava sull’intero ordine europeo. Secondo lui, dopo avere rifiu­
tato le élite costituite, la monarchia, l’aristocrazia e il clero, i francesi ave­
vano cessato di costituire uno Stato, di essere un corpo, una corporazio­
ne, quindi una nazione. La nazione francese si trovava a Coblenza con
gli emigrati; a Parigi si era insediato il regno delle canaglie.
Burke è anche l’uomo che ha inventato il metodo della delegittima­
zione dell’avversario. Questa riguarda i grandi nomi della filosofia illu­
minista, gli eletti all’Assemblea nazionale, i leader della Rivoluzione ma
anche il popolo in rivolta contro l’ordine naturale delle cose, cioè il po­
tere reale, le gerarchie sociali, i privilegi della Chiesa. Per tutti gli anni
Novanta del Settecento Burke mostra un profondo disprezzo tanto per
il popolo, per la sua ingratitudine verso un regime che aveva assicurato
al paese ricchezza e benessere, quanto per i capi della Rivoluzione. L’au­
tore delle Riflessioni inaugura così una lunga tradizione di radicale de­
nigrazione delle élite rivoluzionarie che ritroveremo senza grandi modi­
fiche per tutto l’Ottocento, in Taine e nei maurrasiani, fino alla violenta
critica della Rivoluzione fatta alla fine del Novecento in occasione del
suo bicentenario. Les Déracinés di Barrès, così come L’Etape di Bourget,
si collegano al rigetto burkiano dell’uomo del popolo. L’odio di Burke
per i philosophes illuministi, Rousseau in testa, è inferiore solo all’odio
per il popolo di Parigi che ha preso d’assalto Versailles o per l’Assem­
blea nazionale che ha promulgato la Dichiarazione dei diritti dell’uomo.
Insomma, Burke inaugura una tradizione che il suo quasi contem­
poraneo de Maistre prosegue. I loro successori, i conservatori rivoluzio­
nari della fine del X IX e dell’inizio del X X secolo in Francia e in Ger­
mania, Maurras o il suo seguace d’oltremanica, Thomas Ernst Hulme,
teorico del vorticismo, traduttore di Sorel in inglese, Lagarde, Langbehn

89
Lo scontro delle tradizioni

o Spengler, si inscrivono a loro volta in questa linea di pensiero. Burke


ha più affinità con i neoconservatori americani di oggi che con i veri con­
servatori inglesi del X IX e X X secolo come lord Acton o Michael Oake-
shott. Infatti Burke è diventato famoso sia per il suo appello alla profon­
dità e alla ricchezza del reale, di ciò che è misurabile e concreto, all’im­
portanza del fatto indiscusso, cioè alla storia, contro le «astrazioni», le
«chimere», le «nubi» e le «illusioni», sia per la sua invocazione alla guer­
ra a oltranza contro il nemico ideologico e culturale, per parlare come
Maurras e i neoconservatori americani della fine del Novecento. A lui si
deve l’idea per cui qualsiasi cambiamento dell’ordine esistente assume
necessariamente i contorni di un’utopia e non può concludersi che in un
disastro. A lui risale anche l’invenzione dell’idea secondo la quale met­
tere in discussione il mondo così com’è rappresenta una dichiarazione di
guerra all’Occidente cristiano.
E sempre Burke a esigere di attenersi ai fatti: ciò che esiste sotto i no­
stri occhi ci arriva da lontano, per questa ragione assume legittimità e de­
ve essere preservato. Ogni oltraggio a un ordine consacrato dalla storia
costituisce un peccato mortale contro la civiltà. A lui si deve anche l’idea
dell’addomesticamento delle masse che Max Weber avrebbe sviluppato
un secolo dopo il maggior nemico della democrazia mai apparso in In­
ghilterra fino a Carlyle. Alla fine del X IX e all’inizio del X X secolo il
principio dell’addomesticamento delle masse per farne una macchina da
guerra contro la democrazia assumerà l’aspetto della destra rivoluziona­
ria. L’obiettivo resterà lo stesso, solo i mezzi si saranno evoluti.
La campagna di Burke contro i Lumi si è svolta in tre tappe. Con­
trariamente al luogo comune, il suo impegno contro la Rivoluzione ac­
caduta a Parigi ha potuto sorprendere solo coloro che avevano mal com­
preso sia il senso dei suoi primi scritti filosofici che gli obiettivi della sua
azione politica, comprese le questioni americane. Perche Burke ha lan­
ciato l’offensiva contro l’essenza deH’Illuminismo già all’apparizione, nel
1755, del secondo Discours di Rousseau. Tuttavia il suo odio per questo
autore scoppia in tutta la sua virulenza e anche in tutta la sua banalità nel
1791. Rousseau è la personificazione del male, di tutto ciò che è basso,
spregevole e pericoloso per la morale e per la politica cristiane. Corrut­
tore della morale, il ginevrino è anche il distruttore del gusto e dei pre­
giudizi aristocratici. Incarna il più grande fra tutti i peccati, l’orgoglio: è
lui che vede il fondamento dell’autorità e della sovranità nel patto tra gli
Lo scontro delle tradizioni

uomini. Per Burke, Rousseau, più che Voltaire, è il maître à penser degli
uomini che hanno messo le mani sulla Francia, perché «il vizio [...] è in
lui in tutto il suo splendore»97. Burke fustiga l’autore del Discours sur l’o­
rigine de l’inégalité per avere messo in piedi una teoria dell’eguaglianza
sociale basata sulla sua concezione di libertà e gli rimprovera il ricorso a
un diritto naturale astratto staccato dal cristianesimo98. Sotto la sua in­
fluenza è iniziata un’immensa rivoluzione che cambia i costumi, la poli­
tica e la società. Sotto l’impatto del pensiero di Rousseau spariscono lo
spirito di cavalleria e i «pregiudizi aristocratici»99. Si giunge infine quel­
la scena pittoresca il cui ridicolo non è forse sfuggito ai contemporanei:
i capi dell’Assemblea nazionale «litigano con calore su chi somigli di più
a Rousseau. Si sono appropriati realmente del suo sangue, del suo spiri­
to e delle sue abitudini. Lo studiano, lo meditano, sfogliano i suoi scrit­
ti in ogni momento che possono sottrarre alle laboriose macchinazioni
del giorno e alle dissolutezze della notte»100.
Queste frasi appartengono alla terza fase della guerra ingaggiata da
Burke contro l’Illuminismo francese. La prima è quella dei trenta anni
che precedono il 1789, la seconda produce le Riflessioni, la terza è quel­
la che segue immediatamente il suo pamphlet, con l’appello alla crocia­
ta contro la Francia dei diritti dell’uomo fino all’annientamento del ma­
le. I primi rintocchi della Rivoluzione confermano le sue intime convin­
zioni espresse fin dai primi colpi sferrati a Rousseau. Infatti la prima let­
tura di Locke lo aveva già convinto: il pensiero emancipato del Secondo
Trattato e il pensiero rivoltoso del secondo Discorso minacciavano un’in­
tera civiltà, la grande civiltà cristiana. Per lui la Rivoluzione francese non
era uno sfortunato incidente ma la messa in pratica delle idee del XVIII
secolo: era la prima rivoluzione totale della storia. Se egli non fosse sta­
to preparato intellettualmente e moralmente da tanto tempo, se la sua
avversione per i Lumi non avesse già raggiunto l’apice, l’esplosione del­
le Riflessioni non si sarebbe potuta verificare con tale violenza e tale ra-

97. Burke, «Lettre à un membre de l’Assemblée nationale», in Réflexions sur la ré­


volution de Prance, p. 352.
98. Ibid., pp. 351-357. Si veda anche Michel Ganzin, La Pensée politique d’Edmund
Burke, Librairie générale de droit et de jurisprudence, Paris 1972, pp. 112-114.
99. Ibid., pp. 352 e 355.
100. Ibid, pp. 351-352.

91
Lo scontro delle tradizioni

pidità. Burke, nel quale Tom Paine vedeva tutto sommato «un metafisi­
co»,101 non aveva paura delle idee in sé, temeva le idee nuove, le idee «il­
luminate» che egli chiamava, per meglio denigrarle, «astrazioni»: in altri
termini, le idee che offrivano l’immagine o il modello di un avvenire di­
verso dall’ordine esistente. Per combattere i fondamenti teorici della
scuola giusnaturalista, Burke formula i principi dello storicismo. La ca­
duta dclYAncien Régime in giugno, la notte del 4 agosto, la Dichiarazio­
ne dei diritti dell’uomo, le giornate del 5 e 6 ottobre dimostravano la po­
tenza del pensiero illuminista, quindi del pericolo mortale che ormai at­
tendeva l’Europa. E assurdo sostenere che Burke si sia mosso all’attacco
nel 1789 perché aveva previsto il Terrore e la lunga guerra europea. Ave­
va lanciato il suo assalto contro la Francia perché la trasformazione de­
gli Stati generali in Assemblea nazionale, la cancellazione degli antichi
privilegi e il trasferimento forzato del re e della regina rappresentavano
la conclusione dell’ordine cavalleresco ed esprimevano la fine dell’unico
ordine sociale e politico degno, secondo lui, di una società civile.
Questo scontro di civiltà, «uno dei più grandi spettacoli che occhio
umano abbia mai visto», è stato a sua volta definito da de Maistre come
una «lotta a oltranza del cristianesimo e del filosofismo»1021034. Tuttavia, lo
vedremo più avanti, l’unico cristianesimo degno di questo nome per de
Maistre è quello di prima della Riforma. Il protestantesimo, fondatore
dell’individualismo, si accompagna al giacobinismo ed è all’origine della
più grave caduta della «ragione umana» mai vista nella storia105. Il XVI
secolo rappresentò una prima insurrezione, quella dell’individuo contro
la disciplina collettiva, ma è solo nel XVIII secolo che « l’empietà diven­
ne realmente una potenza [...]. Dal palazzo alla capanna, essa si intro­
duce dappertutto e infesta tutto»101. Sono gli intellettuali, coloro «che si
chiamavano filosofi», che scatenano una «guerra mortale» al cristia-

10]. Thomas Paine, I diritti dell’uomo, p. 238.


102. J. de Maistre, Considerazioni sulla Francia, a cura di Massimo Boffa, Editori
Riuniti, Roma 1985, p. 40.
103. De Maistre, «Réflexions sur le Protestantisme», in Ecrits sur la Révolution,
PUF, Paris 1989, p. 37.
104. De Maistre, «Saggio sul Principio Generatore delle costituzioni politiche e del­
le altre intituzioni umane», trad. di Lamberto Crociani, in Scritti politici, Can-
tagalli, Siena 2000, p. 104.

92
Lo scontro delle tradizioni

nesimo105. Tutti gli scienziati, dice de Maistre, tutti gli uomini di lettere,
tutti gli artisti francesi hanno formato «dall’inizio del secolo una vera
congiura contro i pubblici costumi»: dopo essere riusciti a conquistare i
grandi signori e le donne, quei congiurati hanno «fatto in Francia disa­
stri incredibili»106. Hanno dato il loro contributo a quella corruzione e
degradazione generale che regnavano in Francia alla vigilia della Rivolu­
zione107. Hippolyte Taine non dirà niente di diverso, Maurras riprenderà
alla lettera questi temi.
L’identità dei grandi colpevoli non sorprende affatto: Montesquieu,
che sta a Licurgo come Batteux sta a Omero o a Racine, Locke, che fal­
lì clamorosamente quando volle dare leggi agli americani, Rousseau, uno
dei più pericolosi sofisti del suo secolo, l’uomo che forse ha errato più di
tutti, e infine l’arcinemico, Voltaire108. In alcune pagine del primo volu­
me delle Soirées de Saint-Fétersbourg, de Maistre versa il suo fiele sullo
«spirito corrotto» di Voltaire: «Osservate la fronte abietta che il pudore
non colorò mai, i due crateri spenti nei quali sembrano ancora ribollire
la lussuria e l’odio [...] la smorfia spaventosa [...] e le labbra strette da
una malizia crudele come una molla pronta a scattare per lanciare la be­
stemmia o il sarcasmo»109. La sfortuna più grande è che «le sue opere non
sono morte; esse vivono, ci uccidono»110.
Il «torrente rivoluzionario» la cui sorgente sta in «uno dei più gran­
di flagelli del genere umano»,111 la Riforma, rivela due caratteristiche es­
senziali: sebbene abbia nel tempo preso direzioni diverse, il suo caratte­
re generale non è mai mutato;112 quel carattere è « satanico» e «la distin­
gue da tutto ciò che si è visto finora, e forse da tutto ciò che si vedrà in

105. Ibid., p. 105.


106. De Maistre, Écrits sur la Révolution, p. 78.
107. Ibid., p. 79.
108. De Maistre, Le serate di Pietroburgo o Colloqui sul governo temporale della
Provvidenza, a cura di Alfredo Cattabiani, trad. di Lorenzo Fenoglio e Anna
Rossi Cattabiani, Rusconi, Milano 1971, pp. 63-64 e 117-118; Écrits sur la Re­
volution, pp. 133-134 e 144.
109. De Maistre, Le serate di Pietroburgo, pp. 197-199. Si vedano anche le pp. 195-
200.
110. Ibid., p. 196.
111. De Maistre, Considerazioni sulla Francia, pp. 6 e 23.
112. Ibid., p. 34.

93
Lo scontro delle tradizioni

futuro»11’ . Come Burke prima di lui, de Maistre vede nella Rivoluzione


«un evento unico nella storia» e ciò che la caratterizza «è che essa è mal­
vagia radicalmente; [...] è il più alto grado di corruzione che si conosca;
è impurità allo stato puro»11314. Per de Maistre le grandi rivoluzioni sono
guidate da una logica, sono il prodotto di una necessità, non sono mai
eventi fortuiti o accidentali. La constatazione secondo la quale «la rivo­
luzione francese guida gli uomini più di quanto gli uomini non la guidi­
no» si applica più o meno a tutte le grandi rivoluzioni; tuttavia questa os­
servazione «non è mai stata più evidente che in questa epoca»115. Questa
«forza travolgente che piega tutti gli ostacoli» fa sì che «perfino gli scel­
lerati che sembrano dirigere la rivoluzione non ne sono che meri stru­
menti». Per de Maistre gli uomini che sono stati spinti sulla scena non
hanno mai pensato a istituire il governo rivoluzionario o il regime del
terrore. La Repubblica fu istituita senza che essi sapessero quello che
stavano facendo: vi furono insensibilmente guidati dalle circostanze116.
Fu così che vide la luce «il più orribile dispotismo di cui la storia faccia
menzione»117. Infatti non si era mai vista «una tirannia più bassa e più as­
soluta» di questa «tirannia plebea»118. Renan e Taine si esprimeranno
nello stesso spirito ed è proprio questa idea che servirà a strutturare la
scuola totalitaria successiva alla Seconda guerra mondiale.
Infatti è da questo varco che si introduce l’autore delle Origines de
la F rance contemporaine. Lo spirito è lo stesso e lo stile è spesso simile.
Il terzo libro della prima parte delle Origines, «L’Ancien Régime», è de­
dicato alla formazione dello spirito rivoluzionario attraverso una «com­
binazione» del «sapere scientifico» e dello «spirito classico», il quarto è
dedicato alla sua diffusione119. L’attacco lanciato contro l’ordine costitui­
to è totale e prende le dimensioni di una guerra contro tutta una civiltà,

113. lbid., p. 36.


114. Ibid., p. 33 (corsivo nel testo).
115. lbid., p. 5. Si veda anche p. 6.
116. lbid., pp. 4-5.
117. lbid., p. 5.
118. lbid., p. 79.
119. Taine, Le origini della Francia contemporanea. L’antico regime, pp. 319-368 e
449-566. In questa critica al classicismo Maurras vedrà la grande debolezza
dell’opera di Taine.

94
Lo scontro delle tradizioni

la grande civiltà cavalleresca e cristiana. La Rivoluzione è il prodotto di


questa campagna intellettuale: la ragione si batte per la distruzione del­
la tradizione e questa «grande spedizione» si compie in «due tappe». La
prima è quella nella quale Voltaire guida «l’esercito filosofico» contro il
«pregiudizio ereditario»: in questa campagna si arruola Montesquieu ed
entrambi, descrivendo la grande differenza di costumi, religioni e sette
religiose, regimi e organizzazioni sociali, in Europa e altrove, dei loro
tempi e dell’antichità, scalzano i fondamenti della legittimità dell’ordine
esistente in Francia. Taine, come si vede, non è certo un fanatico del plu­
ralismo culturale. Ha un ordine di priorità ben definito. «Fin da questo
momento, l’incanto è rotto. Le antiche istituzioni perdono il loro presti­
gio divino; sono opera umana, frutto del luogo e del tempo, nate dalla
convenienza e dalla convenzione. Da tutte queste brecce entra lo scetti­
cismo.»120 Per uno come Voltaire la metà dei costumi e delle pratiche di
una «nazione bene ordinata» è fatta di abusi121. Nei confronti del cristia­
nesimo lo scetticismo si trasforma subito «in ostilità pura e semplice, in
polemica lunga e accanita». Alla fine non resta che il deismo122.
La «seconda spedizione filosofica» è costituita da due armate. La pri­
ma è quella degli enciclopedisti, da Diderot e D ’Alembert fino a D ’Hol-
bach, Helvétius, Condorcet, Lalande e Volney, tutti molto diversi tra lo­
ro ma concordi nell’avversione per la tradizione e nel comune grido di
guerra, ritorno alla natura e abolizione della società125. La seconda arma­
ta è «il battaglione di Rousseau e dei socialisti»: qui Taine dedica qualche
pagina eloquente, spesso perspicace, al nemico principale, che per altro
sembra venire direttamente dalla penna di Carlyle, e fissa per un secolo
la struttura della critica a quest’«uomo strano, originale e superiore ma
che portava in sé fin dall’infanzia un germe di follia [...], poeta vero e
poeta malato nello stesso tempo che, invece delle cose reali vedeva i pro­
pri sogni, viveva un romanzo», quell’uomo che «convoca le generazioni
con la tromba del giudizio universale»124. Per Taine, la visione dell’uomo
e in generale del mondo esterno professata dall’autore del Contrai social

120. Ibid., p. 388.


121. Ibid., p. 389.
122. Ibid, p. 388.
123. Ibid, pp. 389-398.
124. Ibid., pp. 399-400.

95
Lo scontro delle tradizioni

è il prodotto della sua visione di se stesso: siccome egli attribuisce solo al­
le circostanze le sue bassezze e i suoi vizi, pensa che sia lo stesso per l’uo­
mo. La natura è buona, nella struttura umana non ci sono difetti, è la so­
cietà l’unica responsabile di tutte le sventure. Taine moltiplica le citazio­
ni e le frasi famose apportatrici di tutte le sventure - «la natura ha fatto
l’uomo felice e buono, la società lo corrompe e lo fa miserabile» - per mo­
strare come la dottrina spiritualista si formi attorno a questa idea centra­
le. All’uomo non basta il-piacere personale, gli occorrono ancora la pace
della coscienza e le effusioni del cuore. Nessuno dei suoi impulsi e delle
sue inclinazioni naturali, quelle che ha in comune con gli animali, sono
cattive in sé. Il male è nel governo degli uomini: togliete queste dighe,
opere della tirannia e della consuetudine, e la natura riprenderà la sua an­
datura retta e sana, l’uomo non si ritroverà soltanto felice ma anche vir­
tuoso125. In base a questo principio l’attacco comincia, dice Taine. Storico
delle idee nutrito di Burke e di Carlyle, egli analizza la rivolta scatenata
da Rousseau. La sua è un’interpretazione priva di grande originalità, uni­
dimensionale, ma l’essenziale non è questo. Sono spesso le interpretazio­
ni più banali che colpiscono l’immaginazione e diventano idee correnti.
Per Taine, l’assalto condotto dall’autore dei due Discours è il più vio­
lento, è l’attacco globale che va infinitamente più lontano di quello di
Montesquieu e di Voltaire o di quello di Diderot e di D ’Holbach. È l’af­
fermazione del diritto alla felicità immediata, inseparabile dalla nobiltà
riconquistata dal soggetto umano, è il rifiuto totale dell’ordine esistente.
In poche pagine stringate, Taine cita i testi classici del Rousseau del Di­
scours sur l’inégalité e del Contrai social, quelli che hanno determinato la
sua gloria in campo repubblicano e contemporaneamente ne hanno fat­
to oggetto di accusa da parte di tutti i sostenitori del vecchio ordine: la
società politica all’origine fu «un contratto iniquo [...] concluso tra il ric­
co scaltro e il debole ingannato [...] [che], col nome di proprietà legale,
consacrò l’usurpazione del suolo». Oggi è un contratto ancora più ini­
quo, «grazie al quale [...] un pugno di gente annega nel superfluo men­
tre la moltitudine affamata manca del necessario». Qui Taine riprende la
sua analisi per mostrare come, secondo Rousseau, sia su questa inegua­
glianza fondamentale, destinata ad aumentare con il tempo, che poggia il

125. ìbid.,pp. 399-404.

96
Lo scontro delle tradizioni

potere arbitrario, fino al punto in cui «la soggezione ereditaria e perpe­


tua del popolo è apparsa di diritto divino, come il dispotismo ereditario
e perpetuo del re»126. Stabilita in questo modo l’illegittimità dell’ordine
esistente, resta solo da affermare che non c’è diritto se non per consenso
e che, alla fine, all’uomo divenuto adulto non resta che compiere un at­
to di ragione per abbattere quell’autorità che si dice legittima. In questo
modo tutte le istituzioni furono scalzate alla base e la filosofia dominan­
te ha tolto ogni autorità al costume, alla religione, allo Stato127.
In questo modo, in nome della sovranità del popolo, Rousseau - nel­
la sua Rivoluzione francese Carlyle parlerà del «Vangelo secondo Jean-Jac-
ques» - toglie autorità e forza al governo, rende semplici ufficiali gli eletti
dal popolo, e i suoi magistrati «dei lavoratori forzati dello Stato, più di­
sgraziati di un domestico o di un manovale»128. Un governo che cercasse
di fare il suo dovere diventerebbe immediatamente un usurpatore, contro
il quale l’insurrezione non costituirebbe solo il più santo dei diritti, ma an­
zi un dovere: «Il dogma della sovranità del popolo, interpretato dalla fol­
la, produrrà la perfetta anarchia, fino al momento in cui, interpretato dai
capi, produrrà il dispotismo perfetto»129. Qui ci troviamo al centro di un
aspetto fondamentale dell’analisi di Taine che, alla fine del X IX secolo,
avrebbe avuto un ruolo fondamentale nella lotta contro il principio del­
l’autonomia dell’individuo e contro la democrazia che ne deriva. Perché è
proprio Hippolyte Taine, per il quale la Rivoluzione francese è il più gran­
de disastro culturale di tutti i tempi, nel quale Nietzsche vede il più gran­
de storico vivente della sua epoca, che avrebbe alimentato la riflessione
storica dei critici dell’Illuminismo fino alla metà del Novecento.
In effetti Taine, con un linguaggio moderno e con alle spalle l’espe­
rienza delle rivoluzioni del 1848, della Seconda Repubblica, di Sedan e
della Comune, sviluppa l’idea, destinata a un grande avvenire, secondo
la quale la teoria della sovranità popolare ha un duplice aspetto. Da un
lato può condurre a un estremo indebolimento dell’esecutivo - «la de­
molizione permanente del governo» - dall’altro sfocia «nella dittatura

126. Ibid, pp. 411-412.


127. Ibid., p. 413.
128. Ibid., p. 434.
129. Ibid., p. 435.

97
Lo scontro delle tradizioni

illimitata dello Stato»1'0. Qui si trova l’origine prima dell’idea per la qua­
le la Rivoluzione è all’origine di tutte le dittature del X X secolo. Sia per
10 storico Jacob Talmon che per il filosofo Isaiah Berlin, e in pratica an­
che per altri studiosi della loro generazione, Rousseau è ancora e sempre
11 grande responsabile dell’ascesa della «democrazia totalitaria».
E proprio a Tocqueville, che per una volta Taine non trascura di ci­
tare, che si deve la sistematizzazione dell’idea secondo la quale, dal mo­
mento in cui il principio della sovranità popolare è acquisito, VAncien
Regime centralizzatore e distruttore delle libertà locali e parlamentari
porta direttamente a un dispotismo di tipo nuovo1’1. Solo che, contraria­
mente a Burke e a Taine, Tocqueville pensava che si sarebbero potuti su­
perare i pericoli della democrazia facendo appello alle sue virtù.
Seguendo Burke, Taine riconduce il dispotismo democratico all’idea di
un contratto sociale, prima e unica fonte del diritto. Nel momento in cui il
contratto tra «esseri perfettamente eguali e liberi, esseri astratti, specie di
unità matematiche, tutte dello stesso valore» è concluso, «tutti gli altri pat­
ti», cioè lo stato di fatto al quale dopo Burke è stato affibbiato il nome di
«patto storico» da tutti i critici dell’Illuminismo, «diventano nulli». In que­
sto modo vede la luce «il nuovo Stato», contro il quale nessuna delle vec­
chie istituzioni - Chiesa, famiglia, proprietà - può accampare diritti. Que­
sto Stato non è però lo Stato all’americana, una sorta di società di mutua
assicurazione. Taine non nutre alcuna simpatia per lo Stato concepito co­
me «una macchina utilitaria», quell’«impertinenza americana», come dice­
va Renan, ma non c’è nulla di peggio di quel «convento democratico che
Rousseau costruisce sul modello di Sparta e Roma», dove «l’individuo non
è niente» e «lo Stato è tutto». Questo «primogenito della ragione, suo fi­
glio unico e solo rappresentante», viene al mondo nel momento in cui «al­
la sovranità del re, il Contrai social sostituisce la sovranità del popolo»130132.
Nell’alienazione dell’individuo e nel suo asservimento a quel mostro
che si chiama sovranità popolare, Taine vede il fine di tutta l’opera di
Rousseau. Moltiplica le citazioni famose per dimostrare la totale sotto-
missione richiesta all’individuo con questo processo fondativo: prima

130. Ibid.
131. lbid.,p. 437.
132. Ibid., pp. 435-438.

98
Lo scontro delle tradizioni

del contratto sociale l’uomo era proprietario di beni, con il contratto so­
ciale si è alienato ed è divenuto debitore dello Stato. Nel «nostro con­
vento laico», dice, «tutto ciò che ogni monaco possiede è un dono revo­
cabile del convento»1” . Ma questo convento è anche «un seminario» nel
quale l’inquadramento dei cittadini è il primo pensiero dello Stato. Taine
illustra che cosa fosse per Rousseau la formazione ideale del cittadino:
quella auspicata da Platone nella Repubblica, quella di Licurgo e quella
praticata a Sparta. Il suo obiettivo era rendere ogni individuo parte in­
tegrante di un tutto, poiché esiste solo per e attraverso l’insieme. Per
mezzo della formazione e dello stile di vita, fin dalla più tenera infanzia,
i futuri cittadini si abituano a riconoscere nella decisione del popolo riu­
nito l’unica decisione legittima. Per dare una visione d’insieme dell’or­
rore che si prepara, Taine evoca il Code de la nature di Morelly, che com­
pleta il lavoro di Rousseau: Morelly - che a ragione Taine considerava
marginale, ma che in questo cotesto gli tornava utile - sarebbe stato uno
dei fondamenti della dimostrazione di Talmon nelle Origini della demo­
crazia totalitaria. Si delineano così i contorni dello Stato totalitario. Il ter­
mine sarebbe apparso solo un secolo dopo, ma i principi di base di que­
sto nuovo fenomeno sono chiaramente enunciati. L’interesse primario
dello Stato nuovo, dice Taine, «sarà sempre quello di formare volontà
che gli assicurino la durata, [...] di sradicare dalle anime le passioni che
gli sarebbero contrarie e di seminarvi quelle che gli saranno favorevoli
[...]. In un convento bisogna che i novizi siano educati da monaci; altri­
menti, quando saranno cresciuti, non vi sarà più convento»1’4.
Infine, e qui sta forse l’essenziale, quel convento laico ha una religio­
ne, «una religione laica», o in altri termini un’ideologia dominante con il
monopolio della legittimità. Ecco dunque l’altra grande idea che la scuo­
la totalitaria degli anni Cinquanta del Novecento trarrà dalle Origines. La
grande specificità dello Stato nuovo consiste nella sua ostilità «per le as­
sociazioni diverse da sé, perché sono sue rivali, l’ostacolano, accaparrano
la volontà e falsano il voto dei loro membri»1” . Qualsiasi opinione, qual­
siasi ideologia, qualsiasi organizzazione politica e sociale che non sia di-1345

133. Ibid., p. 440.


134. Ibid., p. 442.
135. Ibid.

99
Lo scontro delle tradizioni

rettamente al servizio dello Stato contribuisce a spezzare l’unità sociale e


per questo motivo è da proibire. Questo è per Taine il senso dell’idea di
volontà generale. I testi d’appoggio sono i passi famosi del Contrai social
che d’ora in poi serviranno a tre generazioni di critici deU’Illuminismo:
«E importante [...] che nello Stato non vi siano società parziali e che
ogni cittadino dia la propria opinione secondo la propria volontà»1’6.
I critici di Rousseau, dalle origini fino agli anni Cinquanta, mettono
l’accento sulla prima parte di questa frase. Nel seguito vedono la riduzio­
ne del corpo dei cittadini a un pulviscolo di individui, senza difese di fron­
te alla macchina dello Stato. Nel suo insieme, questo testo sembra loro get­
tare le basi del totalitarismo di sinistra. Kant invece intendeva il principio
della volontà generale in tutt’altro modo: per lui lo scopo al quale mirava
Rousseau era di assicurarsi che ogni individuo potesse partecipare alla for­
mazione della volontà generale e non dovesse obbedire a leggi diverse da
quelle che ha contribuito a formulare. In altri termini, se si accetta Kant,
Rousseau avrebbe posto proprio i principi della democrazia.
Qui Taine prosegue la sua dimostrazione, ma si sposta senza alcun
passaggio intermedio da Rousseau a Louis-Sébastien Mercier, autore di
L!an deux mille quatre cent quarante e di un centinaio di altri volumi, «in­
faticabile imbrattacarte» per gli uni, il «Rousseau del ruscello» o ancora
la «caricatura di Diderot» per altri137. L’autore delle Origines non pensa

136. Ibid. Taine cita il contratto sociale (a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, To­
rino 1966), li, 3, p. 43. La citazione è tagliata ma colpisce soprattutto il fatto
che Taine ometta il seguito: «Nel caso in cui non si possa fare a meno di società
parziali, è necessario allora moltiplicarne il numero e prevenirne la disugua­
glianza, come fecero Solone, Numa, Servio». Il cap. IV, ultimo del libro, pp.
171-184, tratta «Della religione civile».
137. Louis-Sébastien Mercier, Hanno del duemilaquattrocentoquaranta, trad. di Laura
Tundo, Dedalo, Bari 1993. Nato nel 1740, morto nel 1814, denigrato da alcuni, let­
to e apprezzato da altri, Mercier fu tradotto in diverse lingue. Lan deux mille qua­
tre cent quarante è del 1770 o del 1771. Fino al 1799, l’opera, che aveva avuto nu­
merose edizioni, si era diffusa in tutta Europa (Introduction a Mercier, Lan deux
mille quatre cent quarante. Rêve s’il en fut jamais, édition, introduction et notes par
Raymond Trousson, Editions Ducros, Paris 1971, p. 66). Ammiratore di Rousseau,
nel 1791 Mercier pubblica uno squillante De Jean-Jacques Rousseau considéré com­
me l'un des premiers auteurs de la Revolution; girondino, eletto alla Convenzione,
si salva dal patibolo per la caduta di Robespierre (Introduction, pp. 22-25).

Kl
100
Lo scontro delle tradizioni

soltanto che il futuro membro della Convenzione completi Rousseau, ma


che ne sia anche il seguito logico e quasi inevitabile. Egli riassume in
questo modo il pensiero di Mercier: « “C ’è una religione civile [...] e
spetta al sovrano fissarne gli articoli, non esattamente come dogmi reli­
giosi, ma come sentimenti di sociabilità, senza i quali è impossibile esse­
re buon cittadino o suddito fedele”». Il nemico più grande del «nuovo
legislatore» è il cristianesimo, perché «la patria del cristiano non è di
questo mondo»138. Tradotte in termini moderni, queste idee vogliono di­
re che il nuovo Stato non avrebbe tollerato l’esistenza di nessun partito
politico, di nessuna Chiesa, di nessuna organizzazione sociale o cultura­
le che non dipendesse da lui e che non fosse al suo servizio. Dopo Karl
Popper, autore, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, di The Open
Society and its Enemies, un simile sistema di governo è comunemente de­
finito come sistema totalitario. E questa è, dagli anni Settanta dell’Otto­
cento, la percezione di Hippolyte Taine. Il fatto che la sua interpretazio­
ne di Rousseau sia parziale, frammentaria e selettiva non cambia nulla:
l’autore del Contrat social è il prototipo del philosophe che impregna di
spirito rivoluzionario la Francia òté\’Ancien Régime, e tutta la Rivolu­
zione è il frutto del lavoro dei philosophes. Per Taine, come per i suoi ere­
di durante la guerra fredda, Rousseau in primo luogo, poi Morelly e
Mercier, creano le basi intellettuali del totalitarismo.
Le critiche rivolte da Taine allo spirito illuminista riprendono la par­
te essenziale delle argomentazioni di Burke ed Elerder e alimentano il
pensiero della generazione successiva al 1945. E curioso constatare con
quanta premura Taine si allinei all’autore tedesco nella critica sia della
lingua francese come si sviluppa nel Settecento sia dello spirito classico.
Taine difendeva una civiltà, non la sua patria. La sua condanna del grand
siècle francese è senza appello, violenta quanto quella di Herder nel suo
Giornale di viaggio ì 769 e in Ancora una filosofia della storia. In effetti,

138. Taine, Le origini della Francia contemporanea. L’antico regime, pp. 443-444.
Taine cita Lan deux mille quatre cent quarante, I, capitoli XVII e XVIII. I due
capitoli citati sono dedicati al celibato monastico e al culto dell’Essere supre­
mo. Il brano tra virgolette è dello stesso Taine, non di Mercier. Quest’ultimo si
era spesso vantato, con Lan deux mille quatre cent quarante, di essere stato il
profeta della Rivoluzione diciannove anni prima che esplodesse (Introduction,
p. 73). Tuttavia le affermazioni che gli attribuisce Taine non sono sue.

101
Lo scontro delle tradizioni

dice Taine, la lingua deli'Académie française e dei salotti è uno strumen­


to per spiegare, dimostrare, persuadere, uno strumento che si sviluppa
un secolo più tardi in «un metodo scientifico analogo aH’aritmetica e al­
l’algebra». Ecco perché «per il suo purismo, per il suo disdegno di tutti
i termini netti e i modi di dire vivaci, [...] lo stile classico è incapace di
rappresentare o registrare completamente i dettagli infiniti e casuali del­
l’esperienza»09. E incapace di esprimere la passione, l’individuo vivente,
il particolare e lo specifico. Questa lingua non può esprimere che una
parte della verità, una parte esigua, e con quello stile non si può tradur­
re né la Bibbia, né Dante, né Shakespeare: «leggete il monologo di Am­
ieto in Voltaire e guardate che cosa ne resta». Lo stesso vale per Omero
e Fénelon, o per gli stessi romanzieri del XVIII secolo: Fielding, Defoe,
Richardson hanno parole troppo franche, scene troppo forti, utilizzano
libertà e crudezze che contrariano i francesi. Per sua natura lo stile clas­
sico rischia sempre «di prendere per materiale dei luoghi comuni» e il ri­
sultato finale è di «poca o di nessuna utilità, oppure di uso pericoloso».
Ecco perché Taine, come Herder, deplora che il francese sia la lingua do­
minante in Europa. Perché la preponderanza del francese, la lingua del
metodo quasi matematico, significa la vittoria dell’«organo preferito del­
la ragione», o meglio «di una certa ragione, la ragione ragionante, quel­
la che vuole pensare con la minima preparazione e la massima comodità
possibili, [...] che non sa o non vuole abbracciare la pienezza e la com­
plessità delle cose reali»139140. Leggendo Taine, si potrebbe pensare che il
francese del XVII e del XVIII secolo fosse una lingua morta e gli Illu­
ministi automi pedanti senz’anima e senza vitalità.
La critica del francese, del classicismo e della ragione costituisce la
triplice spinta dell’attacco di Taine alla cultura illuminista. Del resto lo
stesso Taine si sia impegnato come nessun altro per radicare il mito se­
condo il quale agli Illuministi sarebbe mancato senso storico. Solo la
Germania, patria degli antilluministi herderiani, avrebbe posseduto il
senso storico. Questo mito rende facile mostrare l’uomo dei Lumi in tut­
ta la sua piattezza, in tutta la sua banalità e in tutta la sua aridità. In lui
«la forma è più bella di quanto il fondo sia ricco», la poesia non può na­

139. Ibid., pp. 352-353.


140. Ibid., p. 353.

102
Lo scontro delle tradizioni

scere, il poema lirico abortisce, come pure il poema epico. Taine chiama
a testimone Voltaire, il quale confessava che, «di tutte le nazioni civili, la
nostra è la meno poetica»1-". Mai «si sente il grido involontario della sen­
sazione viva»; a teatro, da Corneille e Racine fino a Marivaux e Beau-
marchais, non si vede che gente di mondo. In un carattere vivente l’arte
classica è incapace di cogliere il particolare, non crea individui verosimi­
li ma personaggi generici, si interessa poco alle circostanze specifiche, al
tempo e al luogo propri alle une e non alle altre. Si crea così un «mondo
astratto» dove, con Corneille e Racine, «attraverso la pompa e l’elegan­
za dei loro versi», si dipinge «l’uomo in sé»14142. Persino in Molière «si sop­
prime la singolarità dell’individuo, il viso diventa per un istante una ma­
schera teatrale». In conclusione: «C ’è dunque un difetto originario nel­
lo spirito classico». Nella giusta misura eso ha potuto produrre i suoi ca­
polavori più puri ma, peggiorando con il tempo, nel Settecento si mostra
incapace di rappresentare «la cosa vivente, l’individuo reale, quale esiste
effettivamente nella natura e nella storia»14’.
In più l’età classica «non ha senso storico» e ritiene che «l’uomo sia
dovunque lo stesso». Per cui, quando arriva la Rivoluzione, non si ha al­
cuna «idea della creatura umana quale essa è [...]. Tutti se la raffigura­
no come un automa elementare» trasformato da una «macchinetta per
produrre frasi [...] [in] una macchinetta per produrre voti». Infine «mai
fatti, solo astrazioni»144. In questo mondo astratto e artificiale non esi­
stono né l’individuo, organismo complesso dai caratteri stratificati e dal­
le peculiarità mescolate e aggrovigliate, individuo reale in tutta la com­
plessità dei contesti che sono i suoi, né il tempo e lo spazio, la natura e
la storia.
In questo modo si accredita il mito secondo il quale il pensiero illu­
minista misconosce la storia, la tradizione e l’eredità a beneficio di una
ragione incapace di cogliere l’individuo reale, ma la cui autorità si ac­
cresce per le scoperte scientifiche. Il XVIII secolo rinnega il pregiudizio
ereditario, abolisce il passato, rimuove la religione a vantaggio della ra­
gione e, non tenendo conto dell’esperienza, ricade ancora e sempre nei

141. Ibid., pp. 357-358. Taine cita VEssai sur le poème épique.
142. Ibid., pp. 359-360.
143. Ibid., pp. 360-362.
144. Ibid, pp. 363-367.

103
Lo scontro delle tradizioni

principi generali e astratti1'” . Adesso «l’uomo non immagina niente se


non in base alla propria esperienza»; la «ragione ragionante» non con­
cepiva che la verità si fosse potuta «esprimere solo attraverso la leggen­
da». Inoltre, «non potendo vedere le anime, si misconoscevano le istitu­
zioni» e, «non potendo capire il passato, non capivano nemmeno il pre­
sente». E così che VAncien Régime andava incontro alla disfatta: venti
milioni di uomini il cui stato mentale aveva appena superato quello del
Medioevo non potevano abitare che in un edificio sociale del Medioevo,
ma un Medioevo sistemato, una casa pulita dove, dopo avere aperto fi­
nestre e riparato recinti, si sarebbero conservati «le fondamenta, i muri
maestri e la distribuzione generale». Di questo il Settecento non era ca­
pace. Solo Montesquieu lo capiva, «la mente [...] più equilibrata del se­
colo», ma, isolato e senza influenza, camminava come «sui carboni ar­
denti»145146. Invece la ragione classica cessa di cogliere le radici «antiche e
vive delle istituzioni contemporanee», per lei «il pregiudizio ereditario
diventa, così, un pregiudizio puro e semplice; la tradizione non ha più
alcun titolo legittimo»: così armata, la ragione strappa alla tradizione «il
governo delle anime» e assicura «il regno della verità»147. Ogni barriera
viene abbattuta e nasce l’uomo moderno, mosso da due sentimenti, uno
democratico e l’altro filosofico, innalzandosi «dai bassifondi della sua
povertà e della sua ignoranza, [...] rimuovendo il peso della società sta­
bilita e dei dogmi accettati»148.
Il nuovo spirito filosofico, lo scetticismo che aveva preso il posto del
deismo, dice Taine, avevano cominciato prima di tutto a conquistare l’a­
ristocrazia: «I salotti si aprono alla filosofia politica, e di conseguenza, al
contratto sociale, aII’Encyclopédie, alla predicazione di Rousseau, Mably,
D ’Holbach, Raynal e Diderot. Nel 1759 d’Argenson, che se la prende,
crede già vicino il momento finale». E Taine lo cita: «Soffia su di noi un
vento filosofico di governo libero e antimonarchico [...]. Forse la Rivo­
luzione si farà con meno contestazioni di quanto si pensa; si farà per ac­
clamazione». In una nota a fondo pagina, l’autore aggiunge: «Sembra

145. Ibid.,pp. 375-376 e 387.


146. Ibid., pp. 384-386.
147. Ibid., p. 387.
148. Taine, Les Origines de la France contemporaine, Laffont, «Bouquins», Paris
1986, t. V, pp. 242 e 320.

104
Lo scontro delle tradizioni

una predizione della notte del 4 agosto 17 SS»»149. Poi viene coinvolto il
Terzo Stato, «i dogmi di eguaglianza e libertà filtrano e penetrano in
ogni classe che sa leggere. [...] E lo spirito di Rousseau, “lo spirito re-
pubblicano”; ha conquistato tutta la classe media, artisti, parroci, im­
piegati, medici, procuratori, avvocati, letterati, giornalisti»150. Ecco co­
me e perché la conquista giacobina è alla fine divenuta possibile: grazie
alla letteratura rivoluzionaria, numerosa e a buon mercato, «scende e si
diffonde la filosofia del XVIII secolo»: se al primo piano, nei begli ap­
partamenti dorati, «le idee» sono state solo dei «giochi d’artificio di una
serata», in altre parti della casa i fuochi accesi hanno trovato «mucchi
di legna accumulati da tempo» e nelle cantine era già pronto «un ma­
gazzino di polveri»151.
M Le accuse di Taine si ritrovano in Renan, sono identiche alle critiche
di Carlyle, non differiscono molto da quelle che quasi un secolo prima
lanciavano Herder e Burke e che si ritrovano nei neoconservatori un se­
colo più tardi. Gli stessi argomenti vengono ripresi con la stessa devo­
zione, perché le problematiche non sono cambiate di molto. Il Settecen­
to, dice l’autore de LA ven ir de la Science, consumato dallo «strano fuoco
che lo animava»,152153dal male, dalla depravazione e dalla decadenza che ne
derivano, impose «il giogo dello spirito ristretto», si irrigidì in un «cer­
chio di idee assai limitato»151. Così l’Illuminismo, da un secolo, è all’ori­
gine del «grande indebolimento morale» della Francia, in tutti i campi. Il
termine «veleno», molto utilizzato da Carlyle, ritorna in Renan per deli­
neare la natura dell’Illuminismo: «Il veleno, anche se preso a piccole do­
si, produce il suo effetto»154. Il risultato materiale di questo processo è la
legislazione rivoluzionaria, artificiale e astorica, livellatrice e distruttrice

149. Taine, Le origini della Francia contemporanea. Lantico regime, pp. 514-515
(corsivo nel testo).
150. Ibid., pp. 551-552.
151. Ibid., pp. 565-566.
152. E. Renan, La Monarchie constitutionnelle en France, in La Réforme intellectuelle et
morale, Calmann-Levy, Paris, 12‘ ed., série Œuvres complètes, s.d. [1929], p. 238.
153. Citato in Edouard Richard, Ernest Renan, penseur traditionaliste?, Presses uni­
versitaires d’Aix-Marseille, Aix-en-Provence 1996, pp. 162 e 131-132.
154. Renan, «Réponse au discours [...] Claretie», in Feuilles détachées, p. 1078, ci­
tato in Richard, Ernest Renan, penseur traditionaliste?, p. 163, nota 335.

105
Lo scontro delle tradizioni

della fede, ma i danni del materialismo si sono fatti sentire in tutti i cam­
pi della vita intellettuale e politica. La Francia è marcita a causa della me­
diocrità e delle astrazioni egualitarie. Insomma, qui sembra di sentire
Herder quasi parola per parola: da una parte «quel secolo non compre­
se la natura dell’attività spontanea», dall’altra fu un periodo che «non
comprese altro che se stesso e giudicò tutti gli altri secondo se stesso»1” .
La polvere esplode ai tempi della Rivoluzione francese, che secondo
Renan diventa subito una bassa democrazia terrorista, trasformatasi in
dispotismo militare e in strumento di asservimento per tutti i popoli15156.
Come in Taine, si approda a una visione della Rivoluzione che farà feli­
ce la riflessione storica sui mali della guerra fredda. Renan mostra come
« l’esperienza mancata della Rivoluzione ci ha guariti dal culto della ra­
gione»157. Questa tendenza prosegue nella prefazione all’edizione del
1890 de L’Avenir de la Science fino a rinnegare l’essenza dello spirito che
presiede all’edizione originale dell’opera158.
Occorre pertanto aprire qui una breve parentesi. Da un canto il gio­
vane Renan guarda alla Rivoluzione in un modo molto diverso dal Renan
del 1890, ma d’altro canto vede già come la problematica del suo tempo
si inscriva nel secolo precedente. Come Carlyle, anche lui è affascinato
da «questo immenso evento che rappresenta tutto il Settecento»,159 que-

155. Renan, L Avenir de la science, in Œuvres complètes de Ernest Renan, édition


definitive, établie par Henriette Psichari, Calmann-Lévy, Paris [1956], voi.
Ili, p. 749.
156. Renan, «L a guerra franco-prussiana», in Che cos’è una nazione? e altri saggi,
trad. di Gregorio De Paola, Donzelli, Roma 2004, p. 22.
157. Renan, La riforma intellettuale e morale della Francia, a cura di Regina Pozzi,
Istituto Storico Italiano, Roma 1991, p. 109. Si veda anche «Préface», in E. Re­
nan, Questions contemporaines, Calmann-Lévy, Paris, 7' ed., s.d. [1929], p. III.
158. In questo nuovo scritto Renan spiega la riedizione del libro. «Mi fu imposta una
condizione», dice, «che era di riprodurre il mio saggio di gioventù nella sua for­
ma ingenua, sovraccarica, spesso aspra [...] ora, lo schema della mia vecchia
opera non è affatto quello che sceglierei oggi.» Questo fa sì che per correggere
e modificare il contenuto, «quella folla di pensieri», che non erano più i suoi,
per determinare una nuova cornice concettuale che corrispondesse all’evoluzio­
ne del suo pensiero, si sarebbe dovuto «comporre un nuovo libro» (E Avenir de
la Science, p. 721). II libro viene quindi pubblicato come documento a testimo­
nianza delle idee che egli aveva nel 1848 ma che non ha più nel 1890.
159. Renan, L'Avenir de la science, p. 747.

106
Lo scontro delle tradizioni

sto «secolo che ha cambiato il mondo» e che rimane «il nostro model­
lo perpetuo» per avere saputo ispirare «convinzioni energiche, senza
farsi setta o religione, rimanendo invece puramente scienza e filoso­
fia»160. 11 XVIII secolo, afferma, «non ha né Racine né Bossuet e tutta­
via è molto superiore al XVII: la sua letteratura è la sua scienza, la sua
critica, la prefazione dell’Encyclopédie, i luminosi saggi di Voltaire»161.
Perché è nel XVIII secolo che l’umanità, «dopo avere vagato per se­
coli nella notte dell’infanzia, senza coscienza di sé, [...] ha preso pos­
sesso di se stessa». E così che «la Rivoluzione francese è il primo ten­
tativo dell’umanità di prendere in mano le redini e guidarsi da sola»:
è per questo che «la vera storia della Francia inizia nell’89; tutto ciò
che precede è la lenta preparazione all’89 e interessa solo in questa
funzione»162. Nel 1849, all’inizio della sua carriera, quando ancora la
politica non aveva nel suo pensiero quel ruolo che avrebbe avuto
vent’anni dopo, egli ha degli accenti molto kantiani: «L a Rivoluzione
francese [...] è il momento corrispondente a quello in cui il bambino,
condotto fin ad allora da un istinto spontaneo, dal capriccio e dalla vo­
lontà degli altri, diventa persona libera, morale e responsabile dei pro­
pri atti»16’. L’accesso dell’uomo alla maturità resta il senso della Rivo­
luzione: Renan guarda il XVIII secolo con gli occhi del giovane scien­
ziato, affascinato dal principio per il quale «la ragione deve governare
il mondo», da «quell’incomparabile audacia, quel meraviglioso e ardi­
to tentativo di riformare il mondo conformemente alla ragione»164165.
Nella nota 7 di questo brano, alla fine dell’opera, Renan scrive: «Si ve­
da come eminentemente caratteristica la Dichiarazione dei diritti nel­
la Costituzione del ’91. E il XVIII secolo nella sua interezza: il con­
trollo della natura e di ciò che esiste, l’analisi, la sete di chiarezza e di
ragione evidente»163. In un’altra nota nella stessa pagina si esprime
con un tono che difficilmente si può immaginare per l’autore della
Ré/orme intellectuelle et morale-. «L’anno 1789 sarà un anno santo

160. Ibid.,p. 812.


161. Ibid., p. 1039.
162. Ibid., p. 747.
163. Ibid.
164. Ibtd, p. 748.
165. Ibid, p. 1124.

107
Lo scontro delle tradizioni

nella storia dell’umanità»166. Il Renan del 1849 non ha dubbi: «Per


quanto mi riguarda, io penso che, fra cinquecento anni, la storia di
Francia comincerà dal giuramento della Pallacorda»167. Qualche pagi­
na dopo ci fornisce un brano assai caratteristico della percezione del­
la Rivoluzione tipica della generazione nata dopo la caduta di N apo­
leone: «N oi non abbiamo visto grandi cose; quindi in ogni cosa ci ri­
facciamo alla Rivoluzione: quello è il nostro orizzonte, la collina della
nostra infanzia, il nostro capo del mondo»168. La Rivoluzione è un fe­
nomeno che non ha paragone dopo le grandi invasioni e che indub­
biamente non si vedrà più per secoli, «la più meravigliosa delle epopee
in azione»,169 ma «quell’orizzonte è una montagna» e non può servire
da criterio per il futuro170.
Renan si spinge ancora più lontano: ritiene che il rinnovamento reso
necessario dal travaglio intellettuale del XVIII secolo non avrebbe potu­
to farsi pacificamente. E un’illusione pensare che si sarebbe potuta evi­
tare la distruzione dell’ordine costituito: non si sarebbe mai osato di­
struggere i privilegi, gli ordini religiosi, una massa di altri abusi: «Nulla
si fa con la calma: si osa solo nella rivoluzione»171. Andando avanti, la vio­
lenza è inevitabile: «Ci sono uomini necessariamente detestati e male­
detti dal loro secolo; il futuro li spiega e arriva freddamente a dire: è sta­
to necessario che ci siano state persone così»172. Infine: «Il fatto è il cri­
terio del diritto. La Rivoluzione francese non è legittima perché si è com­
piuta: si è compiuta perché era legittima»173.
Gli eventi del giugno 1848 e il colpo di Stato del 1851 avrebbero
portato Renan a un rovesciamento di prospettiva: già prima di Sedan
giunge a vedere nell’epoca dei Lumi le origini del male che consumava
la Francia. Tuttavia anche nel testo del 1849 gli elogi rivolti al Settecen­
to e alla Rivoluzione non devono ingannare: vi sono infatti già chiara-

166. Ibid.
167. Ibid., p. 1039. Si veda anche p. 1124: la Pallacorda «un giorno sarà un tempio».
168. Ibid, pp. 1028-1029.
169. Ibid, p. 884.
170. Ibid, p. 1029.
171. Ibid, p. 990.
172. Ibid, pp. 990-991.
173. Ibid, p. 1032.

108
Lo scontro delle tradizioni

mente formulate tutte le riserve e le critiche che andranno amplifican­


dosi col tempo. Nello stesso momento e nella stessa pagina ove abbon­
dano le glorificazioni, Renan accumula con eleganza anche le condanne.
La più grande delle rivoluzioni, dice Renan, fu la prima rivoluzione «fat­
ta da filosofi». Condorcet, Mirabeau, Robespierre offrono il primo
esempio di teorici che cercano di «governare l’umanità in un modo ra­
zionale e scientifico». Tutti i membri delle assemblee elette erano «qua­
si senza eccezione seguaci di Voltaire e di Rousseau». Il risultato non po­
teva tardare: «Il carro diretto da mani simili» doveva inevitabilmente
«andare a infrangersi in un abisso»174. Nei fatti il cammino delle società
è estremamente complesso, istituzioni che a prima vista appaiono assur­
de in fondo non lo sono quanto sembra, «i pregiudizi hanno la loro ra­
gione che uno non vede»175. Il rifiuto dei pregiudizi in blocco ha la chia­
rezza analitica amata dal XVIII secolo, ma quelle storture fanno parte in­
tegrante del «vecchio edificio dell’umanità»: la critica dei primi riforma­
tori fu «su diversi punti aspra, ottusa verso lo spontaneo, troppo orgo­
gliosa delle facili scoperte della ragione riflessiva»176.
E per questo che, in ultima analisi, nella Réforme la Rivoluzione è
descritta come un fenomeno contro la natura e contro la storia, che po­
teva quindi generare solo la decadenza, la mediocrità e, per quanto ri­
guarda la Francia, l’indebolimento e la perdita del suo posto nel mondo.
In due fasi essa fu sconfitta dall’«aristocrazia prussiana»: la prima fase fu
quella dal 1792 al 1815, la seconda dal 1848 al 1870177. Quest’interpreta­
zione è tipica della visione che dell’Ottocento avevano i critici dell'Illu­
minismo francese. La guerra che divampò nel quarto di secolo che sepa­
ra Valmy e Jemappes da Waterloo era per Renan come per Taine una
guerra tra due culture, due concezioni dell’uomo e della società, due fi­
losofie della storia. La Restaurazione e poi la Monarchia di luglio furo­
no un intermezzo in cui la Francia, dandosi di nuovo una casa reale,
sembrò riprendersi. Le rivoluzioni di febbraio e di giugno, la Seconda

174. Ibid., p. 748. Nella Riforma il tono è nettamente più duro: «G li uomini igno­
ranti e limitati che presero in mano i destini della Francia» (p. 91), «le loro vuo­
te declamazioni, la loro leggerezza morale» (p. 89).
175. lbid.,p.74S.
176. Ibid., pp. 748-749.
177. Renan, La riforma intellettuale e morale, p. 117.

109
Lo scontro delle tradizioni

Repubblica e l’Impero suo erede avrebbero fornito la prova che il male


aveva intaccato tutto l’organismo e che la decomposizione avviata nel
1789 sarebbe andata avanti.
Carlyle condivide questa riflessione sul fallimento della civiltà occi­
dentale, cristiana e cavalleresca, una civiltà organica, comunitaria, rifles­
sione che per un secolo e mezzo segna la critica della modernità ideolo­
gica. Per lui la vecchia società traeva linfa dalla cristianità, tutta vitalità e
vigore; era una società eroica. Ma era anche una collettività che sul mon­
do moderno aveva una superiorità in un campo nel quale di solito non
le si riconosce alcuna preminenza: per le anime nobili e pie, la Chiesa e
i suoi conventi aprivano largamente la strada dell’ascesa sociale178. Il
mondo del Medioevo aveva cominciato a sgretolarsi tre o quattro secoli
prima di soccombere negli anni che precedono la Rivoluzione francese.
Il X V II1 secolo è segnato dalla dissoluzione sociale e dalla disgregazio­
ne, e la Rivoluzione è stata solo l’ultima tappa della decomposizione di
una grande civiltà e un riflesso di rivolta contro quella decomposizione.
La Rivoluzione non è stata, come pensava Burke, un cataclisma improv­
viso che ha abbattuto un mondo fiorente, generato da un grande com­
plotto, ma l’esito di un processo di decomposizione di una civiltà orga­
nica che soccombeva sotto i colpi dell’individualismo. De Maistre vede­
va le cose allo stesso modo. I secoli XVI e XVII e la Riforma vi hanno
contribuito: in realtà bisogna risalire a Lutero per capire l’inizio del tra­
collo causato dalla degenerazione della Chiesa. Il deterioramento di
«quella che ancor oggi si fa chiamare Chiesa di Cristo» faceva sì che l’e­
sistenza degli uomini nel suo insieme fosse consumata «da una sorta di
cancrena»: è così che la fede iniziò a languire e il dubbio e l’incredulità
invasero tutto179. Quando finalmente «il muratore si era sbarazzato del fi­
lo a piombo», quando si è infischiato delle leggi di gravità e dei muri

178. Thomas Carlyle, «The New Downing Street», 15 aprile 1850, in Latter-Day
Pamphlets, The Works o f Thomas Carlyle, edite con un’Introduzione di Henry
Duff Traill, Chapmann e Hall, London 1896-1907, 30 voli. Questa edizione
sarà citata come Works e relativo volume. Qui si veda il voi. XX, pp. 131-132.
Per una moderna biografia di Carlyle si veda Fred Kaplan, Thomas Carlyle, A
biography, University of California Press, Berkeley 1993.
179. Thomas Carlyle, Gli eroi e il culto degli eroi e l ’eroico nella storia, trad, di Ro­
sina Campanini, Utet, Torino 1967, pp. 300-301.

110
Lo scontro delle tradizioni

crollati non è rimasto che il caos, si è arrivati ai Lumi francesi e alla Ri­
voluzione180. Il mondo del «miscredente, logoro secolo diciottesimo» era
diventato «di cartapesta»181.
«Era un’età strana, quella di Luigi XV; per diversi punti di vista,
un’età senza precedenti nella storia del genere umano. Per la sua licen­
ziosità e la sua depravazione, per la sapiente cultura di tutte le facoltà
semplicemente pratiche e materiali e per il totale torpore di tutte le fa­
coltà puramente contemplative e spirituali, questa era somigliava consi­
derevolmente a quella degli imperatori romani.»182 E più avanti: «Era
un’età senza nobiltà, senza virtù elevate, o senza elevate manifestazioni
di talento; un’età di chiarezza superficiale, di elegante sufficienza scetti­
ca e di persiflage [dileggio] in tutte le forme». Ma ancora più grave, «è
che quell’epoca, chiamata della filosofia, non fu in sé che un’epoca po­
vera», una delle «più sterili tra le età storiche. In realtà, tutto il mestiere
dei nostri philosophes fu il diretto contrario dell’invenzione: loro non
erano certo là per produrre; ma per criticare, per mettere in dubbio, per
distruggere ciò che era già stato prodotto». Per dirla tutta, praticavano
«un mestiere basso»:18’ nello spirito di Carlyle la bassezza (meanness) è
indubbiamente la parola che descrive con maggiore precisione il profon­
do disprezzo per l’età di Luigi XV, definizione di un mondo nel quale
egli ingloba sia VAncien Regime che l’Illuminismo. In questo, sebbene
parlasse anche lui di un secolo «illuminato e scettico»,184 si discosta da
Burke ed è molto più vicino agli uomini degli inizi del Novecento. In
pratica si può dire che Carlyle costituisce un ponte tra il rifiuto aristo­
cratico e il rifiuto plebeo dell’Illuminismo.
Per la sua degradazione e la sua perversione, per il suo egoismo e il
suo materialismo, per il suo utilitarismo, per i suoi ciarlatani che hanno
preso il posto degli eroi, per il suo scetticismo che «non significa soltan­
to dubbio intellettuale ma dubbio morale», il XVIII secolo, secondo

180. Ibid. L’immagine del muratore viene direttamente da De Maistre, che parla an­
che della cazzuola che si crede un architetto.
181. Ibid., p. 285.
182. Carlyle, Criticai Essays, voi. I, pp. 460-461.
183. Ibid., pp. 464-465. Nouveaux Essais choisis, pp. 97-98. Si vedano gli stessi ar­
gomenti in Gli eroi, p. 50.
184. Carlyle, Gli eroi, p. 312.

Ili
Lo scontro delle tradizioni

Carlyle, assomiglia alla fine dell’Impero romano185. I musulmani non


avrebbero alcun problema a definire quel periodo, alla maniera della lo­
ro età senza Dio, «il periodo dell’ignoranza»186. Lo scetticismo è «malat­
tia cronica che atrofizza tutta quanta l’anima», è «il nero morbo, nemi­
co di ogni forma di vita, contro il quale si rivolsero tutti gli ammaestra­
menti e tutti i ragionamenti, fin dall’inizio della vita umana»187. In quei
tempi, il lungo declino doveva in conclusione sfociare «nello stato di ca­
put mortuum [...] fino a quando il corpo politico, privato da tempo dei
fluidi vitali della sua circolazione, diventasse infine una carcassa putrida
e cadesse a pezzi, prossima preda dei lupi voraci»188. In questo secolo
senza fede e senza Dio, «dove né prodigi, né grandezze, né divinità po­
tevano trovar posto»,189 «noi ravvisiamo già tutti gli elementi della Rivo­
luzione francese»190.
«L a pietra angolare» in questa età in cui «l’uomo può fare quasi
ogni cosa, tranne che obbedire», la «stagione più arida della Storia
umana»,191 è Voltaire, l’uomo la cui «vita fu quella di una sorta di Anti­
cristo»192193.Per Carlyle, sebbene dica di Voltaire: «Come, dunque, pote­
vano non adorarlo tutti quanti, dalla regina Maria Antonietta al doga­
niere della porta a Saint-Denis?»195 egli non può aspirare né alla qualità
di filosofo né a quella di eroe: esprime solo la mediocrità del suo tem­
po. In pratica non si trova un solo «grande pensiero in tutti i suoi tren-
tasei in-quarto»,194 pecca di superficialità, di leggerezza, egoismo, ambi­
zione e sete di potere; è l’uomo di mondo per eccellenza, parigino fino
al midollo, educato, attraente, colto, freddo, beffardo, praticante una

185. Ibid., pp. 260, 266 e 312, come anche Nouveaux Essais choisis, p. 94.
186. Carlyle, Past and Present, book IV, eh. 1, in Works, voi. X, p. 241 [Passato e Pre­
sente, s.t., Bocca, Torino 1905, pp. 367-368],
187. Carlyle, Gli eroi, pp. 262 e 266.
188. Carlyle, Nouveaux Essais choisis, p. 94.
189. Carlyle, Gli eroi, p. 260.
190. Carlyle, Critical Essays, voi. I, p. 415.
191. Carlyle, Sartor Resartus. Filosofia degli abiti, a cura di Rosario Assunto, Nove­
cento, Palermo 1985, pp. 300-301.
192. Carlyle, Nouveaux Essais choisis, p. 93, Critical Essays, p. 415, Sartor Resartus,
p. 301.
193. Carlyle, Gli eroi, p. 50.
194. Carlyle, Critical Essays, p. 414.

112
Lo scontro delle tradizioni

visione del mondo prosaica195. Peraltro non gli mancavano le qualità: ca­
pace talvolta di scorgere il lume della bontà, della bellezza e della verità,
aveva difeso Calas, «aveva sentimenti fraterni nei confronti della soffe­
renza umana», ma un grand’uomo è qualcosa più di questo, e lui certa­
mente non lo è stato196. Perché, in ultima analisi, Voltaire mancava di ca­
rattere. Questa era anche la debolezza essenziale di Diderot: non era un
uomo coraggioso, e, «nonostante tutti i suoi grandi doni, aveva piutto­
sto un carattere femminile [...] con poca fermezza virile, riflessione, ri­
solutezza»: il suo ambiente parigino gli rendeva la vita facile e lo adula­
va, allontanandolo «con orrore da uno serio come Jean-Jacques, che
[...] riteneva che la verità fosse una cosa da dire e da mettere in prati­
ca».197 Persino Taine trovava questo verdetto ingiusto, puerile e grosso­
lano riguardo a Voltaire, quasi una diffamazione. Lo storico Carlyle si
sarebbe reso colpevole di un autentico peccato: avrebbe giudicato il suo
soggetto dall’esteriorità. Taine non lo dice apertamente, ma questo è il
senso della critica.
Se verso Voltaire Carlyle si mostra rigido, non è così per Rousseau.
Come in Nietzsche, la visione di Rousseau espressa da Carlyle è di gran­
de ambiguità, piena di contraddizioni. Da un lato l’autore del Contrat so­
cial è un gigante spirituale portatore di «una strana scintilla di vero fuo­
co celeste» che fa parte della sua galleria di eroi, mentre Voltaire o Di­
derot ne sono esclusi: egli «sfiorò, ancor una volta, la realtà; lottò in vi­
sta della realtà; compì al suo tempo la funzione di profeta»198. Ma, eroe
e insieme uomo di lettere, Rousseau non lo è pienamente, perché gli
manca «la profondità di intelletto, la larghezza di vedute», egoista, «mol­
to vano, assetato delle lodi degli uomini»; con il suo carattere «morbo­
so, eccitabile, isterico», non era un «uomo forte»199. Quindi «non gli si
poteva impedire di mettere il mondo a fuoco e fiamme. La rivoluzione
francese trovò nel Rousseau il suo evangelista», l’uomo che, dei «gover­
nanti del mondo», avrebbe potuto «ghigliottinarne un buon numero»200.

195. Ibid., pp. 416, 419, 424-427, Nouveaux Essais choisis, p. 38.
196. Ibid., p. 436, Nouveaux Essais choisis, pp. 18 e 37.
197. Carlyle, Nouveaux Essais choisis, p. 181.
198. Carlyle, Gli eroi, pp. 282-283 e 240-241.
199. Ibid., pp. 280-281.
200. Ibid., pp. 284-285.

113
Lo scontro delle tradizioni

Voltaire e Rousseau, l’uno non meno dell’altro, sono anche i grandi


nemici di Herder. In Ancora una filosofia della storia (1774) scoppia per
la seconda volta, dopo Vico che allora era sconosciuto, la reazione cri­
stiana, antirazionalista e antiuniversalista contro i Lumi. Il tono è un po’
diverso nelle Idee per la filosofia della storia dell’umanità, la cui pubbli­
cazione inizia dieci anni dopo, ma l’essenza delle argomentazioni resta.
L’idea che l’umanità non sia guidata da se stessa ma dalla provvidenza
e che il divino si debba incarnare nella materia per governarla e rivelar­
si pur nascondendovisi, è un’eredità luterana: da ciò deriva, in Herder
come in Lutero, il primato della storia201. Nel pamphlet del 1774 proli­
ferano le reminiscenze bibliche, le allusioni e le citazioni puntuali, il to­
no generale è quello di un sermone, lo stile è spesso apocalittico e l’a­
postrofe «fratelli miei» ritorna parecchie volte nel testo202. Parlando

201. M. Rouché, Introduction a J.G . Herder, Un e autre Philosophie de l’histoire.


Pour contribuer à l'éducation de l’humanité. Contribution à beaucoup de contri­
butions du siècle / Auch eine Philosophie der Geschichte, traduit de l’allemand
et présenté par Max Rouché, Aubier, Paris 1964, pp. 78-80. Questa edizione
bilingue è un eccellente strumento di lavoro.
202. Si veda per esempio J.G . Herder, Ancora una filosofia della storia per l’educa­
zione dell’umanità. Contributo a molti contributi del secolo, a cura di Franco
Venturi, Einaudi, Torino 1971, p. 118: «Lavoriamo, fratelli miei, con animo co­
raggioso e giocondo, magari in mezzo alla nube...» L’edizione classica delle
opere di Herder, in 33 volumi, è: Herder Sämtliche Werke, herausgegeben von
Bernhard Suphan, Weidmannsche Buchhandlung, Berlin 1877-1913: Auch eine
Philosophie der Geschichte zur Bildung der Menschheit, del 1774, si trova nel vo-
lume5 (1891), pp. 475-586; il Giornale di viaggio 1769 (journal meiner Reise im
Jahr 1769) è nel volume 4 (1878), pp. 343-361; e alle Idee per la filosofia della
storia dell’umanità (Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit) sono
dedicati i volumi 13 e 14. Quando l’ho ritenuto utile ho fornito, seguendo Rou­
ché, rimandi all’edizione Suphan. Un’edizione molto più accessibile e più sem­
plice da utilizzare, in caratteri latini e non gotici, che comprende in tre volumi
le opere che qui ci interessano, è Johann Gottfried Herder, Werke, a cura di
Wolfgang Pross, Carl Hansen Verlag, München 1984. Il primo volume, su Her­
der e lo Sturm und Drang, comprende Ancora una filosofia della storia (pp. 591-
689), Giornale di viaggio 1769 (pp. 357-473) e inoltre un’eccellente postfazione
(Nachwort) di Pierre Pénisson; il volume II è dedicato a Herder e l’antropolo­
gia deirilluminismo; nel volume III si trovano le Idee per la filosofia della storia
dell’umanità. La bibliografia herderiana è immensa: a titolo di esempio si con­
sultino in primo luogo due tra gli ultimi saggi bibliografici: Doris Kühles, Her-

114
Lo scontro delle tradizioni

della caduta di Roma, all’inizio della seconda sezione del pamphlet del
1774, Herder ha un impeto: «Popoli e continenti si erano adusati a vi­
vere sotto quest’albero e ora, quando la voce della sacra scolta gridò
“Abbattetelo”, che gran vuoto m ai!»20’ E altrove: «Ma, fratelli miei»,
esclama Herder nel mezzo di una pagina sulla gloria del Creatore, «pri­
mo e unico fattore», l’unica fonte «delle più lontane conseguenze, mo­
rali o immorali di chi agisce. [...] Non abbandoniamo mai i poli attor­
no ai quali tutto gira; verità, coscienza della propria retta intenzione, fe­
licità dell’umanità». Perché, «ora soprattuto che ci troviamo tanto alti
sul mare sul quale andiam navigando tra incerta e brumosa luce - luce
che ci rende la rotta ancor più difficile che non la notte fonda» - l’allu­
sione ai «Lum i» è resa ancora più chiara dal fatto che questo paragrafo
viene subito dopo un violento attacco contro Voltaire e il suo secolo -
«miriamo con tutto l’animo nostro queste stelle, punti fissi d’orienta­
mento e intima certezza»2“ . Max Rouché non ha torto a sottolineare co­
me Ancora una filosofia della storia possa essere considerata l’Apocalis­
se secondo Herder, assumendovi l’autore il ruolo dell’Angelo del Si­
gnore che, con un santo entusiasmo spesso sostituito da una santa col­
lera, rivela agli umani il Mistero della storia. Lo storico, secondo Her­
der come secondo Hamann, è ispirato da Dio, un profeta del passato, e
si basa su idee luterane ed evangeliche205.

der-Bibliographie, 1977-1992, J.B. Metzler, Stuttgart 1994, e Tino Markworth,


Johann Gottfried Herder, a Bibliographical Survey, 1977-1987, Gabel, Hürth-Ef-
feren 1990. Per quanto ci riguarda più direttamente, le opere più importanti sa­
ranno citate nel corso del libro. Si aggiungano Benjamin Wall Redekop, En­
lightenment and Community: Lessing, Abbi, 1lerder and the Quest for a German
Public, McGill-Queens University Press, Montreal 2000; Antonio Verri, Vico e
Herder nella Francia della Restaurazione, Longo, Ravenna 1984; George Albert
Wells, Herder and After, a Study in the Development of Sociology, ’s-Gravenha-
ge, Mouton, 1959. Per la visione di Herder nella prima metà del Novecento si
veda Adolphe Bossert, Herder, sa vie et son œuvre, Hachette, Paris 1916, e Ro­
bert Reinghold Ergang, Herder and the Foundations of German Nationalism,
Octagon Books, New York 1966 (1 ' ed. 1931); F. McEachran, The Life and Phi­
losophy of Johann Gottfried Herder, The Clarendon Press, Oxford 1939.
203. Herder, Ancora una filosofia della storia, p. 45.
204. Ibid., p. 123 (S. 584).
205. Rouché, Introduction a J.G . Herder, Une autre philosophie de l’histoire, pp. 77-78.

115
Lo scontro delle tradizioni

La visione della storia come prodotto di un disegno divino del qua­


le l’umanità è insieme oggetto e strumento inconsapevole, ossia il carat­
tere luterano di Ancora una filosofia della storia, hanno inoltre di inte­
ressante che creano una nuova scala di valori. In apertura Herder si sca­
glia contro il presunto eurocentrismo, contro l’orgoglio e il sentimento
di superiorità del Settecento, imputa alla storiografia del suo tempo
un’apologià della propria epoca e osserva che, a questo riguardo, si va
«motteggiando e sfigurando i costumi di tutti i popoli, di tutte le età».
Ecco in cosa consiste «la filosofia del secolo!»206 quella «filosofia fiacca,
miope, ricolma di sprezzo per tutto, soddisfatta di sé, incapace di tut­
to»207. Questo disprezzo per l’Altro era ignoto agli orientali, ai greci e ai
romani. Viceversa l’Europa del XVIII secolo si vanta delle sue virtù e
della sua superiorità in tutti i campi: «Siamo i medici, i salvatori, gli illu­
ministi, i creatori novelli; i tempi della pazza febbre sono ormai tramon­
tati!»208 C ’è davvero in Europa «più virtù che mai non fosse nell’intero
mondo? E perché? Perché superiore è il rischiaramento [_Aufklàrung[.
Credo che, proprio per questo, meno dovrebbe esservene»209. Tutto ciò
per concludere che, lungi da poter aspirare a qualsiasi superiorità, il Set­
tecento è al contrario «un secolo in decadenza»210. Quindi Herder riabi­
lita il Medioevo e insieme quelle epoche della storia e quelle culture il
cui valore è stato contestato dallTlluminismo anticristiano.
Nella sua campagna contro il giusnaturalismo, il razionalismo e l’au­
tonomia dell’individuo, contro i fondamenti primi del liberalismo nel
senso in cui lo intendevano Locke, Bentham e Tocqueville, Herder as­
sume un ruolo altrettanto importante, spesso ancora più importante, di
quello di Burke. La convergenza dei due autori, che sembra non si siano
letti, sta nella logica stessa dei loro presupposti sui limiti della ragione.
La critica burkiana dellTlluminismo si basa sullo stesso postulato di
quella di Herder: l’incapacità della ragione umana di cogliere il senso
della storia e di dominare la sua evoluzione per mezzo dell’organizza­
zione della vita politica, della società e dello Stato al servizio dell’indivi-

206. Herder, Ancora una filosofia della storia, p. 90 (S. 555).


207. lbid., p. 91 (S. 556).
208. Ibid., p. 92 (S. 556).
209. lbid., p. 89.
210. lbid., p. 6 (S. 478).

116
Lo scontro delle tradizioni

tluo. Come Herder, Burke difende i privilegi: come lui vede la storia go­
vernata dalla provvidenza come sola fonte di legittimità, come lui vede
nel privilegio il fondamento di qualsiasi ordine umano degno di tale no­
me. Come Herder, difende la religione e l’ordine sociale vigenti ma, con­
trariamente a Herder, difende anche l’ordine politico costituito. Il
conformismo sociale di Herder dipendeva dal fatto che l’ordine esisten­
te rappresentava quanto ancora rimaneva dell’Europa del Medioevo.
Per Burke il regime inglese, le libertà inglesi, le libertà storiche realizza­
vano l’ideale. Invece per Herder l’autoritarismo prussiano, con le sue
velleità deiste e cosmopolite, con il suo re filosofo che riceve Voltaire,
non poteva costituire un modello di perfezione.
Entrambi rappresentano i due aspetti della seconda modernità:
Burke conduce la sua lotta in nome di privilegi acquisiti, in nome
dell ’establishment politico, mentre Herder si lancia nella mischia da un
punto di partenza non conformista, ma entrambi prendono le difese di
una civiltà cristiana e comunitaria in via di estinzione. L’obiettivo finale
era lo stesso: Burke pensava che, assicurando la perennità dell’ordine so­
ciale e politico vigente, si sarebbe salvata la civiltà, Herder riteneva che
attuando uno sbarramento contro l’individualismo, mettendo in piedi
un progetto coerente di ordine comunitario che potesse sostituire la so­
cietà borghese illuminata, deista quando non schiettamente atea, avreb­
be analogamente salvato la civiltà: la sua critica aH’Illuminismo era uno
sbarramento contro le forze distruttive in cammino, poiché la religione
era sostituita dal deismo, che per lui era solo un sottoprodotto della fi­
losofia meccanicista e un alleato del dispotismo illuminato. In questo
mondo in perdizione le forze vitali erano sopraffatte dal razionalismo, la
rivendicazione della felicità si sostituiva all’idea di servizio e l’idea di
progresso detronizzava la fede e le grandi virtù come l’obbedienza, l’ab­
negazione, il rispetto dell’autorità e della famiglia.
Herder e Burke sapevano che il pensiero moderno nasce nel mo­
mento in cui l’uomo si sostituisce a Dio. Herder non poteva amare D e­
scartes, Hobbes o Locke e combatteva Rousseau e Kant. Nessuno ha fat­
to più di lui per opporsi all’influenza di Kant in Germania, per opporsi
ai valori universali. Herder, filosofo della storia, Burke, pensatore e uo­
mo politico, rappresentano i due perni fondamentali della campagna
contro la ragione in nome della «vita», contro l’universale in nome del
particolare é dello specifico. Entrambi lanciano un appello a tutte le

117
Lo scontro delle tradizioni

forze in grado di abbattere quei due pilastri deirilluminismo. Entrambi


guidano la lotta contro runiformatrice potenza sociale dei Lumi, cioè
contro l’eguaglianza. Herder accusa l’Illuminismo di veicolare tendenze
dispotiche e imperialiste: secondo lui la Francia in Europa e l’Europa nel
mondo esportano la loro cultura per utilizzarla come strumento di do­
minazione di altri popoli e di altre culture. L’uno e l’altro rimproverano
al loro tempo il materialismo e il «meccanicismo», cioè l’individualismo
razionalista. Materialismo e meccanicismo sono i due concetti chiave
che, nel X IX e nel X X secolo, spiegheranno tutte le sventure dell’epoca.
Tuttavia tra Burke ed Herder esiste un punto di divergenza impor­
tante: la loro visione della Rivoluzione francese è profondamente diver­
sa. Burke difende il privilegio in quanto prodotto della storia: da essa
creato, solo il privilegio ci può guidare nel presente per modellare il fu­
turo. Tanto maggiore è la sua antichità, tanto più profonde sono le sue
radici, tanto più saldo è il privilegio. Quindi esso rappresenta il simbolo
della continuità, assicura la permanenza delle tradizioni ed è garanzia
per l’avvenire. Per Herder non è la continuità delle tradizioni ad avere
valore esemplare, ma sono la continuità culturale, linguistica, dei costu­
mi, la tutela dell’ordine sociale a possedere un valore assoluto. Burke ha
un’esperienza che a Herder manca: un regime che l’Europa liberale gli
invidia. Sicuramente, il privilegio per Herder è espressione della varietà
e dell’individualità delle tradizioni nazionali piuttosto che la difesa del­
l’ordine politico vigente. Ma, nell’essenziale, il privilegio ricopre la stes­
sa funzione: affermare la superiorità della storia sulla ragione, della col­
lettività nazionale sull’individuo, della cultura nazionale sulle culture
straniere, dei privilegi acquisiti sui diritti dell’uomo, dei valori particola­
ri sui valori universali.
Per il credente Herder il nemico numero uno è Voltaire, l’incarna­
zione vivente dello spirito critico, del razionalismo, dell’ateismo, l’uomo
che scriveva «con più malignità ancora di Machiavelli»: nel XVIII seco­
lo chiunque avesse scritto come Machiavelli sarebbe stato lapidato, ma
Voltaire invece non viene lapidato211. Voltaire è il tipico rappresentante
dello spirito filosofico, della modernità ideologica e del suo corollario, la
decadenza francese. La senilità del XVIII secolo filosofico si esprime

211. Ibid., p. 116 (S. 578).

118
Lo scontro delle tradizioni

nella cultura francese del suo tempo, simbolo del deperimento di tutto
un mondo, un mondo nel quale «si ragiona», si pubblicano dizionari ed
enciclopedie, il mondo di uno «spirito astratto, filosofia fondata su due
pensieri, meccanicissima fra le cose tutte della terra!»212 Queste formule
ritornano a più riprese, in particolare quando si tratta di stabilire che
«gran parte della cosiddetta nuova cultura moderna è in realtà una mec­
canica»,213 che «spirito moderno», razionalismo e cultura francese sono
sinonimi, quando si deve dimostrare ancora e sempre «che il moderno
esprit non è che una forma, sia pure elevata, d’una realtà meccanica»214.
Ora, «esiste [...] una produzione più meschina nel pensiero, nella vita,
nel genio e nel gusto che non presso quel popolo il quale in mille forme
e tanto brillantemente ha diffuso per il mondo intero questo espritì [...]
Dove una forma di vita che scimmiotti in tal modo una cortesia, una gio­
vialità, una ricercatezza verbale facili e meccaniche?»215 Nel suo Giorna­
le di viaggio 1769 Herder parla del temperamento francese che «non
consiste in altro che in ipocrisia e fiacchezza»216. Siccome sono solo scim­
mie, i francesi possono essere scimmiottati a loro volta dal resto d’Euro­
pa. Tutta la loro filosofia non è che un modo di scimmiottare i sentimenti
di umanità, il genio, la virtù; la civiltà che essi modellano è una «più age­
vole meccanica», una macchina che finisce per produrre un libero pen­
siero «fiacco, irritante, inutile»: il libero pensiero è per i francesi «suc­
cedaneo di tutto quanto forse è più necessario: cuore, calore, sangue,
umanità e vita!»217 Ecco dunque, sotto la penna di Herder, l’idea che
avrebbe affascinato i suoi ammiratori e, sulle sue orme, i critici nove­
centeschi dell’Illuminismo, da Meinecke e Gadamer a Berlin.
Ovviamente non è per caso che Herder manifesti tanta acrimonia
verso la Francia. Essa incarna la civiltà cosmopolita e antinazionale che

212. Ibid.,p. 69 (S. 537).


213. Ibid., p. 66 (S. 534).
214. Ibid., p. 69 (S. 537).
215. Ibid.
216. Citato da Rouché in Une autre philosophie de Vhistoire, p. 249, nota 1 [J.H.
Herder, Giornale di viaggio 1769, a cura di Marco Guzzi, Spirali, Milano 1984,
p. 136].
217. Herder, Ancora una filosofia della storia, pp. 69-70 (S. 538): « Herz! Wärmet
Blut! Menschheit! Leben!» (edizione Pross, p. 642).

119
Lo scontro delle tradizioni

bisogna abbattere. Gadamer vede giusto quando mostra quanto fosse


determinante per Herder l’immagine critica della Francia che si era mo­
dellato attraverso le sue letture. Aveva portato con sé quest’immagine ar­
rivando a Nantes, la riportò con sé andandosene e sarebbe rimasta alla
base della sua intera opera218. In effetti, la critica alla Francia non era sol­
tanto una critica alla letteratura o alla filosofia francesi ma a tutta una
cultura, fondamentalmente negativa perché basata sul razionalismo.
Non si può far altro che fantasticare su quello che avrebbe potuto esse­
re quel Giornale di viaggio 1769 se Herder avesse saputo visitare la Fran­
cia come farà Tocqueville in America.
In Ancora una filosofia della storia Herder si limita a riassumere il vi­
rulento processo alla Francia intentato nel Giornale. In effetti, in questo
testo redatto sul campo, il giovane Herder afferma la propria convinzio­
ne nell’irrimediabile decadenza della Francia, paragonabile al declino
che ha colpito l’Italia, la Grecia, l’Egitto e l’Asia. Bisogna proprio dirlo:
è piuttosto raro leggere simili sciocchezze dalla penna di un pensatore
della levatura e reputazione di Herder. Non soltanto il giovane predica­
tore, venuto da Riga per mare, non conosceva la Francia e si lanciava
senza ritegno in assurde generalizzazioni, ma esecrava profondamente
tutto quanto conosceva della sua letteratura, della sua filosofia, della sua
storia. Nelle pagine del Giornale c’è già tutto Herder, e non cambierà
più. È questa la cosa davvero importante per capire il suo pensiero. «I
monaci del Libano, i pellegrini della Mecca, i popi greci sono veramen­
te insetti immondi nati dalla putrefazione di un nobile cavallo. Le acca­
demie italiane di Cortona espongono le reliquie dei loro padri e scrivo­
no sul diritto di esporle lunghi libri, memorie, volumi e in folio. In Fran­
cia si arriverà presto a tanto; quando i Voltaire e i Montesquieu saranno
morti, allora si prolungherà lo spirito di Voltaire, Bossuet, Montesquieu,
Racine etc., finché non ce ne sarà più nulla.»219 Il momento in cui non ci
sarà «più nulla» per i francesi si avvicina più rapidamente di quanto non
si pensi e il famoso Dictionnaire raisonné è la prova che, quando non si

218. Hans Georg Gadamer, «Herder et ses théories sur l’histoire», in Regards sur
l’histoire, Cahiers de l’Institut allemand, publiés par Karl Hepting, II, 1941,
pp. 9-10.
219. Herder, Giornale di viaggio 1769, p. 104.

120
Lo scontro delle tradizioni

ha più nulla da dire, quando «mancano le opere originali», si fabbrica­


no enciclopedie: questo è «per me», dice, «il primo segno della loro de­
cadenza»220. In effetti, per tutto quanto riguarda la vita intellettuale in
I rancia, il verdetto è senza appello: «L’epoca della sua letteratura è com­
piuta, il secolo di Luigi è passato [...] si vive sulle rovine»221.
Non è tutto. Perché, anche quel glorioso passato, che cos’è in realtà?
«Che cosa ha avuto poi di veramente originale il secolo di Luigi? La do­
manda è complessa.» Meno complessa è la risposta con la quale, in una
trentina di pagine, Herder manifesta la sua animosità contro tutta una ci­
viltà il cui immenso torto, a conti fatti, è il razionalismo. La spiegazione
è che la Francia manca di originalità. I suoi grandi spiriti devono molto
alla Spagna e all’Italia, «il Cid di Corneille è spagnolo, i suoi eroi ancora
più spagnoli» e - cosa che per uno Stùrmer è di una gravità estrema - la
lingua di Corneille nelle sue prime opere è ancora molto spagnola. Ma-
zarino, patrono delle arti, era italiano, il gusto nell’arte era italiano e d’al­
tronde furono gli italiani a inventare le arti più rilevanti. Il che fa sì che
l’influenza italiana sia determinante in Molière; anche Télémaque è un
poema «per metà italiano». Quando si interruppe l’influenza italiana e
spagnola non restò che «monotona galanteria», sparirono le emozioni, la
«fredda e sana ragione» prese il sopravvento e si raffreddarono «la fan­
tasia e la passione»22223.Di più, «il francese non sa nulla di ciò che di rea­
le vi è nella metafisica», in Rousseau tutto prende la forma del parados­
so, in Fontenelle viene tutto soffocato con il dialogo e in Voltaire la sto­
ria, che è solo un pretesto per il suo spirito e le sue canzonature, viene
deformata. Del resto, osservando Voltaire che scrive su Corneille, «si
crederà di leggere il maestro di cerimonie e non il re del teatro»22’. Per­
sino Montesquieu non manca di falso splendore: «Si osservi la pena che
egli si dà, di essere astratto e profondo», per far credere di «dare molto
da pensare, e affinché sembri al contempo che egli ha pensato ancora di
più», tutto ciò con «sostegni di piccoli casi giuridici sotto un impianto di
immense prospettive, continuazione dello stesso soggetto, osservazioni,

220. Ibid.
221. Ibid., p. 106.
222. Ibid., pp. 106-108.
223. Ibid.,pp. 108-109 e 126.

121
Lo scontro delle tradizioni

preparazioni ecc.»224 Ecco in che cosa consiste in realtà la sua classifica­


zione dei regimi.
Herder attaccava allo stesso modo la teoria letteraria francese dei se­
coli XVII e XVIII, poco sensibile alle innovazioni teatrali di Shakespeare,
che egli riconduce allo spirito tedesco e nel quale vede il vero rappresen­
tante del dramma moderno, a preferenza dei tragediografi francesi del
periodo classico225. Per svalutare il secolo di Luigi XIV Herder dimentica
il suo famoso principio del pluralismo e del pari valore di tutte le epoche.
Dal momento che si tratta della Francia, è presto dimenticato il principio
secondo il quale ogni popolo reca in sé il proprio centro di felicità e sul
Grand Siècle piovono critiche tanto aspre quanto ingiuste e ridicole.
Il male risiede nello spirito come nella lingua. Il francese coltiva la fi­
nezza della forma: Herder infila nello stesso sacco «i Crébillon [...] i Fon-
tenelle [•■ •] i Bossuet e Fléchier». Se Fontenelle avesse applicato al con­
tenuto le qualità che applica alla forma, «che grande uomo sarebbe dive­
nuto»226. Ecco dove sta il grande problema, di natura duplice: da un lato
il francese non ha spirito filosofico, la sua filosofia è imparata e «dunque
non è che oscuramente precisa, dunque applicata a torto e a traverso, e
dunque non è più una filosofia!» D ’altro canto la sua lingua non permet­
te di esprimersi con precisione: «La filosofia della lingua francese di con­
seguenza è di impedimento alla filosofia dei pensieri». Montesquieu non
è preciso a causa della sua lingua, Helvétius e Rousseau «attestano ancor
più quel che dico, ognuno a suo modo», scrive Herder227.
Non solo il modello francese è cattivo, ma ogni imitazione in sé di­
strugge il genio nazionale. Il problema dell’imitazione letteraria diviene
un problema di patriottismo e in Germania la lotta non è condotta tan­
to contro gli Anciens ma contro i francesi. Da buono Stiirmer, il predi­
catore luterano coltiva l’ideale dell’originalità ma non più un’originalità
individuale quanto un’originalità collettiva, nazionale. Il termine Origi-
nalgenie compare in fondo alla pagina 153 del Giornale', i grandi poeti,

224. Ibid., p. 110.


225. Ernst Behler, «La Philosophie de l’histoire de Herder. Contribution à la querelle
des anciens et des modernes», in Pierre Pénisson (a cura di), Herder et la philo­
sophie de l’histoire, Ia$i, Universitari Alexandra loan Cuza, Iafli 1997, pp. 18-19.
226. Giornale di viaggio 1769, p. 120.
227. Ibid., p. 121.

122
Lo scontro delle tradizioni

secondo la sua teoria sul canto popolare, o i grandi uomini, secondo la


sua filosofia della storia, sono gli interpreti di un popolo intero. Duran­
te il suo viaggio in Francia egli affida le sue riflessioni alle note accluse
al diario: «Nessun uomo, nessun paese, nessun popolo, nessuna storia
nazionale, nessuno Stato è simile a un altro, dunque il vero, il bello e il
Intono non sono uguali. Se non si cerca questo, se si assume ciecamente
una nazione come modello, tutto viene soffocato»228. Gli ideali di autar­
chia spirituale e di relatività generalizzata qui praticati da Herder fanno
ili lui, in pieno XVIII secolo, un precursore di Spengler e del suo Tra­
monto dell’Occidente, come osserva giustamente Max Rouché. Nello
stesso ordine di idee, Herder nega la possibilità di rinnovamento per lo
spirito, la lingua, la letteratura e l’arte francesi229. Sicuramente la relati­
vità dei valori herderiani si accompagna alla simpatia per lo spirito sin­
golo di ogni popolo ma, se egli crede ai valori eterni in religione, nega ta­
li valori negli altri campi. Sul piano della religione regna la fede cristia­
na e l’educazione del genere umano da parte di Dio, ma nelle altre sfere
dell’attività intellettuale e culturale, in primo luogo in letteratura, regna
il nazionalismo tedesco, l’ideale di autarchia, il pluralismo, cioè l’antiu-
niversalismo, il cui corollario necessario è il relativismo. E ciò che Ber­
lin, compiuto herderiano della fine del Novecento, non capisce, perché
si rifiuta di riconoscere l’esistenza in Herder di questo dualismo. Quan­
do, negli eredi di Herder, la fede sarà scomparsa e la religione sarà solo
una forza sociale, la relatività dei valori invece persisterà.
E così che con Herder ha inizio la lunga riflessione sulla decadenza,
sulla morte delle civiltà e la loro relatività che culmina nel X X secolo con
Spengler. Infatti, per Herder, ogni apogeo è presagio di decadenza e si
tratta di una decadenza irrimediabile. Il Giornale proclama inevitabil­
mente il crepuscolo dell’Occidente: «Il raffinato spirito politico europeo
non sfuggirà al suo tramonto». Quel declino giungerà, anche se il pro­
cesso sarà lungo come lo è stato durante il periodo che precedette la ca­
duta di Roma: allora si è mormorato a lungo, «nel nostro tempo si dovrà

228. Citato dall’edizione Suphan, vol. IV, pp. 472-473, in M. Rouché, Introduction
a J.G . Herder, journal de mon voyage en l’an 1769, p. 47.
229. Rouché, Introduction a J.G . Herder, journal de mon voyage en l’an 1769, pp.
47 e 60-61.

123
Lo scontro delle tradizioni

mormorare ancora più a lungo, ma ancora più improvvisamente si avrà


l’esplosione. [...] Ciò è inevitabile, è nella natura stessa delle cose. La
stessa materia che ci fortifica e fa ossa delle nostre cartilagini, finisce per
trasformare in ossa anche quelle cartilagini che invece dovrebbero rima­
nere cartilagini e lo stesso raffinamento che ha incivilito il nostro volgo
lo renderà alla fine vecchio, debole e buono a nulla. Chi può andare con­
tro la natura delle cose?»230 Herder riprende questa idea in Ancora una
filosofia della storia, dove elabora in modo più sistematico le sue rifles­
sioni sull’esaurimento della civiltà europea, che spesso per lui significa il
deperimento del classicismo e della civiltà francese. Il rigido panslavi­
smo di Danilevski appare molto spesso come una semplice ripetizione
dei vecchi temi herderiani. Il declino dei popoli vecchi è compensato
dall’ascesa dei popoli giovani: «L’Ucraina diverrà una nuova Grecia:
[...] da tanti piccoli popoli selvaggi, come pure i greci erano un tempo,
sorgerà una nazione civile, i suoi confini si estenderanno fino al mar Ne­
ro e da lì per il mondo. L’Ungheria, queste nazioni e una parte della Po­
lonia e della Russia parteciperanno a questa nuova civilizzazione, da
nord-ovest lo spirito andrà per l’Europa, che giace nel sonno, e se la sot­
tometterà spiritualmente»231.
Tuttavia, leggendo Herder, ci si rende rapidamente conto che sareb­
be una grande ingenuità e un grosso errore scambiare per moneta so­
nante l’idea di eguaglianza di tutti i popoli e di tutte le epoche, come an­
che la futura ascesa di Ucraina e Ungheria. Non soltanto la Francia e il
XVIII secolo rappresentano una civiltà e un’epoca decadenti, non sol­
tanto il Medioevo rappresenta la giovinezza di una nuova civiltà ma, di
fronte ai tedeschi, anche gli slavi costituiscono una specie inferiore:
«Malgrado i loro successi qui e là, essi non furono mai un popolo intra­
prendente di guerrieri e di avventurieri come i tedeschi»232. Anzi: avan­
zavano ovunque sulle orme dei tedeschi, occupando terre abbandonate
da altri; buoni lavoratori, coltivatori e pastori, erano «servili e sotto-

230. Herder, Giornale di viaggio 1769, pp. 103-104 (S. IV, 421).
231. Ibid., pp. 92-93 (S. IV, 411-412).
232. Herder, Idées pour la philosophie de l ’histoire de l’humanité/ldeen zur Philo­
sophie der Geschichte der Menschheit, choix de textes, introduction, notes, par
Max Rouché; collection bilingue, Aubier, Paris 1962, livre XVI, ch. IV, p. 299
(S. XIV, 278).

124
Lo scontro delle tradizioni

messi», preferendo comprare la pace piuttosto che combattere, per cui


alla fine furono sterminati o asserviti. Non sorprende dunque che dopo
secoli di asservimento la «mitezza di carattere» degli slavi «sia degenera­
la in scaltra e crudele pigrizia di servi». Ma «la ruota del tempo che pas­
sa cambia tutto» e «anche voi, popoli scesi così in basso, [...] liberati
dalle vostre catene di schiavi, [...] disporrete delle vostre belle contrade
[...] e vi sarà permesso di celebrarvi le vostre antiche feste di lavoro e di
commercio pacifico»2” .
È difficile vedere in questi brani la messa in pratica del principio di
eguaglianza di tutti i popoli. L’inferiorità degli slavi è evidente ma, fat­
to ancora più interessante, la loro storia dolorosa ha plasmato per loro
una «natura». Herder non parla di razza o di specie, le nazioni sono fe­
nomeni storici, ma per lui sono esseri viventi, organismi con un carat­
tere proprio, unico nel suo genere, di cui Herder teme la scomparsa con
il livellamento culturale moderno. Questo carattere non è il prodotto di
una costituzione biologica unica nel suo genere bensì di una costituzio­
ne storica unica nel suo genere. La storia produce un carattere, una «co­
stituzione» nel senso proprio del termine. Al provvisorio punto d’arri­
vo nel quale ci si trova quando Herder scrive, quel carattere immutabi­
le, quello spirito unico e originale prende la forma concreta di determi­
nismo. Del resto, nell’opuscolo del 1774 troviamo già una gerarchia di
valori che non permette di affermare che tutti i popoli fossero popoli
eletti, ma soltanto alcuni. Anche la stessa idea di elezione è altamente
selettiva. Per questo, quando non si studiano più le grandi dichiarazio­
ni di principio ma l’analisi storica concreta fatta da Herder, si osserva
anche che l’idea in embrione in Ancora una filosofia della storia, cioè
che ogni popolo è a sua volta il popolo eletto in un dato momento del­
la storia dell’umanità, nelle Idee non si trova più. Contrariamente a
quanto si pensa di solito, l’epoca di Weimar non è sempre, né necessa­
riamente, un periodo di avvicinamento alYAufklärung in rapporto all’e­
poca dello Sturm und Drang.
Se Herder prova per gli slavi pietà mescolata a disprezzo, per quel
che riguarda i popoli non europei che in un qualsiasi momento si sono
stanziati in Europa, la gerarchia e la scala di valori sono ancora più nette.23

233. Ibid., livre XVI, eh. IV, pp. 301-303 (S. XIV), 280-282.

125
Lo scontro delle tradizioni

I turchi hanno provocato grande danno ai più bei paesi d’Europa tra­
sformandoli in deserti, «facendo dei popoli greci, un tempo i più prov­
visti di ingegno, degli schiavi infedeli, dei barbari dissoluti. Quante ope­
re d’arte sono state distrutte da quegli ignoranti! Quante cose che non
potranno mai più essere ricreate hanno fatto sparire! Il loro impero è
una grande prigione per gli europei che ci vivono [...]. Infatti cosa ci
vengono a fare degli stranieri che anche dopo millenni dimostrano di es­
sere barbari asiatici, cosa ci vengono a fare in Europa?»254
Lo stesso problema si pone per gli ebrei. Nel capitolo dedicato agli
antichi ebrei (terza parte delle Idee), apprendiamo che nel passato essi
furono un popolo saggio, pieno di astuzia, lavoratore, al quale non man­
cava neppure il coraggio guerriero. Certo non era un popolo dotato per
le arti e nemmeno per le scienze e, nonostante la sua posizione geografi­
ca, mancava dello spirito avventuroso dei popoli marittimi. Ma ciò che
ha rovinato gli ebrei è quel «tratto del loro carattere nazionale che già
Mosè combatteva con forza»: la mancanza di senso politico. «Insomma
è un popolo che si è perso durante la sua educazione, perché non è mai
giunto alla maturità di una cultura politica nella propria terra né, da al­
lora, al vero sentimento dell’onore e della libertà.» La conclusione fissa
l’immagine dell’ebreo per un secolo e mezzo, poiché sembra proprio che
i suoi difetti non siano acquisiti o frutto della storia, ma che dipendano
davvero dalla sua costituzione o dal suo carattere nazionale e si siano ma­
nifestati fin dall’inizio della sua esistenza: «Il popolo di Dio, al quale un
tempo il cielo aveva dato la patria, è stato da millenni e forse quasi dalla
sua apparizione una pianta parassita sul tronco di altre nazioni; una co­
munità di astuti intermediari sparsa quasi ovunque sulla terra, che mal­
grado ogni oppressione non aspira da nessuna parte a un onore e a una
dimora per sé, da nessuna parte ha una patria»255.
A questo ritratto poco lusinghiero si uniscono riflessioni sull’in­
fluenza ebraica nel mondo. L’universalismo ebraico è una grande fonte
di debolezza: «Bisognava assolutamente che le leggi di Mosè fossero in
vigore sotto tutti i cieli, anche presso quei popoli con una organizzazio­
ne politica assai diversa; è per questo che nessuna nazione cristiana ha2345

234. Ibid., livre XVI, ch. V, p. 305.


235. Ibid., livre XII, ch. Ili, pp. 203-205.

126
Lo scontro delle tradizioni

tratto esclusivamente dal proprio fondo la legislazione e la struttura del­


lo Stato»2’6. Herder continua ricordando la nefasta influenza esercitata
daH’«intolleranza dello spirito religioso ebraico sulla cristianità», nella
quale «si è creduto di vedere [...] un modello che anche i cristiani pote­
vano seguire». Uno dei mali provocati dall’Antico Testamento è «il pro­
getto contraddittorio che avrebbe dovuto fare del cristianesimo, religio­
ne spontanea e semplicemente morale, una religione di Stato alla manie­
ra ebraica». Alla fine, dispersi nei quattro angoli del mondo, gli ebrei,
che hanno quella particolarità per cui «nessun popolo della Terra si è
mantenuto ovunque riconoscibile e robusto quanto quello», si impadro­
niscono del «commercio interno e in particolare di quello del denaro»:
è così che «le nazioni non molto progredite dell’Europa divennero schia­
ve volontarie della loro usura»2’7.
Nell’ultima parte delle Idee Herder prosegue la sua dimostrazione:
«Noi li consideriamo qui solo come pianta parassita che si è avvinghiata
a quasi tutte le nazioni europee e assorbe ove più ove meno la loro linfa».
No, Herder non arriva a pensare «che essi abbiano portato la lebbra nel
nostro continente», questa «è una cosa inverosimile; ma fu una lebbra
peggiore il fatto che, durante tutti i secoli barbari, in quanto cambiavalu­
te, intermediari e funzionari dell’Impero, divennero vili strumenti di usu­
ra e per guadagno personale rafforzarono in tal modo l’ignoranza orgo­
gliosa e barbara dell’Europa in materia di commercio». Si è spesso agito
contro di loro con crudeltà e si è loro tirannicamente estorto quanto ave­
vano ottenuto sia con avidità e inganno che a forza di lavoro, d’intelli­
genza e di ordine; però, essendo abituati a simili trattamenti e costretti ad
aspettarseli, non facevano altro che ingannare e spremere ancora di più.
Tuttavia conviene riconoscere che gli ebrei furono indispensabili in Eu­
ropa, che lo sono ancora oggi e «non si potrebbe negare» che abbiano
svolto un ruolo importante nella diffusione, «durante i secoli oscuri», del­
la scienza, della medicina e della filosofia arabe. Anche grazie a loro «la
letteratura ebraica» si è conservata. Verrà un giorno in cui in Europa non
si chiederà più chi è ebreo o cristiano, «perché anche l’ebreo vivrà se­
condo leggi europee e contribuirà al bene dello Stato. Solo un’organizza-2367

236. lbid, pp. 201-203.


237. lbid.

127
Lo scontro delle tradizioni

zione barbara ha potuto impedirlo, o reso nocive le sue capacità»238. Tut­


tavia, nell’attesa, una degiudaizzazione della cristianità si impone.
E dunque piuttosto difficile, in queste condizioni, parlare di una
qualsiasi eguaglianza tra i popoli e le epoche. Tanto più che Herder stes­
so parla dei «secoli oscuri», ma a questo proposito la sua posizione cam­
bia secondo l’argomento trattato. In compenso non modifica la sua po­
sizione quando si tratta del declino francese, deH’inferiorità della pro­
duzione intellettuale francese, della nullità del secolo di Luigi XIV o del­
la superiorità tedesca. Allo stesso tempo si leva contro il pericolo supre­
mo, supremo perché mette in discussione la specificità tedesca, cioè
quello proveniente dalla dominazione francese.
Qui si pone chiaramente un interrogativo: in che modo l’europeizza-
zione proposta agli ebrei o, in altri termini, un cambio di identità come
solo mezzo per avere accesso a una vita decente, possa essere compatibi­
le con il principio del pari valore di tutte le culture. La risposta a questo
interrogativo è che non bisogna essere vittime delle apparenze, poiché
l’opera di Herder non è un innocente esercizio intellettuale. Sicuramente
egli ha fatto uno sforzo sincero per penetrare le opere dei popoli stranie­
ri. Tedesco della Prussia orientale, contrariamente alla massa dei suoi
compatrioti, egli ama la Russia e l’Ucraina, e nel suo Giornale sogna di fa­
re dell’Ucraina una nuova Grecia. Inoltre entra nello spirito della poesia
ebraica come nessun altro prima, si entusiasma per i canti di guerra dei
pirati scandinavi e normanni o per le canzoni d’amore dei finni e dei lap­
poni, pubblica le leggende dei popoli del mare del Sud. Ma la sua capa­
cità di guardare alle altre culture senza preconcetti e senza secondi fini si
ferma alle porte della Francia e, in particolare, dei secoli XVII e XVIII.
Non legge mai Corneille e Racine con lo stesso spirito con cui penetra
Shakespeare. Non guarda mai agli ebrei del suo tempo con lo stesso af­
fetto che ha verso le lontane tribù d’Israele e i loro poemi. Il pluralismo
vale solo per i popoli e le opere lontani nel tempo e nello spazio.

238. Ibid., livre XVI, ch. V, p. 305. Pénisson pensa che «il vocabolario di Herder
possa essere sospetto ma che, a conti fatti, se lo si legge con attenzione, in realtà
questo testo si sviluppa in modo tale che “sposta a poco a poco le aspettative
antisémite” fino alla “condanna degli Stati antisemiti”» (].G. Herder: la raison
dans les peuples, Ed. du Cerf, Paris 1992, p. 121). Una simile lettura non è im­
possibile ma non è la più plausibile.

128
Lo scontro delle tradizioni

È interessante osservare la lettura che Lévy-Bruhl, nel 1887, fa del­


l’opera di Herder, avendo fra le mani i due classici appena usciti, la pri­
ma edizione dei Werke a cura di Bernhard Ludwig Suphan e la biogra­
fia scritta da Rudolf Haym259. Secondo il filosofo francese che scrive nel
momento in cui il nazionalismo herderiano nella versione francese della
«terra dei morti» comincia a strutturarsi in forza politica, è proprio in
quanto uomo di lettere tedesco (idea ripresa mezzo secolo più tardi da
Rouché) che Herder attacca i Lumi francesi, per condannare con la mas­
sima energia l’imitazione in letteratura: «Quando il pubblico tedesco
smetterà di essere quel mostro a tre teste dell’Apocalisse, allo stesso tem­
po greco, francese e inglese? Quando prenderemo il posto che spetta al
nostro popolo? Non resta che toccare il terreno in terra tedesca e la poe­
sia nazionale zampillerà»239240. Secondo lo storico inglese Alexander Gil-
lies, uno dei primi biografi di Herder nel mondo anglosassone, lo scopo
di Herder, durante tutto il suo lavoro, fu di fare prendere ai tedeschi co­
scienza di sé e della loro potenza: «La Germania ha contratto verso di lui
un debito maggiore rispetto a chiunque altro tra Lutero e Hitler», scris­
se nel 1945241. Agli attenti lettori di Herder non poteva sfuggire che i

239. Rudolf Haym, Herder nach seinem Leben und seinem Werken, 2 voll., Weid­
mann, Berlin 1880-1885. Nel 1958 è uscita una nuova edizione: Aufbau-Ver­
lag, Berlin, e un’altra nel 1978 (Biblio Verlag, Osnabrück).
240. Citato in [Lucien] Lévy-Bruhl, «Les Idées politiques de Herder», Im revue des
Deux Mondes, t. 80, 15 avril 1887, p. 931. La biografia di Rudolf Haym, dive­
nuta molto rapidamente un classico, mostra un Herder critico deH’IUumini-
smo. Questo libro rimane sempre un’opera di riferimento. E interessante no­
tare che il primo e maggior lavoro su Herder e il suo tempo fu pubblicato in
Francia nel 1875 da C. Joret, Herder et la Renaissance littéraire en Allemagne
au XVIII' siede, Hachette, Paris 1875.
241. A. Gillies, Herder, Blackwell, Oxford 1945, p. 133. Gillies sottolinea il contri­
buto di Herder al movimento Sturm und Drang. Dieci anni più tardi, Robert T.
Clark pubblica Herder, bis Life and Thought, University of California Press,
Berkeley 1955, dove prende le distanze da Haym e da Gillies, che considera
prosecutore del pensiero dell’erudito tedesco. Clark minimizza l’influenza di
Hamann e piuttosto che uno Stürmer ci mostra un Aufklärer, magari esitante,
ma comunque un Aufklärer. Egli sa che Herder non può passare per razionali­
sta, ma pensa che le tendenze dominanti del pensiero di Herder non siano in­
compatibili con il razionalismo. Nel 1947 Gillies pubblica il Journal meine Rei­
se presso Blackwell, a Oxford.

129
Lo scontro delle tradizioni

Canti di guerra di un granatiere prussiano di Gleim, per esempio, aveva­


no esaltato il pastore protestante che non apprezzava Corneille. Gleim era
una sorta di Déroulède tedesco che celebrava le vittorie di Federico II ed
Herder non poteva farsi illusioni: era una poesia molto mediocre, ma na­
zionale. La sua indulgenza assume i toni dell’entusiasmo ed egli confes­
sa senza indugi la sua parzialità per uno scrittore tedesco che non imita.
Così il patriota prende il sopravvento sul critico, cosa per niente origi­
nale in un’epoca in cui ovunque si levano veementi proteste contro l’in­
fluenza straniera.
Ma, traendo conclusioni inattese dall’idea di Rousseau del ritorno al­
la natura, Herder si è spinto più lontano: se la natura è fonte di ogni bontà
e di ogni verità e se ogni popolo ha, come gli individui, un carattere pro­
prio, tutto ciò che uscirà spontaneamente dal suo genio non potrà che es­
sere buono; tutto ciò che proviene dall’imitazione riflessa, tutto ciò che
non esce dalle viscere della nazione non può sfuggire alla mediocrità e an­
zi non conta nulla. Morirà con la moda che lo ha fatto nascere. Herder
avrebbe riassunto volentieri il suo pensiero in questi termini, dice Lévy-
Bruhl: «La letteratura tedesca sarà nazionale o non sarà affatto»242243.Non ci
sono dubbi che Herder utilizzi il suo principio di pluralismo storico in fa­
vore dei tedeschi e della loro cultura. E evidente che un simile ideale di au­
tarchia culturale, basato sull’insieme della filosofia herderiana della storia,
non poteva restare senza implicazioni politiche immediate. L’idea secondo
la quale l’opera di Herder manifestava un carattere apolitico o che un na­
zionalismo culturale potrebbe non sfociare necessariamente in un nazio­
nalismo politico è un’invenzione di alcuni critici del nostro tempo e non
regge. Non era venuta in mente né alla generazione delle guerre napoleo­
niche né a quella che, tra la fine del X IX e l’inizio del X X secolo, vedeva
sorgere, un po’ ovunque in Europa, il nazionalismo radicale.
Qui arriviamo a una svolta: quando Herder si chiede quali cause nel
passato abbiano ostacolato la libera fioritura del genio germanico, giun­
ge a deplorare i funesti effetti del Rinascimento. «D a allora noi abbia­
mo ricevuto tutto dalle mani dei latini, ma loro ci hanno anche preso
tutto quello che avevamo»245. La Germania ci ha rimesso nel cambio.

242. Lévy-Bruhl, «Les Idées politiques de Herder», pp. 931-932.


243. ( ’.¡tato in ibid., p. 932.

130
Lo scontro delle tradizioni

Sarebbe stato meglio per lei seguire la via tracciata dal suo genio, così
sarebbe sfuggita alle influenze straniere, soprattutto all’influenza fran­
cese, che in un secolo l’ha strappata da se stessa. In altri termini ciò che
Herder deplora è l’influenza occidentale: il Rinascimento italiano, l’Il­
luminismo francese e inglese. Ancora più indietro, è Roma che gli ripu­
gna e Roma significa il diritto romano, il concetto di cittadino, concet­
to giuridico e politico e non culturale. Herder preferisce di gran lunga
la polis greca, società chiusa e nazionale, con i suoi dèi locali e i suoi co­
stumi unici; egli detesta l’impero multinazionale nel quale vede una for­
za livellatrice. Concepito semplicemente come cittadino, l’uomo perde
la sua specificità. Per lo stesso motivo Herder prova orrore per l’Illu­
minismo franco-kantiano e per quello inglese, i cui concetti fondamen­
tali sono politici e giuridici, e pretende di sostituirli con concetti etnici
e culturali: all’idea concreta di cittadino oppone lo spirito e il carattere
della nazione. Ora, contrariamente a quanto sostengono ancora oggi i
loro critici, erano proprio gli Illuministi a utilizzare concetti concreti e
ad affrontare questioni concrete, mentre erano i loro nemici a giocare
con le astrazioni. Definire una nazione attraverso il suo «carattere» o il
suo «spirito», come fa Herder in Ancora una filosofia della storia, vuol
dire fare appello a concetti nettamente meno concreti e precisi della de­
finizione politica e giuridica di nazione fornita daWEncyclopédie. Ma,
per essere precisi, in Herder si compie un vero e proprio rovesciamen­
to di valori: la cultura costituisce la realtà mentre la politica rappresen­
ta l’artificio. L’appartenenza a un corpo di cittadini è artificiale, lo stes­
so corpo dei cittadini è artificiale, mentre l’esistenza di una nazione è
paragonabile a quella di una pianta: ormai la nazione possiede un’esi­
stenza quasi biologica.
Le due concezioni del mondo qui delineate non potevano affatto
coesistere. I philosophes illuministi, quelli fedeli all’idea di un progresso
continuo e quelli che, come Voltaire, non l’accettavano, esaltavano i tem­
pi moderni perché nella loro civiltà vedevano uno sforzo continuo per li­
berarsi dal suo carattere cristiano, germanico e feudale. Il progresso era
proprio questo: «Dal quadro che abbiamo tracciato dell’Europa dal
tempo di Carlo Magno fino ai nostri giorni è facile giudicare», scrive
Voltaire nella penultima pagina de)\'Essai sur les mceurs, «come questa
parte del mondo sia incomparabilmente più popolata, più incivilita, più
ricca, più illuminata di quanto non lo fosse allora, e che essa è persino

131
Lo scontro delle tradizioni

molto superiore a ciò che era l’Impero romano, se se ne eccettua l’Ita­


lia»2442456. La maggior parte degli Illuministi condannava nel Medioevo un
passato che essi volevano vedere sparire per sempre: ecco perché consi­
deravano il Rinascimento, evocazione grandiosa dell’antichità classica e
pagana, l’inizio della modernità. Herder, al contrario, vuole far rivivere
una civiltà germanica e cristiana, a volte ancora più germanica che cri­
stiana, organica e nazionale.
A questo punto è utile aggiungere un altro elemento importante: l’i­
deale di una cultura protetta da barriere pressoché insormontabili, che
si sviluppa all’inizio degli anni Settanta del Settecento, spicca di fronte
all’entusiasmo francese per i paesi stranieri, in particolare per l’Inghil­
terra. Herder, che si schiera in difesa della lingua tedesca contro il fran­
cese, esecra il cosmopolitismo francese. Sicuramente, i philosopbes sono
patrioti e consapevoli della grandezza della loro patria non meno di
Herder. Nei fatti, sembra proprio che non debbano ricevere lezioni di
patriottismo da nessuno. Tuttavia Montesquieu e Voltaire hanno sog­
giornato a lungo in Inghilterra, patria della libertà che non smetteran­
no di ammirare. Voltaire ha imparato l’inglese e, anche se la sua pro­
nuncia lascia molto a desiderare, può comunque scrivere, bene o male,
in quella lingua. Montesquieu, dopo avere girato tutta l’Europa, dal­
l’Ungheria ai Paesi Bassi, trascorre due anni oltremanica. Rousseau sog­
giorna presso Hume, mentre Herder non ammira la libertà inglese, il
suo sistema parlamentare e la libertà della sua stampa. Non ha lo stesso
senso della tolleranza dei francesi, non ha condotto eroiche campagne
per la giustizia e il diritto come Voltaire e, in quanto alla lotta contro la
schiavitù, il vero manifesto dell’antischiavismo del XVIII secolo è il fa­
moso capitolo quinto del XV libro dell'Esprit des lois24’. Per Voltaire i
veri colpevoli della tratta dei neri sono gli europei24” e in Rousseau si tro­
vano pagine eloquenti e non ambigue di condanna della schiavitù: «C o­
sì, in qualunque senso si esamini il problema, il diritto di schiavitù è
nullo, non solo perché è illegittimo, ma perché è assurdo e non significa

244. Voltaire, Saggio sui costumi, t. IV, pp. 402-403.


245. Montesquieu, Lo spirito delle leggi, trad. di Beatrice Boffito Serra, Rizzoli, Mi­
lano 1967-1968, 2 voli., pp. 312-313: «Della schiavitù dei negri».
246. Voltaire, Saggio sui costumi, t. IV, p. 398.

132
Lo scontro delle tradizioni

nulla. Queste parole, schiavitù e diritto, sono contraddittorie; esse si


escludono a vicenda»247.
Herder invece pensa che, «vicino alla scimmia», la natura «ha posto
il negro»248. «Compiangiamo dunque il nero», scrive nel libro VI delle
Idee che traccia uno sprezzante bilancio su neri e gialli, sui primi ancora
più che sui secondi. Parlando degli africani dice che «la Natura, in virtù
del semplice principio della sua arte creatrice di forme, doveva dotare
quei popoli, che era obbligata a privare dei doni più nobili, di una misu­
ra molto più ricca di gioie sessuali, cosa che non poteva che manifestarsi
in modo fisiologico. [...] Compiangiamo dunque il nero, poiché, per la
sua complessione richiesta dal clima, non gli poteva essere accordato un
dono più nobile, ma non disprezziamolo; e onoriamo la Madre che, an­
che quando toglie qualcosa, sa compensare. [...] A cosa gli servirebbe il
tormentoso sentimento delle gioie superiori per le quali non è fatto?» La
Natura «non avrebbe dovuto creare l’Africa; oppure, per abitarci, occor­
revano necessariamente dei negri»249. Anche i cinesi e i giapponesi sono
lontani dal suscitare la sua ammirazione: osserva le diverse deformazioni
corporee che affliggono quei popoli di origine mongola. Gli indù sono
solo «agnelli felici» di una dolcezza proverbiale, cosa che, per questo am­
miratore delle tribù germaniche guerriere, non è precisamente un com­
plimento; non si trova nulla in queste pagine che permetta di farsi un giu­
dizio favorevole sulla loro civiltà250. È certo che il cristianesimo herderia-
no è accompagnato da un grande disprezzo per le razze «di colore».

247. Rousseau, Il contratto sociale, p. 19. In Le Code noir ou le calvatre de Canaan


(PUF, Paris 1987), Louis Sala-Moulins rivolge una durissima requisitoria, vera
ma spesso ingiusta, contro Montesquieu e Rousseau: si veda la terza parte del­
l’opera, intitolata «L e Code noir à l’ombre des Lumières», in particolare alle
pp. 221-255. Che né Montesquieu né Rousseau facciano parola della famosa
ordinanza reale del 1685, inasprita nel 1724 (p. 217), è certo una lacuna enor­
me ma non cambia il fatto che i philosophes illuministi abbiano combattuto la
schiavitù con i mezzi a loro disposizione. Chiunque li leggesse capiva bene di
che cosa si trattava.
248. Herder, Idee per la filosofia della storia dell’umanità, a cura di Valerio Verra,
Laterza, Roma-Bari 1992 (edizione ridotta), p. 291.
249. Herder, Idées pour la philosophie de l’histoire de l’humanité, livre VI, ch. IV, pp.
123-125.
250. Ibid., pp. 115-119.

133
Lo scontro delle tradizioni

Non si trova niente di equivalente nel capitolo tredicesimo del libro


XXV dell'Esprit des lois, «Umilissima rimostranza agli Inquisitori di
Spagna e Portogallo», che rimane uno dei più bei manifesti sulla tolle­
ranza che siano mai stati scritti. Quel capitolo si conclude con il seguen­
te brano: «Dobbiamo avvertirvi di una cosa: cioè che se qualcuno dei po­
steri oserà mai dire che nel secolo in cui viviamo i popoli d’Europa era­
no civili, vi si citerà per dimostrare che erano barbari, e l’idea che si avrà
di voi sarà tale da coprire d’infamia il vostro secolo, e gettare l’odio su
tutti i vostri contemporanei»251.
La lotta di Herder contro i philosophes è una lotta contro il raziona­
lismo, contro una filosofia della storia non cristiana, contro la propaga­
zione di una civiltà fondata sull’autonomia dell’individuo e dei diritti
dell’uomo. La credenza in un disegno provvidenziale, anche se poggiata
sui principi leibniziani di continuità e di finalità, non poteva che scon­
trarsi con la lotta contro il cristianesimo condotta dalla maggior parte dei
pensatori illuministi in Francia e in Inghilterra. Questa era una lotta glo­
bale, le cui componenti non era possibile separare. La campagna contro
il cristianesimo era allo stesso tempo una campagna contro gli abusi e i
pregiudizi, in nome dei diritti dell’individuo e della sua autonomia, af­
fermatasi nel XVII secolo in primo luogo con Hobbes, poi con Locke e
con gli innumerevoli pamphlet del periodo della Gloriosa Rivoluzione.
La liberazione dell’uomo non poteva che essere una liberazione intera,
totale: è proprio contro questo che Herder afferma i diritti della comu­
nità culturale e nazionale. E in quel momento che lancia l’idea della na­
zione come un organismo vivente e dell’individuo come parte integran­
te di un tutto.

251. Montesquieu, Lo spirito delle leggi, libro XXV, cap. XIII, p. 589.
C A P IT O L O 2

Le fondamenta di un’altra modernità

La riflessione suU’Uluminismo è stata sempre una meditazione sul mon­


do contemporaneo. Vico, Herder e Burke vivevano nel Settecento ma
per i loro successori il periodo dei Lumi e della Rivoluzione francese ave­
va fissato i parametri della vita politica e culturale dei due secoli se­
guenti. Quel «secolo unico» era tale anche secondo Michelet ma per ra­
gioni diametralmente opposte a quelle dei successori dei suoi primi
grandi nemici. In effetti, non meno e forse ancor più che nell’Ottocen­
to, nel Novecento la lettura dei primi grandi critici deirilluminismo è
fortemente sintomatica sia delle dimensioni assunte dalla critica stessa
che delle poste in gioco di quel secolo.
Vico precede Herder, ma la sua influenza si fa sentire veramente solo nel
XIX secolo; inoltre essa non è ancora davvero paragonabile a quella dell’ec­
clesiastico tedesco. Costui, divenuto subito celebre e, come Voltaire, con
una certa propensione per i pamphlet, esercita sul pensiero contemporaneo
un’influenza di cui è difficile esagerare l’importanza per il mondo moderno.
Invece Vico, nella sua Autobiografia - dove parla di sé in terza persona, pro­
babilmente per differenziarsi da Descartes che usa l’«io» - ci dice che «non
solo viveva da straniero nella sua patria, ma anche sconosciuto»1. E solo al­
l’inizio del XIX secolo che l’autore della Scienza nuova accede al rango di
più grande filosofo italiano. Si sarebbe dovuto attendere Michelet perché la
sua presenza si facesse sentire fuori dalla penisola. Con la fine degli «anni
Michelet», il pensiero di Vico ricompare soprattutto per alimentare il lavo­
ro di autori il cui peso sarà notevole alla svolta del X X secolo: Croce e Geor­
ges Sorel, poi, nella seconda metà del secolo, Isaiah Berlin.
Ai giorni nostri, sia nella cerchia dei critici della cultura che in quel­
la dei postmoderni di ogni credo e di ogni disciplina universitaria, la sua

1. Giambattista Vico, Autobiografia, a cura di Mario Fubini, Einaudi, Torino 1960, p. 27.

135
Le fondamenta di un’altra modernità

lunga disgrazia ha fatto posto a una cieca ammirazione. Colui che non era
nulla diventa tutto, nota con finezza Alain Pons; e si trova investito del
ruolo di precursore universale, di quello che aveva detto tutto prima de­
gli altri. Avremo così un Vico preromantico, hegeliano, marxista, esisten­
zialista, strutturalista ante litteranf. Oggi abbiamo anche un Vico post­
moderno. In ogni caso, si è creato il mito di Vico, gigante solitario, mar­
ginale, geniale; l’uomo che da solo ha inventato le scienze umane e le
scienze sociali, in particolare la storia e la filosofia della storia, l’antropo­
logia e la linguistica. E vero che Vico ha fatto di tutto per convincere di
ciò i lettori e sicuramente anche i posteri. Nella ricerca che intraprende,
dice, si deve «far conto come se non vi fussero libri nel mondo»’.23

2. Alain Pons, Introduction a Vie de Giambattista Vico écrite par lui-même, Lettres, La
méthode des études de notre temps, Présentation, traduction et notes par Alain Pons,
Grasset, Paris 1981, p. 8. Si può consultare su questo tema un eccellente articolo di
Joseph Mali, «Retrospective Prophets: Vico, Benjamin and other German Mytholo-
gists», C.lio, voi. 26, 1997, pp. 427-448. Nel numero del 1994, voi. 23, si può trovare
di James Robert Gcetsch «Expecting the Unexpected in Vico» (pp. 409-422). Si veda
anche il voi. 22 (3), 1996, di Historical Reflections - Réflexions historiques: Patrick H.
Hutton, «Vico and the End of History» (pp. 537-558), Sandra Rudnick Luft, «Situa­
ting Vico between Modem and Postmodern» (pp. 587-617) e Cecilia Miller, «Inter­
pretations and Misinterpretations of Vico» (pp. 619-639). Nel 1993 la Miller pubbli­
ca uno studio di grandissima qualità sul libro autobiografico di Vico: Giambattista Vi­
co: imagination and Historical Knowledge, St. Martin’s Press, New York 1993. Più di
recente la Luft ha pubblicato Vico’s Uncanny Humanism: Reading the New Science
between Modem and Postmodern, Cornell University Press, Ithaca, N.Y., 2003.
3. Giambattista Vico, Im Scienza nuova seconda, a cura di Fausto Nicolini, Laterza, Ba­
ri 1942, 2 voli., t. I, p. 117, # 330. Per facilitare il lettore, fornisco anche il numero
del paragrafo (#) corrispondente. Il mito di Vico solitario è largamente esagerato. In
un libro piccolo ma perspicace, benché destinato più al grande pubblico colto che
agli eruditi, Peter Burke mostra l’ambiente intellettuale cui apparteneva Vico, la re­
pubblica delle lettere del suo tempo: il pensatore napoletano era andato molto oltre
i suoi contemporanei, ma non aveva inventato tutto dal nulla. Si veda Peter Burke,
Vico, Oxford University Press, Oxford 1985. Per un saggio universitario di grande
qualità si può consultare Mark Lilla, The Making o f an Anti-Modern, Harvard Uni­
versity Press, Cambridge 1993. Quest’opera ha anche un’eccellente bibliografia cri­
tica. Si veda anche I larold Samuel Stone, Vico’s Cultural History: the Production and
Transmission of Ideas in Naples, 1685-17SO, E.J. Brill, New York 1997; Carmelo
D ’Amato, Il mito di Vico e la filosofia della storia in Trancia nella prima metà del­
l’Ottocento, Morano, Napoli 1977. In francese, cfr. Bruno Pinchard, «Nouvelles lec­
tures de Giambattista Vico», Revue de synthèse, 1989, pp. 483-498.

136
Le fondamenta di un’altra modernità

In effetti ognuno trova in Vico quello che cerca, perché il suo stile vi
si presta bene, anche se in questo non è unico. Accade lo stesso per Her­
der, Hegel, Marx o Nietzsche. Come Herder, egli aveva la pretesa di po­
tere inglobare tutto nella sua opera. Aspirava a un sapere universale, co­
sa non rara all’inizio del XVIII secolo, quando stava nascendo il mondo
moderno, e siccome tutto in lui è allo stato embrionale gli può essere at­
tribuita ogni idea, poiché essa non è ancora davvero maturata o messa al­
la prova; per cui tutto risulta aperto a diverse interpretazioni. Da un la­
to queste interpretazioni cambiano in funzione dell’epoca e delle mode,
così come secondo la disciplina propria del lettore, ma del resto Vico,
come Herder, è un autore altamente polivalente. Di più, mentre inizia il
grande balzo in avanti deU’Illuminismo, l’autore della Scienza nuova, che
sembra volervi prendere parte richiamandosi all’esempio di Bacon, in
realtà si erge contro la rivoluzione intellettuale del suo tempo. Poiché in
questo libro si farà spesso riferimento a Vico, conviene fermarsi sugli ele­
menti fondamentali di questo primo attacco all’Illuminismo. E chiaro
che nel quadro di questo lavoro non è il caso di avventurarsi in un’ana­
lisi globale del pensiero dell’autore di De antiquissima italorum sapien­
za, opera con la quale Vico inizia la sua critica a Descartes, bensì di esa­
minare i principi che avrebbero ispirato le campagne antilluministiche
dei secoli X IX e X X 4.
Bisogna occuparsi un momento delle pagine che Paul Hazard dedi­
ca a Vico, tanto sono caratteristiche di un approccio diffuso. Se l’Euro­
pa avesse ascoltato Vico, «quell’eroe del pensiero e quel genio origina­
le», avrebbe scoperto che non la ragione era la nostra facoltà primaria
ma l’immaginazione e avrebbe saputo che la ragione non ha fatto altro
che inaridire la nostra anima. Gli europei avrebbero rimpianto i nostri
paradisi perduti. Avrebbero inoltre appreso che la spiegazione delle co­
se proveniva dalle profondità dei tempi. Così «tutte le loro idee sareb­
bero state rovesciate, come tutta la loro concezione del mondo». Il no­
stro destino intellettuale, si chiede il grande specialista del XVIII secolo,*li.

4. Giambattista Vico, «D e antiquissima italorum sapientia», in Le orazioni inaugura­


li. Il De italorum sapientia e le polemiche, a cura di Giovanni Gentile e Fausto N i­
colini, Laterza, Bari 1914. Diversi studi su Vico, di cui qualcuno eccellente, sono
stati pubblicati in questi ultimi anni, soprattutto in italiano e in inglese.

137
Le fondamenta di un 'altra modernità

«non sarebbe stato diverso?»5 Sicuramente lo sarebbe stato: l’unico pro­


blema che si pone è sapere se sarebbe stato migliore o peggiore. Se gli
uomini del XVIII secolo si fossero inchinati di fronte al verdetto della
storia, se non fossero stati toccati, come Vico, dalle idee di Locke, que­
sta «novità del giorno [...] giunta fresca da Londra»,67cosa che agli oc­
chi di Hazard sembra passare per sventura, quanti anni sarebbero dovuti
passare prima della Dichiarazione d’indipendenza americana e della Di­
chiarazione francese dei diritti dell’uomo? Quali potevano essere preci­
samente i paradisi perduti per tutti quegli europei che non erano nobili,
né gente di corte, né vescovi, né intellettuali di fama? La loro vita sareb­
be stata migliore se la realtà di tutti i giorni non fosse stata sottoposta al­
la critica che la dichiarava indegna? Se, senza attendere il Novecento, il
Settecento avesse respinto la ragione in secondo piano, e se quella «no­
vità del giorno» che fu il Secondo trattato non avesse attraversato la Ma­
nica, le idee di libertà, giustizia, tolleranza avrebbero preso corpo? Sen­
za Locke il nostro mondo sarebbe stato meno brutale, meno violento,
meno settario?
La tesi epistemologica centrale di De antiquissima italorum sapientia,
conosciuta come teoria del verum-factum, è l’identità del vero col creato,
cioè con ciò che deve la propria esistenza al fatto stesso di essere stato rea­
lizzato. Gli uomini capiscono solo ciò che essi hanno creato, e siccome il
mondo civile è opera degli uomini, quest’opera ha bisogno della scienza e
può essere oggetto di una scienza. In altri termini, poiché la creazione è
un’attività, essa esige un creatore. In questo lavoro matura la contestazio­
ne di Vico nei confronti di Descartes: se noi possiamo provare o conosce­
re solo quello che abbiamo noi stessi creato, possiamo provare l’esistenza
di Dio solo se lo avessimo creato noi. Ecco perché « impiae curiositas no-
tandi, qui Deum Opt. Max. a priori provare student»1. La metafisica non
può essere provata a priori per la stessa ragione: la critica a Descartes si
sviluppa attraverso un rifiuto dell’aridità del cartesianismo, incapace di

5. Paul Hazard, La Pensée européenne au XVIII siècle de Montesquieu à Lessing,


Fayard, Paris 1995; Hachette (coll. «Pluriel»), p. 43.
6. Ibid., p. 44: si noti l’ironia della frase.
7. Vico, «De antiquissima italorum sapientia», caput III, «D e caussis», in Le orazio­
ni inaugurali. Il De italorum sapientia e le polemiche, p. 150 («coloro che cercano
di provare l’esistenza di Dio a priori devono essere censurati per empia curiosità»).

138
Le fondamenta di un'altra modernità

apprezzare il valore delle scienze dell’uomo e di contribuire al loro svi­


luppo. Nella sua Autobiografia Vico rivolge dure critiche all’autore del Di-
scours de la méthode, la cui fisica era allora «sul più bello celebrarsi dagli
uomini letterati di conto»: «Di nulla costa in un sistema la filosofia di Re­
nato [Renée Descartes]», la sua metafisica «fruttò punto alcuna morale
comoda alla cristiana religione», né ne «esce una logica propria»89.
In effetti per Descartes la verità non ha storia, dunque la storia non
insegna nulla e il filosofo, così come il saggio, non deve perderci tempo,
fosse pure la storia del loro stesso spirito. E per questo che Vico prende
in contropiede il metodo cartesiano: scriverà la sua biografia da «istori-
co», dice in un brano molto caratteristico. «Non fingerassi qui ciò che
astutamente finse Renato Delle Carte d ’intorno al metodo de’ suoi stu­
di, per porre solamente su la sua filosofia e mattematica e atterrare tutti
gli ahri studi che compiono la divina e umana erudizione; ma, con inge­
nuità dovuta da istorico, si narrerà fil filo e con ischiettezza la serie di
tutti gli studi del Vico, perché si conoscano le proprie e naturali cagioni
della sua tale e non altra riuscita di letterato.»’ Al contrario di quella che
egli ritiene la via scelta da Descartes, Vico intende dunque esporre la ve­
ra storia della sua avventura intellettuale, seguendo le tortuosità della vi­
ta che, a causa delle incertezze dell’azione, non può seguire una via di­
ritta. Nella sua «autobiografia» - o, se si preferisce, nella sua agiografia
personale - parla dei suoi maestri spirituali, Platone, Tacito, Francis Ba­
con, Grotius, «questi quattro auttori che ammirava sopra tutt’altri, con
desiderio di piegargli in uso della cattolica religione»; i due giganti del­
l’antichità vi contribuirono ciascuno a suo modo, Tacito contemplando
« l’uomo qual è, Platone qual dee essere»10.
Indubbiamente Vico resterà sempre fedele all’idea per la quale le
matematiche - qui parla della geometria - restano il terreno più sicuro

8. Vico, Autobiografia, pp. 23 e 25. In merito si veda R. Miner, «Verum-factum and


Practical Wisdom in the Early Writings of Giambattista Vico», journal o f the Hi­
story of Ideas, voi. 59, gennaio 1998, pp. 53-73. Nella stessa rivista si veda anche,
ventanni prima, nel 1978, voi. 39, IV, James C. Morrison, «Vico’s Principle of
Verum is Factum and the Problem of Historicism» (pp. 579-595).
9. Ibid., pp. 5-6. Si veda anche l’eccellente introduzione di Alain Pons in Vie de
Giambattista Vico, pp. 26-38, sulla genesi e il significato dell’opera.
10. Ibid., pp. 31 e 47-49.

139
Le fondamenta di un 'altra modernità

delle conoscenze umane. Ma allo stesso tempo interviene un cambia­


mento del suo pensiero, che trova espressione nella sua grande opera: la
differenza nella nostra conoscenza delle questioni umane, e quindi della
società, diviene una questione di principio e non di livello, e la storia de­
gli uomini e delle società in cui essi vivono diviene la conoscenza più si­
cura accessibile all’uomo11. Quindi, scrive Vico alla fine del suo libro, do­
ve riprende quell’idea fondamentale già espressa prima: «Gli uomini
hanno essi fatto questo mondo di nazioni (che fu il primo principio in­
contrastato di questa Scienza, dappoiché disperammo di ritruovarla da’
filosofi e da’ filologi)»1213.
Qui viene la grande scoperta che si attribuisce a Vico: il corso delle
vicende umane non è condizionato dal caso o da scelte arbitrarie ma dal
loro contesto storico e sociale. Ne deriva che una scienza di queste vi­
cende, che sono le nostre, cioè una scienza sociale, è possibile. Ma ciò
che in ultima analisi governa la vita degli uomini, che siano in famiglia
o all’interno dello Stato, è la provvidenza ed è la provvidenza che per­
mette loro di uscire da uno stato di natura hobbesiano, è lei che per­
mette agli uomini di superare i loro istinti e il loro comportamento da
bestie selvagge che si preoccupano unicamente del loro bene indivi­
duale e di compiere con intelligenza delle scelte che permettano loro di
vivere «in umana società»” . Probabilmente è leggendo Grotius che Vi­
co ha compreso che la filosofia e la filologia (termine che per lui signi­
fica anche la storia), la prima rapportandosi all’universale e all’eterno,
la seconda al particolare e al contingente, potrebbero essere combinate
insieme per creare una scienza dell’uomo. Ma è la lettura degli avversa­
ri di Grotius, in particolare Pufendorf sullo stato di natura e sul con­
cetto di diritto naturale, che porta Vico a respingere la dottrina classica
di un diritto universale e accessibile alla ragione umana. Attraverso uno
studio delle teorie giusnaturaliste Vico è condotto a respingere quelle
delle origini e della natura delle società fondate sull’idea del diritto na­

ti. Vico, La Scienza nuova seconda, t. I, p. 129, # 349. Si veda anche l’Introduzione
di Leon Pompa in Vico, Selected Writings, Cambridge University Press, Cam­
bridge 1982, p. 9.
12. Ibid., t. II, p. 164, # 1108. Si veda anche 1.1. p. 118, # 332. I filologi sono in pra­
tica gli storici.
13. Ibid., t. I, p. 76, # 133; p. 77, # 341; t. II, p.64, # 1108.

140
Le fondamenta di un’altra modernità

turale14. Lo stesso avviene con Hobbes: Vico accetta le teorie dell’autore


del Leviathan per quanto riguarda lo stato di natura e le origini dell’u-
manità, ma respinge la concezione della società che ne deriva: la società
sarebbe il prodotto di un contratto e quindi le sue origini non possono
che essere razionaliste, individualiste e volontariste.
Un’altra idea fondamentale che Vico trae dalla lettura dei suoi pre­
decessori, particolarmente dal filologo Jean Le Clerc (Vico scrive Gio-
van Clerico), da lui molto apprezzato, che sembra essere stato uno dei
rari eruditi dell’epoca a tener conto della sua opera15, è l’importanza del­
l’idea di mito. Vico è giunto alla conclusione che i teorici del diritto na­
turale erano incapaci di spiegare la natura mitica del pensiero umano de­
gli esordi16. Quest’idea avrà un ruolo determinante nell’antirazionalismo
di Sorel, che negli ultimi anni del X IX secolo dedicherà un lungo studio
al filosofo napoletano17.
La «scienza nuova» di Vico è dunque quella delle cose prodotte dal­
l’uomo1819.La sua ambizione era di realizzare una «storia universale di tut­
ti i tempi»” . Ancora una volta non è possibile entrare qui nella questio­
ne della doppia natura dell’uomo, cioè l’uomo che dopo la caduta, se­
condo la dottrina cristiana, è in stato di peccato, e l’uomo che si costrui­
sce le realtà proprie. Ma, e questo è un elemento fondamentale per com­
prendere l’attacco lanciato da Vico all’Illuminismo, l’attività umana non
è quella dell’individuo bensì di un agente sociale. Essa non è autonoma
ma guidata dalla provvidenza in un modo non sempre chiaro. Gli obiet­
tivi che l’individuo cerca di raggiungere sono in un rapportò necessario
con il suo ruolo sociale. Egli non può mai sfuggire, persino quando per­
segue obiettivi individuali, alla rete dei rapporti che sono suoi in quanto

14. Pompa, Introduzione a Vico: Selected Writings, p. 10.


15. Vico, Autobiografia, p. 59.
16. Pompa, Introduzione a Vico: Selected Writings, p. 10. Si veda anche Leon Pom­
pa, Vico: A Study o f the «New Science», Cambridge University Press, Cambridge
1975 (2‘ ed. 1990). Una nuova edizione inglese della Scienza nuova, curata da
Leon Pompa (The First New Science) è apparsa presso la Cambridge University
Press nel 2002.
17. Si veda il cap. 7.
18. Vico, La Scienza nuova seconda, t. I, p. 117-118, # 331; p. 129, # 349.
19. Vico, Autobiografia, p. 32.

141
Le fondamenta di un’altra modernità

essere socializzato. L’individuo si trova così, fin dal suo primo respiro,
stretto nelle maglie del suo contesto sociale e culturale. Ne deriva che le
sue azioni avranno delle conseguenze indesiderate e non previste, che sa­
ranno a loro volta aU’origine di un’altra evoluzione sociale20. Le affinità
con Hegel, che pure balzano agli occhi, non devono essere spinte trop­
po oltre: in Vico non si tratta di un processo dialettico, perche il pro­
gresso è seguito da periodi di declino. Il problema della decadenza qui
è posto chiaramente e servirà a combattere le diverse teorie di progres­
so per tutto il X IX secolo. Allo stesso modo qui si riconoscono i grandi
temi herderiani; ma la campagna contro i Lumi aveva una logica interna
ed Herder poteva sviluppare il suo pensiero senza conoscere Vico: Mon­
tesquieu e Voltaire bastavano ampiamente.
La teoria della storia rappresenta uno degli aspetti più interessanti
dell’opera di Vico. Ancora una volta dovremo procedere per sintesi. Vi­
co voleva far sì «che in un principio unisse egli tutto il sapere umano e
divino»21 ed elaborare «una storia ideale eterna sulla quale corrèsse la
storia universale di tutti i tempi, conducendovi, sotto certe eterne pro­
prietà delle cose civili, i surgimenti, stati, decadenza di tutte le nazioni»22.
A tale scopo il filosofo napoletano si sposta, come tutti gli autori dei suoi
tempi e come tutti i suoi predecessori, sull’origine della specie e delle sue
prime istituzioni sociali. Soltanto che, mentre Hobbes e Locke - che Vi­
co pure conosceva e di cui fa menzione nella sua autobiografia - vede­
vano l’emergere delle società come un processo di decisione da parte di
esseri razionali per natura, costretti dalle condizioni dello stato di natu­
ra a cercare rifugio nella società e nello Stato, Vico si separa fin dall’ini­
zio dai fondatori del liberalismo. Egli respinge la loro visione razionali­
sta dell’uomo, questa sorta di macchina a due zampe creata da Hobbes,
si leva contro la loro visione della società individualista, o atomista, vo­
lontarista e utilitarista. Da Hobbes Vico ha tratto, nel migliore dei casi,
solo lo stato di natura: l’idea dell’origine della società basata sull’auto­
nomia dell’individuo onnipotente, che modella il suo mondo senza l’in-

20. Vico, Ijx Scienza nuova seconda, t. I, p. 33-34, # 41; p. 125, # 341.
21. Vico, Autobiografia, p. 38.
22. I b i d p. 32. Si veda anche Giambattista Vico, La Scienza nuova seconda, t. I, p.
97, # 245; le tappe sono: nascita, progresso, maturità, decadenza e fine.

142
Le fondamenta di un’altra modernità

tervento della provvidenza, gli ripugna profondamente. Lo stesso avvie­


ne per quanto riguarda Locke e il suo mondo senza Dio, proprio come
in Hobbes.
Per questo Vico ritorna a Platone. Per scoprire i principi che cerca
comincia dalle «favole de’ poeti», poi, come il filosofo ateniese, si sposta
rapidamente alla linguistica23. Tuttavia, come mostra bene nella sua au­
tobiografia, è nell’approfondimento delle opere di Bacon e Grotius che
trova la strada per le sue scoperte. Ma Bacon «non s’innalzò troppo al­
l’universo delle città e alla scorsa di tutti i tempi né alla distesa di tutte
le nazioni»: ecco ciò che Vico si prende l’incarico di compiere, appog­
giandosi a Grotius che era riuscito a riunire «in sistema di un dritto uni­
versale tutta la filosofia e la filologia»24. Su queste basi, Vico ricerca «i
principi della storia universale, ch’han mancato finora»: egli «scuopre al­
tri principi storici della filosofia, e primieramente una metafisica del ge­
nere umano, cioè una teologia naturale di tutte le nazioni, con la quale
ciascun popolo naturalmente si finse da se stesso i suoi propri dei per un
certo istinto naturale che ha l’uomo della divinità»25. Quest’idea sarà uno
dei fondamenti della cultura antilluminista, con il particolare che preva­
le sull’universale. Certo, né l’ardente cattolicesimo di Vico e il suo pa­
triottismo italiano26, né il luteranesimo di Herder e il suo patriottismo te­
desco creano ancora un rifiuto globale dell’universalismo cristiano, ma il
principio è stato posto e sarà sfruttato alla svolta del Novecento.
Vico ritiene di avere basato le sue scoperte su due assi principali:
«principi si d’idee come di lingue» che costituiscono una «filosofia» e
una «filologia del gener umano»27. Egli mostra come la poesia, i versi e i
canti siano i prodotti di una «necessità di natura uniforme in tutte le
prime nazioni»28. Nella sua Scienza nuova Vico parla di quella scoperta

23. Vico, Autobiografia, p. 41.


24. Ibid., p. 48.
25. Ibid., p. 60.
26. Ibid., p. 64. Vico vede la sua opera scritta «con gloria della cattolica religione»
ma anche per patriottismo italiano. Queste scoperte procurano «alla nostra Ita­
lia di non invidiare all’Olanda, l’Inghilterra e la Germania protestante i loro tre
principi di questa scienza» del diritto naturale.
27. Ibid., p. 61.
28. Ibid., p. 60.

143
Le fondamenta di un 'altra modernità

che gli è costata una buona ventina d’anni di lavoro in un contesto in cui
sono nominati Hobbes, Grotius e PufendorP'. In altre parti è più esplici­
to e dice di avere risolto la questione lasciata aperta da Grotius: l’uomo è
un essere sociale per natura e non artificialmente per convenzione50.
In questo modo Vico lancia il suo attacco aü’Illuminismo, che egli
approfondisce quando oppone l’immaginazione alla ragione e quando
insiste sull’importanza dei costumi. La ragione utilizza concetti astratti,
mentre l’immaginazione utilizza immagini concrete. Per Vico l’immagi­
nazione, sia sul piano della storia che dell’ontologia, precede la ragio­
ne51. Giurista la cui grande ambizione era la cattedra di giurisprudenza
all’università di Napoli, Vico esprime il suo antirazionalismo attraverso
l’attacco al razionalismo dei teorici giusnaturalisti, in testa ai quali si
trova Grotius. Hugo Grotius era considerato dagli autori illuministi il
fondatore di una scienza morale moderna: indicava la possibilità di ot­
tenere norme universali di morale. Proprio perché vedeva in lui uno dei
quattro uomini ai quali doveva la sua formazione, Vico si volge contro
l’autore di De iure belli ac pacis. Grotius e tutti gli altri teorici di quella
scuola, compresi i fondatori del liberalismo, Hobbes e Locke, pensava­
no che il diritto fosse basato su un concetto atemporale di giustizia, ac­
cessibile a tutti gli uomini razionali. Per Vico pensare che le norme in
vigore in qualunque momento della storia potessero essere accessibili
all’uomo dei primi tempi dell’umanità è un errore grossolano. Erano i
costumi a regnare, non la ragione - «il diritto naturai delle genti è usci­
to coi costumi delle nazioni» - e i costumi sono frutto dell’imitazione,
che è una delle capacità primarie dell’uomo primitivo. Questo ci con­
duce ugualmente alla conclusione che « ’1 mondo fanciullo fu di nazio­
ni poetiche, non essendo altro la poesia che imitazione»52. E così che
l’autore della Scienza nuova sottolinea l’origine non razionale delle ci­
viltà e spiega la fondazione della società civile e l’abbandono dello sta­
to di natura.29301*

29. Vico, La Scienza nuova seconda, t. I, p. 123-124, # 338.


30. Ibid., p. 76, # 135; p. 112, # 309.
31. Pompa, Introduzione a Vico: Selected Writings, p. 24.
32. Vico, La Scienza nuova seconda, t. I, pp. 92, # 215-217; 111-113,# 308-313; t. II,
p. 52, # 219-221. A p. 112, #310 del 1.1, Vico afferma il diritto naturale «essere
stato dalla divina provvidenza ordinato».

144
Le fondamenta di un 'altra modernità

In una pagina esemplare della sua autobiografia Vico divide la storia


in tre epoche, l’età degli dei, l’età degli eroi e l’età degli uomini, alle qua­
li corrispondono tre linguaggi. Il linguaggio divino, che è muto, si espri­
me con geroglifici, il linguaggio eroico è simbolico e procede per me­
tafore, il terzo è il linguaggio epistolare che utilizza parole convenute” .
A queste due triadi se ne aggiungono altre: tre tipi di natura umana, di
costumi e, in virtù di quei costumi, tre specie «di diritti naturali delle
genti» e di conseguenza tre varietà di Stato’4. Tutte le forme di esistenza,
tutte le norme di diritto sono in funzione del tempo e delle condizioni.
E evidente che quelle norme, evolvendo con il tempo, si modificano: ec­
co dunque i primi fondamenti dello storicismo. Qui si pone la questione
dell’intervento della provvidenza nella storia. In effetti Vico al di sopra
pone «una storia ideale eterna», basata sull’idea di provvidenza dalla
quale, come dimostra lungo tutta l’opera, è stato «il diritto naturale del­
le genti ordinato; sulla quale storia eterna corrono in tempo tutte le sto­
rie particolari delle nazioni ne’ loro sorgimenti, progressi, stati, deca­
denze e fini»” . Se il processo storico, come lo concepisce Vico’, è un pro­
cesso di concatenazione tra causa ed effetto, si giunge a una forma di de­
terminismo? E certo che l’autore offre una teoria che implica l’esistenza
di leggi dello sviluppo storico’6. Allo stesso tempo egli sostiene che l’uo­
mo è libero di fare delle scelte: c’è posto nel suo sistema per il libero ar­
bitrio? «L’umano arbitrio», dice Vico, «di sua natura incertissimo, egli si
accerta e determina col senso comune degli uomini d ’intorno alle uma­
ne necessità o utilità, che son i due fonti del diritto naturai delle genti.»1
Si tratta insomma di norme universali che coesisterebbero col particola­
rismo storico?
Per alcuni suoi lettori Vico praticava un solido determinismo, per al­
tri è vero il contrario. Per altri ancora determinismo e libero arbitrio non
sono incompatibili. La storia nel suo insieme, cioè il processo di sviluppo34567

33. Vico, Autobiografia, p. 61.


34. Vico, La Scienza nuova seconda, t. II, p. 49, # 915.
35. Vico, Autobiografia, p. 61, e Lz Scienza nuova seconda, t. 1, p. 97, # 245 e p. 129,
#349.
36. Vico, La Scienza nuova seconda, t. I, pp. 77-78, # 145; p. 97, # 245; pp. 128-129,
# 349 e p. 156, #393.
37. Ibid., 1.1, p. 77, # 141; p. 124-125, # 340-341; t. II, p. 108-110, # 1008-1009.

145
Le fondamenta di un’altra modernità

dei sistemi di istituzioni, può essere determinata ma all’interno di quei


sistemi gli uomini sono liberi. L’influenza costrittiva generale delle isti­
tuzioni sociali è una realtà significante che lo sviluppo di tali istituzioni
è il prodotto di una causalità, ma all’interno di questo processo non tut­
to è determinato nella stessa misura’8.
Che la religione abbia un posto centrale nel sistema di Vico è in­
dubbio ed è proprio la religione che lo salva da quella forma di relativi­
smo che Herder o Mòser avrebbero sviluppato trenta o quarantanni .do­
po la sua morte. L’importanza della religione nel rifiuto dell’Illuminismo
è solo uno degli elementi comuni a Vico ed Herder. Un mondo senza
Dio sarebbe inconcepibile: il declino e la caduta delle società avvengono
in relazione all’indebolimento della fede religiosa. Tutte le nazioni, bar­
bare o civilizzate, in tutti i tempi, hanno in comune tre costumi umani:
la religione, il matrimonio e la sepoltura. Egli contesta la testimonianza
di quei viaggiatori che, di ritorno dal Brasile, dall’Africa australe, dalle
Antille o da altri paesi del Nuovo Mondo, sostengono che ci sono popoli
che vivono senza conoscere la divinità. Nulla potrebbe essere più falso e
Bayle, secondo Vico, commette un errore grossolano quando, forse sul­
la base di quel genere di menzogne, afferma che «possano i popoli senza
lume di Dio vivere nella giustizia»’9. Proprio come Hobbes, Bayle si spin­
ge molto più avanti di Polibio, che aveva già enunciato «quel falso suo
detto:'che, se fussero al mondo filosofi, non farebbero uopo religioni».
Per questo Vico si fa carico di realizzare una «Scienza» che, «per uno de’
suoi principali aspetti, dev’essere una teologia civile ragionata della
provvidenza divina. La quale sembra aver mancato finora»*0.
Un’altra modernità, basata non su quanto unisce gli uomini ma su
quanto li separa, è prodotta dalla lotta contro il diritto naturale, contro
il concetto di individuo tolto dallo stato di natura dalla sua sola ragione,
contro l’idea di società civile come risultato di una decisione presa da in­
dividui liberi ed eguali decisi a darsi delle strutture sociali e politiche,
dalla famiglia fino allo Stato, solo per migliorare la loro sorte, seguita da38940

38. Pompa, Introduzione a Vico: Selected Wrilings, p. 23.


39. Vico, La Scienza nuova seconda, t. I, p. 119, # 334.
40. Ibid., pp. 86, # 179, e 125, # 342. Si vedano anche pp. 118-119, # 334, e 138-139,
# 366.

146
Le fondamenta di un’altra modernità

una visione dell’individuo preso, sin dalla creazione, in una rete di rela­
zioni sociali che non sono create da lui e che cambiano da un periodo al­
l’altro e da un luogo aH’altro. L’individuo di Vico, formato dal contesto
storico e sociale, è il contrario deW’ego cartesiano. Vico fa numerose al­
lusioni all’analogia esistente tra la vita di un essere umano, dall’infanzia
alla vecchiaia, e la comunità nazionale, dalle origini alla decrepitezza fi­
nale. La concezione organica della società appare già chiaramente nel­
l’autore della Scienza nuova. E così che si avvia questa seconda moder­
nità, il cui peso si farà sentire completamente solo alla fine del XVIII se­
colo e per tutto il corso del XIX.
Dopo Vico, ai suoi tempi sconosciuto, Herder assunse fin dalla sua
comparsa il ruolo di perno attorno al quale si organizza la critica dell’Il­
luminismo e quindi la riflessione sul mondo contemporaneo. Fino ai
giorni nostri egli è considerato il rappresentante più reputato della nuo­
va coscienza storica emersa nella seconda metà del XVIII secolo. Per
molti ne è in qualche modo l’inventore. Ciò non è assolutamente vero,
se si mette Herder di fronte a Voltaire e a Montesquieu, ma è esatto se
Io si considera come il primo anello di quella linea di pensiero che, nel
X IX secolo, pone l’accento sulla storia, la cultura, l’etnia, i sensi, gli istin­
ti e l’immaginazione, cioè su quanto distingue e allontana gli uomini e
non su quanto li unisce: la loro comune ragione, i valori universali e i lo­
ro interessi materiali. Con Herder e gli herderiani, non soltanto in G er­
mania ma anche in Francia e in Italia emerge il nazionalismo culturale
con il suo corollario immediato, il nazionalismo politico, che, proceden­
do nel X IX secolo, assume aspetti sempre più radicali e violenti. Il na­
zionalismo culturale sfocia molto rapidamente nell’idea di Stato-nazio­
ne, il cui corollario è l’onnipotenza dello Stato, e nell’idea di democrazia
come nemica della nazione.
Persino uno come Cassirer, anch’egli vittima del culto tedesco di
Herder, manifesta una curiosa tendenza a considerare quell’opera come
caduta dal cielo, creata dal nulla: la sua visione della storia, senza eguali
in purezza e perfezione, avrebbe prodotto una nuova concezione del
mondo storico, perché non si contenta di cercare i soli contorni della
storia ma vuole vederne separatamente ogni forma. La storia secondo
Herder non conosce nulla che sia davvero identico, per cui ogni genera­
lizzazione astratta è impotente e nessun concetto specìfico unico, nessu­
na norma universale è in grado di comprendere tutta la sua ricchezza.

147
Le fondamenta di un altra modernità

Ogni situazione umana ha il suo singolo valore, ogni fase della storia
possiede i suoi propri diritti e la sua necessità immanente. Il primo sfor­
zo dello storico dovrà dunque essere, invece di sottomettere il proprio
oggetto a una misura uniforme fissata una volta per tutte, quello di adat­
tare la sua misura all’individualità dell’oggetto41.
Lo stesso Herder era consapevole della grande fragilità del suo ra­
gionamento e si aspettava di «esser frainteso»42. In altri termini egli sa­
peva che la sua argomentazione, a causa dell’inconsistenza, era larga­
mente aperta alle critiche. Da un lato conosceva «la debolezza delle ca­
ratterizzazioni generali» che elaborava a profusione e dall’altro voleva
essere il pittore di quadri specifici per ogni situazione, popolo ed epo­
ca4’. Sapeva che ciò che chiama col nome «di spirito gotico, di cavalleria
nordica nel più ampio senso di questa parola» non poteva comprendere
i particolari dei «diversi periodi dello spirito medievale»44.
Altrove fa una domanda e dà subito la risposta: «Eran tutti egizi, gre­
ci, romani, tutti i topi e tutti i sorci sono identici... già, ma appunto son
topi e sorci». Ma se ci si tuffa nell’infinito delle particolarità, a che cosa
si arriva? «Se ti stringi addosso a un quadro, ne cincischi un frammento,
ne spilluzzichi un grumo di colore, non vedrai più nulla dell’immagine
stessa, tutto vedrai meno che il quadro!» Poi prosegue quello che po­
trebbe facilmente essere scambiato per un processo al suo atteggiamen­
to: «E se la tua mente è piena d’un gruppo di figure di cui ti sei invaghi­
to, come potrà il tuo sguardo abbracciare nel suo insieme il corso dei
tempi ricolmo di tante vicende? Come l’ordinerai? In che modo potrai
delicatamente seguirne le vie, distinguere in ogni scena soltanto gli ele-

41. Cassirer, La filosofia dell'Illuminismo [traci, di Ervino Pocar], La Nuova Italia,


Firenze 1998, pp. 321-322. L’idea secondo la quale la scoperta del mondo stori­
co sarebbe avvenuta in Ancora una filosofia della storia è una pretesa assurda,
trattandosi di un autore che non era ancora nato quando Montesquieu rifletteva
su àeW'Esprit des Lois e che cominciava la sua carriera solo quando scompariva
l’autore de\YEssai sur les mceurs et l ’esprit des nations, apparso nel 1756, diciot­
to anni prima di Ancora una filosofia della storia. Per tutto quello che riguarda la
scoperta del mondo storico, Dubos, Lerguson, Hume e anche Robertson hanno
portato il loro contributo.
42. Herder, Ancora una filosofia della storia, p. 30 (S. 502).
43. Ibid., pp. 30-31 (S. 501-502).
44. Ibid, p. 54 (S. 522-523).

148
Le fondamenta di un’altra modernità

menti essenziali?» La conclusione viene da sé: nessuno ne è capace e «la


fiamma della storia sfolgora e vacilla di fronte ai tuoi occhi!»'*5 In questo
modo Herder vorrebbe porsi tra la storicità, cioè il relativismo storico, e
la normatività, o la prospettiva interpretativa dello storico che mira alla
verità**’.
In realtà l’originalità di Herder non consiste in una supposta sco­
perta dello specifico e dell’individuale ma nel significato dato all’inven­
zione della storia, che fa di lui il padre intellettuale del nazionalismo.
Questo è il suo contributo fondamentale.
Perché Herder ha preso il corpus storico trovato nei suoi predeces­
sori per ritorcerlo contro di loro, costruendo un’alternativa antiraziona­
lista, cristiana ma antiuniversalista, anticosmopolita, particolarista e per
questo anche nazionalista. Ha riunito una moltitudine di idee elaborate
isolatamente prima di lui, cosa abbastanza comune che non costituisce
necessariamente una prova di genio. La teoria dell’educazione del gene­
re umano da parte della provvidenza proviene da Bossuet, quella dei cli­
mi e del genio nazionale da Montesquieu, che ha anche contribuito, con
la mediazione del suo allievo Mallet, autore delì’Histoire du Dannemarc,
a creare l’idea della superiorità dei nordici; l’idea di storia culturale al
posto di una storia dinastica appartiene a Voltaire, e la critica relativista
a SainbÉvremond e Dubos. Bisogna aggiungere che l’idea della superio­
rità della poesia popolare si trova in Diderot e la critica dell’Europa il­
luminata in Rousseau4'.
Ma quegli autori francesi erano razionalisti, mentre Herder oppone
loro una sintesi di irrazionalismo e di racconto biblico, di cristianesimo
e di antiuniversalismo, ed è questo che crea la sua originalità e la sua for­
za. Egli trae dalle loro opere conseguenze che essi non si sono nemme­
no sognati, proprio perché erano razionalisti. Infatti, per Herder l’unità
del processo storico non è creata dall’eguale necessità di tutti i periodi
storici e di tutte le culture ma dalla mano della provvidenza. La visione4567

45. Ibid., p. 33 (S. 504-505).


46. Bollacher, « “L’œil de taupe de ce siècle très lumineux”. Diagnostic du présent
par Herder dans Une autre philosophie de l’histoire», in Pierre Pénisson (a cura
di), Herder et la philosophie de l’histoire, p. 63.
47. Rouché, Lz Philosophie de l’histoire de Herder, Les Belles Lettres, Paris 1940, pp.
583-584.

149
Le fondamenta di un’altra modernità

della storia come dramma congegnato da Dio è la via herderiana per rap­
presentare la totale dipendenza dell’individuo: dipendenza nei confron­
ti della trascendenza così come nei confronti della comunità storica, na­
zionale e culturale. «Il Dio che io cerco nella storia," deve èssere lo stes­
so che c’è nella natura, perché l’uomo è soltanto una piccola parte del
tutto, e la sua storia, come quella del verme, è saldamente intrecciata con
il tessuto in cui abita. [...] Tutto ciò che può accadere sulla terra, deve
accadervi, quando accade, secondo regole che portano in se stesse la lo­
ro perfezione.»48 Questa visione dei rapporti tra individuo e collettività
è assolutamente moderna in quanto prepara i secoli X IX e XX. La nul­
lità dell’individuo - «Uomo, sempre null’altro che strumento»49 - è il
vessillo innalzato da Herder contro rilluminismo: subito lo segue de
Maistre e poi Carlyle dà il cambio per tutta la prima metà del X IX seco­
lo. Durante la seconda metà dello stesso secolo Renan e Taine portano
avanti questa linea fino agli inizi del X X secolo, quando la nullità del­
l’individuo viene tradotta in termini liberati dalla loro connotazione cri­
stiana, per diventare la pietra miliare della lotta contro il liberalismo e la
democrazia. Questa visione globale delle cose umane dura fino a ritro­
varsi poi in Croce, Spengler e Meinecke.
_ Dobbiamo dunque volgerci àdesso all’autore di Die Entstehung des
Historismus. Il tema principale di questo lavoro, come di altre opere di
IT I

Meinecke, viene definito da Cari Hinrichs, nella sua introduzione, in ter­


~2.

mini di conflitto tra un nuovo modo di pensare, concreto e individuale,


Sri **

e il vecchio approccio, astratto e assoluto. Infatti, per Meinecke il carat­


tere rivoluzionario dello storicismo sta proprio nella sua qualità di anti­
m

tesi aUTlluminismo. Secondo IuiTllluminismo misurava il mondo della


storia con un metro fondato su una ragione eternamente valida e libera
da qualsiasi ingrediente religioso o metafisico. LTTIuminismo, dice lo sto­
rico tedesco, è il prodotto dei movimenti intellettuali del Seicento, gra­
zie al cartesianismo e all’eccessiva importanza accordata al diritto natu­
rale, allo smorzarsi del fanatismo religioso e all’ascesa delle scienze na­
turali. Allo stesso tempo però il Seicento avrebbe prodotto anche un

48. Herder, Idee per la filosofia della storia dell’umanità, a cura di Valerio Verrà, La-
terza, Roma-Bari 1992 (edizione ridotta), libro XV, cap. V, pp. 316-317.
49. Herder, Ancora una filosofia della storia, p. 93 (S. 558).

150
Le fondamenta di un’altra modernità

sentimento forte e sobrio di realtà: la letteratura della ragion di Stato si


contrapponeva così al diritto naturale. Tra diritto naturale e nuovo sen­
so pratico non c’era possibilità di fusione. Il movimento illuminista era
soprattutto un movimento di protesta contro la politica della ragion di
Stato, la politica della forza pura e semplice. La politica a quell’epoca era
talmente screditata che lo stesso Montesquieu la considerava il contrario
dell’onestà, della giustizia e della morale .
Così lo storicismo proclama anche una riabilitazione della politica.
Ma il nuovo favore della politica non rimane solo: la riabilitazione della
forza, l’esordio del culto dello Stato ha un corollario, la campagna con­
tro la ragione in nome del realismo politico. Meinecke parla di «contra­
sto tra l’indirizzo giusnaturalistico-razionale e quello empirico-realista»
nuovo che porta un attacco globale al razionalismo e all’universalismo il­
luminista francese505152. Sulle orme di Troeltsch, Meinecke vuole dimostra­
re che nella dottrina giusnaturalista già presso gli stoici esisteva una ten­
sione tra l’idea di diritto naturale assoluto derivato dalla ragione, essa
stessa di origine divina, e un diritto naturale relativo che, senza negare di
principio l’esistenza di norme assolute, guardava con attenzione alle par­
ticolarità della vita sociale e alle imperfezioni della natura umana. Nel­
l’Illuminismo francese e in particolare in Voltaire, il suo rappresentante
più accreditato, era l’assoluto a trionfare. In altri termini: neH’Illumini-
smo francese trionfava la ragione. Tuttavia, afferma Meinecke, il reali­
smo empirico e il relativismo, che avevano le loro origini in Machiavelli,
avanzavano anch’essi5’.
Dal momento che la specificità della cultura tedesca e il suo contri­
buto essenziale alla cultura occidentale risiedevano in questo rifiuto del-
niluminismo francese, dal momento che è proprio nel rifiuto dell’Illu-
minismo francese che Meinecke vedeva la grande differenza tra l’evolu­
zione intellettuale e politica della Francia e della Germania dopo la Ri­
voluzione, la sua opera si sviluppa in linea ascendente, dalle prime con­
fuse parole dello storicismo in Europa occidentale fino all’apoteosi

50. Meinecke, Hìstorism. The Rise of a New lìistorical Outlook, pp. 92-95 [Le origi­
ni dello storicismo, pp. 92-95],
51. Ibid, pp. 101-102 [pp. 100-101],
52. Ibid., p. 102 [p. 101].

151
Le fondamenta di un’altra modernità

tedesca. Goethe ne fu un eroe, ma a conti fatti sono Mòser e soprattut­


to Herder i protagonisti. Herder ne è davvero la figura centrale, il nume
tutelare. Meinecke aveva letto La filosofia dell’Illuminismo di Cassirer,
apparsa nel 1932, quattro anni prima del suo lavoro, e, come ci si pote­
va aspettare da quell’ammiratore della politica di Bismarck, non rimase
convinto dall’opera del più celebre kantiano del suo tempo. Da un lato
egli si comporta come se La filosofia dell’Illuminismo non meritasse
nemmeno uno sguardo, ma dall’altro il suo testo costituisce in effetti una
risposta nazionale tedesca a Cassirer, il razionalista ebreo che presto sa­
rebbe andato in esilio. E poi nella logica della cose che nemmeno Berlin,
antirazionalista «morbido» ma convinto, si sia servito molto dell’opera
di Cassirer.
Lo storicismo dunque non si accontenta di sviluppare un senso in­
nocente del valore e della legittimità del vario e del molteplice; non di­
fende soltanto l’idea che lo spirito umano non conosca altra realtà che la
storia, perché è lui che la fa - idea famosa che dobbiamo a Vico - ma
avanza anche alcuni principi che ebbero influenza determinante, e mol­
to spesso disastrosa, sul nostro secolo. Infatti la violenza della reazione,
le sue dimensioni e la sua profondità furono commisurate alla grandez­
za dell’impresa: l’uomo illuminista aveva voluto ricreare il mito di Pro­
meteo. I suoi nemici immediati risposero con un appello alla provviden­
za, al destino, alle fonti profonde dell’inconscio collettivo.
Sicuramente è in Germania dove lo storicismo assume una posizio­
ne di dominio senza pari, è lì dove esso raggiunge il suo pieno sviluppo
ed è da li che si irradia per tutto il Novecento. Tuttavia, se da Herder e
Justus Mòser fino a Meinecke, passando per Ranke, lo storicismo rap­
presenta la corrente dominante del pensiero tedesco, se esso è l’ideolo­
gia tedesca per eccellenza, non è però limitato alla Germania: è un feno­
meno europeo la cui influenza fu fondamentale nei due secoli che ci se­
parano dalla Rivoluzione francese. In Francia la tradizione storicista
esplode per la prima volta pùbblicamente alla svolta del secolo: è allora
che Barrès scrive le sue opere principali ed esprime le linee essenziali
della posizione storicista. Meglio e più chiaramente di chiunque altro
della sua generazione, l’autore del Roman de l’énergie nationale fissa il
quadro concettuale dei conflitti che lacereranno il paese, tra il boulangi-
sme e la fine de\Yaffaire Dreyfus, per approdare infine alla Rivoluzione
nazionale di Vichy.

152
Le fondamenta di un’altra modernità

L’obiettivo centrale dell’esecrazione di Meinecke è il diritto natura­


le. Secondo lui proprio il diritto naturale, per il suo intellettualismo e ra­
zionalismo, ha limitato l’approfondimento dell’investigazione sull’anima
umana” . Solo liberandosi dall’influenza giusnaturalista è stato possibile
riconoscere il principio d’individualità, principio che Shaftesbury ha ri­
conosciuto per primo’4. L’autore inglese compare in Meinecke nella gal­
leria dei pionieri. Cronologicamente lo segue Voltaire, il più grande sto­
rico illuminista perché il più innovatore. Egli rappresenta un periodo
che guardava al passato con una fiducia di sé senza precedenti. Forse le
produzioni storiche di Robertson, di Hume e di Gibbon sono superiori
alle sue, ma Voltaire è più grande perché ha avuto per primo l’idea di
una storia universale, perché ha inventato l’idea di «filosofia della sto­
ria». Esprimeva uno spirito conquistatore, da propagandista senza pari,
sapeva liberarsi dalle convenzioni e dai pregiudizi del suo tempo e ave­
va la capacità - qui Meinecke cita Goethe - di vedere il mondo a volo
d’uccello” . Meinecke rende omaggio al genio di Voltaire, al suo rispetto
per la diversità dei costumi e delle credenze, alla sua comprensione per
l’idea dello spirito dei popoli e delle età: al contrario di Condorcet e Tur-
got, egli non credeva a un progresso infinito. Ma, allo stesso tempo, Mei­
necke rivolge aspre critiche alle sue debolezze: le profondità irrazionali
dell’animo umano gli sono rimaste sconosciute, la sua immagine di per­
fezione è rimasta meccanica - che significa razionalista - e i valori illu­
ministi gli sembrano insuperabili53546. Secondo Meinecke, Voltaire, figura
complessa, nell’interpretazione dei fenomeni storici era costantemente
lacerato tra un punto di vista meccanicista e un punto di vista morale -
questa opposizione da parte di Meinecke è significativa - ma, nonostan­
te queste debolezze, aveva avuto una prima intuizione di quel grande
balzo in avanti costituito dal relativismo.
Per relativismo Meinecke intende la presa di coscienza dell’indivi­
dualità dei fenomeni storici e il rispetto per la loro specificità. Sicura­
mente il relativismo illuminista aveva dei limiti, poteva affermarsi solo

53. Ibid., p. 6 [pp. 3-4].


54. Ibid., p. 9 [p. 8].
55. Ibid., pp. 54-63 [pp. 54-63].
56. Ibid, pp. 55, 68-67 [pp. 55, 67-76],

153
Le fondamenta di un’altra modernità

meccanicamente in un rapporto di causa ed effetto, dall’esterno e non


daH’interno. Un autentico relativismo sarebbe stato in contraddizione
con i principi imperanti del diritto naturale, secondo i quali esistevano
norme di vita eterne e invariabili. Ma per il fatto stesso che l’Illuminismo
aveva lanciato una ricerca su scala universale, l’impulso dato alla volontà
di cogliere l’umanità in tutti i suoi aspetti e in tutte le sue manifestazio­
ni avrebbe alla fine condotto a una visione relativista del mondo. In que­
sto modo la curiosità storica illuminista ha preparato un relativismo sto­
rico più profondo.
Non spiaccia a tutti coloro che ancora oggi vedono in Herder l’in­
ventore del mondo storico, ma qui si impone alla loro attenzione un’os­
servazione su Voltaire storico. «Il mio scopo è sempre l’osservazione del­
lo spirito del tempo; è lui che dirige i grandi avvenimenti del mondo»,
scrive Voltaire nell’Essai sur les mœurs* , e in Le siècle de Louis XIV pro­
segue con questa professione di fede scritta all’inizio di quest’opera po­
co comune: «Non abbiamo in mente di scrivere soltanto la vita di Luigi
XIV: ci siamo proposti un intento più vasto. Vogliamo tentare di illustra­
re per i posteri non le azioni di un solo uomo, ma lo spirito che animò gli
uomini nel secolo più illuminato della storia»5758. Imponendosi come vero
pioniere della conquista del mondo storico, Voltaire mostra in che cosa
consista l’inizio della modernità: al tempo di Luigi XIV il «nuovo» ave­
va preso il sopravvento ed era già stata irreversibilmente varcata una so­
glia. Questo non significa che la storia tracci una curva ascendente e inin­
terrotta: «Non si ritroverà più un momento in cui un duca de La Ro­
chefoucauld, l’autore delle Maximes, uscendo dalla conversazione con
un Pascal e di un Arnauld, si rechi al teatro di Corneille»59. Perché a quel
secolo, il cui destino era paragonabile solo al tempo di Leone X, di Au­
gusto e di Alessandro, sarebbe irrimediabilmente seguito un periodo di
decadenza: «Il genio vive solo un secolo, dopo di che è d’uopo che de­
generi»60. Voltaire non era il fanatico della semplicistica idea di un pro­
gresso continuo e ininterrotto né di quella della dominazione francese

57. Voltaire, Saggio sui costumi, t. II, pp. 338-339.


58. Voltaire, Il secolo di Luigi XIV, trad. di Umberto Morra, Einaudi, Torino 1951,
p. 3.
59. Ibid., p. 405.
60. Ibid., p. 409.

154
Le fondamenta di un’altra modernità

che si vuole vedere in lui dopo Herder. Da queste pagine si può facil­
mente concludere che anche la supremazia della lingua di Molière e di
Racine non è garantita per sempre: il francese è diventato la lingua d’Eu­
ropa perché tutto vi ha contribuito, dai grandi autori del secolo di Luigi
XIV fino ai pastori calvinisti rifugiati all’estero e agli storici come Bayle
o Saint-Évremond, letti in tutta Europa61. Per Voltaire, la lingua non è
dotata di un genio speciale, come Herder e Fichte diranno per i tedeschi:
è stata una congiuntura culturale eccezionale a fare del francese la lingua
dell’Europa colta. Ciò che resta essenziale per Voltaire è che nel XVIII
secolo fu compiuto un incomparabile balzo in avanti.
Voltaire non inventa soltanto l’idea di filosofia della storia, non crea
solo il dominio della storia culturale nel quadro di una storia della civiltà;
nelle opere storiche porta avanti la sua impresa di demistificazione. Pensa
che ogni tradizione deteriori quello che trasmette. Applica le regole carte­
siane alla ricerca della verità storica6263.Sicuramente la sua documentazione
non è esente da numerose lacune, ma l’autore de Le siede de Louis XIV fa
un notevole lavoro di ricerca, si dedica ai documenti scritti, come memo­
rie di intendenti o manoscritti di contemporanei; fa già della storia orale e
interroga i testimoni, non esita, passando al setaccio fonti scritte e testi­
monianze e verificando le condizioni sul terreno, a mandare a pezzi miti
come quello del passaggio del Reno da parte dell’esercito di Luigi XIV,
che Boileau celebra in versi. Come il pubblico parigino, Boileau credeva
che l’esercito avesse passato il fiume a nuoto e malgrado il fuoco di arti­
glieria proveniente da una fortezza inespugnabile, prodezza definita da
Bossuet come «prodigio del secolo». Voltaire cancella il prodigio: la fa­
mosa fortezza non era che una baracca di doganieri, l’avversario due de­
boli reggimenti di fanteria e qualche centinaio di cavalieri6’. Questo modo
di procedere è sufficiente per suscitare l’odio di Herder e di Burke. La sua
guerra al cristianesimo, la sua critica della tradizione e il razionalismo ba­
stano per far insorgere contro di lui, ognuno per una diversa ragione,
Taine e Renan, Barrès e Maurras, Croce, Spengler e infine Berlin.

61. lbid., p. 410.


62. René Pomeau, Prefazione alle Œuvres historiques, Gallimard, Paris («Bibliothè­
que de la Pleiade»), 1957, pp. 12-13.
63. lbid., p. 12.

155
Le fondamenta di un’altra modernità

Meinecke rende omaggio sia alla qualità dell’opera che al Grand Siè-
cle francese. Ma per lui gli errori commessi da Voltaire sono anche in
proporzione alla sua grandezza: egli manifesta tutti i difetti dell’Illumi-
nismo. Infatti i criteri in virtù dei quali egli giudica il passato, il modo in
cui guarda alle culture dell’Asia per combattere il cristianesimo, il qua­
dro buio che fa del Medioevo, la luce del Rinascimento e poi di nuovo
la notte delle guerre di religione, sono i criteri della ragione. Là sta il cen­
tro del male, perché un abisso separa il grande impero dell’irrazionale e
il piccolo reame della ragione, abisso aperto dalla psicologia meccanici­
sta deH’Illuminismo. E proprio a causa del suo ragionamento meccanici­
sta ed egoista che egli non può comprendere «la vita autonoma degli or­
ganismi storici sorti dallo spirito umano»:64 e la prima di queste creazio­
ni è lo Stato. Meinecke riconosce che Voltaire vuole uno Stato forte e in­
dipendente, libero specialmente da ogni influenza religiosa, ma unica­
mente come strumento di civiltà, o, come dice lui nel linguaggio illumi­
nista, strumento di «felicità» dei popoli. Voltaire pone il principio per il
quale lo Stato esiste per il bene degli individui: esprime così le aspira­
zioni individualiste e liberali della borghesia e parla in termini utilitari­
stici; Meinecke lo considerava un principio basato su un egoismo indivi­
duale o di classe65.
Per questo, secondo Meinecke, benché Voltaire sapesse che «la forza
[...] ha fatto tutto a questo mondo»,66il suo approccio moralizzatore, che
è quello deH’Illuminismo nel suo complesso, gli impedisce di compren­
dere l’idea dello Stato e la natura del potere politico in tutta la sua
profondità. Egli sa che cosa sia la ragione di Stato, ma non capisce né la
dipendenza dallo Stato di ogni forma di vita culturale né la sua stretta in­
dividualità. Per lui i monarchi sono intercambiabili, posto che apparten­
gano a periodi che siano più o meno allo stesso livello di sviluppo della
ragione. Ancora una volta, Meinecke pone l’accento su quello che dal suo
punto di vista è essenziale: l’incapacità di Voltaire di cogliere l’immensità
dell’individualità. Inoltre la solidarietà umana appare come un aspetto
del grande autocompiacimento illuminista e, cosa ancora più grave,

64. Meinecke, Historism. The Rise of a New Historical Outlook, p. 85 [p. 84],
65. ¡hid. [pp. 84-85].
66. Voltaire, Saggio sui costumi, t. II, p. 6.

156
Le fondamenta di un’altra modernità

quella solidarietà oltrepassa tutte le frontiere nazionali e religiose67. Ciò,


per la scuola storicista, è un peccato mortale. Insomma, il suo approccio
sembra incapace di oltrepassare le barriere innalzate dal diritto naturale.
I philosophes illuministi amano troppo l’idea di felicità e sono troppo im­
pregnati di moralismo per comprendere la vera natura del potere68.
Si giunge così alla conclusione principale: nonostante l’influenza
esercitata da Voltaire su Herder, è con il Giornale di viaggio 1769 - dia­
rio tenuto dal giovane predicatore protestante durante il suo viaggio in
Francia - che sorge l’aurora dello storicismo e che (’Illuminismo si trova
definitivamente ricacciato su uno sfondo negativamente connotato.69
Dopo Voltaire è la volta di Montesquieu, figura che Meinecke repu­
ta più difficile da classificare; Montesquieu ha saputo sganciarsi da un
aspetto del diritto naturale che l’ammiratore di Bismarck disprezzava
particolarmente: l’idea secondo cui lo Stato avrebbe origine e legittimità
in un contratto sociale70; tuttavia egli non giunse mai a liberarsi dalla
contraddizione fondamentale che balza agli occhi fin dalle prime righe
dell ’Esprit des Lois: da un lato egli ci dice che le leggi «sono i rapporti
necessari che derivano dalla natura delle cose», dall’altro afferma subito
dopo che «chi disse che una cieca fatalità ha prodotto tutti gli effetti che
vediamo nel mondo, disse una grande assurdità»71. La conclusione tratta
da Meinecke è che il razionalista presente in lui, che crede nell’esistenza
di una ragione eterna, gli impedisce di trarre le conclusioni deterministe
che si impongono a partire dalle sue premesse. Questo lo porta a confon­
dere le leggi della ragione - noi diremmo le norme della ragione - con le
leggi matematiche o le relazioni causali. Oggi, dice Meinecke, noi pen­
siamo che i concetti di giusto e di falso, di buono e di cattivo - inten-

67. Meinecke, Historism. The Rise of a New lìistorical Outlook, pp. 80-81 [p. 80].
68. lbid., pp. 87-88 [p. 86].
69. lbid., p. 55 [p. 55],
70. lbid., p. 102 [p. 102],
71. Montesquieu, Lo spirito delle leggi, p. 25. Quando apparve, nel 1748, quest’o­
pera si intitolava De l’Esprit des Lois ou du rapport que les lois doivent avoir avec
la Constitution de chaque gouvernement, les Mœurs, le Climat, la Religion, le
Commerce, etc. L’opera era grandiosa ed ebbe un trionfo immediato (a Ginevra
ne uscirono ventidue edizioni in meno di due anni). Un quarto di secolo prima
anche le Lettres persanes erano state un enorme successo.

157
Le fondamenta di un’altra modernità

derido le norme morali —sono il prodotto di uno sviluppo che, da gradi


inferiori, va verso gradi superiori della vita umana e che per questo in fu­
turo cambieranno ancora. Ma per Montesquieu queste norme erano
eternamente valide, come le leggi matematiche. Allo stesso tempo Mon­
tesquieu era anche consapevole di una certa impotenza della ragione di
fronte alle forze irrazionali all’opera nella storia72. Ancora una volta Mei-
necke rende omaggio alla prodezza costituita dall’opera di Montesquieu,
non dimentica Saint-Evremond, dal quale Montesquieu ha imparato
molto, né Bossuet, ma mostra nuovamente dove sia l’insufficienza del
grande autore deWEsprit des Lois: il suo pragmatismo è rimasto prigio­
niero di un quadro concettuale insieme meccanicista e utilitarista73.
Qui Meinecke giunge al problema del relativismo, componente es­
senziale dello storicismo74. Tuttavia, ancora una volta, il razionalismo
presente nell’autore de\VEsprit des Lois è un ostacolo insormontabile: il
giurista, il pensatore politico, sa guardare agli aspetti particolari delle età
e delle nazioni, ma il razionalista è spinto a semplificazioni grossolane.
La causalità meccanicista del cartesianismo è un ostacolo che non gli per­
mette di cogliere le forme e le strutture individuali della storia. Ma, no­
nostante il fatto che, come Voltaire, si schieri dalla parte del progresso,
Montesquieu non cade nella perversione costituita dall’idea tardoillumi-
nista di progresso75. Infine, mentre Voltaire aveva insegnato che la lotta
tra razionale e irrazionale è una costante nella storia, a Montesquieu in­
teressa il modo in cui la ragione potrebbe accordarsi con l’irrazionale76.
Mentre costui pensa che «fare una consuetudine generale di tutte le con­
suetudini particolari sarebbe cosa inconsiderata»,77Voltaire considera ri­
dicolo che ogni posto abbia le sue leggi. Infatti, nel lungo capitolo 82
deli’Essai sur les mœurs dedicato alle scienze e alle arti dei secoli XIII e
XIV, egli ritiene responsabile delle sventure della Francia proprio la sua
frammentazione: «Uno sventurato paese, [...] senza costumi scritti e

72. Meinecke, Historism. The Rise o f a New Historical Outlook, pp. 103-106 [pp.
102-106],
73. Ibid, pp. 108-114 [pp. 108-114],
74. Ibid., p. 116 [pp. 116-117].
75. Ibid, pp. 123-128 [pp. 122-128],
76. Ibid., p. 141 [p. 141].
77. Montesquieu, Lo spirito delle leggi, p. 702.

158
Le fondamenta di un’altra modernità

governato da mille costumi diversi; un paese in cui la metà si chiamava


lingua ò'O uio ò'Oil, e l’altra la lingua d’Oc, poteva forse non essere bar­
baro?»78 Da Herder fino a Meinecke e a Berlin, i principali critici del­
l’Illuminismo avrebbero promosso proprio quel culto del particolare e
ammirato quel pluralismo, nonostante il fatto che in Francia sia stata la
legislazione giacobina, più tardi repubblicana, a essere fonte di progres­
so e di benessere. Del resto, che cosa sarebbe stato degli Stati Uniti sen­
za la guerra civile o, cento anni più tardi, senza che il governo federale
negli anni Sessanta imponesse i diritti civili e l’eguaglianza razziale ai
vecchi Stati schiavisti?
Dopo Montesquieu, Meinecke si volge alla filosofia della storia del­
la seconda metà del secolo, da Turgot a Condorcet, una generazione che
continua a essere interessata non tanto all’individuale ma al tipico e uni­
versalmente valido. Condorcet vuole dimostrare che la ragione umana è
infallibile quanto una legge naturale come la legge di gravità. Allo stesso
tempo si fa strada anche un’evoluzione positiva: Buffon ispira l’evolu­
zionismo di Goethe e di Herder, Diderot prende coscienza del ruolo del­
le passioni, Rousseau rende un incalcolabile servizio ai diritti dell’indivi­
duo: il criticismo culturale dei due Discours contribuisce molto a scuo­
tere l’autocompiacimento degli Illuministi e approfondisce il livello di ri­
flessione. Egli è un pioniere, ma tutti questi pensatori restano vittime
dello stesso errore: la fede nella ragione. Tutti pensano che la ragione
possa condurre a verità universalmente valide79. Si fanno avanti altri svi­
luppi positivi: il giovane A.J. Goguet (1716-1758) tenta di fare una sto­
ria culturale dai primi tempi dell’umanità fino all’antichità greca, e Bou-
langer è per Herder una sorta di ispirazione. Anche nel mezzo del pieno
periodo classico di Luigi XIV, lo spirito della cavalleria e il Medioevo so­
no oggetto di un rinnovato interesse. Meinecke nomina Jean-Baptiste de
la Curne de Sainte-Palaye (1697-1781), raccoglitore di canzoni di trova­
tori, e accorda una speciale attenzione a Mallet, autore, nel 1755, di una
Histoire de Dannemarc. Il ginevrino Paul Henri Mallet si interessa alla
storia e alla cultura delle genti del Nord, alle origini del re Odino di cui

78. Voltaire, Saggio sui costumi, t. II, p. 361.


79. Meinecke, Historism. The Rise of a New Historical Outlook, pp. 144-147 [pp.
144-147].

159
Le fondamenta di un’altra modernità

Herder avrebbe parlato più tardi. Mallet mostra vere qualità di storico,
ma rimane essenzialmente un illuminista, fedele al concetto di diritto na­
turale e all’idea dell’eguaglianza universale della natura umana. Secondo
Meinecke, Mallet fu pioniere in un’arte che avrebbe raggiunto la perfe­
zione con il grande storico svizzero Burckhardt. Solo combinando la sto­
ria politica e militare con la storia dei costumi e delle opinioni si giunge
a un « corps d'histoire véritablement utile et compiei»80. Quell’opera ha
avuto poca risonanza in Francia, mentre in Inghilterra e in Germania fu
all’origine di una grande infatuazione per i nordici.
Anche in Inghilterra furono compiuti importanti progressi. Dopo
Shaftesbury vennero Hume e Gibbon. Hume sarebbe stato capace di ri­
conoscere le forze dello spirito anche come forze individuali, se la sua
«ragione» non fosse stata ancora incatenata ai principi del diritto natu­
rale. Non è stato capace di compiere il passaggio verso un’esperienza che
avrebbe inglobato l’intera psiche. Il suo intellettualismo gli ha solo per­
messo di riconoscere le forze irrazionali dell’anima. Hume doveva molto
al pensiero di Montesquieu e di Voltaire, la sua Storia dell’Inghilterra po­
teva essere scambiata per un’imitazione del Siècle de Louis XIV, ma egli
era un pensatore più vigoroso e più profondo di Voltaire; il suo pragma­
tismo rappresentava un grande passo avanti, anche se era ancora vittima
dei limiti imposti dal diritto naturale. Non poteva penetrare le profondità
psicologiche, pur sapendo che esisteva un mondo misterioso e che la pa­
rola «sorte» significava che esistevano fenomeni dalle cause sconosciute.
Tuttavia la ragione per Hume non aveva ancora perso il suo carattere sta­
bile, permanente ed eterno, ed egli commetteva ancora gli errori caratte­
ristici degli Illuministi: generalizzazioni rapide e inclinazione a vedere
ovunque rapporti di causa ed effetto. Quanto si poteva apprendere dal­
la storia non era ancora individuale ma soltanto tipico e generale81.
Anche Gibbon è vittima dell’incoerenza che regna nel pensiero illu­
minista. I criteri assoluti sono sempre presenti: è solo con l’ascesa dello
storicismo, con il suo particolarismo - Meinecke parla di «individuali­
smo» - che sarà possibile cogliere tutta la tragedia del mondo antico. Il

80. Ibid., pp. 147-153 [pp. 147-153] (la citazione di Mallet è in francese e in corsivo
nel testo).
81. Ibid., pp. 156-161, p. 186 [pp. 155-161 e 184-185].

160
Le fondamenta di un’altra modernità

terzo grande storico è Robertson: anch’egli è limitato da una visione del­


la natura umana sempre simile a se stessa, che genera necessariamente
una somiglianza fra le tappe dello sviluppo culturale82.
Ferguson si spinge più lontano, mostra la potenza degli istinti nella
vita sociale. L’origine delle istituzioni sociali è molto antica, dipende da
slanci spontanei e non da un’attività umana ponderata. Egli rammenta
quella frase di Cromwell secondo la quale l’uomo non sale mai tanto in
alto come quando non sa dove sta andando. Ecco una grande afferma­
zione, commenta Meinecke: in questo modo anche Ferguson respinge
l’idea secondo la quale lo Stato risulterebbe da un contratto. Le istitu­
zioni sono il prodotto del genio di un intero popolo: lo aveva già detto
Vico ma era un solitario. Ferguson introduce l’idea per la quale l’uomo
è per sua natura poeta; mostra che nulla può essere aggiunto alla bellez­
za naturale della poesia dei popoli primitivi. Ma il suo contributo più im­
portante consiste nella convinzione che l’atteggiamento spirituale degli
uomini rappresenti il fattore decisivo per la vita e la caduta dei popoli e
degli Stati: proprio questa forza evoca Machiavelli quando parlava di
virtù, e che Ranke più tardi avrebbe chiamato l’energia morale di un po­
polo. Popoli e Stati sono fiorenti quando posseggono un senso profon­
do della comunità politica. Meinecke ammira la capacità di Ferguson di
comprendere che una filosofia politica dall’unico obiettivo di garantire
l’ordine pubblico e la sicurezza degli individui e la loro proprietà, senza
tenere conto del carattere politico dei cittadini, li renderebbe incapaci di
vivere una vita in comunità. Gli uomini occupati a garantirsi soltanto il
benessere perdono lo spirito virile necessario alla potenza delle società.
Secondo lui la guerra, disprezzata dagli Illuministi, acquista un aspetto
positivo e creatore. E il segno dell’inizio di un nuovo periodo storico,
che dà l’importanza necessaria allo Stato e alle forze che lo sostengono.
Meinecke pensa che Ferguson apra la strada alla comprensione del ruo­
lo dell’individuale nella storia83.
Tuttavia, e non è sorprendente leggerlo in Meinecke, è soltanto con
Burke che si compie un salto in avanti, con la comparsa del contenuto
nazionale dello Stato. La sua opera giovanile sulle origini delle idee del

82. Ibid., pp. 186-198 [pp. 185-196],


83. Ibid., pp. 215-219 [pp. 211-216].

161
Le fondamenta di un ’altra modernità

bello e del sublime avrebbe attirato l’attenzione di Lessing e di Herder


e avrebbe anche avuto un posto importante nella storia delle idee esteti­
che. Burke è anche il primo ad applicare i principi particolaristi - la ri­
cerca dello specifico in ogni opera come in ogni periodo - allo Stato, fat­
tore relativamente trascurato dagli altri preromantici inglesi, come Hurd
e Ferguson. Meinecke osserva che in un’altra sua opera di gioventù, an-
ch’essa scritta negli anni Cinquanta del Settecento, mai conclusa e pub­
blicata soltanto nel 1812, An Essay Towards an Abridgement of thè En-
glish History, saggio che non va oltre l’anno 1216, Burke svela una delle
sue tendenze fondamentali: non vi si trova nulla che somigli a una con­
danna del Medioevo, così caratteristica deH’Illuminismo. Inoltre, consi­
derando la mano della provvidenza nel destino delle nazioni, Burke ma­
nifesta un atteggiamento religioso. Ma la cosa più importante è il senti­
mento profondo per il passato, nel quale egli vede le radici delle nostre
istituzioni così come esse si trovano al presente. In questo modo correg­
ge i due grandi errori del suo tempo: prima di lui non ci si rendeva con­
to che il diritto inglese era rimasto lo stesso da tempi immemorabili né
che era rimasto essenzialmente libero da qualsiasi influenza straniera84.
Nel combattere questi errori Burke avrebbe potuto avere Hume dal­
la sua, dice Meinecke, ma Hume non si era ancora allontanato dalla nor­
me del diritto naturale, che era un diritto razionale. In quanto razionali­
sta, non poteva negare il principio di eguaglianza. Sicuramente, Hume ci
offre un assaggio di Burke, ma nulla di più. Burke poteva fare sua la for­
mula di Hume (Enquiry Concerning thè Principles ofMorals) secondo la
quale, se esistono verità nocive per lo Stato, è preferibile sostituirle con
errori a fin di bene e relegarle all’eterno silenzio, così come non poteva
che plaudite all’idea che impegnava a rispettare la tradizione (Idea of a
Perfect Commonwealth). Tuttavia, nonostante il fatto che la sua opera
fosse una sorta di appoggio per Burke e che il suo empirismo potesse es­
sere teoricamente molto radicale, si trattava ancora di utilitarismo della
vecchia specie, quello che considerava gli uomini in modo superficiale e
trattava in modo meccanico i loro slanci e le loro passioni. «Di qui la

84. Ibtd., pp. 220-221 [pp. 218-219], Quest’opera giovanile di Burke è stata ritrova­
ta solo dopo la sua morte e oggi è difficilmente accessibile. Un esemplare si tro­
va alla British Library.

162
Le fondamenta di un’altra modernità

meccanicità della sua formula dell’equilibrio tra authority e liberty.»™


Quindi Meinecke considera lo sforzo per arrivare a un compromesso tra
il bisogno di autorità e la volontà di libertà, classico problema del libe­
ralismo, come una «meccanicità», cioè vestigia di un passato che saran­
no spazzate via da Burke.
Più tardi, nel 1791, mentre preparava l’attacco contro i diritti del­
l’uomo, Burke, nei Thoughts on French Affairs, avrebbe criticato Hume
per la sua posizione sui diritti universali. Ma il rifiuto dei principi uni­
versali si trova già in A Vindication of Naturai Society del 1756, satira del­
la filosofia illuminista di Bolingbroke. Quest’ultimo voleva sradicare la
religione con le armi della ragion pura. Meinecke ritornò sull’idea già
formulata che l’attacco alla civiltà sferrato da Rousseau avrebbe potuto
essere comunque un duro colpo infetto all’Illuminismo, se anche l’auto­
re del Discours sur les Sciences et les arts non fosse stato un razionalista e
non avesse utilizzato l’arsenale del razionalismo. In effetti, secondo Mei­
necke, Rousseau attaccava le posizioni nemiche solo dall’esterno, men­
tre Burke penetrava nel cuore della fortezza illuminista e giungeva a di­
sarmare il nemico. Quel nemico, che doveva essere distrutto per potere
raggiungere un livello più profondo di comprensione della vita umana e
della storia, era lo spirito del diritto naturale8586.
In effetti, per Meinecke passare da Hume a Burke è come guardare
un paesaggio prima con la luce flebile e fredda dell’alba e poi con i pri­
mi raggi di sole di un caldo mattino. Il pensiero di Burke rappresenta se­
condo lui un progresso decisivo, in quanto quell’autore non guarda allo
Stato in modo generale, astratto, come i pensatori giusnaturalisti, né da
un punto di vista empirico, meccanico e utilitarista come Hume. In que­
sto modo viene compiuto un grande passo avanti, perché Burke conce­
pisce lo Stato non solo come un’istituzione utile ma come una straordi­
naria opera della natura, come un albero che, essendosi sviluppato per
secoli, ha così acquisito i suoi titoli di nobiltà; un prodotto della volontà
divina e non il risultato dei capricci della ragione umana. Lo Stato com­
porta un aspetto estetico e uno etico, ha valore morale e bellezza intrin­
seca: la vita interiore degli uomini può così trarne un grande beneficio.

85. lbid., p. 224 [p. 221 in inglese e in corsivo nel testo].


86. lbid., pp. 222-223 [pp. 219-220],

163
Le fondamenta di un’altra modernità

Burke si erge contro le idee francesi, contro i pericoli portati da quelle


idee, che già si fanno strada verso l’Inghilterra, e contro l’espressione più
arrogante dello spirito del diritto naturale, che prende corpo con la D i­
chiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789. Egli, sottolinea
Meinecke, sa innalzarsi al livello di massimo rappresentante della nazio­
ne. Meinecke capisce che Burke difende anche interessi di classe, ma
quegli interessi rappresentano i diritti storici della nobiltà e della Chiesa
con a capo la monarchia. L’odio con cui si accanisce contro la Rivolu­
zione è proporzionale alla sua adorazione per i tesori minacciati. Lo Sta­
to aristocratico, lo Stato «dei santi e dei cavalieri», che egli difende idea­
lizzandolo e rifiutandosi di vederne le debolezze, rappresenta una visio­
ne insieme religiosa e cavalleresca87.
Se si dovesse definire con un unico concetto da dove provengono
tutte le idee di Burke sui valori della vita umana, sulla politica e sulla sto­
ria, nota Meinecke, si potrebbe dire che è la pietà del mondo. Burke ave­
va un rispetto religioso per il mondo così com’era, con tutte le sue sven­
ture. Vedeva nel mondo un’armonia cosmica e aveva fede nel suo senso.
L’uomo era nato quaggiù e aveva dei doveri verso i suoi simili: Burke
parlava di «mutua dipendenza degli uomini gli uni verso gli altri»
(Thoughts on French Affairs) e affermava ovunque il primato dell’uomo
sulla ragione. Bisogna notare, spiega Meinecke, che si trova in lui un sen­
timento di immanenza e di trascendenza combinati, una coscienza delle
forze divine all’opera nel mondo e dei legami indissolubili tra il nostro
mondo e l’aldilà. Lo si vede bene dal contesto nel quale l’autore evoca
l’idea del contratto nelle Riflessioni-, un contratto indissolubile che lega
il mondo visibile e quello invisibile, una comunità eterna che lega le spe­
cie superiori e inferiori. Non è il contratto di Locke, un contratto sem­
pre modificabile. Questa concezione del contratto eterno è fondamenta­
le per Burke ed è quella che genera l’idea di prescrizione88.
La teoria di Burke sarebbe, secondo Meinecke, un tradizionalismo
rivitalizzato ma non ancora storicismo. Meinecke serba questo termine —
secondo lui apice dell’intelletto umano - per il genio tedesco: in primo
luogo Herder e dietro di lui Mòser e Goethe. Ma anche senza raggiun-

87. Ibid.,p. 225 [p. 222],


88. Ibid., pp. 226-227 [pp. 222-223],

16 4
Le fondamenta di un’altra modernità

gere lo storicismo, il pensiero di Burke è il vertice del pensiero tradizio­


nalista. Aveva visto che le sottigliezze della ragione rischiavano di misco­
noscere la saggezza che si nasconde nelle profondità del sentimento.
Inoltre aveva giustamente visto che una comunità vivente non era sol­
tanto politica ma anche culturale e aveva un’acuta consapevolezza del­
l’unità di passato e presente. Da lì proviene, nelle Riflessioni, la sua fa­
mosa descrizione della società in termini di associazione indissolubile al­
la quale nessuna generazione e nessuna parte di popolo ha il diritto di at­
tentare. Tuttavia il pensiero di Burke, sottolinea Meinecke, soffre di una
contraddizione: Burke consiglia ai francesi di imitare la Costituzione in­
glese; ma una Costituzione è il prodotto di circostanze specifiche e pro­
prie di ogni cultura.
In realtà, contrariamente a quanto pensa Meinecke, non vi è alcuna
contraddizione in Burke, e per due ragioni. La prima è che Burke non in­
vita i francesi ad adottare la Costituzione inglese bensì a ritornare all’ini­
zio del Seicento, al tempo della convocazione degli Stati generali nel
1614, e di accettare l’applicazione delle stesse regole nel 1789. E convin­
to che la Francia abbia avuto una Costituzione che le è stata propria e che
convenga semplicemente ritrovare. La seconda ragione è che, contraria­
mente a un’idea molto radicata, egli non nega l’esistenza dei principi uni­
versali: anche il rispetto per la tradizione, il primato della storia sono dei
principi universali. In realtà, Burke nega la validità di alcuni principi e ne
stabilisce altri, non meno astratti e non meno universali. Anche la pre­
scrizione è uno di questi principi, proprio come il pregiudizio.
Mentre si forgiava la cultura politica antilluminista, in Francia [’Illu­
minismo avanzava inesorabilmente, mosso da una necessità logica, verso
la sua vittoria più grande e più fatale. Meinecke riconosce che Burke non
era in grado, perché vittima di uno storicismo ingenuo, di comprendere
le forze in gioco dietro i drammatici fatti francesi. Proprio là si trovava il
terreno più aspramente conteso, là esisteva una società in stato di ebolli­
zione intellettuale, priva del potere politico, là il dramma della storia po­
teva esprimersi solo con il massimo vigore. Ma quegli stessi principi di un
inalterabile diritto di natura sono diventati strumento di lotta universale
e hanno congelato la storia e il pensiero storico fino a ridurli in uno stato
fissò e statico. Senza dubbio i progressi fatti in Francia sulla strada dello
storicismo erano reali ma, secondo Meinecke, lo spirito francese non era
in grado di innalzarsi alle altezze necessarie: solo lo spirito tedesco

165
Le fondamenta di un'altra modernità

sarebbe riuscito a dare una spinta e una direzione decisive a quel proces­
so di liberazione dalle norme universali e dalla sovranità della ragione89.
In questo modo, dopo un lungo periodo di incubazione e di avanza­
ta a tentoni, con il genio tedesco di Herder si giunge alla cima. Apparso
l’anno in cui YEssai sur les mœurs di Voltaire viene pubblicato in forma
definitiva, il Giornale rappresenta, nella mente di Meinecke, il manifesto
dell’età nuova. In effetti, nei pensieri affidati da Herder a quelle pagine
riportate dalla Francia, Meinecke vede un insieme di idee rivoluzionarie
che sarebbero poi esplose nel movimento Sturm und Drang. Quelle idee
erano destinate a fare fermentare l’intera vita spirituale e mentale, in par­
ticolare per la poesia, l’arte e la filosofia, e, nientemeno, a trasformare da
cima a fondo tutto il pensiero storico. Anche se nel pensiero di Herder
erano rimaste tracce del pensiero di Voltaire, «l’illuminismo», esclama lo
storico tedesco, «cedeva, sorgeva l’alba dello storicismo»90.
Per lui il contributo specifico di Herder consiste nell’avere svilup­
pato un certo numero di idee intimamente legate fra loro: l’idea dell’in­
dividualità inimitabile di tutte le creazioni storiche e il loro continuo ri­
torno nel processo di sviluppo umano, l’idea dello sviluppo organico
delle culture e delle nazioni, l’idea di decadenza legata alla critica che
inizia con Rousseau e continua con Hamann, e la rivolta delle forze irra­
zionali, le forze del sangue contro il «gelido razionalismo» e la «civiltà
meccànizzatrice». Un’altra linea di pensiero è che non c’è età senza Dio.
Herder veniva così indotto a opporsi alla più recente dottrina illumini­
sta di cui Voltaire era l’esponente. Quella dottrina mostrava la storia co­
me confronto continuo tra la ragione e tutte le forze a essa contrapposte
e la giudicava in funzione della «perfezione» raggiunta dal XVIII seco­
lo. Allo stesso modo Herder non poteva che opporsi alla visione ottimi­
stica di un continuo progresso del genere umano. Tutte quelle dottrine
erano radicate nella vecchia concezione del diritto naturale e dell’esi­
stenza di una natura umana sempre eguale a se stessa91.
Ne deriva che il bene appare come una condizione necessaria del
male e il male come una condizione necessaria del bene. Il perspicace

89. Ibid.,p. 155 [p. 1541.


90. Ibid, p. 55[p. 55],
91. Ibid., pp. 322-323 [pp. 322-323].

166
Le fondamenta di un’altra modernità

Machiavelli aveva ben visto che, in ogni istituzione, per quanto utile e
necessaria sia stata in passato, affiora un male nascosto. Vico ha mostra­
to che le passioni e le emozioni limitate degli uomini erano utilizzate da
Dio per produrre un livello di cultura più elevato. In seguito è giunta l’i­
dea hegeliana di «astuzia della ragione». Per Herder Dio, in quanto edu­
catore dell’uomo, poteva condurlo verso il suo scopo a volte anche per
vie traverse92.
Nella sua incessante lotta contro il razionalismo del XVIII secolo o,
come dice Meinecke, contro quella orgogliosa fede nella ragione, contro
l’ammirazione per il Rinascimento di cui erano colpevoli i razionalisti,
che vi vedevano l’apice della cultura umana, Herder crea il concetto di
«destino». Avvicinandosi al proprio tempo, diventa più umile: « “Noi sia­
mo...al nostro posto fine e strumento del destino”». Per Herder la ra­
gione può condurre allo scetticismo; guardando nel cuore degli uomini,
ci si rende conto che il progresso non esiste e che il mondo non miglio­
ra9’. In lui si trova sia una tentazione alla decadenza che un appello cri­
stiano all’attività in questo mondo.
Tuttavia, la formula « “Io non sono nulla, ma l’insieme è tutto”» o il
paragone dell’uomo con la formica non dimostrano, secondo Meinecke,
una dipendenza dell’individuo dalla collettività diversa da quella nei
confronti di Dio, anzi. Dal suo punto di vista, Herder aveva ragione a
rimproverare aH’Illuminismo di vedere nell’individuo solo un meccani­
smo isolato, mentre lui esclamava: « “Cuore! sangue! calore! uma­
nità!”» 94 La citazione ritorna anche sotto la penna di Gadamer e di Ber­
lin per divenire, nel corso di due secoli di campagna ininterrotta contro
l’Illuminismo, un grido di raccolta e una sorta di vessillo fieramente spie­
gato. Questo appello alle forze della vita, dei sensi, della solidarietà etni­
ca, del sangue è visto dai due filosofi - uno tedesco, l’altro britannico —
avanzanti sulle orme di Herder e di Meinecke come un magnifico mani­
festo di rivolta contro l’aridità o, per dirla tutta, contro l’odore di morte
che si diffonde dal XVIII secolo francese. Sia Meinecke che Gadamer e

92. Ibid, pp. 323-325 [pp. 324-326].


93. lbid., pp. 330-331 [pp. 330-331].
94. Ibid., pp. 332-334 [pp. 333-335]. Si veda la citazione esatta in Herder, Ancora
una filosofia della storia, p. 70, e anche il nostro cap. 1.

167
Le fondamenta di un’altra modernità

Berlin si rifiutano di vedere che quello è anche un manifesto della gran­


de rivolta contro il razionalismo, che nel Novecento avrebbe assunto il
nome di fascismo e nazismo.
Per questo motivo, nonostante i giganteschi sforzi compiuti dal più
convinto herderiano della seconda metà del Novecento, è all’ascesa del
nazionalismo che il nome di Herder resta legato. Isaiah Berlin ha fatto di
tutto per ridurre al minimo il grande contributo di Herder all’avanzata
del nazionalismo politico e dello Stato-nazione e per farne solo un feno­
meno culturale, ma è riuscito a convincere solo chi ne era già convinto.
Quanto a Meinecke, egli non soffre di un simile complesso, ma mostra
come il nazionalismo culturale non rappresenti che la prima tappa di
una linea ascendente che conduce al vertice dello Stato-nazione. Mei­
necke si concentra dunque sul contributo di Herder alla comprensione
dello spirito di una nazione. L’esempio che colpisce di più è l’esame, pie­
no di autentica empatia, che egli fa di un’epoca particolare: il Medioevo.
All’inizio Herder non amava lo stile gotico ma, come Hurd in Inghilter­
ra, vi ha scoperto poi la meraviglia dello spirito umano, mentre Voltaire
e Hume non vi vedevano che tenebre. Ma Herder, come lo rappresenta­
no Meinecke e Berlin, non sarebbe caduto nell’idealizzazione del passa­
to: vi avrebbe visto il valore relativo svolto da ogni epoca. Qui intervie­
ne il concetto di «felicità»: quest’idea, che comprende la realizzazione
delle volontà e delle aspirazioni umane, non può essere percepita in ter­
mini universali'” .
Questo pone, evidentemente, il problema del relativismo storico e
morale. Meinecke, proprio come Berlin che utilizzerà tesori di ingegno
allo stesso scopo, vuole convincere i suoi lettori che Herder non era un
relativista. Sia l’uno che l’altro sostengono che l’antidoto salutare si tro­
va nella filosofia cristiana della storia di Herder'*. Meinecke aggiunge
un’altra argomentazione: cerca di convincere che il «relativismo radica­
le» di Herder, il riconoscimento dell’eguale valore di tutti i popoli e di
tutte le razze, si avvicina all’idea di eguaglianza della Rivoluzione95967. Lo
storico tedesco dimentica solo che per la Rivoluzione francese si trattava

95. Ibid., pp. 337-339 [pp. 339-341],


96. Ibid., p. 340 [pp. 342-343]. Su Berlin si veda il nostro cap. 7.
97. lbid.,p. 369 [p. 371].

168
Le fondamenta di un’altra modernità

di eguaglianza tra individui liberi, esseri razionali provvisti di diritti na­


turali, cioè universali, e organizzati in comunità politiche e non in etnie.
Qui Meinecke ripiega sull’argomentazione secondo la quale Herder par­
la in termini di nazioni e non di razze98. Ma dove passa esattamente la li­
nea di demarcazione tra determinismo culturale e determinismo razzia­
le? Il X X secolo prova che il determinismo razziale si poteva sviluppare
solo sulla basa di un determinismo culturale.
D ’altra parte Herder, fondatore del nazionalismo, non rivolge la pro­
pria attenzione alla natura dello Stato, cosa che contribuisce a distrugge­
re l’idea che egli non abbia alcuna responsabilità nel passaggio dall’idea
di nazione allo Stato nazionale. Per lui l’unico prodotto di natura puro è
la famiglia, e lo Stato deve essere fondato sulla famiglia: « “La natura edu­
ca famiglie - lo stato più naturale quindi è un popolo con un carattere na­
zionale»99. E altrove: « “L’impero di un popolo è una famiglia, un ménage
ben ordinato; esso è basato su se stesso, poiché è fondato dalla natura e
si regge e cade soltanto con i tempi”» 100. Egli definiva ciò il primo stadio
di un governo naturale, ma allo stesso tempo sosteneva che fosse lo sta­
dio più elevato e permanente101. In altri termini, le forme più primitive di
organizzazione politica erano per Herder le forme ideali. E utile non di­
menticare, in questo contesto, il suo attaccamento al dispotismo orienta­
le nella sua opera del 1774, che non testimonia una concezione molto li­
berale della società e dello Stato. Meinecke ne conviene, ma insiste sul
fatto che, se Herder è uno dei pionieri dell’idea di Stato-nazione, ai suoi
occhi il carattere di quello Stato era essenzialmente pacifico. Aveva orro­
re degli Stati fondati sulla conquista, perché la conquista distrugge le cul­
ture dei popoli assoggettati. Non aveva nemmeno un’idea molto chiara
della guerra: era il prodotto di «pressioni» e di «costrizioni». Ci si può

98. Ibid., p. 358 [p. 360],


99. Citato in ibid., p. 352 [p. 354 in corsivo nel testo]. La frase proviene dall’edi­
zione Suphan, voi. XIII, p. 384: «Die Natur erzieht familien; der natürlichste
Staat ist also auch Ein Volk, mit Einem Nationalcharakter» [Idee per la filosofia
della storia dell’umanità, p. 183].
100. Citato in ibid. [ibid., in corsivo e in francese nel testo]; si veda Suphan, voi.
XIV, p. 52: «Das Reich Eines Volk ist eine Familie» ecc.
101. Ibid. [ibid.]-, si veda Suphan, voi. XIII, p. 375 [Idee per la filosofia della storia
dell’umanità, p. 177].

169
Le fondamenta di un ’altra modernità

chiedere, scrive Meinecke, se ci sia stato un tempo in cui il genere uma­


no non sia stato sottoposto a pressioni di qualunque genere. Cosa che si­
gnifica che la guerra è naturale. Peraltro, una nazione giovane che si bat­
te per la sua libertà ha il diritto di ricorrere alla politica della forza102103.Tre
anni dopo la comparsa dell’opera di Meinecke, gli eserciti tedeschi si lan­
ciarono alla conquista dell’Europa e, nello slancio delle loro prime vitto­
rie, l’idea della politica della forza nel pensiero di Herder fu discussa a
lungo da Gadamer in una Parigi occupata dai nazisti.
Infine Meinecke mostra un Herder il cui fervore religioso si raffred­
da considerevolmente a Weimar in confronto a Biickeburg e parla di se­
colarizzazione del suo pensiero10’. In effetti, nell’autore delle Idee, il cri­
stianesimo perde terreno, il fervore religioso, che comunque non è ga­
ranzia di universalismo, si affievolisce, ma il nazionalismo rimane quale
era, per cui aumenta il suo peso relativo. È vero che le Idee sono per­
corse da correnti e controcorrenti, è certo che vi sia una dualità herde-
riana, ma non è meno vero che, se nel suo cristianesimo si osserva uno
sgretolamento, il nazionalismo rimane una costante. In questo contesto
Meinecke mostra come il movimento Sturm und Drang sprigioni im­
mense forze spirituali e intensa vita intellettuale: Berlin dice la stessa co­
sa e concorda con Meinecke nell’esaltare, di fronte all’aridità dellTllu-
minismo, quei serbatoi di energia creatrice. Farà di tutto per dissociare
questa fioritura culturale dal nazionalismo e dal relativismo.
In effetti nella lettura fatta da Isaiah Berlin dell’opera di Meinecke,
circa quarant’anni più tardi, al tempo della sua traduzione in inglese nel
1972, lo storico britannico delle idee porta avanti lo stesso ragionamento
e fa proprie le tesi di Meinecke. Non c’è dubbio che la sua opera Vico e
Herder debba molto a Meinecke. Come lui, è affascinato dai grandi ne­
mici del diritto naturale, delle norme universali e dell’individualismo co­
me lo intendevano i pensatori giusnaturalisti da Locke a Rousseau. Come
Meinecke, è affascinato da Machiavelli, perché l’autore del Principe op­
pone i diritti della comunità all’individuo, da Herder, il cui universalismo
cristiano poco pesa di fronte al particolarismo etnico e culturale, da Vico
e Hamann che, ognuno a suo modo, combattono il razionalismo.

102. Ibid., pp. 352-354 [pp. 354-356],


103. Ibid., pp. 347-348 [pp. 349-350].

170
Le fondamenta di un’altra modernità

Berlin vede in Meinecke l’ultimo anello di una catena di grandi sto­


rici profondamente impegnati nella vita politica del loro paese e allo
stesso tempo consapevoli delle differenze che dividono il loro mondo da
quello dell’universalismo e del razionalismo scientifico delle civiltà a
ovest del Reno. Nonostante il fatto che Macaulay, Michelet o Guizot non
possono in alcun modo essere descritti come scrittori politicamente neu­
tri, la scuola storica che va da Mommsen e Droysen fino a Treitschke,
Sombart e Max Weber rappresenta una filosofia della storia quasi na­
zionale e ufficiale. Meinecke è l’ultimo grande rappresentante di questa
tradizione. Tutti vedevano nella società un insieme quasi biologico, che
non poteva essere dissociato nelle sue componenti come invece poteva
esserlo un meccanismo. La società è percepita come un organismo ca­
ratteristico di insiemi sociali complessi104.
In effetti Meinecke si pone davvero alla fine della catena che inizia
con Herder, almeno fino all’arrivo di Berlin. Berlin ha solo elogi per que­
sto storico il cui approccio, come quello dei suoi predecessori, ha se­
condo lui allargato l’orizzonte e la prospettiva degli storici molto più di
quanto abbiano fatto le dottrine positiviste, contro le quali quell’ap­
proccio era diretto. Meinecke appartiene a una scuola e ci fornisce uno
straordinario spaccato di quel movimento che comincia con Herder e lo
Sturm und Drang per arrivare a Spengler e Jünger. Non può stupirci il
fatto che Meinecke non si rendesse conto del significato assunto da que­
sta continuità, ma è molto più curioso che Berlin non spenda nemmeno
una parola per interrogarsi sulle implicazioni dell’odio contro quel
XVIII secolo, colpevole di avere esaltato il diritto naturale, i valori uni­
versali e brandito i diritti dell’uomo.
In questo modo il filosofo di Oxford guarda con favore al contributo
«classico» di Meinecke, che consiste nel mettere in luce le tensioni esi­
stenti tra i valori universali, i diritti dell’individuo o dei gruppi umani e le
esigenze dello Stato. Ma l’idea essenziale che lo assilla, come ha assillato i
suoi predecessori, è la natura di quelle associazioni di uomini, di cui cia­
scuna possiede proprie leggi di crescita, del tutto peculiari, che costitui­
scono ognuna un organismo unico nel suo genere, insiemi sociali che si

104. Isaiah Berlin, «Forward», in Friedrich Meinecke, Historism. The Rise o f a New
Historical Outlook, pp. IX-X.

171
Le fondamenta di un 'altra modernità

sviluppano come piante, obbedienti alla propria natura specifica. Per que­
sto - qui Berlin non riassume soltanto il pensiero di Meinecke ma lo fa
proprio - non è possibile comprendere o spiegare quei corpi con leggi o
principi generali. Egli concorda con lui nel pensare che un criterio gene­
rale può solo ignorare le loro specificità, dal momento che i valori di una
società non possono essere quelli di altre società o di altre epoche. La giu­
stificazione di quello che le società sono e fanno si trova solo in esse stes­
se. Meinecke, osserva Berlin, era profondamente turbato dal relativismo
morale verso cui convergeva una simile visione delle realtà umane e dal­
l’idea che ne derivava, cioè che soltanto il successo, e a volte solo la forza,
costituiscono i criteri che ci permettono di decidere quali siano i valori
che contano o che danno un senso alla vita. Era consapevole del fatto che
un simile relativismo era inconciliabile con l’aspirazione umana verso
qualcosa di più di un tale soggettivismo, il bisogno di un fine comune105.
Lo stesso Berlin è abbastanza lucido per capire che la rivolta contro
quella che Meinecke definisce la «visione generalizzatrice», cioè l’idea
razionalista, l’impero della legge di natura, contro le diverse varianti di
positivismo, di utilitarismo, ma soprattutto contro l’idea secondo la qua­
le l’universo è un grande sistema che gli uomini possono penetrare e ren­
dere intelligibile per mezzo della ragione posseduta da tutti, sempre e in
tutti i tempi, questa rivolta è all’origine di molte grandi correnti ideolo­
giche degli ultimi due secoli. Egli elenca queste correnti: da un lato tra­
dizionalismo, pluralismo, romanticismo e concezione prometeica del­
l’uomo, anarchismo, nazionalismo, realizzazione individualista di sé, dal­
l’altro imperialismo, razzismo e ogni sorta di tendenza irrazionale106. Si
nota che il liberalismo e la democrazia, così come il socialismo, non com­
paiono nell’albo d’onore, e a ragione. Allo stesso tempo il presidente del­
la Royal Academy mostra un Meinecke preoccupato di non cadere negli
stessi errori, da lui stesso criticati, della esecrata tradizione giusnaturali-
sta, la tradizione meccanicista, livellatrice, enciclopedista del XVIII se­
colo. I tre eroi di Meinecke sono Herder, Goethe e Mòser, e Meinecke
cerca di cogliere ciò che Mòser chiamava ¡’«impressione totale», quella
che non si può mai ottenere con la semplice analisi delle componenti di

105. Ibid, p. XI.


106. Ibid., p. XII.

172
Le fondamenta di un’altra modernità

un insieme. Solo gli insiemi contano107. Ciò che dà una straordinaria vi­
talità alla dimostrazione di Meinecke, prosegue Berlin, è il fatto che egli
era coinvolto nei problemi evocati non meno dei pionieri della corrente
storicista. Era consapevole delle difficoltà, e la storia che scrive è anche
quella che lo vede attore, oltre che osservatore. Berlin prova grande sim­
patia per quello che presenta come un vecchio che non si è prostrato di
fronte a Hitler e all’hitlerismo; egli dimentica però di ricordarci che non
solo quel grande accademico non ha levato la minima protesta contro il
regime che vedeva instaurarsi e mettersi alacremente al lavoro, ma si è
anche entusiasmato per le vittorie degli eserciti di Hitler. Meinecke, os­
serva Berlin, era un uomo per bene immerso in una situazione difficile.
E utile citare integralmente questo passaggio chiave della prefazione
scritta da Berlin a un’opera pubblicata nel 1936 e tradotta in inglese nel
1972: «Questo libro fu scritto in un periodo di crisi che, consciamente o
inconsciamente, presentava delle somiglianze con l’altra svolta critica
nella storia della Germania, quando il Geist tedesco si trovò investito da
un lato dallo spirito livellatore della centralizzazione e dell’organizzazio­
ne razionale della Francia rivoluzionaria e napoleonica, uno spirito che
è tutto disprezzo per la tradizione e per l’individualità delle diverse so­
cietà - con l’aiuto dell’influenza esercitata dall’industrialismo britannico
e la distruzione degli antichi legami che ne risultò - e dall’altro lato,
quando si trovò faccia a faccia con il pericolo creato dalla grande poten­
za barbara e minacciosa dell’Est. Se lo “spirito” tedesco ha potuto vin­
cere quella guerra su due fronti, e istituire il grande Stato tedesco unifi­
cato, lo ha fatto a un prezzo che taluni potrebbero trovare esorbitante in
termini di valore morale. Dopo il 1918, con il bolscevismo a est, e, an­
cora una volta, quello che considerava come un piatto universalismo li­
berale a ovest, Meinecke ha posto tutte le sue speranze in una sintesi mi­
steriosa di valori e di morali individuali, e di morali e di bisogni pubbli­
ci, che si sarebbe manifestato in una storica marcia maestosa di quel

107. Ibtd., pp. XII-X1II. In effetti, tutto questo somiglia molto alla differenza che
Sorel stabilisce tra mito e utopia: l’utopia è una costruzione razionalista, un
modello razionale che può essere confutato, a differenza del mito; il mito non
può essere decostruito nelle sue componenti, e per questo è inconfutabile, per­
ché la ragione non ha presa su di esso.

173
Le fondamenta di un’altra modernità

grande insieme organico, lo Stato-nazione»108. Lo Stato-nazione, così co­


me - secondo Berlin - viene presentato da Meinecke, era per lui lo stru­
mento di educazione e di formazione per eccellenza, che rendeva possi­
bile l’esistenza di tutto ciò per cui gli uomini vivevano: valori morali, ar­
te, relazioni personali, vittoria sulla bestialità109.
Questo testo è di grande interesse, non solo perché ci insegna qualco­
sa su Meinecke, ma anche perché ci insegna qualcosa su Berlin e sulla lot­
ta contro rilluminismo francese che veniva condotta sia all’ombra del na­
zismo che dello stalinismo. L’uso del termine «taluni» {some) è interessan­
te. Chi sono questi «taluni» che effettivamente avrebbero potuto trovare
esorbitante, nel 1936 o nel 1972, il prezzo da pagare per quella rivolta te­
desca contro i valori della Francia rivoluzionaria e poi della Rivoluzione
sovietica, per quel riflesso di difesa contro i barbari venuti dall’Est o, in al­
tri termini, per quella «marcia maestosa» dello «spirito» e dello Stato te­
desco? Viceversa, chi sono quelli che pensavano che valesse la pena paga­
re quel prezzo, cioè la caduta di Weimar e l’arrivo dei nazisti? Meinecke
non era forse uno di loro, proprio lui che nel 1936 scrive come se il 1933
non fosse mai avvenuto? Lo stesso accade nel 1972, quando Berlin sem­
bra allinearsi sulle posizioni di Meinecke senza grande difficoltà: tra Vol­
taire e Rousseau da un lato ed Herder e Meinecke dall’altro, Berlin sceglie
i due tedeschi: uno è il profeta del nazionalismo culturale tedesco, l’altro
vi aggiunge l’apologià dello Stato-nazione tedesco. In verità, dalla prefa­
zione di Berlin emana un’atmosfera che ricorda il dibattito tra gli storici
tedeschi degli anni Ottanta del Novecento, quando Ernst Nolte, molto vi­
cino al pensiero di Meinecke, vedeva nel nazismo un prodotto, tutto som­
mato legittimo, della minaccia bolscevica e poneva sullo stesso piano na­
zismo e comuniSmo. Torneremo su questo argomento più avanti.
Questa visione dello Stato-nazione tedesco, che conferisce un fervo­
re quasi religioso a tutta la sua concezione della storia, viene a Meinecke
da Herder e Ranke. Meinecke nutriva un vero e proprio culto per Bi-
smarck e, come molti altri accademici tedeschi, vedeva in lui l’uomo che
aveva creato le sole condizioni possibili per la fioritura del carattere te­
desco e la realizzazione del suo destino. In effetti Bismarck non era un in-

108. lbid., p. XIV.


109. lbid.

174
Le fondamenta di un’altra modernità

tellettuale cosmopolita come Federico il Grande, che scriveva opere di fi­


losofia politica in francese e accoglieva Voltaire: era il tedesco per eccel­
lenza. Il cancelliere ha saputo essere quello che il re di Prussia dei tempi
di Herder non era stato affatto. Herder detestava la monarchia prussiana
non perché era autoritaria, ma perché non era sufficientemente tedesca.
Alla fine della sua prefazione Berlin si sofferma anche su un aspetto
un po’ meno brillante dell’autore che tanto ammira. Sa che il libro di cui
scrive la prefazione copre «il periodo che costituisce la primavera dei
grandi sviluppi», quando «il sogno romantico tedesco è ancora lontano
dall’incubo che sarebbe divenuto più tardi», e non è ancora precipitato
nelle «tenebre» di un «disastro inimmaginabile»110. Ma che ne è dei rap­
porti di causa ed effetto tra il rovesciamento dei valori della fine del
XVIII secolo e il suo prodotto finale nel X X secolo? Non c’è nessuna
specie di correlazione tra il culto della specificità nazionale e la visione
della storia che prevale in Germania dopo Herder e gli eventi degli anni
Trenta e Quaranta del Novecento?
La questione è implicitamente alla base della conferenza su Herder
tenuta nel maggio 1941, all’Istituto tedesco di Parigi, da un altro grande
intellettuale tedesco, Hans Georg Gadamer. L’Istituto diretto da Karl
Epting, specialista della propaganda culturale nazista in Francia, si de­
dicava a far conoscere la Germania a quei francesi inclini all’intesa e al­
la collaborazione. Ma le sue ambizioni andavano oltre e intendevano
mostrare non soltanto la grandezza della civiltà tedesca, bensì provarne
anche l’intrinseca superiorità sulla cultura francese. Di fronte al pubbli­
co che frequentava quel laboratorio di propaganda nazista, Gadamer, al­
lora professore all’università di Lipsia, sceglie di celebrare Herder, il
pensatore «che ha inventato il mondo storico», che nel Giornale di viag­
gio 1769, opera di genio, ha avuto l’idea di una storia universale della ci­
viltà111. Egli mostra che la vittoria della Germania era la vittoria dei valori

110. Ibid., p. XVI.


111. Hans Georg Gadamer, «Herder et ses théories sur l’histoire», in Regards sur
l’histoire, Cahiers de l’Institut allemand, pubblicati da Karl Hepting, n. 2,
1941, pp. 9-11 e 13-15. La questione di Gadamer è affrontata in modo eccel­
lente da Richard Wolin, The Seduction of Unreason: the Intellectual Romance
with Fascism from Nietzsche to Postmodernism, Princeton University Press,
Princeton 2004, pp. 90-128.

175
Le fondamenta di un 'altra modernità

tedeschi. Herder vi aveva contribuito in tempi di debolezza politica; G a­


damer, suo degno successore ma con il vantaggio di trovarsi nella posi­
zione del vincitore, prosegue il suo lavoro con ancora più ardore, perché
Herder era per lui una figura emblematica, un vero pioniere, uno dei pri­
mi a sentire la profonda divergenza tra la cultura francese dei secoli
XVII e XVIII e il «genio tedesco».
Questo testo peraltro è stato ristampato a cura dell’autore nel 1967,
per mettere in evidenza che quell’analisi non aveva perduto il suo valo­
re. Non è solo per circostanze eccezionali che Gadamer calca le orme di
Meinecke e che entrambi, sulla scia di Heidegger, si ergono contro Cas­
sirer, erede di Kant e in esilio dal 1933, e allo stesso tempo si mettono,
in un modo o nell’altro, al servizio del nuovo regime.
In una Parigi conquistata, come Berlino ai tempi di Napoleone, le
opere del giovane Stiirmer attirano l’attenzione ed è normale che Gada­
mer ponga l’accento sul Giornale di viaggio 1769, come su Ancora una fi­
losofia della storia. Non ha torto a pensare che proprio la sua concezio­
ne della storia conduce Herder a opporre la cultura tedesca a quella
francese e a sottolineare la tensione che fatalmente si manifestava tra di
esse. Non è tradire il pensiero di Herder vedere in lui un autore per cui
« l’effettualità storica è l’efficacia delle forze», o colui che se la prende
con l’arroganza illuminista nemica dei «pregiudizi». In altri termini G a­
damer, proprio come il suo contemporaneo Meinecke, non era un sim­
patizzante nazista, ma non poteva evitare di porre al pubblico francese,
riunito sotto la croce uncinata, la sola questione che allora importava:
quale fosse il senso storico profondo della vittoria tedesca.
Questo testo, nonostante o forse proprio a causa delle condizioni ec­
cezionali in cui è stato prodotto, è importante per comprendere sia G a­
damer e gli intellettuali tedeschi di quel periodo sia l’influenza esercita­
ta da Herder. Infatti Gadamer ha assimilato perfettamente la critica her-
deriana alPIUuminismo francese, al razionalismo e ai diritti dell’uomo e
l’ha fatta propria. Sulle tracce di Herder, Gadamer, come Meinecke
qualche anno prima, si dedica a ciò che separa la cultura francese e quel­
la tedesca, a ciò che costituisce la specificità tedesca e quindi la sua su­
periorità. In quel periodo Gadamer non è il solo a porre in evidenza co­
loro ai quali la storia aveva dato ragione. Bertrand de Jouvenel, autore di
Après la défaite, o Marcel Déat, autore di Pensée allemande et pensée
française, fanno la stessa cosa; si fa così strada una sterminata letteratura

176
Le fondamenta di un'altra modernità

della sconfitta112134. Ernst Jünger, decorato con una nuova Croce di ferro
guadagnata durante la campagna di Francia, andava pavoneggiandosi
nei salotti parigini; ricevuto da artisti e scrittori, era anche il simbolo del­
la vittoria di un sistema di valori su un altro. Renan lo aveva già detto nel
1870; nel 1940, con tutta la falange dei virulenti critici deH’Illuminismo
impegnati nella Rivoluzione nazionale, si tornava al punto in cui ci si era
trovati all’indomani di Sedan: per tutti la forza rimaneva il criterio della
superiorità morale e intellettuale.
Per Gadamer Herder fu il fondatore della critica globale aH’Illumi-
nismo. Il «postulato appassionato» del predicatore era proprio lì; è quel­
lo che permette, andando oltre Rousseau, la «liberazione dai pregiudizi
culturali dei philosophes enciclopedisti», è quello che rende finalmente
possibile la riduzione «a nulla» della «ingenua vanità che il periodo illu­
minista ha della propria civiltà»: secondo Gadamer, Herder non va sol­
tanto oltre la filosofia illuminista ma anche oltre la sua antinomia, il pen­
siero di Rousseau, non va soltanto oltre l’intellettualismo e « l’illusione
del progresso ma anche la rivolta del sentimento»"’. In questo modo la
rivolta contro l’Illuminismo conduce alla scoperta del senso storico. Qui
arriva l’essenziale: «Chi dice senso storico dice senso della forza»11,1.
Pierre Pénisson, autore di un’importante opera su Herder, contesta
l’analisi di Gadamer: privato di qualsiasi traccia di Aufklärung, il suo
Herder afferma il rifiuto della ragione, deH’Illuminismo e dell’idea di
progresso115. E incontestabile che occultare il periodo classico e le opere
dell’epoca di Weimar, che si apre nel 1776, nelle quali egli mira a un cer­
to umanesimo dogmatico, è ingiusto proprio come dimenticare la sua
magistrale opera di gioventù. Ma è proprio nelle Idee, nella seconda
metà degli anni Ottanta del Settecento, che matura la visione herderiana
della storia, e questa corrisponde effettivamente all’idea che ne dà G a­
damer. Egli non ha falsato il pensiero di Herder, tutt’altro: «L’intera sto­
ria umana è una pura storia naturale di forze, di azioni e di istinti umani,

112. Si veda l’eccellente lavoro di Gérard Loiseaux, La Littérature de la défaite et de


la collaboration, Fayard, Paris 1995.
113. Gadamer, «Herder et ses théories sur l’histoire», pp. 13-16.
114. Ibid., p. 16.
115. Pierre Pénisson,/.G. llerder: la raison dans les peuples, Ed. du Cerf, Paris 1992,
pp. 91-95.

177
Le fondamenta di un’altra modernità

secondo il luogo e il tempo», scrive Herder, « [...]. Il destino manifesta i


suoi disegni attraverso quello che accade e nel modo in cui accade; quin­
di, chi osserva la storia, svolga questi disegni soltanto da quello che c’è e
si mostra nell’intero ambito di essa. Perché ci sono stati gli illuminati
greci al mondo? Perché essi c’erano e in tali circostanze non potevano
diventare altro che greci illuminati»116.
La concezione della storia costituisce chiaramente la chiave della ri­
volta herderiana contro l’Illuminismo franco-kantiano. Per l’autore di
Ancora una filosofia della storia, un disegno provvidenziale orienta la sto­
ria, «un infinito dramma di scene diverse, epopea di Dio in tutti i mil­
lenni, i continenti e le stirpi umane, favola infinitamente molteplice, pre­
gna d’un grande significato»117. Infatti, «quando la casa in cui viviamo,
anche nei più piccoli ornamenti ci mostra la dipinta immagine di Dio,
come non lo sarebbe la storia dei suoi abitatori?»118 Qualche pagina do­
po egli prosegue intridendo il suo testo di versetti biblici: «Il libro sigil­
lato con sette sigilli consegnato all’Agnello per essere aperto» (Apocalis­
se, V) e «l’ora del giudizio è giunta» (Apocalisse, XIV, 7) si trovano in
questo testo in cui Herder ci insegna che il lavoro dello storico non con­
siste in null’altro che in uno sforzo per decifrare, trascrivere e far cono­
scere le intenzioni della provvidenza. «Il libro della storia trascorsa è da­
vanti ai tuoi occhi, chiuso con sette sigilli, è un mirabile libro colmo di
profezie, su te incombe ormai la fine dei giorni: leggi», dice in una pagi­
na che sembra uscita direttamente da un sermone pastorale119. Questo è
un buon esempio del fossato che separa la sua visione della storia da
quella dei philosophes illuministi. Persino Kant, probabilmente il più vi­
cino a un certo pietismo, non aveva l’abitudine di citare versetti del Nuo­
vo Testamento.

116. Herder, Idee per la filosofia della storia dell'umanità, libro XIII, cap. 7, p. 264.
117. Herder, Ancora una filosofia della storia, p. 95 (S. 559). Nel testo originale com­
paiono virgolette e punti esclamativi: si veda l’edizione Pross del 1984 dei
Werke, Band I, p. 660: «Unendliches Brama von Scenenì Epopee Gottes durch
alle jahrtausende Wellteile und Menschengeschlechte, tausendgestaltige Label
voli eines grossen Sinns\»
118. Ibid.
119. Ibid., p. 97 (S. 562). È Max Rouché, in due note in fondo alla p. 309 dell’edi­
zione francese, che attira l’attenzione del lettore sul testo biblico.

178
Le fondamenta di un’altra modernità

Infatti Ancora una filosofia della storia serviva esattamente allo sco­
po che Herder cercava di raggiungere. Se anche non ha inventato la sto­
ria, il teologo protestante ne ha fondato una nuova visione che non era
più quella di Bossuet, ma che era ancor più lontana da quella che sta­
vano producendo i razionalisti francesi o britannici, come Robertson o
Ferguson. Herder aveva inaugurato un modo di guardare la storia co­
me prodotto di un disegno divino; si scagliava contro la negazione del­
la provvidenza che trasudava dall’opera dei suoi predecessori e riduce­
va al minimo il ruolo della volontà umana. «Il corso della provvidenza
passa anche su milioni di cadaveri per raggiungere quel fine che è il
suo»,120 afferma in Ancora una filosofia della storia. Herder giustifica il
male nella storia? È difficile dubitarne. Nelle Idee, dove la polemica
contro Kant, pur meno violenta di quella contro Voltaire, segue sempre
con molta costanza la linea di pensiero inaugurata dieci anni prima, si
trova il passo seguente: «Tutte le opere di Dio hanno in sé la propria
consistenza e la loro bella coerenza in se stesse. [...] Con la guida di
questo filo conduttore, mi addentro nel labirinto della storia e vedo
dappertutto un ordine divino armonico, giacché tutto quello che mai
può accadere, accade, e ciò che può operare, opera»121. Tra Ancora una
filosofia della storia e le Idee vi sono certo delle differenze ma la conti­
nuità è altrettanto evidente.
Per questo Gadamer ha perfettamente ragione a insistere non solo
sulla specificità del pensiero di Herder ma anche sulla sua unità. Fa ap­
pello all’autorità dello stesso Herder, che aveva già chiarito che le Idee
per la filosofia della storia dell’umanità costituivano la revisione e attua­
zione dei principi e delle idee contenuti in Ancora una filosofia della sto­
ria. Sicuramente nelle Idee si può individuare un certo avvicinamento al-
l’Uluminismo, ma nelle forme e nel tono più che nel fondo e nel conte­
nuto: l’antirazionalismo di Herder, il suo appello alla fede, la sua ricon­
ciliazione intellettuale con Jacobi testimoniano la logica del suo percor­
so. Inoltre, a un secolo e mezzo di distanza, queste differenze hanno per­
so molto del loro peso122. È certo che l’opera di Weimar non manifesta

120. Ibtd., p. 114 (S. 576).


121. Herder, Idee per la filosofia della storia dell’umanità, libro XV, cap. V, p. 321.
122. Gadamer, «Herder et ses théories sur l'histoire», p. 17.

179
Le fondamenta di un’altra modernità

10 stesso carattere appassionato di quella di Bückeburg, ma è difficile


vedervi un’interiorizzazione dei principi illuministi. In altri termini è
proprio Herder ad avere evidenziato ciò che separa il razionalismo dal­
la visione völkisch dell’Ottocento, di cui non poteva prevedere tutte le
ramificazioni, ma di cui è uno dei primi grandi fondatori, se non il pri­
mo. Nel 1941 Gadamer si adegua a principi posti nell’ultimo quarto del
XVIII secolo.
Egli fa sua anche la critica herderiana della fede nel progresso, il suo
attacco alla «sensibilità sottile e fiacca del XVIII secolo», a «quella follia
del suo secolo», a quella «m oda» che consisteva nel volere comparare
popoli, civiltà ed epoche e a giudicarli con criteri del tempo presente.
Mostra un Herder violentemente antirazionalista e cita un brano classi­
co di Ancora una filosofia della storia per concludere: « “il succo e il noc­
ciolo di ogni storia” cercato da Herder non è nell’ideale di ragione del
suo secolo»12’. Ciò che manca al secolo dei Lumi è proprio quello che per
Gadamer-Herder forma il nocciolo della storia: «Cuore, calore, sangue,
umanità, vita»122. Ecco di nuovo l’urlo di guerra herderiano che riecheg­
gia ancora, dal Settecento, passando per la Germania degli anni Trenta
e la Francia occupata dai nazisti, fino all’Oxford di Berlin, il luogo più
tranquillo e pacifico del mondo. Ciò che precisamente dà peso filosofi-
co al problema storico è che non si tratta di un processo tendente in li­
nea retta al perfezionamento dell’umanità: qualsiasi progresso è allo stes­
so tempo una perdita. Inoltre, contro il XVIII secolo fiero della sua lot­
ta e della vittoria contro i pregiudizi, Herder riconosce nel pregiudizio
una sorta di felicità per i popoli1231425.
Gadamer plaude all’orizzonte storico limitato di Herder. Nella sto­
ria non bisogna cercare uno scopo né la felicità dell’individuo. Scoprire
11 disegno divino è al di là delle forze dell’uomo. A questo rimane solo la
fede nella certezza che il procedere del disegno divino si compie verso
ciò che è grande. La storia conserva così un carattere armonioso126.

123. Ibid., p. 19. Gadamer non cita le sue fonti, ma il testo che precede questa cita­
zione - «le idee infatti non producono che idee» - è facilmente riconoscibile:
si veda Ancora una filosofia della storia, p. 72, e il nostro cap. 3.
124. Ibid, p. 19.
125. Ibid., pp. 18-21.
126. Ibid., pp. 22-23.

180
Le fondamenta di un’altra modernità

Anche qui la lettura di Herder fatta dal professore di Lipsia è esatta;


questa filosofia della storia espressa nel saggio del 1774 ritorna nelle
Idee, dove rimane l’essenziale: «La storia universale non è un “racconto
di fate”» 127. Ecco dove si trova la risposta alla grande questione: se la sto­
ria è il cammino verso la grandezza, come possiamo noi avere esperien­
za della realtà storica? «Evidentemente come forza e come ingranaggio
di forze.»128 Perché, e Gadamer batte sempre sullo stesso tasto, «si può
dimostrare che il concetto di umanità per Herder non è un concetto
ideale ma un concetto di forza. Il posto di Herder nella storia della filo­
sofia è determinato dal fatto che ha applicato al mondo storico l’idea di
forza o, piuttosto, quella di forze organiche». Insomma la realtà storica
non è che «la manifestazione del gioco di alcune forze».12'1
Ecco dunque, secondo Gadamer, l’alternativa che Herder propone
ai philosophes illuministi che si interrogano sul progresso della virtù e
della felicità. Del resto è interessante constatare quanto l’Herder di G a­
damer sia decristianizzato: la fiducia del pastore protestante nella storia
non sarebbe una fede nel compimento di un disegno divino ma una fe­
de nella presenza di Dio nella storia, affinché essa trovi nella natura la di­
mostrazione della sua saggezza. La filosofia della storia serve a questo:
opporsi allo scetticismo volgendo lo sguardo all’analogia che esiste tra la
storia dell’uomo e la natura. Non è la ragione scoperta nella storia a for­
giare la credenza di Herder nella storia; la sua filosofia della storia tende
piuttosto a sopprimere il dubbio storico incorporando la storia umana
nell’insieme più vasto, e ordinato in un modo più convincente, della sto­
ria del mondo110.
La convinzione secondo cui l’idea di forza (Kraft) è stata fondamen­
tale per tutta la filosofia della storia di Herder non è contestabile. Lo
stesso Hegel aveva già riconosciuto il carattere centrale di questa nozio­
ne nell’opera di Herder, scrive Myriam Bienenstock, ma non per farne,
come Gadamer, un titolo d’onore per Herder, bensì per criticarlo: nella
sua Enciclopedia delle scienze filosofiche del 1830, Hegel denuncia in

127. Ibid., P-23.


128. Ibid., p. 24 (corsivo nel testo).
129. Ibid.
130. ibid.,, pp. 25-30.

181
Le fondamenta di un’altra modernità

Herder la confusione consistente nel «concepire Dio come forza»131.


Questa critica hegeliana è di grande importanza per la comprensione del
pensiero di Herder, perché viene fatta cento anni prima che si presenti­
no le preoccupazioni del X X secolo.
In pratica Hegel riprende una critica che aveva espresso in uno dei
suoi primi articoli, «Fede e sapere», scritto durante la famosa «disputa
sul panteismo» che infuria in Germania in seguito alle lettere su La dot­
trina di Spinoza, nel quale assimila Herder a Jacobi. Secondo Hegel,
Herder non arriva a sostituire nettamente il pensiero razionale con il sen­
timento o la soggettività dell’istinto, come fa Jacobi, ma lo fa con il con­
cetto di «forza» o di «forza originale» (Urkraft), e in questo senso il suo
filosofare è un po’ più oggettivo di quello di Jacobi. Herder si rifiuta di
definire in termini razionali il concetto di «forza organica», da lui utiliz­
zato in Gott, pubblicato nel 1787 e ripubblicato nel 1800 con alcune cor­
rezioni successive alla sua riconciliazione con Jacobi: «Tuttavia non è che
un 'espressione, perché noi non comprendiamo che cosa sia una forza»132.
Questo è il motivo per cui Hegel attacca ferocemente Herder: invece di
idee filosofiche nette e distinte, Herder usa «espressioni», «parole», che
soprattutto non bisogna tentare di capire o di spiegare.
Prima di proseguire bisogna sottolineare, come fa Myriam Bienen­
stock, che la prima edizione di Gott non differisce molto, certo non nel­
l’essenziale, dalla seconda edizione, dove Herder si prende cura di eli­
minare tutto quanto potrebbe ferire Jacobi: se nella prima edizione egli
non giungeva già a opporre, come quest’ultimo, la fede al sapere, non è
molto lontano da Jacobi sulla questione fondamentale di sapere come
cogliere le loro relazioni133. Questo dovrebbe fare riflettere sul mito di un
Herder Aufklärer all’epoca di Weimar, che scrive le Idee in opposizione

131. Myriam Bienenstock, «L e sens historique: un sens de la force? Herder, Hegel


et leurs interprètes», in P. Pénisson, Herder et la philosophie de l'histoire, p.
165: si veda Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, a cura di
Benedetto Croce, Laterza, Bari 1967, p. 129. La nota 17 rimanda a Gott: Ge­
spräche über Spinozas System del 1787.
132. Ibid., pp. 168-169. E disponibile una traduzione italiana di Gott: Herder, Dio.
Dialoghi sulla filosofia di Spinoza, a cura di M.C. Barbetta e I. Perini Bianchi,
Franco Angeli, Milano 1992.
133. Ihid, p. 172.

182
Le fondamenta di un’altra modernità

all’opera del 1774, la quale sarebbe stata solo l’espressione del cattivo
umore di un giovane incollerito, mentre nella sua opera maggiore Her­
der sarebbe diventato un illuminista. La prima edizione di Goti appare
proprio nel momento in cui Herder termina la redazione delle Idee.
Hegel, prosegue la Bienenstock, non può perdonare a Herder la sua
adesione a Jacobi nella seconda edizione di Gott, dove l’autore afferma
che per lui, si tratta solo di «spiegare» qualcosa mediante la nozione di
Kraft: per Hegel la spiegazione e ancora di più l’imperativo di conoscenza
sono fondamentali. Non può esserci alcun motivo di rinunciarvi a vantag­
gio della fede. Per Hegel rinunciare al sapere, alla conoscenza, è rinuncia­
re alla libertà e, con la libertà, a qualsiasi morale. Rinunciando all’obietti­
vo di Spinoza - rendersi liberi con il sapere, con il riconoscimento della
necessità - perdendo di vista l’essenza del sistema spinoziano, Herder, se­
condo Hegel, ha pietosamente rinunciato all’essenziale, all’obiettivo fon­
damentale. Ed è proprio quest’obiettivo fondamentale - mostrare che la
libertà si acquisisce con il riconoscimento della necessità - che spiega per­
ché la filosofia della storia di Hegel differisce da quella di Herder1” .
In effetti Hegel riprende da Herder alcune categorie, come «spirito»
e «spirito di un popolo», ma dà loro un senso completamente diverso. Il
razionalismo hegeliano non poteva uniformarsi a un pensiero in cui la fe­
de sostituiva la ragione. Per questo Hegel si volge a Montesquieu e non
a Herder per rendere omaggio a colui che ha «fondato la sua opera im­
mortale sull’intuizione dell’individualità e del carattere dei popoli»,134135
cioè proprio la ragione per la quale non è verso Montesquieu, e d’al­
tronde nemmeno verso Hegel, ma verso Herder che si volsero, nei seco­
li X IX e XX, Taine, il Renan della Réforme e degli altri scritti politici,
Barrès (attraverso Michelet) e i rivoluzionari conservatori tedeschi, così
come i nazionalisti di tutte le parti d’Europa e tutti i critici deH’Illumi-
nismo davvero colti. Anche Herder aveva misurato sin dall’inizio la di­
stanza che lo separava da Montesquieu: il suo antirazionalismo era un
fossato difficile da colmare. Negli ultimi anni del Novecento anche l’at­
teggiamento di Isaiah Berlin verso il giurista di Bordeaux sarebbe stato
altrettanto critico.

134. lbid., p. 174.


135. Ibid.,p. 176.

183
Le fondamenta di un 'altra modernità

L’attacco lanciato contro Montesquieu riveste un interesse tutto par­


ticolare perché, di tutti gli Illuministi, egli era il più vicino a Herder ma
anche il più pericoloso per la sua impresa di decostruzione dei Lumi
francesi. In effetti, Montesquieu aveva elaborato una filosofia della sto­
ria che rispondeva alle preoccupazioni intellettuali di Herder, ma rima­
neva ancorata alPllluminismo. Nella sua mente una legge presuppone
sempre un rapporto e questo rapporto è razionale, logico, guidato da
una «ragione originaria». Montesquieu vedeva nell’uomo l’artefice del
proprio destino, un essere razionale che agisce in virtù del proprio pen­
siero e della propria volontà. Per lui il mondo della storia era quello di
esseri dotati di ragione, portatori di tutta la grandezza e di tutte le de­
bolezze di quei «singoli esseri intelligenti [che] sono, per loro natura, li­
mitati e quindi soggetti all’errore; e d’altra parte è proprio della loro na­
tura che operino da sé medesimi»136. La storia è un insieme di fenomeni
che si riducono a una «ragione», una «ragione originaria; e le leggi sono
le relazioni fra quella ragione e i diversi esseri, e le relazioni di quei di­
versi esseri fra loro»137. Ancora una volta pensatore dei Lumi, Monte­
squieu vede nel fatto che gli uomini agiscano secondo la loro propria vo­
lontà un motivo per aspettarsi un nuovo orientamento della storia poli­
tica e sociale. Gli uomini hanno una conoscenza dei principi generali e
delle forze motrici della storia: da ciò viene la convinzione che sono ca­
paci di crearsi un avvenire diverso138. Egli sanziona definitivamente il di­
vorzio tra il diritto naturale e il diritto divino139.
Quando Herder rimprovera a Montesquieu di trascurare la necessità
di adattare le soluzioni politiche al genio di una nazione e di un periodo,
falsa coscientemente il senso sia dell 'Esprit des lois che delle Lettres per-
sanes, dove l’idea di relatività della nostra civiltà viene affermata con for­
za già nel 1720. Nel 1767 il Saggio sulla storia della società civile di Adam
Ferguson enuncia diverse idee che Isaiah Berlin, ultimo di molti, consi­
dera caratteristiche del contributo originale di Herder: egli formula la
nozione di felicità specifica propria a ogni nazione, considera ogni po-

136. Montesquieu, Lo spirito delle leggi, p. 27.


137. Ibid.,p.25.
138. E. Cassirer, La filosofia dell’Illuminismo, p. 300.
139. Paul Hazard, La Pensée européenne au XVIII siècle, p. 158.

184
Le fondamenta dì un’altra modernità

polo come un’individualità originale, la letteratura di ognuno di essi co­


me la loro produzione spontanea, di cui è inutile cercare l’origine all’e­
stero. «Quando le nazioni attingono dai loro vicini probabilmente pren­
dono solo ciò che sono sul punto di inventare con le proprie forze. Ogni
particolare attività di un paese quindi difficilmente si trasferisce a un al­
tro fino a che la strada non risulti aperta dalla comparsa di circostanze
simili.»140Come Herder, egli deplora che noi «non riusciamo a capire co­
me gli uomini possano essere sopravvissuti con usi e costumi estrema-
mente diversi dai nostri» e aggiunge che «siamo portati a esagerare le in­
felicità delle epoche barbare»141.
E proprio per avere elaborato i principi sui quali si basano le struttu­
re sociali e politiche pur facendole quadrare con le condizioni specifiche
dei tempi e dei luoghi, delle culture e delle condizioni fisiche e morali,
che Montesquieu è il vero fondatore della sociologia politica e della scien­
za politica, proprio come è uno dei grandi pensatori del liberalismo. Her­
der snatura il suo pensiero per attaccarlo meglio nel punto per lui dolen­
te: il rifiuto di Montesquieu di porsi al di là della ragione, il rifiuto di ve­
dere nella storia qualcosa di diverso da un terreno ove si manifestano
«leggi generali» e la volontà degli uomini, e non la mano di Dio.
In effetti, mentre ricava da Montesquieu il vero quadro concettuale
della sua filosofia della storia, Herder deve ai suoi principali avversari,
Voltaire, Hume, Robertson, un’altra delle grandi idee che ancora oggi ri­
mangono associate al suo nome: quella secondo la quale la storia è la sto­
ria di tutto un popolo, della sua cultura, del suo modo di vivere, della
sua letteratura, dei suoi canti e delle sue leggende. Gli autori contro i
quali continua ad accanirsi sono proprio quelli che hanno sostituito la
storia culturale, la storia della cultura delle masse alla storia puramente
politica, diplomatica e militare. La sostituzione della storia dinastica con

140. Adam Ferguson, An Essay on tbe History of Civil Society, Cambridge Univer­
sity Press, Cambridge 1995, terza parte, cap. 7 (pp. 161-163 sulla «storia delle
arti») e cap. 8 (pp. 164-171 sulla «storia della letteratura»); si veda in partico­
lare p. 162. [Saggio sulla storia della società civile, a cura di Alessandra Attana­
sio, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 156-159 e 159-166; si veda in particolare p.
157],
141. Ibid., p. 103 [p. 100], Questo brano si trova anche nell’lntroduction di Rouché
a Une autre pbilosophie de l’histoire, p. 100.

185
Le fondamenta di un 'altra modernità

l’intera storia nazionale è un’idea che Herder attinge dall’Essai sur les
mœurs. Nel suo Diario di viaggio 1769 egli riassume la lezione appresa:
la storia non diventa mai «storia dei sovrani, delle dinastie, delle guerre,
ma del reame, del paese e di tutto ciò che ha contribuito alla sua fortu­
na o al suo declino»142.
Ma che cos’è l’idea dello «spirito» che emerge nel XVIII secolo, in
primo luogo in Voltaire e in Montesquieu? Cassirer e Meinecke hanno
rilevato il ruolo che questa idea poteva avere come motore dell’analisi
storica. Hanno sottolineato il ruolo di una riflessione sullo spirito di
un’istituzione, di un popolo o di un’epoca nell’aprire la via a una nuova
concezione della storia. Però c’è un modo «illuminista» di riflettere sul­
lo statuto dello spirito, quello di Montesquieu e di Voltaire, e c’è il mo­
do di Herder. Per Montesquieu l’analisi dello spirito delle leggi costitui­
sce una riflessione sulla specificità dei popoli, dei loro costumi, dei loro
modi di vivere e dei loro comportamenti a partire dai differenti principi
che reggono i loro sistemi giuridico-politici. Per Voltaire, molto più che
semplice strumento di analisi storica, lo «spirito dei popoli e dei tempi»
costituisce l’elemento fondamentale che presuppone l’idea stessa di una
filosofia della storia14’. In questo modo, grazie alla loro concezione della
storia come storia delle masse, i razionalisti hanno potuto andare oltre
Bossuet e Vico. La riabilitazione della storia è un merito della filosofia il­
luminista: non c’era alcun bisogno di combattere la ragione o di rifiuta­
re all’individuo il suo statuto di soggetto per giungervi.
Lo stesso avviene per quanto riguarda la critica herderiana al classi­
cismo francese, questo mezzo supremo per eliminare l’influenza france­
se, o l’altra idea associata a Herder, il senso dell’individualità. Per giun­
gervi, il razionalismo non era certo un ostacolo. In Montesquieu in ef­
fetti si legge: «Trasportare in secoli remoti tutte le idee del secolo in cui
si vive, è, tra le fonti di errore, la più feconda»144. Rousseau non è meno
esplicito: «Non è forse noto che [...] la coscienza si altera e modifica in-

142. Rouché, Introduction a J.G. Herder, Journal de mon voyage en l’an 1769, pp.
34-35.
143. Jeffrey Andrew Barash, «Herder et la politique de l’historicisme», in Pierre Pé-
nisson (a cura di), Herder et la philosophie de l’histoire, p. 203.
144. Montesquieu, Lo spirito delle leggi, p. 756.

186
Le fondamenta di un’altra modernità

sensibilmente in ogni epoca, in ogni popolo, in ogni individuo, secondo


l’incostanza e la varietà dei pregiudizi?»145
Voltaire, bestia nera di Herder, attaccato tanto più duramente in
quanto era stato, con Montesquieu, la sua prima fonte d’ispirazione, nel-
YEssai sur les moeurs si esprimeva con la stessa chiarezza: «La taccia di atei­
smo, così generosamente elargita nel nostro Occidente a chiunque non
pensi come noi, è stata rivolta ai cinesi. [...] Noi abbiamo calunniato i ci­
nesi unicamente perché hanno una metafisica diversa dalla nostra [...]. Il
grande malinteso sui riti della Cina è nato perché abbiamo giudicato le lo­
ro usanze attraverso le nostre, perché noi portiamo fino in capo al mondo
i pregiudizi del nostro spirito litigioso. Una genuflessione, che per loro è
soltanto un atto ordinario di riverenza, ci è parsa un atto di adorazione; ab­
biamo preso una tavola per un altare: in questo modo noi giudichiamo tut­
te le cose»146. Voltaire, si sa, insorgeva contro l’ignoranza occidentale: par­
lando della Persia, si levava contro «la nostra stolta arroganza»,147 o la no­
stra «ignorante credulità», che fanno sì che ci immaginiamo «sempre che
abbiamo inventato tutto noi, che tutto sia venuto dagli ebrei e da noi, che
siamo succeduti agli ebrei; ci si disinganna subito non appena si fruga un
po’ nell’antichità»148149.In uno dei due capitoli dedicati alle Indie Voltaire af­
ferma: «E ora che abbandoniamo l’ignobile consuetudine di calunniare
tutte le sètte e d’insultare tutte le nazioni»144. Voltaire è stato pluralista pri­
ma di Herder e in un senso che aveva un significato liberale immediato che
il pluralismo herderiano non poteva avere: «Se in Inghilterra ci fosse una
sola religione, si dovrebbe temere il dispotismo; se ce ne fossero due, si ta­
glierebbero la gola; ma ve n’è una trentina, e vivono felici e in pace»150.
Per questo la differenza fondamentale tra Montesquieu, Voltaire ed
Herder non è che il tedesco avrebbe posseduto un senso storico di cui i

145. SivedaJ.-J. Rousseau, Giulia o la nuova Eloisa. Lettere di due amanti di una cit­
tadina ai piedi delle Alpi, a cura di Elena Pulcini, trad. di Piero Bianconi, Riz­
zoli, Milano 2004, p. 378.
146. Voltaire, Saggio sui costumi, 1.1, pp. 225-226.
147. Ibid, p. 255.
148. Ibid., p. 251.
149. Ibid., p. 242. Questo brano è citato anche da Rouché, Introduction a J.G . Her­
der, Une autre philosophie de l’hisloire, p. 99.
150. Voltaire, Lettere inglesi, trad. di Mario Misul, Boringhieri, Torino 1968, p. 39.

187
Le fondamenta di un’altra modernità

francesi erano sprovvisti, quanto nei loro obiettivi diametralmente op­


posti: mentre Voltaire e gli altri pensatori illuministi come Helvétius uti­
lizzano il loro senso storico o, se si vuole, il loro senso della relatività sto­
rica, per attaccare la religione, Herder pone il senso della storia al servi­
zio del cristianesimo. Voltaire riabilita gli arabi e i cinesi contro il giu-
deocentrismo dei cristiani, Herder riabilita i patriarchi in nome del cri­
stianesimo, il Medioevo in nome del germaniSmo cristiano. Voltaire at­
tacca l’orgoglio occidentale in quanto prodotto dal cristianesimo, Her­
der perché vede in quest’insolenza un prodotto dei Lumi.
L’idea herderiana che ogni perfezione è essenzialmente quella di un
paese e di un secolo si trova già in un autore che nel Novecento salirà al
rango di uno degli iniziatori del pensiero moderno, Jean-Baptiste Du­
bos. Dubos, che Montesquieu, pur criticandolo molto per il suo lavoro
storico su L établissement de la monarchie française dans les Gaules, defi­
niva tuttavia «autore celebre»,151 aveva introdotto in letteratura il princi­
pio delle nazionalità e, prima di Montesquieu, si era dedicato all’in­
fluenza dei diversi climi. Voltaire ammirava molto il lavoro di Dubos152153*.
Ben noto a Herder, Dubos aveva insegnato una critica letteraria moder­
nista e relativista e con ciò scuoteva con forza il classicismo, ma allo stes­
so tempo scalzava le basi della religione. L’abate Dubos è anche l’autore
della famosa formula «L’ambiente, la razza e il momento», attribuita a
Hippolyte Taine155. Qui stava l’origine della reazione herderiana contro i
pensatori illuminati: attaccando il dogmatismo letterario, l’ortodossia e
il conformismo, essi mettevano in dubbio i principi della fede.

151. Montesquieu, Lo spirito delle leggi, libro X X X , cap. XVI, p. 760.


152. Voltaire, «Lettre à M. l’abbé Dubos», in Le siècle de Louis XIV, Œuvres histori­
ques, texte établi, annoté et presenté par Réné Pomeau, Gallimard («Biliothèque
de la Pléiade»), Paris 1957, pp. 605-607. Sono innumerevoli i prestiti di Herder
da Iselin, che prima di lui aveva elaborato la nozione di «felicità specifica», come
anche da Ferguson e da Helvétius che ammiravano la vitalità e la potenza dei bar­
bari. Herder non poteva conoscere Turgot, ma è importante sottolineare che que­
sto pensatore illuminista aveva, proprio come Herder, celebrato la libertà della
quale il Medioevo aveva goduto grazie alla sua frammentazione. Ma Flerder non
aveva speso una parola per lo stile gotico, che invece Turgot apprezzava molto.
153. Rouché, Introduction a J.G . Herder, Une autre philosophie de l’histoire, pp. 97-
98 e La Philosophie de l'histoire de Herder, pp. 24, 144-145. Si veda Jean-Bap-
tiste Dubos, Reflexions critiques sur la poésie et sur la peinture, préf. de Domi­
nique Désirât, Ecole nationale supérieure des beaux-arts, Paris 1993.

188
Le fondamenta di un’altra modernità

Contro queste malattie del secolo che combatte, nei philosophes, con­
tro il dubbio e lo scetticismo, Herder, come Burke, ripiega sul pregiudi­
zio, e'ogni pregiudizio, giustificato o meno, è preferibile all’alternativa, al
dubbio, alla ragione, all’autonomia dell’individuo: la tradizione costitui­
sce l’ancora che permette di evitare la deriva. E questo che Herder vuole
dire Quando, già nelle prime due pagine del saggio del 1774, attacca «la
lente del filosofo a priori», opponendole la descrizione delle origini del
genere umano nella Bibbia154. Col suo attacco alla tradizione lanciato da
Ancora una filosofia della storia e proseguito nei libri V ili e X delle Idee,
con la condanna, già dal 1774, di ogni tentativo di legislazione razionale,
Herder inaugura la linea di pensiero proseguita da Burke, da Rehberg e
Gentz nelle loro critiche alla nuova Costituzione francese. A Hobbes, a
Locke, a Montesquieu, a Rousseau e a tutte le varietà della scuola giu-
snaturalista il cui denominatore comune è una visione volontarista delle
origini della società, Herder oppone il racconto biblico o, in altri termi­
ni, un’origine naturale e non razionale della società.
Se l’opera di Herder appare come la prima reazione globale contro
rilluminismo, più potente e più sofisticata di quella di Burke, è perché ri­
mane incontaminata dall’odio per la Rivoluzione francese. I pensatori il­
luministi non hanno avuto critiche più aspre delle sue, ma allo stesso tem­
po non hanno nemmeno avuto un allievo più dotato del pastore di Bùcke-
burg. Perché Herder da loro ha preso la parte essenziale del suo pensie­
ro, pur denigrando le loro opere per il razionalismo e lo spirito anticri­
stiano che diffondono: egli non ha avuto un misterioso istinto per il par­
ticolare e lo specifico, per il carattere unico di ogni essere umano, non ha
scoperto la nazione per un’improvvisa illuminazione, non ha scoperto l’u­
nicità" degli avvenimenti e non è stato il primo né il solo a volere rendere
giustizia ai popoli oppressi o considerati primitivi. In Ancora una filosofia
della storia Herder sottolinea che «mai due istanti al mondo furono iden­
tici»,155 cosa che, lo abbiamo appena visto, alla fine del Settecento non è
più una scoperta ma che nel Novecento diventerà un altro dei suoi meri­
ti. Tuttavia ciò che importa è che questa idea si ritrovi nel Giornale di viag­
gio 1769. Questo significa che l’idea di una relatività dei valori è conti-

154. Herder, Ancora una filosofia della storia, pp. 5-6.


155. Ibid., p. 32 (S. 504).

189
Le fondamenta di un’altra modernità

nuamente presente nel pensiero di Herder e costituisce un elemento fon­


damentale della sua eredità: «Non un uomo, non un paese, non un popo­
lo, non una storia nazionale, non uno Stato assomiglia all’altro; di conse­
guenza nemmeno il Vero, il Bello e il Bene in sé si assomigliano»156.
I concetti herderiani non sono concetti politici ed è proprio per que­
sto che sono altamente problematici. In ciò gli apologeti di Herder vedo­
no, come per Nietzsche, la prova del suo grande candore, della sua tota­
le innocenza per tutto quello che riguarda lo sfruttamento politico del
suo pensiero. Ma proprio lì sta il problema: le categorie herderiane non
possono essere giuridiche o costituzionali come quelle di Locke o di
Rousseau, centrate sui diritti dell’individuo e sulla qualità contrattuale
della società, egli non può comprendere Kant, non si interessa alla natu­
ra del potere, alla sovranità, alla società giusta e al posto che essa offre al­
l’individuo, non si interroga sui diritti dell’uomo, proprio perché si op­
pone al cammino dei philosophes. Herder si interessa al «popolo» in
quanto totalità organica, alla nazione e alla storia: è proprio in questo che
il suo pensiero è rivoluzionario nei confronti del suo tempo, ed è proprio
per questo che fornisce il quadro concettuale della guerra all’Illuminismo
fino alla prima metà del X X secolo. L’opera di Herder presenta davvero
le caratteristiche di quella novità di cui sarà fatto il mondo moderno.
E così che l’idea di forza, la nullità dell’individuo, la fede cristiana,
l’antirazionalismo e il rifiuto del dubbio, il primato della storia e la sua
integrazione nel quadro più vasto della storia dell’universo costituiscono
l’eredità di Herder. Dopo di lui, in seguito alle discussioni della fine del
XVIII secolo, le questioni della filosofia della storia, del relativismo e
della decadenza, del posto dei pregiudizi nella vita di una società sono al
centro dell’attività intellettuale del X IX secolo. I principi modellati alla
svolta del X IX secolo, adattati ai cambiamenti intervenuti nel frattempo,
alimenteranno la sempre più forte corrente antilluminista dei secoli XIX
e XX. Thomas Carlyle è senza dubbio il rappresentante più tipico di una
tendenza che, pur rimanendo ancora ai vertici dell’alta cultura, va ad ar­
ricchirsi di un forte impulso antidemocratico e annuncia da lontano l’e­
splosione degli inizi del Novecento.

156. Citato in Rouché, Introduction a J.G . Herder, Une autre philosophie de l’hi­
stoire, pp. 102-103 (Suphan, IV, p. 472).

190
Le fondamenta di un’altra modernità

Il pilastro della filosofia della storia in Carlyle è l’idea secondo la


quale la società è travagliata da un’eterna metamorfosi, con gli uomini
eccezionali, gli eròi, come agenti di questa trasformazione. Gli eroi di
Carlyle, bisogna insistere su questo, non sono volgari dittatori, tutt’altro.
Sono uomini di genio, dalle qualità morali esemplari: gli eroi non sono
soltanto uomini di Stato o soldati divenuti uomini di Stato, ma fondato­
ri di religioni, profeti e preti, poeti, uomini di lettere o filosofi. Unici per
le loro qualità e per il loro destino, sono loro che fanno avanzare il ge­
nere umano. E evidente che il culto dell’eroe di Carlyle non è paragona­
bile. né per posizione né per funzione, all’uomo di genio in cui anche
John Stuart IVIili vede il motore della storia. Ma il ricorso all’uomo ecce­
zionale è relativamente comune nei pensatori antilluministi. Il culto del­
l’eroe appare anche come un modo di spingere più lontano l’élitismo co­
mune a tutte le varianti di questa scuola.
Sé il corpo sociale cambia e deve cambiare nel corso delle epoche, si
pone la questione di sapere come Carlyle concepisse concretamente que­
sta trasformazione di cui gli eroi sono gli attori, le cinghie di trasmissione
e i motori: questa trasfigurazione è necessaria e normale o può sfociare in
un disastro?157 Si tratta di un processo infinito? Tutte le epoche sono sullo
stesso piano, cosa che porterebbe a concepire una relatività di valori? Il
processo evolutivo è un processo di progresso? Può esserci progresso al di
là del cristianesimo? L’autore degli Eroi mostra la successione di tre gran­
di civiltà europee: l’antichità pagana, il Medioevo cristiano, i tempi mo­
derni. L’evento fondatore di tutta la «storia dell’Europa moderna», «il più
importante episodio nella storia dell’Europa moderna», quello che fu «il
vero punto di partenza di tutta la successiva storia della civiltà» è «l’appa­
rizione di Lutero alla dieta di Worms, il 17 aprile 1521». Quel giorno si è
visto come «il figlio del povero minatore Hans Luther», quel «solo uomo»
venuto «in nome della verità divina», abbia saputo tenere testa a «tutte le
pompe e i poteri della terra»158. Tutto quanto è grande nell’Europa mo­
derna è nato dal germe portato quel giorno dalle parole di Lutero, dal suo

157. Si veda l’introduzione di Izoulet alla sua edizione di Les Héros (Armand Colin,
13J ed., 1928), pp. VIII-IX. Izoulet propende per la prima soluzione: un pro­
cesso infinito di trasformazione.
158. Carlyle, Gli eroi, pp. 212-213.

191
Le fondamenta di un’altra modernità

rifiuto di rinnegarsi: in Inghilterra il puritanesimo e i Parlamenti, la con­


quista delle Americhe, «tutta la mole di opere compiute in questi due se­
coli», la Rivoluzione francese e Napoleone, l’ultimo dei grandi uomini, e
recentemente Goethe e la letteratura tedesca, e anche l’opera civilizzatrice
dell’Europa in tutto il mondo. Si noterà non soltanto il posto che spetta al­
la Rivoluzione francese nella Storia ma soprattutto la qualità e la natura
delle sue origini: come il puritanesimo, la Rivoluzione in Francia non sa­
rebbe stata possibile senza la lotta di Lutero per la verità, per la libertà di
coscienza, contro un mondo sprofondato «nella menzogna, nella stagnan­
te putredine», anche se «grandi guerre, contese, scissure seguirono»159.
Tuttavia, poiché il motore della Storia è la comparsa dell’eroe, del­
l’uomo fuori del comune, messaggero della provvidenza, il cammino in
avanti non si può fermare e non è possibile tornare indietro. Il cattolice­
simo non tornerà mai a ciò che è stato prima deH’irrimediabile corruzio­
ne del papato, non più di quanto non possa ritornare il paganesimo, e
anche il Medioevo cristiano è scomparso. Ma che cosa sarà del X IX se­
colo? La società produce il grande uomo che esprime non soltanto il bi­
sogno esistenziale di leadership ma anche di verità e di fede. La società
ha bisogno dell’eroismo, l’eroe è l’anticonformista per eccellenza, è l’uo­
mo che «sente di essere spiritualmente collegato al mondo invisibile»,
colui che è unito «agli altri uomini» da una «relazione divina»160. Se il
protestantesimo rimane ancora ciò che «c’è oggi di vivo»,161 questo si­
gnifica che il futuro dipende dall’apparizione di un nuovo Lutero, Knox
o Cromwell? La democrazia ucciderà l’eroe? Certamente no, poiché è lei
che ha prodotto, in «un’epoca in cui più non si credeva in Dio», Napo­
leone, quel grande uomo che non fu, come Cromwell, nutrito di verset­
ti della Bibbia puritana ma di povere enciclopedie scettiche: c’è da me­
ravigliarsene ancora di più162. Arrivando alla fine dello sfortunato XVIII
secolo, secolo di Voltaire, Napoleone, ultima figura uscita dalle pagine
degli Eroi, fornisce così la prova che nessuna decadenza potrà essere
eterna o definitiva. Nessuno ha il segreto del futuro.

159. Ibid., p. 214.


160. Ibid., pp. 31-32.
161. Ibid., pp. 216.
162. Ibid., p. 353.

192
Le fondamenta di un’altra modernità

Nel solco aperto da Carlyle si inserisce immediatamente Hippolyte


Taine, il suo allievo più fedele e senza dubbio il più influente. Carlyle
non lasciava indifferente nessuno, tanto meno uno storico francese del­
la letteratura inglese come Taine. Per tutto quello che riguarda le idee
politiche, per Taine la prima vera fonte di ispirazione è Burke, ma per il
Taine storico è Carlyle l’esempio del metodo storico come dell’arte di
scrivere. Carlyle sconcerta ma allo stesso tempo abbaglia: concludendo
il suo grande capitolo su Carlyle, paragonando l’autore degli Eroi a Ma-
caulay, che era appena scomparso, Taine pretende da un lato di essersi
stancato «di quello stile esagerato e demoniaco, di quella filosofia straor­
dinaria e morbosa, di quella storia agghiacciante e profetica, di quella
politica sinistra e forsennata», ma allo stesso tempo si dichiara convinto
che vi è più genio in Carlyle che in Macaulay16’.
All’inizio si è affascinati di fronte a quell’«animale straordinario,
avanzo di una razza scomparsa, sorta di mastodonte smarrito in un mon­
do che non è davvero fatto per lui»1M. Tutto è nuovo, le idee, lo stile, il
tono; affronta tutto dal rovescio, «violenta tutto, le espressioni e le co-
se»'M. La Rivoluzione francese di questo «veggente puritano» somiglia a
un delirio; se il lettore non butta via il libro per la collera e la fatica, per­
de la ragione. Non c’è che un passo dal sublime all’ignobile, dal pateti­
co al grottesco. Il suo cinismo di fronte al mondo moderno, le sue furi­
bonde declamazioni sono la nota dominante di questo «spirito strano
[... ma] che ci fa riflettere»: secondo Taine, questa tensione forsennata
è il suo talento16314566. In questo modo l’autore delle Origtnes indica il segre­
to dell’influenza esercitata da Carlyle alla fine del X IX secolo: come nes­
sun altro prima di lui nel periodo seguente la Rivoluzione francese, egli
ha saputo fare del cinismo in politica un’arma contro la democrazia.
Il suo metodo sarà infine quello adottato da Taine. Tutta la filosofia
della storia di Carlyle, dice il critico francese, si basa sulla ricerca, la sco­
perta e la comprensione del fatto. Secondo Taine i grandi uomini che
Carlyle fa salire in scena, profeti, re, scrittori e poeti, sono grandi pro-

163. Taine, Histoire de la littérature anglaise, 17“ ed., s.d., t. V, p. 296.


164. Ibid., p. 208.
165. Ibid., p. 209.
166. ib id , pp. 211-212,227,236.

193
Le fondamenta di un 'altra modernità

prio per questo. Il grande uomo scopre qualche fatto sconosciuto o mi-
sconosciuto, lo proclama; lo ascoltano, lo seguono «ed ecco tutta la sto­
ria». Egli vede e crede a quel fatto con una fede indomabile e assoluta.
Intuizione e convinzione sono i due pilastri del modo di lavorare di
Carlyle ed è anche il comportamento che egli attribuisce ai grandi uo­
mini. E, dice Taine, «ha ragione, perché non ve ne sono di più potenti.
Ovunque egli entri con quella lampada, produce una luce prima scono­
sciuta. Sorpassa le montagne dell’erudizione polverosa e penetra nel
cuore degli uomini». In questo modo Carlyle supera la storia politica e
ufficiale, «indovina i caratteri, comprende lo spirito delle età spente» e,
meglio di Macaulay, «sente le grandi rivoluzioni dell’anima»167.
Ma non sono soltanto le qualità di visionario che Taine ammira in
questo autore «strano ed enorme nelle sue fantasie come nelle sue face­
zie»168. Egli è altrettanto consapevole delle sue qualità di ricercatore. Lo
storico inglese rifiuta le dicerie e le leggende, «vuole trarre dalla storia
una legge positiva», scarta ogni «vegetazione parassita» che si accumula
durante la ricerca, per cogliere solo « l’utile e solido legno». Tuttavia «i
fatti colti da questa veemente immaginazione vi si fondono come in una
fiammata» e «le idee, trasformate in allucinazioni, perdono la loro soli­
dità». Infine, «in lui si muove e ribolle un caos instabile di splendide vi­
sioni, di prospettive infinite». Carlyle passa la sua vita, scrive Taine, a
esprimere venerazione e timore, «e tutti i suoi libri sono predicazioni»169.
Questo autore è «profondamente germanico, più vicino alla stirpe
primitiva di nessun altro dei suoi contemporanei», è quasi tedesco «per
la sua forza di immaginazione, per la sua perspicacia di storico antiqua­
rio, per le sue larghe vedute generali»170. Contrariamente a Macaulay, ri­
cercatore metodico e cauto che cammina su strade diritte e piane, Carly­
le appartiene allo spirito e al temperamento dei profeti, dei poeti, degli
inventori, dei secoli romantici e delle razze germaniche. Di fronte a uno
storico come Macaulay, il cui talento secondo Taine consiste, quando va
oltre la semplice analisi, nel sostenere tesi, Carlyle è il modello perfetto

167. Ibid., pp. 232-233.


168. Ibid., p. 218.
169. Ibid., pp. 233 e 236.
170. Ibid., pp. 218 e 233.

194
Le fondamenta di un ’altra modernità

di quegli spiriti che si lanciano «con un salto brusco nell’idea madre»,


colgono sempre il campo che vogliono percorrere interamente, pensano
per «brusche concentrazioni di idee veementi. Essi hanno la visione de­
gli effetti lontani [...] sono rivelatori o poeti». Michelet, scrive Taine, è
l’esempio migliore di questa forma di intelligenza, e Carlyle è un Miche­
let inglese171. Fino ad allora, lo abbiamo visto, non era questo il caso di
Montesquieu né di Tocqueville, cui pure si deve il concetto di «idea ma­
dre», e nemmeno di Voltaire.
Taine vuole essere contemporaneamente Michelet, Macaulay e
Carlyle ma un debito speciale ce l’ha con quest’ultimo. Infatti Carlyle ha
sempre saputo che il genio è un’intuizione, un’illuminazione. Da Herder
fino a Berlin, tutti i pensatori antilluministi vedono nell’intuizione, più
che nella ragione, Io strumento per eccellenza per comprendere gli affa­
ri umani. E Taine cita un passo caratteristico del Sartor Resartus, dove
Carlyle riassume il suo metodo e allo stesso tempo fornisce la chiave del­
la sua opera storica. Questa chiave in realtà vale anche per tutta l’opera
di Taine: il buon metodo «non è mai quello della volgare logica scolasti­
ca, dove tutte le verità sono disposte in fila e ognuna si tiene attaccata al­
le vesti dell’altra, ma quello della ragion pratica, che procede per vaste
intuizioni che abbracciano gruppi e interi regni sistematici [...] è un di­
pinto spirituale della natura»172. Sicuramente egli sa che questo processo
visionario è rischioso, perché le affermazioni veementi e le divinazioni
sono spesso senza prove. Ma, tutto sommato, gli spiriti come quelli di
Carlyle sono i più fecondi. Gli storici classici, i «classificatori», non in­
ventano, «sono troppo aridi», mancano di immaginazione che è «l’orga­
no con il quale noi percepiamo il divino». In altri termini, per compren­
dere fenomeni e situazioni bisogna sentire interiormente le loro tenden­
ze e i loro effetti. Questo modo di procedere era istintivo in Shakespeare
e metodico in Goethe. Non ve ne sono altri così atti a rinnovare le no­
stre idee e a liberarci da barriere e pregiudizi173.
È la Germania che, dal 1780 al 1830, ha prodotto tutte le idee del
nostro periodo storico, scrive Taine, ed è da lei che Carlyle ha tratto le

171. Ibid., p. 238.


172. Ibid., p. 239.
173. Ibid, pp. 240-242.

195
Le fondamenta di un’altra modernità

sue idee più grandi. Per un mezzo secolo, forse per uno, il nostro com­
pito maggiore sarà di ripensarle. Nessun movimento intellettuale più ori­
ginale, più universale, più fecondo, più capace di trasformare e di rifare
tutto era mai apparso da tre secoli: per Taine il genio filosofico tedesco
che si era sviluppato alla fine del XVIII secolo ed era penetrato in tutte
le discipline era analogo a quelli del Rinascimento e dell’età classica:
«Come loro, rappresenta uno dei momenti della storia del mondo», co­
me loro appare in tutti i paesi civili, in tutte le grandi opere dell’intelli-
genza contemporanea. Questa forma di spirito originale che in Germa­
nia ha prodotto una filosofia, una letteratura, una scienza, un’arte, con­
siste «nella potenza di scoprire le idee generali». Questa, afferma Taine,
è la facoltà dominante dei tedeschi: è il dono di comprendere, che con­
siste, trovando dei concetti d’insieme, nel riunire sotto un’idea principa­
le tutte le parti sparse di un soggetto174. In tal modo, sotto le divisioni di
un gruppo, si scorge il legame comune che le unisce, si conciliano le op­
posizioni, si riconducono i contrasti apparenti a un’unità profonda. Si
tratta, conclude Taine, della facoltà filosofica per eccellenza. Attraverso
di esse i tedeschi «hanno scorto lo spirito dei secoli, delle civiltà e delle
razze, e hanno trasformato in un sistema di leggi la storia, che era solo
un mondo di fatti»175.
Anche il concetto di civiltà di Carlyle è tedesco: «Ogni civiltà ha la
sua idea, cioè il suo tratto principale, dal quale derivano tutte le altre; in
questo modo la filosofia, la religione, le arti e i costumi, tutte le parti del
pensiero e dell’azione possono essere dedotte da qualche qualità origi­
nale e fondamentale dalla quale tutto parte e alla quale tutto arriva. Là
dove Hegel poneva un’idea, Carlyle pone un sentimento eroico. Questo
è più palpabile e più morale»176.
Tutte queste idee elaborate in Germania da cinquant’anni si riduco­
no, afferma Taine in un testo importante, a una sola, «quella dello svilup­
po \Entwicklung], che consiste nel rappresentare tutte le parti di un grup­
po come solidali e complementari, in modo che ognuna di esse necessiti
del resto». Questa idea fondamentale, «spogliata delle parvenze, [...] non

174. ìbid., pp. 244-245.


175. Ibid., p. 246.
176. lb id .,V.219.

196
Le fondamenta di un’altra modernità

dimostra altro che la mutua dipendenza che unisce i termini di una serie
e li ricollega a qualche proprietà astratta situata al loro interno. Se la si ap­
plica alla Natura, si giunge a considerare il mondo come una scala di for­
me e come una sequenza di stati che hanno in se stessi la ragione della lo­
ro successione e del loro essere, [...] che con il loro insieme compongo­
no un tutto indivisibile che, [...] bastando a se stesso, per la sua armonia
e la sua magnificenza assomiglia a un qualche Dio onnipotente e immor­
tale». Quando questa idea viene applicata all’uomo, «si giunge a consi­
derare i sentimenti e i pensieri come prodotti naturali e necessari, con­
nessi tra loro come le trasformazioni di un animale o di una pianta; que­
sto porta a pensare le religioni, le filosofie, le letterature, tutte le conce­
zioni e le emozioni umane come le sequenze obbligate di una condizione
di spirito che le porta via se se ne va, che le riporta se ritorna e che, se
possiamo riprodurle, ci fornisce come conseguenza il modo di riprodur­
le a volontà». Ecco come Taine vede le dottrine che circolano negli scrit­
ti dei «due maggiori pensatori del secolo, Hegel e Goethe»17'.
Qui si trova indiscutibilmente l’idea che poi Max Weber svilupperà
in idealtipo. Prima di lui, Mosca aveva trovato in Taine l’idea per la qua­
le la Storia non era la storia delle lotte di classe ma quella dell’ascesa e ca­
duta delle élite. Taine aveva visto nel loro abbattimento una delle grandi
ragioni della Rivoluzione francese, Mosca ne fece una legge generale. La
ricerca di leggi generali era in effetti la grande lezione insegnata dallo
«spirito filosofico» tedesco. E per questo, per «passione per le vedute
d’insieme» che gli sarà propria per tutta la vita, che lo storico e critico cul­
turale Taine appare davvero come uno dei grandi fondatori misconosciu­
ti delle scienze sociali. Tuttavia egli è anche consapevole dei limiti di un
simile percorso: il continuo ricorso alle ipotesi e alle astrazioni conduce a
inventare spiegazioni arbitrarie o a perdersi in spiegazioni vaghe, due vi­
zi che hanno corrotto il pensiero tedesco. I sistemi effimeri, le teorie vuo­
te hanno proliferato: il correttivo è giunto da parte francese.
Infatti «ogni nazione ha il suo genio originale col quale essa plasma
le idee che prende altrove». Per questo ogni spirito rimodella queste idee
«secondo la struttura del proprio focolare»17178. Se Taine si rifà a Herder,

177. Taine, Histoire de la littérature anglaise, 11' ed., t. V, p. 274.


178. Taine, Histoire de la littérature anglaise, 17' ed., t. V, p. 251.

197
Le fondamenta di un 'altra modernità

è più generoso e più aperto del pastore luterano perché l’assimilazione


dell’apporto straniero è per lui un processo naturale e positivo. Nei se­
coli XVI e XVII la Spagna ha rinnovato la pittura italiana con altro spi­
rito, i puritani e i giansenisti hanno ripensato il protestantesimo primiti­
vo, il XVIII secolo francese ha allargato le idee liberali inglesi in religio­
ne e politica. Nel X IX secolo avviene la stessa cosa: i francesi non pos­
sono raggiungere al primo colpo, come i tedeschi, le «alte concezioni
d’insieme. Sanno avanzare solo passo dopo passo, partendo da idee sen­
sibili, elevandosi insensibilmente alle idee astratte». Ma il risultato è lo
stesso, se non migliore: in Francia non si sa solo comprendere Hegel e
Goethe ma anche correggerli. Così si vede Renan, quello «spirito supe­
riore, il più delicato, il più colto che si sia mai mostrato ai giorni nostri,
[...] esporre in stile francese» la produzione scientifica tedesca imma­
gazzinata «oltre Reno da sessantanni»179. In questo modo Taine ci dice
di sfuggita che, dagli ultimi anni del XVIII secolo, è proprio la Germa­
nia a dominare la scena culturale europea. Al pari di Renan, la superio­
rità della cultura scientifica, storica e filosofica della Germania non vie­
ne messa in discussione.
Nella lettura che Taine fa di Carlyle egli cerca se stesso. Per questo
il suo sguardo è contemporaneamente critico e ammirato. Il pensiero di
quel puritano moderno «non è una metafisica, o qualche altra scienza
astratta, che ha origine solo nella sua testa ma una filosofia della vita, che
ha origine anche nel cuore e che parla al cuore».180 Carlyle ha racconta­
to, nota Taine, tutta la serie di emozioni, i dubbi, le disperazioni, le lot­
te interiori, le esaltazioni e le lacerazioni tramite le quali i vecchi purita­
ni giungono alla fede: questa è anche la sua via. Tutte le cose visibili so­
no degli emblemi; per parlare propriamente, ciò che si vede non esiste.
La materia esiste solo spiritualmente: il linguaggio, la poesia, le arti, la
Chiesa, lo Stato non sono altro che simboli, l’universo è solo un grande
simbolo, l’uomo è solo il simbolo di Dio. La scienza senza venerazione è
sterile, può essere velenosa. L’uomo più saggio che non sa adorare «è so­
lo un paio di occhiali dietro i quali non ci sono occhi»181. L’universo, fino

179. ¡hid., pp. 251-252.


180. Ibid., p. 255.
181. Ibid., p. 259.

198
Le fondamenta di un’altra modernità

nella sua zona più piccola, dice Carlyle, è «alla lettera, la città stellata di
Dio. [...] Attraverso ogni anima vivente risplende la gloria di un Dio
presente»182.
Questa «veemente poesia religiosa» per Taine è solo una «trascrizio­
ne inglese delle idee tedesche». Del resto Carlyle prende la religione «al­
la tedesca, in un modo simbolico». Il suo «cristianesimo è molto libero»,
«panteista», cosa che, aggiunge l’autore, «in buon francese moderno si­
gnifica folle o scellerato»; infatti Carlyle considera il cristianesimo «co­
me un mito».183 Questo è un importante elemento esplicativo, dato che
la religione ricopre un’altissima funzione sociale. Per lui tutte le religio­
ni contengono una forma di verità, tutte interpretano a modo loro il sen­
timento del divino, tutte sono dei simboli. L’unica detestabile è quella
che consiste solo in cerimonie apprese, in meccanica ripetizione di pre­
ghiere. Quale che sia il culto, è il sentimento che gli comunica tutta la
sua virtù e si tratta del sentimento morale. Tutte le religioni ci dicono la
stessa cosa: la differenza tra un uomo cattivo e un uomo buono è infini­
ta. Il cristianesimo, nella mente di Carlyle, è solo una delle forme della
religione universale. Egli «vuole ridurre il cuore dell’uomo al sentimen­
to inglese del dovere»184.
In letteratura, osserva Taine, ponendo Hegel e Goethe sotto la disci­
plina del sentimento puritano, Carlyle rinnova la critica. Egli considera lo
scrittore, il poeta, l’artista come un eroe, cioè «come un interprete dell’i­
dea divina che è alla base di ogni apparenza, come un rivelatore della sto­
ria», come un rappresentante del proprio secolo, della propria nazione,
della propria età. Queste «formule germaniche significano che l’artista di­
stingue ed esprime meglio di chiunque altro i tratti salienti e durevoli del
mondo che lo circonda, in modo tale che dalla sua opera si può trarre una
teoria dell’uomo e della natura, così come un ritratto della sua razza e del
suo tempo»18’. L’autore degli Eroi così non rinnova soltanto la critica, ma
crea anche «un nuovo modo di scrivere la storia»186. Infatti il pilastro del­
la visione storica di Carlyle è la sua concezione dell’eroe, che «contiene e

182. Ibid., p. 261.


183. Ibtd., pp. 262 e 266.
184. Ibid., p. 270.
185. Ibid., p. 271.
186. Ibid., p. 282.

199
Le fondamenta di un ’altra modernità

rappresenta la civiltà in cui è compreso; esso ha scoperto, proclamato o


praticato una concezione originale e il suo secolo lo ha seguito». La co­
noscenza di un sentimento eroico dà anche la conoscenza di un’età inte­
ra. In questo modo «Carlyle è uscito dalle biografie. Ha ritrovato le gran­
di vedute dei suoi maestri. Ha sentito come loro che una civiltà, anche se
vasta e dispersa nel tempo e nello spazio, forma un tutto indivisibile. Ha
radunato sotto la bandiera dell’eroismo i frammenti sparsi che Hegel riu­
niva tramite una legge. Ha compreso i lontani e profondi legami delle co­
se, quelli che uniscono un grande uomo al suo tempo»187.
Quindi, «poiché il sentimento eroico è causa del resto, è a lui che lo
storico deve volgersi. Poiché esso è la fonte della civiltà, il motore delle
rivoluzioni, il padrone e il rigeneratore della vita umana, è in lui che bi­
sogna osservare la civiltà, le rivoluzioni e la vita umana»188. Esponendo
così il pensiero di Carlyle, Taine mette in luce i primi abbozzi del suo
metodo di storico, che consisterà nel ricostruire l’anima di un’epoca.
Infatti che cos’è una rivoluzione se non «la nascita di un grande sen­
timento»? E quel sentimento in che cosa consiste? Quali sono le sue ori­
gini, i suoi effetti? Bisogna domandarsi «come trasforma l’immaginazio­
ne, l’intelletto, le inclinazioni consuete, quali passioni lo alimentano,
quale proporzione di follia e ragione comprende... Spiegare una rivolu­
zione è fare un frammento di psicologia; l’analisi dei critici e l’intuizione
degli artisti sono i soli strumenti che possano realizzarlo».189 Solo i gran­
di conoscitori deU’anima, uno Shakespeare, un Balzac, uno Stendhal, ne
sono capaci. Carlyle è uno di loro: il suo capolavoro è Cromwell. Egli ha
voluto far comprendere un’anima, quella del puritano più grande, il lo­
ro eroe; il suo racconto somiglia a quello di un testimone oculare. E la
sincerità risulta pari alla simpatia, perché il miglior storico del puritane­
simo non può che essere un puritano. Taine preferisce mille volte il
Cromwell di Carlyle, fatto di testi commentati, a tutte le belle narrazioni
insipide di Robertson e di Hume. Carlyle mostra un fatto e non il rac­
conto di un fatto, e permette di toccare la verità stessa190.

187. Ib id .,p . 280.


188. Ibid., p. 282.
189. Ibid., p. 283.
190. Ibid., pp. 284-288.

200
Le fondamenta di un’altra modernità

Se in Inghilterra Carlyle figura come un prodotto dello Sturm und


Drang e della sua immediata posterità, è Renan che ha lo stesso ruolo
in Francia. Come Carlyle, Renan lancia contro rilluminismo, sulle or­
me di Herder, un attacco non meno virulento di quello dell’autore di
Ancora una filosofia della storia. Come per Carlyle, la Germania della
fine del XVIII secolo e dell’inizio del secolo successivo è il paese al
quale, come scrive l’erudito francese nel settembre 1870 nella sua pri­
ma lettera a Strauss, «sono debitore di ciò cui tengo di più, la mia fi­
losofia e dirò quasi la mia religione. Mi trovavo nel seminario Saint-
Sulpice verso il 1843, quando cominciai a conoscere la Germania at­
traverso Goethe ed Herder. Credetti di entrare in un tempio».191 P o­
trebbe essere che, come crede Henri Tronchon, Renan trent’anni do­
po anticipi un po’ il suo sapere di germanista, ma certo nel 1843, quan­
do annota nei suoi Cahiers de jeunesse alcune idee sulla poesia primi­
tiva, aggiunge: «Queste idee sono meravigliosamente in accordo con
quelle di Herder».192 In effetti per Renan Herder è «il “pensatore re”»,
preferito a Kant, Hegel e Fichte19’. La sete di protestantesimo viene a
Renan dai filosofi tedeschi: egli vorrebbe essere cristiano come loro,
«ma posso esserlo nel cattolicesimo?» E altrove esclama: «Ah, se fossi
nato protestante in Germania! Quello era il mio posto; Herder è pur
stato vescovo»194.
Per Renan il protestantesimo non è soltanto una religione che ga­
rantisce la libertà individuale; con la filosofia, è una temibile arma, il ve­
ro segreto della potenza tedesca: non è il maestro elementare ad avere
vinto a Sadowa, ma Lutero, Kant, Fichte, Hegel195. Una credenza ha peso

191. Ernest Renan, «Lettera a David F. Strauss, 16 settembre 1870», in C he co s’è


una n azion e? e a ltri saggi, trad, di Gregorio De Paola, Donzelli, Roma 2004,
p. 50.
192. H. Tronchon, Ernest Renan et l ’étranger, Les Belles Lettres, Paris 1928, p. 205.
Sul ruolo di Herder nel pensiero di Renan si veda l’intero cap. VI, pp. 205-259.
Si veda anche un’altra opera di Henri Tronchon, L a fo rtu n e intellectuelle de
H erder en France - L a Préparation, F. Rieder, Paris 1920.
193. Ibid., pp. 205 e 217.
194. Citato in Édouard Richard, Ernest Renan pen seur traditionaliste?, Presses uni­
versitaires d’Aix-Marseille, Aix-en-Provence 1996, p. 57.
195. Renan, Q uestions contem poraines, Calmann-Lévy, 7* ed., Paris s.d. [1929], Pré­
face, p. VIL

201
Le fondamenta di un ’altra modernità

solo quando è acquisita con la riflessione e un atto religioso è «meritorio


solo quando è spontaneo». E nello spirito di Renan proprio «il prote­
stantesimo è il più vicino a questo ideale»1961978.Come Carlyle, quel purita­
no moderno e germanizzato, come Herder e Burke, Renan pensa «che
l’uomo è tanto più nel vero quanto più è religioso e certo di un destino
infinito». 1‘1' Questa linea di attacco contro rilluminismo francese verrà
ripresa da Croce.
Come per Burke ed Herder, come per Croce e Taine, anche per Re­
nan «il più alto grado della cultura intellettuale è [...] comprendere l’u­
manità»1'"'. La chiave di questa comprensione è la storia. In tal modo tut­
ta la filosofia viene sottomessa alla prospettiva storica199. La storia non è
la storia politica nel senso corrente del termine, ma «lo spirito umano, la
sua evoluzione, le sue fasi avvenute». Ecco perché bisogna saperla guar­
dare in una certa prospettiva: «Non si manca mai impunemente di spiri­
to filosofico», afferma200. Tuttavia, nonostante la sua infatuazione per la
filosofia tedesca, per Kant ed Hegel, nonostante la sua conoscenza di
Leibniz, Renan non è un filosofo nel senso tradizionale del termine. Non
è metafisico, pratica quella che definisce «una filosofia critica»20'. Come
Carlyle, Taine, Croce, Meinecke e come Berlin alla maniera del suo mae­
stro Herder, per questo storico, critico della cultura e della società, si
tratta, lo dice nel suo importante saggio Philosophie de l’histoire contem-
poraine che richiama Ancora una filosofia della storia, di capire «quei
grandi movimenti di cui è piena la storia di tutti i tempi, ma che da set­
tantanni hanno preso un nome e una forma particolari, il nome e la for­
ma di rivoluzioni». Per essere ancora più chiaro precisa: «La storia poli­
tica non è la storia dei partiti, così come la storia dello spirito umano non
è la storia delle consorterie letterarie»202. Ma «la storia dello spirito

196. Renan, Lavenir réligieux des sociétés modernes, in Questions contemporaines, p.


406.
197. Ibid, p. 416.
198. Renan, U Avenir de la science, p. 934 (corsivo nel testo).
199. J.L . Dumas, «La “philosophie de l’histoire” de Renan», Revue de métaphysique
et de morale, vol. 77, 1, 1972, p. 105.
200. Ibid, p. 104.
201. Renan, L'Avenir de la science, p. 934 (corsivo nel testo).
202. Renan, Philosophie de l’histoire contemporaine, in Questions contemporaines, p. 8.

202
Le fondamenta di un’altra modernità

umano è la più grande realtà aperta alle nostre investigazioni», per cui
«qualsiasi ricerca per illuminare un angolo di passato assume un signifi­
cato e un valore»20’.
Così «ogni nostro giorno è ciò che è per il modo in cui capisce la
storia» e «la storia è la vera filosofia del X IX secolo. Il nostro secolo
non è metafisico. [...] Il suo grande pensiero è la storia e soprattutto
la storia dello spirito umano». La storia comanda le scelte, modella le
identità culturali o intellettuali: «Si è filosofi, si è credenti secondo il
modo in cui si considera la storia; si crede all’umanità o non ci si cre­
de secondo il sistema della storia che abbiamo costruito»2“ . Per co­
gliere l’essere bisogna fare appello alla storia: vi è «una scienza dello
spirito umano che non è soltanto l’analisi degli ingranaggi dell’anima
individuale, ma che è la storia stessa dello spirito umano. La storia è la
forma necessaria della scienza di tutto ciò che è in divenire»20'. Infine,
giunge un passo di grande importanza: «L a scienza dell’uomo sarà
messa davvero in luce solo quando si sarà ben persuasi che la coscien­
za si crea, che, dapprima debole, vaga, non accentrata, nell’individuo
come nell’umanità, arriva alla sua pienezza attraverso diverse fasi. Si
comprenderà allora che la scienza dell’anima individuale è la storia
dell’anima individuale e che la scienza dello spirito umano è la storia
dello spirito umano». Ecco perché «il grande progresso della riflessio­
ne moderna è stato di sostituire la categoria del divenire alla categoria
delVessere, la concezione del relativo alla concezione dell’assoluto, il
movimento aH’immobilità»20324506.
Renan sa bene che lo storico professa inevitabilmente una filoso­
fia dell’uomo e della vita207. In questa presa di coscienza consiste
« l’immenso sviluppo storico della fine del XVIII secolo e del X IX »:
c’è «una vita dell’umanità come vi è una vita dell’individuo. [...] Ciò
che conferisce a Hegel l’immortalità è di avere espresso per primo con
una perfetta chiarezza questa forza vitale [...] che né Vico né Monte-

203. Citato in Dumas, «L a “philosophie de l’histoire” de Renan», Revue de mé­


taphysique et de morale, voi. 7 7 ,1, 1972, p. 105.
204. Renan, l i Avenir de la science, pp. 944-945.
205. Ihid., p. 867 (corsivo nel testo).
206. Ihid., pp. 873-874 (corsivo nel testo).
207. Dumas, «L a “philosophie de l’histoire” de Renan», p. 107.

203
Le fondamenta di un’altra modernità

squieu avevano scorto, che lo stesso Herder aveva solo vagamente con­
cepito. E per questo che si è garantito il titolo di definitivo fondatore
della filosofia della storia»208. La storia non sarà mai più «una vana serie
di fatti isolati ma una tendenza spontanea verso uno scopo ideale»,209
non potrà più essere un concatenamento di fatti e di cause, come per
Montesquieu, un movimento senza vita e quasi senza ragione, come per
Vico: «Sarà la storia di un essere, che si sviluppa per sua intima forza»210.
Nei fatti, Renan si volge più a Herder che a Hegel e i suoi riferi­
menti vitalisti e organici costituiscono un’evidente eredità herderiana:
«Non si presta attenzione al fatto che ogni nazione, con i suoi templi, i
suoi dei, la sua poesia, le sue tradizioni eroiche, le sue credenze fanta­
stiche, le sue leggi e le sue istituzioni, rappresenta un’unità, un modo di
affrontare la vita, una tono nell’umanità, una facoltà della grande ani­
ma».211 La visione della storia come la storia di un essere, la visione di
ogni comunità culturale come un insieme unico, è proprio ciò che Re­
nan ha tratto da Herder ma, prima di lui, è anche quello che Michelet
era andato a cercare in Herder. Ecco, secondo Renan, ciò mancava a
Montesquieu e a Voltaire ed è proprio per questo che non li cita nem­
meno. Il razionalismo deH’Illuminismo francese non permetteva loro
questa visione del corpo sociale come un organismo vivente. È questo il
contributo della Germania della svolta dell’Ottocento ed è da lì che Re­
nan attinge la sua concezione della storia in quanto psicologia dell’u­
manità: «C ’è una psicologia dell'umanità come c’è una psicologia del­
l’individuo»212213. In questo modo Renan si inserisce nella linea retta her­
deriana dello storicismo tedesco classico; la storia, per lui, possiede sia
una certa logica che una parte di casualità. Ancora una volta Renan uti­
lizza una diretta citazione di Herder: «La linea dell’umanità, dice Her­
der, non è né diritta né uniforme, si smarrisce in tutte le direzioni, pre­
senta tutte le curve e tutti gli angoli»211. Essa non è «né una inflessibile
geometria né una semplice successione di episodi fortuiti. [...] La verità

208. Renan, LAvenir de la Science, p. 865.


209. ìbid., p. 865.
210. Ibid., pp. 865-866.
211. Ibid., p. 868.
212. Ibid., p. 867 (corsivo nel testo).
213. Ibid., p. 944.

204
Le fondamenta di un’altra modernità

è che le cose umane, sebbene eludano spesso le congetture degli spiriti


più sagaci, si prestano tuttavia al calcolo. I fatti accaduti contengono, se
si sa distinguere l’essenziale dall’accessorio, le linee generali dell’awe-
nire»214. Renan si interessa in particolare ai presupposti inconsci della
storia, poiché la storia umana emerge proprio dalla storia naturale. Nel­
la sua «Lettre à M. Marcellin Berthelot» del 1863, un classico testo her-
deriano, spiega come il campo della storia inglobi per lui sia l’uomo che
il mondo fisico. La storia che concepisce è una storia globale, una sto­
ria dell’universo, e Dio non è altro che il divenire universale. «L a storia
nel senso comune, cioè la serie di fatti dello sviluppo dell’umanità che
noi conosciamo, non è che un’impercettibile porzione della vera storia,
intesa come il quadro di ciò che noi possiamo conoscere dello sviluppo
dell’universo.»215
Al seguito di Herder, e non di Hegel come si è spesso ripetuto, Re­
nan si volge alle origini, all’età dell’infanzia e della mitologia. «L’uo­
mo spontaneo vede la natura e la storia con gli occhi dell’infanzia.
[...] Il bambino si ricrea a sua volta i miti che l’umanità si è creata: ac­
cetta ogni favola che colpisce la sua immaginazione.»216 La filologia e
la mitologia comparate «ci fanno in questo modo risalire ben oltre i
testi storici e quasi alle origini della coscienza umana»217. Renan mo­
stra come «i miti primitivi della razza indoeuropea» vivano ancora nei
contadini di Svevia, stupisce di fronte alla ricchezza racchiusa nei
«vecchi canti popolari o sacri»218. La sua immaginazione si proietta
verso la Cina e l’Egitto, gli arabi e gli ebrei, i celti, i germani e gli sla­
vi, verso l’antropologia, la paleontologia e la zoologia comparata219. Da
un lato vi è in lui la convinzione che «nessun capriccio, nessuna

214. Citato in Dumas, «L a “philosophie de l’histoire” de Renan», p. 110.


215. Renan, «Les sciences de la nature et les sciences historiques», Fragm ents ph i­
losophiques , in Œ uvres complètes de Ern est R en an , édition définitive, établie
par Henriette Psichari, Calmann-Lévy, Paris [1956], vol. I, p. 633. Si veda an­
che Dumas, « “La philosophie de l’histoire” de Renan», p. 125.
216. Renan, L ’A ven ir de la science , pp. 937-938.
217. Renan, «Les sciences de la nature et les sciences historiques», Fragm ents phi­
losophiques , in Œ uvres complètes de Ernest R en an , édition définitive, établie
par Henriette Psichari, Calmann-Lévy, Paris [1956], vol. I, p. 636.
218. Ibid., p. 635.
219. Ibid., pp. 635-637.

205
Le fondamenta di un ’altra modernità

volontà particolare intervengano nel tessuto dei fatti dell’universo»,


ma dall’altro è altrettanto forte la sua convinzione «che il mondo ab­
bia uno scopo e lavori a un’opera misteriosa».220In altri termini: la sto­
ria ha un senso.
Negli stessi termini di Herder, che per lui resterà sempre «uno dei
geni più belli dei tempi moderni»,221 e come Vico, è nel Medioevo che
Renan vede l’epoca ideale, che non cessa di opporre al Seicento e al Set­
tecento: «11 Medioevo ha fatto rivivere i tempi omerici e l’età infantile
deH’umanità»222. Herder non si esprimeva diversamente. L’Ottocento ha
scoperto «la teoria del primitivo dello spirito umano» e ha spazzato via
«la vecchia scuola cartesiana» che «coglieva l’uomo in un modo astratto,
generale, uniforme».223 Poiché non è «tagliando l’uomo in due parti, il
corpo, l'anima, senza legame né passaggio tra le due», non è «nel mondo
astratto della ragione pura che si diventa simpatetici alla vita: la nostra
scienza dell’uomo è lo studio di tutti i prodotti della sua attività, soprat­
tutto della sua attività spontanea». In un brano che sembra uscire dalla
penna di Herder, prosegue: «Io preferisco alle più belle disquisizioni
cartesiane la teoria della poesia primitiva e àc\Y epopea nazionale [...]
per come è stata definitivamente assunta dallo studio comparato delle
letterature»22'1.
Proprio con la lettura di Renan, che segue quella di Michelet, si co­
glie tutto il peso dell’influenza esercitata da Herder sul X IX secolo fran­
cese. E Herder, autore nel 1759 del Cantico dei cantici, a essere ancora
considerato il pensatore che avrebbe scoperto nella poesia l’espressione
spontanea dell’umanità originaria. È così benché egli già avesse letto in
Voltaire, nel capitolo 32 del Siècle de Louis XIV, che «tale però è il cam­
mino segnato allo spirito umano presso tutte le nazioni: i versi sono sem­
pre figli primogeniti del genio e i primi maestri dell’eloquenza».225 In­
contriamo la stessa idea in Vico, ma la sua diffusione si deve proprio a

220. Tratto da Dialogues et fragments, in Dumas, «L a “philosophie de l’histoire” de


Renan», p. 124.
221. Renan, L Avenir de la science, p. 837.
222. Ibid,
223. Ibid.
224. Ibid., p. 939 (corsivo nel testo).
225. Voltaire, Il secolo di Luigi XIV, p. 402.

206
Le fondamenta di un’altra modernità

Herder. Come lui, Renan preferisce le mitologie, i poemi e le favole alla


storia: «L a favola è libera, la storia non lo è». Secondo Renan, anche il
Libro dei re di Firdusi è una cattiva storia della Persia, ma quel bel poe­
ma rappresenta il genio della Persia meglio di quanto non lo possa fare
la storia più esatta, perché ci offre le sue leggende e le sue tradizioni epi­
che, cioè la sua anima. I libri sacri dell’India valgono più della storia,
perché ci danno «lo spirito della nazione».226

226. Renan, L 'Avenir de la Science, p. 940.

207
C A P IT O L O 3

La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

Alla svolta dell’Ottocento si forma un largo consenso, fondato sulla cri­


tica del razionalismo avanzata da Herder e da burke, che impregna sia il
pensiero tedesco che quello francese. La peculiarità di questa critica è
che essa contesta la capacità della ragione di cogliere lo specifico di un’e­
poca, di una situazione, di un popolo. 1 lerder lo afferma sin dall’inizio
del suo percorso, quando deride la «fredda filosofia» del suo tempo, in­
capace di penetrare la grandezza, la saggezza, la virtù dello spirito uma­
no dell’epoca dei patriarchi, culla dell’umanità1. La guerra dichiarata da
Herder alla pretesa della ragione di capire la storia, di cogliere tutta la
complessità del pensiero umano, costituisce, come abbiamo visto, il filo
conduttore di Ancora una filosofia della storia. L’ecclesiastico tedesco si
pone di fatto a sua volta la domanda se sia possibile una filosofia della
storia: lo spirito si trasforma attraverso la storia definendo la specificità
delle nazioni e delle epoche e ciò fa sì che il suo moto non si lasci ridur­
re a un unico principio intelligibile. Questa varietà contraddice l’idea
stessa di una filosofia della storia, che presuppone una sia pure nascosta
unità dello spirito che unisca la diversità delle espressioni. Herder aveva
ben colto il paradosso di una filosofia della storia che cerchi il principio
di intelligibilità nella sua stessa possibilità'. La soluzione che propone
non sorprende: la provvidenza conduce l’uomo cieco verso il destino
della specie. Le ultime pagine di Ancora una filosofia della storia sono de­
dicate a questa idea: «che dovrei dire io allora del grande libro di Dio
che comprende mondi ed età, del quale io non sono che una lettera, e ne
scorgo appena tre lettere intorno a m e...»’123

1. Herder, A n cor a una filo so fia délia storia, pp. 10-11 (S. 483-484).
2. Jeffrey Andrew Barash, «Herder et la politique de rhistoricisme», in Pierre Pé-
nisson (a cura di), H erder et la philosophie de l ’histoire, pp. 208-210.
3. Herder, A ncora una filo sofia délia storia , p. 124 (S. 385).

208
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

Ecco perché Hegel si rifiuta di prendere Herder come modello. An­


che Hegel vuole fare posto all’originalità, al carattere individuale di ogni
periodo storico, vuole come Herder essere fedele ai fatti e prendere la
storia così com’è, ma non intende consentire che l’intuizione o la «sim­
patia» sostituiscano la ragione. Questo perché quando Herder fa appello
ai «fatti» contro le «parole» - Hegel lo ha capito al pari di Kant - non
insorge soltanto contro la filosofia illuminista ma contro la filosofia in
genèrale, contro lo stesso pensiero razionale. 1legel critica Herder mol­
to duramente proprio perché non crede possibile affrontare i fatti senza
ricorrere alle categorie, delle quali bisogna giustificare l’uso con una ri­
flessione che non può essere che filosofica: «La ragione non può dormi­
re, e la riflessione occorre. Chi considera secondo ragione il mondo, è
considerato da esso secondo ragione: le due considerazioni si determi­
nano a vicenda»"1.
Come un Hegel poteva accettare questa metafora - che cosa vede lo
storico appoggiando il viso al vetro della finestra? - che finisce per af­
fermare che «ogni concetto generale non è che astrazione»? () l’idea che
«solo il Creatore è colui che pensa l’unità totale di una, di tutte le nazio­
ni in tutta la loro molteplicità, senza perciò lasciarsi sfuggire l'unità stes­
sa»?456Invece tutto il sistema di Herder, come quello Hi Burke, è basato
sull’impotenza della ragione, quella stessa ragione che, per Voltaire, in­
terpreta la storia secondo i criteri di progresso dello spirito umano. Il di­
scredito della ragione è totale: per comprendere un’epoca, una nazione,
una civiltà, bisogna provare simpatia per quella nazione, Io abbiamo già
visto, e la simpatia fa appello all’intuizione, al sentimento, è il contrario
dell’analisi e dell’astrazione. Lo stesso avviene in tutte le sfere dell’atti­
vità intellettuale: le emozioni, l’inconscio, i sentimenti, l’intuizione e per­
sino lalede sostituiscono l’intelletto. Infine, è il cuore a seguire Dio, non
la ragióne2. Allo stesso modo non è possibile sottoporre ad analisi le

4. Myriam Bienenstock, «L e sens historique: un sens de la torce? Herder, Hegel et


leurs interprètes», in Pénisson (a cura di), H erder et la philosopie de l'histoire, p.
182, citazione di Hegel, L ezion i sulla filosofia della storia , trad. di Guido Caloge­
ro e Corrado Fatta, vol I, La razionalità della storia , La Nuova Italia, Firenze 1941,
p. 11.
5. Herder, A ncora una filo sofia della storia , pp. 33-34 (S. 505).
6. A. Gillies, H erder , Blackwell, Oxford 1945, pp. 36 e 58.

209
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

componenti di quell’insieme organico che costituisce la nazione, bisogna


cogliere l’anima della nazione. Ecco dunque l’alternativa proposta da
Herder al metodo di Voltaire: «la natura totale dell’animo che in ogni co­
sa riappare signora,-che modella su di sé tutte le altre forze e tendenze
spirituali, e colora tutte le azioni, anche le più indifferenti: se vuoi risen­
tire tutto ciò in te stesso, non ti fermare alla parola, spingiti in quell’e­
poca, in quello spazio di terra e di cielo, nella storia tutta, sentiti rivive­
re in ogni cosa laggiù»78.
Il seguito viene da sé: «L’originalissimo tono di moda dei recentissi­
mi filosofi, soprattutto francesi, non è perciò se non il dubbio. Dubbio
in cento forme». Ecco il male assoluto: «che poi si finisca in un naufra­
gio totale o che si riesca invece a salvare qualcosa dalla rovina della filo­
sofia e della morale, poco importa davvero»". Lo «scetticismo rispetto a
ogni virtù» viene in questo modo introdotto nella storia, nella religione,
nella morale: tra i distruttori, ha cominciato Montaigne; dopo di lui ven­
ne Bayle, che estese la sua influenza su tutto il secolo, e poi «Voltaire,
Hume, le idee stesse di Diderot... Siamo nel gran secolo del dubbio e
dell’agitarsi delle onde»9. In questo modo, opponendo l’istinto all’intel­
letto, Herder prende le difese della poesia popolare spontanea contro
l’arte consapevole, della vitalità contro la raffinatezza, della storia contro
il dubbio della ragione, dello Stato nazionale, etnico e quasi biologico se­
condo il senso del suo tempo10. In lui quasi ovunque l’incosciente e l’i­
stintivo prevalgono sulla riflessione e la cieca affermazione creatrice sul­
lo spirito critico.
E ovvio che per Herder il dubbio, lo scetticismo, la filosofia, le astra­
zioni, il pensiero illuminato uccidono le forze vitali presenti negli uomi­
ni. Con Burke è uno dei pionieri dell’idea, destinata a un grande avveni­
re alla svolta del X X secolo, per la quale la grande qualità umana è il pri­
mitivismo e non la ragione. I francesi dei Lumi presentano tutti i sinto­
mi del declino e trasmettono la loro malattia all’Europa intera. In questo
modo si crea una realtà in cui «la luce è moltiplicata e diffusa all’infinito

7. Herder, Ancora una filosofia della storia, pp. 31-32 (S. 503).
8. Ibid., p. 40 (S. 512).
9. Ibid., nota a fondo pagina (S. 512).
10. Herder, idee per la filosofia della storta dell’umanità, libro IX.

210
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

e la volontà e l’istinto di vivere di gran lunga affievoliti»". Sono e s a l i a l i


i principi di universalismo, di libertà, di pace tra i popoli e a l l o M e s s o
temporo piuttosto come risultato"cirquesto percorso, l’insieme dei rap
porti tra i membri delle comunità primarie si trova «infinitamente inde
bolito» in quello che di più fondamentale essi hanno: «i caldi affetti p e i
il padre, la madre, il fratello, il figlio, l’amico»112. Con ciò si vede sparire
«ogni voglia d’esistere, d’agire, di vivere la vita da uomini»1314. Cosi la ra
gione, il libero pensiero, le astrazioni, insomma la filosofia illuminista,
uccidono non solo la morale ma anche la vita sociale.
Ma che cos e la ragione secondo Herder? Per questo ecclesiastico,
che riprende la tradizione di san Paolo e dei riformatori, ci sono due ti­
pi di ragione. Una è oscurata dal peccato e non può credere in Dio, l’al­
tra, illuminata dalla grazia, crede invece in lui. Mentre gli Illuministi par­
tivano dalla ragione per attaccare la rivelazione, Herder vede nella ra­
gione la prova e l’inizio della rivelazione; per sua origine e sua funzione,
essa è in relazione con Dio, viene da lui e ritorna a lui. Essendo essen­
zialmente conoscenza di Dio tramite lo studio della Creazione, la ragio­
ne secondo Herder non è affatto lo spirito critico che giudica da un pun­
to di vista strettamente umano, ma al contrario è la pia intuizione che ri­
trova la presenza di Dio nell’intero universo. Seguendo Hamann, Her­
der oppone il vero senso della storia allo spirito critico: la ragione è su­
bordinata alla rivelazione e lo spirito storico, alimentato dalla fede che
ispirò la Bibbia, finisce per escludere lo spirito critico. La ragione non
deve criticare la rivelazione, essa è devozione intelligente e non scettici­
smo, sottomissione all’ordine dei fatti e non rivolta, poiché il reale, es­
sendo divino, almeno nella natura, è razionale. Per Herder la libertà si
raggiunge con la consapevolezza del fine dell’universo, con la conoscen­
za del mondo interiore ed esteriore” .
A questo punto conviene soffermarsi su una possibile filiazione di
Herder da Leibniz. Non è strano che Herder possa avere tratto un inse-

11. Herder, Ancora una filosofia délia storia, p. 70 (S. 538): «Licht unendlich erhöht
und ausgebreitet: wenn Neigung, Trieb zu Leben ungleich geschwächet ist!»
(ed. Pross, p. 642).
12. Ibid.
13. Ibid., p. 71.
14. Rouché, La Philosophie de l’histoire de Herder, pp. 241-242.

211
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

gnamento fecondo da colui che viene considerato il padre del razionali­


smo tedesco. Egli ha utilizzato Leibniz come Ferguson, Robertson,
Montesquieu o Voltaire. Aveva una straordinaria forza di assimilazione:
aveva letto tutto, ma dalle sue letture traeva solo quanto rispondeva ai
suoi bisogni. 11 suo obiettivo principale era di scalzare le basi del razio­
nalismo e deU’individualismo. Contrariamente a quanto pensa Alain Re-
naut, la sua opera non rappresenta «un’articolazione tra un universali­
smo trasformato e una certa considerazione delle identità culturali», che
sarebbe il prodotto dell’applicazione del pensiero di Leibniz15, anzi. In
effetti sul piano filosofico il modello monadologico permette di afferma­
re contemporaneamente l’indipendenza degli individui e la loro comu­
nicazione nell’armonia dell’universo ma, tradotta in termini storici, l’ap­
plicazione del modello leibniziano assume tutto un altro significato. In­
fatti, l’indipendenza delle comunità culturali, linguistiche, etniche e reli­
giose è una realtà quotidiana, proprio come l’animosità che spinge le co­
munità una contro l’altra. Proveniente da Riga, conoscendo bene le du­
re realtà dell’Europa centrale e orientale, 1lerdcr ridicolizza «i luoghi co­
muni sul miglioramento», le astrazioni razionaliste, e vi vede solo il pro­
dotto di una «cultura cartacea»16. Come tutti i nazionalisti che verranno
dopo di lui, ha sete di azione: «Azioni! [...] Non sarà forse sempre da
preferirsi l’amato della fanciulla che il poeta che la canta?»17Herder, che
sogna di essere un uomo di azione e nel quale sonnecchia un filosofo del­
l’azione, professa un desiderio di efficacia pratica e di azione sulle mas­
se. Pensa che l’umanità sia una chimera, mentre solo le comunità etniche
e religiose, culturali e storiche rappresentino la realtà.
Senza dubbio per Leibniz la nozione di monade permette di conce­
pire una totalità chiusa su se stessa, originale, ma suscettibile di essere
pensata su una base di universalità. Alain Renaut è convinto che, tra­
sportata al livello di quelle individualità storiche che sono le nazioni, la
concezione leibniziana della sostanza come individualità monadica sia
apparsa a Herder come una possibilità di concedere tutti i diritti all’idea

15. A. Renaut, «Universalisme et différentialisme: le moment herderien», in Alain


Renaut (a cura di), H istoire de la philosophie politique, t. Ili, Lum ières et rom an­
tisme, Calmann-Lévy, Paris 1999, pp. 247-248.
16. Herder, Ancora una filosofia della storia, p. 77 (S. 545). Si veda anche p. 73 (S. 541).
17. Ibid., p. 77 (S. 545).

212
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

di originalità nazionale, senza tuttavia rinunciare all’orizzonte cosmopo


lita di una comunicazione interculturale. Concepita come una monade,
ogni cultura possiede in se stessa i suoi principi di sviluppo: il modello
monadologico fornisce la base concettuale per una rappresentazione del
la comunità nazionale centrata sull’originalità e sull’indipendenza delle
culture. Per valutare ogni cultura converrà partire dai suoi principi ili svi
luppo, senza fare riferimento a ideali che non le sono propri, e allo stes
so tempo considerare dannose le influenze tendenti non a stimolare la
sua dinamica interna, ma a sottometterla a un modello straniero. Tutta­
via il modello monadologico, prosegue Renaut, contiene anche la pro­
spettiva di una comunicazione tra le monadi, dunque tra i popoli e le cul­
ture. Poiché Herder aveva appreso da Leibniz che l’individualità doveva
essere concepita in modo monadico, ogni cultura gli poteva apparire ne­
cessaria alla coesione del tutto, quindi dell’umanità, e alla perfezione che
si dispiega progressivamente nella storia. Herder aveva appreso da Leib­
niz anche il principio di continuità: questo principio porta a concepire,
all’interno di una stessa civiltà, la storia come una continua progressione
delle nazioni-epoche. In Ancora una filosofia della storia il progresso vie­
ne spesso paragonato al corso di un Hume o alla crescita di un albero: al­
trettante immagini che sottolineano allo stesso tempo lo svolgimento di
un disegno divino del divenire, l’eguale necessità di tutti i momenti e la
perfetta continuità che li lega gli uni agli altri1".
Molto più sofisticata dell’interpretazione di Berlin, anche la brillan­
te analisi di Renaut dà quanto meno prova di una eccessiva generosità
verso Herder. La sua grande debolezza è di non prendere in considera­
zione il modo parziale in cui l’ecclesiastico tedesco applica questi prin­
cipi non solo alla storia ma anche alla sua epoca. La sua affermazione
dell’individuale e dello specifico rimane salda, ma il suo lato universali­
sta è vulnerabile, se non dubbio. Il principio secondo il quale ogni po­
polo e ogni epoca devono essere giudicati dall’interno e non secondo i
criteri di un’altra epoca è applicato molto selettivamente. Senza dubbio
le relazioni tra le sostanze sono un fatto, ma esse sono ben lungi dall’es­
sere egualitarie: in Herder esiste una chiara gerarchia tra epoche e ci­
viltà. La peculiarità del pensiero herderiano è che, nel cuore dei Lumi, il18

18. A. Renaut, «Universalisme et différentialisme: le moment herderien», pp. 248-249.

213
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

suo universalismo non si basa sui principi che i philosophes considerava­


no la sola base solida esistente: il razionalismo, l’eguaglianza tra indivi­
dui autonomi, la concezione della nazione in termini giuridici e politici
come voleva YEncyclopédie. Certo, è più facile e più naturale basare i
rapporti tra gli uomini sulle differenze storiche, etniche e culturali che
sull’eguaglianza tra collettività concepite come aggregati di individui.
Nemico delle norme universali, Herder si accanisce sull’importanza
data dalla filosofia illuminista alle leggi. Per i pensatori del XVIII seco­
lo gli uomini creano la loro storia, e buone leggi e buone istituzioni crea­
no uomini virtuosi e buoni cittadini. Le buone leggi creano anche uomi­
ni liberi: l’opposizione all’assolutismo si alimenta della riflessione sulla
virtù repubblicana sviluppata nél'Esprit des lois. Mentre per Herder
«una filosofia universale dell’uomo, [...] un codice della ragione, dell’u­
manità» è inutile, infarcito di luoghi comuni sul Giusto e sul Bene19, per
gli Illuministi la riforma dei costumi comincia con la riforma delle leggi.
Invece Herder deride i progetti di riforma che si accumulano, compresi
quelli riguardanti l’educazione. A questo proposito fa un’osservazione
caratteristica: invece di costruire progetti, programmi e speculazioni, sa­
rebbe più utile «ristabilire e creare le buone consuetudini, magari i pre­
giudizi»20. Poiché ogni cultura è il prodotto di un ambiente definito, di
una storia, di una lingua, è proprio nello spirito e nelle tradizioni di una
nazione che bisogna cercare le norme di comportamento specifiche,
conformi al genio di ogni popolo. Per 1 lerder il ruolo delle tradizioni lo­
cali nella genesi dell’identità morale è di importanza capitale. Egli si adi­
ra contro una visione degli affari umani che è solo «la piccola vanità» in
rivolta contro «la grande, divina opera, l’educazione del genere umano
- tacita, robusta, nascosta, eterna»21.
Herder, per il quale gli uomini traducono il disegno divino, non può
non rivoltarsi contro l’idea che essi si costruiscano la loro storia. Allo
stesso modo Burke aborre l’idea che leggi e costumi secolari possano co­
stituire una fonte dei mali che la ragione deve spazzare via per garantire
la felicità degli uomini, per dare loro buone istituzioni e farne esseri vir-

19. Herder, Ancora una filosofia della storia, p. 74 (S. 542).


20. Ibid., p. 76 (S. 543).
21. Ibid., p. 77 (S. 545).

214
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

tuosi. Né Herder né Burke possono accordare importanza mol ale alla k


gislazione, perché questo percorso, proprio degli Illuministi, permeile di
creare una morale laica e implica la vittoria del razionalismo e elei le noi
me universali: «Per tutti i tempi e tutte le nazioni?» esclama 1 lerder, « l i
come preparare un alimento per le vene e i tendini di un popolo, se non
offrendogli quanto dia forza al suo cuore, freschezza alle sue midolla e
alle sue ossa?»22
Ecco dove sta la grande debolezza di quel «secolo illuminato»: «tut­
ta questa ragion ragionante diffusa in modo insieme tanto sconsiderato
e inutile... come se essa non infrollisse e non avesse effettivamente inde­
bolito le passioni, l’istinto e la forza stessa del vivere»23. Questo fatale
predominio dell’intelligenza genera una «spossatezza» dello spirito, for­
gia «greggi filosoficamente governate» che si sentono «di giorno in gior­
no più macchine24». Quel secolo pavido non è nemmeno più capace del­
le lacerazioni di un tempo, di guerre o di brigantaggio, non ha i difetti
dei tempi antichi perché non ne possiede le virtù. Se i banditi di strada
sono scomparsi non è perché polizia e giustizia funzionino, né perché i
costumi siano migliorati o gli uomini più felici, ma perché da una parte
il brigante del periodo dei Lumi manca di coraggio e di energia per eser­
citare il suo mestiere e dall’altra, «secondo i costumi del nostro secolo,
infatti, egli può esercitare in modo tanto più comodo, più onorevole e
glorioso, il brigantaggio nelle case, nelle camere, nei letti». Siccome noi
non abbiamo le virtù dell’antichità, «la greca libertà, il patriottismo ro­
mano, la religiosità dell’Oriente, l’onore cavalleresco, [...] purtroppo
neppure possiamo avere i loro relativi e proporzionati vizi»25.
Le qualità di cui si fa vanto il Settecento sono per Herder altrettan­
ti difetti e sintomi di decadenza: «In questo modo noi acceleriamo la no­
stra rovina con il nostro deismo, la nostra filosofia della religione, la no­
stra cultura della ragione troppo raffinata»26. «La filosofia del secolo no­
stro» non possiede altro che «alcune idee chiare»; ma - e qui si sente di

22. lbid., p. 74 (S. 541).


23. Ibid., p. 70 (ed. Pross, p. 641, S. 537).
24. lbid., p. 70 (S. 538).
25. lbid., p. 91 (S. 556).
26. Rouché, introduction a J.G . Herder, journal de mon voyage en l’an 1769, p. 36
(p. 411 dell’originale).

215
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

nuovo il pastore luterano - «propriamente parlando, le idee non danno


che idee»2'. L’impotenza della ragione viene così affermata ancora una
volta e con essa la spossatezza di questo secolo razionalista e del popolo
che lo incarna più di tutti. Dieci anni dopo egli dirà che «lo stato dure­
vole nel suo benessere è fondato essenzialmente soltanto sulla ragione e
sull’equità» della prosperità del genere umano, ma il rifiuto dell’IUumi-
nismo franco-anglo-kantiano resterà quanto mai vigoroso2728.
In questo modo Herder oppone al suo secolo, in cui «c ’è, purtrop­
po! tanta luce»,293012norme di comportamento, virtù e costumi che saranno
la base di quella nuova civiltà cercata da tutti i nemici deH’Illuminismo
sin da prima della Rivoluzione francese. In effetti, a proposito della gran­
dezza della civiltà medievale, egli osserva che «le inclinazioni e gli istin­
ti tengono allora avvinta ogni cosa, e non più pensieri infermicci». E che
«ardimento d’amore e civica energia» si sprigionano da quei secoli chia­
mati barbari!»’0 Senza dubbio Herder è consapevole delle sventure cau­
sate dalle «devastazioni barbariche, le guerre feudali e le faide, gli eser­
citi di monaci, i pellegrinaggi e le Crociate», ma a conti fatti, quando si
mettono sul piatto della bilancia difetti e qualità di quei «tempi barbari­
ci», senza i quali l’Europa educata, con tutta la sua saggezza, sarebbe so­
lo «un deserto», le qualità prevalgono di gran lunga’1. La conclusione
non sorprende: tra i due tipi di civiltà, la sua e quella medievale, Herder
non esita un istante: «Comunque, ridateci la vostra devozione e super­
stizione, l’oscurità e l’ignoranza, il disordine e la rozzezza di costumi, e
prendetevi la luce e l’incredulità, la snervata freddezza e la raffinatezza,
la filosofica rilassatezza e l’umana miseria nostra!»’2
Tuttavia è la controversia con Kant che dà tutta la misura dell’abisso
che separa il pensiero di Herder dall’Illuminismo franco-kantiano. Da An­
cora una filosofia della storia sino a Idee per la filosofia della storia dell’u­
manità egli non ha mutato le linee essenziali: «Siccome la felicità è uno sta­
to interiore, la misura e la determinazione di essa sta dentro, non fuori del

27. Herder, Ancora una filosofia della storia, p. 72 (ed. Pross, p. 643, S. 539).
28. Herder, Idee per la filosofia della storia dell’umanità, libro XV, cap. Ili, p. 302.
29. Herder, Ancora una filosofia della storia, p. 56 (S. 524).
30. Ibid., p. 57 (S. 525).
31. Ibid., pp. 57-58 (SS. 525-526).
32. Ibid., p. 58 (SS. 526-527).

216
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

petto di ogni singolo essere».” Insistendo ancora una volta sull'Idea i lie
considera di sua invenzione - cosa in cui stranamente è seguito dalla mag,
gior parte dei commentatori contemporanei - Herder si leva contro I Idea
di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, l’importante saggio
die Kant pubblica nel novembre 1784 nella Berlinische Monatschrift, la ri
vista nella quale il mese successivo farà uscire il suo famoso manifesto Ri
sposta alla domanda: che cos è l’Illuminismo? In quel testo, ove l’influenza
rii Rousseau trapela da ogni pagina, egli lancia alcune di quelle grandi idee
sulla natura della società, la libertà e il progresso che tanto profondamen­
te colpiranno il pastore luterano. Non c’è dubbio che la risposta di Herder
nelle Idee si rivolga ai due saggi insieme. Secondo Kant (tesi quinta), «Il più
grande problema alla cui soluzione la natura costringe la specie umana è di
pervenire ad attuare una società civile che faccia valere universalmente il di­
ritto»33435.Dunque, come Hobbes e Locke hanno già mostrato, bisogna usci­
re dallo stato di natura, che è uno stato di violenza. In questo modo l’uo­
mo, essere dotato di ragione, è condotto a creare con le proprie mani la so­
cietà ove, in altri termini, è portato ad «adoperarsi a stabilire una costitu­
zione civile conforme alla legge nei rapporti tra i singoli uomini cioè prov­
vedere all’ordinamento di un ente collettivo»". Solo nella società all’uomo
può essere garantita una libertà che «possa coesistere con la libertà degli
altri: poiché, ripeto, solo in una società siffatta il supremo fine della natu­
ra, cioè lo sviluppo di tutte le facoltà, può essere nell’umanità raggiunto, la
natura vuole ancora che l’umanità debba attuare da se stessa così questi co­
me tutti gli altri fini della sua destinazione»36.
Senza dubbio, «l’uomo è un animale, dice Kant, che, se vive tra altri
esseri della sua specie, ha bisogno di un padrone. Egli abusa infatti della
sua libertà in rapporto ai suoi simili e se in pari tempo, come essere ra­
zionale, vuole una legge che ponga limiti alla libertà di tutti, il suo egoi-

33. Herder, Idee p er la filo sofia della storia dell’um anità, p. 147. Si veda sopra il te­
sto quasi identico, tratto da A ncora una filo sofia della storia, p. 38.
34. Kant, «Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico», in Scritti
di filo sofia politica, a cura di Dario Faucci, trad. di Gioele Solari e Giovanni Vi-
dari, La Nuova Italia, Firenze 1967, p. 9. Si veda l’importante opera di Yirmiahu
Yovel, K an t et la philosophie de l’histoire, Méridiens Klincksieck, Paris 1989.
35. Ihid., p. 13.
36. Ibid., p. 9.

217
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

stico istinto animale lo induce, quando può, a eccettuarne se stesso. Egli


ha quindi bisogno di un padrone che pieghi la sua volontà e lo obblighi
a obbedire a una volontà universalmente valevole, sotto la quale ognuno
possa essere libero»” . In questo modo Kant riunisce la spiegazione del­
l’abbandono dello stato di natura fornita da Locke e l’idea di volontà ge­
nerale di Rousseau, il maestro che gli ha insegnato il senso della libertà
e del rispetto degli uomini. La costrizione esercitata conduce l’uomo a
quella coesistenza pacifica che renderà alla fine inutile il padrone. L’uo­
mo sarà libero perché si governerà secondo la legge di ragione e la ra­
gione vuole che gli uomini siano liberi alla sola condizione che l’eserci­
zio della libertà di ognuno non sia incompatibile con l’esercizio della
stessa libertà da parte di qualunque altro essere umano.
Qui però Kant compie un passo in avanti e procede ben oltre il pun­
to di arrivo di Locke o di Rousseau, « il più grande problema alla cui so­
luzione la natura costringe la specie umana è di pervenire ad attuare una
società civile che faccia valere universalmente il diritto.»™ A che scopo, si
domanda, operare per porre fine allo stato di natura tra individui se es­
so deve persistere tra Stati? «Per quanto chimerica questa idea possa ap­
parire (e come tale fu derisa quando ne scrissero un abate di Saint-Pier-
re o un Rousseau [...])», la ragione per la quale egli auspica una federa­
zione di popoli è che essa è «l’inevitabile via di uscita dai mali che gli uo­
mini si procurano a vicenda». È lo stato di guerra già assimilato da Locke
allo stadio primitivo dello stato di natura che deve «costringere gli Stati
a quella stessa decisione [...] a cui l’uomo selvaggio non meno malvo­
lentieri fu costretto: cioè rinunciare alla sua libertà brutale e cercare pa­
ce e sicurezza in una costituzione legale»’ '. Ecco come nascono il diritto
internazionale e una «società delle nazioni», lo stesso motivo per cui è na­
ta la società civile: il bisogno di porre fine alla guerra. Si tratta dunque di
mettere la libertà umana sotto la tutela di un diritto comune a tutti, ov­
vero bisogna che l’essere ragionevole si sforzi di superare lo stato di na­
tura, cioè lo stato di guerra esistente tra gli uomini, le società e gli Stati,
per organizzare la pace sulla base di un diritto universale. Era il fine verso3789

37. Ibid., p. 11 (corsivo nel testo).


38. Ibid., p. 9 (corsivo nel testo).
39. ibid., pp. 13-14 (corsivo nel testo).

218
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

cui avanzava l’umanità, assillata dalla guerra, che la costringe ad ado| ti­
rarsi per l’organizzazione della pace. La linea del progresso, osserva
Ruyssen, avanza sicura verso questo ideale, a tal punto ogni ricaduta c
una lezione feconda e il punto di partenza di una nuova avanzata1".
Erano questi un avvenire o una soluzione che a Herder ripugnavano.
Kant pensava che l’uomo fosse chiamato a un destino tanto elevato che
nessun individuo avrebbe potuto realizzarlo nei limiti della propria esi
stenza. Ciò comporta che le generazioni anteriori sembrano «solo affati
carsi per quelle che sopravvengono, per preparare a esse un gradino da
cui possano elevare l’edificio al quale la natura mira»'4 041. Ne deriva per­
tanto che nessun individuo e nessuna generazione bastano a se stessi e
non rappresentano altro che un gradino nel cammino dell’umanità verso
la libertà e la giustizia e verso nuove forme di organizzazione politica.
Herder risponde che «nessun individuo può credere di esistere in vista
di un altro individuo o della posterità»'4243.Un’altra pagina delle Idee è an­
cora più significativa: «Ogni essere vivente gioisce della sua vita e non sta
a domandarsi e ad almanaccare per qual fine esiste. La sua esistenza è per
lui scopo e il suo scopo l’esistenza». L’attacco a Kant prosegue con l’in­
vocazione della provvidenza e con uno sguardo pieno di meraviglia sul
mondo non europeo, che non è corrotto dal razionalismo: «Quel senti­
mento semplice, profondo, insostituibile dell’esistenza è la felicità, una
piccola goccia di quel mare infinito della beatitudine totale, che è in tut­
to e si compiace in tutto. Di qui quell’indistruttibile serenità e gioia che
molti europei hanno ammirato sui volti e nella vita dei popoli stranieri,
perché essi non la provavano in sé nel loro irrequieto darsi da fare».
Qualche frase dopo, l’autore continua: «che cosa vorrebbe mai dire il fat­
to che l’uomo, come noi lo conosciamo sulla terra, sia fatto per una cre­
scita infinita delle forze della sua anima», o l’idea che «tutte le genera­
zioni sono state fatte soltanto per l’ultima generazione, che troneggia sul­
l’impalcatura crollata della felicità di tutte le generazioni precedenti?»“”

40. Théodore Ruyssen, «L a Philosophie de l’histoire selon Kant», in L a Philosophie


politique de K a n t , PUF, Paris 1962, p. 39.
41. Kant, «Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico», in Scritti
d i filosofia politica, p. 6.
42. Herder, Idee p er la filo so fia della storia d e ll’um anità, libro XV, cap. V, p. 318.
43. lb id ., libro V ili, cap. V, pp. 150-151.

219
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

Kant considerava i primi passi con cui l’uomo si è riconosciuto di­


verso dairanimaie come forme di ribellione della ragione e della volontà
contro l’ordine naturale. Dunque si può affermare che la prima manife­
stazione della libertà è stata una rottura dell’unità perfetta di uomo e na­
tura: per Kant, Rousseau aveva ragione a denunciare le conseguenze ne­
faste della contraddizione tra lo stato di civiltà e la semplicità primitiva
della natura. Ma, secondo lui, il male denunciato da Rousseau ha reso
possibili i beni della cultura: da quando l’uomo ha preso coscienza del­
la propria libertà, la ragione lo spinge irresistibilmente a sviluppare le fa­
coltà naturali ed esige che egli si liberi gradualmente dalla legge di natu­
ra. Ma una simile evoluzione non potrebbe realizzarsi nel quadro della
vita individuale4445. Nel saggio del 1784, che aveva disgustato Herder,
Kant aveva scritto questa osservazione fondamentale: «Nell’uomo, che è
l’unica creatura razionale della terra, le naturali disposizioni dirette all’u­
so della sua ragione hanno il loro completo svolgimento solo nella specie,
non nell’individuo»*'. In questo modo appare chiaro come la storia del­
l’umanità sia un cammino continuo verso sfere sempre più alte della vi­
ta politica e intellettuale. Questo cammino è lungo, il mondo non è an­
cora illuminato, gli uomini non sono ancora davvero usciti dallo stato di
minorità, VAufklärung è un processo non ancora determinato: su questo
Kant insiste esplicitamente in Che cos e l ’illuminismo. Egli offre così un
saggio ottimista per quanto riguarda gli orizzonti infiniti aperti all’uomo,
ma che non è un’utopia. Così come non è all’elaborazione di una sem­
plice utopia che si dedica nel suo celebre saggio del 1795, Progetto per
una pace perpetua, quando mostra la correlazione tra il diritto e la politi­
ca interni e il diritto internazionale. Da una parte «la costituzione civile
di ogni stato deve essere repubblicana», dall’altra «il diritto internazio­
nale deve fondarsi su una federazione di stati liberi»46.
La polemica tra Kant ed Herder è fondamentale. Il rifiuto da par­
te di Herder deH’Illuminismo, di cui invece Kant prende le difese, sal­
ta agli occhi di ogni lettore normale. Delle grandi figure delPUlumini-

44. Ruyssen, «L a philosophie de l'histoire selon Kant», pp. 42-43.


45. Kant, «Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico», in Scritti
di filosofia politica, p. 4 (corsivo nel testo). Si veda anche Ruyssen, «La philo­
sophie de l’histoire selon Kant», p. 43.
46. Kant, Progetto per una pace perpetua, trad. di Marina Montanari, Rizzoli, Milano 1968.

220
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

smo, a parte Condorcet, Kant è l’ultimo superstite. La disputa resta te


desca, perché in Francia Herder non è ancora conosciuto. Voltaire e
ancora in vita quando esce il pamphlet del 1774, ma probabilmente
non ne ha mai sentito parlare. E poi, perché uno dei più grandi eum
pei viventi avrebbe dovuto'misurarsi con uno sconosciuto ecclesiastico
tedesco? In quanto confutazione àûYEssai sur les mœurs et l’esprit des
nations il pamphlet del 1774 fa sorridere. Se avesse voluto rispondere
seriamente all’opera magistrale di Voltaire, straordinario panorama di
storia universale di duemila pagine, sforzo per spiegare razionalmente
l’evoluzione dell’umanità dall’epoca di Carlo Magno fino all’inizio del
secolo di Luigi XIV, Herder sarebbe stato obbligato ad affrontarla in
tutt’altro modo. Introdotta da riflessioni sulla caduta di Roma, sulle
origini del cristianesimo e sul mondo non europeo - la Cina, l’India, la
Persia e l’Arabia dell’epoca di Maometto - l’opera di Voltaire richie­
deva uno studio di ampiezza comparabile. Tanto più che Herder
avrebbe anche dovuto rispondere anche a Montesquieu, a Hume, a
Ferguson e a Robertson. Ha scelto invece la soluzione più facile: in pri­
mo luogo altera il senso dell’opera per attaccarla meglio poi, con un
lungo sermone, moltiplicando allusioni, insinuazioni, allegorie, me­
tafore e anche richiami alla Bibbia, attacca il Settecento nel suo insie­
me. Herder non può ammettere l’idea di un’interpretazione razionale
e laica di una storia concepita come opera umana, senza intervento del­
la provvidenza.
Questo era ovviamente un atteggiamento che Kant non poteva tol­
lerare. Tuttavia non reagì a quell’opera di gioventù del suo ex allievo.
È probabile che non le desse molta importanza, ma dieci anni dopo si
sentì obbligato a scendere in campo. Questa volta non si trattava più
di attacchi, spesso in malafede, lanciati contro Montesquieu o Voltai­
re, ma di una messa in discussione del proprio lavoro. Ponendo la que­
stione dell’intervento della provvidenza nel corso della storia, Herder
dava ragione alla Bibbia: è Elohim - la parola ebraica che indica Dio -
a fare la storia"17. Il genere umano non poteva quindi avere due origini,
una come la raccontava la Genesi, l’altra come la descriveva Rousseau.
Tra Rousseau ed Herder, Kant prendeva le parti dell’autore del47

47. Cfr. Ruyssen, «L a philosophie de l’histoire selon Kant», p. 40.

221
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

Discours sur l ’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes.


Il suo ex scolaro diventava per lui «il simbolo dell’irragionevole e del­
la falsificazione deliberata»:18 e non aveva torto. Confrontato ancora
oggi con le analisi scientifiche più recenti, il giudizio non ha perso
niente della sua correttezza.
Contro Herder, Kant accorda una importanza fondamentale all’i­
dea del contratto originario e alla relazione che la lega a quella della cre­
scita dei Lumi. L’umanità, perlomeno nei suoi elementi più avanzati, è
uscita dalla minorità, può e deve decidere ragionevolmente del proprio
futuro, può e deve tracciare il proprio percorso: lo prova l’esistenza del­
la critica, critica della ragione fatta da se stessa secondo i suoi specifici
principi costitutivi, ma anche critica della realtà politica e storica se­
condo il criterio dell’universalità. L’universalità di cui si parla è quella
della coesistenza reale e presente degli uomini secondo leggi concrete
che essi si danno consapevolmente sapendo ciò che vogliono e ciò che
devono volere in quanto esseri finiti e ragionevoli. Da qui deriva l’im­
portanza decisiva del contratto originale e Ae\YAufklärung. l’idea del
contratto originario è identica a quella di volontà generale e conduce al
progresso del mondo. L’azione storica di questa idea ha fatto sì che
1’Aufklärung nascesse e potesse continuare la sua opera. L’uomo pen­
sante si riconosce libero e vuole che la sua libertà sia riconosciuta nelle
istituzioni politiche; ma egli non ignora che gli uomini non sono tutti
pensanti: la loro educazione resta in gran parte ancora da fare, le su­
perstizioni e le sopravvivenze di ciò che è solo storico li ostacolano, il
principio di universalità non è universalmente riconosciuto come il so­
lo fondamento morale della vita politica e la sola possibilità di dare un
senso alla storia4849.
Qui si inserisce la nozione di volontà generale che Kant deve a Rous­
seau. Nonostante la sua ammirazione per lui, Kant non è un seguace di
Rousseau nello stretto senso del termine. Egli era fondamentalmente ot­
timista: per lui l’uomo progredisce a partire da un inizio della storia, o

48. Citato in Renaut, «Universalisme et différendalisme: le moment herderien», p.


246, nota 11. Renaut si riferisce a Pénisson, ].G. Herder: la raison dans les peu­
ples, p. 159.
49. Eric Weil, «Kant et le problème de la politique», in La Philosophie politique de
Kant, PUF, Paris 1962, pp. 11-12.
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

ilell’uomo in quanto essere storico, che sta nella malvagità e non neH’iii
nocenza. Nonostante questo disaccordo iniziale, Kant deve a Rousseau
il primato della ragione pratica, le idee del contratto sociale, (.Iella vo
lonta generale e della libertà sotto la legge. Kant, come abbiamo appena
visto, vi è giunto da un cammino indiretto, poiché pensa che solo la co­
strizione possa condurre gli uomini a quella coesistenza pacifica che alla
line renderà superflua l’esistenza dello Stato autoritario. Tuttavia è stato
compiuto un passo decisivo: il contratto sociale indica i limiti di ogni le­
gislazione positiva, è il principio di ogni giustizia politica, criterio di ogni
legge e di ogni decisione. Kant si dedica alle strutture del potere, ai prin­
cipi del regime rappresentativo e alla separazione dei poteri, al diritto in­
ternazionale. Lo stato di natura è cessato tra gli individui all’interno del­
le comunità politiche, ma sussiste ancora tra gli Stati. Bisogna dunque
fondare lo stato di pace, la società degli Stati liberi. Che il compito non
possa essere assolto nell’immediato è evidente, ma lo scopo della storia
è conosciuto, il cammino che vi conduce può essere tracciato e ciò può
essere fatto dagli uomini. L’uomo può prendere tra le mani il suo futu­
ro, che cessa di essere destino per essere un obiettivo liberamente e ra­
gionevolmente voluto. L’uomo, essere finito, osserva Eric Weil, può e de­
ve progredire indefinitamente, la sua avanzata non deve mai fermarsi e
non può esserci riposo per l’essere morale50.
Kant aveva posto il dito sull’essenziale ed è proprio contro questo
che Herder si rivolta: l’uomo padrone del proprio destino, che costrui­
sce con le proprie mani un mondo a sua immagine, è per lui un sacrile­
gio. Filosofi tanto differenti gli uni dagli altri come Kant, Locke e Rous­
seau concordano nel dare un’importanza fondamentale all’idea del con­
tratto sociale, espressione dell’autonomia dell’individuo; Montesquieu,
dopo Locke, affina i due strumenti che permettono di garantire concre­
tamente la libertà - divisione dei poteri e regime rappresentativo - Vol­
taire, bandito da Parigi per anni a causa della sua lunga lotta per la li­
bertà della critica e per la tolleranza, propende infine per la monarchia
parlamentare all’inglese: per tutto questo tempo Herder è quasi estraneo
alle preoccupazioni politiche. Ecco una svolta decisiva, perché con lui si
produce una vera rivoluzione intellettuale.

50. Ibid., pp. 9 e 25-29.

223
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

In effetti, mentre dopo Hobbes e Locke e sulla scia della Gloriosa


Rivoluzione, i philosophes proseguono la riflessione inglese sull’origine
razionale e volontaria della società, mentre sviluppano l’idea del con­
tratto sociale per manifestarne l’origine utilitaristica e definirne bene
gli obiettivi, in questo caso il bene dell’individuo, mentre tutti si impe­
gnano a tracciare il profilo della legittimità politica, il pastore di
Bùckeburg introduce l’idea del primato della cultura. Rousseau aveva
creato l’idea di volontà generale: Kant vi vedeva un modo per dire che
gli uomini devono sottomettersi solo alla legge che loro stessi si sono
dati e alla cui formulazione hanno partecipato. Sta proprio qui l’idea
kantiana della libertà del popolo legislatore. Dopo Hobbes a metà del
XVII secolo, passando per Locke e la Gloriosa Rivoluzione fino a Kant
all’epoca della Rivoluzione francese, lo Stato ha il solo scopo di per­
mettere a ogni individuo di godere della propria libertà e dei propri
beni o, in altri termini, dei propri diritti naturali. La società è una co­
munità di cittadini ai quali spetta di darsi il miglior regime possibile,
cioè un regime rappresentativo. L’uomo è impegnato in un’avanzata in­
finita, la storia è fatta dall’uomo e ha un senso, perché l’uomo marcia
consapevolmente verso la libertà. E proprio contro tutto questo che
Herder si ribella con ogni forza: contro l’origine della società per co­
me è descritta dalla scuola giusnaturalista, contro l’idea dell’uomo che
crea con le proprie mani la società e lo Stato, contro una visione laica
della storia.
Ecco perché la lunga recensione delle Idee, divisa in due parti, che
Kant scrive nel 1785 ha una tale importanza nella storia delle idee. Leg­
gendo con attenzione quel testo si capisce perché Herder ne fu profon­
damente ferito. Non solo vi è un disaccordo di fondo, ma Kant non sem­
bra convinto che il suo ex allievo abbia prodotto un’opera di rilievo.
Certo, conformemente alla buona creanza, egli comincia rendendo
omaggio al «nostro autore, eloquente e pieno d’ingegno», al «suo genio»
di assimilazione e di integrazione di idee colte «dal vasto campo delle
scienze e delle arti», formula che non è necessariamente un elogio, come
non lo è ciò che segue: non si tratta di vera filosofia della storia, poiché
secondo Kant una simile impresa richiederebbe «una precisione logica
nella determinazione dei concetti o una scrupolosa distinzione e dimo­
strazione dei principi»; ci si trova invece di fronte a «un rapido sguardo
d’insieme» unito a una capacità di mantenere l’argomento trattato in una

224
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

«oscura lontananza»51. Kant esprime ancora riserve su un’iniziativa la cui


«piena attuazione non sia raggiungibile» e finisce per dare al suo ex al
lievo una lezione di metodo: si augura che la filosofia lo guidi «non con
cenni, ma con concetti determinati: non con le leggi presunte, ma ossei
vate: non mediante la fantasia, cui forniscono ali la metafisica o il senti
mento, ma mediante la ragione, aperta ai vasti progetti, ma cauta nell’e­
secuzione»52. La seconda parte è ancora più dura: Kant ironizza su «la
bellezza poetica del dettato», dà all’autore non solo lezioni di rigore ma
anche di stile, e conclude sperando che in futuro Herder offrirà «al mon­
do, non in un’infeconda chiarificazione verbale, [...] un modello del ge­
nuino modo di filosofare»53.
Il vero asse della discussione è comunque la filosofia cristiana della
storia elaborata da Herder e la negazione radicale della libertà umana
che ne deriva. Kant attacca frontalmente il nocciolo della filosofia della
storia di Herder, l’intervento trascendente della provvidenza nel corso
della storia. In pratica per Herder - citato a lungo da Kant - « “i primi
uomini creati andavano in giro coi saggi Elohim, [...] sotto la loro gui­
da, attraverso la conoscenza degli animali, acquistarono il linguaggio e
la supremazia della ragione dominatrice [...]. Ma come gli Elohim si so­
no interessati degli uomini, cioè li hanno istruiti, ammoniti ed educa­
ti?”» 54 Kant si rifiuta di vedere la genesi dei sentimenti morali semplice-
mente come «gli esordi di tutta la storia umana» alla luce della narra­
zione biblica, guarda alla storia come un continuo cammino in avanti,
verso cime sempre più elevate, dove ogni generazione, salita sulle spalle
di quelle che l’hanno preceduta, permetterà a sua volta a quella succes­
siva di andare ancora oltre. Nelle Idee Herder attaccava duramente Kant
perché si rifiutava di ammettere l’idea che possa esistere una «destina­
zione finale». Lo cita senza nominarlo direttamente55 e per tutto il corso
dei libri V ili e IX se la prende con l’idea di progresso. Kant risponde

51. Kant, «Recensione di: J.G . Herder, “Idee sulla filosofia della storia dell’uma­
nità”», in Scritti politici e d i filo sofia della storia e del diritto, trad. di Gioele So­
lari e Giovanni Vidari, Utet, Torino 1965, pp. 151-152.
52. Ibid., p. 163.
53. Ibid., pp. 168-172 e 175.
54. Ibid., p. 172.
55. Herder, Idee p er la filo sofia della storia d e ll’um anità, libro IX, cap. IV, p. 182.

225
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

con un testo importante nel quale dimostra che il vero progresso, mora­
le e di civiltà, tende verso il «più alto grado»: «Se invece il vero scopo
della provvidenza fosse non già questo fantasma della felicità, che ognu­
no si raffigura dentro, bensì l’attività e la civiltà sempre crescenti e pro­
gredienti, che vengono così poste in gioco e il cui più alto grado può es­
sere soltanto il prodotto di una costituzione dello Stato ordinata secon­
do il concetto dei diritti dell’uomo?»5657In altri termini, «la destinazione
del genere umano è nel complesso incessante progredire» ” e il «corso ge­
nerale delle cose umane», scrive Kant concludendo le sue Congetture
sull’origine della storia, «lungi dal procedere dal bene al male», progre­
disce «a poco a poco dal peggio al meglio. A questo progresso ciascuno
è chiamato dalla natura stessa a contribuire per sua parte e secondo le
sue forze»58.
La risposta di Kant prosegue su un secondo punto, di capitale im­
portanza. Per Herder «la felicità deH’uomo è dappertutto un bene indi­
viduale», è «uno stato interiore, la misura e la determinazione di essa sta
dentro, non fuori del petto di ogni singolo essere».59 Kant risponde che
«il valore della loro condizione» è una cosa, altro è «quello della loro
stessa esistenza». Difatti se i felici abitanti di Tahiti non fossero mai en­
trati in contatto con «nazioni più civili» e fossero rimasti nella «loro tran­
quilla indolenza» per altri secoli, non ci si porrebbe forse la domanda:
quale scopo ha l’esistenza di questa gente? Non sarebbe stata la stessa
cosa «che quest’isola fosse stata occupata con pecore e buoi felici anzi­
ché con uomini felici nel semplice godimento?» E non sarebbe il caso di
concludere, al contrario di Herder: «Quel principio generale non è quin­
di così cattivo quanto l’autore crede»?60 In effetti tale principio non è af­
fatto cattivo se si accetta l’idea che è la cultura a far sì che la vita valga la
pena di essere vissuta e che l’uomo, liberandosi dall’influenza della na­
tura, sviluppi pienamente il proprio potenziale intellettuale.

56. Kant, «Recensione di: J.G . Herder, “Idee sulla filosofia della storia dell’uma­
nità”», in Scritti politici e d i filo so fia della storia e d el d iritto , p. 173.
57. Ibid., p. 174 (corsivo nel testo).
58. Kant, «Congetture sull’origine della storia», in ibid., p. 211.
59. Herder, Idee p er la filo sofia della storia d e ll’um anità , libro V ili, cap. V, p. 147.
60. Kant, «Recensione di: J.G . Herder, “Idee sulla filosofia della storia dell’uma­
nità”», in Scritti p olitici e d i filo so fia della storia e d e l diritto , pp. 173-174.

226
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

Kant prosegue la sua riflessione critica su Herder nelle Congcttun


sull’origine della storia, che escono l’anno dopo la seconda parte della
sua recensione delle Idee. Si richiama alla bestia nera di Herder, all no
mo che aveva già fornito una narrazione delle origini dell’umanità ter
ribilmente blasfema agli occhi di un cristiano, alle «affermazioni così
spesso mal comprese e in apparenza contraddittorie del celebre J.J.
Rousseau»: costui da una parte «nei suoi discorsi sull’influenza delle
lettere e sull’ineguaglianza degli uomini mostra assai bene la contrad­
dizione della civiltà con la natura del genere umano, considerato come
una specie animale, in cui ogni individuo deve compiere interamente il
proprio destino. Nel suo Emilio, al contrario, nel Contratto sociale e in
altri scritti egli cerca di risolvere un problema ben più difficile, cioè di
far vedere come la civiltà debba procedere per sviluppare conveniente­
mente verso la loro destinazione tutte le facoltà dell’uomo considerato
come specie morale, in modo da eliminare la contraddizione che esiste
tra l’uomo morale e quello naturale». Nello stesso contesto Kant ci di­
ce: «L a storia della natura comincia col bene, perché essa è opera di
Dio; la storia della libertà comincia col male, perché essa è opera del­
l’uomo»61623.Quindi Kant valuta i primi passi coi quali l’uomo si è reso di­
verso dall’animale come una ribellione della ragione e della volontà
contro l’ordine naturale. Possiamo dunque dire che la prima manife­
stazione della libertà è stata una rottura dell’unità perfetta di uomo e
natura, una decadenza in relazione all’innocenza primitiva, in una pa­
rola una caduta, un peccato. Ma la decadenza dell’uomo primitivo ha
reso possibile il bene della cultura che dà alla vita tutto il suo valore.
Da quando l’uomo ha preso coscienza della propria libertà, la ragione
lo spinge a sviluppare le facoltà naturali. L’uomo, entrato «nello stato
di eguaglianza di tutti gli esseri ragionevoli»,“ vede, con appetiti e biso­
gni nuovi, nascere l’agricoltura, la proprietà, entra cioè nel periodo «di
lavoro e di discordia»61. Allora si sviluppano «a poco a poco tutte le ar­
ti proprie dell’uomo, tra le quali quella della convivenza sociale e della

61. Kant, «Congetture sull’origine della storia», in ibid., pp. 203-204 (corsivo nel te­
sto).
62. Ibid., p. 201 (corsivo nel testo).
63. Ibid., p. 205 (corsivo nel testo).

227
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

sicurezza civile è la più benefica. [...] A quest’epoca cominciò pure, e


andò in seguito crescendo, la disuguaglianza tra gli uomini, questa co­
piosa fonte di tanti mali e, nello stesso tempo, di ogni bene». Gli uo­
mini possono cominciare a godere di «un bene inestimabile: la libertà»,
e con essa delle comodità e di una vita migliore, poiché «senza libertà
non vi può essere quel fiorire di attività commerciali, che possono pro­
durre la ricchezza».6465
Così la storia umana proclama la vittoria della libertà. Nella sua
Idea di una stona universale dal punto di vista cosmopolitico, Kant af­
ferma che la libertà individuale «va gradatamente estendendosi». La
libertà è in cammino e «a misura quindi che le limitazioni all’attività
personale saranno tolte, che a tutti sarà riconosciuta la libertà religio­
sa, si produrrà per gradi, pur con intervalli di illusioni e di fantasie,
l’illuminismo»^.
Bisogna ripeterlo: non è qui il caso di discutere se la critica herde-
riana abbia per oggetto l’Illuminismo quale era in realtà o come lo vo­
levano vedere i suoi nemici e che, nella maggior parte dei casi, era so­
lo una cattiva caricatura. Ernst Cassirer, Peter Gay, Paul Hazard, René
Pomeau, Alfred Cobban, per non citare che i contributi più impor­
tanti, hanno già da tempo reso giustizia all’Illuminismo66. Nessuno de­
gli attacchi lanciati nella seconda metà ilei secolo appena terminato,
dal poststrutturalismo fino alle diverse varianti del postmoderno, è
riuscito a scalfirlo. Nella sua grande tesi del 1940 anche Max Rouché
dimostra come Herder abbia deformato c semplificato all’estremo il

64. Ibid., p. 207 (corsivo nel testo). Si veda anche Ruyssen, «L a philosophic de l’hi-
stoire selon Kant», p. 42.
65. Kant, «Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico», in Scritti
d i filo sofia p olitica , p. 19 (corsivo nel testo).
66. Peter Gay è autore di un eccellente studio intitolato The Enlightenm ent: an In ­
terpretation, t. I, The R ise o f M odern Paganism-, t. II, The Science o f Freedom,
Norton, New York 1995 ( 1“ ed. 1966). Più recentemente è uscita un’opera di J o ­
nathan I. Israel, storico specializzato nella storia dei Paesi Bassi, R adical En ligh­
tenment: Philosophy an d the M aking o f Modernity, 1650-17SO, Oxford Univer­
sity Press, Oxford e New York 2001. Questo libro non mantiene affatto le pro­
messe del titolo: si occupa in pratica di Spinoza, dello spinozismo e dei Paesi
Bassi. Si chiude proprio nel momento in cui l’llluminismo si avvicina all’apice
della sua influenza.

228
m

La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

pensiero dei philosophes, pur saccheggiando le loro opere, per coni


batterlo meglio67.
Del resto il tanto screditato razionalismo settecentesco ha saputo
correggere i propri eccessi. I suoi pensatori più importanti, ai quali 1lei
der attinge senza posa, praticano solo raramente, al contrario di quanto
pensa Taine, le analisi a priori e le generalizzazioni gratuite. Viceversa so
no gli Illuministi a inaugurare la tolleranza religiosa, il diritto alla diffe­
renza - si vedano Voltaire e Montesquieu - la simpatia per i primitivi su­
scitata dalle scoperte e dai viaggi, e il pluralismo, ma senza screditare la
ragione e il primato dell’individuo. Voltaire consigliava il rispetto delle
bellezze sconosciute, dei gusti stranieri, e i suoi compatrioti riconosce­
vano «il diritto di essere persiano», sinonimo di una cultura lontana e
bizzarra.
Montesquieu, autore del concetto di «spirito generale di una nazio­
ne»,68 è stato saccheggiato da Herder nel modo più vergognoso. La pre­
tesa idea herderiana del Volksgeist era al centro del pensiero di Monte­
squieu: Meinecke, che cita Montesquieu con reverenza, lo dice esplicita­
mente rimandando, per le «tradizionali interpretazioni della dottrina di

67. Rouché, L a Philosophie de l ’histoire de lle rd e r , pp. 9 (nota 1), 10, 135-141, 147-
148. Questa tesi non è stata mai superata. Si veda anche Introduction a J.G . Her­
der, Une autre philosophie de l ’histoire, p. 93. Contrariamente all’idea dell’Illu-
minismo ancora presente, non tutti i philosophes hanno creduto in un progresso
continuo e indefinito del genere umano. Le diverse teorie del progresso presen­
tate nel XVIII secolo sono unanimi e ottimistiche solo per quel che riguarda la
storia europea; le divergenze sono profonde quando considerano l’intero gene­
re umano o la storia generale dei popoli. Senza dubbio Kant, come abbiamo vi­
sto, parla di un cammino verso i Lumi; nel 1781 Gibbon scrive: «Possiamo dun­
que concludere con fiducia che, dalla creazione del mondo, ogni secolo ha au­
mentato le ricchezze reali, la felicità, l’intelligenza e forse le virtù della razza
umana», ma altri convinti A ufklärer porranno l’accento sui periodi di declino
che seguono i periodi di grandezza. In L A n tiqu ité dévoilée Boulanger giunge a
riconoscere all’antichità una certa superiorità rispetto al suo tempo; ma è so­
prattutto Voltaire, particolarmente detestato da Herder in quanto pensatore più
influente della sua epoca, a mostrare come i grandi periodi della storia umana
siano interrotti da lunghi secoli di declino e barbarie. Per lui il Medioevo non è
altro che un periodo di barbarie che separa il mondo di Augusto dal Rinasci­
mento italiano. Nulla in Voltaire esclude un nuovo periodo di declino.
68. Montesquieu, L o spirito delle leggi, p. 379.

229
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

Montesquieu dello spirito popolare», a una nota opera su Hegel del


192069. In effetti il termine appare in questa forma veramente tedesca so­
lo nel 1793 in Hegel e può darsi che si trovi già qualche anno prima in
Jean-Paul, autore molto legato a Herder e molto ammirato da Carlyle.
Fino ad allora, per tutta la seconda metà del XVIII secolo, proprio do­
po la comparsa dell’Esprit des Lois, i termini utilizzati - Geist des Volkes,
allgemeiner Geist, Nationalgeist - attinti da Voltaire e Montesquieu, ri­
sentono deH’origine francese70. Per ciò che riguarda la comprensione
delle strutture di una società, la venerazione delle diversità e delle parti­
colarità culturali, storiche e nazionali, per tutto ciò che attiene al rispet­
to del mondo non europeo, per tutto quello che si riferisce alla com­
prensione dei complessi rapporti tra gli elementi costitutivi di una co­
munità, la grande opera del presidente del Parlamento di Bordeaux po­
trebbe sembrare un’opera herderiana. Ma non è così, anzi. La ragione,
come abbiamo visto, l’ha fornita Hegel meglio di tutti: l’antirazionalismo
di Herder era per lui un modo di attaccare la filosofia in quanto tale.
In effetti L’Esprit des Lois costituisce, insieme all’Essai sur les moeurs,
il primo tentativo decisivo di fondare una filosofia della storia. Monte­
squieu parla dello spirito delle leggi e non di fatti, come invece voleva
Bayle, per il quale la conoscenza storica consisteva ancora soltanto in un
semplice aggregato di fatti e di particolari senza legame tra loro e senza
logica interna. Non è per caso che Bayle dà al suo lavoro critico il tito'o
di Dictionnaire historique et critique, mentre nell’opera di Montesquic u
la massa dei particolari è valorizzata e dominata da un principio rigoro­
samente intellettuale. Le leggi non sono mai accessibili se non in una ma­
teria concreta, ma questa materia trova il suo vero senso solo quando vie­
ne presa come paradigma di rapporti universali. Montesquieu è il primo
a esprimere la nozione di «tipo ideale» storico, politico e sociologico:
L’Esprit des lois, dice Cassirer, è una teoria dei tipi. Il primo capitolo del
primo libro dd i’Esprit des Lois è uno dei testi più celebri del pensiero
politico, proprio come il diciottesimo capitolo delle Considérations sur
les causes de la grandeur des Romains et de leur décadence. Si apre così

69. Meinecke, Historism. The Rise o f a New Historical Outlook, p. 120 (corsivo nel
testo) [p. 119]. Meinecke si riferisce a Hegel und derStaat (1920).
70. Rouché, La Philosophie de l’histoire de Herder, p. 137.

230
_ J

La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

una nuova epoca: i celebri sviluppi sul «cieco destino», sulla «causa ori­
ginale», sulle «cause universali, tanto spirituali quanto fisiche» e i rap­
porti tra cause generali e particolari, tra cause materiali e spirituali, han­
no alimentato tutto il pensiero moderno71. In che cosa consistesse la spe­
cificità culturale e nazionale, il barone de La Bròde lo aveva insegnato
agli uomini del Settecento molto prima di Herder.
In Ancora una filosofia della storia Herder attacca astiosamente
Montesquieu, in modo tanto più ingiustificato in quanto si ispira
profondamente alla sua opera, lasciando intendere che questa non co­
stituisce altro che uno sfortunato abbozzo, povero e semplicistico, sfo­
ciato in un vicolo cieco. Per Herder Montesquieu ha sviluppato princi­
pi che, «fondandosi sull’esperienza di centinaia di popoli e di paesi di­
versi, vengono ora calcolati senza por tempo in mezzo con la facilità con
cui si somma uno più uno»7273. Nonostante ciò, dopo due secoli, si cita­
no sempre - è anche il caso di Cassirer - le prime parole di una frase
con la quale Herder elogia l’autore Esprit des Lois - «la nobile ope­
ra gigantesca di Montesquieu» - ma in genere ci si dimentica il seguito
immediato di questa frase, un lungo paragrafo tanto velenoso quanto
assurdo: quell’opera, dice il giovane pastore, «non ha potuto essere, per
mano d’un uomo solo, quello che doveva essere. Edificio gotico nel gu­
sto filosofico del proprio secolo, esprit, e spesso null’altro, qualche fat­
to strappato dal suo luogo d’origine e, quasi fosse una cosa, gettato su
tre o quattro mercati, sotto l’etichetta di tre miserabili luoghi comuni,
di tre parole, e per di più parole vuote, inutili, indeterminate, somma­
mente confusi mots d’esprit. Per tutta l’opera, un turbinio di tutte le età,
nazioni e lingue, come nella torre di Babele, e ciascuna di esse sembra
avervi appeso borse, bisacce e zaini a tre deboli chiodi: la storia di tut­
ti i popoli e tempi, questa vivente opera di Dio grande anche nel suo
processo, ridotta a un mucchio di rovine, a tre punte, a tre scatolette;
ma restano pur sempre dei nobili materiali, Montesquieu!»75 Qualche

71. Si veda Cassirer, La filosofia dell’Illuminismo, pp. 296-301.


72. Herder, Ancora una filosofia della storia, p. 69 (S. 246).
73. Ibid., pp. 101-102. In una nota a fondo pagina dell’edizione francese, il tradut­
tore Max Rouché spiega che i «tre deboli chiodi» sono il timore, l’onore e la
virtù, secondo Montesquieu principi del dispotismo, della monarchia e della Re­
pubblica.

231
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

pagina dopo Herder aggiunge un nuovo tratto, deridendo «il grande


maestro e legislatore dei re [...]. Egli ha fornito un modello così bello
del modo di misurare tutto con due o tre parole, di ricondurre tutto a
due, tre regimi di cui è facile vedere a quando risalgono e quanto la lo­
ro durata e dimensione siano limitate». Dopo il rifiuto del metodo di
Montesquieu, giunge il maggiore rimprovero: «Quanto è gradevole se­
guirlo nello spirito delle leggi di tutte le età e nazioni, e non della sua
propria! [...] anche questo rivela il destino»7'.
Tuttavia se c’era qualcuno che aveva davvero il senso delle diverse
forme dell’esistenza storica, un senso dello specifico, del particolare e
del singolare, era proprio il giurista francese, figli non ha mai voluto im­
porre la stessa forma di governo a tutti i paesi; inizia il primo libro del-
l’Esprit des Lois affermando che le leggi «devono essere talmente adatte
ai popoli per i quali sono state istituite, che è incertissimo se quelle di
una nazione possano convenire a un’altra» '. Una legge è relativa alle
condizioni sociologiche, economiche, politiche e culturali: Montesquieu
pensa che la legislazione debba essere adattata alle condizioni specifiche
di un paese, al suo clima, alle sue condizioni fisiche, al genere di vita, al­
la religione, alla ricchezza degli abitanti. I lerder ha attinto molto dal li­
bro XIX: il capitolo decimo («Del carattere degli spagnoli e di quello dei
cinesi»), il capitolo quinto («Bisogna badare a non mutare lo spirito ge­
nerale di una nazione»), il capitolo quarto in cui l’autore deìYEsprit des
Lois ha insegnato a Herder «Che cos’è lo spirito generale»: «Il clima, la
religione, le leggi, le massime del governo, gli esempi dell’antichità, i co­
stumi, le usanze; se ne forma uno spirito generale che ne è il risultato»7475767.
Meinecke non si è sbagliato, citando il quarto capitolo del libro XIX, a
elogiare il concetto di «spirito generale» di Montesquieu, così come l’i­
dea per la quale ogni epoca ha il suo «genie particulier»11.
Dopo Herder, Burke intraprende un percorso critico analogo. Leo
Strauss ha dimostrato come, nel suo primo libro pubblicato nel 1757,

74. Ibid., pp. 103-104.


75. Montesquieu, Lo spirito delle leggi, p. 31.
76. Ibid., p. 379.
77. Meinecke, Historism. The Rise o f a New Historical Outlook, p. 121 [Le origini
dello storicismo, p. 121 (in francese nel testo)]. Meinecke cita Pensées et frag­
ments, 2, 141.

232
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

Inchiesta sul Bello e il Sublime, Burke si oppone non solo al razionali


smo dei Modernes ma al razionalismo in quanto tale. L’autore di Dirit­
to naturale e storia pensa che questa opposizione di Burke al razionali­
smo manifesti un carattere insieme tradizionale e moderno78. Strauss ha
ben visto come quel saggio, « l’unico saggio teorico» di Burke, condu­
cesse verso «una certa emancipazione del sentimento e dell’istinto dal­
la ragione». Per il filosofo di Chicago l’elemento nuovo nella critica
burkiana della ragione è il suo rifiuto della ragione come strumento mi­
gliore per creare una Costituzione. Per gli Anciens una Costituzione era
comunque il prodotto della ragione: anche se il suo scopo non era fis­
sato dall’uomo, lo era la sua fabbricazione79. Nei fatti si tratta di un ri­
fiuto globale del razionalismo, un rifiuto che non ha più nulla di tradi­
zionale e che costituisce l’inizio della rivolta moderna, quella di cui sa­
ranno fatti i secoli X IX e XX , contro la critica individualista e raziona­
lista diffusa daH’Illuminismo. Tutta la sua argomentazione manifesta
già un carattere assolutamente nuovo, che va ben oltre l’antico consen-
sus gentium: Burke contrappone al giudizio individuale l’intelligenza
collettiva dei tempi passati, la saggezza accumulata dalle generazioni
che ci hanno preceduto, per dire che l’uomo non è un essere razionale
e che la società non è un insieme di individui ma un corpo. Questo cor­
po ha una costituzione, una struttura, cioè, proprio come un individuo,
un insieme di caratteristiche congenite. Per questo una Costituzione,
nel senso di un regime o di un insieme di carte, di leggi e di disposizioni
legali che reggono la vita di un paese, non può esser creata di sana pian­
ta, per volontà di una sola generazione, in un momento qualsiasi della
vita di un popolo, come pensavano Locke, i coloni americani o gli uo­
mini del 1789.
Certo Burke non aveva lo stesso tipo di preoccupazioni di Herder,
non era un filosofo come Jacobi, e il suo antirazionalismo non era della
stessa natura. Non aveva nemmeno l’eccezionale versatilità di Voltaire
così come non aveva niente che lo avvicinasse al genio di uno come

78. Leo Strauss, Diritto naturale e storia, a cura di Nicola Pierri, Neri Pozza, Vene­
zia 1957, p. 301. Il testo originale è apparso nel 1953 (Natural Right and History,
The University of Chicago Press, Chicago 1953).
79. Ibid., pp. 301-302. Sulla lettura di Burke da parte di Strauss, si veda Steven J.
Lenzner, «Strauss’s Burkes», Political Theory, 19 (3), agosto 1991, pp. 364-390.

233
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

Rousseau. Era un uomo politico che era anche un pensatore politico,


poiché riconosceva la potenza del pensiero come strumento dell’azione
politica. Non era un conformista: in quell’età dei Lumi non teme di gri­
dare al fallimento della ragione, da lui considerata molto inferiore agli
istinti"", o di dare un’interpretazione francamente reazionaria, nel senso
proprio del termine, alla rivoluzione del 1689. Abbiamo visto che è per
affermare l’impotenza della ragione che ha scritto la sua Inchiesta sul Bel­
lo e il Sublime-, «Nonostante gli sforzi più industriosi, non potremo mai
sbrogliare la grande catena delle cause che si legano luna all’altra, fino
al trono stesso di Dio. Quando procediamo solo di un passo al di là del­
le qualità immediatamente sensibili delle cose, ci sentiamo come pesci
fuor d’acqua. Tutto quello che in seguito facciamo non è altro che un de­
bole sforzo, il quale dimostra che ci aggiriamo in un campo che non ci
appartiene. [•••] Se dovessi spiegare il movimento di un corpo che cade
a terra, direi che è causato dalla forza di gravità, e tenterei di mostrare
poi in qual modo questo potere abbia agito, senza tentar di mostrare
perché esso abbia agito in tal modo»8081. Nella prefazione alla seconda edi­
zione dell’opera, nel 1759, sembra ripetere le parole di Herder: «Non
dobbiamo arrischiarci a volare, quando a stento possiamo avventurarci
a strisciare»8283. In un’altra pagina scrive: «Ogni volta che con la sua sa­
pienza il Creatore ha stabilito che fossimo impressionati da qualche co­
sa, non ha limitato l’esecuzione del suo disegno alle operazioni fiacche e
precarie della nostra ragione; ma l’ha dotata di facoltà che precedono la
conoscenza, e anche la volontà; facoltà che, dominando i sensi e l’imma­
ginazione, incantano l’anima prima che l’intelletto sia pronto a unirsi o
a opporsi a essi»81. Già dal suo primo saggio, il cui obiettivo è una criti­
ca a Rousseau, Burke attacca l’eccesso di ragione di cui il suo tempo si

80. Cfr. Rodney W. Kilcup, «Burke’s Historicism», jo u rn a l o f M odera H istory, 49,


1977, p. 396.
81. Burke, Inchiesta su l B ello e il Sublim e, a cura di Giuseppe Sertoli e Goffredo Ma­
glietta, Aesthetica Edizioni, Palermo 2002 (IV parte, 1 sezione), pp. 137-138.
82. Ibid., p. 41.
83. Ibtd., p. 122. Si veda l’originale in Edmund Burke, A Philosophical Enquiry into
the Sublim e an d B eautifu l an d other Pre-Revolutionary Writings, Penguin Books,
London 1998, p. 142. Questo brano è citato anche in Gertrude Himmelfarb,
The R oads to M odernity, p. 76.

234
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

rende colpevole. «Che accadrebbe al mondo se l’esercizio di tutti i do


veri morali, e la fondazione della società sussistessero solo se le loro ra
gioni fossero chiare e dimostrabili a ogni individuo?»84
Per Burke storia è sinonimo di natura: la realtà, consacrata dalla
storia, corrisponde all’ordine naturale delle cose. Ma Burke si impone
di non essere un nemico della ragione e questo è molto più problema­
tico, perché non solo egli accetta il verdetto della ragione soltanto se è
conforme a quello della storia e non si contrappone all’esperienza, al­
tro modo di definire l’ordine stabilito85, ma in più rifiuta del tutto l’i­
dea che la ragione, la quale porta naturalmente a una volontà di cam­
biamento, possa avere nella storia un ruolo che non sia subordinato:
essendo la storia un processo cieco, il cambiamento può essere solo un
processo inconsapevole e impercettibile86. Concretamente, il culto
burkiano della storia, «questo faro di prudenza [...], questa guida del­
la vita umana»,878si risolve nel rifiuto di dare un giudizio di valore sul­
l’ordine esistente.
È in questa opera teorica sul bello e il sublime che Burke attacca
Locke e il suo Saggio sull’intelligenza umana™. Certo dice anche che
« “l’autorità di questo grande uomo è senza dubbio grande quanto può
esserlo quella d’un uomo”», ma il seguito di questa frase - che Strauss

84. Edmund Burke, A Vindication o f Naturai Society: Or a View of the Miseries and
Evils Arising to Mankind from Every Species o f Artificial Society, in A Philo­
sophical Enquiry into the Sublime and Beautiful and other Pre-Revolutionary Wri­
tings, Penguin Books, London 1998, p. 5. [Difesa della società naturale, a cura di
Ida Cappiello, Liberilibri, Macerata 1993, p. 6],
85. Edmund Burke, «Speech on a Motion made in the House of Commons the 7th
of May 1782, for a Committee to inquire into the State of Representation of the
Commons in Parliament», The Works of the Right Honourable Edmund Burke,
Henry G. Bohn, London 1854-1856, vol. VI, p. 148: «I do not vilify theory and
speculation: no, because that would be to vilify reason itself... No, whenever I
speak against theory, I mean always a weak, erroneous, fallacious, unfounded, or
imperfect theory; and one o f the ways of discovering that it is a false theory is by
comparing it with practice».
86. Si veda Burke, «Riflessioni sulla Rivoluzione francese», in Scritti politici, p. 352.
87. Burke, «Deuxième lettre, sur le génie et le caractère de la révolutione française,
dans ses rapports avec les autres nations» («Deuxième lettre sur la paix régici­
de»), in Réflexions sur la Révolution de France, p. 600.
88. Burke, Inchiesta sul Bello e il Sublime, pp. 148-149.

235
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

non cita“9 - dice che la sua autorità «sembra vada contro il nostro prin­
cipio generale»89091.Questo non sorprende, perché non si capisce bene in
che cosa Burke abbia seguito Locke e in che cosa abbia accettato la sua
autorità. In verità Burke, che si rifiutava di occuparsi degli scopi ultimi
dell’esistenza umana, guardava alla politica non solo come a un’opera­
zione complessa ma anche come a un’impresa della quale la ragione
umana non poteva pretendere di cogliere il mistero. Lord Acton, il gran­
de pensatore liberale della fine dell’Ottocento, che aveva cominciato
guardando a Burke come a una miniera inesauribile di saggezza politica,
aveva finito con il rivoltarsi contro il suo scetticismo. Egli pensava giu­
stamente che per Burke non solo la scienza politica fosse impossibile,
contrariamente alla scienza economica, ma che il suo scetticismo si unis­
se necessariamente a un conservatorismo estremo, a un certo modo di
piegarsi di fronte al successo, a cercare ciò clic doveva essere solo nell’e­
sistente, molto vicino al «die Weltgeschichtc ist das Weltgericht» hegelia­
no". Acton aveva colto i pericoli del conformismo burkiano e si era spa­
ventato di fronte al suo antirazionalismo, ma non si accorse che Burke
aveva inventato una nuova forma di conservatorismo, il conservatorismo
rivoluzionario.
Ecco perché bisogna ritornare ancora a Locke per comprendere
l’avversione di Burke per i diritti dell’uomo, per l’America del 1777 co­
me per la Francia del 1789. L’autore della Lettera sulla tolleranza appa­
re, insieme a Hobbes, come il fondatore di una teoria politica basata sul­
l’idea per cui, in politica, la felicità dell’individuo costituisce il solo cri­
terio sicuro e affidabile. Se Locke non è, come si dice spesso, l’invento­
re dell’individuo, il primo grande profeta della sua emancipazione, se
non è il primo ad annunciare una rivolta dell’individuo contro la reli­
gione (lo hanno preceduto Machiavelli e Hobbes), è il primo ad avere
costruito su queste basi un sistema politico coerente. La laicità di Locke
è il prodotto della sua psicologia, che respinge necessariamente dall’am­
bito politico non soltanto religione e tradizione ma tutta la lunga e

89. Citata in Leo Strauss, D iritto naturale e storia, p. 301.


90. Burke, Inchiesta su l Bello e il Sublim e, p. 148.
91. Seamus I'. Deane, «Lord Acton and Edmund Burke», Jo u rn al o f the H istory o f
Ideas, 33 (2), 1972, p. 329.

236
I
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

insomma misteriosa produzione del genio nazionale. A quel tesoro col­


lettivo accumulato col tempo Locke sostituisce l’utilitarismo, il semplice
benessere dell’individuo. Burke è il primo anti-Locke totale e rifiuta il
suo razionalismo, l’atomismo, l’ottimismo, la concezione del contratto e
ovviamente il primo postulato dell’Eijfly on Human Understanding, per
il quale ogni conoscenza è empirica. Con tutte le sue debolezze, la psi­
cologia di Locke della tabula rasa avrebbe svolto un ruolo capitale nello
sviluppo del pensiero moderno. Se infatti l’uomo viene al mondo pieno
di principi innati, di istinti inesorabili, di tradizioni a lui proprie per na­
scita, è evidente che sarà sempre solo ciò che i suoi avi hanno fatto di lui,
ne sarà il prolungamento e gli assomiglierà. Non potrà mai cambiare la
sua sorte e il mondo resterà quello che è stato, perlomeno nei suoi gran­
di principi. L’idea di progresso non poteva nascere in un mondo domi­
nato dalla teologia, fondamentalmente pessimista.
Invece per Locke l’individuo è modellato dal suo ambiente, dalle
condizioni della sua esistenza, dall’educazione che riceverà: il filosofo
della rivoluzione del 1689 donava così al mondo una teoria veramente ri­
voluzionaria. Basandosi su di lui, diventava possibile cambiare faccia al­
la società in una generazione. Il progresso, teoria nuova che prima non
avrebbe potuto esistere, alla fine del Settecento diventava un problema
pratico, uno scopo assunto come obiettivo reale dell’azione politica. L’i­
dea per la quale gli uomini sono per natura gli stessi in ogni tempo e in
ogni luogo diventa grazie a Locke un’idea largamente accettata, proprio
come quella che nello stato di natura, quale che sia il significato di «na­
tura», l’uomo è libero e uguale al suo prossimo92. Ai tempi della Glorio­
sa Rivoluzione individualismo e utilitarismo divengono i due pilastri del­
la campagna che gli Illuministi stavano per lanciare.
1 saggi di Locke stabiliscono il quadro concettuale del liberalismo in­
glese per due secoli, formulano i primi principi dell’individualismo e
quindi della democrazia moderna: in essi si trovano le linee essenziali del
potenziàle della democrazia liberale di oggi. L’autore deLSecondo tratta­
to comincia, come tutti i teorici della scuola giusnaturalista. con il mo-

92. Si veda Alfred Cobban, Edmund Burke, pp. 24-25. Cobban non trae le conclu­
sioni che si impongono dopo questa analisi: pensa che Burke prosegua la linea
di Locke approfondendola e ne sia in pratica un discepolo (pp. 74-75).

237
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

strare 1’uomo nello stato di natura: «Per ben comprendere che cosa sia
il potere politico e ricostruirne la genesi, occorre considerare quale sia lo
stato in cui tutti gli uomini per natura si trovano»” . Per come lo conce­
pisce Locke, «lo stato naturale è governato da una legge di natura che è
per tutti vincolante; e la ragione, che è poi quella legge stessa, insegna a
chiunque soltanto voglia interpellarla che, essendo tutti gli uomini egua­
li e indipendenti, nessuno deve ledere gli altri nella vita, nella salute, nel­
la libertà o negli averi»9394. In questo modo per gli uomini lo stato di na­
tura, governato dalla ragione, è «uno stato di perfetta libertà di regolare
le proprie azioni e disporre dei propri beni e persone come meglio cre­
dono, entro i limiti della legge naturale, senza chiedere l’altrui benestare
o obbedire alla volontà d ’altri». Quello di natura è anche «uno stato di
eguaglianza, in cui potere e autorità sono reciproci poiché nessuno ne ha
più degli altri»95. Ne deriva che i limiti della libertà é dell’eguaglianza so­
no fissati dalla ragione. Tuttavia lo stato di natura nel quale l’uomo è li­
bero, «pari al più grande fra tutti e a nessuno soggetto», sottomesso alla
legge della ragione, non presenta, «tutti essendo re alla stessa stregua di
lui, tutti essendo suoi pari», le garanzie di pace e sicurezza che possano
loro permettere di godere dei diritti naturali: «vi manca in primo luogo
una legge stabile, fissa e notoria, accettata per comune consenso», vi
manca «un giudice riconosciuto e imparziale» e «il potere, atto a soste­
nere e appoggiare la sentenza giusta»:96 da ciò l’origine della società.
Al centro di tutto il pensiero politico dopo Locke si trova una rifles­
sione sulle origini della società. La visione dello stato di natura crea i
principi su cui deve poggiare l’organizzazione sociale, stabilisce il posto
dell’individuo nella società e svolge un ruolo di primo piano nelle strut­
ture del potere utili a una società buona. Per l’importanza dell’argomen­
to, bisogna ancora volgersi al triangolo Locke-Herder-Burke. Seguendo
l’usanza vigente, anche Herder toma alle origini, ma si tratta di origini

93. John Locke, Trattato su l governo , a cura di Lia Formigari, Studio Tesi, Pordeno­
ne 1991, cap. II, 4, p. 5. L’edizione classica è The Second Treatise o f C ivil G o ­
vernment and A T etter Concerning Toleration , introduzione di J.W. Gough, Ba­
sil Blackwell, Oxford 1948.
94. Ibid., cap. II, 6, pp. 6-7.
95. Ibid., cap. II, 4, p. 5.
96. Ibid., cap. IX, 123-126, pp. 99-100.

238
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

agli antipodi di quelle della scuola giusnaturalista. Né in Herder ne in


Burke esiste uno stato di natura individualista che permetta di concepì
re la società come il prodotto artificiale della volontà liberamente espres
sa da uomini uniti da un contratto prima sociale e poi di governo. Per
Herder all’origine dell’umanità non si trova l’individuo ma una società
costituita, una società patriarcale e autoritaria che vive nel timore di Dio,
nella quale egli vede la società ideale. E per questo che Herder comincia
con una riabilitazione della Bibbia diretta in primo luogo contro Voltai
re, che ha presentato le tradizioni di alcuni popoli al di fuori del mondo
cristiano, i cinesi, i persiani, gli indù, come anteriori alla Bibbia9'.
Ancora una filosofia della storia comincia con uno sguardo pieno d’a­
more per l’epoca dei patriarchi, concepita come origine della specie:
Herder canta «la storia dei primi sviluppi dell’umana specie, quale ci vie­
ne narrata nel più antico fra i libri»9798. La culla dell’umanità è là. La sto­
ria raccontata dalla Bibbia ebraica apparirà corta e apocrifa solo a colo­
ro che rimangono prigionieri dello «spirito filosofico del secolo nostro,
che niente odia più del mirabile e dell’arcano»; ma «proprio per questo
invece in essa sta la verità»99.
In questo modo Herder vuole risalire alle origini per cogliere « l’u­
manità nelle sue prime inclinazioni, nei suoi primi costumi e istituti [...]
le eterne basi, per tutti i secoli, dell’educazione degli uomini: saggezza a
guisa di scienza»100. Questo testo è fondamentale perché è proprio per
«l’educazione dell’umanità» che Herder scrive Ancora una filosofia della
storia. Il pamphlet di Bùckeburg si presenta come alternativa radicale sia
al Secondo trattato di Locke che al Discours sur l’inégalité. Come Locke
e Rousseau, come Thomas Paine dopo di lui, Herder risale alle origini
per cercarvi la verità, per scoprirvi la natura dell’uomo e i criteri del suo
comportamento. Il metodo è lo stesso; solo che là dove Locke, Rousseau
e Kant scoprono i diritti dell’uomo, là dove vedono sorgere un essere ra­
zionale in grado di dominare il mondo, di plasmare la sua esistenza se­
condo i suoi bisogni e i suoi diritti naturali, un essere libero, Herder vede

97. Rouché, Introduction a Herder, U ne autre pbilosophie de l ’histoire, p. 12, cita


E ssa i sur le mceurs, capitoli I e III.
98. Herder, A ncora una filo sofia della storia , p. 5 (S. 478).
99. Ibid., pp. 5-6 (S. 478).
100. Ibid., pp. 6-7 (S, 479).

239
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

l’onnipotenza del Creatore. L’uomo è fatto per seguire l’insegnamento


consacrato nei libri sacri, che gli raccontano la creazione e gli tracciano
la via, ed è fatto per seguire le regole della morale tradizionale.
E per contrapporsi ai «frammenti della storia profana, ragionandoci
sopra fuggevolmente à la Voltaire», che 1lerder si appella «a quegli inizi
eroici della formazione deH’umanità»; con «un fremito di gioia io mi tro­
vo laggiù», dice, «davanti a un sacro cedro, patriarca del mondo!», que­
sto uomo «pieno di forza e senso di Dio», armato di tutta la forza con
cui «lo stesso suo umano e naturale stimolo può agire in lui in modo tan­
to sano e sereno»101. Ecco dove risiede l’ideale: «la vita tranquilla e in­
sieme errabonda, la paterna capanna dei Patriarchi», una famiglia dove
la donna è «creata per lui», di discendenti fino alla terza e quarta gene­
razione diretti dal padre di famiglia, «che tutti egli guidava sulle vie del­
la religione, del diritto, dell’ordine e della felicità». Quel «mondo pa­
triarcale» rimarrà «l’età d’oro dell’umanità fanciulla»102103.Adesso, «per un
inganno di prospettiva dell’età nostra», cioè per l’abitudine di guardare
tutto «fondandoci sulla nostra propria situazione», di giudicare tutto
«secondo i nostri concetti (e forse i nostri sentimenti) di europei», met­
tendo tutto nel «nostro disseccato linguaggio politico», quel regime vie­
ne definito in termini di dispotismo. In effetti, anche se è vero che sotto
la tenda del patriarca il timore può essere stato la molla di quel regime,
non bisogna lasciarsi «trarre in inganno dalle parole dei filosofi di pro­
fessione»: qui si tratta, come riporta una nota a fondo pagina, di Monte­
squieu e delle «torme dei seguaci» dell’autore ¿eWEsprit des Loisim.
Un’altra nota chiama in causa Boulanger, autore del Despotisme orientai,
Voltaire, Helvétius, «ecc.»: il numero degli animi malvagi che pensano
che l’autoritarismo possa avere una definizione universale che non sia in
funzione di tempo, di luogo e di condizioni specifiche, è troppo alto per­
ché tutti possano essere citati. A tutti coloro che partecipano dello spiri­
to del secolo, Herder lancia una superba sfida: non si impara nulla «dal­
la secca e fredda ragione»104. In questo periodo dell’infanzia dell’uma-

101. Ibid., pp. 7-8 (SS. 479-480).


102. Ibid., pp. 8-9 (S. 481).
103. ibid.,pp. 9-10 (S. 482).
104. Ibid., p. 10 (S. 482).

240
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

nità, come nel periodo dell’infanzia di ogni essere umano, in cui con la
socializzazione «ci diamo ai pregiudizi e alle impressioni che in noi lascia
l’educazione», il dispotismo, contrariamente a ciò che pensa «la fredda
filosofia» del XVIII secolo, per parlare con precisione è solo una «p a­
terna autorità di dirigere famiglia e lavoro»105.
Come i teorici del potere monarchico dei secoli XVI e XVII, Herder
assimila il potere politico al potere paterno. Locke aveva dedicato tutto
il suo Primo Trattato a combattere Filmer, il teorico del potere monar­
chico illimitato, che aveva fatto di questa idea la base del suo sistema. Lo
stesso era avvenuto in Francia nel XVI secolo. L’idea secondo la quale la
società non è paragonabile alla famiglia, o alla tribù, famiglia allargata, e
che il potere del padre di famiglia non permette in alcun modo di de­
durre alcunché sulla natura del potere pubblico, è un punto chiave per
la nascita della modernità razionalista e del liberalismo. Per i fondatori
del liberalismo, esiste una differenza essenziale tra la società civile, fon­
data su un contratto tra individui liberi, e la famiglia o la tribù: Herder
sopprime questa distinzione e vede nei legami di sangue il fondamento
della società. Nei primi anni Settanta del Settecento, dopo Locke e Mon­
tesquieu, con Voltaire e Rousseau ancora in vita, il ristabilimento dell’i­
dentità tra i due tipi di comunità, che sembrava essere stata spazzata via
dalla scuola giusnaturalista come dai primi abbozzi del costituzionali­
smo, appariva come appartenente a un altro mondo. Ma nei fatti si trat­
ta già di un atteggiamento che introduce nuovi criteri di organizzazione
sociale e pone le basi di un’altra modernità: Kant lo aveva capito e con­
siderava il pensiero herderiano abbastanza pericoloso da meritare la sua
critica. In effetti Herder spazzava via i progressi compiuti dalla scuola
giusnaturalista nel processo di emancipazione dell’individuo e creava co­
sì la più formidabile macchina da guerra lanciata contro il liberalismo.
La pagina 11 (595-596 dell’edizione Pross) di Ancora una filosofia
della storia costituisce una sorta di microcosmo dell’intera argomenta­
zione herderiana, tutta intessuta di contraddizioni, come si sviluppa non
solo nel lavoro del 1774 ma, in un certo senso, anche nelle Idee. L’intero
genere umano nella sua infanzia, così come ogni individuo in tutti i tem­
pi, aveva bisogno dell’autorità paterna: ciò era utile, buono e necessario.

105. Ibid., pp. 10-11 (SS. 482-483).

241
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

Ma Herder va oltre e nei fatti trasforma questo tanto ammirato periodo


di infanzia in modello per tutti gli uomini in tutti i tempi. In questo mo­
do, contrariamente al progetto da lui concepito, enuncia principi di cui
fa dei principi universali. Il tempo dei patriarchi diventa così un criterio
di comportamento per le generazioni a venire, che dovevano vedere «co­
me tutto il bene e tutto il giusto o almeno tutto quanto si stimava tale si
venisse allora fissando stabilmente in forme non dimostrate e proprio
per questo eterne [...] in un fulgore di divinità e di amor paterno [...].
Come era necessario [...] che fossero poste queste pietre fondamentali,
che non potevano esserlo in altra maniera [...]; i secoli hanno costrutto
là sopra [...], là stanno, e tutto felicemente su di esse riposa»106. Ecco
dunque come una data società in un’epoca specifica, in lampante con­
traddizione con l’idea dello stesso valore di tutte le epoche, diviene un
modello per l’intera umanità.
Anche quando attacca Boulanger, Herder non può non riconoscere
il fatto che questo «Oriente, terra prescelta da Dio [...], la tenera sensi­
bilità di queste contrade, la loro rapida e sciolta fantasia che tanto vo­
lentieri tutto riveste di splendore divino», hanno perlomeno finito con il
produrre un dispotismo il cui effetto, «come dirà il filosofo, il più terri­
bile fra tutti», è «quello di rendere impossibile a un vero orientale l’idea
stessa di un governo umano e migliore». Ma allo stesso tempo Herder si
dedica a mostrare come, «all’origine, sotto il tenero governo paterno
[...], lo spirito umano ebbe le prime forme della saggezza e della virtù
con una semplicità, una forza, un’elevatezza che ora [...] non ha uguale,
nulla di uguale nel nostro filosofico e freddo mondo europeo»107. La so­
cietà patriarcale presuppone la religione, l'elemento in cui tutto ciò è im­
merso, e il padre, come il re, era il rappresentante di Dio: bisognerebbe
allora concludere, «fondandoci tanto fermamente sullo spirito e sul cuo­
re del nostro tempo» - qui una nota a fondo pagina rimanda ancora a
Voltaire, a Helvétius e a Boulanger - che tutto questo è stato necessaria­
mente inventato da impostori e furfanti?108 Nel «nostro continente filo­
sofico, nella nostra culta età», il sentimento religioso è divenuto un sen-

106. Ibid., p. 11 (S. 483).


107. Ibid., pp. 11-12 (S. 484).
108. Ibid., p. 13 (S. 485).
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

timento vergognoso, anzi «io credo, purtroppo, che il secol nostro ne sia
del tutto incapace», ma la filosofia e la forma di governo più antiche non
potevano che, «all’origine, in tutti i paesi, essere teologia»109.
Bisogna leggere questi testi da vicino. Contrariamente a quanto si
pensa di solito, qui non si tratta di una lezione di metodo o di plurali
smo; Herder non constata soltanto dei fatti per spiegarli attraverso le ne­
cessità dei tempi e delle condizioni specifiche che vi prevalevano. La cri­
tica rivolta a Voltaire come a tutti gli altri philosophes illuminati presi in
blocco è di giudicare un altro mondo con i criteri del loro tempo e di
non guardarlo dall’interno. Nei fatti questa esigenza significa che si de­
ve abbandonare completamente la possibilità di dare un qualunque giu­
dizio di valore, ma questa esigenza rimane solo teorica. Lo stesso Herder
non si piega alle regole di un metodo impossibile, dà giudizi di valore
molto duri e fissa una chiara gerarchia di valori, in primo luogo per quel
che riguarda il suo tempo e poi quando cerca nei fatti di introdurre nel
cuore del Settecento norme che ritiene universali. La sola differenza tra
Herder e Voltaire è che il secondo considera nefasti valori che il primo
valuta come ideali per il genere umano. La religione costituisce un buon
esempio: Herder non ci dice che era buona per l’epoca dei patriarchi ma
che possiede un valore eterno. Il suo più grande rammarico è che il suo
secolo sia entrato in un periodo di decadenza che non gli permette più
di sentire la grandezza del sentimento religioso.
Qui sta la differenza fondamentale tra Herder e Locke e tutti gli al­
tri teorici della scuola giusnaturalista. Secondo loro gli uomini fondano
la società al fine di preservare la loro vita, le loro libertà e i loro beni: que­
sto è il fondamento della legittimità politica e delle strutture del potere.
La società e lo Stato sono dunque il prodotto di una decisione volonta­
ria e mirano a un solo obiettivo: fornire agli uomini i mezzi per preser­
vare i loro diritti naturali. «Il grande fine in vista del quale gli uomini
entrano in società è di godere dei loro beni in pace e sicurezza». A que­
sto scopo, per «la prima e fondamentale legge positiva di tutti gli Sta­
ti», essi si danno un «potere legislativo»: nessuna legge può aspirare al­
la legittimità se non sanzionata da quel «legislativo». Senza questo, «la
legge non può possedere ciò che è assolutamente necessario perché sia

109. Ibid.

243
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

appunto una legge, cioè il consenso della società110 [...] La legge infatti,
nella sua propria definizione, non è tanto la limitazione quanto la guida di
un agente libero e intelligente al suo proprio interesse». E più avanti: «il
fine della legge non è di precludere o reprimere la libertà, ma di conser­
varla e ampliarla». Oppure: «Libertà significa infatti essere esenti dall’al­
trui oppressione e violenza, ciò che non può darsi ove non vi sia legge»111.
Il Secondo Trattato stabilisce chiaramente il principio di utilità, for­
mula quello della responsabilità dei governanti e pone le basi del siste­
ma maggioritario112. Il paragrafo 97 pone i fondamenti della democrazia:
«Così ogni uomo, consentendo con gli altri alla costituzione di un sol
corpo politico soggetto a un solo regime, si sottomette all’obbligo, pro­
prio di ciascun membro di quella società, di sottostare alle decisioni del­
la maggioranza e farsene determinare»11'. Il liberalismo di Locke fonda
il diritto degli uomini a governare se stessi, a cambiare sistema di gover­
no in funzione dei loro bisogni e del funzionamento del sistema in vigo­
re. Il criterio assoluto rimane lo stesso: manifestava insomma un poten­
ziale democratico che gli americani non avranno difficoltà a sviluppare e
a tradurre in termini concreti. In Francia e in altre parti d’Europa YEncy-
clopédie, quella «macchina da guerra» del pensiero illuminista, volgariz­
za l’opera di Locke. «Nessun uomo ha ricevuto dalla natura il diritto di
comandare agli altri. La libertà è un dono del cielo, e ogni individuo del­
la stessa specie ha diritto di goderne non appena ha l’uso della ragione»,
afferma Diderot11415.In questo secolo «che si crede destinato a mutare le
leggi in ogni campo»,“ ’ «il principe riceve dai suoi stessi sudditi Yauto­
rità che ha su di loro; e tale autorità è limitata dalle leggi della natura e
dello stato. Le leggi della natura e dello stato sono le condizioni alle quali

110. Locke, Trattato sul governo, cap. XI, 134, pp. 106.
111. Ibid., cap. VI, 57, p. 46.
112. Ibid., capp. X-XV, 132-174, pp. 104-140, nelle quali Locke presenta in modo
assai particolareggiato le strutture del potere.
113. Ibid., cap. V ili, 97, p. 78.
114. Enciclopedia o dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri (1751-
1772), a cura di Alain Pons, trad. di Elena Vaccari Spagnol, Aldo Devizzi e
Guido Neri, 2 voli., Feltrinelli, Milano 1966, p.124, articolo «Autorità politi­
ca», p. 124.
115. Ibid., p. 40, «Discorso preliminare».

244
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

i sudditi si sono sottomessi, o si considera si siano sottomessi, al govcr


no del principe»116. Ne consegue che quando le condizioni del patto non
sono più rispettate, «la nazione torna a godere del diritto di stipularne
un altro con chi e nei termini che più le piacciono»117. Questi articoli di
fede sono ripresi in America come lo saranno quasi alla lettera da Ri­
chard Price a Londra nel sermone che sarà oggetto della polemica di
Burke e la diretta occasione per la pubblicazione delle Riflessioni, cosi
come da Thomas Paine nella sua risposta al pamphlet di Burke. Essi
esprimono lo spirito del tempo.
Per questo motivo, negli ultimi mesi del 1789, quando compone le
Riflessioni, Burke si volge subito a ciò che è più urgente: dà così inizio
alla sua battaglia d’Inghilterra118. Per lui si tratta prima di tutto di conte­
nere la rivoluzione dei diritti dell’uomo in modo tale che essa non possa
penetrare nelle isole Britanniche. Bisogna perciò trasformare la creazio­
ne del nuovo regime in Francia in un evento unico nel suo genere, un
evento contro natura, del tutto mostruoso. Cosa più urgente, bisogna di­
sinnescare qualsiasi possibilità di raffronto tra la Gloriosa Rivoluzione e
quella che in Francia ha appena messo fine all 'Ancien Regime. Allo stes­
so tempo bisogna far dimenticare quell’altra rivoluzione che si è appena
compiuta sul lato opposto dell’Atlantico e pretendere che gli eventi fran­
cesi siano causati solo da un malinteso. La prima parte delle Riflessioni
ha questo scopo. Per cui l’importante qui non è solo ciò che Burke dice
al lettore inglese ma anche quello che gli nasconde.
In effetti il lettore che avesse le Riflessioni come unica fonte di infor­
mazione non potrebbe sapere che nel momento in cui a Parigi il vecchio
mondo sprofonda, i coloni non soltanto si sono dati una nuova identità,
ma hanno gettato le basi di una nuova nazione, di una nuova società e di
un nuovo Stato. Gli «inglesi d’America», ex sudditi di un monarca ere­
ditario, sono diventati cittadini degli Stati Uniti e, dopo essersi dati una
Dichiarazione d’indipendenza, hanno eletto un Congresso e un presi­
dente. Quel lettore non saprebbe che la Dichiarazione d’indipendenza,

116. lbid., p. 125, articolo «Autorità politica».


117. lbid., p. 126, articolo «Autorità politica».
118. Burke, «Riflessioni sulla Rivoluzione francese», in Scritti politici, p. 161:
«Quando la casa del vicino va a fuoco, non è male le pompe lavorino un poco
anche sulla nostra».

245
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

come tutte le altre dichiarazioni di diritti e Costituzioni prodotte dai di­


versi Stati dell’unione, era fondata sui principi dei diritti naturali e co­
stituiva una messa in pratica del pensiero di Locke. Non potrebbe sape­
re che si era prodotta una cesura e che degli uomini che hanno comin­
ciato lottando per le loro libertà inglesi avevano finito per combattere
semplicemente per la libertà. Se Burke fosse stato quel liberale di cui si
è tanto parlato, specialmente nel corso degli ultimi anni del Novecento,
avrebbe menzionato i principi ai quali si richiamavano i fondatori degli
Stati Uniti e che costituirono l’armatura ideologica delle ultime fasi del­
la loro rivolta contro la madrepatria. Se Burke fosse stato davvero un
wbig avanzato, avrebbe probabilmente fatto il nome di John Locke e,
dopo di lui, quello di «Publius», pseudonimo collettivo dei tre autori del
Federalista. L’assenza totale dell’autore dei due Trattati sul governo, al
quale gli insorti americani continuavano a fare riferimento, così come a
Montesquieu, rappresenta il nesso logico con la sua interpretazione de­
gli eventi accaduti in Inghilterra cento anni prima.
Infatti nessuno capiva meglio di Burke la parentela che univa Locke
ai padri fondatori degli Stati Uniti. Voltaire diceva di Locke che «mai
forse è esistito uno spirito più saggio, più metodico»;“9 D ’Alembert lo
poneva allo stesso livello di Bacon, Descartes e Newton11920. Burke ha ri­
fiutato Locke la cui eredità, ben lo sapeva, era stata raccolta da Thomas
Paine e dagli autori del Federalista, da Price e dai membri della Società
della rivoluzione di Londra, dai parlamentari whigs di Charles Fox e in­
fine dagli autori della Dichiarazione francese dei diritti dell’uomo e del­
la Costituzione del 1791. Lo stesso avviene con Montesquieu. Nelle Ri­
flessioni Burke cita l’autore dell 'Esprit des I.ois una sola volta, per ricor­
dare che «nelle loro classificazioni dei cittadini i grandi legislatori del­
l’antichità diedero massima prova delle loro capacità»121. Montesquieu è
citato una seconda volta nel Ricorso dai nuovi agli antichi Whigs dell’a­
gosto 1791, e questa volta si tratta sì di «un genio [...] dotato [...] di una
robustezza di mente erculea», ma questo uomo assai «dotato dalla natu­
ra» è mobilitato solo per dichiarare, sotto il suo nome, che la Costitu-

119. Voltaire, Lettere inglesi, p. 68.


120. Enciclopedia o dizionario ragionato, p. 55, «Discorso preliminare».
121. Burke, «Riflessioni sulla Rivoluzione francese», in Scritti politici, p. 371.

246
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

zione inglese è degna «dell’ammirazione del genere umano» e non per


tenere conto dell’insieme dei suoi insegnamenti, come era avvenuto in
America122. Il razionalismo di Montesquieu, la sua analisi sociologica, le
sue idee sull’equilibrio dei poteri ripugnavano a Burke, così come non
poteva perdonare a Locke che il suo sistema non avesse bisogno di una
monarchia ereditaria.
Divenuto nel 1771 agente parlamentare per la colonia di New Ydrk,
Burke, avverso a tutte le «distinzioni metafisiche» di ogni genere («/ baie
thè very sound of them»), nell’aprile 1774 rifiuta di entrare in una qual­
siasi discussione sulla questione dei diritti degli americani: chiede Fan
nullamento puro e semplice del sistema di tassazione imposto ai coloni,
annullamento senza il quale essi avrebbero finito per obiettare all’idea
stessa della sovranità inglese sull’America123. Un anno dopo, il 22 marzo
1775, pronuncia il suo secondo grande discorso sulle colonie, nel quale
vanta l’amore per la libertà di quei discendenti di inglesi che vivevano in
America. La libertà che essi amano, come i loro antenati che in tempi re­
moti avevano anch’essi combattuto per la libertà essenzialmente sulla
questione delle imposte, è la libertà «secondo idee e princìpi inglesi. La
libertà in astratto, come tante altre astrazioni, non esiste»124.

122. Burke, «Ricorso dai nuovi agli antichi Whigs», ibtd., p. 576.
123. Burke, «Speech on American Taxation», The Works of thè Righi Honourablc
Edmund Burke, London, Henry G. Bohn, 1854, voi. I, p. 432. Questo brano fi
gura nell’edizione di Oxford, voi. II, pp. 406-463.
124. Burke, «Speech on Moving Resolutions for Conciliation with thè Colonies»,
ihid., voi. I, p. 464. [«Discorso di Edmund Burke nel presentare la sua mozio
ne di riconciliazione con le colonie, 22 marzo 1785», in Scritti politici, p. 88],
Questo famoso discorso è più noto con il titolo «Speech on Conciliation with
America» e così figura nel volume III dell’edizione di Oxford, pp. 102-169. In
questo contesto è utile dare una prima occhiata al vero significato di tale con
cezione della libertà concreta e non astratta apprezzata da Burke. Egli dice che
sono i coloni del Sud, quelli della Virginia e delle due Caroline, ad avere mag
giore attaccamento alla libertà. Senza dubbio tutti i coloni amano lo spirito di
libertà, basato sul protestantesimo. «Sempre un principio di energia», la reli
gione è una «delle cause principali del loro spirito di libertà»: «ogni forma di
Protestantesimo, anche la più fredda e passiva, è una forma di dissenso», ma il
protestantesimo che prevale nelle colonie del Nord è una dissidenza della dis
sidenza. Ciò spiega Tattaccamento dei coloni alla libertà. Tuttavia è nel Sud che
questo spirito è «ancora più pronunciato e orgoglioso»: proprietari di schiavi.

247
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

Il suo ultimo intervento sulle colonie risale al 3 aprile 1777, quando,


con la sospensione parziale delYhaheas corpus nel regno all’inizio del­
l’anno, la questione d’America era divenuta di primaria importanza125.
Burke temeva che il conflitto americano indebolisse il paese sulla scena
internazionale e costituisse «un fardello oppressivo per le finanze della
nazione». Ma ancora di più temeva che si creassero condizioni per cui
«tali eserciti, una volta vincitori di popolazioni inglesi in un conflitto
combattuto tuttavia in nome dei privilegi e dei diritti costituzionali in­
glesi, e usi dopo a mantenere in stato di abietta soggezione un popolo in­
glese -sia pure in America- si sarebbero infine dimostrati fatali alle li­
bertà dell’Inghilterra medesima»126. Ecco perché Burke raccomandava
prima di tutto la cautela: nella sua Letter to thè Sheriffs of Bristol pone­
va l’accento sulle misure pratiche che avrebbero potuto mettere fine al
conflitto. Quando sono davvero felici, gli uomini «non si interessano ec­
cessivamente alle teorie, quali che siano»:127 politico molto migliore di
Giorgio III, egli capiva che, per disinnescare e neutralizzare la bomba
americana, bisognava sradicare le cause immediate del malcontento di

avendo a che fare quotidianamente con la servitù, sono, come dappertutto nel
mondo, «orgogliosissimi e gelosi della propria libertà. La libertà è per loro non
solo un piacere, ma una distinzione e un privilegio». Burke non intende dare
un giudizio di valore sulla realtà sudista, non arriverà a «raccomandare la su­
periorità morale di questo sentimento, che racchiude in sé un orgoglio almeno
pari alla virtù. Ma non posso alterare la natura dell’uomo»: è un fatto che l’at­
taccamento alla libertà nel Sud sia piti profondo che nel Nord. «Tali furono
tutti gli antichi Stati, tali furono i nostri antenati gotici, tali furono i polacchi
della nostra era, e tali saranno tutti i padroni di schiavi che non siano schiavi
essi stessi.» In questo modo la schiavitù sviluppa e rinforza lo spirito di libertà:
in altri termini, Burke non vede alcun male nel fondare la libertà degli uni sul­
l’assenza di libertà, cioè la schiavitù degli altri. La libertà è un modo di mante­
nere il proprio rango, è l’appannaggio naturale di una minoranza. Questo prin­
cipio spiega le posizioni di Burke per quanto riguarda i progetti di riforma elet­
torale del 1782 in Inghilterra, così come la sua difesa del principio di rappre­
sentazione virtuale e la sua opposizione ai primi cambiamenti di ordine costi­
tuzionale avvenuti in Francia nel maggio 1789 (pp. 89-91).
125. Burke, «A letter to ... Sheriffs of thè city of Bristol, on thè Affairs of America»,
ibid., voi. II, pp. 2-10. Questo brano si trova nel voi. Ili dei Writings and
Speeches dell’edizione di Oxford, pp. 288-320.
126. Burke, «Ricorso dai nuovi agli antichi Whigs», in Scritti politici, p. 482.

248
J
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

quei sudditi della Corona che vivevano in America. Questa era la sua po­
sizione sin dall’inizio del conflitto. C ’era poco tempo: solo ponendo ra­
pidamente e nettamente fine al conflitto, soddisfacendo i ribelli e impe­
dendo loro di spingersi oltre nella catastrofica via della novità, si sareb­
be giunti a soffocare l’esperienza americana sul nascere. Bloccare lo
scontro diventava dunque una priorità assoluta perché, man mano che il
conflitto si sviluppava, i coloni cominciavano a dar corso a una nuova
ideologia: smettevano progressivamente di rivendicare i loro privilegi
storici per fare appello alla ragione e combattere per il diritto degli indi­
vidui a creare volontariamente una nuova società e nuove strutture di
potere. La dissoluzione dei legami che univano le Tredici colonie non so­
lo al governo della Gran Bretagna ma anche al suo popolo apriva un pro­
cesso di rifondazione della società e dello Stato. Con un po’ di immagi­
nazione si poteva concepire la situazione creatasi in America in termini
di uscita dallo stato di natura simile a quello descritto da Locke: gli ame­
ricani si costituivano in nuovo corpo politico. Realizzavano il primo si­
stema democratico moderno in un paese immenso, eleggevano i loro
rappresentanti alle due camere del Congresso, un presidente e un gran
numero di autorità, dai giudici di pace fino ai governatori degli Stati. Gli
americani avevano scritto una Costituzione e i diritti dell’uomo erano di­
ventati la base di una nuova organizzazione sociale e politica. Del resto,
la loro interpretazione della Costituzione inglese era quella dei whigs più
avanzati, adattata ai bisogni delle colonie, cioè un’interpretazione lockia-
na delle libertà inglesi.
Appare dunque logico che, quando gli «inglesi d’America» diventa­
no cittadini degli Stati Uniti, dopo avere rinforzato le loro rivendicazio­
ni con un appello ai principi dei diritti dell’uomo per farne le basi della
loro indipendenza, essi cessano di interessarlo. Tra il 1777 e il 1791
Burke si comporta come se l’America fosse stata inghiottita dall’oceano.
Per preservare l’unità dell’impero e garantire gli interessi commerciali
inglesi, ma anche per difendere le tradizionali libertà inglesi, Burke ave­
va lottato per quei sudditi in rivolta contro l’arbitrio regale. Inoltre, te­
nendo testa al re sul classico terreno della tassazione, i coloni fornivano
una forza non trascurabile ai whigs del Parlamento di Londra; ma, con­
trariamente a un altro mito duro a morire, Burke non ha mai sostenuto
la rivoluzione americana. Il carattere artificiale e volontario della società
fortemente affermato dagli americani gli ripugnava profondamente.

249
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

Nessuno odiava più di lui il « We thè people» americano. Allo stesso mo­
do la sua lotta per i diritti delle popolazioni delle Indie esposte agli abu­
si dell’amministrazione del governatore Hastings era una difesa non tan­
to dei diritti degli individui ma dei diritti di una comunità organizzata,
delle sue élite e delle sue tradizioni, quindi della sua «costituzione»127128.
Per questo motivo in lui non si trova nessuna eco della celebre cam­
pagna elettorale che si concluse nell’adozione della Costituzione degli
Stati Uniti: egli esecrava tanto questa prima grande manifestazione della
democrazia moderna quanto il sistema rappresentativo che ne è scaturi­
to. Preferiva non parlarne affatto piuttosto che riconoscere, anche attra­
verso una confutazione, non solo che un movimento rivoluzionario ave­
va preso corpo, ma che si era anche realizzato. Il Federalista, di cui
Burke non poteva ignorare il contenuto, attento com’era all’evoluzione
della situazione in America, per lui sembra non essere mai esistito. La
Costituzione americana poteva non essere davvero democratica, e per
molti aspetti non lo è129, il liberalismo di Hamilton, Madison e Jay pote­
va anche essere rivestito da una spessa coltre di conservatorismo, ma per
Burke era comunque troppo. I diritti inalienabili invocati dagli america­
ni, il loro carattere universale (tranne che per i neri), il principio della so­
vranità del popolo, l’idea del contratto sociale come unica fonte di legit-

127. Randall B. Ripley, «Adams, Burke and 18th century conservatism», Politicai
Science Q uarterly , voi. 80, II, 1965, p. 220, cita Burke, «Letter to thè Sheriffs
of Bristol», in F.G. Selby (a cura di), B u rk e’s Speeches, London, 1917, p. 169.
128. Il processo Hastings, governatore dell’India dal 1773 al 1785, durò fino al
1795. Hastings fu assolto. Burke, che preparava qu é\Yimpeachment dal 1784,
vi attribuiva un’importanza straordinaria. Pronunciò il discorso di apertura
che durò quattro giorni (15, 16, 18 e 19 febbraio 1788) e fu considerato come
una delle più grandi prestazioni oratorie del suo tempo. Questo testo è stam­
pato nel volume VI dei W ritings a n d Speeches (edizione di Oxford), pp. 269-
459. Si veda anche l’Introduzione al volume VII. In questo lavoro non è pos­
sibile analizzare i testi dei volumi V-Vll, i quali tutto sommato, per ciò che qui
ci interessa, tornano sempre agli stessi grandi principi: rispetto delle tradizio­
ni, della storia e delle culture locali, pericolo delle rivoluzioni, rispetto dei va­
lori cristiani che per Burke hanno un posto paragonabile a quello che hanno
per Herder.
129. Si veda la recente opera del decano dei politologi americani, Robert A. Dahl,
H ow D em ocratic is thè A m erican C onstitution ? , Yale University Press, New
Haven 2001.

250
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

timità, il sistema elettorale creato e la natura contrattualistica del govci


no, la filosofia del repubblicanesimo, il richiamo costante a Locke, sono
per lui insopportabili. L’idea di sovranità del popolo, seppure limitata
dai termini del contratto, dalla Dichiarazione dei diritti e dalla Costitu­
zione, si basa sul contratto che crea la società. E nata una nuova nazio­
ne e si è messo fine alla continuità storica. Per Burke l’America è defini­
tivamente perduta.
In effetti l’ideologia americana che si era costituita nel corso del Set­
tecento era, secondo la definizione di Thomas Jefferson, il prodotto di
una sintesi «dei principi più liberi della Costituzione inglese e di altri
principi derivati dal diritto naturale e dalla ragione naturale»: alla vigilia
dell’indipendenza questa sintesi aveva finito per basarsi unicamente sui
diritti naturali e sulla ragione130. L’idea secondo cui la libertà è naturale
per gli uomini si trova nella Costituzione della Virginia, che è un classico
esempio di dichiarazione dei diritti. Quasi tutti gli Stati avevano formu­
lato, come la Costituzione del Massachusetts del 1780, il principio per il
quale lo scopo di ogni istituzione politica era «la protezione dei diritti na­
turali»; ovunque il corpo politico era formato da «un’associazione volon­
taria di individui» per mezzo di un «contratto sociale»131. In America le
leggi naturali, tanto discusse dalla metà del Seicento, diventavano le leg­
gi della società civile. Anche in Inghilterra William Blackstone, nei suoi
famosi Commentaries on thè Laws of England, pubblicati tra il 1765 e il
1769, spiegava gli scopi di ogni società in termini non molto diversi da
quelli dei fondatori degli Stati Uniti, per il semplice motivo che si tratta­
va proprio dei grandi principi del liberalismo di Locke, largamente ac­
cettati. Era normale che Burke disapprovasse espressamente Blackstone.

130. Yehoshua Arieli, Individualism and Nationalism in American Ideology, Harvard


University Press, Cambridge, Mass., 1964. p. 50.
131. Ibid., pp. 84 e 87. Come la dichiarazione dei diritti della Virginia potesse tolle­
rare la schiavitù, come Thomas Jefferson, proprietario di schiavi nella sua bel­
la proprietà di Monticello, è come George Washington, proprietario di una
piantagione nel nord dello Stato, oggi periferia della capitale federale, non ne
percepissero l’insostenibilità è un’altra questione che investe l’intera cultura
sudista. Ma, per quanto ci interessa qui, basti notare che invece la Rivoluzione
francese ha liberato i suoi schiavi, proprio come ha liberato gli ebrei. Eccetto
questa carenza enorme da parte degli americani, i principi dei diritti dell’uomo
erano inscritti nella legge e nelle strutture del governo degli Stati Uniti.

251
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

Burke comprendeva più di chiunque altro la forza dissolutrice del­


l’ordine esistente insita nella filosofia dei diritti naturali: in America si era
prodotto un processo di atomizzazione. Dava il giusto valore all’osserva­
zione di Thomas Paine e ne coglieva le implicazioni: «L’indipendenza
americana, considerata come una semplice separazione dall’Inghilterra,
sarebbe stata cosa di ben poca importanza se non fosse stata accompa­
gnata da una rivoluzione nei princìpi e nella pratica dei governi»152. Ave­
va identificato in America le manifestazioni del pensiero illuminato ma,
negli anni Settanta del Settecento, aveva sperato che il male sarebbe sta­
to soffocato o perlomeno circoscritto e limitato al Nuovo Mondo.
Questa seconda rivoluzione liberale assumeva le dimensioni di una
vera violazione della storia, cioè della natura: Burke temeva che l’esem­
pio si diffondesse a macchia d’olio, tanto più che i coloni stavano dimo­
strando che quelle esecrabili innovazioni potevano avere notevole suc­
cesso. Fino alla fine degli anni Ottanta del Settecento egli sperava anco­
ra che, insediati sulle «lontane spiagge dell’Atlantico»1” come erano, i
coloni non avrebbero costituito un pericolo immediato. Però, grazie al­
la rivoluzione avvenuta in Francia, comprese che un simile disastro po­
teva inghiottire l’Inghilterra. Per questo motivo, quando in Francia
scoppia la rivoluzione, Burke torna all’America per affermare che «fino­
ra non si sono avuti esempi di democrazie considerevolmente grandi»154.
Non vi è dubbio che il ricordo dell’anno 1776 gravava con tutto il suo
peso sul 1789. Burke temeva la democrazia e la disprezzava, vedeva nel
suo avvento la fine della civiltà: si rifiutava di vederla anche quando la
credeva relegata all’altro capo del mondo.
Per questo l’autore delle Riflessioni ha ragione quando, al culmine del­
la sua crociata ideologica, parlando in terza persona, nel suo Ricorso dai
nuovi agli antichi Whigs, afferma di non avere mai mutato opinione. «Sul­
la guerra americana egli non ha mai avuto opinioni che gli sia poi parso
giusto ritrattare o che abbia mai ritrattate. Egli, certo, differisce sostan­
zialmente da Mr. Fox per quanto concerne le cause di quella guerra. Mr.
Fox si è compiaciuto di dire che gli americani si ribellarono “perché pen-1324

132. Thomas Paine, I diritti dell’uomo, p. 231. Cfr. anche p. 238.


133. Burke, «Deuxième lettre sur la paix régicide», in Burke, Reflexions, p. 602.
134. Burke, «Riflessioni sulla Rivoluzione francese», in Scritti politici, p. 301.

252
i
S V

La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

savano di non aver goduto di abbastanza libertà”. [...] M. Burke non ha


mai creduto a tutto questo. Quando egli presentò al Parlamento la sua se
conda proposta di conciliazione, nel 1776, egli discusse ampiamente quc
sto punto e sulla base di nove diverse assunzioni si sforzò di provali'
l’infondatezza dell’accusa rivolta a quel popolo.»1” Burke giustamente ri
corda che nel 1776 egli era persuaso che i coloni avessero preso le armi per
«un solo motivo: il nostro tentativo di tassarli senza il loro consenso»: per
dirla tutta «egli continuò a essere convinto che con quella ribellione gli
americani intendevano soltanto difendersi1’6». Secondo lui gli americani si
trovavano nella situazione dell’Inghilterra nel 1688, quando «un monarca
legittimo [...] cercava di usurpare un potere arbitrario»1’7. Era altrettanto
convinto che l’unica via intelligente da seguire per la Gran Bretagna fosse
la revoca «del suo bill delle tasse», non solo per non aggravare la situazio­
ne in America ma anche per non mettere in pericolo la stessa Inghilterra.
Ecco perché, in piena Rivoluzione francese, nel momento in cui una
nuova rivoluzione spezza l’ordine costituito, sapendo che si era creato
un malinteso da parte dei suoi vecchi amici whigs, accetta di ritornare
sulle sue linee difensive: se avesse pensato «che gli americani si fossero
ribellati unicamente per accrescere la loro libertà, M. Burke avrebbe giu­
dicato in modo diverso la causa americana»1’8. In effetti nel 1777 aveva
violentemente attaccato il ragionamento di coloro che intendevano
«sviare i nostri spiriti dal senso normale della nostra politica americana»
e discutere sulla libertà politica come se si trattasse di una libertà meta­
fisica. Tutte quelle persone dibattevano la «questione se la libertà fosse
un’idea positiva o negativa» senza porsi in primo luogo il problema di
cercare di sapere se l’uomo possedesse qualche diritto naturale e se l’in­
dividuo non fosse debitore all’esistenza stessa dello Stato («alms of bis
government») di tutto quello che possedeva, compresa la vita1’9.1356*89

135. Burke, «Ricorso dai nuovi agli antichi Whigs», ibid., pp. 479-480.
136. Ibid., p. 481.
I 37. Burke, «Discours du 9 février 1792», in Réflexions sur la Revolution de France,
p. 331.
138. Burke, «Ricorso dai nuovi agli antichi Whigs», in Scritti politici, p. 480.
139. Burke, «A letter to ... Sheriffs of the city of Bristol, on the Affairs of America»,
The Works of the Right Honourable F,dtnund Burke, I lenry G. Bohn, London
1854, voi. II, pp. 29-30.

253
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

Alla vigilia della morte, chiudendo il cerchio del suo pensiero, Burke
ritorna aU’America: nella creazione degli Stati Uniti, nell’alleanza ameri­
cana contro la monarchia inglese, egli vede un gigantesco errore di Lui­
gi XVI, non, come si pensa spesso, per il costo della guerra che ha inde­
bolito il reame ma per le sue implicazioni politiche e ideologiche. La na­
scita stessa degli Stati Uniti aveva creato un pericolo di nuovo genere.
Questo è il vero senso della «Seconda lettera sulla pace regicida»: «Lui­
gi XVI non poteva proteggere impunemente una nuova Repubblica; tut­
tavia, tra il suo trono e quel pericoloso riparo che costruiva per un ne­
mico, si estendeva il vasto fossato dell’Atlantico»140. Nonostante la mar­
ginalità deH’America, nonostante l’esistenza delle monarchie europee,
l’influenza della rivoluzione americana è stata fatale. Conviene trarne la
necessaria lezione: se questa Repubblica primitiva, paese di contadini e
pescatori, ha potuto essere all’origine di un simile disastro, che cosa ac­
cadrà all’ordine esistente, alla civiltà cristiana, alle strutture e gerarchie
sociali, all’ordine cavalleresco, se si accetta la presenza di una Repubbli­
ca infinitamente più potente, impiantata nel cuore dell’Europa?
Questa «Seconda lettera» è di grande importanza: essa mostra che
per Burke, contrariamente a quanto pensano i suoi fedeli discepoli da
Gentz e Rehberg fino agli odierni neoconservatori, la differenza tra le
due rivoluzioni non era essenziale. II male era lo stesso ai due lati del­
l’Atlantico, ma la vicinanza e l’intensità facevano della variante francese
un pericolo mortale. Se Burke pensava di potersi permettere di trattare
l’America col silenzio, se non col disprezzo, nel caso francese l’unica so­
luzione era il cordone sanitario e la guerra ideologica finalizzata alla di­
struzione del nuovo regime. La guerra era quella «dei partigiani dell’an­
tico ordine civile, morale e politico dell’Europa, contro una setta di atei
fanatici e ambiziosi che ne hanno giurato la rovina. Non è la Francia che
impone un giogo straniero agli altri popoli; è una setta che aspira alla do­
minazione universale e che comincia con la conquista della Francia»141.
Alimentata da «corrotte metafisiche»,142 «questa fazione non è locale o
territoriale»; è un flagello generale che «esiste in tutte le contrade d’Eu-

140. Burke, «Deuxième lettre sur la paix régicide», in Burke, Réflexions, p. 601.
141. Ibid., p. 581.
142. Burke, «Riflessioni sulla Rivoluzione francese», in Scritti politici, p. 261.

254
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

ropa: [...] Il centro è là: la circonferenza è l’intera Europa; essa è ovini


que viva la razza europea. Militante ovunque, in Francia è la fazione
trionfante»1"15. La rivoluzione universale ha ora una capitale e uno Stato
maggiore. Lo stesso ragionamento ritorna dopo la Rivoluzione sovietica:
il centro del male si è solo spostato. Durante la guerra fredda questo sarà
l’argomento forte della crociata ideologica contro il comuniSmo.
Burke cerca di far prendere coscienza ai suoi concittadini che la Ri­
voluzione è un «evento inaudito»,1+1 una «rivoluzione dei sentimenti, dei
costumi e di ogni principio etico».143145 Il governo che la Francia si è data
«è il prodotto immediato di un lampo di genio», di un cattivo genio. «Il
piano è perverso, immorale, empio, oppressivo; ma è ardente e audace,
sistematico e semplice nel suo principio.» In effetti, oltre alla volontà di
abbattere l’ordine europeo nel suo insieme, è «l’estirpazione radicale
della religione» che costituisce «il carattere principale della rivoluzione
francese» e l’obiettivo dell’«ateismo fanatico» al potere a Parigi146. Ecco
ciò che rende la guerra «giusta e necessaria»,147 una guerra cominciata
dalle «potenze cristiane» per «mantenere l’ordine sociale e politico tra le
nazioni civilizzate» e per abbattere «il cattivo genio che si è impadroni­
to del corpo della Francia»148. Infatti «l’attuale governo in Francia», il
«cattivo genio» - il termine torna più volte in due pagine di testo - «è la
sua anima; esso imprime alla sua ambizione e a tutti i suoi atti un carat­
tere particolare», senza precedenti e senza possibile paragone con altri
paesi e altre situazioni. «E questo genio che ispira ai francesi un attivi­
smo nuovo, funesto e divorante», e questo ha reso la Francia «formida­
bile». Ne deriva non solo che non si potrà pensare «di poter fare la pa­
ce con questo sistema», ma che proprio in quanto incarnazione del ma­
le esso deve essere colpito «nella sua stessa esistenza»149. Nelle Riflessioni

143. Burke, «Deuxième lettre sur la paix régicide», in Burke, Réflexions, p. 580.
144. Ibid., p. 590.
145. Burke, «Riflessioni sulla Rivoluzione francese», in Scritti politici, p. 249.
146. Burke, «Deuxième lettre sur la paix régicide», in Burke, Réflexions, pp. 589-590.
147. Si veda un interessante studio sulla ragione di Stato in Burke: David Armitage,
«E. Burke and Reason of State», Jo u rn al o f the H istory o f Ideas, 61 (4), 2000,
pp. 617-634.
148. Burke, «Deuxième lettre sur la paix régicide», in Burke, Réflexions, p. 579.
149. Ibid., pp. 579-580 e 597-598.

255
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

Burke parla di «una rigorosa quarantena»,150 che nel suo ultimo scritto
diventa già una «campagna per la distruzione dell’intero regime»151.
Fin dall’inizio della sua carriera Burke era stato terrorizzato dal ca­
rattere universale del movimento illuminista che cominciava a sconvol­
gere il vecchio ordine. Nel 1789 la peste aveva colpito il cuore dell’Eu­
ropa. Bisognava andare al fondo del problema, alle origini; bisognava,
oltre a creare un cordone sanitario attorno alle idee giunte dall’America,
dare al 1689 un carattere inglese specifico, particolare, inimitabile, che
venisse dal fondo della storia nazionale, e soprattutto estremamente li­
mitato. Bisognava modificare il senso della Gloriosa Rivoluzione in mo­
do tale che il cambiamento di dinastia in Inghilterra smettesse di essere
percepito come l’evento fondatore del liberalismo, che smettesse di es­
sere visto come la prima rivoluzione illuminata e riuscita, seguita da al­
tre due rivoluzioni della stessa natura, e divenisse semplicemente una
«rivoluzione evitata». Ecco perché la discussione inglese sulle questioni
francesi è centrata non tanto sugli eventi e le idee dell’immediato passa­
to ma su quelli già vecchi di un secolo.
Nel momento in cui lancia la sua campagna contro i principi dell’89
sostenendo che la Rivoluzione francese si basa su principi totalmente
estranei a quelli della Gloriosa Rivoluzione152, Burke non afferma la sua
fedeltà alla tradizione del 1689; al contrario, se ne scosta. Nell’Inghilter­
ra del 1790 egli non è un conservatore nel senso proprio del termine, è
un dottrinario il cui messianesimo è rivoluzionario, come lo sarà un se­
colo dopo il conservatorismo della generazione della svolta del Nove­
cento. In realtà egli è all’origine della prima grande rivolta contro il li­
beralismo, ancora più significativa perché viene nel paese più libero dei
suoi tempi. Nel pensiero di Burke non c’è vera ambiguità o equivoco e i
conflitti di interpretazione esistenti sorgono da una lettura della Rifles­
sioni basata su un postulato errato: Burke non era uno scrittore politico
liberale e controrivoluzionario insieme, non era un rappresentante del­
la tradizione liberale inglese, ma il contrario. La tradizione liberale in­
glese era basata sul razionalismo di Hobbes e di Locke, sui principi della

150. Burke, «Riflessioni sulla Rivoluzione francese», in Scritti politici, p. 259.


151. Burke, «Deuxième lettre sur la paix régicide», in Burke, Réflexions, p. 599.
152. Burke, «Discours du 9 février 1792», in Réflexions, p. 331.

256
!
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

scuola giusnaturalista e sul carattere artificiale, razionale e volontario


della società. Burke disprezzava quei principi e si rifiutava di impianta
re i primi embrioni della democrazia e della sovranità del popolo, come
volevano gli eredi di Locke. Insomma non era un avversario ma un fon­
datore dello storicismo moderno155.
Nell’Inghilterra del 1789 gli adepti dei diritti dell’uomo si riunisco­
no attorno a un’interpretazione liberale della Costituzione inglese, para­
gonabile a quella prevalente negli Stati Uniti, e vedono nella caduta del-
XAncien Régime in Francia la nascita della libertà, paragonabile per am­
piezza e grandezza politica e morale alla loro stessa rivoluzione. Sono co­
munque fedeli alla concezione classica del liberalismo inglese. In effetti
i liberali attaccati da Burke nella persona del pastore Price e degli uomi­
ni della Società della rivoluzione vedono nei fatti del 1689 la messa in
pratica dei diritti naturali enunciati da Locke e acclamati da tutti i whigs
progressisti dalla fine del Seicento. Proprio questa interpretazione
lockiana della Gloriosa Rivoluzione costituisce l’oggetto dell’esecrazione
di Burke.
Quando, il 4 novembre 1789, Richard Price sale sulla cattedra della
cappella di Old Jewry153154 per pronunciare il panegirico della rivoluzione
di Francia paragonandola alla Gloriosa Rivoluzione, quando a seguito di
ciò i membri della Società della rivoluzione inviano un messaggio all’As­
semblea nazionale basato sui principi enunciati in quel discorso, il loro
percorso non mostra nulla di veramente innovatore. Anzi, hanno tutti

153. Su Burke liberale si veda in particolare S. Lakoff, «Tocqueville, Burke and the
Origins of Liberal Conservatism», Review o f Politics, 60 (3), 1998, pp. 435-464,
e anche Cruise Conor O ’Brien, The G reat M elody: A Them atic Biography an d
Com m ented Anthology o f Edm und Burke, Sinclair-Stevenson, London c. 1992.
In francese si veda Michel Ganzin, L a Pensée politique d ’Edm und Burke, Li­
brairie générale de droit et de jurisprudence, Paris 1972, pp. 302 e sgg., e an­
che la prefazione di Philippe Raynaud aile R éflexions su r la Révolution de F ran ­
ce, p. XV. In questi due testi Burke appare come discepolo di Locke. A questo
riguardo si veda anche Isaac Kramnick, «The Left and Edmund Burke», P oli­
ticai Theory, 11 (2), 1983, pp. 189-214.
154. Il nome di questa cappella deriva dalla sua ubicazione sul sito di un vecchio
ghetto e ciò fornisce a Burke l’occasione per una delle sue numerose allusioni
antisémite: si veda «Riflessioni sulla Rivoluzione francese», in Scritti politici ,
pp. 253-254.

257
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

l’impressione di riprendere idee quasi banali. Il vasto consenso goduto


da quelle idee unito alla personalità del pastore Price è ciò che precisa-
mente motiva l’animosità di Burke. Price infatti non è una persona qua­
lunque. Autore nel 1777 di un’opera vigorosamente filoamericana, Ob-
servations on thè Nature of Civil Liberty, è il portavoce di una visione del­
la fondazione degli Stati Uniti in termini di rivoluzione dei diritti del­
l’uomo'” . Quest’opera gli causa subito l’attacco di un Burke ante litte-
ram, Josaiah Tucker15156157.Del resto Price aveva il dono, come osserva John
Pocok, di provocare la reazione dei conservatori: è in risposta a una let­
tera di Turgot a Price che John Adams scrive nel 1787 A Defence o f thè
Constitutions o f Government of thè United States™. Dieci anni prima
l’autore delle Riflessioni, Tucker, anch’egli ecclesiastico inglese, corri­
spondente di Hume e Adam Smith, interessato alla nuova economia po­
litica, aveva accusato Price di rifiutare legittimità a qualsiasi sistema di
potere che non avesse come obiettivo la protezione della libertà natura­
le degli individui. In altri termini egli sosteneva che insistere sul princi­
pio dei diritti naturali avrebbe distrutto i legami morali che rendono
possibile l’esistenza della società e le sue attività economiche e commer­
ciali. Secondo Pocok, Tucker scaglia questa accusa contro Locke oltre
che contro Price, ma questo non è il caso di Burke158.
In ciò sta il diffuso errore di non capire il senso della campagna di
Burke contro Price. In realtà Burke attacca Price per non doversi misu­
rare direttamente con la grande figura di Locke, il filosofo che ha detro­
nizzato Descartes. Molti vedevano in lui il più grande nome della filoso­
fia politica del secolo che va dal 1689 al 1789. Rousseau era una figura
ambivalente, Kant era ancora in piena attività e già esposto agli attacchi
dell’antirazionalismo tedesco. Locke apparteneva ormai alla storia e i

155. Su Richard Price (1723-1791) si veda Carl B. Bone, Torchbearer of Freedom:


The Influence of Richard Price on liighteenth Century Thought, University of
Kentucky Press, Lexington 1952, e D.O. Thomas, The Honest Mind: The
Thought and Work of Richard Price, Clarendon Press, Oxford 1977.
156. Su Josaiah Tucker (1711-1799) si veda in particolare J.G.A. Pocock, Virtue,
Commerce and History, Cambridge University Press, Cambridge 1985.
157. J.G.A. Pocock, Introduzione a Edmund Burke, Reflections on the Revolution in
France, Hackette Publishing Company, Indianapolis e Cambridge 1897, p. LI.
158. Ibid., pp. XV-XVI.

258
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

morti godono sempre di un certo vantaggio: con il tempo, i granili ili


ventano ancora più grandi. Nel 1790, come nel 1777, Locke era quasi in
toccabile. Burke sapeva che un attacco frontale contro l’autore della Lct
tera sulla tolleranza avrebbe avuto l’effetto non solo di accentuare ancor
più il proprio isolamento e la propria emarginazione in seno alla corren­
te whig ma anche, impedendogli di fare appello all’eredità whig, di
espellerlo dal campo liberale.
Per questo Burke sceglie di ignorare Locke nelle Riflessioni come in
tutti i suoi scritti degli anni Novanta del Settecento, ma in realtà tutta la
sua argomentazione è rivolta contro i principi del Secondo trattato. D ’al­
tra parte è Price a guidare la lotta in Inghilterra ed è lui che ha appena
pubblicato il suo sermone di Old Jewry con il titolo di A Discourse on
thè Love of Our Country. L’attività di Price in favore dei provvedimenti
presi a Parigi dall’Assemblea nazionale si inserisce nella lunga lotta che
impegnava questo pastore anticonformista dagli anni Settanta del Sette­
cento. Se fosse stata coronata dal successo, la posizione di Price avrebbe
potuto portare alla separazione tra Stato e Chiesa. In effetti, con John
Priestley e altri «radicali», Price si era mobilitato per liberare i dissiden­
ti della Chiesa d’Inghilterra dalle imposizioni loro inflitte alla fine del
Seicento. Pur godendo della libertà di culto auspicata dalle Lettere sulla
tolleranza di Locke sin dai tempi dalla Gloriosa Rivoluzione, i dissiden­
ti, a parte naturalmente i cattolici, erano esclusi dall’Atto di tolleranza.
Di fatto, chiunque non appartenesse alla Chiesa d’Inghilterra era esclu­
so dal corpo dei cittadini. Questa situazione contro la quale, in linea con
Locke, insorse Price si fondava su un dissidio di natura teologica ma dal­
le rilevanti implicazioni sociali. Burke si opponeva al fatto che lo statuto
della Chiesa fosse assimilato a quello di una comunità volontaria di per­
sone professanti le stesse opinioni, proprio come non poteva concepire
la società come un semplice insieme di cittadini. Nel 1790 si levò contro
Price che, rifacendosi alla ricostituzione rivoluzionaria della Chiesa di
Francia, attaccava la posizione esclusiva della Chiesa d’Inghilterra. Esi­
gendo una totale eguaglianza di diritti per i dissidenti protestanti, Price
chiedeva in pratica l’eguaglianza dei diritti civili.
Ai liberali inglesi, in particolare a quelli che, come Charles Fox,
consideravano la caduta dell 'Ancien Regime in Francia come l’evento
più importante della storia umana, Burke rimprovera di guardare alla
cultura politica inglese moderna come era stata modellata dal 1689, e

259
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

alla sua interpretazione ideologica radicata in Locke e quindi basata sui


principi illuministi. In effetti i liberali seguaci dei principi che portaro­
no alla fine deU’Ancien Regime in Francia pongono come unica fonte di
legittimità politica la volontà degli uomini. Quindi per loro il solo po­
tere legittimo esistente è quello che ha avuto il consenso del popolo e il
re della Gran Bretagna, responsabile di fronte al suo popolo, è di con­
seguenza l’unico sovrano legittimo al mondo159. Richiamandosi alla G lo­
riosa Rivoluzione, i liberali rivendicano il diritto della società di darsi un
governo e all’occorrenza di destituirlo per indegnità:160 già solo questa
idea, quella della sovranità popolare, riempie Burke «di disgusto e di
orrore»161. Nel 1688, afferma, «le due camere non accennano minima­
mente a un “diritto di formare un governo da noi stessi”» 162. Di più, il
cambiamento di dinastia è stato realizzato grazie a un atto del «fiore
dell’aristocrazia inglese» e non con una sommossa popolare163. Ecco
perché il vero senso della Gloriosa Rivoluzione sta nel fatto che «pre­
venimmo una rivoluzione, più che farla»164.
In questo modo, contrariamente ai liberali che vedono nel 1689 l’e­
sordio di un’epoca nuova, Burke descrive l’avvento di Guglielmo d’O-
range come la restaurazione delle tradizionali libertà inglesi, quella « ina­
lienabile eredità trasmessa a noi dai nostri antenati [...], proprietà ap­
partenente in modo speciale al popolo di questo regno». Quei beni so­
no «una corona ereditaria, un’aristocrazia ereditaria, e una Camera dei
comuni e un popolo eredi di privilegi, franchigie e libertà derivati loro
da antichissimi antenati»165. Mentre i fondatori del liberalismo, non sol­
tanto Locke e Hobbes, utilizzano l’aggettivo «inalienabile» per descrive­
re i diritti naturali, mentre, per loro come per tutti gli Illuministi, il tem­
po passato o semplicemente la lunga durata non creano alcuna legitti-

159. Burke, «Riflessioni sulla Rivoluzione francese», in Scritti politici, p. 167.


160. Burke riassume correttamente, per meglio confutarla, l’argomentazione liberale:
si veda «Riflessioni sulla Rivoluzione francese», in Scritti politici, pp. 171 e 184.
161. Ibid., p. 190. Si vedano anche le pp. 161-171.
162. Ibid., p. 191. Si vedano anche le pp. 189-190.
163. Burke, «Discours du 9 février 1792», in Réflexions su la Révolution de Trance,
p. 331.
164. Ibid., p. 332.
165. Burke, «Riflessioni sulla Rivoluzione francese», in Scritti politici, p. 192.

260
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

mità, per Burke questo termine si applica soltanto ai costumi aviti, ognu
no dei quali è radicato nei precedenti: la Magna Charta del XIII secolo
si ricollega a un’altra dei tempi di Enrico I ed entrambe riaffermano so
lo leggi esistenti nel regno in un’epoca ancora più lontana166. Di fronte al
la «follia» dei «pretesi diritti dell’uomo»,167 di fronte a «questa mostruo­
sa scena tragicomica»168 che si svolge a Parigi, «il popolo inglese [...]
considera di inestimabile valore la struttura del proprio governo, nella
sua condizione attuale», afferma la sua fedeltà a quell’insieme unico che
è «il nostro Stato, i nostri focolari, i nostri sepolcri e i nostri altari»169. Per
lui la rivoluzione del 1688 ha avuto l’unico obiettivo di garantire per
sempre «la conservazione futura del medesimo governo»170.
Questa interpretazione della Gloriosa Rivoluzione creata da Burke,
largamente accettata ormai da due secoli in tutti gli ambienti conserva-
tori di tutte le discipline, costituisce tuttora l’interpretazione dominante.
Tuttavia essa non è e non è mai stata la via maestra del liberalismo in­
glese. Perché se il Bill of Rights in effetti ha restaurato alcuni antichi di­
ritti, come quelli del Parlamento in materia di imposte, esso era in so­
stanza un documento radicalmente innovatore. Il termine «radicale» in
questo contesto non è un anacronismo: esso appare in inglese dalla metà
del XVII secolo. Il Bill of Rights è stato il prodotto di un enorme lavoro
ideologico che si esprime in centinaia di fogli volanti, pamphlet e opu­
scoli che chiedono una rifondazione della monarchia. Il Convention Par-
liament operava sulla base della teoria del contratto di governo che era
stata formulata durante la guerra civile e che quindi nel 1689 non era
certo originale. I riformatori formularono infatti una teoria di potere li­
mitato che Locke rese celebre. I suoi due Trattati riassumono in realtà le
argomentazioni sviluppate durante il mezzo secolo che precede il 1689 e

166. Ibid., p. 190. A questa argomentazione Thomas Paine ha risposto che si può
sempre risalire il corso della storia, trovare un costume sempre più antico e co­
si finire per trovare la verità: «giungeremo infine [...] al momento in cui l’uo­
mo uscì dalle mani del suo Creatore. Che cos’era egli allora? Un uomo. Uomo
era il suo unico e alto titolo» (Thomas Paine, I diritti dell’uomo, p. 143).
167. Burke, «Ricorso dai nuovi agli antichi Whigs», in Scritti politici, p. 458.
168. Burke, «Riflessioni sulla Rivoluzione francese», ibid., p. 161.
169. Ibid., pp. 183 e 193. Si vedano anche le pp. 191-192.
170. Burke, «Ricorso dai nuovi agli antichi Whigs», in Scritti politici, p. 498.

261
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

che ritornano nel 1776: nel frattempo esse sono state codificate dal più
grande filosofo del tempo. In questo senso è giusto dire che, nella misu­
ra in cui il 1776 fu una seconda rivoluzione inglese, il 1689 fu la prima
rivoluzione americana. I principi erano gli stessi: la fonte del potere po­
litico stava nel popolo, il potere reale era limitato dal contratto, e non dal
diritto naturale, e inoltre dal giuramento alla legge prestato dal re. Il re
esercitava il potere per mezzo di un fedecommesso {trust) del popolo,
detentore del potere. La violazione da parte del re dei termini del con­
tratto trasformava il sovrano in tiranno ed esentava il popolo dagli ob­
blighi di obbedienza. In quel caso il contratto era sciolto, nullo e inesi­
stente e il potere ritornava al legittimo detentore, il popolo. Queste ar­
gomentazioni, ben note sia ai tempi della guerra civile che della guerra
d’indipendenza americana, erano le stesse correnti durante la Gloriosa
Rivoluzione171.
Nasce a quel tempo un’abbondante letteratura che alimenta le di­
scussioni della Convenzione e il cui obiettivo è di promuovere una rifor­
ma della monarchia172. La maggior parte delle misure auspicate non si
trovano nel documento finale, probabilmente a causa del rifiuto oppo­
sto da Guglielmo d’Orange. Furono tuttavia adottate due misure essen­
ziali: quelle riguardanti la legislazione e l’esercito. Il principe vi si era for­
malmente opposto e minacciava di tornare in Olanda. Pensava che il po­
tere reale fosse stato radicalmente limitato e che si fosse creata una nuo­
va situazione legale. Dopo lunghe manovre politiche si giunse a un com­
promesso ma era un accomodamento che sostanzialmente assegnava la
vittoria ai riformatori: furono restaurati alcuni vecchi diritti presi di mi­
ra da Giacomo II, ma allo stesso tempo fu fondata una nuova monarchia.
Se non avesse visto la luce una Dichiarazione dei diritti, letta ai nuovi

171. Lois G. Schwoerer, «The Bill O f Rights: Epitome of the Revolution of 1688-
89», in J.G.A. Pocock (a cura di), Three British Revolutions: 1641, 1688, 1776,
Princeton University Press, Princeton 1980, pp. 226-237.
172. La più efficace di quelle nuove pubblicazioni fu un adattamento anonimo di
The Tenure o f K in gs an d M agistrates di John Milton, pubblicato sotto l’esplici­
to titolo di Pro populo adversus tyrannos. Un altro testo che illumina la natura
delle discussioni pubbliche dell’epoca è Politica sacra et civilis: or a m odel o f ec­
clesiastical governm ent di George Lawson, che anticipa Locke; si veda Pocock,
The British Revolution, p. 233.

262
J
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

sovrani il 13 febbraio 1689 e accettata da Guglielmo e Maria, se non los


se stata confermata dal BillofRigbts, la rivoluzione del 1689 sarebbe sta
ta solo un colpo di Stato, come alcuni pensano ancora oggi17’. In realtà
era proprio una rivoluzione a due facce: una restaurazione e insieme un
balzo in avanti. Il Bill of Rights fondava una nuova monarchia e andava
ben oltre il semplice mutamento di sovrano. Questa era la sensazione
tanto dei contemporanei quanto dei coloni americani che evocarono il
Bill ofRigbts nel 1776. Price, Paine, Hamilton, Madison o Jefferson, sul­
le orme di Locke e dei riformatori del 1689, leggevano i fatti della fine
del XVII secolo in questo modo. La loro interpretazione ha modellato il
liberalismo inglese dei secoli X IX e XX. Burke, che rappresenta il fron­
te del rifiuto, si colloca nel solco di coloro che nel 1689 volevano sem­
plicemente incoronare un nuovo re e pensavano che l’Inghilterra così
com’era costituisse l’ideale di una società ben ordinata e di uno Stato
ben governato.
Certamente Burke riconosceva che non tutto era perfetto, poiché
nulla nell’esistenza umana può aspirare alla perfezione, ma non vedeva
nemmeno nulla che dovesse essere fondamentalmente cambiato. Nono­
stante protestasse di non opporsi ai miglioramenti e alle riforme ma so­
lo ai cambiamenti, egli non fornisce un solo esempio di riforma che per
lui sia auspicabile o anche accettabile. Al contrario, bisognava preserva­
re l’ordine esistente, frutto della storia e della volontà divina. Questo è
un principio universale: i cambiamenti devono essere marginali e lenti, e
fatti «in modo quasi impercettibile»173174. Nei fatti ci vorrebbero lunghi pe­
riodi di tempo, se non secoli, per accorgersene. Comunque non c’era al­
cuna ragione per ricorrere alla rivolta: l’Europa, nel suo insieme, era flo­
rida e in ultima analisi essa doveva questa situazione felice «allo spirito
dei nostri antichi costumi e opinioni»175. Il popolo francese aveva una
«buona Costituzione» e «se avesse avuto virtù civile o anche soltanto
prudenza avrebbe approfittato delle felici disposizioni del suo monar­
ca», un principe «che chiedeva solo di conoscere gli abusi per riformar­
li», per dare agli Stati generali, costituiti in tre ordini, «una permanenza

173. Pocock, The British Revolution, p. 237.


174. Burke, «Riflessioni sulla Rivoluzione francese», in Scritti politici, p. 352.
175. Ibid., p. 247.

263
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

conveniente»176. I francesi insomma avevano la fortuna di essere sotto­


messi a un potere «che offriva grazie, favori e immunità»177 ma «si la­
sciarono convincere a venir meno alla loro lealtà al sovrano e a gettar via
l’antica costituzione del paese»178. Inoltre, se il loro immediato passato
non offriva appigli, i francesi potevano sempre fare appello agli antena­
ti ancora più lontani179.
La parola «Costituzione» non significa per Burke la struttura for­
male del potere ma tutta la struttura sociale di un paese. La struttura
della società inglese e il suo regime erano ai suoi occhi pura meraviglia.
Mentre altri conservatori vicini a Burke, come l’americano John
Quincy Adams, distinguevano tra struttura di governo e quella della
società e si dimostravano molto critici verso il sistema di governo in­
glese e i mali della società, primo fra tutti la corruzione, Burke non ave­
va un solo biasimo da rivolgere alla realtà britannica. Bisognava pre­
servare l’Inghilterra così com’era, sia nella struttura sociale che nelle
strutture di potere. L’Inghilterra del suo tempo manifestava un carat­
tere semifeudale che appariva poco soddisfacente non solo ai liberali
inglesi ma anche a Hegel, che pure non era molto rivoluzionario180. A
rigore, Hegel può essere interpretato non come il filosofo dello Stato
prussiano ma, come pensa Eric Weil, come il filosofo dello Stato puro
e semplice, «dello Stato così come è e non di uno Stato ideale e sogna­
to»: questa teoria può essere concepita come «la teoria della ragione
realizzata nell’uomo, realizzata per se stessa e da essa stessa»181. Tutta­
via questo non poteva essere il percorso di Burke, che non era un ra­
zionalista e non poteva costruire una struttura statale fredda e logica
nel suo autoritarismo: la vecchia Inghilterra rispondeva esattamente al
suo ideale, proprio perché essa manifestava un sistema politico che sfi-

176. Burke, «Discours du 9 février 1792», in Réflexions su la Revolution de France,


p. 328.
177. Burke, «Riflessioni sulla Rivoluzione francese», in Scritti politici, p. 198.
178. Ibid., p. 214.
179. Ibid., p. 195. Egli non riconosceva alla Francia di avere prodotto un sistema di
simile perfezione, ma pensava che vi esistesse comunque un ordine costituito e
che la sua stessa esistenza fosse una garanzia.
180. Si veda Éric Weil, H egel et l ’É t a t ,) . Vrin, Paris 1950, p. 21.
181. Ibid., p. 27.

264
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

dava il buon senso, un sistema dove la libertà era sinonimo di privile­


gio, dove le ineguaglianze erano concepite come create della natura, a
sua volta assimilata alla storia.
Anche de Maistre, come Burke, è convinto dell’impotenza della ra­
gione quando si tratta di «dirigere gli uomini»182. Non vuole «offende­
re» la ragione, ma il buon senso insegna la superiorità della fede18’.
Avendo la ragione, o se si preferisce la filosofia, «corroso il cemento
che univa gli uomini, non vi sono più aggregazioni morali»184185.Per que­
sto è stato commesso l’assassinio di Luigi XVI: non si trattava della
morte di un essere umano che non meritava quella sorte ma dell’atten­
tato contro la stessa sovranità'83. Il livello di disaggregazione raggiunto
dalla società francese è rivelato dal fatto che il sovrano andò incontro
alla morte senza che si levasse una sola voce, né a Parigi né in provin­
cia: non tutti i francesi hanno voluto la morte di Luigi XVI, ma l’im­
mensa maggioranza del popolo ha voluto «tutte le follie» che hanno
preceduto il 21 gennaio186.
Mezzo secolo dopo Burke, una generazione dopo de Maistre, an­
che per Carlyle ¡’origine del male è sempre la stessa: il razionalismo e
l’individualismo. «Il pensiero», dice Carlyle, «non conduce all’atto, ma
a un caos senza limiti, che si divora da sé.»187 Egli pensava che l’uomo
non fosse stato mandato quaggiù per interrogare ma per lavorare: «Il
fine dell’uomo, ciò è stato scritto da tempo, è l’azione, non il pensie­
ro»188. Per Carlyle l’inferiorità della ragione è un’esperienza della natu­
ra. «L a logica è buona ma non è quanto si ha di meglio», e « l’intelletto
sano [...] non è il logico, l’argomentativo ma l’intuitivo; perché il fine
dell’intelletto non è provare e trovare ragioni ma conoscere e crede­
re».189 Già nel suo primo romanzo, Sartor resartus, dedicato alla teoria

182. Joseph De Maistre, Le serate di Pietroburgo, p. 106.


183. Ibid., p. 203.
184. De Maistre, Écrits sur la Révolution, pp. 139-140.
185. De Maistre, Considerazioni sulla Francia, p. 9.
186. Ibid.
187. Carlyle, Essais choisis, p. 75.
188. Ibid., p. 72. Si veda anche la p. 75.
189. Ibid., pp. 50-51. Si veda anche Nouveaux Essais choisis, p. 320: «E sempre il
cuore che vede, prima che la testa possa vedere» (corsivo nel testo).

265
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

dei simboli, Carlyle è categorico: «L’uomo viene guidato e comandato


dai Simboli, che lo rendono felice od infelice», e «noi non siamo retti
dal potere Logico e Misurativo, ma dal nostro potere Immaginativo»190.
Le masse istintivamente sanno anche riconoscere l’uomo eccezionale e
seguirlo: «Noi non vi comprendiamo bene; [ma] vediamo che siete più
nobile, più saggio e più grande di noi, e [di conseguenza] vi seguiremo
lealmente»1’1.
Tuttavia un brano degli Eroi fa dire a Ernst Cassirer che Carlyle, pur
essendosi espresso misticamente, non è mai stato un irrazionalista. Tutti
i suoi eroi - i profeti, i preti e i poeti - sono stati descritti anche come
pensatori profondi e autentici192. Odino, nel quale i Vichinghi vedevano
«il re degli dei» e che aveva risolto per loro il grande enigma dell’uni­
verso, è un pensatore. Inoltre, nella mente di Carlyle, in ogni epoca del­
la storia del mondo il grande evento fondante all’origine di tutti gli altri
è sempre la comparsa sulla terra di un pensatore193. Ma il pensiero in
quanto forza sociale è precisamente appannaggio, per non dire mono­
polio, di uomini assolutamente eccezionali. Soltanto con loro esso può
avere un ruolo di primo piano e produrre quel lampo di genio di cui era­
no capaci Martin Lutero, Napoleone o Goethe194. Per i comuni mortali,
cioè per la totalità degli uomini tranne i giganti che costituiscono l’og­
getto del suo libro, se « l’intelletto è, invero, la tua finestra [...] la Fanta­
sia è il tuo occhio»195. Non sembrano formule ricavate dal {'Inchiesta sul
Bello e il Sublime?
Dopo Herder, Burke, de Maistre e Carlyle, a sua volta Taine mette il
dito sulla piaga: cioè la pretesa dell’individuo di esercitare, per mezzo
della ragione, un illimitato diritto di osservazione sul proprio destino e

190. Carlyle, Sartor R esartus , pp. 265-267. L’intero cap. 3 del libro III, pp. 263-272,
è dedicato ai simboli. Quest’opera, che Taine definisce una «filosofia del co­
stume», contiene una metafisica, una politica e una psicologia. L’uomo, per
Carlyle, è un animale vestito e la società ha per fondamento il tessuto: H. Taine,
H istoire de la littérature an glaise , 17J ed., s.d., t. V, p. 218.
191. «The new Downing Street», in Latter-Day Pam phlets, Works, voi. X X , p. 142.
192. Ernst Cassirer, Il m ito dello Stato, trad, di Camillo Pellizzi, Longanesi, Milano
1996, p. 371.
193. Carlyle, Gli Eroi, pp. 68-70.
194. Carlyle, E ssais choisis, p. 51.
195. Carlyle, Sartor Resartus, p. 267.

266
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

sulle cose umane in generale. Per l’autore della Histoire de la lit teniture
anglaise, alla base del disastro si trova lo spirito del secolo, «l’indipcn
denza della ragione ragionante che, allontanando l’immaginazione, libe
randosi dalla tradizione, usando male l’esperienza, trova la propria regi
na nella logica, il proprio modello nella matematica, il proprio organo nel
discorso, il proprio uditorio nella società educata, il suo impiego nelle ve
rità mediocri, il suo argomento nell’uomo astratto e la sua formula nell'i
deologia»196. Perché, egli afferma nel grande capitolo dedicato a Carlyle,
«il sentimento delle cose interiori [insight] è nella razza, e questo senti
mento è una specie di divinazione filosofica. Al bisogno è il cuore che la
da cervello. L’uomo ispirato, appassionato, penetra nell’interno delle co
se; scorge le cause per la scossa che ne sente; coglie gli insiemi con la lu­
cidità e la velocità della sua emozione creatrice; scopre l’unità di un grup­
po con l’unità dell’emozione che ne riceve [...]. L’intuizione è un’analisi
completa e vivente; i poeti e i profeti, Shakespeare e Dante, san Paolo e
Martin Lutero sono stati senza volerlo dei teorici sistematici»197.
Quest’idea è al centro della lunga e dettagliata dimostrazione pro­
posta nelle Origines: qui Taine mostra come, alle soglie del 1789, fosse
maturata la grande rivolta intellettuale contro tutte le certezze, tutte le
credenze, tutte le istituzioni politiche, sociali e religiose. Si vide il
trionfo dello spirito del secolo dei Lumi e de « “l’età della ragione”»
(con le solite virgolette ironiche), quell’età per la quale «prima il gene­
re umano era nella sua infanzia, [e] oggi è diventato “maggiorenne”»,
quell’epoca in cui «la verità si è finalmente manifestata» e per la prima
volta si potrà «vedere il suo regno sulla terra»198. L’allusione a Kant è
evidente. Taine prosegue la sua critica: per natura, la verità è universa­
le, dunque deve comandare a tutti; è il suo diritto supremo, poiché es­
sa è la verità. Con queste due credenze, afferma Taine, «la filosofia del
Settecento somiglia a una religione, al puritanesimo del Seicento, al
maomettismo del VII secolo». Però questa nuova religione, che parlerà

196. Taine, Histoire de la littérature anglaise, t. Ili, p. 7, citato in Eric Gasparini, Li


Pensée politique d’Hyppolite Taine: entre traditionalisme et libéralisme, Presses
universitaires d’Aix-Marseille, Aix-En-Provence 1993, p. 194.
197. Taine, Histoire de la littérature anglaise, 17J ed., s.d., t. V, p. 253.
198. Taine, Le origini della Trancia contemporanea. Lamico regime, p. 372. Anche la
parola «maggiorenne» è tra virgolette.

267
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

a gran voce come le precedenti, differisce da quelle perché non si vuo­


le imporre in nome di Dio ma in nome della ragione L’influenza del­
la ragione costituisce un fenomeno senza pari, che scuote e fa crollare
un edificio le cui pietre sono tutte connesse le une alle altre, «leggi os­
servate, un potere riconosciuto, una religione dominante» le cui basi
affondano in un costume atavico: la credenza e l’obbedienza erano ere­
dità, la volontà reale, il primo dei poteri pubblici, trovava il suo fon­
damento in otto secoli di dominio, quindi era un diritto ereditario pu­
ro e semplice; la religione, che ordina agli uomini di sottomettersi al
potere costituito, traeva legittimità da una tradizione di diciotto seco­
li19200. La volontà divina era l’«ultima roccia primordiale» su cui poggia­
va il «pregiudizio ereditario», fondamento dell’ordine costituito, che è,
«come l’istinto, una forma cieca della ragione. E ciò che finisce di le­
gittimarlo, è che, per diventare efficace, la ragione stessa deve assu­
merne la sua forma»201.
In questo contesto Taine aggiunge una lunga osservazione, fonda-
mentale per la comprensione del pensiero antilluminista. Mentre l’Illu­
minismo vedeva nella ragione la prerogativa di tutti gli esseri umani, uno
strumento adatto a servirli sempre e in ogni circostanza, solo criterio
universale per giudicare il bene e il male in politica, i suoi critici liberal-
conservatori, anch’essi razionalisti fino al midollo nel loro lavoro scien­
tifico, consideravano la ragione come privilegio dei sapienti, utile nel so­
lo ambito dell’alta cultura. Nella vita sociale invece la ragione porta al di­
sastro. Per questo «la ragione si indignerebbe a torto del fatto che il pre­
giudizio guidi le cose umane perché, per guidarle, essa stessa deve di­
ventare un pregiudizio». In pratica «una dottrina non diventa attiva che
diventando cieca»; per divenire una forza sociale, per dettare il compor­
tamento umano, «bisogna che essa si depositi negli spiriti allo stato di
credenza consolidata, di abitudine presa, [...] [che] si fissi nei bassifon­
di immobili della volontà»202.

199. Ibid., pp. 372-373. «Ragione» è in corsivo nel testo.


200. Ibid., pp. 373-374.
201. Ibid., pp. 374 e 382. Si veda anche p. 387, e anche l’indice analitico redatto da
Taine, pp. 755-764, dove fautore riassume il suo tema utilizzando ancora la
formula «pregiudizio ereditario».
202. Ibid., pp. 382-383.

268
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

Nel suo rifiuto senza esitazione e senza reticenza della capai ila del
la ragione di modellare l’esistenza sociale, di costruire istituzioni e piu in
generale di accettare l’autonomia dell’individuo, Taine prosegue il la
gionamento di Burke e de Maistre. Questo è anche il ragionamenio di
Renan, Carlyle, Meinecke e Croce: sulle questioni di fondo i nemici dei
Lumi professavano gli stessi principi. Nelle quattro dense pagine che co
stituiscono la prefazione delle Origines, Taine manifesta il suo credo, ve­
ra antitesi del pensiero illuminato. Le seicento pagine che seguono ne so
no solo un chiarimento. Il primo principio è molto semplice: «Un pupo
lo consultato può, a rigore, dire quale forma di governo gli piaccia, ma
non quale sia quella di cui ha bisogno». La qualità di una «casa politica»
è in funzione dei costumi, delle particolarità, del carattere dei suoi oc­
cupanti. D ’altronde, se in altri paesi persistono tenacemente «abitazioni
politiche», è perché nessuna di esse è stata «costruita tutta in una volta,
sotto un nuovo padrone e secondo i soli canoni della ragione». Perché
«l’invenzione improvvisata di una costituzione nuova, appropriata, sta­
bile, è un’impresa che supera le forze dell’ingegno umano»2032045. Una Co­
stituzione adatta «si tratta di scoprirla, se esiste, e non di metterla ai vo­
ti». Infatti, la scelta è già stata fatta: «la natura e la storia hanno già scel­
to per noi», il sistema politico conveniente a ogni popolo è stato fissato
«dal suo carattere e dal suo passato»21*. Quest’idea ritorna in tutta l’ope­
ra: l’uomo non è un essere libero o, in altri termini, la libertà di scelta
non esiste. L’uomo è sottomesso al privilegio ereditario, al suo ambiente
sociale e familiare, all’istinto animale e ai suoi bisogni corporali. Per que­
sto il concetto di libertà di Rousseau, espresso nel Contrai social, è solo
una astrazione infelice senza alcun nesso con la realtà. La pratica della
dottrina giusnaturalista, per la quale «la società così costruita è la sola
giusta; infatti [...] essa non è opera di una tradizione ciecamente segui­
ta, ma di un contratto concluso fra eguali, esaminato alla luce del sole e
consentito in piena libertà», può solo condurre al disastro2'r5.
La Francia è stata l’unica a pagare il prezzo mortale del razionalismo
in tutto il suo orrore. Essa fu l’unica, scrive Renan, a fare una rivoluzione

203. Ibid., pp. 46-47.


204. Ibid., p. 47.
205. Ibid., pp. 396-398 e 416-419.

269
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

che l’avrebbe trascinata «su una strada piena di stranezze», al cui termi­
ne, dopo avere versato fiotti di sangue, essa non ha ancora raggiunto lo
scopo voluto: una società giusta, umana, onesta206207.Tale scopo è stato in­
vece quasi raggiunto dallTnghilterra, che non ha proceduto per rivolu­
zioni21'. Le radici di questa specificità francese affondano nel carattere
razionalista e materialista deH’Illuminismo francese, nella sua tendenza a
«dichiarare assurdo quello di cui non si vede la ragione immediata»208.
Vent’anni dopo Renan riassume la natura del male: la Francia «ha pro­
ceduto filosoficamente in una materia nella quale bisogna procedere sto­
ricamente»209. Cercando di superare il quadro della vita nazionale, che è
per sua stessa natura «qualcosa di limitato, mediocre, angusto», e volen­
do «fare qualcosa di straordinario, di universale, [...] si lacera la propria
patria, che è un insieme di pregiudizi e di idee consolidate che l’intera
umanità non potrebbe accettare»210. I popoli infatti esistono «in quanto
gruppi naturali formati dalla comunanza approssimativa di razza e di lin­
gua, la comunanza della storia, la comunanza degli interessi»211. Quanto
alla nazione - ma Herder, Burke e de Maistre hanno già sviluppato que­
sto tema organicista - essa è «come il corpo umano»212213.
Con il passare del tempo è il male rivoluzionario che occupa il
centro del suo pensiero e il tono si indurisce. «Il giorno in cui la Fran­
cia tagliò la testa al suo re, essa commise un suicidio», scrive all’indo­
mani di Sedan211. Nella sua importante prefazione al volume di saggi
raccolti sotto il titolo Questioni contemporaines, Renan, come Burke e
Taine, accusa coloro che «negli ultimi anni del XVIII secolo prepara­
rono un mondo di pigmei e di rivoltosi». Allo stesso modo denuncia
«la bancarotta della Rivoluzione», «la costituzione sociale uscita dalla
Rivoluzione», «un codice di leggi che sembra essere stato fatto per un

206. Renan, La Monarchie constitutionnelle en France, pp. 237-238.


207. Ibid., p. 238.
208. Renan, LAvenir de la science, p. 749.
209. Renan, La Monarchie constitutionnelle en France, p. 239.
210. Ibid., p. 236.
211. Renan, Questions contemporaines, Calmann-Lévy, T ed., Paris s.d. [1929], Pré­
face, p. XXVI.
212. Renan, lui Monarchie constitutionnelle en France, p. 304.
213. Renan, La riforma intellettuale e morale della Francia, p. 89.

270
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

cittadino ideale, che nasce trovatello e muore celibe»*14. Secondo IL


nan, a causa dei principi dell’89 «la società non è qualcosa di ivligm
so o di sacro. Ha solo uno scopo, che gli individui che la compongo
no godano del maggiore benessere, senza preoccuparsi per il desi ino
ideale dell’umanità»214215. In questo modo sono sorti quei principi ili ili
saggregazione e di morte sociale che sono l’egoismo e la proprietà
concepita non come una cosa morale ma come un godimento valuta
bile in denaro: in altri termini, l’individualismo, l’utilitarismo e «il ver
gognoso edonismo di questi ultimi anni» hanno la responsabilità del
la decadenza216.

214. Renan, Q uestion s contem poraines, Préface, pp. II-IV. È comunque utile non
dimenticare la dualità di Renan: egli non giungerà mai a liberarsi compieta-
mente dal fascino della Rivoluzione. Nei suoi scritti si trovano innumerevoli
contraddizioni. Alla vigilia di Sedan si può ancora leggere il brano seguente
(L a M onarchie constitution nelle en France, pp. 235-236): «L a Rivoluzione
francese è un evento così straordinario che è da lei che bisogna partire per
una serie di considerazioni sulle questioni del nostro tempo. In Francia non
succede nulla di importante che non sia conseguenza diretta di quel fatto ca­
pitale. [...] Come tutto quello che è grande, eroico, temerario, come tutto
quello che va oltre la comune misura delle forze umane, la Rivoluzione fran­
cese sarà l’argomento di cui il mondo si occuperà per secoli. [...] In un cer­
to senso la Rivoluzione francese (l’Impero, secondo me, ne fa parte) è la glo­
ria della Francia, l’epopea francese per eccellenza; ma quasi sempre le nazio­
ni che nella loro storia hanno un fatto eccezionale lo espiano con lunghe sof­
ferenze e spesso lo pagano con la loro esistenza nazionale». E lo stesso per
quanto riguarda gli ebrei: la sua cura costante di minimizzare il ruolo degli
ebrei nella civiltà occidentale è controbilanciato da due conferenze fatte un
anno dopo quella su «Q u ’est-ce qu’une nation?» [«Che cos’è una nazione?»,
in Che co s’è una n azion e? e altri saggi, pp. 3-18] e pubblicate in seguito col
titolo «Identité originelle et séparation graduelle du judaïsme et du christia­
nisme: conférence faite à la Société des études juives le 26 mai 1883» e «Le
judaïsme comme race et comme religion: conférence faite au cercle Saint-Si­
mon le 27 janvier 1883» [«L’ebraismo come razza e come religione», in Che
co s’è una nazione e a ltri saggi, pp. 99-114], in Œ uvres com plètes de Ern est R e­
nan, édition definitive, établie par Henriette Psichari, Calmann-Lévy, Paris
[1956], vol. I, pp. 907-944.
215. Renan, L a M onarchie constitutionnelle en France, p. 241.
216. Renan, L ’A ven ir de la science, p. 1030 e Q uestions contem poraines, Préface, pp.
III IV.

271
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

A tutti questi mali bisogna aggiungerne un altro, non certo minore,


contratto nel Settecento: l’abitudine di vedere in tutte le grandi lotte po­
litiche una questione di vita o di morte. In questo modo ogni piccola co­
sa diventa enorme e, radicalizzandosi subito, si è presa l’abitudine di
mettere in gioco per qualsiasi motivo le sorti dell’intera società217.
1 fatti del 1789 non dovevano necessariamente sfociare in un disa­
stro. Se ci si fosse limitati a convocare gli Stati generali rendendoli an­
nuali, «si sarebbe stati perfettamente nel vero. Ma prese il sopravvento
la falsa politica di Rousseau»218. Ecco dunque identificato di nuovo il
grande colpevole, come in Burke, de Maistre e Taine, come più tardi in
Sorel, Maurras, Barrès e Berlin, come, in un modo molto diverso e tut­
tavia abbastanza simile, in Carlyle. E vero che Renan non sposa la cau­
sa del Terzo Stato, non dice che la trasformazione degli Stati generali in
Assemblea nazionale era giustificata e persino necessaria in quanto ri­
spondeva ai bisogni del momento. Nel 1870 egli pensa ancora, come
Burke e nonostante l’esempio americano, che il sistema prevalente al­
l’inizio del Seicento nel 1789 era ancora del tutto funzionale ai bisogni
del più grande paese europeo. Non bisognava lasciarsi travolgere dal
popolo e bisognava seguire l’esempio dell’Inghilterra, «il più costitu­
zionale dei paesi [che] non ha mai avuto costituzione scritta, stretta-
mente redatta»219.
Invece si seguì Rousseau e si cadde nel grande errore della «sua
tendenza all’organizzazione astratta, senza tenere conto dei diritti an­
teriori e della libertà»: proprio all’autore del Contrai social si deve l’e­
mergere della «scuola rivoluzionaria propriamente detta [...] [quella]
che ha dato l’aspetto definitivo alla rivoluzione francese»220. In questo
modo, «pensando di fondare il diritto astratto, si è fondata la ser­
vitù»221. Figlia deHTlluminismo «materialista» e russoiano, in guerra

217. Renan, Philosophie de l’histoire contemporaine, in Questions contemporaines,


pp. 31-32.
218. Renan, La riforma intellettuale e morale della Francia, p. 88.
219. Ibid., pp. 88-89.
220. Renan, Philosophie de l’histoire contemporaine, in Questions contemporaines,
pp. 61-62.
221. Renan, «Monsieur de Sacy», in Essais de morale et de critique, p. 83, citato in
Richard, Ernest Renan, penseur traditionaliste?, pp. 130-131.

272
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

contro la storia e la tradizione, la Rivoluzione, nella menu1 ili Kcit.ni,


forse non era un tutto - nel senso burkiano, maistriano o mauri asiano
del termine - ma la china lungo la quale si avventurava era dii In il
mente evitabile. La volontà di «fare una costituzione a priori» usui a
dal pensiero di Rousseau (ritorna la definizione di «falsa politica»)
rappresenta « l’errore originale», poiché si basa anch’essa sull’idea per
«molti aspetti falsa della società umana»22’ diffusa dall’autore del Con
trat social e dalla scuola giusnaturalista. In questo modo «la Rivoluzio
ne francese ebbe i difetti di tutte le rivoluzioni basate su idee astratti1
e non su diritti anteriori»22324.
A questo punto è necessaria una precisazione: come Burke, Renan
non contrappone Locke a Rousseau. Come Burke, Taine e Carlyle, re
spinge tutta la tradizione giusnaturalista e rifiuta l’individualismo demo
cratico ed egualitario. Qui sta il punto di partenza della sua critica alla
civiltà di quel tempo. Il XVIII secolo «era troppo dominato dall’idea
della potenza inventrice deH’uomo»22’. L’uomo è «come l’operaio dei
Gobelins che tesse al rovescio un arazzo di cui non vede il disegno. [... ]
Che bravo animale è l’uomo! Come porta bene il suo basto!»226Sulla scia
di Burke, di cui riprende le formule quasi alla lettera, Renan vede in
ognuno di noi « l’erede di una somma immensa di dedizione, sacrifici,
esperienze, riflessioni, che costituisce il nostro patrimonio, crea il nostro
legame tra passato e futuro. Non esiste filosofia più superficiale di quel­
la che, considerando l’uomo come un essere egoista e limitato alla pro­
pria vita, pretende di spiegarlo e di assegnargli i compiti ponendolo al di
fuori della società di cui è parte»227. A partire da LAvenir de la Science e

222. Richard, Ernest Renan, penseur traditionaliste?, pp. 140-141.


223. Renan, 1m Monarchie constitutionnelle en France, p. 241.
224. Renan, Essais de morale et de critique, p. 83, citato in Richard, Ernest Renan,
penseur traditionaliste?, pp. 130-131.
225. Renan, L’Avenir de la science, p. 749.
226. Renan, Dialoghi filosofici, a cura di Giuliano Campioni, trad. di Sergio Franz.e
se, ETS, Pisa 1992, p. 90.
227. Renan, La Part de la famille et de l’Etat dans l ’éducation, in Œuvres complètes
de Ernest Renan, édition definitive, établie par Henriette Psichari, Calmami
Levy, Paris [1956], vol. 1, p. 526. Questo brano è citato anche in Richard, Er
nest Renan, penseur traditionaliste?, p. 202, nota 751.

273
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

per tutto il resto della sua vita, Renan non ha mai smesso di denunciare
la radice del male: la «teoria, qualificabile come materialismo in politi­
ca», che concepisce «le gioie dell’individuo come unico obiettivo della
società»228. Ecco la fonte dell’individualismo e dell’utilitarismo che han­
no rappresentato la grande sventura della tradizione democratica in
Francia.
Nel suo stile più violento e più colorito, Carlyle formula prima di Re­
nan le stesse accuse. La guerra aH’Illuminismo non è prodotto di circo­
stanze: la reazione di Carlyle di fronte al suo mondo non differisce per
niente da quelle dei francesi dopo Sedan o da quelle della generazione
della svolta del Novecento in tutti i grandi paesi europei. Nell’agosto
1850 Carlyle descrive il mondo del suo tempo come «un immenso truo­
golo per maiali». L’unica morale che vi prevale è quella dei maiali: «La
missione della maialeria universale e il dovere di tutti i porci, in ogni
tempo, è di aumentare la quantità di beni accessibili e di diminuire ciò
che rimane fuori tiro»229. Questo, dice Taine, è il fango nel quale Carlyle
immerge la vita moderna, e soprattutto quella inglese, affogando allo
stesso tempo e nella stessa melma lo spirito positivo, il gusto del confor­
tevole, la scienza industriale, la Chiesa, lo Stato, la filosofia e la legge230231.
La decadenza moderna è dunque quella di una civiltà materialista,
«meccanica» e utilitarista. La vittoria della materia sullo spirito, la diser­
zione dalla metafisica compiuta in primo luogo dai francesi - il paese di
Malebranche, Pascal, Descartes e Fénelon ha ormai solo Cousin e Ville -
main - sono i grandi segni del tempo. La stessa metafisica, dopo Locke,
è meccanicista. I filosofi del tempo presente non sono più Socrate o Pla­
tone ma Bentham, che pensa che la felicità dipenda totalmente da circo­
stanze esterne all’uomo. Ecco perché, afferma Carlyle, anche nelle na­
zioni più civili, si sente un solo grido: dateci buone istituzioni, buoni si­
stemi politici e la felicità verrà da sola2'1. Perché la concezione moderna
pretende che tutto nel nostro universo sia questione di scontro di forze

228. Renan, Im M onarchie constitutionnelle en France, p. 242.


229. Carlyle, «Jesuitism», 1° agosto 1850, in Latter-Day pam phlets, Works, vol. XX,
p. 816.
230. Taine, H istoire de la littérature anglaise, 17J ed., s.d., t. V, p. 227.
231. Carlyle, «Sign of Times», in C ritical E ssay s, vol. II, pp. 63-67 [Segn i d ei tem ­
pi, pp. 44-62],

274
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali

e interessi e che, nei rapporti tra gli uomini, non vi sia nulla die abbia a
che fare con la divinità232. Non solo gli uomini hanno perduto la l e d e nel
l’invisibile e non si interessano che al visibile, al materiale e al piatito,
non solo l’Ottocento non è un’«epoca religiosa» ma è un’epoca poco t a
pace di comprendere il bene e il bello: l’utilitarismo di Bentham, cioè l.i
pratica della virtù in funzione di un calcolo di perdite e profitti e il m i o
principio dominante233.

232. Carlyle, Gli eroi, p. 301.


233. Carlyle, «Sign of Times», in Criticai Essays, voi. II, pp. 67 e 73-74 [Segni dei
tempi, trad. di Alessandro De Stefani, Istituto editoriale italiano, Milano, s.d.,
pp. 63-67 e 89-98]; Gli eroi, pp. 126-127 e 262-263.

275
C A P IT O L O 4

La cultura politica dei pregiudizi

Se nella concezione illuminista l’uomo è un gigante, per i suoi nemici è


un nano. Herder è il primo che apre la strada a questa visione dell’u-
manità. Qualche anno più tardi de Maistre lo seguirà. Il pastore lutera­
no si dedica a mostrare l’insignificanza umana e a costruire su questa ba­
se l’insieme del suo sistema. La rivolta herderiana mira proprio al cuore
del pensiero illuminista. «Innanzi tutto mi sento tenuto a dire, a imperi­
tura gloria dell’umana ragione, che non fu essa, se così posso esprimer­
mi, ma piuttosto il cieco destino che tutte le cose vara e pilota, a opera­
re in questo universale cangiamento. [...] Se così stanno le cose, che re­
sta ancora della vostra idolatria dinanzi allo spirito umano?»1In effetti,
chi dirige il destino degli uomini? Chi «mai, spinto dal duro bisogno,
fondò Venezia dove essa sorge? E chi ha considerato che questa Vene­
zia, pur unica nella sua posizione, per un secolo potè, dovette anzi rap­
presentare per il destino di tutti i popoli sulla terra? Colui che gettò que­
sto gruppo di isole nella laguna, [...] fu lo stesso che lascia cadere il se­
me che, al tempo e posto debito, diverrà una quercia, è lo stesso che
piantò sulle rive del Tevere una capanna che sarebbe stata l’eterno capo
del mondo, Roma. Ed è lo stesso che introdusse allora i barbari che do­
vevano annientare la letteratura del mondo intero, la biblioteca d’Ales-
sandria [...]. Ed è ancor lo stesso che fa distruggere [...] una città im­
periale [Costantinopoli], perché ne fuggano in Europa quelle scienze
che laggiù nessuno ricercava più, che là restavano oziose. Tutto è gran­
dioso destino, impensato, insperato, inattivamente vissuto dagli uomini:
non vedi, formica, che col tuo piccolo passo non fai che arrampicarti
sulla grande ruota del destino?»2 Più avanti si legge: «Uomo, tu fosti

1. Herder, Ancora una filosofia della storia, pp. 62-63 (S. 530-531).
2. Ibid., p. 63 (S. 530-531).

276
La cultura politica dei pregiudizi

sempre, quasi contro tua voglia, un piccolo cieco strumento» Nella |


nultima pagina dell’opera Herder ritorna di nuovo sulla stessa idea Al
la domanda: «Che sei tu mai, uomo singolo, con le tue passioni, i apa
cita, contributi?» Herder risponde in prima persona: «La sconlnia del
le mie forze, che son fatte per quella totalità che è un giorno, un anni),
una nazione, un secolo, tutto questo attesta che nulla son io, che tulio e
la totalità. Quanto immensa l’opera cui appartengono, quasi ombre, lan
ti gruppi di nazioni e di età, figure colossali senza un loro punto ili vista
e una loro prospettiva, e tanti ciechi strumenti che sognano libertà e clic
pure non sanno per che cosa e per chi lavorino»'1. De Maistre riprenderà
alla lettera quest’idea. Per entrambi la storia è un testo scritto eia Dio,
un dramma che Egli fa recitare agli uomini, queste «ombre sulla terra»
che solo «passano fugaci sul mondo»345.
Tutti i teorici antilluministi, fino a quella forma di comunitarismo li
berale che si sviluppa nel corso della seconda metà del Novecento, ve
dono nel primato della società il fondamento della civiltà. Per Burke,
grande e misteriosa è ^«organizzazione della razza umana»678e «gli istinti
che generano i misteriosi processi della Natura non sono opera nostra».
«Oscure e imperscrutabili sono le vie per cui veniamo al mondo», pos
siamo pensare solo che «il temibile Autore del nostro essere sia anche
l’Autore del nostro posto nell’ordine dell’esistenza e che avendoci di­
sposti e ordinati con una tattica divina [...] ci abbia per quella disposi­
zione virtualmente obbligati a recitare la parte conveniente al posto as­
segnatoci.» Ne deriva che «noi abbiamo doveri verso l’umanità in gene­
rale che non sono la conseguenza di alcun patto volontario»'. Questa è
per Burke la natura dei rapporti sociali, modellata sui doveri morali che
legano genitori e figli, e i figli, «senza un reale consenso», sono legati ai
loro doveri da una sorta di tacito accordo inciso nella natura delle cose'.
In questo modo la società appare come un vero e proprio organismo, un
corpo in cui tutte le parti restano legate «mantenendoci vicini ai nostri

3. Ibid, p. (A (S. 532).


4. Ibid., pp. 123-124 (S. 584-585).
5. Ibid., p. 6 (S. 478).
6. Burke, «Riflessioni sulla Rivoluzione francese», in Scritti politici, p. 193.
7. Burke, «Ricorso dai nuovi agli antichi Whigs», in ibid., p. 536.
8. Ibid., p. 537.

277
La cultura politica dei pregiudizi

antenati» e i rapporti tra i suoi membri sono in pratica immutabili. Co­


sì, «scegliendo l’eredità come principio della nostra società noi abbiamo
dato a questa associazione la forma di un legame di sangue, legando la
costituzione del nostro paese ai nostri più cari legami domestici, dando
un posto alle nostre leggi fondamentali nel cuore delle nostre affezioni
familiari, mantenendo inseparabili e amando con il calore degli affetti
dovuti a ciascuno di essi, combinati insieme e l’un dall’altro riflessi, il no­
stro Stato, i nostri focolari, i nostri sepolcri e i nostri altari»9. La conclu­
sione pratica non si fa attendere: «Il nostro sistema politico è posto in
giusta corrispondenza e simmetria con l’ordine del mondo e col modo di
esistenza decretato per un corpo permanente composto da parti transi­
torie; perché [...] l’insieme in un dato momento non è mai vecchio, o
maturo, o giovane ma in condizione di immutabile costanza si muove at­
traverso fasi diverse di perpetuo declino, caduta, rinnovo e progresso»10.
Questa «società è un contratto» ma un contratto agli antipodi di
quell’atto liberamente espresso da individui che agiscono in funzione dei
loro bisogni e interessi, quindi per nulla utilitarista, come invece lo vo­
gliono Locke e Rousseau. Come già visto, Locke, sull’esempio di Hob-
bes, ha posto il principio per cui il bene dell’individuo costituisce l’og­
getto e il criterio di ogni azione politica e di ogni organizzazione sociale.
Come più tardi Rousseau, egli aveva espresso tale principio nell’idea di
contratto sociale. Tutta l’opera di Burke mira a distruggere questa idea.
Di fatto Burke utilizza il termine «contratto», parola chiave del pensiero
illuminista, per svuotarla del suo contenuto. Il contratto burkiano non
produce nulla di nuovo, non è un inizio, poiché ogni inizio è di per sé
un aberrazione; riflette soltanto l’ordine naturale delle cose, «questo
contratto non vincola solo i vivi, ma i vivi, i morti e coloro non ancora
nati», e questo «contratto che sta alla base di una particolare società al­
tro non è che una clausola di quel contratto più grande che lega dalle ori­
gini e in eterno la società [...], secondo un patto immutabile sanzionato
dall’impegno inviolabile che lega tutte le nature fisiche e morali, ciascu­
na nel suo posto stabilito»11. Ciò fa di ogni cambio di regime un crimine,

9. Burke, «Riflessioni sulla Rivoluzione francese», in Scritti politici, p. 193.


10. lbid.
11. Ibid., pp. 268-269.

278
La cultura politica dei pregiudizi

poiché «l’intera linea di continuità nello sviluppo dello Stalo vm .i spi /


zata»1213. Burke è categorico: «Nessun gruppo di uomini può leni.ire ili
dissolvere a proprio arbitrio lo Stato»11. In realtà nel contesto bui ki.ino
è ridicolo parlare di contratto nel senso proprio del termine. Se pei
Hobbes e Locke tutta l’idea di contratto esprimeva una decisione ra/.io
naie e volontaria, per Burke «il consenso presunto di qualsiasi creami .i
razionale è all’unisono con l’ordine predisposto delle cose. Gli uomini
arrivano così in una comunità muniti dello stato sociale dei loro genito
ri, dotati di tutti i benefici, gravati di tutti i doveri che tale situazione
comporta». Questo «tessuto dei legami e degli obblighi sociali prove
nienti da quelle relazioni fisiche che sono gli elementi della società, nel­
la maggior parte cominciano, e sempre continuano, indipendentemente
dalla nostra volontà»14. La società esiste da sempre, quindi non può es
sere creata né rifatta secondo i bisogni degli uomini. Essa non è netti
meno composta da uomini ma da corpi. La vera domanda è: come im­
pedire agli uomini di distruggere questo frutto della volontà divina così
come si manifesta nella storia?
Per questo, occorre «l’aiuto della religione»15. «L’uomo è per natura
un animale religioso» e «la religione è la base di ogni forma di vita asso­
ciata, la fonte di ogni bene e di ogni consolazione.»16Burke considera «la
consacrazione dello Stato a opera di un’istituzione religiosa di Stato» co­
me una necessità insita nella natura dell’organizzazione sociale. Qui egli
pone un principio molto importante: «Quanti posseggono una porzione-
anche minima di potere dovrebbero essere costantemente e potente-
mente richiamati alla constatazione che questo potere è stato delegato
loro da un Essere Supremo, Autore e Fondatore della società, verso cui
sono responsabili della propria condotta»17. L’idea di mandato - trust -
è un principio lockiano; solo che per l’autore del Secondo trattato il
mandatario è responsabile di fronte al popolo e non di fronte al nostro
«Essere Supremo». Questa è la sola differenza tra un pensiero liberale

12. Ibid., p. 120.


13. Burke, «Ricorso dai nuovi agli antichi Whigs», in ibid., p. 554.
14. Ibid., p. 537.
15. Burke, «Riflessioni sulla Rivoluzione francese», in Scritti politici, p. 266.
16. Ibid., pp. 261-262.
17. Ibid.,p .2M .

279
La cultura politica dei pregiudizi

basato sul razionalismo e le varie forme di comunitarismo, a cominciare


dal sistema burkiano. Tanto più che tale «responsabilità» è impressa nei
principi e nella struttura del potere. «Il nostro sistema ecclesiastico [...]
si erige sovrano nei nostri spiriti. Perché regolandoci sul nostro attuale
sistema religioso noi continuiamo a basarci sulla volontà dell’umanità
nella sua primitiva e perenne formulazione.»18 Ecco perché «noi consi­
deriamo la Chiesa come il fondamento della nostra intera Costituzione,
con ogni parte della quale mantiene una indissolubile unione». Per lui
«Chiesa e Stato sono idee inseparabili»19. Fondamento della civiltà, del­
la morale, della vita sociale, della famiglia, la religione è un pilastro del­
lo Stato. Non la releghiamo in «oscure municipalità o rustici villaggi, ma
anzi la esaltiamo in tutta la sua pompa nelle corti e nei Parlamenti»20. La
religione è un fattore di stabilità e di continuità, assicurata dalle «nostre
istituzioni ecclesiastiche» alle quali «abbiamo apportato pochissimi mu­
tamenti dal XIV o XV secolo» e che «si sono rivelate [...] favorevoli al­
la moralità e alla disciplina». Ecco perché «la nostra educazione è, in cer­
to qual modo, completamente nelle mani degli ecclesiastici, in tutti gli
stadi dall’infanzia alla maturità»21. Questi legami continuano alla fine
delle scuole e delle università, poiché gli ecclesiastici hanno il ruolo di
mentori dei giovani nobili nei loro viaggi all’estero - tappa importante
nella formazione delle élite - e ciò fa si che essi «con questi ecclesiastici
continuano a mantenere relazioni per tutta la vita»22.
E in questo spirito che Burke difende i diritti dei cattolici irlandesi. A
lui non interessa la difesa dei diritti individuali bensì la protezione dei di­
ritti tradizionali di una collettività stabilita. Il cattolicesimo è un elemen­
to fondamentale dell’identità irlandese, appartiene alla sua storia, crea la
sua solidità in quanto comunità. E quindi un fattore di stabilità e di con­
servazione dell’ordine costituito. Esso rappresenta inoltre un argine con­
tro il pericolo assai più grande che minaccia l’Inghilterra, cioè la sovver­
sione proveniente dalla Francia. Perché se non si pone immediatamente

18. Ibid., p. 263.


19. Ibid., p p . 211-212.
20. Ibid., p. 276.
21. Ibid., p. 272.
22. Ibid.

280
La cultura politica dei pregiudizi

fine a ogni dissidio religioso non ne uscirà vincitrice né la Uhics.i ili Kn


ma, né la Chiesa di Scozia, né la Chiesa di Lutero, né quella di ( .alvino-
si finirà per assicurare il trionfo della «religione nuova e fanatica L I dei
Diritti dell’uomo, che rifiuta qualsiasi istituzione stabilita, qualsiasi disi i
piina, ogni ordine ecclesiastico e, in verità, qualsiasi ordine civile»’’ I n o
perché tutte le Chiese hanno il comune interesse di difendersi contro
«questo sistema sterminatore, nuovo e in piena espansione»2-1.
Thomas Paine aveva immediatamente compreso che «Uno dei ritoi
nelli che compaiono più frequentemente nel libro di Burke è “Chiesa c
Stato”. Egli non allude a una Chiesa particolare, o a un particolare Stalo,
ma a qualsiasi Chiesa e qualsiasi Stato; e adopera il termine come una for­
mula generale per sostenere pubblicamente la dottrina politica di unire
sempre la Chiesa con lo Stato in ogni paese»232425. Non per caso i liberali in­
glesi, così come gli autori del Federalista e i loro eredi del X IX e del XX
secolo, denunciavano ciò che Paine chiama la «dottrina antipolitica di
“Chiesa e Stato”» 26 di Burke e si adoperavano per la separazione di Stato
e Chiesa. E ancora non per caso tutti i nemici deirilluminismo, del libe­
ralismo dei diritti dell’uomo e della società intesa come una semplice co­
munità di cittadini fanno appello alla religione. Quindi è evidente come,
sia per Burke che per de Maistre, l’ateismo sia un «vizio abominevole» e
il «fanatismo ateo spiri da una multitudine di scritti» che a Parigi «si so­
no insinuati nella mente popolare stimolandovi le più feroci e selvagge di­
sposizioni»,27 creando una situazione in cui si vedono la religione umilia­
ta, i beni dello Stato confiscati, la casa reale sbeffeggiata, il popolo nelle
strade e, al potere, «contrabbandieri di corrotte metafisiche»28.
Tuttavia la concezione burkiana di religione è molto ambigua. Da
una parte, quando insiste sul ruolo della provvidenza nella storia, sem­
bra riconoscere l’esistenza di un ordine divino e di una verità che sareb­
bero rivelati dalla religione. L’interpretazione liberale del suo pensiero,

23. Burke, «Letter to Richard Burke, post 19 February 1792», The ’Writings and
Speeches o f Edmund Burke (edizione di Oxford), voi. IX, p. 647.
24. Ibid., p. 648.
25. Thomas Paine, / diritti dell’uomo, p. 163.
26. Ibid., p. 164.
27. Burke, «Riflessioni sulla Rivoluzione francese», in Scritti politici, p. 334.
28. Ibid., p. 261.

281
Im cultura politica dei pregiudizi

di cui Kirk negli anni Cinquanta del Novecento e Gertrude Himmelfarb


ai giorni nostri sono i grandi sacerdoti in nome di tutti i neoconservato­
ri, tende a vedere in Burke un anello della tradizione platonica, come Fi­
lone e Cicerone, che lui cita, l’araldo di una dottrina divina di jus natu­
rale, di cui le leggi umane sarebbero solo una manifestazione29. Anche
Rodney Kilcup pensa che per Burke la struttura della natura umana sia
espressione della volontà superiore alla quale siamo tutti sottoposti. In
questo modo la legge morale non è imposta all’uomo ma in lui imma­
nente30. Kilcup in effetti ritiene che in Burke ci sia l’idea secondo la qua­
le gli uomini non cambiano e restano sempre ciò che sono stati. Per cui
anche le cause del male sono permanenti31. Ma dall’altra parte, guardan­
do le cose da vicino, si giunge alla conclusione che «lo spirito di nobiltà
e Io spirito di religione» costituiscono per lui le due colonne dell’ordine
e della conservazione e il più delle volte sembra proprio che la religione
svolga prima di tutto una funzione di un arnese di lavoro.
Per questo Acton, pur fervido ammiratore dell’autore delle Rifles­
sioni, critica la sua pericolosa concezione della storia. Egli pensa che la
verità e l’ordine eterni siano rivelati dalla religione, non dalla storia, e
che costituiscano i criteri attraverso i quali la storia stessa viene giudica­
ta. Secondo lui la posizione di Burke era l’esatto opposto: la verità non
appartiene alla metafisica ma alla vita degli uomini e la si può individua­
re soltanto studiando la vita. Secondo Acton il cuore di Burke propende
solo per metà verso l’idea dell’immanenza; l’altra metà associa religione
e storia32. In pratica nel pensiero di Burke esistono entrambi questi
aspetti e non sono incompatibili, radicati come sono nel suo antirazio­
nalismo. Con la massima forza Burke nega qualsiasi sforzo di connette­
re la nostra capacità di comprensione morale con la ragione, essendo
quest’ultima per lui incapace di cogliere l’essenza delle cose. A conti fat­
ti sembra proprio che Burke non riconosca l’esistenza di principi mora­
li permanenti, validi in ogni tempo, per guidare il comportamento poli-

29. R. Kirk, «Burke and the Philosophy of Prescription», jo u rn a l o f the History o f


Ideas, 14 (3), giugno 1953, p. 372.
30. Cf. Rodney W. Kilcup, «Burke’s Historicism», jo u rn a l o f M odern H istory, 49,
1977, p.395.
31. Ibid. , pp. 397-398, cita la Prem ière lettre su r une p aix régicide e le Riflessioni.
32. Cobban, E d m u n d Burke, p. 86.

282
La cultura politica dei pregiudizi

tico. Certo, la volontà divina costituisce teoricamente per ruotilo un oli


bligo morale, ma questa volontà si scopre solo nel corso della sioii.i
quindi, se è il contingente a fare la storia, allora il contingente crea .111
che la morale pubblica. In ogni modo, quando si tratta di verità morali
e religiose, bisogna volgersi ai sentimenti53. Si vede così come l’antira/.io
nalismo, respingendo di fatto il cristianesimo, generi il relativismo. Il
pensiero di Burke percorre quindi la stessa china di quello di I lerder. I ,a
religione non è una verità rivelata ma uno strumento di coesione e eli sa
nità sociale: si giunge pertanto a Barrès, a Maurras e a Spengler e quelle
forme estreme di questo modo di pensare costituite dai diversi movi
menti fascisti. Maurras, leader di un movimento politico che continua a
rifarsi al cattolicesimo, finirà per essere respinto dal Vaticano.
Contrariamente ad Acton, la religione è quindi per Burke una mac­
china da guerra lanciata contro la «Dichiarazione dei diritti» dei rivolu­
zionari francesi, quel manifesto il cui oggetto è «a un tempo empio e mal­
vagio» poiché «si voleva inculcare nello spirito del popolo un sistema di
distruzione, mettendo sotto la sua scure ogni autorità civile e religiosa e
rimettendole lo scettro dell’opinione pubblica». La religione è un baluar­
do contro questa «sorta di Istituto o Digesto d’anarchia» che ha permes­
so di attaccare «la proprietà stessa nelle sue fondamenta»:3334a quest’ope­
ra di distruzione Burke oppone «i diritti reali dell’uomo», i vantaggi di
cui quest’ultimo gode all’interno della società35. Certo, «il vivere sociale è
stato istituito per promuovere il vantaggio dell’uomo. [•■ •] E come un
istituto di beneficenza»; tutti gli uomini «hanno il diritto a ottenere giu­
stizia, [•..] diritto ai frutti del proprio lavoro. [...] Hanno ugualmente di­
ritto alle proprietà degli avi, al nutrimento e al miglioramento della loro
prole»; hanno anche quello «alla consolazione nell’ora della morte».
Ma, e qui sta un punto essenziale, «in questa società tutti gli uomini
hanno eguali diritti; ma non a cose eguali. Colui che ha posto solo cin­
que scellini in quest’impresa ha, in proporzione al suo investimento, lo
stesso diritto su di essa del suo vicino che vi ha posto cinquecento ster­

33. Kilcup, «Burke’s Historicism», jo u rn a l o f M odem H istory , 49, 1977, pp. 395-
396.
34. Burke, «Discours du 9 février 1790», in Réflexions sur la Révolution de France,
pp. 328-329.
35. Burke, «Riflessioni sulla Rivoluzione francese», in Scritti politici, p. 222.

283
La cultura politica dei pregiudizi

line e a cui spetta una proporzione più larga di utile. Ma non ha diritto
a un dividendo uguale del prodotto del capitale comune». Questo non
sarebbe mai venuto in mente a Locke o allo stesso Madison. L’inegua­
glianza dei diritti che fa da sfondo al pensiero sociale di Burke si tra­
sforma, passando in campo politico, in un rifiuto totale e assoluto dei di­
ritti: «per quanto riguarda la parte di potere, autorità e direzione che
spetta a ogni individuo neH’amministrazione dello Stato, nego che que­
sta faccia parte direttamente degli originali diritti dell’uomo in una so­
cietà civile - perché io considero solo l’uomo in una società civile - e ri­
tengo che sia invece stabilito per convenzione»36. Due anni più tardi, nel­
l’agosto del 1791, quando i lavori dell’Assemblea costituente stavano per
concludersi, Burke riassume il proprio pensiero: «I pretesi diritti del­
l'uomo che hanno provocato questa distruzione, non possono essere i di­
ritti del popolo. Perché essere un popolo, e avere questi diritti, sono due
cose incompatibili. La prima presuppone la presenza, l’altra l’assenza di
una condizione di società civile»37.
Burke aveva già fatto questo stesso ragionamento alla vigilia della Ri­
voluzione in occasione dell’apertura del processo al governatore Warren
Hastings. La sola e unica eguaglianza esistente è un’eguaglianza morale
tra esseri creati a immagine di Dio38. Il diritto naturale non fissato alle
realtà sociali è pura «codificazione astratta»,39 parola chiave per definire
ogni principio distruttore dell’ordine esistente e per indicare la condan­
na senza appello dell’individualismo, dell’eguaglianza e della libertà, co­
sì come viene definita partendo da Locke fino alla Dichiarazione france­
se del 1789, passando per le Dichiarazioni americane dei diritti. Quan­
do capisce il carattere anacronistico delle sue proposte agli occhi dei lea­
der whigs, Burke si rifa a «una libertà razionale e vigorosa»40 e cerca di

36. Ibid., pp. 222-223.


37. Burke, «Ricorso dai nuovi agli antichi Whigs», in Scritti politici, p. 556 (corsivo
nel testo). La citazione è esatta, anche se ci si aspetterebbe «avere diritti» e non
«avere questi diritti». Si veda anche p. 458.
38. Francis R Canavan, «E. Burke’s Conception of the Role of Reason in Politics»,
The journal of Politics, 1959 (21), 71. La citazione proviene da Works, XIII, p.
166, 16 febbraio 1788.
39. Burke, «Riflessioni sulla Rivoluzione francese», in Scritti politici, pp. 158-160,
221-227.
40. Ibid., p. 194.

284
La cultura politica dei pregiudizi

far passare il suo culto della storia e deU’immobilismo, che già dicci .ni
ni prima lo situava all’estrema destra del partito whig, come sola c min a
eredità autenticamente whig'1.
In quanto rivolta dell’individuo contro Dio e la natura, della ragio­
ne contro la storia e la società, la Rivoluzione era diabolica. Di cerio
Burke non ignora il senso della Riforma e sa che è per questo individuo
«riformato» che Hobbes e Locke hanno creato la teoria dei diritti nato
rali. Tuttavia, fino a quando l’ordine sociale inglese non venga messo in
discussione dalla Gloriosa Rivoluzione, fino a quando l’indipendenza
degli Stati Uniti possa essere interpretata come il risultato delle goffag­
gini della Corona, il male rimane confinato all’opera di Hobbes, Locke
o Rousseau. Ma quando l’insurrezione dell’uomo assume le dimensioni
di un disastro che, nella sua mente, minaccia di inghiottire un’intera ci
viltà con la forza di un volgare utilitarismo, Burke lancia la prima gran­
de rivolta comunitaria e nazionalista.
Tuttavia la sua difesa della comunità contro l’individuo, dello speci­
fico contro l’universale, la sua difesa delle culture locali, delle comunità
organizzate contro la pretesa della ragione, il suo profondo pessimismo,
non fanno di lui un cieco difensore della storia. Senza dubbio egli insor­
ge contro le pretese della ragione alle quali oppone storia e tradizione,
ma non una qualsiasi storia o una qualsiasi tradizione. Con le sue scelte
è il primo a tracciare la via che prenderanno i grandi nomi della rivolu­
zione conservatrice: la storia è fatta di tradizioni diverse e contradditto­
rie. Essa non è un tutto e ha molteplici insegnamenti da impartire. Burke
fa come se la guerra civile e l’esecuzione di Carlo I non appartenessero
alla storia d’Inghilterra. In realtà la storia dell’Inghilterra, fino alla rivo­
luzione, è ricca di movimenti di protesta e dissenso, di radicalismo poli­
tico e di egualitarismo, ben più di quella della Francia. I Livellatori (Le-
vellers) e i Dtggers, Hugh Peter e John Ball, Thomas More, autore della
famosa Utopia, rappresentano una tradizione inglese alla quale Richard
Price potrebbe facilmente richiamarsi. I Livellatori avevano sostenuto ri
vendicazioni progressiste, come la riforma della legge sui debiti, l’aboli
zione della decima, la separazione tra Chiesa e Stato. I Diggers, con i lo­
ro progetti di comuniSmo agrario, avevano concepito obiettivi sociali e41

41. Burke, «Ricorso dai nuovi agli antichi Whigs», in Scritti politici, p. 556.

285
La cultura politica dei pregiudizi

politici che avevano permesso uno sviluppo della coscienza democratica


in un paese in mutazione. Ma perché andare indietro fino ai dissidenti
che volevano fare dell’Inghilterra una Repubblica egualitaria quando, per
l’autore delle Riflessioni, la stessa tradizione di Locke era inaccettabile?
Burke non era così ingenuo da credere che potesse esistere una sola
tradizione o che l’esperienza del passato potesse essere ciecamente appli­
cata ai bisogni del presente4243.Al contrario: nel caso della Francia rivolu­
zionaria, il teorico della guerra ideologica mette in guardia contro «questi
prìncipi incorreggibili che, nella lotta a questa potenza nuova e inaudita si
comportano come se la guerra presente assomigliasse alle loro antiche bat­
taglie. [...] E qui che il sentiero battuto è in realtà il sentiero più perico­
loso»4’. Burke sapeva che la storia è un processo dinamico e che i cambia­
menti nella vita degli uomini sono inevitabili, ma riteneva assolutamente
necessario che le soluzioni prese fossero conformi ai grandi obiettivi che
assicuravano la perennità di una civiltà cristiana. Per questo bisognava sal­
vaguardare la gerarchia sociale, limitare al massimo la partecipazione po­
litica e stroncare sul nascere qualsiasi velleità di democratizzazione, anche
limitata ai margini della vita politica. Essere capaci di fare la scelta giusta,
ecco cosa intendeva l’autore delle Riflessioni, come i suoi successori nel
Novecento, quando esortava a prendere la via della tradizione.
Lo stesso avviene quando si tratta di grandi periodi della storia ge­
nerale. Come Herder, Burke privilegia il Medioevo. Immerso in un mon­
do che coltiva lo scetticismo e nega la fede, che è in rivolta contro l’or­
dine stabilito, che predica l’autonomia dell’individuo, Burke si volge,
non solo come i cattolici de Maistre e Maurras che provavano orrore per
la Riforma individualista che sarebbe sfociata neH’Illuminismo, ma an­
che come il pastore luterano Herder, all’età della fede, della stabilità, del
rispetto delle gerarchie e delle classi sociali, dell’armonia dei rapporti so­
ciali. Ciò è naturale quando si vive in un periodo che innalza il dubbio a
rango di virtù e che parte in guerra contro la religione, contro le dise-

42. Si veda Don Herzog, «Puzzling through Burke», Political Theory, 19 (3), 1991,
pp. 351-352.
43. Burke, «Deuxième lettre, sur la génie et le caractère de la révolution française,
dans ses rapports avec les autres nations» (Deuxième lettre sur la paix régicide),
in Réflexions sur la Révolution de Trance, p. 579.

286
La cultura politica dei pregiudizi

guaglianze naturali, contro l’ordine. È naturale, quando tutto un mondo


va in frantumi, ritornare all’età della cavalleria, a uno stile di vita ben or­
dinato, aH’armonia dei rapporti sociali accettati, rispettati e percepiti co­
me immutabili. La società medievale, concepita come un corpo fondato
sulla dipendenza reciproca, riconosceva il valore della vita municipale e
la bellezza dell’ordine corporativo. In questo modo si viene formando la
visione di un mondo in cui l’uomo è inserito nel quadro della famiglia,
del clan, della comunità, della sua città e infine della nazione.
Nei fatti, «gli uomini arrivano così in una comunità muniti dello sta­
to sociale dei loro genitori, dotati di tutti i benefici, gravati di tutti i do­
veri che tale situazione comporta. Se il tessuto dei legami e degli obbli­
ghi sociali provenienti da quelle relazioni fisiche che sono gli elementi
della società, nella maggior parte cominciano, e sempre continuano, in­
dipendentemente dalla nostra volontà, così, senza alcuna stipulazione da
parte nostra, noi siamo legati da quella relazione chiamata». Ne deriva
che «la nostra patria non è soltanto un luogo fisico. Consiste, in larga mi­
sura, dell’antico ordine nel cui àmbito siamo nati»'14. «L’amore per il pro­
prio paese, dice ancora nel processo di Hastings, costituisce per l’uomo,
dopo l’amore per i figli, l’istinto più potente, a un tempo naturale e mo­
rale.»445 La nazione è l’espressione per eccellenza dell’idea di continuità46:
è in questo modo che una comunità nazionale si sviluppa nel corso dei
secoli e prende coscienza di sé, dei comportamenti, dei sentimenti e del­
le opinioni, e si formano quei pregiudizi che diventano parte integrante
del carattere nazionale. Una persona nata in una comunità nazionale ne
assorbe il temperamento e, plasmata da pregiudizi e abitudini ancestra­
li, acquisisce una seconda natura47.1 pregiudizi e i sentimenti di una na­
zione appartengono a un ordine naturale divino al quale tutti gli uomini
sono sottomessi48.1 pregiudizi ereditati da una nazione hanno un signifi-

44. Burke, «Ricorso dai nuovi agli antichi Whigs», in Scritti politici, p. 537.
45. Cobban, E dm u n d B urke , p. 97, cita Works, V ili, p. 141.
46. Ibid., p. 89.
47. Kilcup, «Burke’s Historicism», Jo u rn al o f M odern H istory, 49, 19 (cita il proces­
so Hastings da Burke, Works, Boston 1886, voi. XII, p. 164).
48. Burke, Reflexions on the Revolution in France, introduzione e note di J.G.A. Po-
cock, pp. 76-77 [«Riflessioni sulla Rivoluzione francese», in Scritti politici, pp.
257-258],

287
La cultura politica dei pregiudizi

cato morale che non può essere ignorato se non dagli atei o dagli imbe­
cilli. Per concludere, se a ogni nuova moda dovessero verificarsi cam­
biamenti nella vita delle nazioni e degli Stati, gli uomini varrebbero po­
co più che le mosche d’estate: gli uomini passano come le ombre, le na­
zioni e la specie restano45. Il paragone tra gli individui e le ombre che at­
traversano correndo il mondo della storia è, come abbiamo visto all’ini­
zio di questo capitolo, un grande tema herderiano.
Burke è stato uno dei primi fondatori dell’ideologia nazionalista e
uno dei primi pensatori europei a comprenderne la forza integratrice.
La nazione costituisce il tipo ideale di comunità organica; modellata dal­
la storia, essa possiede un’esistenza oggettiva e si riconosce in criteri
completamente indipendenti dalla volontà individuale e dalla ragione.
Avendo orrore per i diritti dell’uomo, per i diritti dell’individuo presi al
di fuori del contesto sociale e culturale, Burke era il grande difensore
delle comunità costituite, delle nazioni storiche colpite nei loro diritti. Si
era infatti opposto all’annessione della Corsica da parte della Francia
come allo smembramento della Polonia. La nazione, vero organismo vi­
vente, era distinta dal popolo, parola la cui connotazione democratica lo
urtava profondamente. Burke temeva e disprezzava il popolo, insieme di
individui sempre pronti a rivendicare diritti, gli esecrabili diritti del­
l’uomo, e a dimenticare i doveri dell’obbedienza e del rispetto dell’or­
dine stabilito. Fu uno dei primi a capire che il nazionalismo organico
rappresentava un argine alla marea democratica. La conservazione del­
l’ordine vigente non costituisce un valore di per sé, ma è lo strumento
che permette, bloccando il liberalismo dei diritti dell’uomo e della de­
mocrazia, di contenere la decadenza. D ’altra parte l’obbedienza è per
Burke il fondamento del suo concetto di Stato: su di essa si basa il go­
verno degli uomini’“. Sono questi i grandi principi portati avanti dai
maurrasiani e dagli elementi già apertamente fascistizzanti della prima
metà del Novecento. E ciò che il bismarckiano Meinecke continua ad
ammirare in Burke.4950

49. Citato in Cobban, Burke, pp. 87-89.


50. Burke, «Speech on Moving his Resolutions on Conciliations with the Colonies»,
I, The Works of the Right Honourable Edmond Burke, Henry G. Bohn, London
1854, voi. I, pp. 470-471 [«Discorso di Edmund Burke nel presentare la sua mo­
zione di riconciliazione con le colonie, 22 marzo 1785», in Scritti politici, p. 95],

288
La cultura politica dei pregiudizi

Gli obiettivi che Burke si era fissato sono gli stessi ai quali è dedi­
cata l’opera di de Maistre: la sua formula non si discosta da Herder o
dal «venerabile Burke»’1. Egli scrive: «Da quando l’uomo ha ricono­
sciuto la sua nullità ha compiuto grandi passi in avanti»,515253ammette la
sua dipendenza, capisce che, «sebbene possa, per esempio, piantare
una ghianda, [...] non ha fatto delle querce». Il male è che in campo so­
ciale egli inizia a credere di essere effettivamente « l’autore di tutto ciò
che da lui è fatto: in un certo senso è la cazzuola che si ritiene architet­
to»” . Nulla è più falso della famosa frase con cui inizia il Contrat sodai.
l’uomo non è libero, è vero il contrario. Contro Rousseau, autore più
colpevole di tutti, de Maistre si richiama ad Aristotele, che arrivava «a
dire, come tutti sanno, che certi uomini nascono schiavi, e non c’è nien­
te di più vero»545.La diseguaglianza è naturale e le giuste conclusioni di
Aristotele sono fondate sulla storia, «cioè sulla politica sperimentale».
E la storia ci insegna che l’uomo «è troppo cattivo per essere libero»'". De
Maistre, come Taine più tardi, vede nell’uomo che sfugge al controllo
della Chiesa un rivoluzionario in potenza, un potenziale giacobino al
quale la società apparirà sempre ingiusta e il suo ordinamento contrario
alla ragione. Ciò significa che è assurdo, se non criminale, parlare di so­
vranità del popolo: gli uomini non possono inventare la cosa «più sacra,
più fondamentale del mondo morale e politico»,56 così come non pos­
sono costituire nazioni.
Senza dubbio, da cristiano qual è, egli non può mai concepire un de­
terminismo che renderebbe impossibile ogni responsabilità individuale.
Gli uomini sono «liberamente schiavi, essi operano secondo volontà e ne-

51. De Maistre, «Réflexions sur le protestantisme», in Écrits sur la Révolution, PUF,


Paris 1989, p. 235.
52. De Maistre, «Saggio sul Principio Generatore delle costituzioni politiche», in
Scritti politici, p. 86; «H a creduto di avere il potere di creare mentre ha solo quel­
lo di im porre il nom e » (pp. 86-87) (corsivo nel testo).
53. Ibid., p. 46. Si veda anche Écrits sur la Révolution, pp. 93-94 e 141.
54. De Maistre, I l Papa, trad. di Aldo Pasquali, Rizzoli, Milano 1984, p. 283 (corsi­
vo nel testo).
55. Ibid. (corsivo nel testo).
56. De Maistre, «Saggio sul Principio Generatore delle costituzioni politiche», in
Scritti politici, p. 87.

289
La cultura politica dei pregiudizi

cessità insieme»: «siamo tutti legati al trono dell’Essere supremo con una
catena leggera, che ci trattiene senza asservirci»57. Tuttavia, dal momento
che «questa nostra funesta inclinazione al male è una verità sentita, spe­
rimentata e proclamata attraverso i secoli», «il triste dogma» che ne emer­
ge è senza appello: l’uomo «non può essere menzognero senza essere cat­
tivo, né essere cattivo senza essere degradato, né degradato senza essere
punito, né punito senza essere colpevole»58. Ne segue che la società esiste
per timore del castigo e di Dio: «Il castigo governa l’umanità intera; il ca­
stigo la custodisce [...]. L’intera razza umana è mantenuta nell’ordine dal
castigo»59. L’umanità sopravvive solo con il boia e con la religione. Il boia,
come il soldato, analogamente omicida di professione, è un nobile esecu­
tore, vero cardine della società senza il quale qualsiasi ordine sparirebbe60.
In realtà solo la Chiesa cattolica è capace di mantenere il timore del ca­
stigo: nessuna istituzione umana è durevole se non ha una base religiosa,
fonte di disciplina e di rispetto per l’autorità61. L’uomo ha bisogno di un
padrone e necessita di un’educazione religiosa, quindi bisogna mettere la
fede prima della scienza e bisogna prima di tutto riconoscere che Dio,
«autore della sovranità, lo è pure del castigo»6263. Per questo è necessaria
«una rivoluzione morale in Europa», poiché «se lo spirito religioso» non
viene rafforzato, «il legame sociale» sarà dissolto65.
Il più grande corruttore mai esistito è l’individualismo. Il cristianesi­
mo è stata la religione dell’Europa fino al XVI secolo, in quanto «istitu­
zione politica», e il principio fondamentale sul quale si basava questa re­
ligione «era l’infallibilità dell’insegnamento da cui deriva il rispetto cie­
co per l’autorità, la rinuncia a ogni ragionamento individuale»64. Il pro­

57. De Maistre, Considerazioni sulla Francia, p. 3.


58. De Maistre, L e serate d i Pietroburgo , p. 71 (corsivo nel testo).
59. Ibid., p. 31.
60. Sul boia si veda L e serate d i Pietroburgo, pp. 33-35 e 378-379.
61. De Maistre, «Saggio sul Principio Generatore delle costituzioni politiche», in
Scritti politici, p. 89.
62. De Maistre, L e serate d i Pietroburgo, p. 35; «Saggio sul Principio Generatore del­
le costituzione politiche», in Scritti politici, pp. 76-79.
63. De Maistre, Ecrits sur la Révolution, p. 112.
64. De Maistre, «Réflexions sur le protestantisme», in Ecrits su r la Révolution, pp.
220 e 227.

290
La cultura politica dei pregiudizi

testantesimo è «l’insurrezione della ragione individuale contro la ragio­


ne generale»; affrancando il popolo dal giogo dell’obbedienza, esso è
non solo un’eresia religiosa ma civile, poiché scatena «l’orgoglio genera­
le contro l’autorità e pone la discussione al posto dell’obbedienza»65. Na­
to con le armi in pugno, il protestantesimo è ribelle nella sua essenza, per
natura ostile alla sovranità, « è nemico mortale di ogni ragione nazionale;
a ogni cosa esso sostituisce la ragione individuale: ciò distrugge tutto»66.
De Maistre, che non ha una conoscenza diretta di Herder, mostra come
Condorcet, per lui il più odioso fra i rivoluzionari, il più acerrimo nemi­
co del cristianesimo e contemporaneamente amico della Riforma, sapes­
se bene quel che diceva quando si meravigliava di fronte alla creazione
del principio del libero esame: nulla poteva resistere a questo appello al­
la ragione individuale67. Il protestantesimo ha fornito il principio, gli Il­
luministi ne hanno tratto le conseguenze68. Tra «il protestantesimo e il
giacobinismo»69 c’è un’affinità che colpisce, dal «sanculottismo della re­
ligione»: entrambi predicano la sovranità del popolo, «l’uno invoca la
parola di Dio, l’altro i diritti dell’uomo»70. Un secolo dopo de Maistre,
Maurras riprenderà, quasi immutate, le stesse argomentazioni.
In questo modo la ragione disorganizza la società. Essa non può
«supplire a quelle basi che vengono dette superstiziose» senza sapere
quello che si dice, non può sostituire «la forza dell’usanza, l’ascendenza
dell’autorità»;71 come Burke ed Herder prima di lui, come Taine, Barrès
e Maurras dopo, de Maistre fa del pregiudizio un argine contro la ragio­
ne. Avendo violato «tutti i pregiudizi e tutte le usanze», la Rivoluzione
non poteva che sfociare nella tirannia72.
Per cui, come Burke, de Maistre stabilisce una «regola generale: l’uo­
mo non può fare una costituzione e nessuna costituzione legittima sarà

65. Ibid., pp. 219-221.


66. Ibid., pp. 227. Cfr. anche pp. 221-223 (corsivo nel testo).
67. Ibid., pp. 235-237.
68. De Maistre, Il Papa, p. 30.
69. De Maistre, «Réflexions sur le protestantisme», in É crits su r la R évolu tion , p.
234.
70. Ibid., p. 239.
71. De Maistre, Écrits su r la Révolution, pp. 133 e 139-140 (corsivo nel testo).
72. Ibid., p. 182.

291
La cultura politica dei pregiudizi

stata scritta»1'. Il diplomatico savoiardo ritorna su questo principio in­


numerevoli volte. Attacca Locke e Paine, il primo per aver cercato il ca­
rattere della legge nell’espressione delle volontà riunite, l’altro per aver
affermato «che una costituzione non esiste dal momento che non si può
mettere in tasca»1*. Non si è mai scritto e mai si potrà scrivere a priori la
raccolta delle leggi fondamentali che devono costituire una società civi­
le o religiosa” . Una Costituzione non ha una vera origine, così come non
si può dire come si sia costituita una società: «Nulla di grande ha gran­
di inizi»737456. La società per de Maistre «è antica quanto l’uomo» e questo
«stato immaginario [...] chiamato “stato di natura”» 77 non è mai esisti­
to. Ne consegue ovviamente che i diritti dell’uomo non esistono, poiché
la società costituita è vecchia quanto l’individuo.
Questo è il motivo del traviamento dei francesi che hanno fatto una
Costituzione «per l'uomo. Ora, non esiste uomo nel mondo», dice de
Maistre in uno dei suoi testi più conosciuti, che renderà felice non solo
Maurras ma anche Berlin e i comunitaristi di fine Novecento. «H o visto,
nella mia vita, francesi, italiani, russi ecc.; so pure, grazie a Montesquieu,
che si può essere persiani-, ma quanto all 'uomo, dichiaro di non averlo in­
contrato in vita mia.»78 Maurras riprenderà quest’idea, radicalizzandola
per conferirle un senso nazionalista e farne un elemento fondamentale
del suo sistema. Nella seconda metà del Novecento Isaiah Berlin renderà
anch’egli omaggio all’autore delle Considérations sur la France per aver
enunciato ciò che anche secondo lui è una grande verità79, alla quale de
Maistre aggiunge che la sola cosa certa sulle origini dell’uomo è «il pec­
cato originale, che spiega tutto e senza il quale non si spiega nulla»80.

73. De Maistre, «Saggio sul Principio Generatore delle costituzioni politiche», in


Scrìtti politici, p. 66 (corsivo nel testo).
74. Ibid., pp. 38 e 44 (corsivo nel testo).
75. Ibid., pp. 66-67. Cfr. anche pp. 68-71 eÉ crits sur la Kévolution, pp. 142,145-146,150.
76. Ibid., p. 60.
77. De Maistre, L e serate d i Pietroburgo, pp. 385-386. Cfr. anche pp. 81-82.
78. De Maistre, Considerazioni sulla Francia, p. 47 (corsivo nel testo).
79. Berlin, «Joseph de Maistre e le origini del fascismo», in II legno storto dell'um a­
nità. C apitoli d i storia delle idee, a cura di I lenry Hardy, trad. di Giovanni Fer­
rara degli Uberti, Adelphi, Milano 2004, p. 151.
80. De Maistre, L e serate d i Pietroburgo, p. 62.

292
La cultura politica dei pregiudizi

«Il secolo XVIII, che non si è reso conto di nulla, non ha dubitalo
di nulla»; credeva che l’uomo potesse fare una legge, cioè creare a pian
mento strutture di potere81. Ma l’uomo può fare solo regolamenti rovo
cabili; quanto alla legge, essa ha una vera autorità solo se la si presttppo
ne emanata da una volontà superiore; per questo il suo carattere essen
ziale «consiste nel non essere la volontà di tutti»*2. Come Burke, de Mai
stre pensa che le radici delle Costituzioni politiche esistano prima di
qualsiasi legge scritta e che una legge costituzionale sia il risultato di un
diritto preesistente e non scritto. «L’essenza di una legge veramente co­
stituzionale è che nessuno abbia il diritto di abolirla.»83
Per questa ragione de Maistre, che riteneva la perenne presenza di un
boia necessaria per tenere gli uomini sulla retta via, volge uno sguardo in­
vidioso al sistema inglese. L’autore nel quale Berlin vede il fondatore del
fascismo si rivela ammiratore della Costituzione inglese, risultato di un
numero infinito di circostanze che, dopo vari secoli, ha prodotto «l’unità
più complessa e l’equilibrio più bello di forze politiche che si sia mai vi­
sto nel mondo»84. In una nota in fondo a quella stessa pagina de Maistre
va oltre e cita, dopo Cicerone, Tacito, per il quale «il migliore di tutti i
governi [...] sarà quello che risulterà dalla fusione dei tre poteri ben bi­
lanciati l’uno con l’altro: ma questo governo non esisterà mai, oppure, qua­
lora si manifesti, avrà breve durata». Non solo de Maistre fa propria que­
sta visione del bene politico ma rassicura anche i suoi lettori: il buon sen­
so inglese può far durare il suo sistema di governo molto più di quanto
si possa immaginare, «subordinando in continuazione [...] la teoria o ciò
che si chiama i principi, alle lezioni dell’esperienza e della moderazione.
Questo sarebbe impossibile se i principi fossero scritti».85
Non bisogna prendere de Maistre per ciò che non era. Non era un
semplice reazionario, come si ripete da sempre, non era un crociato
giunto direttamente dai tempi di san Luigi né il fondatore del fascismo.
In lui il buon senso tiene in scacco la ragione: mediante il buon senso,

81. De Maistre, «Saggio sul Principio Generatore delle costituzioni politiche», in


Scritti politici, p. 44.
82. Ibid., p. 39 (corsivo nel testo).
83. Ibid., p. 37.
84. Ibid., pp. 45-48. Cfr. anche p. 38.
85. Ibid., p. 48, nota 10 (corsivo nel testo).

293
La cultura politica dei pregiudizi

«felicemente anteriore ai sofismi»,86 cerca di ancorare le norme di com­


portamento al di fuori dell’uomo. La sanzione viene dalla storia, «che è
la politica sperimentale»87- formula che Maurras renderà celebre nel X X
secolo - e quindi la sola fonte di verità esistente, che il XVIII secolo, se­
colo per cui «tutte le realtà sono menzogne e ogni menzogna realtà», ri­
fiuta in nome della ragione sovrana88. Finché il buon senso, la storia e la
religione serviranno a domare la ragione, finché le parole «Church and
State» non saranno bandite dal suo vocabolario, il sistema politico ingle­
se sopravviverà89*. Burke non diceva nulla di diverso e l’autore delle Con-
sidérations sur la France capiva benissimo il pensiero di quello delle Ri­
flessioni sulla Rivoluzione francese. In effetti, dice de Maistre, gli inglesi
non avrebbero mai chiesto la Magna Charta se i privilegi della nazione
non fossero stati violati, ma non l’avrebbero chiesta nemmeno se i privi­
legi non fossero esistiti prima di essa. La Costituzione inglese «funziona
non funzionando»-™ questa formula demaistriana restituisce perfetta­
mente il senso di tutta l’opera politica tanto di Burke che della propria.
Burke conosceva tutte le lacune del sistema, ma cercare di correggerle
avrebbe creato, secondo lui, il rischio di crollo totale. Una costruzione
tanto complessa poteva cambiare solo attraverso un processo di accu­
mulazione quasi impercettibile e diluito in più secoli. De Maistre dice
esattamente la stessa cosa: se si dovesse fare in Inghilterra una legge per
dare esistenza costituzionale al Consiglio privato, regolarne le attribuzio­
ni in modo che non potesse abusarne, si sconvolgerebbe lo Stato91.
Anche la Francia possedeva una Costituzione che assomigliava mol­
to a quella inglese: «tutte le influenze erano molto ben equilibrate, e cia­
scuno stava al proprio posto».92 Lo attestano i monumenti del diritto
pubblico francese, come la testimonianza di un conoscitore come Ma­
chiavelli, benché fervente repubblicano; de Maistre scrive che per l’au-

86 . Ibid., p. 39.
87. Ibid., p. 27.
88 . Ibid., p. 62.
89. De Maistre, Considerazioni sulla Francia, p. 57 (in inglese e in corsivo nel testo).
90. De Maistre, «Saggio sul Principio Generatore delle costituzioni politiche», in
Scritti politici, p. 41 (corsivo nel testo).
91. Ibid., p. 43.
92. De Maistre, Considerazioni sulla Francia, p. 57.

294
La cultura politica dei pregiudizi

tore del Principe il governo del regno di Francia era «moderato più dal­
le leggi che alcuno altro regno».93 Un carattere particolare della monar­
chia francese è il suo elemento teocratico: «nulla è così spiccatamente
nazionale quanto tale elemento».9495
Sull’esempio di Herder, Burke e de Maistre, preservare la cultura dei
pregiudizi e negare l’autonomia dell’individuo costituisce l’alfa e l’omega
del pensiero di Hippolyte Taine: è appunto la manifestazione dell’idea se­
condo la quale l’uomo è il prodotto della razza, del ceto e del momento
cui appartiene. Già nel 1907 Alphonse Aulard aveva giustamente osser­
vato che la famosa teoria di Taine elaborata nella prefazione alYHistoire
de la littérature anglaise veniva direttamente in parte da Montesquieu e da
Auguste Comte ma soprattutto da Herder. In effetti nel tredicesimo libro
delle Idee la formula «le circostanze nazionali, temporali e spaziali date»93
precede quella che si trova nel quindicesimo libro, «a seconda del luogo,
del tempo e delle circostanze»: qui Herder mostra come «le nazioni si
modificano a seconda del luogo, del tempo e del loro carattere interno;
ognuna di esse porta in sé la misura della propria perfezione, che non è
paragonabile con quella delle altre»96. Aulard, che conosceva la prima tra­
duzione francese delle Idee, quella di Quinet, utilizza anche il testo origi­
nale e cita Herder sottolineando l’essenziale: «le nazioni si modificano a
seconda del luogo, del tempo e del loro carattere interno»9798. E anche:
«Qual è la legge principale che abbiamo osservato in tutte le grandi ma­
nifestazioni della storia? Mi sembra questa, che dappertutto sulla terra di­
venga ciò che può divenire; in parte secondo la posizione e le necessità del
luogo, in parte secondo le circostanze e le occasioni del tempo, in parte se­
condo il carattere innato o autogenerantesi dei popoli»™. Aulard è convinto

93. Ibid., p. 60.


94. Ibid., p. 56.
95. Herder, Idee p er la filo sofia della storia d e ll’um anità , libro XIII, cap. 7, p. 263.
96. Ibid., libro XV, cap. 3, p. 304.
97. A. Aulard, Taine historien de la Révolution fran çaise, Armand Colin, Paris 1907,
p. 4: Aulard usa il testo tedesco di Ideen zur Philosophie der Geschichte der Men-
schheit, Riga e Lipsia, 1784-1791, 4 voli. La citazione proviene dal t. Ili (1787),
p. 333 [Idee p er la filo so fia della storia dell’um anità, p. 304].
98. Ibid., p. 4. La citazione è tratta dal t. Ili, p. 121 del testo tedesco [Idee p er la f i ­
losofia della storia d e ll’um anità, p. 220 (corsivo nel testo)].

295
La cultura politica dei pregiudizi

che, prendendo spunto dall’autore di Ancora una filosofia della storia,


Taine «si è limitato a esagerare paradossalmente questa teoria che Herder
aveva indicato con acume e misura». Infatti, dove Herder parla di «ca­
rattere nazionale» o di «genio nazionale» Taine, parlando di «razza»,
deforma ed esagera le idee di Herder". Lo storico della Sorbona insiste
giustamente sulla dipendenza di Taine da Herder: l’idea dell’assoggetta­
mento dell’uomo all’insieme delle condizioni naturali e culturali, storiche
e sociologiche nelle quali si sviluppa costituisce l’idea herderiana per ec­
cellenza. Tuttavia, se Aulard, lodando il «saggio scetticismo» dell’autore
delle Idee99100, mostra tanta generosità verso Herder, è per meglio denigra­
re Taine, accusato di avere travisato l’autore tedesco. In realtà, se è esat­
to dire che la parola «razza» non compare in Herder, cosa che non ha nul­
la di sorprendente se non altro perché il XVIII secolo non aveva familia­
rità con quel concetto, l’idea di «carattere nazionale» non ne è poi così
lontana. Nel contesto dell’epoca questo vocabolo gioca più o meno il ruo­
lo che avrà l’idea di razza nell’Ottocento. I primi elementi di un certo de­
terminismo culturale ed etnico sono molto evidenti: il terreno era pronto
per l’arrivo della generazione che già conosceva il darwinismo sociale e il
razzismo di Gobineau.
Tuttavia, per quanto riguarda Taine, il suo pensiero non è realmente
tributario di quello di Gobineau. L’influenza determinante è quella di
Herder e Burke, sulla quale si innesta poi quella di Darwin. In effetti la
formula «la razza, il ceto, il momento» si ritrova già dal 1850 negli ap­
punti del giovane allievo della Sorbona. Né François Léger né André

99. Ibid., pp. 4-6; a p. 5 Aulard cita il testo seguente di Herder: «Come una fonte
ha preso elementi, forze e sapore dalla terra in cui si è raccolta, così l’antico ca­
rattere dei popoli è scaturito da tratti della stirpe, dalla contrada, dal modo di
vita e dall’educazione, dalle imprese e gesta precedenti propri di quel popolo»
[Idee p er la filo sofia della storia dell’um an ità , p. 220].
100. Ibid., p. 6: per sostenere la tesi della distinzione tra Herder e Taine, Aulard ci­
ta nuovamente Herder: «Anche nei popoli che non si sono mescolati, un com­
puto storico diventa un’impresa assai complicata, già per ragioni politiche-geo­
grafiche, tale da richiedere uno spirito privo di ipotesi pregiudiziali per non
perdere il filo» [Idee p er la filo so fia della storia dell’um anità, p. 221], L’opera di
Aulard costituisce una critica demolitrice per il lavoro del Taine storico. Quan­
to questa critica sia giustificata è una questione che ha fatto molto discutere.
Qui non è però importante.

296
La cultura politica dei pregiudizi

Chevrillon informano sull’origine di quegli appunti, ma lame, come Ile


nan, non aveva l’abitudine di citare sempre le sue fonti"". Aveva ledo
Montesquieu e conosceva senza dubbio l’abate Dubos. Cìrazie a Miche
let e a Quinet non poteva ignorare né Vico né Herder. Così, negli anni
Cinquanta dell’Ottocento, la riflessione di Taine sulle abitudini inculali
dei popoli europei segue quella di Herder sul «carattere» e il «genio»
delle nazioni. In entrambi i casi si tratta di spiegare il comportamento
degli uomini attraverso il mondo al quale appartengono e dal quale so­
no stati plasmati. Quando Herder dice che «il carattere primitivo di una
nazione deriva dai tratti ereditari, dal clima, dallo stile di vita, dall’istru­
zione, dai suoi primi sforzi, dalle sue occupazioni abituali»,10102 apre la
strada a Taine. Tutto dipende dalla distanza che separa l’idea di «carat­
tere» da quella di «razza». I concetti herderiani sono ancora quelli del
determinismo culturale, mentre Taine introduce già un determinismo
veramente razziale. Non è il primo in Francia: una certa forma di pen­
siero razziale esisteva al tempo della Restaurazione. Anche Renan adot­
ta quasi completamente la visione herderiana delle differenze etniche. Si
spinge oltre Herder e l’ineguaglianza tra le razze diventa un elemento
fondamentale della sua filosofia della storia. Tuttavia lo stesso Herder
non resta sempre fedele al principio di eguaglianza di tutti i gruppi etni­
ci. L’idea stessa dei popoli giovani ai quali appartiene l’avvenire e quella
dei popoli declinanti crea una chiara gerarchia che è possibile tradurre
in termini di ineguaglianze razziali, così come le concepivano Renan e
Taine. Quasi un secolo dopo Herder, quando il darwnismo sociale si
espande largamente e il determinismo culturale si sviluppa in determini­
smo biologico, il suo significato cambia di molto. Tale processo deve
molto alla volontà di Taine di fare della storia ciò che Aulard chiamava
una scienza analoga alla fisiologia e alla geologia103.
In effetti qui risiede «l’idea madre» di Taine: il suo metodo consiste
non soltanto, come spesso si pensa, nel fare della storia una scienza, ma

101. François Léger, «L’idée de race chez Taine», in P. Guiral e É. Témime (a cura
di), V idée de race dans la pensée politique fran çaise contem poraine, Editions du
CNRS, Paris 1977, p. 89. Cfr. anche André Chevrillon, Taine, form ation de sa
pensée, Plon, Paris 1932.
102. Aulard, Taine, historien de la Révolution française, p. 5.
103. Ibid.

297
La cultura politica dei pregiudizi

nell’assimilarc l’ordine umano all’ordine naturale. Anche Herder assimi­


lava il mondo storico alla natura104. Fin dalle primissime pagine delle Ori­
gines, Taine dichiara di non avere «altri scopi»: e, posto davanti al suo
«soggetto come davanti alla metamorfosi di un insetto», esige che si per­
metta «a uno storico di agire da naturalista»105. Già nella Histoire de la
littérature anglaise vede «l’uomo come un continuo della natura»106. In
questo contesto Taine vuole essere l’erede di Voltaire e si inserisce diret­
tamente nel grande balzo in avanti fatto nel XVIII secolo quando «le
scienze morali si staccano dalla teologia e si saldano alle scienze fisiche
come un loro prolungamento». Mentre i pensatori del secolo preceden­
te partivano ancora dal dogma, gli scrittori del Settecento partono dal­
l’uomo e la critica, dice Taine, trova il suo principio: essendo le leggi del­
la natura «universali e immutabili», ne segue che, «nel mondo morale
come nel mondo fisico, niente vi deroga». Così si trova «un mezzo sicu­
ro per distinguere il mito dalla verità»107. Più avanti egli riafferma lo stes­
so principio: l’osservazione delle leggi biologiche è una necessità meto­
dologica e «La storia umana è una cosa naturale come il resto, la sua di­
rezione le deriva dai suoi elementi; non vi è nessuna forza esteriore che
la guida, ma delle forze interne che la fanno; non va verso uno scopo ma
consegue un effetto»108. Ecco perché tutti i fenomeni storici - strutture
sociali, natura dei regimi, condizioni economiche - non sono né il frut­
to del caso né il prodotto dell’arbitrio, ma «presuppongono certe condi­
zioni alle quali non possono sottrarsi»109. Ciò significa che «la forma so­
ciale e politica nella quale un popolo può entrare e restare non è affida­
ta al suo arbitrio, ma determinata dal suo carattere e dal suo passato»110.
In Les Philosophes classiques du XIX' siècle français egli afferma che il
mondo costituisce un «essere unico»,111 e fornisce un altro testo che

104. Herder, Idee per la filosofia della storia dell’umanità, libro IX, cap. 4, p. 183.
105. Taine, Le origini della Francia contemporanea. L'antico regime, p. 49.
106. Taine, Histoire de la littérature anglaise, YT ed., s.d., t. V, p. 252.
107. Taine, Le origini della Francia contemporanea. L’antico regime, p. 330.
108. Ihid., pp. 332-333.
109. Ibid., p. 336.
110. Ibid., p. 47 (corsivo nel testo).
111. Taine, Les philosophes classiques du XIXr siècle français, p. 370 (citato in Ga-
sparini, La Pensée politique d’Hyppolile Taine, p. 96).

298
La cultura politica dei pregiudizi

definisce bene le sue concezioni naturaliste, deterministe e, al limile, v a /


ziste: l’idea secondo la quale «l’esterno esprime l’interno, la storia mani
festa la psicologia, il viso rivela l’anima»11213.Questa idea essenziale costi
tuisce il fondamento di un determinismo senza il quale il razzismo ilei
Novecento è difficile da concepire.
L’organicismo, questa forma suprema della subordinazione dell'ii)
dividuo alla collettività, è una delle grandi «idee madri» del pensiero de
gli antilluministi. Con naturalezza Taine avanza sulla strada aperta da
Burke ed Herder. E allora che compare anche un fenomeno mal com­
preso e mal interpretato: l’avanzata della destra rivoluzionaria è stata
possibile solo perché la rivolta aristocratica aveva creato il quadro con­
cettuale del grande movimento popolare di rifiuto dei Lumi. Diventata
fenomeno di massa, la rivolta antilluminista è portata avanti grazie agli
stessi principi. Vediamo così che le grandi linee del pensiero di Burke e
di Taine convergono e che gli accenti peculiari che si devono all’autore
delle Origines derivano soprattutto dal fatto che Taine aveva integrato
prima Herder e poi Darwin. Come per Burke, la società per Taine è un
«vecchio fabbricato dalle fondamenta arbitrarie, dalla architettura in­
coerente e dalle riparazioni evidenti». Messa insieme da generazioni suc­
cedutesi le une alle altre, la società insomma «è uno scandalo per la ra­
gion pura», poiché essa «non è opera della logica, ma della storia». C ’è
anche un’altra ragione: la società non è il prodotto di alcun accordo, di
un consenso dei suoi membri. Tutte le forme sociali, le leggi, le istituzio­
ni, i costumi, l’individuo «non li ha approvati; altri, i suoi predecessori,
hanno scelto per lui rinchiudendolo in anticipo nella forma morale, po­
litica e sociale che è loro piaciuta»111. Il che fa della società un organismo,
«un corpo vivente»114 plasmato nel corso dei secoli da innumerevoli ge­
nerazioni successive. Tutti questi uomini tra loro così diversi sono ben
lungi dall’essere indipendenti e dall’essere «per la prima volta di fronte
per contrattare un accordo». Da ottocento anni, dice Taine ripetendo
Burke, loro e i loro antenati «formano un corpo che è una nazione», for-

112. Ibid., p. 340 (citato in Gasparini, L a Pensée politique d'H yppolite Taine, p. 95).
113. Taine, L e origini della Francia contemporanea. L a Rivoluzione, trad, di Piero
Bertolucci e Paola Zallio Messori, Adelphi, Milano 1989, 1.1, pp. 585-856.
114. Ibid., p. 230.

299
La cultura politica dei pregiudizi

mano una comunità che ha loro consentito di sopravvivere e di accumu­


lare «quel patrimonio di benessere e di intelligenza di cui oggi godono».
E per questo che ciascun individuo «è in questa comunità come una cel­
lula in un corpo organizzato» e «la cellula nasce, sopravvive, si sviluppa
e raggiunge i suoi scopi solo grazie alla salute di tutto il corpo»115. Que­
sto è l’asse principale lungo il quale si sviluppa l’opera di Hippolyte
Taine: «Una civiltà è un corpo e le sue parti stanno insieme come parti
di un organismo»116.
Qui compare la famosa metafora celebrata da Barrès e da tutti i na­
zionalisti: la società assimilata a un albero «il cui tronco, ispessito dal­
l’età, conserva nei suoi strati sovrapposti, nelle pieghe dei suoi nodi, nel­
l’intrico dei rami, i sedimenti immemoriali della linfa che lo ha nutrito, e
l’impronta delle innumerevoli stagioni che ha traversato»117. La nazione
è proprio questo albero pluricentenario: da otto secoli i francesi «insie­
me con i loro predecessori formano un corpo che è una nazione»118. Si
può dire lo stesso dello Stato e della famiglia, queste «due opere mag­
giori dell’associazione umana»; come la famiglia è «Stato naturale, pri­
mitivo e ristretto», lo Stato per Taine è un’«u!teriore famiglia, artificiale
ed estesa» che, come in Herder, Maurras e Spengler, non deve nulla agli
individui, alle loro volontà e ai loro bisogni. Sia la famiglia che lo Stato
sono fondati sull’autorità: che cosa crea una famiglia se non «il senti­
mento di obbedienza col quale moglie e figli agiscono sotto la direzione
di un padre e marito»? Che cosa genera lo Stato «se non il sentimento di
obbedienza col quale una moltitudine di uomini si riunisce sotto l'auto­
rità di un capo»?119 Con Taine come con Herder si potrebbe pensare di
essere tornati ai tempi dei teorici dell’autorità del diritto divino e del ca­
rattere naturale della società del XVI e XVII secolo, contro i quali era­
no insorti Hobbes e Locke. Ma in realtà si tratta di una definizione

115. Ib id . , pp. 234-235. Si veda anche H istoire de la littérature an glaise , 18J ed., Pa­
ris, s.d, t. I, p. XXXVI.
116. Taine, H istoire de la littérature anglaise, 18‘ ed., Paris, s.d., t. I, p. XXXVI.
117. Taine, L e origini della Francia contem poranea. L a Rivoluzione, t. I, p. 233.
118. Ibid., p. 234. Barrès svilupperà questo tema che diventerà una delle grandi me­
tafore del nazionalismo della terra e dei morti, il nazionalismo della nuova de­
stra di fine secolo.
119. Taine, H istoire de la littérature anglaise, 18* ed., t. I, p. XXXIII.

300
La cultura politica dei pregiudizi

molto moderna, il cui obiettivo è sempre di negare il libero ai bili io e


l’autonomia dell’individuo come base di qualsiasi organizzazione s<u u le
e politica. Taine ritorna molte volte su questa idea: lo Stato è un assona
zione naturale preesistente all’individuo, per cui «vi si entra per lor/a,
dalla nascita, prima di ogni consapevolezza». E così che l’impegno del
l’individuo «è tacito», non ha nessun bisogno di esprimersi tramite «un
voto», è «anteriore, innato, a volte indistruttibile, tanto è fisiologico»' ' '.
In realtà, in Taine non esiste una vera distinzione tra lo Stato, istituzione
giuridica, e la società, sinonimo della comunità nazionale: qualsiasi lor
ma di organizzazione sociale è un organismo prodotto dalla storia, quin­
di indipendente dalla volontà umana.
È chiaro che piegarsi di fronte al verdetto della storia non dovrebbe
significare per Burke la stessa cosa che per Taine: l’autore delle Origines
scrive la sua opera maggiore un secolo dopo la caduta <le\YAncien Regi­
me. Ormai la Rivoluzione fa parte integrante della storia nazionale, ma
per Taine, come per Maurras dopo di lui, come a Vichy, essa rimane an­
cora un corpo estraneo. Il rispetto della storia significa il rispetto di una
storia di cui la Rivoluzione non fa parte e che permette di espungere dal­
la storia di Francia gli avvenimenti accaduti dopo il 1789. Questo è an­
che il significato concreto del metodo induttivo in politica: la politica è
governata dalla storia. Espresso in modo chiaro, ciò significa che qual­
siasi discussione dell’ordine esistente porta necessariamente al disastro.
Taine ammira il modello inglese, nella versione burkiana, che si suole
esaltare, dall’inizio del X IX secolo fino a oggi, come un’espressione clas­
sica della «politica sperimentale» e del «metodo induttivo» di un empi­
rismo legato alla realtà vivente120121. Questa pretesa concezione storica e na­
turale, sotto lo schermo della realizzazione delle sole riforme opportune,
rinunciando subito alle «riforme impraticabili» per limitarsi a un pro­
cesso fatto di «dilazioni, transazioni e compromessi»,122 in realtà è, per
Taine come per Burke, solo un mezzo per lasciare le cose nello stato in
cui si trovano, a condizione che tale stato convenga loro.

120. Citato in Cìasparini, L a Pensée politique d ’Ilyppolite Taine , p. 290.


121. Persino Gasparini, il cui libro L a Pensée politique d'H yppolite Taine si basa su
una tesi eccellente, riprende questi luoghi comuni: si veda pp. 111-114.
122. Citato in Gasparini, L a Pensée politique d ’H yppolite Taine, p. 112.

301
La cultura politica dei pregiudizi

Per combattere i principi del pensiero illuminista è necessario met­


tere in evidenza il fatto che ogni generazione non è che «l’amministrato­
re temporaneo, il depositario responsabile di un patrimonio prezioso e
glorioso che essa ha ricevuto dalla generazione precedente con l’obbligo
di trasmetterlo alla successiva».1231425 In ogni società si ritrova un «residuo
di verità, [...] un residuo di giustizia, reliquia piccola ma preziosa, [...]
che la tradizione conserva».124 Ciò significa che l’atto di rifondazione di
una società avvenuto nei primi mesi del 1789 può essere solo un’aberra­
zione, un crimine contro la storia e la natura che, secondo Taine come
secondo Burke e Maurras, si sostituisce alla provvidenza. Prodotto del­
la storia, costruita lungo i secoli da generazioni successive, la società è un
tessuto di tradizioni e di pregiudizi ereditari, una costruzione paziente-
mente edificata su fondamenta profonde. I francesi non si devono crea­
re una loro associazione, questa esiste già da più di otto secoli, c’è in lo­
ro «una cosa pubblica»-, è assurdo parlare di un contratto tra gli nomini
se non per dire che «il loro quasi-contratto è già stato fatto e concluso
da tempo»125. Ciò fa sì che i soli patti riconosciuti da Taine, come da
Burke, siano quelli che consacrano un diritto anteriore. La sua interpre­
tazione del Bill ofRights è presa da Burke, da de Maistre, da Rehberg,
da Gentz e dai romantici tedeschi. Ancora una volta si sente parlare di
uomini veri, di situazioni concrete e di istituzioni stabilite, e il patto sto­
rico del 1689 non avrebbe avuto altro obiettivo che garantire le conqui­
ste del passato126. La migliore politica consiste quindi neli’accettare l’or­
dine esistente così come è stato fatto, seguendo gli insegnamenti della
natura e delle successive generazioni. Tutto questo fino al 1789: Burke
può fermarsi là, ma già per Taine o Maurras diventa necessario risalire di
cento o centocinquant’anni, al giorno precedente la convocazione degli
Stati generali. Infatti, un secolo dopo il 1789, il tempo trascorso non è
sufficiente agli occhi di Renan e di Taine per dare rispettabilità alla Ri­
voluzione francese. Accade lo stesso per Spengler nella Germania di
Weimar e con Croce alla vigilia della presa del potere da parte dei fascisti

123. Taine, Le origini della Franciacontemporanea. La Rivoluzione, t. I, p. 236.


124. Taine, Le origini della Franciacontemporanea. L'antico regime, p. 391.
123. Taine, Le origini della Franciacontemporanea. La Rivoluzione, 1.1, p. 236 (cor­
sivo nel testo).
126. Taine, Le origini della Francia contemporanea. Lantico regime, p. 435.

302
La cultura politica dei pregiudizi

italiani. Centocinquant’anni dopo la Dichiarazione dei diritti dell'iiomo,


all’epoca di Vichy, i maurrasiani non penseranno, in nome della consci
vazione dell’ordine vigente, a difendere la Repubblica. Ne saranno alle­
gramente gli affossatori. I pensatori antilluminisd non sono mai stali dei
conservatori ma rivoluzionari di una nuova specie.
Sulle tracce di Burke, Taine pone il pregiudizio al centro della sua li
losofia della storia. Questo supposto scientista pratica un antirazionali
smo che non è inferiore a quello di Burke prima di lui o, dopo, quello ili
Barrès, il rappresentante più fedele dello spirito della svolta del Nove­
cento. In effetti, «il pregiudizio ereditario è una sorta di ragione che
ignora se stessa», è una ragione collettiva. Qui Taine si spinge ancora più
in là di Burke: «come la scienza, [il pregiudizio ereditario] ha per fon­
damento una lunga accumulazione di esperienze»; è il fondamento del­
la civiltà; da un «branco di bruti» ha creato «una società di uomini», la
sua sparizione farebbe ricadere l’uomo, privato della «saggezza dei se­
coli» allo «stato selvaggio»127. Per l’autore delle Origines come per quel­
lo delle Riflessioni, il pregiudizio ereditario, pilastro della loro filosofia
della storia, è il fondamento della politica.
In questo modo si afferma la dipendenza dell'individuo dal corpo
sociale. La società pesa su di lui con tutto il peso dei secoli, se non della
perpetuità. Non solo l’uomo non è libero, ma è sottomesso a tutta una
tradizione e «bisogna che la subisca»128. Ne consegue che «ogni indivi­
duo nasce con un debito verso il proprio Stato, un debito che, fino al­
l’età adulta, non cessa di crescere»129. Qui Taine fa un passo in più: lo
Stato è il guardiano della comunità. La distinzione tra lo Stato e la co­
munità non è ben definita e sembra proprio che per lui i due termini sia­
no sinonimi. Taine prosegue subito per dimostrare, come già visto, che
l’uomo sta nella comunità come una cellula nel corpo umano. La società
«è la sua creditrice» e lo è per sempre: ecco i francesi veri, e si vede su­
bito «quanto essi differiscano dalle monadi semplici, indistinguibili e se­
parate che i filosofi si ostinano a voler mettere al loro posto»130. Il Con­

n i. lbid., pp. 377-378.


128. Taine, Le origini della Francia contemporanea. La Rivoluzione, 1.1, p. 586.
129. lbid., p. 235.
130. lbid.

303
La cultura politica dei pregiudizi

trat social non è stato fabbricato per loro ma per uomini astratti che non
appartengono ad alcuna epoca e a nessun paese, «pure entità sbocciate
al tocco della bacchetta metafisica». Nel mondo storico, nel mondo rea­
le, gli uomini sono profondamente diversi e ciò che conviene agli uni
non conviene agli altri. Ogni società è composta da uomini che parteci­
pano a «una struttura morale e mentale, struttura che è stata ereditata
dalla razza primitiva». Ciò che è comune a tutti gli uomini «è un residuo
prodigiosamente esile, un estratto infinitamente condensato della natura
umana»: tale è appunto la visione dell’uomo dell’epoca, quella, dice
Taine, che, «secondo la definizione di tempo», non vede nell’individuo
null’altro che un « “essere che ha il desiderio della felicità e la facoltà di
ragionare”» 1’1. Taine fa appello a tutta la ricchezza della lingua francese,
a tutti i sinonimi e a tutto l’immaginario possibile per ripetere sempre la
stessa cosa: la società non è il prodotto di una convenzione qualsiasi ma
una «fondazione perpetua» cui gli uomini hanno apportato il loro contri­
buto, generazione dopo generazione, a condizione che «la fondazione
restasse intatta»131321345. In questa successione di generazioni, nessun indivi­
duo, nessun gruppo, nessun usufruttuario ha il diritto, compromettendo
il patrimonio che gli è stato tramandato, di fare un torto «sia ai suoi pre­
decessori, di cui rende vani i sacrifici, sia ai suoi successori che defrauda
delle loro speranze»1” . Imporre a un popolo vivo norme estranee alla sua
storia significherebbe sostituire l’uomo reale e completo con un «fanta­
sma filosofico, un simulacro inconsistente»1” .
Il bene della collettività, «alla luce di questa lunghissima prospetti­
va», costituisce l’obiettivo di qualsiasi azione politica, è il solo criterio
che possa consentire di giudicare le qualità di un’istituzione. Nessuna
Costituzione è buona, utile o legittima, cattiva, nociva o illegittima in sé,
poiché «non ve ne è una che sia di diritto anteriore, universale e assolu­
ta». Esiste un solo criterio: sapere se «porta alla dissoluzione dello Sta­
to» o se «assicura la conservazione dello Stato»'” . Non si tratta quindi
solo di impegni e obblighi dell’individuo verso la collettività in quanto

131. Ibid., pp. 232-233 (le virgolette sono di Taine).


132. Ibid., pp. 236-237 (corsivo nel testo).
133. Ibid., p. 237.
134. Ibid., p. 233.
135. Ibid., p. 237.

304
La cultura politica dei pregiudizi

società civile, una passività di cui difficilmente potrebbe mai liberarsi,


ma verso le strutture del potere, il regime, le istituzioni e in ultima ana
lisi la nazione. Un secolo dopo Burke, le posizioni di Taine non sono di
verse da quelle dell’autore delle Riflessioni sulla Rivoluzione francesi-, in
corporando elementi hegeliani e darwinismo, il suo pensiero diventa so
lo più robusto. La subordinazione dell’uomo allo Stato, guardiano ilei
l’ordine sociale stabilito, definisce bene i tratti della rivolta contro l’Illii
minismo franco-kantiano.
Il primato della società non è quindi solo un fatto ma anche una ne­
cessità fissata nella natura umana. La società, la nazione, lo Stato, i pre­
giudizi, le norme di comportamento con tutte le costrizioni esercitate
dalla vita in comune costituiscono delle valvole di sicurezza destinate a
tenere sotto controllo l’uomo che può in ogni momento tornare ciò che
è stato in origine, «un lupo inquieto, affamato, vagabondo e insegui­
to»136. In realtà la civiltà rappresenta una camicia di forza, che, nel bene
e nel male, giunge a domare, in tempi normali, questo animale «vicinis­
simo alla scimmia, [...] un tempo cannibale», che vive con «un fondo
persistente di brutalità, di ferocia, di istinti violenti e distruttori», gover­
nato da quelle «forze brute» che sono «correnti irresistibili di passione»,
dagli afflussi di emozione, dai trasporti contagiosi, dalle epidemie di cru­
deltà e di sospetto, un essere nel quale «pullulano sogni che si sviluppa­
no spontaneamente in chimere mostruose»137. Per Taine non c’è dubbio:
sono l’istinto animale, i suoi bisogni e i suoi interessi fisici a dettare il
comportamento umano, perlomeno per quel che riguarda la grande mas­
sa del popolo costretto al lavoro manuale. «Se la ragione è zoppicante
nell’uomo, essa è altrettanto rara nell’umanità.» O ancora: «Non soltan­
to la ragione non è naturale all’uomo, né universale nell’umanità, ma nel­
la condotta dell’uomo e dell’umanità, la sua influenza è piccola»138. Sal­
vo «poche intelligenze fredde e lucide, un Fontenelle, uno Hume, un
Gibbon», il suo ruolo è secondario, i veri «padroni dell’uomo sono il
temperamento, il bisogno fisico, l’istinto animale, il pregiudizio eredita­
rio, l’immaginazione»139.

136. Taine, Le origini della Francia contemporanea. L’antico regime, p. 378.


137. Ibid., pp. 430-431.
138. Ibid., pp. 427-429.
139. Ibid., p. 429.

305
La cultura politica dei pregiudizi

Non è tutto. Taine è convinto che «a voler essere esatti, l’uomo è


pazzo come il corpo è malato, per natura»140. Solo le sue strutture di po­
tere, le sue «guardie municipali [...], barriere e guardiani» possono do­
mare gli istinti di rifiuto e di rivolta, l’amor proprio esagerato e il ragio­
namento dogmatico, queste «due radici dello spirito giacobino» che in
tutti i paesi «sopravvivono indistruttibili e sotterranee» e cercano di
«sgretolare l’antica assise storica»141. Per preservare la società, la soluzio­
ne finale, il solo vero strumento efficace è «il gendarme armato contro il
selvaggio, il brigante e il pazzo che ciascuno di noi racchiude»142143.In que­
sto mondo in cui la pace non può essere mantenuta se non dalla paura,
è assurdo parlare di diritti dell’uomo, della libertà dell’individuo, della
democrazia o della sovranità del popolo. De Maistre, Maurras e Spen­
gler professano gli stessi principi. La fede nell’individuo fu il grande pec­
cato della Rivoluzione, e la vera origine del male risiede chiaramente nel­
l’attuazione del pensiero di Rousseau: «Conformemente alle dottrine del
Contrai social, si stabilisce per principio che ogni uomo nasce libero e
che la sua libertà è stata sempre inalienabile».145 Ciò significa applicare
all’esistenza umana la «ragione pura, che ha scoperto i diritti dell’uomo
e le condizioni del Contratto sociale»,144 ovvero le regole «della ragione
speculativa e della dissennatezza pratica»145. La Dichiarazione dei diritti
dell’uomo e del cittadino non è nient’altro che un insieme di «dogmi
astratti, definizioni metafisiche, assiomi più o meno letterari, vale a dire
più o meno falsi, ora vaghi ora contraddittori, [...] buoni per un’orazio­
ne ufficiale, ma non per un uso effettivo»,146 un documento che si rivol­
ge all’uomo astratto, «un automa elementare, il cui meccanismo sia ben
conosciuto»,147e rifiuta di prendere in considerazione la natura dell’«uo-
mo reale»,148«carattere vivente», così come «essa è, sotto i loro occhi, nei

140. Ibid., p. 427.


141. Taine, Le origini della Francia contemporanea. La Rivoluzione, 1.1, pp. 585 e 587-588.
142. Taine, Le origini della Francia contemporanea. Uantico regime, pp. 431-432.
143. Taine, Le origini della Francia contemporanea. La Rivoluzione, t. I, p. 249.
144. Ibid., p. 231.
145. Ibid., p. 349.
146. Ibid., p. 343.
147. Taine, Le origini della Francia contemporanea. Idantico regime, p. 367.
148. Taine, Le origini della Francia contemporanea. La Rivoluzione, t. I, p. 347.

306
La cultura politica dei pregiudizi

campi e nella strada»1'19. Nella creatura umana si è voluto vedete solo


«l’essere astratto creato dai libri»149150. Così, grazie alla Costituzioni', «l'.i
narchia spontanea diventa l’anarchia legale. Dal nono secolo non se n e
ra vista una così perfetta e più bella»151. Burke e Carlyle prima di l ame,
Renan nel suo tempo, Croce e Meinecke dopo di lui, non hanno detto
niente di diverso.
Insieme alle dure mani del gendarme, l’altro freno sicuro è la reli
gione. A eccezione di Herder, predicatore protestante, nessuno dei gran
di critici liberali dei Lumi aveva fede, ma tutti vedevano nella religione
una straordinaria forza civilizzatrice, un fattore essenziale di stabilità so­
ciale e una fonte di forza morale. Per Taine, come per Burke, le fonti del­
la morale europea, quindi della civiltà dell’Europa, della coscienza e del­
l’onore, stanno nel cristianesimo e nel feudalesimo1521534. La religione, per
sua natura è «un poema metafisico accompagnato dalla fede»,155 mantie­
ne viva «la nostra coscienza morale, che è la nostra luce interiore»,'” per
centinaia di generazioni fu la sola via di accesso alle cose divine, resta un
«organo prezioso e naturale insieme», permette all’uomo di cogliere
«l’immensità e la profondità delle cose», radica l’individuo in una co­
munità: la Chiesa è una forza sociale, «un germe troppo profondo per­
ché lo si possa estirpare»155. Le prime pagine delle Origines sono consa­
crate all’elogio del cristianesimo, della religione in quanto disciplina e
forza civilizzatrice: la Chiesa e il clero dopo la conquista germanica sal­
varono l’Europa dalla barbarie e le impedirono di divenire un’«anarchia
mongola»; ancora la Chiesa, «con le sue innumerevoli leggende di santi,
con le sue cattedrali e la loro struttura, con le sue statue e la loro espres­
sione, con le sue cerimonie e il loro significato ancora trasparente ha re­
so sensibile il “ regno di Dio” e innalzato il mondo ideale alla fine del

149. Taine, Le origini della Francia contemporanea. L’antico regime, pp. 357-358 e 367.
150. Taine, Le origini della Francia contemporanea. La Rivoluzione, t. I, p. 347.
151. Ibid., p. 349.
152. Ibid., t. II, pp. 164-165. Si veda anche Gasparini, lui Pensée politique dliyppo-
lite Faine, pp. 221-222.
153. Ibid., p. 380.
154. Taine, Flistoire de la littérature anglaise, t. IV, pp. 297-298, citato in Gasparini,
La Pensée politique d'Hippolyte Taine, pp. 74-75.
155. Taine, Le origini della Francia contemporanea. L’antico regime, pp. 380-381.

307
La cultura politica dei pregiudizi

mondo reale»156. È così che «le bestie feroci diventano docili» e la Chie­
sa scopre sin dall’inizio il grande segreto della vita sociale: impara ad ad­
domesticare l’individuo fin dall’inizio e a preservare l’ordine stabilito. In
elfetti, avendo promesso «il regno di Dio», la Chiesa ha «predicato la te­
nera rassegnazione nelle mani del padre celeste, ispirato alla pazienza, la
dolcezza, l’umiltà, l’abnegazione, la carità». Essa finisce per creare una
società vivente, l’unica in grado di sussistere alla valanga dei barbari157.
Alla fine del secondo volume, milleduecento pagine dopo, Taine riassu­
me: «In ogni settore della vita privata o pubblica, l’influenza di una
Chiesa è immensa e costituisce una forza sociale eminente, permanente,
di prim’ordine»158. Raramente si è visto il ruolo della Chiesa meglio de­
scritto come pilastro dell’ordine stabilito. Nel 1789, alla vigilia del gran­
de disastro, gli ecclesiastici con i nobili e il re «occupavano nello Stato il
posto più importante con tutti i vantaggi che esso comporta», che per
molto tempo «avevano meritato. Infatti, con uno sforzo immenso e se­
colare, essi avevano costruito volta a volta le tre fondamenta principali
della società moderna»159. Tutto ciò che è grande in Europa, e che anco­
ra rimane, è un prodotto di questo mondo di monasteri e di castelli, di
nobili e di servitori della Chiesa.
Per meglio mettere in risalto il disastro costituzionale francese, e al
contrario di Burke che non ha nominato la Costituzione americana, al
contrario di Renan che non apprezzava molto il sistema americano ma
che lo capiva molto di più, Taine contrappone positivamente gli Stati
Uniti alla Francia rivoluzionaria. Certo, interpreta la Dichiarazione d’in­
dipendenza del 4 luglio 1776 a suo modo e, a esclusione della prima fra­
se, che per lui è solo un «richiamo di circostanza lanciato all’indirizzo dei
filosofi europei», il testo nel suo insieme e poi la Costituzione del 4 mar­
zo 1789 con i suoi undici emendamenti presentano misure concrete che
limitano i poteri del Congresso e assicurano «le libertà fondamentali del

156. Ibid., pp. 58-60 (le virgolette sono di Taine).


157. Ibid., pp. 55-56.
158. Taine, L e s O rigines de la France contem poraine, Laffont, «Bouquins», Paris
1986, t. II, p. 610. Si veda anche t. II, p. 677 e Gasparini, L a Pensée politique
d ’Flippolyte Faine, p. 72.
159. Taine, L e origini della Francia contem poranea. L an tico regime, p. 55. Taine par­
la evidentemente dei tre stati: nobiltà, clero e Terzo Stato.

308
La cultura politica dei pregiudizi

cittadino»160. Taine non vede alcuna filosofia dietro questi d o c u m e n t i ,


nessuna serie di principi e, come in Burke, Locke e i diritti naturali n o n
vengono nominati.
L’accento posto sulla dipendenza dell’individuo rende illusorio pai
lare di libertà nel senso liberale classico del termine. Il liberalismo di
Taine appartiene alla varietà burkiana di liberalismo «bloccato» o libe­
ralismo comunitario. L’individuo non può essere lasciato a se stesso per
ché, quando si cerca di tradurre in termini concreti questa visione dello
spirito che si chiama autonomia dell’uomo, si ha come risultato la Rivo­
luzione francese con i suoi massacri: si vede allora risorgere il massacra­
tore di settembre, il giacobino assetato di sangue che per soffocare ciò
che resta in lui di umano accumula delitti, «il demone dantesco, bestia­
le e raffinato, non soltanto distruttore ma anche carnefice»161. Infine con
la Comune arriva, come dirà, citando Taine, Victor Giraud, uno dei suoi
migliori conoscitori, che scrive alla svolta del Novecento, «il gorilla fe­
roce e lubrico»162163.A ciò porta in realtà, secondo la famiglia spirituale al­
la quale appartiene Taine, la Dichiarazione dei diritti dell’uomo: la disu­
manizzazione del nemico ideologico, iniziata con Burke, darà forma alla
fine del Novecento a una linea politica. Tale disumanizzazione si tra­
durrà da una parte nell’odio verso il popolo e dall’altra parte nella pos­
sibilità di respingere gruppi estranei al consenso. La definizione del con­
senso potrà eventualmente cambiare secondo i bisogni. Con l’introdu­
zione del razzismo e del darwinismo la disumanizzazione assumerà una
nuova dimensione.
Con uno stile meno profetico, Renan sviluppa la stessa idea: «L a so­
cietà non è l’unione atomistica degli individui, formata dalla ripetizione
dell’unità costituita; essa è p rim itiva ».16} Poiché «per una filosofia illumi­
nata, la società è un grande fatto provvidenziale; è stabilita non già dal­
l’uomo, bensì dalla natura stessa [...]. Non è mai esistito l’uomo isolato.
La società umana, madre di ogni ideale, è il risultato diretto della volontà

160. Taine, Le origini della Francia contemporanea. La Rivoluzione, t. I, p. 343.


161. Ibid., p. 949.
162. Aulard, Taine historien de la Revolution française, p. 17, cita V. Giraud, Essai
sur Taine, 3 ' ed., p. 88.
163. Renan, L’Avenir de la science, p. 929 (corsivo nel testo). Renan ritorna a questa
idea negli stessi termini a p. 995.

309
La cultura politica dei pregiudizi

suprema, la quale desidera che il bene, il vero, il bello abbiano contem­


platori nell’universo»'“ . In LiAvenir de la Science, il suo scritto più libe­
rale, Renan diceva già: «L’uomo non è libero. [...] Alla nascita fa già par­
te della società, alla nascita è già soggetto alla legge. [...] L’uomo, come
la pianta, è per sua natura selvaggio. [...] Si è uomini solo attraverso la
cultura intellettuale e morale»164165. È così che Renan si stacca dalla tradi­
zione liberale illuminista, non solo da Rousseau, ma anche da Locke. In
tal modo entra a far parte della linea di Burke, de Maistre e Taine, e an­
che di Carlyle e infine di Nietzsche che, pur sensibili alla grandezza di
Rousseau, aborrivano il suo egualitarismo e la sua esecrazione della ge­
rarchia. In particolare per Renan «la società è una gerarchia. Tutti gli in­
dividui sono nobili e sacri, tutti gli esseri (persino gli animali) hanno dei
diritti; ma non tutti gli esseri sono uguali, tutti sono membri di un cor­
po vasto, parti di un organismo immenso che realizza un’opera divina.
La negazione di quest’opera divina è l’errore in cui incorre facilmente la
democrazia francese»166. L’ordine umano è «il risultato della volontà su­
prema»,167 la sua finalità non è di «accontentare la maggioranza», ma as­
sicurare la vita intellettuale e morale168. Nei primi tempi Renan pensava
ancora che «mantenere una parte dell’umanità nella brutalità è immora­
le e pericoloso». Voleva «dare un posto a ognuno nel banchetto della lu­
ce»169. Ma dagli anni Cinquanta dell’Ottocento resta poco delle sue po­
sizioni liberali.
Ecco perché e in che cosa la democrazia è contraria ai fini dell’esi­
stenza umana. Quest’ultima può essere fondata solo sull’ineguaglianza
simile a quella che esiste in natura: «Se l’uomo non sottomettesse l’a­
nimale ai suoi bisogni, la vita umana diventerebbe impossibile; se ci si
attenesse alla concezione astratta secondo cui tutti gli uomini alla na­
scita hanno lo stesso diritto alla fortuna e al rango sociale, essa non sa­
rebbe più possibile»170. Il rispetto dell’ineguaglianza è la condizione

164. Renan, La Monarchie constitutionnelle en France, p. 242.


165. Renan, LAvenir de la science, p. 996.
166. Renan, La Monarchie constitutionnelle en France, p. 242.
167. Ibid.
168. Ibid., pp. 241-242.
169. Renan, L Avenir de la science, p. 995.
170. Renan, La Monarchie constitutionnelle en France, p. 243.

310
La cultura politica dei pregiudizi

primaria di una vita civile, di un ordine sociale sano e di una politica


atta ad assicurare la grandezza nazionale: «L a grande virtù di una un
zione è di sostenere l’ineguaglianza tradizionale»171. Non solo rincgua
glianza delle condizioni «sarebbe la fine di ogni virtù», ma «nessuna
società è possibile, se si attuano rigidamente le idee di giustizia distri
butiva riguardo agli individui»172. L’eguaglianza fra le classi sociali è
tanto poco conforme alla natura delle cose quanto l’eguaglianza tra i
sessi, la soppressione della proprietà, dell’eredità, della nobiltà. Non è
possibile che tutti godano nella stessa misura delle ricchezze offerte o
prodotte dalla società, che tutti raggiungano lo stesso livello di raffina­
tezza, ma bisogna che vi siano i gaudenti, i sapienti, i virtuosi e gli
istruiti: «Si elimina l’umanità se non si ammette che intere classi devo­
no vivere per la gloria e il piacere di altre»173. E più avanti: «L a natura
ha voluto che la vita dell’umanità si svolgesse a diversi livelli. [...] È la
rozzezza dei molti che fa l’educazione di un singolo»174. La Chiesa l’ha
capito bene ed è compito della religione spiegare questi misteri, come
è anche suo compito offrire consolazione a tutti i sacrificati quaggiù,
poiché se è «ingiusto che un uomo sia sacrificato a un altro uomo, [...]
non è ingiusto che tutti siano assoggettati all’opera superiore che rea­
lizza l’umanità»175. Questa è la grande legge che la Chiesa ci insegna: «È
il sudore di molti che rende possibile la vita nobile di un esiguo nume­
ro; tuttavia essa non definisce questi dei privilegiati, né gli altri dei di­
seredati, poiché l’opera umana è per lei inscindibile»176. Eliminato que­
sto principio, ne risultano mediocrità ed egoismo o, in altri termini,
materialismo e democrazia.
Renan finisce per accettare la Repubblica o meglio si rassegna a non
combatterla e si oppone al boulangismo per paura di uno scontro con la

171. lbid., citato in Richard, Ernest Renan, penseur traditionaliste?, p. 143, nota 165.
172. lbid., pp. 243-245.
173. lbid., pp. 246. Si veda anche alle pp. 247-248.
174. lbid., p. 247.
175. lbid., p. 248.
176. lbid., p. 247. Si veda anche alle pp. 238-239 sulle «grandi masse grevi tra le qua­
li l’intelligenza riguarda un piccolo numero ma che contribuiscono potenta-
mente alla civilizzazione mettendo al servizio dello Stato, con la coscrizione e la
tassazione, un meraviglioso tesoro di abnegazione, docilità e spirito buono».

311
La cultura politica dei pregiudizi

Germania e per disprezzo del populismo e della volgarità, ma non rin­


nega l’opera di tutta la sua vita e non si riconcilia con i fondamenti in­
tellettuali della democrazia.
Renan non accetterà l’eredità dei Lumi e della Rivoluzione. Non ces­
serà la sua lotta contro «questo deplorevole principio che una genera­
zione non impegna la generazione successiva, sicché non v’è nessuna ca­
tena tra i morti e i vivi, nessuna sicurezza per l’avvenire»177. Non si stan­
cherà di ripetere che «la coscienza di una nazione risiede nella parte il­
luminata della nazione, la quale trascina e comanda al resto»178. Già da
L A ven ir de la Science e fino ai suoi ultimi scritti, Renan resta convinto
che «tutto il male dell’umanità deriva [...] dalla mancanza di cultura»179.
Per questo la democrazia è esclusa: la «innata bestialità» di mezza uma­
nità rende «impossibile amare il popolo per ciò che è». Se esso trionferà
«sarà peggio dei franchi e dei vandali». In concreto ciò significa che il
suffragio universale è illegittimo, poiché «la stupidità non ha il diritto di
governare il mondo»180. Per cui qualcuno deve assumere «la tutela delle
masse»: questa è la funzione dell’aristocrazia181.
Carlyle si identifica in questa tesi ed è talvolta difficile distinguere
l’autore di un certo brano, tanto le idee e la formulazione si assomiglia­
no. Se il mondo vuole sfuggire a una rovina totale bisogna che «questi
giorni di morte universale» di cui è fatto il presente siano quelli di una
«rinascita universale»182. Questa rinascita può compiersi solo con il ri­
torno a un ordine naturale delle cose, cominciando dal riconoscimento
della vera natura dell’individuo, dei limiti e dei doveri. «Il dovere eterno
di ogni uomo [...] è di fare il proprio lavoro con competenza, di lavora­
re onestamente secondo le proprie capacità; perché è per questo e per
nessun’altra ragione che l’uomo è stato mandato in questo mondo»183.

177. Renan, L a riform a intellettuale e m orale della Francia, p. 126.


178. Ibid., p. 125.
179. Renan, L A v e n ir de la science, p. 997.
180. lb id .,p p . 998-1001.
181. Ibid., p. 997.
182. Carlyle, «The Present Time», 15 febbraio 1850, in Latter-Day Pam phlets,
Works, voi. XX, pp. 1-2.
183. Carlyle, «The Nigger Question», in C ritical an d M iscellaneous Essays, Works,
voi. X X IX, p. 335.

312
La cultura politica dei pregiudizi

L’uomo, sostiene Carlyle, ha due nature, una dinamica, l’altra m i o


canica. Tutto ciò che è basso, come l’utilitarismo, proviene dalla sua n.i
tura meccanica, tutto ciò che è alto proviene da quella dinamica: la cri
stianità trae le origini «nei mistici abissi dell’anima umana»184. E dalla na
tura dinamica che l’uomo trae il suo bisogno di sottomissione verso chi
è più grande di lui, di obbedienza ai superiori, di ordine e di gerarchia:
«Nessun sentimento più nobile e più santo alberga nel cuore dell’ilo
mo»185. E la sua sete di obbedienza a coloro che stima migliori di sé che
fa di lui un essere sociale: è nella società che la moralità comincia, è nel­
la società che l’uomo sente per la prima volta ciò che è e che diviene per
la prima volta ciò che è capace di essere186. Ecco perché il vero significa­
to della libertà non è la libera disposizione di se stessi senza interferenze
altrui, non è l’emancipazione e l’autonomia in rapporto agli altri ma al
contrario l’obbedienza alle leggi dell’universo, l’obbedienza a chi è più
saggio di noi e il riconoscimento dei propri limiti. Questa è la sola con­
creta libertà che esiste187; essa non è nemmeno concepibile al di fuori
dell’«Obbedienza all’eletto del Cielo»188. Quanto ai diritti dell’uomo, è
certo, dice Carlyle, che tutti gli uomini ritengono di poter reclamare e
cercare i loro diritti; del resto, aggiunge, che lo ritengano possibile o me­
no, lo faranno comunque: i cartismi, i radicalismi, le rivoluzioni francesi
ne sono la prova. Altri sistemi si manifesteranno ancora. I diritti dell’uo­
mo sono certamente giusti, ma lo è altrettanto questa frase: «Se trattate
ogni uomo secondo i suoi diritti, chi si salverebbe dalle frustate?»189D ’al­
tra parte i diritti dell’uomo (rights) contano poco di fronte al suo potere
reale e alla capacità di realizzare i suoi diritti (mights). Queste condizio­
ni variano parecchio da un posto all’altro e da un’epoca all’altra: il che

184. Carlyle, «Sign of Times», in Critical E ssays , voi. II, pp. 68-70 [Segni dei tempi,
pp. 68-76].
185. Carlyle, G li eroi, p. 50.
186. Carlyle, P ast an d Present, Works, voi. X, pp. 241-242 [Passato e Presente, p.
368], E ssais choisis, p. 56.
187. Carlyle, «Parliaments», in Latter-Day Pamphlets, Works, voi. XX, p. 251; Past and
Present, voi. X, pp. 212-213 e 217-218 [Passato e Presente, pp. 324 e 331-332].
188. Carlyle, Sartor Resartus, p. 297.
189. Carlyle, Chartism, cap. V, in Critical an d M iscellaneous Essays, Works, voi. XXIX,
p. 153 [ Cartism o , a cura di Giuseppe Nori, Liberilibri, Macerata 1999, P- 47].

313
La cultura politica dei pregiudizi

significa che è assurdo parlare di diritti dell’uomo universali ed eterni190.


Alla line Carlyle riassume il suo pensiero: di tutti i diritti dell’uomo, il
primo, l’unico «diritto dell’uomo» che non possa essere mai messo in di­
scussione è il diritto dell’ignorante a essere guidato e trattenuto sul ret­
to cammino, di buon grado o con la forza, da uno più saggio di lui191.
Questo principio, che Carlyle considerava come un elemento di salvez­
za per la civiltà europea, era già comparso in Burke in una formula meno
brutale ma non meno esplicita: prescrizione, prudenza e pregiudizi. Sul
principio della prescrizione si basa quello della rappresentanza virtuale di
cui si parlerà nel capitolo successivo: sostituendo a un regime elettivo quel­
lo della rappresentanza virtuale, Burke pensava di alzare una diga di fronte
alla democrazia. Del resto, l’esistenza stessa di un’istituzione diventava la
prova della sua legittimità e la sua giustificazione finale. Per Burke infatti la
Costituzione è un ordine la cui legittimità è basata sulla sua antichità. Ciò le
dà un carattere quasi sacro. Per il principio di prescrizione così come è de­
finito dalla legge civile, qualsiasi possessore di un bene diviene, dopo un
certo periodo di tempo, il suo legittimo proprietario, anche se in un certo
momento venisse addotta la prova che la presa di possesso era avvenuta con
la frode e la violenza. Burke era convinto che proprietà e potere avessero
sempre come origine una forma di usurpazione, per cui senza il principio di
prescrizione l’ordine costituito avrebbe potuto in ogni momento essere con­
testato. Quindi la stabilità del sistema sociale esige che la questione delle
origini del diritto e della legittimità sia esclusa da qualsiasi dibattito politi­
co. Per Burke il principio di prescrizione appartiene all’ordine naturale del­
le cose. Dieci anni dopo aver posto tale principio, nel suo discorso del 1782
sulla riforma del sistema rappresentativo, toma sul tema in piena campagna
contro la Rivoluzione francese. In un testo importante, una lettera sugli af­
fari d’Irlanda indirizzata a suo figlio, egli fonda tutti i diritti, tutti i legami
tra gli uomini, tutta la legislazione sulla «solida roccia della prescrizione»: la
considera come «il più solido titolo di diritto, il più completo e riconosciu­
to come tale nei rapporti tra gli uomini, [...] un titolo che non è il prodot­
to ma il padrone della legge positiva, [...] un titolo che, senza essere esatta-

190. Carlyle, Chartism, pp. 152-153 [Cartismo, pp. 46-47], «The Nigger Question»,
pp. 372-373.
191. Carlyle, Chartism, in Critical and Miscellaneous Essays, pp. 157-158 [Cartismo,
p. 52], Si veda anche «The Present Time», p. 23.

314
La cultura politica dei pregiudizi

mente definito, è nel suo principio radicato nello stesso diritto naturale [e]
costituisce così la base del diritto alla proprietà»192.
Pregiudizi, saggezza e prescrizione affermano l’incapacità degli uomini
di crearsi un mondo diverso da quello esistente. La «saggezza» significa nei
fatti la capacità di ascoltare la voce della storia o, molto più semplicemen­
te, il contrario del razionalismo e dei principi universali19’. Ma l’antirazio-
nalismo, l’abbiamo già visto, genera anche il relativismo dei valori: Burke
credeva effettivamente che i valori morali dipendessero dalle circostanze194195.
Come che sia, se fossero state seguite le regole di saggezza i francesi, al po­
sto di arrogarsi il potere di farne una nuova, si sarebbero regolati «secondo
una Costituzione fissa»19’. Tale regola gli inglesi la rispettano senza riserve:
«Tutti i vecchi pregiudizi, dichiara Burke, preferiamo coltivarli e persino, a
nostra maggior vergogna, aggiungerò che li coltiviamo proprio in quanto
pregiudizi, tanto più cari quanto più lunga e più remota ne è stata l’esi­
stenza». In realtà, il pregiudizio per lui sostituisce la ragione: «Il pregiudi­
zio è di facile applicazione nei casi di estremo pericolo; immerge la mente
in uno stabile fluire di ragione e virtù che condiziona immediatamente le ri­
soluzioni umane, evitando all’individuo momenti di penosa indecisione e di
irresolubile scetticismo». Infatti «ci guardiamo bene dal permettere a esse­
ri umani di vivere e agire sulla sola scorta dei lumi della propria individuale

192. Burke, «Letter to Richard Burke post 19 February 1792», The Writings and
Speeches o f Edmund Burke (edizione di Oxford), vol. IX, p. 657 : «The soundest,
the most general, and the most recognized title between man and man l...]. A ti­
tle which is not the creature but the master of positive Law [...], a title which
though not fixed in its term, is rooted in its principle, in the law of nature itself and
is indeed the original ground o f all known property». Si veda anche Rodney W.
Kilcup, «Burke’s I iistoricism», journal o f Modern History, vol. 47, 1977, p. 400.
193. Burke, «Ricorso dai nuovi agli antichi Whigs», in Scrittipolitici, p. 532.
194. A tal proposito si veda Francis P. Canavan, che cita Burke: «E. Burke’s concep­
tion of the role of reason in politics», The journal of Politics, 1959, pp. 60-79:
«The lines o f morality are not like the ideal lines of mathematicks. They are broad
and deep as well as long. They admit o f exceptions; they demand modifications.
These exceptions and modifications are not made by the process o f logic, but by
the rules of prudence» (Works, VI, p. 97). Si veda anche nel testo di Canavan a
p. 77: «Burke believed that "no moral questions are ever abstract questions" and
that before judgement could be passed upon “any abstract proposition", it must be
emobodied in circumstances”. Tor he said, “things are right or wrong, morally
speaking, only by their relation and connexion with other things"».
195. Burke, «Riflessioni sulla Rivoluzione francese», in Scritti politici, p. 205.

315
La cultura politica dei pregiudizi

razionalità, perché sospettiamo che tale scorta sia assai limitata in ogni in­
dividuo e che pertanto sia meglio per ciascuno avvalersi del patrimonio ge­
nerale di esperienza accumulato dai popoli nel corso di lunghi secoli»196.

196. Ibid., pp. 257-258. Nell’edizione francese (p. I l i) si trova un’altra frase importante
tradotta da Pierre Andler in modo molto bizzarro. Ecco il testo inglese: «Prejudice
renders a m an ’s virtue bis habit, and not a series o f unconnected acts. Through ju st
prejudice, bis duty becomes a part o fh is nature» (Edmund Burke, Reflexions on thè
Revolution in Irance , introduzione e note di J.G.A. Pocock, Hackette Publishing
Company, Indianapolis e Cambridge 1987, pp. 76-77). Nella traduzione francese la
frase assume tutt’altro senso: «L e prcjujéfait de la vertu une habitude et non une sui­
te d ’aclions isolées. Par le préjujé fonde en raison, le devoir entre dans la nature de
l'homme». Quale che sia il significato esatto da attribuire all’aggettivo «just», non è
possibile tradurlo <<fondé en raison». Qui non sembra che si tratti di un errore ma
piuttosto, con l’introdurre un’idea che non si trova nel testo inglese, di una tenden­
za a dare al testo di Burke un senso liberale, anzi democratico. Anche la nota 141 a
pagina 658 pone un interrogativo. Per gli autori di queste note, spesso interessanti
quando si tratta di cogliere il contesto storico, «minimizzando le differenze intellet­
tuali e le barriere sociali e creando una continuità tra gli uomimi (tra la populace e i
men o f light and leading), la sua legittimazione del pregiudizio valorizza l’autorità
morale del popolo». Scorgervi «una tonalità democratica» significa fare una singo­
lare lettura di Burke, che ha consacrato la sua vita politica e intellettuale alla guerra
contro i diritti dell’uomo, all’eguaglianza politica e all’idea di un Parlamento rap­
presentativo della popolazione. Per cui «le ripetute invocazioni di Burke, nel corso
delle Riflessioni e. altrove, ai “sentimenti comuni” , ai “sentimenti naturali”, alla “co­
stituzione morale del cuore” e alla “saggezza degli uomini incolti” (unlettered ), pos­
sono far pensare che questi sentimenti comuni e questa saggezza comune siano il
fondamento di ciò che egli chiamava la “vera uguaglianza morale del genere uma­
no”». Qui Alfred Fierro et Georges Liébert si basano sul capitolo che Gertrude
Himmellarb, portavoce del neoconservatorismo accademico americano più rigido,
dedica a Burke. Il capitolo è composto da due saggi, uno scritto nel 1949 e il se­
condo ventanni dopo. Quest’ultimo fornisce la copertura per l’interpretazione di
un Burke liberale, anzi democratico, interpretazione che presiede allo spirito stesso
dell’edizione francese delle Riflessioni. Con i lavori di Russel Kirk ha inizio il culto
di Burke, trasformato nel depositario della saggezza politica universale. Certo, Ha-
rold Laski, al quale la Himmelfarb si riferisce (Victorian Minds: A Study o f Intellec-
tuals in Crisis and Ideologies in Transition, Ivan R. Dee Publisher, Chicago 1995, pp.
3-31), vedeva in Burke il più grande pensatore politico inglese, cosa che non è cer­
to l’unica tra le dubbie affermazioni che hanno contribuito ad appannare la repu­
tazione del teorico del partito laburista britannico e leader intellettuale della sua ala
marxisteggiante. Infatti, per vedere in Burke un pensatore più grande di Hobbes,
Locke, I lume o J. S. Mill, o si ignora la storia della filosofia politica inglese, e non è
questo il caso di Laski, oppure ci si lancia in una di quelle piroette che non erano
rare nel professore della London School of Economics.

316
La cultura politica dei pregiudizi

I fili conduttori che legano Burke ed Herder a Carlyle, Taine, Renan,


Barrès, Maurras e Spengler rimangono quasi sempre gli stessi: il diritto e
il p riv ile g io degli incolti è di ricevere ordini e di eseguirli, la grande virtù
degli uomini e della gente del popolo è di ascoltare il proprio cuore e non
la ragione. La cabala letteraria, razionalista, partita all’assalto della reli­
gione cristiana, ha generato il disastro rivoluzionario e quella stessa caba­
la intellettualista, alla fine del X IX secolo, è responsabile della decaden­
za della Francia e delle sue sconfitte. La civiltà è sempre in pericolo, le
forze del disordine razionalista e democratico sono sempre all’opera.
L’impotenza della ragione a guidare l’uomo nella società resta il car­
dine del pensiero antilluminista, di Burke come di Herder, di Barrès o di
Spengler. La critica di Burke è diretta contro tutte le forme di razionali­
smo, il suo scopo è di esporre l’inferiorità intellettuale e morale del giu­
dizio individuale. Insistendo sulla grande fragilità della ragione Burke at­
tacca l’idea stessa dei diritti deH’uomo: la libertà come diritto naturale
dell’individuo per lui non esiste, ci sono solo «le libertà», ovvero i privi­
legi, assimilati a un patrimonio197. Qualsiasi velleità di ricostruzione del­
l’ordine sociale e politico, come quella che si manifesta in Francia nella
primavera del 1789, è condannata a priori e definita in termini di «filo­
sofia meccanica» o di «metafisica di uno studentello», che sarebbe sfo­
ciata solo in «questa distribuzione geometrica e questa disposizione arit­
metica»198. Ma non si tratta solo della Rivoluzione francese: bisogna a
ogni costo che la Gloriosa Rivoluzione sia inscritta negli annali della sto­
ria come una restaurazione dell’ordine antico. E a una restaurazione pa­
ragonabile a quella che, nella sua interpretazione, aveva permesso il 1689
che Burke chiama i francesi, astraendo completamente dalla realtà. An­
cora una volta si vede come questo «pragmatico» rifiuti il verdetto della
storia quando la sentenza non è conforme a come avrebbe dovuto esse­
re secondo lui. In questo modo, allineandosi alle posizioni più estreme
dell’alta aristocrazia, in particolare quella dei principi di sangue, auspica
un ritorno puro e semplice alla situazione del 1614, quando per l’ultima
volta si riunirono gli Stati generali. Egli proclama il culto della tradizio­
ne, ma la domanda che diventerà famosa alla fine dell’Ottocento -

197. Burke, «Riflessioni sulla Rivoluzione francese», in Scritti politici, pp. 193 e 257.
198. Ibid., pp. 246 e 369-370.

317
La cultura politica dei pregiudizi

«quale tradizione?» - punge anche cent’anni prima. La tradizione fatta


propria da Edmund Burke è quella espressa dalla rivolta nobiliare del
1787-1788 contro tutti i progetti di riforma dello Stato proposti da Luigi
XVI. Grande conoscitore della Francia e politico di professione, Burke
non poteva ignorare la situazione drammatica nella quale si trovava il po­
tere regale. Non poteva non capire la necessità di una riforma, ma per lui
doveva essere solo una restaurazione. Egli stesso si era opposto, nel cor­
so di quegli stessi anni, a tutti i progetti di riforma del sistema inglese.
L’elemento portante del pensiero di Burke è l’idea di ordine. Per «or­
dine» egli intende l’ordine politico e sociale fondato su un ordine mora­
le di origine divina. Senza dubbio esiste un ordine morale universale, poi­
ché esiste una natura umana comune199. Ma questa eguaglianza morale
non ha alcuna funzione politica. Burke nega l’esistenza stessa di valori
universali di carattere politico: le libertà sono suddivise in maniera arbi­
traria e ineguale e il loro obiettivo è la difesa delle classi privilegiate. Tut­
tavia la difesa dei privilegi non è la difesa automatica dell’aristocrazia di
nascita ma dell’ordine stabilito in un insieme di cui la borghesia costitui­
sce già parte integrante. Questo è il significato della Lettera a un nobile
lord, in cui sembra fare l’apologià della borghesia contro le pretese del­
l’alta nobiltà. E solo un’illusione: in quel testo prò domo sua, in cui deve
difendersi dall’accusa di aver accettato una pensione reale come ricom­
pensa per aver tradito i principi whigs, egli si pone come difensore dei ta­
lenti contro l’aristocrazia di nascita, ma in realtà non si tratta, come tal­
volta si pensa, della reazione di un uomo che, giunto al vertice sgomi­
tando, esprime il suo disprezzo per i privilegiati200. Non solo nelle Rifles­
sioni ma anche nel «Ricorso dai nuovi agli antichi Whigs» egli vede in
«una vera aristocrazia naturale [...] una parte integrante di un grande or­
ganismo rettamente costituito»201. Vent’anni prima, nel 1772, in una let­
tera indirizzata al duca di Richmond, Burke mostra bene il tipo di rap-

199. Francis P. Canavan, «E. Burke’s Conception of the Role of Reason in Politics»,
The journal of Politics, 1959 (21), p. 74-75. Si veda anche J. Conniff, «Burke
and India: the failure of the theory of trusteeship», Political Research Quarterly,
46 (2), 1993, p. 302.
200. Si veda Don Herzog, «Puzzling through Burke», Political Theory, 19 (3), 1991,
pp. 355-356.
201. Burke, «Ricorso dai nuovi agli antichi Whigs», in Scritti politici, p. 544.

318
La cultura politica dei pregiudizi

porto che deve esserci per natura tra l’aristocrazia e il resto del paese. In
un omaggio all’alta nobiltà del suo paese egli dichiara: «Voi, di grandi la
miglie e di grandi fortune ereditate, voi non siete persone come noi che,
per quanto in alto ci leviamo, proprio per la rapidità della nostra ascesa
e anche dopo avere prodotto frutti, [...] siamo solo delle piante che du
rano una stagione, che non lasciano alcuna traccia. Ma voi, se siete vera
mente ciò che dovreste essere, voi siete ai miei occhi come le grandi quei
ce la cui ombra copre il paese [...] generazione dopo generazione»2"'.
Questa metafora classica si ritroverà sia in Taine che in Barrès.
Sempre nello stesso spirito porta avanti la sua campagna in favore
dell’esistente: la maggioranza, come la minoranza, non ha il diritto di
modificare le strutture politiche di un paese: «i voti di una maggioranza
[...] non possono alterare la natura morale delle cose più della natura fi­
sica». Ne consegue che, «una volta fissata in un patto, sia tacito che
espresso, la costituzione di un paese, non c’è potere o forza che possa
cambiarla, se non trasgredendo alle condizioni del contratto oppure ot­
tenendo il consenso di tutte le parti»20203. Questa è secondo Burke la fon­
te della legittimità politica. Il che, nel contesto concreto degli avveni­
menti del 1789, significa che è giusto e legittimo che il re, la nobiltà e il
clero possiedano ciascuno un diritto di veto sulla volontà dei rappresen­
tanti del resto della nazione.
Tessendo le lodi dell’esperienza, Burke si nomina guardiano dell’or­
dine sociale, politico ed economico, dei privilegi e delle ineguaglianze,
difende una partecipazione politica ridotta al minimo e la cui funzione
essenziale è di assicurare la perennità di ciò che esiste. A tal proposito af­
ferma: «la scienza che insegna a costruire uno Stato o a rinnovarlo o a
riformarlo è una scienza sperimentale»,204 alza il vessillo della «saggezza
pratica» contro «la scienza teorica»205. L’ordine borghese e capitalista è
precisamente quello stabilito; l’esperienza ci insegna che quest’ordine
deve essere protetto da un governo libero dalle pastoie della democra­
zia. Burke è favorevole a un regime di laissez-faire e allo stesso tempo a

202. Cobban, Edmund Burke, p. 70.


203. Burke, «Ricorso dai nuovi agli antichi Whigs», in Scritti politici, p. 533. Cfr. au
che pp. 542-543 e 554.
204. Burke, «Riflessioni sulla Rivoluzione francese», ibid., p. 224.
205. Ibtd., p. 191.

319
La cultura politica dei pregiudizi

un ordine rigoroso. Desidera un potere forte, pensa che «un governo


non è mai perito se non per la propria debolezza»206. In effetti per lui l’i­
dea proposta da «questi nuovi Whigs», cioè che la sovranità «risiede co­
stantemente e inalienabilmente nel popolo; che il popolo può legalmen­
te deporre sovrani, [...] che il popolo può da solo erigere a piacere un
nuovo governo» e che un contratto «vincola soltanto gli immediati con­
traenti, ma non i loro posteri», provoca la «completa sovversione non so­
lo di ogni governo di qualsiasi specie, ma anche di tutte le solide garan­
zie di libertà disciplinata e di tutte le regole e i principi della moralità
medesima»207. Perché nulla è più pernicioso per l’ordine e più contrario
alla natura che la volontà della maggioranza o l’idea di un contratto crea­
to dalla volontà del popolo. In realtà è importante salvare il popolo da
se stesso. «Il governo è un espediente della saggezza umana per provve­
dere ai bisogni umani. [...] E tra questi bisogni si trova quello [...] di
porre sufficiente freno alle proprie passioni. [...] Questo può essere ot­
tenuto soltanto da un potere esterno a loro e libero, nell’esercizio delle
sue funzioni, da quel volere e da quelle passioni che è suo ufficio imbri­
gliare e domare. In questo senso i freni posti agli uomini vanno annove­
rati, al pari delle loro libertà, tra i loro diritti»208.
Conviene quindi attenersi senza alcuna esitazione al principio per
cui il popolo non deve mai avere delle pretese «sotto un falso aspetto di
libertà, ma in verità per esercitare perversamente un potere innatura­
le»209. Poiché nulla è più contrario all’ordine naturale delle cose che ri­
mettersi alla maggioranza. In nessun caso la maggioranza può parlare a
nome del popolo. In realtà il popolo esiste solo laddove è sottomesso a
«quello stato di abituale disciplina sociale in cui il più saggio, il più
esperto e il più ricco guidano, e guidando illuminano e proteggono i più

206. Citato in Michael Freeman, «E. Burke and the Sociology of Revolution», Poli­
tical Studies, 25 (4), 1977, p. 464. Questa citazione proviene dall’ultimo para­
grafo di Thoughts and Details on Scarcity. Si veda anche la lettera a Gaëtan-
Pierre Dupont del 28 ottobre 1790.
207. Burke, «Ricorso dai nuovi agli antichi Whigs», in Scritti politici, pp. 497-498.
Si veda anche p. 555.
208. Burke, «Riflessioni sulla Rivoluzione francese», ibid., p. 224 (corsivo nel te­
sto).
209. Ibid., p. 265.

320
La cultura politica dei pregiudizi

deboli, i più ignoranti e i meno dotati di beni di fortuna. Quando una


moltitudine non è soggetta a questa disciplina, si può a malapena diri-
che si tratta di una società civile»210.
La riabilitazione del pregiudizio in quanto elemento fondamentale
della disciplina sociale e della crescita verso la modernità antirazionali
sta, che abbiamo poc’anzi visto in Burke, è anche al centro del pensiero
di Herder. Il pregiudizio identifica la peculiarità o il tesoro specifico di
una nazione o di un’epoca, è una fonte di felicità e vitalità. Tutti i pre­
giudizi quindi sono validi e rispettabili nella stessa misura. La ragione
non ha alcuna influenza sul pregiudizio e proprio per questo il pregiu­
dizio costituisce un bastione che protegge la nazione. «Bisogna anche ve­
nerare, utilizzare, usare i pregiudizi», egli dice nelle note che seguono il
Giornale di viaggio2" nell’edizione Suphan. In Ancora una filosofia della
storia, struttura e sviluppa il suo pensiero: «Il pregiudizio è cosa buona,
a suo tempo, poiché rende felici, stringe compatti i popoli intorno al lo­
ro proprio centro, li rende più solidi sul loro stesso ceppo, più fiorenti a
seconda della loro propria natura, più ardenti nelle loro inclinazioni, più
attivi nelle loro mire e perciò stesso più felici». Qui giunge la conclusio­
ne: «La nazione più ignara, la più carica di pregiudizi è anche la prima.
L’età in cui si desidera emigrare e in cui la speranza è riposta nei viaggi
all’estero è già un’età di malattia, di enfiagione, di pienezza malsana, è
già presagio di morte»212213.
È senza sorpresa che si può constatare inoltre quanto le concezioni
sociali di Herder siano conservatrici. «Libertà, socievolezza e ugua­
glianza che ovunque vengono ora germogliando hanno già posto in mil­
le abusi le fondamenta del male e altro ne produrranno ancora», scri­
ve215. Una pagina prima diceva che «i concetti di umana libertà, di socie­
volezza, d’uguaglianza e di generale felicità vanno [...] diffondendosi.

210. Ibid., «Ricorso dai nuovi agli antichi Whigs», in Scritti politici, p. 543. Cfr. an­
che pp. 555-556.
211. Rouché, Introduction a J.G . Herder, Journal de mon voyage en l’an 1769, p. 47
(S. IV, pp. 472- 473).
212. Herder, Ancora una filosofia della storia, p. 39 (S. V, p. 510). Pierre Pénisson ri­
tiene che questo passo sia stato «supersfruttato»; cfr. J.G. Herder: la raison dans
les peuples, p. 103.
213. Herder, Ancora una filosofia della storia, p. 114 (S. 576).

321
La cultura politica dei pregiudizi

[...] Tutto ciò non ha le migliori conseguenze, come potrebbe sembra­


re a prima vista, perché, a prima vista, il male viene soverchiando il be­
ne; tuttavia...»214 Come Taine e Croce dopo di lui, egli deplora la diffu­
sione dei Lumi in ogni strato della società. Al centro della seconda se­
zione, dove rivolge le più dure critiche allo spirito dei Lumi, al suo ca­
rattere «meccanico», al razionalismo, e nella quale celebra l’istinto, Her­
der costruisce questa analogia che diventerà un classico dell’ideologia
antidemocratica: «E forse il corpo intero destinato a vedere? E non ne
soffrirebbe il corpo tutto se le mani e i piedi pretendessero esser an-
ch’essi cervello?»215 Nella pagina seguente Herder deplora amaramente
una situazione che vede svilupparsi sotto i suoi occhi: i popoli sul pun­
to di divenire «greggi filosoficamente governate»216. E così che è vista la
società come la concepisce il giusnaturalismo. I diritti naturali sono per
Herder diritti artificiali, inventati di sana pianta dai philosophes o, come
diceva Burke, da quella cabala filosofica che aveva giurato la rovina del­
la civiltà cristiana.
In effetti da un secolo l’ordine naturale delle cose è rovesciato, è ap­
parso un «abisso di male irrevocabile» paragonabile al disastro abbattu­
tosi sulla Germania, devastata al tempo di Lutero dagli anabattisti e da
altri fanatici: «e ora, con il generale rimescolamento dei ceti sociali, con
l’innalzarsi di quelli più bassi al punto di quelli più alti [...] le più soli­
de e necessarie fondamenta dell’umanità si vanno sempre più svuotan­
do»21 . Tutto contribuisce a corrodere i legami sociali, a sfasciare i rap­
porti naturali: «ogni giorno di più sembrano rosi da tutte le parti, dalla
filosofia, dal libero pensiero, dal lusso; ci andiamo educando sempre più
largamente e profondamente a tutto ciò, uno dopo l’altro»218. Ovunque
si posi lo sguardo, si vede solo accumularsi rovine: «limiti e barriere fu­
rono abbattuti, pregiudizi, come si dice, di ceto, d’educazione e persino
di religione furono calpestati, scherniti, magari con danno di quelle stes­
se autorità: diventiamo tutti - per mezzo di un’unica educazione, filoso­
fia, irreligione, illuminismo, vizio [...], proprio quello che tanto vanta e

214. Ibid., p. 113 (S. 575): la frase termina proprio così.


215. Ibid., p. 70 (S. 537).
216. Ibid. (S. 538).
217. Ibid., pp. 113-114 (S. 576).
218. Ibid., p. 118 (S. 579).

322
La cultura politica dei pregiudizi

desidera la nostra filosofia - padrone e senatore, padre e figlio, giovi


netto e fanciulla a lui del tutto estranea - tutti noi diventiamo fratelli» 1
Non c’è nulla di strano in questa ironia tagliente, in questo modo di ri
dicolizzare l’idea di fraternità da parte del pastore protestante. La Ira
ternità, quando non è cristiana ma fondata su valori filosofici o sul livel
lamento sociale, è concepita come fondamentalmente malvagia.
Questa altra modernità attacca i Lumi per il loro materialismo,
un’altra idea essenziale destinata a un grande avvenire nel X IX come nel
X X secolo. «Materialismo» è la classica parola in codice per mascherare
il rifiuto del liberalismo e della democrazia, dell’autonomia dell’indivi­
duo, della società concepita come un insieme di individui retti da leggi
che essi stessi si sono dati. Per questo Herder si augura «un’umanità me­
no sensuale, più simile a se stessa»,219220 il che significa una società vicina al
modello medievale, cosciente della mano della provvidenza che domina
la storia. Ovunque si vede un continuo degrado nei rapporti tra gli uo­
mini. «La socievolezza e i più facili rapporti tra i due sessi non hanno
forse avvilito l’onore, il decoro e la modestia di entrambi? Non sono for­
se saltate tutte le serrature del gran mondo di fronte alla posizione so­
ciale, al denaro, alla galanteria?» L’amore coniugale, materno, l’istruzio­
ne, «non hanno forse sofferto di tutto ciò?» «E fin dove non s’è diffuso
un simile danno? [...] Perdita insostituibile, questa, forse irreparabi­
le.»221 Nella pagina successiva egli contempla disperato «le cagioni stes­
se del progressivo raffinamento, dell’invadente raisonnement, del lusso,
della libertà e della spudoratezza», per poi proseguire sul disastro costi­
tuito del crollo dei tradizionali centri di potere22223. In conclusione non è
permesso nemmeno sperare in un rinnovamento perché «le fonti stesse
del miglioramento e del risanamento, la gioventù, l’energia vitale, l’edu­
cazione migliore sono andate tutte inaridendosi»225.
La massima ripugnanza di Herder è l’eguaglianza. La campagna
contro l’eguaglianza si maschera di campagna contro «l’uniformità» e di
richiamo al pluralismo. Attaccando l’uniformità, facendosi l’apostolo del

219. Ibtd., p. 114 (S. 576).


220. Ibid.,p. 112 (S. 575).
221. Ibtd., p. 113 (S.575).
222. lbid., p. 114 (S. 576).
223. Ibtd., p. 113 (S.575).

323
La cultura politica dei pregiudizi

pluralismo, Herder entra in guerra contro l’unificazione della legislazio­


ne e l’abolizione dei privilegi, compresi quelli più odiati, cioè l’inegua­
glianza di fronte alla legge e l’ineguaglianza fiscale. La lotta dei philo-
sophes contro i costumi radicati nelle tradizioni plurisecolari, compresi
quelli giuridici, mirava all’eliminazione delle ingiustizie più evidenti,
quelle per cui l’esistenza nella società settecentesca era divenuta insop­
portabile. Ma Herder prende le difese delle corporazioni detestate dai
philosophes e abolite in Francia nel 1776 da Turgot22'1e si ribella contro
tutti i progetti di unificazione della legislazione propugnati da Voltaire:
«La stessa causa verrà sempre giudicata in modo diverso in provincia e
nella capitale? E possibile che la stessa persona abbia ragione in Breta­
gna e torto in Linguadoca? Ma che dico, in realtà ci sono tante giuri­
sprudenze quante città»224225... Herder sta invece su posizioni diametral­
mente opposte, brandisce la bandiera «della vecchia tradizione» e «del­
l’insensato pregiudizio» così disprezzato dai philosophes e ironizza: la
nuova filosofia «ha portato alla sbarra del nostro tribunale [...] perché
ogni caso venisse trattato e studiato per quello che effettivamente era»,
una «sorta di giudizio facile, bello, libero [...] per tenersi a somme e
chiare generalità, scavalcando l’elemento individuale, nel quale solo con­
siste la species facti, per impersonarsi, o meraviglia del secolo! non più
nel giudice, ma nel filosofo»22*’. In questo contesto il bersaglio è ancora e
sempre Montesquieu: in effetti pochi scritti differenziano meglio il mon­
do che separa l’Illuminismo dalla sua antitesi. Il signore de La Brède
pensava che «le cognizioni rendono miti gli uomini; la ragione porta al­
l’umanità: ci sono soltanto i pregiudizi che vi facciano rinunciare»227.
Herder al contrario si rivoltava contro «la nostra scienza del governo»
che, invece di interrogarsi sui bisogni specifici e concreti di ciascun pae­
se, si limita a un «vero sguardo d’aquila» che falsifica ogni cosa228. Inve­
ce per rispondere ai bisogni del popolo «un codice dovrebbe confor-

224. ìbid., p. 55 (S. 524).


225. Voltaire, Le Siècle de Louis XIV, t. IV: Précis du règne de Louis XV; ch. XLI,
«Des Lois»: citato in M. Rouché, Introduction aJ.G . Herder, Une autre philo­
sophie de l’histoire, p. 84.
226. Herder, Ancora una filosofia della storia, p. 68 (S. 536).
227. Montesquieu, Lo spirito delle leggi, libro XV, cap. Ili, p. 311.
228. Herder, Ancora una filosofia della storia, pp. 68-69 (S. 536).

324
La cultura politica dei pregiudizi

marsi come un suo abito»2292301. Ecco perché Herder rimpiange «quell’età e


quei popoli in cui tutto era ancora chiuso entro i limiti della nazione»2’".
Le fondamenta del nazionalismo culturale sono ormai poste.
Lo stesso approccio si trova anche in Carlyle. Un preconcetto duro
a morire è che l’autore di La Rivoluzione francese occupi un posto pecu­
liare nel panorama politico inglese. Prescindendo dal suo stile profetico,
di un tratto arcaico che ricorda intensamente Herder, dall’abbondanza
di germaniSmi, da frasi scritte come se dovessero essere pronunciate dal­
l’alto di un pulpito da un predicatore, il pensiero di Carlyle, quando lo
si osserva da vicino, non è molto diverso da quello dell’autore delle Ri­
flessioni sulla Rivoluzione francese. Anche la retorica incendiaria e mes­
sianica di Burke ha il suo seguito naturale nell’opera di Carlyle. Nei fat­
ti quest’ultimo si inserisce bene in quella linea di modernità antiraziona­
lista, refrattaria alla democrazia poiché negazione dell’autonomia kan­
tiana dell’individuo, dei diritti dell’uomo, della sovranità del popolo e
dell’eguaglianza. A mezzo secolo di distanza, l’antidemocratismo di
Carlyle somiglia molto a quello di Burke: se Carlyle aborre il sistema di
governo inglese del suo tempo è proprio perché esso non assomiglia più
alle strutture di potere che Burke esaltava. Una Camera dei comuni re­
clutata al modo di quella di cui Burke era membro, un’aristocrazia on­
nipotente, più di merito che di nascita, un sistema gerarchico ricono­
sciuto, un capo di governo della statura di un Pitt, avrebbero ottenuto
senza grande difficoltà il plauso dell’autore degli Eroi. Burke si sarebbe
del tutto riconosciuto nel principio «del contratto permanente, invece
del contratto aleatorio», che Carlyle propone come principio fonda-
mentale di qualsiasi organizzazione sociale2’1.
In primo luogo, l’universo è una monarchia e una gerarchia, gover­
nate da una giustizia eterna e dall’Onnipotente: è questo il modello di
tutte le « “Costituzioni”» 2’2. Le leggi di natura, di cui la democrazia è esat­
tamente il contrario, esigono che gli spiriti superiori, i nobili, guidino gli

229. Ibid., p. 74 (S. 542).


230. Ibid., p. 76 (S. 544).
231. Carlyle, Past and Present, p. 277 [Passato e Presente, p. 419]. Sull’idea che si fa­
ceva Burke della rappresentazione parlamentare ideale, si veda il cap. seguente.
232. Carlyle. «The Present Time», in Latter-Day Pamphlets, p. 22 (tra virgolette nel
testo).

325
La cultura politica dei pregiudizi

ignobili: la democrazia è quindi un’impostura, il fenomeno più scanda­


loso mai visto sulla faccia della terra, insopportabile a Dio e agli uomini,
«bancarotta in tutti i campi, l’ignominia e l’abominio della desolazio­
ne»2’3. E così che l’ineguaglianza è naturale e il suffragio universale as­
surdo: si può consultare l’insieme della popolazione su questioni sempli­
ci e pratiche: «Su certe questioni chiedo l’opinione anche al mio caval­
lo», dice Carlyle23234. Così è anche per il resto della popolazione, ma su ogni
problema di qualche importanza l’incapacità «delle moltitudini piene di
birra e di assurdità» è totale235. Una nave non può navigare senza capita­
no basandosi sul voto dell’equipaggio236. Questa metafora ritorna a più ri­
prese ed esprime bene l’essenziale: la democrazia significa assenza di spe­
ranza di trovare i capitani, gli eroi per governare gli uomini237. La demo­
crazia chiassosa e urlante non è mai stata in grado di portare a termine
alcunché: è stato così in ogni epoca, sin dai tempi di Roma e Atene. È
sempre stata una esigua minoranza saggia e lungimirante che ha permes­
so di andare avanti. I puritani di Cromwell ne sono un buon esempio:
un’infima minoranza alla quale «noi dobbiamo quanto c’è di più sacro in
Inghilterra»238. Del resto, «non avete mai sentito parlare del “Crucifige!
Crucifige!”? E stata una grande impresa nel processo di soppressione
delle minoranze»239. In più, lo si è visto ai tempi della Rivoluzione fran­
cese, la democrazia degenera facilmente nel dispotismo240.
Sembra di leggere da una parte Taine e Renan e dall’altra qualche
analisi della scuola totalitaria del Novecento. Il capitolo che Taine dedi­
ca a Carlyle nell’Histore de la littérature anglaise lo mostra in rivolta con­
tro un mondo senza Dio: «Tutta la verità di questo universo è incerta.

233. Ibid., p. 12. Si veda anche pp. 15 e 21-22.


234. Carlyle, «Parliaments», in Latter-Day Pamphlets, p. 244.
235. Carlyle, «The Present Time», in Latter-Day Pamphlets, pp. 14-15 e 34.
236. Ibid., pp. 15-16. Si veda anche pp. 22-23.
237. Carlyle, Past and Present, pp. 215-216 [Passato e Presente, p. 328]. Si veda an­
che «Downing Street», in Latter-Day Pamphlets, p. 112.
238. Carlyle, «Parliaments», in Latter-Day Pamphlets, p. 246.
239. Carlyle, «The Nigger Question», in Critical and Miscellaneous Essays, p. 360.
240. Carlyle, Chartism, in Critical and Miscellaneous Essays, p. 159 [Cartismo, pp.
53-54]. Si veda anche Gli eroi, p. 252: in democrazia, «il governo della nazio­
ne [è] riposto in tutto ciò che, nella nazione, ha una favella».

326
La cultura politica dei pregiudizi

All’uomo pratico sono e restano visibili solo il profitto e la perdita, il


pudding e il suo elogio. Non c’è più Dio per noi. Le leggi di Dio sono sta­
te trasformate nei principi della più grande felicità possibile, in espedien­
ti parlamentari... Qui sta la parte impestata, la vera cancrena sociale che
minaccia di morte spaventosa ogni cosa moderna. [...] L’uomo ha per­
duto la sua anima. [...] Crediamo soltanto a ciò che è osservabile, alle
statistiche, alle verità rozze e tangibili. [...] Non abbiamo convinzioni
morali. [...] Siamo degli egoisti e dei dilettanti. Non guardiamo più alla
vita come a un tempio augusto ma come a una macchina per solidi pro­
fitti o a una sala di divertimenti raffinati. [...] Per aristocrazia abbiamo
rapaci commercianti. [•••] La nostra Costituzione stabilisce, per distin­
guere il vero e il bene, il diritto di voto per due milioni di imbecilli. Il no­
stro Parlamento è un grande mulino di parole. [...] Sotto questo esile in­
volucro di convenzioni e frasi ringhia sordamente l’incontenibile demo­
crazia». Il pericolo per Carlyle, come lo vede Taine, è tanto più grande
poiché la minima difficoltà nella produzione industriale manda centinaia
di migliaia di operai sul lastrico: la fame scuoterà «le fragili barriere che
già scricchiolano, ci avviciniamo alla disfatta finale, che sarà l’anarchia
totale, e la democrazia infurierà tra le rovine, fino a quando il sentimen­
to del divino e del dovere l’abbiano riunita al culto dell’eroismo, fino a
quando avrà fondato il suo governo e la sua Chiesa, fino a quando avrà
scoperto il modo di chiamare al governo i più virtuosi e i più capaci»241.
Già nelYHistoire de la littérature anglaise Taine non manifesta al­
cuna simpatia verso la democrazia. «In tutto il mondo civilizzato», di­
ce, «la democrazia si gonfia o deborda, e tutti gli stampi in cui cola so­
no fragili o passeggeri.» Ma, obietta a Carlyle, «è una strana idea quel­
la di presentare come via d’uscita il fanatismo e la tirannia dei purita­
ni». Non è possibile costruire una società e un regime, in realtà una
cultura politica, sull’esaltazione, gli accessi di febbre o le esplosioni: «il
misticismo va bene quando dura poco. Sono le circostanze violente che
producono situazioni estreme; ci vogliono grandi mali per suscitare
grandi uomini. E siete obbligati a causare naufragi quando invece vor­
reste vedere salvatori»242.

241. Taine, Histoire de la littérature anglaise, 17‘ ed., t. V, pp. 291-295.


242. Ibid., p. 296.

327
La cultura politica dei pregiudizi

Accade la stessa cosa quando si tratta dei periodi storici: dopo un’e­
poca di grande intensità viene la sua antitesi: «L’ascetismo della Repub­
blica ha prodotto la dissolutezza della restaurazione»; «la pietà cavalle­
resca e poetica della grande monarchia spagnola ha svuotato la Spagna
di uomini e di idee. Il primato del genio, del gusto e dell’intelligenza ha
ridotto l’Italia, in un secolo, all’inerzia voluttuosa e all’asservimento po­
litico»243. Con l’Ottocento si apre un altro periodo di decadenza, pro­
dotto della democrazia.
In effetti, come per Burke, la democrazia per Taine assomiglia a una
forma di «delirio universale»: a partire dal 1789, sotto ogni aspetto, «in
ogni consuetudine, in ogni misura [...] non c’era niente in cui non si ve­
desse l’impronta della tirannia [...] Sensazioni pervertite, concezioni de­
liranti: per un medico questi sarebbero sintomi di alienazione menta­
le»244. E così che, grazie a «uno di quei catechismi da sei soldi che circo­
lano a migliaia nelle campagne e nei sobborghi, un procuratore di vil­
laggio, un impiegato ai dazi, un distributore di contromarche alla porta
dei teatri, un sergente di camerata, si ritrova legislatore e filosofo; giudi­
ca Malouet, Mirabeau, i ministri, il re, l’Assemblea, la Chiesa, i governi
esteri, la Francia e l’Europa. Di conseguenza, su queste altre materie che
sembrava gli fossero per sempre interdette, ecco che redige mozioni, leg­
ge istanze, pronuncia arringhe: viene applaudito, e lui si sente tutto feli­
ce di ragionare così bene e con parole così grandi»245. Taine, come Burke,
preferiva di gran lunga il sistema che permetteva di riempire il Parla­
mento di deputati provenienti, secondo l’espressione di Thomas Paine,
«dal fango dei borghi putridi» o che erano solo «una rappresentanza su­
bordinata a quella aristocratica»246. Infine entra in scena questa «classe
che, incollata alla gleba, soffre la fame, da sessanta generazioni per nu­
trire le altre classi, e le cui mani adunche si tendono incessantemente per
impadronirsi di questo suolo da cui esse fanno nascere i frutti»; e Taine
lancia la sfida: «si vedrà all’opera»247. La critica della democrazia, me­
scolata a un vero odio e paura del popolo evidenti nella sua descrizione

243. lbid.
244. Taine, Le origini della Francia contemporanea. L’antico regime, pp. 564-565.
245. Taine, Le origini della Francia contemporanea. La Rivoluzione, t. I. p. 590.
246. Paine, I diritti dell'uomo, p. 166.
247. Taine, Le origini della Francia contemporanea. L'antico regime, p. 430.

328
La cultura politica dei pregiudizi

del giacobino, è uno dei fili conduttori dell’opera di Taine. Con la Rivo­
luzione che annuncia la fine delle élite e l’irruzione dell’uomo del popo­
lo sulla scena storica, con la Rivoluzione, che è «l’insurrezione dei muli
e dei cavalli contro gli uomini, guidata da scimmie con lingue di pappa­
gallo»,248 è la civiltà europea a essere minacciata di morte.
Nell’ultima parte del primo volume delle Origines l’autore giunge al­
le conclusioni pratiche delle sue lunghe riflessioni sul bene politico: ov­
viamente rifiuta la democrazia in tutte le sue forme; cantoni svizzeri o si­
stema americano, definito del resto senza alcuna verosimiglianza come
democrazia pura, sono malèfici in egual misura e sempre per lo stesso
motivo: è il governo della maggioranza, «il governo diretto del popolo
attraverso il popolo». Poiché, si sa, la democrazia non conviene alle
«persone civili e occupate», ma «ai fannulloni, alle persone rozze»249. Per
corso naturale essa degenera nella «democrazia radicale», quella di cui
un Sieyès, infatuato dalle proprie concezioni speculative quanto Rous­
seau, privo di scrupoli come Machiavelli, è l’incarnazione250. Del resto il
suffragio universale, questa «stupida adorazione del numero», questa
«macchina livellatrice»,251 o anche questo «rifugio del mostro demagogi­
co»,252253emargina inesorabilmente le élite, i notabili, i nobili e le persone
istruite per creare il governo di quei «cervelli incolti, intorpiditi dalla
monotonia del lavoro manuale e schiacciati dalle preoccupazioni dei bi­
sogni fisici», di quei «paralitici e ciechi nati». Così giunge il governo «del
camiciotto» al posto di quello dell’«abito civile», così vede la luce il re­
gno della «maggioranza numerica»,255 così il regime politico è inesora­
bilmente traviato254. L’unico buon sistema di governo è quindi quello che
mette il potere nelle mani della «classe alta»,255 libera da ogni preoccu-

248. Aulard, Taine historien de la Révolution française, p. 21, citazione da Taine, Vie
et Correspondance, t. Ili, p. 266: lettera a M. de Boislile del 26 luglio 1874.
249. Taine, Le origini della Francia contemporanea. La Rivoluzione, 1.1, pp. 1062-1063.
250. Ihid.,t. I, p. 748.
251. Citato in Gasparini, La Pensée politique d'Hyppolite Taine, p. 222.
252. Aulard, Taine historien de la Révolution française, p. 16, cita Taine, Vie et Cor­
respondance, p. 225, lettera del 26 maggio 1873.
253. Taine, Les Origines de la France contemporaine, t. II, p. 595.
254. Ibid, t. II, pp. 595-599.
255. Taine, Le origini della Francia contemporanea. La Rivoluzione, t. I, p. 241. Cfr.
anche pp. 240 e 242.

329
La cultura politica dei pregiudizi

pazione finanziaria, per la quale il potere non è una carriera: la nobiltà,


la borghesia, il clero, è proprio questa «élite superiore» istruita, ricca,
spesso preparata dall’infanzia ai duri compiti del comando, a possedere
le doti naturali per governare il paese256. L’esempio da imitare è quello
della gentry inglese e non quello dei politicians americani257. Riunita in­
torno a un monarca ereditario, liberata dalla competizione e dalle lotte
per il potere,258 una siffatta élite può dare alla Francia il solo regime di
cui essa è degna. Quando Taine, alla fine della sua vita, giunge alla con­
clusione che una restaurazione monarchica non è possibile, accetta, co­
me Renan, la Repubblica, ma senza rinnegare la sua opposizione all’Illu­
minismo e alla democrazia.

256. Taine, Les Origines de la France contemporaine, t. II, p. 232.


257. Taine, Le origini della Francia contemporanea. La Rivoluzione, t. I, p. 240.
258. Si veda l’apologià della monarchia francese nelle prime pagine del primo volu­
me delle Origines, e più precisamente pp. 69-70; si veda anche p. 382.

330
C A P IT O L O 5

La legge dell’ineguaglianza e la guerra alla democrazia

La guerra alla democrazia iniziata alla fine del XVIII secolo si svilupperà
ormai senza tregua. La rivolta contro la ragione, contro i diritti naturali,
contro l’autonomia dell’individuo si manifesta nella lunga campagna po­
litica di Burke e fissa le grandi linee di questo processo per almeno un
secolo e mezzo. Tutto è ammesso, tutto è legittimo, dopo la disfatta in­
glese in America, per bloccare le velleità di democratizzazione del mon­
do europeo, compresa la salvaguardia di un ordine politico, e in conclu­
sione sociale, estremamente ingiusto, clientelare e corrotto. A tale scopo
Burke innalza la difesa del patrimonio a virtù suprema. Un secolo dopo
l’obiettivo resta lo stesso ma i mezzi devono cambiare: Maurras, Croce o
Spengler intendono dedicarsi non ad assicurare la perennità del nuovo
ordine esistente - perché si tratta a quel punto della democrazia - ma al
contrario a spezzarlo, facendo riferimento a un patrimonio lontano, se
non mitico.
Per capire meglio il meccanismo intellettuale di questa insurrezione
contro il contenuto intellettuale della democrazia e contro le sue istitu­
zioni, la cosa migliore è seguire il cammino di Burke e volgere l’atten­
zione ai precetti, oggi tanto ammirati, della saggezza politica della quale
egli è ritenuto depositario. Conviene pertanto esaminare le sue concrete
prese di posizione al Parlamento di Westminster, in particolare per
quanto riguarda i progetti di riforma presentati alla Camera dei comuni
da colonne de\Yestablishment politico e sociale; tra questi almeno due
dei più grandi nomi della storia moderna dell’Inghilterra.
Al suo tempo il Parlamento inglese non aveva equivalenti e durante
il lungo ministero Walpole (1721-1742) il governo era diventato più di­
pendente dai Comuni. Tuttavia il primo ministro, guardiano del sistema
whig, porta a perfezione la corruzione come sistema di governo. Anche
dopo la sua caduta la corruzione continua a infuriare. Si comprano i de­
putati come gli elettori, cosa che non favorisce il clima politico né lo spi-

331
I fondamenti intellettuali del nazionalismo

routine degli ideali dei Lumi per passare poi a una posizione più reazio­
naria, consistente in una subordinazione della ragione e dell’intelletto al
nazionalismo, alla gallofobia, all’intuizione, in una fede acritica nella tra­
dizione. Ma si può pretendere che Herder abbia iniziato come cosmo­
polita e abbia concluso come nazionalista? E ciò che mi sembra insoste­
nibile. Dice Berlin: Herder non ha mai abbandonato l’umanismo cristia­
no dell’Aufklärung tedesco, considerava il cristianesimo come una reli­
gione universale, comprendente tutti gli uomini e tutti i popoli, trascen­
dente ogni lealtà locale nel culto dell’universale e dell’eterno1.
Questo ragionamento non resiste all’esame dei fatti e comunque si
potrebbe porre solo in termini diametralmente opposti a quelli proposti
da Berlin. Herder non può avere cominciato come Aufklärer per con­
cludere come nazionalista, poiché è proprio alla fine della sua vita che si
avvicina a un certo cosmopolitismo mentre ha cominciato la sua carrie­
ra col pamphlet del 1774. Tale campagna contro l’Illuminismo prosegue
senza una vera sosta per la maggior parte della sua vita. Nelle Idee per la
filosofia della storia dell’umanità avviene una metamorfosi o si tratta es­
senzialmente di un cambiamento di tono ben più che di contenuto? En­
trambe le interpretazioni sono possibili, anche se comunque l’importan­
za storica di Herder e la sua straordinaria influenza, per un secolo e mez­
zo, si devono al suo rifiuto deü’universalismo e alla sua lotta per il parti­
colarismo culturale ed etnico. Anche Max Rouché che, a conclusione di
una serrata lettura delle Lettere per l’avanzamento dell’umanità del 1796­
1797, l’opera più vicina all’Aufklärung, insiste sulla dimensione univer­
sale del pensiero di Herder e che, in un libro pubblicato nel fatidico
1940, dedica anch’egli molti sforzi per separare Herder dal determini­
smo nazista,2 non può sfuggire a conclusioni poco favorevoli a un’inter-

1. I. Berlin, Vico and Herder.Two Studies in the History of Ideas, The Hogarth Press,
London 1976, pp. 156-157 [Vico e Herder. Due studi sulla storia delle idee, Ar­
mando, Roma 1978, pp. 195-196], Una nuova edizione di cui si parlerà in seguito
è apparsa più di recente: Three Critics o f the Enlightenment: Vico, Hamann, Her­
der (testo curato da Henry Hardy), Princeton University Press, Princeton 2000.
Berlin allude all’opera di Frederick M. Barnard, Herder's Social and Political
Thought, from Enlightenment to Nationalism, Clarendon Press, Oxford 1965.
2. Si veda per esempio Rouché, La Philosophie de l’histoire de Herder, pp. 246-248 o
298-303.

410

Í
1 fondamenti intellettuali del nazionalismo

pretazione cosmopolita di Herder così netta come quella di Berlin. In


fondo, dice Rouché, Herder era un tedesco molto poco «liberato», che,
partendo dalla nozione razionalista di «climi» etnici e storici cara a Mon­
tesquieu, «ha tratteggiato l’ideale hitleriano di sangue e suolo, del quale
egli finisce tuttavia per ripudiare espressamente le conclusioni».’
La prospettiva di Rouché è particolarmente importante per noi. Uni­
versitario francese che lavorava alla sua tesi mentre il nazismo era al po­
tere in Germania e la corsa verso la guerra entrava nella fase finale, co­
sciente della bruciante attualità di Herder, altrettanto desideroso di dis­
sociare questo grande nome della cultura tedesca dal nazismo intellet­
tuale che vedeva in lui il suo profeta, propone un punto di vista che dif­
ferisce molto da quello di Meinecke. Al contrario di Rouché, che non
può scrivere della rivolta herderiana contro rilluminismo e contro l’in­
fluenza francese come se gli eventi del X X secolo tedesco fossero senza
nessi con quelli della fine del XVIII, Meinecke non accenna nemmeno
agli sviluppi del suo tempo. Rouché invece non si può permettere di scri­
vere come se Ancora una filosofia della storia del 1774 non esistesse o co­
me se le Idee per la filosofia della storia dell’umanità, scritte tra il 1784 e
il 1791, non contenessero un lungo canto in favore dell’«umanità»: nel
1940, quando la sua tesi viene pubblicata, egli ha già sotto gli occhi il
prezzo esorbitante della vittoria del differenzialismo.
Grosso modo, benché più sfumata e molto meglio argomentata, la
posizione di Berlin è accettata ai nostri giorni in Francia da Alain Re-
naut: lungi dal rompere con l’eredità deH’Illuminismo, lungi dal dilapi­
darla, Herder fornirebbe i mezzi per arricchirla di una nuova dimensio­
ne. Tale visione di uno Herder Aufklärer, di cui si sente l’eco in un bre­
ve capitolo, del resto eccellente, di una nuova Histoire de la philosophie
politique, suscita quanto meno in Renaut una certa inquietudine, ma in­
somma è questa l’interpretazione accolta34. E la stessa cosa per Pierre Pé-
nisson, autore di un’opera notevole che precede di qualche anno il con­
tributo di Renaut5.

3. Ibid., p. 539 (corsivo nel testo). Si veda anche il resto dell’ultimo centinaio di pa­
gine e in particolare i capitoli da VI a V ili.
4. A. Renaut, «Universalisme et différentialisme: le moment herderien», p. 247.
5. P. Pénisson, J.G. Herder: la raison dans les peuples.

411
I fondamenti intellettuali del nazionalismo

Diciamolo subito, non è il caso qui di affrontare nei particolari le di­


verse interpretazioni di cui Herder, figura ambigua e affascinante, è sta­
to oggetto da due secoli. Da questa opera spesso eccezionale - tuttavia
meno originale di quanto pensino i suoi ammiratori convinti - così co­
me dalla letteratura secondaria a lui dedicata, emerge un autore con mol­
te sfaccettature. Le due estremità non presentano sorprese: da una par­
te, un ammirabile Aufklärer, una delle più belle gemme dell’umanesimo
occidentale, il fondatore dell’anticolonialismo culturale, lo stroncatore
deH’imperialismo culturale francese, il salvatore delle culture popolari e
delle lingue indigene, il profeta della liberazione nazionale in Europa
orientale e centrale; dall’altra parte, uno Stürmer nazionalista radicale.
Considerato dagli uni come il grande teorico deH’«umanità» (Huma­
nität), quindi di una visione universalistica e cosmopolita esemplare, di
un mite patriottismo e di un nazionalismo culturale senza implicazioni
politiche, Herder è stato anche oggetto di una recezione espressamente
nazista, del genere «L’idea nazionale da Herder a Hitler». Tra questi due
estremi si collocano naturalmente altre posizioni. Nessuna lettura di
Herder, fatta senza partito preso, può permettersi di considerare uno so­
lo di questi aspetti e di rifiutare d’acchito tutti gli altri.
L’Herder liberale fino alla perfezione, che si ritrova nelle pagine di
Berlin, non è meno artificiale (e qualche volta perfino irriconoscibile) di
quanto sia falso l’Herder fabbricato dagli intellettuali filonazisti. La
multidimensionalità herderiana è quindi una realtà; giunge però un mo­
mento in cui conviene, senza cadere nell’apologià ingenua, che è an-
ch’essa una forma di pervertimento, né nell’aberrazione, di fare un bi­
lancio: a che cosa ha contribuito Herder? A una correzione moderatri­
ce dei Lumi franco-kantiani o a una critica dura e fondamentalmente
distruttrice di questa tradizione? Al radicamento della tradizione dei di­
ritti naturali e dei diritti dell’uomo o a una continua erosione dell’idea
di autonomia dell’individuo? È difficile non rilevare che è alla fine del
X IX secolo e all’inizio del XX , quando il nazionalismo esplose sulla sce­
na politica e culturale europea, che l’opera del vescovo di Weimar tor­
na in auge e diventa oggetto di interesse costante. In effetti, dove sta il
significato storico di Herder se non nel suo contributo alla crescita del
nazionalismo?
A conti fatti, l’influenza di Herder è stata notevole sia nel periodo
critico delle guerre napoleoniche in Germania che più tardi in Francia e

412
1 fondamenti intellettuali del nazionalismo

più ancora nell’Europa centrale e orientale, in particolare nei paesi slavi.


In Germania, a partire dall’inizio del X X secolo, il peso intellettuale e
morale di Ancora una filosofia della storia è così forte che l’opera del
1774 comincia a essere considerata superiore alle Idee, viste persino da
alcuni come una modesta eco del libro giovanile. Autore nel 1942 di un
libro ripubblicato tale e quale nel 1956, La liberazione della coscienza sto­
rica a opera di Johann Gottfried Herder, Theodor Litt considera il saggio
di Buckenburg nettamente superiore alle Idee6. Meinecke e Spengler non
appaiono forse come continuatori di Herder? In quel periodo, grazie al­
la nozione di Volk alla quale si dà un significato nettamente biologico,
l’interpretazione di Ancora una filosofia della storia e del Giornale di
viaggio 1769 si sviluppa in un senso nettamente nazionalista e infine raz­
zista. Herder apostolo dell’«umanità» scomparirà così per lasciare il po­
sto a Herder profeta del nazionalismo radicale. Non c’è dubbio che do­
po il 1933 l’opera di Herder sia stata pervertita dalla propaganda nazi­
sta, ma è necessario fare una netta diflerenza tra la volgare deformazio­
ne di un pensiero fatta da un Alfred Rosenberg e una interpretazione le­
gittima che vede in Herder un pilastro del movimento Sturm und Drang
e di numerose varianti di nazionalismo europeo, compreso ovviamente
quello tedesco7. Il fatto che l’idea herderiana senza dubbio più nota e ci­
tata, quella per cui «ogni nazione porta in se stessa la sua propria intima
felicità, come ogni sfera il Droprio centro di gravità!»8 sia stata utilizzata
dall’ideologia nazista non cancella il fatto che essa sia stata effettivamen­
te un elemento fondatore del nazionalismo moderno e l’esatto contrario
della definizione di nazione data daWEncyclopédie. Se si cerca una defi­
nizione chiara e concisa che possa essere contrapposta a quella data da­
gli enciclopedisti, la si trova proprio in Herder.
In effetti in Diderot e D ’Alembert la nazione è definita come «una
quantità notevole di popolo, che abita una certa estensione di terreno,

6. Régine Otto, « “Un mot seulement sur la philosophie de l’histoire de Herder” -


Des effetts du traité de Biickenburg», in Pierre Pénisson (a cura di), Herder et la
philosophie de l’histoire, p. 83. Già nel 1900 Horst Stephan collocava le opere di
Biickenburg al di sopra di quelle di Weimar. Dopo il 1918 e più ancora dopo il
1933 il rovesciamento delle tendenze è concluso.
7. Si veda il cap. 1.
8. Herder, Ancora una filosofia della storia, p. 38 (S. 509).

413
I fondamenti intellettuali del nazionalismo

all’interno di limiti certi, e che obbedisce allo stesso governo»9. In Gran


Bretagna Hume dà una definizione quasi identica: «una nazione, infatti,
non è altro che un insieme di individui»10. Tale definizione razionalista,
politica e giuridica, fondamento ancora oggi ineguagliato di una visione
liberale della nazione, è precisamente ciò contro cui Herder si erge. Ma
Pllluminismo non era monolitico, e Montesquieu aveva una concezione
molto meno individualistica della società, alla quale Herder ha attinto a
piene mani. In un capitolo intitolato «Del diritto di conquista» e dedi­
cato ai rapporti tra conquistatore e popolazione conquistata, Monte­
squieu insiste sulla differenza essenziale tra un insieme di individui e una
società: l’annientamento di una società non significa l’annientamento de­
gli uomini che la compongono: «La società è l’unione degli uomini, non
gli uomini: il cittadino può perire, e l’uomo sopravvivere»11. Tuttavia, e
questo è il punto, Herder, come poi Renan, Taine, Barrès o Spengler, va
infinitamente più lontano, e quando assimila il mondo storico alla natu­
ra si distacca dai Lumi e ci si ritrova con lui in pieno X IX secolo: «La
natura educa famiglie» e «un popolo è una pianta della natura proprio
come una famiglia, soltanto che ha più rami»12.
Quindi il particolarismo nazionale finirà per prevalere. La tradizione
in Herder è allo stesso tempo buona e cattiva, ma in conclusione la bi­
lancia pende più dalla parte di ciò che può avere di buono, poiché la tra­
dizione esprime l’anima del popolo. Herder non contrappone naziona­
lità e umanità, ma rifiuta di affrontare il problema che tuttavia non può
non cogliere: il pluralismo, lo si voglia o no, genera differenze, gerarchie,
contrapposizioni e guerre. Non è possibile esigere dai popoli che si chiu­
dano in se stessi per proteggere gelosamente la loro specificità, che re­
spingano ogni apporto straniero, che guardino le culture straniere come
un pericolo di morte, senza suscitare in loro più odio che amore. In Her­
der è un nazionalismo generalizzato che impone la visione pluralista del­
la storia. Nel senso che prende nei suoi scritti, l’uniformità è sinonimo di

9. Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts e des métiers (Sociétés
typographiques, Lausanne 1781), vol. XXXXIV, articolo «Nation», p. 221.
10. Hume, PoliticaiEssays, Essay X ll (O f National Characters), p. 79 [«I caratteri na­
zionali», trad. di Mario Misul, in Opere filosofiche, vol. Ili, p. 210].
11. Montesquieu, Lo spirito delle leggi, v. I, p. 189.
12. Herder, Idee per la filosofia della storia dell'umanità, libro IX, cap. IV, p. 183.

414
I fondamenti intellettuali del nazionalismo

morte. È per questo che egli esalta «quell’età e quei popoli in cui tutto
era ancora chiuso entro i limiti della nazione», e considera «bello davve­
ro il rimprovero che il nostro illuminato secolo suol fare ai meno illumi­
nati uomini della Grecia, di non avere mai nulla filosofato d’universale e
di puramente astratto, di aver sempre parlato secondo la natura di limi­
tati bisogni, restando su una scena chiusa e ristretta»13.
I criteri di giudizio filosofico degli uomini deH’Illuminismo, Voltaire,
Montesquieu, Hume, Ferguson, D ’Alembert, Iselin e molti altri, aveva­
no per loro un valore universale, capace di mettere in questione i valori
consacrati dalla storia. L’idea comune, anche ai nostri giorni, è che, con­
trapponendosi a loro, Herder rifiuta questa pretesa all’universalità, non
solo dei criteri della sua epoca ma di ogni epoca: la messa in discussione
della portata storica dei valori al di là del loro contesto colpisce allo stes­
so tempo la pretesa di qualsiasi epoca di scoprire una verità di portata
universale. Nel 1774 si tratta dunque in Herder di una filosofia della sto­
ria che cerca di mostrare l’impossibilità di rendere intelligibile, partendo
da idee come il diritto naturale, il principio dell’unità della storia. Se­
condo lui ogni nazione può legittimamente richiamarsi al proprio crite­
rio di saggezza, poiché nella storia agisce una pluralità di orincipi di ve­
rità, E per questo che nessun principio uniforme può servire da deno­
minatore comune per costituire un principio adeguato dell’unità della
storia. Solo il Creatore può cogliere tale unità14.
Nel Novecento, lo si è visto prima, questa critica dell’unità della sto­
ria è considerata il punto di partenza dello storicismo moderno. Per i
suoi ammiratori, Herder è il gran sacerdote del pluralismo storico, in
grado di riconoscere la validità della pluralità dei valori nel corso della
storia. I valori di ogni nazione avrebbero quindi una validità propria, re­
lativa al loro specifico contesto. Sotto l’egida del principio pluralista, la
storia ha potuto così levarsi contro ogni forma di «dogmatismo» che eri­
gerebbe a modello assoluto un sistema di valori con una portata storica­
mente limitata. Per i suoi detrattori, Herder sarebbe il padre del «relati-

13. Herder, Ancora una filosofia della storia, p. 76 (S. 544).


14. Jeffrey Andrew Barash, «Herder et la politique de l’historicisme», in Pierre Pé-
nisson (a cura di), Herder et la philosophie de l’histoire, pp. 200-201. Si veda Her­
der, Ancora una filosofia della storia, pp. 33-34.

415
I fondamenti intellettuali del nazionalismo

vismo storico», derivante direttamente dal suo pluralismo. L’illimitato


numero di criteri, ciascuno valevole a suo tempo e a suo luogo, porta
davvero a un relativismo che si rivela incapace di porre principi coeren­
ti dotati di portata universale. Spinto all’estremo, il principio di una va­
lenza relativa di ogni valore, nel contesto dèlia sua epoca, può diventare
fonte di nuovo dogmatismo, utile a giustificare le pratiche più arbitrarie
quando queste si presentino come espressione legittima di un’epoca e di
un popolo15. Il Novecento doveva provare che l’herderismo non era un
innocente esercizio intellettuale.
E attaccando « “lo scrittore centenario”, a cui senza alcun dubbio
non si può contestare di aver esercitato un’influenza da monarca sul suo
secolo», che Herder fissa le grandi linee della campagna antiuniversali-
stica e comunitaria dei secoli X IX e XX. Anche quando definisce Vol­
taire scrittore che «indubbiamente è al sommo vertice del suo secolo»,
Herder ritiene che il suo contributo sia, a volere essere precisi, disastro­
so. Poiché, nelle parole di questo autentico puritano, il fatto di avere
«diffuso la luce, la cosiddetta filosofia dell’umanità, la tolleranza, l’ario­
sa leggerezza del pensiero critico, lo scintillio della virtù in mille amabi­
li forme, piccole passioni umane rarefatte e raddolcite» non è esatta­
mente un elogio. Il seguito è anche peggio: «Quanta misera frivolezza,
fiacchezza, incertezza e freddezza, quanta superficialità, incoerenza,
quale scetticismo di fronte alla virtù, alla felicità e al merito! [...] Vincoli
teneri, gentili e necessari spezzati con mano sacrilega senza nulla poter­
vi sostituire [...]. E dove ci porta con tutta la filosofia e la piacevolezza
del suo pensiero privo di morale e di solida umana sensibilità?»16
La campagna antivolteriana di Herder si irrigidisce via via che au­
mentano i suoi debiti con l’autore dell’Essai sur les mceurs et l’esprit des
nations. Per Voltaire la storia è «un vasto repertorio» nel quale «bisogna
limitare l’argomento e scegliere» e prendere «quello che vi serve»17. La
storia viene dunque intesa non come un lavoro della memoria ma come
un particolare uso della ragione per produrre verità utili. Secondo Vol­
taire nulla rivela meglio l’utilità di una verità quanto il suo contributo ai

15. Ibid., p. 201.


16. Herder, Ancora una filosofia della storia, pp. 121-122 (S. 583).
17. Voltaire, Saggio sui costumi, t. I, p. 204.

416
I fondamenti intellettuali del nazionalismo

progressi dello spirito umano. Sarà degno di studio storico solo ciò che
rappresenta un progresso e può costituire un modello per il resto del
mondo. Herder respinge questi elementi fondamentali del pensiero di
Voltaire - il principio di utilità nello studio della storia, la sua concezio­
ne della funzione della lingua, la sua visione della nazione - ma assimila,
senza però riconoscerlo, dell’eredità di Voltaire l’obiettivo che quest’ul­
timo, e prima di lui, secondo l’appropriata definizione di Voltaire, « l’il­
lustre Bossuet», hanno dato alla storia: lo studio dello «spirito delle na­
zioni», «le inclinazioni e i costumi» o, per essere precisi, come dice l’au­
tore del Discours sur l’histoire universelle, «il carattere» dei popoli come
dei loro governanti18.
All’epistemologia volteriana della conoscenza storica, che per altro
mira a distinguere rigorosamente fatti e favole19, metodo che già aveva
disgustato Vico, Herder oppone la domanda fondamentale: in base a
quali criteri si può dare un giudizio sui costumi, le leggi, i regimi politi­
ci e sociali di altri popoli e di altre culture? Quello volteriano è un me­
todo comparativo, destinato a operare scelte e a permettere giudizi di va­
lore. Herder prende in contropiede la logica volteriana e le oppone un
procedimento che, in via di principio, non permette né comparazione né
giudizio di valore. Egli attacca Winckelmann per avere giudicato l’Egit­
to in base ai criteri estetici greci e Voltaire per considerare il proprio
tempo come un criterio e un modello per il mondo intero. Siamo qui di
fronte a una metodologia il cui vero peso si farà sentire solo due secoli
dono. Per l’immediato, lo stesso Herder, proprio come gli altri critici dei
Lumi del suo tempo e del secolo seguente, è restato fedele a questo me­
todo solo finché si trattava di combattere l’influenza francese e di pro­
clamare il declino della Francia. Herder, Möser, che prima di Herder
aveva pubblicato un libro intitolato Sullo spirito nazionale tedesco, e
Fichte dopo Jena non reclamano certo l’eguaglianza di tutte le lingue, di
tutte le epoche, di tutti i costumi e di tutte le culture, anzi. La superio­
rità dei tedeschi, popolo giovane, i soli dotati di una lingua pura, origi­
nale, non inquinata da apporti stranieri, è subito affermata e la superio-

18. Ibid.
19. Marc Crépon, «Langues et histoire (Herder, critique de Voltaire)», in Pierre Pé-
nisson (a cura di), Herder et la philosophie de l’histoire, p. 127.

417
I fondamenti intellettuali del nazionalismo

rità del Medioevo germanico sottolineata, come quella della Riforma lu­
terana sul Rinascimento italiano. Anche la preminenza nell’aspetto cri­
stiano è chiamata in causa solo fino a quando non metta in discussione
l’omogeneità della nazione. Per il Rinascimento Herder prova una spic­
cata avversione, così come per l’opera di Racine e di Comedle, alla qua­
le oppone la superiorità del dramma shakespeariano20. Spesso si trova
anche lui in una serie di contraddizioni: è affermata la grandezza delle
crociate, ma i mali seminati da queste spedizioni di credenti non gli sfug­
gono; la poesia biblica e gli antichi giudei hanno tutta la sua attenzione,
ma gli ebrei del suo tempo sono oggetto dell’antisemitismo più tradizio­
nale. Condanna il colonialismo, ma colloca il nero molto vicino alla scim­
mia; predice un grande avvenire agli slavi, ma la loro inferiorità rispetto
ai tedeschi è affermata con molta forza e convinzione.
Tuttavia, se il principio dell’eguaglianza assoluta tra popoli, culture
ed epoche costituisce l’aspetto rimasto nascosto del suo pensiero, relati­
vamente poco percepibile dai suoi contemporanei, il pensatore del na­
zionalismo ebbe immediatamente un grosso successo. Ci vorranno quasi
due secoli perché l’autore di Ancora una filosofia della storia possa appa­
rire ideàlizzato, profeta di un innocente pluralismo. Poiché singolarità ed
eguaglianza sono due principi diversi. Il grande errore di certi interpreti
sta proprio qui, nel fatto che essi credono di potere dedurre dalla speci­
ficità di ogni nazione l’eguaglianza tra le nazioni, mentre ciò che ne deri­
va è il contrario. Il particolarismo provoca una acuta presa di coscienza
delle differenze, non dell’eguaglianza. Qui si compie un passo ulteriore,
di importanza capitale: se particolarismo e singolarità sono responsabili
dell’assenza di un criterio che permetta di giudicare le nazioni le une in
rapporto alle altre, è perché le nazioni, per Herder, sono individui.. Uno
studio comparato di culture e civiltà, popoli ed epoche provocherebbe la
cancellazione della specificità assoluta. Dopo di ciò la storia diventa sol­
tanto uno studio delle particolarità locali e nazionali del tutto indipen­
denti le une dalle altre. Si può ancora parlare di storia universale?

20. L’avversione provata da Herder per il Rinascimento doveva procurargli questo


rimprovero di Nietzsche indirizzato ai tedeschi in generale: l’avere privato del suo
senso l’ultima grande epoca della storia. Si veda Hans Blumenberg, La legittimità
dell’età moderna, trad. di Cesare Marelli, Marietti, Genova 1992, p. 507.

418
I fondamenti intellettuali del nazionalismo

Tutte le difficoltà nelle quali si dibatte il procedimento herderiano


derivano dall’impossibilità di realizzare una storia universale che non sia
una storia comparata. In pratica le Idee costituiscono già una storia com­
parata in cui si affermano le ineguaglianze e in cui le particolarità sono
sottoposte a una sottile ma chiara gerarchia delle nazioni. Quanto alla
gerarchia dei valori, questa si manifesta già dal 1774: la ragione è infe­
riore aU’istinto e ai sentimenti; la conquista germanica fu un immenso
passo avanti rispetto allTmpero romano; il primitivismo è superiore al­
l’intellettualismo; la Francia di Luigi XIV è un esempio lampante di una
cultura di imitazione e di artificio. Carlyle o Spengler direbbero le stes­
se cose. Barrès o Maurras parlerebbero allo stesso modo della Germania,
e Danilevsky avrà lo stesso punto di vista sull’intera Europa occidentale.
In quel rigoglioso testo che è Ancora una filosofia della storia, ac­
compagnato dal Giornale di viaggio 1769, che annuncia il declino della
Francia e si sforza di respingere la sua influenza liberandosi della sua
cultura e dei suoi modelli letterari, subito emergono una quantità di dif­
ficoltà e di contraddizioni. A forza di combattere Voltaire, Rousseau e
Montesquieu, Herder prende una posizione che gli fa considerare la na­
zione come un organismo unico nel suo genere, una individualità i cui
costumi, il modo di vita, il comportamento sono inaccessibili alla rifles­
sione critica. Un secolo dopo Barrès diceva che lui non capiva né il Par­
tenone né Platone perché non aveva sangue greco nelle vene; secondo lui
il genio greco era inaccessibile per un francese di Lorena. Herder non
andava così lontano, ma se l’accesso al genio di una nazione era possibi­
le, non era per mezzo della ragione. Su questo punto, essenziale, Barrès
fu davvero suo discepolo.
In effetti, per avvicinarsi al «carattere delle nazioni», per cogliere
«tutto il vivente quadro dei costumi, delle abitudini, dei bisogni, delle
caratteristiche del cielo e della terra, [...] dobbiamo simpatizzare in pri­
mo luogo con la nazione»21. Ma anche così, ci si può arrivare? Se, se­
condo Hume, i caratteri nazionali sono formati dalle istituzioni e i valo­
ri propri di una società da cause morali, al di fuori di cause fisiche,22

21. Herder, Ancora una filosofia della storia, p. 31 (S. 502).


22. Hume, Politicai Essays, Essay XII, pp. 82-83. [«I caratteri nazionali», in Opere f i­
losofiche, pp. 210-214].

419
I fondamenti intellettuali del nazionalismo

secondo Herder le nazioni, non dimentichiamolo, sono degli individui;


e l’indebolimento di questi caratteri nazionali forgiati dalla storia e dalla
natura è un segno di sventura e di decadenza25. Chi, chiede Herder, non
ha notato «quanto ineffabile sia l’esprimere distintamente proprio l’ele­
mento distinto della personalità di un uomo, come egli viva e senta»?
Come rendere l’idea che questo essere peculiare si fa del mondo, di co­
me lo vede e lo percepisce? «Come si rendano diverse e sue tutte le co­
se quando il suo occhio le vede, la sua anima le misura, il suo cuore le
sente»? C ’è una tale «profondità [...] nel carattere anche d’una sola na­
zione», di fronte alla quale, «anche quando ci pare di averla intuita e os­
servata abbastanza, pure la parola ci sfugge», che ci si pone una doman­
da drammatica: «Che deve dunque avvenire quando dobbiamo spaziare
sull’oceano dei popoli, delle età e delle terre»?2,1
La nazione è un tutto, un organismo vivente, e questa totalità si espri­
me nel modo più perfetto nella lingua. Si pone quindi una questione: se
ogni lingua costituisce il serbatoio di pensiero proprio di una nazione, il
pensiero può ancora avere un significato e una vocazione universale? L’u­
niversalità del pensiero può essere raggiunta solo se si accetta la conce­
zione volteriana della strumentalità della lingua. Lo stesso Herder, pur
concentrando il suo interesse sull’individuale, manifestava la preoccupa­
zione di preservare l’universale, ma lui era prima di tutto tedesco, e co­
me solo Dio poteva abbracciare con una sola occhiata l’intera umanità
così solo Dio poteva penetrare lo spirito delle lingue e delle culture stra­
niere. L’importanza del culto del particolare, dell’individuale e dello spe­
cifico è l’apporto herderiano originale e nuovo che conferisce un senso
rivoluzionario all’idea stessa di identità collettiva e avrà un ruolo decisi­
vo nella crescita del nazionalismo culturale e politico. E per questo che
Herder è una figura ben più moderna di de Maistre e, al contrario di
quanto pensa Berlin, il suo contributo intellettuale alla campagna contro
i diritti naturali e i principi dell’89 è nettamente superiore a quello del­
l’autore delle Soirées de Sant-Pétersburg. La reazione di de Maistre era
meno pericolosa perché meno credibile, fatta in nome di un Ancien Re­
gime che si sapeva scomparso per sempre, mentre il rifiuto dell’Illumini-234

23. Herder, Ancora una filosofia della storia, pp. 83-84 (S. 551).
24. Ibid., pp. 30-31 (S. 502).

420
I fondamenti intellettuali del nazionalismo

smo da parte di Herder annuncia l’arrivo delle forze nuove del naziona­
lismo. E davvero nella visione herderiana della nazione che si radica il na­
zionalismo della svolta del Novecento, e non in quella di de Maistre.
Si è visto sopra che, nonostante l’estrema chiarezza della sua formu­
lazione, l’idea corrente ritiene tuttora che uno dei maggiori titoli di glo­
ria di Herder, dopo « l’invenzione del mondo storico», sia l’invenzione
del pluralismo e della diversità. Da ciò deriverebbe il suo preteso rispet­
to dei popoli e delle culture non europee. Herder sarebbe insomma in­
sorto contro Teurocentrismo deH’Illuminismo e contro il suo preteso di­
sprezzo per il mondo non europeo. Egli sarebbe così il profeta dell’e­
guaglianza di tutte le civiltà e di tutte le epoche25. In realtà Herder pren­
de una posizione ben più arretrata di quella di Voltaire. Non mette sul­
lo stesso piano tutti i valori, si accontenta di creare una scala diversa. Al
razionalismo, all’individualismo e alla laicità deirilluminismo, egli op­
pone l’alternativa cristiana, germanica e medievale. Mentre per i philo­
sophes il progresso è dovuto esclusivamente allo spirito umano, in lui l’e­
voluzione dell’umanità è governata dalla provvidenza e realizza un pia­
no divino. Il sistema di Herder può essere considerato l’esito della filo­
sofia cristiana della storia che, in seguito alla conversione dello Stato ro­
mano e all’evangelizzazione dei barbari, tendeva a identificare la realtà
storica con la volontà di Dio, a spese della volontà umana. Dopo Vico,
Herder è il rappresentante della filosofia della storia cristiana nel XVIII
secolo Ecco perché in Ancora una filosofia della storia l’Estremo Orien­
te risulta assente e la sua presenza nelle Idee marginale.
Viceversa nessun autore più di Voltaire ha fatto così largo posto ai
popoli non europei. Già all’inizio dell’Essai sur les mœurs egli insorge
contro l’idea dell’inferiorità dei popoli d’America, selvaggi secondo gli
europei: «I cosiddetti selvaggi dell’America sono dei sovrani che ricevo­
no ambasciatori [...]. Sanno che cos’è l’onore, di cui i selvaggi europei
non hanno mai sentito parlare». L’urone, l'algonchino, l’abitante dell’Il-
linois, il cafro, l’ottentotto non solo conoscono l’arte di fabbricare essi
stessi ciò di cui hanno bisogno, «e quest’arte manca ai nostri zotici», ma
«hanno una patria, l’amano, la difendono, stipulano trattati, si battono

25. Si veda in particolare Berlin, Vico and Herder [Vico e Herder] e, più avanti, il cap.
V i l i .

421
I fondamenti intellettuali del nazionalismo

con coraggio, e spesso si esprimono con vigore eroico»26. Il secondo vo­


lume dell’&rûz sur les mœurs dedica uno spazio notevole ai paesi del­
l’Asia e dell’America e alla barbara conquista e brutale cristianizzazione
dell’America centrale e meridionale. Le pagine sullo splendore degli In­
cas e sulla barbarie degli europei non permettono alcun dubbio sulla
parte verso la quale inclinava il cuore di Voltaire: gli europei trattano i
neri «comprati in Africa e trasportati in Perù come animali destinati al
servizio degli uomini. Infatti né quei negri né gli abitanti del Nuovo
Mondo venivano trattati come una specie umana»27.
Nello stesso spirito, Voltaire pone l’accento sui popoli restati al di
fuori del mondo cristiano e ne\VEssai sur les mœurs dedica i primi sette
capitoli alla Cina, all’India, alla Persia e all’Arabia di Maometto per par­
lare con rispetto, spesso con molti elogi, delle religioni non cristiane28. La
Cina «esiste con splendore da più di quattromila anni», ha saputo svi­
luppare le lettere e le arti, ha creato grandi città (Pechino comprende
«circa tre milioni di cittadini»), la grande muraglia è «un monumento su­
periore [...] alle piramidi d’Egitto», il paese conta circa centocinquanta
milioni di abitanti contro i cento milioni di tutta l’Europa, e la sua agri­
coltura è di straordinaria ricchezza29. Voltaire non perde occasione per
mostrare la superiorità dei cinesi sui barbari che avevano messo fine al­
l’Impero romano. L’imperatore Hiao, monarca che cercava di rendere i
suoi sudditi colti e felici, dice Voltaire, era anche un abile matematico
che si dedicò in persona a riformare l’astronomia: «Non si trova nessu­
no, tra gli antichi capi dei villaggi germani o galli, che abbia riformato
l’astronomia»30.
Il disprezzo di Voltaire per i barbari, cristiani o no, non ha limiti.
Mostra un Clodoveo ben più sanguinario dopo il battesimo di quanto lo
fosse prima, colpevole di crimini che «non erano di quegli eroici misfat­
ti che colpiscono l’imbecillità umana: erano furti e parricidi»31. Per Her­
der questa messa sotto accusa è intollerabile. Vediamo come Herder e

26. Voltaire, Saggio sui costumi, t. 1, p. 42.


27. Ibid., t. Ili, p. 372. Si vedano anche le pp. 366-371.
28. Ibid., 1.1, pp. 224-279.
29. Ibid., pp. 211-216.
30. Ibid., p. 212.
31. Ibid., p. 307.

422
I fondamenti intellettuali del nazionalismo

Voltaire presentano, ognuno a suo modo, questi popoli del Nord, in par­
ticolare quello che ha attirato maggiori attenzioni, i normanni, con la lo­
ro influenza. Secondo Herder «è ai loro costumi che non solo l’Inghil­
terra ma gran parte dell’Europa deve lo splendore della sua cavalleria»;
questo testo non si trova in Ancora una filosofia della storia ma nelle Idee.
I normanni apportarono «valore e forza fisica, abilità e accortezza in tut­
te le attività più tardi chiamate cavalleresche, un grande sentimento del­
l’onore e della nobiltà d’origine»32.
Herder non solo ha uno sguardo amoroso per tutti questi popoli del
Nord, per tutte queste tribù germaniche, ma conferisce il prestigio del
genio a tutti gli stereotipi, che diventano rapidamente famosi e assumo­
no un ruolo importante nello sviluppo del mito germanico. «La loro al­
ta, forte e bella corporatura, i loro occhi di un azzurro minaccioso, era­
no animati da uno spirito di fedele devozione e di temperanza che li ren­
deva obbedienti ai loro capi, coraggiosi nell’attacco, resistenti nei peri­
coli, e perciò assai ben visti come alleati o temuti da altri popoli, soprat­
tutto dai romani degenerati.» Qualche riga dopo aggiunge: «La lunga re­
sistenza condotta contro i romani da molti popoli della nostra Germania
aumentò naturalmente le loro forze e il loro odio contro il nemico ere­
ditario»33. L’ammirazione di Herder per le virtù guerriere dei germani,
per il loro rozzo sistema di vita di nomadi e di cacciatori, non ha in pra­
tica limiti. Certo, tutti questi popoli non avevano gli stessi costumi o la
stessa civiltà, ma esisteva un fondo comune: ciò che rimaneva comunque
«nel valoroso tedesco originario» era «il suo Theut o Tuisto, Mann,
Hertha e Wotan, cioè un padre, un eroe, la terra e un generale»34. Her­
der termina il capitolo dedicato ai «popoli germanici» sia con una con­
fusa osservazione sulla «situazione politica» dei tedeschi, che sarebbe al­
l’origine dei lenti progressi della civiltà europea, sia con una tirata chia­
rissima, che avrà anch’essa un grande avvenire: «Sono dunque loro che
non solo hanno conquistato, consolidato e organizzato alla loro maniera
la maggior parte dell’Europa, ma che l’hanno anche difesa e protetta;

32. Herder, Idées pour la philosophie de l'histoire de l’humanité, livre XVIII, ch. IV,
p. 363.
33. Ibid., livre XVI, ch. III, pp. 293-295.
34. Ibid., p. 297.

423
I fondamenti intellettuali del nazionalismo

senza di ciò, non avrebbe potuto sviluppatisi quello che vi si è svilup­


pato. La loro posizione tra gli altri popoli, la loro unione guerriera e il
loro carattere nazionale sono quindi diventati le fondamenta della ci­
viltà, della libertà e della sicurezza d’Europa»” . In tutti i campi, «grazie
alla fatica e alla lealtà tedesca», i germani ebbero un ruolo di avanguar­
dia. I loro conventi hanno salvaguardato le scienze, i loro emigranti di­
vennero istruttori nei paesi stranieri «e, pur in tutti i traviamenti di que­
sto nostro secolo, lo spirito indistruttibilmente leale e onesto del tedesco
resta evidente». La castità fu conservata meglio che altrove e i costumi vi
erano infinitamente più sani3536.
Nello stesso tempo, e qualche pagina dopo, Herder si mostra consa­
pevole della frammentazione provocata dal feudalesimo e dei suoi abu­
si. Tra tutte le sofferenze che conobbe l’Europa nel Medioevo, dice, gli
uomini non ne subirono «alla fine nessuna peggiore della dispotica feu­
dalità. L’Europa era piena di gente, ma piena di servi; la schiavitù che pe­
sava su di loro era ancora più dura in quanto schiavitù cristiana, regola­
ta da leggi politiche e dalla cieca tradizione, confermata tramite lo scrit­
to, legata alla gleba».37 Ma, facendo un bilancio complessivo, Herder
non può impedirsi di decantare la grandezza dell’«organizzazione politi­
ca tedesca, così naturale e nobile», dei costumi germanici, come il prin­
cipio che ogni delitto «deve essere giudicato non secondo la lettera ma
tramite una visione vivente della cosa». Altre «usanze dei tribunali, del­
le corporazioni» testimoniano «lo spirito chiaro ed equanime dei tede­
schi». Lo stesso è per lo Stato: «i principi della proprietà collettiva e del­
la comune libertà della nazione erano grandi e nobili»38.
Tutto ciò che separa Herder da Voltaire si manifesta nella visione
che quest’ultimo ha dei vincitori di Roma. I normanni, i popoli della
Scandinavia e gli abitanti delle rive del Baltico, insomma «i germani»,
che secondo Herder, spargendosi in Europa, annunciano la giovinezza
del mondo, per Voltaire sono solo «selvaggi»: «il brigantaggio e la pira­
teria erano loro necessari come la strage lo è per le bestie feroci». A par-

35. lbid., p. 299.


36. Ibid., livre XVIII, ch. V, pp. 371-373.
37. Ibid, livre XIX, ch. VI, p. 445.
38. Ibid., livre XVIII, ch. VI, p. 383.

424
I fondamenti intellettuali del nazionalismo

tire dal IV secolo essi si mescolano «alle ondate degli altri barbari che
portarono la desolazione fino a Roma e in Africa»’9. Roma era crollata
perché non c’erano più uomini come Mario per tenere testa ai barbari,
perché c’erano più monaci che soldati: «Il cristianesimo apriva il cielo,
ma rovinava l’impero»3940. L’alto Medioevo fu un tempo « d ’ignoranza ge­
nerale»,41 in «questi tempi barbari» tutto fu soltanto «confusione, tiran­
nia, barbarie e povertà»42. Il feudalesimo aveva prodotto un «mostruoso
aggregato di membra che non formavano affatto un corpo. [...] Ogni ca­
stello era la capitale d’un piccolo Stato di malfattori», le campagne era­
no desolate, le città devastate e i contadini trascinati in guerra conside­
rati meno dei cavalli43. In quanto alle norme e agli usi, compresi quelli
della cavalleria, non erano altro che precetti per una continua guerra ci­
vile44. Il XIII secolo rappresentò una svolta: si passò «dall’ignoranza sel­
vaggia all’ignoranza scolastica»: da allora fino quasi a oggi, dice Voltaire,
gli studi di scolastica sono rimasti «sistemi di assurdità tali che, se venis­
sero attribuiti ai popoli di Taprobane, crederemmo di calunniarli»45.
Lo stesso è per la Chiesa di quei tempi: la festa del Santo Sacramen­
to, racconta Voltaire, ha avuto origine dalle visioni di una religiosa di
Liegi che, nel 1264, immaginò di vedere ogni notte un buco nella luna;
ebbe poi una rivelazione che le chiarì che la luna significava la Chiesa e
il buco una festa che mancava. Un monaco compose con lei l’officio del
Santo Sacramento e la festa di Liegi venne adottata da Urbano IV per
tutta la Chiesa46. Fin dalle prime pagine dell’Essai sur les mœurs Voltaire
si occupa delle «favole assurde» alle quali «la maggior parte del genere
umano [...] insensato e stupido» trova un senso, come nel caso di «tut­
ti coloro che si credeva fossero nati dal commercio soprannaturale della
divinità con le nostre mogli e con le nostre figlie»47. Sono queste frecce

39. Voltaire, Saggio sui costumi, 1.1, p. 387.


40. ibid., p. 305.
41. Ibid., p. 395.
42. Ibid., t. II, pp. 25-30.
43. Ibid., pp. 24-25.
44. ibid., p. 106.
45. Ibid, pp. 222-223.
46. Ibid., p. 222.
47. Ibid., t. I, p. 37.

425
I fondamenti intellettuali del nazionalismo

avvelenate che dovevano rendere Voltaire odioso a Herder, non il suo


preteso antistoricismo o il suo preteso orgoglio europeo.
Al contrario di Voltaire che si impegna a porre in luce tutti gli aspet­
ti dell’inferiorità europea rispetto al mondo extraeuropeo, Herder ritie­
ne che quello cristiano resti il «più importante dei mondi umani»'18. Un
anno dopo Ancora una filosofia della storia, si mostra ancora più catego­
rico: «I paesi che hanno guidato la storia sono stati proprio quelli in cui
le rivelazioni giudaiche e cristiane hanno avuto inizio e si sono propaga­
te. Ovunque altrove la ragione umana è rimasta assopita»4849. Ancora una
filosofia della storia ignora l’Africa, l’America e l’Estremo Oriente, le
Idee manifestano un disprezzo che non può sfuggire al lettore non pre­
venuto. Altrove Herder scrive: «Una catena di tradizione unisce quindi
l’Asia all’Europa, tramite la Grecia e Roma: ciò che è fuori di questa ca­
tena resta nell’ombra»50. Tale linea si prolunga nell’elogio dell’Egitto.
Herder attacca Winckelmann, nel quale vede giustamente il migliore
storico dell’arte antica, per avere giudicato le opere d’arte egiziane «col
metro di quelle greche», critica duramente Shaftesbury, «quel delizioso
Platone d’Europa» che sfoga la sua «bile [...] sulla superstizione e il pre-
tume degli egizi», e si accanisce ancora contro Voltaire, questa volta po­
sto in compagnia di Newton51. Tutti costoro si regolano come se il mon­
do egiziano non avesse altra ragione di esistere se non come una tappa
verso l’emergere della Grecia o del nostro mondo moderno. Tuttavia,
protestando contro gli adepti del classicismo come Winckelmann o i
portavoce della modernità ideologica come Shaftesbury, che hanno giu­
dicato l’Egitto secondo i loro criteri e non secondo la visione di oggi,
Herder mostra ancora una volta quale sia la sua scala di valori. Non è
giusto opporre allo «spirito egizio», dice rivolgendosi all’uomo del
XVIII secolo in seconda persona, come fa di frequente, «la tua intelli­
genza politica, il tuo filosofico deismo, la frivola leggerezza, il cosmo­
politismo, la tolleranza, la cortesia, il diritto delle genti, e altra simile

48. Herder, Ancora una filosofia della storia, p. 103 (S. 567).
49. Rouché, La Philosophie de l’histoire de Herder, pp. 102 e 540, cita i Commentari
al Nuovo Testamento del 1775.
50. Citato in Rouché, Introduction a Herder, Une autre philosophie de l’histoire, p. 77.
51. Herder, Ancora una filosofia della storia, pp. 18-20 (S. 490-491): Herder cita il t.
Ili di Miscellany («Characteristics» di Shaftesbury).

426
I fondamenti intellettuali del nazionalismo

roba».52 Per Herder il diritto delle genti, la tolleranza, l’intelligenza poli­


tica, cioè l’apprendistato alla libertà, la volontà di scoprire il mondo e di
conoscere altre culture, fanno parte di «altra simile roba» spregevole co­
me la frivola leggerezza, perfino questa posta sullo stesso piano del dei­
smo filosofico.
In pratica qui Herder attacca tutta la philosophie dell’Illuminismo
per avere generalizzato propri valori e norme, senza preoccuparsi del­
l’altro: ma questo peccato dei Lumi è sempre stato solo un’invenzione
dei loro avversari. Certo, nella querelle des Ancien s et d.es Mndernes, i
primi philosophes, con in testa Fontenelle e poi con Voltaire, si erano
mostrati convinti della superiorità del loro secolo sui tempi passati, ma
in un solo senso: poiché ogni generazione ha interiorizzato le conquiste
del passato e aggiunto al capitale accumulato il proprio contributo, il ri­
sultato non poteva che essere superiore a ciò che esisteva prima. Era sta­
to così per tutti i periodi gloriosi, in particolare per l’antichità, con la no­
tevole eccezione del Medioevo, tempo di barbarie per eccellenza per tut­
ti i pensatori del XVII e XVIII secolo di qualunque nazionalità, che non
poteva avere apportato alcun contributo al progresso generale. Herder
detesta talmente il pensiero illuminista e prova una tale avversione per la
cultura francese che la sua critica perde molta credibilità. Del resto,
quando rivendica l’eguale valore di tutte le epoche, subito ne esclude il
XVIII secolo, e in seguito tale rivendicazione assume significato concre­
to solo nella riabilitazione del Medioevo germanico. Herder falsifica la
storiografia del XVIII secolo e quando le rimprovera di «portare attor­
no la nostra romanzesca visione unilaterale, fatta insieme di scherno e di
menzogna, per tutti i secoli»53 diventa ridicolo.
Dopo l’Egitto viene la Grecia, «questo frutto unico della specie
umana»,54 che rappresenta l’adolescenza dell’umanità antica. Ma, al con­
trario dell’opinione pubblica «illuminata», che vedeva nella Grecia di
Socrate, di Platone, di Aristotele, di Pericle e di Fidia un modello eter­
namente valido di grandezza, la culla della libertà, Herder insiste sul fat­
to che «Socrate infatti era soltanto un cittadino ateniese, la sua sapienza

52. Ibid., p. 19 (S. 490).


53. Ibid., p. 90 (S. 555).
54. lbid.,p. 25 (S. 496).

427
I fondamenti intellettuali del nazionalismo

la sapienza di un cittadino ateniese»” . Ironizza sull’uomo del XVIII se­


colo che si rivolge a un Socrate mitico, a un «eterno Socrate», del quale
ogni detto dovrebbe «essere degno del mondo e dell’eternità. [...] Inse­
gnare la virtù con quella luce e con quella chiarezza che ancora erano im­
possibili ai tempi di Socrate, incitare alla filantropia che, se veramente
potesse esistere, sarebbe superiore all’amor patrio e civico»556. L’idea her-
deriana di sottomissione dell’individuo alla comunità si presenta qui con
grande chiarezza: è proprio lo spirito comunitario che Herder ammira
nei greci, non la democrazia ateniese. Il suo ideale è la famosa epigrafe
per gli spartiati caduti alle Termopili, che, dice, «rimane per sempre il
principio della più alta virtù politica»57.
L’orrore a lui ispirato da Roma, che rappresenta « l’età virile delle
umane energie e aspirazioni»58 (il Basso Impero ne rappresenta la de­
crepitezza), è motivato da una ragione fondamentale: la sua dominazio­
ne fu come una «tempesta che penetrò fin nel più intimo sacrario delle
concezioni nazionali d ’ogni popolo» ed è così che fu compiuto il primo
passo «sulla via della distruzione dei caratteri nazionali di ognuno»59.
Spengler seguirà questa linea di pensiero quasi alla lettera. Herder non
può non riconoscere la grandezza romana ma gli ripugna il cosmopoli­
tismo romano: «Poteva forse perpetrarsi una ribalderia a Roma, senza
che il sangue scorresse su tre continenti?»60 Si sviluppa così la campa­
gna contro il classicismo e si crea il culto del Medioevo. Conviene ri­
cordare, in questo contesto, la nostalgia della Repubblica che suscita­
vano gli studi classici nel XVIII secolo. Herder non ha questa nostalgia
per i primi tempi della Repubblica, il suo grande assillo resta sempre
quello delle identità nazionali fuse nell’immenso impero, di «tutti i po­
poli [che], sotto il giogo romano, in qualche modo cessarono di esser
quel che erano stati prima»,61 come il vecchio spirito egiziano soffocato

55. Herder, Idee per la filosofia della storia dell’umanità, libro XIII, cap. IV, p. 252.
56. Herder, Ancora una filosofia della storia, p. 105 (S. 568-569). Herder parla del­
l’amore per la città come amore per i propri concittadini (Biirgerliebe).
57. Herder, Idee per la filosofia della storia dell’umanità, libro XIII, cap. IV, p. 251.
58. Herder, Ancora una filosofia della storia, p. 27 (S. 499).
59. Ibid., p. 29 (S. 501).
60. Ibid., p. 28 (S. 500).
61. Ibid., p. 30 (S. 501).

428
I fondamenti intellettuali del nazionalismo

dalla presenza greca e romana62. Le sue preferenze vanno alla piccola


città greca che, dopo avere assorbito apporti stranieri, seppe creare una
civiltà originale, «fioritura giovanile del genere umano»,63 e conservare
una fisionomia nazionale. Sicuramente egli ammira nei greci «il loro
amore di libertà»,64 ma non spreca una parola per la democrazia atenie­
se né per ciò che separa Atene da Sparta. Non è la democrazia, ancor­
ché limitata ai possidenti e idealizzata da generazioni imbevute di cul­
tura antica, che egli vede in Grecia, i suoi magistrati eletti, le sue as­
semblee popolari, Pericle come lo mostra Tucidide. Per lui la Grecia è
solo la giovinezza delle culture nazionali, delle comunità che coltivano
la propria specificità. A questa comunità nazionale perfetta succede il
multinazionale mostro romano.
Per rimediare al crollo dello «Stato universale romano, [...] un mon­
do nuovo era necessario»; e questo mondo fu il Nord: «il Settentrione
dilagò sul Meridione». Il vecchio mondo antico, abitato da uomini
sprofondati nel vizio, è sconvolto dall’irruzione di un popolo giovane.
Ancora una volta Herder rivolge la propria attenzione all’inizio di un
mondo e alla nascita di «un uomo nuovo»65. Egli vede nell’arrivo dei ger­
mani un nuovo inizio, e «stupito ammirerà la via attraverso la quale la
provvidenza andava preparando una riserva tanto straordinaria di forze
umane». E così che «il mondo nuovo [...] è opera loro; essi l’hanno po­
polato e organizzato politicamente»66.1 germani non portarono soltanto
«energie umane» ma anche «gran numero di leggi e di istituzioni». Essi
spregiavano le arti e le scienze, il lusso e la raffinatezza «che erano andati
desolando l’umanità»; al loro posto apportarono «natura, [•••] sano
buon senso nordico, [...] i costumi forti e buoni, anche se selvaggi». Le
loro leggi «spiravano coraggio virile, senso d’onore, fiducia nella ragio­
ne, probità e ossequio agli dei». In quanto all’organizzazione feudale, es­
sa scalzò «le tumultuose, popolose e sfarzose città» con la cultura rura­
le, creò «gente sana e perciò stesso anche soddisfatta»; inoltre essa «si

62. Ibid., P- 48 (S. 517).


63. Ibid., P- 27 (S. 498).
64. Ibid., P- 48 (S. 517).
65. Ibid., pp. 45-46 (S. 513-514).
66. Ibid., P- 46 (S. 514-515).

429
I fondamenti intellettuali del nazionalismo

elevò poi alle idee di castità e d’onore, nobilitando così la parte migliore
delle inclinazioni umane»67.
L’apologià herderiana del Medioevo germanico ingloba praticamen­
te tutti gli aspetti della vita sociale e politica. Il pastore luterano riversa
il suo disprezzo su «ogni classico bel pensatore che consideri la raffina­
tezza del proprio secolo come il nec plus ultra dell’umanità» e che colga
ogni occasione per «coprire di rampogne secoli interi di barbarie, di mi­
serabile giurisprudenza, di superstizione, di insipienza», contro i con­
venti e le chiese, le scuole e le corporazioni. Allo stesso tempo questi cat­
tivi pensatori non cessano di «innalzare un inno di gloria alla luce del no­
stro secolo, alla sua frivolezza e licenza cioè, al suo calore per le idee e
alla sua freddezza per l’azione, alla sua apparente forza e libertà e alla sua
effettiva debolezza mortale, al suo accasciarsi sotto l’incredulità, il di­
spotismo e la fastosa sensualità»68. Bisogna vedere i tempi del Medioevo,
dice Herder, «nella loro natura e nei loro propri fini, nei loro piaceri e
costumi» e, se si affrontano le cose nel modo giusto, si può notare che
allora c’era, al di là delle apparenze violente, «alcunché di solido, di con­
nettivo, di nobile»69. Qui si tratta della natura della società, ed è questa
la ragione per cui Herder deplora «i vincoli corporativi allentati», la ra­
gione per cui si beffa della libertà del suo tempo o, in altre parole, del
suo individualismo, per opporre subito valori, norme e strutture sociali
medievali: era un mondo in cui «signori e servi, re e sudditi furono sem­
pre più ravvicinati», in cui fu ostacolato lo «sviluppo delle lussuose e
malsane città, baratro delle forze vitali dell’umanità», in cui « l’assenza
del commercio e del raffinamento impedirono ogni sfrenatezza, mante­
nendo la semplice umanità». Era un mondo in cui «le rozze corporazio­
ni e la cavalleria produssero certo l’orgoglio artigiano e nobiliare» ma an­
che «la fiducia in se stessi, un senso di solidità nell’àmbito del proprio
ambiente, e di virilità nel proprio nucleo sociale». Qui Herder fa un pas­
so avanti ed esalta le virtù delle «Repubbliche guerriere e armate città»
che dovevano germogliare più tardi dal terriccio creato dal Medioevo70.

67. Ibid., pp. 4647 (S. 515-516). Si vedano le stesse formulazioni alle pp. 57-58 (S. 527-528).
68. Ibid., p. 55 (S. 524).
69. Ibid., p. 56 (S. 524).
70. Ibid.,pp. 56-57 (S. 526).

430
I fondamenti intellettuali del nazionalismo

Herder concorda con Voltaire nel definire il Medioevo un’età di bar­


barie ma, al contrario di Voltaire, egli considera questa barbarie come sa­
na vitalità e celebra il disordine e l’effervescenza creativi dell’epoca. E
creativa, quest’epoca di «fermentazione», lo è anche grazie alla sua «re­
ligione cristiana», che è «una delle molle motrici del mondo». In pratica
appare chiaro che Herder riabilita più il Medioevo germanico che quel­
lo cristiano; non aveva alcuna simpatia per il cattolicesimo medievale.
Ciò che ama è la suddivisione: mentre nel mondo antico «l’energia d’o-
gni singolo carattere nazionale s’era andata perdendo»,71 l’umanità, in
«quei secoli di fermentazione, [di] suddivisione in piccole società», si ar­
ticolò in «tante e tante membra diverse»72.
Herder non è restato sempre fedele alle sue concezioni Sturm und
Drang: «la notte dei secoli medievali», dice nelle Idee, non tornerà mai
più. Però esalta tutto ciò che Voltaire e altri pensatori illuministi, come
Hume, hanno in orrore. Per Voltaire, «quando si passa dalla storia del­
l’impero romano a quella dei popoli che l’hanno lacerato in Occidente,
pare d’essere un viaggiatore che, all’uscire da una splendida città, si tro­
vi in deserti coperti di sterpi. Venti gerghi barbari presero il posto della
bella lingua latina che si parlava dal fondo deH’Illiria al monte Atlante.
Al posto di quelle savie leggi che governavano la metà del nostro emi­
sfero, si trovano soltanto costumi selvaggi [...]. L’intendimento umano
si abbrutisce nelle superstizioni più vili e più insensate. Queste supersti­
zioni si spingono tanto lontano che dei monaci diventano signori e prin­
cipi; hanno degli schiavi, e questi schiavi non osano nemmeno lamentar­
si. L’Europa intera langue in questo stato d’avvilimento fino al XVI se­
colo, e ne esce solo a costo di tremende convulsioni»73.
Contro Herder, fautore di una civiltà terriera, l’autore dell’Essai sur
les mœurs, così come Hume,74 apprezza la virtù civilizzatrice di quei cen­
tri di vita, di cultura e di scienza che sono le città. Nel capitolo dedicato
all’Inghilterra verso il IX secolo egli traccia un ritratto elogiativo di

71. lbid., p. 59 (S. 528).


72. Ibid.,p. 47 (S. 516).
73. Voltaire, Saggio sui costumi, t. I, pp. 311-312.
74. Hume, Politicai Essays, Essay XIV, pp. 105-114 [«Sull’affinamento delle arti», in
Opere filosofiche, voi. Ili, pp. 278-290],

431
I fondamenti intellettuali del nazionalismo

Alfredo il Grande, che conosceva il latino e aveva fatto venire libri da


Roma, poiché «l’Inghilterra, completamente barbara, quasi non ne ave­
va», e aveva posto le basi dell’«Accademia di Oxford»75. Le ultime righe
dell’Essai sur les mœurs sono ancora dedicate alla gloria di quelle «città
superbe», come Pietroburgo e Madrid, «costruite in luoghi ch’erano de­
serti seicento anni fa»767. A ciò Herder risponde celebrando la civiltà agri­
cola dei germani, rozza e sana.
Per Herder, come per Justus Mòser o per Klopstock, il rinnovamen­
to germanico dell’alto Medioevo costituisce un faro e un esempio di
quella rinascita di cui aveva bisogno la decadente civiltà del XVIII seco­
lo. Herder non ha inventato il mito dei barbari liberatori, però mostra i
germani giunti a ringiovanire e a purificare un mondo in declino. Certo,
una nuova invasione di barbari non è pensabile, ma un rinnovamento
morale, intellettuale e nazionale, un risveglio di nazionalità organiche è
possibile, così come è possibile che una civiltà comunitaria, antiraziona­
listica e antiuniversalistica succeda alla civiltà dei Lumi. La stessa parola
«barbaro» perde il suo senso peggiorativo: Herder ironizza sulla notte
che finisce quando, col Rinascimento, «on n était plus barbares»11. N o­
nostante la sua visione dell’eguaglianza di tutte le culture, Herder, che
riabilita i barbari germanici in quanto tali, non esita ad approvare la di­
struzione della cultura mediterranea da parte degli uomini del Nord e ad
attaccare il Rinascimento che getta un ponte verso il mondo antico sopra
il Medioevo germanico. Una rinascita dei miti germanici e scandinavi, al­
lora facilmente confusi, ferve quando Herder inizia la sua carriera: nel
1756 è lo svizzero Mallet, nella sua Histoire du Dannemarc, a far cono­
scere l'Edda al grande pubblico, ma è Herder, grande ammiratore di
questa epopea, a raccomandare ai poeti tedeschi l’uso della mitologia
nordica; Wagner, continuatore dei filologi romantici, la fece concreta­
mente rinascere nell’arte. Il caso Wagner mostra bene i rapporti che uni­
scono il razzismo alla mitologia: il razzismo è la forma moderna della mi­
tologia germanica, sempre contrapposta dagli Stürmers alla mitologia
greco-romana.

75. Voltaire, Saggio sui costumi, t. I, p. 395.


76. Ibtd., t. IV, p. 403.
77. Herder, Ancora una filosofia della storia, p. 62 (S. 530).

432
1 fondamenti intellettuali del nazionalismo

Tale rinascita culturale ne prepara una politica. I barbari rappresen­


tano, rispetto alla decadenza romana, lo stesso ritorno alla sana vitalità
che lo Sturm und Drang pretende di rappresentare rispetto allTllumini-
smo francese. La glorificazione del Medioevo è la glorificazione di una
costruzione germanica, pluralista, nazionale, insieme mitica e nuova. Il
Medioevo di solito non viene considerato un periodo in cui fiorivano le
comunità nazionali. Del Medioevo sono l’universalismo cristiano, l’unità
religiosa, il latino, lingua universale della cultura, che di norma si consi­
derano. Non così Herder: egli ama «i fiori dello spirito cavalleresco» ma
non le «architetture gotiche», e ciò che ammira pili di tutto è questa
«molteplicità di monarchie, vicinanza di comunità sorelle». Tuttavia non
spregia del tutto l’uniformità, a condizione che sia quel genere di egua­
glianza che corrisponde alla sua visione del bene. Sta qui la caratteristi­
ca che i suoi interpreti, da Rouché fino a Barnard e Berlin, non hanno
assolutamente colto: l’uniformità va bene finché le «nazioni sorelle» so­
no «tutte d’un’unica stirpe tedesca, tutte affermanti [...] lo stesso idea­
le d’organizzazione politica, la medesima fede religiosa». Una straordi­
naria vitalità si sprigiona da questo mondo in cui tutte le comunità, «nel­
la loro lotta con se stesse», sono spinte da «una sacra aura» verso «cro­
ciate e conversioni di popoli»78.
Tuttavia, qualche pagina dopo, Herder condanna l’espansione euro­
pea col suo seguito di sofferenze e rovine, si scaglia contro le sventure
provocate «a causa di conversione o di civilizzazione»79 e, alcune pagine
prima, pone le crociate tra le calamità80. Nel quarto libro delle Idee il to­
no è ancora più duro: «La croce del Cristo fu portata come strumento
di morte in tutte le parti del mondo»:81 in tutto il ventesimo libro Her­
der mette sotto processo le crociate, «questo evento folle»,8283questa «fol­
lia che era costata all’Europa cristiana una quantità indicibile di denaro
e di uomini»,85 l’Inquisizione, questo «tribunale di sangue»;84 condanna

78. Ib id ,p . 61 (S. 529).


79. lbid., p. 64 (S.533).
80. Ib id ,p p . 57-58 (S. 526).
81. Herder, Idées pour la philosophie de l’histoire de l’humanité, livre XIX, ch. II, p. 403.
82. Ibid., livre X X , ch. premier, p. 447.
83. Ibid., livre XX, ch. III, pp. 471-473.
84. Herder, Idee per la filosofia della storia dell’umanità, libro X X , cap. IV, p. 358.

433
I fondamenti intellettuali del nazionalismo

duramente il papato, le campagne contro gli eretici della Francia meri­


dionale, gli ordini cavallereschi fondati in Palestina. È certo che odiava
il colonialismo di qualsiasi genere, compreso quello che infieriva sotto il
segno della croce. Per tutta la vita è rimasto fedele al suo principio fon­
damentale: il valore supremo della specificità storica. Tuttavia questo no­
bile principio non gli impediva di creare una scala di valore in cui il Me­
dioevo prevale sul mondo moderno e la Germania sulla Francia. Spesso
sembra avere due approcci differenti: un atteggiamento fatto di egua­
glianza e di apertura quando si tratta di un passato remoto o di contra­
de lontane, uno diverso quando entrano in gioco i suoi tempi, la Fran­
cia, rilluminismo francese e inglese nel loro insieme.
Insomma l’ideale herderiano è quello di una comunità organica, cor­
porativa, in cui le classi sociali costituiscono una gerarchia di corpi. Her­
der contrappone questa società ideale, frutto della conquista germanica
e prodotto delle istituzioni del tutto nuove portate dai vincitori, questa
società sana ove regna la fede, alla realtà dei suoi tempi: un mondo sen­
za Dio, una società permissiva, un regime assolutista e, cosa per lui an­
cora più grave, illuminato, uno Stato centralizzato, una filosofia raziona­
lista e individualista, distruttrice dei legami sociali naturali. Per lui la na­
zione è una collettività naturale della quale esalta l’esistenza nel Me­
dioevo. Era la base di una civiltà organica, della quale la «civiltà moder­
na» dei suoi tempi è esattamente l’opposto: una civiltà razionalista,
«meccanica» - le parole «meccanica» e «meccanismo» tornano spesso in
queste pagine per caratterizzare le strutture mentali della modernità -
giunta a sostituire tempi nei quali i philosophes volevano vedere solo
un’epoca di barbarie. Herder versa fiumi di ironia su tutti i grandi col­
pevoli - vengono nominati Hume, Robertson, D ’Alembert e Iselin - per
i quali la dissoluzione della civiltà medievale fu come la fine di un incu­
bo: «La lunga eterna notte si schiarì nella luce del mattino, ed ecco la
riforma, la rinascita delle arti, delle scienze e dei costumi. La feccia pre­
cipitò ed ecco... il nostro pensiero, la nostra civiltà, la nostra filosofia.
[...] on n’était plus barbares»^. Herder ha combattuto il Rinascimento85

85. Herder, Ancora una filosofia della storia, p. 62 (S. 530). «E s ward unser Denken»
(«ecco... il nostro pensiero») è, osserva Rouché, una parodia di «es ward liebt»,
cioè «e la luce fu» (Genesi, I, 3).

434
I fondamenti intellettuali del nazionalismo

proprio perché antibarbaro e antigermanico, riconnesso al periodo clas­


sico scavalcando il Medioevo. Inoltre vi vedeva un mito nazionale italia­
no. Ma ancora più interessante in questo testo è che il teologo prote­
stante non esita a porre la Riforma sullo stesso piano del Rinascimento:
in altri termini Herder sostituisce il mito del Medioevo germanico e an­
tirazionalista non solo al mito classico e razionalista del Rinascimento ma
anche al mito protestante.
In questo modo inizia il risveglio nazionale tedesco. Herder magnifi­
ca le invasioni, esalta gli antichi germani e il Medioevo poiché è la co­
struzione germanica per eccellenza; leva un inno alle sue leggi e ai suoi
usi, ai suoi modi di vita, alla sua morale e più in generale alla mentalità di
quei tempi eroici. Si annuncia così l’enorme sforzo che si sta ormai com­
piendo per combattere non solo l’influenza francese ma anche il raziona­
lismo, l’universalismo e il cosmopolitismo, il giusnaturalismo, l’utilitari­
smo, il libero pensiero e tutte le riforme razionaliste proposte, insomma
tutte le infrastrutture intellettuali sulle quali si basano il liberalismo e la
democrazia. Con Herder e Burke la guerra ai Lumi francesi assume or­
mai il carattere che avrà per tutto l’Ottocento e per la prima metà del N o­
vecento. Per la prima volta il sentimento nazionale, il culto del passato na­
zionale, la storia, la cultura e le tradizioni nazionali vengono mobilitate
contro la ragione e contro l’autonomia dell’individuo. Burke loda il pre­
sente in disfacimento per bloccare, in nome del passato nazionale, un av­
venire in cui lui vede la fine della civiltà; per le stesse ragioni e con gli stes­
si obiettivi Herder è disgustato dal presente. Al di là delle apparenze, ta­
li idee non sono né reazionarie né tradizionaliste né conservatrici, al con­
trario: sono i principi che genereranno un nuovo progetto di civiltà e che
nutriranno la rivoluzione culturale di cui Herder è, nel cuore dell’Euro­
pa, il grande protagonista. Nel lungo periodo, la rilevanza di questa rivo­
luzione non fu molto minore di quella della rivoluzione industriale. Sot­
to molti aspetti, la nazionalizzazione delle masse ne è il risultato, la destra
rivoluzionaria e la rivoluzione conservatrice il prodotto.
Non essere abbastanza nazionale ed essere invece «illuminato» è il
doppio rimprovero che Herder rivolge al regime di Federico II. Per mol­
ti versi Herder appare come il portavoce di un germanesimo duro contro
un potere più cosmopolita, professante idee religiose e culturali ben più
avanzate di quelle popolari. A fronte di un popolo conservatore si erge un
monarca francofilo, che scrive in francese ed è invaghito di Voltaire e del

435
I fondamenti intellettuali del nazionalismo

suo deismo. Sono proprio queste tendenze cosmopolite e antireligiose


che offendono il patriottismo culturale dello Stiirmer-pasteur. La tradi­
zione luterana infatti è proprio quella di un particolarismo provinciale
che si oppone fortemente allo Stato moderno; nel X X secolo il culto del­
le tradizioni locali diventerà un elemento di lotta contro il suffragio uni­
versale e la legge della maggioranza. Ma già ai tempi di Herder il regime
prussiano dava facilmente l’impressione di essere più avanzato dei gover­
ni di Luigi XV e di Luigi XVI. È proprio nel carattere «secolarizzato» e
accentratore del governo di Federico II che Herder identifica il male; lo
stesso sarà per Taine o per Maurras di fronte alla Terza Repubblica.
Al dispotismo illuminato Herder che cosa oppone? Contrariamente
ai philosophes e contrariamente a Kant, egli non può proporre alternati­
ve fondate sui principi giusnaturalisti; per lui l’uomo non è la base né
della società né dello Stato. L’autoritarismo gli ripugna ma non suggeri­
sce, e si capisce perché, qualcuna delle soluzioni proposte da Locke,
Hume, Montesquieu o Rousseau. Rimprovera al dispotismo illuminato
di trattare gli uomini come «inanimate ruote di un incosciente e grande
macchinario», vi vede qualcosa «che tutto dice di fissare nella calma e
nell’ubbidienza e tutto inghiotte, invece, e livella nella morte e nel disfa­
cimento»;86 ma, visto il suo grande conformismo sociale, il suo rispetto
per le gerarchie tradizionali e per i poteri costituiti, la sua ammirazione
per le corporazioni e le libertà medievali, in particolare per le libertà ger­
maniche dell’alto Medioevo, non può essere fautore di qualche riforma
profonda. Non ha voluto vedere che il dispotismo illuminato comporta­
va anche la rinuncia al diritto divino. E probabile che Herder pensasse
proprio a una forma modernizzata di corporativismo, ai principi orga­
nizzativi che prevalevano presso «i popoli tedeschi che facevano tutto
tramite corporazioni»,87 alle «libertà» locali delle città anseatiche, delle
quali aveva avuto esperienza a Riga, Repubblica aristocratica che susci­
tava la sua ammirazione. In effetti il giovane predicatore della cattedra­
le di Riga si presenta come uno zelante borghese, esprime, come Burke,
il suo attaccamento alle vecchie istituzioni della città e partecipa al rico­
noscente lealismo dei suoi patrizi verso l’imperatrice Caterina: la chiama

86. Ibid., p. 47 (S. 516).


87. Herder, Idées pour la philosophie de l’histoire de l’humanité, livre XX, ch. Il, p. 457.

436
I fondamenti intellettuali del nazionalismo

«arbitra dell’Europa, dea della pace, filosofa sul trono», e le predice che
darà il suo nome al secolo, come Pietro il Grande88.
Questo fedele suddito poteva immaginare solo una consultazione
del monarca con i rappresentanti «naturali» della società. In effetti la
partecipazione del popolo ai pubblici affari, che Herder sembra recla­
mare, è la partecipazione della nazione in quanto corpo. L’essenziale non
è che la massa dei governati partecipi, ma che lo spirito nazionale sia rap­
presentato. Non è in discussione una sovranità popolare, né una qual­
siasi forma di parlamentarismo, ma che l’anima nazionale e lo spirito po­
polare impregnino il governo: è dunque necessario che i governanti ap­
partengano alla stessa cultura dei governati. Ciò che importa, alla fine, è
che le élite siano nazionali, che, così come il monarca, parlino e scrivano
nella lingua nazionale, e che l’influenza straniera sia eliminata. La mo­
narchia assoluta gli ripugna, in quanto contraria all’ordine politico e so­
ciale medievale, distruttrice dei diritti dei signori, delle gilde e delle cor­
porazioni così come delle «libertà» locali, che altro non erano che privi­
legi locali. Ciò che importa a Herder è che lo Stato sia nazionale e che il
genio delle nazioni pervada lo Stato, ma nulla osta che l’anima naziona­
le si incarni in una monarchia assoluta. E appunto ciò che emerge dal
Giornale di viaggio 1769, in cui Herder preferisce «a Federico, il cui Sta­
to si basa unicamente su piani personali», Pietro il Grande, che aveva
«per così dire sentito in sé tutto ciò che la nazione russa poteva diventa­
re e stava diventando»89. Riconoscere, sentire e preservare l’anima di un
popolo è un dovere sacro. Se la Russia porta in sé tante speranze, è per­
ché non è stata toccata dal latino, dalla civiltà monastica e dal cattolice­
simo romano: «Solo la storia russa si basa su documenti scritti nella lin­
gua del paese», mentre in tutti gli altri paesi d’Europa «la lingua dei mo­
naci ha soppiantato tutto ciò che ha potuto»90.
Per Herder «le nazioni si modificano a seconda del luogo, del tem­
po e del loro carattere interno; ognuna di esse porta in sé la misura del­
la propria perfezione, che non è paragonabile con quella delle altre»91.

88. Citato in Lévy-Bruhl, «Les idées politiques de Herder», p. 922.


89. Citato in Rouché, La Philosophie de l’histoire de Herder, p. 64 (dal journal, S. IV,
p. 473).
90. Herder, Idées pour la philosophie de l'histoire de l’humanité, livre XIX, ch. II, p. 411.
91. Herder, Idee per la filosofia della storia dell’umanità, libro XV, cap. Ili, P- 304.

437
I fondamenti intellettuali del nazionalismo

Tale formula sarà ripresa da Taine - la razza, l’ambiente, il momento -


per significare proprio ciò che Herder voleva segnalare già un secolo pri­
ma: la dipendenza dell’individuo rispetto al contesto culturale, storico
ed etnico; l’influenza profonda esercitata dall’ambiente sul pensiero e
sulla morale di ogni popolo; l’idea secondo la quale ogni popolo possie­
de un suo spirito specifico, dato una volta per tutte, peculiare e immu­
tabile. Secondo Herder, questo spirito peculiare, esprimendosi, necessa­
riamente si esaurisce. L’immagine di cui si serve per illustrare questa idea
è quella della pianta che germoglia, cresce e muore. Ogni popolo, ogni
periodo storico, «ogni arte e scienza, passarono per le età della crescita,
della fioritura e del decadimento»92.
Questa venerazione della specificità, questa rivolta contro il raziona­
lismo modernizzatore dei philosophes tornano innumerevoli volte nel
corso di Ancora una filosofia della storia. L’ironia per antifrasi del se­
guente brano ne rende bene lo spirito: «Civiltà e costumi! Quanto era­
no miserabili, quando ancora esistevano le nazioni e i caratteri naziona­
li: odio reciproco, ostilità contro gli estranei, attaccamento al proprio
centro, pregiudizi tradizionali, legami colla zolla sulla quale siam nati e
nella quale marciremo, concezioni locali, ristretta cerchia di idee: eterna
barbarie dunque. Da noi invece, grazie a Dio, si è estinto ogni carattere
nazionale [...]. In verità, non abbiamo più né patria né nulla di nostro
per cui vivere, ma siamo filantropi e cosmopoliti. Già tutti i reggitori
d’Europa parlan francese e presto lo parlerà ognuno. [...] Caratteri na­
zionali, dove siete voi mai?»93
L’essenziale della filosofia della terra e dei morti, della terra e del
sangue, è qua: uomini e popoli sono definiti non dalle loro azioni o dal­
le loro istituzioni ma dalla loro psicologia94. L’uomo è prigioniero del
contesto nel quale nasce, non può sfuggire al determinismo linguistico
e culturale, sarà se stesso solo se pensa, legge e scrive nella lingua ma­
terna. La lingua è lo strumento per mezzo del quale l’uomo prende

92. Herder, Ancora una filosofia della storia, p. 32 (S. 503).


93. Ibid., pp. 83-84 (S. 550-551).
94. Cosa, tra le altre, per cui gli sfugge quasi del tutto l’aspetto economico della sto­
ria; inoltre ciò gli impedisce, al contrario di Vico, di cogliere la natura degli stret­
ti rapporti che legano la vita sociale al pensiero e viceversa.

438
I fondamenti intellettuali del nazionalismo

coscienza di se stesso9’ . L’uomo naturale è questo: Federico II, uscendo


dal quadro che la provvidenza gli ha fissato, altro non fa che scimmiot­
tare un popolo, una cultura e una lingua stranieri. L’altro aspetto di que­
sto atteggiamento consiste nel sostituire una comunità di cittadini liberi
di modellare a modo loro la società e lo Stato e di darsi il modo di vive­
re che ritengono meglio, con una comunità storica, etnica e culturale.
È proprio in questo che consiste il maggior contributo di Herder al
pensiero europeo: tale comunità, la nazione, ha una esistenza paragona­
bile a quella di una persona. Herder, lo si è visto, concepisce le nazioni
come individui, ognuna con una fisionomia e uno spirito specifico, un
«carattere» o una costituzione propri. Questo spirito bisogna preservarlo
isolandolo: «Il danno più grave che possa subire una nazione», dice Her­
der nel 1767 nella terza raccolta dei Frammenti, «è che le si strappi il ca­
rattere proprio del suo spirito e della sua lingua [...]. Rifletti su di ciò e
capirai le perdite irreparabili che la Germania ha subito. Avesse voluto il
cielo che la Germania, alla fine del Medioevo, fosse stata un’isola come la
Gran Bretagna»9596. Tale principio resta vero sempre, in ogni momento, ed
è valido per tutti i popoli e tutte le civiltà. L’isolamento permette di sal­
vaguardare la propria originalità; permette, come dirà Barrès, di preser­
vare il proprio «io» o di stabilire, come Spengler, il principio dell’imper­
meabilità di ogni cultura. Il cosmopolitismo di Herder, il suo ideale di
«umanità», è del tutto teorico, del tutto virtuale: invece il suo nazionali­
smo, la sua lotta feroce contro le influenze straniere, danno subito risul­
tati concreti. La più immediata conseguenza della rivoluzione herderiana
è il principio per il quale rassegnarsi a un’influenza straniera equivale a
una decadenza. Questo patriota tedesco ne è tanto più convinto in quan­
to vede una profonda differenza tra il genio germanico e quello latino. Se
l’influenza francese poteva avere solo effetti disastrosi, dipendeva dal fat­
to che era una violenza fatta allo spirito tedesco. Era giunto il tempo per
la Germania di tornare padrona di se stessa: «Il passato è passato, non

95. F.M. Barnard, Herder’s Social and Political Thought: From Enlightenment to Na­
tionalism, p. 57.
96. Citato in Lévy-Bruhl, «Les idées politiques de Herder», p. 932. Rouché fornisce
lo stesso testo nella sua introduzione a Herder, Une autre philosophie de Thistoi­
re, p. 9 (ediz. Suphan, Band I, p. 366) corne anche nella sua tesi del 1940, p. 36.

439
I fondamenti intellettuali del nazionalismo

parliamone più; ma per l’avvenire andiamo per la nostra strada e tiriamo


fuori dal fondo del nostro spirito tutto ciò che potremo. Che si dica be­
ne o male della nostra nazione, della nostra letteratura, della nostra lin­
gua, queste sono le nostre, sono noi stessi, e ciò basta»97.
Si scatena così una vera guerra santa: tutto ciò che è straniero o che
viene dall’estero è una minaccia per l’integrità della vita nazionale, sia
pubblica che privata. Herder deplora la progressiva sparizione, sotto l’in­
fluenza della filosofia e dei costumi moderni e stranieri, di virtù come la
timidezza giovanile, la modestia, il pudore delle donne e il posto che que­
ste prendono ormai nella vita sociale. Ovunque si parla solo di amore e i
costumi decadono. Nella vita culturale del XVII e del XVIII secolo nul­
la trova grazia ai suoi occhi: non l’arte, la musica, l’architettura, il teatro,
la letteratura. Odia la pretesa dei Modernes all’invenzione: è Le Siècle de
Louis XIV, che segue all’Essai sur les mœurs, a essere preso di mira. Per
mostrare l’inferiorità e la superficialità del XVII secolo francese, Herder
fa del teatro della grande epoca classica una copia sbiadita dei personag­
gi della corte di Luigi XIV e versa il suo disprezzo su Corneille e Racine.
Da Bossuet ai giardini alla francese, dall’opera lirica a\YEncyclopédie, tut­
to ciò che c’è a Parigi è senza profondità né orginalità98.
In questo modo si forgia la coscienza nazionale a oriente del Reno e
si radica la volontà di dare espressione politica all’autonomia culturale.
Questa nazionalizzazione della vita culturale compatta ogni popolo e di­
vide le nazioni, tende a inchiodare tutte le nazione alla loro tradizione,
ad assumere la xenofobia come stimolo culturale e infine a mettere in

97. Ibid.
98. Herder, Ancora una filosofia della storia, pp. 85-86 (S. 552-553): «Nella corte di
Luigi XIV, Corneille trovò un modello per i suoi eroi, e Racine per la sua sensibi­
lità». Benché in Ancora una filosofia della storia egli attacchi Montesquieu e Vol­
taire per le loro generalizzazioni, lui stesso non esita a fare ben di peggio.Con qual­
che tratto sommario schizza l’essenza dei popoli, spesso con formule rozze, con­
venzionali, perfino ridicole, in particolare quando si tratta della Francia: i francesi
mancano di profondità e di immaginazione, il loro spirito è più teatrale che since­
ro e così via. E il paese dell’etichetta, della stilizzazione, dei riti, insomma la Cina
dell’Occidente. Ben diversamente quando si tratta dei tedeschi. Pur mancando di
originalità, il ritratto della Germania tracciato da Herder e le cui grandi linee di
fatto si trovano già in Lutero, in Lessing, in Leibnitz, diventerà un classico quadro
d’insieme nel quale i tedeschi si riconosceranno fino alla metà del Novecento.

440
I fondamenti intellettuali del nazionalismo

campo un principio di relatività generalizzata che oppone ogni nazione


a tutte le altre” .
L’espressione per eccellenza dello «spirito» e del «carattere» di una
nazione è la sua lingua. Assai presto Herder, sotto l’influenza di Hamann
e senza dubbio anche di Rousseau, si interessa all’origine del linguaggio.
Il suo saggio su questo argomento viene premiato dall’Accademia di
Berlino. Ma una volta di più è nella sua contrapposizione con Voltaire
che Herder affina le sue concezioni. Nella Introduzione al Siècle de Louis
XIV Voltaire vede, nella storia d’Europa, quattro momenti eccezionali:
l’epoca di Pericle, quella di Cesare e Augusto, il Rinascimento italiano e
il regno di Luigi XIV. La caratteristica comune a queste quattro epoche
è lo straordinario sviluppo delle arti e delle lettere in un determinato
quadro nazionale. Allo storico si pone una duplice domanda: perché ta­
le sviluppo dello spirito proprio in quell’epoca? Perché tale sviluppo si
limita a una certa nazione?99100E nella risposta a tale domanda, dice Marc
Crépon, che si inserisce il rapporto tra lingua e storia. Solo la sua gran­
dezza e la sua unità permettono a una nazione di assumere un ruolo de­
terminante nella storia. Ma l’unità di una nazione dipende dalla sua lin­
gua, e la sua grandezza da un certo stato di perfezione che viene chia­
mato il genio della lingua.
Che cosa è quindi la lingua per Herder? Per prima cosa uno stru­
mento perfettibile della letteratura. Le nazioni differiscono per l’attitu­
dine della loro lingua a favorire il progresso delle lettere e delle scienze,
attitudine che non è un dono naturale e che può essere migliorata e affi­
nata. Una inefficienza strumentale non è un difetto intrinseco ma il se­
gnale di un lavoro da compiere. Qui la vicinanza tra Herder e Voltaire è
innegabile. Ma se la lingua è intesa unicamente come uno strumento, ed
è il caso di Voltaire, allora è sostituibile. È questa un’idea che ripugna a
Herder, per il quale la lingua è un mezzo per accedere, per empatia e
simpatia, al carattere individuale della nazione. La lingua è al tempo
stesso serbatoio e contenuto della letteratura; in altre parole Herder

99. Su questo punto si veda la prospettiva di Rouché, che scriveva quando il nazi­
smo era già al potere ma prima che compisse le azioni più barbare (La Philo­
sophie de l’histoire de Herder, p. 28).
100. Crépon, «Langues et histoire (Herder, critique de Voltaire)», p. 125.

441
I fondamenti intellettuali del nazionalismo

costruisce una teoria della lingua come tradizione. Le cose che la lingua
immagazzina, che vi si depositano, sono, secolo dopo secolo, generazio­
ne dopo generazione, i pensieri di un popolo, quei pensieri che appun­
to fanno della sua lingua una lingua nazionale. La lingua è il legato che
ogni generazione eredita dalla precedente e che deve incrementare, il ca­
pitale che ogni nazione deve fare fruttare. Ma essa non è solo serbatoio,
è anche contenuto: il deposito, i pensieri di una letteratura passata che
la letteratura successiva deve rielaborare. La storia della lingua altro non
è che il lavoro della tradizione101.
Ne consegue che per Herder le lingue non sono prodotti dell’inge­
gno umano; la lingua di un popolo è l’anima stessa di un popolo, dive­
nuta visibile e tangibile. Ogni nazione pensa come parla e parla come
pensa. La sua lingua è un tutto organico che vive e si sviluppa come un
essere vivente. In essa si esprimono il carattere, il temperamento, i modi
di sentire e di pensare, la specificità e l’originalità di un popolo. Non re­
sta mai immobile, vive la vita stessa della nazione e la sua evoluzione for­
nisce la chiave della storia nazionale. Ogni particolarità di una lingua ha
la sua ragione d’essere102103.
In altre parole, la lingua è lo specchio della cultura, è «il dizionario
dell’anima», è la chiave della nostra comprensione dell’uomo e della sua
posizione nell’universo10*. Ne consegue che un popolo non può essere
privato della propria lingua: quando una lingua cessa di essere uno stru­
mento e diventa il tesoro di una nazione, l’espressione della sua anima,
della sua individualità e il veicolo di una tradizione, abbandonarla è tra­
dimento. Mancare di rispetto a una lingua comincia ad assomigliare mol­
to a una dichiarazione di guerra culturale, apportatrice di un pericolo di
annientamento.
Si giunge qui a un elemento essenziale della critica di Herder all’Il­
luminismo. Per Voltaire il genio di una lingua non è il genio di un po­
polo, non esprime il carattere di un popolo o qualche qualità costitutiva
della sua natura. Il genio di una lingua è una certa «capacità di dire nel
modo più breve e più armonioso ciò che le altre esprimono in modo

101. Ibid., pp. 133-134.


102. Lévy-Bruhl, «Les idées politiques de Herder», p. 933.
103. Gillies, Herder, p. 37.

442
I fondamenti intellettuali del nazionalismo

meno felice»“14. Le lingue sono, per loro natura, capaci di esprimere la


stessa cosa e differiscono solo per la loro capacità, non per il loro conte­
nuto. Questa concezione ha una doppia conseguenza: legittima non solo
la comparazione e la competizione delle lingue ma - ciò che per Herder
è più grave - il dominio di una di loro su tutte le altre. L’egemonia cul­
turale francese trova in ciò la sua legittimazione: il francese poteva eser­
citare il suo magistero sull’Europa colta e la letteratura francese servire
da modello senza tuttavia offendere il genio degli altri popoli. Questa
concezione del genio indica che per Voltaire la comunità nazionale non
coincide con la comunità linguistica: i modi di sentire, di immaginare, di
pensare non sono relativi a ciascun popolo, e ciò che ogni lingua è più o
meno adatta a esprimere è indipendente dal carattere della nazione che
la parla. Si tratta di doni universali e sono le circostanze storiche o poli­
tiche, così come l’ingentilimento dei costumi, che danno a certe lingue la
possibilità di svilupparli in modo più appropriato. Queste capacità non
sono inscritte nella lingua come virtù intrinseca, ma fanno parte di una
storia che è appunto quella dei progressi dello spirito umano104105.
Una simile concezione dei progressi dello spirito è la base della visio­
ne volteriana della storia. Per Voltaire non tutte le nazioni sono degne del­
l’attenzione degli storici; allo stesso modo il genio non è distribuito in mo­
do eguale tra le lingue, e una nazione la cui lingua non ha genio non può
fare altro che utilizzarne un’altra. La legge del progresso non esclude af­
fatto il dominio di una lingua su un’altra, si tratta delle capacità di una lin­
gua e queste capacità sono in funzione di condizioni esterne che possono
cambiare da un’epoca all’altra. Se un popolo o una parte di questo popo­
lo adotta un’altra lingua, esso non perde niente della sua identità: una co­
munità nazionale non può essere vista come una comunità linguistica. Per
Voltaire la lingua in fin dei conti non è altro che uno strumento.
Ecco contro che cosa Herder insorge. La sua critica a Voltaire ha in
effetti come oggetto l’intera cultura dei Lumi. Contro Voltaire, bisogna
rendere al tedesco i suoi diritti, promuovere la letteratura nazionale e con
ciò permettere alla nazione tedesca di ritrovare il suo posto nel mondo.
Affinché il tedesco possa far fronte al francese, la lingua deve essere più

104. Citato in Crépon, «Langues et histoire (Herder, critique de Voltaire)», p. 126.


105. Ibid.

443
I fondamenti intellettuali del nazionalismo

di un semplice strumento. Quindi per Herder la lingua rappresenta pro­


prio la specificità nazionale o il genio e lo spirito della nazione. La sola
«restrizione all’elogio del Medioevo», che Herder dichiara di avere scrit­
to «con rammarico», riguarda proprio il dominio del latino. Lingua uni­
versale, lingua di cultura, lingua nella quale vengono espletati tutti gli af­
fari della nazione, era utile «al clero in quanto classe colta, ma non pote­
va che essere nociva alle nazioni». In effetti, «non solo le lingue materne
[...] rimasero in una condizione di incultura», ma «con la lingua locale,
era anche una gran parte del carattere nazionale che veniva escluso dagli
affari della nazione». Insomma, «è coltivando la lingua nazionale che un
popolo può uscire dalla barbarie»106. Non si potrà mai considerare esage­
rato il peso di questa concezione rivoluzionaria dell’identità nazionale.
Herder non si esime dal mettere in evidenza la superiorità tedesca:
«La nostra lingua possiede una poesia più antica di quella degli spagnoli,
degli italiani, dei francesi e degli inglesi. Solo la nostra condizione politica
ha impedito che questo terreno rimasse per secoli incolto»107. Il tedesco,
lungi dall’essere una lingua dura, strana e barbara, è lo stampo che si è for­
giato per sé il pensiero tedesco e il solo che gli sia perfettamente funzio­
nale. Colpire il tedesco significa colpire la stessa anima tedesca. È per que­
sto che l’uso del francese è veleno per lo spirito tedesco: falsa lo spirito e
il cuore del popolo. Giunge infine questa esortazione: «Ecco dunque»,
egli scrive nel 1794, «che dobbiamo lottare contro una nazione vicina, per
timore che la sua lingua assorba la nostra. Svegliati, leone addormentato,
svegliati, popolo tedesco, non lasciarti sottrarre il tuo palladio!»108Questo

106. Herder, Idées pour la philosophie de l’histoire de l'humanité, livre XIX, ch. Il, p. 411.
107. Citato in Lévy-Bruhl, «Les idées politiques de Herder», p. 933.
108. Citato in ibid., p. 934. Il gesuita francese Dominique Bouhours aveva nel 1671
innalzato il francese alla dignità di lingua naturale dell’uomo. Solo i francesi
parlavano: gli altri cantavano, fischiavano, sospiravano o, come i tedeschi, ran­
tolavano. In Bouhours si trova anche la frase di Carlo V, attribuita nella stessa
forma anche a Federico II, re di Prussia, cioè che egli parlava in tedesco solo
ai suoi cavalli, in italiano e francese agli esseri umani: si veda Martin Bollacher,
« “L’œil de taupe de ce siècle très lumineux”. Diagnostic du présent par Her­
der dans Une autre philosophie de l’histoire», in Pierre Pénisson (a cura di),
Herder et la philosophie de l’histoire, p. 61, che cita Dominique Bouhours, Les
Entretiens d’Ariste et Eugène. L’edizione più recente di questa opera, presso
Champion, curata da Bernard Beugnot e Gilles Declercq, risale al 2003.

444
I fondamenti intellettuali del nazionalismo

risveglio non può che manifestarsi con l’uso della lingua tedesca, la lingua
materna, troppo spesso considerata allora come un idioma barbaro di una
plebe incolta. «Noi siamo quelli che siamo. E da tanto tempo che siamo
spinti lontano dalla nostra casa, strappati a noi stessi, al servizio di altre na­
zioni, asserviti a loro; non è giusto forse togliere il nostro presente da ma­
ni selvagge e crudeli e gridare: “Conosci te stesso, poiché altri ti conosco­
no e ti sfruttano”? Riconquistati per non essere conquistato.»109
Non è tutto: al contrario delle lingue romanze, figlie del latino, che
quindi sono solo nipoti del greco, la lingua tedesca è «sorella del gre­
co». Le lingue romanze, lingue derivate, di formazione recente, non
possono rivaleggiare in nobiltà con una lingua antica quanto il popolo
che la parla e rimasta pura. Questa idea che, secondo quanto Lévy-
Bruhl scriveva nel 1887, Herder ha solo indicata, sarà sviluppata da
Fichte nei Discorsi alla nazione tedesca, in cui il rettore dell’università di
Berlino, basandosi sulla comparazione delle lingue, dimostra che, di
tutti i popoli d’Europa, quello tedesco è il più antico, il più immune da
mescolanze, il più nobile110.
In realtà la gerarchia delle lingue, delle culture e dei popoli è intrin­
seca in Herder ed è radicata nel suo antiuniversalismo e antirazionali­
smo, nella sua visione della nazione come unità etnica. Il multiculturali­
smo herderiano, il suo ideale del tutto teorico di Humanität non basta­
no per assicurare una vera eguaglianza tra gli uomini. Il suo patriottismo
letterario, il suo attacco contro le influenze straniere, la sua difesa delle
culture nazionali si traducono immediatamente, e fin dall’inizio della sua
carriera, in un nazionalismo politico. La filologia, la letteratura e in ge­
nerale la cultura al servizio della nazione non sono un’invenzione di
Fichte ma dello stesso Herder. Siccome non è un patriota prussiano ma
un patriota tedesco, Herder può suscitare equivoci: il patriottismo cul­
turale era ai suoi tempi il solo patriottismo che poteva assicurare l’unità
morale, che a sua volta era allora la sola forma di unità possibile. La sua
Germania è definita dai soli criteri concreti dell’epoca: la storia, la cul­
tura, la lingua, la tradizione luterana, il Medioevo germanico ovvero, in
termini più generali, il suo «carattere», il suo «spirito», il suo «genio».

109. Citato in Bollacher, ibid., p. 61.


110. Lévy-Bruhl, «Les idées politiques de Herder», p. 935.

445
I fondamenti intellettuali del nazionalismo

È interessante, in tale contesto, osservare la lettura fatta da Lévy-


Bruhl, germanista, filologo e antropologo francese che doveva scrivere,
qualche anno più tardi, un’opera su ha Philosophie de Jacobi. Nel mo­
mento in cui il nazionalismo francese comincia a costituirsi come forza
politica, questo esperto germanista osserva la Germania come risulta dai
primi volumi delle Opere di Herder e dalla biografia di Haym. Non si fa
ingannare e capisce perfettamente questo manifesto della superiorità te­
desca. Per Herder, egli scrive, la natura tedesca è essenzialmente morale
e le due qualità principali del carattere tedesco sono «il coraggio e la fe­
deltà». Sincerità, rispetto della parola data, orrore per la perfidia, la men­
zogna e la duplicità, questa è la fedeltà, segno distintivo della natura te­
desca. Già Lutero aveva dichiarato, e Fichte lo avrebbe ripetuto, che la
vera origine della Riforma si trovava nella natura tedesca che non poteva
piegarsi alla menzogna italiana. «Si sono volute rifiutare alla nostra na­
zione», afferma Herder, «molte doti spirituali. [...] Ma ciò che nessuno
ha mai potuto contestare ai suoi coraggiosi cittadini, ai suoi eroi, ai suoi
buoni re, è il valore, la fedeltà, la buona fede. La loro parola valeva più di
un giuramento, più di uno scritto con un sigillo ufficiale. Il signore con­
tava sui suoi vassalli, i vassalli contavano sul loro signore: questo è ciò che
troviamo nei vecchi proverbi tedeschi.» L’immoralità ripugna al tedesco,
la dissolutezza gli è insopportabile: «A noi mancano lo spirito, una natu­
ra leggera, un bel cielo per rendere l’immoralità tollerabile e gradevole».
La viziosità tedesca del XVIII secolo è presa in prestito, non è tedesca"1.
Dopo questa tirata, resa ancora più interessante dal paragone con le
critiche acerbe che Montesquieu, Voltaire o Rousseau, per non parlare
di altre figure deU’Illuminismo francese, indirizzavano ai loro compa­
trioti, viene il seguito: Herder si impietosisce sulla sorte dei tedeschi,
sventurati senza colpa, incalzati dalla miseria. Quindi, dopo il tedesco
portatore di ogni virtù, arriva il tedesco vittima. Non è solo per la mora­
lità inerente al suo «carattere» che il tedesco si distingue da tutti gli altri
popoli, ma anche per le sue sventure, per la povertà che grava su di lui.
Ai poveri, agli sventurati, agli sfruttati, Herder non consiglia la rivolta
ma di rimettersi invece alla giustizia divina. Dalla vedova di Lutero che
era andata a mendicare alla corte del re di Danimarca, da Keplero che1

111. lbid., pp. 939-941.

446
I fondamenti intellettuali del nazionalismo

era morto di fame, fino ai «negri tedeschi» venduti sulle rive del Missis­
sippi o dell’Ohio, il vanto nazionale di questo popolo così maltrattato e
così paziente è di dimenticare se stesso e di dedicarsi all’opera santa del
progresso deH’umanità. Il sublime destino dei tedeschi è di vivere per gli
altri, non per se stessi, di essere una nazione educatrice del mondo112.
Da qui derivano conclusioni che Herder e i suoi contemporanei ela­
borano ognuno a suo modo ma che vanno tutte nella stessa direzione.
Ogni popolo, per il suo carattere e per la sua essenza, ha una particola­
re missione da compiere nella storia. Ne consegue che i popoli che han­
no già svolto la loro missione devono lasciare il posto a quelli di cui è
giunto il turno. In Herder questo sviluppo è inserito in un progetto di­
vino: «La provvidenza stessa [...] ha voluto raggiungere i suoi fini nel­
l’avvicendamento, nella continuità, risvegliando forze nuove, lasciando­
ne morire altre»11314.Ora, secondo Herder e i suoi contemporanei, la Ger­
mania ha ancora una missione importante nel futuro. Nella visione di
Fichte tocca alla Germania trovare la vera forma dello Stato, che conci­
lierà cristianesimo e principi della società moderna. Ma è ancora Herder
che lancia la formula del «popolo giovane» che raccoglie l’eredità di po­
poli esausti: nella centunesima Lettera per l’avanzamento dell’umanità
egli dichiara: «Sì, noi siamo arrivati tardi! Noi siamo quindi molto più
giovani. Noi abbiamo ancora molto da fare, mentre altre nazioni entra­
no nella stasi dopo avere prodotto ciò di cui erano capaci»11“1. Il genio
francese è esaurito, è condannato a ripetersi, la missione della Francia,
entrata nella seconda metà del XVIII in un periodo di decadenza, è con­
clusa, comincia quella della Germania.
Da questo momento, da Herder a Sieburg, autore negli anni Trenta
di Chi sono questi francesi?, la Germania non cesserà di brandire la pro­
pria giovinezza: questo coinvolgente mito antifrancese è un mito her-
deriano. Herder è andato anche oltre: ha riconosciuto al suo popolo
non solo una superiorità dovuta alla sua giovinezza, ma una superiorità

112. Ibid., p. 942. I «negri tedeschi» sono evidentemente gli immigrati giunti dalla
Germania.
113. Herder, Ancora una filosofia della storia, pp. 35-36 (S. 507).
114. Citato in Lévy-Bruhl, «Les idées politiques de Herder», p. 943. Rouché, in La
Philosophie de l ’historié de Herder, p. 567, nota 2, dà una traduzione legger­
mente diversa (S. XVIII, p. 112).

447
I fondamenti intellettuali del nazionalismo

intrinseca. Il suo poema del 1797, ha Gloria nazionale tedesca, promette


alla Germania l’avvenire perché essa è il paese deH’umanità per eccel­
lenza. Gli stessi temi tornano nelle Lettere per l’avanzamento dell’uma­
nità-. il tedesco è la lingua originale per eccellenza e i tedeschi sono il po­
polo umano per eccellenza115. Ecco dunque conciliati, anzi identificati,
ben prima dell’umiliazione delle guerre napoleoniche, «umanità» e ger-
manesimo, umanità e nazionalismo. Visto che l’ideale tedesco e l’ideale
dell’umanità sono la stessa cosa, la Germania non avrà difficoltà a gui­
dare l’Europa civilizzata e cristiana, missione che le spetta naturalmente,
data la moralità del suo carattere nazionale. La Germania è quindi una
nazione privilegiata. Fichte dirà che i tedeschi sono il popolo per eccel­
lenza; anche Michelet parlerà di una missione della Francia: tutti i na­
zionalisti del X IX e X X secolo riterranno i rispettivi popoli investiti di
una missione universale.
Ma, nello stesso momento in cui non esita a investire la Germania di
una missione particolarmente nobile, legata alla sua superiorità morale,
e a dichiarare la decadenza del XVIII secolo in generale e della Francia
in particolare, Herder persiste nel difendere il principio di eguale origi­
nalità e di eguale merito di tutti i popoli. Ogni nazione, lo si è visto, por­
ta in sé una propria intima felicità, ognuna possiede virtù proprie e una
propria specifica fortuna116. Tra nazioni ed epoche non ci sarebbe pro­
gresso ma Fortgang, «progressione continua e sviluppo», e l’umanità, in
Ancora una filosofia della storia, viene paragonata a un fiume o a un al­
bero. Il termine «sviluppo» torna più volte, proprio come l’immagine
dell’albero117. Ma il pluralismo egualitario, che in via di principio assicura

115. Adam Müller ripeterà di nuovo, nel 1806, che la Germania è una nazione par­
ticolarmente umana, e Fichte, nei suoi Discorsi alla nazione tedesca, dirà an­
ch’egli che l’universalità è il carattere del tedesco. Questa idea non è giunta a
Fichte da Herder, il cui poema fu pubblicato solo nel 1812, tuttavia Herder gli
ha trasmesso un’altra idea importante: quella per cui il tedesco sarebbe una lin­
gua originale, non derivata, e perciò superiore alle lingue romanze. Rouché, La
Philosophie de l’histoire de Herder, pp. 567-568. Sulla superiorità del tedesco,
Rouché cita la prima raccolta di Frammenti (S. I, p. 189 e S. II, p. 30) e la cen­
tunesima delle Lettere per l’avanzamento dell’umanità del 1796, in S. XVIII,
pp. 112 e 208.
116. Herder, Ancora una filosofia della storia, p. 38 (S. 509).
117. Ihid., p. 29 (S. 500), pp. 40-41 (S. 512), pp. 60-61 (S. 528).

448
1 fondamenti intellettuali del nazionalismo

a ogni nazione e a ogni epoca un eguale statuto, essendo tutte egual­


mente necessarie ed egualmente rispettabili, va a finire nell’idea di deca­
denza, di vecchiaia e di senilità della civiltà rappresentata dalla Francia
e dal XVIII secolo, dairilluminismo francese e inglese, e in larga misura
anche dalla filosofia kantiana. L’esaurimento della civiltà europea, so­
prattutto della Francia, l’idea per la quale una vittoria della Francia sa­
rebbe una disfatta della civiltà occidentale, il principio di impermeabi­
lità culturale, che si attribuisce di solito a Spengler, sono altrettanti argi­
ni innalzati contro l’Illuminismo razionalista direttamente da Herder e
non solo dai suoi successori.
Infatti l’influenza francese odiata da Herder è riassunta dalla defini­
zione giuridica e politica della nazione data d a l Encyclopédie senza al­
cun riferimento alla storia e alla cultura. Lo spirito volteriano, lo spirito
dell’Encyclopédie, lo spirito dei diritti naturali, prenderanno presto il no­
me di liberalismo. Herder crea allo stesso modo una scuola che giungerà
all’apogeo alla svolta del X X secolo. L’immagine di civiltà che attraver­
sano, ognuna a suo turno, le fasi della vita organica, che in genere viene
associata al nome di Spengler, è in realtà un’immagine herderiana. Pa­
triottismo culturale tedesco e orrore per una civiltà razionalista, fondata
sull’onnipotenza dell’individuo e su un progresso tecnico che i redattori
del l'Encyclopédie consideravano come la gloria dello spirito umano, si
mescolano nel pensiero di Herder. Forte di per sé, il disprezzo per il pro­
gresso si inserirà in un contesto in cui Herder afferma l’impotenza del­
l’intelletto umano118. La tecnica, a suo parere, comporta il grande rischio
della «meccanizzazione» della vita politica e morale. Infatti «meccaniz­
zazione» è sinonimo di razionalizzazione della vita politica, che impli­
cherebbe una vittoria sia per il giusnaturalismo che per il dispotismo il­
luminato. Herder odia ambedue le eventualità, poiché distruggono i vec­
chi pregiudizi, i comportamenti e i modi di vita tradizionali, la fede reli­
giosa. Del resto, lo si è visto, nel dispotismo illuminato egli aborre ^ i l ­
luminato» non meno del dispotismo.
É su questo sfondo che appare tutta la diversità tra l’utilizzo del ter­
mine «popolo» nella Francia della fine del XVIII secolo e il senso che gli
dà Herder. In Francia «popolo» o «nazione» sono concepiti in termini

118. Ibid., pp. 62-63 (S. 530).

449
I fondamenti intellettuali del nazionalismo

giuridici, politici e sociali, in opposizione al potere e alle classi privile­


giate. La parola «popolo», che era sinonimo di «democratico», «patrio­
ta», dall’inizio della Rivoluzione francese lo diventa di «rivoluzionario»,
il contrario di «monarchico». In Germania avviene l’inverso: depositario
dei valori nazionali, il popolo si erge contro l’influenza straniera, ovvero
francese e latina. L’idea secondo la quale lo spirito e il gusto di una na­
zione risiedono in questa parte della nazione non contaminata da ap­
porti stranieri, è corrente in Germania. Di fronte agli intellettuali fran­
cesizzati, il popolo incarna la nazione: la teoria herderiana della «poesia
popolare», primitiva, sinonimo di autenticità, entra a far parte della
guerra di liberazione nazionale. Il poeta popolare è caratterizzato dalla
sua ispirazione nazionale. Essendo tutto originalità é spontaneità, secon­
do Herder il genio è la voce della propria razza e del proprio tempo. Il
grande pregio del poeta è la sua originalità non individuale ma naziona­
le. Anche se geniale, egli incontra la poesia solo se guidato dallo spirito
del suo popolo. Già in Vico la poesia viene definita la forma di espres­
sione più naturale, più spontanea, meno inquinata da apporti estranei.
Così la tradizione dell’Encyclopédie non sopravvivrà all’ultimo de­
cennio del XVIII secolo. In seguito, dapprima in Germania e poi in
Francia, diventerà possibile combattere, in nome del popolo, la demo­
crazia fondata su valori universali e quindi cosmopoliti. Quando, negli
ultimi anni del X IX secolo, si dirà anche in Francia, dopo la Germania,
che la democrazia è un valore estraneo, nemico delle tradizioni naziona­
li, ciò non rappresenterà una vera novità. Seguendo Burke, de Maistre,
Renan e Taine, si sentirà dire da Barrès, Maurras e Sorel che la demo­
crazia liberale costituisce un pericolo di morte per la nazione e la civiltà.
Il nazionalismo tedesco inizia la sua esistenza, con Herder, tramite un ri­
piegamento su se stesso, il nazionalismo francese, con Barrès, lo seguirà
a un secolo di distanza.
Conviene soffermarsi ancora sul concetto herderiano di «umanità»
{Humanität). Questo termine, già incontrato più volte, può avere diver­
si significati: nella prima parte delle Idee, l’ideale di umanità oltrepassa
la sfera terrestre e assume un valore cosmico: in questo senso è davvero
una morale universale. Umanità e ragione possono essere sinonimi di
spirito religioso, in quanto la ragione è anche controllo di sé, resistenza
all’animalità delle passioni, quindi «libertà» di fronte a se stessi ed equità
verso gli altri. Infine «umanità» è anche amore del prossimo e fraternità

450
I fondamenti intellettuali del nazionalismo

tra gli uomini. L’idea proposta da Rouché, per la quale l’umanità si ac­
corda con le nazionalità proprio perché essa esclude il nazionalismo,119
corrisponde senza dubbio alle intenzioni di Herder. Tuttavia, fin dall’i­
nizio, il problema è sapere se il nazionalismo culturale, il culto dei geni
nazionali, del particolarismo, di ciò che separa gli uomini nella vita quo­
tidiana porti più facilmente al conflitto che alla comunanza tra gli uomi­
ni. Le differenze sono concrete, vive; la fraternità tra gli uomini non può
cancellare le frontiere culturali e linguistiche; non ne è capace nemmeno
il cristianesimo. Il particolarismo, già durante la vita di Herder, si è mo­
strato ben più potente del denominatore comune di «umanità». Certo, il
nazionalismo, nel senso che questa parola ha assunto nel Novecento,
non risponde a ciò cui Herder aspirava, e lui non poteva prevedere i suoi
sviluppi futuri, però tutti questi sviluppi sono già delineati nella sua lun­
ga lotta per la salvaguardia delle specificità nazionali, linguistiche, cultu­
rali, storiche, come anche nella sua guerra contro l’influenza francese. Il
male non sta solo nel fatto che questa influenza è straniera ma anche che
essa ha un carattere cosmopolita, che in fin dei conti è la stessa cosa. L’i­
deale di «umanità», radicato nella religione e non nel riconoscimento
dell’eguaglianza di esseri razionali e di collettività di individui tutti par­
tecipi di diritti naturali, si sfalda rapidamente quando le realtà nazionali
restano e si trasformano in bastioni del nazionalismo.
A questo punto è necessario spiegare l’atteggiamento del tutto di­
verso di Burke e di Herder rispetto alla Rivoluzione francese. Come mol­
ti tedeschi, Herder ha accolto la caduta de\YAncien Regime con entusia­
smo. Nelle sue opere degli anni intorno al 1790, come nella sua corri­
spondenza, non parla quasi mai della Rivoluzione e non cita mai le Ri­
flessioni di Burke, pur possedendone la traduzione fatta da Gentz. Si sa
che continuò a giudicare con favore la Rivoluzione fino al 1793 e definì
la guerra solo difensiva della Francia come il «primo esempio di guerra
santa e giusta»120.
Barash ritiene che sia proprio in questi anni in cui Burke lancia il suo
formidabile attacco contro la Rivoluzione francese che il grande princi-

119. Rouché, La Philosophie de l’histoire de Herder, pp. 242-244.


120. Barash, «Herder et la politique de rhistoricisme», in Pierre Pénisson (a cura
di), Herder e la philosophie de l'histoire, p. 216.

451
I fondamenti intellettuali del nazionalismo

pio del pensiero herderiano, il valore supremo della specificità storica,


assume la sua forma definitiva. Secondo lui l’ideale cui tende l’umanesi­
mo di Herder si nutre della convinzione che ogni persona, ogni popolo,
ogni gruppo sociale, abbia le sue illusioni necessarie e le sue illusioni in­
nocenti. Quindi non bisogna in nessun caso sconvolgerle nel loro terre­
no e nemmeno porle come criteri universali per tutta l’umanità. Ogni
popolo ha certo il diritto di lottare per la propria libertà, ma è trattenu­
to dal proprio contesto storico sia nell’illusione che nella verità; ne deri­
va che esso non ha in nessun caso il diritto di ingerirsi negli affari politi­
ci di un altro popolo per imporre la propria idea di una Costituzione li­
bera. «Ognuno», scrive Herder, «deve cogliere le rose per la corona del­
la libertà con le proprie mani. [...] La sedicente migliore forma di go­
verno [...] non può andare bene per tutti i popoli, allo stesso tempo, al­
lo stesso modo.»121
Risulta chiaro che, nella seconda parte dell’epoca di Weimar, quan­
do egli compone le Idee, una indubbia dualità si inserisce nel pensiero di
Herder. Barash mostra come egli aggiunga allora il termine Humanität al
termine Menschheit che aveva usato sia nel titolo di Ancora una filosofia
della storia che in quello delle Idee. E solo nelle Lettere per l’avanzamen­
to dell’umanità (Briefe zu Beförderung der Humanität), proprio alla fine
della sua carriera, che la concettualizzazione cambia e che l’umanesimo
herderiano si manifesta in modo più chiaro. Secondo Barash il principio
del pluralismo culturale, che era favorevole soprattutto alla Germania,
assume ora una dimensione realmente universale ed Herder adotta il
principio dell’uguaglianza di tutti i popoli sulla terra. E in base allo stes­
so principio che sostiene il diritto dei popoli non europei a difendere i
loro valori ponendosi la domanda: «Cosa può in poche parole significa­
re una valutazione di tutti i popoli da parte di noi europei? Come si può
trovare un metro di paragone?»122
Questa interpretazione richiede due osservazioni. Per prima cosa
niente di tutto ciò è detto in modo così chiaro nelle opere maggiori,
quelle che dovevano avere enorme popolarità, in particolare le Idee,

121. lbid., pp. 213-217. Barash cita le Lettere per l’avanzamento dell'umanità datate
all’epoca di Weimar.
122. lbid., p. 217 (citazione dalle Lettere).

452
I fondamenti intellettuali del nazionalismo

dove, al contrario, si è visto che Herder non attacca i non europei. Poi,
se non esiste un metro di paragone, ciò non significa forse ricadere nel­
la forma primaria di relativismo? In questo caso di che cosa si tratta: di
relativismo proveniente dalla sua lunga battaglia contro l’universalismo
o da uno spirito di tolleranza? Si tratta di una visione dell’unità del ge­
nere umano che travalicherebbe, alla fine della sua vita, il limitato oriz­
zonte delle particolarità nazionali di Ancora una filosofia della storiai Ba­
rasti e Berlin pensano, con altri, che sia la convinzione umanista e reli­
giosa di Herder a prendere il sopravvento, ispirando il suo pluralismo123124.
Rouché è convinto che Herder sia insieme Stürmer e Aufklärerm. Ma
non è forse legittimo vedere in lui allo stesso tempo e per gli stessi moti­
vi il pensatore che, più di chiunque altro, ha ispirato, con la sua feroce
guerra aH’Illuminismo, il relativismo moderno?
Herder nel 1789 ha capito la grandezza di quella rivoluzione dei di­
ritti dell’uomo e, cosa ancora più importante, ha colto nella caduta del-
YAncien Régime la materializzazione della filosofia illuminista, che cam­
biava il mondo, e ha capito che il mondo diventava così migliore? Era
stato consapevole che, tradotto in termini politici concreti, il particolari­
smo esacerbava le relazioni tra gli uomini? Oppure, cosa probabilmente
più vicina alla realtà, vedeva negli avvenimenti del 1789 una rivolta lo­
cale, popolare e soprattutto nazionale contro un regime dispotico per il
quale non aveva alcuna simpatia? E probabile che l’immagine di una na­
zione in armi, le vittorie di Valmy e di Jemappes, la conquista della li­
bertà da parte di un popolo in rivolta abbiano acceso la sua immagina­
zione. Al contrario di gran parte dei commentatori moderni, Herder
sembra aver capito molto presto che, se la Rivoluzione era possibile, è
proprio perché la nazione aveva già preso coscienza della propria esi­
stenza e della propria maturità e aveva fiducia in se stessa. Nella Francia
rivoluzionaria lo Stato coincideva col popolo, cosa che per Herder era
l’ideale che cercava di realizzare per il proprio paese. E del tutto logico
che egli abbia capito che non era la Rivoluzione a forgiare il popolo ma
il popolo a fare la Rivoluzione. La nazione era una realtà e la caduta del-
YAncien Régime significava che un lungo processo era giunto a termine.

123. Ibid., p. 218.


124. Rouché, La Philosophie de l’histoire de Herder, p. 163.

453
I fondamenti intellettuali del nazionalismo

Ma queste libertà appena conquistate sono, nell’animo di Herder, le li­


bertà di una collettività costituita, non libertà individuali. Nel X IX se­
colo la cultura dell’individualità collettiva diverrà una pura e semplice
negazione dell’autonomia dell’individuo tout court.
Ancora meno Herder è un mite sognatore, innocente e ingenuo, igna­
ro della funzione della guerra o dello Stato. Egli conosce e capisce la for­
za di integrazione sia della guerra nazionale che dello Stato. Per lui lo spi­
rito militare è un elemento fondamentale del nazionalismo, quando inve­
ce la guerra ispira solo orrore agli Illuministi. «In quale stato florido sa­
rebbe dunque l’Europa senza le guerre continue che la turbarono per in­
teressi futilissimi e spesso per piccoli capricci!»125 scrive Voltaire. Porre fi­
ne alle guerre costituisce per lui, come più tardi per Kant, il compito de­
gli uomini civili. Non è questa la posizione di Herder: quando schernisce
l’esercito prussiano, è perché si tratta di un esercito al servizio di interessi
dinastici, sono la guerra di espansione e il potere che egli attacca. Agli eser­
citi di mercenari del XVIII secolo egli contrappone gli eserciti «naturali»,
quelli dei primitivi. Herder non rimprovera agli eserciti professionali, co­
me invece Voltaire e Gibbon, di essere costosi ma di non essere nazionali;
mentre Voltaire e Gibbon sono contenti che le guerre dinastiche lascino i
popoli indifferenti e sono solo irritati per le imposte che diventano più pe­
santi nel corso delle campagne di guerra, Herder invece deplora proprio
questa indifferenza. La distinzione è rilevante: se la guerra non è un male
in sé, ne consegue che la guerra nazionale può essere un bene.
E la stessa cosa per quanto riguarda lo Stato. Herder è sensibile, lo
si è visto, al ruolo della forza nella storia e, se è ostile allo Stato dispoti­
co, non lo è affatto alla potenza statale di per sé. In questo è molto mo­
derno, vuole soltanto sostituire lo Stato dinastico con lo Stato nazionale:
«L o Stato più naturale è anche un popolo dotato di un carattere nazio­
nale. Questo carattere vi si mantiene per secoli e può essere educato nel
modo più naturale, se lo vogliono i suoi principi, nati in quel popolo
[...]. Nulla sembra quindi più contrastare lo scopo dei governi quanto
l’ingrandimento innaturale degli Stati, la selvaggia mescolanza di stirpi e
nazioni umane sotto un solo scettro»126. Questa concezione herderiana

125. Voltaire, Saggio sui costumi, t. IV, p. 403.


126. Herder, Idee per la filosofia della storia dell’umanità, libro IX, cap. IV, p. 183.

454
I fondamenti intellettuali del nazionalismo

dello Stato nazionale è di capitale importanza: al contrario di quanto ri­


tiene Berlin, il pensiero di Herder non si limita a un innocente naziona­
lismo culturale; la sua rivendicazione di autonomia culturale assume su­
bito un significato politico e si traduce in termini politici. La sua opera
rappresenta il primo grande manifesto di un nazionalismo culturale, et­
nico e statale, certo non razzista nel senso moderno ma agli antipodi del­
la concezione della nazione e dello Stato di Locke, di Hume, di Voltaire
o di Rousseau.
Si è già visto che per Herder i popoli sono prodotti della natura, del­
le vere specie: il paragone tra popoli e specie animali, in Ancora una fi­
losofia della storia, non è casuale127. Per Herder le nazioni si basano sul­
la razza, la lingua, la storia, come su frontiere naturali che ai suoi occhi
sono frontiere provvidenziali. Le nazionalità hanno un’esistenza oggetti­
va, predestinata, ereditaria, etnica e fisiologica, e non dipendono dalla
volontà individuale. La nazione non esiste per mezzo di una presa di co­
scienza di se stessa o per effetto di una identità politica comune. Il prin­
cipio delle nazionalità proviene dalla fede nell’esistenza di geni naziona­
li. Il nazionalismo letterario di Herder che sta all’origine del suo sistema
non ne è la conclusione. E per questo che il determinismo culturale ed
etnico può facilmente sfociare nel razzismo, mentre è agli antipodi della
dichiarazione «illuminista» della nazione data daW'Encyclopédie. D ’altra
parte è molto difficile, per non dire impossibile, stabilire dove passi esat­
tamente la linea di confine tra determinismo culturale, o vagamente et­
nico, e determinismo razziale, tra nazionalismo letterario dalle immedia­
te implicazioni politiche e volontà di preservare la cultura nazionale.
Herder si scaglia contro la Prussia di Federico il Grande e contro l’in­
fluenza francese in nome della cultura tedesca e non in nome dei diritti
dei cittadini. Questo atteggiamento non è affatto estraneo, nell’Europa
del Novecento, al rifiuto della democrazia e dei valori universali in no­
me dei valori nazionali. Per tutto ciò che riguarda la necessità di uno Sta­
to nazionale, il capitolo IX delle Idee riprende i principi sviluppati in An­
cora una filosofia della storia. Un paese ha bisogno di barriere culturali
come ha bisogno di frontiere politiche. Gli è necessaria una individualità
culturale, proprio come gli è necessaria una individualità politica. Come

127. Herder, Ancora una filosofia della storia, p. 33 (S. 504).

455
I fondamenti intellettuali del nazionalismo

la nazione, anche lo Stato ha un’esistenza etnico-biologica. Barrès,


Maurras e i loro seguaci in Francia, come i nazionalismi esacerbati in tut­
ta Europa, riprenderanno a sazietà questa idea.
In ultima analisi già un quarto di secolo prima delle guerre napoleo­
niche Herder identifica Illuminismo, francofilia e decadenza come risul­
tato del ripudio dello spirito nazionale. In ciò sta un elemento fonda­
mentale per la comprensione del significato che assume immediatamente
il pensiero herderiano ovunque in Europa, e che sarà la pietra angolare
del nazionalismo: rilluminismo, i diritti dell’uomo, l’individualismo o più
semplicemente la democrazia mettono in pericolo la nazione, la patria, la
cultura nazionale. Herder è il primo a contrapporre la nazione ai Lumi.
L’idea per la quale il genio di ogni popolo risiede nei ceti popolari è un’i­
dea molto herderiana, in totale contraddizione con le considerazioni di
Voltaire alla fine del capitolo sulla Cina: «Lo spirito di una nazione risie­
de sempre nel piccolo numero, che fa lavorare il grande, ne è nutrito e lo
governa». Ma questa idea elitaria nasce dal fatto che «il volgo» incolto è
«in ogni paese [...] dedito unicamente al lavoro manuale», mentre lo
«spirito della nazione cinese è il più antico monumento della ragione che
esista sulla terra»128. Queste poche righe esprimono tutto ciò che separa il
pensiero illuminista dalla sua antitesi: lo spirito di una nazione è, per Vol­
taire, l’espressione della ragione, non di una costituzione mentale. Si trat­
ta di una funzione intellettuale, non di istinti naturali, che sono tanto più
naturali quanto meno sono pervertiti dalla cultura libresca, dai contatti
con l’estraneo, dal cosmopolitismo e, infine, dal razionalismo.
Un altro elemento fondamentale di questa modernità radicale è la
trasformazione che, sotto l’impatto del nascente nazionalismo, subisce il
cristianesimo. Si è visto come Herder enunci un principio eminente­
mente rivoluzionario: subire influenze straniere significa decadere. Co­
me ogni popolo deve preservare la propria specificità culturale ed etni­
ca, come deve avere un governo nazionale, così deve avere una propria
religione. É uno dei pilastri del nazionalismo: lo spirito storico, che per
Herder è un aspetto del nazionalismo generalizzato, subordina la reli­
gione alla nazione. Tuttavia su questo punto, più che su ogni altro, Her­
der esita e mostra una dualità dalla quale gli è difficile liberarsi.

128. Voltaire, Saggio sui costumi, t. Ili, p. 413.

456
I fondamenti intellettuali del nazionalismo

Da una parte, se ogni popolo possiede un genio incomunicabile, una


patria, delle idee e una religione, tutti necessari e tutti egualmente rispet­
tabili, ne consegue che lasciarsi convertire è un tradimento della nazione,
convertire è attentare al genio di una nazione straniera. Herder segue
Montesquieu affermando che «l’introduzione di qualsiasi religione stra­
niera è molto pericolosa. Essa distrugge sempre il carattere nazionale e
modi di pensare rispettabili»1291302. Solo che per Montesquieu si tratta di un
principio universale, mentre Herder è incerto tra la condanna e l’apologià
dell’evangelizzazione dei germani: nel XVI libro delle Idee loda i tedeschi
per avere accettato il cristianesimo e per avere combattuto per esso come
«per i loro re e i loro nobili» e per avere dato prova di una «devozione dav­
vero militante»110. Altrove esalta il ruolo di san Colombano e di san Gallo
che avevano convertito gli alemanni, creatori della Svizzera tedesca;111 po­
co dopo parla dell’onore conquistato dalla «nazione tedesca» per essere
stata «il baluardo e il bastione del cristianesimo», «un muro vivente con­
tro il quale si infranse il folle furore» dei mongoli, degli unni, dei tartari,
degli ungari e dei turchi112. In questa quarta parte delle Idee Herder ritie­
ne sia stata una fortuna che tra giudaismo e cristianesimo «sia stata la prov­
videnza stessa a far pendere bilancia e che con la scomparsa della Giudea
siano state abbattute le vecchie mura, dietro le quali quel popolo che si di­
ceva il solo popolo di Dio si separava con inflessibile durezza da tutti gli
altri popoli della terra». Herder prosegue: «I tempi dei culti nazionali pie­
ni di orgoglio e di superstizione erano passati». E qui presenta una dupli­
cità, perché questa evoluzione, dovuta allo «spirito di tolleranza generale
dei romani» e poi alla vittoria del cristianesimo sul giudaismo, era «un
grande passo nella storia dell’umanità, ma anche un pericolo per lo spiri­
to col quale si compiva. Essa faceva di tutti i popoli dei fratelli indicando
un unico Dio e Salvatore; ma poteva anche fare di essi degli schiavi quan­
do gli si imponeva questa religione come un giogo e una catena»111.

129. Rouché, Introduction a J.G. Herder, journal de mon voyage en l’an 1769, pp.
41-42 (S. IV, p. 472). Questa frase non figura nel Giornale di viaggio 1769 ben­
sì negli estratti e note di lettura redatti a Nantes e a Parigi.
130. Herder, Idées pour la philosophie de l’histoire de l’humanité, livre XVI, ch. Ili, p. 297.
131. Ibid., livre XVIII, ch. III, p. 355.
132. Ibid., livre XVIII, ch. V, p. 369 et livre XVI, ch. III, p. 297.
133. Ibid., livre XVII, ch. I, p. 317.

457
I fondamenti intellettuali del nazionalismo

Tuttavia, quando egli accorda eguale valore a tutte le civiltà e quan­


do condanna tutte le conversioni, mette in discussione la supremazia cri­
stiana. Essendo anche le religioni il prodotto necessario di un’epoca, di
un paese e di un’etnia, convertire significa per gli uni tradire, per gli al­
tri opprimere; significa ledere il genio di una nazione straniera. La con­
danna dell’evangelizzazione dei selvaggi d’America può essere visto sia
come il trionfo della tolleranza che come quello della relatività sull’ecu­
menismo cristiano154. In effetti, se il cristianesimo è la religione dell’u­
manità, come gli si può negare il diritto di estendersi fuori dell’Europa?
È difficile inoltre spiegare come questo pastore protestante possa ram­
maricarsi che il cristianesimo sia stato imposto ai germani. Infatti, nella
stessa parte delle Idee in cui si rallegra della vittoria del cristianesimo sul
giudaismo, Herder guarda con tristezza all’influenza distruttrice eserci­
tata dal cristianesimo sulla vitalità, i costumi e le conquiste dei germani:
«Nulla si opponeva di più alla vita e all’attività dei nordici che il cristia­
nesimo, di fronte al quale la religione eroica di Odino ha dovuto sparire
completamente [...].» Herder non nasconde la sua simpatia per questi
germani del Nord, conquistatori gloriosi delle rive del Baltico: egli sa che
«l’odio di questi popoli verso il cristianesimo era molto profondo» e che
«la religione di Odino era a tal punto incorporata nella loro lingua e nel­
la loro mentalità che, fino a quando rimase una traccia del suo ricordo,
il cristianesimo non potè attecchire». Egli guarda con ammirazione alla
resistenza pagana contro l’invasione cristiana e sa che questa resistenza
eroica ha potuto essere spezzata solo con uno sradicamento imposto con
la forza e col terrore a un’intera civiltà: «La religione dei monaci fu im­
placabile verso le leggende, i canti, i costumi, i templi e i monumenti del
paganesimo». Herder mostra come questi popoli del Nord furono «stre­
gati a profitto del cristianesimo» per mezzo «delle cerimonie del nuovo
culto»: non è assolutamente stata una questione di fede ma «di canti nel
coro, di incenso, di luci, [...] di campane e di processioni»15’.
È così consacrato in una maniera indiretta e tessuta di molte ambi­
guità un atteggiamento che consiste nell’accettare la subordinazione del1345

134. Rouché, La Philosophie de l'histoire de Herder, p. 126.


135. Herder, Idées pour la philosophie de l’histoire de l'humanité, livre XVIII, ch. V,
pp. 365-367.

458
I fondamenti intellettuali del nazionalismo

cristianesimo di fronte al nazionalismo. Contro lo spirito critico Herder


difende quella fede comune rappresentata dalla tradizione ma, al mo­
mento della decisione, quando si giunge al «triste avanzo» della «patria
dei popoli tedeschi», egli si dispiace della disfatta dei germani di fronte
a Carlo Magno, prima dell’annientamento dei longobardi136 poi di quel­
lo dei sassoni costretti a loro volta a sottomettersi e costretti, dopo aver
maledetto «la grande statua di Wotan», a convertirsi al cristianesimo: fu­
rono così vincolati «al trono franco popoli particolari e liberi», cosa che
non poteva mancare di danneggiare «lo spirito della loro organizzazione
originaria»157.
Qui ancora una volta il confronto con Voltaire è illuminante. L’au­
tore delPEjMz' sur les mœurs mostra un Carlo Magno che fa la guerra ai
sassoni, gelosi della loro libertà, per trenta anni prima di assoggettarli
completamente, per nessun’altra ragione se non la volontà di conquista.
I franchi, già cristiani, saccheggiano, sgozzano, massacrano, e per Carlo
Magno il cristianesimo è un mezzo per vincolare i vinti al giogo del vin­
citore. A Voltaire, la cui simpatia va alle vittime pagane in quanto vitti­
me, Carlo Magno ispira una profonda avversione. Certo, per i germani
in generale egli sente il massimo orrore, poiché «i selvaggi che passaro­
no il Reno resero selvaggi anche gli altri popoli»158. Ma siccome in que­
sto caso sono anch’essi vittime della stessa barbarie che hanno fatto su­
bire agli altri, meritano compassione. Voltaire parla da uomo dei Lumi,
nemico della violenza, che rimprovera a Carlo Magno barbarie e cru­
deltà, mentre Herder, come patriota tedesco, rimprovera a questo fran­
co romanizzato e cristiano di essere un conquistatore straniero venuto a
distruggere la cultura pagana dei sassoni, i tedeschi dell’epoca.
La posizione di Herder di fronte al cristianesimo è fondamentale,
poiché pone tutte le problematiche del pluralismo e del relativismo dei
valori. Ancora una filosofia della storia presenta una concezione plurali­
sta, relativista, che Herder cerca di attenuare nelle Idee ma senza mo­
strarsene davvero capace. Non può sfuggire all’impossibilità in cui si13678

136. Ibid., livre XVIII, eh. II, p. 349.


137. Ibid., eh. V, p. 369.
138. Voltaire, Saggio sui costumi, 1.1, p. 340. Si vedano le pp. 329-331 sulla conqui­
sta dei sassoni.

459
I fondamenti intellettuali del nazionalismo

trova di scegliere tra i valori assoluti del cristianesimo e la negazione di


ogni valore assoluto che è la base del nazionalismo. Il culto dei geni na­
zionale, che rappresenta il suo apporto più originale e duraturo, ma an­
che il più pericoloso, è ben più di un riflesso difensivo contro l’invasio­
ne culturale francese, proprio come il nazionalismo francese dopo il
1870 non è soltanto un riflesso difensivo di fronte alla disfatta.
E innegabile che, con la sua teoria dei geni nazionali, Herder tenda
a ridurre la cultura, e con essa lo spirito, alla posizione di epifenomeno
determinato dalla geografia, la biologia, l’ambiente e la razza. Con lui si
apre la corsa all’autenticità, al ritorno alle fonti, contro una civiltà delle
grandi città europee considerata fittizia e artificiale. In lui è già presente
la convinzione che tutta la vita culturale e perfino ogni pensiero sono
condizionati dall’ambiente e dall’etnia: questa idea non è stata inventata
da Taine, da Barrès, da Maurras o da Spengler, ma da Herder.
Herder è il primo a ledere la fiducia in sé della civiltà occidentale, fe­
nomeno che nel X X secolo doveva avere risultati disastrosi. I philosophes
criticano la loro civiltà, gli elementi di oscurantismo che vi si trovano an­
cora, ma sostituiscono i valori universali del cristianesimo con altri valo­
ri universali, razionali e laici, mentre con Herder ciò che si annuncia è la
relatività generalizzata. Quelli hanno in orrore la politica coloniale per la
sua crudeltà e per la sua intolleranza religiosa; molti tra loro, come Rous­
seau e l’appaltatore generale delle imposte Helvétius, insorgono contro
le ingiustizie sociali e lo sfruttamento delle masse, ma non mettono in di­
scussione la superiorità della loro civiltà, né rispetto al mondo classico,
né al Medioevo né ad altre culture: «Tutti quei popoli», scrive Voltaire a
conclusione del capitolo dedicato al Giappone, «erano assai superiori ai
nostri popoli occidentali in tutte le arti dello spirito e della mano. Ma co­
me abbiamo riguadagnato il tempo perduto! I paesi in cui il Bramante e
Michelangelo hanno costruito San Pietro di Roma, dove ha dipinto Raf­
faello, dove Newton ha calcolato l’infinito, dove sono stati scritti Cinna
e. Atalia, sono diventati i primi paesi della terra. Gli altri popoli sono nel­
le belle arti solo dei barbari o dei fanciulli, nonostante la loro antichità e
nonostante tutto quello che la natura ha fatto per loro»1’9. La teoria del­
la storia degli Illuministi poneva in campo una teoria del progresso che139

139. Ibid., t. Ill, cap. 142, p. 328.

460
I fondamenti intellettuali del nazionalismo

era anche un’apologià dell’Europa moderna in cammino verso la libera­


zione dell’individuo. Lo stesso avvenire, liberato dagli ostacoli della sto­
ria e della religione, era ritenuto appartenere a tutti gli esseri umani. Vi­
ceversa, la filosofia relativista della storia di Herder scalza la fiducia del­
l’Europa in se stessa e nei suoi valori e, annunciando il declino dell’O c­
cidente, si considera una vittoria di una civiltà comunitaria su una civiltà
individualistica ritenuta la conseguenza dello scetticismo e dello spirito
di negazione della ragione critica.
L’opera di Herder dimostra che il nazionalismo culturale ed etnico,
fondato sui tabù e i miti del clan, può solo con difficoltà coesistere con
valori universali. Per prima cosa il nazionalismo herderiano rovescia il
razionalismo, poi mostra di non potere coesistere col cristianesimo. Da
una parte sembra che quella «virtù di umanità», all’interno della quale
Herder vuole includere tutto ciò che egli dice della natura dell’uomo, ciò
«che lo destina alla ragione e alla libertà», testimoni il suo carattere uni­
versale140. Dall’altra parte però un’analisi attenta delle Idee svela subito
che questa che è l’opera maggiore afferma la superiorità prima della raz­
za bianca poi della nazione tedesca. Così il più originale contributo di
Herder, cioè quello di considerare eguali i valori particolaristici e quelli
universali, va presto in crisi. Il particolarismo non poteva non avere il
suo prezzo, il culto della specificità e dell’individuale non poteva restare
senza conseguenze.
Rifiutando, in Ancora una filosofia della storia, di mettere a confron­
to le epoche e i popoli della storia, ipotizzando l’eguale dignità di tutte
le culture e proclamando che la sola verità è quella propria di un’etnia e
di un’epoca, Herder apre la strada, che si concluderà in Spengler, al re­
lativismo e allo scetticismo. Col tempo egli ha certo scorto la natura del
relativismo nel quale si inoltrava, così come il significato di quel plurali­
smo che ai nostri tempi è ritenuto da alcuni un suo vanto dimentican­
done il prezzo esorbitante. Egli ha, bene o male, cercato di arretrare nel­
l’ultimo periodo della sua vita, ma ormai non poteva più annullare il sen­
so della sua rivolta contro l’Illuminismo. Ha tentato di conciliare molte
contraddizioni, ma i suoi lettori difficilmente potevano seguirlo. Anche

140 . Herder, Idées pour la philosophie de l’histoire de l’humanité, livre IV, ch. V, p.
107; si veda anche l’intero libro IV.

461
I fondamenti intellettuali del nazionalismo

accettando l’idea che abbia comunque cercato di mantenere in equili­


brio un sistema formato da opposizioni, ciò non ha resistito alle tempe­
ste delle guerre napoleoniche. Già agli inizi dell’Ottocento, per non par­
lare della fine, restava ben poco dell’ideale herderiano di «umanità». Ma
di fatto, nella stessa opera di Herder, questo ideale non è mai riuscito a
cancellare l’ideale contrario di specificità culturale e dei miti unificatori,
nordici ed etnici, antilatini e antifrancoinglesi. E proprio perché l’istinto
patriottico ed etnico ha in definitiva il sopravvento sull’universalismo
cristiano e la guerra contro il XVIII secolo francese non cessa mai dav­
vero che Herder non vuole e non può rinnegare il principio base del suo
pensiero: per lui ogni pensiero è l’espressione di un popolo, di un’etnia,
non di una verità.
Perciò, contrariamente a un’altra idea corrente, non è la Rivoluzione
francese che, risvegliando i nazionalismi, ha spezzato l’unità dell’Europa:
la Rivoluzione fu preceduta da una rivolta tedesca contro i Lumi. Il prin­
cipio di nazionalità non proviene dalla Rivoluzione francese ma dal XVIII
secolo tedesco. La visione herderiana dei geni nazionali ha finito per schie­
rare tutte le nazioni le une contro le altre. Il suo nazionalismo smembra il
mondo in una pluralità di patrie, spezzetta la storia in una serie di svolgi­
menti nazionali isolati, è diventato un fattore di balcanizzazione e di divi­
sione culturale senza precedenti in Europa. Herder ha inteso opporre gli
elementi costitutivi della cultura occidentale, il cristianesimo, il classicismo
greco-romano, l’eredità medievale, benché egli abbia sempre esitato lun­
go questo percorso, poiché capiva l’esito di questa dissociazione. Il suo
ideale di «umanità» ha del tutto ingannato i suoi ammiratori del X IX e del
X X secolo: egli ha separato gli uomini molto più di quanto li abbia uniti.
Mentre Kant si dichiara convinto che sorgerà «finalmente quello che è il
fine supremo della natura, cioè un generale ordinamento cosmopolitico» e
che esisterà una «matrice, nella quale vengano a svilupparsi tutte le origi­
narie disposizioni della specie umana»,141Herder si manifesta come il mag­
giore separatore dell’Europa del suo tempo. Questo è il vero significato
storico di tutto ciò che separa il razionalismo e l’universalismo dei Lumi
dalla rivolta particolarista ed etnica della fine del Settecento.

141. Kant, «Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico», in Scrit­
ti di filosofia politica, p. 20 (corsivo nel testo).

462
I fondamenti intellettuali del nazionalismo

Il culto dei geni nazionali manifesta la nostalgia della vita unanime,


dell’anima collettiva ancora presente nei popoli incontaminati dallo stra­
niero o dalla civiltà razionalista, permette di contrapporre la storia alla
ragione. Ponendo la Germania, la Russia e i paesi baltici contro la Fran­
cia, Herder reagisce contro l’individualismo e il modernismo razionali­
sta deH’Illuminismo. L’attacco contro i Lumi possiede una logica e a que­
sta logica è difficile, se non impossibile, sfuggire. Pertanto della verità
non resta che una pluralità di verità nazionali: Barrès parlerà di una ve­
rità francese e di una verità tedesca, di una giustizia francese e di una giu­
stizia tedesca. In effetti, quando tutto dipende da una relatività storica
ed etnica, quando non è più possibile alcun paragone e non esiste più al­
cuna scala di valori, quando la ragione non è capace di penetrare la realtà
storica, cosa di cui solo l’intuizione diviene capace, i valori universali ne­
cessariamente spariscono. In questo modo il nazionalismo, generando il
senso della relatività, diventa un pericolo estremamente grave per la ci­
viltà razionalista. La relatività storica e quella etnica, l’idea che non esi­
ste una verità universale, comportano una messa in discussione dei valo­
ri europei: queste idee esplodono alPapparire del X X secolo.

463
C A P IT O L O 7

Crisi di civiltà, relativismo generalizzato e morte dei valori


universali all’inizio del XX secolo

La relatività dei valori, ¡’impermeabilità delle culture e l’idea herderia-


na di nazione restano le tre idee guida sulle quali si basa il rifiuto del­
l’Illuminismo alla svolta del Novecento. La guerra contro i Lumi di­
venta allora un vero fenomeno di massa e assume progressivamente le
forme di una rivolta popolare, polidimensionale, contro la democrazia
liberale. E proprio in ciò che consiste la vera originalità di quel perio­
do: la generazione dell’inizio del nuovo secolo prosegue la campagna
scatenata alla fine del Settecento, ma la adatta alle condizioni di un
mondo che le nuove tecniche stanno cambiando come mai prima. La
democratizzazione della società, che gente come Burke, de Maistre,
Carlyle o Renan aveva cercato in ogni modo di impedire, è divenuta una
realtà che Maurras e Spengler, Barrès, Croce e Sorel, seguiti da innu­
merevoli révoltés di ogni tipo, intendevano spezzare in nome della ci­
viltà come in nome della patria. In Maurras si attua la sintesi di Burke
e di de Maistre, di Taine e di Renan, mentre Barrès, Spengler e Croce
proseguono nel solco aperto da Herder e in larga misura da Vico. Le
due correnti si incontrano e si incrociano senza tregua per delineare una
realtà ideologica a due facce, i contorni della quale si intravedevano già
alla fine del XVIII secolo.
La figura eminente di questi anni cardine è certamente Barrès1. In ef­
fetti, più il tempo passa, più il ruolo basilare svolto nel pensiero francese
ed europeo dell’epoca dal grande autore dei Déracinés si delinea con sem­
pre maggiore forza. Non sono soltanto i révoltés francesi tra le due guerre,

1. Non intendo qui tornare sulla dimostrazione fatta nel mio Maurice Barrès et le na­
tionalisme français, nuova edizione, Fayard, Paris 2000. Non è tuttavia possibile,
in un’opera che tratta di problemi come questi, non dedicare qualche pagina a
questa figura eminente del pensiero antilluminista.

464
Crisi di civiltà

questi «rivoluzionari conservatori» che odiano la democrazia liberale, ad


auspicare un «ritorno a Barrès»;23sentimenti analoghi si manifestano un
po’ dappertutto nel mondo europeo. Barrès era celebre non solo nei pae­
si latini d’Europa ma anche in America del Sud, e sue tracce sono ben vi­
sibili fino nella Vienna del poeta Hugo von Hofmannsthal e di Hermann
Bahr’. Ma la filiazione barresiana più significativa fuori della Francia è si­
curamente quella di Ernst Jünger e di Cari Schmitt: il famoso Der Arbei­
ter (L’operaio) è un’opera barresiana che combatte «il macchinismo» e «la
modernità»4. Le opere complete di Barrès, questa sorta di «genio del na­
zionalismo», come diceva Léon Blum, figuravano bene in vista nella bi-

2. R. Vincent, «Retour à Barrès», Com bat, marzo 1939.


3. Su Barrès a Vienna si veda R. Stablein, «Dissociation du sujet et culte du Moi: la
réception de la décadence barrésienne par Hugo von Hofmannsthal et Hermann
Bahr», in F. Lattraverse et W. Moser (a cura di), Vienne au tournant du siècle , Al­
bin Michel, Paris 1988, pp. 217-257. Sulla sua influenza in America del Sud, si
può vedere Alberto Spektorowski, The O rigins o f A rgentina's Revolution o f thè
Right, University Press, Notre-Dame, Indiana, 2002.
4. Le opere complete di Ernst Jünger, morto nel 1998 all’età di centotré anni, sono
state pubblicate nella lingua originale nel 1981. Per ciò che qui ci interessa, le sue
opere più significative, oltre a L ’operaio, sono Politische Publizistik, 1919-1933,
Stuttgart, Klett-Cotta, 2001; L a G uerre notre mère, trad. francese di Jean Dahel,
Albin Michel, Paris 1934; Irradiazioni. D iario (1941-1943), trad. di Henry Fürst,
Guanda, Parma 1993; la sua corrispondenza con Cari Schmitt (Briefe 1930-1983),
Klett-Cotta, Stuttgart 1999; inoltre l’opera sulla sua esperienza nella Prima guer­
ra mondiale, che gli ha aperto le porte della gloria, N elle tem peste d ’acciaio, della
quale esistono parecchie traduzioni ed edizioni. Tra le opere recenti dedicate a
Jünger, le più utili sono: Jan Poma, The Worker: On N ihilism an d Technology in
Ern st Jünger, Economishe Hogeshool Saint-Aloysius, Bruxelles 1991; Thomas R.
Nevin, Ern st Jü n ger a n d G erm any: into thè Abyss, 1914-1943, Duke University
Press, Durham 1996; Elliott Y. Neeman, A D uhious Past: Ern st Jü n ger a n d thè Po­
litics o f Literature after N azism , University of California Press, Berkeley 1999. In
francese si può consultare prima di tutto Alain de Benoist, Ern st Jün ge: une hio-
bibliographie, G. Trédaniel, Paris 1997. Vent’anni prima la rivista L a Table ronde
aveva pubblicato sotto la direzione di Georges Laffly un quaderno speciale,
«Hommage à Ernst Jünger» (inverno 1976). Al primo posto tra i partecipanti c’è
Marcel Jouhandeau, fedele collaboratore e notorio antisemita, autore di «Mon
ami, Ernst Jünger», che rende molto bene il tono dell’insieme. Un altro parteci­
pante, che scrive sotto lo pseudonimo di «Banine», pubblica nel 1989 un’opera in­
titolata Ernst Jünger, au x faces m ultiples, L’Äge d’homme, Lausanne.

465
Crisi di civiltà

blioteca di Jünger’. Quanto a Cari Schmitt, la celebre «distinzione di ami­


co (Freund) e nemico (Feind)» che «è la specifica distinzione politica»,56 o
il solo «criterio del “politico”», è una classica distinzione barresiana.
Trent’anni prima del politologo tedesco, Barrès oppone all’Io nazionale
l’Io collettivo elaborato a partire dall’Io individuale, l’anti-Io. Questo an-
ti-Io è l’altro, il barbaro, lo straniero, in senso proprio e in quello figurato.
Schmitt e Jünger sono i due rappresentanti tipici della «rivoluzione
conservatrice» tedesca, quella forma di fascismo d’Oltrereno che biso­
gna distinguere bene dal nazismo e che ha un ruolo cruciale nella vita
politica di Weimar. La rivoluzione conservatrice conta molto sulla cadu­
ta della democrazia tedesca. La definizione stessa, al contrario di ciò che
spesso si pensa, è stata creata all’epoca di Weimar. Hofmannsthal, vici­
no a questa corrente, la utilizza nel 1927, e nel 1932 viene pubblicata con
questo titolo un’opera dedicata a Sorel7.

5. Sulla comparazione tra «la rivoluzione conservatrice» tedesca e la tradizione bar­


resiana in Francia e altre correnti ideologiche unite nel medesimo rifiuto della
democrazia liberale, si veda la nuova edizione delle mie opere, L a D roite révolu-
tionaire, 1885-1914. L e s O rigines fran çaises du fascism e, e N i droite n i gauche.
L'idéologie fasciste en France (ambedue Fayard, Paris 2000). Si può utilmente
consultare un articolo degli anni Novanta che per questo punto si basa su N i
droite n i gauche-, «The anarch of Twilight - Aladdin’s Problem by Ernst Jünger»,
The N ew York Review o f Books, 24 giugno 1993. Sull’insieme di questa proble­
matica cfr. Z. Sternhell (a cura di), L É te r n e l Retour. C ontre la démocratie, l ’idéo­
logie de la décadence, Presses de la Fondation nationale des sciences politiques,
Paris 1994.
6. Cari Schmitt, «Il concetto di “politico”», in L e categorie d e l politico, a cura di
Gianfranco Miglio e Pierangelo Schiera, Il Mulino, Bologna 1972, p. 108.
7. Si veda Fritz Stern, The Politics o f C ultural D espair: A Study in thè R ise o f thè G er­
m anie Ideology, University of California Press, Berkeley 1963, p. XV; Michael
Freund, G eorges Sorel, der Revolutionäre K onservatorism us, V. Klostermann,
Frankfurt am Main 1932 (riedito nel 1972). Sulla «rivoluzione conservatrice» si
vedano due eccellenti opere in francese, dovute a Louis Dupeux: A spects du fo n ­
dam entalism e national en A llem agn e et essais complémentaires, Presses universi­
taires de Strasbourg, Strasbourg 2001, e un’opera collettiva diretta da Dupeux: L a
Révolution conservatrice allem ande sous la R épublique de Weimar, éditions Kimé,
Paris 1992. La «rivoluzione conservatrice» fu l’ideologia dominante in Germania
durante il periodo di Weimar e, contrariamente a quanto di solito si pensa, è a
quel tempo e non nel 1949 che il concetto è stato introdotto da Armin Mohler nel­
la sua tesi di dottorato (Dupeux, p. 7). Si veda Armin Mohler, D ie conservative R e­
volution in D eutschland 1918-1932: ein H andbuch, Wissenschaftliche Buchgesell­
schaft, Darmstadt 1989, 1‘ ed. 1972 \L a rivoluzione conservatrice in G erm ania
1918-1932, a cura di Luciano Arcella, La Roccia di Lrec, Firenze 1990]. La tesi di
Mohler era stata pubblicata nel 1950.

466
Crisi di civiltà

Barrès va letto come seguito logico del nazionalismo herderiano, del


suo relativismo, della sua avversione per «l’uomo», del suo disprezzo per
le regole universali. Tutto un corpus ideologico che ha fatto un lungo
cammino, senza che il suo significato sia sempre ben compreso fuori del­
la Germania, giunge alla meta in quegli anni che resteranno per sempre
quelli dell’affare Dreyfus. Repentinamente si capisce come l’antiraziona-
lismo, il relativismo, il vitalismo, il culto dell’inconscio popolare, dei geni
e dei caratteri nazionali, dei «legami con la zolla sulla quale siam nati e
nella quale marciremo»,89come diceva Herder, confluiscano nell’idea bar-
resiana della terra e dei morti. L’attacco lanciato da Barrès, un secolo do­
po Herder, contro il XVIII secolo francese, quel grande secolo libertario,
edonista e utilitarista, ma prima di tutto razionalista, aveva un significato
assai concreto. La nazione diveniva ormai non più l’insieme di cittadini
dei primi anni della Rivoluzione francese ma un grande corpo, una gran­
de famiglia prosternata davanti alle sue chiese e ai suoi cimiteri, comuni­
cante tramite il culto degli antenati, retta da una nuova morale.
«Il senso del relativo» è il sottotitolo del terzo capitolo di Scènes et doc­
trines du nationalisme dove, di fronte a questa «orgia di metafìsici [... che]
giudicano tutto in astratto», Barrès insiste sulla «necessità del relativismo».
A tutti gli intellettuali, staccati dalle loro radici etniche e comunitarie, egli
lancia questo monito: «Noi giudicheremo tutto in rapporto alla Francia»’.
La verità, la giustizia non esistono in astratto, «non ci sono verità assolute,
ci sono solo quelle relative»10. Altrove spiega la sua concezione del relativi­
smo: «Il relativista cerca di distinguere le concezioni proprie di ogni tipo
umano»11. Ecco riassunta in una frase concisa la classica concezione herde-
riana del relativismo che, alcuni anni dopo, Spengler farà propria. L’uomo
è conseguente dei suoi antenati, dipende da loro, è il prodotto di una cul­
tura e di un territorio particolari, unici nel loro genere. «La nostra terra ci
impone una regola, noi siamo il prolungamento dei nostri morti»:12 ecco

8. Herder, An cor a una filo so fia délia storia, p. 83.


9. Maurice Barrès, Scènes et doctrines du nationalism e , 1.1, Plon, Paris [1925], p. 84.
10. Maurice Barrès, M es C ah iers , Plon, Paris 1929-1938 e 1949-1957, t. II, p. 163. Si
veda anche L e s D éracinés , Fasquelle, Paris 1897, p. 322, e Scènes et doctrines du
nation alism e , Plon, Paris 1925,1.1, p. 38.
11. Barrès, Scènes et doctrines du nationalism e, t. I, p. 68.
12. Ibid., p. 93.

467
Crisi di civiltà

perché «nazionalismo significa risolvere ogni problema in rapporto alla


Francia».13Barrès conosceva Herder solo indirettamente, tramite Michelet,
ma di fronte ai Lumi, al razionalismo e all’universalismo, egli ha lo stesso ti­
po di reazione. Più vicini nel tempo, i suoi grandi maestri sono Taine e Re­
nan: sono loro ad avergli insegnato che solo in questo modo il paese ritro­
verà «quell’unità morale» che gli è mancata in modo così doloroso14. Her­
der, Justus Mòser e Burke, lo si è visto, ritenevano buone leggi le norme di
comportamento specifiche di una cultura, di una società, da essa prodotte
e solo a essa applicabili. Barrès esprime lo stesso principio in un linguaggio
quasi identico: «Io posso accettare solo la legge nella quale il mio spirito si
identifica. Più ho in me senso dell’onore, più mi ribello se la legge non è la
legge della mia razza»:15la parola «razza» è qui usata nel senso molto her-
deriano di popolo o di comunità storica e culturale.
Come un secolo prima, all’origine del male che corrode la società del
suo tempo stanno il razionalismo e l’autonomia dell’individuo: «L’indi­
viduo! La sua intelligenza, la sua facoltà di cogliere le leggi dell’univer­
so! Bisogna ridimensionare la cosa. Noi non siamo i padroni dei pensie­
ri che sorgono in noi. Non vengono dalla nostra intelligenza; sono il mo­
do di reagire in cui si traducono antichissime predisposizioni fisiologi­
che. Noi elaboriamo giudizi e ragionamenti in base all’ambiente in cui
siamo immersi. La ragione umana è talmente concatenata che noi tutti
non facciamo altro che ripercorrere i passi dei nostri predecessori»16. Il
male enorme fatto dal XVIII secolo consiste nell’idea che «l’individuo
deve sottoporre a critica tutte le idee ricevute e affidarsi solo alla con­
vinzione personale». Quegli spiriti critici «non ascoltavano altro che la
loro ragione. [...] Rifiutavano di sottomettersi agli insegnamenti della
ragione collettiva»17.
Barrès dunque parte in guerra contro «il razionalismo del XVIII se­
colo»,18 contro «lo spirito dell'Encyclopédie che concepisce la fonte della
verità solo nella ragione illuminata proclamando irragionevole tutto ciò

13. lbid., p. 86.


14. lbid., pp. 84-86.
15. lbid., p. 68.
16. lbid., p. 17.
17. Barrès, A fa Cabiers, t. X, p. 99.
18. lbid., t. XIII, p. 161.

468
Crisi di civiltà

che si trova di irrazionale nel mondo»19. A costo di tornare sui propri pas­
si, egli rifiuta con Diderot anche Rousseau, che un tempo aveva definito
un «genio» e un «altro me stesso»: quando l’atteggiamento storicista e
comunitario comincia a prevalere, Barrès trova Le Contrai social
«profondamente imbecille» e non si spiega «l’influenza di un simile in­
dividuo»20. Il grande errore di Rousseau è di aver voluto «razionalizzare
la vita», che vuol dire «sterilizzarla», poiché «l’idea razionalista è contra­
ria alla vita e alle sue forme spontanee»21. Rousseau è colpevole di aver
concepito un sistema falso perché fondato sulla concezione di un «uomo
astratto»; e l’autore de L'Appel au soldat pone la domanda ormai classica
del pensiero storicista, comunitario e neoconservatore in rivolta contro i
Lumi franco-kantiani, quella che nella seconda metà del Novecento fa
ancora la gioia di Isaiah Berlin: «Quale uomo? Dove abita? In che epo­
ca vive?»22 In tale contesto, quello dell’attacco ai diritti dell’uomo, Barrès
si appella all’autorità di Taine e di Burke. A un razionalismo che «vuole
ignorare le eterne alture», egli oppone l’esperienza; alle risorse della ra­
gione individuale oppone quel «tesoro lentamente formato» rappresen­
tato dalla ragione collettiva, a sua volta plasmata dalle forze dell’incon­
scio nazionale23.
Il primato dell’inconscio e dell’istinto è proclamato a voce alta da
Barrès fin dall’inizio della sua carriera. Egli afferma che «è l’istinto, ben
superiore all’analisi, che crea l’avvenire»,24 e che i problemi della vita
«appartengono all’ordine sentimentale, ereditario, riguardano l’antica
inconsapevolezza»25. L’istinto, il sentimento intuitivo e irrazionale, l’e­
mozione e l’entusiasmo sono le forze profonde che determinano il com­
portamento umano. Il razionalismo è cosa da sradicati, da tutti quelli che
hanno perso il sentimento di appartenenza alla loro comunità naturale,
etnica e religiosa; ottunde la sensibilità, uccide l’istinto. E per questo che

19. Ibid., t. X , p. 219.


20. Maurice Barrès, L e Jardin de Bérénice, Perrin, Paris 1891, p. 197; M es Cahiers, t.
IX, pp. 290-291, e t. X, p. 219.
21. Barrès, M es C ahiers, t. VIII, pp. 77-78, e t. IX, pp. 24 e 290.
22. Ibid., t. II, p. 83.
23. Ibid., t. X, pp. 98 e 186.
24. Barrès, L e Jardin de Bérénice, p. 179.
25. Barrès, L ’A p p el au soldat, Fasquelle, Paris 1900, p. 359.

469
Crisi di civiltà

a Barrès ripugna ogni norma universale: rifiuta l’idea di una verità i cui
principi valgano per tutti. Nella sua mente, « l’insieme dei rapporti giu­
sti e veri tra oggetti dati e un uomo determinato, il francese, sono la ve­
rità e la giustizia francese. E il nazionalismo netto altro non è che rico­
noscere l’esistenza di questo punto»26. Se i valori morali appartengono
alla specificità di ogni cultura, per la rigenerazione della Francia, per la
restaurazione della nazione e dello Stato, bisogna «radicare l’individuo
nella Terra e nei Morti»27.
Si è vista nei capitoli precedenti la profonda influenza esercitata da
Herder e Burke su Renan e Taine. Tuttavia, per cogliere tutta la com­
plessità del cammino generale delle idee, come dei rapporti spesso sor­
prendenti e sempre tortuosi tra il nazionalismo tedesco e quello france­
se, bisogna tornare a Michelet. Barrès ammirava Michelet, poiché aveva
scoperto nel grande storico repubblicano, anch’egli entusiasta della
scuola storica tedesca, un aspetto passato inosservato: la visione della
cultura, della storia e della nazione dell’autore del Popolo è più vicina a
quella di Herder che a quella che si trova nelYEncyclopédie e nei pensa­
tori dei Lumi francesi. Infatti è proprio Michelet, questo straordinario
diffusore di idee, che introduce Herder in Francia ed è sempre lui che
scopre Giambattista Vico, il «fondatore della filosofia della storia, il
Dante dell’era prosaica dellTtalia»28. Nel 1827 il giovane Michelet fa
uscire un primo volume contenente un suo adattamento della Scienza
nuova, e nel 1835 pubblica in un secondo volume un saggio introdutti­
vo dell’opera di Vico con la sua traduzione dell’opera maggiore del filo­
sofo italiano29. L’infatuazione di Michelet per Vico, il quale pensa che la
ragione, giunta tardi, non faccia che disseccare la nostra anima, è molto
significativa: sulle sue orme, Barrès non dirà niente di diverso.

26. Barrès, Scènes et doctrines du nationalisme, t. I, p. 13. Il termine «netto» figura


spesso nel testo.
27. Ibid.
28. J. Michelet, Introduzione alla storia universale, trad. di Virginia Ripa di Meana,
Edizione dell’Elefante, Roma 1990, p. 99.
29. L’edizione Hachette del 1835 è ripresa da Paul Viallanex nel volume I delle Œu­
vres complètes (1971), pp. 260-624: Œuvres de Vico, contenant ses mémoires écrits
par lui-meme, la Science nouvelle, les opuscules, lettres, etc., précédées d’une in­
troduction sur sa vie et ses ouvrages.

470
Crisi di civiltà

Nel 1825 Michelet incontra Edgar Quinet che lavora alla traduzione
delle Idee per la filosofia della storia dell’umanità. Inizia così un mezzo
secolo di amicizia e insieme la scoperta da parte di Michelet dell’autore
tedesco ammirato da Quinet. Un mese dopo il loro primo incontro, Mi­
chelet inizia a studiare il tedesco. La traduzione di Quinet appare nel
1827. Nel 1905 Gustave Lanson ha giustamente visto che Michelet, co­
me Quinet poco tempo prima, va a cercare in Herder il mezzo per co­
struire una filosofia della storia. Del resto, a quanto pare, è solo dopo
avere conosciuto Herder che Michelet avrebbe davvero assimilato Vi­
co50. Se per filosofia della storia si intende uno sforzo della ragione per
rendere la storia razionale,51 è rilevante che Michelet si sia rivolto a Her­
der e non a Voltaire o Rousseau e che non abbia utilizzato di più Guizot,
che pure ammirava per avere colto per primo «la storia delle idee sotto
la storia dei fatti»52.
Aver trascurato Montesquieu appare tuttavia più significativo. D ’al­
tra parte, nel X IX libro ¿<AYEsprit des lois si trova tutto ciò di cui Mi­
chelet avrebbe potuto avere bisogno. Herder non è stato il solo ad ave­
re avuto «il senso del nazionale», non è stato il solo a riconoscere l’a­
spetto nazionale della letteratura, del linguaggio, della legislazione e, lo
si è visto nei capitoli precedenti, non aveva avuto nel Settecento il mo­
nopolio della riflessione sullo specifico e sul particolare. Montesquieu
non parla forse dello «spirito generale di una nazione» o dei «caratteri
delle nazioni»,55 non manifesta fin dal 1720, con le Lettres persanes, la
consapevolezza della relatività della nostra civiltà? Non esprime, ne L’E­
sprit des lois come nelle sue Considérations sur les causes de la grandeur
des Romains et de leur décadence, il senso della relatività storica? Come
mai allora Michelet si volge a Herder e alla Germania?
La spiegazione sta senza dubbio nel fatto che lo storico ha sentito
una profonda affinità col risveglio nazionale tedesco. In fin dei conti, egli3012

30. G. Lanson, «L a formation de la méthode historique de Michelet», R evue d ’hi­


stoire moderne et contem poraine, voi. 8, 1905-1906, pp. 11-13.
31. H. Gouhier, L'H istoire et sa p h ilo so p h ie,]. Vrin, Paris 1952, p. 87.
32. Citato da Lanson, «L a formation de la méthode historique de Michelet», p. 11.
Si veda anche Eric Fauquet, «Michelet et Herder», in Pénisson, H erder et la p h i­
losophie de l ’histoire.
33. Montesquieu, L o spirito delle leggi, v. I, pp. 379-383.

471
Crisi di civiltà

non ama il razionalismo dei Lumi e ritiene, come Herder, che il ricorso
troppo frequente alla ragione smorzi le forze vitali. Ha trovato nella her-
deriana filosofia della storia l’idea della missione nazionale al servizio
deH’umanità, cosa che gli ha permesso di conciliare il suo umanesimo col
suo senso della superiorità nazionale. Ha ragione Lanson a osservare che
Michelet si è formato abbastanza al di fuori della scuola storica france­
se’'1. Non è senza interesse osservare che prima di lui de Maistre aveva in­
trodotto nella cultura francofona del X IX secolo l’idea secondo la quale
«le nazioni come gli individui hanno un loro carattere e anche una loro
missione; e come, nella società degli individui, ogni uomo riceve dalla na­
tura i tratti della sua fisionomia morale [...], così nella società delle na­
zioni ognuna di esse presenta all’osservatore un carattere indelebile, ri­
sultato di tutti i caratteri individuali»55. E per arginare l’influenza di Vol­
taire che de Maistre afferma: «ogni lingua ha il proprio genio, genio che
è unico, perciò bisogna escludere ogni idea di composizione, di forma­
zione arbitraria e di convenzione antecedente»56. È ancora contro Vol­
taire che de Maistre vede «nell’introduzione fuor di misura di parole
straniere [...] uno dei segni infallibili della degradazione di un popo­
lo»57. La guerra ai Lumi comporta sempre una dimensione nazionale e
provinciale, un campanilismo acceso.
Nei fatti, il ricorso di Michelet a Herder invece che a Montesquieu
avrà ormai un peso notevole nell’evoluzione del pensiero nazionalista in
Francia. È proprio l’eredità herderiana e vichiana che Michelet trasmet­
te prima a Renan, poi a Barrès. Nei fatti, Il popolo si può leggere come
una classica professione di fede herderiana. È seguendo il filo rosso che,
partendo da Herder e passando per Michelet e Renan, arriva ai teorici
del nazionalismo contemporaneo che si può capire non solo l’espansio­
ne di fine secolo ma anche un fenomeno a prima vista curioso: verso il
1900 il nazionalismo tedesco e quello francese convergono fino a mo-34567

34. G. Lanson, «L a formation de la méthode historique de Michelet», p. 10.


35. De Maistre, Écrits sur la Révolution, p. 71 (corsivo nel testo).
36. De Maistre, Le serate di Pietroburgo, a cura di Alfredo Cattabiani, trad. di Lo­
renzo Fenoglio e Anna Rosso Cattabiani, Rusconi, Milano 1986, p. 89 (corsivo
nel testo).
37. De Maistre, «Saggio su il Principio Generatore delle costituzioni politiche», trad.
di Lamberto Crociani, in Scritti politici, Cantagalli, Siena 2000, pp. 100-101.

472
Crisi di civiltà

strare caratteristiche assai simili. Curioso perché, se a est del Reno, dal­
la Germania all’Ucraina, alla Russia e ai Balcani, questa concezione lin­
guistica e culturale e non politica della collettività, così come l’idea dei
popoli giovani ai quali appartiene l’avvenire, costituiscono una vera ri­
velazione, quindi una forza mobilitante primaria, simili idee in Francia
non rispondono ad alcun bisogno concreto. Se era naturale che in quel­
le regioni Herder diventasse un profeta, e il particolarismo nazionale,
storico e culturale, più tardi biologico, diventasse la punta di diamante
dell’azione politica, non lo era per niente nella terra d’elezione della mo­
narchia accentratrice e della Repubblica giacobina. Negli imperi multi­
nazionali, dove la collettività è definita dalla lingua e dalla cultura e non
dallo Stato o dalla dinastia, i concetti di «genio nazionale» e di «caratte­
re nazionale» erano motori straordinariamente potenti di rivolta, quan­
do non di liberazione. I criteri nazionali possono presentare anche un
certo carattere democratico, antidinastico, caro a Herder e già visibile
nel Voltaire delTErr«/ sur les mceurs, che contrappone alla storia pro­
priamente politica delle dinastie la storia culturale delle nazioni. Certo,
nel caso di Voltaire la questione era il ruolo del Terzo Stato di fronte al­
la monarchia, mentre in Herder ciò significa che il popolo andava al di
là delle frontiere dello Stato e non coincideva per niente con esso.
Ma in Francia, nello Stato-nazione per eccellenza, nel paese in cui la
nazione è il prodotto di un lungo processo politico, in cui le frontiere
culturali e linguistiche in pratica coincidono con le frontiere politiche, la
filosofia della storia di Herder non risponde ad alcun bisogno concreto,
salvo a quello che permette, esaltando la patria e identificandola col ge­
nere umano, di innalzarla al di sopra delle altre nazioni. E tuttavia i due
nazionalismi, quello francese e quello tedesco, cominciano dalla prima
metà del X IX secolo a presentare caratteristiche analoghe, spesso iden­
tiche: il movimento di rivolta contro lTlluminismo, movimento di chiu­
sura culturale che la Germania aveva innescato e grazie al quale iniziava
il suo lungo processo di unità nazionale, investiva progressivamente la
Francia. Tale processo culminerà alla svolta del secolo.
Il popolo rappresenta questo versante della storiografia e del nazio­
nalismo francesi segnato dalla vittoria dei valori particolari su quelli uni­
versali. Certo, l’altro versante, quello che nella lntroduction à l’Histoire
universelle prosegue la tradizione dei Lumi, è tutt’altro che scomparso.
«La Francia non è una razza come la Germania: è una nazione. Sua ori-

473
Crisi di civiltà

gine è l’incrocio delle razze, l’azione la sua vita [...]. L’individuo deriva
la sua gloria dalla sua volontaria partecipazione all’insieme.»38 È appun­
to «questa intima fusione delle razze [che] costituisce l’identità della no­
stra nazione, la sua personalità»39. Ecco perché solo la Francia «vuole la
libertà nell’eguaglianza, cioè a dire proprio lo spirito sociale. La libertà
della Francia è giusta e santa. Merita di dare inizio a quella del mondo,
e di riunire per la prima volta tutti i popoli nel segno di un’autentica
unità di intendimento e di volontà»40. E più avanti: «Molto sarà perdo­
nato a questo popolo in forza del suo generoso istinto sociale. S’interes­
sa alla libertà del mondo; si preoccupa per le sciagure più lontane. L’in­
tera umanità vibra in lui. In questa viva simpatia c’è tutta la sua gloria e
la sua bellezza»41.
Michelet è convinto che in Herder l’idea della missione di cui è inve­
stita la nazione sia tutta di pace e di civiltà. Il sogno della grandezza del­
la patria, radicato in un profondo sentimento di superiorità culturale, l’i­
dea del popolo eletto dalla provvidenza per guidare il genere umano, si
esprimono nell’idea di una essenziale identità tra l’interesse nazionale e il
bene dell’umanità. Ecco spiegato l’entusiasmo di Michelet per Herder.
Come la Germania presso l’autore delle Idee, anche la patria di Michelet,
poiché essa ha avuto il senso del sacrificio, è povera e straziata, «seduta a
terra come Giobbe. [...] Se si ammassasse tutto ciò che ogni nazione ha
speso, in sangue, in oro, in sforzi di ogni tipo per le cose disinteressate de­
stinate al mondo intero, la piramide della Francia salirebbe fino al cielo,
la vostra, nazioni che vi credete così importanti, la vostra, il cumulo dei
vostri sacrifici arriverebbe alle ginocchia di un fanciullo»42. Grazie alla
Francia, guida e Messia dell’umanità, verrà creata la grande Città univer­
sale dalla quale nessuno sarà escluso43. Questa idea di una missione civi-

38. J. Michelet, Introduzione alla storia universale, pp. 146-147.


39. Ibid., p. 122.
40. Ibid., p. 144. Questo passo reca una nota: «C ’è bisogno di dire che si tratta del­
l’uguaglianza dei diritti, o piuttosto dell’uguaglianza dei mezzi per arrivare ai lu­
mi, e all’esercizio dei diritti politici che ne deve derivare?» (p. 169).
41. Ibid., pp. 149-150.
42. J. Michelet, Il popolo, trad. di Maria Grazia Meriggi, Rizzoli, Milano 1989, p. 248.
43. G. Monod, La Vie et la pensee de ]ules Michelet. Le débuts, la maturité, E. Cham­
pion, Paris 1923, t. I, p. 222.

474
Crisi di civiltà

lizzai rice della Francia è basata, come in Herder per la Germania, su un


profondo sentimento di superiorità nazionale: anche nell’Introduction à
l’Histoire universelle si legge che «ogni soluzione sociale o intellettuale re­
sta infeconda per l’Europa, finché la Francia non l’abbia interpretata, tra­
dotta, divulgata»44. La Francia «importa ed esporta con ardore nuove
idee, e riunisce in sé le une e le altre con forza meravigliosa. E il popolo
legislatore dei tempi moderni, come Roma fu quello dell’antichità. [...]
La Francia agisce e ragiona, decreta e combatte; sconvolge il mondo, fa
la storia e la racconta»4’. Nel Popolo vediamo la Francia «come fede e co­
me religione»; mentre «tutte le altre storie sono mutilate, solo la nostra è
completa». E questa particolarità francese, «questa tradizione», che «fa
della storia della Francia la storia dell’umanità, da Cesare a Carlo Magno,
a san Luigi, da Luigi XIV a Napoleone»46.
Per preservare l’identità nazionale Michelet, come Herder prima e
come Barrès dopo, si erge contro «il pericolo del cosmopolitismo, il pe­
ricolo dell’imitazione»47. Che cosa potrebbe avvenire di questo popolo
unico, «che più ha intrecciato il suo interesse e il suo destino con quelli
dell’umanità»,48 se si mettesse a imitare altri popoli, se per esempio vo­
lesse «copiare l’Inghilterra, che pure è stata definita l’anti-Francia?»49
«L a via dell’imitazione», che è come «un corpo estraneo che ci introdu­
ciamo nella carne», questa via che Herder rimproverava così duramente
alla Germania del suo tempo nei confronti della Francia, «è semplice­
mente la via del suicidio e della morte»50. Quindi la risposta che Miche­
let dà alla domanda «Che cosa sarebbe del mondo se la Francia peris­
se?», domanda che già Fichte aveva formulato per la Germania, non dif­
ferisce da quella data dall’autóre del Discorso alla nazione tedesca'. «La
terra», risponde Michelet, «entrerebbe nell’era glaciale alla quale altri
mondi a noi vicini sono già arrivati»51.

44. J. Michelet, Introduzione alla storia universale, p. 162.


45. Ibid., pp. 127-128.
46. J. Michelet, I l popolo, pp. 250-252.
47. Ibid., p. 236
48. Ibid., p. 252.
49. Ibid., p. 246.
50. Ibid.
51. Ibid., p. 243.

475
Crisi di civiltà

Scoprendo Herder, lo storico francese aveva distolto lo sguardo, se­


condo la formula di Lanson, «dall’universale e dalla specie per guardare
la differenza e l’epoca».5253Professore alla Ecole préparatoire (Ecole nor­
male) all’inizio del 1827, egli si interessa grandemente ai fondamenti et­
nici della storia, si dedica alla questione della permanenza delle razze,
prodotto per eccellenza delle influenze locali. Vediamo come Lanson nel
1905 descrive Michelet, che si dilettava, osservando i suoi studenti, «a
leggere nei loro visi e nelle loro personalità i caratteri delle diverse pro­
vince francesi, i fatali condizionamenti della terra e della razza, cercan­
do di intuire nelle lingue, nelle letterature, nelle credenze, l’anima delle
masse anonime e del passato scomparso»55. La nazione è un organismo
vivente: Michelet vede le nazioni che «si caratterizzano moralmente ogni
giorno di più e, da serie di uomini, diventano persone»54. Ogni popolo
possiede un’anima, «i nostri caratteri nazionali non derivano da capricci
ma sono fondati saldamente e radicati nelle influenze del clima, dell’ali­
mentazione, della produzione naturale di un paese, che si possono par­
zialmente modificare ma non si cancellano mai»55. AU’affacciarsi del X X
secolo l’idea secondo la quale la nazione è una persona e non un insieme
di cittadini domina la scena politica e culturale.
Così, più si va avanti nel tempo, più il processo di radicalizzazione
avanza e si approfondisce. Taine e Renan, uno convinto darwinista so­
ciale, l’altro vicino a Gobineau, rappresentano rispetto a Michelet una
tappa fondamentale nello slittamento verso il nazionalismo del sangue e
del suolo. Tuttavia, fino a quando il rigetto dell’Illuminismo non scende
dalle vette dell’alta cultura alla pubblica strada, in Francia il senso poli­
tico del fenomeno rimane limitato. Ma appena le condizioni lo permet­
tono la rivolta culturale sfocia nella rivolta politica. Così era stato in Ger­
mania: quando Fichte, nell’inverno del 1807, fa uscire i suoi famosi Di­
scorsi, Herder è morto da soli quattro anni e l’appello lanciato alla na­
zione tedesca nella Berlino occupata dall’esercito francese è nutrito di
uno spirito herderiano. Le guerre di liberazione, dichiarate non solo agli

52. G. Lanson, «L a formation de la méthode historique de Michelet», p. 21.


53. Ibid.
54. J. Michelet, Il popolo, p. 239.
55. Ibid.

476
Crisi di civiltà

eserciti francesi ma anche ai Lumi francesi, furono un fenomeno popo­


lare, secondo le dimensioni, relativamente limitate, dell’epoca, ma furo­
no le guerre napoleoniche che permisero al corpus intellettuale legato ai
principi essenziali dello storicismo di divenire una forza politica.
La Francia fu coinvolta molto più tardi, quando l’industrializzazio­
ne e la rapida democratizzazione delle società europee avevano creato
ciò che si è convenuto chiamare la società di massa. Anche la disfatta del
1870 ha la sua parte nella reazione contro i principi dell’89, ma non ne
fu affatto la causa: è nell’azione della Rivoluzione che Renan e Taine ve­
dono le ragioni della decadenza francese, e Sedan ne è solo l’esito. Am­
bedue insistono su ciò che per loro è l’essenziale: non è stata la disfatta
militare a provocare il disastro. Con la tragedia del 1870 «tutti i veli si
strapparono»,56nient’altro. I veri affossatori della grandezza francese fu­
rono gli uomini del XVIII secolo.
È in questo modo che, negli ultimi anni del X IX secolo, diviene evi­
dente in Francia che la riflessione sulla decadenza egualitaria, la spiega­
zione della storia in termini dapprima culturali e poi razziali, le medita­
zioni sul basso utilitarismo del tempi nuovi e le riflessioni sulla malattia
morale del secolo mettono in discussione tutta una cultura politica ba­
sata sul razionalismo dei Lumi e quindi le fondamenta stesse della Re­
pubblica. Arrivano allora Barrès, Bourget, Le Bon, Drumont, per citare
solo i maggiori successi librari del tempo, e il discrimine tra un rifiuto
dei Lumi aristocratico e conservatore, caratteristico del timore provato
di fronte al «popolaccio» da Taine e Renan, e la traduzione di queste
idee nei termini effettivamente rivoluzionari del nazionalismo della terra
e dei morti è nettamente segnato. La concezione della società come cor­
po, la visione della nazione come organismo vivente, il determinismo
culturale generano inevitabilmente una visione del mondo circoscritta e
assai chiusa.
Chi non ha riconosciuto nella guerra fatta a Kant e a Rousseau il filo
conduttore dei Déracines? Esiste nella letteratura europea dell’epoca un
romanzo politico più herderiano di Le Roman de l’énergie nationaleì C’è
un testo più vicino allo Sturm und Drang tipico delle centocinquanta pa­
gine del «Voyage le long de la Moselle» che costituiscono il nucleo de

56. E. Renan, L? riforma intellettuale e morale della Francia, p. 188.

477
Crisi di civiltà

LiAppel au soldat? Chi può non riconoscere nella critica a questa «nuova
cultura moderna [che] è in realtà una meccanica», nella negazione che
«lo spirito della filosofia moderna debba essere una meccanica»,57 il mo­
dello di successivi attacchi contro la modernità? Quando l’idea di Taine
per la quale l’uomo è vittima di troppa cultura58 diventerà luogo comune,
non ne deriverà forse il culto della violenza creatrice di morale e di bel­
lezza? Quando si sarà sviluppata l’idea che il progresso comporta qual­
cosa di perverso, non ne verrà forse una sintesi che celebrerà la gloria del­
la tecnologia moderna ma che odierà la modernità ideologica?
Negli anni che precedono la Prima guerra mondiale l’effetto dell’ac­
cumulo di un secolo di storicismo si fa sentire appieno. E proprio su
questa base che viene fondata l’Action française e che Maurras prosegue
l’opera del nazionalismo integrale di Barrés fino a Vichy. Meno di cin­
quantanni dopo le battaglie di fine secolo, quando il nazionalismo della
terra e dei morti diventa il motore intellettuale della Rivoluzione nazio­
nale di Vichy, il particolarismo nazionale e razziale dà prova della sua po­
tenza a lungo accumulata: l’idea secondo la quale non possono condivi­
dere la stessa eredità culturale se non uomini uniti da legami di sangue
mostra allora la sua potenza distruttrice.
Maurras non ha prodotto un’opera politica sistematica e non è un
grande scrittore, ma è un incomparabile caposcuola. Nel 1937 riunì col
titolo Mes idées politiques vecchi articoli di giornale che fece precedere da
una prefazione, «La politique naturelle», scritta per l’occasione. Per la ve­
rità, questa collezione di articoli non va oltre l’Enquête sur la monarchie.
Sembra chiaro quindi che per Maurras tutto era stato detto già al tempo
dell’affare Dreyfus. In questo senso egli chiarisce bene la grande proble­
matica intellettuale della Francia tra le due guerre: gli anni Venti e Tren­
ta non potevano ambire alla qualità della produzione intellettuale di ini­
zio secolo. Tuttavia è proprio in quegli anni, conclusi con la disfatta del
1940, che quelle idee trovano la loro espressione più compiuta.

57. Herder, A ncora una filo so fia della storia, pp. 66 e 67.
58. H. Taine, A ppun ti su Parigi. Vita e opinioni d i Federico Tommaso Graindorge, a
cura di Giovanni Battista Angioletti, Domus, Milano 1945, pp. 225 e 249-250. È
bene qui citare un’interessante tesi di laurea inedita, spesso saccheggiata e rara­
mente citata, di A. Schuin, L e Pessim ism e historique au X IX ' siècle: H ippolyte
Taine, éd. de l’auteur, Genève 1982.

478
Crisi di civiltà

Tutte le prime frasi del saggio introduttivo di Mes idées politiques, in


contraddittorio col Contrai social, danno il tono generale: l’uomo non
nasce libero, ma anzi impotente e deve tutto alla società. Non c’è nulla
in questa situazione che possa assomigliare a un contratto, nessuna reci­
procità, nessun tipo di eguaglianza” . E per questo che, secondo Maur-
ras, all’origine di tutti i mali c’è la Riforma; ma il padre di tutte le sven­
ture è anche «il miserabile Rousseau»5960. Il lessico ingiurioso di Maurras
era impareggiabile, ma a proposito dell’autore delYEmile supera ogni li­
mite: «di volta in volta lacchè e mignon, maestro di musica, parassita,
mantenuto», si può trovare «in questo saltimbanco malnato [...] in par­
ti più o meno eguali il criminale, il selvaggio o semplicemente il matto».
Era entrato in Parigi come «uno di quei falsi profeti che, vomitati dal de­
serto, infagottati in un vecchio sacco, cinti di pelo di cammello, la testa
sporca di cenere, lanciavano i loro lugubri ululati per le vie di Sion». As­
sai presto «questo selvaggio, questo mezzo uomo» doveva conquistare
Parigi e le élite della capitale di una monarchia ancora potente, e così
«teste sia pensose che graziose del mondo intellettuale [...] si impegna­
rono a spargere le divagazioni di uno scalmanato»61. Tutti i mali del se­
colo confluiscono e si concentrano in Rousseau più ancora che in Vol­
taire e Montesquieu, benché sia proprio dal viaggio a Londra di questi
due che data il primo incontro «dello spirito classico francese con lo spi­
rito ebraico e germanico che stava agitando l’Inghilterra»; ma «l’innesto
orientale non li ha fatti appassire», per quanto tanto carenti di filosofia
generale. Sicuramente essi portarono a Bordeaux e a Parigi «alcuni semi
della febbre e dell’anarchia straniera», tuttavia, essendo comunque spi-

59. Maurras, L e m ie idee politiche, trad. di Franco Pintore, Volpe, Roma 1969, pp.
5-6. In un’opera concisa e notevole, che tratteggia molto bene la figura di Maur­
ras e fornisce utili riferimenti bibliografici, Bruno Goyet insiste sulla posizione
del tutto singolare di Maurras nella storiografia francese: una onnipresenza nel­
l’ombra, un pensiero che si espande largamente su tutte le componenti della de­
stra. Uno sforzo particolare vi è fatto per minimizzare il ruolo di Maurras nel­
l’antisemitismo francese. Si veda il suo Charles M aurras, Presses de Sciences-Po,
Paris 2000, pp. 128-132.
60. Maurras, R om antism e et Révolution, in Œ uvres capitales , Flammarion, Paris
1954, vol. II, pp. 33-34; Trois idées politiques, in Œ uvres capitales, Flammarion,
Paris 1954, vol. II, E ssais politiques, p. 87.
61. Maurras, R om antism e et Révolution, pp. 34-36.

479
Crisi di civiltà

riti classici, l’uno «grande magistrato», l’altro «borghese assai facoltoso»,


non ne furono «contagiati nell’essenza»62.
La Rivoluzione è giunta da tutt’altra direzione, non, come pensava
Taine, di cui questo fu secondo Maurras l’errore fondamentale, dallo spi­
rito classico, ma proprio dal suo contrario, dal romanticismo. La filosofia
cattolica fa riferimento prevalentemente ad Aristotele; la politica cattolica
ai metodi della politica romana: questo è il carattere della tradizione clas­
sica. Per Maurras lo spirito classico è l’essenza delle dottrine dell’umanità
superiore. In politica rappresenta uno spirito di autorità e di tradizione.
Per cui chiamare «classico» lo spirito della Rivoluzione significa togliere
alla parola il suo senso naturale6364.E nel Contrat social e non in Boileau che
si riconoscono le idee di Robespierre. «Romanticismo significa rivoluzio­
ne»: l’età romantica è stata aperta da Rousseau, l’uomo di Ginevra. E chi
dice Ginevra dice Riforma, e chi dice Riforma dice con Comte «una ri­
bellione sistematica dell’individuo contro la specie». In pratica, per Maur­
ras, tanto le tradizioni greco-latine che il genio cattolico medievale sono
fondamentalmente refrattari allo spirito rivoluzionario. I padri della Rivo­
luzione francese, e anzi di tutte le rivoluzioni, si trovano invece a Ginevra,
a Wittenberg, a Gerusalemme; «essi provengono dallo spirito ebraico e da
quelle varietà di cristianesimo indipendente che infierirono nei deserti
orientali o nelle foreste germaniche, ai diversi crocevia della barbarie»“ .
All’origine del male si trova sempre, come in Burke e in de Maistre,
come in Renan, Taine e Barrès, come prima di loro in Herder, la «filoso­
fia individualista»65. Liberale, egualitario e democratico, «lo spirito rivo­
luzionario [...] non concepisce altro che individui»66. Senza legami, sepa­
rato dalla famiglia, dalla nazione, dal mestiere, l’individuo non solo «è di­
venuto polvere» ma, inebriato dall’idea di giustizia, esprime la follia in-

62. Ibid., p. 34.


63. Maurras, Trois idées p olitiques , pp. 86-87.
64. Maurras, R om antism e et R évolution , pp. 32-33. Si veda in proposito Cari
Schmitt, Rom anticism o politico, a cura di Carlo Galli, Giuffrè, Milano 1981. In
quest’opera, pubblicata in edizione francese nel 1928 dall’ex maurrasiano Geor­
ges Valois, Schmitt mostra come la Riforma inizi «quella crisi dissolvitrice» pro­
seguita dalla Rivoluzione francese (p. 10).
65. Maurras, L e m ie idee politiche, p. 200.
66. Ibid., p. 263. Si veda anche alle pp. 200 e 260.

480
Crisi di civiltà

trinseca a questa situazione: infatti «chi riconosce a se stesso tutti i diritti


comincia con l’imporre al mondo intero tutti i doveri»67. Dopo Rousseau,
fu Chateaubriand uno dei primi ad amare questa persona isolata,68 e così
«la ressa degli “individui” disorganizzati» si butta sulle promesse di li­
bertà69. Ma la libertà è un potere, e chi dice libertà dice necessariamente
autorità e potenza; la libertà è solo un mezzo, non uno scopo70.
Qui Maurras introduce una triplice distinzione. Per prima cosa ri­
prende la tradizionale distinzione burkiana tra «la libertà, principio me­
tafisico», e «le libertà»; poi tra la volontà del popolo, «somma delle li­
bertà individuali», e la «volontà generale, espressione dell’interesse ge­
nerale d’una nazione»,71 e infine tra «una libertà positiva» e una «libertà
negativa»72. Si tratta di altrettanti mezzi per mettere la museruola ai «fu­
rori della belva umana», che sono tanto più da temere quanto più la be­
stia avrà poteri7’ . Tuttavia la bestia umana è dotata di ragione; questa,
che è lo strumento più utile, è appunto ciò che la distingue, pur senza se­
pararla, dal resto della natura. Disperare delle risorse della ragione è sba­
gliato quanto attendere tutto da esse74. Non è perché la Rivoluzione ha
preteso il monopolio delle idee e perché influenze straniere, soprattutto
inglesi, - qui Maurras si rifà, senza nominarlo, a Burke - tendevano a
rappresentare i principi della Rivoluzione come l’espressione del razio­
nale, che i nemici dei Lumi dovevano abbandonare il mondo delle Idee.
Maurras nega di «escludere le idee in quanto idee»; per lui «realtà e idea
non hanno nulla di opposto e di incompatibile» e quindi le idee rivolu­
zionarie sono da condannare non perché astratte o generali ma perché
esse sono «agli antipodi del vero»75.

67. Ibid., pp. 126 e 206.


68. Maurras, Trois idées politiques, in Œ uvres capitales, p. 64.
69. Maurras, R om antism e et R évolution , pp. 48-49.
70. Maurras, L e m ie idee politiche, pp. 122-123 e 132.
71. Ibid., p. 119.
72. Maurras, R om antism e et Révolution, p. 47. Questa distinzione, in fin dei conti
banale e come tale considerata dopo Locke, Kant e Benjamin Constant, avrà
un’eco profonda al tempo della guerra fredda grazie a Isaiah Berlin (si veda qui
l’ultimo capitolo).
73. Maurras, L e mie idee politiche, p. 120.
74. Ibid., pp. 101-102.
75. Maurras, R om antism e et Revolution, pp. 49-51.

481
Crisi di civiltà

Quindi Maurras intende negare l’autonomia dell’individuo e i dirit­


ti dell’uomo non perché siano principi razionali ma perché sono cattivi
principi. Qui egli ripete la celebre boutade del «primo dei nostri filosofi
politici», de Maistre, che diceva di avere conosciuto francesi, inglesi, te­
deschi e altri ancora, ma «di non avere mai incontrato da nessuna parte
l’Uomo astratto»76. Fino ai nostri giorni questo motto di spirito ha entu­
siasmato tutti i neoconservatori e senza dubbio ha ancora un radioso av­
venire davanti a sé. Da de Maistre, Maurras risale a Flobbes e ad Aristo­
tele: Aristotele per il quale l’uomo è un animale politico, Hobbes nel
quale lui vede un teorico della monarchia assoluta e che parte dal prin­
cipio per il quale «l’uomo è lupo all’uomo», rifiutavano, come tutti i «ve­
ri filosofi», di prendere in considerazione l’uomo se non in società77. Del
resto Maurras usa il termine «individuo»78 tra virgolette e preferisce il
termine «persona»,79 che farà strada anch’esso con il personalismo anti­
liberale di Mounier. Quale che sia la terminologia usata, il principio è
chiaro: non è l’uomo che fa la società, ma «ne è fatto e ne è disfatto»80.
Questo perché, come Flerder e Burke, dei quali riprende le idee non
per conoscenza diretta delle loro opere ma per la logica del comune ri­
fiuto dei Lumi, Maurras pensa che «la società non è un’associazione vo­
lontaria: è un aggregato naturale. Non è voluta, non è scelta dai suoi
membri. Non scegliamo né il nostro sangue, né la nostra patria, né il no­
stro linguaggio, né la nostra tradizione. La nostra società nativa ci è im­
posta. La società umana è parte dei bisogni della nostra natura. Abbia­
mo solo la facoltà di accettarla, di rivoltarci contro di essa, magari di fug­
girla senza potercene in sostanza disinteressare»81. E più sopra: «Il po­
stulato della scienza positiva è che le società siano fatti di natura e di ne­
cessità»82. Qui Maurras si appella a Montesquieu e al suo concetto di leg­
ge come «un rapporto derivante dalla natura della cose»83. Non c’è niente

76. Ibid., pp. pp. 49-50.


77. Maurras, Le mie idee politiche, pp. 93-95. Per quanto riguarda Hobbes questa
idea è falsa.
78. Ib td .,p .\l\.
79. Ibid.,pp. 275-275, nota 4.
80. Ibid., p. 171.
81. Ibid., p. 174. Si veda anche alle pp. 172-174.
82. Ibid., p. 165.
83. Ibid, (corsivo nel testo).

482
Crisi di civiltà

in questi testi che non sia già stato detto da Burke, che pure, come Maur-
ras, sapeva invocare l’autorità dell’autore Esprit des Lois quando gli
conveniva e in modo sempre molto selettivo, così come tutto era già sta­
to detto da de Maistre e in pratica anche da Herder. Contrariamente a
de Maistre, suo maestro, e a Rivarol, Maurras non ha molto rispetto per
Burke, un britannico e quindi poco amato, nel quale vede solo un «pra­
tico» della politica, tuttavia la loro comune rivolta contro i Lumi fa sì che
essi usino gli stessi argomenti84. Maurras vi aggiunge però le acquisizioni
della biologia, la quale, permettendogli di identificare nel modo giusto
l’essenza dell’ereditarietà, della selezione e della continuità politiche, ve­
niva in soccorso alla scienza politica. Nonostante le distinzioni che esi­
stono tra l’eredità politica e quella biologica, esse hanno in comune qual­
cosa di essenziale: l’uomo è «un essere vivente soggetto alle leggi della
vita»85. Pertanto è assurdo parlare di un contratto che sarebbe all’origi­
ne della società, e l’individuo non è il fine dell’azione politica e sociale.
Non è la felicità dell’individuo l’obiettivo verso il quale una società può
tendere; l’unico compito della politica è la «prosperità della vita delle co­
munità»86. E per questo che i principi dell’89, e prima di tutto l’egua­
glianza, sono tanto assurdi quanto criminali.
Una società può tendere all’eguaglianza, ma la biologia ci insegna
che « l’uguaglianza c’è solo al cimitero»87. Ognuno deve avere il maggior
numero di diritti possibile, «ma non dipende da nessuno far sì che que­
sti diritti siano uguali quando corrispondono a situazioni naturalmente
diseguali»88. Come tutti i darwinisti sociali, Maurras concepisce il corpo
sociale in termini biologici. In pratica, assimila la biologia alla storia e la
società è per lui un prodotto della natura. L’eguaglianza può esistere al­
l’inizio, in fondo alla scala sociale, ma più l’essere vive e si perfeziona,
«più la divisione del lavoro comporta la disuguaglianza delle funzioni, la
quale comporta una differenziazione degli organi e la loro disuguaglian­
za. [...] Il progresso è aristocratico»89.

84. Maurras, Romantisme et Révolution, p. 51.


85. Maurras, Le mie idee politiche, p. 158.
86. Ibid., p. 180.
87. Ibid, p. 159.
88. Ibid, p. 172.
89. Ibid., p. 159.

483
Crisi di civiltà

Burke dice la stessa cosa ma in altri termini: anche per lui una società
civilizzata è per sua natura non egualitaria. Cento anni dopo, Maurras
può sviluppare questa idea facendo appello non solo all’esperienza ma al­
la scienza, nella persona di Comte. Per quest’ultimo «la politica, figlia
della biologia, implica [...] leggi precise, anteriori e superiori alle volontà
degli uomini: è in base a queste leggi naturali che le legislazioni devono
essere giudicate». Qui ci si presenta un testo fondamentale che potrebbe
uscire direttamente dalla penna di Burke, di Herder o di Taine. Il fatto
che si presenti in un contesto in cui Maurras si rifà a Comte - che Taine
dice di non avere letto, cosa che il fondatore dell’Action française gli rim­
provera duramente - è ancora più significativo. «Una legge politica giu­
sta, afferma Maurras, non è una legge regolarmente votata, ma una legge
che concorda col suo oggetto e che conviene alle circostanze. Non la si
crea, la si enuclea e la si scopre nel segreto della natura dei luoghi, dei
tempi e degli Stati.»90 Questa vecchia formula, che Herder e Burke già
utilizzavano e che Taine doveva riprendere, ritorna innumerevoli volte in
tutti i nemici dei Lumi e costituisce per loro una sorta di manifesto.
In questo contesto conviene osservare il posto della ragione nel pen­
siero maurrasiano. E soprattutto non bisogna cadere in trappola: anche
se si rifiuta di trascurare le risorse della ragione, Maurras non è un razio­
nalista. Avrebbe potuto fare sua l’idea di Schmitt secondo la quale «è in
primo luogo soltanto nella “durata” che il tempo diviene quell’abisso ir­
razionale da cui scaturiscono gli accadimenti storici»91. Per prima cosa
egli sostiene che «l’istintività e l’inconscio sono alla base della natura
umana», che ragione e sentimento si sorreggono9293.Ma l’essenziale sta nel­
la dipendenza totale dell’individuo dalla sua comunità culturale e nazio­
nale. Come in Burke e in Herder, questa dipendenza non vale solo per i
vivi ma anche per i morti. «La nostra patria non è nata da un contratto
tra i suoi figli, non è frutto d’un patto convenuto tra le loro volontà», la
Francia non esiste grazie ai suoi quaranta milioni di uomini vivi ma gra­
zie a «un miliardo di uomini morti»95. Una «nazione è composta di per-

90. Ibid., p. 162 (corsivo nel testo).


91. Cari Schmitt, Romanticismo politico, p. 99.
92. Maurras, Le mie idee politiche, pp. 98 e 101.
93. Ibid., p. 282.

484
Crisi di civiltà

sone che sono nate qui e non là. Essa implica nascita, eredità, storia, pas­
sato»9495.Quindi «la patria è una società naturale o, ciò che significa esatta­
mente la stessa cosa, storica», è « “una cosa eterna”», non è «un insieme
di individui che votano, ma un corpo di famiglie che vivono»’'’ . La nazione
per Maurras è «la più ampia delle cerehie comunitarie che siano», la
realtà «più forte» e, se pure non intende fare della nazione un Dio, «un
assoluto metafisico», ne fa perlomeno «una dea», la «dea Francia»96. La
Francia «vale più dei nostri francesi»: poggia su «generazioni di signori,
d’eroi e di artisti, di semidei e di santi» e non sul suffragio universale. Il
nazionalismo applicato agli antenati, «al loro sangue e alle loro opere», è
la salvaguardia della nazione contro lo straniero, e lo straniero può esse­
re anche, e forse soprattutto, «lo Straniero dell’interno»97.
Come Herder e come Spengler, Maurras sa che il pericolo di morte
incombe su tutte le nazioni e tutte le civiltà. Il solo bastione che gli si pos­
sa opporre è la tradizione che riunisce «le forze della terra e del sangue»98.
Maurras non sapeva il tedesco e aborriva la Germania, ma l’espressione
«Blut und Boden» gli è venuta spontanea. Con lui, come con Barrès e tut­
ti i darwinisti sociali, il nazionalismo francese degli inizi del X X secolo si
trova nella stessa posizione del nazionalismo tedesco. La tradizione, fatto
ovvio dopo Burke, si contrappone alla ragione: è l’«antitesi tra realtà e
idea o tra arte e natura, e può essere assimilata all’opposizione tra aceto e
olio»99. La tradizione è la base sulla quale poggia la civiltà.
Tuttavia Maurras stabilisce una netta differenza tra le civiltà e la Ci­
viltà. Di civiltà ne esistono ovunque nel mondo, dalla Cina al Perù, dal
fondo dell’Africa all’Oceania. Ma di Civiltà con la maiuscola ce n’è una
sola, quella nata in Grecia e diffusa ovunque da Roma, prima la Roma
delle legioni, poi la Roma cristiana. «L’arte greca inventò la bellezza.
[...] La filosofia greca arrivò alla virtù.»100 La Francia, che ha saputo re­
sistere a quel regresso della Civiltà che è stata la Riforma, è divenuta

94. Ibid., p. 183 (corsivo nel testo).


95. Ibid., pp. 283 e 285 (corsivo nel testo).
96. Ibid., pp. 287-289. Si veda anche alle pp. 293-294.
97. Ibid., pp. 290 e 293.
98. Ibid., p. 133.
99. Ibid., p. 134.
100. Ibid., p. 146.

485
Crisi di civiltà

l’erede legittima del mondo greco-romano. Malgrado la Rivoluzione, che


non è stata altro che l’opera della Riforma, malgrado il romanticismo,
che è stato solo una conseguenza letteraria, filosofica e morale della Ri­
voluzione, in Francia restano grandi testimonianze di civiltà. La tradi­
zione è solo interrotta, «il nostro capitale sussiste. Dipenderà da noi far­
lo fiorire e fruttificare di nuovo»101.
Mantenere e prolungare questo «miracolo» di ordine, di misura e di
equilibrio di cui la Francia è erede è l’obiettivo del nazionalismo. Anche
Maurras, come Barrès, Vico, Herder e Spengler, pensa che ogni società
giunga in un certo momento al suo punto di perfezione, seguito poi dal
suo declino. Non poteva essere altrimenti: l’idea di decadenza appartie­
ne, da Vico in poi, al pensiero antilluminista. Henri Massis diceva che
l’opera di Maurras non è altro che una meditazione sulla morte. In ef­
fetti il nazionalismo di Maurras insegnava che bisognava cogliere l’istan­
te in cui una nazione, giunta all’apogeo della gloria o del proprio genio,
comincia a decadere102. Dietro a Burke, anche lui affascinato dall’idea di
ordine, come Herder, che manifestava lo stesso riflesso, come Barrès,
Maurras si sforza di costruire questo riparo di fronte alle minacce che in­
combono costantemente sulla nazione e sulla civiltà cristiana. Allo stes­
so modo dei suoi predecessori, egli non ama l’idea di progresso al servi­
zio dell’individuo, che contraddice quella della decadenza: Maurras pen­
sa che «nulla autorizza quest’atto di fede nel progresso infinito del ge­
nere umano», così come nulla lo può smentire. La fede nel progresso è
di tipo mistico, non scientifico. Nello stesso ordine di idee, Maurras non
vede come si possa stabilire che dopo la costruzione del Partenone l’u­
manità occidentale abbia compiuto un sensibile progresso103.
La difesa di una nazione chiede che si faccia appello all’esperienza del­
la storia; e questa esperienza «è piena dei carnai della libertà e dei cimite­
ri dell’eguaglianza». Maurras considera la storia come una scienza natura­
le: se ogni fenomeno è unico nel suo genere, la concatenazione dei feno­
meni storici non lo è. La storia comporta delle costanti e il loro susseguirsi

101. Ibid., p. 147.


102. Colette Capitan-Peter, Charles Maurras et l’ideologie de l'Action française: étu­
de sociologique d’une pensée de droit, Le Seuil, Paris 1972, pp. 20 e 43-45.
103. Maurras, Le mie idee politiche, pp. 149 e 152.

486
Crisi di civiltà

«consente previsioni senza tema di deroghe»104. Quindi l’esperienza, «simi­


le alla Musa, è figlia della Memoria» e, dice Maurras, è «nostra maestra in
politica»105. Anche Burke la pensava così ma, nel X X secolo, sotto la pen­
na del fondatore dell’Action française, la storia diviene verità scientifica.
Questa verità insegna che «la democrazia è il male, la democrazia è la
morte. [...] Il senso, lo spirito di questo regime contro natura ha finito
per far sorgere [...] degli stati di passione fanatica piuttosto inusitati, ca­
ratterizzati da un gusto pungente della carneficina, seguito sovente da de­
sideri di annientamento che non contrastano affatto con le tendenze al
suicidio e alla sterilità»106. La democrazia è un fenomeno contro natura -
qui sembra di sentire tanto Burke quanto Carlyle o Renan - perché, fon­
data sull’eguaglianza degli individui, essa semplicemente sfida tutto ciò
che è normale. La società è un organismo, ma gli organi, fatti degli stessi
elementi fondamentali, hanno qualità e poteri diversi. La divisione del la­
voro accentua le ineguaglianze107. E appunto per questo che il problema
non è conoscere l’opinione dei nove decimi dei francesi sulla condizione
del bene pubblico, bensì di chiarire quali siano i bisogni reali di questo
bene e di farli prevalere «con tutti i mezzi che si presentino» 108. È così non
solo perché la sovranità popolare non esiste, ma anche perché «la folla so­
miglia alla massa: come questa, è inerte», essa annuisce, segue la linea del
minimo sforzo109. Il suffragio universale «è conservatore»; persino i moti
popolari sono solo fenomeni di inerzia110. Infine, il suffragio universale
consegna il paese ai «quattro Stati confederati (giudeo, protestante, mas­
sone, meteco)» e ha creato la questione sociale111. Per cui, più di ogni al­
tro paese, «la Francia non è fatta per vivere in democrazia»112. Questa
«malattia politica», questo fenomeno contro natura, consegnando il pae­
se allo straniero interno, uccide la nazione, distrugge lo Stato115.

104. Ibid., P- 169.


105. Ibid., P- 168.
106. Ibid., P- 60 (corsivo nel testo).
107. Ibid., pp. 207-209.
108. Ibid., P- 190 (corsivo nel testo).
109. Ibid., pp. 189 e 215.
110. Ibid., pp. 214-215.
111. Ibid., pp. 241-244.
112. Ibid., P- 294.
113. Ibid., pp. 206, 241-243,294.

487
Crisi di civiltà

È così che i diritti dell’uomo, l’autonomia dell’individuo, la libertà


da cui deriva la sovranità del popolo appaiono come altrettanti «nembi»
distruttori di quelle componenti del corpo sociale necessarie alla sua so­
pravvivenza. Il corpo sociale ha bisogno di uno Stato, i principi dell’89
pervertono e snaturano il potere e l’idea dello Stato114. Maurras aveva
presto capito che «la Repubblica è prima di tutto una filosofia ben più
che una forma di governo. Lo Stato repubblicano si fonda su questa fi­
losofia o meglio su questa religione: se abbandonasse tale base storica, si
fonderebbe solo sul nulla, e presto non ci sarebbe un solo motivo per­
ché la Francia restasse una Repubblica»115. La posizione monarchica di
Maurras altro non è che il culto del capo e del dittatore, il culto del co­
mando nel quale anche Spengler vede l’espressione della tradizione.
Dopo Barrès e Maurras, l’altro versante della campagna francese
contro rilluminismo è rappresentato, in questo primo anteguerra, da So­
rel. In Sorel si trovano riuniti i tre maggiori filoni dell’antirazionalismo:
gli apporti successivi di Vico, di Nietzsche e di Bergson116. La campagna
condotta da Sorel contro il Settecento francese, insieme a quella lancia­
ta nello stesso periodo da Croce, costituisce la tappa di transizione ver­
so lo stadio successivo, quello del fascismo.
Sorel ha molto cercato e, nonostante un percorso che a prima vista
appare pieno di insormontabili contraddizioni, non ha mai modificato le
sue idee fondamentali. L’antirazionalismo e il pessimismo, il culto dei
tempi e valori eroici, l’orrore per i Lumi sono alla base del suo pensiero
già dal suo primo libro, Le Procès de Socrate. In quest’opera, con la qua­
le egli inizia la sua campagna contro i Lumi, Sorel distingue tra un’etica
da guerriero e un’etica da intellettuale. Il guerriero rappresenta i valori
eroici della città antica, i valori omerici (qui si manifesta l’influenza di Vi­
co) e l’intellettuale rappresenta la decadenza di una civiltà illuminista. I
valori omerici sono stati distrutti dai sofisti capziosi e dialettici, corrutto­
ri della morale e dei costumi, della famiglia e della città: il loro prototipo

114. Capitan-Peter, Maurras, p. 61.


115. Citato in ibid., p. 61, nota 1.
116. Qui, per evitare di ripetermi, mi trovo ancora una volta nella necessità di ri­
mandare a mie opere precedenti, in particolare a Nascita dell’ideologia fascista
(con Mario Sznajder e Maia Asheri), trad. di Gianluca Mori, Baldini&Castol-
di, Milano 1993, ove fornisco un’analisi globale del sistema di Sorel.

488
Crisi di civiltà

è Socrate. La repulsione ispirata a Sorel dalla società iniziata da Socrate e


da Pericle non è inferiore al disgusto suscitato in lui dal secolo di Voltaire
e di Rousseau. La società antica fu distrutta dai filosofi e Atene decaden­
te discese al livello delle Repubbliche italiane. Gli intellettuali avevano
preso il sopravvento sui difensori della società chiusa, i quali «pensavano
che non si potessero formare generazioni eroiche se non col vecchio me­
todo, nutrendo cioè la gioventù di poemi eroici»117. Qui Sorel lancia l’i­
dea che non abbandonerà più, secondo la quale una civiltà fondata su mi­
ti è sempre superiore a una civiltà razionalista e materialista. Socrate e i
sofisti, questi intellettuali conquistati alle idee della democrazia ateniese
che Platone intendeva combattere cercando di separarne Socrate, al qua­
le, si sa, nella Repubblica fa interpretare il ruolo del proprio portavoce,
svolgevano anche la funzione di professori dell’insegnamento superiore.
Sono tutti colpevoli di fronte al tribunale della Storia. Sorel conclude in­
dicando il peccato mortale degli intellettuali: il loro ottimismo118.
In tutto il suo primo libro, il proposito di Sorel è di mettere in evi­
denza il parallelismo tra la democrazia ateniese, responsabile della deca­
denza della città, e l’Illuminismo francese, del quale la Terza Repubblica
democratica, liberale e non meno decadente del regime di Pericle, è il
prodotto. Come in Spengler, lTlluminismo è concepito come una civiltà e
non appartiene esclusivamente al Settecento. I sofisti, Socrate, Descartes,
Voltaire, Rousseau, i giacobini e i loro successori, i politici della fine del
X IX secolo, appartengono allo stesso lignaggio119. Socrate e i sofisti han­
no distrutto la morale omerica, il pessimismo greco, intriso di eroismo, ma
la religione pessimista e apocalittica rinasce col cristianesimo primitivo,
che è aH’origine del mito, il più formidabile nemico del razionalismo, la
punta avanzata della lotta contro la decadenza. Ma la morale moderna è
stata rovinata dal XVIII secolo, quel secolo infelice al quale dobbiamo il
razionalismo, poi il positivismo e le loro implicazioni politiche e sociali: la
democrazia, il parlamentarismo e, come ad Atene, la corruzione dei co­
stumi, l’emancipazione della donna, la distruzione della vecchia religione

117. Georges Sorel, Le Procès de Socrate. Examen critique des thèses socratiques, Al­
can, Paris 1889, p. 235. Si veda anche aile pp. 90-99, 101, 154-161, 178-179,
183-184, 207-209, 211-216, 236-239.
118. Ibid., p. 277. Si veda anche aile pp. 218 e 346.
119. Ibid., pp. 108-109, 172, 239-240, 346.

489
Crisi di civiltà

pessimista ed eroica120. Una rinascita è ancora possibile, ma non potrà es­


serci se non con una nuova vittoria del mito sul razionalismo: è l’idea che
costituisce il filo conduttore delle Réflexions sur la violence.
Al processo contro il razionalismo è dedicata l’opera che accompa­
gna le Réflexions, Les lllusions du progrès, pubblicate, prima di essere
riunite in volume, da Le Mouvement socialiste, la rivista di Hubert La-
gardelle, tra l’agosto e il dicembre 1906. In pratica Sorel avrebbe potu­
to scegliere come titolo «Les lllusions du rationalisme». Il libro inizia
con la querelle des Anciens et des Modernes: contro Perrault, questo
«strenuo difensore dei cattivi autori screditati da Boileau», e contro Fon-
tenelle, Sorel si schiera risolutamente a fianco degli Anciens121. La vitto­
ria dei Modernes è per lui un segno di decadenza: mentre tutti i grandi
autori del XVII secolo stavano con Boileau, la gente del bel mondo, le
gazzette letterarie, le donne si unirono a Perrault122. La famosa Querelle
ebbe conseguenze che andarono di gran lunga al di là del campo del­
l’arte: la società francese acquisì la convinzione che essa poteva bastare
a se stessa, che non doveva più cercare modelli in altri paesi. Anzi, era
lei che doveva ormai servire da modello. Contemporaneamente, alla fine
del Seicento, le questioni religiose che fino a poco prima avevano ap­
passionato il paese lasciavano ormai tutti indifferenti. Sparivano il terro­
re del peccato, il rispetto della castità e il pessimismo: il cristianesimo
svaniva. Dappertutto trionfava la gioia di vivere: questa società che vo­
leva divertirsi aveva bisogno di giustificare la propria condotta o, in al­
tre parole, aveva bisogno di una copertura ideologica. Fontenelle, animo
mediocre, abile volgarizzatore e cartesiano fanatico, mostrò la possibilità
di una simile filosofia: fu questa l’origine della teoria del progresso123.
In questo modo l’ultimo Seicento pose Descartes sul trono. Ciò che
Sorel rimprovera a Descartes è di non essersi mai «preoccupato del sen­
so della vita»: ecco perché non c’è morale cartesiana, ecco perché que­
sto «razionalismo chiacchierone» e superficiale, che aveva indignato

120. Georges Sorel, Riflessioni sulla violenza, trad, di Antonio Sarno, pref. di Bene­
detto Croce, Laterza, Bari 1970, pp. 59-66.
121. Georges Sorel, Le illusioni del progresso, trad, di Francesca di Montereale-
Mantica, Bollati Boringhieri, Torino 1993, pp. 10 e 13.
122. Ibid., pp. 14-15.
123. Ibid., pp. 17-19 e 21.

490
C risi di civiltà

Pascal, attacca la religione, ecco perché è «decisamente ottimista»124.


Nessuno impersona meglio il cartesianismo di Fontenelle, del quale So­
rci dirà sempre tutto il male possibile. Con Descartes nacque la teoria
del «progresso indefinito»125 e furono gettate le basi della democrazia
moderna, regime imbevuto di una scienza che ha la pretesa di inventare
la natura. Nelle Réflexions la chiama «piccola scienza», in Les lllusions
usa il termine di «scienza borghese» per qualificare la «scienza enciclo­
pedica del secolo X V III»126. Ecco ciò che il razionalismo può produrre:
una fiducia smisurata nelle capacità degli uomini di risolvere, per mezzo
della ragione, tutte le difficoltà della vita sociale, così come erano stati ri­
solti tutti i problemi della cosmologia.
Scrivendo agli inizi del Novecento, Sorel non si limita, come spesso
si ritiene, alla critica della volgarizzazione positivista; prende di mira l’es­
senza del razionalismo, il cartesianismo, che «resterà sempre il modello
della filosofia francese»127. La sua critica al razionalismo cartesiano è tut­
ta pervasa del pensiero di Vico128. Il fatto che l’esposizione critica del
pensiero di Vico, pubblicata nel 1896, sia stata prodotta durante la fase
marxista di Sorel, non altera la sostanza della sua fondamentale ostilità
verso il razionalismo. La lettura è compiuta sotto l’influenza di Hegel, di
Marx e di Engels, citati lungo tutto il saggio, ma Sorel compie una vera
prova di abilità: giunge a svuotare il marxismo del suo razionalismo. E
così che dieci anni dopo, pur continuando a richiamarsi a Marx e a H e­
gel, potrà, con le Réflexions, tornare senza difficoltà a Vico.
Nell’inizio della prima parte del suo saggio Sorel indica l’interesse
che Vico rappresenta per il pensiero marxista: la storia dell’uomo si di­
stingue da quella della natura, in quanto noi abbiamo fatto la prima e
non la seconda129. Ne consegue che gli uomini possono conoscere solo il

124. Ibid., pp. 26-27.


125. Ibid., p. 20. Si veda anche p. 28.
126. Ibid., p. 95.
127. Ibid., p. 28.
128. «Studio su Vico», in Georges Sorel, Considerazioni politiche e filosofiche. Saggi vichia-
ni e lettere a Lagardelle, a cura di Renzo Ragghiami, ETS, Pisa, [1983], pp. 35-117.
129. Ibid., p. 36. Si veda anche alle pp. 52-54, 56, 59, 64, 70, 81 sull’idea di rivolu­
zione («la più grande rivoluzione che lo spirito possa concepire sarà la più pa­
cifica, poiché non troverà, davanti a sé, forze capaci di rinascere»).

491
C risi di civiltà

mondo sociale, in quanto loro opera130. D ’altra parte Vico «ci insegna a
cercare l’origine delle nostre costruzioni metafisiche nelle costruzioni più
o meno empiriche della vita sociale»131. Da Vico Sorel ha appreso l’im­
portanza dei fattori psicologici nella storia, intrecciati come sono alla vi­
ta sociale. Sorel ritiene che tale analisi della storia abbia «un’importanza
capitale per l’interpretazione dei fatti secondo la dottrina del materiali­
smo storico»132. Marxista, egli pensa che «il socialismo deve seguire una
via puramente scientifica, per arduo che sia talvolta il cammino della
scienza»,133 ma ha anche imparato da Vico che i giudizi morali sono «la
base di tutto il movimento storico»134 e che «nessun sistema filosofico ha
dovuto il suo successo al solo valore logico dei suoi argomenti; sempre è
occorso che l’autore facesse in modo di provocare nella nostra mente del­
le emozioni che facessero pendere la bilancia dalla sua parte»135. Sotto
molti aspetti, grazie a Vico, il marxismo soreliano si scosta dalla volga­
rizzazione marxista che, a quell’epoca, prevaleva ancora in Francia. Ma,
quando il marxismo sarà scomparso dal suo sistema, resterà sempre un
fondo vichiano, nel quale si innesterà l’insegnamento nuovo di Nietzsche
e di Bergson che si manifesterà nelle Réflexions e nelle Illusioni.
Si nota quindi che Vico ha avuto nel pensiero di Sorel un ruolo che
va ben al di là di ciò che pensava Croce. Secondo quest’ultimo Sorel
avrebbe solo mostrato l’utilità di alcune idee di Vico, soprattutto appli­
cando il concetto di corso e ricorso alla storia del cristianesimo primiti­
vo e alla teoria del movimento proletario moderno136. In realtà l’opera di
Vico doveva avere una parte determinante nella costruzione della infra­
struttura del pensiero soreliano. Vengono prima di tutto da Vico e poi
da Taine le costanti essenziali di questo pensiero: il rifiuto del razionali­
smo, deH’intellettualismo, del dubbio cartesiano, delle regole universali,
un’inclinazione per il pessimismo cristiano e quindi il rifiuto dell’idea di
progresso. E proprio da Vico che Sorel ha attinto la sua teoria dei miti,

130. Ibid., pp. 53-54.


131. Ibid., p. 47.
132. Ibid., p. 63.
133. Ibid., p. 85.
134. Ibid., p. 214.
135. Ibid., p. 84.
136. Benedetto Croce, La filosofia di Giambattista Vico, Laterza, Bari 1965, p. 293.

492
C risi di civiltà

fondata sull’influenza fondamentale che compete alle «leggi della psico­


logia»1” . Nello stesso ordine di idee, Sorel si rifa alla filiazione Vico-
Renan per dimostrare il peso storico delle favole, della poesia - «il ca­
rattere proprio ed eterno della poesia è di rappresentare “l’impossibile
[che è] tuttavia credibile”» 13738 - della volontà, del sublime che, contro
l’intellettualismo, «esige che l’anima abbia emozioni»1'9.
Nel Procès de Socrate Sorel critica Platone, ritenuto responsabile di
quell’idea monista - idea ripresa da Berlin - che è sempre stata di osta­
colo alla scienza: «Il metodo platonico è antiscientifico. La filosofia an­
tica, con la sua mania di ricondurre tutto all’unità e alla deduzione, ha
immensamente danneggiato il progresso delle umane conoscenze»1"10.
Nella stessa opera biasima duramente Descartes, il dubbio - il dubbio
deve essere rigorosamente escluso141- il metodo come il sistema. Contro
il metodo egli obietta che, se la regola dell’evidenza è giustificata nelle
matematiche, altrove presenta gravi inconvenienti. Qui Sorel si richiama
di nuovo all’autorità di Vico, il quale «è tornato spesso sul sofisma car­
tesiano, che secondo lui aveva molto nuociuto alle conoscenze, sia nelle
materie fisiche che in quelle di erudizione», per lanciare frecce avvele­
nate contro i «razionalisti» e per proseguire con le critiche indirizzate al
sistema: il sistema cartesiano è il modello di ciò che non si sarebbe do­
vuto fare142. Avere fatto dell’individuo il giudice supremo della verità è,
per Sorel, la ragione fondamentale del fallimento cartesiano. Così come
non crede al «cartesianismo», egli è anche convinto del fallimento di
Kant, e si richiama in questo a Bergson. Sorel crea un paragone signifi­
cativo tra quest’ultimo e Pascal: alla svolta del Novecento l’autore de
UEvolution créatrice si erge contro «lo spirito moderno»143. Nel Seicento

137. Sorel torna su questi temi in tutta la sua opera e sarebbe quindi superfluo ag­
giungere citazioni. Qui si veda «Studio su Vico», pp. 63, e 46, 50, 54-55, 63-65.
138. Sorel, «Studio su Vico», pp. 94-95.
139. Ibid., pp. 101 e 105.
140. Sorel, Le Procès de Socrate, p. 332.
141. Ibid., pp. 106 e 12. Si veda Fernand Rossignol, Pour connaître la pensée de
Georges Sorel, Bordas, Paris 1948, pp. 64-65.
142. Sorel, «Vues sur les problèmes de la philosophie», Revue de métaphisique et de
morale, vol. 18, V, 1910, pp. 605-606.
143. Sorel, Le illusioni del progresso, p. 29.

493
C risi di civiltà

Pascal aveva avuto lo stesso ruolo. Sorel è affascinato da Pascal, così co­
me è abbagliato dallo spiritualismo bergsoniano. Pascal è l’antitesi di
Descartes, il quale apre la strada agli enciclopedisti144.
Dopo il processo a Socrate e a Descartes viene quello al XVIII seco­
lo. Sorel inizia da Condorcet, che porta a termine l’opera di Turgot e che
ha come punto di partenza Locke. Condorcet vede in Locke il pensato­
re il cui «metodo divenne ben presto quello di tutti i filosofi»145. Questo
è, da Burke in poi, il peccato capitale per i nemici dei Lumi. Sorel cita
con sarcasmo Cordorcet parlando del «grido di battaglia» di Collins e
Bolingbroke in Inghilterra, di Bayle, Fontenelle, Voltaire, Montesquieu
in Francia e di tutti i loro seguaci: «Ragione, tolleranza, umanità». Tutti
«combatterono in favore della verità [...], dando la caccia nella religio­
ne, nell’amministrazione, nei costumi, nelle leggi, a tutto ciò che presen­
tasse il carattere dell’oppressione, della durezza, della barbarie»146. Si è
mai visto un progetto più ridicolo? Ma è proprio così che il secolo della
levità si è dedicato a una «orgia di astrazioni»147.
Con un gran colpo di scopa che vuole essere definitivo, Sorel spazza
via l’essenza dell’eredità intellettuale dei Lumi: Descartes, Locke e Rous­
seau, il razionalismo, l’ottimismo, la teoria del progresso, quella dei dirit­
ti naturali, il concetto atomistico dell’individuo prevalente dopo Flobbes
e Locke, e l’idea di società come aggregato di individui. L’Illuminismo ha
la diretta responsabilità della decadenza moderna, della mediocrità de­
mocratica come anche di quel socialismo snaturato che è il socialismo de­
mocratico. E affascinante vedere con quale entusiasmo Sorel riprende le
critiche più dure, più ingiuste e più false contro l’Illuminismo. Come per
Burke ed Herder, come per Carlyle, non ci può essere niente di buono nel
XVIII secolo. Sorel segue Taine nell’attacco al francese parlato e scritto a
quel tempo: è impoverito e in più manca di chiarezza. Uno come Con­
dorcet voleva riformare il francese per creare una lingua scientifica uni­
versale, ma una lingua si mostra tanto più atta a essere accettata come co­
smopolita quanto più è distante dalla vita quotidiana148.

144. Ibid., p. 22.


145. Ib id , p. 29.
146. Ibid., p. 30.
147. Ibid., p. 47.
148. Ibid., p. 29.

494
C risi di civiltà

Se per alcuni Sorel è una figura difficile da classificare e per altri è


uno dei fondatori intellettuali del fascismo,149150questo non è il caso di Be­
nedetto Croce, generalmente noto per il suo liberalismo senza pecca e per
la sua resistenza intellettuale al regime mussoliniano. Viceversa, il suo
contributo all’ascesa al potere di Mussolini è spesso occultata all’interno
dell’enorme sforzo compiuto dopo il 1945 per minimizzare il significato
del fascismo nella storia d’Italia. In effetti Croce è una figura emblemati­
ca dell’Europa del Novecento, e se si vogliono capire le ragioni del crol­
lo della democrazia, non solo in Italia ma in Europa in generale, se si vo­
gliono capire le grandi ambiguità del liberalismo antilluminista, bisogna
rivolgere lo sguardo a lui, considerato a ragione come uno dei maggiori
pensatori del Novecento e il più importante intellettuale italiano dopo Vi­
co. Sotto molti aspetti Croce interpreta in Italia il ruolo di Renan e di
Taine nella Francia dell’ultimo terzo dell’Ottocento e quello di Meinecke
nella Germania weimariana. Molto legato a Sorel, scrive nel 1909 una
prefazione alla traduzione italiana delle Réflexions sur la violencc™. Cro­
ce ha in comune con Sorel una mai smentita ammirazione per Vico, un
passaggio attraverso il marxismo e una profonda avversione per i Lumi e
per la loro conseguenza novecentesca, la democrazia.
Si è visto che l’importanza di Vico si manifesta davvero solo con Mi­
chelet. Alain Pons ha dimostrato come, contrariamente a Ballanche, che
ha scoperto il filosofo napoletano già nel 1824-1825 ma ne offre una let­
tura demaistriana, Michelet intende conciliare l’autore della Scienza nuo­
va con il XVIII secolo e con la Rivoluzione francese. Mostra un Vico non
nemico di Descartes ma scopritore del grande principio «prometeico» se­
condo il quale «l’umanità è opera di se stessa»151. Michelet inizia un di­
scorso che Croce, all’inizio del Novecento, riprende spingendo le accuse
al di là del ragionevole. Secondo lui Montesquieu avrebbe acquistato nel
1729, durante un viaggio a Napoli, una copia della Scienza nuova. Un
esemplare dell’edizione del 1725 si trova, secondo Croce, nel castello di
La Brède. Però, dice, non bisogna vedere ne L’Esprit des lois una imita-

149. Si veda Sternhell, Sznajder e Asheri, Nascita dell’ideologia fascista, capitoli 11 e III.
150. Sorel, Considerazioni sulla violenza, pp. 35-49.
151. Alain Pons, «Avant-Propos», in Vie de Giambattista Vico écrite par lui-même,
Lettres, La Méthode des études de notre temps, Grasset, Paris 1981, p. 11.

495
C risi di civiltà

zione della Scienza nuova: la mente di Montesquieu era troppo diversa e


assai inferiore a quella di Vico. In altre parole, anche se l’avesse voluto,
Montesquieu non sarebbe stato in grado di innalzarsi al livello dell’opera
magistrale che aveva avuto per le mani senza davvero capirla. Infatti, pro­
segue Croce, il merito di avere innanzitutto «introdotto l’elemento stori­
co nel diritto positivo» e poi un approccio filosofico nella «legislazione,
quale momento dipendente di una totalità in rapporto a tutte le altre de­
terminazioni che formano il carattere di un popolo o di un’epoca», va, in
ordine di tempo come di eccellenza, a Vico152.
Qualche pagina dopo Croce si lamenta dell’ingiustizia che Vico subi­
sce dagli storici della filosofia: viene ignorato, poiché si vede in lui solo un
autore che segue Bossuet e precede Herder in quella dubbia scienza che è
la «filosofia della storia». Si dimentica, o si ignora, che sotto questo termi­
ne troppo generale si nasconde un contributo vichiano di straordinaria ric­
chezza alla teoria della conoscenza, all’etica, all’estetica, al diritto e alla re­
ligione. Secondo Croce c’è anche un’altra ragione di questa ingiustizia: Vi­
co non aveva rilevanza sociale e apparteneva a un paese e a una cultura che
avevano perso la loro influenza in Europa. Mentre nessuno oserebbe igno­
rare Paley, D ’Holbach o Mendelssohn, ci si permette di non ricordare un
Vico che pure, tra costoro, spicca come «gigante tra pigmei»153.
Le esagerazioni e le apologie formulate da Croce non resistono a un
esame serio, alla stesso modo, come dimostra Pons, delle altre accuse dif­
fuse in Italia, secondo le quali la maggior parte dei philosophes francesi
del XVIII secolo, da Montesquieu a Condorcet, passando per D ’Alem­
bert, Helvétius, Rousseau, Condillac, Turgot e Boulanger, avrebbe sac­
cheggiato, plagiato o almeno largamente utilizzato la Scienza nuova senza
riconoscere il debito154. Tuttavia, pur concordando con Pons quando

152. Benedetto Croce, ha filosofia di Giambattista Vico, p. 284. L’opera è apparsa


nel 1911. Due anni dopo c’è stata la traduzione inglese, oggi ancora disponi­
bile in una ristampa del 1964: The Pkilosopky o f Giambattista Vico, trad. di
R.G. Collingwood, Russell and Russell, New York 1964. In appendice all’e­
dizione italiana si trova il saggio «Intorno alla vita e al carattere di G.B. Vi­
co», cui dalla quarta edizione (Laterza, Bari 1947) è aggiunta una Postilla del
1946.
153. Croce, La filosofia di Giambattista Vico, pp. 293-294.
154. Pons, «Avant-propos», in Vie de Giambattista Vico, p. 10.

496
C risi di civiltà

afferma che le prime citazioni esplicite di Vico appaiono solo negli ulti­
missimi anni del XVIII secolo, non ne consegue automaticamente che
idee venute da lontano non abbiano potuto diffondersi e non abbiamo
colpito spiriti che si occupavano delle stesse questioni. Vico fu certamen­
te il primo ad affrontare in tutta la loro ampiezza le questioni che trava­
gliavano tutti coloro che pensavano, leggevano e scrivevano al tempo dei
Lumi, ma una riflessione sull’origine delle società, del diritto, del potere,
sul posto della religione nella società era al centro del pensiero di H ob­
bes e di Locke, senza parlare dell’enorme quantità di scritti e pamphlet
pubblicati nella seconda metà del XVIII secolo non solo in Olanda, libe­
ra dalla censura che infieriva nel resto d’Europa, ma nella stessa Inghil­
terra. Non è quindi impossibile che pensatori che riflettevano sulle stesse
questioni siano giunti a risposte assai simili. Né Herder né Burke hanno
conosciuto Vico, e la loro battaglia contro i Lumi francesi nulla deve alla
Scienza nuova. Ma, man mano che ci si inoltra nel X IX secolo e che la tra­
duzione di Michelet, messa a disposizione del pubblico europeo nella
grande lingua della cultura dell’epoca, comincia a essere conosciuta dav­
vero, il rifiuto dei Lumi che questo testo comporta, l’antirazionalismo al
quale Vico appone il sigillo del genio, iniziano a dare i loro frutti.
In quanto a Croce, c’è proprio l’opera di Vico alla base della sua cri­
tica al XVIII secolo e ai suoi prodotti successivi, la democrazia, l’egua­
glianza, la laicità. L’interpretazione che Croce dà di Vico è hegeliana, co­
sa che non manca di avere anche una influenza duratura sulla sua visione
della democrazia e della religione. Croce ha fatto propria la critica vi-
chiana dei Lumi in ciò che essa aveva di più profondo e durevole. Catto­
lico come Sorel, non poteva che provare un disagio intenso, quasi visce­
rale, di fronte all’Illuminismo, disagio che doveva manifestarsi in una vio­
lenta campagna durata più di un quarto di secolo contro la democrazia155.
La lettura dell’esposizione che Croce fa di Vico è importante più per
capire Croce che l’autore della Scienza nuova, tanto La filosofia di Giam­
battista Vico esprime un atteggiamento poco critico: infatti Croce si rifà

155. Si può vedere un interessantissimo saggio di Croce scritto nel 1942, assai noto da
tempo in Italia, Perché non possiamo non dirci «cristiani», Laterza, Bari 1943. Que­
sto sereno scritto appartiene già a un autore che dovrà presto iniziare a spiegare il
fascismo e preferirà dimenticare la sua lunga guerra ai Lumi e alla democrazia.

497
C risi di civiltà

a tal punto a Vico che il lettore già a conoscenza dei testi ha la sensazio­
ne di avere sotto gli occhi un «Vico visto da se stesso». Ma ciò non di­
pende da una inadeguatezza di Croce, al contrario. In pratica Croce si
identifica talmente col suo grande predecessore da usare le sue argo­
mentazione come se fossero le proprie. Meinecke, Gadamer e Berlin ma­
nifestano un riflesso analogo rispetto a Herder. Sotto molti aspetti, è il
caso di praticamente tutti i nemici dei Lumi: quando si rifiutano le pre­
messe del razionalismo, non ci sono modi molteplici per attaccare il
XVIII secolo franco-kantiano. Pertanto, e non è certo una sorpresa, Cro­
ce inizia con l’anticartesianismo. Senz’altro, dice, Vico non pensa che
tutte le idee di Descartes siano false, ma il cogito è solo «un mero segno
o indizio del mio essere: nient’altro»156. Allo stesso modo, lo si è visto pri­
ma, secondo Vico l’uomo potrebbe dimostrare l’esistenza di Dio solo di­
venendone il creatore157.
D ’altra parte Vico è per Croce, così come lo è stato per se stesso, il
fondatore delle «scienze morali», cioè umane e sociali158. Oltre a una
scienza sociale, la Scienza nuova comprende una filosofia dello spirito,
una storia o un gruppo di storie159. Tanto il cartesianismo, «tutto rivolto
alle forme universalizzanti e astraenti, trascurava le individualizzanti; e
tanto più il Vico doveva essere attirato da esse come da una mistero. Il
cartesianismo rifuggiva con orrore dalla selva selvaggia della storia», Vi­
co vi si «internava bramoso»: egli «era portato a indagare, nelle loro
profonde differenze e opposizioni, i modi di sentire e di pensare delle di­
verse età»160. Vico non fa storia nei particolari, cerca i «caratteri generi­
ci» e concepisce la sua scienza nuova come una «scienza generalizzan­
te»161. Infine, Croce non lo dice esplicitamente ma è proprio questo che
vuole mettere in evidenza, il concetto di «carattere», largamente usato
nel Settecento, è una creazione di Vico, per cui Herder avrebbe solo
adattato il pensiero del filosofo napoletano alle proprie esigenze. É con

156. Croce, La filosofia di Giambattista Vico, p. 15.


157. Ibid., p. 16.
158. Ibid., pp. 31-34.
159. Ibid., p. 41. Il cap. Ili, pp. 41-47, è dedicato alla struttura della Scienza nuova
e alla genialità del pensiero di Vico.
160. Ibid., pp. 48-49.
161. Ibid., pp. 198 e 211.

498
C risi di civiltà

la sua critica a Machiavelli che Vico inizia il discorso: l’autore del Prin­
cipe vede l’origine della grandezza romana nelle istituzioni, mentre l’ori­
gine, e quindi le ragioni profonde di queste istituzioni, risiede nel carat­
tere della società romana162. Ciò che permette di vedere nell’opera di
Montesquieu una imitazione di quella di Vico. Già nel capitolo III Cro­
ce cita Vico: «Natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi
tempi e con certe guise, le quali sempre che sono tali, indi tali e non al­
tre nascono le cose»163.
L’invenzione della storia inizia con la critica a Grotius e a Pufendorf,
come ad altri teorici del giusnaturalismo: tutti si sono occupati della na­
tura umana ma, tracciando il corso della storia, hanno cominciato da
metà cammino, con l’uomo già civilizzato dalla religione e dalla legge. Si
sono concentrati sull’intelletto e hanno ignorato l’immaginazione e le
passioni, la poesia e le favole, queste forme di espressione maggiori del­
l’uomo primitivo. «Avverso all’intellettualismo, simpatico alla fantasia»,
il pensiero di Vico scopre un mondo nuovo: prima di lui i miti e le favo­
le erano considerati come allegorie, finzioni e imposture, non una scien­
za dell’uomo primitivo164. Anche l’invenzione dell’estetica è opera di Vi­
co165. La teoria della poesia di Vico è una innovazione rivoluzionaria, ca­
povolge tutto dai tempi di Platone e Aristotele. Non si accontenta di di­
re che «la forma poetica è la prima operazione della mente, che essa è co­
stituita da sensi di passione, è tutta fantastica, priva di concetti e di ri­
flessioni», e che è fatta di sentimenti ed emozioni166. Aggiunge che, a dif­
ferenza della storia, la poesia ha per oggetto l’impossibile e che i suoi sog­
getti favoriti sono i miracoli compiuti dai maghi. Quel mondo che inve­
ce sperimentava lingue artificiali, che intendeva ridurre la metafisica e
l’etica a formule matematiche, in cui dominavano il distacco, il gelo, l’o­
stilità e la derisione per tutto ciò che era originale e autentico, che cerca­
va di liberare l’intelletto dai sensi e dall’intuizione, fu salvato dal genio di
Vico, che ha intravisto «la qualità genuina del linguaggio»167. Il linguaggio

162. Ibid., p. 185.


163. Ibid.. p. 45.
164. Ibid., p. 62. Si veda l’insieme del cap. IV, pp. 48-62.
165. Ibid., p. 50.
166. Ibid., pp. 56 e 59-60.
167. Ibid., p. 52. Si veda anche alle pp. 57 e sgg.

499
C risi di riviltà

non è una convenzione, esso «sorge naturalmente», in una maniera spon­


tanea e fantasiosa168. Così come è naturale la lingua, è naturale la società.
L’origine della società non si trova in una decisione di uomini razionali
ma in istinti primari di «bruti» che solo progressivamente diventeranno
umani. Gli uomini cominciano a esprimersi per segni e simboli e «le lin­
gue sono i testimoni più gravi degli antichi costumi»169.
E comunque in tre notevoli pagine del capitolo VI, su «La coscienza
morale», e in alcune altre sulla storia romana che Croce, manifestando la
sua concezione personale, espone la lezione che trae dal pensiero di Vi­
co. I razionalisti della scuola giusnaturalista mancano di profondità, co­
me opere filosofiche i loro lavori non vanno al di là di un empirismo piat­
to e volgare, essi sono privi di concetti e di coerenza. Tutti questi pamph-
lettisti del diritto naturale, tra i quali bisogna inserire tra gli altri Hobbes,
Locke, Pufendorf, Bayle e Grotius e anche Spinoza, hanno in comune le
caratteristiche dell’epoca. Tra queste infami caratteristiche, Croce enu­
mera le principali: la dottrina del diritto naturale è materialista, borghe­
se, anticlericale. Tutti i pensatori di questa scuola sono colpevoli di esse­
re sprofondati in un utilitarismo dichiarato o dissimulato. Anche quando
presentano tratti di genio, questi uomini che negano la presenza della di­
vinità nel mondo non sono capaci, al contrario del genio di Vico, di an­
dare al fondo delle cose. L’utilitarismo e l’intellettualismo conducono a
un altro errore capitale: «la mancanza di senso storico», cioè un «antisto­
ricismo [... che] stabiliva l’astratto ideale di una natura umana fuori del­
la storia umana o non fusa e vivente in questa»170. AH’antistoricismo si
connette «l’avversione alla trascendenza e la tendenza a una concezione
immanentistica dell’uomo e della società»171. Tutti elementi che saranno
ripresi praticamente negli stessi termini da Meinecke.
I termini del processo intentato al razionalismo, aU’intellettualismo,
aH’utilitarismo e ai primi embrioni di laicità sono fissati in queste pagine.

168. Ibid, pp. 52-53.


169. Ibid., pp. 52-55 e 149-150.
170. Ibid., p. 77
171. Ibid. Croce ha percepito chiaramente la debolezza dell’argomentazione vichia-
na contro Grotius e Pufendorf, e difende il suo idolo dicendo che la questione
di sapere se Vico abbia bene interpretato la loro opera è per noi senza impor­
tanza (pp. 85-86).

500
C risi di civiltà

Il termine «naturale», scrive Croce, «significava altresì ciò che è comune


agli individui delle diverse nazioni e stati», e veniva così a costituire una
straordinaria bandiera sotto la quale potevano marciare alla lotta tutte le
borghesie europee unite dagli stessi obiettivi e dalle stesse aspirazioni172.
Croce non attribuisce a questo appello all’universalità dei diritti un qual­
siasi valore etico. Si tratta soprattutto di interessi materiali e di propa­
ganda politica: «I trattati del diritto naturale furono, nel secolo decimo-
settimo e nel seguente, per la borghesia quel che il Manifesto dei comu­
nisti e il grido “Proletari di tutto il mondo, unitevi!” tentarono di essere
per la classe operaia del decimonono»173.
Il capitolo XVII, «L a storia di Roma e la formazione delle demo­
crazie», completa, andando indietro di duemila anni e prima della sua
proiezione in avanti, il processo alla democrazia. Col trionfo della ple­
be la fisionomia della società, sia nella vita privata che nella vita pub­
blica, cambia. Diversamente dal sistema aristocratico, in cui le leggi
erano poche, inflessibili e osservate religiosamente, la democrazia ro­
mana ha visto le leggi moltiplicarsi e subire cambiamenti e modifica­
zioni. La plebe romana, come la democrazia ateniese, non ha mai ces­
sato di legiferare ma, malgrado un ingentilimento dei costumi, «scema
la sapienza di governo, la virtù politica» e l’utilitarismo diventa la for­
za motrice della vita politica174. Si prepara così l’esito inevitabile, la mo­
narchia, «una nuova forma del governo popolare»175. Nel capitolo se­
guente giunge subito una glorificazione del Medioevo, questo periodo
di «ritorno della barbarie», o dell’«età divina dei “ciclopi”», di cui
Dante è l’Omero, paragonata ai primi secoli della Grecia e di Roma176.
Risorse il feudalesimo, «le Repubbliche risorsero aristocratiche» e i go­
verni aristocratici furono di nuovo «avvolti da un nimbo o da una at­
mosfera religiosa»; il feudalesimo non è una reliquia della legge roma­
na del Basso Impero ma un ritorno eroico ai primi tempi della barba­
rie latina177. E così che col Medioevo si vede riapparire «la fondamen-

172. Ibid., p. 76.


173. Ibid.
174. Ibid., pp. 189-193.
175. Ibid., p. 194.
176. Ibid., pp. 199-206.
177. Ibid., pp. 199-209.

501
C risi di civiltà

tale divisione tra eroi e famoli»178. Croce conclude sottolineando che «il
Vico inizia l’intelligenza dello spirito medievale, cioè della costituzione
mentale, sociale e culturale di quell’età»179.
Se, secondo la teoria vichiana del «ricorso», era stata possibile una
seconda barbarie, perché non dovrebbe esserci un terzo periodo, per­
ché dovrebbe essere considerato necessariamente un male? Non po­
trebbe essere il fascismo a rappresentare questo terzo ritorno? Non è
forse questa la spiegazione delle conseguenze pratiche che avranno la
lettura e l’interpretazione di Vico, la riflessione sulla sua opera, sul pen­
siero e sul comportamento di Croce, pensatore e uomo politico, negli
anni che seguono la pubblicazione del suo libro nel 1911? Infatti la sua
critica alla scuola giusnaturalista, ai suoi fondamenti intellettuali, alle
sue formulazioni e ai loro significati pratici, il suo culto per le età eroi­
che sono identici alle idee di Herder e di Burke, di Carlyle e di Sorel.
Tutto ciò sfocia in una lunga campagna contro la democrazia e in un al­
lineamento alla più importante campagna antilluminista del suo tempo,
che la storiografia apologetica successiva al 1945 considererà un sempli­
ce errore di percorso.
In realtà il lungo cammino, tutto in opposizione alla democrazia, che
Croce segue a partire dai primi del Novecento non è il frutto di un qual­
che opportunismo ma del suo motto «contro il XVIII secolo»: è questo
che definiva esplicitamente gli obiettivi della sua critica intellettuale. Si ca­
pisce così che le sue idee e il suo comportamento nei primi anni Venti non
sono la conseguenza di una incomprensione del fascismo ma del contrario.
Nessuno capiva il fascismo meglio di Croce, nessuno aveva una visione più
esatta del suo contenuto intellettuale e della sua funzione politica.
In pratica, dopo avere egli stesso contribuito, in compagnia di molte
altre figure eminenti del liberalismo italiano, all’ascesa al potere del fasci­
smo, il senatore Croce non esita nel 1924, dopo l’assassinio del deputato
socialista Giacomo Matteotti, quando si presenta l’occasione di abbatte­
re Mussolini con un possibile consenso del re, a schierarsi per il governo:
pur avendo già fatto esperienza del fascismo al potere, Croce vota lo stes­
so la fiducia al suo capo. Pur avendo Mussolini assunto pubblicamente la

178. Ibid., p. 200.


179. Ibid., p. 198.

502
C risi di civiltà

responsabilità del crimine, il più grande intellettuale italiano vivente ri­


tiene sempre che il fascismo, salvando l’Italia dalla democrazia e dal so­
cialismo, abbia ancora un’importante funzione da svolgere. Solo più
tardi Croce diviene un dissidente; e, a partire dagli anni Trenta, co­
mincia a vedere nella storia la storia della libertà180. Le cose vanno in
tutt’altro modo nei momenti critici del 1922, alla vigilia dell’invito fat­
to dal re a Mussolini a formare il nuovo governo, quando Croce non
esita ad affermare che il fascismo è, in fin dei conti, compatibile col li­
beralismo181.
Nel maggio 1924, proprio nel periodo dell’assassinio di Matteotti, fi­
gura eroica dell’opposizione antifascista, Croce scrive un articolo, pub­
blicato dalla rivista La Critica e in larga parte riprodotto dal quotidiano
di Torino La Stampa, che chiarisce le ragioni dell’influsso del fascismo
ben più delle lunghe e tortuose spiegazioni fornite dopo la caduta di
Mussolini: «Le mie negazioni, come quelle di ogni uomo ragionevole, so­
no sempre secundum quid, e non escludono che ciò che è riprovevole per
un verso, sia ammirevole per un altro, ciò che è invalido a un certo or­
dine di effetti sia valido per certi altri. Io negavo che col futurismo, mo­
vimento collettivo e volitivo e gridatorio e piazzaiolo, si potesse genera­
re poesia, che è cosa che nasce in rari spiriti solitarii e contemplanti, nel
silenzio e nell’ombra; ma non negavo, e anzi riconoscevo, il carattere
pratico o praticistico del movimento futuristico. Fare poesia è un conto,
e fare a pugni è un altro, mi sembra; e chi non riesce nel primo mestie­
re, non è detto che non possa riuscire benissimo nel secondo, e nemme­
no che la eventuale pioggia di pugni non sia, in certi casi, utilmente e op­
portunamente somministrata»182.
Queste riflessioni costituiscono un saggio notevole di come una filo-

180. Si veda Z. Sternhell, M. Sznajder e M. Asheri, Nascita dell’ideologia fascista.


181. Stanley Payne, Il fascismo, trad, di Monica Tamburi, Newton Compton, Roma
2006, p. 119.
182. B. Croce, «Fatti politici e interpretazioni storiche», La Critica, a. XXII, fase. 2,
20 marzo 1924, p. 191 (corsivo nel testo), citato in Pier Giorgio Zunino, «L a
faiblesse de la tradition démocratique en Europe: le cas de l’Italie 1920-1940»,
in Zeev Sternhell (a cura di), LÉternel Retour. Contre la démocratie, l'idéologie
de la décadence, Presses de la Fondation nationale des sciences politiques, Pa­
ris 1994, p. 238.

503
C risi di civiltà

sofia della storia possa essere tradotta in termini accessibili ai lettori di


un quotidiano, o di come il relativismo storico possa essere applicato al­
la vita politica quotidiana. Infatti Croce, che spesso appare come un
Meinecke italiano, diffonde una stessa visione storicista: il suo pensiero
politico è dominato da un rifiuto deH’Illuminismo, che sfocia nell’idea
che i «preconcetti» umanitari costituiscano il più forte ostacolo alla po­
tenza dello Stato e alla difesa della patria, quindi al cammino della sto­
ria18’. Come Mussolini e i suoi compagni sindacalisti, Croce trae dalla
guerra la conclusione classica: «attori della storia mondiale sono i popo­
li e gli Stati, e non le classi»183184. Croce si apparenta alla scuola storica te­
desca, della quale Vico, suo maestro, può essere considerato non meno
di Herder uno degli antenati, sia per la sua inclinazione all’individuale
che per il suo antiuniversalismo. Già dall’ultimo decennio del X IX se­
colo egli insiste, analogamente ai tedeschi, sulla irriducibile individualità
dei fatti storici. E fuori di dubbio che il relativismo storico tedesco assu­
me in quel periodo una grande influenza sul pensiero di Croce, già ben
disposto dal relativismo di Vico. Nello stesso tempo studia Marx ma non
ne assorbe, come Sorel, che la guerra alla democrazia e al diritto natura­
le. Ciò che per Croce, come per Sorel, risulta importante nell’opera di
Marx è la sua visione in termini di sociologia della violenza. Nel 1917
Croce, che pure da parecchio tempo si è allontanato dal marxismo,
esprime ancora la sua riconoscenza a Marx per avere contribuito a «ren­
derci insensibili alle alcinesche seduzioni [...] della Dea Giustizia e del­
la Dea Umanità»185.
Fermo in tale atteggiamento, Croce, che in questo periodo è anche
un convinto darwinista sociale,186 non cessa, nei vent’anni che precedo­
no l’ascesa al potere del fascismo, di condurre quotidianamente un’aspra
polemica contro la democrazia, il diritto naturale e le ideologie umani-

183. B. Croce, Pagine sulla guerra, 2“ ed. con aggiunte, Laterza, Bari 1928, pp. 105­
107; Materialismo storico ed economia marxista, pref. del 1917, Laterza, Bari
1968, p. XIV.
184. B. Croce, Pagine sulla guerra, p. 109.
185. B. Croce, Materialismo storico ed economia marxista, pref. del 1917, p.
XIV.
186. Daniel Gasman, Haeckel’s Monism and the Birth o f Fascist Ideology, Peter
Lang, New York 1998, p. 48.

504
C risi di civiltà

tarie. Tutti gli stereotipi che dalla fine del Settecento creano odio per i
Lumi troveranno assai presto in lui terreno fertile.
«Non, décidément, la Démocratie c’est le néantl C’est le troupeau con­
duisant le berger, c’est le monde renversé, c’est le désordre, l’inanìté et
l’imbécillité organisés.»187Croce apprezza talmente questa citazione prove­
niente dal Mercure de France del settembre 1915 che la fa propria e la ri­
produce tale e quale, in francese, nel suo articolo scritto in ottobre. Il suo
contenuto è caratteristico del pensiero crociano e merita ancor più l’at­
tenzione del lettore in quanto ripubblicato parola per parola nel 1928, nel­
le Pagine sulla guerra, nel pieno della «fascistizzazione» dello Stato italia­
no. Fu necessaria l’esperienza di tutti gli anni di dittatura fascista per con­
vincerlo che non si poteva condurre senza conseguenze una guerra all’in­
tellettualismo, all’universalismo, al razionalismo, al materialismo storico e
all’eredità dell’89. Croce doveva alla fine comprendere che la guerra alla
democrazia aveva un prezzo e delle conseguenze concrete. E per questo
che il suo voto di fiducia del 1924 assume un significato simbolico: nulla
può chiarire meglio l’ambiguità delle posizioni prese, per tutto il periodo
tra le due guerre, da tanti intellettuali europei di fronte al fascismo.
Non bisogna dimenticare che sono i nemici della democrazia venuti
dagli ambienti colti, appartenenti alle élite, spesso liberali, anche se in un
senso molto ristretto del termine, che consegnano l’Italia al fascismo.
Questo è il ruolo storico di Croce: la stessa funzione è svolta in Germa­
nia da Spengler, Cari Schmitt e altri conservatori rivoluzionari, come
Arthur Moeller van den Bruck ed Ernst Jünger. Sono questi nemici dei
Lumi francesi, del razionalismo e dei valori universali, dell’eguaglianza e
dell’autonomia kantiana dell’individuo che hanno condotto le classi su­
periori tedesche alle soglie del Terzo Reich187188. Nello stesso periodo Spen­
gler diviene assai amato da quel vorace lettore che era Mussolini. Renzo
De Felice ha già dimostrato come il capo del fascismo italiano avesse co­
minciato ad avere una conoscenza diretta della sua opera già nella

187. B. Croce, Pagine sulla guerra, p. 66 («No, davvero, la Democrazia è il nulla! È


il gregge che guida il pastore, è il mondo alla rovescia, è il disordine, l’inanità
e l’imbecillità organizzati»). Si veda anche Zunino, «La faiblesse de la tradition
démocratique en Europe: le cas de l’Italie, 1920-1940», p. 239.
188. Fritz Stern, Dreams and Delusions, A. Knopf, New York 1987, pp. 156-157 e
164-165.

505
C risi di civiltà

seconda metà degli anni Venti. Nel 1928 Spengler e Mussolini scrivono
una doppia prefazione alla traduzione italiana di un saggio di un autore
tedesco le cui argomentazioni rientravano nella filosofia dell’autore del
Tramonto189. Si trattava di un argomento che stava a cuore ad ambedue:
la decadenza della razza bianca occidentale. Mussolini concorda con
Spengler sull’importanza che bisogna dare ai valori nella lotta contro la
decadenza. Fa agevolmente sua la concezione spengleriana del primato
della cultura, salvo per quel che riguarda le origini germaniche della cul­
tura occidentale. Di più, per combattere la decadenza causata dalla de­
mocrazia, Spengler simpatizza per la dittatura e per Mussolini che ne è
l’incarnazione e che lo affascina, così come affascina un Moeller van den
Bruck. Nel 1933 Mussolini fa tradurre Anni decisivi, opera degli ultimi
anni della vita di Spengler, quando l’autore del Tramonto critica il nazi­
smo. Il Duce dedica a questa opera un articolo elogiativo. Come Spen­
gler, egli concepisce il problema della salvaguardia dell’identità cultura­
le dell’uomo occidentale sul piano dell’intera razza bianca e, come lui, ci
tiene a distinguersi dalle concezioni razziali del nazismo190.
Solo quando il male era ormai compiuto questi fieri nemici dei Lumi
e della democrazia misero in atto una relativa dissidenza; e bisogna in­
tendersi bene sul termine «dissidenza». Il sacrificio accettato da Spengler
si riduceva a non poter pubblicare le sue riserve e le sue critiche, mentre
fùnger non ha esitato nemmeno per un momento a militare sotto il segno
della croce uncinata durante la campagna di Francia e nelle truppe di oc­
cupazione a Parigi. La dissidenza non è stata molto dura nemmeno per
Croce, comodamente sistemato nella propria casa, mentre Gramsci è sta­
to liberato solo per non farlo morire in prigione. Non c’è bisogno di dire
che la detenzione di Gramsci in durissime condizioni non suscita alcuna
reazione da parte di Croce. In tutti gli anni del fascismo, egli continua a
pubblicare la sua rivista La Critica e, separando la cultura dalla politica,
rende a Mussolini un servizio senza prezzo per il regime. Mentre Gram­
sci sta pagando con la libertà, e in pratica con la vita, la convinzione che

189. Il titolo dell’opera era Régression des naissances: mort des peuples, di R.
Korherr, il quale affermava che il decremento delle nascite era il segno manife­
sto del male che rodeva l’Occidente. Si veda il recente, ottimo lavoro di Didier
Musiedlak, Mussolini, Presses de Sciences-Po, Paris 2005, p. 261.
190. Musiedlak, Mussolini, pp. 262-267.

506
Crisi ai civiltà

una simile separazione comporti un tradimento della cultura, l’odio di


Croce per il comunismo è abbastanza profondo per rendergli il fascismo
tollerabile. Del resto il motivo del suo manifesto degli intellettuali antifa­
scisti sta più nel suo disaccordo con Gentile che in una volontà di resi­
stenza al fascismo. Un altro nemico della democrazia, uno dei più famo­
si esponenti della «rivoluzione conservatrice», Moeller van den Bruck,
che all’epoca di Weimar si uccide, tanto gli è insopportabile la degrada­
zione della Germania caduta nelle mani dei liberali e dei democratici, co­
stituisce per i nazisti un legittimo riferimento.
Certo, il più grande nemico che il pensiero illuminista abbia mai co­
nosciuto è senza dubbio Nietzsche. La sua grandiosa figura domina il
periodo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Ma, per il suo
violento antinazionalismo, per il suo intenso anti-antisemitismo, per il
suo indefettibile cosmopolitismo, per il suo individualismo aristocratico,
per la sua francofilia, Nietzsche occupa un posto a parte. Egli contribui­
sce ad alimentare la rivolta contro i diritti dell’uomo, il liberalismo e la
democrazia, fornisce il sigillo del genio all’antirazionalismo e all’antiuni-
versalismo e nessuno ha fatto più di lui per volgere in derisione la prete­
sa all’eguaglianza. Egli è, al contrario di come spesso lo si presenta, un
pensatore politico assai cosciente del significato della propria opera.
Tuttavia questo aristocratico del pensiero non scende in piazza. La cam­
pagna politica sul terreno verrà condotta dagli uomini che si assumeran­
no il compito di tradurre in termini di politica di massa il lavoro di
Nietzsche come quello della generazione precedente. Essi si faranno
consapevolmente pubblicisti, semplificatori e volgarizzatori.
Come tutta la sua generazione, Spengler testimonia l’influenza del­
l’autore di Zarathustra, e cronologicamente viene subito dopo Sorel, an­
ch’egli intriso di Nietzsche. Egli aveva pensato la sua opera prima della
guerra, ma la disfatta tedesca aveva fatto sì che il primo volume de II tra­
monto dell'Occidente, uscito nell’aprile del 1918, divenisse un enorme suc­
cesso tra il pubblico come tra la comunità intellettuale, almeno nel senso
che aprì un dibattito al quale parteciparono i più grandi nomi della G er­
mania del tempo, compresi Troeltsch e Meinecke. Senza riconoscerlo
esplicitamente, i due grandi sacerdoti dello storicismo hanno subito una
profonda influenza spengleriana. Le critiche sono perlopiù negative: la de­
bolezza dell’opera, gli errori di cui è piena risultano chiari fin dal suo ap­
parire, senza però nuocere al suo carattere di best seller. Allo stesso tempo

507

i
C risi di civiltà

la critica risulta molto spesso disarmata sia per la visione grandiosa della
storia universale che l’opera offre sia perché essa viene vista come una pro­
fezia del tramonto o della morte dell’Occidente. Qui conviene ricordare
ciò che lo stesso Spengler definiva un malinteso: l’opera era stata prodot­
ta nella prospettiva di una vittoria tedesca. Il rimprovero di pessimismo
colpisce profondamente Spengler: reagisce nel 1921 sottolineando, in un
articolo intitolato appunto «Pessimismo», l’azione che il suo pensiero de­
ve ispirare. Già nel 1919 aveva pubblicato il saggio politico Prussianesimo
e socialismo, che doveva ispirare tutti i diversi socialismi nazionali e che
mostrava bene come ciò che gli interessava, più che il tramonto dell’Occi­
dente, fosse la sorte della Germania19'. In questo pamphlet egli propone
per il proprio paese un socialismo prussiano, antimarxista, un «socialismo
etico», negazione del liberalismo come della Rivoluzione sovietica19192.
Le sole filiazioni che Spengler riconosce sono quelle di Nietzsche e di
Goethe, soprattutto dell’autore del Wilhelm Meister, tuttavia egli è anche
un fedele discepolo di Vico, di Herder e di Burke, cosa che non ricono­
sce. Gli ultimi due sono citati solo una volta, Vico è del tutto assente. Vi­
co aveva già visto che la storia non è una, che è fatta di popoli che attra­
versano, indipendentemente gli uni dagli altri, un ciclo completo. L’idea
di fasi organiche di ascesa e declino è sua, così come quella secondo cui
la storia non è un processo continuo. Quando un popolo ha attraversato
il ciclo di ascesa e declino, un altro popolo entra nel ciclo culturale e svi­
luppa la propria fisionomia. Ma Vico, come Herder, è ancora cristiano.
L’abbandono della dimensione cristiana nel rifiuto dei Lumi avviene nel­
la seconda metà del X IX secolo. Che Vico ed Herder non siano presenti
nel bagaglio culturale di Spengler, il quale va a cercare fino in Cina pensa­
tori e uomini di Stato che il lettore europeo, al di fuori di una piccola cer­
chia di eruditi, non ha mai sentito nominare, non è né naturale né logico,
e si può spiegare solo con la volontà di ridimensionare quanto più possi­
bile il cristianesimo senza dovergli sostituire l’universalismo dei Lumi.

191. Gilbert Merlio, Oswald Spengler, témoin de son temps, Akademischer Verlag
Hans-Dieter Heinz, Stuttgart 1982,1.1, pp. 2-5. L’opera di Gilbert Merlio, sen­
za dubbio una delle migliori nella bibliografia spengleriana in tutte le lingue,
meriterebbe una riedizione da parte di una casa editrice francese.
192. Spengler, Preussentum und Sozialismus, O. Beck, München 1921 [Prussianesi­
mo e socialismo, trad. di C. Sandrelli, Edizioni di AR, Brindisi 1994].

508
C risi di civiltà

Herder è citato nell’introduzione, dove è rimproverato insieme con


Kant ed Hegel per avere accettato lo schema tradizionale - antichità,
Medioevo ed età moderna - in base al quale «semplicemente si era iden­
tificato lo spirito dell’Occidente, quale si rifletteva nella mente di un da­
to individuo, con il senso del mondo»193. I tre più importanti filosofi te­
deschi fino a Nietzsche sono spazzati via con un gesto della mano: Her­
der, che chiamava la storia un’educazione del genere umano, Kant, per
il quale era uno sviluppo dell’idea di libertà, Hegel, per il quale era una
autorealizzazione dello spirito universale, pensavano di avere molto ri­
flettuto sulla forma fondamentale della storia. Secondo Spengler non è
affatto così194. Quanto a Burke, è nominato solo alla fine per illustrare le
virtù della politica realistica contro l’infatuazione per idee astratte195. In
realtà la concezione complessiva de II tramonto dell’Occidente, come il
suo contesto generale, devono molto a Herder e in una certa misura an­
che a Burke. La preoccupazione per la sovranità culturale e soprattutto
l’idea che il declino della civiltà occidentale risalga aU’Illuminismo fran­
cese appartengono all’eredità del pastore di Weimar. Spengler ha radi-
calizzato questa eredità, ma non l’ha inventata lui.
In pratica per Herder la civiltà europea è stata fondata, lo si è visto, dai
germani delle grandi invasioni. E stato lui il primo a opporre le facoltà
creatrici dei germani alla decadenza francese. Alla fine del Settecento,

193. Oswald Spengler, Il tramonto dell’Occidente. Lineamenti di una morfologia del­


la Storia mondiale, voi. I: Forma e realtà, voi. II: Prospettive della storia mondia­
le, trad. di Julius Evola, Longanesi, Milano 1957. Per il testo citato, voi. I, pp.
56-57. Bisogna rammaricarsi che la traduzione francese degli anni Trenta, tut­
tora eccellente, sia stata ripubblicata senza apparato critico e senza indice (Le
Dèclin de l’Occident: esquisse d’une morphologie de l’histoire universelle, voi. I:
Forme et réalité, voi. II: Perspectives de l'histoire universelle, trad. di M. Taze-
rout, Gallimard, Paris 2000). È ora disponibile una nuova edizione tedesca: Der
Untergang des Abendlandes: Umrisse einer Morphologie der Weltgeschichte,
Deutscher Taschenbuch, Miinchen 2000. Due altre opere di Spengler sono sta­
te tradotte in francese con una prefazione di Alain de Benoist, ambedue presso
Copernic, nel 1980, nel quadro del grande sforzo effettuato dalla nuova destra
per darsi una solida armatura intellettuale: Écrits historiques et philosophiques e
Années décisives. E questo lo Spengler che Benoist preferisce fare conoscere.
194. Spengler, Il tramonto dell'Occidente, voi. I, p. 57.
195. lbid., voi. Il, p. 1278. È Burke, dice Spengler, che afferma contro Mirabeau: «Noi esi­
giamo le nostre libertà non al titolo di diritti dell’uomo bensì di diritti degli inglesi».

509
C risi di civiltà

mentre la Francia, rósa dai Lumi razionalisti, e l’Inghilterra postshakespea­


riana sono ormai sulla strada della decadenza, 0 monopolio della creatività
intellettuale si sposta verso la Germania, nazione giovane e protagonista
dell’avvenire. La rivolta di Herder e di Burke contro il razionalismo, già
esplosa alla svolta del X IX secolo, trova qui l’apogeo insieme con le ten­
denze nazionaliste. Spengler non è un nazionalista cieco, come non lo era­
no stati Herder e Burke, e l’Occidente non è esplicitamente identificato con
la Germania, ma le fonti della «cultura alta» occidentale sono nordiche.
Come Herder, Spengler è una figura molto ambigua. Conduce una
lotta a oltranza contro la Repubblica di Weimar, ma nel luglio del 1933 fa
uscire Anni decisivi, un altro best seller: la volgarità nazista, come il pri­
mitivo razzismo degli hitleriani, gli ripugna. Il suo cammino politico asso­
miglia un po’ a quello di Croce: nemico dei Lumi e della democrazia, Cro­
ce, dopo avere sostenuto il regime mussoliniano nei primi anni della sua
esistenza, in seguito si considera il leader dell’opposizione intellettuale al
fascismo. Ma, mentre Spengler, condannato al silenzio, muore nel 1936
senza avere potuto fare leggere ai compatrioti le sue riflessioni critiche nei
confronti del nuovo regime, Croce gode di una relativa libertà e dopo la
caduta di Mussolini elabora la teoria del fascismo come parentesi: il fasci­
smo non sarebbe effettivamente appartenuto alla storia nazionale. Tale
teoria, in auge durante tutto il dopoguerra, aveva anche il grande vantag­
gio di mettere tra parentesi gli anni «fascistizzanti» dello stesso Croce.
Spengler è pensatore ambivalente anche per il suo modo di scrivere.
Il tramonto dell’Occidente attira per la sua qualità letteraria e per la straor­
dinaria miscela di considerazioni filosofiche e di osservazioni da pubblici­
sta, per una non comune capacità di cogliere la storia a volo d’uccello e di
mescolarvi trivialità giornalistiche. Spengler colpisce in questo modo l’im­
maginazione, dà al lettore la sensazione di associarlo a favolose scoperte
e, facendo sentire la gravità dell’ora, esprime le preoccupazioni dell’uomo
della strada. Il suo libro si può anche leggere come una curiosità, ma ciò
che conta è che al momento della pubblicazione esso risponde a un biso­
gno. Il suo immenso successo ne è la prova. Inoltre Spengler mette spes­
so a fuoco verità importanti, per esempio quando dice che «un problema
politico non può essere compreso partendo dalla politica stessa»196. Ma

196. Ibid., voi. I, p. 102.

510
C risi di civiltà

Spengler colpisce dawero l’immaginazione quando espone la propria vi­


sione globale della storia. Il grande successo del Tramonto si spiega sia per
il momento della sua apparizione in una Germania umiliata come mai lo
era stata dopo Napoleone, sia per il fatto che, nell’essenziale, esso ripren­
de un certo numero di idee chiave con le quali il lettore europeo colto, so­
prattutto tedesco, aveva già familiarità. Che il suo metodo scientifico pos­
sa sembrare dubbio, che susciti il sorriso degli esperti, che Spengler si sia
permesso di scrivere come se Vico o Herder non fossero mai esistiti, che
guardi Kant ed Hegel dall’alto in basso e si degni di riconoscere un debi­
to, comunque modesto, solo verso Nietzsche, che sia servito soprattutto
per connettere idee e per catalizzarle, non cambia la questione. Poteva an­
che non conoscere l’esistenza di Danilevsky1” ma non è possibile che*lo

197. Il manifesto del panslavismo di N.J. Danilevsky (1822-1885), molto diffuso in


Europa orientale e molto citato dagli specialisti del nazionalismo, non è stato
mai tradotto in italiano né in francese. La traduzione tedesca appare solo nel
1920, quando il successo del primo volume del Tramonto aveva attestato l’inte­
resse del lettore tedesco per tali questioni: Russland und Europe. Eine Untersu­
chung über die kulturellen und politischen Beziehungen der slavischen zur ger­
manisch-romanischen Welt, bersetzt und eingeleitet von Karl Notzel, Deutsche
Verlag-Anstalt, Stuttgart 1920. In francese esiste solo un riassunto, con citazio­
ni dirette, pubblicato a Bucarest nel 1890. quando l’influenza dell’opera, che
aveva appena raggiunto la sua quarta edizione, cominciava a farsi sentire. E so­
lo nel 1888, con la terza edizione esaurita in qualche mese, che il lavoro di D a­
nilevsky, espressione di un rigido antioccidentalismo, raggiunge il grande pub­
blico, nello stesso momento in cui le opere degli autori nazionalisti francesi e te­
deschi diventano dei best seller. Risulta evidente che questa edizione fatta in Ro­
mania ha come scopo di mettere in guardia i paesi dell’Europa occidentale, in
primo luogo la Francia, contro il pericolo russo. Si veda ha doctrine panslaviste
d’après N.j. Danilevski (La Russie et ¡'Europe. Coup d’oeil sur les rapports politi­
ques entre le monde slave et le monde germano-roman, 4‘ ed. [russa], Saint-Pé-
tersburg 1889) résumé par J.J. Skupiewski, Bureaux de la «Liberté roumaine»,
Bucarest 1890. Danilevsky conosce oggi una spettacolare rinascita e dopo la ca­
duta del comuniSmo la sua opera è stata ripubblicata diverse volte a Mosca. Non
c’è dubbio che l’idea dell’impermeabilità dei diversi tipi di cultura o, in altri ter­
mini, l’accento posto su ciò che separava gli uomini e non su quello che era lo­
ro comune si diffondeva ovunque, senza che sia sempre possibile stabilire un
chiaro legame tra tutti questi fenomeni. Tuttavia il concetto delle specificità cul­
turali o, nel linguaggio di Danilevsky, «dei diversi tipi di civiltà» (p. 46, citazio­
ne diretta), era indiscutibilmente un concetto herderiano. Altrettanto vale per

511
C risi di civiltà

abbia ignorato tutto di Herder e della cospicua bibliografia herderiana


che già ai suoi tempi si era accumulata. L’idea secondo la quale l’occiden-

l’attacco contro l’eurocentrismo e per la celebre slavofilia herderiana, che si ri­


trovano nell’autore russo ma in maniera fortemente radicalizzata. Herder vede­
va l’avvenire appartenere agli slavi: Danilevsky coglie la palla al balzo e indica
questo mondo non europeo come protagonista dell’avvenire. E legge della sto­
ria che «le società invecchiate, che hanno vissuto, che hanno adempiuto la loro
missione, dovranno abbandonare la scena storica. [...] Tutto ciò che vive, indi­
viduo, specie, genere o tipo biologico, possiede solo una certa somma di per­
corsi e quando li ha compiuti deve morire» (p. 49, citazione diretta). Danilev­
sky, non bisogna prendere un abbaglio, benché scriva dieci anni dopo L’origine
delle specie, non è un darwinista né un evoluzionista. Ma per affermare che l’u­
manità si presenta solo sotto forma di razze particolari che costituiscono tipi di
civiltà, proprio come in zoologia e in botanica il genere altro non è che un’idea
astratta che si manifesta solo con la specie, non bisognava necessariamente es­
sere darwinisti (pp. 61-62). Di sicuro c’era qui un’idea del cammino dell’uma­
nità che si innestava agevolmente sull’eredità herderiana. Danilevsky intende in­
trodurre in storia, copiando la storia naturale, la distinzione tra il grado di svi­
luppo e il tipo di sviluppo. Ogni tipo culturale passa per una fase di giovinezza,
di maturità, di vecchiaia e di agonia. Nella storia dell’umanità egli distingue die­
ci tipi di civiltà, dei quali il primo è quello egiziano e il decimo quello romano­
germanico. Ogni particolare tipo di civiltà si distingue per una lingua comune o
un gruppo di lingue molto simili e appartiene a una razza o a una «famiglia».
Ma affinché la civiltà specifica di ogni particolare tipo di civiltà possa nascere e
svilupparsi, è necessario che i popoli in essa compresi realizzino l’indipendenza
politica. I principi di un particolare tipo di civiltà non possono servire allo svi­
luppo di un altro tipo. Infine lo sviluppo di una civiltà assomiglia molto a quel­
lo di certe piante il cui periodo di crescita è infinitamente lungo, ma il cui svi­
luppo e maturità del frutto durano molto poco ed esauriscono per sempre la
forza vitale dell’organismo (pp. 56-59).
Qui Danilevsky pone le basi di due idee che saranno altrettanti pilastri del pen­
siero di Spengler: per prima cosa l’idea secondo la quale nessun tipo storico­
culturale può adottare la civiltà di un altro tipo; poi l’assurdità secondo la qua­
le «lo sviluppo e il progresso sarebbero infiniti» (p. 59). Ne conseguono due
conclusioni immediate: ogni tentativo di europeizzazione della Russia significa
la distruzione della specificità russa e deve essere respinto con la massima ener­
gia. Bisogna guarire la Russia dalla sua attrazione per l’Europa, anche attraver­
so riforme come quelle di Alessandro II. E giunto il tempo per lo slaviSmo di
comparire sulla scena storica come un particolare tipo di civiltà e di preserva­
re il suo genio peculiare. Nella pratica, bisogna impedire che la Russia sia toc­
cata dall’individualismo e dal materialismo europei, a causa della molteplice

512
C risi di civiltà

talizzazione della Russia, proprio come la francesizzazione della Germa­


nia, fa violenza all’anima nazionale è un’idea herderiana. E riprendendo
le idee principali della critica antilluminista herderiana che Spengler ac­
quisisce di colpo una statura che fa della sua opera il simbolo del suo tem­
po. Nel primo paragrafo dell’introduzione al Tramonto, Spengler defini­
sce i propri obiettivi: «In questo libro vien tentata per la prima volta una
prognosi della storia. Ci si è proposti di predire il destino di una civiltà e,
propriamente, dell’unica civiltà che oggi stia realizzandosi sul nostro pia­
neta, la civiltà euro-occidentale e americana, nei suoi stadi futuri»198. L’ul­
timo paragrafo fissa i due aspetti o i due grandi perni del suo pensiero: in
primo luogo, il suo «scopo è lo sviluppo di una filosofia della storia mon­
diale e di un corrispondente metodo di morfologia comparata»199. Allo
stesso tempo la sua opera ha un «tema ristretto» consistente in «un’anali­
si del tramonto della civiltà euro-occidentale oggi diffusasi su tutta la ter­
ra». Tale analisi «cerca di trarre, dalla prassi storica dell’umanità superio­
re la quintessenza dell’esperienza storica, quintessenza che ci darà la base
necessaria per dirigere i processi che daranno forma al nostro futuro»200.

violenza che da sempre caratterizza quella civiltà individualista: lo sforzo per


imporre l’universalità della Chiesa occidentale col fuoco e col sangue tramite le
crociate, per imporre il colonialismo e la rivoluzione come mezzi di riforme so­
ciali. Invece lo slaviSmo è il contrario dell’Europa: è antindividualista, incline
alla comunità e di tendenze pacifiche. Unica triste eccezione, non c’era da du­
bitarne, la Polonia (pp. 66-69).
Danilevsky aveva anche sviluppato una visione della storia universale che
Spengler doveva riprendere e che si contrapponeva alla storiografia europea:
«In realtà Roma, la Grecia, le Indie, l’Egitto, la Cina e tutti gli altri popoli han­
no avuto la loro storia antica, il loro Medioevo e il loro evo moderno» (citazio­
ne diretta, p. 52).
Giunge infine la domanda essenziale: «L’Occidente sta imputridendo?» (p. 65).
Danilevsky, secondo Skupiewski, non dà una risposta netta, ma è difficile in­
gannarsi sul senso del suo pensiero. In pratica la civiltà europea ha già dato i
suoi frutti, per cui il suo periodo di declino non dovrebbe tardare, così come ||
l’avvicendamento slavo che è già pronto (pp. 65-66). L’avvicendamento com­
porta anche che lo slaviSmo, prima di apparire sulla scena storica, dovrà in­
gaggiare con l’Europa uno scontro decisivo (p. 109).
198. Spengler, Il tramonto dell’Occidente, voi. I, p. 33.
199. Ibid., p. 107.
200. Ibid.

513
C risi di civiltà

Spengler si pone la domanda «in che forma il destino della civiltà occi­
dentale si compirà nel futuro»201 e a questo scopo promette di cimentarsi
con la questione «che cosa è una civiltà»202. Questo è il punto chiave che
si pone davanti a noi «se si vuole davvero capire la grande crisi dell’èra
presente», problema che bisogna scrutare «da un’altezza atemporale, lo
sguardo rivolto al mondo storico delle forme di millenni»203.
Nel corso di tutta la sua introduzione Spengler sviluppa un relativi­
smo radicalizzato, che va al di là di quanto pensava Herder, ancora cri­
stiano, ma che si innalza su fondamenta e con materie prime fornite dal­
l’autore di Ancora una filosofia della storia. «Perché, dal punto di vista
morfologico, il XVIII secolo dovrebbe essere più importante degli altri
sessanta secoli che Io precedettero?» Ma il problema è più vasto: «Non
è ridicolo contrapporre un’“èra moderna”, abbracciarne pochi secoli e
per di più localizzata essenzialmente nella sola Europa occidentale, a
un’“èra antica” che comprende invece millenni, nella quale si fa rientra­
re come una semplice appendice, senza nessuna distinzione approfondi­
ta, la massa di tutte le civiltà preelleniche?»204 Come Herder, Spengler è
convinto che «in realtà qui parla solo, non mitigata da alcuna scepsi, la
vanità dell’uomo euro-occidentale»20’ . Certo, è ovvio che l’esistenza di
Atene, di Firenze o di Parigi è più importante per la cultura occidentale
di «quella di Lo-yang e di Patalipùtra», ma nessuno ha il diritto di fon­
dare «su questi giudizi di valore uno schema di storia universale». Allo­
ra lo storico cinese avrebbe tutto il diritto di tracciare una sua storia uni­
versale nella quale le Crociate e il Rinascimento, Cesare e Federico il
Grande siano passati sotto silenzio come dettagli irrilevanti206. Conviene
quindi mettere fine alla collocazione privilegiata dell’Occidente di fron­
te all’India, alla Cina, all’Egitto, o di fronte alla cultura araba e messica­
na, conviene liberarsi da questo schema occidentale, che Spengler chia­
ma il « sistema tolemaico», «nel quale tante grandi civiltà gravitano intor­
no a noi, quasi che fossimo il centro di ogni avvenimento mondiale»:

201. lbid.
202. Ibid., p. 34.
203. lbid., p. 81.
204. lbid., p. 54 (corsivo nel testo).
205. lbid., p. 53.
206. lbid., pp. 53-54.

514
C risi di civiltà

parla quindi della sua idea come di una « scoperta copernicana»101. In


realtà non si tratta tanto di una rivoluzione quanto di una applicazio­
ne dello storicismo herderiano, radicalizzato tramite le scienze biologi­
che, alle realtà del X X secolo. Il pluralismo delle culture appartiene al
XVIII secolo, ma né Voltaire, né Montesquieu, né il pastore Herder,
per quanto antirazionalista fosse, avevano messo in discussione l’unità
dello spirito umano. Si è dovuto attendere la fine dell’Ottocento, con
l’impulso del darwinismo sociale, per compiere un passo decisivo: il si­
stema spengleriano, dice Merlio, rinserra la storia umana in rigide pa­
stoie biologiche207208.
È così che, al posto di una storia universale di tipo lineare, «io vedo»,
dice in questo brano in cui si manifesta l’essenziale della sua filosofia del­
la storia, «una molteplicità di civiltà possenti [...], civiltà che hanno cia­
scuna una propria idea e delle proprie passioni, una propria vita, un proprio
volere e sentire, una propria morte. [...] Vi è una giovinezza e una senilità
nelle civiltà, nei popoli, nelle lingue, nelle verità, negli dei, nei paesaggi -
come vi sono querce e pini, fiori, rami, e foglie giovani e vecchie: mentre
una “umanità” al singolare che via via s’invecchi, non esiste. Ogni civiltà
ha proprie, originali possibilità di espressione che germinano, si matura­
no, declinano e poi irrimediabilmente scompaiono. [...] Queste civiltà,
organismi viventi d’ordine superiore, crescono in una magnifica assenza
di fini, come i fiori dei campi. [...] Nella storia mondiale io vedo un eter­
no formarsi e disfarsi, un meraviglioso apparire e scomparire di forme or­
ganiche»209. Si afferma in questo modo l’organicismo spengleriano: plura­
lismo e organicismo diventano due aspetti della stessa evoluzione.
La storia universale non è quella di un’umanità che va verso una pie­
nezza dei tempi: Essa è costituita da una serie di «culture alte» sorte in
momenti e luoghi diversi. Queste culture si succedono senza prolungar­
si le une nelle altre: tra loro non c’è alcuna filiazione, alcun prestito pos­
sibile. Ognuna fa nascere un proprio tipo di umanità, che scompare
quando la cultura muore. Nessuna rinascita è possibile. Ogni cultura è
l’emanazione di una certa «anima», parla un linguaggio simbolico ed

207. Ibid., p. 54 (corsivo nel testo).


208. Merlio, Oswald Spengler, voi. I, p. 29.
209. Spengler, Il tramonto dell’Occidente, voi. I, pp. 60-61.

515
C risi di civiltà

esprime un archetipo, un Ursymbol, che le conferisce la sua originalità.


Ogni cultura è un organismo il cui sviluppo segue le fasi biologiche con­
suete: gioventù (primavera), maturità (estate), vecchiaia (autunno) e mor­
te (inverno). L’inverno delle culture, l’età di decadenza, è ciò che Spengler
chiama civilizzazione. I cicli culturali si sviluppano esattamente come
quelli delle stagioni, con lo stesso andamento. La morfologia storica di
Spengler consiste nello svelare la natura originale dell’anima di questa o
quella cultura, poi a comparare le manifestazioni di questa «anima cultu­
rale» in una determinata epoca alle manifestazioni di un’altra anima giun­
ta allo stesso stadio dell’evoluzione ciclica. Infine per Spengler, come mo­
stra Merlio nella sua opera importante sotto ogni aspetto, la storia non è
una scienza: l’anima delle diverse culture è accessibile solo all’intuizione210.
Nell’essenziale ciò era stato già detto ai tempi di Herder. Si è già vi­
sta la natura della rivolta herderiana contro ciò che egli concepiva come
storia eurocentrista, lineare, una marcia continua verso il progresso, il
cui maggiore responsabile sarebbe stato Voltaire. Si è visto anche come
questa visione semplicista del pensiero illuminista poteva essere consi­
derata del tutto falsa, frutto di una costruzione che Herder ha creato di
sana piana per combattere il razionalismo. Spengler porta avanti, radi-
calizzandola, questa linea di pensiero, così come sviluppa l’idea di una
storia universale e non nazionale. Ma, a dire il vero, l’idea di una storia
universale non è forse di Voltaire? Non è forse l’autore dell’Essai sur les
mœurs che ha concepito la storiografia in termini di cultura? Gli Illumi­
nisti avevano certo questo senso della pluralità delle culture, tuttavia sal­
vaguardavano l’unità del genere umano. Gli uomini dovevano essere col­
ti nel loro contesto storico, ma l’umanità era una, l’uomo un individuo
razionale e le sue debolezze erano un prodotto dell’ambiente e non della
sua natura. L’idea per la quale non esistono gerarchie tra le società né

210. Cfr. Merlio, OswaldSpengler, voi. I, pp. 39-40. Più avanti Merlio ricorda che la
critica della civilizzazione in Spengler si basa sulla contrapposizione tra cultu­
ra e civilizzazione. Questa contrapposizione assai diffusa in Germania non è
stata inventata da Spengler, ma l’autore del Tramonto dell’Occidente trasforma
due aspetti sincronici di una stessa società in due fasi necessarie e successive
delle «culture alte»: «ogni civiltà ha una sua propria civilizzazione». Per lui si
tratta di «una successione organica rigorosa e necessaria. La civilizzazione è l’i­
nevitabile destino di una civiltà» (pp. 263-264).

516
C risi di civiltà

l’europeo ha ragione di ritenersi superiore agli altri abitanti del pianeta,


non è stata creata nella seconda metà del Novecento. Il Settecento fran­
cese conosce l’esistenza di individualità culturali distinte, ma Voltaire e
Montesquieu pensano che una gerarchia esista e che sia una gerarchia di
valori: una società in cui infuria l’assolutismo è inferiore a una in cui è
garantita la libertà individuale. Rousseau o Helvétius vedono in una
sproporzionata diversità di fortune un male al quale conviene porre ri­
medio e non una condizione sociale come le altre.
Ma nella visione di Spengler questa pluralità infinita è proprio ciò che
il pensatore dell’Occidente, in altri termini il razionalista, non capisce.
L’Europa non è più il sole attorno al quale girano tutti gli altri astri. Kant
rappresenta chiaramente l’esempio classico. Quando Platone parla di
umanità, dice l’autore del Tramonto, intende gli elleni opposti ai barbari.
Ma quando Kant parla di ideali etici, cade nel peccato capitale: «Egli af­
ferma la validità dei suoi princìpi per gli uomini di ogni specie e di ogni
tempo»211. E lo stesso per quanto riguarda i suoi criteri estetici: «Quanto
alle forme necessarie del pensare, si riferisce soltanto a quelle necessarie
per il pensiero occidentale»212. Per il cinese moderno o per l’arabo la filo­
sofia di Kant è solo una curiosità. Per il pensiero russo le categorie occi­
dentali sono estranee quanto lo sono alle categorie del pensiero cinese o
greco. Del resto, per gli occidentali la comprensione delle parole antiche
risulta impossibile quanto quella delle parole russe e indiane21*.
E in questo che sta la debolezza dell’Occidente: una totale mancan­
za di comprensione della «relatività storica» delle sue categorie. L’uomo
occidentale si rifiuta di accettare l’idea che tali categorie siano l’espres­
sione « di un essere particolare e soltanto di esso», non vuole riconoscere
«la consapevolezza dei limiti della loro validità», rifiuta di rendersi con­
to che «le sue “verità immutabili” e le sue “intuizioni eterne” sono vere
solo per lui ed eterne solo nella sua prospettiva del mondo», e che «sa­
rebbe suo dovere cercare, di là da esse, quelle che l’uomo di altre civiltà
ha riconosciute con ugual senso di evidenza»214. Ne consegue ovviamente

211. Spengler, Il tramonto dell’Occidente, voi. I, p. 77.


212. Ibid., p. 62.
213. Ibid., p. 63.
214. Ibid. (in corsivo e tra virgolette nel testo. «Validità» traduce il termine Gül­
tigkeit).

517
C risi di civiltà

che non esiste niente di «costante e universale» e che non si deve più
parlare «di forme del pensiero al singolare, del principio della tragicità
al singolare, del compito dello Stato al singolare. La validità universale
poggia su false inferenze da sé agli altri»215.
Dopo la critica al pensiero occidentale tramite Kant, giunge la criti­
ca a Nietzsche. Certo, Nietzsche «già aveva avuto fra le mani tutti i pro­
blemi più decisivi», ma «come romantico» non ha osato «fissare a nudo
la severa realtà216». Uno dei suoi meriti più grandi è «di avere posto il
problema del valore della realtà»,217 dice Spengler all’inizio del primo vo­
lume del Tramonto, per proseguire parecchie pagine dopo: «Resterà
sempre un grande merito di Nietzsche l’aver indicato [...] [la] doppia
natura di ogni morale. [...] Buono e cattivo sono distinzioni del nobile,
buono e malvagio sono distinzioni del sacerdote. [...] I buoni sono i po­
tenti, i ricchi, i felici [...]. Cattivi, vili, miserabili, infelici sono, nel senso
originario di tale termine, gli impotenti, i poveri, i falliti, gli imbelli, i pic­
coli esseri, i figli di nessuno»218.
Nietzsche ha saputo andare ben oltre Descartes, poiché se l’auto­
re del Discours de la méthode intendeva dubitare di tutto, non inten­
deva dubitare del valore del suo problema; ma porre un problema, di­
ce Spengler, non vuol dire risolverlo. Egli vuole mostrare anche che il
male non è circoscritto al razionalismo e all’universalismo dei Lumi,
ma che questo difetto è strutturale e si manifesta in ugual misura in
quell’antikantiano per eccellenza che è Nietzsche. In effetti, qual è
« l’orizzonte storico di Nietzsche»? chiede Spengler. Su quali basi po­
sano esattamente «i suoi concetti», coi quali del resto l’autore del Tra­
monto si identifica senza riserve, «di decadenza, di nihilismo, di revi­
sione di tutti i valori, di volontà di potenza», se non sui greci e sui ro­
mani, sul Rinascimento e sull’Europa contemporanea? Anche Nietz­
sche è prigioniero della periodizzazione europea occidentale dell’anti­
chità, del Medioevo e dell’epoca moderna. L’orizzonte intellettuale di
Schopenhauer, Comte, Feuerbach non è certo più vasto. La celebre

215. Ibid. (corsivo nel testo).


216. Ibid., pp. 104-105.
217. Ibid., voi. II, p. 689 (corsivo nel testo).
218. Ibid., pp. 1181-1182 {corsivo nel testo). Spengler rimanda, cosa rarissima, al
paragrafo 260 di A l di là del bene e del male.

518
C risi di civiltà

Nora di Ibsen non è altro che una grande borghese nordica di educa­
zione protestante219.
In pratica Spengler accusa Nietzsche di essere stato, «in tutto e per
tutto [...] un discepolo dei decenni del materialismo»220. Lo stessa cosa
si può dire di Schopenhauer, il cui «sistema è un 'anticipazione del
darwinismo»121. Infatti Spengler pone tutto il X IX secolo sotto il segno
di Darwin e del darwinismo come lo intende lui: l’evoluzione è guidata
dalla selezione naturale e dalla legge del più forte. Secondo lui Nietz­
sche è stato un «discepolo inconsapevole di Darwin»,222 ma dimentica
di precisare che l’autore di Nietzsche contra Wagner è anche l’autore, nel
Crepuscolo degli idoli, di un «anti-Darwin». Probabilmente lo sa, visto
che prende la precauzione di fare appello all’inconscio di Nietzsche. Ma
Nietzsche è anche discepolo di Marx: «Tale è la genealogia della “mo­
rale dei signori”. [...] La “volontà di potenza”» è rappresentata oggi
«dai due poli della vita pubblica odierna, dalla classe operaia e dai gran­
di uomini del denaro e deirintelligenza»22’. Nietzsche era socialista
«senza saperlo»,224 afferma con forza Spengler, procedendo chiaramen­
te sulle orme di Sorel, anch’esso discepolo di Nietzsche. «La “morale da
schiavi” nietzschiana è un fantasma. La sua morale aristocratica è invece
una realtà.»225 Questa realtà è rappresentata al momento tanto dagli uo­
mini d’affari che creano l’avvenire - i capitani d’industria di Sorel - che
dal socialismo.
E molto importante riconoscere in quale misura Spengler segua So­
rel, che lo precede di una buona decina d’anni. Come in Sorel la rivolta
spengleriana contro lTlluminismo sfocia nel culto dei simboli ed è nutri­
ta non solo dagli stessi riflessi antirazionalisti e antiuniversalisti, ma an­
che da una medesima interpretazione di Marx. L’idea di lotta di classe
copre, secondo Spengler, una pura e semplice volontà di potenza e di
dominio. Marx pone il problema delle relazioni sociali in termini di po-

219. Ihid., voi. I, pp. 64-65.


220. Ibid., p. 575.
221. Ibid., p. 577 (corsivo nel testo).
222. Ibid., p. 580.
223. Ibid., p. 581.
224. Ibid., p. 579.
225. Ibid., p. 544 (tra virgolette e in corsivo nel testo).

519
C risi di civiltà

tere: intende dimostrare che il proletariato può e deve a sua volta diven­
tare il più forte. Ha contribuito quanto Darwin alla genealogia della mo­
rale dei padroni. In verità Spengler riprende l’essenziale dell’argomenta­
zione di Sorel. Effettivamente si trova in Sorel, anch’egli assiduo lettore
di Nietzsche, il medesimo disprezzo per i Lumi, per l’idea di progresso,
per i valori liberali mascherati dall’infamia della «morale borghese», per
il «materialismo», per l’umanitarismo, per il parlamentarismo, per l’elet­
toralismo e per i partiti politici: insomma per tutto ciò che, da vicino o
da lontano, sia attinente o somigli alla democrazia e al socialismo demo­
cratico. Al centro del pensiero di Sorel si collocano le idee di mito e di
violenza creatrice di morale. La violenza proletaria distruggerà la marcia
democrazia borghese e il socialismo corrotto, suo alleato nella subalter­
nità ai valori dei Lumi.
Spengler si considera un rivoluzionario, il primo a poter davvero
aspirare al titolo di inventore della storia universale. Di sicuro, un seco­
lo dopo Herder, Spengler ha una libertà di manovra che quello non pos­
sedeva. In più, non avendo niente di cristiano, meglio di Herder si può
permettere di affermare che tutto ciò che «in Occidente è stato finora
detto e pensato sui problemi dello spazio, del tempo, del movimento, del
numero, della volontà, del matrimonio, della proprietà, della tragedia,
della scienza rappresenta qualcosa di ristretto e dubbio, perché sempre
si è mirato a un 'unica soluzione, invece di riconoscere che vi sono tante
risposte quanti sono coloro che pongono le domande»226. Da ciò discen­
de la conclusione fondamentale, che era già stata di Herder, che Maur-
ras e Barrès avevano ripreso e usato durante l’affare Dreyfus senza in­
tuire di compiere una rivoluzione, cioè che «per altri uomini vi sono al­
tre verità. E per il pensatore o sono tutte valide, oppure nessuna di esse
lo è»227. Circa trecento pagine dopo egli ribadisce la cosa in modo tale
che nessun malinteso è più possibile e la soluzione «di antiche difficoltà»
è ormai alla portata di tutti: «Vi sono tante morali quante civiltà, né più
né meno. A tal riguardo non esiste una libera scelta. [...] Il singolo indi­
viduo può agire in modo morale o immorale, “buono” o “cattivo”,
seguendo il sentimento primordiale della sua civiltà, ma la teoria del suo

226. Ibid., p. 65 (corsivo nel testo).


227. Ibid., p. 66.

520
C risi di civiltà

agire è assolutamente data. A tal riguardo, ogni civiltà ha una sua pro­
pria misura, la cui validità comincia e finisce con essa. Non esiste una mo­
rale valida per l’umanità in generale>>228. E più avanti: «M a proprio come
un’arte plastica, una musica o una pittura, una morale è un mondo con­
chiuso di forme. [•••] Entro il suo ambiente storico specifico essa è sem­
pre vera, così come è sempre falsa al difuori di esso»229.
E per questo che «l’innocente relativismo di Nietzsche» non può per­
metterci di giungere alla comprensione della storia universale230. «Oggi si
può anche parlare della transvalutazione di tutti i valori», si è ben lonta­
ni da ciò di cui l’Occidente ha davvero bisogno. «Sarà compito del futu­
ro formulare una morfologia rigorosa di tutte le morali. Anche a tal ri­
guardo Nietzsche ha fatto l’essenziale, ha compiuto il primo, decisivo
passo per raggiungere il nuovo punto di vista. Ma l’esortazione da lui fat­
ta a tutti i filosofi, di porsi di là dal bene e dal male, fu lui il primo a non
seguirla. Egli volle essere a un tempo scettico e profeta, critico della mo­
rale e annunciatore di una morale. Il che non si accorda. Finché si resta
romantici, non si può essere psicologi di primo rango.» Così Nietzsche
«qui, come in tutte le sue idee più importanti, è giunto, sì, fino alla soglia
ma non ha saputo oltrepassarla». Alla fine giunge perlomeno l’omaggio:
«Ma a tutt’oggi, non vi è chi abbia fatto meglio di lui.»231
Fare meglio di Nietzsche è appunto l’obiettivo che Spengler si è po­
sto. Per capire il processo di tramonto dell’Occidente, dice, bisogna de­
dicarsi al «problema stesso della civilizzazione». Per Spengler la civilizza­
zione è «una successione organica rigorosa e necessaria [...], l’inevitabile
destino di una civiltà». Quindi «ogni civiltà ha una sua civilizzazione»232.
Egli dà per la prima volta a queste due parole, che fino ad allora designa­
vano una vaga distinzione di ordine etico, un senso che esprime «una suc­
cessione organica rigorosa e necessaria. La civilizzazione è l’inevitabile de­
stino di una civiltà. [...] Le civilizzazioni sono gli stadi più esteriori e più
artificiali di cui una specie umana superiore è capace»233. Roma rappre-

228. Ibid., p. 535 (tra virgolette e in corsivo nel testo).


229. Ibid., pp. 537-538.
230. Ibid., p. 66.
231. Ibid., pp. 536-537.
232. Ibid., p. 77 (corsivo nel testo).
233. Ibid., p. 77 (corsivo nel testo).

521
C risi di civiltà

senta lo stadio della civilizzazione rispetto alla Grecia e conclude una


grande evoluzione. Come Herder, che diceva più o meno le stesse cose,
Spengler traccia un ritratto dei romani: «Senza anima, non inclini alla fi­
losofia, senz’arte, rozzi nella razza», con una facoltà immaginativa che mi­
rava unicamente alla praticità, essi esprimono la «differenza tra la civiltà
ellenica e il nulla»: «Anima greca e intelletto romano: tali sono i termini»
e, aggiunge, ciò è vero non solo per il periodo classico234. Da Herder ai
pensatori della rivoluzione conservatrice, la contrapposizione tra Roma e
Grecia rientra in una tradizione largamente accettata in Germania. Gli in­
tellettuali nazionalisti esigono che i tedeschi si separino da Roma, associa­
ta alla latinità, alla preponderanza culturale francese, al Rinascimento e al
Mediterraneo, cioè insomma all’imperialismo culturale occidentale.
Il passaggio dalla cultura (Kultur) alla civilizzazione (Zivilisation) si è
compiuto nell’antichità, nel IV secolo, e poi nel X IX secolo, sotto la spin­
ta della grande città, «la metropoli» secondo il linguaggio di Spengler. La
metropoli «significa il cosmopolitismo in luogo della “patria”, il freddo
senso pratico in luogo del rispetto per ciò che è tradizionale e innato, l’ir­
religiosità scientista che inaridisce come dissoluzione del precedente fer­
vore religioso, la “società” in luogo dello Stato, i diritti naturali in luogo di
quelli acquisiti». Già i romani avevano sui greci il vantaggio del denaro, e
il denaro domina anche nel X X secolo. La metropoli non ha un popolo ma
una massa, mostra incomprensione per ciò che è tradizionale e naturali­
smo in un senso del tutto nuovo, riappare in lei «il panem et árcenser»: al­
la cultura appartengono la ginnastica e il torneo, alla civilizzazione lo
sport. Nel mondo del X IX secolo l’economia prende il sopravvento, così
come furono i romani che insegnarono al mondo il luccichio del denaro235.
L’immagine spengleriana della decadenza non differisce da quella di
Herder. Anche per l’autore del Tramonto l’imperialismo è il «simbolo ti­
pico di una fine. Ora, proprio tale forma è l’ineluttabile destino del­
l’Occidente»236. Questa «tendenza più caratteristica di ogni civilizzazio­
ne matura» è vera per i romani come per i cinesi e per gli arabi.
Non c’è alcuna volontà cosciente, né da parte di un individuo, di una

234. lb id .,p .n .
235. Ibid., p. 80 (corsivo nel testo).
236. Ibid., p. 85.

522
Crisi di civiltà

classe sociale o di un popolo: «Qui non vi è scelta»237. Così dopo il rela­


tivismo arriva il determinismo: ora che il segreto della storia è stato sco­
perto, non ci si può più permettere di sperare il futuro che si desidera.
Ormai tutti devono sapere «quel che nel futuro può e quindi deve acca­
dere con l’inevitabilità di un fato», e questo vuol dire che la libertà si­
gnifica semplicemente che siamo liberi di compiere «o nulla, o ciò che è
necessario. Sentir ciò come “bene” è proprio a uno spirito realistico. [...]
Alla nascita si connette la morte, alla gioventù la vecchiaia»238.
Qui Spengler si difende subito dall’accusa di pessimismo che vede
profilarsi. Riconoscere la realtà non significa dare prova di pessimi­
smo. La cultura occidentale è spossata e l’Europa occidentale sta vi­
vendo non un’epoca simile a quella dell’Atene di Pericle ma a quella
della Roma dei Cesari. Non si può più parlare nel suo caso di una
grande musica, di una grande pittura, di una grande architettura o di
un grande teatro239. L’europeo vive un tempo che «è un’epoca di deca­
denza», ma egli non può cambiare la sua, «il fatto di essere nati come
uomini di un incipiente inverno di completa civilizzazione, e non nel­
le altezze solari di una civiltà matura del tempo di Fidia o di M o­
zart»240. Facendo riconoscere una realtà, facendo capire che esistono
limiti, non si piomba affatto nel pessimismo, anzi, al contrario: «L ’ac­
cennata dottrina io la considero come qualcosa di benefico per le ge­
nerazioni che vengono, perché essa mostrerà loro quel che è possibile,
epperò necessario». Riconoscendo ciò che è possibile, l’Europa occi­
dentale cesserà di disperdere e sprecare le proprie energie. Per la nuo­
va generazione è giunto il tempo di volgersi «alla tecnica invece che al­
la lirica, alla marina invece che alla pittura, alla politica invece che al­
la critica della conoscenza»241.
Spengler pensa, come Herder, che «ogni pensiero vive in un mondo
storico tanto da non potersi sottrarre al destino universale della cadu­
cità». Il principio di storicità assoluta del pensiero è preso da Herder,
senza che Spengler si curi anche solo di nominare la filosofia della storia

237. Ibid., p. 85 (corsivo nel testo).


238. Ibid., p. 90 (tra virgolette e in corsivo nel testo).
239. Ibid., p. 91.
240. Ibid., p. 98.
241. Ibid., pp. 90-91.

523
Crisi di civiltà

del pastore di Biickenburg: «Ogni filosofia è espressione del suo tempo


e solo del suo tempo [...]. L’immortalità di un pensiero divenuto è illu­
sione»242. E sempre così in ogni tempo.
Anche Spengler attacca l’intellettualismo o ciò che chiama, come
Herder, la cultura libresca, «la maschera erudita della filosofia»;243 pensa
che «il rango di una dottrina è determinato solo dalla sua necessità vita­
le»244. Vede «la pietra di prova del valore di un pensatore [...] nella sua
capacità di visione riguardo ai grandi eventi del suo tempo»245. I grandi
filosofi del passato, i presocratici greci o i cinesi, Platone o Confucio,
Hobbes o Leibniz, Pitagora e Goethe partecipavano intensamente alla
vita del loro Stato. Capire la realtà politica, occuparsi dei grandi proble­
mi della vita, fa parte integrante dell’autentico pensiero filosofico. Non
è più così in quell’inizio di X X secolo: «Nessuno dei filosofi viventi, scri­
ve Spengler, ha uno sguardo. [...] Da prospettive da aquila si è scesi a
prospettive da rana»246. In pratica, «la filosofia sistematica si è già con­
clusa sulla fine del XVIII secolo»,, con Kant.
La filosofia etica è prostrata, resta solo «la morfologia storica com­
parata», ovvero ciò che ha inventato lui. Questo metodo corrisponde,
nel quadro dello spirito occidentale, «all'antico scetticismo». Ancora una
volta non bisogna fraintendere: si tratta di scetticismo, non di pessimi­
smo. Ma lo scetticismo antico era astorico, dubitava dicendo solamente
no, mentre lo scetticismo del X X secolo «comincerà col considerare tut­
to come relativo, come fenomeno storico. [...] Si rinuncia a un punto di
vista assoluto»247248. In ciò sta l’essenziale: «Lo scetticismo è l’espressione
di una pura civilizzazione, esso dissolve l’immagine del mondo della pre­
cedente civiltà. [...] Per il pensiero passato la realtà esterna era un pro­
dotto del conoscere e un oggetto di valutazioni etiche; per quello futuro
essa sarà soprattutto espressione e simbolo. La morfologia della storia
mondiale diverrà necessariamente una simbolica universale»2™. La con-

242. Ihtd., pp. 92-93: «Unvergänglichkeit gewordener Gedanken ist eine Illusion»
(corsivo nel testo).
243. Ibid, p. 93.
244. Ibid.
245. Ibid.
246. Ibid., p. 96.
247. Ibid., pp. 99-100.
248. Ibid., pp. 100-101 (corsivo nel testo).

524
Crisi di civiltà

clusione giunge immediatamente: «Con il che cesserà anche la pretesa


del pensiero superiore di possedere verità universali ed eterne. Le verità
non esistono che in relazione a una data umanità249.» Siccome non ci so­
no più né verità assolute né Dio che possa servire da riferimento, il solo
criterio è la vitalità, l’utilità per la vita.
La fede cristiana aveva preservato dal nichilismo la prima genera­
zione dei pensatori antilluministi. Scomparsa la fede, la generazione
della svolta del secolo si nutre di un nietzschismo rozzo e volgarizzato
ma, in politica e come forza storica, ciò che conta sono le interpreta­
zioni di Nietzsche e non le finezze della sua filosofia. E così che, secon­
do Spengler, la verità, cioè la morale, è senza valore, poiché impotente
di fronte ai fatti. Nelle prime pagine del secondo volume del Tramonto
Spengler pone il problema della verità nel contesto delle sue riflessioni
sulla ragione e, come si è appena visto, si rifà al dubbio nietzschiano per
quel che riguarda il valore stesso della verità. Ma tale contesto possiede
anche un’altra dimensione: «Per un animale esistono solo dei fatti, non
delle verità [...]. La differenza tra fatti e verità è analoga a quella fra
tempo e spazio, fra destino e causalità. [...] La vita reale, la storia, co­
nosce solo dei fatti. L’esperienza della vita e la conoscenza degli uomini
si basano unicamente su dei fatti». Pertanto « l’uomo che agisce, che
vuole, che lotta [...] considera le semplici verità come qualcosa di insi­
gnificante. Per il vero uomo politico esistono soltanto fatti politici, non
verità politiche»250.
Si giunge così al punto essenziale, che è la critica spengleriana al ra­
zionalismo. Già prima di Adorno e di Horkheimer Spengler aveva sco­
perto la dialettica della ragione, ma la vede ovviamente in modo diverso.
Su questo conviene insistere: i pensatori della scuola di Francoforte mo­
strano come, nella sua impresa di dominio della natura grazie alla ragio­
ne, l’uomo, soggetto dominatore, finisca per includere se stesso nella to­
talità da dominare e perda così ogni peculiarità e ogni libertà. Per Ador­
no e Horkheimer l’errore consiste nella conseguente abolizione del dua­
lismo di soggetto e oggetto. Vogliono mettere in evidenza e poi combat­
tere il rovesciamento che rende uno strumento di liberazione uno stru-

249. Ibid., p. 101.


250. Ibid., voi. II, pp. 688-689 (corsivo nel testo).

525
Crisi di civiltà

mento di oppressione. Per Spengler invece il male sta proprio nella libe­
razione e nella scissione tra l’oggetto e il soggetto251.
Per l’autore del Tramonto esiste un doppio problema: in primo luo­
go, come in Barrès, la ragione strappa l’uomo dal suo radicamento nelle
forze del sangue e del suolo e la liberazione dell’uomo tramite la ragio­
ne significa il suo sradicamento. Poi giunge un momento nel processo
culturale in cui la ragione cede il passo al giudizio, in cui lo spirito di­
viene intelletto. Tale momento è il marchio caratteristico di tutte le civi­
lizzazioni e segna l’inizio della decadenza. Nel capitolo dedicato ai «Pro­
blemi della civiltà araba», Spengler parla di Maometto e di Cromwell in
un modo che non permette dubbi sulla sua conoscenza di Carlyle. Mao­
metto e Cromwell, al pari dei grandi personaggi che li circondano, come
Abu Bakr e Omar o i capi puritani John Hampden e John Pym, presen­
tano analogie di sentimenti e di toni che non possono ingannare. Per
Spengler come per Carlyle essi avevano la consapevolezza di una grande
missione che aveva dato a tutti, come ai puritani arabi contemporanei di
Maometto, la convinzione di essere eletti da Dio. Spengler ammira «il
grandioso slancio biblico» dei puritani, ma vede che «nel puritanesimo
si cela già il razionalismo. [...] Da Cromwell si passa Hume»252.
Qui Spengler chiama il XVIII secolo tempo delT«illuminismo» (tra
virgolette) e lo associa alla coscienza critica, per dare infine la sua defi­
nizione del razionalismo: «Il razionalismo significa la fede esclusiva nei
risultati dell’intelligenza critica, dell’“intelletto”» 2” . Il XVIII secolo, co­
me la città moderna, appartiene alla civilizzazione: al pari di Herder,
Burke, de Maistre, Maurras e Sorel, Spengler si leva contro la ragione
trionfante che tutto vuole spiegare, compresa la religione. «L’Illumini­
smo passa sempre da un illimitato ottimismo intellettuale connesso al ti­
po dell’abitante delle grandi città, a una scepsi assoluta.»2” Ecco il signi­
ficato di «Weltanschauung» nel Tramonto: è «il termine che designa pre­
cipuamente un essere desto evoluto che sotto la guida dell’intelligenza
critica, scava esplora un mondo illuminato senza dii, chiamando i sensi25134

251. Merlio, Oswald Spengler, p. 277.


252. Spengler, Il tramonto dell’Occidente, voi. II, p. 1126.
253. lbid. («intelletto» tra virgolette nel testo, corsivo nel testo).
254. Ibid., p. 1136.

526
Crisi di civiltà

menzogneri ogni qualvolta essi percepiscono qualcosa che la “sana ra­


gione umana” non può riconoscere»2” .
Per Spengler la filosofia illuministica è una categoria che ricompare in
tutte le civilizzazioni, in tutte le epoche decadenti: la raccolta e la classifi­
cazione da parte dei confuciani degli scritti canonici cinesi provoca la di­
struzione di tutte le antiche opere religiose della Cina e crea una «falsifi­
cazione razionalistica del resto. [...] Confucio appartenne assolutamente
al “XVIII secolo” della Cina»25256. Egli conserva solo poche cose sulla pre­
ghiera e le speculazioni riguardanti la vita dell’oltretomba; sulle rivelazio­
ni, assolutamente niente. Lo stesso è per Buddha, che non ha ammesso né
il concetto di Dio, né mito, né culto. E un rappresentante classico dello
«schietto razionalismo. Per Buddha il nirvana è un distacco puramente
spirituale e corrisponde [...] all’eudaimonia degli stoici»25'. Per i letterati
del tempo dei Lumi il grande ideale è la saggezza. Il saggio è l’uomo del
giusto mezzo e «la sapienza deH’Illuminismo non pregiudicherà mai una
linea di vita comoda». Nello «sfondo del grande mito» la morale era un
sacrificio, nello «sfondo della sapienza» la virtù «è invece una specie di
godimento segreto, un egoismo sottile e spiritualissimo» e il moralista di­
venta così un «filisteo». Socrate e Rousseau costituiscono l’equivalente oc­
cidentale di quei distruttori di miti che furono Buddha e Confucio. Con
tutta la saggezza del loro pensiero, questi ultimi sono, con Rousseau e So­
crate, degli arcifilistei:258 su questo punto sembra di sentire Sorel.
In Occidente il razionalismo «è di origine inglese e conseguenza del
puritanesimo: tutto il razionalismo continentale ci riporta a Locke». Co­
sì, due secoli dopo il puritanesimo, «la concezione meccanicista del mon­
do raggiunge il suo apogeo. Diviene la vera religione dell’epoca». Tutte
le grandi culture cominciano «con un tema possente che sorge da un pae­
se privo ancora di città [...] e che infine si spegne nella metropoli con un
finale materialistico»259. La morte della fede si accompagna a una mecca­
nizzazione del destino «in termini di evoluzione e di progresso»260.

255. lbid., p. 1128 (tra virgolette nel testo).


256. lbid., p. 1129 (virgolette nel testo).
257. lbid., p. 1130 (corsivo nel testo).
258. lbid.
259. lbid., pp. 1130-1132.
260. lbid., p. 1133.

527
Crisi di civiltà

Ovunque si gioca ancora con miti ai quali non si crede più, proprio
come non si crede più ai culti coi quali si cerca di colmare il proprio
vuoto interiore. Insomma, «il materialismo è piatto e onesto, il giuoco
con la religione è piatto e disonesto»261. Queste sono le maggiori carat­
teristiche della decadenza. Però la critica di Spengler all’ateismo dei Lu­
mi o al «razionalismo quale religione delle persone colte»,262 non viene
fatta in nome della fede ma in nome della cultura, «sinonimo di forza
creativa religiosa»26’.
Questa critica al razionalismo è fatta in nome del sangue e dell’i­
stinto, come in Barrès in nome della terra e dei morti. Il sangue è la cor­
rente vitale che trascina la storia; la ragione minaccia lo slancio vitale e
quindi il razionalismo è condannato perché vuole cambiare il mondo.
Tale è il significato concreto di questa nuova fase della rivolta contro i
Lumi.
Per Spengler il razionalismo è insieme causa ed espressione della de­
cadenza. Poiché egli si interessa prima di tutto ai problemi concreti del­
la storia, per lui il razionalismo non è associato a Descartes ma alla filo­
sofia inglese. In una accattivante sezione, intitolata «Idea di destino e
principio di causalità», nel secondo capitolo del Tramonto, dedicato al
«Problema della storia mondiale», Spengler mostra come la teoria della
«civilizzazione europea» (le virgolette sono di Spengler) sia nata nell’In­
ghilterra di Locke, Shaftesbury e soprattutto di Bentham, e come «fu
portata a Parigi da Bayle, Voltaire e Rousseau». È in nome di questa In­
ghilterra «del parlamentarismo, della morale sociale e del giornalismo»
che si è combattuto a Valmy, a Marengo e a Lipsia. Infatti, avendo come
intermediari «menti educate parimenti all’inglese come Rousseau e Mi­
rabeau», la tendenza dell’esercito rivoluzionario «era stata fomentata da
idee di filosofi inglesi»264. Solo Goethe aveva capito il senso dello scon­
tro di Valmy. E per questo che la Rivoluzione francese apre un’epoca,
nel senso antico del termine, dice Spengler, da non confondere con pe­
riodo. L’epoca «resta necessaria e predeterminata» e «un avvenimento

261. Ibid., p. 1135.


262. Ibid., p. 1137.
263. Ibid., p. 1132.
264. Ibid., voi. I, pp. 252-253.

528
Crisi di civiltà

fa epoca, cioè: nel corso di una civiltà esso contrassegna un rivolgimento


necessario, fatale»265. L’«idea» della Rivoluzione, cioè il suo significato
storico, consiste nel «trapasso dalla civiltà alla civilizzazione, la vittoria
della metropoli anorganica sulla campagna organica»266. In altri termini
con la Rivoluzione francese inizia la decadenza utilitarista, edonista e
materialista generata dai Lumi, le esigenze pratiche prevalgono su ogni
altra considerazione, la metafisica sparisce. Mentre, «trovandoci già nel­
la fase discendente» in questo «crepuscolo degli dei», Spengler annun­
cia, nelle ultime pagine del primo volume del Tramonto, «la fine della
scienza occidentale»267.
Sono proprio queste ultime pagine del primo volume a imprimersi
nella mente del lettore, e quando viene pubblicato il secondo volume so­
no il capitolo quarto sulla politica e lo Stato e il capitolo quinto, che è
anche l’ultimo, sul denaro e la macchina, ad assumere un ruolo determi­
nante nella guerra alla democrazia e alla Repubblica di Weimar. «Intesa
nel senso più alto, la politica è vita e la vita è la politica», scrive Spen­
gler268. E cento pagine dopo: « Tutta la vita è politica in ognuno dei suoi
tratti istintivi: fino al midollo»269. Come Maurras e dopo di lui Schmitt,
Spengler intende definire il principio del politico. Tale principio egli lo
scopre nella lotta per la potenza e per la vita. La democrazia e il libera­
lismo costituiscono un oltraggio all’essenza stessa del politico: Maurras
dice esattamente la stessa cosa. Del resto, che cosa significa la parola «li­
berale»? Per Spengler liberale vuol dire essere «liberi dagli impedimen­
ti presentati da una vita legata alla terra [...]. Lo spirito essendo libero
per ogni specie di critica, il danaro essendo libero per ogni specie di af­
fari»270. Poiché il razionalismo è nato in Inghilterra e poiché Adam Smith
ha avuto per maestro Hume, « Liberty significa, in tutta evidenza, libertà
spirituale non meno che libertà negli affari»271. In Inghilterra tutto si
compra, compreso il voto dei deputati; è là che si è scoperto non solo

265. lbtd., p. 251.


266. Ibid., p. 250 (La parola «idea» è tra virgolette nel testo).
267. Ibid.,p. 663.
268. Ibid., voi. II, p. 1178 (corsivo nel testo).
269. Ibid., p. 1329 (corsivo nel testo).
270. Ibid., p. 1279.
271. Ibid., p. 1278 (corsivo nel testo).

529
Crisi di civiltà

«l’ideale della libertà di stampa» ma anche che «la stampa stava al servi­
zio di chi ne possiede gli organi»272. L’analisi di Spengler, lo si è visto, non
manca di esattezza: ai tempi di Walpole e dei suoi successori, egli dice, il
servizio verso il paese e il servizio verso il partito whig erano la stessa cosa.
Tuttavia, quando le idee borghesi o liberali sono passate dall’Inghil­
terra alla Francia hanno assunto un senso astratto che non avevano nel­
le isole Britanniche. La borghesia, per la via traversa della democrazia,
cerca di sottomettere il potere a norme giuridiche e morali: nulla è più
in contrasto con la natura stessa del potere. Sotto l’influenza dei sistemi
astratti che, dopo il trionfo del razionalismo, occupano il primo posto, la
borghesia mette in pericolo la nazione. Non sarebbe mai venuto in men­
te a Richelieu o a Cromwell di prendere decisioni sotto l’influenza di
idee astratte. Ma non si tratta solo di idee o di spirito critico poiché, «a
lato dei concetti astratti appare il danaro astratto, disgiunto dai valori
originari della campagna; a lato dello studio del pensatore appare la ban­
ca come potenza politica. Luna e l’altra cosa sono intimamente appa­
rentate e inseparabili»273. Per cui, «se per democrazia s’intende la forma
che il Terzo Stato come tale vuol dare a tutta la vita pubblica, si deve di­
re che democrazia e plutocrazia sono sinonimi»274.
Come Maurras, come Barrès e come Sorel, Spengler associa liberalismo
e socialismo marxista nella stessa rampogna. Al socialismo di origine
marxiana, che ha imboccato la strada della democrazia, Spengler oppone
nel periodo tra i due volumi del Tramonto il socialismo prussiano, naziona­
le, ciò che lui chiama anche socialismo etico. É quello stesso socialismo che
Hendrick de Man stava innalzando a sistema in Au-delà du marxismo, ma
è a Sorel che spetta la palma di pioniere della critica a un socialismo pre­
sentato come infeudato nella borghesia per via del denaro, del parlamenta­
rismo e dei principi illuministi. In una nota a piè di pagina Spengler ri­
prende quasi parola per parola una classica idea di Sorel, senza che Sorel
sia mai nominato in tutto il corso dell’opera: «Il grande movimento che si
serve delle parole d’ordine di Marx ha provocato un dipendere non degli
imprenditori dai lavoratori ma di essi e degli stessi lavoratori dalla Borsa»275.

272. Ibid., p. 1279.


273. Ibid., p. 1275.
274. Ibid., p. 1276.
275. Ibid., p. 1277, nota 112.

530

I
Crisi di civiltà

Infatti «non esiste movimento proletario, anzi nemmeno comunista, che


non agisca nell’interesse del denaro, nella direzione desiderata dal denaro
ed entro i limiti assegnati dal denaro». Insomma, «lo spirito pensa, ma è il
denaro a dirigere: questa è la legge di tutte le civiltà prossime alla loro fine
dopo che la grande città si è resa sovrana di tutto il resto»:276 non c’è biso­
gno qui di ricordare ancora una volta come questa idea sia un luogo co­
mune da La Fin d’un monde di Drumont a tutti gli scritti di Maurras e dei
loro equivalenti tedeschi, Langbehn e Lagarde.
E in questo modo che la città, cioè la modernità, produce la civiliz­
zazione. La differenza tra la politica dell’epoca della cultura e dell’epo­
ca della civilizzazione si misura dalla distanza che separa un mondo «or­
ganico», fondato sul sangue e sulla razza, da un mondo in cui la bor­
ghesia prende il potere. Come Herder e Maurras, come Carlyle e Sorel,
Spengler vede l’ideale nei tempi omerici e gotici, in cui l’organizzazione
sociale assume una forma patriarcale ed è retta dai «legami col suolo ma­
terno». In un tale mondo, «il sangue, la razza si manifesta in azioni com­
piute d’istinto, in una semicoscienza»: tutti, tra coloro che fanno politi­
ca, compreso il prete, agiscono «da uomo di razza». In un tale mondo
dominato da «la parentela delle famiglie, l’onore, la fedeltà», ogni forma
d’idea astratta «è affatto esclusa»277278.
La grande città costituisce una svolta e con essa si instaura il regno
della «non-casta». La politica delle lotte tra «fazioni» familiari, da Tele­
maco e i maggiorenti di Itaca ai guelfi e ghibellini o alle case di Lanca­
ster e di York, è ora «ridotta a dei concetti. Contro il sangue e la tradi­
zione sorgono le potenze dello spirito e del danaro. All’organico suben­
tra l’organizzato, alla casta il partito»2™. I partiti, che costituiscono anche
una negazione di tutto ciò che non può essere colto razionalmente, sono
un fenomeno puramente cittadino, non riconoscono la suddivisione del­
la società in ordini, poiché le due «vecchie caste» sono la nobiltà e il cle­
ro. Ecco perché il concetto di partito è legato ai concetti di eguaglianza
e di libertà, due concetti totalmente negativi, il primo dei quali «disso­
lutore e socialmente livellatore», che appartengono a «un fenomeno

276. Ibid., p. 1277.


277. Ibid., p. 1344.
278. Ibid., pp. 1343-1344 (corsivo nel testo).

531
Crisi di civiltà

puramente cittadino» e democratico279. Nelle parole di Sorel la critica al­


la democrazia, da Atene alla Terza Repubblica, è quasi identica.
La domanda che a questo punto si pone è: «come si fa la politica?»280
Il postulato fondamentale è semplice: «Le qualità politiche di una massa si
riducono alla fiducia nei capi»2*1. Questa formula avrebbe potuto essere at­
tinta non solo da Carlyle ma in egual misura da Renan o Taine, per non
parlare di Maurras. In pratica tutta la politica è una scienza del comando.
La «sovranità del popolo» significa soltanto che l’autorità è passata da un
capo a un altro, da un re a un capo popolare2“2. Mosca e Pareto, come an­
che Michels, pensano che le strutture autoritarie e oligarchiche, nella loro
essenza, restino sempre le stesse: una élite poteva essere sostituita da un’al­
tra, ma la natura del politico e del potere non poteva cambiare. Spengler
attua una sintesi di tutte le correnti del pensiero antilluminista: Carlyle e
Taine, Pareto, come anche Mosca e Michels, che diventeranno fascisti mi­
litanti, si connettono al suo darwinismo sociale: la divisione tra «oggetti
del governo e soggetti del governo» si ritrova «già fra gli animali»283. «La
guerra è la politica originaria di tutto ciò che è vivente, a tal segno, che lot­
ta e vita sono in fondo una sola cosa.»284 Pertanto la capacità di un capo
consiste nel porsi «di là dal vero e dal falso». Non c’è nessun uomo di Sta­
to che abbia delle convinzioni, che creda ai sistemi e che, come aveva ben
visto Goethe, abbia una coscienza, il che significa che non deve averne,
poiché «non il singolo, ma la vita è senza coscienza»285.
Per Spengler, come per Carlyle, «esistono soltanto forme personalizza­
te di storia e quindi esiste soltanto una politica di persone». Ne consegue
che «la lotta non fra princìpi ma fra uomini, non fra ideali ma fra forze raz­
ziali per il potere da esercitare è il principio e la fine di ogni politica»286. Le

279. Ibid., p. 1345 (corsivo nel testo). In Nietzsche l’eguaglianza era «questa idea
moderna per eccellenza», questo «veleno sommamente micidiale», «la più
grande di tutte le menzogne»: citato da Gilbert Merlio, p. 324.
280. Ibid., p. 1333 (corsivo nel testo).
281. Ibid., p. 1332 (corsivo nel testo).
282. Ibid., p. 1331 (tra virgolette nel testo).
283. Ibid.
284. Ibid., p. 1330 (corsivo nel testo).
285. Ibid., pp. 1333-1334 (corsivo nel testo).
286. Ibid., p. 133 (corsivo nel testo. La parola «razziale» traduce «Rassezùgen»).

532
Crisi di civiltà

qualità di leadership sono qualità eroiche di uomini eccezionali, di indivi­


dui con «una vocazione storica». Un tale uomo, per Carlyle un eroe, un
capo politico degno di questo nome, intende essere «il centro d’azione in
mezzo a una folla, far della forma interna della propria persona quella di
interi popoli e di intere epoche, aver il comando della storia»287. Quando
un eroe si manifesta, le strutture formali della democrazia non possono
più mascherare la realtà: per le «nature dominatrici» il popolo è solo «un
oggetto e gli ideali non sono stati altro che dei mezzi»288. Il suffragio uni­
versale è una pura ipocrisia, un’illusione, e «diritti del popolo e influenza
del popolo sono due cose diverse»289. Si vede subito che in democrazia «si
può far uso dei diritti costituzionali solo se si ha denaro». La stampa e il
denaro sono mezzi per condurre le masse: che lo si voglia o no, per giun­
gere al potere in regime di democrazia parlamentare bisogna saper fare
uso delle elezioni e della stampa, sostenute dal denaro290. Per cui il dirit­
to «della massa libera di eleggere i propri rappresentanti, resta pura teo­
ria»291. La libertà ha sempre «un significato puramente negativo», consi­
ste nel rinnegare la tradizione, ma l’autorità passa a nuove autorità, a ca­
pi di partito e a dittatori fino ai profeti e ai loro partigiani, per cui la fol­
la «continua ad avere la parte di un oggetto». La democrazia - qui Spen­
gler riproduce Michels senza ricordare l’esistenza dell’autore de ha socio­
logia del partito politico - è in realtà una dittatura degli apparati di parti­
to. «E così che ogni democrazia è fatalmente sospinta su di una via ove
essa finisce col negarsi da se stessa.»292 Spengler può quindi annunciare la
morte imminente di un parlamentarismo «in piena decadenza»293 e il pas­
saggio al cesarismo:294 la strada verso la fine della Repubblica di Weimar
è ormai ampiamente aperta.
Il seguito è nello stesso spirito: Spengler prosegue la sua campagna
contro il regno del denaro, dal quale dipendono il potere politico, la

287. Ibid.
288. Ibid., P- 1354.
289. Ibid., P- 1355.
290. Ibid., P- 1356.
291. Ibid.
292. Ibid., P- 1357 (corsivo nel testo).
293. Ibid., P- 1297.
294. Ibid., P- 1299.

533
Crisi di civiltà
)

stampa, la libertà di opinione, insomma in ultima analisi la democrazia. Nel


capitolo sullo Stato si vede per prima cosa come il denaro trionfi «sotto for­
ma di democrazia»,295 poi come «attraverso il denaro la democrazia di­
strugge se stessa, una volta che il denaro ha distrutto lo spirito»296. Ma il
trionfo del denaro produce la reazione di quelle «potenze formate dal san­
gue che il razionalismo delle grandi città aveva soffocate [...]. Il cesarismo
cresce sul suolo della democrazia, ma le sue radici raggiungono il substrato
profondo del sangue e della tradizione»297. In tal modo «le potenze del san­
gue, gli impulsi innati di ogni vita [...] riprendono l’antico dominio. La raz­
za si riafferma, pura e irresistibile: il successo ai più forti e il resto come pre­
da»298. L’apparizione del dittatore rappresenta la vittoria del politico nella
sua lotta contro l’economico299.
Tuttavia, come si può immaginare, questa violenta critica al capitalismo
non è una critica alla proprietà privata. Spengler si inoltra nella strada aper­
ta dai primi socialisti nazionali, come Barrès, dai sindacalisti rivoluzionari
italiani e dal loro maestro Sorel, che separano il capitalismo dal liberalismo,
il capitalismo dalla proprietà privata. Accettano la proprietà privata ma non
i valori intellettuali del liberalismo. Di più, tutti loro vedono nel liberalismo
una mascheratura ideologica del regno del denaro. Maurras e i suoi segua­
ci, come Thierry Maulnier, traduttore del Terzo Reich di Moeller van den
Bruck, sviluppano un anticapitalismo antimarxista che avrà il suo più im­
portante teorico in Hendrick de Man. Il vicepresidente poi presidente del
Partito operaio belga, pensatore socialista di grande levatura, saprà dare al-
l’anticapitalismo una sostanza teorica di cui si nutrirà il neosocialismo fran­
cese di Marcel Déat. Non si potrà mai esagerare l’importanza, presso le
classi medie, di questa campagna contro il grande capitale, mobile e anoni­
mo, «l’ipercapitalismo». Ciò che Spengler e dopo di lui de Man attaccano
è il capitale di borsa, non il capitale che produce la ricchezza e la potenza
industriali. I capitani d’industria sono sempre i benvenuti.
Così tutto si connette: l’ideologia del sangue e del suolo, della terra e
dei morti produce tanto l’odio per il kantismo, il razionalismo e l’autono-

295. Ibid, p. 1321.


296. Ibid., p. 1368.
297. Ibid., pp. 1368-1369 (corsivo nel testo).
298. Ibid., p. 1322 Si veda anche p. 1424.
299. Ibid., pp. 1368-1369. Si veda anche alle pp. 1419-1420.

534
Crisi di civiltà

mia dell’individuo quanto quello per la società borghese e la grande città.


Quel proletariato di giovani diplomati messo in scena da Barrès in Les Dé­
racinés è identico al «nomade intellettuale» di Spengler, per il quale «la pa­
tria significa ognuna di queste città, mentre il villaggio più vicino ormai gli
rappresenta qualcosa di estraneo. Preferisce morire sull’asfalto anziché
tornare alla campagna»300. In pratica l’intellettuale sradicato di Barrès,
questo prodotto dell’insegnamento repubblicano, della democrazia e del­
la grande città, questo prodotto di troppa intellettualità, è gemello dell’in­
tellettuale spengleriano separato dalle sue origini, cosmopolita, elemento
costitutivo del nuovo nomadismo delle metropoli, della massa che rap­
presenta la fine, il radicale nulla. Come in Barrès, lo sradicamento è una
categoria fondamentale, legata al razionalismo dei Lumi. La contestazione
di Kant e di Rousseau, del razionalismo, dell’individualismo e dell’umane­
simo costituisce un rifiuto dello sradicamento o, in altri termini, della per­
dita dell’identità culturale, delle capacità di resistenza di fronte al mondo
esterno. L’individualismo è un’espressione primaria della decadenza.
Un quarto di secolo prima di Spengler, Barrès mostra in Les Déra­
cinés come il razionalismo, l’universalismo, l’individualismo e l’umanesi­
mo taglino ai sette giovani lorenesi le radici provinciali e nazionali. In Scè­
nes et doctrines du nationalisme raffigura il pericolo mortale rappresenta­
to per la nazione dagli intellettuali cosmopoliti sradicati, spinti istintiva­
mente e quindi necessariamente a tradire la loro razza e il loro paese.
Conviene qui ricordare che, nella categoria dei nomadi intellettuali, sono
compresi anche gli ebrei. Barrès è violentemente antisemita e vicino a
Spengler il quale, come mostra Gilbert Medio, senza cadere nell’antise­
mitismo razziale dei nazisti ma in nome del razzismo psichico che è alla
base della sua concezione della cultura, giungerà, come i nazisti, a nega­
re agli ebrei ogni possibilità di assimilazione nella civiltà occidentale301.
Salta subito agli occhi che tanto Barrès che Spengler falsificano con­
sapevolmente il senso dell’imperativo categorico kantiano. Per Barrès,
esso è sia un solvente per la comunità che una forma di ipocrisia;302 per

300. Ibid., p. 819.


301. Merlio, Oswald Spengler, p. 406.
302. Mi permetto di rinviare qui, come per tutto ciò che riguarda l’autore dei Déra­
cinés, alla nuova edizione del mio Maurice Barrès et le nationalisme français,
Fayard, Paris 2000.

535
Crisi di civiltà

Spengler, la morale faustiana interpreta Kant in termini di esigenza di


obbedienza che egli riconduce alla manifestazione della volontà di po­
tenza. La morale faustiana è l’espressione della «volontà di potenza»,
della volontà di dominio: «Tutto ciò che è faustiano vuol regnare da so­
lo». La volontà di potenza è per natura intollerante. In Occidente la tol­
leranza è «un sintomo di decadenza»,0i. E in questo modo, osserva Mer-
lio, che Spengler afferma la superiorità del tipo faustiano nordico sugli
altri tipi umani’04.
Privilegiando il lascito germanico creato dalle grandi invasioni,
Spengler si colloca nel solco aperto in Germania a partire dalla fine del
XVIII secolo. La culla della civiltà occidentale è nel Nord, le deviazioni
vengono dal Sud. Anche Renan ne era convinto. L’inferiorità del Rina­
scimento, il quale già per Herder era un elemento estraneo a quel lasci­
to, è affermata con forza. Secondo Spengler il contributo del Rinasci­
mento alla cultura occidentale è nullo, poiché manca completamente di
originalità. Mentre il gotico «prende tutta la vita, fin nei suoi angoli più
nascosti», il Rinascimento «in nulla modificò la mentalità dell’Europa
occidentale, il sentimento della vita»’05.
Per Spengler, come per Maurras e per Barrès, ogni cultura è una cul­
tura nazionale, unica nel suo genere, inassimilabile, inimitabile. Seguen­
do Herder, Spengler definisce « nazioni» i popoli che sono «nello stile di
una data civiltà», e secondo lui «alla base di una nazione sta anche un’i­
dea»'06. Ma si spinge molto più avanti: per lui questa idea si contrappone
a tutte le altre. Quindi ogni sforzo di comprensione tra le nazioni, in pra­
tica ogni possibilità di una simile comprensione, è un segnale di declino.
I costumi e le morali sono, per gli uomini provenienti da culture diverse,
«un perpetuo enigma divenendo fonte di continui errori non privi di se­
rie conseguenze». Quando ci si comincia a comprendere ovunque, come
nel caso della Roma imperiale, si entra nel periodo di civilizzazione, quin­
di di declino poiché, quando l’umanità aveva cessato «di vivere in nazio­
ne, epperò aveva anche cessato di essere un’umanità storica»'01.304567

303. Spengler, Il tramonto dell’Occidente, voi. I, pp. 532-533.


304. Merlio, Oswald Spengler, pp. 528-531.
305. Spengler, Il tramonto dell’Occidente, voi. I, p. 572 (corsivo nel testo).
306. Ibid., voi. II, p. 923 (corsivo nel testo).
307. Ibid., p. 926 (corsivo nel testo).

536
Crisi di civiltà

La cultura, per Spengler, è l’emanazione di un’anima collettiva: «Una


civiltà nasce nel punto in cui una grande anima si desta. [...] Essa fiorisce
sul suolo di un paesaggio esattamente delimitabile, al quale resta radicata
come una pianta. Una civiltà muore quando la sua anima ha realizzato la
somma delle sue possibilità sotto specie di popoli, lingue, forme di fede,
arti, Stati, scienze»’08. Queste «anime culturali» sono entità irrazionali alle
quali l’intelligenza razionale non può avere accesso: «Ciò di cui si tratta re­
sterà per sempre inaccessibile alla ricerca scientifica. [...] I metodi critici
- i metodi che “tagliano” - si riferiscono esclusivamente al mondo come
natura. Quanto a scopo, via e metodi, la conoscenza della natura e la co­
noscenza dell’uomo non hanno nulla in comune. [...] Ogni psicologia è
una controfisica»*” . Ciò significa che «una civiltà è una realtà spirituale che
si esprime in forme simboliche: queste forme sono viventi e in continua
evoluzione. [...] Tale fenomeno rappresenta, nel mondo organico, qual­
cosa di grande e di unico». E per questa ragione che «ogni civiltà è carat­
terizzata da un forte sentimento che fa riconoscere se qualcuno appartie­
ne, o meno, a essa»510. Ne consegue che ogni cultura è la storia di un’ani­
ma e «la storia visibile è espressione, segno, è anima divenuta forma»;’“ e
«una volta che lo scopo è raggiunto e che l’idea è esteriormente realizzata,
[...] la viltà d’un tratto s'irrigidisce, muore, il suo sangue scorre via, le sue
forze sono spezzate, essa diviene civilizzazione»'’'2. «Civiltà e civilizzazione
sono come il corpo vivo di un’anima e la sua mummia»; sono la differen­
za tra «l’esistenza euro-occidentale [...] che dall’infanzia del goticismo va
fino a Goethe e a Napoleone; e quella vita tarda, artificiale, senza radici
delle nostre grandi città, le cui forme sono tracciate dall’intelletto»’1’.
In effetti, egli scrive, «le civiltà sono degli organismi. La storia mon­
diale è la loro biografia complessiva. [...] Io distinguo l’idea di una ci­
viltà, somma di tutte le sue possibilità interne, dalla sua manifestazione
sensibile sotto specie di storia, la quale della prima rappresenta la realiz­
zazione». Quale che sia questa realizzazione, «il destino delle singole

308. Ibid., voi. I, p. 192.


309. Ibid., pp. 468-470 (corsivo nel testo).
310. Ibid., voi. II, pp. 1164-1165.
311. Ibid., voi. I, p. 38.
312. Ibid., p. 193 (corsivo nel testo).
313. Ibid., p. 548.

537
Crisi di civiltà

civiltà, che si susseguono, si affiancano, si toccano, si sovrappongono o


si soffocano l’un l’altra, esaurisce il contenuto della storia umana»’14. Nel
secondo volume del Tramonto Spengler mostra su cosa si basi la legitti­
mità di ogni studio comparato delle civiltà: «A una generalizzazione sia­
mo anche autorizzati da\Yesperienza della vita organica in genere». Ne
deriva che le società umane sono rette dalle stesse leggi della «storia de­
gli uccelli da preda o delle pinifere»’15. Come Soury o Vacher de Lapou-
ge, come legioni di darwinisti sociali, Spengler assimila, come cosa natu­
rale, le società umane a organismi viventi. La previsione è impossibile,
ma dopo che un essere è stato concepito o un seme penetrato nel suolo,
«la forma interiore del corso della nuova vita ci è nota»”6. Il determinismo
biologico governa le culture come governa il mondo vivente: «Parlo di
un habitus della civiltà, della storia» come «si parla dell’habitus di una
pianta»” 7. Quindi «ogni civiltà attraversa le stesse fasi dell’individuo
umano. Ognuna ha la sua fanciullezza, la sua gioventù, la sua età virile e
la sua senilità»314356718319. Tutto il secondo capitolo del primo volume del Tra­
monto, «Il problema della storia mondiale», è una dimostrazione della
dipendenza dell’individuo dalla specie: colmo di attacchi a Kant, esso
mostra l’uomo sottoposto alle leggi della biologia come a un «destino».
«Tutti i costruttori di sistemi intellettualistici a partire da Kant» sono sta­
ti incapaci «di raggiungere la realtà vivente» e hanno passato sotto silen­
zio questo fatto fondamentale: «La casualità è, per così dire, un destino
divenuto, reso inorganico, fissato nelle forme dell’intelletto» e il destino
«in se stesso sta al di là di ogni natura intellettualmente compresa»” 9.
Quindi la libertà umana è semplicemente un nonsenso.
Lo stile è il secondo concetto utilizzato da Spengler per definire la
cultura. L’ispirazione non proviene solo da Nietzsche, ma già in Herder
e Mòser si poteva vedere che lo stile è un tratto distintivo del popolo.
Questa idea era familiare anche a Goethe. Ciò che caratterizza una
«grande cultura» è un «grande stile». L’«alta cultura» è uno stile. «Lo

314. lbid., pp. 189-190 (corsivo nel testo).


315. lbid., voi. II, p. 722 (corsivo nel testo).
316. lbid., p. 723 (corsivo nel testo).
317. lbid., voi. I, pp. 194-195 (corsivo nel testo).
318. lbid., p. 193.
319. lbid., p. 206.

538
Crisi di civiltà

stile non è», come lo immaginano i materialisti, «il risultato di materiale,


tecnica e scopo. [...] Esso è invece ciò che per l’intellettualismo estetico
resta inaccessibile, è la rivelazione di qualcosa di metafisico, è una neces­
sità misteriosa, un destino»’20. La nozione di stile permette a Spengler di
sottolineare ancora una volta l’originalità di ogni cultura. «Un’arte è un
organismo, non un sistema. Non vi sono generi artistici che si mantenga­
no attraverso tutti i secoli e le civiltà. [...] Ogni singola arte [...] esiste
una volta sola e non ritorna più come anima e come simbolismo.»’21 È
questa la regola universale: ogni scienza, ogni filosofia, ogni politica e
ogni arte hanno uno stile che è quello della loro cultura. Un tale relativi­
smo finisce per negare perfino l’esistenza di scienze esatte universali: non
esiste una matematica, poiché la matematica è « anche un’arte, [...] come
ogni arte, essa subisce di epoca in epoca imprevedibili mutamenti»’22. Se
ne può dedurre che nessuno è in grado di raggiungere la verità.
Nella mente di Spengler si tratta di un principio e di una realtà uni­
versali. In effetti nel Tramonto si ritrova il grande principio sviluppato,
su base herderiana, dai révoltés della fine del X IX secolo, secondo il qua­
le l’unica norma universale è che non esistono norme universali.
Il successivo attacco al cosmopolitismo è un fenomeno largamente
diffuso in Europa, tanto quanto l’attacco alla democrazia. Il culto della
specificità culturale è un elemento fondamentale nella campagna contro
rilluminismo: Thomas Mann, proprio come Croce, ha portato, prima
del 1914 e subito dopo la guerra, un feroce attacco contro la democra­
zia e contro ogni forma di cosmopolitismo. Messo di fronte alla realtà del
nazismo, e contrariamente a Meinecke, egli abbandona comunque il suo
paese, cosa che non può cambiare il fatto di avere avuto un ruolo nella
lunga preparazione degli spiriti senza la quale l’avvento del nazismo non
sarebbe stato possibile. Thomas Mann, uno dei rari emigrati non ebrei,
era tra chi intorno al 1920 pensava che le idee democratiche, in quanto
universali, potessero solo portare a una perdita dell’identità nazionale e
a una forma unica di cultura e di comportamento, cioè alla morte della
cultura. Taine aveva già mostrato come la Rivoluzione francese, il più3201

320. Ibid., p. 353.


321. Ibid., pp. 354-355 (corsivo nel testo).
322. Ibid., p. 123 (corsivo nel testo).

539
Crisi di civiltà

grande disastro culturale dei tempi moderni, era stata causata da una ri­
nuncia delle élite di fronte alla rivolta della plebaglia. Mosca, per spie­
gare il cammino della storia, fa del comportamento delle élite una sorta
di legge universale. Tutti i critici del Lumi si accordano nel vedere nel ra­
zionalismo, nell’individualismo e nella democrazia pericoli per l’esisten­
za della nazione. La democratizzazione rappresenta la rivolta delle mas­
se avviata dalla borghesia. «Panem et circenses - questa non è che un’al­
tra formulazione del pacifismo», afferma Spengler. «Un elemento antina­
zionale è sempre esistito nella storia di tutte le civiltà.»523 Insieme col co­
smopolitismo, il pacifismo è un valore dei poveracci. Ben prima dell’a­
gosto 1914, Barrès e Thomas Mann, Croce, Sorel e Maurras rappresen­
tano questa ondata di attacchi contro lTlluminismo, senza la quale la ca­
duta della democrazia in Italia e in Germania, le sue continue difficoltà
in Francia fino alla creazione di tre regimi fascisti non diventano com­
prensibili. Il fatto che Croce e Thomas Mann si siano ravveduti non fa
che sottolineare l’ampiezza del fenomeno.
Le conseguenze istituzionali e politiche non possono sorprendere.
La dittatura finisce per imporsi e i grandi uomini, i grandi capi, come di­
ce Carlyle, appaiono. I capi carismatici in questione non sono, a quanto
pare, necessariamente degli uomini politici, ma comunque lo Stato mi­
gliore è certo quello che si basa sul potere di uno solo. Il rafforzamento
dello Stato è una condizione necessaria per la sopravvivenza della nazio­
ne: Maurras dedica la propria vita a cercare di convincere i compatrioti
che proprio per questa ragione la salvezza della Francia sta nella ditta­
tura di un monarca. Spengler deplora che la monarchia prussiana si sia
lasciata andare a una democratizzazione, anche solo parziale.
Per Spengler, come per Maurras, se la democrazia liberale è la forma
di Stato in cui la politica è quanto di più lontano dal politico, la monar­
chia assoluta è il regime che corrisponde perfettamente alla natura del po­
litico: «Secondo un’evidenza che vige fin nel mondo animale, l’idea pri­
mordiale dello Stato si è sempre legata al concetto di un monarca, di un
capo unico»; quindi la monarchia è naturale, appartiene alla natura della
vita, prolunga la natura sul piano statuale. Le folle umane, come le folle
animali, chiedono un capo, «sono “in forma” di fronte all’incalzare degli32

323. Ibid., voi. II, p. 947 (corsivo nel testo).

540
Crisi di civiltà

avvenimenti solo nelle mani di un capo», e lo stesso accade «nella forma­


zione di quei grandi organismi vitali che noi chiamiamo popoli e Stati»’24.
Spengler prosegue: «Questo fatto cosmico si lega [...] con la volontà di
eredità che in ogni razza virile si manifesta»: nasce così «il concetto di di­
nastia»', con la caduta del regime feudale, «la storia faustiana diviene sto­
ria dinastica»324325. Pertanto si osserva come «il principio genealogico già in
vigore nella nobiltà feudale e nei ceppi contadini [...] diviene talmente vi­
vo che il costituirsi delle nazioni va a dipendere dal destino delle case re­
gnanti»326. Una volta insediata, ogni autorità tende a perpetuarsi, e la vo­
lontà di essere ereditario è insita in ogni potere. La volontà dinastica è
quindi una delle componenti obbligatorie del potere nella forma che as­
sume all’apogeo delle «culture alte». Tuttavia solo la cultura faustiana, col
suo senso tutto particolare del tempo, gli conferisce piena espressione327.

324. Ibid., p. 1236.


325. Ibid., pp. 1237-1238 (corsivo nel testo).
326. Ibid., p. 1238.
327. Merlio, Oswald Spengler, p. 727. Spengler traccia un quadro terrificante della
servitù dell’individuo che costituisce il suo ideale e che, secondo lui, si trova in
Nietzsche. Ma «solo la ripugnanza romantica di Nietzsche a venire a conse­
guenze sociali assai prosaiche [...] non gli fece confessare che tutta la sua dot­
trina, come scaturisce dal darwinismo, così presuppone anche il socialismo
quale mezzo, il socialismo inteso come imposizione» (Spengler, Il tramonto del­
l’Occidente, voi. I, p. 580). Questa visione di uno Stato «socialista» nel quale
culmina l’obbedienza - il «Tu devi» - costituisce il pilastro di Prussianesimo e
socialismo. Ma ciò che Spengler non ha capito, o non ha voluto capire, in Nietz­
sche, è il brano seguente: «Chi ha per prima cosa imparato a curvare la schie­
na e ad abbassare la testa di fronte alla potenza della storia finisce per dire “sì”
nella maniera meccanica dei cinesi a qualsiasi potenza»: citato in Merlio,
Oswald Spengler, p. 121. Gilbert Merlio (pp. 111-112) pensa che la relatività di
Spengler derivi proprio da Nietzsche e non da Herder, perché II tramonto non
crede più al piano divino che in Herder coordinava la diversità delle nazioni-
epoche. La relatività spengleriana sarebbe etnica e non storica, non determi­
nata dal fattore tempo, poiché non c’è storia complessiva del genere umano. Se
il periodo classico è diverso dall’Occidente moderno non è perché sia anterio­
re ma perché sorto da altro sangue in altro suolo. Per Herder le diverse civiltà
nazionali costituiscono altrettante tappe di una educazione dispensata da Dio
all’umanità; ognuna è necessaria nel proprio tempo e definisce la propria col­
locazione in un piano d’insieme. Invece le civiltà viste da Spengler sono defi­
nite soltanto dalle loro coordinate geografiche ed etniche.

541
Crisi di civiltà

È così che l’ideale dinastico assume un ruolo cruciale nella storia del­
l’Occidente come la intende Spengler. La sua visione della formazione del­
le nazioni e delle razze spiega il suo rifiuto del razzismo biologico nazista.
Il suo razzismo, e quindi il suo antisemitismo, erano fenomeni culturali, vi­
cini piuttosto all’antisemitismo di Maurras e di Barrès. I popoli, afferma
Spengler, sono «di origine dinastica», la Germania è il prodotto «dell’idea
imperiale che ha fuso nella nazione tedesca una quantità di popoli primi­
tivi del periodo carolingio», e in quanto al popolo francese, sottolinea
Spengler in un brano che sembra copiato testualmente da qualche scritto
di de Maistre, di Maurras o di Bainville, «deve la sua unità ai suoi re che
fusero in esso i franchi e i visigoti»: è «a Bouvines che esso imparò per la
prima volta a sentirsi come un tutto». Allo stesso modo la Prussia, «la na­
zione più recente dell’Occidente [...], è creazione degli HohenzoUem»,2l!.
L’idea di patria è quindi il prodotto di un processo politico.
Che cos’è dunque la razza? Le razze, secondo Spengler, «non sono le
creatrici delle grandi nazioni, bensì la loro conseguenza. Nel periodo caro­
lingio non esisteva ancora una sola razza». Ma è nel processo di formazio­
ne della nazione nella cornice dinastica, che le «nazioni odierne» hanno
acquisito ciò che da esse «vien sentito e vien vissuto come razza»; è così
che si sono forgiati «i concetti storici [...] della purità di sangue e della pa­
rità di nascita»529. Prima di tutto storica e non biologica, l’idea del sangue
e del suolo, legata a quella di patria e di specificità culturale, produce co­
munque un violento antisemitismo, con le sue conseguenze pratiche: l’e­
sclusione degli ebrei dalla comunità culturale, questa comunità di sangue
forgiata dalla storia alla quale essi non possono appartenere.
E evidente che qui Spengler inciampa nelle stesse difficoltà incon­
trate da Carlyle e da Maurras. La comparsa di un grande uomo di Stato,
di colui che «il mondo antico designò come una divinità», e che diventa
«padre spirituale di una nuova razza», è prodotto dal caso, ma - e que­
sta è la funzione essenziale del grande uomo - ha il compito di perpe­
tuare la propria azione creando una tradizione. Poiché «creare una tra­
dizione significa eliminare il caso»3283930. E in questo che uno Spengler, un

328. Spengler, Il tramonto dell’Occidente, voi. II, pp. 938-942.


329. Ihid., pp. 939-940 (corsivo nel testo).
330. Ibid., p. 1337 (corsivo nel testo).

542
Crisi di civiltà

Barrès o un Maurras possono essere considerati dei tradizionalisti, ma


tradizionalisti rivoluzionari. Tradizionalista non è esattamente sinonimo
di conservatore: un tradizionalista può voler preservare una tradizione
che esiste già oppure, al contrario, creare lui stesso una tradizione che
poi intenderà perpetuare, così come potrà scagliarsi contro una tradi­
zione che vuole sopprimere. La tradizione è insomma un prolungamen­
to nel tempo del « potere comandare» che distingue il vero grande uo­
mo’31. Un grande uomo di Stato, come ha già mostrato Carlyle, è un edu­
catore che non rappresenta necessariamente una dottrina o una morale;
egli comanda, dà l’esempio col suo agire e forma delle élite orgogliose. E
il modello vivente che genera i sentimenti di onore, di disciplina, di do­
vere, ma può creare una tradizione solo se gli uomini del suo tempo ne
sentono la necessità per il loro tempo e la loro nazione” 2.
Il relativismo, il rifiuto di ogni forma di universalismo e di unità del
genere umano, l’impermeabilità delle culture, l’impossibilità di vere co­
municazioni tra loro producono molto presto un senso di alienazione
che dopo Herder si esprime in un ripiegamento culturale. Le unità lin­
guistiche e culturali rappresentate dai popoli costituiscono i prodotti di
una cultura e, tra «le anime di due civiltà», esiste «una parete separato­
ria insormontabile, sì che non vi è occidentale che possa sperare di capi­
re completamente un indù o un cinese»” 3. Ma ancora più importante è
che per Spengler «una tale separazione esiste anche, e in sommo grado,
fra nazioni già formate»: «Le nazioni si comprendono fra di loro così po­
co, come i singoli individui. Ognuna ha dell’altra una immagine che es­
sa stessa si è creata»33123435. Questo significa che le stesse nazioni europee si
trovano in una condizione di incomprensione e di alienazione che equi­
vale alla pura e semplice xenofobia. Infatti «il lato più interno di ogni na­
zione straniera per l’uomo medio e quindi anche per l’opinione pubbli­
ca della propria nazione resta un perpetuo enigma divenendo fonte di
continui errori non privi di serie conseguenze»” 5. A forza di mettere l’ac­
cento su ciò che separa le compagini umane si finisce per porle le une

331. Ibid., p. 1336 (corsivo nel testo).


332. Ibid. Si veda anche alle pp. 1338-1339.
333. Ibid., p. 925.
334. Ibid.
335. Ibid, p. 926.

543
Crisi di civiltà

contro le altre. L’ideale herderiano di indipendenza culturale assoluta


trova la sua concretizzazione nel nazionalismo degli inizi del X IX seco­
lo. Un secolo dopo, già prima della Grande Guerra, la radicalizzazione
degli stessi principi crea un nazionalismo infinitamente più aggressivo.
Infatti non sempre la differenza tra la relatività storica e quella etnica
si mantiene chiara o assume un significato politico concreto, anzi. Lo stes­
so vale per la differenza tra determinismo culturale e determinismo etni­
co. Con Herder la guerra contro le «idee francesi» ha inizio, con Spengler
sfocia in quella contro «le idee inglesi». In entrambi i casi si tratta di valo­
ri universali. Spengler si è arrestato alle soglie del nazismo: ma ciò non si­
gnifica che egli non abbia avuto un ruolo determinante nell’ascesa del na­
zismo. La salita al potere del nazismo non sarebbe stata possibile senza la
lunga lotta contro i principi razionali dei diritti dell’uomo, e quindi del­
l’unità del genere umano, basati su quel tanto detestato Illuminismo.
Allo stesso modo bisogna distinguere bene l’idea, presente in Hegel,
che un popolo può «fare epoca» una sola e unica volta, dal pensiero di
Herder e di Spengler. Per Hegel, una volta realizzati la sua missione sto­
rica e i suoi principi, esso passa il testimone a un altro popolo. Di primo
acchito una idea simile si trova anche in Herder, ma si è già visto chiara­
mente quanto sia illusorio credere che questo autore tenda a un’egua­
glianza di tutti i popoli che si succedono gli uni agli altri. I germani, fon­
datori della cultura occidentale, non hanno esaurito il loro ruolo con la
fine del Medioevo: la civiltà medievale resta un metro con cui misurare
il mondo moderno. Ponendo l’accento sull’unicità di ogni cultura, Her­
der apre la strada a Spengler, e il fatto che ciò si inscriva in un piano di­
vino non basta per farne un fenomeno a parte: il piano divino non im­
pedisce la creazione di una gerarchia tra i popoli e le culture. Il relativi­
smo genera alla fine il particolarismo e la compartizione. La comparti­
zione culturale è un’invenzione di Herder, non di Spengler, ed è estranea
a Hegel. E appunto tale compartizione che provoca l’alienazione e infi­
ne l’ostilità tra popoli e culture. Le differenze culturali si traducono ben
presto in differenze etniche, cosa inimmaginabile in Voltaire o in Hegel.
È fuori di dubbio che la critica spengleriana sia radicale, netta e di­
retta, più radicale di quella di Maurras e di Sorel, che non pongono in
dubbio la superiorità dell’Occidente.
Tuttavia l’umiliazione tedesca del 1918, come quella subita ai tempi
di Fichte di fronte a Napoleone, è ben lungi dallo spiegare tutto. In Ger-

544
Crisi di civiltà

mania, anche dopo la vittoria del 1870, i nazionalisti ritengono che i


grandi obiettivi della rinascita nazionale non siano stati raggiunti. Nel­
l’ultimo paragrafo della sua introduzione Spengler fa un’«osservazione
personale» sulla crisi del 1911, quando la guerra mondiale gli è apparsa
imminente. Con tutta evidenza l’introduzione è stata scritta durante la
guerra stessa, ma sarebbe del tutto erroneo attribuire al conflitto mon­
diale il pessimismo, il relativismo, l’antiumanesimo, la rivolta contro la
ragione, contro l’autonomia dell’individuo e contro l’idea di progresso
espressi dall’opera di Spengler. Tutto questo corpus ideologico era stato
messo insieme non venticinque anni prima ma in realtà già dalla secon­
da metà del Settecento. Sono le idee che costituiscono appunto il conte­
nuto della seconda modernità descritta in questo libro.
Per quanto riguarda il contesto immediato, Les Illusions du progrès di
Sorel, La fin d’un monde di Drumont, gli Essais de psychologie contempo­
raine di Bourget e tutta l’enorme letteratura della decadenza che ha som­
merso l’Europa nel mezzo secolo precedente la Prima guerra mondiale
appartengono a una tendenza che prosegue con Spengler ma non finisce
con lui” 6. La decadenza è un prodotto del razionalismo, del materialismo
e dell’utilitarismo che hanno generato la Rivoluzione e con essa la demo­
crazia e la sua morale da mercanti. È difficile pensare che opponendo la
morale dell’eroe alla morale del mercante Spengler non abbia saputo
niente dei grandi dibattiti del suo tempo. Non è possibile che abbia igno­
rato tutto di Sorel, di Maurras o di Marinetti, o che non abbia conosciu­
to, nella stessa Germania, Langbehn e Lagarde. Appare difficile accetta­
re l’idea che egli non sia stato consapevole che la sua critica alla demo­
crazia, per contenuto e stile, così come il suo inno alla tecnologia moder­
na, assomigliavano stranamente al manifesto del futurismo”7.

336. Cfr., per esempio, Paul Bourget, Essais de psychologie contemporaine, Lemerre,
Paris 1885, 4‘ ed., p. 15: «Una nausea universale di fronte alle insufficienze di
questo mondo agita il cuore degli slavi, dei germani e dei latini e si manifesta
tra i primi col nichilismo, tra i secondi col pessimismo, tra noi con solitarie e
bizzarre nevrosi». Si possono, a titolo di esempio, consultare su questo sogget­
to un numero speciale, dedicato alla decadenza, di Romantisme: Revue du Dix-
Neuvième siècle, n. 42, IV trimestre 1983, come anche l’edizione del 2000 del
mio Maurice Barrés et le nationalisme français (Fayard).
337. Spengler, Il tramonto dell’Occidente, vol. I, p. 96.

545
Crisi di civiltà

In questo modo si forgia, da Herder a Spengler a Meinecke, un’altra


modernità che per un secolo e mezzo non ha cessato di contrapporsi al­
la modernità razionalista, proclamandone il crollo dei valori. Questi va­
lori potevano essere quelli del razionalismo dei Lumi, dell’umanesimo
antico coi suoi principi radicati nella legge naturale, o della morale cri­
stiana. I valori universali, così come i principi dell’89, la democrazia di
Weimar o la Terza Repubblica, non sono crollati da soli. Non sono stati
la ricerca della pluralità, né lo sviluppo delle scienze della natura, la sco­
perta che ci potevano essere più geometrie, così come mentalità diffe­
renti e psicologie dissimili, che dovevano produrre necessariamente l’i­
dea che, allo stesso modo, c’erano più morali, più verità o più specie
umane. L’idea di differenza comporta tanti pericoli quanto quella di
uniformità. Ponendo l’accento su ciò che separa gli uomini, rifiutando
l’idea che possa esistere una sola natura umana, lo si è visto, si provoca
lo sfacelo dell’umanità.
Spengler porta fino alle estreme conseguenze i principi dello storici­
smo e di una pluralità delle culture che facilmente produce tra loro un
antagonismo virulento. L’idea di differenza non mette affatto in discus­
sione quella di unità dell’umanità. E con lTlluminismo che inizia l’inte­
resse degli europei per altri mondi e altre civiltà. Se Montesquieu e Vol­
taire compiono tanti sforzi per capire culture lontane nel tempo e nello
spazio come l’Egitto antico, la Persia, la Cina o l’America del Sud, è per
capire l’uomo in tutte le sue diverse manifestazioni, al di là di ciò che il
cristianesimo può dare. E così che in Francia e in Inghilterra i grandi
pensatori dei Lumi mirano a una universalità autentica, che il pensiero
cristiano non poteva garantire. Pongono sullo stesso piano dell’Europa
cristiana i popoli che non appartengono alla filiazione biblica. Essi ri­
flettono sulla decadenza, sulle evoluzioni cicliche delle nazioni e delle
culture senza tuttavia negare la marcia in avanti di un’umanità concepi­
ta come veramente unica.
Certo, alla fine Spengler avrebbe ricusato il determinismo biologico
nazista. Ma comunque l’anima che, in ultima analisi, costituisce la «cul­
tura alta» deve essere difesa da ogni mescolanza razziale e da ogni meta­
morfosi. Ciò induce necessariamente a interrogarsi sulla possibilità stes­
sa di portare avanti un relativismo culturale, detto anche pluralismo, una
dipendenza manifesta, se non assoluta, dell’individuo dalla comunità,
senza scivolare inevitabilmente verso forme di determinismo dapprima

546
Crisi di civiltà

culturale, poi etnico. Tale domanda può essere posta anche in modo di­
verso: come stabilire il confine tra determinismo culturale e determini­
smo etnico e razziale? L’ideale herderiano della separazione culturale è
all’origine di questa frammentazione e la xenofobia herderiana che si
manifesta nella sua visione della Francia così come nella visione di altri
popoli e culture, compresi i neri e gli ebrei, è alla base della filosofia del­
la storia di Spengler, già nettamente biologica.
Il pensiero di Spengler costituisce l’ultima tappa di quella prepara­
zione degli spiriti che, sola, doveva permettere il disastro del X X secolo.
È allora che giunge a termine il lungo processo di accumulazione le cui
prime basi sono state poste dalla rivolta herderiana contro la cultura dei
Lumi, seguita immediatamente da Ficthe e dalla generazione delle guer­
re napoleoniche. Si può parlare di questo periodo nei termini usati da
Taine quando afferma che, ai tempi dei Lumi, la polvere da sparo si era
accumulata per esplodere infine con la Rivoluzione. La chiusura dei
mondi storici comincia con Herder, diventa poi sempre più ermetica per
giungere a essere completamente impermeabile con Spengler. Il deter­
minismo biologico ne è la conseguenza logica.

547
C A P IT O L O 8

G li antilluministi della guerra fredda

Ai tempi della guerra fredda la lotta contro i Lumi prosegue secondo i


grandi principi costruiti nel Settecento e nell’Ottocento. È così che la
polemica tra Herder e Kant, la critica herderiana a Voltaire e Monte­
squieu, la rivolta di Burke contro il magistero esercitato da Locke per
tutto il secolo che segue la Gloriosa Rivoluzione, la critica a Rousseau co­
dificata da Herder e da Burke stabiliscono i parametri del pensiero an-
tilluminista del secolo appena trascorso. Modernizzate e adattate alle
realtà politiche e sociali dell’inizio del X X secolo, le strutture intellet­
tuali di questa campagna si evolvono, ma mostrano fino alla metà del se­
colo passato, e per molti aspetti fino a oggi, una stupefacente continuità.
Le origini del male restano sempre le stesse: rilluminismo francese, Vol­
taire e Rousseau sono responsabili di tutte le sventure del mondo mo­
derno, mentre Burke ed Herder emergono come fonti di ogni saggezza.
Dall’inizio del X X secolo, per tutto il periodo tra le due guerre, poi coi
primi segnali di guerra fredda, quando la Rivoluzione d’ottobre viene vi­
sta come il naturale seguito della Rivoluzione francese, questa campagna
per la libertà è orchestrata come una guerra contro il razionalismo de­
molitore del XVIII secolo che pretende di essere in grado di trovare la
strada verso la verità e la salvezza. Il maggiore rappresentante di questo
atteggiamento, il suo rappresentante più famoso ma anche più ambiguo,
e quindi più interessante, è Isaiah Berlin.
In pratica, nei confronti del comuniSmo, Berlin si assegna lo stesso
ruolo di Herder e di Burke nei confronti dell’Illuminismo francese. Quan­
do scrive su Herder egli si pone nella prospettiva sviluppata dapprima con
il suo attacco a Rousseau nel 1952, poi, nel 1958, con la sua celebre con­
ferenza sui due concetti di libertà. Secondo lui, al tempo della guerra fred­
da, il comuniSmo, che pretende di possedere la verità universale, nemico
della libertà negativa e della pluralità, erede del giacobinismo, prosegue
l’opera distruttrice di Rousseau, di Helvétius e di Voltaire. Quindi è in

548
G li antìlluministi della guerra fredda

nome di un particolare liberalismo, il «liberalismo bloccato», che risuona di


nuovo il grido di guerra contro l’universalismo dei Lumi franco-kantiani.
Berlin non ha un pensiero monolitico e può essere facilmente letto
in molti modi diversi. Autore di saggi, di conferenze e di interviste spar­
si lungo mezzo secolo, egli non ha lasciato nessuna opera sistematica.
Contrariamente a quanto di solito si pensa, il suo stile di lavoro non è ra­
zionale; di fatto si può supporre che egli capisse la difficoltà di concilia­
re le contraddizioni presenti nei suoi scritti e che sentisse che le conclu­
sioni che bisognerebbe trarne potrebbero essere incerte. E così simile a
Herder e vi si identifica a tal punto da manifestare i tre aspetti del suo
mentore intellettuale. Si può pertanto scoprire di volta in volta un Ber­
lin nazionalista, comunitario, antirazionalista, relativista, e un Berlin
umanista, postmoderno e decostruzionista ante litteram.
Per la verità, quando egli inizia la sua carriera di storico delle idee a
Oxford, è stato preceduto dallo storico israeliano Jacob Talmon. Nel
1952 costui pubblica, in pratica contemporaneamente ad Hannah
Arendt, la sua opera più nota, Le origini della democrazia totalitaria'. Il
termine entra così in circolazione, benché la sua invenzione risalga a pri­
ma, a un momento difficile da precisare; ma lo si incontra dal 1943 nelle
opere di A.D. Lindsay, rettore di Balliol, uno dei più antichi college di
Oxford, e personalità molto nota ai suoi tempi123. Ernst Barker, anch’egli
figura eminente dell’epoca, accusa Rousseau di esaltare l’onnipotenza del
sovrano e utilizza nel 1947 l’aggettivo «totalitaria» per definire la sua in­
fluenza’. L’idea era nell’aria in quegli anni di guerra e di dopoguerra che
Talmon passa in Inghilterra, ma è lo storico di Gerusalemme che ha l’in­
tuizione di farne, ponendosi sotto la protezione di Burke, la punta di dia­
mante della campagna contro il comunismo, per interposti Lumi francesi.
Però è un Burke rivisto da Taine quello che esce dalla penna di Talmon,
e sono senza dubbio Les Origines de la France contemporaine, e non, come

1. Per decisione del comune editore, Seeker & Warburg, in accordo cogli autori, l’o­
pera della Arendt Le origini del totalitarismo è apparsa per la prima volta a Lon­
dra nel 1951 col titolo The Burden of Our Time. Il libro di Talmon è uscito nel
1952 col titolo The Origins of Totalitarian Democracy.
2. A.D. Lindsay, The Modern Democratic State, Oxford University Press, London
1959, p. 14.
3. Si veda la sua «Introduction», in Social Contract: Essays by Locke, Hume and Rous­
seau, Oxford University Press, London 1953 (P ed. 1947), p. LI.

549
G li antilluministi della guerra fredda

si è preteso da molti, La Démocratie en Amérique, che si ritrovano ne Le ori­


gini della democrazia totalitaria'. In realtà Talmon segue Taine, così come si
schiera con Cari Becker contro Cassirer45. Egli è consapevole che il suo uso
di espressioni come «filosofia del Settecento» e «filosofi del Settecento» non
è del tutto appropriato, ma spiega la sua scelta col fatto che a interessarlo so­
no esclusivamente i filosofi della seconda metà del Settecento, e più in par­
ticolare «quelli che crearono lo stato d’animo e lo spirito rivoluzionario».
Sono insomma loro che, «fatte tutte le riserve, meritano, secondo noi, di es­
sere considerati come voci del XVIII secolo»6. Questi autori sono in primo
luogo Rousseau, e soltanto come autore del Contrai social, Morelly, al quale
si deve un solo pamphlet, poco importante, il Code de la Nature, e Mably,
scrittore considerato ai suoi tempi uno spirito particolarmente arruffone.
Mably è raramente preso sul serio tanto ai suoi tempi quanto dagli storici,
ma sono proprio questi autori che, nella mente di Talmon, sono scelti per
dare voce al XVIII secolo. Poiché Morelly e Mably sono marginali, in prati­
ca è su Rousseau che si basa tutto il peso della dimostrazione7.

4. J.L. Talmon, Le origini della democrazia totalitaria, trad. di Maria Luisa Izzo
Agnetti, Il Mulino, Bologna 1967. Taine tuttavia non è citato nel testo e il suo no­
me è accennato solo in una nota; e anche qui per criticare «il quadro esplicita­
mente distorto fornito da Taine e altri del pensiero settecentesco» (pp. 357-358).
5. Su Becker, cfr. l’Epilogo.
6. Talmon, Le origini della democrazia totalitaria, pp. 357-358. Invece di essere con­
finato nelle note, sarebbe più logico che questo avvertimento fosse stato posto al­
l’inizio del volume, per mettere sull’avviso il lettore che avrebbe il diritto di po­
tersi interrogare su questa scelta molto riduttiva.
7. In questo campo la sola differenza tra l’autore della Democrazia totalitaria e quello del­
le Origines de la France contemporaine consiste nell’importanza che Talmon accorda
agli «irregolari del partito», Mably e Morelly, che Taine giustamente si limita a spaz­
zare via (Le origini della Francia contemporanea. Cantico regime, pp. 413-414). Di Ma­
bly non è presente alcuna citazione, Morelly ne avrà solo una alcune pagine dopo. Non
è privo di interesse constatare come Rousseau e Mably, che costituiscono i due pezzi
foni della dimostrazione di Benjamin Constant sulla tirannia moderna, hanno un ana­
logo ruolo in Talmon e poi in Berlin. La domanda su perché proprio Mably sia di­
ventato un rappresentante accreditato dell’Illuminismo francese trova probabilmente
la sua risposta in Constant. In effetti, a fianco della «metafìsica sottile del Contratto so­
ciale [che] non giova, ai nostri giorni, se non a fornire armi e pretesti a tutti i generi di
tirannia», si trova Mably, «rappresentante di quella classe numerosa di demagoghi, be­
ne o male intenzionati, i quali [...] parlavano di nazione sovrana affinché i cittadini
fossero più compiutamente assoggettati»: si veda Benjamin Constant, Dello spirito del­
la conquista e dell’usurpazione nei loro rapporti con la civiltà europea, trad. di Augusto
Donaudy, Rizzoli, Milano 1961, pp. 101 e 103. Viceversa per Meinecke Mably non è
altro che un superficiale chiacchierone: Le origini dello storicismo, p. 154.

550
G li antilluministi della guerra fredda

L’opera di Talmon ha immediatamente un grosso successo, meno di


quello dell’opera della Arendt ma sufficiente per spingerlo alla ribalta del
dibattito intellettuale dell’epoca: il pubblico colto accoglie con favore un
libro che vede come un nuovo e importante contributo alla guerra contro
i nuovi giacobini del comunismo8. Qualche anno dopo, nel luglio del
1957, Talmon è invitato a parlare davanti a militanti del Partito conserva­
tore britannico riuniti in seminario estivo a Oxford. Pubblicato col titolo
«Utopianism and Politics», il testo di questa conferenza costituisce una
sorta di manifesto di un conservatorismo illuminato e inizia, fatto all’epo­
ca significativo per un israeliano, con una evocazione dei più antichi con­
servatori del mondo, gli ebrei, restati fedeli per innumerevoli generazioni
alle loro tradizioni e alla loro identità. Il resto consiste in un condensato
di ciò che separa, secondo i conservatori degli anni Cinquanta, una visio­
ne aristotelica, o pragmatica, da una visione utopistica della politica. Qui
non si tratta di sapere ciò che resta oggi di questo genere di argomenta­
zioni, ma quale ne è stata la funzione ai loro tempi. Più precisamente, per
ciò che qui ci interessa, possiamo dire che questa ventina di pagine rap­
presenta un inventario brillante, anche se veloce, dei temi essenziali che,
passata la prima infatuazione per Talmon, avrebbero assicurato la gloria a
Isaiah Berlin. Si tratta in primo luogo del pericolo dell’«utopismo», cioè

8. Bisogna perlomeno precisare che specialisti del XVIII secolo, in particolare le


due figure eminenti dell’epoca in questo campo, Alfred Cobban e Peter Gay, ri­
volgono subito dure critiche allo storico di Gerusalemme. Si veda Alfred Cob­
ban, In Search o f Humanity: The Role o f the Enlightenment in Modern History,
New York, George Braziller, 1960, pp. 182-184, e Peter Gay, The Party o f Hu­
manity: Essays in the French Enlightenment, Norton, New York 1971 (1‘ ed.
1954). A partire dagli anni Cinquanta su questo soggetto si è accumulata una
enorme letteratura. Un articolo imprescindibile che rappresenta bene l’approc­
cio di una importante scuola di storia delle idee per quanto riguarda « l’influen­
za dei Lumi sulla Rivoluzione francese» e della teoria di « C ’est la fante à Rous­
seau» è quello di Keith Michael Baker: «O n the problem of the Ideological Ori­
gins of the French Revolution», in Dominick LaCapra e Steven L. Kaplan, Mo­
dern European Intellectual History. Reappraisals and New Perspectives, Cornell
University Press, Ithaca 1982, p. 205. Un’eccellente opera che fa il punto sulla
questione è Le Totalitarisme: le X X' siede en débat, textes choisis et présentés
par Enzo Traverso, Le Seuil, Paris 2001. Si veda anche Abbott Gleason, Totali­
tarianism: The Inner History o f the Cold War, Oxford University Press, New
York 1995.

551
G li antilluministi della guerra fredda

il postulato per cui la storia ha uno scopo e una conclusione e che per rag­
giungere questi obiettivi la vita e la società devono essere rimodellate da
capo a fondo. La storia viene in questo modo sostituita dalla sociologia,
sostiene Talmon. Secondo lui questo postulato, che ha assunto grande for­
za alla vigilia della Rivoluzione francese, costituisce il denominatore del
comuniSmo, del socialismo e di altre scuole di pensiero della stessa ten­
denza. In pratica, dopo il declino della credenza in una sanzione religiosa
e dell’idea di peccato originale, con l’avvento dell’età della ragione, la fe­
de nell’uomo naturalmente buono o almeno perfettibile guadagna terre­
no e con essa l’idea che, siccome gli impulsi naturali dell’uomo sono buo­
ni, questi impulsi si armonizzerebbero da soli, una volta liberati dalle pa­
stoie che li intralciano, mentre la conciliazione dei diversi interessi si rea­
lizzerebbe anch’essa da sola. La struttura coesiva dell’universo è una ga­
ranzia della possibilità di realizzare uno stato di giustizia assoluta. Allo
stesso tempo si è insegnato agli uomini che avevano diritto alla felicità e
che la dottrina laica dei diritti dell’uomo, che sostituisce la dottrina reli­
giosa del peccato originale, sollecitando appetiti che mai avrebbero potu­
to essere soddisfatti, invece di aver creato la felicità genera di fatto un’ac-
cresciuta miseria. La dottrina dei diritti dell’uomo si traduce pertanto in
un utilitarismo volgare. In tal modo si apre la strada alla demagogia e al­
l’appello ai dittatori ritenuti in grado di appagare i nuovi appetiti9.
La tragedia dell’utopismo, secondo Talmon, sta nel fatto che «inve­
ce di una riconciliazione tra libertà umana e coesione sociale, ha appor­
tato una coercizione totalitaria»101. Il totalitarismo è quindi il risultato del
rifiuto della tradizione, delle abitudini o anche dei pregiudizi, e il pro­
dotto della fede nella ragione come unico criterio di comportamento
umano. La ragione, come le matematiche, rappresenta in questo campo
la verità esclusiva. Nei fatti la ragione, secondo Talmon, risulta la guida
più fragile e ingannevole, poiché nulla può impedire che tra un gran nu­
mero di «ragioni», ognuna delle quali si pretende verità esclusiva, si sca­
teni un conflitto che può essere risolto solo con la forza". Nel mondo

9. J.L . Talmon, Utopianism and Politics, Conservative Political Centre, [London]


1957, pp. 7-12 e 14-15.
10. Ibid., p. 12.
11. Ibid., p. 13.

552
G li antilluministi della guerra fredda

m o d e rn o l’u to p ism o rivoluzion ario è rap p re se n ta to d al com u niSm o in ­


tern azion ale d iretto d a M o sca.
La litania sui misfatti del razionalismo, della ricerca della felicità, dei
diritti dell’uomo e dell’utilitarismo è infinita. Qui Talmon fa appello al
grande storico svizzero Jacob Burckhardt che pure si era dedicato allo
studio della miseria del mondo moderno e della società di massa1213. La
produzione industriale ha spento la fierezza dell’artigiano, le università
sovraffollate producono un Lumpenproletariat, certo, l’analfabetismo è
scomparso, ma i milioni di lettori sono stati sommersi dalla volgarità
stampata come mai prima. Si può viaggiare tranquillamente di notte, ma
l’incubo della guerra sovrasta l’intera umanità. Tutto ciò ci porta alla
conclusione non solo che il totalitarismo è una sventura, ma anche che
la stessa democrazia può essere difficilmente vista come un progresso.
Talmon termina rifacendosi a Burke, alla Costituzione britannica «pre­
scrittiva» e all’istinto di conservazione che egli considera in ultima ana­
lisi l’aiuto più potente. L’insistito omaggio reso alla Gran Bretagna, pa­
tria del conservatorismo, sia di tendenza tory che laburista, si realizza
contrapponendo la sua evoluzione pacifica alle convulsioni rivoluziona­
rie che non hanno cessato di agitare la Francia dell’Ottocento1’.

12. Si veda un bel libro di Lionel Gossman, Basel in tbe Age of Burckhardt: a Study
in Unseasonable Ideas, Chicago University Press, Chicago 2000.
13. Talmon, Utopianism and Politica, pp. 16-21. Talmon non scriverà più niente di
davvero paragonabile a questa sua conferenza del 1957. Negli anni Sessanta una
contrapposizione tra ciò che secondo Talmon costituisce una internazionale de­
gli utopisti con stato maggiore a Mosca e il mondo libero perde credibilità e il
tono comincia a cambiare. D ’altra parte la guerra arabo-israeliana dei Sei Gior­
ni del 1967 apre per Talmon un’altra problematica che egli vivrà ormai con in­
tensità senza pari fino alla morte nel 1980: lo scontro quotidiano col nazionali­
smo integrale ebraico lo rende consapevole che i problemi del mondo moderno
e del suo paese sono altrove. Talmon, conservatore liberale classico, per il quale
il ritorno degli ebrei alla terra degli antenati era il mezzo per costruire una so­
cietà libera e aperta, aveva capito molto presto ciò che Berlin, nazionalista her-
deriano da sempre, non coglierà, o non vorrà cogliere, nella grande tranquillità
di quella riserva naturale, spesso isolata dal mondo esterno, costituita da un col­
legio di Oxford. Per Talmon il nazionalismo, che, nella sua variante ebraica e
israeliana, era esploso col movimento «per la Grande Israele», rimane sino alla
fine della sua vita un pericolo di bruciante attualità. Lo è ancora in questo inizio
del X X I secolo.

553
G li antìlluministi della guerra fredda

Pur senza ammetterlo, Berlin segue i passi di Talmon e si abbevera


alle stesse fonti. Lo segue nella sua lotta contro il razionalismo, contro
Rousseau e il XVIII secolo, « l’utopismo» e la Rivoluzione francese con­
cepita come il prototipo di tutte le rivoluzioni venute dopo e preannun­
cio della Rivoluzione sovietica. L’idea del conflitto dei valori, dei fini e
degli obiettivi, il problema del «monismo», tutte cose che verranno as­
sociate al nome di Berlin, si trovano già espresse in Talmon con grande
chiarezza. E tuttavia, o meglio proprio per questo, in una lunga intervi­
sta col noto sociologo britannico Steven Lukes, Berlin insiste con forza
sulla originalità del proprio pensiero: «Quanto alle tesi di Talmon, le
avevo già pensate indipendentemente, e all’epoca in cui conobbi il libro
avevo già scritto il mio saggio sulla libertà. Ma è un libro interessante»14.
In realtà la prima opera di Talmon è uscita nel 1952 e il suo autore go­
deva allora di una rinomanza che Berlin acquisirà solo alla fine del de­
cennio, dopo la sua elezione alla cattedra Chichele del più prestigioso
college di Oxford, l’AU Souls. È in questa occasione, il 31 ottobre 1958,
sei anni dopo l’uscita del primo libro di Talmon, e più di dodici mesi do­
po la conferenza tenuta al seminario del Partito conservatore, che Berlin
pronuncia la lezione inaugurale, «I due concetti di libertà», che gli apre
le porte della celebrità.

14. «Isaiah Berlin in Conversation with Steven Lukes», Salmagundi: A Quarterly of


the Humanities and Social Sciences, n. 120, autunno 1998, p. 98 [Isaiah Berlin,
Tra filosofia e storia delle idee. La società pluralistica e i suoi nemici. Intervista
autobiografica e filosofica, a cura di Steven Lukes, Ponte alle Grazie, Firenze
1994, p. 66]. Dopo la pubblicazione francese della presente opera Flenry Flardy
mi ha cortesemente segnalato che la prima uscita di questo testo è avvenuta in
italiano nel 1992: Steven Lukes, «Isaiah Berlin: Tra filosofia e storia delle idee»,
Iride, voi. 8, gennaio-aprile 1992, pp. 82-136, ripubblicato in Berlin, Tra filoso­
fia e storia delle idee. Solo nel 1998 è stato reso disponibile ai lettori anglofoni.
Anche Steven Lukes viene da Oxford; è diventato noto negli anni Settanta gra­
zie in particolare ai suoi lavori su Durkheim e sull’individualismo. Cfr. Emile
Durkheim, his Life and Work: a Historical and Critical Study, A. Lane, The Pen­
guin Press, London 1973, e Individualism, B. Blackwell, Oxford 1973. Più tar­
di Lukes ha pubblicato Marxism and Morality, Clarendon Press, Oxford 1985,
e Moral Conflict and Politics, Clarendon Press, Oxford 1991. Nella sua corri­
spondenza con Cruise O ’Brien, Berlin riconosce di non avere tenuto sufficien­
temente conto dell’opera di Talmon: Berlin in Conor Cruise O ’Brien, The Great
Melody, appendice, p. 614.

554
Gli antilluministi della guerra fredda

Gli altri contemporanei importanti, compresi quelli che sono sta­


ti i suoi alleati ideologici più vicini e dei quali egli non esita a occul­
tare il contributo al pensiero del Novecento, non sono trattati meglio
di Talmon. Raymond Aron è un pubblicista brillante ma niente di
più, i suoi lavori su Paix et guerre e su Clausewitz sono interessanti,
non così il resto dei suoi scritti15. Leo Strauss è un erudito, uno stu­
dioso coscienzioso, ma la sua tesi principale, dice Berlin, «mi sembra
sfiori l’assurdo». Berlin proclama il suo «disaccordo di principio»
con Strauss, che non è riuscito, dice, «a farmi credere in valori eter­
ni, immutabili, veri, per tutti gli uomini, in tutti i luoghi e in tutte le
epoche», per la qual cosa « c ’è un abisso invalicabile tra di noi»16.
Nemmeno gli allievi di Strauss suscitano il suo rispetto e, dall’altra
parte dello schieramento politico, il grande storico marxista E.H.
Carr non merita nemmeno attenzione, tanto è incapace di misurarsi
coi concetti17.
È però la Arendt quella più maltrattata. In un colloquio con Ramin
Jahanbegloo nel 1990, Berlin lancia contro di lei un attacco particolar-

15. «Isaiah Berlin in Conversation with Steven Lukes», pp. 94-96 e 107-108 [Tra fi­
losofia e storia delle idee, p. 63].
16. Berlin/Jahanbegloo, En toutes libertés, pp. 52-53. L’abisso è davvero molto
profondo. Strauss infatti rivolge al relativismo di Due concetti di libertà una cri­
tica demolitrice: in sintesi egli pensa che «il liberalismo come lo concepisce Ber­
lin non può vivere né senza una base assoluta né con una base assoluta». Secon­
do Strauss bisognerebbe sapere per quale motivo i principi che Berlin concepi­
sce e trova validi (Strauss intende dire il relativismo dei valori) sarebbero essi
stessi sacri e non capisce perché anche «verità eterne di una civiltà» dovrebbero
essere sottoposte alle contingenze e dipendere dal riconoscimento loro accorda­
to o al contrario negato dalle generazioni future. Strauss pensa che se tali valori
ne possiedono uno intrinseco ed eterno, il loro abbandono vorrebbe dire che le
generazioni le quali responsabili questa scelta avrebbero semplicemente scelto di
ricadere nella barbarie: si veda Leo Strauss, «Relativism», in Helmut Schoeck e
James W. Wiggins (a cura di), Relativism and thè Study of Man, D. Van N o­
strand, New York 1961, pp. 136-139. Devo al mio amico Heinrich Meier, pro­
fessore di filosofia all’Università di Monaco di Baviera, che sta pubblicando in
tedesco le opere complete di Strauss, la comunicazione di tale testo, del quale,
mentre scrivevo questo libro, ignoravo l’esistenza.
17. «Isaiah Berlin in Conversation with Steven Lukes», pp. 94-96 e 107-108 [Tra f i­
losofia e storia delle idee, p. 63],

555
Gli antilluministi della guerra fredda

mente velenoso. C ’è da credere che la gloria europea della «famosa Han­


nah Arendt» cominci in quel periodo a dargli seriamente ombra: è la so­
la spiegazione ragionevole di tanto fiele. «Non ho molta stima della si­
gnora. Lo riconosco», dice. Confessa di avere soltanto «scorso» le sue
Origini del totalitarismo, che a suo parere non valgono molto, poiché ciò
che l’autrice dice dei nazisti è giusto ma non nuovo, e per quanto ri­
guarda i russi si è nettamente sbagliata. In quanto a La condizione del­
l’uomo moderno, quest’opera si basa su due idee, «entrambe sbagliate».
Infine Berlin si appoggia su Gershom Sholem, specialista della cabala,
israeliano di origine tedesca, che aveva polemizzato con la Arendt a pro­
posito del processo Eichmann, il quale gli avrebbe detto che nessun fi­
losofo serio «la ammirava, che i soli ad apprezzarla erano alcuni “lette­
rati” [...] perché non avevano letto niente sulle sue idee». Per questo
motivo, al di fuori degli americani, nessuna «persona davvero colta o
pensatore serio la poteva sopportare»18. I soli autori trattati decente­
mente sono Quentin Skinner, il cui percorso è talmente lontano da quel­
lo di Berlin da non potere costituire per lui un pericolo, Karl Popper, la
cui notorietà restava tutto sommato confinata in un ambiente universi­
tario assai ristretto e che non era una figura pubblica, e Norberto Bob­
bio, al quale è grato per avere sostenuto la tesi delle due libertà. In realtà,
lo si vedrà più avanti, Bobbio dimostra con molta eleganza che questa te­
si si trova già in Kant e non può essere considerata una scoperta.
La tenace volontà di Berlin di smarcarsi dai suoi contemporanei
non si smentisce mai lungo tutto il corso della sua carriera. Acconsente
che un giovane ricercatore sconosciuto, Roger Hausheer,19scriva per lui
un’introduzione alla raccolta di testi e conferenze riuniti sotto il titolo

18. Berlin/Jahanbegloo, En toutes lihertés, pp. 106-109. È con lo stesso atteggia­


mento che Berlin parla della Arendt nella sua conversazione con Lukes.
19. I cataloghi delle grandi biblioteche nazionali e universitarie, compresa la Bri­
tish Library, non contengono niente sotto il suo nome, se non l’introduzione in
questione e il suo lavoro editoriale con Hardy per un’altra raccolta di saggi di
Berlin, The Proper Study o f Mankind. Per Hausheer, Berlin è un «colosso in­
tellettuale», uno della «mezza dozzina circa» dei più importanti pensatori po­
litici dal tempo dei Lumi. Si veda il suo contributo «Enlightening and Enligh­
tenment» alla raccolta di Mali e Wokler, Isaiah Berlin’s Counter-Enlighten­
ment, p. 48.

556
Gli antilluministi della guerra fredda

allusivo di Controcorrente. Questo testo riassume i punti di vista del­


l’autore con una fedeltà alla quale Berlin ha voluto rendere un vibrante
omaggio all’inizio del libro e che può quindi essere considerato come
scritto da lui stesso20. Hausheer ci fa sapere che questi saggi «sono con­
trocorrente, con audacia», e «sono dedicati a figure intellettuali di gran­
de originalità che sono state largamente ignorate»21. Questa affermazio­
ne colpisce per il suo ingenuo provincialismo, poiché è molto difficile
immaginare in che modo gli autori studiati da Berlin, cioè Machiavelli,
Vico, Herder fino a de Maistre e Sorel, siano stati da lui salvati dalle te­
nebre dell’indifferenza, o perché ci volesse un coraggio straordinario
per parlarne. Si dava nientemeno per scontato che il velo dell’oblio
avesse ricoperto i loro nomi fino alla metà del X X secolo. Per quanto ri­
guarda Herder, per esempio, non solo si può riempire un’intera biblio­
teca di lavori dedicati alla sua opera prima che Berlin ne parlasse, ma
nella stessa lingua inglese appaiono, nel 1945 e nel 1955, due opere im­
portanti, di Robert Clark e di Alexander Gillies, già citate, seguite da
Herder's Social and Politicai Thought di F.M. Barnard pubblicata nel
1965. Lo stesso per quanto riguarda Vico: una Bibliografia vichiana in
due volumi e più di mille pagine è stata pubblicata nel 1947-1948 a cu­
ra di Croce, e già dieci anni prima una tesi dell’università di Columbia,
pubblicata nel 1937, aveva per argomento l’influenza di Vico su de Mai­
stre22. Nello stesso periodo appaiono due eccellenti traduzioni in ingle­
se: nel 1944 quella dell 'Autobiografia e nel 1948 quella della terza edi-

20. Isaiah Berlin, Controcorrente. Saggi di storia delle idee, a cura di Henry Hardy,
trad. di Giovanni Ferrara degli Uberti, intr. di Roger Hausheer, Adelphi, Mila­
no 2000. «Sono lieto di esprimere la mia sincera gratitudine a questo giovane
studioso quanto mai promettente» scrive Berlin in una «Nota dell’autore» posta
in testa alla raccolta, «per aver fornito un’esposizione così partecipe e limpida
delle mie idee sugli argomenti discussi in questi scritti» (p. IX).
21. Ibid., p. XVIII.
22. Benedetto Croce, Bibliografia Vichiana, accresciuta e rielaborata da Fausto Ni­
colini, Ricciardi, Napoli, voi. I, 1947; voi. II, 1948. Si vedano a titolo di esempio:
Elio Gianturco, Joseph de Maistre and Giambattista Vico (Italian Roots of De
Maistre’s Politicai Culture) [Washington, D.C., 1937]; Henry Packwood Adams,
The Life and Writings of Giambattista Vico, Russell and Russell, New York 1970
( l 1ed. 1935); Thomas Mary Berry, The Historical Theory of Giambattista Vico,
Catholic University of America, Washington 1949.

557
Gli antilluministi della guerra fredda

zione (1744) della Scienza nuova2'. Joseph Mali ha ottimamente traccia­


to per grandi linee la lettura che Berlin fa dell’opera di Vico, senza però
mostrare in quale misura tale lettura sia tributaria di quella di Croce.
Berlin segue Croce così come si occupa di Herder sulla traccia di Mei­
necke. In pratica, mezzo secolo dopo Croce, si ritrovano in Vico and
Herder le idee essenziali dell’autore de La filosofia di Giambattista Vico.
Vico diventa una volta di più il genio sconosciuto che tutto ha concepi­
to, ma che è stato saccheggiato senza vergogna perché rimasto nell’o­
scurità della sua lontana provincia napoletana e ha scritto in una lingua
relativamente poco nota. Dopo Croce, Berlin si fa nel mondo anglofo­
no il portabandiera del mito di Vico.
Non meno curioso è l’atteggiamento verso Nietzsche e Max Weber.
Nel lungo e importante colloquio con Lukes, già citato, Berlin pretende
in pratica di non conoscere WeDer ma di ammirarlo molto, come del re­
sto ammira Durkheim2,4. Lukes pone la questione del conflitto dei valori
che è la base del pensiero di Berlin e ragione essenziale del suo attacco
aH’Illuminismo francese. Gli ricorda che Weber e Cari Schmitt avevano
già affrontato il problema ed erano giunti alla conclusione che non esi­
stevano scelte razionali. Per Schmitt l’unica scelta è quella tra amico e
nemico; la posizione di Weber è più complessa, ma in entrambi i casi la
problematica è chiaramente posta. La risposta di Berlin è sconcertante:
«Lascia che ti faccia una confessione molto imbarazzante. Quando pro­
posi per la prima volta l’idea del pluralismo dei valori, molto tempo fa,
non avevo letto una pagina di Weber. Non avevo idea che avesse detto
queste cose. La gente spesso mi dice che è stato sicuramente Weber il
primo a sostenere il pluralismo dei valori. Io rispondo che non ho dub­
bi, ma non ne avevo idea». Lukes prosegue: «Tuttavia l’idea del plurali-234

23. I traduttori sono rispettivamente Thomas Bergin e Max Fisch, Cornell Univer­
sity Press. Su Berlin e Vico, cfr. Joseph Mali, «Berlin, Vico and thè Principles of
Humanity», in Mali e Wokler, Isaiah Berlin s Counter-Enlightenment, pp. 51-71.
Di Mali si può consultare anche The Rehahilitation ofMyth: Vico’s New Science,
Cambridge University Press, Cambridge 1992. E sintomo della vitalità degli stu­
di vichiani la traduzione in ebraico della Scienza nuova, edita nel 2005 con una
eccellente introduzione di Mali.
24. «Isaiah Berlin in Conversation with Steven Lukes», pp. 96-97 [Tra filosofia e sto­
ria delle idee, p. 65].

558
Gli antilluministi della guerra fredda

smo dei valori deriva da Nietzsche, almeno per quanto riguarda Weber».
Berlin risponde: «Lo so, ma io ho proposto questa tesi in modo del tut­
to indipendente, senza rifarmi in alcun modo a Nietzsche né a Weber»25.
È piuttosto sorprendente che un professore di filosofia a Oxford, e poi,
dal 1958, titolare della cattedra di teoria sociale e politica, non abbia mai
letto Nietzsche e Weber.
Comunque l’interesse principale del lavoro di Berlin, il centro vita­
le dei suoi scritti, è l’attacco che egli muove contro l’Illuminismo fran­
cese. Certo, il suo atteggiamento verso il XVIII secolo è a prima vista
pieno di contraddizioni, ma un esame globale della sua opera non lascia
dubbi sulle sue opzioni ideologiche. Nel 1990, in un’epoca in cui da
tempo ha cessato di scrivere, si dichiara «un razionalista liberale»,26
quando ha invece passato la maggior parte della sua carriera a combat­
tere il razionalismo. Nel già visto colloquio con Ramin Jahanbegloo di­
chiara di non avere interesse per Spinoza, poiché, dice «è troppo razio­
nalista per me»27. In effetti sono Vico ed Herder che lo affascinano, H a­
mann e Sorel, come anche Burke, che lo attirano, de Maistre che lo
prende. Tutti questi pensatori sono antirazionalisti dichiarati. Ma dove
Berlin diventa davvero incoerente è quando parla di Voltaire, di Helvé­
tius, di D ’Holbach e di Rousseau. «I valori dei Lumi», dice, «che gente
come Voltaire, Helvétius, D ’Holbach e Condorcet esaltavano, mi sono
profondamente simpatici. [...] Questi uomini sono stati dei grandi li­
beratori. Hanno liberato la gente da orrori, oscurantismo, fanatismo,
opinioni mostruose. Si levarono contro la crudeltà e l’oppressione, con­
tro la superstizione e l’ignoranza, e contro un gran numero di cose che
rovinava la vita alla gente. È per questo che io sono al loro fianco.»28 Ciò
sarebbe perfetto e assolutamente normale da parte di un liberale, ma
purtroppo tutta la sua opera testimonia il contrario e rappresenta una
lunga e tortuosa lotta contro i Lumi francesi, condotta il più delle volte
sotto la parvenza di una storia delle idee e contro gli autori che lui stes­
so ha appena citato.

25. Ibid., p. 102 [p. 71].


26. Berlin/Jahanbegloo, En toutes libertés, p. 93.
27. Ibid., p. 89.
28. Ibid., p. 93.

559
Gli antilluministi della guerra fredda

Chi è e che cosa rappresenta Voltaire per Berlin? Vediamo prima di


tutto ciò che non è: non è un pensatore originale,29 non è, contrariamen­
te a quanto lui pensava, l’inventore della storia della civiltà. Questa è una
qualità, non c’è bisogno di dirlo, esclusivamente riservata a Herder. A
Voltaire si devono tutt’al più, come a Fontenelle e a Montesquieu, gli ini­
zi della storia economica, della sociologia e della demografia storiche,
della storia delle scienze e di altre tecniche quantitative. Voltaire ha este­
so l’ambito della storia oltre la storia politica e ha anche il merito di de­
nunciare l’eurocentrismo dei suoi contemporanei. Questo e niente di
più, poiché l’autore del Siècle de Louis XIV è prima di tutto «al cento per
cento giornalista». Ha di sicuro incomparabili doti di ingegno, ma si
tratta di un ingenio da pubblicista: è «in parte turista e feuilletoniste». Le
sue opere storiche sono straordinariamente piacevoli da leggere «ma in
buona parte aneddotiche, senza alcun reale tentativo di sintesi», e «guar­
da disinvoltamente la storia come a un accumulo di fatti legati da nessi
casuali»30. Che tutto ciò faccia sorridere non cambia la questione: è que­
sta l’immagine di Voltaire che, grazie a Berlin, quasi tutti i lettori colti an­
glofoni si sono fatta. Quando infine Berlin fornisce alla sua tesi l’appog­
gio di una citazione diretta, usa due frasi stranote, sulle quali sembra
proprio prendere un abbaglio: « “Se”, dichiarò Voltaire, “non avete nul-
l’altro da dirci se non che un tale barbaro succedette al talaltro sulle ri­
ve dell’Oxo o dell’Issarte, quale sarà la vostra utilità per il pubblico?”
Chi mai vuol sapere che “Quancum succedette a Kincum, e Kincum suc­
cedette a Quancum” ?»31 Berlin analizza questo testo come l’espressio­
ne di un atteggiamento antistorico, moralista, eurocentrista, quando in
realtà Voltaire dice tutt’altro: egli ritiene che un cumulo di fatti in sé
abbia poca importanza e che la pura erudizione possa danneggiare il
sapere. Così facendo, lancia il primo grande manifesto per una storia
globale delle società, dei costumi e delle culture. Il suo Essai sur les

29. «Isaiah Berlin in Conversation with Steven Lukes», p. 91 [Tra filosofia e storia
delle idee, p. 89].
30. Berlin, «Il divorzio tra le scienze e gli studi umanistici», in Controcorrente, pp.
136-137.
31. Berlin, «Giambattista Vico e la storia della cultura», ne II legno storto dell’uma­
nità. Capitoli della storia delle idee, a cura di Henry Hardy, trad. di Giovanni Fer­
rara degli liberti,Adelphi, Milano 2004, pp. 87-88.

560
Gli antilluministi della guerra fredda

mœurs et l’esprit des nations, seguito dal Siècle de Louis XIV, rappre­
senta una messa in atto di questo metodo che Herder si limiterà a pro­
seguire; ma, avendolo fondato sull’irrazionale, riuscirà soltanto a per­
vertirlo. Poiché Voltaire temeva l’irrazionale, dubitava di tutto e per lui
tutto meritava di essere messo in dubbio. La ragione è il solo baluardo
possibile contro la barbarie, il fanatismo e la stupidità” . Figura emble­
matica deirilluminismo francese, prototipo dell’intellettuale impegna­
to, profeta della tolleranza, Voltaire nel corso del X IX e X X secolo è
stato odiato dalla destra clericale, poco amato dalla sinistra che gli rim­
proverava il suo versante borghese e «capitalista». Ancora oggi Voltai­
re è pesantemente criticato per il suo antisemitismo: le critiche sareb­
bero giustificate se ci si desse la pena di precisare che in discussione è
la religione in quanto tale. Tuttavia, è soprattutto dagli antirazionalisti
che egli viene combattuto. E proprio il suo razionalismo che gli ha pro­
curato anche l’ostilità di Berlin, nonostante l’elogio della libertà fatto
da Voltaire nel Dictionnaire philosophique preceda il suo di più di due
secoli” .
Non è tutto: secondo Berlin Voltaire ha la responsabilità diretta del
totalitarismo. «I sistemi totalitari moderni», scrive, «combinano effetti­
vamente, nei loro atti se non nel loro stile retorico, gli orizzonti di Vol­
taire e di de Maistre.»3234 Per quanto grandi siano le differenze tra le idee,
i loro «atteggiamenti mentali mostrano spesso una qualità straordinaria­
mente simile»: non si trova in loro «un benché minimo cedimento alla
mollezza, all’indeterminatezza o all’autoindulgenza intellettuale o senti­
mentale [...]. Sono dalla parte della luce ferma e secca contro la fiam­
mella tremolante». Il loro pensiero presenta una «gelida, levigata, chiara
superficie». Voltaire, «è vero, non difende né il dispotismo né l’ingan­
no», ma a lui «si può chiedere di togliere di mezzo tutte le illusioni libe-

32. André Versaille, «L e besoin de comprendre et de faire comprendre», in Dic­


tionnaire de la pensée de Voltaire, textes choisis et édition établie par André Ver­
saille, préface de René Pomeau, introduction historique d’Emmanuel Le Roy La-
durie, Complexe, Bruxelles 1994, pp. XXX1X-XLV.
33. Voltaire, Dizionario filosofico, a cura di Mario Bonfantini, Einaudi, Torino 1950,
pp. 287-292.
34. Berlin, «Joseph de Maistre e le origini del fascismo», ne II legno storto dell’uma­
nità, p. 224.

561
Gli antilluministi della guerra fredda

rali»” . Qui ancora una volta non si può fare a meno di chiedersi dove
precisamente sia andato a finire Berlin nella sua lettura di Voltaire. Dav­
vero Voltaire è impegnato a far perdere al mondo moderno tutte «le il­
lusioni liberali» od organizza invece una straordinaria difesa dei diritti
dell uomo? Nello stesso contesto, quando si parla di liberalismo, è ridi­
colo vedere il padre psicologico del totalitarismo in Voltaire, l’autore, nel
1763, in seguito all’affare Calas, del famoso Traité sur la tolérance, l’uo­
mo che non ha mai cessato di combattere per la tolleranza, per la libertà
di espressione e per l’eguaglianza davanti alla legge, mentre Machiavelli
ne esce come uno dei grandi fondatori del pluralismo. Il pensiero del­
l’autore del Principe è forse meno «gelido e levigato» di quello di Vol­
taire? L’autore del Traité, che si ispira alla Lettera sulla tolleranza scritta
nel 1685-1686 da Locke esiliato in Olanda, ha forse prodotto un modus
operandi politico paragonabile a quello di Machiavelli?
Difensore delle vittime del sistema penale francese dell’epoca, Vol­
taire, è noto a tutti, conduce una lunga e difficile campagna per la riabi­
litazione dell’ugonotto tolosano Jean Calas, accusato nel 1762 di omici­
dio, condannato e giustiziato. Voltaire impiega quasi due anni della pro­
pria vita per la revisione del processo da parte del Consiglio del re e per
ottenere risarcimenti per la famiglia. È durante questa campagna per i
diritti dell’uomo che inizia a difendere anche la causa dei poveri e dei di­
seredati in generale3536. Come si può riconoscere nella caricatura fatta da
Berlin l’eremita di Ferney, cui è interdetto il soggiorno a Parigi da Luigi
XV, l’autore delle Lettres philosophiques, uno dei più bei manifesti mai
scritti in favore della liberazione dell’uomo dall’irrazionale, dall’oscu­
rantismo, dalle superstizioni e dai pregiudizi? Vi si può cogliere lo scrit­
tore che professava un’ammirazione sconfinata per l’Inghilterra illumi­
nata, per le sue libertà, mitiche o reali, per l’equilibrio dei poteri rag­
giunto oltremanica e per il sistema politico britannico in generale? Si
può identificare, in questo stravolto ritratto di fondatore del «dispoti-

35. lbid., pp. 224-225.


36. Cfr. la più recente biografia di Voltaire, dedicata agli ultimi vent’anni della sua vi­
ta: Ian Davidson, Voltaire in Exile: The Last Years, 1753-78, Atlantic Books, Lon­
don 2005. Quali che siano i pregi dell’opera, nulla può sostituire la monumentale
biografia pubblicata sotto la direzione di René Pomeau: Voltaire en son temps,
Voltaire Foundation - Taylor Institution, Oxford [Oxfordshire] 1985-1994.

562
Gli antilluministi della guerra fredda

smo dell’organizzazione scientifica razionalistica»,37 il pensatore politico


che auspicava un ritorno a Locke, quando per Burke era come se il teo­
rico della Gloriosa Rivoluzione nemmeno esistesse? E proprio questo
presunto fondatore del totalitarismo che scrive nel suo Dictionnaire phi­
losophique che la tolleranza «è l’appannaggio dell’umanità»3839. Fa quasi
vergogna ricordare cose così evidenti, come anche gli articoli sulla «L i­
bertà» e sulla «Libertà di pensiero»: «L’Impero romano è forse stato me­
no potente perché Cicerone scriveva in libertà?» Il cristianesimo sareb­
be venuto al mondo se fosse stato impedito «ai primi cristiani di parlare
e scrivere»?59
I peccati di Voltaire sono gli stessi, con in più il materialismo, di
Helvétius, divenuto corresponsabile diretto della dittatura moderna. In
un volume intitolato Freedom and its Betrayal: Six Enemies o f Human
Liberty, pubblicato nel 2002 dagli allievi di Berlin, sono riuniti testi che
risalgono ai primi anni Cinquanta, quando furono diffusi dal maestro
sulle onde della BBC40. Si trova qui la prima formulazione dell’idea del­
la libertà negativa: «Io sono [...] libero se nessuna istituzione o indivi­
duo si immischia nella mia sfera personale, salvo che per la sua propria
autoprotezione». In questo senso i sei autori erano tutti ostili alla li­
bertà, negativa, s’intende, per cui le loro dottrine sono per molti aspet­
ti in contraddizione con l’idea stessa di libertà, e la loro influenza nel
X IX secolo, ma più ancora nel XX, fu decisiva in una direzione antili­
bertaria41.
Che cosa procura a Helvétius il disonore di figurare, con Rous­
seau, tra i più grandi nemici della libertà che il mondo moderno abbia
conosciuto? Il suo utilitarismo, la sua fede nell’educazione e nelle

37. Berlin, «Joseph de Maistre e le origini del fascismo», ne II legno storto dell'uma­
nità, p. 241.
38. Voltaire, Dizionario filosofico, p. 438.
39. Ibid., p. 291.
40. Berlin, Freedom and its Betrayal: Six Enemies o f Human Liberty, Princeton Uni­
versity Press, Princeton 2002. [La libertà e i suoi traditori, a cura di Henry Hardy,
trad, di Giovanni Ferrara degli Uberti, Adelphi, Milano 2005]. Pubblicati a cu­
ra del suo esecutore testamentario Henry Hardy, questi testi sono invecchiati
molto male.
41. Berlin, Freedom and its Betrayal, p. 5 [La libertà e i suoi traditori, p. 29].
Gli antilluministi della guerra fredda

buone leggi. Qui bisogna aprire una parentesi: un altro grande re­
sponsabile è Locke, che per la sua visione dei «vizi» e delle «virtù»,
che rimarrebbero « “per la maggior parte [...] gli stessi ovunque” , in
quanto “sono assolutamente necessari a tenere assieme la società uma­
na”», viene riconosciuto colpevole di una dottrina utilitaristica assai
pronunciata4243. Locke ha quindi le stesse responsabilità di Helvétius;
tuttavia Berlin capisce che, anche se la visione della libertà di Locke
non è quella di una libertà negativa, fare di lui un nemico della libertà
pura e semplice comporterebbe, allineandosi a Burke, una definitiva
collocazione nel campo antidemocratico. Per combattere l’utilitari­
smo senza distaccarsi apertamente dal liberalismo inglese, è sufficien­
te prendersela con Helvétius, per il quale, come per tutti i philosophes
nella visione di Berlin, l’uomo appartiene alla natura ed è di «infinita
malleabilità», nient’altro che «un pezzo di argilla»: sarebbe dunque
criminale - questo è il senso che Berlin dà alle idee di Helvétius - la­
sciare il governo degli uomini nelle mani di animi malvagi45. Berlin gli
rimprovera di vedere nell’interesse individuale la forza motrice del
comportamento umano. Tutta la sua filosofia, dice, è basata in primo
luogo sulla convinzione che il fine che muove gli uomini consista «nel
perseguire il piacere e nell’evitare il dolore», e poi che, per giungere a
ciò, essi hanno bisogno di capire il mondo e di capire se stessi, ovve­
ro di sapere ciò che è realmente buono per loro. A questo scopo ser­
vono loro delle guide e non si può concepire guida migliore della
scienza e individui più adatti a guidare gli uomini degli scienziati44.
Così, afferma Berlin, siamo diventati «animali addestrati a cercare sol­
tanto ciò che gli è utile». E prosegue: «Una cosa è chiara: nel tipo di
universo descritto da Helvétius c’è poco spazio, o nessuno spazio, per
la libertà individuale. Nel suo mondo gli uomini possono forse diven­
tare felici, ma la nozione di libertà finisce per scomparire. Scompare
perché, essendo tutti ormai condizionati a fare soltanto il bene, non
c’è più la libertà di fare il male»45. Il sistema utilitario di Helvétius

42. lbid., p. 22 [p. 52],


43. lbid., pp. 22-23 [p. 52].
44. Berlin, «Sul presunto relativismo nel pensiero europeo del Settecento», ne II le­
gno storto dell’umanità, p. 115.
45. Berlin, Freedom and its Betrayal, p. 21 [La libertà e i suoi traditori, p. 51].

564
Gli antilluministi della guerra fredda

«conduce direttamente a quella che è in ultima analisi una sorta di ti­


rannide tecnocratica»: la tirannia dell’ignoranza, della superstizione e
dell’arbitrio regio viene sostituita da un’altra tirannia, quella della ra­
gione. Si crea così quel «mondo nuovo» huxleyano (brave new world)
risultato dell’idea che per ogni problema si può trovare una risposta
razionale46.
Lo stesso vale per D ’Holbach e Condorcet. Il primo ci dice che
« l’educazione non è altro che l’agricoltura degli spiriti»: Berlin ne con­
clude che secondo questo philosophe «il governo degli uomini non è
diverso daH’allevamento degli animali». Poiché «i fini sono dati e l’uo­
mo è plasmabile, il problema acquista un carattere puramente tecnolo­
gico: come correggere gli uomini in modo che vivano in pace, prospe­
rità e armonia?» Ma poiché gli interessi di tutti non coincidono, è il «fi­
losofo (il filosofo illuminato)» che deve renderli compatibili. «D i qui la
necessità del dispotismo esercitato da un’élite di scienziati.»47 Quanto
a Condorcet, dicendo che la natura «lega, con un legame indissolubi­
le, la verità, la felicità e la virtù», fornisce anch’egli il suo contributo al­
la costruzione dell’edificio totalitario. Dalla citazione appena letta, bi­
sogna concludere, dice Berlin, «che chiunque conosca compiutamente
la verità è anche virtuoso e felice. Gli scienziati conoscono la verità, e
dunque gli scienziati sono virtuosi, e dunque gli scienziati possono ren­
derci felici, e dunque affidiamo agli scienziati tutti i poteri». In con­
clusione, secondo questi pensatori «illuminati», ciò «di cui abbiamo
bisogno» è un «universo governato dagli scienziati»48. In tale universo
gli uomini sono privati di libertà individuale, poiché l’obiettivo che si
vuole raggiungere non è la libertà ma la felicità. Così, secondo Berlin,
l’utilitarismo genera la tirannia della ragione e il razionalismo finisce
per produrre tanto il fascismo quanto il comunismo49. Ecco ciò che
Berlin pensa di Voltaire, di Condorcet, di Helvétius e di D ’Holbach:
tutti sono colpevoli di avere posto le fondamenta del totalitarismo mo­
derno.

46. Ibid., pp. 23 e 25 [pp. 52-53 e 56],


47. Ibid., p. 24 [p. 54].
48. Ibid., pp. 23-24 [pp. 53-54],
49. Ibid., p. 26 [p. 57].

565
Gli antilluministi della guerra fredda

Montesquieu e Hume sono trattati meglio, ma è soprattutto come


pensatore che ha contribuito alla crescita deH’antirazionalismo tede­
sco che il secondo beneficia di una certa indulgenza50. A Montesquieu
Berlin riconosce, nel suo articolo del 1955, grandi qualità: enuncia i
principi di quelle che diverranno le nuove scienze sociali, pensa che
ogni gruppo umano e ogni Stato abbia la propria via di sviluppo, in­
dividuale e unica: dalle Lettres persanes emerge «il famigerato relati­
vismo di Montesquieu: la convinzione che non esista un unico insie­
me di valori adatto a tutti gli uomini in ogni luogo, un’unica soluzio­
ne dei problemi sociali e politici valida per tutti i paesi»51. Era un em­
pirista: «L a sua specifica conquista [sta] nell’aver dimostrato l’impos­
sibilità di soluzioni universali»;5253un pluralista e non un monista, di­
verso da tutti gli altri pensatori dei Lumi in quanto non ne condivide­
va l’infatuazione per il progresso e credeva nella libertà: una libertà
che consiste «nel poter fare ciò che si deve volere e nel non essere co­
stretti a fare ciò che non si deve volere»” . Dimostrava una capacità di
comprendere le società umane «di cui non si era visto l’eguale dopo
Aristotele»54. Montesquieu, secondo Berlin, pensava che ogni società
umana fosse animata da una forza interiore, che le diverse società
avessero bisogni diversi, e che questi bisogni variassero da momento
a momento. E per questo che i problemi posti agli uomini non posso­
no avere soluzioni universali e definitive; non esiste alcuna norma ra­
zionale che permetta di decidere tra i fini contraddittori che gli uomi­
ni perseguono.
Tuttavia, dopo la scoperta di Vico, il tono cambia e Berlin diventa
consapevole della distanza che separa Vico da Montesquieu. Il Monte­
squieu relativista scompare e diventa un pensatore illuminista come gli
altri: poteva pure aver colto che le culture differivano tra di loro ma il
confronto con Vico lo ridimensiona: «Montesquieu è molto più rigido e
molto più universalistico. Crede nella giustizia assoluta che non varia da

50. Berlin, «Hume e le fonti dell’antirazionalismo tedesco», in Controcorrente, pp.


241-277.
51. Berlin, «Montesquieu», in Controcorrente, pp. 199-201, 206, 214.
52. Ibid., p. 215.
53. Ibid., pp. 205-207, 224-225, 227.
54. Ibid., p. 240.

566
Gli antilluministi della guerra fredda

cultura a cultura»” . Altrove Berlin formula la stessa idea in una maniera


leggermente diversa: «Montesquieu non metteva in dubbio l’universalità
dei valori ultimi dell’uomo fondati [...] sulla ragione eterna o sulla na­
tura. [...] In morale e in politica, e persino nei giudizi estetici, Monte­
squieu non è meno oggettivista, quanto agli scopi centrali dell’uomo, di
Helvétius»5556. Questo è proprio il grande rimprovero che anche Mei­
necke rivolge a Montesquieu57. Per Meinecke, come per Berlin mezzo se­
colo dopo, la radice del male è sempre la stessa: nonostante la sua con­
vinzione nell’inevitabile diversità dei costumi e delle concezioni, nono­
stante il suo relativismo, l’autore dell 'Esprit des Lois supponeva che gli
scopi fondamentali dell’umanità fossero identici in ogni tempo e in ogni
luogo58. Viene così svelato il grande peccato del giurista di Bordeaux: gli
mancava ciò che si trova in Vico, un senso del relativo ben più accen­
tuato e più sviluppato. Per cui anche questo indiscusso pilastro del libe­
ralismo, il pensatore al quale volsero lo sguardo i fondatori degli Stati
Uniti, il maître à penser di Tocqueville, non trova grazia presso Berlin: è
troppo uomo dei Lumi.
Quindi non si tratta soltanto di «la faute à Rousseau» ma dell’Illu­
minismo nel suo insieme e più in generale di quello che è «forse il più
profondo presupposto singolo del pensiero occidentale»: il carattere
universale e invariabile della natura umana. A parte personaggi screditati

55. «Isaiah Berlin in Conversation with Steven Lukes», p. 88. Su Voltaire si veda a
p. 91 [Tra filosofia e storia delle idee, pp. 58-59 e p. 59].
56. Berlin, «Sul presunto relativismo nel pensiero europeo del Settecento», ne II le­
gno storto dell'umanità, pp. 113-114. Si veda anche alle pp. 73 e 119-120.
57. Meinecke, Historism. The Rise o f a New Historical Outlook, pp. 108-114 [Le ori­
gini dello storicismo, pp. 108-114].
58. Berlin, «Giambattista Vico e la storia della cultura», p. 87, e «L’apoteosi della vo­
lontà romantica», p. 295, ne II legno storto dell’umanità. F interessante notare
qui le riflessioni di Hausheer. Secondo lui l’autore dell’Erpr/7 des Lois ha la sim­
patia di Berlin perché è solo a metà uomo dei Lumi, dato che il suo poco entu­
siasmo per i progetti radicali infastidiva i suoi contemporanei più ottimisti, la cui
visione era più razionalista e più lineare. In realtà, «nel profondo del suo cuore»,
Montesquieu non è un razionalista, non è un cartesiano, e «la sua pratica smen­
tisce le sue dichiarazioni». Qui si fa un passo ulteriore: sul concetto di uomo in
generale, Montesquieu prova solo una profonda diffidenza. Si veda Roger
Hausheer, Introduzione a Isaiah Berlin, Controcorrente, pp. XXXVI-XXXVII.

567
Gli antillumimsti della guerra fredda

come Sade, tutti i grandi intellettuali deU’Illuminismo si accordano su


questo principio: comunque sia, in Locke e Voltaire o nel dottor John­
son, in Rousseau o in Diderot, quello che ci si presenta è l’uomo natura­
le, l’uomo immutabile. Con Burke questo sviluppo si arresta e, Berlin se
ne rallegra, «questa posizione - forse il più profondo presupposto sin­
golo del pensiero occidentale - fu attaccata dai due padri dello storici­
smo moderno: Vico ed Herder»59. Berlin sottolinea che egli utilizza il ter­
mine «storicismo» nel senso utilizzato da Troeltsch, Meinecke e Croce60.
Qui si impone un’ulteriore osservazione. Secondo Berlin, Helvétius,
il filosofo per eccellenza dell’utilitarismo, apre la strada a Bentham. In
pratica, in Bentham si ritrova tutto Helvétius61. Ma l’utilitarismo di
Bentham è considerato giustamente come un fondamentale elemento co­
stitutivo del liberalismo inglese: non si può per esempio immaginare il
pensiero di John Stuart Mili privo della sua componente utilitaristica.
Ma il liberalismo di Berlin è di tutt’altro genere: secondo lui la libertà
non si definisce per mezzo della possibilità di soddisfare i bisogni del­
l’individuo, della capacità di crearsi da sé e per sé un mondo che possa
soddisfare questi bisogni e creare la propria felicità62. Perché il ragiona­
mento tenga, Berlin deve aggiungere alla lista dei fondatori del male to­
talitario un nome in più, il maggiore di tutti, quello di Rousseau.
Berlin parte in guerra, sulla scia di Talmon, contro Rousseau, cui ne
Le origini della democrazia totalitaria è stato conferito lo statuto non so­
lo di principale responsabile della dittatura giacobina ma di vero fonda­
tore del leninismo e dello stalinismo. Berlin inizia la propria dimostra­
zione col rifiuto del razionalismo, già espresso nel suo saggio su Helvé­
tius. In pratica, secondo Rousseau, i sentimenti soggettivi dividono gli
uomini, la ragione li unisce. La ragione fornisce sempre una sola rispo­
sta: la verità è una, l’errore è molteplice. Tutto ciò, afferma Berlin, è una
banalità {commonplace), tutti i philosophes hanno detto la stessa cosa,
tutti si sono dedicati al problema di sapere come conciliare libertà e au­
torità. L’originalità di Rousseau viene dal fatto che lui dà alle parole

59. Berlin, «Sul presunto relativismo nel pensiero europeo del Settecento», ne II le­
gno storto dell'umanità, p. 116.
60. Ibid.
61. Berlin, Freedom and its Betrayal, p. 20 [La libertà e i suoi traditori, p. 49].
62. Ibid., p. 26 [p. 57].

568
Gli antilluministi della guerra fredda

«libertà» e «autorità» un senso del tutto diverso. Per Rousseau la libertà


è un valore assoluto. Ma allo stesso tempo questo calvinista laicizzato -
quPsTseniè un’eco della tesi di Cari Becker - pensa che, se la libertà è un
valore assoluto, anche il rispetto delle regole sia un valore assoluto, e tra
loro non sono possibili compromessi. La risposta si trova nel Contrat so­
cial: «Dandosi a tutti non si dà a nessuno.» Libertà e autorità non si pos­
sono trovare in conflitto, sono una sola e medesima cosa. Così è realiz­
zata la volontà generale, quell’armonia che riflette l’ordine naturale del­
le cose e che tutti gli esseri razionali hanno la possibilità di realizzare6’ .
Si giunge così alla conclusione: Rousseau è il prototipo del piccolo
borghese in rivolta, una specie di «monellaccio (guttersnipe) di genio»,
di cui sono eredi certe figure come Carlyle, Nietzsche, D.H. Lawrence e
D ’Annunzio, non meno di Hitler e Mussolini. Come loro, odia gli intel­
lettuali e la civiltà urbana, assimila la natura alla semplicità. Insomma,
costringere un uomo a essere libero significa costringerlo a essere razio­
nale: dalla libertà assoluta si giunge al dispotismo assoluto. I giacobini,
Robespierre. Hitler, Mussolini, i comunisti, hanno tutti detto la stessa
cosa6364. Poiché era convinto «che ogni cosa potesse essere scoperta dalla
mera ragione libera da pastoie, dalla semplice indisturbata osservazione
della natura»,656Rousseau è «uno dei più sinistri e formidabili nemici del­
la libertà nell’intera storia del pensiero moderno»“ .'Nientemeno.
È così che le linee della conferenza del 1958 si ritrovano già sei anni
prima in questo attacco contro Rousseau: la guerra dichiarata al XVIII
secolo e il principio di libertà negativa appartengono allo stesso mo­
mento, cosa peraltro del tutto logica, poiché, nel XVIII e X IX secolo,

63. lbid., pp. 36-39 e 44-45 [pp. 71-72 e 76].


64. lbid., pp. 47 e 55 [pp. 78 e 86],
65. lbid., pp. 58-59 [p. 88],
66. lbid., p. 59 [p. 89]. Chi può oggi prendere ancora sul serio un argomento di que­
sto genere? Non c’è certamente bisogno qui di ricordare uno dei passi più fa­
mosi di Rousseau: «Rinunciare alla propria libertà significa rinunciare alla pro­
pria qualità di uomo, ai diritti dell’umanità, anzi ai propri doveri. Non vi è nes­
sun compenso possibile per chi rinunci a tutto. Una rinuncia simile è incompa­
tibile con la natura dell’uomo; togliere ogni libertà alla sua volontà significa to­
gliere ogni moralità alle sue azioni» (Il contratto sociale, p. 16). In questo capito­
lo dedicato alla schiavitù, Rousseau ha un’altra frase famosa: «Si vive tranquilli
anche nelle carceri: ma basta ciò per trovarcisi bene?» (pp. 15-16).

569
Gli antilluministi della guerra fredda

soprattutto con Tocqueville, si pensa che i doveri del cittadino siano una
condizione della libertà: nessuno può godere dei propri diritti senza
adempiere i suoi obblighi di cittadino. Da Machiavelli in poi, la virtù e il
dovere sono le prime condizioni per l’esistenza dei diritti. Gli uomini
hanno uno scopo comune, che è quello di restare liberi: tutti condivido­
no questa finalità comune ed è ciò che permette loro di perseguire fina­
lità distinte6. Per Rousseau gli uomini devono volere essere autonomi
perché devono volere essere uomini, non schiavi o animali; devono vo­
lere òhe in loro le azioni siano determinate dalla loro volontà; devono
quindi voler sfuggire alla stretta della volontà altrui, devono volere ciò
che sono destinati a èssere per loro natura, degli esseri morali. In questo
contesto, richiamandosi al brano famoso a proposito del quale l’autore
del Contrai social solitamente viene più attaccato, Jean-Fabien Spitz rias­
sume ottimamente il ragionamento di Rousseau. L’idea secondo la quale
la legge mi costringe a essere libero significa che essa punisce tutte le in­
frazioni commesse da me o dagli altri contro di me. Una infrazione non
punita diventa un privilegio per chi la commette; il privilegio distrugge
la libertà poiché toglie a coloro che ne sono privi ogni obbligo di co­
scienza di obbedire alle leggi e di rispettare i diritti dei loro concittadi­
ni. Questo obbligo è il nerbo della libertà, poiché è ciò che permette ai
cittadini di uno Stato libero di vivere in relazioni di diritto sostitutive
della violenza della natura: i loro reciproci rapporti sono regolati dall’i­
dea di ciò che essi si devono e non dal timore delle punizioni6768.
E questa la linea di pensiero che i critici dei Lumi, da Herder a
Burke fino a Berlin, respingono. Il vero punto dolente si presenta quan­
do Rousseau rifiuta di accettare l’ordine esistente, un ordine in cui la
legge è strumento di oppressione: invece di instaurare la giustizia e l’e­
guaglianza, essa convalida giuridicamente il sistema che sta alla base del­
le società del suo tempo, cioè il diritto del più forte: «Il più forte non sa­
rebbe mai abbastanza forte per essere sempre il padrone, se non tra­
sformasse la sua forza in diritto e l’obbedienza in dovere»69. Per Berlin,

67. J.-F. Spitz, La Liberté politique: Essai de généalogie conceptuelle, Presses univer­
sitaires de France, Paris 1995, pp. 158-166.
68. Ibid., pp. 173-174.
69. Rousseau, Il contratto sociale, libro I, cap. 3, p. 13.

570
Gli antilluministi della guerra fredda

risulta chiaro, Rousseau è colpevole di privilegiare la libertà positiva.


Inoltre si applica a una questione difficile, torse senza soluzione, ma
davvero degna di un filosofo: come gli uomini possono governarsi sen­
za dipendere gli uni dagli altri o, in altri termini, come mettere «la leg­
ge al di sopra dell’uomo»? Rousseau sa di dedicarsi a un problema in­
solubile, che in politica è paragonabile «a quello della quadratura del
cerchio in geometria»70. Cerca di risolverlo instaurando la legge della
maggioranza. «Non vi è che una sola legge la quale, per sua natura, esi­
ga un consenso unanime; ed è il patto sociale; poiché l’associazione ci­
vile è l’atto più volontario del mondo; essendo ogni uomo nato libero e
padrone di se stesso, nessuno può, sotto qualsiasi pretesto, assoggettar­
lo senza il suo consenso. Decidere che il figlio di una schiava nasca
schiavo, vuol dire decidere che non nasca uomo.» Perciò, «al di fuori di
questo contratto originario, la decisione della maggioranza obbliga sem­
pre tutti gli altri»71. Ecco il prezzo della volontà generale: accettare que­
sta definizione, data dallo stesso Rousseau, è legittimo almeno quanto
aggrapparsi all’interpretazione «totalitaria». Tanto più che, benché il
concetto di volontà generale si presti a interpretazioni diverse e oppo­
ste, una cosa è certa: a Rousseau non è mai venuto in mente, come in­
vece pensa Berlin, che un individuo, un’assemblea o una classe sociale
possano esercitare, in nome della volontà generale, un potere dittatoria­
le. Il suo pensiero esprimeva un carattere etico che Kant, come mostra
Cassirer, comprendeva perfettamente, proprio come coglieva la coeren­
za interna del pensiero di Rousseau7273.
Conviene precisare che la lettura di Rousseau fatta da Berlin non è
stata da parte sua una scivolata momentanea. Quarant’anni dopo egli ci
tiene a ricordare, in una lettera a O ’Brien pubblicata in appendice a The
Great Melody, che la sua trasmissione alla BBC riprendeva alcune con­
ferenze che aveva tenuto in America, al Bryn Mawr College, nel 1952. Si
trattava insomma di testi dei quali ancora nel 1991 andava molto fiero'3.

70. Rousseau, citato in Spitz, p. 384 (Considérations sur le gouvernement de Pologne).


71. Rousseau, Ilcontratto sociale, libro IV, cap. 2, p. 143.
72. Ernst Cassirer, Ilproblema Gian Giacomo Rousseau, trad. di Maria Albanese, La
Nuova Italia, Firenze 1938, e Rousseau, Kant, Goethe, a cura di Giulio Raio,
Donzelli, Roma 1999.
73. Berlin in O ’Brien, The Great Melody, appendice, p. 614.

571
Gli antilluministi della guerra fredda

Infine Berlin e O ’Brien sono deliziati dal passo di Faguet, notissimo a


tutti coloro che hanno un po’ di familiarità con la produzione intellet­
tuale francese di fine Ottocento, ma che il neoconservatore irlandese
prende per una grande scoperta di Berlin: quando Rousseau «dice:
“L’uomo è nato libero ma ovunque è in catene”», scrive Faguet, «dice
una sciocchezza. [...] Dire che le pecore sono nate carnivore ma ovun­
que mangiano l’erba sarebbe altrettanto corretto»'4. Entrambi vedono in
questa osservazione dello scrittore francese «la più acuta denuncia di
Rousseau che sia mai stata fatta»7475. O ’Brien si definisce, a proposito di
Rousseau, «un inveterato picchiatore» e vede in questa comunanza di
idee con Berlin la base del loro accordo sulle cose essenziali76. Chiunque
sia in favore di Rousseau, scrive O ’Brien, «lo ritengo mio nemico»:77 è al­
trettanto vero l’inverso.
E in questo modo che, negli ultimi anni del X X secolo, dopo due
guerre mondiali, il fascismo, il nazismo e Io stalinismo, e poi la guerra
fredda, la lotta contro Rousseau e l’Illuminismo francese prosegue nello
stesso spirito e negli stessi termini di due secoli prima e costituisce sem­
pre un punto di riterimento e anche un criterio sicuro per catalogare i
raggruppamenti spirituali. Infatti il denominatore comune a Berlin e a
O ’Brien, il quale conta solo come rappresentativo di tutta una scuola di
pensiero, quello che dà loro, come a Burke e a de Maistre, un intenso sa­
pore comunitativo, è l’orrore che ispira loro l’idea che le fondamenta
della società o, se si preferisce, la sua cellula fondamentale, sia l’indivi­
duo e non il gruppo storico, etnico e linguistico, che l’origine della so­
cietà sia concettualmente volontaria, e che l’unico scopo dell’esistenza
della società sia il bene dell’individuo.
Benjamin Constant, poco sospettabile di compiacenza per Rousseau,
non ha mancato di chiarire il suo pensiero su questa specie di «inveterati

74. Émile Faguet, Politiques et moralistes du X X siècle, première série, Société


française d’imprimerie et de librairie, Paris, s.d., p. 41. Si veda O ’Brien, The
Great Melody, appendice, p. 611.
75. O ’Brien, The Great Melody, appendice, p. 611 («The neatest deflation o f Rous­
seau ever achieved»).
76. Ibid., p. 611: «a confirmed Rousseau-basher». Si veda p. 615 per ciò che riguarda
Berlin.
77. Ibid., p. 616.

572
Gli antilluministi della guerra fredda

picchiatori»: «Non intendo associarmi ai detrattori di Rousseau, i quali,


attualmente, sono numerosi. Una folla di menti subalterne, che impiega­
no i propri successi d’un giorno a mettere in dubbio tutte le verità co­
raggiose, si agita per diffamare la sua gloria: ragione di più per usar cau­
tela nel biasimarlo. Egli è stato il primo a rendere popolare la coscienza
dei nostri diritti; alla sua voce, i cuori generosi, gli animi indipendenti si
sono destati; ma ciò ch’egli sentiva fortemente, non ha saputo definirlo
con precisione»78.
Chateaubriand, il quale neppure può essere considerato un giacobi­
no, mostra come «i Locke, i Montesquieu, i J.-J. Rousseau, sorgendo in
Europa, chiamarono i popoli moderni alla libertà»79. Poco dopo parla
degli «affettuosi e sublimi geni di Eraclito e di Jean-Jacques»,80 e poi del
«gruppo» di «tre geni», Platone, Fénelon e Rousseau, «che include tut­
to ciò che c’è di amabile nella virtù, di grande nei talenti, di sensibile nel
carattere degli uomini»81. Come più tardi in Nietzsche, Rousseau è posto
sullo stesso piano di Platone.
Nietzsche, che non è proprio un ammiratore dei Lumi, dei principi
dell’89 o del socialismo, «il fantastico fratello minore del quasi spento di­
spotismo»,8283che ha in orrore il liberalismo inglese e rivolge acerbe criti­
che a Kant, vede in Rousseau uno degli otto giganti di cui è fatto il
Pantheon del mondo occidentale. E con queste quattro coppie di colos­
si, dice, «che devo battermi»: Epicuro e Montaigne, Goethe e Spinoza,
Platone e Rousseau, Pascal e Schopenhauer8’. Certo, Rousseau è un av­
versario, ma quale avversario! «Vi sono tre immagini dell’uomo che la
nostra epoca moderna ha eretto una dopo l’altra e dalla cui visione i

78. Benjamin Constant, Dello spirito di conquista e dell’usurpazione nei loro rapporti
con la civiltà europea, trad. di Augusto Donaudy, Rizzoli, Milano 1961, p. 102.
79. François-René de Chateaubriand, «Essai historique, politique et moral sur les ré­
volutions anciennes et modernes», in Œuvres complètes de Chateaubriand, Gar­
nier Frères, Pari 1861, vol. I, p. 320.
80. Ibid., p. 343.
81. Ibid., pp. 549-550. Si veda anche aile pp. 553-557.
82. Friedrich Nietzsche, Umano, troppo umano, trad. di Sossio Giametta, Adelphi,
Paris 1979,1.1, p. 261.
83. Si veda Tean Lacoste, «postface», in Friedrich Nietzsche, Œuvres, éd. dirigée par
Jean Lacoste et Jacques Le Rider, Laffont, «Bouquins», Paris 1993, p. 1303.

573
Gli antillumirmti della guerra fredda

mortali prenderanno ancora a lungo l’impulso per una trasfigurazione


della loro vita: l’uomo di Rousseau, l’uomo di Goethe e infine l’uomo di
Schopenhauer.»84
Prima di venire alla famosa conferenza inaugurale della cattedra
Chichele su «Due concetti di libertà», è utile soffermarsi ancora una vol­
ta sulla natura delle fonti di questa conferenza. Berlin riconosce che
Benjamin Constant ha avuto una «forte influenza» sul suo pensiero8586.In
effetti, in Two Concepts of Liberty egli scrive: «Nessuno vide meglio di
Benjamin Constant, o espresse più chiaramente di lui, il conflitto tra i
due tipi di libert໓ . Chiunque si sia presa la pena di studiare il liberali­
smo francese lo sa: l’idea di libertà negativa opposta alla libertà positiva
non costituisce altro che una ripresa della famosa distinzione tra la li­
bertà degli Anciens e quella dei Modernes. Gli scritti politici di Constant
investono tutti gli aspetti essenziali dell’idea di libertà: il grande pensa­
tore liberale affronta la libertà nelle Repubbliche antiche, concepita più
come «la partecipazione attiva al potere collettivo» che come «l’usufrut­
to pacifico dell’indipendenza individuale»;87 si sforza di definire la li­
bertà individuale in relazione alla libertà di stampa e di coscienza88. La
distinzione di Berlin tra freedom to e freedom frotn si trova formulata da
Constant in una pagina particolarmente illuminante: «Il vantaggio che al
popolo conseguiva dalla libertà quale la intendevano gli antichi, stava nel
partecipare di fatto del novero dei governanti: vantaggio effettivo,

84. Friedrich Nietzsche, Schopenhauer come educatore, a cura di Mazzino Montana­


ri, Adelphi, Milano 1985, pp. 37-38.
85. Berlin in O ’Brien, The Great Melody, appendice, p. 614. Al di là della ristretta cer­
chia degli storici del X IX secolo Constant era un autore relativamente poco noto
nel mondo anglofono. Per quanto strano possa sembrare, la prima traduzione in­
glese degli scritti politici di Benjamin Constant è del 1988: Politicai Writings, a cu­
ra di Biancamaria Fontana, Cambridge University Press, Cambridge 1988.
86. Isaiah Berlin, «Two Concepts of Liberty», in Liberty: Incorporating Four Essays
on Liberty, a cura di Henry Hardy, Oxford University Press, Oxford 2002, p.
209 [«Due concetti di libertà», in Libertà, a cura di Henry Hardy, edizione ita­
liana a cura di Mario Ricciardi, trad. di Gianlazzaro Rigamonti e Marco San­
tambrogio, Feltrinelli, Milano 2005, p. 213].
87. Benjamin Constant, Dello spirito di conquista e dell’usurpazione nei loro rapporti
con la civiltà europea, p. 96.
88. Ibid., capitoli da VI a IX.

574
Gli antilluministi della guerra fredda

piacere lusinghiero e solido insieme»: ecco il concetto di libertà positiva.


Qualche riga dopo, si trova il concetto di libertà negativa, nozione es­
senzialmente individuale e tale da permettere a ognuno di preservare
una zona protetta dall’interferenza e dalla costrizione esterne: «Per esse­
re felici, gli uomini han solo bisogno d’essere lasciati in uno stato di in­
dipendenza assoluta per tutto quanto attiene alle loro occupazioni, alle
loro iniziative, alla loro sfera di attività, ai loro capricci»89.
In un saggio dedicato a «Kant e le due libertà», Norberto Bobbio,
che scriveva nello stesso periodo, affronta queste due nozioni di libertà,
fondamentali nel linguaggio politico e giuridico moderno90. Il filosofo
italiano pensa che queste due nozioni esistano in Kant ma che non siano
esplicitamente formulate nella sua opera. Una tale formulazione, dice
Bobbio, è necessaria per meglio comprendere il senso e la portata del
suo pensiero. In effetti, nella sua accezione più nota, la parola «libertà»
significa sia facoltà di compiere - o di non compiere - certe azioni quan­
do non se ne è impediti da altri, cioè dalla società e dallo Stato, sia il po­
tere di obbedire solo alle leggi che ci si dà di propria volontà. Il primo
senso lo si trova nella dottrina liberale classica, il secondo nella dottrina
democratica. Le due nozioni provengono l’una da Montesquieu, l’altra
da Rousseau e si ritrovano in Kant, che si serve dei due concetti di libertà
senza metterne chiaramente in evidenza la diversità9192.
In effetti, nel libro XI dc\YEsprit des Lois, Montesquieu fornisce la
sua definizione di libertà: «La libertà politica non consiste affatto nel fa­
re ciò che si vuole [...], la libertà è il diritto di fare tutto quello che le leg­
gi permettono»91. Ecco quindi la prima nozione di libertà. La seconda
viene dal Contrai social: la sovranità della volontà generale è una giustifi­
cazione filosofica della sovranità della legge, e la legge è l’espressione del­
la ragione e della coscienza umana. In due capitoli fondamentali della sua
opera più discussa, Rousseau definisce la volontà generale e la libertà; di­
stingue la libertà naturale dalla libertà civile e morale per dire che «la li­
bertà morale [...] sola rende l’uomo veramente padrone di se stesso;

89. Ibid., pp. 98-99.


90. Norberto Bobbio, «Kant e le due libertà», in Da Hobbes a Marx. Saggi di storia
della filosofia, Morano, Napoli 1965 pp. 147-163.
91. Ibid., pp. 147-152.
92. Montesquieu, Lo spirito delle leggi, v. 1, p. 205.

515
Gli antìlluministi della guerra fredda

perché l’impulso del solo appetito è schiavitù, e l’obbedienza alla legge


che ci siamo prescritta è libertà»9’. Ecco in che cosa consistono la volontà
generale e la legge: bisogna che i cittadini si diano leggi da se stessi.
E in questo senso, lo si è visto al primo capitolo, che Kant intende la
libertà. Egli ritorna su questa definizione in Progetto per una pace perpe­
tua-. «La libertà giuridica non può essere definita [...] con la facoltà “di
fare tutto ciò che si vuole pur di non fare ingiustizia a nessuno”». Se­
condo Kant, seguendo questa linea di pensiero si arriva alla fine a «pura
tautologia. Meglio è definire la mia libertà esterna (giuridica) come la fa­
coltà di non obbedire ad altre leggi tranne che a quelle a cui ho potuto
dare la mia adesione»9394. A conclusione di un’analisi serrata e sottile, Bob­
bio vede precisamente qui l’apertura di un passaggio verso la concezio­
ne liberale della libertà9596.La libertà coincide con l’autonomia e Kant, in
Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, torna a un
tema fondamentale di Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo?-.
«Se si impedisce al cittadino di cercare il suo benessere con tutti i mez­
zi che a lui sembrano migliori, purché coesistano con la libertà degli al­
tri, ne viene ostacolata la alacrità del lavoro comune e ne vengono nuo­
vamente diminuite le energie del tutto. A misura quindi che le limitazio­
ni all’attività personale saranno tolte, che a tutti sarà riconosciuta la li­
bertà religiosa, si produrrà per gradi, pur con intervalli di illusioni e di
fantasie, Xilluminismo»'*'. Questo movimento di emancipazione, questa
«uscita dell’uomo dallo stato di minorità», è il progresso: la libertà avan­
za, e si tratta della libertà individuale che Constant celebrerà. Bobbio ne
conclude che, pur dando Kant una definizione di libertà politica ispira­
ta a Rousseau, in ultima analisi la sua idea di libertà è nutrita dalla con­
cezione liberale e non da quella democratica97.
Bisogna tenere presente altri due elementi: primo, che in Kant, co­
me in Constant e in Tocqueville, i due aspetti dell’idea di libertà, chiara-

93. Rousseau, il contratto sociale, libro I, cap. V ili, p. 30.


94. Kant, Progetto per una pace perpetua, trad. di Marina Montanari, Rizzoli, Milano
1968, p. 32 (corsivo nel testo).
95. Norberto Bobbio, «Kant e le due libertà», pp. 158-161.
96. Kant, «Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico», in Scritti
di filosofia politica, p. 19.
97. Norberto Bobbio, «Kant e le due libertà», pp. 162-163.

576
Gli antilluministi della guerra fredda

mente definiti, sono non solo compatibili ma necessari l’uno all’altro. In


secondo luogo il concetto di autonomia è talmente centrale in Kant da
significare sia non interferenza che capacità di essere padrone di se stes­
so. Cosa che permetterà ai critici di Berlin di dimostrare convincente­
mente che non esistevano due concetti di libertà ma uno solo. Infatti la
non interferenza è un principio possibile anche in un sistema autoritario,
che potrebbe garantire all’individuo un vasto campo di libertà economi­
ca e religiosa e un larghissimo spazio di autonomia culturale, ma non
permettergli di obbedire solo alle leggi che lui stesso si è dato. Kant non
era un democratico, ma capiva benissimo i principi formulati da Rous­
seau. La sua esplicita visione della libertà era quella di un soggetto auto­
nomo, uscito dalla minorità e padrone di se stesso. L’interpretazione li­
berale, nel senso proprio del termine, la definizione illuminista della li­
bertà, è implicita, dato che il filosofo di Königsberg capiva che nessuna
sfera privata avrebbe potuto essere garantita e nessuna libertà indivi­
duale difesa se gli uomini non avessero formulato essi stessi le leggi alle
quali erano sottomessi.
Ciò ci porta alla conferenza di Berlin nel 1958. Questo testo, che
porta il segno incancellabile del lungo scontro col marxismo e il comu­
nismo, si situa tra la prima campagna contro l’Illuminismo e quella che
raggiunse l’apogeo coi due saggi su Vico e su Herder del 1976. Nella
conversazione con Lukes, in effetti Berlin riconosce chiaramente ed
esplicitamente sia le forti motivazioni politiche che furono presenti nel­
l’elaborazione del pamphlet, considerato come il suo contributo essen­
ziale al pensiero politico, sia la natura del messaggio che intendeva
diffondere. «Certamente. In verità essa scaturì dalla mia indignazione
per tutti gli inganni dei marxisti, per tutte quelle chiacchiere sulla “vera
libertà”, per il gergo stalinista e comunista della “libertà autentica”. Pop­
per ha ragione: questi discorsi costano vite innocenti.» Come se ce ne
fosse ancora bisogno, Lukes vuole evitare ogni equivoco: «Non è un
esercizio di neutra analisi concettuale», dice parlando del testo del 1958.
«Niente affatto, e sicuramente non intendeva esserlo. Sono ancora con­
vinto di quello che ho scritto.»98

98. «Isaiah Berlin in Conversation with Steven Lukes», pp. 92-93 [Tra filosofia e sto­
ria delle idee, p. 62],

577
Gli antilluministi della guerra fredda

Quindi, quarant’anni dopo, Berlin si mantiene sempre sulle stesse


posizioni, nonostante le molte fluttuazioni, i molti passi indietro e i mol­
ti zig zag compiuti negli anni Sessanta per rispondere alle critiche. La sua
definizione di libertà crea una gerarchia di valori in cui la non interfe­
renza negli affari individuali, la libertà negativa, è in ultima analisi la so­
la definizione accettabile di libertà. Per lui i capisaldi della libertà detta
positiva, che si basa sul desiderio di giustizia e d’eguaglianza e per la qua­
le la democrazia costituisce lo strumento per giungere a un ordine uma­
no decente, sono all’origine dei più grandi disastri del mondo moderno.
Quel testo usciva quando in Inghilterra l’esperimento laburista del pri­
mo governo Attlee era ormai un successo riconosciuto e quando gli ef­
fetti benefici della libertà positiva non potevano più essere ignorati.
Bisogna proprio dire che il segreto della fama di questo testo" scon­
certa i lettori di Kant, di Rousseau, di Constant e poi di Tocqueville, sen­
za ovviamente parlare di J.S. Mill o di altri autori molto meno noti come
Cherbuliez99100. Dopo tutto, come fa notare ancora una volta Bobbio, l’idea
delle due nozioni di libertà era una distinzione evidente e nota a tutti101.
Ciononostante, quando viene lanciato nella pubblica arena, questo testo
diventa il grande manifesto del mondo libero. Vi si vede la libertà, valore
assoluto, opposto alla sovranità e, implicitamente, alla ricerca dell’egua­
glianza e della giustizia, principi che, se stavano al centro degli intenti di
tutti i partiti di sinistra in Europa, costituivano anche l’armatura ideolo­
gica della guerra fredda condotta dall’Unione Sovietica contro l’Occi-

99. Si veda la raccolta di contributi a un seminario che si è tenuto all’università di


Tel Aviv nell’anno universitario 1999-2000, edita da Joseph Mali e Robert
Wokler (cfr. pp. 9-10). Nel 1998 si è tenuto all’università di New York un con­
vegno per commemorare il primo anniversario della morte di Isaiah Berlin. I
contributi sono stati riuniti in Mark Lilla, Ronald Dworkin, Robert Silvers (a
cura di), The Legacy of Isaiah Berlin,The New York Rewiew of Books, New
York 2001. Il primo volume dedicato a Berlin è opera collettiva diretta da Alan
Ryan, The Idea of Freedom. Essays in Honour of Isaiah Berlin, Oxford Univer­
sity Press, Oxford 1979, il secondo quello dovuto a Edna e Avishai Margalit (a
cura di), Isaiah Berlin, a Celebration, University of Chicago Press, Chicago
1991.
100. Si veda Alexis Keller, Le Libéralisme sans la démocratie. La pensée républicaine
d’Antoine-Élisée Cherbuliez (1797-1869), Payot, Lausanne 2001.
101. Norberto Bobbio, «Kant e le due libertà», p. 147.

578
Gli antilluministi della guerra fredda

dente guidato dagli Stati Uniti. Infatti, riconducendo l’idea di libertà a


quella di libertà negativa, si possono facilmente respingere le critiche al­
l’ordine vigente nelle democrazie occidentali: dato che la libertà negativa
costituisce un bene assoluto, le debolezze della democrazia, le inegua­
glianze, le ingiustizie sbiadiscono e investono solo problemi secondari.
A tutte queste ragioni si aggiungono il carattere polivalente e le mol­
te sfaccettature di questa conferenza di grande eleganza, chiara e bril­
lante: ognuno ci trova qualcosa che va bene per lui. L’elogio della libertà,
identificata con la pluralità dei valori, delle finalità e delle verità, più tar­
di codificato in Vico and Herder, è recepito anche come una sorta di ma­
nifesto del multiculturalismo e della pluralità, senza cogliere il nesso tra
questo elogio del pluralismo culturale ed etnico e il nazionalismo del X X
secolo102. Inoltre vi si potevano scorgere i primi accenni del postmo-*184

102. Si veda Vico and Herder [Vico e Herder]. Le differenze tra questa prima edi­
zione e quella uscita dopo la morte di Berlin testimoniano il lavoro editoriale
compiuto da Hardy. Si veda Three Critici of thè Enlightenment, opera ripub­
blicata dalla Princeton University Press nel 2000, che riprende Vico and Her­
der [Vico e Herder] aggiungendo il saggio su Hamann. Per i cambiamenti e le
aggiunte si veda alle pp. 160-161 [pp. 200-201] di Vico and Herder del 1976,
dove Berlin prende tre citazioni da un’opera in russo, logan Gotfrid Cerder,
pubblicata a Mosca e a Leningrado nel 1959. Nel primo caso si tratta di Briefe
zur Beförderung der Humanität (Lettere per l’avanzamento dell’umanità) del
1793-1797, nel secondo caso è una citazione della quale Berlin non dice l’ori­
gine e nel terzo si tratta di Arastea. Tutte e tre sono risolte con un unico riferi­
mento di nota. Hardy ha verificato, sopprime la prima e seconda citazione a p.
160 [p. 200] che rimandano all’opera in russo e le sostituisce con due note (p.
184 dell’edizione del 2000) che rimandano all’edizione Suphan, la nota 6 rife-
rentesi al volume V, p. 546, cioè ad Ancora una filosofia della storia, l’altra al
volume XXIII, p. 498, quindi ad Arastea, e vi pone in mezzo la nota 5, che rin­
via al volume X V II1, pp. 222-223, cioè alla lettera 44 e non alla 114 delle Let­
tere per Vavanzamento dell’umanità. Un procedimento simile è usato per la no­
ta 4 della p. 161 [22 a p. 201] dell’edizione del 1976. I due rinvìi al volume V
di Suphan vengono con ogni evidenza dall’opera di Frederick M. Barnard,
Herder on Social and Politicai Culture-, Hardy elimina il primo, in quanto erro­
neo, lascia il secondo e sopprime il riferimento a Barnard, erudito britannico
che nel mondo anglofono rappresenta una fonte importante per la conoscenza
di Herder e che Berlin ha letto attentamente. Occultare sistematicamente le
fonti secondarie e rimpiazzarle con rinvìi a testi non citati da Berlin non è un
procedimento elegante. Le cose vanno in modo analogo alla fine del lungo pa-

579
Gli antilluministi della guerra fredda

derno. Sono il coté brillante di Berlin e la sua capacità di presentare pro­


blemi assai complessi in una maniera accessibile che dovevano assicu­
rargli un’immensa popolarità. Ecco perché questo testo è rimasto per
quattro decenni al centro del dibattito sulla libertà10’. Per Skinner è il
saggio «più influente di tutta la filosofia politica contemporanea»*10304.

ragrafo della stessa p. 161 [p. 201] del testo del 1976 (p. 185 dell’edizione del
2000): il fedele Hardy riscrive questo passo in terza persona e trasforma in pa­
rafrasi un testo che Berlin offre ai lettori sotto forma di citazione diretta tra vir­
golette e in prima persona, cosa che solleva dubbi sulla lettura delle fonti fatta
da Berlin. Un altro esempio, e si tratta di nuovo di Ancora una filosofia della
storia: la p. 191 [p. 220] di Vico and Herder, diventata p. 216 di Three Critics
of thè Enlightenment, si trova repentinamente coperta da sette note che ri­
mandano tutte all’opera del 1774 e che non esistono nel testo originale. La p.
176 [p. 215] del testo del 1976 in cui Berlin rinvia all’opera di Barnard (note 1
e 2) [note 20 e 21 a p. 255] si riferiscono ora anch’esse al volume V dell’edi­
zione Suphan, cioè ad Ancora una filosofia della storia-, si veda p. 201. Stesso
procedimento alle pp. 178-179 [pp. 217-218]: Barnard (nota 3 a p. 179) [nota
28 a p. 256] sparisce ed è rimpiazzato dalla nota 2 a p. 204 e tutta questa nota
viene riscritta; la nota a p. 203 non esiste a p. 178 [p. 217] dell’originale; stes­
so lavoro a p.180 [p. 219] deH’originale (p. 205 della nuova edizione). A p. 223
dell’edizione del 2000 si constata la comparsa di due note che non esistono a
p. 197 [p. 226] del testo originale, e la nota che rinvia al testo di Voltaire è ri­
prodotta con rinvio all’edizione delle Œuvres complètes del 1877-1885, mentre
Berlin cita un’edizione del 1785. Un’altra citazione attinta da un articolo del
Journal o f thè History o f Ideas è stata molto opportunamente sostituita da un
altro volume delle Œuvres complètes. Si veda anche p. 198 [p. 227] di Vico and
Herder confrontandola con la p. 223 di Three Critics o f thè Enlightenment.
103. In Francia un buon esempio è l’eccellente opera di Jean-Fabien Spitz, La Li­
berté politique: Essai de généalogie conceptuelle, pp. 83-127. Questo fenomeno
lascia ancora più stupiti se si paragonano le sue dimensioni alla relativa oscu­
rità nella quale resta immerso Michael Oakeshott, anche lui conservatore libe­
rale, ma nel senso proprio del termine. In On Human Conduci [La condotta
umana, trad. di Guido Maggioni, Il Mulino, Bologna 1985] Oakeshott offre
una cornice teorica sofisticata per la visione del liberalismo che gli è propria,
una visione più raffinata di quella presente nella lezione inaugurale di Berlin,
davvero nella tradizione di Tocqueville e di Mili.
104. Quentin Skinner, «Un troisième concept de liberté», Le Débat, trad. dall’in­
glese di Thierry Naudin, p. 133. Questo testo è la traduzione di una versione
abbreviata apparsa nella London Review o f Books (4 aprile 2002) della confe­
renza inaugurale della serie «Isaiah Berlin Memorial Lectures» della British
Academy.

580
Gli antilluministi della guerra fredda

Conviene qui ricordare che Berlin sta attento a non inciampare in diffi­
coltà come la questione della libertà civile, che si pone invece il conser­
vatore liberale Michael Oakeshott - in che modo conciliare il principio
di non interferenza col problema di una certa identità tra libertà e leg­
ge105- né in quelle che Tocqueville cercava di risolvere. In verità, per un
liberale come Tocqueville l’alternativa libertà negativa/libertà positiva è
quasi incomprensibile. Egli sa che la semplice esistenza di una garanzia
di diritti individuali sotto un regime costituzionale non basta per fare uo­
mini liberi. Per lui la libertà non sta soltanto nella salvaguardia, intorno
all’individuo, di una zona di non-interferenza, ma nella sua capacità di
unirsi ai suoi concittadini per dominare la propria sorte. Ciò che stupi­
sce Tocqueville è la capacità degli americani di riunirsi per governarsi da
soli senza attendere la protezione di un sovrano. In un capitolo affasci­
nante della seconda parte della sua grande opera, egli fa vedere «come
gli americani combattono l’individualismo con la dottrina dell’interesse
bene inteso»106107.Nella prima parte volge lo sguardo alle associazioni po­
litiche ed esamina la loro utilità per i «popoli democratici»lW. Non è la­
sciando l’individuo a se stesso che lo si salva dal «dispotismo», bensì in­
segnandogli ad associarsi ai suoi simili per governarsi da solo: è con la
stessa democrazia che si potranno superare i pericoli che f eguaglianza
presenta per la libertà108. Per Tocqueville la partecipazione del cittadino
agli affari della comunità, l’esercizio della sua sovranità, la sua capacità
di essere padrone di se stesso restano una condizione sine qua non della
libertà; la partecipazione politica consolida e sviluppa i costumi della li­
bertà. Viceversa è proprio chiudendosi nella sfera del particolare, con­
cependo la libertà solo in termini di non-intervento e vedendo nella li­
bertà positiva il più grande pericolo che possa minacciare l’individuo,
che il cittadino finisce per provocare lui stesso l’intervento dello Stato e
della società. Solo gli uomini che non hanno «rinunciato all’abitudine di
dirigersi da soli» potranno essere capaci di «ben scegliere coloro che

105. Efraim Podoksik, In Defence of Modernity: Vision and Philosophy in Michael


Oakeshott, Academic Imprint, Exeter, UK, 2003, pp. 198-201.
106. Alexis de Tocqueville, La democrazia in America, a cura di Giorgio Candeloro,
Rizzoli, Milano 1992, pp. 537 e sgg.
107. Ibid., pp. 201-207.
108. Ibid., pp. 732-733.

581
Gli antilluministi della guerra fredda

devono guidarli», dice Tocqueville alla fine de La Démocratie en Améri-


que\ questi ultimi tre capitoli che concludono il libro sono tra i più belli
mai scritti sulla libertà109.
Questo dovrebbe bastare per togliere al liberalismo francese, quello
che si rifa a Constant e a Tocqueville, i suoi complessi di inferiorità, mol­
to diffusi, nei confronti dellTnghilterra e degli Stati Uniti. Ai nostri gior­
ni il paradigma gerarchico delle due liberta soddisfa il neoliberismo alla
francese e un certo conservatorismo americano, ma non costituisce la so­
la definizione possibile del liberalismo, anzi. Nello stesso mondo an­
glofono le critiche ai due concetti di libertà sono nette. Per Gerald Mac-
Callum, autore di un articolo classico sulla questione, non esiste che un
concetto di libertà: la presenza della libertà implica sempre l’assenza di
una costrizione che impedisca all’uomo di realizzare i suoi obiettivi110.
Skinner parla di un terzo concetto di libertà, quello dell’assenza di di­
pendenza, e insiste sui «seri limiti» insiti, malgrado l’acume, nel concet­
to di libertà negativa“ 1. Ronald Dworkin, probabilmente il più impor­
tante filosofo del diritto nel mondo anglofono di oggi, non ha dubbi sul
fatto che per Berlin esista una incompatibilità tra i valori e che questi va­
lori si contraddicano. In un saggio brillante Dworkin sostiene contro
Berlin una vigorosa difesa della compatibilità fra libertà ed eguaglianza112.
Tra i due aspetti della libertà, la versione «positiva» e la versione
«negativa», che nei fatti significa difensiva, Berlin si fa dunque paladino
della seconda: solo questa concezione della libertà - l’assenza di costri-

109. Ibid.,pp. 740-741.


110. Si veda Gerald MacCallum, «Negative and Positive Freedom», in Peter Laslett
et alit (a cura di), Philosophy, Politics and Society, quarta serie, Blackwell,
Oxford 1972, pp. 174-193 [«Libertà negativa e positiva», in Ian Carter e Mario
Ricciardi (a cura di) Il idea di libertà, Feltrinelli, Milano 1996, pp. 19-42].
111. Quentin Skinner, «Un troisième concept de liberté», p. 137.
112. Si può trovare un esempio molto interessante del dibattito su tale questione in
The Legacy o f Isaiah Berlin. Al contrario di Dworkin, Thomas Nagel ritiene che
Berlin considerasse libertà ed eguaglianza come valori semplicemente incom­
patibili invece che opposti: si veda il suo «Pluralism and coherence», p. 107.
Viceversa Dworkin presenta un’analisi che, fondata su una lettura non com­
piacente di Berlin, non lascia dubbi sul significato reale della problematica del
conflitto dei valori liberali nell’autore di Two Concepts o f Liberty. «D o Liberal
Values Conflict?», pp. 73-90, 121-125 e 126-132.

582
Gli antilluministi della guerra fredda

zione, la salvaguardia attorno a ogni individuo di uno spazio il più pos­


sibile esteso all’interno del quale ciascuno di noi può fare ciò che vuole
senza restrizioni - è compatibile con la pluralità dei valori. La libertà nel
senso negativo del termine «non è incompatibile con qualche forma di
autocrazia. [...] Come una democrazia può di fatto privare il singolo cit­
tadino di moltissime libertà di cui egli potrebbe godere in altre forme di
società, così è perfettamente concepibile che un despota orientato in
senso liberale conceda ai suoi sudditi una larga misura di libertà perso­
nale»11’ . E più avanti: «Non vi e nessuna connessione necessaria fra li­
bertà individuale e principio democratico»"f II concetto di libertà ne­
gativa permette di riconoscere che gli uomini si pongono fini differenti,
contraddittori, ma spesso lodevoli gli uni quanto gli altri. Questi fini va­
riano, si contraddicono e si oppongono non a causa della competizione
tra individui diversi che si danno gli stessi obiettivi, come pensava H ob­
bes, ma per una ragione ben più importante: non esiste una soluzione
unica che permetta di decidere tra questi obiettivi. In altri termini non
esistono criteri che permettano di stabilire quale è il cammino giusto per
ogni individuo né di dare una risposta unica alle questioni etiche. La li­
bertà negativa, quindi la protezione dell’individuo dall interferenza, è sa­
cra e come tale costituisce un principio assoluto113415.
Berlin sa che una simile definizione restrittiva della libertà pone tan­
te difficoltà quante ne risolve. In una lunga nota del saggio originale egli
chiarisce: si può decidere di sacrificare una parte della propria libertà
per assicurare più giustizia e più eguaglianza, ma non bisogna confon­
dere: la libertà è la libertà, e solo questo, non è la felicità, la giustizia o la
coscienza a posto. Il sacrificio della libertà individuale costituisce una
perdita che può essere compensata con più giustizia ma che resta co­
munque una perdita. Detto in altro modo, è bene non confondere la li­
bertà individuale con quella che alcuni chiamano libertà « “sociale”» o
« “economica”»: di libertà ce n’è solo una ed è quella individuale116. H a­
rold Laski, il teorico del partito laburista britannico, professore alla Lon-

113. Isaiah Berlin, Two Concepts of Liberty, Clarendon Press, Oxford 1963, p. 14.
114. Ibid.
115. Ibid., pp. 7-11, 16 e 56-57. Berlin dà la definizione più succinta di libertà ne­
gativa in termini di «freedom from» come contrario di «freedom to».
116. Ibid., p. 10, nota 1 (tra virgolette nel testo).

583
Gli antilluministi della guerra fredda

don School of Economics, che Berlin detestava senza mezzi termini per
via del fondo marxista del suo pensiero, aveva espresso, molti anni pri­
ma di Berlin, la posizione classica della socialdemocrazia. Contro Acton,
il teorico conservatore del X IX secolo, il quale diceva che «la passione
per l’eguaglianza rende vana la speranza di libertà», Laski, autore di una
bella introduzione a La Démocratie en Amérique, risponde che, mancan­
do certi elementi di eguaglianza, la libertà non può diventare reale117.
Non è strano che Laski si sia identificato con la concezione della libertà
di Tocqueville: dopo tutto, fin dalle origini, il socialismo democratico si
considera come il successore del liberalismo illuminato e non come il suo
becchino. E appunto contro questa linea fondamentale della cultura po­
litica moderna che Berlin parte in guerra.
Poi Berlin affronta la nozione di libertà positiva: questa, associata
comò all’idea di autonomia, di autorealizzazione (self-fulfilment) e di capa­
cità dell’individuo di essere padrone di se stesso, rappresenta in pratica il
contrario di tutto ciò cui Berlin aspira. Nella sua mente la libertà positiva
consiste nel subordinare 0 nostro comportamento al controllo del nostro io
«ideale», «vero», «reale» o «superiore». Non si tratta più di eliminare gli
ostacoli che impedirebbero all’individuo di esercitare la propria libertà e di
raggiungere i molteplici obiettivi, per quanto poco compatibili possano es­
sere, che gli si presentano, ma di fare in modo che, dopo avere riconosciu­
to la verità, egli cominci a esercitare la propria libertà per raggiungere il be­
ne. Tale concezione della libertà permette di costringere gli uomini «a es­
sere liberi», e così alla fine sfocia nella sottomissione dell’individuo sia alla
volontà generale di Rousseau sia alla necessità storica marxista118.
In realtà l’idea di libertà positiva, che è alla base della democrazia,
ha ben poco in comune con la descrizione fattane da Berlin. La libertà
positiva significa prima di tutto l’esigenza di autonomia invocata da
Kant, la volontà di uscire dalla stato di tutela e la capacità di realizzare
certi obiettivi. Il senso primo della libertà positiva è chiaramente la par­
tecipazione alla sovranità. E proprio questa la ragione dell’odio che

117. Harold Laski, Liberty in thè Modem State, with a New Introduction, Penguin
Book, Harmondworth 1937, p. 7.
118. Berlin, Two Concepts o f Liberty, pp. 16-17. Si può consultare il saggio intro­
duttivo di Alan Ryan in Alan Ryan (a cura di), The Idea of Freedom. Essays in
Honour o f Isaiah Berlin, pp. 4-5.

584
Gli antilluministi della guerra fredda

Berlin ha per Rousseau: per quest’ultimo la libertà esiste solo per l’uomo
che faccia delle scelte e che si sottometta solo a leggi alla formulazione
delle quali lui stesso abbia contribuito. Questo è ii significato della no­
zione di «volontà generale» ed è così che la intende Kant. Sappiamo che
Rousseau era stato il grande maestro di Kant, colui che gli aveva inse­
gnato a rispettare gli uomini. Infatti su che cosa precisamente si può fon­
dare il principio di sovranità del popolo se non sul diritto di ognuno a
partecipare alla formulazione delle leggi e all’assunzione delle decisioni
politiche? Si tratta dunque di sapere «chi governa» e questo interrogati­
vo è altrettanto importante del problema riguardo ai limiti dell’interven­
to dello Stato. Ossessionato dalla sua paura del marxismo, Berlin offre
una argomentazione unidimensionale, senza sfumature, poco compatibi­
le, come già Tocqueville sapeva benissimo, con la democrazia. Egli pensa
che la libertà positiva distrugga la pluralità dei valori, che implichi l’esi­
stenza di una gerarchia dei valori, la quale porta a una deriva, cioè alla vo­
lontà generale, e la volontà generale a sua volta porta alla morte della li­
bertà negativa: ciò significa la condanna della libertà pura e semplice119.

119. Le critiche rivolte a Berlin, implicite, cortesi e moderate, o più radicali e più
violente, sono numerose: in francese si potrà consultare l’opera di Jean-Fabien
Spitz, La Liberti politique, che ne traccia un’eccellente analisi dalla critica clas­
sica di Charles Taylor fino alla critica di ispirazione marxista di McPherson
passando da Skinner, senza dimenticare le critiche più dure che seguirono l’ap­
parizione di Two Concepts o f Liberty, si veda in particolare alle pp. 97-121. In
tutto il suo libro Spitz fornisce ogni elemento di una critica «repubblicana»
francese, intelligente, colta, ma che avrà molte difficoltà a imporsi fuori della
Francia. L’opera diretta da Alan Ryan, The Idea of Freedom, già citata, nono­
stante il suo tono generale estremamente laudativo, contiene diverse riserve: si
veda soprattutto il contributo di Taylor, «What’s wrong with Negative Li­
berty», pp. 75 e sgg. [«Cosa c’è che non va nella libertà negativa», in Ian Car­
ter e Mario Ricciardi (a cura di), Uidea di libertà, pp. 75-99], Skinner ritiene
che la dimostrazione di Berlin non sia valida perché le conclusioni si trovano
già nelle premesse. Sono pertanto le premesse stesse di libertà negativa, come
si trovano formulate in Berlin, che devono essere riconsiderate. Si veda Quin­
tin Skinner, Liberty before Liberalism, Cambridge University Press, Cambridge
1998, pp. 114-115 [La libertà prima del liberalismo, a cura di Marco Geuna, E i­
naudi, Torino 2001, p. 73]. Si veda anche William L. McBride, « “Two Con­
cepts of Liberty” Thirty Years Later: A Sartre-Inspired Critique», Social
Theory and Practice, voi. 16, III, autunno 1990, pp. 297-322.

585
Gli antilluministi della guerra fredda

Seguendo Talmon, Berlin pensa che, quando si crede all’esistenza di una


risposta unica alla domanda sulla strada giusta, o a quella sui valori che
devono governare gli uomini riuniti in società, non vi sia alcuna ragione
per cui un uomo, un gruppo di uomini o un partito politico, convinti di
avere questa soluzione, non la impongano alla società nel suo insieme.
Tutta la sua argomentazione gira intorno a questo asse.
Dieci anni dopo, pressato dalla critica, rendendosi conto che fuori
del contesto della guerra fredda la sua posizione diventa decisamente
reazionaria, nel senso proprio del termine, Berlin modera il suo discorso
senza tuttavia potersi smentire. In una nota dell’introduzione a Four Es­
says on Liberty, raccolta di saggi tra i quali si trova Two Concepts of Li­
berty, egli pretende che la sua intenzione non fosse quella di presentare
una difesa senza riserve della libertà negativa contro la libertà positiva: e
affinché il penultimo capoverso del saggio del 1958, duramente criticato,
rifletta ciò che ora egli pretende di avere voluto realmente dire, ne rive­
de il testo. Qualora avesse firmato «una cambiale in bianco [blank] a fa­
vore del concetto “negativo”, in quanto contrapposto al suo fratello ge­
mello “positivo”», si sarebbe reso colpevole, dice, di «monismo intolle­
rante»120. Diversi anni dopo, nel suo ultimo colloquio, Berlin si sforza an­
cora una volta di spiegare che lui non intendeva denigrare l’idea di li­
bertà positiva, e che la libertà negativa è «fondamentale, ed è fondamen­
tale anche la libertà positiva»121. Tuttavia, allo stesso tempo, afferma di ri­
manere legato al testo del 1958. Per schivare contraddizioni impossibili
a sciogliersi, Berlin parla ora della necessità di giungere a transazioni in
cui nessun valore può essere del tutto soddisfatto122. Comprende le con­
seguenze del suo rigetto della libertà positiva, fondato sulla sua critica a
Rousseau, ma non può più, senza smentirsi apertamente, battere in riti­
rata sull’essenziale. Nel 1975, contrapponendo il romanticismo all’Ulu-

120. Berlin, Introduction, Four Essays on Liberty, Oxford University Press, Oxford
1969, p. LVIII, nota 1 [Introduzione, Quattro saggi sulla libertà, trad. di Mar­
co Santambrogio, Feltrinelli, Milano 1989, p. 63, nota 36]. Questo volume si
trova a sua volta incorporato in una terza antologia, Liberty [Libertà, trad. di
Gianlazzaro Rigamonti e Marco Santambrogio, Feltrinelli, Milano 2005].
121. «Isaiah Berlin in Conversation with Steven Lultes», p. 92 [Tra filosofia e storia
delle idee, p. 62].
122. lbid., p. 112 [p. 79],

586
G li antilluministi della guerra fredda

minismo francese, afferma che, contrariamente a quanto ritenevano gli


uomini del Settecento, «un’organizzazione razionale» non è in grado «di
realizzare l’unione perfetta di valori e controvalori come la libertà indivi­
duale e l’uguaglianza sociale»123. Certo, egli può inserire un nuovo passo
all’inizio di Tour Essays on Liberty, ma non può, cosi come sulla questio­
ne del relativismo, né modificare il senso di ciò che aveva scritto prima
né, a maggior ragione, quello di tutti gli altri suoi saggi.
È questo il motivo per cui Berlin non può prendere in considerazio­
ne la problematica delle tensioni esistenti tra i diritti dell’individuo e i
doveri del cittadino connessi alla sua appartenenza sociale, né il posto
occupato nella vita di una società dall’obbedienza alla legge e dal pro­
cesso legislativo. Sull’insegnamento di Tocqueville a proposito della par­
tecipazione alla vita politica come elemento fondamentale per la costru­
zione di una società libera e dell'educazione del cittadino libero, Berlin
non si sofferma e fa come se La Démocratie en Amérique non esistesse.
Tocqueville gli ripugna per il suo attaccamento al Settecento francese, al­
l’idea che esistano leggi fisse che possono essere scoperte e che il 1789
sia stata la data di nascita della libertà124.
L’uscita di sicurezza consiste nell’identificare pluralismo e libertà ne­
gativa: nella penultima pagina dell’edizione originale di Two Concepii of
Liberty del 1958, Berlin fa un elogio conclusivo della libertà «negativa»
come di «un ideale contenente una parte di verità più grande e più uma­
na» dell’idea di libertà «positiva» sulla quale sono fondati i sistemi au­
toritari di ogni tipo. La formulazione cambia in Four Essays on Liberty.
«Il pluralismo, con la quantità di libertà “negativa” che esso comporta,
mi sembra un ideale più vero e più umano»125. Pertanto il pluralismo e
l’incompatibilità dei valori, fondati sulla concezione negativa della li­
bertà, divengono a loro volta sacri126. Ne consegue logicamente che l’in-

123. Berlin, «L’apoteosi della volontà romantica», ne II legno storto dell’umanità, p. 329.
124. Si veda sopra, al cap. 1.
125. Berlin, «Two Concepts of Liberty», in Four Essays on Liberty, p. 171 [«Due
concetti di libertà», in Quattro saggi sulla libertà, p. 235].
126. La difesa della memoria di Berlin passa tra l’altro attraverso la necessità di mo­
strare che non esisteva alcun legame essenziale tra il pluralismo e la definizio­
ne di libertà in termini di libertà negativa; si veda Bernard Williams, «Libera-
lism and Loss», in Mark Lilla et alti, The Legacy of Isaiah Berlin, p. 93.

587
G li antilluministi della guerra fredda

differenza degli uni per gli obiettivi perseguiti da tutti gli altri costituisce
una condizione della libertà.
L’esistenza di una pluralità di valori, senza che sia possibile effettua­
re tra loro una scelta razionale, è appunto ciò che accosta Berlin ai gran­
di nemici dei Lumi. Come loro, «egli rifiuta liste a priori di diritti natu­
rali» ma sa che, per «poter avere una società abbastanza decente», «prin­
cipi generali di comportamento» devono esistere. Tuttavia, sollecitato a
definire la sua posizione, Berlin diventa sfuggente: «Non chiedetemi co­
sa intendo per decente. Per decente, intendo decente. Sappiamo tutti co­
sa vuol dire»'2. Il problema è che le cose non stanno assolutamente così
e che non esiste alcun accordo sulla definizione di una società «decen­
te»: affinché una società sia degna di questo titolo, per alcuni basta che
siano assicurate l’eguaglianza di fronte alla legge e la libertà individuale,
e che a tale scopo siano ridotte al mi,limo le facoltà di intervento dello
Stato nell’andamento dell’economia e della società; viceversa, per altri,
senza una certa dose di eguaglianza e di giustizia sociale, la libertà e il di­
ritto di voto perdono molto del loro significato. Tra queste due visioni di
una società funzionante ne esistono molte altre intermedie. Per cui il ri­
fiuto di Berlin di prendere posizione, in nome della pluralità dei valori,
su una questione cruciale del nostro tempo costituisce una forma di neu­
tralità conservatrice che necessariamente convalida l’ordine esistente. È
proprio qui l’intoppo: gli Illuministi francesi pensavano che fosse possi­
bile definire una società decente. In ciò sono tutti rivoluzionari: tutti
combattono forme di discriminazione e lo fanno in nome dei diritti na­
turali. Rousseau ha fatto più di chiunque altro per giungere a ciò: per
questo è la bestia nera di Berlin e dei neoconservatori di oggi, come, due
secoli prima, lo era stata di Burke.
Il neoconservatore O ’Brien, scrivendo nel 1992, non si inganna di
molto quando ritiene che Burke non sia più reazionario dello stesso
Isaiah Berlin. Nel suo scambio di lettere con O ’Brien, Berlin non prote­
sta contro questo paragone. La parola «reazionario» era stata utilizzata
da Berlin a proposito di Burke nel 1980. Dodici anni dopo, nonostante
qualche reticenza, confessa di essersi sbagliato e, cedendo alle rispettose
critiche di Conor Cruise O ’Brien, concede a Burke la qualifica di «libe-127

127. Berlin/Jahanbegloo, En toutes libertés, p. 142.

588
G li antilluministi della guerra fredda

rale pluralista»128129.In effetti O ’Brien non aveva alcuna ragione di ramma­


ricarsi, poiché, a parte il passaggio incriminato ne 11 legno storto dell’u­
manità, Berlin aveva più volte manifestato il suo attaccamento a Burke,
anche nello scritto che aveva creato la sua rinomanza12’ .
Tuttavia è Herder, più di qualsiasi altro pensatore, l’oggetto della sua
venerazione. In questo senso Berlin reagisce come Renan e Meinecke. Si
schiera con Herder non solo contro Rousseau e Voltaire ma anche con­
tro Montesquieu. Non gli rimprovera, come nemmeno a Burke, di di­
menticare Locke. Per lui, come per Renan, Herder è il più grande dei
pensatori moderni perché rifiuta l’idea che possa esistere una soluzione
unica alle questioni riguardanti le finalità dell’esistenza umana. Berlin sa
che, secondo Herder, l’uso eccessivo della ragione è per una civiltà un
fattore di debolezza e un segno evidente di invecchiamento, o addirittu­
ra di senilità. Sa che Herder si schiera risolutamente per gli istinti e per
le forze vitali contro l’individuo, per i legami comunitari indipendenti
dalla sua volontà, per una società impregnata di fede contro il libero
pensiero, per il particolare contro l’universale, per la campagna contro
la metropoli e infine per la forza e la potenza contro lo spirito filosofico
di un secolo decadente. L’uomo non è animato dalla ragione ma da sen­
timenti e istinti, ripetono dopo Herder tutti i pensatori nazionalisti degli
inizi del X X secolo: la ragione spegne gli istinti, uccide le forze vitali.
Viceversa gli Illuministi ritenevano che non tutti gli obiettivi fossero
altrettanto auspicabili e vedevano nella ragione il solo strumento utile
per guidare l’uomo, agente morale, nelle sue scelte. Qui si colloca non
solo l’origine dell’opposizione di Berlin, lungo tutto il corso della sua vi­
ta, ai Lumi francesi, ma anche dell’altra sua ossessione, il rifiuto della
«storia scientifica», creazione del razionalismo e fondata sull’idea che il
lavoro dello storico, contrariamente a quanto pensa Berlin, consiste nel
cercare la verità. Quando lo storico vuole ricostruire un’epoca, anche se
sa che si tratta sempre di un’interpretazione e che non potrà mai pre-

128. Berlin in Conor Cruise O ’Brien, The Great Melody, appendice, pp. 608 e 613.
Nel suo articolo «Sul presunto relativismo nel pensiero europeo del Settecen­
to», Berlin aveva incluso Burke nel gruppo dei reazionari con Hamann, Justus
Mòser e de Maistre: Il legno storto dell’umanità, p. 122.
129. Berlin, Two Concepts of Liberty, p. 55.

589
G li antìlluministi della guerra fredda

tendere, come voleva Ranke, di ricostruire gli eventi come sono avvenu­
ti realmente, non accetta l’idea di una pluralità infinita di verità. Le in­
terpretazioni divergenti non sono altrettante verità divergenti.
E insomma in questa cornice concettuale che si inscrive il grande
progetto di Berlin. Questo è formulato in una pagina importante di un
articolo del 1972 raccolto poi ne 11 legno storto dell’umanità. Nella sua
mente si tratta di demolire il grande edificio dei Lumi, identificato con
la tradizione culturale stessa dell’Occidente. Secondo Berlin il nucleo
centrale di questa tradizione posa su «tre dogmi incontestati: a) che per
tutte le domande autentiche esiste una risposta vera, una sola, tutte le al­
tre essendo deviazioni dalla verità e pertanto false [...]; b) che le rispo­
ste vere a tali domande sono in linea di principio conoscibili; c) che que­
ste risposte vere non possono scontrarsi l’una con l’altra, perché una
proposizione vera non può essere incompatibile con un’altra proposi­
zione vera; che, prese insieme, queste risposte devono formare un tutto
armonioso»00. Due anni dopo, nel saggio su Hume, Berlin ripropone an­
cora una volta la sua visione dell’Illuminismo. L’idea che l’antirazionali-
smo possa provocare quel genere di disastri analizzati da Richard Wolin
non lo sfiora nemmeno. È bene quindi vedere da vicino questo testo, cui
Berlin attribuisce molta importanza. Secondo lui i philosophes francesi e
i loro seguaci di altri paesi sono accomunati da «una versione secolare
della vecchia dottrina del diritto naturale, secondo la quale la natura del­
le cose possiede una struttura permanente, immodificabile, e le diffe­
renze e i mutamenti osservabili nel mondo sono essi stessi soggetti a leg­
gi universali e immutabili. Ed era in linea di principio possibile scoprire
queste leggi mediante l’uso della ragione e dell’osservazione controllata,
di cui i metodi delle scienze naturali costituivano l’applicazione meglio
riuscita. [...] Secondo tale dottrina, tutte le domande autentiche erano
in linea di principio suscettibili di risposta: la verità era una, l’errore mol­
teplice; le risposte vere non potevano non essere universali e immutabi­
li, ossia vere ovunque, in ogni tempo e per tutti gli uomini, e doveva es­
sere possibile scoprirle mediante l’uso corretto della ragione»130131. Berlin

130. Berlin «L’apoteosi della volontà romantica», ne II legno storto dell’umanità, p. 294.
131. Berlin, «Hume e le fonti dell’irrazionalismo tedesco», in Controcorrente, pp.
242-243. Si veda Wolin, The Seduction of Unreason.

590
G li antilluministi della guerra fredda

insorge contro ciò che lui chiama «dogmi», che definisce «monismo» o
anche idea utopica.
A questo proposito bisogna rileggere l’introduzione alla raccolta
Controcorrente, scritta da Roger Hausheer per conto di Berlin, per dare
al tempo stesso un riassunto e un’analisi del pensiero dell’autore. Hau­
sheer vuole mostrare in cosa consista il maggiore e originale contributo
di Berlin alla storia delle idee. Berlin ritiene che, da Platone in poi, in
grandissima maggioranza i pensatori, malgrado le loro profonde diver­
genze, abbiano ammesso un postulato centrale, che nemmeno discuto­
no, cioè che la realtà costituisca nel fondo un tutto razionale, ove ogni
cosa perviene in fin dei conti alla coerenza. Suppongono che esista un
corpo di verità accessibili all’intelletto umano, comprendente ogni que­
stione concepibile, sia teorica che pratica. Che, per accedere a queste ve­
rità, ci sia un solo metodo giusto, o un solo insieme di metodi £ che que­
ste verità, proprio come i metodi usati per scoprirle, abbiano una vali­
dità universale. In questo contesto Berlin inizia a regolare i suoi conti col
positivismo logico ed esprime la propria acuta consapevolezza dèll’infi-
nita diversità delle esperienze: egli sa che questa diversità è irriducibile.
Qui Hausheer aggiunge una annotazione importante: il rifiuto di Berlin
per Hume, Russell, Carnap, del primo Wittgenstein, del Circolo di Vien­
na e delle principali tendenze del positivismo logico con i loro metodi,
che mirano a levigare e appiattire il reale, è paragonabile al rifiuto di Vi­
co per Descartes, o di Hamann ed Herder per la filosofia francese dei
Lumi. È il legame che sente verso di loro che gli ha permesso di studiar­
li con tanta simpatia e profonda comprensione1’2.
«Sotto un certo aspetto», prosegue Hausheer scrivendo a nome di
Berlin, «l’intera œuvre filosofica di Berlin può essere vista come una
lunga battaglia, talora aperta, altre volte celata, ma sempre sottile, inge­
gnosa e risoluta, contro la facile applicazione di modelli e concetti ina­
deguati nel campo delle scienze umane. [...] Berlin mette infatti in­
stancabilmente in guardia contro due pericoli mortali: quello di ab­
bracciare sistemi onnicomprensivi [...] e quello di trasferire metodi e
procedure da una disciplina [...] a un’altra.»1” In altri termini, Berlin132

132. Hausheer, Introduzione a Isaiah Berlin, Controcorrente, pp. XXV-XXVII.


133. Ibid., p. XXVII-XXVIII.

591
G li antilluministi della guerra fredda

parte in guerra contro il razionalismo. «Ad accomunare tutti questi


pensatori razionalisti», scrive Hausheer, «era la credenza che da qual­
che parte, utilizzando certi mezzi, fosse in linea di principio disponibi­
le un’unica, coerente, integrata struttura del sapere, concernente tanto
le questioni di fatto quanto quelle di valore.» Si sforzavano, dice, di ela­
borare schemi di portata universale, schemi concettuali unificanti che
avrebbero reso visibili le interrelazioni logiche o causali entro le quali si
trovano tutti i fenomeni, e pensavano di poter stabilire una gerarchia di
valori. Pertanto non doveva rimanere alcuna smagliatura che potesse
portare a sviluppi spontanei e inattesi e ogni evento, almeno in via di
principio, doveva divenire totalmente intelligibile, in quanto rapporta­
to a leggi generali immutabili. La conclusione, preparata da questa ri­
costruzione parodistica dei Lumi francesi, arriva subito e ci fa sapere
che «è quest’orgoglioso e scintillante pilastro, identificato da Berlin co­
me la chiave di volta degli edifici razionali e scientifici del pensiero oc­
cidentale, che taluni dei pensatori esaminati in questo volume minaro­
no, facendolo vacillare»134.
Con grande fedeltà e sempre con l’avallo dell’autore, il discepolo
prosegue la sua esposizione: «In un certo senso, l’intera œuvre di Berlin
è una lunga e coerente ripulsa di una concezione della filosofia e della
verità, e dei metodi impiegati per indagare le vere capacità e la vera con­
dizione dell’uomo, che, almeno nella tradizione occidentale, sono stati al
centro della scena per più di duemila anni»135. Infatti è proprio questo
che spiega come Berlin senta tanta affinità con Herder, Vico e Hamann,
de Maistre e Sorel: tutti si lanciano all’assalto della tradizione occidenta­
le, razionalista e fondata sui diritti naturali. Hausheer ha ragione di pre­
sentare questa rivolta, esaltata da Berlin, contro la tradizione occidenta­
le come uno degli sconvolgimenti più profondi e più colmi di conse­
guenze prodottisi nella storia delle idee dopo la Riforma, sconvolgimen­
to che continua a esercitare un’azione forte sulla società del nostro tem­
po. Hausheer riassume Berlin quando mostra come tale rivolta, espressa
dapprima in Italia nel primo terzo del Settecento, poi con crescente vi­
gore nel mondo germanofono, fu portata avanti da pensatori, a suo pa-

134. lbtd„ p. XXXV.


135. Ibid., p. XXXIII.

592
G li antilluministi della guerra fredda

rere avversi a ogni regola, contro le teorie razionaliste e scientifiche che


sono al centro della tradizione occidentale. Questa corrente di idee ha
letteralmente trasformato il mondo: il nazionalismo, il romanticismo, il
relativismo e il pluralismo ne sono gli esiti136.
Come Sorel e come Spengler, Berlin pensa che rilluminismo non ap­
partenga esclusivamente al Settecento: si tratta di strutture intellettuali,
non di un periodo storico. L’Illuminismo, che rappresenta una cultura
razionalista fondata su valori universali, è di tutte le epoche. Platone, il
fondatore del «monismo», appartiene ai primi Lumi. Lo stesso pensa So­
rel; Spengler evoca un Illuminismo cinese, con strutture intellettuali
quasi identiche a quello europeo.
Sulle rovine dell’edificio dei Lumi si costruisce una controcultura.
Le sue fondamenta sono l’opera di Vico, il primo antirazionalista mo­
d e r n o . Nella mente di Berlin è il padre sia del concetto moderno di cul­
tura che del pluralismo culturale e dell’antropologia storica. E il dimen­
ticato precursore della scuola storica tedesca137. In pratica si trova in lui
tutto l’embrione dello storicismo: il suo attacco contro l’idea di contrat­
to sociale e di diritto naturale è totale138. Non è la teoria dello sviluppo
ciclico delle civiltà che costituisce, secondo Berlin, il suo apporto prin­
cipale: «L a mossa rivoluzionaria di Vico consistè nel negare la dottrina
del diritto naturale atemporale, le cui verità siano in linea di principio ac­
cessibili a ogni uomo, in ogni tempo, ovunque»139140. In Vico and Herder,
egli scrive una frase il cui senso era che il pensiero di Vico comportava
un netto relativismo, frase che più tardi cercò di ripudiare di fronte alla
critica erudita italiana: «Egli certamente si ricorda, talvolta, che i valori
cristiani sono eterni e assoluti; ma in massima parte se ne dimentica e
parla come se necessariamente autre temps, autres moers»'*. La storia
non si fa semplicemente coi fatti ed è contraddittoria, ma il nostro pas­
sato è essenziale per la comprensione di noi stessi. Tuttavia il rimedio c’è.

136. Ibid., p. XXXIV.


137. Berlin, «Giambattista Vico e la storia della cultura», ne II legno storto dell’u­
manità, pp. 96-100.
138. Berlin, Vico and Herder, pp. 38-40 [Vico e Herder, pp. 68-70].
139. Berlin, «Il Contro-Illuminismo», in Controcorrente, p. 9.
140. Berlin, Vico and Herder, p. 41 [Vico e Herder, p. 70]. Berlin si riferisce ai lavo­
ri di Arnaldo Momigliano.

593
G li antilluministi della guerra fredda

Esistono, dice Vico, tre fonti della conoscenza storica che non mentono
mai: la lingua, i miti e gli usi e costumi antichi141. Vico sviluppa questa te­
si, dice Berlin, con erudizione, fantasia e audacia142. I suoi bersagli sono
in primo luogo Descartes e i cartesiani, che si sono completamente sba­
gliati a proposito delle matematiche. Queste possono rilevare regolarità,
le occorrenze dei fenomeni del mondo esteriore, ma non ci permettono
né di accedere alla ragione essenziale di queste occorrenze né alle loro fi­
nalità. Noi non possiamo conoscere la natura poiché questa non è ope­
ra nostra. Tuttavia ciò contro cui Vico davvero si batte è l’insieme della
teoria dei diritti naturali fondata sull’idea che «la natura umana fosse
fondamentalmente la stessa in tutti i tempi e luoghi; [...] che esistessero
mete umane universali»: il napoletano «si propose di scuotere i pilastri
su cui poggiava l’Illuminismo»14’ . «Ciascuno stadio del ciclo storico del­
le culture [attraverso il quale tutte le nazioni dovevano passare] rac­
chiude i propri autonomi valori, la propria visione del mondo, e in spe­
cie la propria concezione dei rapporti degli uomini tra loro e con le for­
ze della natura. [...] Secondo Vico, ciascuna di queste culture, o stadi di
sviluppo, non è semplicemente un anello di una catena causale o di una
sequenza contingente, ma una fase di un piano provvidenziale governa­
to daH’intendimento divino. E ogni fase è incommensurabile rispetto al­
le altre, poiché ciascuna vive di luce propria e può essere compresa sol­
tanto nei suoi propri termini [...]. Se una civiltà viene interpretata o,
peggio ancora, valutata mediante l’applicazione di criteri che sono vali­
di solamente per altre civiltà, il suo carattere verrà frainteso [...] e il re­
soconto che ne risulta sarà [...] fuorviarne, [...] poco coerente, una me­
ra associazione accidentale di eventi: insomma, qualcosa che assomiglia
alle divertenti parodie voltairiane dei secolo bui.»144 Questo è il contri­
buto che Vico, con grande plauso di Berlin, ha dato alla cultura antillu-
minista. Tali formule torneranno infinite volte in quasi tutti i testi im­
portanti di Berlin. Sono riprese e riassunte, in una maniera molto acces-

141. Ibid., p. 41 [pp. 70-71],


142. Ibid. [p. 71].
143. Berlin, «Il Contro-Illuminismo», in Controcorrente, pp. 3-4 e 11. Si veda anche
alle pp. 4-10.
144. Berlin, «Sul presunto relativismo nel pensiero europeo del Settecento», ne II le­
gno storto dell’umanità, pp. 117-118.

594
G li antilluministi della guerra fredda

sibile, in sette punti, nell’introduzione a Vico and Herder, l’opera centra­


le del suo lavoro145.
Il seguito viene con Hamann che, per Berlin, «è il pioniere dell’anti-
razionalismo radicale» e il cui studio «non è avaro di ricompense: egli è
uno dei pochi critici dell’epoca moderna assolutamente originali [...], la
fonte dimenticata di un movimento che avrebbe finito per inghiottire
l’intera cultura europea». Nessun altro merita questo titolo glorioso, cer­
to non Rousseau, le cui «idee propriamente politiche [...] sono classiche
nel loro razionalismo», e nemmeno Burke, che, pur denunciando «le
teorie fondate sulle astrazioni», si limita a fare appello «al pacato buon
senso dell’uomo riflessivo». Non è la stessa cosa con Hamann: «Ovun­
que l’idra della ragione, della teoria, della generalizzazione, innalzi una
delle sue teste mostruose, egli colpisce»146. Questa pagina dell’introdu­
zione fornisce il tono dell’insieme e si legge come se fosse stata scritta
uno o due secoli prima. Da una parte Berlin guarda Hamann con affet­
to, manifesta quella certa empatia che da Herder ha appreso come una
condizione necessaria alla comprensione storica, dall’altra ne prende le
distanze. Non è hamanniano quanto è invece herderiano, il carattere re­
ligioso del pensiero del Mago non glielo permette: si rende conto che
Hamann «era un fanatico», che nutriva «un odio appassionato per l’a­
spirazione umana a comprendere l’universo e l’uomo stesso» e che que­
sto cieco antirazionalismo ha portato in conclusione a un «piacere della
tenebra»147. Allo stesso tempo però questo antirazionalismo lo affascina,
poiché, accettando la sfida delle scienze, per Hamann «l’unica autorità è
rappresentata, alla fine, dall’individuo e dalla sua esperienza emotiva:
ogni tentativo di generalizzare produce astrazioni senza volto»148. E Ber­
lin prosegue: «Come Burke alcuni anni più tardi, Hamann pensa che
l’applicazione dei canoni scientifici all’essere umano vivente porti a un’i­
dea errata e, alla fine, degradante dell’uomo stesso»149. Egli parla in dife­
sa dei «valori umani fondamentali non meno dei suoi nemici illuministi,

145. Berlin, Vico and Herder, pp. XVI-XIX [Vico e Herder, pp. 22-26].
146. Berlin, Il mago del Nord. ].G. Hamann e le origini dell’irrazionalismo moderno, a
cura di Henry Hardy, trad. di Nicola Cardini, Adelphi, Milano 1997, pp. 24-25.
147. Ibid., p. 159.
148. Ibid, p. 157.
149. Ibid, p. 158.

595
G li antilluministi della guerra fredda

di Voltaire e di Kant»150. Insomma Kant e Voltaire vengono posti sullo


stesso piano di Hamann.
L’importanza di Hamann, scrive Berlin, sta nel suo grido «di una
sensibilità offesa», nella sua rivolta di «tedesco umiliato dalla presunzio­
ne e da quella che gli pareva la cecità spirituale deU’Occidente»151. Si as­
siste così, nella seconda metà del Novecento, alla legittimazione dell’ali­
bi classico di tutti i nazionalismi radicali, di tutti gli etnocentrismi disa­
strosi, che vanno da Fichte durante le guerre napoleoniche a Barrès do­
po la disfatta del 1870, fino ai tedeschi e agli italiani dopo la Prima guer­
ra mondiale. I fondatori del fascismo e del nazismo trovano anch’essi
nell’umiliazione non soltanto la spiegazione ma la giustificazione della
loro rivolta contro i Lumi, contro l’Occidente democratico e sempre ar­
rogante come ai tempi di Hamann. Per di più Hamann ha «orrore per il
monismo»,152 cosa che per Berlin costituisce uno dei vertici della virtù
politica; «come difensore del concreto, del particolare, dell’intuitivo, del
personale, dell’asistematico [...] Hamann non ha pari»155. Ancora una
volta Berlin si schiera con Troeltsch e Meinecke: è proprio questo che
«distingue, anzi divide i tedeschi dall’Occidente razionale, generalizzan­
te e scientifico»154. E pieno di ammirazione per « l’esattezza spietata con
cui [Hamann] affonda il coltello nelle ferite e le mette a nudo. [...] So­
no questi i suoi titoli di gloria nella storia del pensiero»155. Non importa
che questa sia una esagerazione così evidente da minarne la credibilità,
ciò che qui importa, per la comprensione esatta degli antilluministi del
Novecento, è che esaltando Hamann Berlin fissa una chiara scala di va­
lori: le piaghe in questione sono il razionalismo e i valori universali.
Pluralismo e capacità di mettere in dubbio tutti i sistemi monistici
sono, per Berlin, anche la grande virtù di Machiavelli. L’articolo che de­
dica al Fiorentino nel 1972 rappresenta da solo una sintesi di tutto il suo
lavoro. Berlin ritiene che l’autore del Principe ci abbia insegnato che esi­
stono varie morali, e che «l’etica cristiana non può costituire una guida

150. Ibid., P- 155.


151. Ibid.. pp. 159-160.
152. Ibid., P- 154.
153. Ibid., P- 126.
154. Ibid.
155. Ibid., P- 162.

596
G li antilluministi della guerra fredda

per un’esistenza sociale normale. Nessuno aveva mai affermato questo.


Machiavelli colmò la lacuna»156. Egli attacca «uno dei presupposti più
profondi del pensiero politico occidentale [... per cui] esiste un qualche
principio che [...] prescrive a tutte le creature animate il giusto com­
portamento»: da Platone in poi, «questa dottrina, in varie versioni, ha
dominato il pensiero europeo» e «l’idea del mondo e della società uma­
na come un’unica struttura intelligibile è alla radice di tutte le numero­
se versioni della legge di natura»157. E apparso così «questo modello mo­
nistico unificatore [che] sta al centro del razionalismo tradizionale [...]
che ha caratterizzato la civiltà occidentale»: è di questa «credenza nella
compatibilità conclusiva di tutti i valori autentici», cioè dei «fondamen­
ti della tradizione filosofica centrale dell’Occidente», che «Machiavelli
svela il bluff»158. Berlin ama il pensiero di Machiavelli, distruttore della
tradizione razionalista occidentale: è lui che ha «mandato in pezzi» quel
blocco e ha innescato «il fatale detonatore», o ancora, come pensa anche
Meinecke, che ha conficcato il pugnale con cui «inferse la ferita che non
si è mai sanata»159. Infatti nessuno prima di lui aveva detto che esisteva
la «possibilità di più di un sistema di valori in assenza di un criterio co­
mune che renda possibile procedere a una scelta razionale tra di essi»,
nessuno aveva preso in considerazione il fatto che «interi sistemi di va­
lori possano entrare in collisione senza che sia possibile un arbitrato ra­
zionale» o che in tale modo crollava «l’idea dell’unico vero, oggettivo,
universale ideale umano»: Machiavelli ha mostrato che «la stessa ricerca
volta a individuarlo diventa [...] concettualmente incoerente»160. Ha sa­
puto così aprire la strada «del pluralismo, e della (per lui) pericolosa ac­
cettazione della tolleranza che ne consegue»161. Allo stesso modo si può
concludere, al contrario di quanto pensa Berlin, che non è il regno della
tolleranza che così si instaura ma quello del relativismo, e quando una
mediazione sarebbe necessaria non resta invece altra via d’uscita che
l’appello alla forza.

156. Berlin, «L’originalità di Machiavelli», in Controcorrente, pp. 98-99.


157. Ibid., pp. 99-100.
158. Ibid., pp. 101 e 106. Cfr. anche p. 105.
159. Ibid., pp. 101 e 113.
160. Ibid., pp. 106, 111 e 113.
161. Ibid., p. 111.

597
G li antilluministi della guerra fredda

Machiavelli è anche degno di elogio per avere contribuito alla vitto­


ria dei valori sociali e politici dell’età classica sui valori individualisti del­
la morale cristiana162. Si vede subito che questa analisi si muove nel sol­
co di Meinecke, e del resto Berlin non lo nasconde. Anche lui si schiera
con Machiavelli quando questo si rifa a una tradizione più antica, quel­
la della polis greca o della Repubblica romana, alla morale antisocratica
comunitaria tanto apprezzata anche da Sorel.
E di nuovo il rifiuto dei principi fondamentali dei Lumi che Berlin enu­
mera per l’ennesima volta nel suo saggio su de Maistre, saggio che attribui­
sce grande importanza al diplomatico savoiardo e ne fa un «nostro con­
temporaneo». Nostro contemporaneo lo è per il suo storicismo ma anche
perché «denuncia l’impotenza delle idee astratte e dei metodi deduttivi
[...]. Nessuno ha fatto più di lui per screditare il tentativo di spiegare co­
me le cose accadano e di stabilire che cosa dobbiamo fare, per via dedutti­
va, da nozioni generali come la natura dell’uomo, la natura dei diritti, la na­
tura della virtù, la natura del mondo fisico»16’. Berlin toma su questa idea
innumerevoli volte: de Maistre era nemico giurato delle idee comuni a tut­
te le correnti dei Lumi, quali che fossero i disaccordi tra loro, spesso
profondi in ogni altro campo, cioè che l’idea «che gli uomini fossero per
natura razionali e socievoli» e «che tutte le cose buone e desiderabili fosse­
ro necessariamente compatibili»; riteneva assurde sia l’idea di diritto natu­
rale sia quella che pretendeva gli uomini capaci, almeno dopo un’adeguata
educazione, di essere liberi, di governarsi da soli e di condurre una vita «fe­
lice, virtuosa e saggia»: contro questo puerile ottimismo de Maistre lottava
con tutte le sue forze, così come attaccava l’altro versante di questo blando
ottimismo, l’adozione del metodo scientifico nelle scienze umane164.

162. Ibid., p. 114.


163. Isaiah Berlin, «Joseph de Maistre e le origini del fascismo», ne 11 legno storto dell’u­
manità, pp. 239-240. Il titolo originale è «Joseph de Maistre and the Origins of
Fascism», ma nella traduzione francese è diventato «Joseph de Maistre e les origines
du totalitarisme». Il traduttore e l’editore francesi avevano subito capito che era biz­
zarro, cioè poco plausibile, fare di un antinazionalista, partito alla ricerca dei mezzi per
restaurare la monarchia di diritto divino, fautore di un’Europa governata dalla Santa
Sede, un fondatore del fascismo. Si può consultare su Berlin de Maistre un articolo
elogiativo, con qualche riserva, di Graeme Garrard, «Isaiah Berlin’s Joseph de Mai­
stre», in Mali e Wokler (a cura di), Isaiah Berlin’s Counter Enlightenment, pp. 117-131.
164. Ibid., pp. 159-161.

598
G li antilluministì della guerra fredda

Per Berlin questo è ciò che conta in de Maistre. Identifica perfetta­


mente l’aspetto violento, brutale, sanguinario e dittatoriale del pensiero
di de Maistre, sa che è nel papa e nel boia che esso confida per condur­
re gli affari umani, ma è preso da ammirazione non solo davanti alla sua
comprensione profonda della natura dell’uomo, della società e della po­
litica ma anche davanti alla sua lotta senza quartiere contro il razionali­
smo e lo scientismo. De Maistre, fa notare, «con grande vivacità ed effi­
cacia denunciò tutto quello che presupponeva chiarezza e organizzazio­
ne razionale»165. Vede pertanto in lui un precursore del fascismo, del-
l’antidreyfusismo e di Vichy, ma lo trova ammirevole per il suo storici­
smo, per il suo interesse per il variabile e il particolare, per i pregiudizi
e i particolarismi nazionali, per il suo disprezzo «per l’uomo». Pensa che
de Maistre abbia qualcosa di molto importante da insegnarci: benché sia
un fondatore del fascismo, egli è sulla buona strada quando, con Burke,
si erge contro l’idea che «l’uomo» possa esistere al di fuori di un conte­
sto culturale e sociale dato: Burke, de Maistre e Maurras e sulle loro trac­
ce Gentile, Rocco e Mussolini, Cari Schmitt e Alfred Rosenberg, consi­
deravano l’idea dei diritti dell’uomo come la grande assurdità del pen­
siero moderno. Berlin fa suo, sotto il nome di pluralismo, tanto l’attacco
demaistriano contro i diritti dell’uomo quanto la sua visione di un’uma­
nità frantumata in un numero indefinito di culture e di etnie166.
È inoltre interessante, nel saggio dedicato a de Maistre, il fatto che
vi si vede emergere un fascismo senza nazionalismo: ciò sarebbe un to­
tale controsenso se Berlin non perseguisse un obiettivo preciso, quello di
salvare il nazionalismo. Sotto molti aspetti questo suo lungo articolo,
uno dei più travagliati, ricorda curiosamente il saggio con cui verso il
1890 Émile Faguet, il grande pubblicista di destra, aveva esposto con fi­
nezza ed esattezza, ma anche con simpatia, il pensiero di Maurras167.
Alla fine del suo articolo su de Maistre, scritto nel 1960 e messo poi
da parte per farne oggetto di ulteriore riflessione, Berlin nomina già So­
rel. Scriverà il saggio sull’autore delle Réflexions sur la violence solo dieci

165. Ibid., p. 162.


166. Ibid., p. 151 (corsivo nel testo).
167. Émile Faguet, Politiques et moralistes du XIX‘ siècle, première série, XII éd.,
Société française d’imprimerie et de librairie, Paris, s.d., pp. 1-67.

599
G li antilluministi della guerra fredda

anni dopo ma dagli inizi degli anni Sessanta la transizione verso l’antira-
zionalismo soreliano si svolge in maniera naturale. Sorel, il grande nemi­
co delle costruzioni razionaliste e dei «modelli», l’ammiratore di Vico, lo
stroncatore di Socrate e della morale della polis di Pericle, l’autore che
basa le sue opere maggiori sull’esaltazione del mito contro l’utopia ra­
zionalista, lo affascina. Sorel difende la morale dei combattenti di Mara­
tona contro quella dei Lumi ateniesi e, per interposto V secolo greco,
scalza le fondamenta del Settecento francese. In Sorel Berlin apprezza
l’elaborazione di una mitologia sociale moderna grazie a tutti gli stru­
menti creati dal bergsonismo, strumenti che peraltro Sorel avrebbe po­
tuto trovare «altrettanto facilmente nei romantici tedeschi francofobi di
un secolo prima»: si tratta essenzialmente dell’idea «per cui la ragione è
un debole strumento a paragone della potenza dell’irrazionale e dell’in­
conscio nella vita degli individui come delle società»168. Berlin guarda
con favore l’antirazionalismo di Sorel, nonostante le sue ossessioni anti­
democratiche e il suo disprezzo per i valori liberali e per la socialdemo­
crazia. Sorel ci ha insegnato che «non dalla conoscenza teoretica, ma dal­
l’azione e soltanto dall’azione discende la comprensione della realtà.
[...] L’intelletto congela e distorce. [...] La realtà deve essere colta in­
tuitivamente, per mezzo di immagini, come la concepiscono gli artisti, e
non mediante concetti, discorsi o ragionamenti cartesiani»169. Da Vico e
Hamann fino a Sorel e Berlin, è sempre presente la stessa linea di pen­
siero: gli antilluministi, proprio come pensava Spengler, sono davvero di
tutti i tempi e di tutte le culture.
Se de Maistre è presentato come un fondatore del fascismo nono­
stante la sua quasi impermeabilità al nazionalismo, rafforzata dal suo
orientamento verso un’Europa cristiana governata da Roma dal capo
della Chiesa cattolica, Sorel sfugge a questa definizione poco lusinghie­
ra. Nonostante il suo culto per la violenza e per le minoranze attive, il
suo odio per la democrazia e per il liberalismo, il suo nazionalismo, la
sua xenofobia e il suo antisemitismo, nonostante i fondatori del fascismo
così come i primi fascisti francesi vedevano in lui il loro profeta, Berlin
resta soggiogato dalla critica soreliana al XVIII secolo, dal suo disprezzo

168. Berlin, «Georges Sorel», in Controcorrente, p. 467.


169. Ibid., pp. 467-468.

600
G li antillumirmti della guerra fredda

per il cartesianismo, la teoria del progresso, Fontenelle, Rousseau e


YEncyclopédie. Questo lo porta a concludere, in quell’inizio degli anni
Settanta, che «i pericoli di cui parlava [Sorel] erano, e sono, reali»'70. I
pericoli di cui Berlin parla non sono quelli della rivolta contro i diritti
dell’uomo, contro il razionalismo e l’ottimismo, bensì il contrario. E
proprio questa rivolta che Berlin esalta: le idee di Sorel non solo non so­
no invecchiate ma, ancora oggi, «vengono a noi da ogni parte. Esse se­
gnano una rivolta contro l’ideale razionalista di un appagamento senza
frizioni in un sistema sociale armonioso nel quale tutte le questioni ul­
time sono ridotte a problemi tecnici, risolvibili per mezzo di tecniche
appropriate. È la visione di questo mondo chiuso che oggi appare ai
giovani moralmente repulsiva. Il primo a dare di tale atteggiamento una
formulazione chiara fu Sorel. Le sue parole hanno ancora il potere di
scuotere»170171.
Ancora una volta si constata come sia la caricatura dei Lumi dise­
gnata da de Maistre e da Sorel quella che Berlin fa propria. In effetti,
quando legge gli autori illuministi, li guarda con gli occhi di Herder, di
Burke e di Taine, e la sua lettura non è meno selettiva e caricaturale del­
la loro. Burke ed Herder si battono per salvare tutta una civiltà, Berlin è
animato dallo stesso genere di sentimento. In questa lotta tutto è per­
messo: così come Herder e Burke falsano il senso dei Lumi, anche nei lo­
ro aspetti più moderati, Berlin contribuisce a presentare un’immagine
dei Lumi, in particolare di quelli francesi, come il regno dell’intolleran­
za e dell’assolutismo, prodotto necessario del razionalismo e di uno
scientismo semplicistico che, applicato alla società degli uomini, genera
il determinismo; dominio inoltre di un imperialismo culturale coniugato
a un evidente disprezzo, sotto il velo dei valori universali, per le culture
diverse da quella parigina.
Come i suoi predecessori, Berlin vede negli Illuministi degli esaltati
mentre erano dei riformatori moderati. Tutti i detrattori dei Lumi ne
fanno i fondatori del fanatismo moderno mentre essi lottavano contro
ogni fanatismo e per la tolleranza, dei rabbiosi «monisti» ed eurocentri-
sti mentre essi manifestavano un rispetto ignoto alla cristianità per le cul-

170. Ibid., p. 488.


171. Ibid., p. 489.

601
G li antilluministi della guerra fredda

ture non europee e per il pluralismo culturale. D ’Holbach era ateo ma


non pretendeva, poiché Dio era morto, che tutto fosse permesso172. L’u­
tilitarismo di Helvétius getta le basi di una politica sociale ragionevole e
moderata. E così che funziona lo stravolgimento delle idee illuministe:
quando questi uomini pensano a un mondo migliore e chiedono il dirit­
to alla felicità, li si accusa subito di volere la luna, quando vogliono più
giustizia, li si accusa di cercare la perfezione, quando criticano l’ordine
vigente e concepiscono lo Stato come un semplice strumento nelle mani
dei cittadini, li si rende distruttori di un ordine senza il quale non può
esistere alcuna società, quando fanno appello alla ragione contro i mali
e le distorsioni accumulati dalla storia e si attribuiscono il diritto di fis­
sare gli scopi dell’esistenza, li si accusa di volere un mondo «concepito
come un sistema meccanico destinato a essere manipolato a scopi utili­
tari da squadre di esperti razionali»1'3.
Non è nemmeno il caso qui di ricordare che i pensatori illuministi
non riducono mai la complessità della vita umana a una formula unica
buona per tutti gli usi. Mark Lilla lo dimostra assai bene nel suo testo
conciso e brillante174. John Robertson, che, come in pratica tutti gli sto­
rici che si occupano del Settecento, prova anch’egli un profondo disagio
di fronte agli scritti di Berlin, mostra come per quest’ultimo i Lumi si ri­
ducano a un piccolissimo numero di idee semplici: Kuniformità della na­
tura umana, l’universalità dei diritti naturali in quanto codice di ogni
comportamento morale, la convinzione che esista un solo fine perfetto
per l’umanità, che gli uomini possono scoprire e raggiungere175. Nono­
stante tutto, è proprio questa parodia sistematica che il lettore anglofono

172. Si veda Gay, I he Party o f Humanity: Essays in the French Enlightenment, pp.
284-285.
173. Roger Hausheer, Introduzione a Isaiah Berlin, Controcorrente, p. XLIX.
174. Mark Lilia, «What is Enlightenment», in Joseph Mali e Robert Wokler (a cura
di), Isaiah Berlin’s Counter-Flnlightenment, pp. 1-11.
175. John Robertson, «The Case for the Enlightenment: A Comparative
Approach», in Mali e Wokler (a cura di), Isaiah Berlin’s Counter-Enlighten­
ment, p. 73. E interessante confrontare questo articolo con quello di Graeme
Garrard, «The Counter- Enlightenment Liberalism of Isaiah Berlin», Journal of
Political Ideologies, voi. 2, ottobre 1997, pp. 281-296. Garrard presenta un Ber­
lin proprio come lui avrebbe voluto essere visto: il suo attacco ai Lumi sareb­
be stato motivato dalle sue convinzioni pluraliste e quindi liberali.

602
G li antilluministi della guerra fredda

colto ma non erudito né specialista, affascinato da una dimostrazione


elegante e facile da assimilare, trova in Berlin.
Ma l’apostolo più influente della grande rivoluzione intellettuale che
doveva cambiare il mondo moderno, come si è detto poco fa, colui che
per Renan è il più grande filosofo dopo Platone e che nella gerarchia di
eroi innalzata da Meinecke viene subito dopo Goethe, è ovviamente
Herder176. Per Berlin è il creatore di tre idee fondamentali che restano vi­
ve ancora oggi: in primo luogo il mondo gli deve l’idea per la quale gli
uomini non possono svilupparsi se non appartenendo a un gruppo iden­
tificabile, ciascuno col proprio stile, la propria visione del mondo, le pro­
prie tradizioni, i propri ricordi storici e la propria lingua. In altri termi­
ni una cultura e una storia specifiche, distinte da tutte le altre. Poi l’idea
che ogni attività spirituale, espressa attraverso l’arte e la letteratura, la fi­
losofia, la religione e le leggi, costituisce prima di tutto un mezzo di co­
municazione tra gli uomini. L’attività creatrice è concepita come una vo­
ce per esprimere visioni individuali della vita e può essere compresa non
in termini di analisi razionale, cioè mediante una dissezione in elementi
costitutivi o mediante una classificazione di concetti, bensì mediante la
forza dell’empatia (Einfùhlen) propria dell’artista che possieda inoltre la
facoltà di immaginazione e la perspicacia storica. Secondo Berlin è in
questa facoltà di empatia, a suo parere scoperta da Herder, che risiede il
nuovo senso della Storia. Infine, il pluralismo, che fa riconoscere una di­
versità infinita di culture e di sistemi di valori: ogni cultura possiede una
sua scala di valori, i suoi modi di comportamento, ognuno dei quali as­
soluto, impossibile da misurare con un metro comune. Per Herder, dice
Berlin, gli uomini sono uomini in ogni tempo, ma ciò che conta sono le
differenze: sono queste che determinano la loro cultura, che li rendono
se stessi nel senso più profondo del termine, è nelle differenze che si
esprime il genio individuale degli uomini e delle culture177.
Ecco perché una cultura, un periodo, sono conclusi in se stessi e non
sono una transizione verso un altro periodo o una preparazione per
un’altra cultura.178 Non solo non esistono gerarchie di culture ma, se gli

176. Berlin, «Il divorzio tra le scienze e gli studi umanistici», in Controcorrente, p. 137.
177. Berlin, Vico and Herder, pp. XXII-XXIII [Vico e Herder, p. 29].
178. Ibid., pp. 187-189 [pp. 227-229].

603
Gli antilluministi della guerra fredda

uomini non si possono combinare, essi non possono mai diventare ciò
che sono o sono stati altri uomini; scTogm civiltà"è unica, «come potreb­
be allora esistere, sia pure in linea di massima, un ideale u niversalm ente
valido per tutti gli uomini, in tutti i tempi e in tutti i luoghi?»179
Una cinquantina di pagine prima Berlin presenta i tre pilastri del
pensiero di Herder, che egli interiorizza a tal punto che in pratica tutti i
suoi saggi costituiscono soltanto un lungo sviluppo dei tre temi herde-
riani: populismo, espressionismo (termine usato nel suo senso generico)
e pluralismo. Questi tre elementi, Berlin lo sa meglio di chiunque, sono
incompatibili con le dottrine morali, storiche ed estetiche dell’Illumini­
smo1“". Qui si trova anche la smentita di un’idea spesso espressa dai di­
scepoli di Berlin e qualche volta da lui stesso1811823:nonostante il suo libera­
lismo peculiare, bloccato, Berlin non solo non può essere considerato un
esponènte dell’Illuminismo, neanche di quello che a volte è stato chia­
mato Illuminismo «scettico», ma ne è uno dei critici più duri. La sua cri­
tica è tutta herderiana: se infatti, per quel che riguarda il predicatore di
Weimar, la guerra al monismo, «il conflitto dell’Uno e dei Molti (The
One and thè Many), è la sua ossessionante idée maitresse»,m2 è proprio
questa idea - la guerra a ciò che lui chiama «il monismo» dei Lumi, co­
me giustamente osserva Mark Lilla - che rappresenta il grande progetto
perseguito dallo stesso Berlin181. Quindi l’attacco ai Lumi è condotto per
mezzo di tutti gli autori il cui pluralismo ha l’approvazione di Berlin,
quali che siano le riserve su altri aspetti del loro pensiero: de Maistre e
Sorel e prima di loro, anticipatore, Machiavelli. Fondamentalmente per
Berlin i nemici del «monismo», del razionalismo e dei valori assoluti so­
no suoi amici. Che gli sia potuta sfuggire la stridente incompatibilità tra
il liberalismo e la critica ai Lumi da parte dei loro peggiori avversari è
davvero poco credibile.

179. Ibid., pp. 206-207 [p. 244].


180. Ibid., p. 153 [pp. 192-193].
181. Mark Lilla, «Wolves and Lambs», in Lilla, Dworkin e Silvers (a cura di), The Le­
gacy o f Isaiah Berlin, p. 35 Molte apparenti contraddizioni nel pensiero di Berlin
si risolvono da sole quando ci si decide a chiamare le cose col loro nome.
182. Berlin, Vico and Herder, p. 154 [Vico e Herder, p. 193],
183. Lilla, «Wolves and Lambs», in Lilla, Dworkin e Silvers (a cura di), The Legacy
of Isaiah Berlin, pp. 35-36.

604
G li antilluministi della guerra fredda

Che cosa significa «populismo»? Berlin privilegia questo termine


per quanto gli è possibile, per evitare le connotazioni peggiorative della
parola «nazionalismo». «Populismo» definisce il senso di appartenenza
a un gruppo: per Herder questo bisogno è altrettanto fondamentale, al­
trettanto elementare quanto quello di nutrirsi184. L’individuo appartiene
sempre a un gruppo e appartenere a un gruppo significa pensare e agire
in una certa maniera, al lume di una certa visione del mondo, di valori e
di obiettivi particolari. Ne consegue che tutto ciò che l’individuo fa
esprime necessariamente, in modo consapevole o no, le aspirazioni del
suo gruppo 85. Il termine «gruppo» è preferibile a quello di «società»,
perché, essendo la società un insieme di individui, essa mostra quel ca­
rattere volontario che a Herder ripugna. Il gruppo è un prodotto della
storia e si riconosce per le sue specificità culturali: ovvero è un’etnia.
L’appartenenza a un gruppo implica il rifiuto di valori estranei: con Her­
der là Germania inizia la sua guerra di liberazione col rifiuto dell’in­
fluenza culturale francese. E così che si avvia non solo il lungo processo
dell’unità tedesca ma anche quello del culto di un’etnia chiusa e ripiega­
ta su se stessa186.
Berlin sa che il populismo, sotto forma di nazionalismo, può diven­
tare aggressivo. Nella seconda metà del X X secolo questo processo non
ha più bisogno di lunghe dimostrazioni. Per questo motivo egli si pre­
mura subito di precisare: «Il nazionalismo è una condizione esaltata del­
la coscienza nazionale, che può essere, e talvolta è stata, tollerante e pa­
cifica»187. Purtroppo però non si cura di dare un esempio di «condizione
esaltata» che si sia dimostrata anche «tollerante e pacifica», né di mo­
strare quando e in quali circostanze, nel corso degli ultimi due secoli, una

184. Berlin, «Il ramoscello incurvato», ne II legno storto dell’umanità, p. 340.


185. Berlin, Vico and Herder, pp. 195 e 201 [Vico e Herder, pp. 234 e 240].
186. A nome di Berlin, Hausheer si conforma all’idea dei tedeschi data da Herder:
essi dovevano scoprire «in se stessi una superiore profondità morale e spiritua­
le, un nobile e disinteressato amore per la verità e la vita interiore dello spirito,
che contrapposero all’edonismo, alla mondanità, alla superficialità e alla vacuità
morale dei francesi. A paragone dei raffinati e decadenti vicini, si sentivano gio­
vani, vigorosi e vergini d’esperienza, i veri portatori del futuro». Sembra di so­
gnare: si veda Hausheer, Introduzione a Isaiah Berlin, Controcorrente, p. LX.
187. Berlin, «Il ramoscello incurvato», ne II legno storto dell’umanità, p. 342.

605
G li antilluministi della guerra fredda

presa di coscienza nazionale nel senso che lui dà a questo termine non sia
sfociata in un nazionalismo intollerante. Per cui è difficile capire come,
dopo la Seconda guerra mondiale, si possa ancora plaudire a questa con­
cezione organica della società e vedervi, in rapporto ai Lumi francesi, un
grande progresso, ovvero una forma di liberazione. Berlin esalta Herder
per avere affermato un’unità totale di tutti i settori della vita: non si può
separare il corpo dalla spirito, le scienze dalle arti, la descrizione dei fat­
ti e la loro valutazione, così come non si può separare l’individuo dalla
società188. Questo è effettivamente l’organicismo herderiano, molto inno­
vatore secondo Berlin e nel quale egli vede un grande progresso.
La simpatia che Berlin mostra per il nazionalismo è davvero fuori dal
comune. Disorienta il fatto che l’immagine da lui fornita di Herder sia
quella di un santino: il suo nazionalismo sarebbe tutto culturale, pacifi­
co, mai politico, o comunque democratico, innocente, cristianissimo,
quindi universale, immutabile, centrato su una cultura comune; la varietà
non può comportare il conflitto in quel gran nemico dell’uniformità. Il
nazionalismo è il naturale bisogno di «appartenere» e la sua concezione
dell’identità nazionale è nient’altro che una copia conforme della defini­
zione herderiana. In pratica tutta l’opera di Berlin è un riflesso del pen­
siero di Herder: «Gli uomini si aggregano in gruppi perché sono consa­
pevoli di ciò che li unisce, perché sono accomunati da un’origine, da una
lingua, da un suolo e da un’esperienza collettiva. Questi vincoli hanno un
carattere di unicità, sono impalpabili e definitivi. Le frontiere naturali so­
no naturali agli uomini, nascono dall’interazione fra la loro intima essen­
za e il loro ambiente e la loro esperienza storica»189.
A credere a Berlin, Herder rifiuta tutte le dottrine basate sull’antro­
pologia; è più liberale di Kant e già preannuncia lo spirito individualista
e cosmopolita di Weimar190. Tuttavia, meno di venti pagine dopo, si ap­
prende che, «se egli denuncia l’individualismo, parimenti detesta lo Sta­
to»191. Non è questa la minore delle debolezze che costellano gli scritti di

188. Berlin, Vico and Herder, p. 201 [Vico e Herder, pp. 238-239].
189. Berlin, «Il declino delle idee utopistiche in Occidente», ne II legno storto del­
l ’umanità, p. 68.
190. Berlin, Vico and Herder, pp. 157-163, 175-176, 182 [Vico e Herder, pp. 202­
207,213-214,220],
191. lbid., p. 181 [p. 219],

606
G li antilluministi della guerra fredda

Berlin quando fa l’apologià di Herder. In quanto allo Stato, lo si è capi­


to bene nei capitoli precedenti, non è lo Stato in quanto tale che Herder
odia, ma quello non nazionale. Berlin rifiuta di vedere che l’organicismo
culturale ed etnico non è compatibile con la libertà e l’autonomia del­
l’individuo, e che l’individualismo di Weimar è agli antipodi della visio­
ne herderiana del «gruppo» e della sua unicità culturale. Il nazionalismo
inventato da Herder porterà da allora l’impronta delle sue origini: la
guerra ai valori universali e «materialisti», che detto in modo più espli­
cito significa razionalismo e utilitarismo, quindi liberalismo.
Senza che Berlin se ne renda davvero conto, si vede comunque ap­
parire l’Herder autentico, per il quale gli uomini «poiché sono diversi
perseguono scopi diversi; e in ciò sta a un tempo il loro carattere speci­
fico e il loro valore. I valori, i tratti di carattere, non sono commensura­
bili [...]. Gli uomini non si creano da sé: la nascita li immette nella cor­
rente di una tradizione, e soprattutto di una lingua, che foggia i loro pen­
sieri e i loro sentimenti, che non possono abbandonare o modificare, che
forma la loro vita interiore»192. Nella mente di Herder, ci dice Berlin,
«nessuno di questi popoli o culture è [...] superiore a un qualunque al­
tro: sono semplicemente diversi». Nei fatti, si è visto sopra come, in Her­
der stesso, le differenze generino immediatamente una gerarchia di cul­
ture e di periodi. Ma, secondo la lettura fatta da Berlin, non esiste nel­
l’opera di Herder alcuna «scala di merito», e parlare di criteri universa­
li costituisce «una prova di cecità di fronte a quel che fa umani gli esse­
ri umani». Infatti «gli uomini hanno in comune molte cose, ma non è
questo ciò che conta di più. Ciò che li individualizza, ciò che ne fa quel
che sono e rende possibile la comunicazione, è ciò che non hanno in co­
mune con tutti gli altri. Le differenze, le peculiarità, le sfumature, il ca­
rattere, il carattere individuale, sono tutto»193. La conclusione quindi sfo­
cia, e non è una sorpresa, in una visione fichtiana e barresiana delle realtà
umane: poiché i valori di una civiltà saranno sempre diversi da quelli di
un’altra, e forse anche incompatibili,194 poiché gli uomini si trovano di

192. Berlin, «Il declino delle idee utopistiche in Occidente», ne II legno storto del­
l’umanità, pp. 69-70.
193. Ibid., pp. 68-69.
194. Berlin, «L ’apoteosi della volontà romantica», ne II legno storto dell'umanità,
pp. 312-313.

607
G li antilluministi della guerra fredda

fronte a un gran numero di modi di vivere, di pensare e di sentire, ognu­


no col suo «centro di gravità», essi «possono sviluppare appieno le loro
facoltà solo continuando a vivere là dove essi e i loro avi sono nati, con­
tinuando a parlare la loro lingua, a vivere le loro esistenze entro la cor­
nice delle usanze della loro società e della loro cultura»195. In questo mo­
do Herder, senza che Berlin si turbi, scalza un’idea centrale del pensie­
ro occidentale, forse la più importante, quella dell’unità del genere uma­
no. Nello stesso tempo inventa il «pluralismo» o, se si preferisce, l’idea
che la varietà è un bene in sé e che tutte le conoscenze, di fatto tutta la
vita umana, dipendono dal passato unico e specifico di una comunità196.
Più tardi Berlin torna ancora una volta alla carica: visto che il pluralismo
significa, dice nel 1980, «l’idea che fini ugualmente oggettivi siano tra lo­
ro incommensurabili, e qualche volta incompatibili»,197 e «se ogni cultu­
ra esprime la propria visione ed è legittimata a farlo, e se le mete e i va­
lori di società e maniere di vita differenti non sono commensurabili, ne
segue allora che non esiste un unico insieme di principi, una verità uni­
versale per tutti gli uomini»198. Non c’è dubbio che questa sia la defini­
zione classica del relativismo.
Appare così in piena luce, anche se sotto la maschera di un rispetto
del tutto teorico per qualsiasi cultura, una società tribale, chiusa, e il de­
terminismo culturale che si manifesta si colloca già alle soglie del razzi­
smo. In cosa di preciso queste idee differiscono da quelle enunciate da
Barrès nel suo manifesto «La Terre et les morts», o dal pensiero di
Maurras ne IdEnquète sur la monarchie, o ancora dall’ideologia della ri­
voluzione conservatrice tedesca? Il nazionalismo culturale è sempre sta­
to una prima tappa verso il nazionalismo politico nella sua versione ra­
dicale. Tutta la prima metà del Novecento lo attesta: il nazionalismo di­
struttore non è mai stato altro che il risultato naturale dell’accento po­
sto sulla specificità etnica, storica e culturale, di fronte ai valori e alle

195. Berlin, «Il declino delle idee utopistiche in Occidente», ne II legno storto del­
l’umanità, p. 69.
196. Berlin. Vico and Herder, pp. XX1II-XXIV [Vico e Herder, pp. 29-30].
197. Berlin, «Sul presunto relativismo nel pensiero europeo del Settecento», ne II le­
gno storto dell’umanità, p. 133.
198. Berlin, «L ’apoteosi della volontà romantica», ne II legno storto dell'umanità,
pp. 312-313.

608
G li antilluministi della guerra fredda

categorie universali dell’umanesimo dei Lumi. Quando Berlin scriveva,


la prova concreta si era già avuta, e il prezzo del frazionamento, dell’in­
sistenza sulle differenze, sui caratteri nazionali, sulla dipendenza dell’in-
dividùo dal suo contesto sociale e psicologico non aveva più nulla di se­
greto. È perfino fastidioso doverlo ricordare: sono le identità culturali di
pretesa innocenza che hanno indotto decine di comunità linguistiche,
culturali e religiose, armate dei grandi principi herderiani, ad aggredirsi
reciprocamente nel corso del X IX e del X X secolo. Per di più, il fasci­
smo e il nazismo non erano prima di tutto dei nazionalismi in rivolta
contro i diritti naturali? Berlin non esita a mostrare il XVIII secolo co­
me l’origine del gulag, ma per quanto riguarda il nazionalismo herde-
riano e le sue conseguenze fa come se la catastrofe europea del Nove­
cento fosse caduta dal cielo, senza alcun rapporto con la rivolta contro
i Lumi che la precede. Il razionalismo settecentesco voleva una nazione
di cittadini: è per questo che il nazionalismo liberale non ha mai oltre­
passato i primi anni della Rivoluzione francese e non è mai esistito se
non in Francia, e solo per tale brevissimo periodo, e il suo armamenta­
rio intellettuale era fatto proprio da quelPinsieme di idee e di principi
che Berlin odia. Viceversa i seguaci dei principi formulati in Ancora una
filosofia della storia del 1774 auspicano un organismo vivente, una gran­
de famiglia accomunata da una storia e da una cultura e, come la vor­
ranno Barrès e gli herderiani del Novecento, stretta attorno ai suoi ci­
miteri e alle sue chiese.
Ma il significato della rivoluzione culturale tedesca, che trova molto
presto il suo equivalente in Francia, non sfugge a Berlin. E con piena co­
noscenza di causa che, al seguito di Meinecke, egli considera la rottura
con la tradizione occidentale come un salvagente lanciato a un mondo
che sprofonda nella decadenza razionalista francese. Il passaggio succes­
sivo, che viene dopo Vico and Herder ed è del 1975, riassume in modo
insieme esatto e conciso sia il senso di questa rottura che l’essenza del
pensiero di Berlin. In effetti la rivoluzione venuta dalla Germania «ha
scosso in maniera permanente la fede nell’esistenza di una verità univer­
sale e oggettiva per quanto attiene alla condotta umana, e nella possibi­
lità di una società armoniosa e perfetta, totalmente libera dal conflitto,
dall’ingiustizia e dall’oppressione - una meta così nobile che nessun sa­
crificio può essere troppo grande se si vuole che gli uomini giungano una
buona volta a creare il regno condorcetiano della verità, della felicità e

609
G li antilluministi della guerra fredda

della virtù, legate “da una catena indissolubile”; un ideale in nome del
quale il nostro tempo ha visto gli esseri umani sacrificare se stessi e i pro­
pri simili in numero maggiore di quanto, forse, sia mai avvenuto per
qualsiasi causa in tutta la storia deU’umanità»199201.
Berlin non smette di insistere sull’importanza dei più implacabili
detrattori dei Lumi nella storia del pensiero politico, sul loro ruolo es­
senziale di raddrizzatori di torti di fronte alle sventure che il mondo
moderno deve ai Lumi francesi. Vede in questi ribelli degli ammirevo­
li guastafeste, mentre nei fatti è un nuovo conformismo duro e soven­
te portatore di sventure senza fine che essi provocano. Gli è grato per
avere predetto che è il razionalismo, e non il nazionalismo tribale, a
portare verso un disastro inevitabile. Tuttavia ha anche dei dubbi. Per
esonerare i grandi nemici dei Lumi dalla responsabilità storica che lo­
ro compete, mette le mani avanti: «G li uomini non sono responsabili
del corso delle loro idee e ancor meno delle aberrazioni a cui esse por­
tano»*"'. Più avanti ribadisce: «E un errore storico e morale identifica­
re l’ideologia di un periodo con le sue conseguenze in un altro perio­
do o con la sua trasformazione in un altro contesto e in combinazione
con altri fattori»20’. Ma se qui si tratta di una lezione di metodo che il
professore di Oxford ci offre, come mai lo stesso principio non si ap­
plica né a Rousseau né a Voltaire né a Helvétius, tutti e tre consacrati

199. Ibid., p. 330. È interessante vedere in questo contesto come Roger Hausheer,
la voce del padrone nello stretto senso del termine, spiega il contributo di Ber­
lin. Egli si erge contro gli articoli di fede essenziali del Settecento: razionalismo
liberale, cosmopolitismo, scienza, progresso e organizzazione razionale. La
dottrina secondo la quale le scienze sperimentali costituirebbero la sola via esi­
stente per accedere alla conoscenza, dottrina che escludeva ogni sapere tra­
scendentale o non razionale, riuniva, dice l’esegeta di Berlin, i principali arti­
coli di fede del movimento illuministico francese. Tale dottrina suscita una
profonda «reazione contro l’arido razionalismo, il materialismo e il naturalismo
etico», anche, dice, nella stessa Francia con Diderot e soprattutto Rousseau, il
principale artefice di quella liberazione della sensibilità e delle passioni natu­
rali. Ma la vera liberazione viene dalla Germania: è esattamente quello che di­
ceva Meinecke. Cfr. Roger Hausheer, Introduzione a Isaiah Berlin, Controcor­
rente, pp. XLVI-XLVII.
200. Berlin, Vico and Iierdcr, p. X X IV [Vico e Herder, p. 30].
201. Ibid, p. 184 tp. 222],

610
G li antilluministi della guerra fredda

come padri intellettuali del totalitarismo, né a Condorcet? Come mai


Rousseau avrebbe la responsabilità del Terrore, come mai la sua voce
si esprimerebbe con quella di Robespierre e come mai annuncerebbe
non solo Lenin ma anche Mussolini e Hitler, mentre Herder sarebbe
soltanto un innocuo amico delle diversità culturali? Come mai la ri­
cerca della felicità e della virtù è responsabile dei più grandi disastri
della storia umana, mentre la distruzione dei valori universali risulta
benefica?
Si giunge infine al problema cruciale del relativismo. Berlin sa che un
autore per il quale ogni cultura ha valori propri e perciò nessuna può es­
sere in grado di criticare i valori di un’altra, pratica un puro e semplice
relativismo: «La relatività di Vico si spinse oltre quella di Montesquieu.
Se esatta, la sua concezione sovvertiva la nozione stessa di verità assolu­
ta»202. È lo stesso per quanto riguarda Herder. Dapprima lo copre di elo­
gi per essere insorto contro i Lumi francesi opponendo loro «il suo rela­
tivismo, la sua ammirazione di ogni autentica cultura per quello che è; la
sua insistenza per cui le concezioni e le civiltà si debbono capire dall’in­
terno»203. Ne fa l’eroe e l’inventore del mondo storico per avere dato in
Ancora una filosofia della storia una «classica esposizione del relativismo
storico»: Herder celebra «l’unicità, l’individualità e, soprattutto, l’incom­
mensurabilità di una con l’altra delle civiltà che egli con tanta passione
descrive e difende»2' . Qualche anno più tardi, subito dopo la prima pub­
blicazione di Vico e Herder e di nuovo preso di mira dalla critica quando
l’antichista italiano Arnaldo Momigliano, autore di noti lavori su Vico, si
chiede se Berlin misuri appieno le implicazioni del relativismo storico di
Vico e di Herder, fa marcia indietro205. Certo, non vuole e non può batte­
re in ritirata sull’essenziale, però deve assolutamente salvare i due grandi
nemici dei Lumi francesi da questa accusa che, posta nella prospettiva del
disastro del Novecento, risulta rovinosa per la loro opera.
Berlin scrive allora il suo importante articolo del 1980, «Sul pre­
sunto relativismo nel pensiero europeo del Settecento», in cui recita il

202. Berlin, «Il Contro-Illuminismo», in Controcorrente, p. 11.


203. Berlin, Vico and Herder, p. 174 [Vico e Herder, p. 212].
204. Ibid., pp. 208-209 [p. 245].
205. Arnaldo Momigliano, «O n the Pioneer Trail», New York Review of Books, 11
novembre 1976.

611
G li antilluministi della guerra fredda

suo mea culpa: aveva professato idee sbagliate, era stato vittima di
inavvertenza, di idées reçues, aveva peccato per ignoranza. Ora si ren­
de conto che Vico ed Herder non sono più relativisti di Montesquieu
e Hume206. Per salvare Vico ed Herder, e in pratica per salvare se stes­
so dal disastro intellettuale costituito dal riconoscere nel relativismo la
base del pluralismo, Berlin mette insieme i due più grandi avversari
dei Lumi con i due loro pilastri e fa in modo di parlarne insieme. Si
può così pretendere che l’accusa di relativismo, ingiustamente rivolta
al Settecento nel suo insieme, debba essere respinta senza esitazioni
nel caso di Vico e di Herder proprio come per Montesquieu e Hume.
Una simile operazione di salvataggio, è inutile ribadirlo, non resiste al­
l’esame.
Conviene affrontare un ultimo aspetto del pensiero o, se si vuole, del­
l'eredità di Berlin. «Postmoderno in abito da sera»: questo ritratto di
Berlin tracciato da Ernst Gellner dopo l’uscita di una biografia scritta da
uno dei fervidi discepoli del pensatore di Oxford, John Gray, rappresen­
ta un aspetto non trascurabile del contributo di Berlin alla cultura della
seconda metà del Novecento207. In effetti, avendo egli sempre saputo por­
si all’interno del punto di vista liberale, sono pochi gli uomini che più di
lui hanno nuociuto alla tradizione dei Lumi. Il relativismo è inerente al
pensiero antilluminista e, nonostante i suoi sforzi, Isaiah Berlin è, come
Herder, un relativista che non voleva dirsi tale. Ora i pericoli del relati­
vismo, sotto l’etichetta del pluralismo o sotto altra denominazione, non
c’è bisogno di dimostrarli, come anche il male fatto alle scienze umane e
alle scienze sociali dal rifiuto di accettare l’idea che il metodo scientifico
era solo uno. La campagna contro l’applicazione illuminista alle scienze
umane della rivoluzione scientifica del Seicento, che aveva cambiato la
faccia del mondo, doveva infine sfociare negli anni Sessanta e Settanta
del Novecento in un dubbio generalizzato o, come mostra ancora una

206. Berlin, «Sul presunto relativismo nel pensiero europeo del Settecento», in II le­
gno storto dell’umanità, pp. 119-120. Si veda anche alle pp. 126-127.
207. Citato in Robert Wokler, «Isaiah Berlin’s Enlightenment and Counter-Enlight­
enment», in Joseph Mali e Robert Wokler (a cura di), Isaiah Berlin’s Counter­
Enlightenment, p. 14. Gellner parla di «a Sanile Row postmodernist» : Savile
Row è una via di Londra in cui si trovano i grandi sarti. Cfr. John Gray, Isaiah
Berlin, Princeton University Press, Princeton 1996.

612
G li antilluministi della guerra fredda

volta Gellner, in un sistema di «anything goes»2m. Si tratta, in altri termi­


ni, di un relativismo generalizzato: qualsiasi procedimento è legittimo,
non esistono regole scientifiche applicabili alle scienze dell’uomo, il
«pluralismo» regna sotto la maschera della grande molteplicità di valori
tutti altrettanto giusti e rispettabili e tra i quali non è sempre possibile fa­
re scelte chiare e definite. E nessuno più ui Berlin ha lavorato per fare del
«pluralismo» l’ideologia dominante del nostro tempo.
È proprio Kant che ha accreditato in Occidente l’idea per la quale la
critica è l’origine di ogni progresso della conoscenza, ma l’ideologia di
anything goes, come dice giustamente Raymond Boudon, nega ogni va­
lore e ogni virtù all’atteggiamento critico in senso kantiano20'. Kant non
costituisce per Berlin una vera fonte di ispirazione, la sua dura critica a
Herder e il suo razionalismo non potevano permettere a Berlin di essere
un kantiano. Lo stesso vale per Tocqueville per il quale le scienze socia­
li - che nel linguaggio dell’epoca si chiamavano morali e politiche - po­
tevano aspirare a essere altrettanto solide quanto le altre2 082910. In questo ca­
pitolo si è visto che una delle ragioni principali della campagna condot­
ta da Berlin contro il Settecento è la sua assoluta opposizione all’idea se­
condo la quale le scienze dell’uomo potevano usare gli stessi strumenti
delle altre discipline scientifiche. Fino alla seconda metà del Novecento
tale idea è accettata da tutti coloro che si dedicano alle scienze sociali.
Analoga osservazione vale per gli storici: il principio di anything goes
permette di trascurare i fatti, che diventano altrettanti «testi», e soprat­
tutto il «pluralismo», altrimenti detto relativismo, permette di scordare
che l’obiettivo di ogni ricerca è raggiungere la verità, pur sapendo che la
ricostruzione del passato non può mai liberarsi dal contesto nel quale si
compie.

208. Ernst Gellner, «Anything goes. The Carnival of cheap relativism which threa­
tens to swamp the coming fin-de-millénaire», The Times Literary Supplement,
16 giugno 1995. Raymond Boudon si dedica alla problematica àe\Yanything
goes nel contesto di un’eccellente analisi sulle debolezze della ricerca scientifi­
ca francese nelle scienze sociali. Però le debolezze che egli coglie non sono li­
mitate alle scienze sociali né alla sola Francia.
209. Raymond Boudon, «Les sciences sociales françaises: does anything go?», Com­
mentaire, n. 110, estate 2005, p. 357.
210. Ibid.

613
G li antilluministi della guerra fredda

Negli ultimissimi anni della sua vita, quando il X X secolo volge an-
ch’esso al termine, Berlin torna al suo punto di partenza: riconosce che ci
si trova di fronte proprio a un relativismo, ma questo relativismo, dice, è
temperato dal fatto che tutti i valori provengono da un’evoluzione entro
una cultura umana comune2". Secondo lui Vico professava un tipo di re­
lativismo che garantisce almeno l’esistenza di un pluralismo dei valori. È
però evidente che questo tronco comune non basta a reggere l’umanesi­
mo e l’universalismo: Berlin non lo pretende nemmeno21212213.La cosa proba­
bilmente più rivelatrice del suo pensiero è che si sottrae a qualsiasi giudi­
zio globale, ebreo sionista,215 non si pone mai la domanda se questa rivol­
ta contro il razionalismo non abbia responsabilità nella distruzione degli
ebrei europei. La ragione è semplice: il rifiuto del razionalismo e dei di­
ritti naturali genera il pluralismo e la relatività dei valori, che ne è una fon­
te di vita. Quando il grande nemico del genere umano non è l’antirazio-
nalismo, che genera il rifiuto dei diritti dell’uomo, ma il monismo, cioè
«la fede nell’esistenza di una verità universale», questo non significa for­
se che, «senza voler applaudire o anche solo perdonare le stravaganze
dell’irrazionalismo romantico, si può riconoscere che i romantici, rive­
lando che i fini degli uomini sono molteplici, spesso imprevedibili, e in
qualche caso incompatibili tra loro, hanno inferto un colpo mortale alla
proposizione affermante che, malgrado tutte le apparenze contrarie, una
precisa soluzione del grande gioco a incastro è possibile»?214
Leggendo gli scritti di questo grande intellettuale originario di Riga
che ha esercitato per mezzo secolo un magistero senza pari nel mondo
anglofono, si percepisce continuamente l’ombra di un altro provinciale
venuto anch’esso dalle rive del Baltico. Dietro Herder si possono scor-

211. «Isaiah Berlin in Conversation with Steven Lukes», p. 88 [Tra filosofia e storia
delle idee, p. 58].
212. Ibid. [p. 59], Egli è semplicemente affascinato dal fatto che, pur separato dai
pensatori tedeschi nel tempo e nello spazio, ha saputo esprimere, nell’isolamen­
to più totale, l’essenziale delle loro tesi e in primo luogo di quelle di Herder.
213. Su questo aspetto della personalità di Berlin si veda l’eccellente lavoro di Pier­
re Birnbaum, Géographie de Tespoir: l'exil, les Lumières, la désassimilation,
Gallimard, Paris 2004.
214. Berlin, «L’apoteosi della volontà romantica», ne II legno storto dell’umanità,
pp. 329-330.

614
G li antilluministi della guerra fredda

gere tutti i tedeschi «vittime» dell’imperialismo francese, tutte le perso­


ne umiliate dall’espansionismo culturale francese, tutti i nazionalisti sla­
vi ed ebraici assetati di appartenenza a una comunità che sia loro in no­
me di una storia comune. Il razionalismo livellatore, l’imperialismo lin­
guistico, l’intellettualismo francese, la visione dell’umanità basata su
quell’aborrita astrazione costituita «dall’uomo», l’idea di una verità uni­
versale, ripugnano a lui quanto a Herder. Come lui e come tutti i nazio­
nalisti, egli prova l’esigenza di dare soddisfazione ai bisogni emozionali
dell’uomo. La reazione in generale contro i Lumi francesi e in particola­
re contro la loro definizione strettamente politica e giuridica di nazione,
contro «la loro aridità», era non solo legittima ma anche un antidoto sa­
lutare per la cultura occidentale. Si torna così al punto di partenza, a
Rousseau, a Voltaire e a Helvétius, fondatori del totalitarismo, a Platone,
giustamente criticato da Sorel, colpevole di monismo, a Condorcet, al­
l’orrore per la libertà positiva, responsabile di quella decadenza dello
spirito di libertà che si conclude nello stalinismo. E «la fede in una ve­
rità universale» che viene ritenuta causa dei peggiori massacri della sto­
ria umana, dichiara Berlin alla generazione della Seconda guerra mon­
diale, e non il culto dell’etnocentrismo, del particolarismo culturale ed
etnico, della visione della società in termini di organismo vivente e non
di comunità di cittadini. È sempre Tllluminismo franco-kantiano e non
la guerra ai valori universali giunta al culmine col fascismo ad avere la re­
sponsabilità delle sventure del nostro tempo.

615
E P IL O G O

Nell’ultima pagina de La Démocratie en Amérique Tocqueville respinge


le «dottrine false e fiacche, che potrebbero produrre soltanto nazioni de­
boli e uomini pusillanimi», intese a dimostrare «che i popoli non sono
mai quaggiù i padroni di se stessi, ma che obbediscono necessariamente
a non so quale forza insormontabile e cieca che sorge dagli avvenimenti
anteriori, dalla razza, dal suolo o dal clima»1. Vent’anni dopo il suo me­
morabile viaggio in America, in una lettera a Gobineau scritta dodici
mesi prima della pubblicazione, nel 1853, dei due primi volumi dell’Er-
sai sur l’inégalité des races hutnaines, Tocqueville riprende lo stesso tema
sotto un’angolazione diversa. Comunica al suo protetto la propria lettu­
ra di una recente opera su Buffon di Pierre-Jean-Marie Flourens:
«Buffon, e, dopo di lui, Flourens credono alla diversità delle razze, ma
all’unità della specie umana. [...] Le varietà umane sono prodotte da tre
cause secondarie ed esterne: il clima, il nutrimento e il modo di vivere»2.
Questa è, secondo Tocqueville a quel tempo immerso nel suo lavoro sul­
la Rivoluzione francese, il punto di vista degli uomini del Settecento. Il
loro punto di vista è anche il suo.
Un secolo dopo anche Hannah Arendt capisce l’immensità del male
che la guerra sistematica ai diritti dell’uomo e alla Rivoluzione francese
poteva generare. Identifica in Burke allo stesso tempo un’espressione del
nazionalismo inglese e l’origine del pensiero razziale inglese. Sa che
Burke, opponendo ai diritti dell’uomo i «diritti degli inglesi», fondati su
«un’eredità inalienabile», compie un passo decisivo. «Il concetto di ere­
dità, applicato alla natura stessa della libertà, è stato la base ideologica da

1. Alexis de Tocqueville, La democrazia in America, p. 747.


2. Alexis de Tocqueville, Corrispondenza fra Alexis de Tocqueville e Arthur de Gobi­
neau (1843-1859), pp. 198-199 (corsivo nel testo).

616
Epilogo

cui il nazionalismo inglese ha tratto il suo curioso tocco di spirito razzia


le fino alla rivoluzione francese. Formulato da uno scrittore della bor
ghesia, esso implicava la diretta accettazione del concetto feudale di li­
bertà come somma dei privilegi ereditati insieme col titolo e con la terra.»
La Arendt osserva che, senza ledere i privilegi di una particolare classe so­
ciale, Burke può estendere il principio di quei privilegi in modo tale che
vi sia incluso l’intero popolo, elevando così gli inglesi al rango di aristo­
crazia fra le nazioni’. Negli anni Venti Cari Schmitt insiste anch’egli sul
fatto che in Burke si trovano tutti gli argomenti della scuola tedesca del
diritto degli inizi del X IX secolo. In pratica si tratta del quadro concet­
tuale giuridico-politico del nazionalismo tedesco’. Burke pone un impeto
straordinario nel difendere la realtà nazionale sovraindividuale e indi­
pendente dall’arbitrio dell’uomo isolato. Non era cosa nuova, nota Sch­
mitt, attribuire a ciascun popolo un carattere particolare. Montesquieu,
Vico, Bossuet l’avevano già fatto, e l’idea non era estranea a Malebranche,
a Descartes e a Bodin. Ma la grande idea di inizio X IX secolo «sta nel­
l’attribuzione al popolo di una realtà oggettiva, mentre lo sviluppo stori­
co - che produce il Volksgeist - diviene una forza creatrice sovrumana»345.
In realtà il contributo di Burke alla nazionalizzazione delle masse è stato
molto sottovalutato, mentre Burke merita un posto a fianco di Herder co­
me uno dei fondatori intellettuali del nazionalismo organico.
Tuttavia è alla stessa Arendt che si deve uno di quegli errori di pro­
spettiva che contribuiscono ancora oggi a rendere oscuro l’orizzonte. Il
successo de The Origins o f Totalitarianism non è dovuto soltanto alle
qualità intrinseche dell’opera ma anche al fatto che l’autrice, come Tal-
mon e Berlin, si rivolgeva a un vasto pubblico colto nel pieno della guer­
ra fredda. In quegli anni di riflessione sulla barbarie nazista e in un mo­
mento in cui viene svelato il volto odioso dello stalinismo, è grande la
tentazione di cercare le radici del male nelle origini intellettuali del mon­
do moderno. Di colpo è la modernità stessa che viene messa in discus­
sione: si giunge così ad attaccare la Rivoluzione francese e i diritti del­

3. Hannah Arendt, The Origins of Totalitarianism, Meridian Books, Cleveland e


New York 1966, p. 176 [Le origini del totalitarismo, trad, di Amerigo Guadagnin,
Einaudi, Torino 2004, pp. 245-246],
4. Cari Schmitt, Romanticismo politico, p. 101.
5. Ibid., p. 102.

617
Epilogo

l’uomo. In effetti la Arendt riprende il concetto dei diritti dell’inglese,


ma questa volta per dirci che «la solidità pragmatica della concezione di
Burke non lascia adito a dubbi alla luce delle nostre molteplici esperien­
ze. La perdita dei diritti nazionali ha portato con sé in tutti i casi la per­
dita dei diritti umani; il ristabilimento di questi, come dimostra il recen­
te esempio dello Stato di Israele, è stato ottenuto finora soltanto con l’af­
fermazione dei diritti nazionali»6.
Se la Arendt avesse voluto dire che nel nostro mondo la spada resta
la sola garanzia del diritto e che per la propria protezione l’individuo ha
bisogno della potenza costituita da una comunità nazionale organizzata,
avrebbe semplicemente constatato una realtà riconosciuta da tutti. Ma
non dice questo e anzi ciò che ci dice è lontano dalla realtà del Nove­
cento. «I superstiti dei campi di sterminio», scrive, «gli internati dei
campi di concentramento e gli apolidi hanno potuto rendersi conto, sen­
za bisogno degli argomenti di Burke, che l’astratta nudità dell’essere-
nient’altro-che-uomo era il loro massimo pericolo. Per causa sua erano
considerati selvaggi; e, nel timore di finire con l’essere equiparati a be­
stie, essi insistevano fanaticamente sulla loro nazionalità, ultimo segno
della cittadinanza perduta, come unico superstite legame con l’uma­
nità»7. In queste pagine la Arendt pensa evidentemente in primo luogo
agli ebrei, poiché i non ebrei, polacchi, russi o francesi, venivano assas­
sinati senza perdere la loro nazionalità. Ma non è in quanto esseri uma­
ni che gli ebrei erano condotti ai campi di sterminio bensì, al contrario,
come membri di una collettività ben definita, ed erano sterminati non
come esseri umani decaduti dalla loro nazionalità bensì, al contrario,
proprio perché appartenevano, nella mente dei carnefici, alla più forte di
tutte le comunità, la comunità razziale. Essi non erano vittime della loro
umanità astratta ma della loro qualità molto concreta di membri di una
specie maledetta.
Qui la Arendt compie un passo ulteriore. Secondo lei già Burke te­
meva che il principio dei diritti naturali e inalienabili, cioè dei diritti
astratti, convalidando i «diritti del “selvaggio nudo”» (in altri termini ba-

6. Arendt, The Origins of Totalitarianism, p. 299 [Le origini del totalitarismo, pp.
414-415].
7. Ibid., pp. 299-300 [p. 415].

618
Epilogo

sandosi sui diritti prepolitici tanto odiati da tutti i nemici dei Lumi), po­
tesse abbassare tutti i popoli civilizzati alla condizione del selvaggio. Poi
ché solo i selvaggi non possiedono altro che la loro umanità, dice la Arendt,
gli uomini si aggrappano alla loro nazionalità. L’argomento di Burke assu­
me secondo lei un significato ancora più importante quando si prende in
considerazione la condizione umana di coloro che sono stati esclusi dalle
loro comunità politiche. Avendo perso tutti gli elementi che rappresenta­
no il prodotto della nostra esistenza sociale, questi uomini avevano perso i
loro diritti reali e fu quindi possibile trattarli come non umani8.
L’argomento è stupefacente, poiché per Hobbes e Locke, per Rous­
seau, Montesquieu e Voltaire, per i rivoluzionari francesi autori della Di­
chiarazione dei diritti dell’uomo, gli esseri umani non si definiscono tra­
mite la loro appartenenza a una comunità nazionale. Del resto, nel loro
pensiero, il selvaggio ha gli stessi diritti di un europeo. Gli ebrei non fu­
rono sterminati perché, decaduti dalla loro cittadinanza, restava loro la
sola qualità di esseri umani, ma proprio perché questa qualità era loro
negata, perché l’idea di una natura umana comune a tutti gli uomini, l’i­
dea di un diritto naturale valido per tutti e per sempre, era scomparso
nel corso della lunga lotta contro i Lumi. Chi, insomma, ha la responsa­
bilità intellettuale della catastrofe europea del Novecento? Gli uomini
che per tutto il XVIII secolo, dal 1689 al 1789, parlano del diritto natu­
rale, dell’unità del genere umano, dei diritti universali, «di questa nudità
astratta dell’essere umano» tanto maltrattata dalla Arendt, o quelli che
negano l’esistenza dei valori universali?
Gli ebrei furono perseguitati non in quanto esseri umani sprovvisti di
specificità politica, ma proprio in quanto vittime del frazionamento del ge­
nere umano irrgruppi etnici, storici e culturali antagonisti a un livello sco­
nosciuto in passato. Furono massacrati in quanto membri di un gruppo
umano ben definito, in quanto etnia per gli uni, in quanto razza per gli al­
tri, in virtù di quei criteri ereditari decantati da Burke, esaltati da Herder
come sola fonte di dignità, sola fonte di sicurezza poiché sola definizione
che comporta una qualità esistenziale. Chi era figlio o nipote o pronipote
di ebreo non poteva sfuggire alla propria eredità. Fu la stessa cosa nel caso
di altri massacri: se il mondo non ha trovato niente di sacro nella «nudità

8. ìbid., p. 300 [pp. 415-416],

619
Epilogo

astratta dell’essere umano», non ha trovato allo stesso modo niente di sa­
cro in ciò che ci poteva essere di concreto nella qualità di armeno, di in­
tellettuale polacco o, più vicino a noi, di bosniaco o di albanese.
Prima di chiudere il cerchio con la discendenza neoconservatrice di
Burke, bisogna tornare al piccolo libro di Cari Becker, di cui si è già par­
lato, risultato anch’esso, come l’opera di Lovejoy, di una serie di confe­
renze tenute nell’aprile del 1931, ma questa volta a Yale, dove alcuni an­
ni dopo si stabilirà Cassirer e dove la sua influenza è durata a lungo9.
Eletto nello stesso anno alla presidenza dell’American Historical Asso­
ciation, Becker pronunciò allora una allocuzione intitolata «Ognuno è
storico di se stesso», destinata a diventare un punto fermo nella storia in­
tellettuale americana10. In occasione del venticinquesimo anniversario
dell’uscita di The Heavenly City, un convegno che riuniva un gruppo di
importanti specialisti attestava l’importanza riconosciuta all’opera11.
Estremamente provocatoria, presto divenuta famosa per chiunque si in­
teressasse al Settecento, madre e nutrice della scuola totalitaria del N o­
vecento, questa tesi è fatta per colpire l’immaginazione. Becker respinge
l’idea, ai suoi tempi largamente accettata, per la quale il Settecento, fon­
damentalmente moderno, sarebbe la vera fonte del «clima d’opinione»
del Novecento12. Secondo lui il Settecento è infinitamente più vicino al
Duecento credente che al Novecento liberale, perché i philosopher erano
molto meno emancipati dal pensiero cristiano medievale di quanto pen-

9. Carl L. Becker, The H eavenly City o f the Eighteenth Century Philosophers, Yale
University Press, New Haven and London 1966: l’edizione qui utilizzata è la
ventinovesima ristampa [L a città celeste d e i filo so fi settecenteschi, trad, di Um­
berto Morra, Ricciardi, Napoli 1946].
10. «Every man is his own historian».
11. Raymond O. Lockwood (a cura di), C arl B ecker’s Heavenly City Revisited, Cor­
nell University Press, Ithaca 1958 (nuova edizione nel 1968). Tuttavia l’adesione
alla tesi di Becker è tutt’altro che unanime. Peter Gay, che doveva pubblicare
qualche anno dopo un’interessante storia deUTlluminismo, fece nel 1956 una
critica devastante al libro di Becker. Il testo di questa comunicazione, apparsa
dapprima nell’opera curata da Lockwood, è stato riedito dall’autore in una rac­
colta di propri saggi: The Party o f Humanity. E ssay s in the French Enlightenm ent,
Norton, New York 1971, pp. 188-210.
12. L’espressione « clim ate o f opin ion» è un altro modo di tradurre la nozione di
« Zeitgeist » o di «spirito di un’epoca».

620
Epilogo

sassero loro stessi o di quanto pensino i posteri. Secondo Becker essi


hanno demolito la Città celeste di sant’Agostino solo per ricostruirla con
materiali più moderni11. La posterità è degna di tali antenati e si giunge,
vent’anni prima della «scuola totalitaria» della guerra fredda, all’idea
che, «nel manifesto dei comunisti, Karl Marx e Friedrich Engels fecero
risuonare il grido di battaglia di una nuova religione sociale. Come la re­
ligione settecentesca dell’umanità, la fede comunista fu fondata sulle leg­
gi della natura quali le rivela la scienza»1314.
Nello stesso momento in cui Becker lancia il suo sasso, Ernst Cassi­
rer pubblica la Filosofia dell’Illuminismo. Kantiano, ebreo in una G er­
mania che si stava consegnando alla dittatura nazista, Cassirer aveva al­
cuni anni prima affrontato Heidegger in uno scontro restato famoso15.
L’oggetto della celebre controversia di Davos, nel 1929, alla presenza di
più di duecento professori universitari e studenti giunti da tutta Europa,
tra i quali Leo Strass ed Emmanuel Lévinas, era Kant, ma in realtà ciò di
cui si parlava era la sorte dell’Europa. La crisi intellettuale europea, che
maturava già dalla fine del X IX secolo assumendo progressivamente di­
mensioni drammatiche, aveva raggiunto il suo culmine. Di fronte a Hei­
degger, Cassirer prende le difese del razionalismo e dei valori universali.
Qualche anno dopo, nel maggio del 1935, in una conferenza al Kultur­
bund di Vienna, Husserl, che dopo l’ascesa al potere di I litler si era chiu­
so nel silenzio per non recare danno alla comunità ebraica, lancia un ul­
timo grido d’allarme: la « “crisi dell’esistenza europea [...] che è docu­
mentata da innumerevoli sintomi di dissoluzione, non è un oscuro desti­
no, non è una situazione impenetrabile», non sta «nell’essenza del razio­
nalismo stesso ma soltanto nella sua manifestazione esteriore, nel suo

13. Becker, The H eavenly City o f the Eighteenth Century Philosophers, pp. 29-31 [L a
città celeste dei filo so fi settecenteschi, pp. 22-25].
14. Ibid., p. 161 [p. 128].
15. Si veda per esempio il recentissimo Peter Eli Gordon, «Continental Divide:
Ernst Cassirer and Martin Heidegger at Davos, 1929. An Allegory of Intellectual
History», M odern Intellectual H istory, I, 2,2004, pp. 219-248. Tale articolo con­
tiene una eccellente bibliografia recente (nota 6, p. 222). In francese si pposso-
no consultare con profitto gli atti di un convegno tenuto a Nanterre nel 1988:
Jean Seidengart (a cura di), E rn st Cassirer: D e M arbourg à N ew York, l itinéraire
philosophique, Éd. du Cerf, Paris 1990.

621
Epilogo

decadere a “naturalismo” e a “obiettivismo”» 16. Di fronte all’irrazionalismo


degli ambienti riuniti intorno a Heidegger, Husserl non esita: «Anch’io so­
no persuaso che la crisi europea affonda le sue radici in un razionalismo
erroneo. Ma ciò non significa che la razionalità come tale sia una calamità
o che rivesta un’importanza soltanto subordinata per l’umanità»17.
In Europa in generale, e soprattutto in Germania, i tempi non era­
no più adatti ai giochi intellettuali. La guerra prò o contro i Lumi assu­
meva improvvisamente un senso che non aveva mai avuto dai tempi di
Burke, di Thomas Paine e dell’abate Sieyès. La distanza che separava
The Heavenly City of thè Eighteenth-Century Philosophers da La filoso­
fia dellTllumimsmo dava la misura dell’abisso che separava i campus del­
la Nuova Inghilterra dal campo di Dachau, aperto proprio nel momen­
to in cui il libro di Cari Becker cominciava a essere lungamente discus­
so nelle università americane. L’«inaugurazione» del primo campo di
concentramento nazista coincideva anche con le William James Lectures
tenute da Arthur O. Lovejoy. Per Cassirer, che si esiliava a Oxford per
poi raggiungere Yale nel 1941, per Husserl, che prima della morte nel
1938 aveva potuto vedere il proprio allievo Heidegger voltargli le spal­
le e aderire al nazismo, il mondo stava crollando. Per loro la questione
non era di sapere se il XVIII secolo era più vicino al XIII che al X X ma
se, abbandonando l’eredità dei Lumi, il X X secolo non stesse precipi­
tando nella barbarie. Come tanti altri, Cassirer non vuole disperare: «Il
secolo che vide e rispettò nella ragione e nella scienza la “suprema for­
za dell’uomo”, non può e non deve essere semplicemente passato e per­
duto per noi», scrive nella sua prefazione a La filosofia dellTllumini-
smo18. Per Cassirer il Settecento era proprio l’età che aveva magnifica­
mente dimostrato la fiducia degli uomini in se stessi. Sostenere la forza
della ragione, una ragione pratica e scientifica, spingere i suoi contem­
poranei ad attingere l’energia morale all’«età della ragione» gli sembra­
va, alla vigilia della presa del potere da parte dei nazisti, l’unica àncora
di salvataggio.

16. Edmund Husserl, «L a crisi dell’umanità europea e la filosofia», in La crisi delle


scienze europee e la fenomenologia trascendentale, trad. di Enrico Filippini, Net,
Milano 2002, pp. 357-358.
17. lbid., p. 349.
18. Cassirer, La filosofia dell’Illuminismo, p. 16.

622
Epilogo

A Yale, nel 1944-1945, Cassirer inizia a scrivere quella che sarà la sua
ultima opera, sul mito dello Stato. Nel 1944 aveva pubblicato un S a liti
sull’uomo nel quale forniva un sunto della sua antropologia filosol ica,
basata sui tre grandi volumi della sua Filosofia delle forme simboliche.
Tutte le argomentazioni di questa opera rientravano in una ricerca della
conoscenza di sé per mezzo della storia al fine di raggiungere una mi­
gliore comprensione dell’uomo moderno. Ma, in quei tempi di guerra, ci
voleva qualcosa di più: Il mito dello Stato è pensato durante l’ultimo an­
no di guerra e pubblicato dopo la morte dell’autore. Sotto molti aspetti
questa opera legata alle circostanze si presenta come un’appendice a La
filosofia dell’Illuminismo ma, come spesso capita alle opere di circostan­
za, il lavoro non ha tuttora perso nulla del suo interesse1''.
Per Cassirer, come per tutti gli eredi intellettuali del Settecento fran­
co-kantiano, i Lumi rappresentano effettivamente l’inizio della moder­
nità. In realtà La filosofia dell’illuminismo è una risposta a una lunga
campagna contro i principi dei Lumi allora al suo culmine in Europa e
ben presente a qualsiasi osservatore della vita intellettuale. Ciò facendo
Cassirer rispondeva anche, in anticipo e senza saperlo, a Becker che a
quell’epoca non poteva conoscere ma che continua alteramente a igno­
rare dieci anni dopo, dopo averlo letto. Il filosofo tedesco pone l’accen­
to sulla novità e l’originalità deU’Uluminismo, sulla cesura che si opera
nel mondo rispetto ai grandi sistemi metafisici del Seicento, sulla fonda-19

19. Cassirer, I l m ito dello Stato, trad. di Camillo Pellizzi, Longanesi, Milano 1996. Va
osservato che nei capitoli XIII e XIV de II mito dello Stato , dedicati alle que­
stioni che qui ci interessano, Becker e Lovejoy appaiono solo una volta, in note
a fondo pagina: da Becker Cassirer si accontenta di prendere in prestito una bel­
la citazione di Chastellux, senza spendere una sola parola per l’autore del libro
(p. 311). In quanto a Lovejoy, è nominato anche lui una sola volta e in maniera
assai critica, come uno di quelli che associano automaticamente e a torto lo spi­
rito romantico a Hitler: ibid., p. 315. È citato come autore di un articolo in The
Jo u rn al o f thè H istory o f Ideas, ma la sua opera maggiore, 7 he G reat Chain o f
Being [L a grande catena d e ll’essere ], non è nominata. Sembra che per Cassirer
non fosse il caso di perdere tempo per i due libri che facevano scorrere tanto in­
chiostro negli Stati Uniti. Cassirer ricorda un’altra volta l’articolo di Lovejoy,
«The Meaning of Romanticism for thè Historian of Ideas», voi. 2, III, 1941, co­
sì come la risposta di Leo Spitzer, pubblicata nella stessa rivista, voi. 5, II, 1944
(si veda la nostra Introduzione).

623
Epilogo

mentale differenza tra la legge di natura medievale e la moderna conce­


zione individualista dei diritti naturali. In un coinvolgente capitolo su
«La conquista del mondo storico», Cassirer mostra come la filosofia il­
luminista della storia sia nata dalla rivolta contro la tradizionale conce­
zione cristiana della Storia. Si richiama a Lessing, il più grande avversa­
rio e il critico più acuto che Voltaire abbia avuto nel Settecento, che ci
teneva però a rendere altamente giustizia alla sua opera storica. La più
nobile occupazione dell’uomo è l’uomo stesso, sottolinea Lessing all’ini­
zio della sua recensione s u H ’ E ì m z ' sur les mceurs, ma ci si può occupare
di questo soggetto «in due modi. Si considera l’uomo individualmente o
in genere. Nel primo caso l’affermazione che questa è la più nobile oc­
cupazione la si potrà difficilmente sostenere. Conoscere l’uomo indivi­
dualmente: che cosa si conosce? Gente stolta e malvagia [...]. Ben di­
verso è invece lo studio dell’uomo in genere. In questo caso egli manife­
sta una certa grandezza e la sua origine divina. Si osservi quali imprese
eseguisce l’uomo, come allarga giornalmente i limiti del suo intelletto,
quanta saggezza è raccolta nelle sue leggi, quanta laboriosità si dimostra
nei suoi monumenti. [...] Nessuno scrittore ha scelto ancora questo ar­
gomento particolare, di modo che l’autore di quest’opera può giusta­
mente dire di sé: libera per vacuum posui vestigia princeps»20 (ho cam­
minato per primo liberamente su questa terra vuota).
I grandi nemici dei Lumi non avevano torto: è sufficiente confronta­
re l’uomo di Rousseau, Voltaire, Fontenelle o di Lessing all’uomo di
Burke, Taine, de Maistre o Spengler, e anche all’uomo di Herder, per co­
gliere la profondità del fossato che separa i Lumi dai loro nemici. Biso­
gnava che l’uomo avesse quella immagine di sé per osare ciò che fu fatto
nel 1789. Per i primi teorici deU’antilluminismo sono le idee che hanno
rotto un modo di vivere e un ordine sociale creati da una storia millena­
ria, solitamente innalzata al rango di natura delle cose, e sono ancora le
idee che, rifiutando tutti i principi di bene e male, erano sul punto di di­
struggere l’Europa cristiana. Ecco perché nulla poteva essere più urgen­
te, persino più della guerra ai giacobini, di creare un corpus ideologico in
grado di sostenere la campagna per la salvezza dell’Europa dalla deca­
denza liberale e democratica annunciata dal Secondo trattato di Locke e

20. Citato in Cassirer, ha filosofia dell’Illuminismo, p. 302.

624
Epilogo

dal Discours sur l’inégalìté di Rousseau, da Voltaire e da Kant, da Fonte-


nelle e Condorcet. Le Riflessioni sulla Rivoluzione francese di Burke, co­
sì come le Considerations sur la Erance di de Maistre, sono concepite dai
loro autori non come un commento agli avvenimenti che si svolgono a Pa­
rigi o sui campi di battaglia del Nord della Francia, ma come delle mac­
chine da guerra contro le idee dei philosophes. La cosa si ripeterà per tut­
to l’Ottocento e fino alla prima metà del Novecento: bisognava farla fini­
ta con il Settecento, Voltaire, Rousseau e la Rivoluzione francese.
Salvare il mondo dalla decadenza liberale è ancora l’obiettivo che si
è prefisso, in questo inizio di XX I secolo, il neoconservatorismo. Nel­
l’Ottocento, prima di Maurras, è probabilmente in Renan che meglio si
scorge la struttura intellettuale di quella difesa della civiltà alla quale si
attacca oggi la destra intellettuale americana. In effetti l’idea che si fa Re­
nan della libertà ha veramente poco in comune con quella proposta da
Tocqueville, e lo Stato, che per lui è la rappresentanza delle élite piutto­
sto che lo Stato minimo dei liberali alla Guizot, è lontano sia dallo Stato
«guardiano notturno» che dallo Stato democratico. Quando Renan esi­
ge meno governo e più libertà, è per contrastare la democrazia e la so­
vranità del popolo e per prevenire gli effetti disastrosi del suffragio uni­
versale. Non ama l’America, ma la libertà del lavoro, la boera concor­
renza, il libero utilizzo della proprietà, la possibilità per ognuno di ar­
ricchirsi secondo la proprie capacità, rappresentano un bel po’ di cose
con cui si può bloccare il progresso della democrazia europea21. Coper­
ta da uno Stato forte, questa forma di libertà permetterà di salvare ciò
che non è ancora stato inghiottito dalla democrazia. In ultima analisi,
«l’errore del partito liberale francese è di non capire che qualsiasi co­
struzione politica deve avere una base conservatrice»22. Ai giorni nostri
questa idea è ripresa con la stessa convinzione dai neoconservatori.
Tuttavia esiste una differenza: il neoconservatorismo non può più
pretendere che «la sovranità popolare non si basi su un governo costitu­
zionale». Renan, come Burke, poteva ancora vedere, in una partecipa­
zione politica limitata all’estremo, una condizione essenziale del liberali­
smo elitario come lo intendeva lui. Incensa l’Inghilterra che «non si in­

21. Renan, La riforma intellettuale e morale della Francia, p. 154.


22. Renan, La Monarchie constitutionnelle en France, p. 297. Cfr. anche pp. 294-295.

625
Epilogo

teressa affatto di filosofia», che ha saputo assicurare la continuità e ha


rotto con la tradizione «solo in un istante di smarrimento passeggero se­
guito da un pronto pentimento», e che si è ritrovata «mille volte più li­
bera» della Francia. La Francia, che è andata a piantare «la bandiera fi­
losofica dei diritti dell’uomo», ha visto uscire dalla Rivoluzione una
struttura politica che poteva produrre solo la Convenzione o il dispoti­
smo. Il Consolato e l’Impero ne furono la conseguenza naturale2’. La se­
te di uguaglianza va nella stessa direzione: volendo fondare «uno Stato
giusto, non ci si accorgeva che si infrange la libertà, che si attua una ri­
voluzione sociale e non politica, che si pone la base simile a quella dei
Cesari dell’antica Roma»2324. Quasi alla lettera, tolto il rifiuto del suffragio
universale, queste idee si ritrovano sia nella generazione della guerra
fredda che, cinquant’anni più tardi, nei primi anni del nostro secolo.
In effetti, all’inizio del XX I secolo, sono sempre le Riflessioni di
Burke che prima hanno stilato l’atto di nascita del neoconservatorismo e
poi ne hanno fatto ai nostri giorni la sola ideologia che nel mondo occi­
dentale possa ancora vantare una visione globale della società e della na­
zione. E per questo che, in un’opera pubblicata nel 2004, la gran bades­
sa del neoconservatorismo americano, Gertrude Himmelfarb, oppone i
benèfici Lumi americani e inglesi ai Lumi francesi distruttori della mora­
le e della società. Come O ’Brien, vede in Burke un figlio dei Lumi ingle­
si, alla stessa stregua di Thomas Paine25. Questo culto del «grande ante­
nato» è di estrema importanza per il mondo neoconservatore, che a
tutt’oggi non ha ancora prodotto nulla che sia lontanamente paragonabi­
le all’opera di Burke. Altri pensatori, conservatori ragionevoli, come l’in­
glese Michael Oakeshott, sono troppo liberali, troppo laici, troppo aper­
ti per fornire una struttura intellettuale al loro movimento. Lo stesso è per
i grandi nomi dell’Ottocento: Tocqueville, liberale illuminato, ammirato­
re del Settecento francese razionalista, o John Stuart Mill che alla fine del­
la sua vita si avvicinò al socialismo, non possono dare nutrimento alla ten­
denza neoconservatrice. La Himmelfarb esprime il suo profondo rincre-

23. Ibid., p. 240.


24. Renan, Philosophie de l'histoire contemporaine, p. 19.
25. Gertrude Himmelfarb, The Road to Modernity: The British, French, and Ameri­
can Enlightenments, Knopf, New York 2004, pp. 71-72.

626
Epilogo

scimento perché Burke non ha tracciato un paragone tra la Rivoluzione


americana, rivoluzione politica, e la Rivoluzione francese, che, nessuno lo
aveva capito meglio di lui, era una rivoluzione morale, una rivoluzione to­
tale che toccava tutti gli aspetti della vita umana26. Il neoconservatorismo
prosegue qui la linea di pensiero inaugurata da Burke, che dissocia la
Gloriosa Rivoluzione dalla Rivoluzione francese, ma si rammarica che lo
stesso Burke, per una ragione che la Himmelfarb non si spiega, sia rima­
sto a mezza strada. Non afferra che, se Burke si fosse messo in una tale
impresa, avrebbe dovuto riconoscere le profonde affinità tra la Rivolu­
zione americana e la Rivoluzione francese. E per questo che, dopo l’indi­
pendenza delle colonie e la loro Dichiarazione d’indipendenza, per pau­
ra di scuotere l’insieme dell’edificio Burke sembra fare come se l’Ameri­
ca fosse sparita dalla faccia della terra. Poiché, lo abbiamo visto bene nei
capitoli precedenti, i diritti naturali, la sovranità del popolo, il diritto di
voto maschile, da cui certo i neri erano esclusi ma che comunque costi­
tuiva un enorme progresso per l’epoca, così come qualsiasi struttura del
potere in America, ripugnavano a Burke. Pertanto, dai suoi primi disce­
poli più intelligenti fino ai neoconservatori di oggi, il silenzio di Burke ri­
sulta un handicap al quale bisogna rimediare al più presto. John Quincy
Adams, il futuro presidente degli Stati Uniti, e Friedrich Gentz, il futuro
consigliere di Metternich, si impegnarono fin dai primi anni dell’Otto­
cento a mettere in luce la specificità diabolica della Rivoluzione francese
e a stabilire una distanza incolmabile tra la Dichiarazione d’indipenden­
za americana e la Dichiarazione francese dei diritti dell’uomo.
Non si rischia affatto di sopravvalutare il ruolo della Himmelfarb
nell’elaborazione del pensiero neoconservatore. Da Victorian Minds, col­
lezione di saggi consacrata al senso morale delle élite inglesi dell’Otto­
cento, pubblicata nel 1968 ma che si apre con un saggio su Burke del
1949, passando per il 1991, anno di un’altra opera, Poverty and Com­
passioni The Moral Immagination of thè Late Victorians, che prosegue la

26. Ibid., pp. 85 e 91. Quest’idea era già stata espressa da Talmon, quasi identica pa­
rola per parola: «L a Rivoluzione francese confrontata alla rivoluzione americana
è stata un evento su un piano del tutto diverso. Essa è stata infatti una rivolu­
zione totale nel senso che non ha lasciato intatta nessuna sfera e nessun aspetto
dell’esistenza umana, mentre la rivoluzione americana ha costituito un cambia­
mento puramente politico» (Le origini della democrazia totalitaria, p. 41).

627
Epilogo

stessa linea di riflessione, fino al suo assalto del 2004, la Himmelfarb de­
dica tutti i suoi sforzi per attrezzare il neoconservatorismo americano di
una cornice concettuale solida. Il nerbo del ragionamento, che copre or­
mai più di mezzo secolo, consiste nel mostrare che i problemi essenziali
affrontati dagli uomini sono sempre d’ordine morale e culturale. Vieto-
nati Mitids inizia quindi come nel 2004 The Roads to Modernity. con
Burke.
In questa battaglia per l’egemonia culturale il neoconservatorismo
trae dall’opera di Burke tre lezioni essenziali: prima di tutto che una so­
cietà civilizzata può sopravvivere solo sulla base di un capitale culturale
accumulato da tutte le generazioni che hanno preceduto la nostra, il che
significa che la libertà e tutti i valori liberali non possono sopravvivere se
non temperati da valori antiliberali giunti fino ai giorni nostri, e che per
questo fanno parte integrante e indistruttibile della nostra eredità. Poi
l’idea che i valori morali sono essenziali alla vita di una società ben ordi­
nata e quindi predominano sui valori materiali, utilitaristici o che pro­
vengono dalla volontà dei singoli. È questa idea che la Himmelfarb ha
esposto nel suo lavoro sull’epoca vittoriana e che i neoconservatori non
smettono di citare religiosamente: in Poverty and Compassion essa si
sforza di dimostrare che quando si aiutano i poveri e gli sfortunati si agi­
sce in realtà per egoismo e per lavarsi la coscienza. Quindi, il più delle
volte, per fare il bene bisogna essere capaci di fare il male; bisogna saper
dominare la propria inclinazione istintiva verso la compassione poiché è
questo il vero interesse di coloro che vogliamo servire: è con questa pro­
fessione di fede che inizia la più recente antologia-manifesto del neo­
conservatorismo, The Neocon Reader. É qui inoltre che si viene a sapere
che il concetto di «conservatorismo compassionevole» (compassionate
conservatism), di cui George W. Bush ha fatto la colonna della sua poli­
tica sociale, è tratto dal titolo della Himmelfarb27.

27. Irwin Stelzer (a cura di), The Neocon Reader, Grove Press, New York 2004, p.
19. Questa antologia esibisce i nomi di alcuni leader intellettuali e personalità
politiche «pensanti» del neoconservatorismo, da Irving Kristol, l’ideologo, e il fi­
glio William, fino a Condoleezza Rice, John Bolton, l’attuale ambasciatore degli
Stati Uniti all’ONU, il suo predecessore al tempo di Ronald Reagan, Jean Kirk­
patrick, Margaret Thatcher e, cosa che potrà sorpendere taluni, nonostante la lo­
gica della scelta, Tony Blair.

628
Epilogo

In questo volume sono enumerati, con varietà di stili e di tempera


menti, alcuni grandi principi di questa ideologia. In testa c’è la critica
deH’utopismo, la difesa della tradizione detta anglo-americana contro la
tradizione francese, la critica all’egualitarismo, il posto che si accorda al­
la religione nella vita della società e la centralità dei valori morali tradi­
zionali. Il tutto è condito dal rifiuto di ciò che viene definito «contro­
cultura» liberale, opposta ai tradizionali «valori americani»28. Il naziona­
lismo, che esalta la potenza americana, prende anche la forma di una lot­
ta a oltranza contro le organizzazioni internazionali, in primo luogo
l’ONU, che mettono in pericolo la sovranità nazionale, contro lo sman­
tellamento dello Stato-nazione nella cornice dell’Unione Europea, e con­
tro la progressiva scomparsa delle peculiarità nazionali29301. Si può qui ri­
conoscere senza alcuna difficoltà tutti i maggiori temi del pensiero antil-
luminista da Burke alla metà del Novecento.
È ancora a Burke che si rifà in un saggio del 1973 Irving Kristol,
marito di Gertrude Himmelfarb, considerato l’ideologo politico del
movimento, per lanciare un nuovo attacco contro il razionalismo ag­
gressivo dell’élite intellettuale in opposizione ai sentimenti istintivi del­
la massa del popolo10. È su questa base che è iniziata più di trent’anni
orsono la marcia neoconservatrice verso il potere. Si era già sentita la
stessa recriminazione dalla bocca di Herder, a nome della Germania
profonda di fronte alla corte francesizzata di Federico il Grande, o in
Barrès che pretende di far sentire, nell’affare Dreyfus, la voce del po­
polo non pervertito dal razionalismo e dall’educazione kantiana repub­
blicana, in rivolta contro le élite che tradiscono la comunità nazionale
in nome dell’imperativo categorico. Kristol pensa che nel X X secolo
questa rivolta esasperata e istintiva contro la tirannia di «un razionali­
smo radicale e utopico» fosse sfociata nel fascismo11. Il che non è mol­
to lontano da una certa legittimazione del fascismo e ricorda l’atteggia­
mento di Ernst Nolte: il fascismo sarebbe stato semplicemente un

28. Ibid., pp. 304-306.


29. Ibid., pp. 129-139.
30. Irving Kristol, Neoconservatism: The Autobiography o f an Idea, Elephant Paper­
backs, Chicago 1999, p. 191 (P ed. 1995) [// Neoconservatorismo. A utobiografia di
un’idea, trad, di Fabrizio Comparelli, Nuove Idee, Roma 2005, p. 130].
31. Ibid. [Ibid. \

629
Epilogo

riflesso di rivolta contro un pericolo esistenziale. Trenta anni più tardi,


aureolato dalle recenti vittorie politiche del neoconservatorismo ameri­
cano, Kristol traccia un bilancio e allo stesso tempo si volge al futuro.
Nel Weekly Standard del 25 agosto 2003, rivista fondata da Kristol nel
1995, egli pubblica un articolo-manifesto, «The Neo-conservative per­
suasión», che la rivista Commentaire, nel numero 104 (inverno 2003­
2004), offre al lettore francese col titolo «Professione di fede neo-con­
servatrice. Per il passato e per il presente». Il manifesto, di un conser­
vatorismo duro e trionfante, riprende gli argomenti della serie di arti­
coli riuniti solo nel 1995, ma pubblicati nel corso di tutta la seconda
metà del secolo appena finito. Non è certo una sorpresa che l’aspetto
più affascinante di questo documento consista nel fatto che, rispetto al­
la questione del suffragio universale, esso sarebbe potuto uscire dalla
penna di Burke, Taine, Maurras, o del Croce del primo quarto del N o­
vecento. Avrebbe potuto avere come autore uno qualsiasi tra i critici dei
Lumi della svolta del Novecento, i quali anch’essi, come Barrès, aveva­
no finito non solo per rassegnarsi alla democrazia, ma avevano anche
imparato a servirsene. Se ci si rende conto che l’Europa del X X secolo,
così come gli Stati Uniti dei primi anni Duemila, provano che il suffra­
gio universale non è in grado di assicurare né l’uguaglianza né la giusti­
zia, e che la democrazia in se stessa è ben lungi dal poter garantire au­
tomaticamente, come si pensava in passato, il rispetto dei diritti del­
l’uomo o l’eternità dei valori liberali fondamentali, la guerra ai Lumi
portata avanti oggi risulta meno diversa di quanto possa apparire dalle
grandi campagne della svolta del Novecento.
Ecco perché, malgrado ciò che pensa Kristol, il fenomeno chiama­
to oggi neoconservatorismo non è specificamente americano, benché,
secondo lui, l’Europa laica, permissiva, «materialista» non sia ancora
riuscita a elevarsi al superiore livello del neoconservatorismo. E così
che, in un testo del 1995, Kristol spiega ciò che distingue il neoconser­
vatorismo dal conservatorismo. Lo fa proprio opponendo le sue idee a
un bel testo di Michael Oakeshott del 1956,,2 che lui stesso in qualità di
condirettore della rivista Encounter aveva rifiutato di pubblicare perché32

32. Michael Oakeshott, «O n being Conservative», in Rationalism in Politics and


Other Essays, Metheun, London 1962, pp. 168-196.

630
Epilogo

rappresentavano l’opposto delle idee che stavano germinando in lui e


che dovevano poi organizzarsi in teoria” . Per Oakeshott il conservato­
rismo non è una fede né un corpo dottrinale ma un certo modo di per­
cepire le cose, una inclinazione, un umore, un temperamento o una
condizione dello spirito: il termine utilizzato dall’autore è disposilion
che in inglese ha praticamente lo stesso senso che in francese o in ita­
liano. Il conservatore preferisce conservare le cose nello stato in cui so­
no piuttosto che partire alla ventura, ma accetta il cambiamento perché
è inevitabile” . Per ciò che riguarda il potere e il modo di governare, il
conservatorismo non intende cambiare il mondo o rendere gli uomini
migliori o più felici, non considera il potere come un mezzo per impor­
re agli uomini delle credenze diverse da quelle che professano, di edu­
carli e far loro cogliere verità, d> galvanizzarli e di mobilitarli in previ­
sione di grandi azioni e grandi disegni. La ragion d’essere di un gover­
no è solo quella di governare: «Quella è l’attività specifica e limitata, fa­
cilmente guastata quando si inserisce in un’altra. [...] L’immagine del
sovrano è quella dell’arbitro che applica le regole del gioco, o quella del
moderatore di un dibattito che conduce la discussione per mezzo di re­
gole riconosciute ma non vi partecipa in prima persona»” . Questa è la
professione di fede di un conservatorismo illuminato e moderato, che
sintetizza il proprio pensiero quando il grande balzo in avanti delle
riforme sociali del dopoguerra è già un fatto compiuto. Quello che qui
si afferma è un conservatorismo sommamente toquevilliano, molto aro-
niano, che non dipende dall’ordine divino, dalla religione o dalla mora­
le borghese. Questo conservatorismo non cerca di disfare le riforme già
realizzate, come invece cercarono di fare i maurrasiani nel 1940, per i
quali la salvezza della nazione e della civiltà dipendeva dalla distruzio­
ne immediata dei centocinquant’anni di storia che separavano il 1789
dalla sconfitta, e come nel caso degli attuali «neocon» americani per ciò345

33. Kristol, Neoconservatism : The Autobiography o f an Idea, pp. 373-374 [// N eo­
conservatorismo. A utobiografia d i u n ’idea, pp. 153-154]. Questo testo, «Ameri­
ca’s “Exceptional” Conservatism» [«L’eccezionaiità del conservatorismo ameri­
cano»], è del 1995. La rivista Encounter, pubblicata a Londra, era finanziata da­
gli Stati Uniti nel quadro della guerra ideologica dell’epoca.
34. Michael Oakeshott, «O n being Conservative», pp. 168-182.
35. Ibid., p. 187.

631
Epilogo

che riguarda tutta la legislazione liberale in vigore. Cercherà di frenare


le riforme ma non insorgerà contro quelle che già sono state fatte e sa
che ve ne saranno altre. Certamente anche questo conservatorismo ap­
pare come un lusso di società felici, ma non è un movimento di lotta
lanciato all’assalto della «controcultura» liberale, non è un'altra rivolu­
zione, ed è capace di affrontare un’ovvia domanda: se il principio di vo­
ler lasciare le cose come sono fosse stato applicato nel corso dei due ul­
timi secoli, senza parlare delle epoche precedenti, quale sarebbe esatta­
mente la fisionomia del mondo oggi?
Ma il conservatorismo nel senso proprio del termine ripugna a Kri-
stol, come ripugnava a Maurras che, se avesse seguito i parametri indica­
ti da Oakeshott, avrebbe dovuto per forza accettare la Rivoluzione. La vi­
sione di una società senza Dio, senza metafisica, composta da individui
autonomi, che si comportano da adulti, come Kant chiedeva loro, facen­
do le proprie scelte; uomini liberi che manifestano una grande diversità
di opinioni e che esigono dallo Stato che governi il meno possibile, è pre­
cisamente l’atteggiamento mentale che fa inorridire i neoconservatori. In
primo luogo viene la religione: una società senza religione è «acqua pu­
ra» (tbin gruet), senza legami col passato e col futuro, male ancorata nel
presente. Senza la sua dimensione religiosa, il conservatorismo manca di
consistenza e di spessore, dice Kristol, rifacendosi a Carlyle, Renan,
Taine, Croce, Sorel e Maurras. Non è sufficiente dire come Oakeshott
che il mondo così com’è resta il migliore dei mondi possibili, né che i ma­
li che vi perdurano sono mali necessari: bisogna sapere quale condotta
tenere rispetto a questi mali. La conclusione viene da sola: la filosofia non
sarebbe sufficiente per illuminarci, solo la religione può mantenerci sul­
la retta via’6. La seconda ragione per cui il neoconservatorismo america­
no si oppone al conservatorismo è il vibrante patriottismo del primo, un
patriottismo che trova la sua espressione nella vita quotidiana, come in
nessun’altra democrazia occidentale. Kristol riconosce che di fronte a
queste dimostrazioni di patriottismo che ad altri apparirebbero infantili
- ad esempio la recita ogni mattina della “Pledge of Allegiance” in tutte
le scuole o il canto dell’inno nazionale all’inizio di ogni evento sportivo,36

36. Irving Kristol, Neoconservatism: The Autobiography o f an Idea, p. 375 [// Neo­
conservatorismo. Autobiografia di un’idea, p. 155].

632
Epilogo

dilettante o professionale - un europeo raffinato vedrebbe nell’America


un paese premoderno. «Forse», dice Kristol, «siamo un paese postmo­
derno.»” Tale fervore patriottico quasi religioso fa sì che non vi siano ne­
gli Stati Uniti tensioni tra religione e « “religione civica”», e se l’america­
no medio aveva orrore del comuniSmo, era soprattutto perché la Russia
sovietica si presentava come un mondo « “ateo e senza dio”», quindi de­
stinati a sparire. Forse la caduta del comuniSmo ha potuto meravigliare
gli specialisti ma essa era invece estremamente prevedibile per i cittadini
americani. Ecco perché il conservatorismo in America è un movimento
popolare e non una corrente in seno a un partito politico; nei fatti si trat­
ta di un vero «populismo conservatore»’8.
Tuttavia il tratto più caratteristico del neoconservatorismo, secondo
Kristol, è che il suo nemico dichiarato non è lo statalismo o il socialismo
- i neoconservatori non hanno mai adottato Hayek e la sua famosa ope­
ra The Road to Serfdom,n così come guardano al pensiero di Herbert
Spencer come a un’eccentricità - ma il liberalismo contemporaneo. Nel­
la mente di Kristol è qui che sta il vanto del neoconservatorismo: nell’a­
vere creato una vasta corrente popolare non contro lo Stato-provviden­
za o contro le tendenze egualitarie ma contro i principi stessi del libera­
lismo. Il neoconservatorismo è riuscito a convincere la grande maggio­
ranza degli americani che le questioni essenziali nella vita di una società
non sono le questioni economiche e che in realtà le questioni sociali so­
no questioni morali. La laicità moderna è a tal punto associata al nichili­
smo morale che persino coloro che intendono soltanto affermare il loro
attaccamento ai valori morali non hanno scelta: devono fondarsi sulle
credenze religiose. Proprio questo i liberali, secondo Kristol, hanno dif­
ficoltà a capire: sono sensibili alle frustrazioni economiche, non alle fru­
strazioni morali. Ecco perché i neoconservatori si sono facilmente asso­
ciati ai conservatori religiosi e perché hanno potuto creare insieme il
conservatorismo populista3738940: gli uomini hanno bisogno del sacro e di ob-

37. Ibid., p. 376 [p. 156],


38. Ibid., pp. 377 e 386 [pp. 157-158 e 1691.
39. Friedrich von Hayek, L a via della schiavitù, trad, di Dario Amiseri e Raffaele De
Mucci, Rusconi, Milano 1995.
40. Irving Kristol, N eoconservatism : The Autobiography o f an Idea, pp. 377-383 U l
Neoconservatorismo. A utobiografia dt u n ’idea, pp. 158-164].

633
Epilogo

bedire. La religione è uno strumento di sanità sociale senza eguali, una


diga contro la cultura liberale: Taine o Maurras hanno detto le stesse co­
se41. Il neoconservatorismo come lo definisce Kristol si distingue quindi
dal conservatorismo innanzitutto per il fatto che per il primo le questio­
ni essenziali per la massa degli uomini non sono quelle sociali ma quelle
morali. Tale idea è il fulcro delle rivoluzioni conservatrici degli ultimi
cento anni e costituisce la geniale invenzione della destra rivoluzionaria
degli inizi del Novecento. Questa nuova destra ha saputo mettere la sor­
dina ai problemi economici e, trasformandoli in questioni psicologiche,
lanciare una rivoluzione culturale, morale e politica senza precedenti.
Si ritorna quindi al doppio obiettivo della lettura neoconservatrice di
Burke: prima ridurre i Lumi francesi a Voltaire e Rousseau, entrambi a
modo loro anticristiani, poi, marginalizzando quegli stessi Lumi, far per­
dere loro il carattere di ineguagliato movimento di liberazione dell’uomo.
Sotto la penna di questi neoconservatori i Lumi diventano una sorta di
contenitore di ciò che nel Settecento non si pone a sostegno dell’assolu­
tismo. Per la Himmelfarb, che qui si appoggia a O ’Brien, il conflitto tra

41. Anche la riabilitazione di Maurras va avanti, ma il suo antisemitismo e il suo pas­


sato nel regime di Vichy rendono le cose difficili. E per questo che i maurrasiani
si dedicano alla «devichyzzazione» del maestro. Si veda per esempio la prefazio­
ne all’opera di Victor Nguyen, A u x origines de l'Action française: Intelligence et
politique à l ’aube du X X ' siècle , Fayard, Paris 1991, scritta da Pierre Chaunu.
Chaunu pensa che «si è maurrasiani, poco o tanto, così come si è marxisti. E una
buona metà della Francia ha respirato questa aria senza trovarsi necessariamente
peggio». Pensa anche che il movimento maurrasiano non sia mai stato vicino al
governo di Vichy, se non «durante i sei mesi del breve inverno 1940-1941». Non
fu che «un breve momento di ebrietà a sproposito [che] verrà pesantemente pu­
nito» (p. 21). Bisogna rileggerlo una seconda volta per crederci, ma è proprio
questo il modo di procedere del neoconservatorismo: a voler credere a questo
membro dell’Institut, YAction fran çaise non avrebbe mai condotto vergognose
campagne antigaulliste, antiresistenziali e antisémite, non avrebbe mai praticato
la diffamazione e la delazione; non avrebbe mai applaudito alle leggi razziali del
1940 e, dopo aver esaltato Mussolini nel periodo tra le due guerre, non avrebbe
accolto con gioia l’instaurazione di una dittatura fascista francese alla quale non
mancava che il nome, e le sue pubblicazioni non avrebbero mai emanato un in­
tenso sentore fascista: oggi, dopo la caduta del comuniSmo, bisognerebbe insom­
ma chiedere scusa ai suoi bravi militanti, il cui unico torto fu, muniti come erano
delle grandi verità maurrasiane, di avere avuto ragione troppo in anticipo.

634
Epilogo

Burke e i Lumi francesi non è affatto uno scontro tra Illuministi e antil-
luministi ma tra un particolare tipo di Lumi e un altro42. Come abbiamo
già visto, O ’Brien, dopo l’uscita della sua opera su Burke, si è adoperato
per convincere Berlin a riconoscere Burke come un liberale. In effetti,
quando compare la raccolta di saggi di Berlin 11 legno storto dell’umanità,
O ’Brien oppone una sola riserva: non vuole lasciare nessuna ambiguità ri­
guardo a Burke. Messo alle strette da un conservatore che gli intima di
trarre conclusioni che contrastano quelle che erano state sue da sempre,
Berlin tergiversa. Non giunge ad accettare facilmente l’idea che Burke,
che aborriva l’idea dei diritti naturali di Locke e la legge della maggio­
ranza che quest’ultimo auspicava, così come temeva il razionalismo di
Montesquieu, possa essere un figlio dei Lumi, la cui critica avrebbe avu­
to per oggetto, come intende O ’Brien, solo Voltaire e gli enciclopedisti43.
Infatti negli anni Novanta del Novecento, quando la guerra fredda e
il pericolo comunista appartengono a una storia passata, la Rivoluzione
francese non è più un ostacolo per Berlin. Non può impedirsi di prova­
re una certa attrazione nei suoi confronti: non è la Rivoluzione francese
che ha liberato gli ebrei e altri oppressi? Essa ha avuto a lungo termine
effetti benefici, e quindi Berlin non può non provare una certa antipatia
verso l’autore delle Riflessioni sulla Rivoluzione francese, e si domanda
persino se Burke, col suo rifiuto dei diritti dell’uomo, non sarebbe stato
nella Francia del 1940 un pétainista. Ma, al momento del bilancio, que­
sti resta sempre l’«ammirevole Burke» e Berlin resta persuaso che l’uto-
pismo del Settecento, che culmina nella Rivoluzione, così come tante
teorie razionaliste dell’Ottocento, siano all’origine di sventure senza fi­
ne: le nobili idee del Settecento sono finite nel sangue e «la linea che
conduce fino a Lenin, Stalin, Mao e Poi Pot, non è ancora giunta alla fi­
ne»44. Dall’inizio degli anni Cinquanta del Novecento Lenin e Stalin

42. Himmelfarb, The R o ad to M odernity , p. 72. La Himmelfarb fa anche appello al­


l’autorità di John Pocock, autore ben noto agli specialisti del Settecento, vicino
alla sua scuola che, fra le altre cose, ha fornito una nuova edizione di Reflexions
on the Revolution in France, e più recentemente uno studio su Gibbon: B arba­
rism an d Religion, voi. I: The Enlightenm ent o f Edw ard Gibbon-, voi. II: N arrati­
ves o f C ivil Governm ent, Cambridge University Press, Cambridge 1999.
43. O ’Brien, The G reat M elody, appendice, p. 609.
44. Ibid., p. 614.

635
Epilogo

sono per Berlin gli eredi di Rousseau; nell’ultimo decennio novecente­


sco, Mao e Poi Pot si aggiungono alla lista nella quale, lo ricordiamo, fi­
gurano anche Mussolini e Hitler. È per questo che Berlin accetta di far
pubblicare le sue lettere in coda all’Epilogo che conclude l’opera di
O ’Brien, dove questo espone le conseguenze intellettuali e metodologi­
che della Rivoluzione francese: il marxismo usa concetti diversi, ma per
il loro carattere e il loro stile i nuovi giacobini sono copie conformi dei
loro antenati; il Terrore fu il prevedibile risultato della Rivoluzione, esi­
to commisurato alla grandezza dei progetti di riforma. I comunisti sono
chiaramente gli eredi diretti dei giacobini45.
Qui l’approccio di O ’Brien si avvicina a quello di Ernst Nolte. È dif­
ficile sapere se l’autore di The Great Melody conoscesse gli scritti dello
storico tedesco e le grandi linee del dibattito degli storici che aveva scos­
so non solo la Germania ma tutta l’Europa continentale degli anni Ot­
tanta del Novecento. Che non ne tenga conto non cambia in fondo mol­
to: per O ’Brien come per l’estrema destra del mondo universitario tede­
sco non solo la Rivoluzione sovietica proviene dalla rivoluzione del 1789,
ma il nazismo è solo un’imitazione di due aspetti della Rivoluzione fran­
cese e della Rivoluzione russa. Il primo aspetto è l’audacia dell’impresa,
il secondo la ferocia della repressione che si abbatte sulla resistenza alle
innovazioni. Nello stesso ordine di idee, il Terzo Reich rappresenta lo
sforzo estremo per ricostruire una società umana sulla base di una teoria.
Hitler è un discendente legittimo della Rivoluzione, non per le sue idee,
ma per il suo esempio, la sua ferocia e la sua audacia46. In un altro auto­
re che scrive nel 1995, si può leggere che «Hitler era un pensatore intel­
ligente, proprio nella tradizione dei Lumi»;47 in un terzo autore, due an­
ni dopo, si apprende che furono i Lumi a gettare le basi non solo di Au­
schwitz e dei gulag ma anche delle tragedie del Ruanda o di Timor Est48.

45. Ibid., appendice, pp. 596-601.


46. Ibid., appendice, pp. 601-602.
47. Si veda Lawrence Briggen, H itler a s Phtlosophe: R em ains o f the Enlightenm ent
in N ation al Socialism , Prager, Westport, Connecticut, 1995, citato in Sven-Eric
Liedman (a cura di), Introduzione a The Postm odernist Critique o f the En ligh­
tenment, Rodopi, B.V., Amsterdam 1997, p. 7.
48. Zygmunt Bauman, «The Camps, Western, Eastern, Modern», Studies in C on ­
temporary Jew ry, 13 (1997), p. 39.

636
Epilogo

Si potrebbe spazzare via con un semplice gesto questo tipo di letti


ratura, se non fosse per le dimensioni che assume il fenomeno di rifiuto
dei Lumi e per il fatto che esso ha le sue radici nell’atteggiamento con­
servatore rispettabile. O ’Brien e il suo amichevole confronto con Berlin
ne è un esempio, il cordiale epistolario tra Ernst Nolte e François Furet
un altro. Qui non è il caso di fare un’analisi globale della tesi di Nolte. La
mia critica a Nolte ha ormai trent’anni: nel 1976 in un saggio sull’ideolo­
gia fascista io ponevo un interrogativo: Nolte capisce il nazismo? Si ren­
de conto di ciò che è stato il nazismo?4’’ Da quei lontani giorni ho avuto
più volte l’occasione di rispondere no a questa domanda. Oggi aggiun­
gerei un solo elemento fondamentale che non fui in grado di vedere al­
l’epoca, quando ingenuamente pensavo che il discorso di Nolte fosse so­
lo un errore, errore colossale ma comprensibile in uno storico guidato da
un metodo fenomenologico come il suo. In realtà oggi sono convinto che
il lavoro di Nolte si inscriva in un continuo sforzo per una «storicizza-
zione del nazismo», espressione elegante utilizzata per coprire un vero
imbroglio intellettuale che mira a dare al nazismo un carattere umano
rendendolo un riflesso dello stalinismo, cioè un atto di legittima difesa di
fronte al pericolo comunista. Questo sforzo è manifestato in particolare
dalla disputa degli storici, YHistorikerstreit degli anni Ottanta del Nove­
cento,4950 e rientra nel progetto classico dello storicismo tedesco.
In effetti il grande obiettivo che Nolte si dà è quello di tutta «la filo­
sofia della storia» tedesca da Herder fino a Meinecke: restituire ai tede­
schi, soprattutto in periodi difficili, la fiducia in se stessi e la loro fede
nella storia. Dopo il nazismo questo approccio propende per la spiega­
zione del disastro europeo non con la lunga guerra contro l’Illumini­
smo franco-kantiano ma con il 1914 e il 1917. Per Nolte non ci sono
due secoli di culto del sangue e della terra, di culto della specificità te­
desca rispetto a un Occidente decadente, non il rifiuto del razionali­
smo, del diritto naturale e dei valori universali all’origine della cata-

49. Zeev Sternhell, «Fascist Ideology», in W. Laquer (a cura di), Fascism : A R eader’s
Guide. Analyses, Interpretations, Bibliography, University of California Press,
Berkeley 1976, pp. 368-371. Questa opera ha avuto diverse riedizioni, compresa
una tascabile (Penguin Books, London 1979).
50. D evant l ’histoire: les docum ents de la controverse su r la sin gularité de l'exterm i­
nation des ju ifs p ar le régim e nazi, Ed. du Cerf, Paris 1988.

637
Epilogo

strofe del X X secolo, bensì la guerra e la Rivoluzione sovietica. Non è al


mito del tedesco vittima dell’arroganza occidentale né a quello del po­
polo giovane cui appartengono l’awenire e il diritto di guidare l’Europa,
non è alla messa in moto di quella rivolta culturale da parte di tutte le
generazioni di nazionalisti a partire da Fichte, il quale lancia un appello
alla rivolta dalla capitale di una Prussia prostrata, che dobbiamo gli an­
ni 1933-1945; no, secondo questo storico di mestiere non è il ripiega­
mento culturale e l’idea di impermeabilità delle culture, questo motore
intellettuale del processo di unità tedesca nell’Ottocento, non è il nazio­
nalismo organico e il particolarismo etnico che spiegano la guerra a ol­
tranza alla democrazia. Non sono questi fenomeni di rivolta contro l’e­
redità dei Lumi, della democrazia e dei diritti dell’uomo all’origine del­
la caduta di Weimar, ma l’esempio di Lenin.
Facendo del nazismo un riflesso del comunismo e una risposta legit­
tima al pericolo bolscevico, isolandolo dalle sue radici ideologiche e cul­
turali e ponendo un accento fuori misura sul ruolo del Fiihrer, il nazismo
stesso può essere quasi eliminato dalla storia nazionale. Bisogna aggiun­
gere l’idea bizzarra che dobbiamo a Nolte, secondo la quale l’antisemi­
tismo nazista aveva un «nesso razionale»51. Se quindi il comunismo, il fa­
scismo e il nazismo posti sullo stesso piano nient’altro sono che il pro­
dotto della Grande Guerra, se il comunismo precede cronologicamente
sia il fascismo che il nazismo e Mussolini e Hitler non sono che vaghi
imitatori di Lenin, la storia nazionale è salva. Ma si può, osservando la
scena europea in una prospettiva che abbraccia due secoli, ridurre ra­
gionevolmente il fascismo e il nazismo a un’imitazione del leninismo? E
tuttavia su questo punto fondamentale Furet è d’accordo con Nolte, di­
scepolo in senso proprio e figurato di Heidegger, erede diretto del Mei­
necke degli anni Trenta, ultimo anello della catena di intellettuali tede­
schi la cui carriera è stata una lunga lotta contro i Lumi franco-kantiani.
E certo che la Germania non era predestinata a produrre il nazismo,
così come l’Italia il fascismo, ma i due paesi costituivano le maglie più
deboli del liberalismo dell’epoca. Gli antilluministi, questo libro lo chia­
risce bene, sono un fenomeno europeo e la tradizione dei Lumi lo è al­

51. François Furet/Ernst Nolte, Fascisme et communisme, Hachette-Littérature


(«Pluriel»), Paris [1998], pp. 75-77.

638
Epilogo

trettanto, ma due grandi differenze separano i due paesi dalla Francia:


quest’ultima ha prodotto a partire dal Settecento due tradizioni politiche
antagoniste e la tradizione antilluminista vi era contenuta dalla tradizio­
ne dei diritti dell’uomo, mentre in Germania, da Herder a Spengler e
Meinecke, e in Italia, da Vico a Croce, la tradizione dei Lumi non riesce
a tener testa e rimane molto largamente minoritaria. Per esplodere, il po­
tenziale antilluminista, profondamente ancorato nella cultura europea,
ha solo bisogno di condizioni favorevoli52. La Francia, vittoriosa nel
1918, sfugge al disastro, ma arriva la sconfitta del 1940 e la tradizione an­
tilluminista prende il sopravvento; la più antica democrazia del conti­
nente europeo crolla per lasciare il posto a una dittatura che non si di­
stingue di molto da quella che allora infierisce in Italia.
Il lavoro di Nolte ha acquisito in Francia, grazie a François Furet, una
legittimità che, destra universitaria tedesca a parte, non ha paragoni nel
mondo occidentale. La sua opera ha questo di particolare rispetto alla
scuola totalitaria degli anni Cinquanta del Novecento, cioè che costituisce
non un’altra interpretazione ma una vera perversione della storia del No­
vecento. Si raggiunge così un livello superiore: Aron, Talmon, la Arendt
non avevano mai pensato di attribuire allo stalinismo la responsabilità sto­
rica e morale del nazismo, né al gulag la responsabilità di Auschwitz. A
questo punto, è bene fare un passo indietro di quarantanni per tornare a
Démocratie et totalitarisme di Raymond Aron, che coglie il punto essen­
ziale: «Per valutare l’importanza sia della parentela sia dell’opposizione
non basta limitarsi all’analisi comparativa, sociologica, ma bisogna tener

52. I contemporanei non si sbagliano quando parlano, usando l’espressione degli in­
tellettuali fascisti francesi degli anni Trenta, Drieu la Rochelle e Bertrand de Jou-
venel, di un «fascismo del 1913». «G li storici del futuro si domanderanno se,
senza l’esplosione dell’agosto 1914, sarebbe stata la Francia il primo paese a
compiere una rivoluzione nazionale», scrive Jouvenel (Bertrand de Jouvenel, Le
Réveil de l’Europe,Gallimard, Paris 1938, p. 148). Due anni prima, nel 1936,
Drieu La Rochelle si esprime, secondo Pierre Andreu, negli stessi termini: «Sen­
za dubbio, quando ci si riferisce a quell’epoca, ci si accorge che qualche ele­
mento dell’atmosfera fascista si era raccolto in Francia nel 1913, prima che si
presentasse altrove. [...] Sì, in Francia, intorno a\YAction française e a Péguy, si
era formata la nebulosa di una specie di fascismo» (citato in Pierre Andreu, «F a­
scisme 1913», Combat, febbraio 1936). Drieu parlava del resto volentieri di un
«fascismo rosso».

639
Epilogo

conto di due altri metodi di interpretazione: la storia e l’ideologia». E


Aron aggiunge: «Per questa ragione, passando dalla storia all’ideologia,
sosterrò, concludendo, che tra i due fenomeni [comunismo e nazismo] la
differenza è essenziale, quali che siano le somiglianze. La differenza è es­
senziale per l’idea che anima le due imprese: in un caso il risultato è il
campo di lavoro, nell’altro la camera a gas»53. E curioso osservare che l’au­
torità di Aron, a giusto titolo spesso invocata nel corso di questi ultimi an­
ni, si è d’improvviso dissolta, e su un argomento così essenziale.
Pretendere, come fa Furet, che, «venuto come Lenin da un sociali­
smo ultra-rivoluzionario, Mussolini ha ancor più facilità a imitarlo che a
combatterlo», non risponde a nessuna realtà ideologica o politica e non
resiste alla verifica54. In realtà negli anni prebellici il pensiero di Mussoli­
ni si sviluppa sulla scia dei sindacalisti rivoluzionari soreliani che hanno
questo di particolare, Faccettare il capitalismo e l’idea di profitto come
unico motore dell’attività economica; ma, fedeli all’insegnamento del
maestro, rifiutano il contenuto intellettuale dei Lumi e quindi della de­
mocrazia. I sindacalisti soreliani, con Mussolini nell’agosto del 1914 di­
venuto il loro leader politico ufficiale, appoggiati dalla massa dei nazio­
nalisti e dei futuristi che rifiutano sotto ogni aspetto il marxismo, non
avevano soluzioni di ricambio al capitalismo e non ne volevano. È pro­
prio questo un elemento fondamentale del loro pensiero: a differenza dei
bolscevichi, non credevano che il capitalismo fosse la causa di quei mali,
che erano per un verso il fenomeno della borghesia e per l’altro la so­
cialdemocrazia erede dei valori liberali e ancorata ai Lumi. Basta questo
a spiegare perché Mussolini non è un discepolo di Lenin e, contraria­
mente a ciò che afferma Furet, perché rompe con il marxismo già nel
1912 e da quel momento si impegna a preparare gli animi e a forgiare le
armi di una rivoluzione nazionale, culturale e morale ma non sociale. Non
solo Mussolini non imita Lenin, ma la sua rivoluzione di vertice, che non
mette in discussione né l’economia né le strutture sociali, è agli antipodi di
quella dei bolscevichi, così come sono completamente diversi il processo
attraverso il quale Mussolini giunge al potere con il sostegno di tutte le

53. Raymond Aron, Teoria dei regimi politici, trad. di Maria Lucioni, Edizioni di Co­
munità, Milano 1973, pp. 243 e 248-249.
54. Furet/Nolte, Fascisme et communisme, p. 14.

640
Epilogo

élite sociali, e quello dell’instaurazione progressiva e distribuita su più an­


ni della dittatura, la funzione del Partito e la natura del regime italiano” .
Matura così, all’inizio del X X secolo, un attacco globale contro la
tradizione occidentale, razionalista e universalista, in ciò che essa ha di
essenziale. Il fascismo rappresenta una forma esasperata della tradizione
antilluminista; il nazismo è un attacco totale al genere umano. Così si
manifesta il significato che può avere per un’intera civiltà il rifiuto dei va­
lori universali e dell’umanesimo, pietra angolare del pensiero dei Lumi.
Per la prima volta l’Europa si dà dei regimi e dei movimenti politici il cui
progetto altro non è che la distruzione dei Lumi, dei loro principi e del­
le loro strutture intellettuali e politiche.5

55. Per una dimostrazione articolata, si vedano i miei lavori N ascita dell'ideologia f a ­
scista (con Sznajder e Asheri), il saggio «Morphologie et historiographie du fasci­
sme en France» pubblicato all’inizio della terza edizione rivista e ampliata di N i
droite ni gauche (Fayard, 2000), così come «From Counter-Enlightenment to thè
Revolution of thè XXth Century», in Shlomo Avineri e Zeev Sternhell (a cura di),
Europe’s Century o f Discontent: The Legacies ofFascism , Nazism and Communism,
The Hebrew University Magnes Press, Jerusalem 2003, pp. 3-22 e «Le fascisme,
ce “mal du siècle”», in Michel Dobry (a cura di), L e Mythe de Vallergie française
au fascism e , Albin Michel, Paris 2003. Un altro esempio di comparazione mecca­
nica curiosa - è il meno che si possa dire —è la questione del ruolo «degli ex sol­
dati» su cui i tre nuovi regimi hanno fatto «la leva del dominio incontrastato di un
solo partito»: Furet/Nolte, Fascism e et communism e , p. 13. Gli storici conservato­
ri dimenticano che se le prime truppe, o piuttosto i primi manipoli di truppe d’as­
salto fasciste e naziste effettivamente provengono dalle fila degli ex combattenti,
nei bolscevichi avviene l’esatto contrario. Nel campo leninista, più tardi, al mo­
mento delle fallite rivoluzioni in Germania e Ungheria, sono i rivoluzionari di pro­
fessione, antinazionalisti virulenti, spesso ebrei, a prevalere. D ’altra parte i soldati
russi sono pervasi da un grandissimo odio contro la guerra, non hanno mai fatto
la guerra di trincea, non sono mai stati esposti al genere di esperienze cantate da
Jünger e inoltre alcuni tra loro, già molto politicizzati, covavano un profondo ri­
sentimento verso il regime. L’idealizzazione della guerra, il culto soreliano e futu­
rista della violenza, fonte di morale e di virtù, erano completamente estranei a mi­
lioni di russi in armi per i quali questo scontro non aveva alcun senso e alcuno sco­
po. La stessa cosa si verificava negli eserciti austro-ungarici in cui proliferavano gli
schveik. D ’altra parte è bene non dimenticare che tutto il pensiero politico russo
fin dall’inizio dell’Ottocento ruota attorno all’idea di rivoluzione. La terra trema­
va nell’Europa dell’Est dalla fine dell’Ottocento, e nel 1905 era apparso chiaro a
tutti che la caduta del regime era solo questione di tempo e di circostanze.

641
Epilogo

Si giunge infine alla domanda che è sottesa a tutte le versioni, dalle


più moderate alle più estreme, del rifiuto dei Lumi: il mondo nel quale
viviamo è il solo possibile perché è quello che c’è? Se Furet si impegna
con tanta risolutezza nella difesa di Nolte è perché l’analisi che questo
offre ha per lui l’enorme vantaggio di confermare l’idea secondo la qua­
le l’origine del male che corrode la modernità non sta nel particolarismo
del sangue e della terra, bensì nell’universalismo dell’«utopismo» marxi­
sta. La caduta del comunismo significa la fine non solo della storia del
comunismo, ma dell’idea di comunismo, ovvero dell’«utopismo» o, in
altre parole, dell’idea creata dai Lumi per la quale un mondo diverso dal
nostro è progettabile e desiderabile. Ma la lezione che Furet trae dalla
storia del X X secolo è che « l’idea d’un'altra società è diventata quasi im­
possibile da pensare e d’altronde nel mondo d’oggi nessuno avanza la
minima traccia di un nuovo concetto sul tema»56. Il termine illusione che
compare nel titolo dell’opera è fondamentale per Furet: la fede nella
possibile esistenza di un sistema diverso dal nostro è in se stessa un’illu­
sione. Ma è difficile vedere su quali premesse metodologiche, in un mon­
do che è cambiato negli ultimi cento anni più profondamente che in
qualsiasi altro periodo della storia moderna, poggi questa rinuncia alla
ragione.
Tuttavia è certo che si tratta di un altro modo di celebrare la vittoria
finale e definitiva del capitalismo, assimilata alla «fine della storia». In ef­
fetti Furet riprende un tema classico, che ruota sui due perni del con­
servatorismo e del neoconservatorismo, versione radicalizzata del pen­
siero conservatore: il primo è dagli anni Settanta il pilastro dello sforzo
intellettuale elaborato da Kristol e dai suoi amici, tra i quali i più cono­
sciuti, come Norman Podhoretz, direttore di Commentar?, e lo storico
delle idee Sidney Hook provengono anch’essi dalla sinistra ebraica ame­
ricana, per fornire alla destra del Partito repubblicano una piattaforma
ideologica. Nel 1973 Kristol invita i suoi lettori a vedere il mondo quale
è come un loro bene, a superare il sentimento di alienazione che gli uo­
mini potrebbero sviluppare verso l’esistenza quotidiana: per lui questo
mondo è perfettamente in grado di offrirci una vita che ci permette di

56. François Furet, Il passato di un’illusione. L’idea comunista nel X X secolo, a cura
di Marina Valensise, Mondadori, Milano 2000, p. 560 (corsivo nel testo).

642
Epilogo

realizzare il nostro potenziale in quanto esseri umani. Dipende solo da


noi costruire un mondo in cui i sogni completino la realtà invece di coni
batterla. In questo modo si potrà attuare «una riforma del moderno uto­
pismo», che ci porterà a una «fiduciosa accettazione della realtà»5758.
Il secondo perno di questo tema è il concetto di «fine della storia»
che la destra neoconservatrice deve a una delle sue figure principali,
Francis Fukuyama, autore di The End of History and thè Last Man™.
Quasi vent’anni dopo Kristol e a un livello di astrazione e di erudizione
senza paragone rispetto a quest’ultimo, con la fiducia che gli infondono
il crollo del comunismo e il successo politico del neoconservatorismo,
Fukuyama nutre un’ambizione ben più vasta. Il suo libro del 1992 ri­
prende le idee principali di un articolo, «The End of History?», appar­
so nell’estate del 1989 nella nota rivista di destra The National Interest.
L’articolo e il libro conobbero entrambi, ciascuno a suo modo, un enor­
me successo. Nei due anni seguenti la pubblicazione dell’articolo, il di­
battito intellettuale americano fu incentrato sulla tesi di Fukuyama: ap­
poggiandosi a Hegel e Kojève, egli crea un quadro concettuale che per­
mette di affermare la vittoria finale della democrazia liberale. Questa vit­
toria sulla monarchia ereditaria, il fascismo e il comunismo potrebbe ben
«costituire addirittura “il punto d’arrivo dell’evoluzione ideologica del­
l’umanità”» e « “la definitiva forma di governo tra gli uomini”»: in quan­
to tale, questa vittoria costituisce « “la fine della Storia”» 59. Conviene non
dimenticare che nello spirito dei neoconservatori la democrazia liberale
ingloba il capitalismo e che una siffatta «fine della Storia» implica l’eter­
nità del capitalismo. Dimenticano soltanto che il capitalismo può regge­
re sia i regimi di libertà che le più immonde tirannie.
Un’altra domanda si pone: accettare il mondo esistente è un princi­
pio universale, destinato a prevenire il ritorno della barbarie, applicabile
a tutti gli uomini in ogni tempo e luogo, o solo a questa parte dell’uma-

57. Kristol, N eoconservatism : The A utobiography o f an Idea, pp. 198-199 (articolo


«Utopianism, Ancient and Modern» del 1973) [Il Neoconservatorismo. A utobio­
grafia d i un ’idea («Utopismo antico e moderno») pp. 139-140].
58. Francis Fukuyama, The E n d o f H istory an d the L ast M an , Avon Books, New
York 1993 [L a fin e della Storia e l ’ultim o uomo, trad, di Delfo Ceni, Rizzoli, Mi­
lano 2003].
59. Ibid., p. X I [Ibid., p. 9].

643
Epilogo

nità che vive intorno all’anno 2000 in Europa occidentale e che, negli Sta­
ti Uniti, non si trova al fondo della scala sociale? Del resto, esiste una ra­
gione metodologica che permette di pensare che la barbarie staliniana sia
la sola via possibile per cambiare le strutture della nostra società?
Eccoci ritornati al problema fondamentale posto dalla querelle des
Anctens et des Modernes, con la quale inizia questo libro, all’idea del con­
tratto sociale di Locke, all’individuo autonomo di Kant e, per parlare co­
me Nietzsche, all’uomo secondo Rousseau. I loro principi sono universa­
li e in virtù di tali principi gli uomini possono sempre aspirare a costruir­
si un mondo diverso dal loro, in funzione dei loro bisogni e delle loro idee
sulla natura del bene politico. Indipendentemente dalle differenze tra i
grandi pensatori dei Lumi, il denominatore comune alle loro visioni del
mondo è il rifiuto delle cose come stanno. La cultura dei Lumi è una cul­
tura critica, per essa nessun ordine stabilito è legittimato dal solo fatto di
esistere. Nessun ordine stabilito è legittimo se ingiusto. La giustizia e la
felicità sono valori e obiettivi validi e legittimi dell’azione politica, senza
che si debba verificare una sovversione della libertà, poiché la giustizia
sociale e la libertà non sono opposte concettualmente. L’uomo è capace
di progredire, a condizione che faccia appello alla ragione. Non è «la fe­
de in una verità universale» che ha provocato i massacri del Novecento,
non è la volontà di rottura con l’ordine esistente, né la rivendicazione del
diritto alla felicità che li ha provocati, ma al contrario l’irruzione dell’ir­
razionale, la distruzione dell’idea dell’unità del genere umano, una fede
assoluta nelle capacità della potenza politica, e quindi dello Stato, a pla­
smare la società. Questi sono i mali contro cui hanno combattuto i Lumi
e i Lumi, come ben dicevano Spengler e Sorel, ma solo per meglio deni­
grarli, appartengono a tutte le epoche. Il progresso può non essere conti­
nuo, la Storia può avanzare lentamente, ma ciò non significa che l’uomo
debba rimettersi al caso o piegare la testa davanti ai potenti del momen­
to, accettare i mali sociali come se fossero dei fenomeni naturali e non il
prodotto di un’abdicazione della ragione.
Per evitare all’uomo del XXI secolo di precipitare in una nuova epoca
glaciale di rassegnazione, la visione prospettica creata dai Lumi di un indi­
viduo attore del suo presente, cioè del suo avvenire, rimane insostituibile.

644
IN D IC E D E I N O M I

Abu Bakr 526 Barker, Ernst 549


Acton (lord) vedi Dalberg-Acton, Barnard, Frederick Mechner 433,
lord John 557
Adams, John Quincy 20,258,264, Barrés, Maurice 31, 34, 39, 152,
627 155, 183, 272, 283, 291, 300,
Adorno, Theodor 48, 525 303, 317, 319, 366, 385, 408,
Agostino, sant’ 51,621 414, 419, 439, 450, 456, 460,
Alembert, Jean le Rond d’ 15, 24, 463, 464-470, 472, 475, 477,
95,246,413,415,434,496 478, 480, 485, 486, 488, 520,
Alessandro il Grande 154 526, 528, 530, 534-536, 540,
Alfredo il Grande 432 542,543,596,608,609,629,630
Arendt, Hannah 33,549,551,555, Barrett, William 16
556, 616-619, 639 Batteux, Charles 93
Aristotele 47, 51, 289, 351, 382, Bayle, Pierre 13, 146, 155, 210,
383,427,480,482,499,566 230, 494, 500, 528
Arnauld d’Andilly, Antoine 154 Beaumarchais, Pierre Augustin Ca­
Aron, Raymond 26, 42, 44, 555, ron de 103
639, 640 Becker, Carl 20, 48, 550, 569, 620,
Attlee, Clement Richard 578 621-623
Augusto 60, 67, 154, 441 Bentham, Jeremy 35, 54, 116, 274,
Aulard, Alphonse 295, 297, 396­ 275,361,388,394,528, 568
398 Bergson, Henri 488, 492, 493
Berlin, Isaiah 16,24,32-37,41,43,
Bacon, Francis 59, 137, 139, 143, 75,77,79, 87,98, 119,123,135,
246 152, 155, 159, 167, 168, 170­
Bahr, Hermann 465 175, 180, 183, 184, 195, 202,
Bainville, Jacques 542 213 , 272 , 292, 293 , 353 , 409­
Ball, John 285 412, 420, 433, 453, 455, 469,
Ballanche, Pierre-Simon 495 493, 498, 548, 549, 551, 554­
Balzac, Honoré de 200 572, 574, 577, 578, 580- 617,
Barash, Jeffrey Andrew 451 -453 635-637

645
Indice dei nomi

Bernardo di Chartres 59 314, 315, 317-319, 321, 322,


Bienenstock, Myriam 181-183 325, 328, 331-357, 361, 363,
Bismarck, Otto von 152, 157, 174, 370, 371, 374, 375, 384, 386,
ò li 387, 389, 390, 392, 394, 396­
Blackstone, William 251 398, 403 , 435 , 436, 450, 451,
Blanc, Louis 407 464, 468-470, 480-487, 494,
Blum, Léon 465 497, 502, 508-510, 526, 548,
Blumenberg, Hans 52 549, 553, 559, 563, 564, 568,
Bobbio, Norberto 556, 575, 576, 570, 572, 588, 589, 595, 599,
578 601, 616-620, 622 , 624-630,
Bodin, Jean 59,617 634, 635
Boileau, Nicolas 155, 480, 490 Bush, George W. 628
Bolingbroke, Henry St-John 163,
494 Calas, Jean 113,562
Bossuet, Jacques-Bénigne 107,120, Calvino, Giovanni 281
122, 149, 155, 158, 179, 186, Carlo Magno 61,131,221,459,475
417, 440, 496, 617 Carlo I Stuart 81,285
Boudon, Raymond 613 Carlyle, Thomas 9, 27-29, 34-37,
Boulainvilliers, Henri de 368 39, 41, 82, 88, 90, 95-97, 105,
Boulanger, Nicolas Antoine 24, 106, 110-113, 150, 190, 191,
159, 240, 242, 496 193-196, 198-202,230,265-267,
Bourget, Paul 89, 385, 386, 477, 269, 272-274, 307, 310, 312­
545 314, 317, 325-327, 341, 355­
Bramante, Donato 460 357, 363, 371, 375, 377, 379,
Brunetière, Ferdinand 385, 386 380, 384, 386-408, 419, 464,
Bruno, Giordano 59 487, 494, 502, 526, 531-533,
Buddha 527 540, 542,543,569,632
Buffon, Georges-Louis Ledere, Carnap, Rudolf 591
conte di 159, 616 Carr, Edward Hallett 555
Burckhardt, Jacob 160,553 Cassiodoro 58
Burns, Robert 400, 405, 406 Cassirer, Ernst 41, 42, 44, 58, 147,
Burke, Edmund 13, 17-19, 22, 23, 152, 176, 186, 228, 230, 231,
25-29, 32-41, 54, 55, 58, 61, 68, 266, 550, 571,620-624
75, 76, 78-92, 94, 96, 98, 101, Castlereagh, Robert Stewart, viscon­
105, 110, 111, 116-118, 135, te di 376
155, 161-165, 189, 193, 202, Caterina II 436
208-210, 214, 215, 232-239, Catone 59
245-266, 269, 270, 272, 273, Cesare 441,475,514
277-289, 291, 293-296, 299, Chastellux, François-Jean de Beau­
301, 302, 303, 305, 307-310, voir 67

646
Indice dei nomi

Chateaubriand, François-René de D’Annunzio, Gabriele 569


41,68, 481,573 Danilevsky, Nikolaj Jakovlevic 419,
Chatham, lord vedi Pitt, William 511
Cherbuliez, Antoine-Elisée 578 Dante Alighieri 48, 102, 267, 389,
Chevrillon, André 297 400, 470, 501
Cicerone, Marco Tullio 67, 282, Darwin, Charles 296, 299, 519, 520
293,563 Davide 364
Clark, Robert 557 Déat, Marcel 176, 534
Clausewitz, Karl von 555 De Felice, Renzo 505
Clodoveo 61,422 Defoe, Daniel 102
Cobban, Alfred 228 Demostene 67
Collins, Anthony 494 Déroulède, Paul 130
Colombano, san 457 Derrida, Jacques 46, 48, 49
Comte, Auguste 295,480,484, 518 Descartes, René 17, 24, 66, 117,
Condillac, Etienne Bonnot de 51,496 135, 137-139, 246, 258, 274,
Condorcet, Nicolas Caritat, marche- 489-491, 493-495, 498, 518,
sedi 18,51,95,109,153,159, 528,591,594,617
221, 291, 494, 496, 559, 565, Diderot, Denis 15, 18, 95, 96, 100,
611,615,625 104, 113, 149, 159, 210, 244,
Confucio 56,524,527 413,469,568
Constant, Benjamin 23, 47, 75, 79, Droysen, Johann Gustav 171
82, 572, 574, 576, 578, 582 Drumont, Édouard 366, 385, 477,
Corneille, Pierre 59, 103, 121, 128, 531,545
130, 154,418, 440 Dubos, Jean-Baptiste, abate 149,
Cousin, Victor 274, 370 188, 297
Crébillon, Claude-Prosper Jolyot de Durkheim, Emile 558
122 Dworkin, Ronald 582
Crépon, Marc 441
Croce, Benedetto 29,31,34-37,39, Elisabetta I 332
41,135,150,155,177,202,269, Engels, Friedrich 491, 621
302, 307, 322, 331, 371, 390, Enrico I 261
391, 408, 464, 488, 492, 495­ Epicuro 573
507, 510, 539, 540, 557, 558, Epting, Karl 175
568, 630, 632, 639 Eraclito 573
Cromwell, Oliver 161, 192, 200, Erodoto 62
326, 393, 398, 399, 401, 408,
526, 530 Faguet, Émile 572, 599
Federico II Hohenzollern 130,
Dalberg-Acton, lord John 26, 90, 175, 386, 435-437, 439, 455,
236, 282, 283, 584 514, 629

647
Indice dei nomi

Fénelon, François de Salignac de La Giorgio III 20, 248, 339, 342


Mothe-Fénelon 60-63, 102, Giosuè 364
274, 573 Giovanni di Salisbury 59
Ferguson, Adam 24, 161, 162, 179, Giraud, Victor 309
184,212, 221,415 Giuda Iscariota 355
Feuerbach, Ludwig Andreas 518 Gleim, Johann Wilhelm Ludwig
Fichte, Johann Gottlieb 40, 55, 64, 130
155, 201, 376, 378, 386, 389, Gobineau, Arthur de 27, 296, 368,
400, 417, 445-448, 475, 476, 476, 616
544, 596 Goethe, Johann Wolfgang von 152,
Fidia 427,523 153, 159, 164, 172, 192, 195,
Fielding, Henry 102 197-199, 201, 266, 359, 378,
Filippo il Bello 377 386, 387, 390, 400, 401, 508,
Filmer, sir Robert 241 524, 528, 532, 537, 538, 573,
Filone 282 574, 603
Firdusi 207 Goguet, A. J. 159
Fléchier, Esprit 122 Gramsci, Antonio 506
Flourens, Pierre-Jean-Marie 616 Gray, John 612
Fontenelle, Bernard le Bovier de Gregorio VII, papa 360
13, 66, 67, 121, 122, 305, 427, Grotius, Hugo 22, 139, 140, 143,
490, 491, 494 , 560, 601, 624, 144, 499, 500
625 Guglielmo d’Orange 55,260,262
Fox, Charles James 82, 246, 252, Guglielmo il Conquistatore 332,
259, 334, 335, 338-340, 342 402
Fukuyama, Francis 68, 643 Guizot, François 171, 358, 471,
Furet, François 637-640, 642 625

Gadamer, Hans Georg 119, 120, Habermas, Jurgen 59, 71, 72


167, 170, 175-177, 179-181,498 Hamann, Johann Georg 61, 115,
Gallo, san 457 166, 170, 211, 441, 559, 591,
Gay, Peter 228 592, 595, 596, 600
Gellner, Ernst 612, 613 Hamilton, Alexander 51, 53, 250,
Gentile, Giovanni 507, 599 263
Gentz, Friedrich von 19, 80, 189, Hampden, John 526
254,302,451,627 Hartley, David 353
Giacomo II Stuart 81,262 Hastings, Warren 250, 284, 287,
Gibbon, Edward 40, 58, 153, 160, 354
305,454 Hausheer, Roger 34,556,557,591,
Gillies, Alexander 129, 557 592
Giobbe 474 Hayek, Friedrich A. von 633

648
Indice dei nomi

Haym, Rudolf 129, 446 217, 224, 236, 256, 260, 278,
Hazard, Paul 63, 69, 137, 138, 228 279, 285, 300, 482, 494, 497,
Hegel, Georg Wilhelm Friedrich 40, 500,524,583,619
137, 141, 181-183, 196-205, Hoche, Louis Lazare 397, 398
209, 230, 264, 386, 491, 509, Hofmannsthal, Hugo von 465, 466
511,544,643 Holbach, Paul Henry Thiry, barone
Heidegger, Martin 176, 621, 622, d’ 95, 96, 104, 496, 559, 565,
638 602
Hélvetius, Claude Adrien 40, 95, Hook, Sidney 642
122, 188, 240, 242, 460, 496, Horkheimer, Max 48, 525
517, 548, 559, 563, 564, 565, Huime, Thomas Ernst 89
567, 568, 602, 610, 615 Hume, David 14,18,19,24,40,58,
Herder, Johann Gottfried 10, 13, 132, 153, 160, 162, 163, 168,
17,23-25,27-41,46, 55,61,62, 185, 200, 210, 221, 258, 305,
67, 75, 83, 85, 101, 102, 105, 414, 415, 419, 431, 434, 436,
106, 114-125, 127-135, 137, 455, 526, 529, 566, 590, 591,
142, 143, 146-150, 152, 154, 612
155, 157, 159, 160, 162, 164, Hurd, Douglas 162, 168
166, 167-172, 174-190, 195, Husserl, Edmund Gustav Albrecht
197, 201, 202, 204-213, 215­ 48, 58,621,622
217, 219-234, 238-243, 266,
270, 276, 277 , 283 , 286, 289, Ibsen, Henrik 519
291, 295-300, 307, 317, 321­ Iselin, Jean Rodolphe 24, 415, 434
325, 357, 359, 363, 366, 368,
375 , 376, 378, 387, 390, 403, Jacobi, Friedrich Heinrich 179,
409-476, 480, 482-486, 494, 182, 183,233
496-498, 502, 504, 508-516, Jahanbegloo, Ramin 555,559
520, 522,-524, 526, 531, 536, Jay,John 53,250
538, 543-549, 557-561, 568, Jean-Paul vedi Richter
570, 577, 579, 589, 591-593, Jefferson, Thomas 251, 263
595, 601, 603-617, 619, 624, Johnson, Samuel 400, 406, 568
629, 637, 639 Jourdan, Jean-Baptiste 397
Hiao, imperatore 422 Jouvenel, Bertrand de 176
Himmelfarb, Gertrude 20, 282, Jiinger, Ernst 171, 177 , 465 , 466,
626-629, 634 505, 506
Hinrichs, Cari 150
Hitler, Adolf 129, 173, 412, 569, Kant, Immanuel 14, 18, 21, 23-25,
611,621,636,638 27, 42, 58, 64-66, 69-75, 100,
Hobbes, Thomas 13, 22, 69, 71, 117, 176, 178, 179, 190, 201,
117, 134, 141-144, 146, 189, 202, 209, 216-228, 239, 241,

649
Indice dei nomi

258, 267, 359, 376, 378, 436, Lindsay, A.D. 549


454 , 462, 477 , 493 , 509, 511, Liti, Theodor 413
517, 518, 524, 535, 536, 538, Locke, John 13, 14, 19, 21, 22, 26,
548, 556, 571, 573, 575-578, 35,51,55,57,67,69,71,81,85,
584, 585, 596, 606, 613, 621, 91, 93, 116, 117, 134, 138, 142­
625, 632, 644 144, 164, 170, 189, 190, 217,
Keplero, Giovanni 446 218, 223, 224, 233, 235-239,
Kilcup, Rodney 282 241, 243, 244, 246, 247, 249,
Kirk, Russell 20, 282 251, 256-261, 263, 273, 274,
Klopstock, Friedrich Gottlieb 432 278, 279, 284-286, 292, 300,
Knox, John 192,392,400 309, 310, 333, 339, 342, 345,
Kojève, Alexandre 643 358, 361, 388, 392, 436, 455,
Kristol, Irving 629, 630, 632-634, 494, 497, 500, 527, 528, 548,
642, 643 562-564, 568, 573, 589, 619,
624, 635, 644
La Curne de Sainte Palaye, Jean- Lovejoy, Arthur O. 44-47, 620, 622
Baptiste de 159 Luigi, san 61, 293, 475
Lagarde, Paul de 89, 531,545 Luigi XIV 57, 59, 60, 122, 128,
Lagardelle, Flubert 490 154, 155, 159, 221, 375, 384,
Lalande, André 95 419,440,441,475
Langbehn, Julius 89, 531,545 Luigi XV 111,436,562
Lanson, Gustave 471,472,476 Luigi XVI 254,265,318,349,436
La Rochefoucauld, François de 154 Lukes, Steven 554, 558, 577
Laski, Harold 583,584 Lutero, Martin 110, 114, 129, 191,
Lawrence, David Herbert 569 192, 266, 267, 281, 322, 364,
Le Bon, Gustave 477 389, 392, 394, 400, 446
Le Brun, Charles 59 Luther, Hans 191
Le Clerc, Jean 141 Luttrell, deputato 335
Léger, François 296
Leibniz, Gottfried 202, 211-213, Mably, Gabriel Bonnet de 40, 104,
524 550
Lenin, Vladimir Il’ic Ul’janov 611, Macaulay, Thomas Babington 171,
635, 638, 640 193-195,388
Leone X, papa 154 MacCalIum, Gerald 582
Lessing, Gotthold Ephraim 162,624 Machiavelli, Niccolò 32, 47, 51,
Levinas, Emmanuel 621 118, 151, 161, 167, 170, 236,
Lévy-Bruhl, Lucien 129, 130, 445, 294, 329, 499, 557, 562, 570,
446 596-598, 604
Licurgo 93, 99 Madison, James 51,53,250,263,
Lilia, Mark 602, 604 284

650
Indice dei nomi

Maistre, Joseph de 29, 48, 55, 61, 174, 176, 186, 202, 229, 232,
83, 87-89, 92-94, 110, 150, 265, 269, 288, 307, 411, 413, 495,
266, 269, 270,272, 276,277, 498, 500, 504, 507, 539, 546,
281, 286, 289,291-295,302, 558, 567, 568, 589, 596-598,
306, 310, 357,370, 375,401, 603, 609, 637-639
420, 421, 450,464, 472,480,Mendelssohn, Moses 69, 496
482, 483, 526,542, 557,559,Mercier, Louis-Sébastien 100, 101
561, 572, 592,598-601,604, Medio, Gilbert 515,516,535,536
624, 625 Metternich, Klemens Wenzel von
Malebranche, Nicolas 274, 617 19, 627
Mali, Joseph 558 Michelangelo Buonarroti 460
Mallet, Paul Henri 149, 159, 160, Michelet, Jules 135, 171, 183, 195,
432 204, 206, 297, 387, 398, 448,
Malouet, Pierre Victor 328 468, 470-472,474-476, 495, 497
Man, Hendrick de 530, 534 Michels, Roberto 532, 533
Mann, Thomas 423,539,540 Mill, James 361
Maometto 221,400,422,526 Mill, John Stuart 26, 32, 35, 79, 80,
Mao Tse-tung 635,636 191,361,387,568,578,626
Maria Stuart 263 Milton, John 82
Maria Antonietta 112,396 Mirabeau, Victor de Riqueti, mar­
Marinetti, Filippo Tommaso 545 chese di 109, 328, 528
Marivaux, Pierre Carlet de Cham- Moeller van den Bruck, Arthur 505
blain de 103 Molière, Jean-Baptiste Poquelin,
Marx, Karl 39, 137, 491, 504, 519, detto 59, 103, 121, 155
530, 621 Momigliano, Arnaldo 611
Massis, Henri 486 Mommsen, Theodor 171
Matteotti, Giacomo 502, 503 Montaigne, Michel de 59,210,573
Maulnier, Thierry 534 Montesquieu, Charles de Secondât,
Maurras, Charles 29,32,34,35,83, barone di La Brède 18,24,26,
■ 88-90, 93, 155, 272, 283, 286, 31, 40, 42, 52 , 65 , 93 , 95 , 96,
291, 292, 294, 300-302, 306, 104, 120-122, 132, 142, 147,
317, 331, 366, 371, 374, 375, 149, 151, 157-160, 183-189,
385 , 390, 401, 408, 419, 436, 195, 203, 204, 212, 221, 223,
450, 456, 460, 464, 478-488, 229-232, 240, 241, 246, 247,
520, 526, 529-532, 534, 536, 292, 295, 297, 324, 332, 351,
540, 542-545, 599, 608, 625, 368, 411, 414, 415, 419, 436,
630, 632, 634 446, 457, 471, 472, 479, 482,
Mazarino, Giulio 1 2 1 4 9 4 .4 % , 499, 515, 517, 546,

Meinecke, Friedrich 10,22, 24,29­ 548, 560, 566, 567 , 573 , 575,
35, 37, 41, 119, 150-153, 156- 589,611,612,617,619, 635

651
Indice dei nomi

More, Thomas 285 Paley, William 496


Morelly, Étienne-Gabriel 99, 101, Pareto, Vilfredo 532
550 Pascal, Blaise 59, 154, 274, 491,
Mosca, Gaetano 197,532,540,553 493, 4494, 573
Mosè 126 Paolo, san 211,267,389
Mòser, Justus 146, 152, 164, 172, Paz, Octavio 71
417,432,468, 538 Pénisson, Pierre 177, 411
Mounier, Emmanuel 482 Pericle 56, 427, 429. 441. 489,523,
Mozart, Wolfgang Amadeus 523 600
Mussolini, Benito 36,495,502-506, Perrault, Claude 59, 60, 490
510, 569, 599, 611, 636, 638, Peter, Hugh 285
640 Pichegru, Charles 397
Pietro il Grande 437
Napoleone I 55,108,176,192,266, Pitagora 524
398, 401, 402, 475, 511, 537, Pitt, lord William, conte di Chatham
544 332,337,338,340
Necker, Jacques 347 Pitt, William, secondo conte di
Newton, Isaac 13,70,246,426,460 Chatham 81,82,325,332,334,
Nietzsche, Friedrich 14-17, 32, 46, 338-340, 376
47, 72, 97, 113, 137, 190, 310, Platone 41,51,56,59,99,139,143,
370, 488, 492, 507-509, 511, 274, 364, 409, 419, 426, 427,
518-521, 525, 538, 558, 559, 489, 493 , 499, 517, 524, 573,
569, 573, 644 591,593,597,603,615
Nolte, Ernst 174, 629, 636-639, Podhoretz, Norman 642
642 Polibio 62, 146
Novalis, Friedrich Freiherr von Pol Pot, Saloth Sar, detto 635, 636
Hardenberg, detto 386 Pomeau, René 228
Pompadour, Antoinette Poisson,
Oakeshott, Michael 90, 581, 626, marchesa di 82
630-632 Pons, Alain 136, 495, 496
O ’Brien, Conor Cruise 571, 572, Popper, Karl 101,556,577
588, 589, 626, 634-637 Poussin, Nicolas 59
Odino 159,266,400,458 Price, Richard 245, 246, 257-259,
Omar 526 263,285,334,339, 347
Omero 93,102,501 Priestley, John 259
Ottavio 59 Prometeo 152
Publius (pseudonimo assunto dagli
Paine, Thomas 54, 57, 8 6 , 92, 239, autori del Federalista Alexander
245, 246, 252, 263, 281, 292, Hamilton, James Madison e
328, 332, 345, 622, 626 John Jay) 53,246

652
Indice dei nomi

Pufendorf, Samuel von 22, 140, Rocco, Alfredo 599


144, 499, 500 Roche, Daniel 40
Pym, John 526 Rockingham, Charles Watson-
Wentworth, marchése di 333,
Quinet, Edgar 295,297,471 334,338
Rosenberg, Alfred 413,599
Rabelais, François 59 Rouché, Max 46, 115, 123, 129,
Racine Je a n 59, 93, 103, 107, 120, 228,410,411,433,451,453
128, 155,418,440 Rousseau, Jean-Jacques 14, 15, 17,
Raffaello Sanzio 460 18,21,23,24,28,31,32,34,35,
Ranke, Léopold von 152, 161, 174, 47,51,55,63-66,69, 70, 74,76,
590 79, 84, 89-91, 93, 95-101, 104,
Raynal, Guillaime Thomas François 105, 113, 114, 117, 121, 122,
104 130, 132, 149, 159, 163, 166,
Rehberg, August Wilhelm 80, 8 6 , 170, 174, 177, 186, 189, 190,
189, 254, 302 217, 218,220-224, 227, 234,
Renan, Ernest 23,27-29,34,35,37, 239, 241, 258, 269, 272, 273,
39, 41, 55, 79, 83, 8 8 , 94, 98, 278, 285, 289, 396, 310, 329,
105-109, 150, 155, 177, 183, 340, 346, 349, 368, 370, 378,
198, 201-207, 269-274, 297, 386, 398, 401, 406, 409, 419,
302, 307-312, 317, 326, 330, 436, 441, 446, 455, 460, 469,
341, 353, 356-361, 363, 364, 471, 477,479-481, 489, 494,
366-372, 374-386, 389, 390, 496, 517, 527, 528, 535, 548­
396, 397, 403-405, 414, 450, 550, 554, 559, 563, 568-578,
464, 468, 470, 472, 476, 477, 584-586, 588, 589, 595, 601,
480, 487, 493, 495, 532, 536, 610, 611, 615 , 619, 624 , 625,
589, 603, 625, 632 634, 636, 644
Renaut, Alain 64,65,212,213,411 Russell, Bertrand Arthur William
Reuchlin, Johannes 364 591
Richardson, Samuel 102 Ruyssen, Théodore 74,219
Richelieu, Armand du Plessis de
530 Saint-Évremond, Charles 149,155,
Richmond, duca di 318 158
Richter, Johann Paul Friedrich, det­ Saint-Just, Louis Antoine Léon de
to Jean-Paul 230,386,387 51
Rivarol, Antoine de 483 Saint-Pierre, abate di 218
Robertson, William 24, 153, 161, Sallustio 62
179,185,200,212,221,434,602 Sartre, Jean-Paul 64
Robespierre, Maximilian 109, 480, Schiller, Johan Friedrich von 54,
569,611 386

653
Indice dei nomi

Schleiermacher, Friedrich 364 Spitz, Jean-Fabien 570


Schmitt, Carl 465 , 466, 484, 505, Stalin, Iosif 635
529, 558, 599, 617 Stendhal, Henry Beyle, detto 200
Schopenhauer, Arthur 16, 518, Strauss, Leo 2 0 1 , 232, 378, 555
519,573,574 Strauss, David 26,233,370
Senofonte 62 Suphan, Bernhard Ludwig 129,
Shaftesbury, Anthony Ashley Coo­ 321
per, conte di 153, 160, 426,
528 Tacito 62, 139, 293
Shakespeare, William 82, 1 0 2 , 1 2 2 , Taine, Hippolyte 9,23,27-29,33­
128, 195, 200, 267, 389, 390, 35, 37, 41, 42, 48, 55, 76, 79­
400 84, 8 8 , 89, 93-106, 109, 113,
Sheridan, Richard Brinsley 82 150, 155, 183, 188, 193-200,
Sholem, Gershom 556 202, 229, 266-270, 272-274,
Sieburg, Friedrich 447 289, 291, 295-311, 319, 322,
Sieyès, Emmanuel-Joseph, abate 326-330, 341, 349, 353, 356,
53,329,622 357, 360, 363, 384, 385, 387,
Skinner, Quentin 50, 556, 580, 582 389, 390, 392, 396, 397, 403,
Smith, Adam 258,529 405, 414, 436, 438, 450, 460,
Socrate 59,274,364,390,427,428, 464, 468-470, 466-468, 480,
489, 494, 527, 600 484, 492, 494, 495, 532, 539,
Sombart, Werner 171 547, 549, 550, 601, 624, 630,
Sorel, Georges Eugène 31,41,66, 632, 634
89,135,141,272,450, 464,466, Talmon, Jacob 33, 98, 99,549-555,
488-495, 497, 502, 504, 507, 568, 586, 617, 639
519, 520, 526, 527, 530-532, Telemaco 531
534, 540, 544, 545, 557, 559, Teodorico il Grande 58
592, 593, 598-601, 604, 615, Tommaso d’Aquino, san 48
632, 644 Tocqueville, Alexis de 23, 26, 32,
Soury, Jules 366, 385, 538 35,41,42,47,48, 75-79,82,88,
Spencer, Herbert 633 98,116, 120,195,358,368,405,
Spengler, Oswald 10,29,31,32,34, 567, 570, 576, 578, 581, 582,
35, 67, 90, 123, 150, 155, 171, 584,585,587,613,616
283 , 300, 302, 317, 331, 341, Toussenel, Alphonse 366
389, 390, 408, 413, 414, 419, Treitschke, Heinrich von 171,371,
428, 439, 449, 460, 461, 464, 378
467, 485 , 486, 488, 489, 505­ Troeltsch, Ernst 31, 151, 507, 568,
511, 513, 514, 516-547, 593, 596
600, 624, 639, 644 Tronchon, Henri 201
Spinoza, Baruch 183,500,559,573 Tucidide 62, 429

654
Indice dei nomi

Tucker, Josaiah 258 175, 179, 185-188, 192, 195,


Turgot, Anne Robert Jacques 40, 204, 206, 209, 210, 212, 221,
153, 159, 258, 324, 494, 496 223, 229, 230, 233, 239-243,
246, 298, 324, 368, 385, 386,
Urbano IV, papa 425 415-417, 419, 421-427, 431,
435, 441-443, 446, 454-456,
Vacher de Lapouge, Georges 538 459, 460, 471-473, 479, 489,
Verney, lord Ralph 334 494, 515-517, 528, 544, 546,
Vico, Giambattista 13, 17, 22, 27, 548, 559-563, 565, 568, 589,
3 1 ,3 2 ,41,61,67,75, 114, 135­ 596, 610, 615, 619, 624, 625,
147, 152, 161, 167, 170, 186, 634, 635
203, 204, 206, 297, 417, 421,
450, 464, 470, 471, 486, 488, Wagner, Richard 16, 432
491-493, 495-500, 502, 504, Walpole, Horace 331,530
508, 511, 557-559, 566-568, Washington, George 53
577, 579, 591-594, 600, 611, Weber, Max 42, 90, 171, 197, 403,
612,614,617,639 558,559
Villemain, Abel-François 274 Weil, Éric 72,223,264
Volney, Constantin François de Wellington, Arthur Wellesley, duca
Chassebœuf, conte di 68, 95 di 376
Voltaire, François-Marie Arouet, Wilkes, John 333
detto 14, 18, 23, 24, 31, 40, Winckelmann, Johann Joachim
47, 51, 58, 62, 65, 73, 91, 93, 417,426
95,96, 102, 103, 107, 109, 112­ Wittgenstein, Ludwig Joseph 591
115, 117, 118, 120, 121, 131, Wokler, Robert 16
132, 135, 142, 147, 149, 151, Wolfe, Christian 67
153-158, 160, 166, 168, 174, Wolin, Richard 590

655

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