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STERNHELL
ISBN 9 7 8 - 8 8 - 6 0 7 3 - 0 6 0 - 2
www.bcdeditore.it
e-mail: info@bcdeditore.it
www.portalinus.it
9 788860 730602
SERVIZIO CLIENTI: numero unico 199 - 190822
Questo è un libro di storia delle idee. Tratta
della rivolta intellettuale contro l’ Illumini
smo e i suoi principi fondanti (la libertà indi
viduale, l’autonomia della ragione, il metodo
scientifico), così come si è sviluppata dal
XVIII secolo fino alla fine del X X . A partire
dalla Rivoluzione francese, Edmund Burke,
Joseph de Maistre e tutti i loro epigoni ro
mantici hanno contrapposto alla filosofia de
gli Enciclopedisti una concezione della vita e
della politica in cui quel che conta non è ciò
che rende gli uomini uguali ma ciò che li ren
de diversi: la storia, la cultura, la lingua, l’et
nia. Per duecento anni questa polemica non
si e mai sopita e anzi è stata alimentata da
nuovi autori e nuovi argomenti. Herder,
'Faine, Sorel, Spengler, Croce, Maurras, Ber
lin, per citarne alcuni, hanno criticato l’idea
di una ragione «astratta» opponendole una
visione «concreta» della vita, in base alla
quale l’individuo è sempre immerso in una
comunità e nella Storia. E partendo da
un’approfondita analisi di questi presupposti
che Sternhell ci dimostra come il nazionali
smo, la critica alla democrazia, il risorgere di
una religiosità militante siano il risultato non
di un movimento antimoderno, ma di una di
versa idea della modernità che ha radici lon
tane e con la quale dobbiamo fare i conti an
cora oggi.
Zeev Sternhell è uno dei maggiori storici del
pensiero politico moderno. Insegna all’Uni
versità ebraica di Gerusalemme. E autore di
opere fondamentali, che hanno fatto molto
discutere, sull’ideologia fascista e sul sionismo
(Nascita dell'ideologia fascista, Né destra né si
nistra, Nascita di Israele) tutti pubblicati da
BCE)edilore.
Di Zeev Sternhell
nel catalogo Baldini Castoldi Dalai editore
potete leggere:
Contro rilluminismo
Dal XVIII secolo alla guerra fredda
TRADUZIONE DI
Massimo Giuffredi e Haría La Fata,
Titolo originale:
«L e s anti-Lumières»
INTRODUZIONE.............................................................................................. 13
CAPITOLO 1
Lo scontro delle tradizioni...........................................................................57
CAPITOLO 2
Le fondamenta di un’altra modernità...................................................... 135
CAPITOLO 3
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali....................................... 208
CAPITOLO 4
La cultura politica dei pregiudizi.............................................................. 276
CAPITOLO 5
La legge dell’ineguaglianza e la guerra alla democrazia........................ 331
CAPITOLO 6
I fondamenti intellettuali del nazionalismo............................................409
CAPITOLO 7
Crisi di civiltà, relativismo generalizzato e morte dei valori
universali all’inizio del X X secolo........................................ 464
CAPITOLO 8
G li antilluministi della guerra fredda..................................................... 548
EPILOGO .................................................!...................................................616
Uno studio come quello proposto in questo libro richiede che ci si de
dichi, all’interno di uno stesso quadro concettuale, a una grande varietà
di problemi, a prima vista molto diversi. Una simile impresa non è mai
facile; è anzi particolarmente ardua nel caso di cui ci occupiamo qui,
perché la contestazione dell’Illuminismo è un fenomeno complesso, dal
le molteplici stratificazioni e sfaccettature, e le sue ramificazioni, dalle
origini ai giorni nostri, sono numerose e spesso impreviste. Questa con
testazione permanente e allo stesso tempo in evoluzione ha finito con il
suscitare e alimentare una vera e propria cultura antilluministica, senza
la quale mi sembra difficile concepire il disastro del X X secolo.
La struttura dell’opera è analitica e non organizzata per autori, men
tre la cronologia, nell’insieme, viene rispettata, cosa che permette di co
gliere la dinamica dell’evoluzione delle idee. Nella mia analisi degli in
tellettuali antilluministi ho privilegiato le loro opere essenziali, quelle
che non hanno cessato di pesare sulla vita delle idee e attorno alle quali
si è andata costruendo tutta una cultura politica. Qualsiasi lettura della
storia è una scelta e un’interpretazione, è ovvio: nessuno vi sfugge, e al
tre scelte o altre interpretazioni diverse dalle mie sono altrettanto legit
time. Io ho cercato quindi di seguire i consigli di Hippolyte Taine a pro
posito di Thomas Carlyle: è proprio dello storico eliminare ogni forma
di «vegetazione parassita» che si accumula durante la ricerca per coglie
re solo «l’utile e solido legno».
Per quanto riguarda le fonti secondarie, nella mia scelta ho utilizza
to i lavori dal mio punto di vista più significativi, quelli che hanno sti
molato la mia riflessione, e non tutte le opere importanti che invece lo
avrebbero meritato, se il mio obiettivo fosse stato circoscritto soltanto a
una o due figure tra quelle che sono oggetto della mia ricerca.
Il lavoro per questo libro, si è prolungato per diversi anni in quattro
paesi; mi è dunque capitato di leggere una stessa opera in due o tre edi-
9
Premessa
zioni differenti, a volte anche in lingue differenti. Ho fatto del mio me
glio per unificare le citazioni, ma questo non è stato sempre possibile.
Comunque fornisco sempre i riferimenti completi di un’opera quando è
citata per la prima volta, ma quando un riferimento è troppo distante dal
punto in cui è apparso la prima volta i dati bibliografici compaiono di
nuovo. E per questo che non è presente una bibliografia: dal momento
che tutte le fonti sono citate in nota, mi è sembrato superfluo riprender
le alla fine del volume in ordine alfabetico.
Tutte le volte che è stato possibile ho utilizzato i testi francesi. Quan
do questo non è stato possibile, mi sono riferito di preferenza all’edizio
ne inglese. In caso di dubbio ho verificato comparando l’originale alle
traduzioni, e fornisco le due citazioni. Quando sono io stesso a tradurre,
preferisco il senso letterale all’eleganza dello stile. Le traduzioni in fran
cese dal tedesco, per quanto riguarda Herder e Spengler, e in inglese per
Meinecke, sono affidabili e fedeli, cosa che ha assai facilitato il mio com
pito, permettendomi di confrontare l’originale ai testi francesi e inglesi.
La mia conoscenza del tedesco non mi avrebbe permesso né di risolvere.
da solo i problemi posti da certe fonti né soprattutto di procedere a una
velocità ragionevole. Al fine di facilitare la lettura delle citazioni mi sono
permesso in certi casi di modernizzare l’ortografia e di evitare un uso ec
cessivo di corsivi e maiuscole.
Durante gli anni di questo lavoro ho contratto numerosi debiti. Il
primo con mia moglie, Ziva: ha cominciato a lavorare prima di me su al
cuni dei problemi qui trattati ed è sua anche l’idea di questo libro che,
senza di lei, non avrebbe mai visto la luce. Il tempo e l’energia che mi ha
dedicato sono andati a scapito del suo lavoro; le sue ricerche e le sue idee
sull’architettura moderna e il suo contesto culturale, così come sugli in
timi legami che si sviluppano tra poli di attività intellettuale hanno sti
molato notevolmente le mie riflessioni.
Nella lettura del manoscritto, comprese le correzioni linguistiche,
Françoise Laurent ha messo la sua intelligenza, il suo senso critico, la sua
capacità di cogliere la concatenazione delle idee, uniti a quarant’anni di
amicizia, dai tempi lontani in cui, a Scienze Politiche, aveva reso leggi
bile la mia tesi di dottorato, che è diventata poi il mio primo libro. Vor
rei che sentisse qui l’espressione della mia profonda gratitudine.
I miei ringraziamenti vanno anche alle varie istituzioni che mi hanno
aperto le porte e che hanno favorito il mio lavoro. A Gerusalemme 1TJ-
10
Premessa
11
INTRODUZIONE
13
Introduzione
1. J.-J. Rousseau, L e confessioni, trad, di Michele Rago, Einaudi, Torino 1955, p. 445.
Rousseau meditava allora sulle sue In stitution spolitiques, opera che, dice (p. 444),
«doveva a mio parere mettere il suggello alla mia reputazione». Questo libro, co
me si sa, non ha mai visto la luce.
2. David Hume, «Sul contratto originale», trad, di Enrico Mistretta, in Opere fib so -
fiche, voi. Ili, Laterza, Roma-Bari 1987, p. 467. Ecco il testo originale: «A s no
party, in the present age, can w ell support itself, without a philosophical o r specula
tive system o f principles, annexed to its p olitical or practical one; we accordingly
find, that each o f the factions, into which this nation is divided, has reared up a fa
bric o f the form er kind, in order to protect an d cover that scheme o f actions, which
it pursues», in P olitical Essays, a cura di Knud Aakonssen, Cambridge University
Press, Cambridge 1994, p. 186 (Saggio 23).
14
Introduzione
dello spirito»3. Tutti i philosophes, nel senso che questa parola ha acquisito
nel XVIII secolo, consideravano la politica come l’unico strumento in gra
do di cambiare la vita. Mai prima di allora si era discusso tanto intensa
mente sul mondo di domani: la politica era diventata affare di tutti.
Era il periodo dell’Encyclopédie: il Dictionnaire raisonné, tanto deni
grato, era pieno di lacune, come la maggior parte delle opere collettive,
soprattutto quando esse mirano alla diffusione della conoscenza, ma la
sua prima edizione in ventotto volumi costituì un’impresa senza prece
denti nella storia del sapere. Diderot e D ’Alembert pongono l’uomo al
centro dell’universo e l’individuo afferma il suo diritto alla felicità attra
verso il progresso materiale: egli si emancipa per mezzo della ragione. Ma
allo stesso tempo l’uomo del Settecento riporta le passioni al loro giusto
posto: «Checché ne dicano i moralisti, afferma Rousseau, l’intelletto uma
no deve molto alle passioni, le quali, per comune consenso, a loro volta
gli devono moltissimo: il nostro intelletto si perfeziona per opera della lo
ro attività. Noi cerchiamo di conoscere soltanto perché desideriamo di
godere, e non è possibile concepire per quale motivo chi non avesse né
desideri né timori si prenderebbe la briga di ragionare».4H secolo dei Lu
mi non è mai stato quel secolo di aridità intellettuale e di valorizzazione
dei sensi come ancora oggi lo dipingono abbondantemente i suoi nemici.
Il termine «antilluminismo» è stato probabilmente coniato da Nietz
sche ed era di uso corrente in Germania all’inizio del X X secolo5. Non è ca-
15
Introduzione
6. Cfr. Irration al m an: A study in E xisten tial Philosophy, Doubleday, New York 1962,
p. 274: «E xisten tialism is the counter-Enlightenm ent come a t last to philosophical
expression ». Isaiah Berlin pensava di esserne stato l’inventore, nel 1973: Wokler (si
veda la nota precedente) si riferisce a Ramin Jahanbegloo, Conversation with
Isaiah Berlin, Peter Halban, London 1992, pp. 69-70, la cui traduzione francese di
Gérard Lorirrry è apparsa sotto il titolo En toutes libertés: entretiens avec Ram in
Jahanbegloo, Ed. du Félin, Paris 1990. Ecco che cosa dice Berlin: «I don’t know
who invented the concept o f “Counter-Enlightenm ent”. Som eone m ust have said it.
C ould it be m yself? I should be som ew hat surprised. Perhaps I did. I really have no
idea». In francese è stato tradotto: « Je ne sais p as qui a inventé le concept de Con
tre-Lum ières. Q uelqu’un a dû prononcer le mot. Est-ce que cela pourrait être m oi?
J'en sarais supris. Réellem ent, je n’en a i p as la m oindre idée» (p. 93), che non è esat
to, perché non riporta quel «perhaps I did».
7. È proprio così che la traduzione francese rende il concetto di Gegen-Aufklarung.
Ecco il testo del paragrafo 22 [17] citato sopra: « I l y a des courbes plu s ou m oins
courtes ou longues dans le développem ent d’une civilisation. A u sommet de la phi-
16
Introduzione
losophie des Lum ières corrispond le som m et de la reaction à la philosophie des Lu
m ières chez Schopenhauer et Wagner. Les points culm inants des petites courbes se
rapprochent le plu s de la grand courbe-rom antism e». Si veda Friedrich Nietzsche,
Œ uvres philosophiques com plètes III, Hum ain, trop humain - Un livre pour esprits
libres 1, Fragm ents posthum es (1876-1878), Gallimard, Paris 1988, pp. 437-438. In
A urora, parlando dell’«ostilità dei tedeschi contro l’illuminismo», Nietzsche op
pone una «grande reazione» alla «grande rivoluzione»: il termine «reazione» è uti
lizzato nel suo significato proprio e circoscritto. Si veda Friedrich Nietzsche, A u
rora, pensieri su i pregiudizi m orali, trad, di Ferruccio Masini, Adelphi, Milano
1978, paragrafo 197, pp. 141-143.
8. H termine «axiti-philosophe» si ritrova nel 1751 nei Pensées antiphilosophiques del
l’abate Allemand o nel 1767 nel D ictionnaire anti-philosophique di Louis Mayeul
Chaudon. Il termine compare anche in Diderot nel 1747 (Pensées philosophiques)
e nel D ictionnaire philosophique di Voltaire del 1767. Si veda Darrin M.
McMahon, «The Real Counter-Enlightenment: the Case of France», in «Isaiah
Berlin’s Enlightenment and Counter-Enlightenment» già citato.
17
Introduzione
18
Introduzione
erano in realtà che degli elenchi di privilegi che alcuni nobili avidi di
potere erano riusciti a imporre a una monarchia tendente al dispoti
smo. Il sistema inglese non era basato né su una presunta antica costi
tuzione né su un originario contratto di governo ma su un compro
messo politico e una dipendenza reciproca tra corona e Parlamento, e
dunque su un equilibrio delicato9.
Tuttavia il vero obiettivo dell’esecrazione di Burke e della sua scuo
la è proprio la Dichiarazione francese dei diritti dell’uomo e del cittadi
no. Nel 1789 era ancora possibile occultare Locke e Hume, la Gloriosa
Rivoluzione poteva essere interpretata in modi diversi, soprattutto sul
continente, e l’America era ancora troppo lontana dai centri del potere
e della cultura per potere svolgere un ruolo d’avanguardia nell’evoluzio
ne della civiltà. Inoltre i critici deUllluminismo fecero di tutto per ac
creditare l’idea per cui la ribellione delle colonie inglesi d’America non
era affatto contro VAncien Regime, e ancora meno era un sollevamento
della ragione sovrana contro la storia. I più intelligenti tra loro, come il
letterato Friedrich von Gentz, traduttore e interprete tedesco di Burke -
e più tardi consigliere di Metternich - pensavano che la Dichiarazione
d’indipendenza fosse stata la copertura ideologica di cui i coloni aveva
no bisogno per dare alla secessione una dimensione epica; nei fatti essi
non avevano alcuna intenzione di opporre i diritti dell’uomo ai diritti
specifici dei membri di una comunità storica. All’inizio dell’anno 1800
Gentz pubblicò un lungo articolo nel quale si impegnò a separare la ri
volta delle Tredici colonie, semplice movimento di secessione con obiet
tivi moderati, ben definiti e limitati, dalla Rivoluzione francese, fatto vio
lento e veramente mostruoso10; l’appello ai nefasti principi di «diritti na
turali e inalienabili» deve, secondo lui, essere considerato un errore di
giudizio. Questo saggio fu subito tradotto in inglese da John Quincy
19
Introduzione
1i . Russell Kirk, The Conservative Mind, from Burke to Santayana, Henry Regnery
Company, Chicago 1953 (sesta ristampa 1963) e la sua introduzione alle Reflec
tions on the Revolution in France di Burke, Gateways editions, Los Angeles 1955
(Kirk, iniziatore del culto contemporaneo di Burke, è considerato uno dei primi
portavoce del conservatorismo della seconda metà del Novecento); Gertrude
Himmelfarb, The Roads to Modernity, The British, French, and American
Enlightenments, Knopf, New York 2004; Carl L. Becker, The Heavenly City of
Eighteenth Century Philosophers, Yale University Press, New Haven 1965 ( 1J ed.
1932) [La città celeste dei filosofi settecenteschi, trad, di Umberto Morra, Ric
ciardi, Napoli 1946]. Tutti questi autori vedono in Burke il fondatore di un con
servatorismo «illuminato», nei fatti l’unico uomo dei Lumi bene intesi; si veda
un altro recente esempio nell’antologia di Jerry Z. Muller che, come altri, asso
cia fium e alla famiglia conservatrice: Conservatism: an Anthology o f Social and
Political Thought, Princeton University Press, Princeton 1997.
12. Si veda l'introduzione di Russell Kirk in Gentz, The French and American Revo
lutions Compared, pp. Ill-XI. Si vedano anche le critiche rivolte a un’altra ope
ra di Cari Becker, The Declaration of Independence, da Yehoshua Arieli, autore
dell’ammirevole Individualism and Nationalism in American Ideology, Harvard
University Press, Cambridge (Mass.) 1964, p. 369.
20
Introduzione
13. L’idea di una rivoluzione non solo francese ma occidentale è stata sviluppata ne
gli anni Cinquanta del Novecento da Jacques Godechot (La Grande Nazione.
Lespansione rivoluzionaria della Francia nel mondo. 1789-1799, trad. di Franco
Gaeta, Laterza, Bari 1962) e Robert Palmer (The Age o f thè Democratic Revolu
tion, Princeton University Press, Princeton 1959 [L'era delle rivoluzioni demo
cratiche, trad. di Adriana Castelnuovo Tedesco, Rizzoli, Milano 1971]). In un’al
tra opera su La controrivoluzione. Dottrina e azione (1789-1804), a cura di Enzo
Turbiani, Mursia, Milano 1988, Godechot guarda in questa prospettiva ai moti,
alle rivolte e alle rivoluzioni della fine del XVIII secolo, dalla rivoluzione gine
vrina del 1768 durante la quale i controrivoluzionari fecero bruciare dal boia il
Contrai social sulla pubblica piazza, fino alla rivolta in Olanda del 1783-1787 e
a quella scoppiata a Liegi nel 1790. In ambedue gli ultimi casi l’ordine fu rista
bilito grazie a un intervento straniero. Nel frattempo si erano verificati disordi
ni anche in Inghilterra, nel 1782-1784, e di nuovo a Ginevra, dove nel 1782 gli
oligarchi chiamarono in soccorso le truppe di Berna, di Zurigo, del re di Sarde
gna e del re di Francia.
21
Introduzione
22
Introduzione
vano Renan o Taine, assume nelle strade la fisionomia della destra rivo
luzionaria, nazionalista, comunitaria - per la Germania si parla anche di
«rivoluzione conservatrice» - nemica giurata dei valori universali. Re
spingendo, dalla seconda metà del XVIII secolo, l’idea dell’autonomia
dell’individuo, là modernità antirazionalista diventa, cento anni dopo,
una forza politica dalla straordinaria capacità di rottura, che riesce a
scalzare i fondamenti della democrazia. All’inizio del X X secolo compa
re una nuova concettualizzazione, ma i contenuti e la funzione di que-
st’altra modernità restano. Come ai tempi di Herder e di Burke, le sue
bestie nere sono sempre Kant, Rousseau, Voltaire, e in generale tutti i
philosophes.
__Conviene a questo punto insistere su un altro elemento, anch’esso di
grande importanza: una delle spinte principali di questa campagna che
continua ben oltre la fine della Seconda guerra mondiale è l’attacco sfer
rato in nome di un certo liberalismo. Un liberalismo opposto aH’Illumi-
nismo poteva ancora avere un senso e una funzione importante fino alla
seconda metà dell’Ottocento, ma dal momento in cui, per effetto della
rapida industrializzazione del continente europeo e della nazionalizza
zione delle masse urbane, emerge una nuova società, il liberalismo antil-
luminista - spesso seducente, perché la sua nocività non è sempre evi
dente - mettendo in discussione la capacità dell’individuo di essere pa
drone del mondo in cui vive, indebolisce la stessa possibilità di soprav
vivenza della democrazia.
Questa campagna contro rilluminismo è molto più sofisticata e più
sfumata di quella dei nemici classici, apertamente autoritari, del XVIII se
colo ma, ponendosi come obiettivo la distruzione della visione atomistica
della società, preannuncia già la nascita del comunitarismo. Contrariamen
te a quanto si pensa oggi in certi ambiti comunitaristi americani, la corre
zione del liberalismo col comunitarismo si è tradotta, nel corso del X X se
colo, in una diminuzione del liberalismo, o perlomeno del liberalismo co
me lo intendevano Constant, Tocqueville e Mili. Infatti il pluralismo dei va
lori che ne è la bandiera conduce necessariamente verso il relativismo. La
guerra fredda e il pericolo staliniano hanno provocato un massiccio ritorno
della critica aU’Illuminismo e alla Rivoluzione francese di Burke e Taine e
una rifioritura dei vecchi temi antilluministi maturati e sviluppati nell’Ot
tocento. Un corollario dell’antirazionalismo è il relativismo: esistono così
un relativismo nazionalista, un relativismo fascista e un relativismo liberale.
23
Introduzione
Quest’ultimo è quello di Isaiah Berlin, che nella seconda metà del X X se
colo segue la linea di pensiero avviata da Herder, della quale l’opera di Mei-
necke costituisce, fra le due guerre, un riferimento imprescindibile.
. Certo, la conoscenza storica è aliena dai concetti degli inizi assoluti e
lo zelo storico ha provocato il deperimento delle figure fondatrici“1. Tut
tavia, se si dovesse assolutamente trovare una data precisa per il momen
to in cui si avvia la campagna contro i Lumi - quella che assumerà il si
gnificato conosciuto nei secoli X IX e X X - la scelta cadrebbe necessaria
mente sull’estate del 1774, quando il giovane Herder, per alzare una diga
contro l’influenza dellTlluminismo francese in Germania, compose in tre
settimane il suo Ancora una filosofia della storia (Auch eine Philosophie
der Geschichte), delineando così una seconda modernità. Perché proprio
a questo mira il giovane pastore luterano che prestava il suo servizio a
Biickeburg, in Westfalia, quando scaglia il primo attacco globale contro
tutto ciò che conta nel pensiero illuminista: in primo luogo contro De
scartes che, con il suo razionalismo, emancipa le scienze matematiche e
fisiche dalla teologia; contro Montesquieu, l’autore col quale deve misu
rarsi chiunque allora scriva di scienze umane; contro Rousseau e Voltai
re; ma anche, con altrettanto vigore, contro Hume, Robertson, Ferguson,
Iselin, Boulanger e D ’Alembert, per nominare solo gli autori citati diret
tamente o chiamati in causa indirettamente e allusivamente in questo
pamphlet di non comune importanza sotto ogni punto di vista.
II bersaglio principale e immediato è Voltaire, che ha appena conia
to il concetto di «filosofía della storia» o, se si vuole, un modo filosofico
di pensare la storia. Ma, con lui, anche Montesquieu è messo in discus
sione altrettanto duramente e questo a prima vista potrebbe sorprende
re, tenendo conto di alcuni obiettivi che Herder si pone. E tutta la mo
dernità razionalista a essere presa di mira, attraverso gli autori francesi e,
con loro, praticamente tutti i grandi storici e pensatori illuministi ingle
si. Una decina di anni dopo il pamphlet di Biickeburg si apre la polemi
ca con Kant, che suggella simbolicamente la grande divisione tra i due
rami della modernità: la modernità portatrice di valori universali, della
grandezza e autonomia dell’individuo padrone del suo destino, una mo-14
14. Hans Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, trad. di Cesare Marelli, Ma
rietti, Genova 1992, p. 507.
24
introduzione
dernità che vede la società e lo Stato come strumenti nelle mani dell’in
dividuo, avviato alla conquista della libertà e della felicità; e la modernità
comunitaria, storicista, nazionalista, una modernità per la quale l’indivi
duo è determinato e limitato dalle origini etniche, dalla storia, dalla lin
gua e dalla cultura. Per Herder l’uomo è quello che hanno fatto di lui i
suoi antenati, la «zolla» (Erdscholle) nella quale essi sono seppelliti e dal
la quale lui stesso è nato; non sono le buone istituzioni e le buone leggi
che plasmano gli uomini, non è la politica che li modella: la politica è
esterna all’uomo, è la cultura che ne costituisce l’essenza.
__ Alla fine del decennio segnato nella vita intellettuale dallo scontro
tra Kant ed Herder, il maestro e l’allievo, in branda crolla VAncien Re
gime e la frattura tra i due rami della modernità diventa una realtà stori
ca. Quando il pensiero degli Illuministi franco-kantiani viene tradotto in
termini concreti dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo, dopo che era
stata formulata, in condizioni meno drammatiche ma in termini altret
tanto chiari e fermi, anche nelle colonie inglesi d’America, Edmund
Burke diffonde le sue Riflessioni sulla Rivoluzione francese. Questo gran
de pamphlet è preceduto da A Vindication of Naturai Society del 1756 e
dalYInchiesta sul Bello e il Sublime del 1759. Fin dagli esordi della sua at
tività politica e intellettuale, l’autore delle Riflessioni sulla Rivoluzione
francese definisce l’Illuminismo come uno spirito che nutre un movi
mento di cospirazione intellettuale il cui obiettivo è la distruzione della
civiltà cristiana e dell’ordine politico e sociale da essa creato. Secondo lui
infatti l’essenza dell’Illuminismo consiste nell’accettare come unico prin
cipio quello per cui la ragione è il solo criterio di legittimità di qualsiasi
istituzione umana. La storia, la tradizione, il costume, l’esperienza non
possono pretendere di rivestire il ruolo della ragione. Sapendo che que
sta critica da sola non potrebbe valere, Burke aggiunge che la capacità di
una società di garantire ai suoi membri una vita decente non basta più
agli Illuministi e non può più legittimare tale società. Per loro una vita
decente non è sufficiente: esigono la felicità, in altri termini l’utopia. Co
me Herder, nello stesso momento e indipendentemente da lui, Burke ne
ga alla ragione il diritto di mettere in discussione l’ordine esistente. I di
ritti dell’uomo, proprio come l’idea secondo la quale la società è un pro
dotto della volontà dell’individuo ed esiste solo per garantire il suo be
nessere, sono una chimera pericolosa, una vera rivolta contro la civiltà
cristiana. Ciò che esiste è stato legittimato dall’esperienza, dalla saggezza
25
\ntrodiaione
collettiva, e possiede una ragione d ’essere che può non essere chiara in
ogni momento per ciascun individuo ma è il frutto della volontà divina
presente nella storia. Per questo l’ateismo è un altro modo di distrugge
re la civiltà. Una società esiste solo tramite la venerazione della storia, il
rispetto della Chiesa costituita e delle sue élite: sostituire le élite in cari
ca con nuovi elementi, distruggere un sistema politico legittimato dall’e
sperienza e da una tradizione più che secolare, abbattere la potenza del
la Chiesa, può essere paragonato alla conquista di un paese civilizzato da
parte dei barbari. Ecco perché, per garantire la continuità di ciò che esi
ste, conviene adoperare la forza; e la difesa dei privilegi è la difesa della
civiltà. In altri termini: tutto è legittimo, tutto è permesso, tutti i mezzi
sono buoni per abbattere la rivoluzione in Francia. Devono essere mo
bilitate tutte le forze dello Stato britannico per fermare questa rivolta
contro tutto ciò che è e deve restare sacro.
Vero pioniere del principio della guerra ideologica, Burke inventa in
effetti il concetto di «contenimento», in voga durante la guerra fredda.
Burke aveva sperimentato in America il processo di containment, che si
sarebbe poi applicato al blocco sovietico: costruire una diga intorno alle
pretese dei coloni di tradurre in termini concreti, staccandosi dalla ma
drepatria, i loro diritti naturali e proseguire così la Rivoluzione inglese del
1689 diventava l’obiettivo principale per contenere il male in contrade
lontane e impedire il suo arrivo in Europa. Quando però quella stessa ri
voluzione illuminista scoppia in Francia, il contenimento non può più ri
spondere ai bisogni del momento: alle porte dell’Inghilterra, nel cuore
della civiltà occidentale, bisognava rispondere con una guerra a oltranza.
E per questo che il grande parlamentare britannico non appare tanto
come il fondatore di un conservatorismo liberale - nella tradizione tory o
nella sua versione continentale - ma come il precursore di quell’atteggia
mento che ai giorni nostri ha preso il nome di neoconservatorismo. I libe
rali conservatori autentici come Tocqueville o Acton in Inghilterra o, più
vicino a noi, Leo Strauss o Raymond Aron, temevano la forza corruttrice
del potere. Essi erano gli eredi di Montesquieu e di Locke e se si rivolge
vano innanzitutto aìYEsprit des lois, dovevano molte delle loro idee al Se
condo trattato: il loro grande obiettivo era di garantire la libertà con il fra
zionamento del potere e con lo sviluppo della capacità dell’individuo a te
nere testa al potere. Invece i sostenitori del neoconservatorismo sono affa
scinati dalla forza dello Stato: il loro scopo non è limitarne l’intervento, né
26
Introduzione
27
Introduzione
poi in Francia all’indomani del 1848 e poi del 1870. Il secondo Bill of
Rights inglese del 1867, la Comune di Parigi, la costituzione della Terza
Repubblica annunciano l’avvento di Calibano. In questo contesto pren
de forma una riflessione sul venir meno della civiltà occidentale e della
sua eredità medievale, una civiltà organica, comunitaria, intrisa di timor
di Dio, in preda alla decadenza democratica e aU’influenza del «mate
rialismo». Le grandi linee che orientano allora la critica della modernità
razionalista sono fissate per un secolo e mezzo. Carlyle e Taine hanno
scritto la storia di questa lunga caduta; con Renan, essi propongono
un’analisi del male e dei rimedi: sradicare l’idea dell’onnipotenza del
l’individuo, ricostituire comunità organiche, porre fine alla farsa del suf
fragio universale e dell’eguaglianza. Le loro opere rappresentano altret
tante riflessioni sulla decadenza della Francia, il cui spirito non può non
ricordare quello del Giornale di viaggio 1769, che Herder aveva riporta
to da Parigi. La Francia è sempre l’incarnazione di una cultura raziona
lista figlia dei Lumi, rósa dalle velleità democratiche e dall’eredità di
Rousseau. Queste riflessioni vengono fatte mentre l’Europa si trova al
l’apice della sua potenza; la Francia sta creando il secondo impero colo
niale del mondo e l’eguaglianza vi si insedia come mai prima e come da
nessun’altra parte. Anche Herder e Burke si erano dedicati alla deca
denza della Francia proprio nel momento in cui essa stava per dare al
mondo una lezione di vitalità fuori del comune: questo perché per i ne
mici dell’Illuminismo, in un mondo che adotta il razionalismo, l’univer
salismo e l’idea del primato dell’individuo come norme di comporta
mento, la decadenza è inevitabile.
Tuttavia se il X IX secolo, nella sua fase di maturità, conserva ancora
una certa ambivalenza, non è più così durante i suoi ultimi due decenni.
In un nuovo contesto sociale e politico, mentre l’industrializzazione mu
ta velocemente la faccia del continente, il rifiuto dellTlluminismo esplo
de con una energia fino ad allora sconosciuta. Non è la Grande Guerra,
come si sostiene spesso, che segna l’inizio del X X secolo. Esso nasce
quando, in un mondo che cambia a un ritmo impensabile solo vent’anni
prima, appaiono contemporaneamente nuovi stili di vita, tecniche e tec
nologie innovative, e quando crescita economica, democratizzazione del
la vita politica e istruzione obbligatoria diventano una realtà, mentre per
la generazione precedente erano solo chimere. Il nuovo secolo si insedia
definitivamente quando il rifiuto deH’Illuminismo diventa un fenomeno
28
Introduzione
15. Friedrich Meinecke, Die Enstebung des Historismus, R. Oldenbourg Verlag, Mün
chen 1959 [Le origini dello storicismo, trad, di M. Biscione, C. Gundolf, G. Zam
boni, Sansoni, Firenze 1973]. Il termine historismus fu usato per la prima volta nel
1797 da Friedrich Schlegel e da subito acquisì un significato vicino a quello che
avrebbe preso in seguito. Nel 1857 un lavoro su Vico vedeva l’elemento essenzia
le di una visione storicista nell’idea esaminata sopra, secondo la quale gli uomini
non conoscerebbero altra realtà che la storia. La riflessione sullo storicismo conti
nuò per tutto l’Ottocento e l’inizio del X X secolo e culminò con Meinecke. Per i
diversi significati che assume questo concetto e anche per la sua storia si veda un
articolo che fornisce anche una vasta bibliografia: Georg G. Iggers, «Historicism:
The History and Meaning of the Term», journal of the History o f Ideas, voi. 56 (1),
1995, pp. 129-152. Di Iggers si consulti anche The German Conception of History:
the National Tradition of Historical Thought from Herder to the Present, Wesleyan
University Press, Middletown 1983 (prima edizione 1968).
29
Introduzione
16. Meinecke, Die Entstehung des Historismus, p. 2: «Der Kern des Historismus be
steht in der Ersetzung eine generalisierenden Betrachtung geschichtlich - mensch
licher Kräfte durch eine individualisierende Betrachtung». Si veda anche la ver
sione inglese: Historism. The Rise o f a New Historical Outlook, trad, di J.E. An
derson, pref. di Isaiah Berlin, Routledge and Kegan Paul, London 1972, p. LV:
«The essence o f historism is the substitution o f the process o f individualising ob
servation for a generalising view o f human forces in history». Si vedano anche le
pp. 2-4 (pp. LVI-LVII della traduzione inglese) [Le origini dello storicismo, pp.
X e X XI],
30
Introduzione
17. Meinecke, Die Entstehung des Historismus, pp. 2-4 (pp. LVTLVII della tradu
zione inglese) [Le origini dello storicismo, pp. X-XII].
18. Max Rouché, La Philosophie de l’histoire de Herder, Société d’Editions Les Bel
les Lettres, Paris 1940, p. 583.
31
Introduzione
32
Introduzione
33
Introduzione
totale dei loro fondamenti e principi19. A volte sembra che Berlin non
fosse del tutto consapevole della portata del proprio pensiero o della
portata della linea di pensiero iniziata da Herder. Ipnotizzato dalla guer
ra fredda, si scaglia all’attacco di Rousseau, poi dell’idea di libertà «p o
sitiva» per scrivere, in nome del pluralismo, un vibrante elogio della li
bertà «negativa». In una serie di lavori, in particolare quelli che furono
pubblicati in Controcorrente e in II legno storto dell’umanità, egli rese un
servizio enorme a tutti gli odierni nemici del razionalismo e dell’univer-
salismo: prima dei postmoderni e in un contesto essenzialmente politico,
nonostante il fatto che il suo pensiero non sia monolitico e che abbia an
zi molte ambiguità, prova come si possano contestare i fondamenti del
l’Illuminismo restando su posizioni liberali: nell’introduzione a Contro-
corrente, che chiede a Roger Hausheer di scrivere in nome suo, tutto è
esplicitato: Berlin considera i principi deH’Illuminismo francese come
fondamentalmente opposti a quelli di una giusta società. Inoltre la sua
interpretazione deH’Illuminismo riprendeva l’essenziale delle idee riba
dite di generazione in generazione dai tempi di Herder e Burke. Ai no
stri giorni questi stereotipi ritornano con forza nel neoconservatorismo.
Lo scontro permanente che oppone un insieme di idee ancorate ai
principi illuministi e un corpus ideologico che si considera come un’al
ternativa a esse è divenuto così una delle grandi costanti del nostro mon
do. Questo confronto può cambiare volto o dimensione, può esserne
privilegiato un aspetto piuttosto che un altro, ma dalla seconda metà del
XVIII secolo il rifiuto deirilluminismo appartiene al nostro orizzonte in
tellettuale e politico.
Qui bisogna sottolineare che molto spesso il peso dei pensatori di que
sta corrente si è fatto sentire solo diversi anni dopo la pubblicazione delle
loro opere maggiori. Tuttavia ognuno di loro ha avuto immediatamente un
grosso successo. Da Burke fino a Meinecke, passando per Taine, Renan,
Carlyle, Maurras, Barrès, Croce e Spengler, ognuno degli autori qui studia
ti è stato un autore di successo se non proprio un caposcuola riconosciuto.
E tutti, allo stesso tempo, si sono considerati come combattenti coinvolti in
uno scontro di civiltà. Da Herder e Burke, partiti in guerra contro la civiltà
19. Isaiah Berlin, lin toutes libertés: entretiens avec Ramin Jahanbegloo, trad. di G é
rard Lorimy, Fd. du Félin, Paris 1990. Si veda il nostro cap. 7.
34
Introduzione
36
Introduzione
37
Introduzione
Conviene ribadire ancora che, pur non essendo tutti sostenitori del
l’intera eredità dell’Ancien Regime, la maggior parte dei detrattori dell’Il-
luminismo, tranne forse Herder, ritiene che quella forma di organizzazio
ne sociale abbia avuto aspetti positivi e sufficienti per togliere ogni giu
stificazione alla Rivoluzione francese. Burke, che nelle sue Riflessioni sul
la Rivoluzione francese mostra un paese prospero e tutto sommato felice,
governato da un re bonario e preoccupato del benessere dei suoi sudditi,
stabilisce la linea argomentativa per due secoli: se anche non raggiunge la
perfezione, l’ordine esistente permette comunque di condurre una vita
decente, o in altri termini una vita civile. La permanenza della civiltà oc
cidentale, la grande civiltà cristiana, è garantita solo se la realtà non è le
sa in quello che ha di essenziale. Tuttavia i nemici dellTlluminismo, non
lo ripeteremo mai abbastanza, non vivono rivolti al passato. Non mostra
no nostalgia per il passato prossimo ma per una storia altamente selettiva
e molto spesso, perlomeno fino all’inizio del X X secolo, per la cultura or
ganica del Medioevo cavalleresco e cristiano come lo vedono loro.
La scelta degli autori qui analizzati attiene alla loro influenza diretta e
immediata sulla vita intellettuale del loro tempo e dal carattere rappresen
tativo ed emblematico delle loro opere. Al centro di questo lavoro si tro
vano proprio le figure ambigue, quelle che non sono tutte di un pezzo e
sfuggono così alle categorizzazioni facili. «Spettatori coinvolti», non si pre
sentano in bianco e nero e sono per questo i più interessanti e i più signi
ficativi20. Alcune loro opere mostrano un’evidente duplicità, frutto di con
traddizioni che dipendono dall’evoluzione delle persone e dall’influenza
degli eventi. A volte essi stessi correggono le loro prese di posizione a di
stanza di qualche anno o decina di anni. Fra tutti questi autori si sono in
20. È per questo che oggetto principale di questo libro non sono i nemici classici
della Rivoluzione francese e della democrazia, le figure fatte tutte di un pezzo o
gli antiliberali famosi, nonostante il fatto che una visione d’insieme della nostra
problematica renda inevitabile la loro presenza. Tra molte altre opere importan
ti si possono consultare tre studi particolarmente pertinenti: Albert O. Hirsch-
man, Retoriche dell'intransigenza, trad, di Giovanni Ferrara degli Liberti, Il Mu
lino, Bologna 1991; Stephen Holmes, The Anatomy of Antiliberalism, Harvard
University Press, Cambridge (Mass.) 1993 [Anatomia dell’antiliberalismo, trad,
di Rodolfo Rini, Edizioni di Comunità, Milano 1995] e Richard Wolin, The Se
duction o f Unreason: the Intellectual Romance with Fascism from Nietzsche to
Post-Modernism, Princeton University Press, Princeton 2004.
38
Introduzione
tessuti dei legami duttili e insieme complessi. Sono tutti d’accordo nel ve
dere nell’azione l’esito del pensiero. Tutti si volgono al loro mondo non so
lo per comprenderlo e per imparare a viverci ma anche per cambiarlo, per
dirla con Marx. Per loro il pensiero rimane intimamente connesso all’a
zione; erano tutti intellettuali impegnati nel senso proprio del termine e
tutti avrebbero sottoscritto questa ammissione di Renan, fatta l’indomani
di Sedan: «Ci tengo particolarmente a evitare il rimprovero di avere rifiu
tato alle questioni del mio tempo e del mio paese l’attenzione dovuta da
ogni cittadino [...] Prima di proclamare che il saggio deve rinchiudersi nel
pensiero puro, bisogna esser sicuri che si sono esaurite tutte le possibilità
di far sentire la voce della ragione»21. A eccezione di Herder, che viveva in
un ambiente dove gli affari pubblici erano privilegio di un piccolo nume
ro di dignitari intorno al monarca, tutti gli altri erano affascinati dalla po
litica, in tutti l’attualità si innestava sulla riflessione storica e tutti sono
giunti alla politica attraverso la storia. Gli autori di cui ci occupiamo qui
sono contemporaneamente attori e osservatori. Nessuno di loro ha lascia
to un lavoro politico sistematico, ma hanno tutti prodotto opere di analisi
politica e di battaglia intellettuale scritte per incidere sul presente. Alcuni,
come Herder, Burke, Carlyle o Renan, pur pubblicando libelli scritti in
fretta, hanno nondimeno realizzato dei classici del pensiero politico.
Tuttavia, visto che le domande concrete che si posero tutti questi au
tori erano di interesse generale, le loro risposte dovevano assumere im
mediatamente un valore universale. Tutti erano non solo storici e critici
della cultura, «filosofi della storia», secondo la loro definizione, storici
delle idee, dell’arte, delle religioni o della letteratura, ma anche pubbli
cisti di fama e di talento, impegnati nella vita pubblica dei loro rispetti
vi paesi. Anche quando non furono uomini politici attivi per tutta la vi
ta, come Burke, uno dei primi grandi intellettuali divenuto un politico
professionista, vi si dedicavano di tanto in tanto. Come Barrès, deputa
to a Parigi, come Croce, che fu deputato, senatore e ministro negli anni
Venti, come Renan, che si candidò con poca fortuna alle elezioni politi
che per due volte, nel 1863 e nel 1871. Quando scrivevano del passato,
39
Introduzione
22. Keith Michael Baker, «O n the problem of the Ideological Origins of the French
Revolution», in Dominick LaCapra e Steven L., Kaplan, Modern European Intel
lectual History. Reappraisals and New Perspectives, Cornell University Press,
Ithaca 1982, a p. 207 cita Daniel Roche, Le siècle des Lumières en province.
Académies et académiciens provinciaux, 1680-1789, Mouton, Paris 1978, t. I, p.
206. Si veda anche, dello stesso autore, La France des Lumières, Fayard, Paris
1993, e L’Illuminismo: dizionario storico, a cura di Vincenzo Ferrane e Daniel
Roche, Laterza, Roma-Bari 1997.
40
Introduzione
attenzione. Per lo storico delle idee che si dedica oggi alla loro opera, es
sa costituisce certo materiale di prima mano, ma allo stesso tempo ognu
no di essi è interprete del pensiero dei predecessori, storici delle idee, cri
tici della cultura, filosofi politici e anche pubblicisti di fama. E un feno
meno interessante in sé e non privo di significato che tutti questi autori,
da Burke a Herder fino a Berlin, prendano spesso di mira una caricatura
dell’Illuminismo e non quello che è in realtà; ma di questori occupere
mo piu avanti. Si sa che gli studi sulle influenze sono tra i più complessi
che esistano. In questo caso però le cose sono relativamente semplici:
Taine scrive molto su Burke e Carlyle, Meinecke dedica lunghe analisi a
Burke e un centinaio di pagine a Herder e risponde a Cassirer senza no
minarlo, Renan vede in Herder il più grande filosofo venuto al mondo
dopo Platone, Carlyle, affascinato dalla Germania, importa in Inghilterra
il pensiero del movimento Sturm und Drang del quale aveva fatto parte il
giovane Herder. Croce legge Vico con lo stesso entusiasmo di Meinecke
per Herder, e alcune formule usate per glorificare l’opera dell’autore del
la Scienza nuova e per denigrare l’Illuminismo si ritrovano vent’anni più
tardi nei lavori di Meinecke e poi nei saggi di Berlin. Nel 1895 George
Sorel pubblica un lungo studio su Vico che precede di oltre quindici an
ni quello di Croce. Tra i fondatori italiani delle scienze sociali, che si ispi
rano anche a Croce e che saranno tra i più acerrimi nemici del XVIII se
colo, non si contano i debiti nei confronti di Taine. Berlin scrive con ana
logo entusiasmo su Vico, Herder e Meinecke, attaccando allo stesso mo
do rilluminismo francese e, con la sua versione del loro pensiero, ag
giungendo un nuovo anello alla cultura politica antilluminista.
41
Introduzione
42
Introduzione
27. Mi permetto qui di rimandare alla mia Introduzione alla nuova edizione di Ni
droite ni gauche. L’idéologie fasciste en France, Fayard, Paris 2000.
28. Roger Hausheer in Isaiah Berlin, Controcorrente. Saggi di storia delle idee, a cu
ra di Henry Hardy, intr. di Roger Hausheer, trad. di Giovanni Ferrara degli
Liberti, Adelphi, Milano 2000, p. XXIII.
43
Introduzione
dal nazismo, negli anni Trenta ebbe inizio e continuò per tutto il dopo
guerra un vero rinnovamento intellettuale, che fu anche un esame di co
scienza. Questa riflessione sul disastro europeo fu spesso incentrata su
un profondo interrogativo circa lo storicismo o, in altri termini, sul si
gnificato che il rifiuto dei valori universali può avere per un’intera civiltà.
La storia delle idee vedeva così uno sviluppo notevole un po’ ovunque,
eccetto in Francia.
Bisogna ancora dire che sottovalutare la forza delle idee è un erro
re non soltanto comodo ma anche molto comune. Le idee spingono
l’uomo all’azione e, anche se si trattasse solo della razionalizzazione del
le pressioni psicologiche o sociali o dei processi economici, le costru
zioni intellettuali assumono rapidamente una propria potenza e diven
gono forze politiche autonome. E difficile capire come la sola forza de
gli eventi avrebbe potuto produrre quei fenomeni senza precedenti
quali furono in primo luogo la Rivoluzione francese e poi le rivoluzioni
del Novecento.
In Francia, contrariamente a quanto succede nel mondo anglofono
o nella sfera d’influenza della cultura tedesca, la storia delle idee non ha
mai acquisito un vero diritto di cittadinanza, e questa discussione con
temporaneamente concettuale e storica appare spesso evitata. L’ho già
ribadito altrove: quando il weberiano Aron scrisse un bel libro sulla sto
ria delle idee, ritenne utile, per essere preso in considerazione, intito
larlo Le tappe del pensiero sociologico. Bisognerà poi attendere il 1966
perché Fayard pubblichi la traduzione del grande libro di Cassirer su
La filosofia dell’Illuminismo, uscito in lingua originale nel 1932. Del re
sto, il famoso lavoro di Arthur O. Lovejoy, The Great Chain o f Being,
considerato nel mondo anglofono il fondamento della storia delle idee
come disciplina universitaria autonoma, non è mai stato tradotto in
Francia29.
29. Arthur O. Lovejoy, The Great Chain of Being: A Study in the History of an Idea,
Harper Torchbooks, New York 1965 [La grande catena dell’essere, trad, di Lia
Formigari, Feltrinelli, Milano 19661. Si vedano l’introduzione e in particolare le
pp. 21-29. La prima edizione di questo lavoro risale al 1936. Nel gennaio 1940 Lo
vejoy fondò il notissimo Journal o f the History of Ideas. Sulla personalità di Lovejoy
si veda Gladys Gordon-Bournique, «A.O. Lovejoy and the “History of Ideas”»,
Journal of the History of Ideas, voi. 48, II, aprile-giugno 1987, pp. 209-210.
44
Introduzione
30. Lovejoy, The Great Chain of Being, p. 15: «The same idea often appears, someti
mes considerably disguised, in most diverse regions of the intellectual world» [La
grande catena dell’essere, p. 22].
31. Si veda il fascicolo di aprile-giugno 1987 del journal o f the History o f Ideas, voi.
48, II, e segnatamente l’articolo di Daniel J. Wilson «Lovejoy’s The Great Chain
of Being after Fifty Years», pp. 187-206. Si veda anche Thomas Bresdorff, «Lo-
vejoy’s idea of “Idea”», New Literary History, voi. 8, II, 1977, pp. 195-212.
45
Introduzione
46
Introduzione
47
Introduzione
«Ben pochi si innalzano sopra i costumi del tempo»’*4. Sono proprio que
sti uomini eccezionali che riescono a vedere oltre l’orizzonte e oltrepas
sare il loro momento storico. I problemi posti da Dante o san Tommaso
d ’Aquino non sono più i nostri. Questo non significa che il dibattito me
dievale sul conflitto latente o aperto fra i due poteri, quello spirituale e
quello temporale, sia privo di senso attuale. Le questioni di principio che
potevano essere sollevate dall’opposizione di Chiesa e Stato mantengo
no il loro significato, non fosse altro perché quei principi possono esse
re tradotti in termini che ci sarebbero familiari. Il pluralismo non è altro
che il primo di questi termini.
Tuttavia, ancora una volta, queste problematiche spariscono quan
do l’ambito della ricerca è limitato a un periodo che costituisce una ve
ra e propria unità di tempo storico. E il caso di quello che va dalla fine
del XVII secolo ai giorni nostri. E utile ricordarlo ancora, non fosse al
tro perché una delle grandi linee d’attacco contro l’Illuminismo passa
attraverso l’idea secondo la quale la Rivoluzione francese è stata un’e
splosione religiosa preparata da illuminati e condotta da fanatici, cre
denti convinti quanto gli uomini del Medioevo, partiti alla ricerca di ve
rità eterne e del paradiso terrestre. L’idea che la Rivoluzione presentas
se un carattere fondamentalmente religioso era tutt’altro che originale.
Lanciata a suo tempo da de Maistre, ripresa da Tocqueville, sviluppata
da Hippolyte Taine sotto il velo di una ricerca storica positivista, accre
ditata negli Stati Uniti negli anni Trenta dallo storico Cari Becker,
vent’anni dopo essa avrebbe entusiasmato la scuola totalitaria. Mentre
la guerra fredda era al culmine, avanzava l’idea secondo la quale l’uto
pia illuminista aveva partorito la Rivoluzione sovietica, poi lo stalinismo
e i gulag. Adorno e Horkheimer propendevano invece per una filiazio
ne tra Illuminismo e nazismo. Questo attacco, si sa, continua ancora og
gi sotto diverse forme. Per esempio, secondo Derrida, che usa questa
argomentazione contro Husserl, ci sarebbe solo un passo tra l’umanesi
mo, quale che sia, e il razzismo, il colonialismo e l’eurocentrismo. Nei
fatti, qualsiasi umanesimo coinciderebbe con una tendenza all’esclu-
34. Voltaire, Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni e sui principali fatti della sto
ria da Carlomagno sino a Luigi XIII, trad. di Marco Minerbi, CdL, Milano 1966,
4 voli., t. II, cap. 82, p. 360.
48
Introduzione
35. Alain Renaut, «Les humanismes modemes», in A. Renaut (a cura di), Histoire de la
philosophie politique, t. Ili, Lumières et Romantisme, Calmann-Lévy, Paris 1999, p. 45.
36. Cfr. Mark Bevir, che propone un’eccellente critica al contestualismo linguistico:
«The Errors of Linguistic Contextualism», History and Theory, 31 (8), 1992, pp.
276-298. Dello stesso autore si veda anche The Logic o f the History o f the Ideas,
Cambridge University Press, Cambridge 1999. Si veda inoltre John E. Toews,
«Intellectual History after the Linguistic Turn», American Historical Review, voi.
92, IV, 1987, pp. 879-907; Anthony Padgen, «Rethinking the Linguistic Turn:
Current Anxieties in Intellectual History», Journal of the History of Ideas, voi.
49, III, 1988, pp. 519-530.
37. Per il problema della storia delle idee contro la storia culturale, qui non affronta
to, cfr. Nancy J. Christie, «From Intellectual to Cultural History: The Comparati
ve Catalyst», Journal of History and Politics, voi. 6,1988-1989, pp. 79-100. Riguar
do all’importanza dell’«archeologia del sapere» per lo storico si veda, tra gli altri,
Larry Shiner, «Reading Foucault: Anthi-Method and the Genealogy of Power-
Knowledge», Llistory and Theory, voi. 21, III, 1982, pp. 382-397; Jeffrey Weeks,
«Foucault for Historians», History Workshop Journal, voi. 14, 1982, pp. 106-119.
49
Introduzione
38. Quentin Skinner, «Some problems in the Analysis of Political Thought and Ac
tion», in ). Tully (a cura di), Meaning and Context: Quentin Skinner and His Cri
tics, Polity Press, Cambridge 1988, p. 106.
39. Quentin Skinner, «Meaning and Understanding in the History of the Ideas», Hi
story and Theory, 8, 1969, pp. 49-53. Si veda anche Dominick LaCapra e John P.
50
Introduzione
Diggins, «The Oyster and the Pearl: The Problem of Contextualism in Intellec
tual History», History and Theory, vol. 23, II, 1984, pp. 151-169; «Rethinking In
tellectual History and Reading Texts», History and Theory, vol. 19, II, 1980, pp.
245-276; Eric Miller, «Intellectual Discourse after the Earthquakes: a Study in
Discourse», History Teacher, vol. 30, III, 1997, pp. 357-371; due articoli di D o
nald R. Kelley, «Horizons of Intellectual History: Retrospect, Circumspect, Pro
spect», journal of the History of Ideas, vol. 4 8 ,1, 1987, pp. 143-170 e «What is
Happening to the History of Ideas», journal of the History of Ideas, vol. 51, I,
1990, pp. 3-25.
51
Introduzione
40. Sul concetto di epoca, si veda Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, p. 499.
52
Introduzione
41. Un altro problema, quello doloroso e vergognoso della schiavitù nel Sud o della
discriminazione istituzionalizzata fino agli anni Sessanta del Novecento, non può
essere affrontato qui.
53
Introduzione
54
Introduzione
55
Introduzione
Tutti questi autori erano coscienti del carattere storico delle loro
idee, ma allo stesso tempo tutti ponevano questioni fondamentali sulla
natura umana o sulla vita dell’uomo in società e cercavano di delineare
una buona società. Tutti intendevano andare oltre il loro contesto im
mediato e tutti erano consapevoli di affermare un certo numero di verità
fondamentali, di «principi eterni» e non si sentivano schiavi di paradig
mi: il fatto che alcuni scrittori contemporanei ricoprano questi termini di
sarcasmo non cambia nulla alla realtà. Tutti volevano interrogarsi sulla
nascita e la caduta delle civiltà e non esitavano a porsi in una prospetti
va lunga venticinque secoli dialogando con Platone.
In questa riflessione sulle sorti delle civiltà si fa strada, all’inizio del
Novecento, l’idea che l’Illuminismo non appartenga solo al Settecento e
che in effetti sia una forma di civiltà che dall’Atene di Pericle fino alla
Cina di Confucio, appartiene alle fasi di decadenza, quando i miti spari
scono e si afferma il regno della ragione. Il pensiero illuminista può dun
que essere ritrovato in ogni tempo e in ogni luogo nel mondo e rappre
senta una minaccia permanente per la cultura bene intesa.
56
CAPITOLO 1
57
Lo scontro delle tradizioni
1. Thomas Paine, l diritti dell’uomo e altri scritti politici, a cura di Tito Magri, trad,
di Marina Astrologo, Editori Riuniti, Roma 1978, p. 143.
2. Si veda Tilo Schabert, «Modernity and History I: What is Modernity?», in The
promise of History: Essays in Political Philosophy, Walter de Gruyter, Berlin e New
York 1986, pp. 9-21.
58
Lo scontro delle tradizioni
dernità continua dal XII al XVIII secolo. Questo perché, come ha mo
strato Jiirgen Habermas, l’idea di modernità si ritrova ogni volta che in
Kuropa si prende coscienza di un’epoca nuova3. La scuola detta di Char-
tres, con Bernardo di Chartres e Giovanni di Salisbury, sviluppa l’idea
secondo la quale gli antichi erano dei «giganti» sulle cui spalle stavano
dei «nani», ma, grazie alla loro posizione, i nani potevano vedere più
lontano degli antichi. Nel XVI secolo il dibattito oppone due schiera-
menti ben definiti: con Rabelais, Giordano Bruno e Jean Bodin, con
Francis Bacon all’inizio del secolo successivo, i moderni non temono più
di affermare la propria superiorità45.
Di fronte si erge lo schieramento degli antichi: in un bel capitolo dei
suoi Essais, giustamente intitolato «Della consuetudine e del non cam
biare facilmente una legge accolta», dopo avere evocato i grandi nomi
dei tempi antichi, da Socrate e Platone a Ottavio e Catone, Montaigne
proclama: «La novità mi disgusta, sotto qualsiasi aspetto si presenti, e ho
ragione, perché ne ho veduti effetti molto dannosi. [...] Ma anche il mi
glior pretesto per un’innovazione è molto dannoso: adeo nibil motum ex
antiquo probabile est»?.
A metà del XVII secolo Pascal assume una posizione di compromes
so in quello che sembra l’ultimo sforzo per salvare il salvabile dell’auto
rità degli antichi6. Tuttavia diventa sempre più difficile mantenere questo
complesso equilibrio, man mano che un numero crescente di europei si
convince che i capolavori di Corneille, Racine e Molière, di Poussin,
Charles Le Brun e Claude Perrault erano ben altro che una semplice imi
tazione degli Anciens. Per molti il secolo di Luigi XIV non era inferiore
59
Lo scontro delle tradizioni
7. Si veda Charles Perrault, Parallèle des Anciens et des Modernes en ce qui regarde
les Art et les Sciences, Eidos Verlag, Munich 1964, pp. 165-171 (fac-similé dell’e
dizione del 1688).
8. Fénelon, «Reflexions sur la Grammaire, la Rhétorique, la Poétique et l’Histoire
ou Mémoire sur les travaux de l’Académie française à M. Dacier», in Œuvres, II,
a cura di Jacques Le Brun, Gallimard, Paris 1997, p. 1197. Il titolo consueto con
cui questo testo è universalmente noto è «Lettre à l’Académie». In appendice a
questo volume si trovano le prime due versioni di quel testo, che ebbe innume
revoli edizioni (pp. 1199-1237). In una prima versione Fénelon osserva che «la
guerra civile déiVAcadémie» può avere effetti benefici permettendo un certo per
fezionamento del gusto. Se egli teme per «gli autori pieni di talento e delicatezza
che oseranno abbandonare e disprezzare gli Anciens», non è perché chiede loro
di inchinarsi a essi. Al contrario: «Mi auguro che li superino, ma credo che si
debba imparare a superarli dagli stessi Anciens, posto che vi si possa riuscire» (p.
1225). Si veda anche p. 1220: «D a parte mia vorrei che i Modernes superassero
tutti gli Anciens».
9. Ibid., p. 1191. Si veda anche p. 1224: «Abbiamo solo un numero molto piccolo di
autori eccezionali tra i greci e i latini. Ne abbiamo di eccellenti in diversi generi
nel nostro secolo e nella nostra nazione».
60
Lo scontro delle tradizioni
61
Lo scontro delle tradizioni
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Lo scontro delle tradizioni
15. Paul Hazard, La crisi della coscienza europea, a cura di Paolo Serini, Il Saggiato
re, Milano 1968, 2 voli.
63
Lo scontro delle tradizioni
64
Lo scontro delle tradizioni
65
Lo scontro delle tradizioni
prima di lui, tutti gli uomini, chiunque essi siano, appartengono a que
sto mondo umano che è la storia concepita come perfettibilità.
Fontenelle, una delle bestie nere di tutti i nemici dei Lumi, come
Georges Sorel all’inizio del Novecento, che vedono in lui il simbolo del
male, esprimerà prima di Kant e di Rousseau la magnifica fiducia in se
stesso dell’uomo moderno. Gli uomini sono gli stessi in ogni tempo e in
ogni luogo: «In virtù di che cosa il cervello di allora avrebbe dovuto es
sere meglio organizzato?» Non è forse chiaro che «la natura ha tra le ma
ni una certa pasta che è sempre la stessa, e che gira e rigira incessante
mente in mille modi»? «I secoli non producono alcuna differenza natu
rale tra gli uomini. [...] Eccoci dunque tutti perfettamente eguali, anti
chi e moderni, greci, latini e francesi.»20 Gli Anciens non hanno fatto al
tro che precedere i Modernes nel tempo, e questo crea l’illusione che es
si abbiano inventato tutto. Al loro posto, i Modernes sarebbero giunti
agli stessi risultati. Ma, nei fatti, i Modernes sono giunti a risultati mai ot
tenuti dagli Anciens. Questi non avevano solo pregi, anzi: colmi di difet
ti e debolezze, hanno «utilizzato la maggior parte delle idee false che si
potevano produrre. Era assolutamente necessario pagare all’errore e al
l’ignoranza il tributo che essi hanno pagato». Quello che, secondo Fon
tenelle, mancava indubbiamente agli Anciens era il metodo scientifico, o
ciò che egli definisce esattezza e rigore: «Non di rado deboli rapporti,
piccole somiglianze, fantasie poco solide, discorsi vaghi e confusi, ven
gono presi per dimostrazioni»21. I secoli passati non hanno avuto alcun
Descartes: grazie a questo balzo in avanti, in tutti i campi del sapere re
gna «una precisione e un’esattezza, fino a ora sconosciute»22. Ecco per
ché «essendo dunque illuminati dalle concezioni degli antichi, e dai loro
stessi errori, non è sorprendente che li superiamo»23. Le generazioni si
succedono e gli ultimi venuti saranno sempre superiori ai loro predeces
sori: «È evidente che tutto ciò non ha fine, e che gli ultimi fisici o mate
matici dovranno naturalmente essere i più abili»24. Il progresso delle co-
66
Lo scontro delle tradizioni
I
67
Lo scontro delle tradizioni
brutalità e barbarie dei costumi antichi e per concludere che «quei mo
numenti di crudeltà provano sufficientemente la superiorità della nostra
filosofia moderna su quella che ha potuto uniformarsi a tali abomini»’0.
Lo stesso quadro di barbarie ritorna in Volney che, in più, si prende gio
co dell’adorazione superstiziosa per i greci e i romani, dei quadri idillia
ci che dipingono la libertà e l’eguaglianza di cui essi avrebbero goduto,
quando invece Sparta e Roma erano oligarchie brutali che tenevano sot
to il loro giogo intere popolazioni di schiavi e di plebei parimenti mise
rabili. Lo stesso Chateaubriand sapeva che le antiche Repubbliche non
potevano nemmeno supporre l’esistenza della «libertà figlia dei lumi»3031.
Tuttavia, pur avendo una chiara coscienza della specificità del loro
tempo e facendo valere la consapevolezza della modernità, gli Illuministi,
proprio come i loro successori del X IX e X X secolo, non vedono la loro
epoca come «ultima e singolare». Senz’altro la loro era una grande epo
ca, ma il cammino in avanti non si sarebbe mai fermato. Spesso la storia
dell’Europa appare sotto forma di un vasto movimento di preparazione
dei tempi moderni: l’esordio della democrazia può essere intuito già nei
presocratici. Ma non c’è nessuna «fine della storia»: nessuna epoca, nes
sun popolo può pretendere di avere raggiunto l’optimum. Non c’è alcu
na linea di arrivo. Invece Burke considerava il suo mondo come la perfe
zione; con l’Inghilterra del XVIII secolo, secondo i suoi principi genera
li, si era raggiunto il massimo. Egli aveva pensato alla fine della storia due
secoli prima di uno dei suoi seguaci neoconservatori, Francis Fukuyama32.
E proprio a questa scuola di pensiero che appartiene l’idea della fine della
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Lo scontro delle tradizioni
69
Lo scontro delle tradizioni
l’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità
è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro.
[...] Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligen
za! E questo il motto deH’lluminismo»55. L’appello di Kant all’emancipa
zione del soggetto umano dagli intralci della storia e della religione è un
corollario della sua visione dei Lumi come un processo dinamico, un
continuo cammino verso un’autoemancipazione sempre più avanzata.
Questa visione ottimistica della storia è basata sul concetto del primato
dei diritti dell’uomo: sotto l’influenza di Rousseau, Kant comincia a con
siderare la libertà come il primo principio della morale, e la teoria del
contratto sociale gli appare ormai come la sola filosofia politica compa
tibile con una simile concezione della morale56. Kant ha sottolineato il
suo debito con Rousseau: «Rousseau mi ha corretto [...] Lio imparato a
rispettare gli uomini e mi sentirei all’improvviso più inutile di un comu
ne lavoratore se non credessi al tempo stesso che le mie osservazioni pos
sano rappresentare un valore per tutti, in grado di costruire diritti del
l’umanità»57. Egli vedeva nell’autore del Contrat social il Newton della
morale: «Rousseau fu il primo a scoprire, nella molteplicità delle forme
assunte dall’uomo, la sua natura profondamente nascosta»58.
Per Kant gli uomini del suo tempo non erano ancora padroni del lo
ro destino, non si erano ancora liberati dai pregiudizi e dalle superstizio
ni, ma, se l’età non era ancora illuminata, era già quella della ragione e
della critica. È proprio da questa critica razionale delle certezze e dei va
lori tradizionali che procede la teoria dei diritti naturali, il principio del35678
35. Kant, «Risposta alla domanda: che cos’è rilluminismo?», in Scritti di filosofia po
litica, a cura di Dario Faucci, trad. di Gioele Solari e Giovanni Vidari, La Nuo
va Italia, Firenze 1967, p. 25 (corsivo nel testo). Sulla critica di questo testo da
parte di Michel Foucault, si veda il suo «Q u ’est-ce que les Lumières?», in Ma
gazine littéraire, aprile 1993, pp. 62-74. Si veda anche Maurizio Passerin d’En-
trèves, Cntique and Enlightenment: Michel Foucault on «Was ist Aufklärung»,
Institut de ciències politiques i socials, Barcelone 1996.
36. F.C. Beiser, Enlightenment, Revolution and Romanticism. The Genesis o f Modem
German Political Thought, 1790-1800, Flarvard University Press, Cambridge
(Mass.) 1992, pp. 30-33, 37.
37. Kant, Annotazioni alle Osservazioni sul sentimento del hello e del sublime, a cu
ra di Maria Teresa Catena, Guida, Napoli 2002, p. 64.
38. Ibid., p. 80.
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Lo scontro delle tradizioni
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Lo scontro delle tradizioni
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Lo scontro delle tradizioni
sione delle cose, non quella degli uomini del XVIII secolo: uno come
Voltaire era convinto dell’imminenza della vittoria, prodotto naturale
della rivoluzione intellettuale di cui era testimone. Né i tempi, né le opi
nioni, né i costumi sono più gli stessi, «da circa cinquant’anni quasi tut
ta l’Europa ha cambiato aspetto»/7 scriveva nel 1763: non cera alcuna
ragione di ritenere che questo cammino potesse fermarsi. Kant, testimo
ne della Rivoluzione, si entusiasma per i fatti di Parigi. Il conflitto delle
facoltà, ultimo opuscolo pubblicato da vivo nel 1798, esprime l’ottimi
smo di una generazione che ha visto la libertà prevalere in America, VAn
cien Régime abbattuto, la Dichiarazione dei diritti dell’uomo proclama
ta a Parigi e certe tendenze liberali apparire persino in Prussia. «La ri
voluzione di un popolo ricco di spirito, rivoluzione che abbiamo visto
accadere ai nostri giorni, può riuscire o fallire; può essere [...] colma di
miserie e atrocità [...] questa rivoluzione, dico, trova però nell’animo di
tutti gli spettatori [...] una partecipazione, sul piano del desiderio, pros
sima all’entusiasmo [...] che può essere causata solo da una disposizio
ne morale intrinseca al genere umano.»4748 E Kant prosegue: i popoli avan
zano verso una «forma politica» basata sull’amministrazione dello «Sta
to, sotto l’unità del capo supremo (il monarca), secondo leggi analoghe
a quelle che un popolo darebbe a se stesso in base a principi giuridici
universali»4950.Ecco perché «anche senza il dono dello spirito profetico, io
ritengo di poter predire, in base agli indizi e ai segni premonitori dei no
stri giorni, che il genere umano raggiungerà questo fine e quindi, al tem
po stesso, che il suo avanzamento verso il meglio non sarà da qui in poi
del tutto impedito». La Rivoluzione francese è dunque il fenomeno che
attesta il cammino in avanti; «ha svelato una capacità e una disposizio
ne» inerenti alla natura umana: «Solo questo fenomeno poteva promet
tere d’unire nel genere umano, in base a interni principi giuridici, natu
ra e libertà». Nonostante tutto, persino le atrocità, «quell’avvenimento è
troppo grande [...] per non tornare [...] alla memoria dei popoli»’1.
47. Voltaire, Trattato sulla tolleranza, a cura di Lorenzo Bianchi, Feltrinelli, Milano
2003, p. 50.
48. Kant, Il conflitto delle facoltà, a cura di Domenico Venturelli, Morcelliana, Bre
scia 1994, p. 165 (corsivo nel testo).
49. Ibid., p. 169 (corsivo nel testo).
50. Ibid.,pp. 169-170.
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Lo scontro delle tradizioni
Non che questo progresso sia automatico, precisa Ruyssen. Mentre l’a
nimale si rimette passivamente alla legge della natura, nell’uomo natura
e libertà sono riunite. Per natura, gli uomini sarebbero tentati di com
portarsi come gli animali, come quelle «docili pecore guidate, nutrite e
validamente protette da un padrone buono e accorto». Ma «a un essere
dotato di libertà non basta infatti godere il comodo della vita»: egli può
accettare «per il popolo al quale appartiene, solo quel governo in cui il
popolo partecipa alla formazione delle leggi»51. Ormai la specie umana è
in stato di allerta; conosce la sua forza. Dopo di ciò la lezione da trarre
dalla filosofia della storia non è una promessa ma un appello, un’eco del
l’imperativo; invita l’essere ragionevole ad assumersi la responsabilità del
proprio destino52.
Il conflitto delle facoltà mette il punto finale all’appello lanciato nel
la sua Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo? uscita nel 1784.
Nel 1790 Kant scrive ancora: «La prima massima [pensare per se stessi]
è quella di una ragione che non è mai passiva. L’inclinazione alla passi
vità e di conseguenza all’eteronomia della ragione si chiama pregiudizio-,
il più grande di tutti consiste nel rappresentarsi la natura come se essa
non fosse sottomessa alle regole che l’intelletto le dà per fondamento
grazie alla propria legge essenziale, ed è la superstizione. La liberazione
dalla superstizione si chiama Illuminismo» ” . Il libero pensiero, il pensie
ro liberato, è quello autonomo, quello che è autorizzato solo dal tribu
nale del proprio intelletto, dice Françoise Proust, quello che si dà le sue
leggi da sé e riconosce come legittime solo le leggi naturali e morali che
gli fornisce la sua ragione. Questo è il senso che la parola «legge» assu
me nel Settecento: la legge è l’opposto dell’arbitrio poiché è universale e
permette di risolvere il problema posto da Rousseau: trovare una forma
di legame tale per cui si sia liberi pur essendo costretti a obbedirvi. Que
sto legame è la legge, alla quale l’uomo obbedisce liberamente perché è
la legge della sua ragione5'1. Questa arringa in difesa dei principi illumi-
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Lo scontro delle tradizioni
nisti era una splendida risposta a Herder e a Burke, e anche, senza che
Kant avesse mai sentito parlare di lui, a Vico.
Una restaurazione e due rivoluzioni più tardi, un altro liberale illumi
nato, Tocqueville, riassume ciò che per tutti gli Illuministi fu l’idea di li
bertà, agli antipodi di quella alla quale credeva Burke: «Secondo la con
cezione moderna, democratica e oserei dire giusta della libertà, ogni uo
mo che si presume abbia ricevuto dalla natura le cognizioni necessarie per
comportarsi, reca in sé dalla nascita un diritto eguale e imprescrittibile a
vivere indipendente dai suoi simili, per tutto quanto si riferisce alla sua
persona, e a decidere come meglio crede del proprio destino»55. E così che
Tocqueville riunisce i due aspetti dell’idea di libertà che Benjamin Con
stant, dopo Kant, aveva già esposto, che Burke aveva voluto ignorare e
che cento anni dopo Isaiah Berlin distinguerà56. In questo senso egli si pre
senta come un liberale autentico, un liberale dei Lumi, e così facendo pro
va che non esiste altro liberalismo se non quello legato ai principi illumi
nisti. Qualche riga più avanti Tocqueville traccia il quadro concettuale del
nazionalismo liberale: «L’idea per cui ogni individuo, e per estensione
ogni popolo, ha il diritto di guidare le proprie azioni, un’idea ancora oscu
ra, definita in modo incompleto e mal formulata, si introdusse a poco a
poco in tutti gli animi»57. Anni luce separano l’idea di nazione di Burke da
quella di Tocqueville. Per l’autore de LAncien Regime fu nel XVIII seco
lo che si produsse la trasformazione che avrebbe permesso l’emergere dei
concetti di libertà moderna, libertà individuale e libertà collettiva.
Contrariamente a Burke, secondo cui la rivoluzione in Francia na
sceva dalla rivolta contro la civiltà cristiana, Tocqueville si rende perfet
tamente conto della realtà del XVIII secolo. Esaminando, sessant’anni
dopo, i cahiers preparati dai tre ordini alla vigilia della convocazione de
gli Stati generali, quelli della nobiltà e del clero così come quelli del Ter
zo Stato, egli scopre, «quasi con terrore, che quanto si chiede è l’aboli
zione simultanea e sistematica di tutte le leggi e tutti gli usi vigenti nel
paese»58. Non è dunque la «cabala letteraria» parigina che ha la respon
75
Lo scontro delle tradizioni
sabilità dei fatti del 1789. Per Tocqueville questa rivoluzione in arrivo
non è il prodotto di una vasta cospirazione contro la civiltà cavalleresca
e cristiana, come pensa Burke, ma piuttosto delle realtà deil’Ancien Re
gime. Egli concentra la risposta in due capitoli di L’Ancien Regime et la
Revolution. 11 capitolo XII del secondo libro si intitola «Come, nono
stante i progressi della civiltà, la condizione del contadino francese fos
se talora peggiore nel XVIII secolo di quanto era stata nel XIII». Ecco
perché Tocqueville è spesso più vicino a Rousseau che a Burke, perlo
meno quando si tratta dei contadini deU’Ancien Regime e non degli ope
rai in rivolta del giugno 1848. Gran signore, egli capiva quel testo di
Rousseau che raccontava il suo incontro con un contadino al quale egli
aveva chiesto da mangiare: tale esperienza fu «il germe di quell’odio ine
stinguibile che poi mi si sviluppò nel cuore contro le vessazioni subite
dallo sventurato popolo e contro i suoi oppressori»59. Ecco qualcosa che
Burke, e dopo di lui Taine, accecati dall’odio per ITlluminismo francese
e per la Rivoluzione, non avevano nemmeno tentato di capire.
Nel capitolo successivo, primo del terzo libro, Tocqueville cerca di
capire «Come, verso la metà del secolo XVIII, i letterati divennero i prin
cipali uomini politici del paese, e quali conseguenze ne risultarono». Da
una parte, la loro stessa condizione li «disponeva a prediligere le teorie
generali e astratte in materia di governo e ad abbandonarvisi ciecamen
te», ma allo stesso tempo Tocqueville chiarisce che, pur non partecipan
do gli intellettuali francesi del XVIII secolo alla vita pubblica come in In
ghilterra, essi non restavano comunque estranei alla politica: «Si occupa
vano costantemente di materie attinenti al governo; era questa, a onor del
vero, la loro principale attività». In effetti sono queste le questioni fon
damentali oggetto del loro interesse: «Ogni giorno li si udiva dissertare
sull’origine della società e sulle loro forme primitive, sui diritti primor
diali dei cittadini e su quelli dell’autorità, sui reciproci rapporti, naturali
e artificiali, degli uomini, sui difetti o sulla legittimità delle consuetudini,
e sui principi stessi delle leggi. Addentrandosi di giorno in giorno fin nel
le stesse basi della costituzione del loro tempo, ne esaminavano con cu
riosità la struttura e ne criticavano l’assetto generale». E qui viene l’es
senziale: «Non a caso i filosofi del secolo XVIII avevano in genere con-
76
Lo scontro delle tradizioni
cepito nozioni tanto opposte a quelle che stavano ancora alla base della
società del loro tempo; tali idee erano state loro suggerite dalla visione di
quella medesima società che tutti avevano sotto gli occhi. Lo spettacolo
di tanti privilegi abusivi o ridicoli [...] spingeva, o meglio ancora faceva
simultaneamente precipitare l’animo di costoro verso l’idea di una natu
rale eguaglianza delle condizioni. Nel vedere tante istituzioni anomale e
bizzarre, frutto d’altri tempi, [...] era facile per quei filosofi ripudiare le
cose antiche e la tradizione». E questa società, la sola che sia veramente
stata una società bloccata, una società senza futuro, a far sì che gli uomi
ni di lettere francesi fossero «naturalmente sospinti a voler ricostruire la
società del loro tempo secondo un progetto totalmente nuovo, che cia
scuno di loro tracciava alla sola luce della propria ragione»60.
Ecco in che cosa consiste «la filosofia politica del secolo XVIII», di
ce Tocqueville, quando «si prescinde dai particolari per risalire alle idee
madri»: gli scrittori di quel tempo, quali che siano le loro differenze,
«pensano che convenga sostituire con regole semplici ed elementari, at
tinte alla ragione e alla legge naturale, le consuetudini complesse e tra
dizionali che reggono la società del loro tempo»61. Molto spesso lo stes
so Tocqueville appare come un uomo del XVIII secolo per il suo profon
do legame col razionalismo sperimentale. In UAncien Regime et la Re
volution egli dedica alcune pagine straordinarie all’elogio degli uomini
del 1789: «È l’89, tempo d’inesperienza senza dubbio, ma anche di ge
nerosità, di entusiasmo, di virilità e di grandezza, tempo di imperitura
memoria, verso il quale si volgeranno con ammirazione e rispetto gli
sguardi degli uomini, quando coloro che l’hanno visto e noi stessi sare
mo da tempo scomparsi». Tocqueville prosegue, con un brano il cui ri
lievo è evidente: «In quel momento i francesi si sentirono abbastanza fie
ri della loro causa e di se stessi da credere di poter essere uguali nella li
bertà. In mezzo a istituzioni democratiche introdussero quindi dapper
tutto istituzioni libere»62. Qui Tocqueville, che non viene praticamente
ricordato da Berlin, risponde in anticipo all’autore di Due concetti di li
bertà'. la libertà negativa significa difesa dell’individuo contro un’interfe-
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Lo scontro delle tradizioni
63. Ibid., p. 302. Nel campo «conservatore» sarà capace di un simile elogio solo il
giovane Renan, proprio all’inizio della sua carriera.
64. Ibid., pp. 299-300.
65. Ibid., p. 71.
66. Ibid., pp. 596-597. Si vedano anche le pp. 597-598.
78
Lo scontro delle tradizioni
79
Lo scontro delle tradizioni
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Lo scontro delle tradizioni
74. Ibid., p. 325. Se ne veda la traduzione francese, qui utilizzata per la scelta dei
brani, in appendice a Burke, Réflexions sur la révolution de Lrance, trad. de Pier
re Andler, présentation de Philippe Raynaud, annotation d’Alfred I ierro et
Georges Liébert, Hachette (coll. «Pluriel»), Paris 1989, pp. 467-603.
75. Ibid., pp. 288-289.
76. Ibid., p. 290.
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Lo scontro delle tradizioni
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Lo scontro delle tradizioni
81. Ibid., p. 318. Questo passo di Burke si trova in «Riflessioni sulla Rivoluzione
francese», in Scritti politici, a cura di Anna Mastelloni, Utet, Torino 1963, p. 256.
82. Ibid., p. 319.
83
Lo scontro delle tradizioni
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Lo scontro delle tradizioni
85
Lo scontro delle tradizioni
89. I primi scritti di Burke sono raccolti nel volume I, pubblicato nel 1997, di The
Writings and Speeches o f Edmund Burke, Clarendon Press, Oxford 1989-2000.
La pubblicazione di questa esemplare edizione scientifica (anche se a volte net
tamente apologetica su alcune questioni spinose come la tratta dei neri) sotto la
cura generale di Paul Langford, non è ancora terminata. Le citazioni di questa
edizione figureranno come «edizione di Oxford».
90. Si dispone ora di una traduzione recente in francese del primo volume: Recher
ches sur la Révolution française, traduction, annotations et introduction de Lukas
K. Sosoe, préface de Alain Renaut, Vrin, Paris 1998. Lo scritto di questo alto fun
zionario dello Stato di Hanover, pubblicato nel 1793, rappresenta l’equivalente
tedesco delle Riflessioni di Burke. Non ha mai potuto avere in Germania, presso
un pubblico già «burkizzato», come lo definisce Alain Renaut, il successo godu
to dal parlamentare britannico, e in Francia è rimasto praticamente ignoto. Non
86
Lo scontro delle tradizioni
c’è dubbio che il libro di Rheberg sia superiore a quello di Burke, abbia una
profondità che manca al pamphlettista britannico, ma non presenti vera origina
lità rispetto alle Riflessioni. Si vedano per esempio le pp. 99-104 (114-117 del ci
tato testo francese) sulla negazione dei diritti universali, del razionalismo, dell’e
guaglianza tra gli uomini, dell’idea di contratto, dell’autonomia dell’individuo e
delle generazioni rispetto a quelle precedenti o della possibilità di cambiare una
Costituzione a maggioranza. Dire che «la Dichiarazione francese è un’accozzaglia
di massime filosofiche molto approssimative» e che «contiene solo diritti del cit
tadino e per niente i doveri», affermare che «lo spirito metafisico si era impadro
nito di tutte le menti dell’Assemblea nazionale» (pp. 135-136), nel 1793, e ancor
più in seguito, non era una novità per i critici della Rivoluzione. Che la poca fa
ma di Rehberg rispetto alla gloria di Burke sia un’ingiustizia è sicuro, ma è pro
prio il successo di Burke (che per altro Rehberg non manca di citare), durato fi
no ai nostri giorni, che contribuisce all’oblio di tutti gli altri scritti dell’epoca ba
sati sugli stessi principi miranti a scalzare le fondamenta dei Lumi francesi.
91. Edmund Burke, «Ricorso dai nuovi agli antichi Whig», in Scritti politici, p. 523.
92. Burke, «Deuxième lettre, sur le génie et le caractère de la révolution française,
dans ses rapports avec les autres nations» (Deuxième lettre sur la paix régicide),
in Réflexions sur la révolution de France, p. 600.
93. Burke, «Riflessioni sulla Rivoluzione francese», in Scritti politici, p. 285.
87
Lo scontro delle tradizioni )
/
ma il suo incitamento alla forza per soffocare nel sangue il nuovo regime
francese, il suo messianesimo antirivoluzionario, il suo orrore per quella
«falsa filosofia» che aveva infettato la società fino alle persone eminenti
di questo mondo non sono affatto inferiori alla veemenza del diplomati
co savoiardo94. Ma per Burke la Rivoluzione non è il prodotto della vo
lontà divina, è l’operato degli «uomini cattivi», quegli intellettuali che di
struggono la religione, che scalzano la legittimità dell’ordine sociale tac
ciandolo di essere profondamente ingiusto; essa è il prodotto del falli
mento di una classe dirigente indebolita dalla prosperità come da una
falsa filosofia e dell’avanzata di un’altra classe sociale dagli oscuri dise
gni. Da una parte Burke fa un’apologià òdi!Ancien Regime non ripresa
nemmeno da critici dei Lumi e della Rivoluzione come Carlyle, Renan o
Taine ma che si ritroverà in de Maistre e in parte anche in Maurras: egli
vede nell’Europa degli anni precedenti la Rivoluzione francese la più
bella età della storia umana95. Non pensava, come Tocqueville, che la vi
ta del contadino francese nel XVIII secolo fosse più dura che nel Me
dioevo96. Però egli comprende il carattere conflittuale della società fran
cese e, come Carlyle, è consapevole della decadenza che caratterizza i
suoi ceti privilegiati.
Proprio Burke, il primo grande critico dell’intellettualismo, è stato
anche il pioniere della guerra totale, il primo a capire che si sarebbe po
tuto bloccare la filosofia dei Lumi solo se le si fosse opposta una con
trofilosofia altrettanto potente, poggiata su baionette tanto acuminate
94. Michael Freeman pensa a ragione che in un testo del 1795, Letter to William El-
lìot, Burke fornisca il miglior sunto del suo punto di vista sulle cause della Rivo
luzione in Francia. Si veda il suo «E. Burke and thè Sociology of Revolution»,
Politicai Studies 25 (4), 1977, p. 466. In effetti questo scritto riprende per som
mi capi ma in modo più sintetico tutte le argomentazioni già anticipate in modo
più diffuso nelle Riflessioni.
95. E. Burke, Letter to William Elliot, 26 May 1795, The Wrìtings and Speeches of
Edmund Burke (edizione di Oxford), voi. IX, p. 39. Questa lettera fu scritta in
risposta a una dura critica delle idee di Burke fatta dal duca di Norfolk ]’8 mag
gio 1795 alla Camera dei lord. Norfolk pensava che non solo le idee di Burke
«distruggevano i diritti costituzionali degli inglesi, ma erano diametralmente op
poste ai principi whig [che erano] i principi della Rivoluzione del 1688». Si ve
da il testo completo di queste lettere alle pp. 29-44.
96. Alexis de Tocqueville, E Antico regime e la Rivoluzione, p. 209.
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89
Lo scontro delle tradizioni
uomini. Per Burke, Rousseau, più che Voltaire, è il maître à penser degli
uomini che hanno messo le mani sulla Francia, perché «il vizio [...] è in
lui in tutto il suo splendore»97. Burke fustiga l’autore del Discours sur l’o
rigine de l’inégalité per avere messo in piedi una teoria dell’eguaglianza
sociale basata sulla sua concezione di libertà e gli rimprovera il ricorso a
un diritto naturale astratto staccato dal cristianesimo98. Sotto la sua in
fluenza è iniziata un’immensa rivoluzione che cambia i costumi, la poli
tica e la società. Sotto l’impatto del pensiero di Rousseau spariscono lo
spirito di cavalleria e i «pregiudizi aristocratici»99. Si giunge infine quel
la scena pittoresca il cui ridicolo non è forse sfuggito ai contemporanei:
i capi dell’Assemblea nazionale «litigano con calore su chi somigli di più
a Rousseau. Si sono appropriati realmente del suo sangue, del suo spiri
to e delle sue abitudini. Lo studiano, lo meditano, sfogliano i suoi scrit
ti in ogni momento che possono sottrarre alle laboriose macchinazioni
del giorno e alle dissolutezze della notte»100.
Queste frasi appartengono alla terza fase della guerra ingaggiata da
Burke contro l’Illuminismo francese. La prima è quella dei trenta anni
che precedono il 1789, la seconda produce le Riflessioni, la terza è quel
la che segue immediatamente il suo pamphlet, con l’appello alla crocia
ta contro la Francia dei diritti dell’uomo fino all’annientamento del ma
le. I primi rintocchi della Rivoluzione confermano le sue intime convin
zioni espresse fin dai primi colpi sferrati a Rousseau. Infatti la prima let
tura di Locke lo aveva già convinto: il pensiero emancipato del Secondo
Trattato e il pensiero rivoltoso del secondo Discorso minacciavano un’in
tera civiltà, la grande civiltà cristiana. Per lui la Rivoluzione francese non
era uno sfortunato incidente ma la messa in pratica delle idee del XVIII
secolo: era la prima rivoluzione totale della storia. Se egli non fosse sta
to preparato intellettualmente e moralmente da tanto tempo, se la sua
avversione per i Lumi non avesse già raggiunto l’apice, l’esplosione del
le Riflessioni non si sarebbe potuta verificare con tale violenza e tale ra-
91
Lo scontro delle tradizioni
pidità. Burke, nel quale Tom Paine vedeva tutto sommato «un metafisi
co»,101 non aveva paura delle idee in sé, temeva le idee nuove, le idee «il
luminate» che egli chiamava, per meglio denigrarle, «astrazioni»: in altri
termini, le idee che offrivano l’immagine o il modello di un avvenire di
verso dall’ordine esistente. Per combattere i fondamenti teorici della
scuola giusnaturalista, Burke formula i principi dello storicismo. La ca
duta dclYAncien Régime in giugno, la notte del 4 agosto, la Dichiarazio
ne dei diritti dell’uomo, le giornate del 5 e 6 ottobre dimostravano la po
tenza del pensiero illuminista, quindi del pericolo mortale che ormai at
tendeva l’Europa. E assurdo sostenere che Burke si sia mosso all’attacco
nel 1789 perché aveva previsto il Terrore e la lunga guerra europea. Ave
va lanciato il suo assalto contro la Francia perché la trasformazione de
gli Stati generali in Assemblea nazionale, la cancellazione degli antichi
privilegi e il trasferimento forzato del re e della regina rappresentavano
la conclusione dell’ordine cavalleresco ed esprimevano la fine dell’unico
ordine sociale e politico degno, secondo lui, di una società civile.
Questo scontro di civiltà, «uno dei più grandi spettacoli che occhio
umano abbia mai visto», è stato a sua volta definito da de Maistre come
una «lotta a oltranza del cristianesimo e del filosofismo»1021034. Tuttavia, lo
vedremo più avanti, l’unico cristianesimo degno di questo nome per de
Maistre è quello di prima della Riforma. Il protestantesimo, fondatore
dell’individualismo, si accompagna al giacobinismo ed è all’origine della
più grave caduta della «ragione umana» mai vista nella storia105. Il XVI
secolo rappresentò una prima insurrezione, quella dell’individuo contro
la disciplina collettiva, ma è solo nel XVIII secolo che « l’empietà diven
ne realmente una potenza [...]. Dal palazzo alla capanna, essa si intro
duce dappertutto e infesta tutto»101. Sono gli intellettuali, coloro «che si
chiamavano filosofi», che scatenano una «guerra mortale» al cristia-
92
Lo scontro delle tradizioni
nesimo105. Tutti gli scienziati, dice de Maistre, tutti gli uomini di lettere,
tutti gli artisti francesi hanno formato «dall’inizio del secolo una vera
congiura contro i pubblici costumi»: dopo essere riusciti a conquistare i
grandi signori e le donne, quei congiurati hanno «fatto in Francia disa
stri incredibili»106. Hanno dato il loro contributo a quella corruzione e
degradazione generale che regnavano in Francia alla vigilia della Rivolu
zione107. Hippolyte Taine non dirà niente di diverso, Maurras riprenderà
alla lettera questi temi.
L’identità dei grandi colpevoli non sorprende affatto: Montesquieu,
che sta a Licurgo come Batteux sta a Omero o a Racine, Locke, che fal
lì clamorosamente quando volle dare leggi agli americani, Rousseau, uno
dei più pericolosi sofisti del suo secolo, l’uomo che forse ha errato più di
tutti, e infine l’arcinemico, Voltaire108. In alcune pagine del primo volu
me delle Soirées de Saint-Fétersbourg, de Maistre versa il suo fiele sullo
«spirito corrotto» di Voltaire: «Osservate la fronte abietta che il pudore
non colorò mai, i due crateri spenti nei quali sembrano ancora ribollire
la lussuria e l’odio [...] la smorfia spaventosa [...] e le labbra strette da
una malizia crudele come una molla pronta a scattare per lanciare la be
stemmia o il sarcasmo»109. La sfortuna più grande è che «le sue opere non
sono morte; esse vivono, ci uccidono»110.
Il «torrente rivoluzionario» la cui sorgente sta in «uno dei più gran
di flagelli del genere umano»,111 la Riforma, rivela due caratteristiche es
senziali: sebbene abbia nel tempo preso direzioni diverse, il suo caratte
re generale non è mai mutato;112 quel carattere è « satanico» e «la distin
gue da tutto ciò che si è visto finora, e forse da tutto ciò che si vedrà in
93
Lo scontro delle tradizioni
94
Lo scontro delle tradizioni
95
Lo scontro delle tradizioni
è il prodotto della sua visione di se stesso: siccome egli attribuisce solo al
le circostanze le sue bassezze e i suoi vizi, pensa che sia lo stesso per l’uo
mo. La natura è buona, nella struttura umana non ci sono difetti, è la so
cietà l’unica responsabile di tutte le sventure. Taine moltiplica le citazio
ni e le frasi famose apportatrici di tutte le sventure - «la natura ha fatto
l’uomo felice e buono, la società lo corrompe e lo fa miserabile» - per mo
strare come la dottrina spiritualista si formi attorno a questa idea centra
le. All’uomo non basta il-piacere personale, gli occorrono ancora la pace
della coscienza e le effusioni del cuore. Nessuno dei suoi impulsi e delle
sue inclinazioni naturali, quelle che ha in comune con gli animali, sono
cattive in sé. Il male è nel governo degli uomini: togliete queste dighe,
opere della tirannia e della consuetudine, e la natura riprenderà la sua an
datura retta e sana, l’uomo non si ritroverà soltanto felice ma anche vir
tuoso125. In base a questo principio l’attacco comincia, dice Taine. Storico
delle idee nutrito di Burke e di Carlyle, egli analizza la rivolta scatenata
da Rousseau. La sua è un’interpretazione priva di grande originalità, uni
dimensionale, ma l’essenziale non è questo. Sono spesso le interpretazio
ni più banali che colpiscono l’immaginazione e diventano idee correnti.
Per Taine, l’assalto condotto dall’autore dei due Discours è il più vio
lento, è l’attacco globale che va infinitamente più lontano di quello di
Montesquieu e di Voltaire o di quello di Diderot e di D ’Holbach. È l’af
fermazione del diritto alla felicità immediata, inseparabile dalla nobiltà
riconquistata dal soggetto umano, è il rifiuto totale dell’ordine esistente.
In poche pagine stringate, Taine cita i testi classici del Rousseau del Di
scours sur l’inégalité e del Contrai social, quelli che hanno determinato la
sua gloria in campo repubblicano e contemporaneamente ne hanno fat
to oggetto di accusa da parte di tutti i sostenitori del vecchio ordine: la
società politica all’origine fu «un contratto iniquo [...] concluso tra il ric
co scaltro e il debole ingannato [...] [che], col nome di proprietà legale,
consacrò l’usurpazione del suolo». Oggi è un contratto ancora più ini
quo, «grazie al quale [...] un pugno di gente annega nel superfluo men
tre la moltitudine affamata manca del necessario». Qui Taine riprende la
sua analisi per mostrare come, secondo Rousseau, sia su questa inegua
glianza fondamentale, destinata ad aumentare con il tempo, che poggia il
96
Lo scontro delle tradizioni
97
Lo scontro delle tradizioni
illimitata dello Stato»1'0. Qui si trova l’origine prima dell’idea per la qua
le la Rivoluzione è all’origine di tutte le dittature del X X secolo. Sia per
10 storico Jacob Talmon che per il filosofo Isaiah Berlin, e in pratica an
che per altri studiosi della loro generazione, Rousseau è ancora e sempre
11 grande responsabile dell’ascesa della «democrazia totalitaria».
E proprio a Tocqueville, che per una volta Taine non trascura di ci
tare, che si deve la sistematizzazione dell’idea secondo la quale, dal mo
mento in cui il principio della sovranità popolare è acquisito, VAncien
Regime centralizzatore e distruttore delle libertà locali e parlamentari
porta direttamente a un dispotismo di tipo nuovo1’1. Solo che, contraria
mente a Burke e a Taine, Tocqueville pensava che si sarebbero potuti su
perare i pericoli della democrazia facendo appello alle sue virtù.
Seguendo Burke, Taine riconduce il dispotismo democratico all’idea di
un contratto sociale, prima e unica fonte del diritto. Nel momento in cui il
contratto tra «esseri perfettamente eguali e liberi, esseri astratti, specie di
unità matematiche, tutte dello stesso valore» è concluso, «tutti gli altri pat
ti», cioè lo stato di fatto al quale dopo Burke è stato affibbiato il nome di
«patto storico» da tutti i critici dell’Illuminismo, «diventano nulli». In que
sto modo vede la luce «il nuovo Stato», contro il quale nessuna delle vec
chie istituzioni - Chiesa, famiglia, proprietà - può accampare diritti. Que
sto Stato non è però lo Stato all’americana, una sorta di società di mutua
assicurazione. Taine non nutre alcuna simpatia per lo Stato concepito co
me «una macchina utilitaria», quell’«impertinenza americana», come dice
va Renan, ma non c’è nulla di peggio di quel «convento democratico che
Rousseau costruisce sul modello di Sparta e Roma», dove «l’individuo non
è niente» e «lo Stato è tutto». Questo «primogenito della ragione, suo fi
glio unico e solo rappresentante», viene al mondo nel momento in cui «al
la sovranità del re, il Contrai social sostituisce la sovranità del popolo»130132.
Nell’alienazione dell’individuo e nel suo asservimento a quel mostro
che si chiama sovranità popolare, Taine vede il fine di tutta l’opera di
Rousseau. Moltiplica le citazioni famose per dimostrare la totale sotto-
missione richiesta all’individuo con questo processo fondativo: prima
130. Ibid.
131. lbid.,p. 437.
132. Ibid., pp. 435-438.
98
Lo scontro delle tradizioni
del contratto sociale l’uomo era proprietario di beni, con il contratto so
ciale si è alienato ed è divenuto debitore dello Stato. Nel «nostro con
vento laico», dice, «tutto ciò che ogni monaco possiede è un dono revo
cabile del convento»1” . Ma questo convento è anche «un seminario» nel
quale l’inquadramento dei cittadini è il primo pensiero dello Stato. Taine
illustra che cosa fosse per Rousseau la formazione ideale del cittadino:
quella auspicata da Platone nella Repubblica, quella di Licurgo e quella
praticata a Sparta. Il suo obiettivo era rendere ogni individuo parte in
tegrante di un tutto, poiché esiste solo per e attraverso l’insieme. Per
mezzo della formazione e dello stile di vita, fin dalla più tenera infanzia,
i futuri cittadini si abituano a riconoscere nella decisione del popolo riu
nito l’unica decisione legittima. Per dare una visione d’insieme dell’or
rore che si prepara, Taine evoca il Code de la nature di Morelly, che com
pleta il lavoro di Rousseau: Morelly - che a ragione Taine considerava
marginale, ma che in questo cotesto gli tornava utile - sarebbe stato uno
dei fondamenti della dimostrazione di Talmon nelle Origini della demo
crazia totalitaria. Si delineano così i contorni dello Stato totalitario. Il ter
mine sarebbe apparso solo un secolo dopo, ma i principi di base di que
sto nuovo fenomeno sono chiaramente enunciati. L’interesse primario
dello Stato nuovo, dice Taine, «sarà sempre quello di formare volontà
che gli assicurino la durata, [...] di sradicare dalle anime le passioni che
gli sarebbero contrarie e di seminarvi quelle che gli saranno favorevoli
[...]. In un convento bisogna che i novizi siano educati da monaci; altri
menti, quando saranno cresciuti, non vi sarà più convento»1’4.
Infine, e qui sta forse l’essenziale, quel convento laico ha una religio
ne, «una religione laica», o in altri termini un’ideologia dominante con il
monopolio della legittimità. Ecco dunque l’altra grande idea che la scuo
la totalitaria degli anni Cinquanta del Novecento trarrà dalle Origines. La
grande specificità dello Stato nuovo consiste nella sua ostilità «per le as
sociazioni diverse da sé, perché sono sue rivali, l’ostacolano, accaparrano
la volontà e falsano il voto dei loro membri»1” . Qualsiasi opinione, qual
siasi ideologia, qualsiasi organizzazione politica e sociale che non sia di-1345
99
Lo scontro delle tradizioni
136. Ibid. Taine cita il contratto sociale (a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, To
rino 1966), li, 3, p. 43. La citazione è tagliata ma colpisce soprattutto il fatto
che Taine ometta il seguito: «Nel caso in cui non si possa fare a meno di società
parziali, è necessario allora moltiplicarne il numero e prevenirne la disugua
glianza, come fecero Solone, Numa, Servio». Il cap. IV, ultimo del libro, pp.
171-184, tratta «Della religione civile».
137. Louis-Sébastien Mercier, Hanno del duemilaquattrocentoquaranta, trad. di Laura
Tundo, Dedalo, Bari 1993. Nato nel 1740, morto nel 1814, denigrato da alcuni, let
to e apprezzato da altri, Mercier fu tradotto in diverse lingue. Lan deux mille qua
tre cent quarante è del 1770 o del 1771. Fino al 1799, l’opera, che aveva avuto nu
merose edizioni, si era diffusa in tutta Europa (Introduction a Mercier, Lan deux
mille quatre cent quarante. Rêve s’il en fut jamais, édition, introduction et notes par
Raymond Trousson, Editions Ducros, Paris 1971, p. 66). Ammiratore di Rousseau,
nel 1791 Mercier pubblica uno squillante De Jean-Jacques Rousseau considéré com
me l'un des premiers auteurs de la Revolution; girondino, eletto alla Convenzione,
si salva dal patibolo per la caduta di Robespierre (Introduction, pp. 22-25).
Kl
100
Lo scontro delle tradizioni
138. Taine, Le origini della Francia contemporanea. L’antico regime, pp. 443-444.
Taine cita Lan deux mille quatre cent quarante, I, capitoli XVII e XVIII. I due
capitoli citati sono dedicati al celibato monastico e al culto dell’Essere supre
mo. Il brano tra virgolette è dello stesso Taine, non di Mercier. Quest’ultimo si
era spesso vantato, con Lan deux mille quatre cent quarante, di essere stato il
profeta della Rivoluzione diciannove anni prima che esplodesse (Introduction,
p. 73). Tuttavia le affermazioni che gli attribuisce Taine non sono sue.
101
Lo scontro delle tradizioni
102
Lo scontro delle tradizioni
scere, il poema lirico abortisce, come pure il poema epico. Taine chiama
a testimone Voltaire, il quale confessava che, «di tutte le nazioni civili, la
nostra è la meno poetica»1-". Mai «si sente il grido involontario della sen
sazione viva»; a teatro, da Corneille e Racine fino a Marivaux e Beau-
marchais, non si vede che gente di mondo. In un carattere vivente l’arte
classica è incapace di cogliere il particolare, non crea individui verosimi
li ma personaggi generici, si interessa poco alle circostanze specifiche, al
tempo e al luogo propri alle une e non alle altre. Si crea così un «mondo
astratto» dove, con Corneille e Racine, «attraverso la pompa e l’elegan
za dei loro versi», si dipinge «l’uomo in sé»14142. Persino in Molière «si sop
prime la singolarità dell’individuo, il viso diventa per un istante una ma
schera teatrale». In conclusione: «C ’è dunque un difetto originario nel
lo spirito classico». Nella giusta misura eso ha potuto produrre i suoi ca
polavori più puri ma, peggiorando con il tempo, nel Settecento si mostra
incapace di rappresentare «la cosa vivente, l’individuo reale, quale esiste
effettivamente nella natura e nella storia»14’.
In più l’età classica «non ha senso storico» e ritiene che «l’uomo sia
dovunque lo stesso». Per cui, quando arriva la Rivoluzione, non si ha al
cuna «idea della creatura umana quale essa è [...]. Tutti se la raffigura
no come un automa elementare» trasformato da una «macchinetta per
produrre frasi [...] [in] una macchinetta per produrre voti». Infine «mai
fatti, solo astrazioni»144. In questo mondo astratto e artificiale non esi
stono né l’individuo, organismo complesso dai caratteri stratificati e dal
le peculiarità mescolate e aggrovigliate, individuo reale in tutta la com
plessità dei contesti che sono i suoi, né il tempo e lo spazio, la natura e
la storia.
In questo modo si accredita il mito secondo il quale il pensiero illu
minista misconosce la storia, la tradizione e l’eredità a beneficio di una
ragione incapace di cogliere l’individuo reale, ma la cui autorità si ac
cresce per le scoperte scientifiche. Il XVIII secolo rinnega il pregiudizio
ereditario, abolisce il passato, rimuove la religione a vantaggio della ra
gione e, non tenendo conto dell’esperienza, ricade ancora e sempre nei
141. Ibid., pp. 357-358. Taine cita VEssai sur le poème épique.
142. Ibid., pp. 359-360.
143. Ibid., pp. 360-362.
144. Ibid, pp. 363-367.
103
Lo scontro delle tradizioni
104
Lo scontro delle tradizioni
una predizione della notte del 4 agosto 17 SS»»149. Poi viene coinvolto il
Terzo Stato, «i dogmi di eguaglianza e libertà filtrano e penetrano in
ogni classe che sa leggere. [...] E lo spirito di Rousseau, “lo spirito re-
pubblicano”; ha conquistato tutta la classe media, artisti, parroci, im
piegati, medici, procuratori, avvocati, letterati, giornalisti»150. Ecco co
me e perché la conquista giacobina è alla fine divenuta possibile: grazie
alla letteratura rivoluzionaria, numerosa e a buon mercato, «scende e si
diffonde la filosofia del XVIII secolo»: se al primo piano, nei begli ap
partamenti dorati, «le idee» sono state solo dei «giochi d’artificio di una
serata», in altre parti della casa i fuochi accesi hanno trovato «mucchi
di legna accumulati da tempo» e nelle cantine era già pronto «un ma
gazzino di polveri»151.
M Le accuse di Taine si ritrovano in Renan, sono identiche alle critiche
di Carlyle, non differiscono molto da quelle che quasi un secolo prima
lanciavano Herder e Burke e che si ritrovano nei neoconservatori un se
colo più tardi. Gli stessi argomenti vengono ripresi con la stessa devo
zione, perché le problematiche non sono cambiate di molto. Il Settecen
to, dice l’autore de LA ven ir de la Science, consumato dallo «strano fuoco
che lo animava»,152153dal male, dalla depravazione e dalla decadenza che ne
derivano, impose «il giogo dello spirito ristretto», si irrigidì in un «cer
chio di idee assai limitato»151. Così l’Illuminismo, da un secolo, è all’ori
gine del «grande indebolimento morale» della Francia, in tutti i campi. Il
termine «veleno», molto utilizzato da Carlyle, ritorna in Renan per deli
neare la natura dell’Illuminismo: «Il veleno, anche se preso a piccole do
si, produce il suo effetto»154. Il risultato materiale di questo processo è la
legislazione rivoluzionaria, artificiale e astorica, livellatrice e distruttrice
149. Taine, Le origini della Francia contemporanea. Lantico regime, pp. 514-515
(corsivo nel testo).
150. Ibid., pp. 551-552.
151. Ibid., pp. 565-566.
152. E. Renan, La Monarchie constitutionnelle en France, in La Réforme intellectuelle et
morale, Calmann-Levy, Paris, 12‘ ed., série Œuvres complètes, s.d. [1929], p. 238.
153. Citato in Edouard Richard, Ernest Renan, penseur traditionaliste?, Presses uni
versitaires d’Aix-Marseille, Aix-en-Provence 1996, pp. 162 e 131-132.
154. Renan, «Réponse au discours [...] Claretie», in Feuilles détachées, p. 1078, ci
tato in Richard, Ernest Renan, penseur traditionaliste?, p. 163, nota 335.
105
Lo scontro delle tradizioni
della fede, ma i danni del materialismo si sono fatti sentire in tutti i cam
pi della vita intellettuale e politica. La Francia è marcita a causa della me
diocrità e delle astrazioni egualitarie. Insomma, qui sembra di sentire
Herder quasi parola per parola: da una parte «quel secolo non compre
se la natura dell’attività spontanea», dall’altra fu un periodo che «non
comprese altro che se stesso e giudicò tutti gli altri secondo se stesso»1” .
La polvere esplode ai tempi della Rivoluzione francese, che secondo
Renan diventa subito una bassa democrazia terrorista, trasformatasi in
dispotismo militare e in strumento di asservimento per tutti i popoli15156.
Come in Taine, si approda a una visione della Rivoluzione che farà feli
ce la riflessione storica sui mali della guerra fredda. Renan mostra come
« l’esperienza mancata della Rivoluzione ci ha guariti dal culto della ra
gione»157. Questa tendenza prosegue nella prefazione all’edizione del
1890 de L’Avenir de la Science fino a rinnegare l’essenza dello spirito che
presiede all’edizione originale dell’opera158.
Occorre pertanto aprire qui una breve parentesi. Da un canto il gio
vane Renan guarda alla Rivoluzione in un modo molto diverso dal Renan
del 1890, ma d’altro canto vede già come la problematica del suo tempo
si inscriva nel secolo precedente. Come Carlyle, anche lui è affascinato
da «questo immenso evento che rappresenta tutto il Settecento»,159 que-
106
Lo scontro delle tradizioni
sto «secolo che ha cambiato il mondo» e che rimane «il nostro model
lo perpetuo» per avere saputo ispirare «convinzioni energiche, senza
farsi setta o religione, rimanendo invece puramente scienza e filoso
fia»160. 11 XVIII secolo, afferma, «non ha né Racine né Bossuet e tutta
via è molto superiore al XVII: la sua letteratura è la sua scienza, la sua
critica, la prefazione dell’Encyclopédie, i luminosi saggi di Voltaire»161.
Perché è nel XVIII secolo che l’umanità, «dopo avere vagato per se
coli nella notte dell’infanzia, senza coscienza di sé, [...] ha preso pos
sesso di se stessa». E così che «la Rivoluzione francese è il primo ten
tativo dell’umanità di prendere in mano le redini e guidarsi da sola»:
è per questo che «la vera storia della Francia inizia nell’89; tutto ciò
che precede è la lenta preparazione all’89 e interessa solo in questa
funzione»162. Nel 1849, all’inizio della sua carriera, quando ancora la
politica non aveva nel suo pensiero quel ruolo che avrebbe avuto
vent’anni dopo, egli ha degli accenti molto kantiani: «L a Rivoluzione
francese [...] è il momento corrispondente a quello in cui il bambino,
condotto fin ad allora da un istinto spontaneo, dal capriccio e dalla vo
lontà degli altri, diventa persona libera, morale e responsabile dei pro
pri atti»16’. L’accesso dell’uomo alla maturità resta il senso della Rivo
luzione: Renan guarda il XVIII secolo con gli occhi del giovane scien
ziato, affascinato dal principio per il quale «la ragione deve governare
il mondo», da «quell’incomparabile audacia, quel meraviglioso e ardi
to tentativo di riformare il mondo conformemente alla ragione»164165.
Nella nota 7 di questo brano, alla fine dell’opera, Renan scrive: «Si ve
da come eminentemente caratteristica la Dichiarazione dei diritti nel
la Costituzione del ’91. E il XVIII secolo nella sua interezza: il con
trollo della natura e di ciò che esiste, l’analisi, la sete di chiarezza e di
ragione evidente»163. In un’altra nota nella stessa pagina si esprime
con un tono che difficilmente si può immaginare per l’autore della
Ré/orme intellectuelle et morale-. «L’anno 1789 sarà un anno santo
107
Lo scontro delle tradizioni
166. Ibid.
167. Ibid., p. 1039. Si veda anche p. 1124: la Pallacorda «un giorno sarà un tempio».
168. Ibid, pp. 1028-1029.
169. Ibid, p. 884.
170. Ibid, p. 1029.
171. Ibid, p. 990.
172. Ibid, pp. 990-991.
173. Ibid, p. 1032.
108
Lo scontro delle tradizioni
174. Ibid., p. 748. Nella Riforma il tono è nettamente più duro: «G li uomini igno
ranti e limitati che presero in mano i destini della Francia» (p. 91), «le loro vuo
te declamazioni, la loro leggerezza morale» (p. 89).
175. lbid.,p.74S.
176. Ibid., pp. 748-749.
177. Renan, La riforma intellettuale e morale, p. 117.
109
Lo scontro delle tradizioni
178. Thomas Carlyle, «The New Downing Street», 15 aprile 1850, in Latter-Day
Pamphlets, The Works o f Thomas Carlyle, edite con un’Introduzione di Henry
Duff Traill, Chapmann e Hall, London 1896-1907, 30 voli. Questa edizione
sarà citata come Works e relativo volume. Qui si veda il voi. XX, pp. 131-132.
Per una moderna biografia di Carlyle si veda Fred Kaplan, Thomas Carlyle, A
biography, University of California Press, Berkeley 1993.
179. Thomas Carlyle, Gli eroi e il culto degli eroi e l ’eroico nella storia, trad, di Ro
sina Campanini, Utet, Torino 1967, pp. 300-301.
110
Lo scontro delle tradizioni
crollati non è rimasto che il caos, si è arrivati ai Lumi francesi e alla Ri
voluzione180. Il mondo del «miscredente, logoro secolo diciottesimo» era
diventato «di cartapesta»181.
«Era un’età strana, quella di Luigi XV; per diversi punti di vista,
un’età senza precedenti nella storia del genere umano. Per la sua licen
ziosità e la sua depravazione, per la sapiente cultura di tutte le facoltà
semplicemente pratiche e materiali e per il totale torpore di tutte le fa
coltà puramente contemplative e spirituali, questa era somigliava consi
derevolmente a quella degli imperatori romani.»182 E più avanti: «Era
un’età senza nobiltà, senza virtù elevate, o senza elevate manifestazioni
di talento; un’età di chiarezza superficiale, di elegante sufficienza scetti
ca e di persiflage [dileggio] in tutte le forme». Ma ancora più grave, «è
che quell’epoca, chiamata della filosofia, non fu in sé che un’epoca po
vera», una delle «più sterili tra le età storiche. In realtà, tutto il mestiere
dei nostri philosophes fu il diretto contrario dell’invenzione: loro non
erano certo là per produrre; ma per criticare, per mettere in dubbio, per
distruggere ciò che era già stato prodotto». Per dirla tutta, praticavano
«un mestiere basso»:18’ nello spirito di Carlyle la bassezza (meanness) è
indubbiamente la parola che descrive con maggiore precisione il profon
do disprezzo per l’età di Luigi XV, definizione di un mondo nel quale
egli ingloba sia VAncien Regime che l’Illuminismo. In questo, sebbene
parlasse anche lui di un secolo «illuminato e scettico»,184 si discosta da
Burke ed è molto più vicino agli uomini degli inizi del Novecento. In
pratica si può dire che Carlyle costituisce un ponte tra il rifiuto aristo
cratico e il rifiuto plebeo dell’Illuminismo.
Per la sua degradazione e la sua perversione, per il suo egoismo e il
suo materialismo, per il suo utilitarismo, per i suoi ciarlatani che hanno
preso il posto degli eroi, per il suo scetticismo che «non significa soltan
to dubbio intellettuale ma dubbio morale», il XVIII secolo, secondo
180. Ibid. L’immagine del muratore viene direttamente da De Maistre, che parla an
che della cazzuola che si crede un architetto.
181. Ibid., p. 285.
182. Carlyle, Criticai Essays, voi. I, pp. 460-461.
183. Ibid., pp. 464-465. Nouveaux Essais choisis, pp. 97-98. Si vedano gli stessi ar
gomenti in Gli eroi, p. 50.
184. Carlyle, Gli eroi, p. 312.
Ili
Lo scontro delle tradizioni
185. Ibid., pp. 260, 266 e 312, come anche Nouveaux Essais choisis, p. 94.
186. Carlyle, Past and Present, book IV, eh. 1, in Works, voi. X, p. 241 [Passato e Pre
sente, s.t., Bocca, Torino 1905, pp. 367-368],
187. Carlyle, Gli eroi, pp. 262 e 266.
188. Carlyle, Nouveaux Essais choisis, p. 94.
189. Carlyle, Gli eroi, p. 260.
190. Carlyle, Critical Essays, voi. I, p. 415.
191. Carlyle, Sartor Resartus. Filosofia degli abiti, a cura di Rosario Assunto, Nove
cento, Palermo 1985, pp. 300-301.
192. Carlyle, Nouveaux Essais choisis, p. 93, Critical Essays, p. 415, Sartor Resartus,
p. 301.
193. Carlyle, Gli eroi, p. 50.
194. Carlyle, Critical Essays, p. 414.
112
Lo scontro delle tradizioni
visione del mondo prosaica195. Peraltro non gli mancavano le qualità: ca
pace talvolta di scorgere il lume della bontà, della bellezza e della verità,
aveva difeso Calas, «aveva sentimenti fraterni nei confronti della soffe
renza umana», ma un grand’uomo è qualcosa più di questo, e lui certa
mente non lo è stato196. Perché, in ultima analisi, Voltaire mancava di ca
rattere. Questa era anche la debolezza essenziale di Diderot: non era un
uomo coraggioso, e, «nonostante tutti i suoi grandi doni, aveva piutto
sto un carattere femminile [...] con poca fermezza virile, riflessione, ri
solutezza»: il suo ambiente parigino gli rendeva la vita facile e lo adula
va, allontanandolo «con orrore da uno serio come Jean-Jacques, che
[...] riteneva che la verità fosse una cosa da dire e da mettere in prati
ca».197 Persino Taine trovava questo verdetto ingiusto, puerile e grosso
lano riguardo a Voltaire, quasi una diffamazione. Lo storico Carlyle si
sarebbe reso colpevole di un autentico peccato: avrebbe giudicato il suo
soggetto dall’esteriorità. Taine non lo dice apertamente, ma questo è il
senso della critica.
Se verso Voltaire Carlyle si mostra rigido, non è così per Rousseau.
Come in Nietzsche, la visione di Rousseau espressa da Carlyle è di gran
de ambiguità, piena di contraddizioni. Da un lato l’autore del Contrat so
cial è un gigante spirituale portatore di «una strana scintilla di vero fuo
co celeste» che fa parte della sua galleria di eroi, mentre Voltaire o Di
derot ne sono esclusi: egli «sfiorò, ancor una volta, la realtà; lottò in vi
sta della realtà; compì al suo tempo la funzione di profeta»198. Ma, eroe
e insieme uomo di lettere, Rousseau non lo è pienamente, perché gli
manca «la profondità di intelletto, la larghezza di vedute», egoista, «mol
to vano, assetato delle lodi degli uomini»; con il suo carattere «morbo
so, eccitabile, isterico», non era un «uomo forte»199. Quindi «non gli si
poteva impedire di mettere il mondo a fuoco e fiamme. La rivoluzione
francese trovò nel Rousseau il suo evangelista», l’uomo che, dei «gover
nanti del mondo», avrebbe potuto «ghigliottinarne un buon numero»200.
195. Ibid., pp. 416, 419, 424-427, Nouveaux Essais choisis, p. 38.
196. Ibid., p. 436, Nouveaux Essais choisis, pp. 18 e 37.
197. Carlyle, Nouveaux Essais choisis, p. 181.
198. Carlyle, Gli eroi, pp. 282-283 e 240-241.
199. Ibid., pp. 280-281.
200. Ibid., pp. 284-285.
113
Lo scontro delle tradizioni
114
Lo scontro delle tradizioni
della caduta di Roma, all’inizio della seconda sezione del pamphlet del
1774, Herder ha un impeto: «Popoli e continenti si erano adusati a vi
vere sotto quest’albero e ora, quando la voce della sacra scolta gridò
“Abbattetelo”, che gran vuoto m ai!»20’ E altrove: «Ma, fratelli miei»,
esclama Herder nel mezzo di una pagina sulla gloria del Creatore, «pri
mo e unico fattore», l’unica fonte «delle più lontane conseguenze, mo
rali o immorali di chi agisce. [...] Non abbandoniamo mai i poli attor
no ai quali tutto gira; verità, coscienza della propria retta intenzione, fe
licità dell’umanità». Perché, «ora soprattuto che ci troviamo tanto alti
sul mare sul quale andiam navigando tra incerta e brumosa luce - luce
che ci rende la rotta ancor più difficile che non la notte fonda» - l’allu
sione ai «Lum i» è resa ancora più chiara dal fatto che questo paragrafo
viene subito dopo un violento attacco contro Voltaire e il suo secolo -
«miriamo con tutto l’animo nostro queste stelle, punti fissi d’orienta
mento e intima certezza»2“ . Max Rouché non ha torto a sottolineare co
me Ancora una filosofia della storia possa essere considerata l’Apocalis
se secondo Herder, assumendovi l’autore il ruolo dell’Angelo del Si
gnore che, con un santo entusiasmo spesso sostituito da una santa col
lera, rivela agli umani il Mistero della storia. Lo storico, secondo Her
der come secondo Hamann, è ispirato da Dio, un profeta del passato, e
si basa su idee luterane ed evangeliche205.
115
Lo scontro delle tradizioni
116
Lo scontro delle tradizioni
tluo. Come Herder, Burke difende i privilegi: come lui vede la storia go
vernata dalla provvidenza come sola fonte di legittimità, come lui vede
nel privilegio il fondamento di qualsiasi ordine umano degno di tale no
me. Come Herder, difende la religione e l’ordine sociale vigenti ma, con
trariamente a Herder, difende anche l’ordine politico costituito. Il
conformismo sociale di Herder dipendeva dal fatto che l’ordine esisten
te rappresentava quanto ancora rimaneva dell’Europa del Medioevo.
Per Burke il regime inglese, le libertà inglesi, le libertà storiche realizza
vano l’ideale. Invece per Herder l’autoritarismo prussiano, con le sue
velleità deiste e cosmopolite, con il suo re filosofo che riceve Voltaire,
non poteva costituire un modello di perfezione.
Entrambi rappresentano i due aspetti della seconda modernità:
Burke conduce la sua lotta in nome di privilegi acquisiti, in nome
dell ’establishment politico, mentre Herder si lancia nella mischia da un
punto di partenza non conformista, ma entrambi prendono le difese di
una civiltà cristiana e comunitaria in via di estinzione. L’obiettivo finale
era lo stesso: Burke pensava che, assicurando la perennità dell’ordine so
ciale e politico vigente, si sarebbe salvata la civiltà, Herder riteneva che
attuando uno sbarramento contro l’individualismo, mettendo in piedi
un progetto coerente di ordine comunitario che potesse sostituire la so
cietà borghese illuminata, deista quando non schiettamente atea, avreb
be analogamente salvato la civiltà: la sua critica aH’Illuminismo era uno
sbarramento contro le forze distruttive in cammino, poiché la religione
era sostituita dal deismo, che per lui era solo un sottoprodotto della fi
losofia meccanicista e un alleato del dispotismo illuminato. In questo
mondo in perdizione le forze vitali erano sopraffatte dal razionalismo, la
rivendicazione della felicità si sostituiva all’idea di servizio e l’idea di
progresso detronizzava la fede e le grandi virtù come l’obbedienza, l’ab
negazione, il rispetto dell’autorità e della famiglia.
Herder e Burke sapevano che il pensiero moderno nasce nel mo
mento in cui l’uomo si sostituisce a Dio. Herder non poteva amare D e
scartes, Hobbes o Locke e combatteva Rousseau e Kant. Nessuno ha fat
to più di lui per opporsi all’influenza di Kant in Germania, per opporsi
ai valori universali. Herder, filosofo della storia, Burke, pensatore e uo
mo politico, rappresentano i due perni fondamentali della campagna
contro la ragione in nome della «vita», contro l’universale in nome del
particolare é dello specifico. Entrambi lanciano un appello a tutte le
117
Lo scontro delle tradizioni
118
Lo scontro delle tradizioni
nella cultura francese del suo tempo, simbolo del deperimento di tutto
un mondo, un mondo nel quale «si ragiona», si pubblicano dizionari ed
enciclopedie, il mondo di uno «spirito astratto, filosofia fondata su due
pensieri, meccanicissima fra le cose tutte della terra!»212 Queste formule
ritornano a più riprese, in particolare quando si tratta di stabilire che
«gran parte della cosiddetta nuova cultura moderna è in realtà una mec
canica»,213 che «spirito moderno», razionalismo e cultura francese sono
sinonimi, quando si deve dimostrare ancora e sempre «che il moderno
esprit non è che una forma, sia pure elevata, d’una realtà meccanica»214.
Ora, «esiste [...] una produzione più meschina nel pensiero, nella vita,
nel genio e nel gusto che non presso quel popolo il quale in mille forme
e tanto brillantemente ha diffuso per il mondo intero questo espritì [...]
Dove una forma di vita che scimmiotti in tal modo una cortesia, una gio
vialità, una ricercatezza verbale facili e meccaniche?»215 Nel suo Giorna
le di viaggio 1769 Herder parla del temperamento francese che «non
consiste in altro che in ipocrisia e fiacchezza»216. Siccome sono solo scim
mie, i francesi possono essere scimmiottati a loro volta dal resto d’Euro
pa. Tutta la loro filosofia non è che un modo di scimmiottare i sentimenti
di umanità, il genio, la virtù; la civiltà che essi modellano è una «più age
vole meccanica», una macchina che finisce per produrre un libero pen
siero «fiacco, irritante, inutile»: il libero pensiero è per i francesi «suc
cedaneo di tutto quanto forse è più necessario: cuore, calore, sangue,
umanità e vita!»217 Ecco dunque, sotto la penna di Herder, l’idea che
avrebbe affascinato i suoi ammiratori e, sulle sue orme, i critici nove
centeschi dell’Illuminismo, da Meinecke e Gadamer a Berlin.
Ovviamente non è per caso che Herder manifesti tanta acrimonia
verso la Francia. Essa incarna la civiltà cosmopolita e antinazionale che
119
Lo scontro delle tradizioni
218. Hans Georg Gadamer, «Herder et ses théories sur l’histoire», in Regards sur
l’histoire, Cahiers de l’Institut allemand, publiés par Karl Hepting, II, 1941,
pp. 9-10.
219. Herder, Giornale di viaggio 1769, p. 104.
120
Lo scontro delle tradizioni
220. Ibid.
221. Ibid., p. 106.
222. Ibid., pp. 106-108.
223. Ibid.,pp. 108-109 e 126.
121
Lo scontro delle tradizioni
122
Lo scontro delle tradizioni
228. Citato dall’edizione Suphan, vol. IV, pp. 472-473, in M. Rouché, Introduction
a J.G . Herder, journal de mon voyage en l’an 1769, p. 47.
229. Rouché, Introduction a J.G . Herder, journal de mon voyage en l’an 1769, pp.
47 e 60-61.
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Lo scontro delle tradizioni
230. Herder, Giornale di viaggio 1769, pp. 103-104 (S. IV, 421).
231. Ibid., pp. 92-93 (S. IV, 411-412).
232. Herder, Idées pour la philosophie de l ’histoire de l’humanité/ldeen zur Philo
sophie der Geschichte der Menschheit, choix de textes, introduction, notes, par
Max Rouché; collection bilingue, Aubier, Paris 1962, livre XVI, ch. IV, p. 299
(S. XIV, 278).
124
Lo scontro delle tradizioni
233. Ibid., livre XVI, eh. IV, pp. 301-303 (S. XIV), 280-282.
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Lo scontro delle tradizioni
I turchi hanno provocato grande danno ai più bei paesi d’Europa tra
sformandoli in deserti, «facendo dei popoli greci, un tempo i più prov
visti di ingegno, degli schiavi infedeli, dei barbari dissoluti. Quante ope
re d’arte sono state distrutte da quegli ignoranti! Quante cose che non
potranno mai più essere ricreate hanno fatto sparire! Il loro impero è
una grande prigione per gli europei che ci vivono [...]. Infatti cosa ci
vengono a fare degli stranieri che anche dopo millenni dimostrano di es
sere barbari asiatici, cosa ci vengono a fare in Europa?»254
Lo stesso problema si pone per gli ebrei. Nel capitolo dedicato agli
antichi ebrei (terza parte delle Idee), apprendiamo che nel passato essi
furono un popolo saggio, pieno di astuzia, lavoratore, al quale non man
cava neppure il coraggio guerriero. Certo non era un popolo dotato per
le arti e nemmeno per le scienze e, nonostante la sua posizione geografi
ca, mancava dello spirito avventuroso dei popoli marittimi. Ma ciò che
ha rovinato gli ebrei è quel «tratto del loro carattere nazionale che già
Mosè combatteva con forza»: la mancanza di senso politico. «Insomma
è un popolo che si è perso durante la sua educazione, perché non è mai
giunto alla maturità di una cultura politica nella propria terra né, da al
lora, al vero sentimento dell’onore e della libertà.» La conclusione fissa
l’immagine dell’ebreo per un secolo e mezzo, poiché sembra proprio che
i suoi difetti non siano acquisiti o frutto della storia, ma che dipendano
davvero dalla sua costituzione o dal suo carattere nazionale e si siano ma
nifestati fin dall’inizio della sua esistenza: «Il popolo di Dio, al quale un
tempo il cielo aveva dato la patria, è stato da millenni e forse quasi dalla
sua apparizione una pianta parassita sul tronco di altre nazioni; una co
munità di astuti intermediari sparsa quasi ovunque sulla terra, che mal
grado ogni oppressione non aspira da nessuna parte a un onore e a una
dimora per sé, da nessuna parte ha una patria»255.
A questo ritratto poco lusinghiero si uniscono riflessioni sull’in
fluenza ebraica nel mondo. L’universalismo ebraico è una grande fonte
di debolezza: «Bisognava assolutamente che le leggi di Mosè fossero in
vigore sotto tutti i cieli, anche presso quei popoli con una organizzazio
ne politica assai diversa; è per questo che nessuna nazione cristiana ha2345
126
Lo scontro delle tradizioni
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Lo scontro delle tradizioni
238. Ibid., livre XVI, ch. V, p. 305. Pénisson pensa che «il vocabolario di Herder
possa essere sospetto ma che, a conti fatti, se lo si legge con attenzione, in realtà
questo testo si sviluppa in modo tale che “sposta a poco a poco le aspettative
antisémite” fino alla “condanna degli Stati antisemiti”» (].G. Herder: la raison
dans les peuples, Ed. du Cerf, Paris 1992, p. 121). Una simile lettura non è im
possibile ma non è la più plausibile.
128
Lo scontro delle tradizioni
239. Rudolf Haym, Herder nach seinem Leben und seinem Werken, 2 voll., Weid
mann, Berlin 1880-1885. Nel 1958 è uscita una nuova edizione: Aufbau-Ver
lag, Berlin, e un’altra nel 1978 (Biblio Verlag, Osnabrück).
240. Citato in [Lucien] Lévy-Bruhl, «Les Idées politiques de Herder», Im revue des
Deux Mondes, t. 80, 15 avril 1887, p. 931. La biografia di Rudolf Haym, dive
nuta molto rapidamente un classico, mostra un Herder critico deH’IUumini-
smo. Questo libro rimane sempre un’opera di riferimento. E interessante no
tare che il primo e maggior lavoro su Herder e il suo tempo fu pubblicato in
Francia nel 1875 da C. Joret, Herder et la Renaissance littéraire en Allemagne
au XVIII' siede, Hachette, Paris 1875.
241. A. Gillies, Herder, Blackwell, Oxford 1945, p. 133. Gillies sottolinea il contri
buto di Herder al movimento Sturm und Drang. Dieci anni più tardi, Robert T.
Clark pubblica Herder, bis Life and Thought, University of California Press,
Berkeley 1955, dove prende le distanze da Haym e da Gillies, che considera
prosecutore del pensiero dell’erudito tedesco. Clark minimizza l’influenza di
Hamann e piuttosto che uno Stürmer ci mostra un Aufklärer, magari esitante,
ma comunque un Aufklärer. Egli sa che Herder non può passare per razionali
sta, ma pensa che le tendenze dominanti del pensiero di Herder non siano in
compatibili con il razionalismo. Nel 1947 Gillies pubblica il Journal meine Rei
se presso Blackwell, a Oxford.
129
Lo scontro delle tradizioni
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Lo scontro delle tradizioni
Sarebbe stato meglio per lei seguire la via tracciata dal suo genio, così
sarebbe sfuggita alle influenze straniere, soprattutto all’influenza fran
cese, che in un secolo l’ha strappata da se stessa. In altri termini ciò che
Herder deplora è l’influenza occidentale: il Rinascimento italiano, l’Il
luminismo francese e inglese. Ancora più indietro, è Roma che gli ripu
gna e Roma significa il diritto romano, il concetto di cittadino, concet
to giuridico e politico e non culturale. Herder preferisce di gran lunga
la polis greca, società chiusa e nazionale, con i suoi dèi locali e i suoi co
stumi unici; egli detesta l’impero multinazionale nel quale vede una for
za livellatrice. Concepito semplicemente come cittadino, l’uomo perde
la sua specificità. Per lo stesso motivo Herder prova orrore per l’Illu
minismo franco-kantiano e per quello inglese, i cui concetti fondamen
tali sono politici e giuridici, e pretende di sostituirli con concetti etnici
e culturali: all’idea concreta di cittadino oppone lo spirito e il carattere
della nazione. Ora, contrariamente a quanto sostengono ancora oggi i
loro critici, erano proprio gli Illuministi a utilizzare concetti concreti e
ad affrontare questioni concrete, mentre erano i loro nemici a giocare
con le astrazioni. Definire una nazione attraverso il suo «carattere» o il
suo «spirito», come fa Herder in Ancora una filosofia della storia, vuol
dire fare appello a concetti nettamente meno concreti e precisi della de
finizione politica e giuridica di nazione fornita daWEncyclopédie. Ma,
per essere precisi, in Herder si compie un vero e proprio rovesciamen
to di valori: la cultura costituisce la realtà mentre la politica rappresen
ta l’artificio. L’appartenenza a un corpo di cittadini è artificiale, lo stes
so corpo dei cittadini è artificiale, mentre l’esistenza di una nazione è
paragonabile a quella di una pianta: ormai la nazione possiede un’esi
stenza quasi biologica.
Le due concezioni del mondo qui delineate non potevano affatto
coesistere. I philosophes illuministi, quelli fedeli all’idea di un progresso
continuo e quelli che, come Voltaire, non l’accettavano, esaltavano i tem
pi moderni perché nella loro civiltà vedevano uno sforzo continuo per li
berarsi dal suo carattere cristiano, germanico e feudale. Il progresso era
proprio questo: «Dal quadro che abbiamo tracciato dell’Europa dal
tempo di Carlo Magno fino ai nostri giorni è facile giudicare», scrive
Voltaire nella penultima pagina de)\'Essai sur les mceurs, «come questa
parte del mondo sia incomparabilmente più popolata, più incivilita, più
ricca, più illuminata di quanto non lo fosse allora, e che essa è persino
131
Lo scontro delle tradizioni
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Lo scontro delle tradizioni
133
Lo scontro delle tradizioni
251. Montesquieu, Lo spirito delle leggi, libro XXV, cap. XIII, p. 589.
C A P IT O L O 2
1. Giambattista Vico, Autobiografia, a cura di Mario Fubini, Einaudi, Torino 1960, p. 27.
135
Le fondamenta di un’altra modernità
lunga disgrazia ha fatto posto a una cieca ammirazione. Colui che non era
nulla diventa tutto, nota con finezza Alain Pons; e si trova investito del
ruolo di precursore universale, di quello che aveva detto tutto prima de
gli altri. Avremo così un Vico preromantico, hegeliano, marxista, esisten
zialista, strutturalista ante litteranf. Oggi abbiamo anche un Vico post
moderno. In ogni caso, si è creato il mito di Vico, gigante solitario, mar
ginale, geniale; l’uomo che da solo ha inventato le scienze umane e le
scienze sociali, in particolare la storia e la filosofia della storia, l’antropo
logia e la linguistica. E vero che Vico ha fatto di tutto per convincere di
ciò i lettori e sicuramente anche i posteri. Nella ricerca che intraprende,
dice, si deve «far conto come se non vi fussero libri nel mondo»’.23
2. Alain Pons, Introduction a Vie de Giambattista Vico écrite par lui-même, Lettres, La
méthode des études de notre temps, Présentation, traduction et notes par Alain Pons,
Grasset, Paris 1981, p. 8. Si può consultare su questo tema un eccellente articolo di
Joseph Mali, «Retrospective Prophets: Vico, Benjamin and other German Mytholo-
gists», C.lio, voi. 26, 1997, pp. 427-448. Nel numero del 1994, voi. 23, si può trovare
di James Robert Gcetsch «Expecting the Unexpected in Vico» (pp. 409-422). Si veda
anche il voi. 22 (3), 1996, di Historical Reflections - Réflexions historiques: Patrick H.
Hutton, «Vico and the End of History» (pp. 537-558), Sandra Rudnick Luft, «Situa
ting Vico between Modem and Postmodern» (pp. 587-617) e Cecilia Miller, «Inter
pretations and Misinterpretations of Vico» (pp. 619-639). Nel 1993 la Miller pubbli
ca uno studio di grandissima qualità sul libro autobiografico di Vico: Giambattista Vi
co: imagination and Historical Knowledge, St. Martin’s Press, New York 1993. Più di
recente la Luft ha pubblicato Vico’s Uncanny Humanism: Reading the New Science
between Modem and Postmodern, Cornell University Press, Ithaca, N.Y., 2003.
3. Giambattista Vico, Im Scienza nuova seconda, a cura di Fausto Nicolini, Laterza, Ba
ri 1942, 2 voli., t. I, p. 117, # 330. Per facilitare il lettore, fornisco anche il numero
del paragrafo (#) corrispondente. Il mito di Vico solitario è largamente esagerato. In
un libro piccolo ma perspicace, benché destinato più al grande pubblico colto che
agli eruditi, Peter Burke mostra l’ambiente intellettuale cui apparteneva Vico, la re
pubblica delle lettere del suo tempo: il pensatore napoletano era andato molto oltre
i suoi contemporanei, ma non aveva inventato tutto dal nulla. Si veda Peter Burke,
Vico, Oxford University Press, Oxford 1985. Per un saggio universitario di grande
qualità si può consultare Mark Lilla, The Making o f an Anti-Modern, Harvard Uni
versity Press, Cambridge 1993. Quest’opera ha anche un’eccellente bibliografia cri
tica. Si veda anche I larold Samuel Stone, Vico’s Cultural History: the Production and
Transmission of Ideas in Naples, 1685-17SO, E.J. Brill, New York 1997; Carmelo
D ’Amato, Il mito di Vico e la filosofia della storia in Trancia nella prima metà del
l’Ottocento, Morano, Napoli 1977. In francese, cfr. Bruno Pinchard, «Nouvelles lec
tures de Giambattista Vico», Revue de synthèse, 1989, pp. 483-498.
136
Le fondamenta di un’altra modernità
In effetti ognuno trova in Vico quello che cerca, perché il suo stile vi
si presta bene, anche se in questo non è unico. Accade lo stesso per Her
der, Hegel, Marx o Nietzsche. Come Herder, egli aveva la pretesa di po
tere inglobare tutto nella sua opera. Aspirava a un sapere universale, co
sa non rara all’inizio del XVIII secolo, quando stava nascendo il mondo
moderno, e siccome tutto in lui è allo stato embrionale gli può essere at
tribuita ogni idea, poiché essa non è ancora davvero maturata o messa al
la prova; per cui tutto risulta aperto a diverse interpretazioni. Da un la
to queste interpretazioni cambiano in funzione dell’epoca e delle mode,
così come secondo la disciplina propria del lettore, ma del resto Vico,
come Herder, è un autore altamente polivalente. Di più, mentre inizia il
grande balzo in avanti deU’Illuminismo, l’autore della Scienza nuova, che
sembra volervi prendere parte richiamandosi all’esempio di Bacon, in
realtà si erge contro la rivoluzione intellettuale del suo tempo. Poiché in
questo libro si farà spesso riferimento a Vico, conviene fermarsi sugli ele
menti fondamentali di questo primo attacco all’Illuminismo. E chiaro
che nel quadro di questo lavoro non è il caso di avventurarsi in un’ana
lisi globale del pensiero dell’autore di De antiquissima italorum sapien
za, opera con la quale Vico inizia la sua critica a Descartes, bensì di esa
minare i principi che avrebbero ispirato le campagne antilluministiche
dei secoli X IX e X X 4.
Bisogna occuparsi un momento delle pagine che Paul Hazard dedi
ca a Vico, tanto sono caratteristiche di un approccio diffuso. Se l’Euro
pa avesse ascoltato Vico, «quell’eroe del pensiero e quel genio origina
le», avrebbe scoperto che non la ragione era la nostra facoltà primaria
ma l’immaginazione e avrebbe saputo che la ragione non ha fatto altro
che inaridire la nostra anima. Gli europei avrebbero rimpianto i nostri
paradisi perduti. Avrebbero inoltre appreso che la spiegazione delle co
se proveniva dalle profondità dei tempi. Così «tutte le loro idee sareb
bero state rovesciate, come tutta la loro concezione del mondo». Il no
stro destino intellettuale, si chiede il grande specialista del XVIII secolo,*li.
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Le fondamenta di un 'altra modernità
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Le fondamenta di un 'altra modernità
ti. Vico, La Scienza nuova seconda, t. I, p. 129, # 349. Si veda anche l’Introduzione
di Leon Pompa in Vico, Selected Writings, Cambridge University Press, Cam
bridge 1982, p. 9.
12. Ibid., t. II, p. 164, # 1108. Si veda anche 1.1. p. 118, # 332. I filologi sono in pra
tica gli storici.
13. Ibid., t. I, p. 76, # 133; p. 77, # 341; t. II, p.64, # 1108.
140
Le fondamenta di un’altra modernità
141
Le fondamenta di un’altra modernità
essere socializzato. L’individuo si trova così, fin dal suo primo respiro,
stretto nelle maglie del suo contesto sociale e culturale. Ne deriva che le
sue azioni avranno delle conseguenze indesiderate e non previste, che sa
ranno a loro volta aU’origine di un’altra evoluzione sociale20. Le affinità
con Hegel, che pure balzano agli occhi, non devono essere spinte trop
po oltre: in Vico non si tratta di un processo dialettico, perche il pro
gresso è seguito da periodi di declino. Il problema della decadenza qui
è posto chiaramente e servirà a combattere le diverse teorie di progres
so per tutto il X IX secolo. Allo stesso modo qui si riconoscono i grandi
temi herderiani; ma la campagna contro i Lumi aveva una logica interna
ed Herder poteva sviluppare il suo pensiero senza conoscere Vico: Mon
tesquieu e Voltaire bastavano ampiamente.
La teoria della storia rappresenta uno degli aspetti più interessanti
dell’opera di Vico. Ancora una volta dovremo procedere per sintesi. Vi
co voleva far sì «che in un principio unisse egli tutto il sapere umano e
divino»21 ed elaborare «una storia ideale eterna sulla quale corrèsse la
storia universale di tutti i tempi, conducendovi, sotto certe eterne pro
prietà delle cose civili, i surgimenti, stati, decadenza di tutte le nazioni»22.
A tale scopo il filosofo napoletano si sposta, come tutti gli autori dei suoi
tempi e come tutti i suoi predecessori, sull’origine della specie e delle sue
prime istituzioni sociali. Soltanto che, mentre Hobbes e Locke - che Vi
co pure conosceva e di cui fa menzione nella sua autobiografia - vede
vano l’emergere delle società come un processo di decisione da parte di
esseri razionali per natura, costretti dalle condizioni dello stato di natu
ra a cercare rifugio nella società e nello Stato, Vico si separa fin dall’ini
zio dai fondatori del liberalismo. Egli respinge la loro visione razionali
sta dell’uomo, questa sorta di macchina a due zampe creata da Hobbes,
si leva contro la loro visione della società individualista, o atomista, vo
lontarista e utilitarista. Da Hobbes Vico ha tratto, nel migliore dei casi,
solo lo stato di natura: l’idea dell’origine della società basata sull’auto
nomia dell’individuo onnipotente, che modella il suo mondo senza l’in-
20. Vico, Ijx Scienza nuova seconda, t. I, p. 33-34, # 41; p. 125, # 341.
21. Vico, Autobiografia, p. 38.
22. I b i d p. 32. Si veda anche Giambattista Vico, La Scienza nuova seconda, t. I, p.
97, # 245; le tappe sono: nascita, progresso, maturità, decadenza e fine.
142
Le fondamenta di un’altra modernità
143
Le fondamenta di un 'altra modernità
che gli è costata una buona ventina d’anni di lavoro in un contesto in cui
sono nominati Hobbes, Grotius e PufendorP'. In altre parti è più esplici
to e dice di avere risolto la questione lasciata aperta da Grotius: l’uomo è
un essere sociale per natura e non artificialmente per convenzione50.
In questo modo Vico lancia il suo attacco aü’Illuminismo, che egli
approfondisce quando oppone l’immaginazione alla ragione e quando
insiste sull’importanza dei costumi. La ragione utilizza concetti astratti,
mentre l’immaginazione utilizza immagini concrete. Per Vico l’immagi
nazione, sia sul piano della storia che dell’ontologia, precede la ragio
ne51. Giurista la cui grande ambizione era la cattedra di giurisprudenza
all’università di Napoli, Vico esprime il suo antirazionalismo attraverso
l’attacco al razionalismo dei teorici giusnaturalisti, in testa ai quali si
trova Grotius. Hugo Grotius era considerato dagli autori illuministi il
fondatore di una scienza morale moderna: indicava la possibilità di ot
tenere norme universali di morale. Proprio perché vedeva in lui uno dei
quattro uomini ai quali doveva la sua formazione, Vico si volge contro
l’autore di De iure belli ac pacis. Grotius e tutti gli altri teorici di quella
scuola, compresi i fondatori del liberalismo, Hobbes e Locke, pensava
no che il diritto fosse basato su un concetto atemporale di giustizia, ac
cessibile a tutti gli uomini razionali. Per Vico pensare che le norme in
vigore in qualunque momento della storia potessero essere accessibili
all’uomo dei primi tempi dell’umanità è un errore grossolano. Erano i
costumi a regnare, non la ragione - «il diritto naturai delle genti è usci
to coi costumi delle nazioni» - e i costumi sono frutto dell’imitazione,
che è una delle capacità primarie dell’uomo primitivo. Questo ci con
duce ugualmente alla conclusione che « ’1 mondo fanciullo fu di nazio
ni poetiche, non essendo altro la poesia che imitazione»52. E così che
l’autore della Scienza nuova sottolinea l’origine non razionale delle ci
viltà e spiega la fondazione della società civile e l’abbandono dello sta
to di natura.29301*
144
Le fondamenta di un 'altra modernità
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Le fondamenta di un’altra modernità
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Le fondamenta di un’altra modernità
una visione dell’individuo preso, sin dalla creazione, in una rete di rela
zioni sociali che non sono create da lui e che cambiano da un periodo al
l’altro e da un luogo aH’altro. L’individuo di Vico, formato dal contesto
storico e sociale, è il contrario deW’ego cartesiano. Vico fa numerose al
lusioni all’analogia esistente tra la vita di un essere umano, dall’infanzia
alla vecchiaia, e la comunità nazionale, dalle origini alla decrepitezza fi
nale. La concezione organica della società appare già chiaramente nel
l’autore della Scienza nuova. E così che si avvia questa seconda moder
nità, il cui peso si farà sentire completamente solo alla fine del XVIII se
colo e per tutto il corso del XIX.
Dopo Vico, ai suoi tempi sconosciuto, Herder assunse fin dalla sua
comparsa il ruolo di perno attorno al quale si organizza la critica dell’Il
luminismo e quindi la riflessione sul mondo contemporaneo. Fino ai
giorni nostri egli è considerato il rappresentante più reputato della nuo
va coscienza storica emersa nella seconda metà del XVIII secolo. Per
molti ne è in qualche modo l’inventore. Ciò non è assolutamente vero,
se si mette Herder di fronte a Voltaire e a Montesquieu, ma è esatto se
Io si considera come il primo anello di quella linea di pensiero che, nel
X IX secolo, pone l’accento sulla storia, la cultura, l’etnia, i sensi, gli istin
ti e l’immaginazione, cioè su quanto distingue e allontana gli uomini e
non su quanto li unisce: la loro comune ragione, i valori universali e i lo
ro interessi materiali. Con Herder e gli herderiani, non soltanto in G er
mania ma anche in Francia e in Italia emerge il nazionalismo culturale
con il suo corollario immediato, il nazionalismo politico, che, proceden
do nel X IX secolo, assume aspetti sempre più radicali e violenti. Il na
zionalismo culturale sfocia molto rapidamente nell’idea di Stato-nazio
ne, il cui corollario è l’onnipotenza dello Stato, e nell’idea di democrazia
come nemica della nazione.
Persino uno come Cassirer, anch’egli vittima del culto tedesco di
Herder, manifesta una curiosa tendenza a considerare quell’opera come
caduta dal cielo, creata dal nulla: la sua visione della storia, senza eguali
in purezza e perfezione, avrebbe prodotto una nuova concezione del
mondo storico, perché non si contenta di cercare i soli contorni della
storia ma vuole vederne separatamente ogni forma. La storia secondo
Herder non conosce nulla che sia davvero identico, per cui ogni genera
lizzazione astratta è impotente e nessun concetto specìfico unico, nessu
na norma universale è in grado di comprendere tutta la sua ricchezza.
147
Le fondamenta di un altra modernità
Ogni situazione umana ha il suo singolo valore, ogni fase della storia
possiede i suoi propri diritti e la sua necessità immanente. Il primo sfor
zo dello storico dovrà dunque essere, invece di sottomettere il proprio
oggetto a una misura uniforme fissata una volta per tutte, quello di adat
tare la sua misura all’individualità dell’oggetto41.
Lo stesso Herder era consapevole della grande fragilità del suo ra
gionamento e si aspettava di «esser frainteso»42. In altri termini egli sa
peva che la sua argomentazione, a causa dell’inconsistenza, era larga
mente aperta alle critiche. Da un lato conosceva «la debolezza delle ca
ratterizzazioni generali» che elaborava a profusione e dall’altro voleva
essere il pittore di quadri specifici per ogni situazione, popolo ed epo
ca4’. Sapeva che ciò che chiama col nome «di spirito gotico, di cavalleria
nordica nel più ampio senso di questa parola» non poteva comprendere
i particolari dei «diversi periodi dello spirito medievale»44.
Altrove fa una domanda e dà subito la risposta: «Eran tutti egizi, gre
ci, romani, tutti i topi e tutti i sorci sono identici... già, ma appunto son
topi e sorci». Ma se ci si tuffa nell’infinito delle particolarità, a che cosa
si arriva? «Se ti stringi addosso a un quadro, ne cincischi un frammento,
ne spilluzzichi un grumo di colore, non vedrai più nulla dell’immagine
stessa, tutto vedrai meno che il quadro!» Poi prosegue quello che po
trebbe facilmente essere scambiato per un processo al suo atteggiamen
to: «E se la tua mente è piena d’un gruppo di figure di cui ti sei invaghi
to, come potrà il tuo sguardo abbracciare nel suo insieme il corso dei
tempi ricolmo di tante vicende? Come l’ordinerai? In che modo potrai
delicatamente seguirne le vie, distinguere in ogni scena soltanto gli ele-
148
Le fondamenta di un’altra modernità
149
Le fondamenta di un’altra modernità
della storia come dramma congegnato da Dio è la via herderiana per rap
presentare la totale dipendenza dell’individuo: dipendenza nei confron
ti della trascendenza così come nei confronti della comunità storica, na
zionale e culturale. «Il Dio che io cerco nella storia," deve èssere lo stes
so che c’è nella natura, perché l’uomo è soltanto una piccola parte del
tutto, e la sua storia, come quella del verme, è saldamente intrecciata con
il tessuto in cui abita. [...] Tutto ciò che può accadere sulla terra, deve
accadervi, quando accade, secondo regole che portano in se stesse la lo
ro perfezione.»48 Questa visione dei rapporti tra individuo e collettività
è assolutamente moderna in quanto prepara i secoli X IX e XX. La nul
lità dell’individuo - «Uomo, sempre null’altro che strumento»49 - è il
vessillo innalzato da Herder contro rilluminismo: subito lo segue de
Maistre e poi Carlyle dà il cambio per tutta la prima metà del X IX seco
lo. Durante la seconda metà dello stesso secolo Renan e Taine portano
avanti questa linea fino agli inizi del X X secolo, quando la nullità del
l’individuo viene tradotta in termini liberati dalla loro connotazione cri
stiana, per diventare la pietra miliare della lotta contro il liberalismo e la
democrazia. Questa visione globale delle cose umane dura fino a ritro
varsi poi in Croce, Spengler e Meinecke.
_ Dobbiamo dunque volgerci àdesso all’autore di Die Entstehung des
Historismus. Il tema principale di questo lavoro, come di altre opere di
IT I
48. Herder, Idee per la filosofia della storia dell’umanità, a cura di Valerio Verrà, La-
terza, Roma-Bari 1992 (edizione ridotta), libro XV, cap. V, pp. 316-317.
49. Herder, Ancora una filosofia della storia, p. 93 (S. 558).
150
Le fondamenta di un’altra modernità
50. Meinecke, Hìstorism. The Rise of a New lìistorical Outlook, pp. 92-95 [Le origi
ni dello storicismo, pp. 92-95],
51. Ibid, pp. 101-102 [pp. 100-101],
52. Ibid., p. 102 [p. 101].
151
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Le fondamenta di un’altra modernità
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Le fondamenta di un’altra modernità
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Le fondamenta di un’altra modernità
che si vuole vedere in lui dopo Herder. Da queste pagine si può facil
mente concludere che anche la supremazia della lingua di Molière e di
Racine non è garantita per sempre: il francese è diventato la lingua d’Eu
ropa perché tutto vi ha contribuito, dai grandi autori del secolo di Luigi
XIV fino ai pastori calvinisti rifugiati all’estero e agli storici come Bayle
o Saint-Évremond, letti in tutta Europa61. Per Voltaire, la lingua non è
dotata di un genio speciale, come Herder e Fichte diranno per i tedeschi:
è stata una congiuntura culturale eccezionale a fare del francese la lingua
dell’Europa colta. Ciò che resta essenziale per Voltaire è che nel XVIII
secolo fu compiuto un incomparabile balzo in avanti.
Voltaire non inventa soltanto l’idea di filosofia della storia, non crea
solo il dominio della storia culturale nel quadro di una storia della civiltà;
nelle opere storiche porta avanti la sua impresa di demistificazione. Pensa
che ogni tradizione deteriori quello che trasmette. Applica le regole carte
siane alla ricerca della verità storica6263.Sicuramente la sua documentazione
non è esente da numerose lacune, ma l’autore de Le siede de Louis XIV fa
un notevole lavoro di ricerca, si dedica ai documenti scritti, come memo
rie di intendenti o manoscritti di contemporanei; fa già della storia orale e
interroga i testimoni, non esita, passando al setaccio fonti scritte e testi
monianze e verificando le condizioni sul terreno, a mandare a pezzi miti
come quello del passaggio del Reno da parte dell’esercito di Luigi XIV,
che Boileau celebra in versi. Come il pubblico parigino, Boileau credeva
che l’esercito avesse passato il fiume a nuoto e malgrado il fuoco di arti
glieria proveniente da una fortezza inespugnabile, prodezza definita da
Bossuet come «prodigio del secolo». Voltaire cancella il prodigio: la fa
mosa fortezza non era che una baracca di doganieri, l’avversario due de
boli reggimenti di fanteria e qualche centinaio di cavalieri6’. Questo modo
di procedere è sufficiente per suscitare l’odio di Herder e di Burke. La sua
guerra al cristianesimo, la sua critica della tradizione e il razionalismo ba
stano per far insorgere contro di lui, ognuno per una diversa ragione,
Taine e Renan, Barrès e Maurras, Croce, Spengler e infine Berlin.
155
Le fondamenta di un’altra modernità
Meinecke rende omaggio sia alla qualità dell’opera che al Grand Siè-
cle francese. Ma per lui gli errori commessi da Voltaire sono anche in
proporzione alla sua grandezza: egli manifesta tutti i difetti dell’Illumi-
nismo. Infatti i criteri in virtù dei quali egli giudica il passato, il modo in
cui guarda alle culture dell’Asia per combattere il cristianesimo, il qua
dro buio che fa del Medioevo, la luce del Rinascimento e poi di nuovo
la notte delle guerre di religione, sono i criteri della ragione. Là sta il cen
tro del male, perché un abisso separa il grande impero dell’irrazionale e
il piccolo reame della ragione, abisso aperto dalla psicologia meccanici
sta deH’Illuminismo. E proprio a causa del suo ragionamento meccanici
sta ed egoista che egli non può comprendere «la vita autonoma degli or
ganismi storici sorti dallo spirito umano»:64 e la prima di queste creazio
ni è lo Stato. Meinecke riconosce che Voltaire vuole uno Stato forte e in
dipendente, libero specialmente da ogni influenza religiosa, ma unica
mente come strumento di civiltà, o, come dice lui nel linguaggio illumi
nista, strumento di «felicità» dei popoli. Voltaire pone il principio per il
quale lo Stato esiste per il bene degli individui: esprime così le aspira
zioni individualiste e liberali della borghesia e parla in termini utilitari
stici; Meinecke lo considerava un principio basato su un egoismo indivi
duale o di classe65.
Per questo, secondo Meinecke, benché Voltaire sapesse che «la forza
[...] ha fatto tutto a questo mondo»,66il suo approccio moralizzatore, che
è quello deH’Illuminismo nel suo complesso, gli impedisce di compren
dere l’idea dello Stato e la natura del potere politico in tutta la sua
profondità. Egli sa che cosa sia la ragione di Stato, ma non capisce né la
dipendenza dallo Stato di ogni forma di vita culturale né la sua stretta in
dividualità. Per lui i monarchi sono intercambiabili, posto che apparten
gano a periodi che siano più o meno allo stesso livello di sviluppo della
ragione. Ancora una volta, Meinecke pone l’accento su quello che dal suo
punto di vista è essenziale: l’incapacità di Voltaire di cogliere l’immensità
dell’individualità. Inoltre la solidarietà umana appare come un aspetto
del grande autocompiacimento illuminista e, cosa ancora più grave,
64. Meinecke, Historism. The Rise of a New Historical Outlook, p. 85 [p. 84],
65. ¡hid. [pp. 84-85].
66. Voltaire, Saggio sui costumi, t. II, p. 6.
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Le fondamenta di un’altra modernità
67. Meinecke, Historism. The Rise of a New lìistorical Outlook, pp. 80-81 [p. 80].
68. lbid., pp. 87-88 [p. 86].
69. lbid., p. 55 [p. 55],
70. lbid., p. 102 [p. 102],
71. Montesquieu, Lo spirito delle leggi, p. 25. Quando apparve, nel 1748, quest’o
pera si intitolava De l’Esprit des Lois ou du rapport que les lois doivent avoir avec
la Constitution de chaque gouvernement, les Mœurs, le Climat, la Religion, le
Commerce, etc. L’opera era grandiosa ed ebbe un trionfo immediato (a Ginevra
ne uscirono ventidue edizioni in meno di due anni). Un quarto di secolo prima
anche le Lettres persanes erano state un enorme successo.
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Le fondamenta di un’altra modernità
72. Meinecke, Historism. The Rise o f a New Historical Outlook, pp. 103-106 [pp.
102-106],
73. Ibid, pp. 108-114 [pp. 108-114],
74. Ibid., p. 116 [pp. 116-117].
75. Ibid, pp. 123-128 [pp. 122-128],
76. Ibid., p. 141 [p. 141].
77. Montesquieu, Lo spirito delle leggi, p. 702.
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Le fondamenta di un’altra modernità
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Le fondamenta di un’altra modernità
Herder avrebbe parlato più tardi. Mallet mostra vere qualità di storico,
ma rimane essenzialmente un illuminista, fedele al concetto di diritto na
turale e all’idea dell’eguaglianza universale della natura umana. Secondo
Meinecke, Mallet fu pioniere in un’arte che avrebbe raggiunto la perfe
zione con il grande storico svizzero Burckhardt. Solo combinando la sto
ria politica e militare con la storia dei costumi e delle opinioni si giunge
a un « corps d'histoire véritablement utile et compiei»80. Quell’opera ha
avuto poca risonanza in Francia, mentre in Inghilterra e in Germania fu
all’origine di una grande infatuazione per i nordici.
Anche in Inghilterra furono compiuti importanti progressi. Dopo
Shaftesbury vennero Hume e Gibbon. Hume sarebbe stato capace di ri
conoscere le forze dello spirito anche come forze individuali, se la sua
«ragione» non fosse stata ancora incatenata ai principi del diritto natu
rale. Non è stato capace di compiere il passaggio verso un’esperienza che
avrebbe inglobato l’intera psiche. Il suo intellettualismo gli ha solo per
messo di riconoscere le forze irrazionali dell’anima. Hume doveva molto
al pensiero di Montesquieu e di Voltaire, la sua Storia dell’Inghilterra po
teva essere scambiata per un’imitazione del Siècle de Louis XIV, ma egli
era un pensatore più vigoroso e più profondo di Voltaire; il suo pragma
tismo rappresentava un grande passo avanti, anche se era ancora vittima
dei limiti imposti dal diritto naturale. Non poteva penetrare le profondità
psicologiche, pur sapendo che esisteva un mondo misterioso e che la pa
rola «sorte» significava che esistevano fenomeni dalle cause sconosciute.
Tuttavia la ragione per Hume non aveva ancora perso il suo carattere sta
bile, permanente ed eterno, ed egli commetteva ancora gli errori caratte
ristici degli Illuministi: generalizzazioni rapide e inclinazione a vedere
ovunque rapporti di causa ed effetto. Quanto si poteva apprendere dal
la storia non era ancora individuale ma soltanto tipico e generale81.
Anche Gibbon è vittima dell’incoerenza che regna nel pensiero illu
minista. I criteri assoluti sono sempre presenti: è solo con l’ascesa dello
storicismo, con il suo particolarismo - Meinecke parla di «individuali
smo» - che sarà possibile cogliere tutta la tragedia del mondo antico. Il
80. Ibid., pp. 147-153 [pp. 147-153] (la citazione di Mallet è in francese e in corsivo
nel testo).
81. Ibid., pp. 156-161, p. 186 [pp. 155-161 e 184-185].
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Le fondamenta di un ’altra modernità
84. Ibtd., pp. 220-221 [pp. 218-219], Quest’opera giovanile di Burke è stata ritrova
ta solo dopo la sua morte e oggi è difficilmente accessibile. Un esemplare si tro
va alla British Library.
162
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Le fondamenta di un’altra modernità
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Le fondamenta di un'altra modernità
sarebbe riuscito a dare una spinta e una direzione decisive a quel proces
so di liberazione dalle norme universali e dalla sovranità della ragione89.
In questo modo, dopo un lungo periodo di incubazione e di avanza
ta a tentoni, con il genio tedesco di Herder si giunge alla cima. Apparso
l’anno in cui YEssai sur les mœurs di Voltaire viene pubblicato in forma
definitiva, il Giornale rappresenta, nella mente di Meinecke, il manifesto
dell’età nuova. In effetti, nei pensieri affidati da Herder a quelle pagine
riportate dalla Francia, Meinecke vede un insieme di idee rivoluzionarie
che sarebbero poi esplose nel movimento Sturm und Drang. Quelle idee
erano destinate a fare fermentare l’intera vita spirituale e mentale, in par
ticolare per la poesia, l’arte e la filosofia, e, nientemeno, a trasformare da
cima a fondo tutto il pensiero storico. Anche se nel pensiero di Herder
erano rimaste tracce del pensiero di Voltaire, «l’illuminismo», esclama lo
storico tedesco, «cedeva, sorgeva l’alba dello storicismo»90.
Per lui il contributo specifico di Herder consiste nell’avere svilup
pato un certo numero di idee intimamente legate fra loro: l’idea dell’in
dividualità inimitabile di tutte le creazioni storiche e il loro continuo ri
torno nel processo di sviluppo umano, l’idea dello sviluppo organico
delle culture e delle nazioni, l’idea di decadenza legata alla critica che
inizia con Rousseau e continua con Hamann, e la rivolta delle forze irra
zionali, le forze del sangue contro il «gelido razionalismo» e la «civiltà
meccànizzatrice». Un’altra linea di pensiero è che non c’è età senza Dio.
Herder veniva così indotto a opporsi alla più recente dottrina illumini
sta di cui Voltaire era l’esponente. Quella dottrina mostrava la storia co
me confronto continuo tra la ragione e tutte le forze a essa contrapposte
e la giudicava in funzione della «perfezione» raggiunta dal XVIII seco
lo. Allo stesso modo Herder non poteva che opporsi alla visione ottimi
stica di un continuo progresso del genere umano. Tutte quelle dottrine
erano radicate nella vecchia concezione del diritto naturale e dell’esi
stenza di una natura umana sempre eguale a se stessa91.
Ne deriva che il bene appare come una condizione necessaria del
male e il male come una condizione necessaria del bene. Il perspicace
166
Le fondamenta di un’altra modernità
Machiavelli aveva ben visto che, in ogni istituzione, per quanto utile e
necessaria sia stata in passato, affiora un male nascosto. Vico ha mostra
to che le passioni e le emozioni limitate degli uomini erano utilizzate da
Dio per produrre un livello di cultura più elevato. In seguito è giunta l’i
dea hegeliana di «astuzia della ragione». Per Herder Dio, in quanto edu
catore dell’uomo, poteva condurlo verso il suo scopo a volte anche per
vie traverse92.
Nella sua incessante lotta contro il razionalismo del XVIII secolo o,
come dice Meinecke, contro quella orgogliosa fede nella ragione, contro
l’ammirazione per il Rinascimento di cui erano colpevoli i razionalisti,
che vi vedevano l’apice della cultura umana, Herder crea il concetto di
«destino». Avvicinandosi al proprio tempo, diventa più umile: « “Noi sia
mo...al nostro posto fine e strumento del destino”». Per Herder la ra
gione può condurre allo scetticismo; guardando nel cuore degli uomini,
ci si rende conto che il progresso non esiste e che il mondo non miglio
ra9’. In lui si trova sia una tentazione alla decadenza che un appello cri
stiano all’attività in questo mondo.
Tuttavia, la formula « “Io non sono nulla, ma l’insieme è tutto”» o il
paragone dell’uomo con la formica non dimostrano, secondo Meinecke,
una dipendenza dell’individuo dalla collettività diversa da quella nei
confronti di Dio, anzi. Dal suo punto di vista, Herder aveva ragione a
rimproverare aH’Illuminismo di vedere nell’individuo solo un meccani
smo isolato, mentre lui esclamava: « “Cuore! sangue! calore! uma
nità!”» 94 La citazione ritorna anche sotto la penna di Gadamer e di Ber
lin per divenire, nel corso di due secoli di campagna ininterrotta contro
l’Illuminismo, un grido di raccolta e una sorta di vessillo fieramente spie
gato. Questo appello alle forze della vita, dei sensi, della solidarietà etni
ca, del sangue è visto dai due filosofi - uno tedesco, l’altro britannico —
avanzanti sulle orme di Herder e di Meinecke come un magnifico mani
festo di rivolta contro l’aridità o, per dirla tutta, contro l’odore di morte
che si diffonde dal XVIII secolo francese. Sia Meinecke che Gadamer e
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104. Isaiah Berlin, «Forward», in Friedrich Meinecke, Historism. The Rise o f a New
Historical Outlook, pp. IX-X.
171
Le fondamenta di un 'altra modernità
sviluppano come piante, obbedienti alla propria natura specifica. Per que
sto - qui Berlin non riassume soltanto il pensiero di Meinecke ma lo fa
proprio - non è possibile comprendere o spiegare quei corpi con leggi o
principi generali. Egli concorda con lui nel pensare che un criterio gene
rale può solo ignorare le loro specificità, dal momento che i valori di una
società non possono essere quelli di altre società o di altre epoche. La giu
stificazione di quello che le società sono e fanno si trova solo in esse stes
se. Meinecke, osserva Berlin, era profondamente turbato dal relativismo
morale verso cui convergeva una simile visione delle realtà umane e dal
l’idea che ne derivava, cioè che soltanto il successo, e a volte solo la forza,
costituiscono i criteri che ci permettono di decidere quali siano i valori
che contano o che danno un senso alla vita. Era consapevole del fatto che
un simile relativismo era inconciliabile con l’aspirazione umana verso
qualcosa di più di un tale soggettivismo, il bisogno di un fine comune105.
Lo stesso Berlin è abbastanza lucido per capire che la rivolta contro
quella che Meinecke definisce la «visione generalizzatrice», cioè l’idea
razionalista, l’impero della legge di natura, contro le diverse varianti di
positivismo, di utilitarismo, ma soprattutto contro l’idea secondo la qua
le l’universo è un grande sistema che gli uomini possono penetrare e ren
dere intelligibile per mezzo della ragione posseduta da tutti, sempre e in
tutti i tempi, questa rivolta è all’origine di molte grandi correnti ideolo
giche degli ultimi due secoli. Egli elenca queste correnti: da un lato tra
dizionalismo, pluralismo, romanticismo e concezione prometeica del
l’uomo, anarchismo, nazionalismo, realizzazione individualista di sé, dal
l’altro imperialismo, razzismo e ogni sorta di tendenza irrazionale106. Si
nota che il liberalismo e la democrazia, così come il socialismo, non com
paiono nell’albo d’onore, e a ragione. Allo stesso tempo il presidente del
la Royal Academy mostra un Meinecke preoccupato di non cadere negli
stessi errori, da lui stesso criticati, della esecrata tradizione giusnaturali-
sta, la tradizione meccanicista, livellatrice, enciclopedista del XVIII se
colo. I tre eroi di Meinecke sono Herder, Goethe e Mòser, e Meinecke
cerca di cogliere ciò che Mòser chiamava ¡’«impressione totale», quella
che non si può mai ottenere con la semplice analisi delle componenti di
172
Le fondamenta di un’altra modernità
un insieme. Solo gli insiemi contano107. Ciò che dà una straordinaria vi
talità alla dimostrazione di Meinecke, prosegue Berlin, è il fatto che egli
era coinvolto nei problemi evocati non meno dei pionieri della corrente
storicista. Era consapevole delle difficoltà, e la storia che scrive è anche
quella che lo vede attore, oltre che osservatore. Berlin prova grande sim
patia per quello che presenta come un vecchio che non si è prostrato di
fronte a Hitler e all’hitlerismo; egli dimentica però di ricordarci che non
solo quel grande accademico non ha levato la minima protesta contro il
regime che vedeva instaurarsi e mettersi alacremente al lavoro, ma si è
anche entusiasmato per le vittorie degli eserciti di Hitler. Meinecke, os
serva Berlin, era un uomo per bene immerso in una situazione difficile.
E utile citare integralmente questo passaggio chiave della prefazione
scritta da Berlin a un’opera pubblicata nel 1936 e tradotta in inglese nel
1972: «Questo libro fu scritto in un periodo di crisi che, consciamente o
inconsciamente, presentava delle somiglianze con l’altra svolta critica
nella storia della Germania, quando il Geist tedesco si trovò investito da
un lato dallo spirito livellatore della centralizzazione e dell’organizzazio
ne razionale della Francia rivoluzionaria e napoleonica, uno spirito che
è tutto disprezzo per la tradizione e per l’individualità delle diverse so
cietà - con l’aiuto dell’influenza esercitata dall’industrialismo britannico
e la distruzione degli antichi legami che ne risultò - e dall’altro lato,
quando si trovò faccia a faccia con il pericolo creato dalla grande poten
za barbara e minacciosa dell’Est. Se lo “spirito” tedesco ha potuto vin
cere quella guerra su due fronti, e istituire il grande Stato tedesco unifi
cato, lo ha fatto a un prezzo che taluni potrebbero trovare esorbitante in
termini di valore morale. Dopo il 1918, con il bolscevismo a est, e, an
cora una volta, quello che considerava come un piatto universalismo li
berale a ovest, Meinecke ha posto tutte le sue speranze in una sintesi mi
steriosa di valori e di morali individuali, e di morali e di bisogni pubbli
ci, che si sarebbe manifestato in una storica marcia maestosa di quel
107. Ibtd., pp. XII-X1II. In effetti, tutto questo somiglia molto alla differenza che
Sorel stabilisce tra mito e utopia: l’utopia è una costruzione razionalista, un
modello razionale che può essere confutato, a differenza del mito; il mito non
può essere decostruito nelle sue componenti, e per questo è inconfutabile, per
ché la ragione non ha presa su di esso.
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della sconfitta112134. Ernst Jünger, decorato con una nuova Croce di ferro
guadagnata durante la campagna di Francia, andava pavoneggiandosi
nei salotti parigini; ricevuto da artisti e scrittori, era anche il simbolo del
la vittoria di un sistema di valori su un altro. Renan lo aveva già detto nel
1870; nel 1940, con tutta la falange dei virulenti critici deH’Illuminismo
impegnati nella Rivoluzione nazionale, si tornava al punto in cui ci si era
trovati all’indomani di Sedan: per tutti la forza rimaneva il criterio della
superiorità morale e intellettuale.
Per Gadamer Herder fu il fondatore della critica globale aH’Illumi-
nismo. Il «postulato appassionato» del predicatore era proprio lì; è quel
lo che permette, andando oltre Rousseau, la «liberazione dai pregiudizi
culturali dei philosophes enciclopedisti», è quello che rende finalmente
possibile la riduzione «a nulla» della «ingenua vanità che il periodo illu
minista ha della propria civiltà»: secondo Gadamer, Herder non va sol
tanto oltre la filosofia illuminista ma anche oltre la sua antinomia, il pen
siero di Rousseau, non va soltanto oltre l’intellettualismo e « l’illusione
del progresso ma anche la rivolta del sentimento»"’. In questo modo la
rivolta contro l’Illuminismo conduce alla scoperta del senso storico. Qui
arriva l’essenziale: «Chi dice senso storico dice senso della forza»11,1.
Pierre Pénisson, autore di un’importante opera su Herder, contesta
l’analisi di Gadamer: privato di qualsiasi traccia di Aufklärung, il suo
Herder afferma il rifiuto della ragione, deH’Illuminismo e dell’idea di
progresso115. E incontestabile che occultare il periodo classico e le opere
dell’epoca di Weimar, che si apre nel 1776, nelle quali egli mira a un cer
to umanesimo dogmatico, è ingiusto proprio come dimenticare la sua
magistrale opera di gioventù. Ma è proprio nelle Idee, nella seconda
metà degli anni Ottanta del Settecento, che matura la visione herderiana
della storia, e questa corrisponde effettivamente all’idea che ne dà G a
damer. Egli non ha falsato il pensiero di Herder, tutt’altro: «L’intera sto
ria umana è una pura storia naturale di forze, di azioni e di istinti umani,
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116. Herder, Idee per la filosofia della storia dell'umanità, libro XIII, cap. 7, p. 264.
117. Herder, Ancora una filosofia della storia, p. 95 (S. 559). Nel testo originale com
paiono virgolette e punti esclamativi: si veda l’edizione Pross del 1984 dei
Werke, Band I, p. 660: «Unendliches Brama von Scenenì Epopee Gottes durch
alle jahrtausende Wellteile und Menschengeschlechte, tausendgestaltige Label
voli eines grossen Sinns\»
118. Ibid.
119. Ibid., p. 97 (S. 562). È Max Rouché, in due note in fondo alla p. 309 dell’edi
zione francese, che attira l’attenzione del lettore sul testo biblico.
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Le fondamenta di un’altra modernità
Infatti Ancora una filosofia della storia serviva esattamente allo sco
po che Herder cercava di raggiungere. Se anche non ha inventato la sto
ria, il teologo protestante ne ha fondato una nuova visione che non era
più quella di Bossuet, ma che era ancor più lontana da quella che sta
vano producendo i razionalisti francesi o britannici, come Robertson o
Ferguson. Herder aveva inaugurato un modo di guardare la storia co
me prodotto di un disegno divino; si scagliava contro la negazione del
la provvidenza che trasudava dall’opera dei suoi predecessori e riduce
va al minimo il ruolo della volontà umana. «Il corso della provvidenza
passa anche su milioni di cadaveri per raggiungere quel fine che è il
suo»,120 afferma in Ancora una filosofia della storia. Herder giustifica il
male nella storia? È difficile dubitarne. Nelle Idee, dove la polemica
contro Kant, pur meno violenta di quella contro Voltaire, segue sempre
con molta costanza la linea di pensiero inaugurata dieci anni prima, si
trova il passo seguente: «Tutte le opere di Dio hanno in sé la propria
consistenza e la loro bella coerenza in se stesse. [...] Con la guida di
questo filo conduttore, mi addentro nel labirinto della storia e vedo
dappertutto un ordine divino armonico, giacché tutto quello che mai
può accadere, accade, e ciò che può operare, opera»121. Tra Ancora una
filosofia della storia e le Idee vi sono certo delle differenze ma la conti
nuità è altrettanto evidente.
Per questo Gadamer ha perfettamente ragione a insistere non solo
sulla specificità del pensiero di Herder ma anche sulla sua unità. Fa ap
pello all’autorità dello stesso Herder, che aveva già chiarito che le Idee
per la filosofia della storia dell’umanità costituivano la revisione e attua
zione dei principi e delle idee contenuti in Ancora una filosofia della sto
ria. Sicuramente nelle Idee si può individuare un certo avvicinamento al-
l’Uluminismo, ma nelle forme e nel tono più che nel fondo e nel conte
nuto: l’antirazionalismo di Herder, il suo appello alla fede, la sua ricon
ciliazione intellettuale con Jacobi testimoniano la logica del suo percor
so. Inoltre, a un secolo e mezzo di distanza, queste differenze hanno per
so molto del loro peso122. È certo che l’opera di Weimar non manifesta
179
Le fondamenta di un’altra modernità
123. Ibid., p. 19. Gadamer non cita le sue fonti, ma il testo che precede questa cita
zione - «le idee infatti non producono che idee» - è facilmente riconoscibile:
si veda Ancora una filosofia della storia, p. 72, e il nostro cap. 3.
124. Ibid, p. 19.
125. Ibid., pp. 18-21.
126. Ibid., pp. 22-23.
180
Le fondamenta di un’altra modernità
181
Le fondamenta di un’altra modernità
182
Le fondamenta di un’altra modernità
all’opera del 1774, la quale sarebbe stata solo l’espressione del cattivo
umore di un giovane incollerito, mentre nella sua opera maggiore Her
der sarebbe diventato un illuminista. La prima edizione di Goti appare
proprio nel momento in cui Herder termina la redazione delle Idee.
Hegel, prosegue la Bienenstock, non può perdonare a Herder la sua
adesione a Jacobi nella seconda edizione di Gott, dove l’autore afferma
che per lui, si tratta solo di «spiegare» qualcosa mediante la nozione di
Kraft: per Hegel la spiegazione e ancora di più l’imperativo di conoscenza
sono fondamentali. Non può esserci alcun motivo di rinunciarvi a vantag
gio della fede. Per Hegel rinunciare al sapere, alla conoscenza, è rinuncia
re alla libertà e, con la libertà, a qualsiasi morale. Rinunciando all’obietti
vo di Spinoza - rendersi liberi con il sapere, con il riconoscimento della
necessità - perdendo di vista l’essenza del sistema spinoziano, Herder, se
condo Hegel, ha pietosamente rinunciato all’essenziale, all’obiettivo fon
damentale. Ed è proprio quest’obiettivo fondamentale - mostrare che la
libertà si acquisisce con il riconoscimento della necessità - che spiega per
ché la filosofia della storia di Hegel differisce da quella di Herder1” .
In effetti Hegel riprende da Herder alcune categorie, come «spirito»
e «spirito di un popolo», ma dà loro un senso completamente diverso. Il
razionalismo hegeliano non poteva uniformarsi a un pensiero in cui la fe
de sostituiva la ragione. Per questo Hegel si volge a Montesquieu e non
a Herder per rendere omaggio a colui che ha «fondato la sua opera im
mortale sull’intuizione dell’individualità e del carattere dei popoli»,134135
cioè proprio la ragione per la quale non è verso Montesquieu, e d’al
tronde nemmeno verso Hegel, ma verso Herder che si volsero, nei seco
li X IX e XX, Taine, il Renan della Réforme e degli altri scritti politici,
Barrès (attraverso Michelet) e i rivoluzionari conservatori tedeschi, così
come i nazionalisti di tutte le parti d’Europa e tutti i critici deH’Illumi-
nismo davvero colti. Anche Herder aveva misurato sin dall’inizio la di
stanza che lo separava da Montesquieu: il suo antirazionalismo era un
fossato difficile da colmare. Negli ultimi anni del Novecento anche l’at
teggiamento di Isaiah Berlin verso il giurista di Bordeaux sarebbe stato
altrettanto critico.
183
Le fondamenta di un 'altra modernità
184
Le fondamenta dì un’altra modernità
140. Adam Ferguson, An Essay on tbe History of Civil Society, Cambridge Univer
sity Press, Cambridge 1995, terza parte, cap. 7 (pp. 161-163 sulla «storia delle
arti») e cap. 8 (pp. 164-171 sulla «storia della letteratura»); si veda in partico
lare p. 162. [Saggio sulla storia della società civile, a cura di Alessandra Attana
sio, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 156-159 e 159-166; si veda in particolare p.
157],
141. Ibid., p. 103 [p. 100], Questo brano si trova anche nell’lntroduction di Rouché
a Une autre pbilosophie de l’histoire, p. 100.
185
Le fondamenta di un 'altra modernità
l’intera storia nazionale è un’idea che Herder attinge dall’Essai sur les
mœurs. Nel suo Diario di viaggio 1769 egli riassume la lezione appresa:
la storia non diventa mai «storia dei sovrani, delle dinastie, delle guerre,
ma del reame, del paese e di tutto ciò che ha contribuito alla sua fortu
na o al suo declino»142.
Ma che cos’è l’idea dello «spirito» che emerge nel XVIII secolo, in
primo luogo in Voltaire e in Montesquieu? Cassirer e Meinecke hanno
rilevato il ruolo che questa idea poteva avere come motore dell’analisi
storica. Hanno sottolineato il ruolo di una riflessione sullo spirito di
un’istituzione, di un popolo o di un’epoca nell’aprire la via a una nuova
concezione della storia. Però c’è un modo «illuminista» di riflettere sul
lo statuto dello spirito, quello di Montesquieu e di Voltaire, e c’è il mo
do di Herder. Per Montesquieu l’analisi dello spirito delle leggi costitui
sce una riflessione sulla specificità dei popoli, dei loro costumi, dei loro
modi di vivere e dei loro comportamenti a partire dai differenti principi
che reggono i loro sistemi giuridico-politici. Per Voltaire, molto più che
semplice strumento di analisi storica, lo «spirito dei popoli e dei tempi»
costituisce l’elemento fondamentale che presuppone l’idea stessa di una
filosofia della storia14’. In questo modo, grazie alla loro concezione della
storia come storia delle masse, i razionalisti hanno potuto andare oltre
Bossuet e Vico. La riabilitazione della storia è un merito della filosofia il
luminista: non c’era alcun bisogno di combattere la ragione o di rifiuta
re all’individuo il suo statuto di soggetto per giungervi.
Lo stesso avviene per quanto riguarda la critica herderiana al classi
cismo francese, questo mezzo supremo per eliminare l’influenza france
se, o l’altra idea associata a Herder, il senso dell’individualità. Per giun
gervi, il razionalismo non era certo un ostacolo. In Montesquieu in ef
fetti si legge: «Trasportare in secoli remoti tutte le idee del secolo in cui
si vive, è, tra le fonti di errore, la più feconda»144. Rousseau non è meno
esplicito: «Non è forse noto che [...] la coscienza si altera e modifica in-
142. Rouché, Introduction a J.G. Herder, Journal de mon voyage en l’an 1769, pp.
34-35.
143. Jeffrey Andrew Barash, «Herder et la politique de l’historicisme», in Pierre Pé-
nisson (a cura di), Herder et la philosophie de l’histoire, p. 203.
144. Montesquieu, Lo spirito delle leggi, p. 756.
186
Le fondamenta di un’altra modernità
145. SivedaJ.-J. Rousseau, Giulia o la nuova Eloisa. Lettere di due amanti di una cit
tadina ai piedi delle Alpi, a cura di Elena Pulcini, trad. di Piero Bianconi, Riz
zoli, Milano 2004, p. 378.
146. Voltaire, Saggio sui costumi, 1.1, pp. 225-226.
147. Ibid, p. 255.
148. Ibid., p. 251.
149. Ibid., p. 242. Questo brano è citato anche da Rouché, Introduction a J.G . Her
der, Une autre philosophie de l’hisloire, p. 99.
150. Voltaire, Lettere inglesi, trad. di Mario Misul, Boringhieri, Torino 1968, p. 39.
187
Le fondamenta di un’altra modernità
188
Le fondamenta di un’altra modernità
Contro queste malattie del secolo che combatte, nei philosophes, con
tro il dubbio e lo scetticismo, Herder, come Burke, ripiega sul pregiudi
zio, e'ogni pregiudizio, giustificato o meno, è preferibile all’alternativa, al
dubbio, alla ragione, all’autonomia dell’individuo: la tradizione costitui
sce l’ancora che permette di evitare la deriva. E questo che Herder vuole
dire Quando, già nelle prime due pagine del saggio del 1774, attacca «la
lente del filosofo a priori», opponendole la descrizione delle origini del
genere umano nella Bibbia154. Col suo attacco alla tradizione lanciato da
Ancora una filosofia della storia e proseguito nei libri V ili e X delle Idee,
con la condanna, già dal 1774, di ogni tentativo di legislazione razionale,
Herder inaugura la linea di pensiero proseguita da Burke, da Rehberg e
Gentz nelle loro critiche alla nuova Costituzione francese. A Hobbes, a
Locke, a Montesquieu, a Rousseau e a tutte le varietà della scuola giu-
snaturalista il cui denominatore comune è una visione volontarista delle
origini della società, Herder oppone il racconto biblico o, in altri termi
ni, un’origine naturale e non razionale della società.
Se l’opera di Herder appare come la prima reazione globale contro
rilluminismo, più potente e più sofisticata di quella di Burke, è perché ri
mane incontaminata dall’odio per la Rivoluzione francese. I pensatori il
luministi non hanno avuto critiche più aspre delle sue, ma allo stesso tem
po non hanno nemmeno avuto un allievo più dotato del pastore di Bùcke-
burg. Perché Herder da loro ha preso la parte essenziale del suo pensie
ro, pur denigrando le loro opere per il razionalismo e lo spirito anticri
stiano che diffondono: egli non ha avuto un misterioso istinto per il par
ticolare e lo specifico, per il carattere unico di ogni essere umano, non ha
scoperto la nazione per un’improvvisa illuminazione, non ha scoperto l’u
nicità" degli avvenimenti e non è stato il primo né il solo a volere rendere
giustizia ai popoli oppressi o considerati primitivi. In Ancora una filosofia
della storia Herder sottolinea che «mai due istanti al mondo furono iden
tici»,155 cosa che, lo abbiamo appena visto, alla fine del Settecento non è
più una scoperta ma che nel Novecento diventerà un altro dei suoi meri
ti. Tuttavia ciò che importa è che questa idea si ritrovi nel Giornale di viag
gio 1769. Questo significa che l’idea di una relatività dei valori è conti-
189
Le fondamenta di un’altra modernità
156. Citato in Rouché, Introduction a J.G . Herder, Une autre philosophie de l’hi
stoire, pp. 102-103 (Suphan, IV, p. 472).
190
Le fondamenta di un’altra modernità
157. Si veda l’introduzione di Izoulet alla sua edizione di Les Héros (Armand Colin,
13J ed., 1928), pp. VIII-IX. Izoulet propende per la prima soluzione: un pro
cesso infinito di trasformazione.
158. Carlyle, Gli eroi, pp. 212-213.
191
Le fondamenta di un’altra modernità
192
Le fondamenta di un’altra modernità
193
Le fondamenta di un 'altra modernità
prio per questo. Il grande uomo scopre qualche fatto sconosciuto o mi-
sconosciuto, lo proclama; lo ascoltano, lo seguono «ed ecco tutta la sto
ria». Egli vede e crede a quel fatto con una fede indomabile e assoluta.
Intuizione e convinzione sono i due pilastri del modo di lavorare di
Carlyle ed è anche il comportamento che egli attribuisce ai grandi uo
mini. E, dice Taine, «ha ragione, perché non ve ne sono di più potenti.
Ovunque egli entri con quella lampada, produce una luce prima scono
sciuta. Sorpassa le montagne dell’erudizione polverosa e penetra nel
cuore degli uomini». In questo modo Carlyle supera la storia politica e
ufficiale, «indovina i caratteri, comprende lo spirito delle età spente» e,
meglio di Macaulay, «sente le grandi rivoluzioni dell’anima»167.
Ma non sono soltanto le qualità di visionario che Taine ammira in
questo autore «strano ed enorme nelle sue fantasie come nelle sue face
zie»168. Egli è altrettanto consapevole delle sue qualità di ricercatore. Lo
storico inglese rifiuta le dicerie e le leggende, «vuole trarre dalla storia
una legge positiva», scarta ogni «vegetazione parassita» che si accumula
durante la ricerca, per cogliere solo « l’utile e solido legno». Tuttavia «i
fatti colti da questa veemente immaginazione vi si fondono come in una
fiammata» e «le idee, trasformate in allucinazioni, perdono la loro soli
dità». Infine, «in lui si muove e ribolle un caos instabile di splendide vi
sioni, di prospettive infinite». Carlyle passa la sua vita, scrive Taine, a
esprimere venerazione e timore, «e tutti i suoi libri sono predicazioni»169.
Questo autore è «profondamente germanico, più vicino alla stirpe
primitiva di nessun altro dei suoi contemporanei», è quasi tedesco «per
la sua forza di immaginazione, per la sua perspicacia di storico antiqua
rio, per le sue larghe vedute generali»170. Contrariamente a Macaulay, ri
cercatore metodico e cauto che cammina su strade diritte e piane, Carly
le appartiene allo spirito e al temperamento dei profeti, dei poeti, degli
inventori, dei secoli romantici e delle razze germaniche. Di fronte a uno
storico come Macaulay, il cui talento secondo Taine consiste, quando va
oltre la semplice analisi, nel sostenere tesi, Carlyle è il modello perfetto
194
Le fondamenta di un ’altra modernità
195
Le fondamenta di un’altra modernità
sue idee più grandi. Per un mezzo secolo, forse per uno, il nostro com
pito maggiore sarà di ripensarle. Nessun movimento intellettuale più ori
ginale, più universale, più fecondo, più capace di trasformare e di rifare
tutto era mai apparso da tre secoli: per Taine il genio filosofico tedesco
che si era sviluppato alla fine del XVIII secolo ed era penetrato in tutte
le discipline era analogo a quelli del Rinascimento e dell’età classica:
«Come loro, rappresenta uno dei momenti della storia del mondo», co
me loro appare in tutti i paesi civili, in tutte le grandi opere dell’intelli-
genza contemporanea. Questa forma di spirito originale che in Germa
nia ha prodotto una filosofia, una letteratura, una scienza, un’arte, con
siste «nella potenza di scoprire le idee generali». Questa, afferma Taine,
è la facoltà dominante dei tedeschi: è il dono di comprendere, che con
siste, trovando dei concetti d’insieme, nel riunire sotto un’idea principa
le tutte le parti sparse di un soggetto174. In tal modo, sotto le divisioni di
un gruppo, si scorge il legame comune che le unisce, si conciliano le op
posizioni, si riconducono i contrasti apparenti a un’unità profonda. Si
tratta, conclude Taine, della facoltà filosofica per eccellenza. Attraverso
di esse i tedeschi «hanno scorto lo spirito dei secoli, delle civiltà e delle
razze, e hanno trasformato in un sistema di leggi la storia, che era solo
un mondo di fatti»175.
Anche il concetto di civiltà di Carlyle è tedesco: «Ogni civiltà ha la
sua idea, cioè il suo tratto principale, dal quale derivano tutte le altre; in
questo modo la filosofia, la religione, le arti e i costumi, tutte le parti del
pensiero e dell’azione possono essere dedotte da qualche qualità origi
nale e fondamentale dalla quale tutto parte e alla quale tutto arriva. Là
dove Hegel poneva un’idea, Carlyle pone un sentimento eroico. Questo
è più palpabile e più morale»176.
Tutte queste idee elaborate in Germania da cinquant’anni si riduco
no, afferma Taine in un testo importante, a una sola, «quella dello svilup
po \Entwicklung], che consiste nel rappresentare tutte le parti di un grup
po come solidali e complementari, in modo che ognuna di esse necessiti
del resto». Questa idea fondamentale, «spogliata delle parvenze, [...] non
196
Le fondamenta di un’altra modernità
dimostra altro che la mutua dipendenza che unisce i termini di una serie
e li ricollega a qualche proprietà astratta situata al loro interno. Se la si ap
plica alla Natura, si giunge a considerare il mondo come una scala di for
me e come una sequenza di stati che hanno in se stessi la ragione della lo
ro successione e del loro essere, [...] che con il loro insieme compongo
no un tutto indivisibile che, [...] bastando a se stesso, per la sua armonia
e la sua magnificenza assomiglia a un qualche Dio onnipotente e immor
tale». Quando questa idea viene applicata all’uomo, «si giunge a consi
derare i sentimenti e i pensieri come prodotti naturali e necessari, con
nessi tra loro come le trasformazioni di un animale o di una pianta; que
sto porta a pensare le religioni, le filosofie, le letterature, tutte le conce
zioni e le emozioni umane come le sequenze obbligate di una condizione
di spirito che le porta via se se ne va, che le riporta se ritorna e che, se
possiamo riprodurle, ci fornisce come conseguenza il modo di riprodur
le a volontà». Ecco come Taine vede le dottrine che circolano negli scrit
ti dei «due maggiori pensatori del secolo, Hegel e Goethe»17'.
Qui si trova indiscutibilmente l’idea che poi Max Weber svilupperà
in idealtipo. Prima di lui, Mosca aveva trovato in Taine l’idea per la qua
le la Storia non era la storia delle lotte di classe ma quella dell’ascesa e ca
duta delle élite. Taine aveva visto nel loro abbattimento una delle grandi
ragioni della Rivoluzione francese, Mosca ne fece una legge generale. La
ricerca di leggi generali era in effetti la grande lezione insegnata dallo
«spirito filosofico» tedesco. E per questo, per «passione per le vedute
d’insieme» che gli sarà propria per tutta la vita, che lo storico e critico cul
turale Taine appare davvero come uno dei grandi fondatori misconosciu
ti delle scienze sociali. Tuttavia egli è anche consapevole dei limiti di un
simile percorso: il continuo ricorso alle ipotesi e alle astrazioni conduce a
inventare spiegazioni arbitrarie o a perdersi in spiegazioni vaghe, due vi
zi che hanno corrotto il pensiero tedesco. I sistemi effimeri, le teorie vuo
te hanno proliferato: il correttivo è giunto da parte francese.
Infatti «ogni nazione ha il suo genio originale col quale essa plasma
le idee che prende altrove». Per questo ogni spirito rimodella queste idee
«secondo la struttura del proprio focolare»17178. Se Taine si rifà a Herder,
197
Le fondamenta di un 'altra modernità
198
Le fondamenta di un’altra modernità
nella sua zona più piccola, dice Carlyle, è «alla lettera, la città stellata di
Dio. [...] Attraverso ogni anima vivente risplende la gloria di un Dio
presente»182.
Questa «veemente poesia religiosa» per Taine è solo una «trascrizio
ne inglese delle idee tedesche». Del resto Carlyle prende la religione «al
la tedesca, in un modo simbolico». Il suo «cristianesimo è molto libero»,
«panteista», cosa che, aggiunge l’autore, «in buon francese moderno si
gnifica folle o scellerato»; infatti Carlyle considera il cristianesimo «co
me un mito».183 Questo è un importante elemento esplicativo, dato che
la religione ricopre un’altissima funzione sociale. Per lui tutte le religio
ni contengono una forma di verità, tutte interpretano a modo loro il sen
timento del divino, tutte sono dei simboli. L’unica detestabile è quella
che consiste solo in cerimonie apprese, in meccanica ripetizione di pre
ghiere. Quale che sia il culto, è il sentimento che gli comunica tutta la
sua virtù e si tratta del sentimento morale. Tutte le religioni ci dicono la
stessa cosa: la differenza tra un uomo cattivo e un uomo buono è infini
ta. Il cristianesimo, nella mente di Carlyle, è solo una delle forme della
religione universale. Egli «vuole ridurre il cuore dell’uomo al sentimen
to inglese del dovere»184.
In letteratura, osserva Taine, ponendo Hegel e Goethe sotto la disci
plina del sentimento puritano, Carlyle rinnova la critica. Egli considera lo
scrittore, il poeta, l’artista come un eroe, cioè «come un interprete dell’i
dea divina che è alla base di ogni apparenza, come un rivelatore della sto
ria», come un rappresentante del proprio secolo, della propria nazione,
della propria età. Queste «formule germaniche significano che l’artista di
stingue ed esprime meglio di chiunque altro i tratti salienti e durevoli del
mondo che lo circonda, in modo tale che dalla sua opera si può trarre una
teoria dell’uomo e della natura, così come un ritratto della sua razza e del
suo tempo»18’. L’autore degli Eroi così non rinnova soltanto la critica, ma
crea anche «un nuovo modo di scrivere la storia»186. Infatti il pilastro del
la visione storica di Carlyle è la sua concezione dell’eroe, che «contiene e
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Le fondamenta di un ’altra modernità
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Le fondamenta di un’altra modernità
201
Le fondamenta di un ’altra modernità
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Le fondamenta di un’altra modernità
umano è la più grande realtà aperta alle nostre investigazioni», per cui
«qualsiasi ricerca per illuminare un angolo di passato assume un signifi
cato e un valore»20’.
Così «ogni nostro giorno è ciò che è per il modo in cui capisce la
storia» e «la storia è la vera filosofia del X IX secolo. Il nostro secolo
non è metafisico. [...] Il suo grande pensiero è la storia e soprattutto
la storia dello spirito umano». La storia comanda le scelte, modella le
identità culturali o intellettuali: «Si è filosofi, si è credenti secondo il
modo in cui si considera la storia; si crede all’umanità o non ci si cre
de secondo il sistema della storia che abbiamo costruito»2“ . Per co
gliere l’essere bisogna fare appello alla storia: vi è «una scienza dello
spirito umano che non è soltanto l’analisi degli ingranaggi dell’anima
individuale, ma che è la storia stessa dello spirito umano. La storia è la
forma necessaria della scienza di tutto ciò che è in divenire»20'. Infine,
giunge un passo di grande importanza: «L a scienza dell’uomo sarà
messa davvero in luce solo quando si sarà ben persuasi che la coscien
za si crea, che, dapprima debole, vaga, non accentrata, nell’individuo
come nell’umanità, arriva alla sua pienezza attraverso diverse fasi. Si
comprenderà allora che la scienza dell’anima individuale è la storia
dell’anima individuale e che la scienza dello spirito umano è la storia
dello spirito umano». Ecco perché «il grande progresso della riflessio
ne moderna è stato di sostituire la categoria del divenire alla categoria
delVessere, la concezione del relativo alla concezione dell’assoluto, il
movimento aH’immobilità»20324506.
Renan sa bene che lo storico professa inevitabilmente una filoso
fia dell’uomo e della vita207. In questa presa di coscienza consiste
« l’immenso sviluppo storico della fine del XVIII secolo e del X IX »:
c’è «una vita dell’umanità come vi è una vita dell’individuo. [...] Ciò
che conferisce a Hegel l’immortalità è di avere espresso per primo con
una perfetta chiarezza questa forza vitale [...] che né Vico né Monte-
203
Le fondamenta di un’altra modernità
squieu avevano scorto, che lo stesso Herder aveva solo vagamente con
cepito. E per questo che si è garantito il titolo di definitivo fondatore
della filosofia della storia»208. La storia non sarà mai più «una vana serie
di fatti isolati ma una tendenza spontanea verso uno scopo ideale»,209
non potrà più essere un concatenamento di fatti e di cause, come per
Montesquieu, un movimento senza vita e quasi senza ragione, come per
Vico: «Sarà la storia di un essere, che si sviluppa per sua intima forza»210.
Nei fatti, Renan si volge più a Herder che a Hegel e i suoi riferi
menti vitalisti e organici costituiscono un’evidente eredità herderiana:
«Non si presta attenzione al fatto che ogni nazione, con i suoi templi, i
suoi dei, la sua poesia, le sue tradizioni eroiche, le sue credenze fanta
stiche, le sue leggi e le sue istituzioni, rappresenta un’unità, un modo di
affrontare la vita, una tono nell’umanità, una facoltà della grande ani
ma».211 La visione della storia come la storia di un essere, la visione di
ogni comunità culturale come un insieme unico, è proprio ciò che Re
nan ha tratto da Herder ma, prima di lui, è anche quello che Michelet
era andato a cercare in Herder. Ecco, secondo Renan, ciò mancava a
Montesquieu e a Voltaire ed è proprio per questo che non li cita nem
meno. Il razionalismo deH’Illuminismo francese non permetteva loro
questa visione del corpo sociale come un organismo vivente. È questo il
contributo della Germania della svolta dell’Ottocento ed è da lì che Re
nan attinge la sua concezione della storia in quanto psicologia dell’u
manità: «C ’è una psicologia dell'umanità come c’è una psicologia del
l’individuo»212213. In questo modo Renan si inserisce nella linea retta her
deriana dello storicismo tedesco classico; la storia, per lui, possiede sia
una certa logica che una parte di casualità. Ancora una volta Renan uti
lizza una diretta citazione di Herder: «La linea dell’umanità, dice Her
der, non è né diritta né uniforme, si smarrisce in tutte le direzioni, pre
senta tutte le curve e tutti gli angoli»211. Essa non è «né una inflessibile
geometria né una semplice successione di episodi fortuiti. [...] La verità
204
Le fondamenta di un’altra modernità
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Le fondamenta di un ’altra modernità
206
Le fondamenta di un’altra modernità
207
C A P IT O L O 3
1. Herder, A n cor a una filo so fia délia storia, pp. 10-11 (S. 483-484).
2. Jeffrey Andrew Barash, «Herder et la politique de rhistoricisme», in Pierre Pé-
nisson (a cura di), H erder et la philosophie de l ’histoire, pp. 208-210.
3. Herder, A ncora una filo sofia délia storia , p. 124 (S. 385).
208
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali
209
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali
7. Herder, Ancora una filosofia della storia, pp. 31-32 (S. 503).
8. Ibid., p. 40 (S. 512).
9. Ibid., nota a fondo pagina (S. 512).
10. Herder, idee per la filosofia della storta dell’umanità, libro IX.
210
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali
11. Herder, Ancora una filosofia délia storia, p. 70 (S. 538): «Licht unendlich erhöht
und ausgebreitet: wenn Neigung, Trieb zu Leben ungleich geschwächet ist!»
(ed. Pross, p. 642).
12. Ibid.
13. Ibid., p. 71.
14. Rouché, La Philosophie de l’histoire de Herder, pp. 241-242.
211
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali
212
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali
213
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali
214
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali
215
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali
27. Herder, Ancora una filosofia della storia, p. 72 (ed. Pross, p. 643, S. 539).
28. Herder, Idee per la filosofia della storia dell’umanità, libro XV, cap. Ili, p. 302.
29. Herder, Ancora una filosofia della storia, p. 56 (S. 524).
30. Ibid., p. 57 (S. 525).
31. Ibid., pp. 57-58 (SS. 525-526).
32. Ibid., p. 58 (SS. 526-527).
216
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali
petto di ogni singolo essere».” Insistendo ancora una volta sull'Idea i lie
considera di sua invenzione - cosa in cui stranamente è seguito dalla mag,
gior parte dei commentatori contemporanei - Herder si leva contro I Idea
di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, l’importante saggio
die Kant pubblica nel novembre 1784 nella Berlinische Monatschrift, la ri
vista nella quale il mese successivo farà uscire il suo famoso manifesto Ri
sposta alla domanda: che cos è l’Illuminismo? In quel testo, ove l’influenza
rii Rousseau trapela da ogni pagina, egli lancia alcune di quelle grandi idee
sulla natura della società, la libertà e il progresso che tanto profondamen
te colpiranno il pastore luterano. Non c’è dubbio che la risposta di Herder
nelle Idee si rivolga ai due saggi insieme. Secondo Kant (tesi quinta), «Il più
grande problema alla cui soluzione la natura costringe la specie umana è di
pervenire ad attuare una società civile che faccia valere universalmente il di
ritto»33435.Dunque, come Hobbes e Locke hanno già mostrato, bisogna usci
re dallo stato di natura, che è uno stato di violenza. In questo modo l’uo
mo, essere dotato di ragione, è condotto a creare con le proprie mani la so
cietà ove, in altri termini, è portato ad «adoperarsi a stabilire una costitu
zione civile conforme alla legge nei rapporti tra i singoli uomini cioè prov
vedere all’ordinamento di un ente collettivo»". Solo nella società all’uomo
può essere garantita una libertà che «possa coesistere con la libertà degli
altri: poiché, ripeto, solo in una società siffatta il supremo fine della natu
ra, cioè lo sviluppo di tutte le facoltà, può essere nell’umanità raggiunto, la
natura vuole ancora che l’umanità debba attuare da se stessa così questi co
me tutti gli altri fini della sua destinazione»36.
Senza dubbio, «l’uomo è un animale, dice Kant, che, se vive tra altri
esseri della sua specie, ha bisogno di un padrone. Egli abusa infatti della
sua libertà in rapporto ai suoi simili e se in pari tempo, come essere ra
zionale, vuole una legge che ponga limiti alla libertà di tutti, il suo egoi-
33. Herder, Idee p er la filo sofia della storia dell’um anità, p. 147. Si veda sopra il te
sto quasi identico, tratto da A ncora una filo sofia della storia, p. 38.
34. Kant, «Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico», in Scritti
di filo sofia politica, a cura di Dario Faucci, trad. di Gioele Solari e Giovanni Vi-
dari, La Nuova Italia, Firenze 1967, p. 9. Si veda l’importante opera di Yirmiahu
Yovel, K an t et la philosophie de l’histoire, Méridiens Klincksieck, Paris 1989.
35. Ihid., p. 13.
36. Ibid., p. 9.
217
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La rivolta contro la ragione e i diritti naturali
cui avanzava l’umanità, assillata dalla guerra, che la costringe ad ado| ti
rarsi per l’organizzazione della pace. La linea del progresso, osserva
Ruyssen, avanza sicura verso questo ideale, a tal punto ogni ricaduta c
una lezione feconda e il punto di partenza di una nuova avanzata1".
Erano questi un avvenire o una soluzione che a Herder ripugnavano.
Kant pensava che l’uomo fosse chiamato a un destino tanto elevato che
nessun individuo avrebbe potuto realizzarlo nei limiti della propria esi
stenza. Ciò comporta che le generazioni anteriori sembrano «solo affati
carsi per quelle che sopravvengono, per preparare a esse un gradino da
cui possano elevare l’edificio al quale la natura mira»'4 041. Ne deriva per
tanto che nessun individuo e nessuna generazione bastano a se stessi e
non rappresentano altro che un gradino nel cammino dell’umanità verso
la libertà e la giustizia e verso nuove forme di organizzazione politica.
Herder risponde che «nessun individuo può credere di esistere in vista
di un altro individuo o della posterità»'4243.Un’altra pagina delle Idee è an
cora più significativa: «Ogni essere vivente gioisce della sua vita e non sta
a domandarsi e ad almanaccare per qual fine esiste. La sua esistenza è per
lui scopo e il suo scopo l’esistenza». L’attacco a Kant prosegue con l’in
vocazione della provvidenza e con uno sguardo pieno di meraviglia sul
mondo non europeo, che non è corrotto dal razionalismo: «Quel senti
mento semplice, profondo, insostituibile dell’esistenza è la felicità, una
piccola goccia di quel mare infinito della beatitudine totale, che è in tut
to e si compiace in tutto. Di qui quell’indistruttibile serenità e gioia che
molti europei hanno ammirato sui volti e nella vita dei popoli stranieri,
perché essi non la provavano in sé nel loro irrequieto darsi da fare».
Qualche frase dopo, l’autore continua: «che cosa vorrebbe mai dire il fat
to che l’uomo, come noi lo conosciamo sulla terra, sia fatto per una cre
scita infinita delle forze della sua anima», o l’idea che «tutte le genera
zioni sono state fatte soltanto per l’ultima generazione, che troneggia sul
l’impalcatura crollata della felicità di tutte le generazioni precedenti?»“”
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La rivolta contro la ragione e i diritti naturali
ilell’uomo in quanto essere storico, che sta nella malvagità e non neH’iii
nocenza. Nonostante questo disaccordo iniziale, Kant deve a Rousseau
il primato della ragione pratica, le idee del contratto sociale, (.Iella vo
lonta generale e della libertà sotto la legge. Kant, come abbiamo appena
visto, vi è giunto da un cammino indiretto, poiché pensa che solo la co
strizione possa condurre gli uomini a quella coesistenza pacifica che alla
line renderà superflua l’esistenza dello Stato autoritario. Tuttavia è stato
compiuto un passo decisivo: il contratto sociale indica i limiti di ogni le
gislazione positiva, è il principio di ogni giustizia politica, criterio di ogni
legge e di ogni decisione. Kant si dedica alle strutture del potere, ai prin
cipi del regime rappresentativo e alla separazione dei poteri, al diritto in
ternazionale. Lo stato di natura è cessato tra gli individui all’interno del
le comunità politiche, ma sussiste ancora tra gli Stati. Bisogna dunque
fondare lo stato di pace, la società degli Stati liberi. Che il compito non
possa essere assolto nell’immediato è evidente, ma lo scopo della storia
è conosciuto, il cammino che vi conduce può essere tracciato e ciò può
essere fatto dagli uomini. L’uomo può prendere tra le mani il suo futu
ro, che cessa di essere destino per essere un obiettivo liberamente e ra
gionevolmente voluto. L’uomo, essere finito, osserva Eric Weil, può e de
ve progredire indefinitamente, la sua avanzata non deve mai fermarsi e
non può esserci riposo per l’essere morale50.
Kant aveva posto il dito sull’essenziale ed è proprio contro questo
che Herder si rivolta: l’uomo padrone del proprio destino, che costrui
sce con le proprie mani un mondo a sua immagine, è per lui un sacrile
gio. Filosofi tanto differenti gli uni dagli altri come Kant, Locke e Rous
seau concordano nel dare un’importanza fondamentale all’idea del con
tratto sociale, espressione dell’autonomia dell’individuo; Montesquieu,
dopo Locke, affina i due strumenti che permettono di garantire concre
tamente la libertà - divisione dei poteri e regime rappresentativo - Vol
taire, bandito da Parigi per anni a causa della sua lunga lotta per la li
bertà della critica e per la tolleranza, propende infine per la monarchia
parlamentare all’inglese: per tutto questo tempo Herder è quasi estraneo
alle preoccupazioni politiche. Ecco una svolta decisiva, perché con lui si
produce una vera rivoluzione intellettuale.
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La rivolta contro la ragione e i diritti naturali
51. Kant, «Recensione di: J.G . Herder, “Idee sulla filosofia della storia dell’uma
nità”», in Scritti politici e d i filo sofia della storia e del diritto, trad. di Gioele So
lari e Giovanni Vidari, Utet, Torino 1965, pp. 151-152.
52. Ibid., p. 163.
53. Ibid., pp. 168-172 e 175.
54. Ibid., p. 172.
55. Herder, Idee p er la filo sofia della storia d e ll’um anità, libro IX, cap. IV, p. 182.
225
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali
con un testo importante nel quale dimostra che il vero progresso, mora
le e di civiltà, tende verso il «più alto grado»: «Se invece il vero scopo
della provvidenza fosse non già questo fantasma della felicità, che ognu
no si raffigura dentro, bensì l’attività e la civiltà sempre crescenti e pro
gredienti, che vengono così poste in gioco e il cui più alto grado può es
sere soltanto il prodotto di una costituzione dello Stato ordinata secon
do il concetto dei diritti dell’uomo?»5657In altri termini, «la destinazione
del genere umano è nel complesso incessante progredire» ” e il «corso ge
nerale delle cose umane», scrive Kant concludendo le sue Congetture
sull’origine della storia, «lungi dal procedere dal bene al male», progre
disce «a poco a poco dal peggio al meglio. A questo progresso ciascuno
è chiamato dalla natura stessa a contribuire per sua parte e secondo le
sue forze»58.
La risposta di Kant prosegue su un secondo punto, di capitale im
portanza. Per Herder «la felicità deH’uomo è dappertutto un bene indi
viduale», è «uno stato interiore, la misura e la determinazione di essa sta
dentro, non fuori del petto di ogni singolo essere».59 Kant risponde che
«il valore della loro condizione» è una cosa, altro è «quello della loro
stessa esistenza». Difatti se i felici abitanti di Tahiti non fossero mai en
trati in contatto con «nazioni più civili» e fossero rimasti nella «loro tran
quilla indolenza» per altri secoli, non ci si porrebbe forse la domanda:
quale scopo ha l’esistenza di questa gente? Non sarebbe stata la stessa
cosa «che quest’isola fosse stata occupata con pecore e buoi felici anzi
ché con uomini felici nel semplice godimento?» E non sarebbe il caso di
concludere, al contrario di Herder: «Quel principio generale non è quin
di così cattivo quanto l’autore crede»?60 In effetti tale principio non è af
fatto cattivo se si accetta l’idea che è la cultura a far sì che la vita valga la
pena di essere vissuta e che l’uomo, liberandosi dall’influenza della na
tura, sviluppi pienamente il proprio potenziale intellettuale.
56. Kant, «Recensione di: J.G . Herder, “Idee sulla filosofia della storia dell’uma
nità”», in Scritti politici e d i filo so fia della storia e d el d iritto , p. 173.
57. Ibid., p. 174 (corsivo nel testo).
58. Kant, «Congetture sull’origine della storia», in ibid., p. 211.
59. Herder, Idee p er la filo sofia della storia d e ll’um anità , libro V ili, cap. V, p. 147.
60. Kant, «Recensione di: J.G . Herder, “Idee sulla filosofia della storia dell’uma
nità”», in Scritti p olitici e d i filo so fia della storia e d e l diritto , pp. 173-174.
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La rivolta contro la ragione e i diritti naturali
61. Kant, «Congetture sull’origine della storia», in ibid., pp. 203-204 (corsivo nel te
sto).
62. Ibid., p. 201 (corsivo nel testo).
63. Ibid., p. 205 (corsivo nel testo).
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La rivolta contro la ragione e i diritti naturali
64. Ibid., p. 207 (corsivo nel testo). Si veda anche Ruyssen, «L a philosophic de l’hi-
stoire selon Kant», p. 42.
65. Kant, «Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico», in Scritti
d i filo sofia p olitica , p. 19 (corsivo nel testo).
66. Peter Gay è autore di un eccellente studio intitolato The Enlightenm ent: an In
terpretation, t. I, The R ise o f M odern Paganism-, t. II, The Science o f Freedom,
Norton, New York 1995 ( 1“ ed. 1966). Più recentemente è uscita un’opera di J o
nathan I. Israel, storico specializzato nella storia dei Paesi Bassi, R adical En ligh
tenment: Philosophy an d the M aking o f Modernity, 1650-17SO, Oxford Univer
sity Press, Oxford e New York 2001. Questo libro non mantiene affatto le pro
messe del titolo: si occupa in pratica di Spinoza, dello spinozismo e dei Paesi
Bassi. Si chiude proprio nel momento in cui l’llluminismo si avvicina all’apice
della sua influenza.
228
m
67. Rouché, L a Philosophie de l ’histoire de lle rd e r , pp. 9 (nota 1), 10, 135-141, 147-
148. Questa tesi non è stata mai superata. Si veda anche Introduction a J.G . Her
der, Une autre philosophie de l ’histoire, p. 93. Contrariamente all’idea dell’Illu-
minismo ancora presente, non tutti i philosophes hanno creduto in un progresso
continuo e indefinito del genere umano. Le diverse teorie del progresso presen
tate nel XVIII secolo sono unanimi e ottimistiche solo per quel che riguarda la
storia europea; le divergenze sono profonde quando considerano l’intero gene
re umano o la storia generale dei popoli. Senza dubbio Kant, come abbiamo vi
sto, parla di un cammino verso i Lumi; nel 1781 Gibbon scrive: «Possiamo dun
que concludere con fiducia che, dalla creazione del mondo, ogni secolo ha au
mentato le ricchezze reali, la felicità, l’intelligenza e forse le virtù della razza
umana», ma altri convinti A ufklärer porranno l’accento sui periodi di declino
che seguono i periodi di grandezza. In L A n tiqu ité dévoilée Boulanger giunge a
riconoscere all’antichità una certa superiorità rispetto al suo tempo; ma è so
prattutto Voltaire, particolarmente detestato da Herder in quanto pensatore più
influente della sua epoca, a mostrare come i grandi periodi della storia umana
siano interrotti da lunghi secoli di declino e barbarie. Per lui il Medioevo non è
altro che un periodo di barbarie che separa il mondo di Augusto dal Rinasci
mento italiano. Nulla in Voltaire esclude un nuovo periodo di declino.
68. Montesquieu, L o spirito delle leggi, p. 379.
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La rivolta contro la ragione e i diritti naturali
69. Meinecke, Historism. The Rise o f a New Historical Outlook, p. 120 (corsivo nel
testo) [p. 119]. Meinecke si riferisce a Hegel und derStaat (1920).
70. Rouché, La Philosophie de l’histoire de Herder, p. 137.
230
_ J
una nuova epoca: i celebri sviluppi sul «cieco destino», sulla «causa ori
ginale», sulle «cause universali, tanto spirituali quanto fisiche» e i rap
porti tra cause generali e particolari, tra cause materiali e spirituali, han
no alimentato tutto il pensiero moderno71. In che cosa consistesse la spe
cificità culturale e nazionale, il barone de La Bròde lo aveva insegnato
agli uomini del Settecento molto prima di Herder.
In Ancora una filosofia della storia Herder attacca astiosamente
Montesquieu, in modo tanto più ingiustificato in quanto si ispira
profondamente alla sua opera, lasciando intendere che questa non co
stituisce altro che uno sfortunato abbozzo, povero e semplicistico, sfo
ciato in un vicolo cieco. Per Herder Montesquieu ha sviluppato princi
pi che, «fondandosi sull’esperienza di centinaia di popoli e di paesi di
versi, vengono ora calcolati senza por tempo in mezzo con la facilità con
cui si somma uno più uno»7273. Nonostante ciò, dopo due secoli, si cita
no sempre - è anche il caso di Cassirer - le prime parole di una frase
con la quale Herder elogia l’autore Esprit des Lois - «la nobile ope
ra gigantesca di Montesquieu» - ma in genere ci si dimentica il seguito
immediato di questa frase, un lungo paragrafo tanto velenoso quanto
assurdo: quell’opera, dice il giovane pastore, «non ha potuto essere, per
mano d’un uomo solo, quello che doveva essere. Edificio gotico nel gu
sto filosofico del proprio secolo, esprit, e spesso null’altro, qualche fat
to strappato dal suo luogo d’origine e, quasi fosse una cosa, gettato su
tre o quattro mercati, sotto l’etichetta di tre miserabili luoghi comuni,
di tre parole, e per di più parole vuote, inutili, indeterminate, somma
mente confusi mots d’esprit. Per tutta l’opera, un turbinio di tutte le età,
nazioni e lingue, come nella torre di Babele, e ciascuna di esse sembra
avervi appeso borse, bisacce e zaini a tre deboli chiodi: la storia di tut
ti i popoli e tempi, questa vivente opera di Dio grande anche nel suo
processo, ridotta a un mucchio di rovine, a tre punte, a tre scatolette;
ma restano pur sempre dei nobili materiali, Montesquieu!»75 Qualche
231
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali
232
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali
78. Leo Strauss, Diritto naturale e storia, a cura di Nicola Pierri, Neri Pozza, Vene
zia 1957, p. 301. Il testo originale è apparso nel 1953 (Natural Right and History,
The University of Chicago Press, Chicago 1953).
79. Ibid., pp. 301-302. Sulla lettura di Burke da parte di Strauss, si veda Steven J.
Lenzner, «Strauss’s Burkes», Political Theory, 19 (3), agosto 1991, pp. 364-390.
233
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali
234
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali
84. Edmund Burke, A Vindication o f Naturai Society: Or a View of the Miseries and
Evils Arising to Mankind from Every Species o f Artificial Society, in A Philo
sophical Enquiry into the Sublime and Beautiful and other Pre-Revolutionary Wri
tings, Penguin Books, London 1998, p. 5. [Difesa della società naturale, a cura di
Ida Cappiello, Liberilibri, Macerata 1993, p. 6],
85. Edmund Burke, «Speech on a Motion made in the House of Commons the 7th
of May 1782, for a Committee to inquire into the State of Representation of the
Commons in Parliament», The Works of the Right Honourable Edmund Burke,
Henry G. Bohn, London 1854-1856, vol. VI, p. 148: «I do not vilify theory and
speculation: no, because that would be to vilify reason itself... No, whenever I
speak against theory, I mean always a weak, erroneous, fallacious, unfounded, or
imperfect theory; and one o f the ways of discovering that it is a false theory is by
comparing it with practice».
86. Si veda Burke, «Riflessioni sulla Rivoluzione francese», in Scritti politici, p. 352.
87. Burke, «Deuxième lettre, sur le génie et le caractère de la révolutione française,
dans ses rapports avec les autres nations» («Deuxième lettre sur la paix régici
de»), in Réflexions sur la Révolution de France, p. 600.
88. Burke, Inchiesta sul Bello e il Sublime, pp. 148-149.
235
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali
non cita“9 - dice che la sua autorità «sembra vada contro il nostro prin
cipio generale»89091.Questo non sorprende, perché non si capisce bene in
che cosa Burke abbia seguito Locke e in che cosa abbia accettato la sua
autorità. In verità Burke, che si rifiutava di occuparsi degli scopi ultimi
dell’esistenza umana, guardava alla politica non solo come a un’opera
zione complessa ma anche come a un’impresa della quale la ragione
umana non poteva pretendere di cogliere il mistero. Lord Acton, il gran
de pensatore liberale della fine dell’Ottocento, che aveva cominciato
guardando a Burke come a una miniera inesauribile di saggezza politica,
aveva finito con il rivoltarsi contro il suo scetticismo. Egli pensava giu
stamente che per Burke non solo la scienza politica fosse impossibile,
contrariamente alla scienza economica, ma che il suo scetticismo si unis
se necessariamente a un conservatorismo estremo, a un certo modo di
piegarsi di fronte al successo, a cercare ciò clic doveva essere solo nell’e
sistente, molto vicino al «die Weltgeschichtc ist das Weltgericht» hegelia
no". Acton aveva colto i pericoli del conformismo burkiano e si era spa
ventato di fronte al suo antirazionalismo, ma non si accorse che Burke
aveva inventato una nuova forma di conservatorismo, il conservatorismo
rivoluzionario.
Ecco perché bisogna ritornare ancora a Locke per comprendere
l’avversione di Burke per i diritti dell’uomo, per l’America del 1777 co
me per la Francia del 1789. L’autore della Lettera sulla tolleranza appa
re, insieme a Hobbes, come il fondatore di una teoria politica basata sul
l’idea per cui, in politica, la felicità dell’individuo costituisce il solo cri
terio sicuro e affidabile. Se Locke non è, come si dice spesso, l’invento
re dell’individuo, il primo grande profeta della sua emancipazione, se
non è il primo ad annunciare una rivolta dell’individuo contro la reli
gione (lo hanno preceduto Machiavelli e Hobbes), è il primo ad avere
costruito su queste basi un sistema politico coerente. La laicità di Locke
è il prodotto della sua psicologia, che respinge necessariamente dall’am
bito politico non soltanto religione e tradizione ma tutta la lunga e
236
I
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali
92. Si veda Alfred Cobban, Edmund Burke, pp. 24-25. Cobban non trae le conclu
sioni che si impongono dopo questa analisi: pensa che Burke prosegua la linea
di Locke approfondendola e ne sia in pratica un discepolo (pp. 74-75).
237
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali
strare 1’uomo nello stato di natura: «Per ben comprendere che cosa sia
il potere politico e ricostruirne la genesi, occorre considerare quale sia lo
stato in cui tutti gli uomini per natura si trovano»” . Per come lo conce
pisce Locke, «lo stato naturale è governato da una legge di natura che è
per tutti vincolante; e la ragione, che è poi quella legge stessa, insegna a
chiunque soltanto voglia interpellarla che, essendo tutti gli uomini egua
li e indipendenti, nessuno deve ledere gli altri nella vita, nella salute, nel
la libertà o negli averi»9394. In questo modo per gli uomini lo stato di na
tura, governato dalla ragione, è «uno stato di perfetta libertà di regolare
le proprie azioni e disporre dei propri beni e persone come meglio cre
dono, entro i limiti della legge naturale, senza chiedere l’altrui benestare
o obbedire alla volontà d ’altri». Quello di natura è anche «uno stato di
eguaglianza, in cui potere e autorità sono reciproci poiché nessuno ne ha
più degli altri»95. Ne deriva che i limiti della libertà é dell’eguaglianza so
no fissati dalla ragione. Tuttavia lo stato di natura nel quale l’uomo è li
bero, «pari al più grande fra tutti e a nessuno soggetto», sottomesso alla
legge della ragione, non presenta, «tutti essendo re alla stessa stregua di
lui, tutti essendo suoi pari», le garanzie di pace e sicurezza che possano
loro permettere di godere dei diritti naturali: «vi manca in primo luogo
una legge stabile, fissa e notoria, accettata per comune consenso», vi
manca «un giudice riconosciuto e imparziale» e «il potere, atto a soste
nere e appoggiare la sentenza giusta»:96 da ciò l’origine della società.
Al centro di tutto il pensiero politico dopo Locke si trova una rifles
sione sulle origini della società. La visione dello stato di natura crea i
principi su cui deve poggiare l’organizzazione sociale, stabilisce il posto
dell’individuo nella società e svolge un ruolo di primo piano nelle strut
ture del potere utili a una società buona. Per l’importanza dell’argomen
to, bisogna ancora volgersi al triangolo Locke-Herder-Burke. Seguendo
l’usanza vigente, anche Herder toma alle origini, ma si tratta di origini
93. John Locke, Trattato su l governo , a cura di Lia Formigari, Studio Tesi, Pordeno
ne 1991, cap. II, 4, p. 5. L’edizione classica è The Second Treatise o f C ivil G o
vernment and A T etter Concerning Toleration , introduzione di J.W. Gough, Ba
sil Blackwell, Oxford 1948.
94. Ibid., cap. II, 6, pp. 6-7.
95. Ibid., cap. II, 4, p. 5.
96. Ibid., cap. IX, 123-126, pp. 99-100.
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La rivolta contro la ragione e i diritti naturali
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La rivolta contro la ragione e i diritti naturali
240
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali
nità, come nel periodo dell’infanzia di ogni essere umano, in cui con la
socializzazione «ci diamo ai pregiudizi e alle impressioni che in noi lascia
l’educazione», il dispotismo, contrariamente a ciò che pensa «la fredda
filosofia» del XVIII secolo, per parlare con precisione è solo una «p a
terna autorità di dirigere famiglia e lavoro»105.
Come i teorici del potere monarchico dei secoli XVI e XVII, Herder
assimila il potere politico al potere paterno. Locke aveva dedicato tutto
il suo Primo Trattato a combattere Filmer, il teorico del potere monar
chico illimitato, che aveva fatto di questa idea la base del suo sistema. Lo
stesso era avvenuto in Francia nel XVI secolo. L’idea secondo la quale la
società non è paragonabile alla famiglia, o alla tribù, famiglia allargata, e
che il potere del padre di famiglia non permette in alcun modo di de
durre alcunché sulla natura del potere pubblico, è un punto chiave per
la nascita della modernità razionalista e del liberalismo. Per i fondatori
del liberalismo, esiste una differenza essenziale tra la società civile, fon
data su un contratto tra individui liberi, e la famiglia o la tribù: Herder
sopprime questa distinzione e vede nei legami di sangue il fondamento
della società. Nei primi anni Settanta del Settecento, dopo Locke e Mon
tesquieu, con Voltaire e Rousseau ancora in vita, il ristabilimento dell’i
dentità tra i due tipi di comunità, che sembrava essere stata spazzata via
dalla scuola giusnaturalista come dai primi abbozzi del costituzionali
smo, appariva come appartenente a un altro mondo. Ma nei fatti si trat
ta già di un atteggiamento che introduce nuovi criteri di organizzazione
sociale e pone le basi di un’altra modernità: Kant lo aveva capito e con
siderava il pensiero herderiano abbastanza pericoloso da meritare la sua
critica. In effetti Herder spazzava via i progressi compiuti dalla scuola
giusnaturalista nel processo di emancipazione dell’individuo e creava co
sì la più formidabile macchina da guerra lanciata contro il liberalismo.
La pagina 11 (595-596 dell’edizione Pross) di Ancora una filosofia
della storia costituisce una sorta di microcosmo dell’intera argomenta
zione herderiana, tutta intessuta di contraddizioni, come si sviluppa non
solo nel lavoro del 1774 ma, in un certo senso, anche nelle Idee. L’intero
genere umano nella sua infanzia, così come ogni individuo in tutti i tem
pi, aveva bisogno dell’autorità paterna: ciò era utile, buono e necessario.
241
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali
timento vergognoso, anzi «io credo, purtroppo, che il secol nostro ne sia
del tutto incapace», ma la filosofia e la forma di governo più antiche non
potevano che, «all’origine, in tutti i paesi, essere teologia»109.
Bisogna leggere questi testi da vicino. Contrariamente a quanto si
pensa di solito, qui non si tratta di una lezione di metodo o di plurali
smo; Herder non constata soltanto dei fatti per spiegarli attraverso le ne
cessità dei tempi e delle condizioni specifiche che vi prevalevano. La cri
tica rivolta a Voltaire come a tutti gli altri philosophes illuminati presi in
blocco è di giudicare un altro mondo con i criteri del loro tempo e di
non guardarlo dall’interno. Nei fatti questa esigenza significa che si de
ve abbandonare completamente la possibilità di dare un qualunque giu
dizio di valore, ma questa esigenza rimane solo teorica. Lo stesso Herder
non si piega alle regole di un metodo impossibile, dà giudizi di valore
molto duri e fissa una chiara gerarchia di valori, in primo luogo per quel
che riguarda il suo tempo e poi quando cerca nei fatti di introdurre nel
cuore del Settecento norme che ritiene universali. La sola differenza tra
Herder e Voltaire è che il secondo considera nefasti valori che il primo
valuta come ideali per il genere umano. La religione costituisce un buon
esempio: Herder non ci dice che era buona per l’epoca dei patriarchi ma
che possiede un valore eterno. Il suo più grande rammarico è che il suo
secolo sia entrato in un periodo di decadenza che non gli permette più
di sentire la grandezza del sentimento religioso.
Qui sta la differenza fondamentale tra Herder e Locke e tutti gli al
tri teorici della scuola giusnaturalista. Secondo loro gli uomini fondano
la società al fine di preservare la loro vita, le loro libertà e i loro beni: que
sto è il fondamento della legittimità politica e delle strutture del potere.
La società e lo Stato sono dunque il prodotto di una decisione volonta
ria e mirano a un solo obiettivo: fornire agli uomini i mezzi per preser
vare i loro diritti naturali. «Il grande fine in vista del quale gli uomini
entrano in società è di godere dei loro beni in pace e sicurezza». A que
sto scopo, per «la prima e fondamentale legge positiva di tutti gli Sta
ti», essi si danno un «potere legislativo»: nessuna legge può aspirare al
la legittimità se non sanzionata da quel «legislativo». Senza questo, «la
legge non può possedere ciò che è assolutamente necessario perché sia
109. Ibid.
243
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali
appunto una legge, cioè il consenso della società110 [...] La legge infatti,
nella sua propria definizione, non è tanto la limitazione quanto la guida di
un agente libero e intelligente al suo proprio interesse». E più avanti: «il
fine della legge non è di precludere o reprimere la libertà, ma di conser
varla e ampliarla». Oppure: «Libertà significa infatti essere esenti dall’al
trui oppressione e violenza, ciò che non può darsi ove non vi sia legge»111.
Il Secondo Trattato stabilisce chiaramente il principio di utilità, for
mula quello della responsabilità dei governanti e pone le basi del siste
ma maggioritario112. Il paragrafo 97 pone i fondamenti della democrazia:
«Così ogni uomo, consentendo con gli altri alla costituzione di un sol
corpo politico soggetto a un solo regime, si sottomette all’obbligo, pro
prio di ciascun membro di quella società, di sottostare alle decisioni del
la maggioranza e farsene determinare»11'. Il liberalismo di Locke fonda
il diritto degli uomini a governare se stessi, a cambiare sistema di gover
no in funzione dei loro bisogni e del funzionamento del sistema in vigo
re. Il criterio assoluto rimane lo stesso: manifestava insomma un poten
ziale democratico che gli americani non avranno difficoltà a sviluppare e
a tradurre in termini concreti. In Francia e in altre parti d’Europa YEncy-
clopédie, quella «macchina da guerra» del pensiero illuminista, volgariz
za l’opera di Locke. «Nessun uomo ha ricevuto dalla natura il diritto di
comandare agli altri. La libertà è un dono del cielo, e ogni individuo del
la stessa specie ha diritto di goderne non appena ha l’uso della ragione»,
afferma Diderot11415.In questo secolo «che si crede destinato a mutare le
leggi in ogni campo»,“ ’ «il principe riceve dai suoi stessi sudditi Yauto
rità che ha su di loro; e tale autorità è limitata dalle leggi della natura e
dello stato. Le leggi della natura e dello stato sono le condizioni alle quali
110. Locke, Trattato sul governo, cap. XI, 134, pp. 106.
111. Ibid., cap. VI, 57, p. 46.
112. Ibid., capp. X-XV, 132-174, pp. 104-140, nelle quali Locke presenta in modo
assai particolareggiato le strutture del potere.
113. Ibid., cap. V ili, 97, p. 78.
114. Enciclopedia o dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri (1751-
1772), a cura di Alain Pons, trad. di Elena Vaccari Spagnol, Aldo Devizzi e
Guido Neri, 2 voli., Feltrinelli, Milano 1966, p.124, articolo «Autorità politi
ca», p. 124.
115. Ibid., p. 40, «Discorso preliminare».
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La rivolta contro la ragione e i diritti naturali
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La rivolta contro la ragione e i diritti naturali
122. Burke, «Ricorso dai nuovi agli antichi Whigs», ibtd., p. 576.
123. Burke, «Speech on American Taxation», The Works of thè Righi Honourablc
Edmund Burke, London, Henry G. Bohn, 1854, voi. I, p. 432. Questo brano fi
gura nell’edizione di Oxford, voi. II, pp. 406-463.
124. Burke, «Speech on Moving Resolutions for Conciliation with thè Colonies»,
ihid., voi. I, p. 464. [«Discorso di Edmund Burke nel presentare la sua mozio
ne di riconciliazione con le colonie, 22 marzo 1785», in Scritti politici, p. 88],
Questo famoso discorso è più noto con il titolo «Speech on Conciliation with
America» e così figura nel volume III dell’edizione di Oxford, pp. 102-169. In
questo contesto è utile dare una prima occhiata al vero significato di tale con
cezione della libertà concreta e non astratta apprezzata da Burke. Egli dice che
sono i coloni del Sud, quelli della Virginia e delle due Caroline, ad avere mag
giore attaccamento alla libertà. Senza dubbio tutti i coloni amano lo spirito di
libertà, basato sul protestantesimo. «Sempre un principio di energia», la reli
gione è una «delle cause principali del loro spirito di libertà»: «ogni forma di
Protestantesimo, anche la più fredda e passiva, è una forma di dissenso», ma il
protestantesimo che prevale nelle colonie del Nord è una dissidenza della dis
sidenza. Ciò spiega Tattaccamento dei coloni alla libertà. Tuttavia è nel Sud che
questo spirito è «ancora più pronunciato e orgoglioso»: proprietari di schiavi.
247
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali
avendo a che fare quotidianamente con la servitù, sono, come dappertutto nel
mondo, «orgogliosissimi e gelosi della propria libertà. La libertà è per loro non
solo un piacere, ma una distinzione e un privilegio». Burke non intende dare
un giudizio di valore sulla realtà sudista, non arriverà a «raccomandare la su
periorità morale di questo sentimento, che racchiude in sé un orgoglio almeno
pari alla virtù. Ma non posso alterare la natura dell’uomo»: è un fatto che l’at
taccamento alla libertà nel Sud sia piti profondo che nel Nord. «Tali furono
tutti gli antichi Stati, tali furono i nostri antenati gotici, tali furono i polacchi
della nostra era, e tali saranno tutti i padroni di schiavi che non siano schiavi
essi stessi.» In questo modo la schiavitù sviluppa e rinforza lo spirito di libertà:
in altri termini, Burke non vede alcun male nel fondare la libertà degli uni sul
l’assenza di libertà, cioè la schiavitù degli altri. La libertà è un modo di mante
nere il proprio rango, è l’appannaggio naturale di una minoranza. Questo prin
cipio spiega le posizioni di Burke per quanto riguarda i progetti di riforma elet
torale del 1782 in Inghilterra, così come la sua difesa del principio di rappre
sentazione virtuale e la sua opposizione ai primi cambiamenti di ordine costi
tuzionale avvenuti in Francia nel maggio 1789 (pp. 89-91).
125. Burke, «A letter to ... Sheriffs of thè city of Bristol, on thè Affairs of America»,
ibid., voi. II, pp. 2-10. Questo brano si trova nel voi. Ili dei Writings and
Speeches dell’edizione di Oxford, pp. 288-320.
126. Burke, «Ricorso dai nuovi agli antichi Whigs», in Scritti politici, p. 482.
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J
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali
quei sudditi della Corona che vivevano in America. Questa era la sua po
sizione sin dall’inizio del conflitto. C ’era poco tempo: solo ponendo ra
pidamente e nettamente fine al conflitto, soddisfacendo i ribelli e impe
dendo loro di spingersi oltre nella catastrofica via della novità, si sareb
be giunti a soffocare l’esperienza americana sul nascere. Bloccare lo
scontro diventava dunque una priorità assoluta perché, man mano che il
conflitto si sviluppava, i coloni cominciavano a dar corso a una nuova
ideologia: smettevano progressivamente di rivendicare i loro privilegi
storici per fare appello alla ragione e combattere per il diritto degli indi
vidui a creare volontariamente una nuova società e nuove strutture di
potere. La dissoluzione dei legami che univano le Tredici colonie non so
lo al governo della Gran Bretagna ma anche al suo popolo apriva un pro
cesso di rifondazione della società e dello Stato. Con un po’ di immagi
nazione si poteva concepire la situazione creatasi in America in termini
di uscita dallo stato di natura simile a quello descritto da Locke: gli ame
ricani si costituivano in nuovo corpo politico. Realizzavano il primo si
stema democratico moderno in un paese immenso, eleggevano i loro
rappresentanti alle due camere del Congresso, un presidente e un gran
numero di autorità, dai giudici di pace fino ai governatori degli Stati. Gli
americani avevano scritto una Costituzione e i diritti dell’uomo erano di
ventati la base di una nuova organizzazione sociale e politica. Del resto,
la loro interpretazione della Costituzione inglese era quella dei whigs più
avanzati, adattata ai bisogni delle colonie, cioè un’interpretazione lockia-
na delle libertà inglesi.
Appare dunque logico che, quando gli «inglesi d’America» diventa
no cittadini degli Stati Uniti, dopo avere rinforzato le loro rivendicazio
ni con un appello ai principi dei diritti dell’uomo per farne le basi della
loro indipendenza, essi cessano di interessarlo. Tra il 1777 e il 1791
Burke si comporta come se l’America fosse stata inghiottita dall’oceano.
Per preservare l’unità dell’impero e garantire gli interessi commerciali
inglesi, ma anche per difendere le tradizionali libertà inglesi, Burke ave
va lottato per quei sudditi in rivolta contro l’arbitrio regale. Inoltre, te
nendo testa al re sul classico terreno della tassazione, i coloni fornivano
una forza non trascurabile ai whigs del Parlamento di Londra; ma, con
trariamente a un altro mito duro a morire, Burke non ha mai sostenuto
la rivoluzione americana. Il carattere artificiale e volontario della società
fortemente affermato dagli americani gli ripugnava profondamente.
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La rivolta contro la ragione e i diritti naturali
Nessuno odiava più di lui il « We thè people» americano. Allo stesso mo
do la sua lotta per i diritti delle popolazioni delle Indie esposte agli abu
si dell’amministrazione del governatore Hastings era una difesa non tan
to dei diritti degli individui ma dei diritti di una comunità organizzata,
delle sue élite e delle sue tradizioni, quindi della sua «costituzione»127128.
Per questo motivo in lui non si trova nessuna eco della celebre cam
pagna elettorale che si concluse nell’adozione della Costituzione degli
Stati Uniti: egli esecrava tanto questa prima grande manifestazione della
democrazia moderna quanto il sistema rappresentativo che ne è scaturi
to. Preferiva non parlarne affatto piuttosto che riconoscere, anche attra
verso una confutazione, non solo che un movimento rivoluzionario ave
va preso corpo, ma che si era anche realizzato. Il Federalista, di cui
Burke non poteva ignorare il contenuto, attento com’era all’evoluzione
della situazione in America, per lui sembra non essere mai esistito. La
Costituzione americana poteva non essere davvero democratica, e per
molti aspetti non lo è129, il liberalismo di Hamilton, Madison e Jay pote
va anche essere rivestito da una spessa coltre di conservatorismo, ma per
Burke era comunque troppo. I diritti inalienabili invocati dagli america
ni, il loro carattere universale (tranne che per i neri), il principio della so
vranità del popolo, l’idea del contratto sociale come unica fonte di legit-
127. Randall B. Ripley, «Adams, Burke and 18th century conservatism», Politicai
Science Q uarterly , voi. 80, II, 1965, p. 220, cita Burke, «Letter to thè Sheriffs
of Bristol», in F.G. Selby (a cura di), B u rk e’s Speeches, London, 1917, p. 169.
128. Il processo Hastings, governatore dell’India dal 1773 al 1785, durò fino al
1795. Hastings fu assolto. Burke, che preparava qu é\Yimpeachment dal 1784,
vi attribuiva un’importanza straordinaria. Pronunciò il discorso di apertura
che durò quattro giorni (15, 16, 18 e 19 febbraio 1788) e fu considerato come
una delle più grandi prestazioni oratorie del suo tempo. Questo testo è stam
pato nel volume VI dei W ritings a n d Speeches (edizione di Oxford), pp. 269-
459. Si veda anche l’Introduzione al volume VII. In questo lavoro non è pos
sibile analizzare i testi dei volumi V-Vll, i quali tutto sommato, per ciò che qui
ci interessa, tornano sempre agli stessi grandi principi: rispetto delle tradizio
ni, della storia e delle culture locali, pericolo delle rivoluzioni, rispetto dei va
lori cristiani che per Burke hanno un posto paragonabile a quello che hanno
per Herder.
129. Si veda la recente opera del decano dei politologi americani, Robert A. Dahl,
H ow D em ocratic is thè A m erican C onstitution ? , Yale University Press, New
Haven 2001.
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S V
135. Burke, «Ricorso dai nuovi agli antichi Whigs», ibid., pp. 479-480.
136. Ibid., p. 481.
I 37. Burke, «Discours du 9 février 1792», in Réflexions sur la Revolution de France,
p. 331.
138. Burke, «Ricorso dai nuovi agli antichi Whigs», in Scritti politici, p. 480.
139. Burke, «A letter to ... Sheriffs of the city of Bristol, on the Affairs of America»,
The Works of the Right Honourable F,dtnund Burke, I lenry G. Bohn, London
1854, voi. II, pp. 29-30.
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La rivolta contro la ragione e i diritti naturali
Alla vigilia della morte, chiudendo il cerchio del suo pensiero, Burke
ritorna aU’America: nella creazione degli Stati Uniti, nell’alleanza ameri
cana contro la monarchia inglese, egli vede un gigantesco errore di Lui
gi XVI, non, come si pensa spesso, per il costo della guerra che ha inde
bolito il reame ma per le sue implicazioni politiche e ideologiche. La na
scita stessa degli Stati Uniti aveva creato un pericolo di nuovo genere.
Questo è il vero senso della «Seconda lettera sulla pace regicida»: «Lui
gi XVI non poteva proteggere impunemente una nuova Repubblica; tut
tavia, tra il suo trono e quel pericoloso riparo che costruiva per un ne
mico, si estendeva il vasto fossato dell’Atlantico»140. Nonostante la mar
ginalità deH’America, nonostante l’esistenza delle monarchie europee,
l’influenza della rivoluzione americana è stata fatale. Conviene trarne la
necessaria lezione: se questa Repubblica primitiva, paese di contadini e
pescatori, ha potuto essere all’origine di un simile disastro, che cosa ac
cadrà all’ordine esistente, alla civiltà cristiana, alle strutture e gerarchie
sociali, all’ordine cavalleresco, se si accetta la presenza di una Repubbli
ca infinitamente più potente, impiantata nel cuore dell’Europa?
Questa «Seconda lettera» è di grande importanza: essa mostra che
per Burke, contrariamente a quanto pensano i suoi fedeli discepoli da
Gentz e Rehberg fino agli odierni neoconservatori, la differenza tra le
due rivoluzioni non era essenziale. II male era lo stesso ai due lati del
l’Atlantico, ma la vicinanza e l’intensità facevano della variante francese
un pericolo mortale. Se Burke pensava di potersi permettere di trattare
l’America col silenzio, se non col disprezzo, nel caso francese l’unica so
luzione era il cordone sanitario e la guerra ideologica finalizzata alla di
struzione del nuovo regime. La guerra era quella «dei partigiani dell’an
tico ordine civile, morale e politico dell’Europa, contro una setta di atei
fanatici e ambiziosi che ne hanno giurato la rovina. Non è la Francia che
impone un giogo straniero agli altri popoli; è una setta che aspira alla do
minazione universale e che comincia con la conquista della Francia»141.
Alimentata da «corrotte metafisiche»,142 «questa fazione non è locale o
territoriale»; è un flagello generale che «esiste in tutte le contrade d’Eu-
140. Burke, «Deuxième lettre sur la paix régicide», in Burke, Réflexions, p. 601.
141. Ibid., p. 581.
142. Burke, «Riflessioni sulla Rivoluzione francese», in Scritti politici, p. 261.
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La rivolta contro la ragione e i diritti naturali
143. Burke, «Deuxième lettre sur la paix régicide», in Burke, Réflexions, p. 580.
144. Ibid., p. 590.
145. Burke, «Riflessioni sulla Rivoluzione francese», in Scritti politici, p. 249.
146. Burke, «Deuxième lettre sur la paix régicide», in Burke, Réflexions, pp. 589-590.
147. Si veda un interessante studio sulla ragione di Stato in Burke: David Armitage,
«E. Burke and Reason of State», Jo u rn al o f the H istory o f Ideas, 61 (4), 2000,
pp. 617-634.
148. Burke, «Deuxième lettre sur la paix régicide», in Burke, Réflexions, p. 579.
149. Ibid., pp. 579-580 e 597-598.
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La rivolta contro la ragione e i diritti naturali
Burke parla di «una rigorosa quarantena»,150 che nel suo ultimo scritto
diventa già una «campagna per la distruzione dell’intero regime»151.
Fin dall’inizio della sua carriera Burke era stato terrorizzato dal ca
rattere universale del movimento illuminista che cominciava a sconvol
gere il vecchio ordine. Nel 1789 la peste aveva colpito il cuore dell’Eu
ropa. Bisognava andare al fondo del problema, alle origini; bisognava,
oltre a creare un cordone sanitario attorno alle idee giunte dall’America,
dare al 1689 un carattere inglese specifico, particolare, inimitabile, che
venisse dal fondo della storia nazionale, e soprattutto estremamente li
mitato. Bisognava modificare il senso della Gloriosa Rivoluzione in mo
do tale che il cambiamento di dinastia in Inghilterra smettesse di essere
percepito come l’evento fondatore del liberalismo, che smettesse di es
sere visto come la prima rivoluzione illuminata e riuscita, seguita da al
tre due rivoluzioni della stessa natura, e divenisse semplicemente una
«rivoluzione evitata». Ecco perché la discussione inglese sulle questioni
francesi è centrata non tanto sugli eventi e le idee dell’immediato passa
to ma su quelli già vecchi di un secolo.
Nel momento in cui lancia la sua campagna contro i principi dell’89
sostenendo che la Rivoluzione francese si basa su principi totalmente
estranei a quelli della Gloriosa Rivoluzione152, Burke non afferma la sua
fedeltà alla tradizione del 1689; al contrario, se ne scosta. Nell’Inghilter
ra del 1790 egli non è un conservatore nel senso proprio del termine, è
un dottrinario il cui messianesimo è rivoluzionario, come lo sarà un se
colo dopo il conservatorismo della generazione della svolta del Nove
cento. In realtà egli è all’origine della prima grande rivolta contro il li
beralismo, ancora più significativa perché viene nel paese più libero dei
suoi tempi. Nel pensiero di Burke non c’è vera ambiguità o equivoco e i
conflitti di interpretazione esistenti sorgono da una lettura della Rifles
sioni basata su un postulato errato: Burke non era uno scrittore politico
liberale e controrivoluzionario insieme, non era un rappresentante del
la tradizione liberale inglese, ma il contrario. La tradizione liberale in
glese era basata sul razionalismo di Hobbes e di Locke, sui principi della
256
!
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali
153. Su Burke liberale si veda in particolare S. Lakoff, «Tocqueville, Burke and the
Origins of Liberal Conservatism», Review o f Politics, 60 (3), 1998, pp. 435-464,
e anche Cruise Conor O ’Brien, The G reat M elody: A Them atic Biography an d
Com m ented Anthology o f Edm und Burke, Sinclair-Stevenson, London c. 1992.
In francese si veda Michel Ganzin, L a Pensée politique d ’Edm und Burke, Li
brairie générale de droit et de jurisprudence, Paris 1972, pp. 302 e sgg., e an
che la prefazione di Philippe Raynaud aile R éflexions su r la Révolution de F ran
ce, p. XV. In questi due testi Burke appare come discepolo di Locke. A questo
riguardo si veda anche Isaac Kramnick, «The Left and Edmund Burke», P oli
ticai Theory, 11 (2), 1983, pp. 189-214.
154. Il nome di questa cappella deriva dalla sua ubicazione sul sito di un vecchio
ghetto e ciò fornisce a Burke l’occasione per una delle sue numerose allusioni
antisémite: si veda «Riflessioni sulla Rivoluzione francese», in Scritti politici ,
pp. 253-254.
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La rivolta contro la ragione e i diritti naturali
mità, per Burke questo termine si applica soltanto ai costumi aviti, ognu
no dei quali è radicato nei precedenti: la Magna Charta del XIII secolo
si ricollega a un’altra dei tempi di Enrico I ed entrambe riaffermano so
lo leggi esistenti nel regno in un’epoca ancora più lontana166. Di fronte al
la «follia» dei «pretesi diritti dell’uomo»,167 di fronte a «questa mostruo
sa scena tragicomica»168 che si svolge a Parigi, «il popolo inglese [...]
considera di inestimabile valore la struttura del proprio governo, nella
sua condizione attuale», afferma la sua fedeltà a quell’insieme unico che
è «il nostro Stato, i nostri focolari, i nostri sepolcri e i nostri altari»169. Per
lui la rivoluzione del 1688 ha avuto l’unico obiettivo di garantire per
sempre «la conservazione futura del medesimo governo»170.
Questa interpretazione della Gloriosa Rivoluzione creata da Burke,
largamente accettata ormai da due secoli in tutti gli ambienti conserva-
tori di tutte le discipline, costituisce tuttora l’interpretazione dominante.
Tuttavia essa non è e non è mai stata la via maestra del liberalismo in
glese. Perché se il Bill of Rights in effetti ha restaurato alcuni antichi di
ritti, come quelli del Parlamento in materia di imposte, esso era in so
stanza un documento radicalmente innovatore. Il termine «radicale» in
questo contesto non è un anacronismo: esso appare in inglese dalla metà
del XVII secolo. Il Bill of Rights è stato il prodotto di un enorme lavoro
ideologico che si esprime in centinaia di fogli volanti, pamphlet e opu
scoli che chiedono una rifondazione della monarchia. Il Convention Par-
liament operava sulla base della teoria del contratto di governo che era
stata formulata durante la guerra civile e che quindi nel 1689 non era
certo originale. I riformatori formularono infatti una teoria di potere li
mitato che Locke rese celebre. I suoi due Trattati riassumono in realtà le
argomentazioni sviluppate durante il mezzo secolo che precede il 1689 e
166. Ibid., p. 190. A questa argomentazione Thomas Paine ha risposto che si può
sempre risalire il corso della storia, trovare un costume sempre più antico e co
si finire per trovare la verità: «giungeremo infine [...] al momento in cui l’uo
mo uscì dalle mani del suo Creatore. Che cos’era egli allora? Un uomo. Uomo
era il suo unico e alto titolo» (Thomas Paine, I diritti dell’uomo, p. 143).
167. Burke, «Ricorso dai nuovi agli antichi Whigs», in Scritti politici, p. 458.
168. Burke, «Riflessioni sulla Rivoluzione francese», ibid., p. 161.
169. Ibid., pp. 183 e 193. Si vedano anche le pp. 191-192.
170. Burke, «Ricorso dai nuovi agli antichi Whigs», in Scritti politici, p. 498.
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che ritornano nel 1776: nel frattempo esse sono state codificate dal più
grande filosofo del tempo. In questo senso è giusto dire che, nella misu
ra in cui il 1776 fu una seconda rivoluzione inglese, il 1689 fu la prima
rivoluzione americana. I principi erano gli stessi: la fonte del potere po
litico stava nel popolo, il potere reale era limitato dal contratto, e non dal
diritto naturale, e inoltre dal giuramento alla legge prestato dal re. Il re
esercitava il potere per mezzo di un fedecommesso {trust) del popolo,
detentore del potere. La violazione da parte del re dei termini del con
tratto trasformava il sovrano in tiranno ed esentava il popolo dagli ob
blighi di obbedienza. In quel caso il contratto era sciolto, nullo e inesi
stente e il potere ritornava al legittimo detentore, il popolo. Queste ar
gomentazioni, ben note sia ai tempi della guerra civile che della guerra
d’indipendenza americana, erano le stesse correnti durante la Gloriosa
Rivoluzione171.
Nasce a quel tempo un’abbondante letteratura che alimenta le di
scussioni della Convenzione e il cui obiettivo è di promuovere una rifor
ma della monarchia172. La maggior parte delle misure auspicate non si
trovano nel documento finale, probabilmente a causa del rifiuto oppo
sto da Guglielmo d’Orange. Furono tuttavia adottate due misure essen
ziali: quelle riguardanti la legislazione e l’esercito. Il principe vi si era for
malmente opposto e minacciava di tornare in Olanda. Pensava che il po
tere reale fosse stato radicalmente limitato e che si fosse creata una nuo
va situazione legale. Dopo lunghe manovre politiche si giunse a un com
promesso ma era un accomodamento che sostanzialmente assegnava la
vittoria ai riformatori: furono restaurati alcuni vecchi diritti presi di mi
ra da Giacomo II, ma allo stesso tempo fu fondata una nuova monarchia.
Se non avesse visto la luce una Dichiarazione dei diritti, letta ai nuovi
171. Lois G. Schwoerer, «The Bill O f Rights: Epitome of the Revolution of 1688-
89», in J.G.A. Pocock (a cura di), Three British Revolutions: 1641, 1688, 1776,
Princeton University Press, Princeton 1980, pp. 226-237.
172. La più efficace di quelle nuove pubblicazioni fu un adattamento anonimo di
The Tenure o f K in gs an d M agistrates di John Milton, pubblicato sotto l’esplici
to titolo di Pro populo adversus tyrannos. Un altro testo che illumina la natura
delle discussioni pubbliche dell’epoca è Politica sacra et civilis: or a m odel o f ec
clesiastical governm ent di George Lawson, che anticipa Locke; si veda Pocock,
The British Revolution, p. 233.
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190. Carlyle, Sartor R esartus , pp. 265-267. L’intero cap. 3 del libro III, pp. 263-272,
è dedicato ai simboli. Quest’opera, che Taine definisce una «filosofia del co
stume», contiene una metafisica, una politica e una psicologia. L’uomo, per
Carlyle, è un animale vestito e la società ha per fondamento il tessuto: H. Taine,
H istoire de la littérature an glaise , 17J ed., s.d., t. V, p. 218.
191. «The new Downing Street», in Latter-Day Pam phlets, Works, voi. X X , p. 142.
192. Ernst Cassirer, Il m ito dello Stato, trad, di Camillo Pellizzi, Longanesi, Milano
1996, p. 371.
193. Carlyle, Gli Eroi, pp. 68-70.
194. Carlyle, E ssais choisis, p. 51.
195. Carlyle, Sartor Resartus, p. 267.
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sulle cose umane in generale. Per l’autore della Histoire de la lit teniture
anglaise, alla base del disastro si trova lo spirito del secolo, «l’indipcn
denza della ragione ragionante che, allontanando l’immaginazione, libe
randosi dalla tradizione, usando male l’esperienza, trova la propria regi
na nella logica, il proprio modello nella matematica, il proprio organo nel
discorso, il proprio uditorio nella società educata, il suo impiego nelle ve
rità mediocri, il suo argomento nell’uomo astratto e la sua formula nell'i
deologia»196. Perché, egli afferma nel grande capitolo dedicato a Carlyle,
«il sentimento delle cose interiori [insight] è nella razza, e questo senti
mento è una specie di divinazione filosofica. Al bisogno è il cuore che la
da cervello. L’uomo ispirato, appassionato, penetra nell’interno delle co
se; scorge le cause per la scossa che ne sente; coglie gli insiemi con la lu
cidità e la velocità della sua emozione creatrice; scopre l’unità di un grup
po con l’unità dell’emozione che ne riceve [...]. L’intuizione è un’analisi
completa e vivente; i poeti e i profeti, Shakespeare e Dante, san Paolo e
Martin Lutero sono stati senza volerlo dei teorici sistematici»197.
Quest’idea è al centro della lunga e dettagliata dimostrazione pro
posta nelle Origines: qui Taine mostra come, alle soglie del 1789, fosse
maturata la grande rivolta intellettuale contro tutte le certezze, tutte le
credenze, tutte le istituzioni politiche, sociali e religiose. Si vide il
trionfo dello spirito del secolo dei Lumi e de « “l’età della ragione”»
(con le solite virgolette ironiche), quell’età per la quale «prima il gene
re umano era nella sua infanzia, [e] oggi è diventato “maggiorenne”»,
quell’epoca in cui «la verità si è finalmente manifestata» e per la prima
volta si potrà «vedere il suo regno sulla terra»198. L’allusione a Kant è
evidente. Taine prosegue la sua critica: per natura, la verità è universa
le, dunque deve comandare a tutti; è il suo diritto supremo, poiché es
sa è la verità. Con queste due credenze, afferma Taine, «la filosofia del
Settecento somiglia a una religione, al puritanesimo del Seicento, al
maomettismo del VII secolo». Però questa nuova religione, che parlerà
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La rivolta contro la ragione e i diritti naturali
Nel suo rifiuto senza esitazione e senza reticenza della capai ila del
la ragione di modellare l’esistenza sociale, di costruire istituzioni e piu in
generale di accettare l’autonomia dell’individuo, Taine prosegue il la
gionamento di Burke e de Maistre. Questo è anche il ragionamenio di
Renan, Carlyle, Meinecke e Croce: sulle questioni di fondo i nemici dei
Lumi professavano gli stessi principi. Nelle quattro dense pagine che co
stituiscono la prefazione delle Origines, Taine manifesta il suo credo, ve
ra antitesi del pensiero illuminato. Le seicento pagine che seguono ne so
no solo un chiarimento. Il primo principio è molto semplice: «Un pupo
lo consultato può, a rigore, dire quale forma di governo gli piaccia, ma
non quale sia quella di cui ha bisogno». La qualità di una «casa politica»
è in funzione dei costumi, delle particolarità, del carattere dei suoi oc
cupanti. D ’altronde, se in altri paesi persistono tenacemente «abitazioni
politiche», è perché nessuna di esse è stata «costruita tutta in una volta,
sotto un nuovo padrone e secondo i soli canoni della ragione». Perché
«l’invenzione improvvisata di una costituzione nuova, appropriata, sta
bile, è un’impresa che supera le forze dell’ingegno umano»2032045. Una Co
stituzione adatta «si tratta di scoprirla, se esiste, e non di metterla ai vo
ti». Infatti, la scelta è già stata fatta: «la natura e la storia hanno già scel
to per noi», il sistema politico conveniente a ogni popolo è stato fissato
«dal suo carattere e dal suo passato»21*. Quest’idea ritorna in tutta l’ope
ra: l’uomo non è un essere libero o, in altri termini, la libertà di scelta
non esiste. L’uomo è sottomesso al privilegio ereditario, al suo ambiente
sociale e familiare, all’istinto animale e ai suoi bisogni corporali. Per que
sto il concetto di libertà di Rousseau, espresso nel Contrai social, è solo
una astrazione infelice senza alcun nesso con la realtà. La pratica della
dottrina giusnaturalista, per la quale «la società così costruita è la sola
giusta; infatti [...] essa non è opera di una tradizione ciecamente segui
ta, ma di un contratto concluso fra eguali, esaminato alla luce del sole e
consentito in piena libertà», può solo condurre al disastro2'r5.
La Francia è stata l’unica a pagare il prezzo mortale del razionalismo
in tutto il suo orrore. Essa fu l’unica, scrive Renan, a fare una rivoluzione
269
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali
che l’avrebbe trascinata «su una strada piena di stranezze», al cui termi
ne, dopo avere versato fiotti di sangue, essa non ha ancora raggiunto lo
scopo voluto: una società giusta, umana, onesta206207.Tale scopo è stato in
vece quasi raggiunto dallTnghilterra, che non ha proceduto per rivolu
zioni21'. Le radici di questa specificità francese affondano nel carattere
razionalista e materialista deH’Illuminismo francese, nella sua tendenza a
«dichiarare assurdo quello di cui non si vede la ragione immediata»208.
Vent’anni dopo Renan riassume la natura del male: la Francia «ha pro
ceduto filosoficamente in una materia nella quale bisogna procedere sto
ricamente»209. Cercando di superare il quadro della vita nazionale, che è
per sua stessa natura «qualcosa di limitato, mediocre, angusto», e volen
do «fare qualcosa di straordinario, di universale, [...] si lacera la propria
patria, che è un insieme di pregiudizi e di idee consolidate che l’intera
umanità non potrebbe accettare»210. I popoli infatti esistono «in quanto
gruppi naturali formati dalla comunanza approssimativa di razza e di lin
gua, la comunanza della storia, la comunanza degli interessi»211. Quanto
alla nazione - ma Herder, Burke e de Maistre hanno già sviluppato que
sto tema organicista - essa è «come il corpo umano»212213.
Con il passare del tempo è il male rivoluzionario che occupa il
centro del suo pensiero e il tono si indurisce. «Il giorno in cui la Fran
cia tagliò la testa al suo re, essa commise un suicidio», scrive all’indo
mani di Sedan211. Nella sua importante prefazione al volume di saggi
raccolti sotto il titolo Questioni contemporaines, Renan, come Burke e
Taine, accusa coloro che «negli ultimi anni del XVIII secolo prepara
rono un mondo di pigmei e di rivoltosi». Allo stesso modo denuncia
«la bancarotta della Rivoluzione», «la costituzione sociale uscita dalla
Rivoluzione», «un codice di leggi che sembra essere stato fatto per un
270
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali
214. Renan, Q uestion s contem poraines, Préface, pp. II-IV. È comunque utile non
dimenticare la dualità di Renan: egli non giungerà mai a liberarsi compieta-
mente dal fascino della Rivoluzione. Nei suoi scritti si trovano innumerevoli
contraddizioni. Alla vigilia di Sedan si può ancora leggere il brano seguente
(L a M onarchie constitution nelle en France, pp. 235-236): «L a Rivoluzione
francese è un evento così straordinario che è da lei che bisogna partire per
una serie di considerazioni sulle questioni del nostro tempo. In Francia non
succede nulla di importante che non sia conseguenza diretta di quel fatto ca
pitale. [...] Come tutto quello che è grande, eroico, temerario, come tutto
quello che va oltre la comune misura delle forze umane, la Rivoluzione fran
cese sarà l’argomento di cui il mondo si occuperà per secoli. [...] In un cer
to senso la Rivoluzione francese (l’Impero, secondo me, ne fa parte) è la glo
ria della Francia, l’epopea francese per eccellenza; ma quasi sempre le nazio
ni che nella loro storia hanno un fatto eccezionale lo espiano con lunghe sof
ferenze e spesso lo pagano con la loro esistenza nazionale». E lo stesso per
quanto riguarda gli ebrei: la sua cura costante di minimizzare il ruolo degli
ebrei nella civiltà occidentale è controbilanciato da due conferenze fatte un
anno dopo quella su «Q u ’est-ce qu’une nation?» [«Che cos’è una nazione?»,
in Che co s’è una n azion e? e altri saggi, pp. 3-18] e pubblicate in seguito col
titolo «Identité originelle et séparation graduelle du judaïsme et du christia
nisme: conférence faite à la Société des études juives le 26 mai 1883» e «Le
judaïsme comme race et comme religion: conférence faite au cercle Saint-Si
mon le 27 janvier 1883» [«L’ebraismo come razza e come religione», in Che
co s’è una nazione e a ltri saggi, pp. 99-114], in Œ uvres com plètes de Ern est R e
nan, édition definitive, établie par Henriette Psichari, Calmann-Lévy, Paris
[1956], vol. I, pp. 907-944.
215. Renan, L a M onarchie constitutionnelle en France, p. 241.
216. Renan, L ’A ven ir de la science, p. 1030 e Q uestions contem poraines, Préface, pp.
III IV.
271
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La rivolta contro la ragione e i diritti naturali
per tutto il resto della sua vita, Renan non ha mai smesso di denunciare
la radice del male: la «teoria, qualificabile come materialismo in politi
ca», che concepisce «le gioie dell’individuo come unico obiettivo della
società»228. Ecco la fonte dell’individualismo e dell’utilitarismo che han
no rappresentato la grande sventura della tradizione democratica in
Francia.
Nel suo stile più violento e più colorito, Carlyle formula prima di Re
nan le stesse accuse. La guerra aH’Illuminismo non è prodotto di circo
stanze: la reazione di Carlyle di fronte al suo mondo non differisce per
niente da quelle dei francesi dopo Sedan o da quelle della generazione
della svolta del Novecento in tutti i grandi paesi europei. Nell’agosto
1850 Carlyle descrive il mondo del suo tempo come «un immenso truo
golo per maiali». L’unica morale che vi prevale è quella dei maiali: «La
missione della maialeria universale e il dovere di tutti i porci, in ogni
tempo, è di aumentare la quantità di beni accessibili e di diminuire ciò
che rimane fuori tiro»229. Questo, dice Taine, è il fango nel quale Carlyle
immerge la vita moderna, e soprattutto quella inglese, affogando allo
stesso tempo e nella stessa melma lo spirito positivo, il gusto del confor
tevole, la scienza industriale, la Chiesa, lo Stato, la filosofia e la legge230231.
La decadenza moderna è dunque quella di una civiltà materialista,
«meccanica» e utilitarista. La vittoria della materia sullo spirito, la diser
zione dalla metafisica compiuta in primo luogo dai francesi - il paese di
Malebranche, Pascal, Descartes e Fénelon ha ormai solo Cousin e Ville -
main - sono i grandi segni del tempo. La stessa metafisica, dopo Locke,
è meccanicista. I filosofi del tempo presente non sono più Socrate o Pla
tone ma Bentham, che pensa che la felicità dipenda totalmente da circo
stanze esterne all’uomo. Ecco perché, afferma Carlyle, anche nelle na
zioni più civili, si sente un solo grido: dateci buone istituzioni, buoni si
stemi politici e la felicità verrà da sola2'1. Perché la concezione moderna
pretende che tutto nel nostro universo sia questione di scontro di forze
274
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali
e interessi e che, nei rapporti tra gli uomini, non vi sia nulla die abbia a
che fare con la divinità232. Non solo gli uomini hanno perduto la l e d e nel
l’invisibile e non si interessano che al visibile, al materiale e al piatito,
non solo l’Ottocento non è un’«epoca religiosa» ma è un’epoca poco t a
pace di comprendere il bene e il bello: l’utilitarismo di Bentham, cioè l.i
pratica della virtù in funzione di un calcolo di perdite e profitti e il m i o
principio dominante233.
275
C A P IT O L O 4
1. Herder, Ancora una filosofia della storia, pp. 62-63 (S. 530-531).
2. Ibid., p. 63 (S. 530-531).
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23. Burke, «Letter to Richard Burke, post 19 February 1792», The ’Writings and
Speeches o f Edmund Burke (edizione di Oxford), voi. IX, p. 647.
24. Ibid., p. 648.
25. Thomas Paine, / diritti dell’uomo, p. 163.
26. Ibid., p. 164.
27. Burke, «Riflessioni sulla Rivoluzione francese», in Scritti politici, p. 334.
28. Ibid., p. 261.
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33. Kilcup, «Burke’s Historicism», jo u rn a l o f M odem H istory , 49, 1977, pp. 395-
396.
34. Burke, «Discours du 9 février 1790», in Réflexions sur la Révolution de France,
pp. 328-329.
35. Burke, «Riflessioni sulla Rivoluzione francese», in Scritti politici, p. 222.
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La cultura politica dei pregiudizi
line e a cui spetta una proporzione più larga di utile. Ma non ha diritto
a un dividendo uguale del prodotto del capitale comune». Questo non
sarebbe mai venuto in mente a Locke o allo stesso Madison. L’inegua
glianza dei diritti che fa da sfondo al pensiero sociale di Burke si tra
sforma, passando in campo politico, in un rifiuto totale e assoluto dei di
ritti: «per quanto riguarda la parte di potere, autorità e direzione che
spetta a ogni individuo neH’amministrazione dello Stato, nego che que
sta faccia parte direttamente degli originali diritti dell’uomo in una so
cietà civile - perché io considero solo l’uomo in una società civile - e ri
tengo che sia invece stabilito per convenzione»36. Due anni più tardi, nel
l’agosto del 1791, quando i lavori dell’Assemblea costituente stavano per
concludersi, Burke riassume il proprio pensiero: «I pretesi diritti del
l'uomo che hanno provocato questa distruzione, non possono essere i di
ritti del popolo. Perché essere un popolo, e avere questi diritti, sono due
cose incompatibili. La prima presuppone la presenza, l’altra l’assenza di
una condizione di società civile»37.
Burke aveva già fatto questo stesso ragionamento alla vigilia della Ri
voluzione in occasione dell’apertura del processo al governatore Warren
Hastings. La sola e unica eguaglianza esistente è un’eguaglianza morale
tra esseri creati a immagine di Dio38. Il diritto naturale non fissato alle
realtà sociali è pura «codificazione astratta»,39 parola chiave per definire
ogni principio distruttore dell’ordine esistente e per indicare la condan
na senza appello dell’individualismo, dell’eguaglianza e della libertà, co
sì come viene definita partendo da Locke fino alla Dichiarazione france
se del 1789, passando per le Dichiarazioni americane dei diritti. Quan
do capisce il carattere anacronistico delle sue proposte agli occhi dei lea
der whigs, Burke si rifa a «una libertà razionale e vigorosa»40 e cerca di
284
La cultura politica dei pregiudizi
far passare il suo culto della storia e deU’immobilismo, che già dicci .ni
ni prima lo situava all’estrema destra del partito whig, come sola c min a
eredità autenticamente whig'1.
In quanto rivolta dell’individuo contro Dio e la natura, della ragio
ne contro la storia e la società, la Rivoluzione era diabolica. Di cerio
Burke non ignora il senso della Riforma e sa che è per questo individuo
«riformato» che Hobbes e Locke hanno creato la teoria dei diritti nato
rali. Tuttavia, fino a quando l’ordine sociale inglese non venga messo in
discussione dalla Gloriosa Rivoluzione, fino a quando l’indipendenza
degli Stati Uniti possa essere interpretata come il risultato delle goffag
gini della Corona, il male rimane confinato all’opera di Hobbes, Locke
o Rousseau. Ma quando l’insurrezione dell’uomo assume le dimensioni
di un disastro che, nella sua mente, minaccia di inghiottire un’intera ci
viltà con la forza di un volgare utilitarismo, Burke lancia la prima gran
de rivolta comunitaria e nazionalista.
Tuttavia la sua difesa della comunità contro l’individuo, dello speci
fico contro l’universale, la sua difesa delle culture locali, delle comunità
organizzate contro la pretesa della ragione, il suo profondo pessimismo,
non fanno di lui un cieco difensore della storia. Senza dubbio egli insor
ge contro le pretese della ragione alle quali oppone storia e tradizione,
ma non una qualsiasi storia o una qualsiasi tradizione. Con le sue scelte
è il primo a tracciare la via che prenderanno i grandi nomi della rivolu
zione conservatrice: la storia è fatta di tradizioni diverse e contradditto
rie. Essa non è un tutto e ha molteplici insegnamenti da impartire. Burke
fa come se la guerra civile e l’esecuzione di Carlo I non appartenessero
alla storia d’Inghilterra. In realtà la storia dell’Inghilterra, fino alla rivo
luzione, è ricca di movimenti di protesta e dissenso, di radicalismo poli
tico e di egualitarismo, ben più di quella della Francia. I Livellatori (Le-
vellers) e i Dtggers, Hugh Peter e John Ball, Thomas More, autore della
famosa Utopia, rappresentano una tradizione inglese alla quale Richard
Price potrebbe facilmente richiamarsi. I Livellatori avevano sostenuto ri
vendicazioni progressiste, come la riforma della legge sui debiti, l’aboli
zione della decima, la separazione tra Chiesa e Stato. I Diggers, con i lo
ro progetti di comuniSmo agrario, avevano concepito obiettivi sociali e41
41. Burke, «Ricorso dai nuovi agli antichi Whigs», in Scritti politici, p. 556.
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La cultura politica dei pregiudizi
42. Si veda Don Herzog, «Puzzling through Burke», Political Theory, 19 (3), 1991,
pp. 351-352.
43. Burke, «Deuxième lettre, sur la génie et le caractère de la révolution française,
dans ses rapports avec les autres nations» (Deuxième lettre sur la paix régicide),
in Réflexions sur la Révolution de Trance, p. 579.
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La cultura politica dei pregiudizi
44. Burke, «Ricorso dai nuovi agli antichi Whigs», in Scritti politici, p. 537.
45. Cobban, E dm u n d B urke , p. 97, cita Works, V ili, p. 141.
46. Ibid., p. 89.
47. Kilcup, «Burke’s Historicism», Jo u rn al o f M odern H istory, 49, 19 (cita il proces
so Hastings da Burke, Works, Boston 1886, voi. XII, p. 164).
48. Burke, Reflexions on the Revolution in France, introduzione e note di J.G.A. Po-
cock, pp. 76-77 [«Riflessioni sulla Rivoluzione francese», in Scritti politici, pp.
257-258],
287
La cultura politica dei pregiudizi
cato morale che non può essere ignorato se non dagli atei o dagli imbe
cilli. Per concludere, se a ogni nuova moda dovessero verificarsi cam
biamenti nella vita delle nazioni e degli Stati, gli uomini varrebbero po
co più che le mosche d’estate: gli uomini passano come le ombre, le na
zioni e la specie restano45. Il paragone tra gli individui e le ombre che at
traversano correndo il mondo della storia è, come abbiamo visto all’ini
zio di questo capitolo, un grande tema herderiano.
Burke è stato uno dei primi fondatori dell’ideologia nazionalista e
uno dei primi pensatori europei a comprenderne la forza integratrice.
La nazione costituisce il tipo ideale di comunità organica; modellata dal
la storia, essa possiede un’esistenza oggettiva e si riconosce in criteri
completamente indipendenti dalla volontà individuale e dalla ragione.
Avendo orrore per i diritti dell’uomo, per i diritti dell’individuo presi al
di fuori del contesto sociale e culturale, Burke era il grande difensore
delle comunità costituite, delle nazioni storiche colpite nei loro diritti. Si
era infatti opposto all’annessione della Corsica da parte della Francia
come allo smembramento della Polonia. La nazione, vero organismo vi
vente, era distinta dal popolo, parola la cui connotazione democratica lo
urtava profondamente. Burke temeva e disprezzava il popolo, insieme di
individui sempre pronti a rivendicare diritti, gli esecrabili diritti del
l’uomo, e a dimenticare i doveri dell’obbedienza e del rispetto dell’or
dine stabilito. Fu uno dei primi a capire che il nazionalismo organico
rappresentava un argine alla marea democratica. La conservazione del
l’ordine vigente non costituisce un valore di per sé, ma è lo strumento
che permette, bloccando il liberalismo dei diritti dell’uomo e della de
mocrazia, di contenere la decadenza. D ’altra parte l’obbedienza è per
Burke il fondamento del suo concetto di Stato: su di essa si basa il go
verno degli uomini’“. Sono questi i grandi principi portati avanti dai
maurrasiani e dagli elementi già apertamente fascistizzanti della prima
metà del Novecento. E ciò che il bismarckiano Meinecke continua ad
ammirare in Burke.4950
288
La cultura politica dei pregiudizi
Gli obiettivi che Burke si era fissato sono gli stessi ai quali è dedi
cata l’opera di de Maistre: la sua formula non si discosta da Herder o
dal «venerabile Burke»’1. Egli scrive: «Da quando l’uomo ha ricono
sciuto la sua nullità ha compiuto grandi passi in avanti»,515253ammette la
sua dipendenza, capisce che, «sebbene possa, per esempio, piantare
una ghianda, [...] non ha fatto delle querce». Il male è che in campo so
ciale egli inizia a credere di essere effettivamente « l’autore di tutto ciò
che da lui è fatto: in un certo senso è la cazzuola che si ritiene architet
to»” . Nulla è più falso della famosa frase con cui inizia il Contrat sodai.
l’uomo non è libero, è vero il contrario. Contro Rousseau, autore più
colpevole di tutti, de Maistre si richiama ad Aristotele, che arrivava «a
dire, come tutti sanno, che certi uomini nascono schiavi, e non c’è nien
te di più vero»545.La diseguaglianza è naturale e le giuste conclusioni di
Aristotele sono fondate sulla storia, «cioè sulla politica sperimentale».
E la storia ci insegna che l’uomo «è troppo cattivo per essere libero»'". De
Maistre, come Taine più tardi, vede nell’uomo che sfugge al controllo
della Chiesa un rivoluzionario in potenza, un potenziale giacobino al
quale la società apparirà sempre ingiusta e il suo ordinamento contrario
alla ragione. Ciò significa che è assurdo, se non criminale, parlare di so
vranità del popolo: gli uomini non possono inventare la cosa «più sacra,
più fondamentale del mondo morale e politico»,56 così come non pos
sono costituire nazioni.
Senza dubbio, da cristiano qual è, egli non può mai concepire un de
terminismo che renderebbe impossibile ogni responsabilità individuale.
Gli uomini sono «liberamente schiavi, essi operano secondo volontà e ne-
289
La cultura politica dei pregiudizi
cessità insieme»: «siamo tutti legati al trono dell’Essere supremo con una
catena leggera, che ci trattiene senza asservirci»57. Tuttavia, dal momento
che «questa nostra funesta inclinazione al male è una verità sentita, spe
rimentata e proclamata attraverso i secoli», «il triste dogma» che ne emer
ge è senza appello: l’uomo «non può essere menzognero senza essere cat
tivo, né essere cattivo senza essere degradato, né degradato senza essere
punito, né punito senza essere colpevole»58. Ne segue che la società esiste
per timore del castigo e di Dio: «Il castigo governa l’umanità intera; il ca
stigo la custodisce [...]. L’intera razza umana è mantenuta nell’ordine dal
castigo»59. L’umanità sopravvive solo con il boia e con la religione. Il boia,
come il soldato, analogamente omicida di professione, è un nobile esecu
tore, vero cardine della società senza il quale qualsiasi ordine sparirebbe60.
In realtà solo la Chiesa cattolica è capace di mantenere il timore del ca
stigo: nessuna istituzione umana è durevole se non ha una base religiosa,
fonte di disciplina e di rispetto per l’autorità61. L’uomo ha bisogno di un
padrone e necessita di un’educazione religiosa, quindi bisogna mettere la
fede prima della scienza e bisogna prima di tutto riconoscere che Dio,
«autore della sovranità, lo è pure del castigo»6263. Per questo è necessaria
«una rivoluzione morale in Europa», poiché «se lo spirito religioso» non
viene rafforzato, «il legame sociale» sarà dissolto65.
Il più grande corruttore mai esistito è l’individualismo. Il cristianesi
mo è stata la religione dell’Europa fino al XVI secolo, in quanto «istitu
zione politica», e il principio fondamentale sul quale si basava questa re
ligione «era l’infallibilità dell’insegnamento da cui deriva il rispetto cie
co per l’autorità, la rinuncia a ogni ragionamento individuale»64. Il pro
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La cultura politica dei pregiudizi
«Il secolo XVIII, che non si è reso conto di nulla, non ha dubitalo
di nulla»; credeva che l’uomo potesse fare una legge, cioè creare a pian
mento strutture di potere81. Ma l’uomo può fare solo regolamenti rovo
cabili; quanto alla legge, essa ha una vera autorità solo se la si presttppo
ne emanata da una volontà superiore; per questo il suo carattere essen
ziale «consiste nel non essere la volontà di tutti»*2. Come Burke, de Mai
stre pensa che le radici delle Costituzioni politiche esistano prima di
qualsiasi legge scritta e che una legge costituzionale sia il risultato di un
diritto preesistente e non scritto. «L’essenza di una legge veramente co
stituzionale è che nessuno abbia il diritto di abolirla.»83
Per questa ragione de Maistre, che riteneva la perenne presenza di un
boia necessaria per tenere gli uomini sulla retta via, volge uno sguardo in
vidioso al sistema inglese. L’autore nel quale Berlin vede il fondatore del
fascismo si rivela ammiratore della Costituzione inglese, risultato di un
numero infinito di circostanze che, dopo vari secoli, ha prodotto «l’unità
più complessa e l’equilibrio più bello di forze politiche che si sia mai vi
sto nel mondo»84. In una nota in fondo a quella stessa pagina de Maistre
va oltre e cita, dopo Cicerone, Tacito, per il quale «il migliore di tutti i
governi [...] sarà quello che risulterà dalla fusione dei tre poteri ben bi
lanciati l’uno con l’altro: ma questo governo non esisterà mai, oppure, qua
lora si manifesti, avrà breve durata». Non solo de Maistre fa propria que
sta visione del bene politico ma rassicura anche i suoi lettori: il buon sen
so inglese può far durare il suo sistema di governo molto più di quanto
si possa immaginare, «subordinando in continuazione [...] la teoria o ciò
che si chiama i principi, alle lezioni dell’esperienza e della moderazione.
Questo sarebbe impossibile se i principi fossero scritti».85
Non bisogna prendere de Maistre per ciò che non era. Non era un
semplice reazionario, come si ripete da sempre, non era un crociato
giunto direttamente dai tempi di san Luigi né il fondatore del fascismo.
In lui il buon senso tiene in scacco la ragione: mediante il buon senso,
293
La cultura politica dei pregiudizi
86 . Ibid., p. 39.
87. Ibid., p. 27.
88 . Ibid., p. 62.
89. De Maistre, Considerazioni sulla Francia, p. 57 (in inglese e in corsivo nel testo).
90. De Maistre, «Saggio sul Principio Generatore delle costituzioni politiche», in
Scritti politici, p. 41 (corsivo nel testo).
91. Ibid., p. 43.
92. De Maistre, Considerazioni sulla Francia, p. 57.
294
La cultura politica dei pregiudizi
tore del Principe il governo del regno di Francia era «moderato più dal
le leggi che alcuno altro regno».93 Un carattere particolare della monar
chia francese è il suo elemento teocratico: «nulla è così spiccatamente
nazionale quanto tale elemento».9495
Sull’esempio di Herder, Burke e de Maistre, preservare la cultura dei
pregiudizi e negare l’autonomia dell’individuo costituisce l’alfa e l’omega
del pensiero di Hippolyte Taine: è appunto la manifestazione dell’idea se
condo la quale l’uomo è il prodotto della razza, del ceto e del momento
cui appartiene. Già nel 1907 Alphonse Aulard aveva giustamente osser
vato che la famosa teoria di Taine elaborata nella prefazione alYHistoire
de la littérature anglaise veniva direttamente in parte da Montesquieu e da
Auguste Comte ma soprattutto da Herder. In effetti nel tredicesimo libro
delle Idee la formula «le circostanze nazionali, temporali e spaziali date»93
precede quella che si trova nel quindicesimo libro, «a seconda del luogo,
del tempo e delle circostanze»: qui Herder mostra come «le nazioni si
modificano a seconda del luogo, del tempo e del loro carattere interno;
ognuna di esse porta in sé la misura della propria perfezione, che non è
paragonabile con quella delle altre»96. Aulard, che conosceva la prima tra
duzione francese delle Idee, quella di Quinet, utilizza anche il testo origi
nale e cita Herder sottolineando l’essenziale: «le nazioni si modificano a
seconda del luogo, del tempo e del loro carattere interno»9798. E anche:
«Qual è la legge principale che abbiamo osservato in tutte le grandi ma
nifestazioni della storia? Mi sembra questa, che dappertutto sulla terra di
venga ciò che può divenire; in parte secondo la posizione e le necessità del
luogo, in parte secondo le circostanze e le occasioni del tempo, in parte se
condo il carattere innato o autogenerantesi dei popoli»™. Aulard è convinto
295
La cultura politica dei pregiudizi
99. Ibid., pp. 4-6; a p. 5 Aulard cita il testo seguente di Herder: «Come una fonte
ha preso elementi, forze e sapore dalla terra in cui si è raccolta, così l’antico ca
rattere dei popoli è scaturito da tratti della stirpe, dalla contrada, dal modo di
vita e dall’educazione, dalle imprese e gesta precedenti propri di quel popolo»
[Idee p er la filo sofia della storia dell’um an ità , p. 220].
100. Ibid., p. 6: per sostenere la tesi della distinzione tra Herder e Taine, Aulard ci
ta nuovamente Herder: «Anche nei popoli che non si sono mescolati, un com
puto storico diventa un’impresa assai complicata, già per ragioni politiche-geo
grafiche, tale da richiedere uno spirito privo di ipotesi pregiudiziali per non
perdere il filo» [Idee p er la filo so fia della storia dell’um anità, p. 221], L’opera di
Aulard costituisce una critica demolitrice per il lavoro del Taine storico. Quan
to questa critica sia giustificata è una questione che ha fatto molto discutere.
Qui non è però importante.
296
La cultura politica dei pregiudizi
101. François Léger, «L’idée de race chez Taine», in P. Guiral e É. Témime (a cura
di), V idée de race dans la pensée politique fran çaise contem poraine, Editions du
CNRS, Paris 1977, p. 89. Cfr. anche André Chevrillon, Taine, form ation de sa
pensée, Plon, Paris 1932.
102. Aulard, Taine, historien de la Révolution française, p. 5.
103. Ibid.
297
La cultura politica dei pregiudizi
104. Herder, Idee per la filosofia della storia dell’umanità, libro IX, cap. 4, p. 183.
105. Taine, Le origini della Francia contemporanea. L'antico regime, p. 49.
106. Taine, Histoire de la littérature anglaise, YT ed., s.d., t. V, p. 252.
107. Taine, Le origini della Francia contemporanea. L’antico regime, p. 330.
108. Ihid., pp. 332-333.
109. Ibid., p. 336.
110. Ibid., p. 47 (corsivo nel testo).
111. Taine, Les philosophes classiques du XIXr siècle français, p. 370 (citato in Ga-
sparini, La Pensée politique d’Hyppolile Taine, p. 96).
298
La cultura politica dei pregiudizi
112. Ibid., p. 340 (citato in Gasparini, L a Pensée politique d'H yppolite Taine, p. 95).
113. Taine, L e origini della Francia contemporanea. L a Rivoluzione, trad, di Piero
Bertolucci e Paola Zallio Messori, Adelphi, Milano 1989, 1.1, pp. 585-856.
114. Ibid., p. 230.
299
La cultura politica dei pregiudizi
115. Ib id . , pp. 234-235. Si veda anche H istoire de la littérature an glaise , 18J ed., Pa
ris, s.d, t. I, p. XXXVI.
116. Taine, H istoire de la littérature anglaise, 18‘ ed., Paris, s.d., t. I, p. XXXVI.
117. Taine, L e origini della Francia contem poranea. L a Rivoluzione, t. I, p. 233.
118. Ibid., p. 234. Barrès svilupperà questo tema che diventerà una delle grandi me
tafore del nazionalismo della terra e dei morti, il nazionalismo della nuova de
stra di fine secolo.
119. Taine, H istoire de la littérature anglaise, 18* ed., t. I, p. XXXIII.
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trat social non è stato fabbricato per loro ma per uomini astratti che non
appartengono ad alcuna epoca e a nessun paese, «pure entità sbocciate
al tocco della bacchetta metafisica». Nel mondo storico, nel mondo rea
le, gli uomini sono profondamente diversi e ciò che conviene agli uni
non conviene agli altri. Ogni società è composta da uomini che parteci
pano a «una struttura morale e mentale, struttura che è stata ereditata
dalla razza primitiva». Ciò che è comune a tutti gli uomini «è un residuo
prodigiosamente esile, un estratto infinitamente condensato della natura
umana»: tale è appunto la visione dell’uomo dell’epoca, quella, dice
Taine, che, «secondo la definizione di tempo», non vede nell’individuo
null’altro che un « “essere che ha il desiderio della felicità e la facoltà di
ragionare”» 1’1. Taine fa appello a tutta la ricchezza della lingua francese,
a tutti i sinonimi e a tutto l’immaginario possibile per ripetere sempre la
stessa cosa: la società non è il prodotto di una convenzione qualsiasi ma
una «fondazione perpetua» cui gli uomini hanno apportato il loro contri
buto, generazione dopo generazione, a condizione che «la fondazione
restasse intatta»131321345. In questa successione di generazioni, nessun indivi
duo, nessun gruppo, nessun usufruttuario ha il diritto, compromettendo
il patrimonio che gli è stato tramandato, di fare un torto «sia ai suoi pre
decessori, di cui rende vani i sacrifici, sia ai suoi successori che defrauda
delle loro speranze»1” . Imporre a un popolo vivo norme estranee alla sua
storia significherebbe sostituire l’uomo reale e completo con un «fanta
sma filosofico, un simulacro inconsistente»1” .
Il bene della collettività, «alla luce di questa lunghissima prospetti
va», costituisce l’obiettivo di qualsiasi azione politica, è il solo criterio
che possa consentire di giudicare le qualità di un’istituzione. Nessuna
Costituzione è buona, utile o legittima, cattiva, nociva o illegittima in sé,
poiché «non ve ne è una che sia di diritto anteriore, universale e assolu
ta». Esiste un solo criterio: sapere se «porta alla dissoluzione dello Sta
to» o se «assicura la conservazione dello Stato»'” . Non si tratta quindi
solo di impegni e obblighi dell’individuo verso la collettività in quanto
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149. Taine, Le origini della Francia contemporanea. L’antico regime, pp. 357-358 e 367.
150. Taine, Le origini della Francia contemporanea. La Rivoluzione, t. I, p. 347.
151. Ibid., p. 349.
152. Ibid., t. II, pp. 164-165. Si veda anche Gasparini, lui Pensée politique dliyppo-
lite Faine, pp. 221-222.
153. Ibid., p. 380.
154. Taine, Flistoire de la littérature anglaise, t. IV, pp. 297-298, citato in Gasparini,
La Pensée politique d'Hippolyte Taine, pp. 74-75.
155. Taine, Le origini della Francia contemporanea. L’antico regime, pp. 380-381.
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mondo reale»156. È così che «le bestie feroci diventano docili» e la Chie
sa scopre sin dall’inizio il grande segreto della vita sociale: impara ad ad
domesticare l’individuo fin dall’inizio e a preservare l’ordine stabilito. In
elfetti, avendo promesso «il regno di Dio», la Chiesa ha «predicato la te
nera rassegnazione nelle mani del padre celeste, ispirato alla pazienza, la
dolcezza, l’umiltà, l’abnegazione, la carità». Essa finisce per creare una
società vivente, l’unica in grado di sussistere alla valanga dei barbari157.
Alla fine del secondo volume, milleduecento pagine dopo, Taine riassu
me: «In ogni settore della vita privata o pubblica, l’influenza di una
Chiesa è immensa e costituisce una forza sociale eminente, permanente,
di prim’ordine»158. Raramente si è visto il ruolo della Chiesa meglio de
scritto come pilastro dell’ordine stabilito. Nel 1789, alla vigilia del gran
de disastro, gli ecclesiastici con i nobili e il re «occupavano nello Stato il
posto più importante con tutti i vantaggi che esso comporta», che per
molto tempo «avevano meritato. Infatti, con uno sforzo immenso e se
colare, essi avevano costruito volta a volta le tre fondamenta principali
della società moderna»159. Tutto ciò che è grande in Europa, e che anco
ra rimane, è un prodotto di questo mondo di monasteri e di castelli, di
nobili e di servitori della Chiesa.
Per meglio mettere in risalto il disastro costituzionale francese, e al
contrario di Burke che non ha nominato la Costituzione americana, al
contrario di Renan che non apprezzava molto il sistema americano ma
che lo capiva molto di più, Taine contrappone positivamente gli Stati
Uniti alla Francia rivoluzionaria. Certo, interpreta la Dichiarazione d’in
dipendenza del 4 luglio 1776 a suo modo e, a esclusione della prima fra
se, che per lui è solo un «richiamo di circostanza lanciato all’indirizzo dei
filosofi europei», il testo nel suo insieme e poi la Costituzione del 4 mar
zo 1789 con i suoi undici emendamenti presentano misure concrete che
limitano i poteri del Congresso e assicurano «le libertà fondamentali del
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171. lbid., citato in Richard, Ernest Renan, penseur traditionaliste?, p. 143, nota 165.
172. lbid., pp. 243-245.
173. lbid., pp. 246. Si veda anche alle pp. 247-248.
174. lbid., p. 247.
175. lbid., p. 248.
176. lbid., p. 247. Si veda anche alle pp. 238-239 sulle «grandi masse grevi tra le qua
li l’intelligenza riguarda un piccolo numero ma che contribuiscono potenta-
mente alla civilizzazione mettendo al servizio dello Stato, con la coscrizione e la
tassazione, un meraviglioso tesoro di abnegazione, docilità e spirito buono».
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184. Carlyle, «Sign of Times», in Critical E ssays , voi. II, pp. 68-70 [Segni dei tempi,
pp. 68-76].
185. Carlyle, G li eroi, p. 50.
186. Carlyle, P ast an d Present, Works, voi. X, pp. 241-242 [Passato e Presente, p.
368], E ssais choisis, p. 56.
187. Carlyle, «Parliaments», in Latter-Day Pamphlets, Works, voi. XX, p. 251; Past and
Present, voi. X, pp. 212-213 e 217-218 [Passato e Presente, pp. 324 e 331-332].
188. Carlyle, Sartor Resartus, p. 297.
189. Carlyle, Chartism, cap. V, in Critical an d M iscellaneous Essays, Works, voi. XXIX,
p. 153 [ Cartism o , a cura di Giuseppe Nori, Liberilibri, Macerata 1999, P- 47].
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190. Carlyle, Chartism, pp. 152-153 [Cartismo, pp. 46-47], «The Nigger Question»,
pp. 372-373.
191. Carlyle, Chartism, in Critical and Miscellaneous Essays, pp. 157-158 [Cartismo,
p. 52], Si veda anche «The Present Time», p. 23.
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mente definito, è nel suo principio radicato nello stesso diritto naturale [e]
costituisce così la base del diritto alla proprietà»192.
Pregiudizi, saggezza e prescrizione affermano l’incapacità degli uomini
di crearsi un mondo diverso da quello esistente. La «saggezza» significa nei
fatti la capacità di ascoltare la voce della storia o, molto più semplicemen
te, il contrario del razionalismo e dei principi universali19’. Ma l’antirazio-
nalismo, l’abbiamo già visto, genera anche il relativismo dei valori: Burke
credeva effettivamente che i valori morali dipendessero dalle circostanze194195.
Come che sia, se fossero state seguite le regole di saggezza i francesi, al po
sto di arrogarsi il potere di farne una nuova, si sarebbero regolati «secondo
una Costituzione fissa»19’. Tale regola gli inglesi la rispettano senza riserve:
«Tutti i vecchi pregiudizi, dichiara Burke, preferiamo coltivarli e persino, a
nostra maggior vergogna, aggiungerò che li coltiviamo proprio in quanto
pregiudizi, tanto più cari quanto più lunga e più remota ne è stata l’esi
stenza». In realtà, il pregiudizio per lui sostituisce la ragione: «Il pregiudi
zio è di facile applicazione nei casi di estremo pericolo; immerge la mente
in uno stabile fluire di ragione e virtù che condiziona immediatamente le ri
soluzioni umane, evitando all’individuo momenti di penosa indecisione e di
irresolubile scetticismo». Infatti «ci guardiamo bene dal permettere a esse
ri umani di vivere e agire sulla sola scorta dei lumi della propria individuale
192. Burke, «Letter to Richard Burke post 19 February 1792», The Writings and
Speeches o f Edmund Burke (edizione di Oxford), vol. IX, p. 657 : «The soundest,
the most general, and the most recognized title between man and man l...]. A ti
tle which is not the creature but the master of positive Law [...], a title which
though not fixed in its term, is rooted in its principle, in the law of nature itself and
is indeed the original ground o f all known property». Si veda anche Rodney W.
Kilcup, «Burke’s I iistoricism», journal o f Modern History, vol. 47, 1977, p. 400.
193. Burke, «Ricorso dai nuovi agli antichi Whigs», in Scrittipolitici, p. 532.
194. A tal proposito si veda Francis P. Canavan, che cita Burke: «E. Burke’s concep
tion of the role of reason in politics», The journal of Politics, 1959, pp. 60-79:
«The lines o f morality are not like the ideal lines of mathematicks. They are broad
and deep as well as long. They admit o f exceptions; they demand modifications.
These exceptions and modifications are not made by the process o f logic, but by
the rules of prudence» (Works, VI, p. 97). Si veda anche nel testo di Canavan a
p. 77: «Burke believed that "no moral questions are ever abstract questions" and
that before judgement could be passed upon “any abstract proposition", it must be
emobodied in circumstances”. Tor he said, “things are right or wrong, morally
speaking, only by their relation and connexion with other things"».
195. Burke, «Riflessioni sulla Rivoluzione francese», in Scritti politici, p. 205.
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razionalità, perché sospettiamo che tale scorta sia assai limitata in ogni in
dividuo e che pertanto sia meglio per ciascuno avvalersi del patrimonio ge
nerale di esperienza accumulato dai popoli nel corso di lunghi secoli»196.
196. Ibid., pp. 257-258. Nell’edizione francese (p. I l i) si trova un’altra frase importante
tradotta da Pierre Andler in modo molto bizzarro. Ecco il testo inglese: «Prejudice
renders a m an ’s virtue bis habit, and not a series o f unconnected acts. Through ju st
prejudice, bis duty becomes a part o fh is nature» (Edmund Burke, Reflexions on thè
Revolution in Irance , introduzione e note di J.G.A. Pocock, Hackette Publishing
Company, Indianapolis e Cambridge 1987, pp. 76-77). Nella traduzione francese la
frase assume tutt’altro senso: «L e prcjujéfait de la vertu une habitude et non une sui
te d ’aclions isolées. Par le préjujé fonde en raison, le devoir entre dans la nature de
l'homme». Quale che sia il significato esatto da attribuire all’aggettivo «just», non è
possibile tradurlo <<fondé en raison». Qui non sembra che si tratti di un errore ma
piuttosto, con l’introdurre un’idea che non si trova nel testo inglese, di una tenden
za a dare al testo di Burke un senso liberale, anzi democratico. Anche la nota 141 a
pagina 658 pone un interrogativo. Per gli autori di queste note, spesso interessanti
quando si tratta di cogliere il contesto storico, «minimizzando le differenze intellet
tuali e le barriere sociali e creando una continuità tra gli uomimi (tra la populace e i
men o f light and leading), la sua legittimazione del pregiudizio valorizza l’autorità
morale del popolo». Scorgervi «una tonalità democratica» significa fare una singo
lare lettura di Burke, che ha consacrato la sua vita politica e intellettuale alla guerra
contro i diritti dell’uomo, all’eguaglianza politica e all’idea di un Parlamento rap
presentativo della popolazione. Per cui «le ripetute invocazioni di Burke, nel corso
delle Riflessioni e. altrove, ai “sentimenti comuni” , ai “sentimenti naturali”, alla “co
stituzione morale del cuore” e alla “saggezza degli uomini incolti” (unlettered ), pos
sono far pensare che questi sentimenti comuni e questa saggezza comune siano il
fondamento di ciò che egli chiamava la “vera uguaglianza morale del genere uma
no”». Qui Alfred Fierro et Georges Liébert si basano sul capitolo che Gertrude
Himmellarb, portavoce del neoconservatorismo accademico americano più rigido,
dedica a Burke. Il capitolo è composto da due saggi, uno scritto nel 1949 e il se
condo ventanni dopo. Quest’ultimo fornisce la copertura per l’interpretazione di
un Burke liberale, anzi democratico, interpretazione che presiede allo spirito stesso
dell’edizione francese delle Riflessioni. Con i lavori di Russel Kirk ha inizio il culto
di Burke, trasformato nel depositario della saggezza politica universale. Certo, Ha-
rold Laski, al quale la Himmelfarb si riferisce (Victorian Minds: A Study o f Intellec-
tuals in Crisis and Ideologies in Transition, Ivan R. Dee Publisher, Chicago 1995, pp.
3-31), vedeva in Burke il più grande pensatore politico inglese, cosa che non è cer
to l’unica tra le dubbie affermazioni che hanno contribuito ad appannare la repu
tazione del teorico del partito laburista britannico e leader intellettuale della sua ala
marxisteggiante. Infatti, per vedere in Burke un pensatore più grande di Hobbes,
Locke, I lume o J. S. Mill, o si ignora la storia della filosofia politica inglese, e non è
questo il caso di Laski, oppure ci si lancia in una di quelle piroette che non erano
rare nel professore della London School of Economics.
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197. Burke, «Riflessioni sulla Rivoluzione francese», in Scritti politici, pp. 193 e 257.
198. Ibid., pp. 246 e 369-370.
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199. Francis P. Canavan, «E. Burke’s Conception of the Role of Reason in Politics»,
The journal of Politics, 1959 (21), p. 74-75. Si veda anche J. Conniff, «Burke
and India: the failure of the theory of trusteeship», Political Research Quarterly,
46 (2), 1993, p. 302.
200. Si veda Don Herzog, «Puzzling through Burke», Political Theory, 19 (3), 1991,
pp. 355-356.
201. Burke, «Ricorso dai nuovi agli antichi Whigs», in Scritti politici, p. 544.
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porto che deve esserci per natura tra l’aristocrazia e il resto del paese. In
un omaggio all’alta nobiltà del suo paese egli dichiara: «Voi, di grandi la
miglie e di grandi fortune ereditate, voi non siete persone come noi che,
per quanto in alto ci leviamo, proprio per la rapidità della nostra ascesa
e anche dopo avere prodotto frutti, [...] siamo solo delle piante che du
rano una stagione, che non lasciano alcuna traccia. Ma voi, se siete vera
mente ciò che dovreste essere, voi siete ai miei occhi come le grandi quei
ce la cui ombra copre il paese [...] generazione dopo generazione»2"'.
Questa metafora classica si ritroverà sia in Taine che in Barrès.
Sempre nello stesso spirito porta avanti la sua campagna in favore
dell’esistente: la maggioranza, come la minoranza, non ha il diritto di
modificare le strutture politiche di un paese: «i voti di una maggioranza
[...] non possono alterare la natura morale delle cose più della natura fi
sica». Ne consegue che, «una volta fissata in un patto, sia tacito che
espresso, la costituzione di un paese, non c’è potere o forza che possa
cambiarla, se non trasgredendo alle condizioni del contratto oppure ot
tenendo il consenso di tutte le parti»20203. Questa è secondo Burke la fon
te della legittimità politica. Il che, nel contesto concreto degli avveni
menti del 1789, significa che è giusto e legittimo che il re, la nobiltà e il
clero possiedano ciascuno un diritto di veto sulla volontà dei rappresen
tanti del resto della nazione.
Tessendo le lodi dell’esperienza, Burke si nomina guardiano dell’or
dine sociale, politico ed economico, dei privilegi e delle ineguaglianze,
difende una partecipazione politica ridotta al minimo e la cui funzione
essenziale è di assicurare la perennità di ciò che esiste. A tal proposito af
ferma: «la scienza che insegna a costruire uno Stato o a rinnovarlo o a
riformarlo è una scienza sperimentale»,204 alza il vessillo della «saggezza
pratica» contro «la scienza teorica»205. L’ordine borghese e capitalista è
precisamente quello stabilito; l’esperienza ci insegna che quest’ordine
deve essere protetto da un governo libero dalle pastoie della democra
zia. Burke è favorevole a un regime di laissez-faire e allo stesso tempo a
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206. Citato in Michael Freeman, «E. Burke and the Sociology of Revolution», Poli
tical Studies, 25 (4), 1977, p. 464. Questa citazione proviene dall’ultimo para
grafo di Thoughts and Details on Scarcity. Si veda anche la lettera a Gaëtan-
Pierre Dupont del 28 ottobre 1790.
207. Burke, «Ricorso dai nuovi agli antichi Whigs», in Scritti politici, pp. 497-498.
Si veda anche p. 555.
208. Burke, «Riflessioni sulla Rivoluzione francese», ibid., p. 224 (corsivo nel te
sto).
209. Ibid., p. 265.
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210. Ibid., «Ricorso dai nuovi agli antichi Whigs», in Scritti politici, p. 543. Cfr. an
che pp. 555-556.
211. Rouché, Introduction a J.G . Herder, Journal de mon voyage en l’an 1769, p. 47
(S. IV, pp. 472- 473).
212. Herder, Ancora una filosofia della storia, p. 39 (S. V, p. 510). Pierre Pénisson ri
tiene che questo passo sia stato «supersfruttato»; cfr. J.G. Herder: la raison dans
les peuples, p. 103.
213. Herder, Ancora una filosofia della storia, p. 114 (S. 576).
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Accade la stessa cosa quando si tratta dei periodi storici: dopo un’e
poca di grande intensità viene la sua antitesi: «L’ascetismo della Repub
blica ha prodotto la dissolutezza della restaurazione»; «la pietà cavalle
resca e poetica della grande monarchia spagnola ha svuotato la Spagna
di uomini e di idee. Il primato del genio, del gusto e dell’intelligenza ha
ridotto l’Italia, in un secolo, all’inerzia voluttuosa e all’asservimento po
litico»243. Con l’Ottocento si apre un altro periodo di decadenza, pro
dotto della democrazia.
In effetti, come per Burke, la democrazia per Taine assomiglia a una
forma di «delirio universale»: a partire dal 1789, sotto ogni aspetto, «in
ogni consuetudine, in ogni misura [...] non c’era niente in cui non si ve
desse l’impronta della tirannia [...] Sensazioni pervertite, concezioni de
liranti: per un medico questi sarebbero sintomi di alienazione menta
le»244. E così che, grazie a «uno di quei catechismi da sei soldi che circo
lano a migliaia nelle campagne e nei sobborghi, un procuratore di vil
laggio, un impiegato ai dazi, un distributore di contromarche alla porta
dei teatri, un sergente di camerata, si ritrova legislatore e filosofo; giudi
ca Malouet, Mirabeau, i ministri, il re, l’Assemblea, la Chiesa, i governi
esteri, la Francia e l’Europa. Di conseguenza, su queste altre materie che
sembrava gli fossero per sempre interdette, ecco che redige mozioni, leg
ge istanze, pronuncia arringhe: viene applaudito, e lui si sente tutto feli
ce di ragionare così bene e con parole così grandi»245. Taine, come Burke,
preferiva di gran lunga il sistema che permetteva di riempire il Parla
mento di deputati provenienti, secondo l’espressione di Thomas Paine,
«dal fango dei borghi putridi» o che erano solo «una rappresentanza su
bordinata a quella aristocratica»246. Infine entra in scena questa «classe
che, incollata alla gleba, soffre la fame, da sessanta generazioni per nu
trire le altre classi, e le cui mani adunche si tendono incessantemente per
impadronirsi di questo suolo da cui esse fanno nascere i frutti»; e Taine
lancia la sfida: «si vedrà all’opera»247. La critica della democrazia, me
scolata a un vero odio e paura del popolo evidenti nella sua descrizione
243. lbid.
244. Taine, Le origini della Francia contemporanea. L’antico regime, pp. 564-565.
245. Taine, Le origini della Francia contemporanea. La Rivoluzione, t. I. p. 590.
246. Paine, I diritti dell'uomo, p. 166.
247. Taine, Le origini della Francia contemporanea. L'antico regime, p. 430.
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del giacobino, è uno dei fili conduttori dell’opera di Taine. Con la Rivo
luzione che annuncia la fine delle élite e l’irruzione dell’uomo del popo
lo sulla scena storica, con la Rivoluzione, che è «l’insurrezione dei muli
e dei cavalli contro gli uomini, guidata da scimmie con lingue di pappa
gallo»,248 è la civiltà europea a essere minacciata di morte.
Nell’ultima parte del primo volume delle Origines l’autore giunge al
le conclusioni pratiche delle sue lunghe riflessioni sul bene politico: ov
viamente rifiuta la democrazia in tutte le sue forme; cantoni svizzeri o si
stema americano, definito del resto senza alcuna verosimiglianza come
democrazia pura, sono malèfici in egual misura e sempre per lo stesso
motivo: è il governo della maggioranza, «il governo diretto del popolo
attraverso il popolo». Poiché, si sa, la democrazia non conviene alle
«persone civili e occupate», ma «ai fannulloni, alle persone rozze»249. Per
corso naturale essa degenera nella «democrazia radicale», quella di cui
un Sieyès, infatuato dalle proprie concezioni speculative quanto Rous
seau, privo di scrupoli come Machiavelli, è l’incarnazione250. Del resto il
suffragio universale, questa «stupida adorazione del numero», questa
«macchina livellatrice»,251 o anche questo «rifugio del mostro demagogi
co»,252253emargina inesorabilmente le élite, i notabili, i nobili e le persone
istruite per creare il governo di quei «cervelli incolti, intorpiditi dalla
monotonia del lavoro manuale e schiacciati dalle preoccupazioni dei bi
sogni fisici», di quei «paralitici e ciechi nati». Così giunge il governo «del
camiciotto» al posto di quello dell’«abito civile», così vede la luce il re
gno della «maggioranza numerica»,255 così il regime politico è inesora
bilmente traviato254. L’unico buon sistema di governo è quindi quello che
mette il potere nelle mani della «classe alta»,255 libera da ogni preoccu-
248. Aulard, Taine historien de la Révolution française, p. 21, citazione da Taine, Vie
et Correspondance, t. Ili, p. 266: lettera a M. de Boislile del 26 luglio 1874.
249. Taine, Le origini della Francia contemporanea. La Rivoluzione, 1.1, pp. 1062-1063.
250. Ihid.,t. I, p. 748.
251. Citato in Gasparini, La Pensée politique d'Hyppolite Taine, p. 222.
252. Aulard, Taine historien de la Révolution française, p. 16, cita Taine, Vie et Cor
respondance, p. 225, lettera del 26 maggio 1873.
253. Taine, Les Origines de la France contemporaine, t. II, p. 595.
254. Ibid, t. II, pp. 595-599.
255. Taine, Le origini della Francia contemporanea. La Rivoluzione, t. I, p. 241. Cfr.
anche pp. 240 e 242.
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C A P IT O L O 5
La guerra alla democrazia iniziata alla fine del XVIII secolo si svilupperà
ormai senza tregua. La rivolta contro la ragione, contro i diritti naturali,
contro l’autonomia dell’individuo si manifesta nella lunga campagna po
litica di Burke e fissa le grandi linee di questo processo per almeno un
secolo e mezzo. Tutto è ammesso, tutto è legittimo, dopo la disfatta in
glese in America, per bloccare le velleità di democratizzazione del mon
do europeo, compresa la salvaguardia di un ordine politico, e in conclu
sione sociale, estremamente ingiusto, clientelare e corrotto. A tale scopo
Burke innalza la difesa del patrimonio a virtù suprema. Un secolo dopo
l’obiettivo resta lo stesso ma i mezzi devono cambiare: Maurras, Croce o
Spengler intendono dedicarsi non ad assicurare la perennità del nuovo
ordine esistente - perché si tratta a quel punto della democrazia - ma al
contrario a spezzarlo, facendo riferimento a un patrimonio lontano, se
non mitico.
Per capire meglio il meccanismo intellettuale di questa insurrezione
contro il contenuto intellettuale della democrazia e contro le sue istitu
zioni, la cosa migliore è seguire il cammino di Burke e volgere l’atten
zione ai precetti, oggi tanto ammirati, della saggezza politica della quale
egli è ritenuto depositario. Conviene pertanto esaminare le sue concrete
prese di posizione al Parlamento di Westminster, in particolare per
quanto riguarda i progetti di riforma presentati alla Camera dei comuni
da colonne de\Yestablishment politico e sociale; tra questi almeno due
dei più grandi nomi della storia moderna dell’Inghilterra.
Al suo tempo il Parlamento inglese non aveva equivalenti e durante
il lungo ministero Walpole (1721-1742) il governo era diventato più di
pendente dai Comuni. Tuttavia il primo ministro, guardiano del sistema
whig, porta a perfezione la corruzione come sistema di governo. Anche
dopo la sua caduta la corruzione continua a infuriare. Si comprano i de
putati come gli elettori, cosa che non favorisce il clima politico né lo spi-
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I fondamenti intellettuali del nazionalismo
routine degli ideali dei Lumi per passare poi a una posizione più reazio
naria, consistente in una subordinazione della ragione e dell’intelletto al
nazionalismo, alla gallofobia, all’intuizione, in una fede acritica nella tra
dizione. Ma si può pretendere che Herder abbia iniziato come cosmo
polita e abbia concluso come nazionalista? E ciò che mi sembra insoste
nibile. Dice Berlin: Herder non ha mai abbandonato l’umanismo cristia
no dell’Aufklärung tedesco, considerava il cristianesimo come una reli
gione universale, comprendente tutti gli uomini e tutti i popoli, trascen
dente ogni lealtà locale nel culto dell’universale e dell’eterno1.
Questo ragionamento non resiste all’esame dei fatti e comunque si
potrebbe porre solo in termini diametralmente opposti a quelli proposti
da Berlin. Herder non può avere cominciato come Aufklärer per con
cludere come nazionalista, poiché è proprio alla fine della sua vita che si
avvicina a un certo cosmopolitismo mentre ha cominciato la sua carrie
ra col pamphlet del 1774. Tale campagna contro l’Illuminismo prosegue
senza una vera sosta per la maggior parte della sua vita. Nelle Idee per la
filosofia della storia dell’umanità avviene una metamorfosi o si tratta es
senzialmente di un cambiamento di tono ben più che di contenuto? En
trambe le interpretazioni sono possibili, anche se comunque l’importan
za storica di Herder e la sua straordinaria influenza, per un secolo e mez
zo, si devono al suo rifiuto deü’universalismo e alla sua lotta per il parti
colarismo culturale ed etnico. Anche Max Rouché che, a conclusione di
una serrata lettura delle Lettere per l’avanzamento dell’umanità del 1796
1797, l’opera più vicina all’Aufklärung, insiste sulla dimensione univer
sale del pensiero di Herder e che, in un libro pubblicato nel fatidico
1940, dedica anch’egli molti sforzi per separare Herder dal determini
smo nazista,2 non può sfuggire a conclusioni poco favorevoli a un’inter-
1. I. Berlin, Vico and Herder.Two Studies in the History of Ideas, The Hogarth Press,
London 1976, pp. 156-157 [Vico e Herder. Due studi sulla storia delle idee, Ar
mando, Roma 1978, pp. 195-196], Una nuova edizione di cui si parlerà in seguito
è apparsa più di recente: Three Critics o f the Enlightenment: Vico, Hamann, Her
der (testo curato da Henry Hardy), Princeton University Press, Princeton 2000.
Berlin allude all’opera di Frederick M. Barnard, Herder's Social and Political
Thought, from Enlightenment to Nationalism, Clarendon Press, Oxford 1965.
2. Si veda per esempio Rouché, La Philosophie de l’histoire de Herder, pp. 246-248 o
298-303.
410
Í
1 fondamenti intellettuali del nazionalismo
3. Ibid., p. 539 (corsivo nel testo). Si veda anche il resto dell’ultimo centinaio di pa
gine e in particolare i capitoli da VI a V ili.
4. A. Renaut, «Universalisme et différentialisme: le moment herderien», p. 247.
5. P. Pénisson, J.G. Herder: la raison dans les peuples.
411
I fondamenti intellettuali del nazionalismo
412
1 fondamenti intellettuali del nazionalismo
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I fondamenti intellettuali del nazionalismo
9. Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts e des métiers (Sociétés
typographiques, Lausanne 1781), vol. XXXXIV, articolo «Nation», p. 221.
10. Hume, PoliticaiEssays, Essay X ll (O f National Characters), p. 79 [«I caratteri na
zionali», trad. di Mario Misul, in Opere filosofiche, vol. Ili, p. 210].
11. Montesquieu, Lo spirito delle leggi, v. I, p. 189.
12. Herder, Idee per la filosofia della storia dell'umanità, libro IX, cap. IV, p. 183.
414
I fondamenti intellettuali del nazionalismo
morte. È per questo che egli esalta «quell’età e quei popoli in cui tutto
era ancora chiuso entro i limiti della nazione», e considera «bello davve
ro il rimprovero che il nostro illuminato secolo suol fare ai meno illumi
nati uomini della Grecia, di non avere mai nulla filosofato d’universale e
di puramente astratto, di aver sempre parlato secondo la natura di limi
tati bisogni, restando su una scena chiusa e ristretta»13.
I criteri di giudizio filosofico degli uomini deH’Illuminismo, Voltaire,
Montesquieu, Hume, Ferguson, D ’Alembert, Iselin e molti altri, aveva
no per loro un valore universale, capace di mettere in questione i valori
consacrati dalla storia. L’idea comune, anche ai nostri giorni, è che, con
trapponendosi a loro, Herder rifiuta questa pretesa all’universalità, non
solo dei criteri della sua epoca ma di ogni epoca: la messa in discussione
della portata storica dei valori al di là del loro contesto colpisce allo stes
so tempo la pretesa di qualsiasi epoca di scoprire una verità di portata
universale. Nel 1774 si tratta dunque in Herder di una filosofia della sto
ria che cerca di mostrare l’impossibilità di rendere intelligibile, partendo
da idee come il diritto naturale, il principio dell’unità della storia. Se
condo lui ogni nazione può legittimamente richiamarsi al proprio crite
rio di saggezza, poiché nella storia agisce una pluralità di orincipi di ve
rità, E per questo che nessun principio uniforme può servire da deno
minatore comune per costituire un principio adeguato dell’unità della
storia. Solo il Creatore può cogliere tale unità14.
Nel Novecento, lo si è visto prima, questa critica dell’unità della sto
ria è considerata il punto di partenza dello storicismo moderno. Per i
suoi ammiratori, Herder è il gran sacerdote del pluralismo storico, in
grado di riconoscere la validità della pluralità dei valori nel corso della
storia. I valori di ogni nazione avrebbero quindi una validità propria, re
lativa al loro specifico contesto. Sotto l’egida del principio pluralista, la
storia ha potuto così levarsi contro ogni forma di «dogmatismo» che eri
gerebbe a modello assoluto un sistema di valori con una portata storica
mente limitata. Per i suoi detrattori, Herder sarebbe il padre del «relati-
415
I fondamenti intellettuali del nazionalismo
416
I fondamenti intellettuali del nazionalismo
progressi dello spirito umano. Sarà degno di studio storico solo ciò che
rappresenta un progresso e può costituire un modello per il resto del
mondo. Herder respinge questi elementi fondamentali del pensiero di
Voltaire - il principio di utilità nello studio della storia, la sua concezio
ne della funzione della lingua, la sua visione della nazione - ma assimila,
senza però riconoscerlo, dell’eredità di Voltaire l’obiettivo che quest’ul
timo, e prima di lui, secondo l’appropriata definizione di Voltaire, « l’il
lustre Bossuet», hanno dato alla storia: lo studio dello «spirito delle na
zioni», «le inclinazioni e i costumi» o, per essere precisi, come dice l’au
tore del Discours sur l’histoire universelle, «il carattere» dei popoli come
dei loro governanti18.
All’epistemologia volteriana della conoscenza storica, che per altro
mira a distinguere rigorosamente fatti e favole19, metodo che già aveva
disgustato Vico, Herder oppone la domanda fondamentale: in base a
quali criteri si può dare un giudizio sui costumi, le leggi, i regimi politi
ci e sociali di altri popoli e di altre culture? Quello volteriano è un me
todo comparativo, destinato a operare scelte e a permettere giudizi di va
lore. Herder prende in contropiede la logica volteriana e le oppone un
procedimento che, in via di principio, non permette né comparazione né
giudizio di valore. Egli attacca Winckelmann per avere giudicato l’Egit
to in base ai criteri estetici greci e Voltaire per considerare il proprio
tempo come un criterio e un modello per il mondo intero. Siamo qui di
fronte a una metodologia il cui vero peso si farà sentire solo due secoli
dono. Per l’immediato, lo stesso Herder, proprio come gli altri critici dei
Lumi del suo tempo e del secolo seguente, è restato fedele a questo me
todo solo finché si trattava di combattere l’influenza francese e di pro
clamare il declino della Francia. Herder, Möser, che prima di Herder
aveva pubblicato un libro intitolato Sullo spirito nazionale tedesco, e
Fichte dopo Jena non reclamano certo l’eguaglianza di tutte le lingue, di
tutte le epoche, di tutti i costumi e di tutte le culture, anzi. La superio
rità dei tedeschi, popolo giovane, i soli dotati di una lingua pura, origi
nale, non inquinata da apporti stranieri, è subito affermata e la superio-
18. Ibid.
19. Marc Crépon, «Langues et histoire (Herder, critique de Voltaire)», in Pierre Pé-
nisson (a cura di), Herder et la philosophie de l’histoire, p. 127.
417
I fondamenti intellettuali del nazionalismo
rità del Medioevo germanico sottolineata, come quella della Riforma lu
terana sul Rinascimento italiano. Anche la preminenza nell’aspetto cri
stiano è chiamata in causa solo fino a quando non metta in discussione
l’omogeneità della nazione. Per il Rinascimento Herder prova una spic
cata avversione, così come per l’opera di Racine e di Comedle, alla qua
le oppone la superiorità del dramma shakespeariano20. Spesso si trova
anche lui in una serie di contraddizioni: è affermata la grandezza delle
crociate, ma i mali seminati da queste spedizioni di credenti non gli sfug
gono; la poesia biblica e gli antichi giudei hanno tutta la sua attenzione,
ma gli ebrei del suo tempo sono oggetto dell’antisemitismo più tradizio
nale. Condanna il colonialismo, ma colloca il nero molto vicino alla scim
mia; predice un grande avvenire agli slavi, ma la loro inferiorità rispetto
ai tedeschi è affermata con molta forza e convinzione.
Tuttavia, se il principio dell’eguaglianza assoluta tra popoli, culture
ed epoche costituisce l’aspetto rimasto nascosto del suo pensiero, relati
vamente poco percepibile dai suoi contemporanei, il pensatore del na
zionalismo ebbe immediatamente un grosso successo. Ci vorranno quasi
due secoli perché l’autore di Ancora una filosofia della storia possa appa
rire ideàlizzato, profeta di un innocente pluralismo. Poiché singolarità ed
eguaglianza sono due principi diversi. Il grande errore di certi interpreti
sta proprio qui, nel fatto che essi credono di potere dedurre dalla speci
ficità di ogni nazione l’eguaglianza tra le nazioni, mentre ciò che ne deri
va è il contrario. Il particolarismo provoca una acuta presa di coscienza
delle differenze, non dell’eguaglianza. Qui si compie un passo ulteriore,
di importanza capitale: se particolarismo e singolarità sono responsabili
dell’assenza di un criterio che permetta di giudicare le nazioni le une in
rapporto alle altre, è perché le nazioni, per Herder, sono individui.. Uno
studio comparato di culture e civiltà, popoli ed epoche provocherebbe la
cancellazione della specificità assoluta. Dopo di ciò la storia diventa sol
tanto uno studio delle particolarità locali e nazionali del tutto indipen
denti le une dalle altre. Si può ancora parlare di storia universale?
418
I fondamenti intellettuali del nazionalismo
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I fondamenti intellettuali del nazionalismo
23. Herder, Ancora una filosofia della storia, pp. 83-84 (S. 551).
24. Ibid., pp. 30-31 (S. 502).
420
I fondamenti intellettuali del nazionalismo
smo da parte di Herder annuncia l’arrivo delle forze nuove del naziona
lismo. E davvero nella visione herderiana della nazione che si radica il na
zionalismo della svolta del Novecento, e non in quella di de Maistre.
Si è visto sopra che, nonostante l’estrema chiarezza della sua formu
lazione, l’idea corrente ritiene tuttora che uno dei maggiori titoli di glo
ria di Herder, dopo « l’invenzione del mondo storico», sia l’invenzione
del pluralismo e della diversità. Da ciò deriverebbe il suo preteso rispet
to dei popoli e delle culture non europee. Herder sarebbe insomma in
sorto contro Teurocentrismo deH’Illuminismo e contro il suo preteso di
sprezzo per il mondo non europeo. Egli sarebbe così il profeta dell’e
guaglianza di tutte le civiltà e di tutte le epoche25. In realtà Herder pren
de una posizione ben più arretrata di quella di Voltaire. Non mette sul
lo stesso piano tutti i valori, si accontenta di creare una scala diversa. Al
razionalismo, all’individualismo e alla laicità deirilluminismo, egli op
pone l’alternativa cristiana, germanica e medievale. Mentre per i philo
sophes il progresso è dovuto esclusivamente allo spirito umano, in lui l’e
voluzione dell’umanità è governata dalla provvidenza e realizza un pia
no divino. Il sistema di Herder può essere considerato l’esito della filo
sofia cristiana della storia che, in seguito alla conversione dello Stato ro
mano e all’evangelizzazione dei barbari, tendeva a identificare la realtà
storica con la volontà di Dio, a spese della volontà umana. Dopo Vico,
Herder è il rappresentante della filosofia della storia cristiana nel XVIII
secolo Ecco perché in Ancora una filosofia della storia l’Estremo Orien
te risulta assente e la sua presenza nelle Idee marginale.
Viceversa nessun autore più di Voltaire ha fatto così largo posto ai
popoli non europei. Già all’inizio dell’Essai sur les mœurs egli insorge
contro l’idea dell’inferiorità dei popoli d’America, selvaggi secondo gli
europei: «I cosiddetti selvaggi dell’America sono dei sovrani che ricevo
no ambasciatori [...]. Sanno che cos’è l’onore, di cui i selvaggi europei
non hanno mai sentito parlare». L’urone, l'algonchino, l’abitante dell’Il-
linois, il cafro, l’ottentotto non solo conoscono l’arte di fabbricare essi
stessi ciò di cui hanno bisogno, «e quest’arte manca ai nostri zotici», ma
«hanno una patria, l’amano, la difendono, stipulano trattati, si battono
25. Si veda in particolare Berlin, Vico and Herder [Vico e Herder] e, più avanti, il cap.
V i l i .
421
I fondamenti intellettuali del nazionalismo
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I fondamenti intellettuali del nazionalismo
Voltaire presentano, ognuno a suo modo, questi popoli del Nord, in par
ticolare quello che ha attirato maggiori attenzioni, i normanni, con la lo
ro influenza. Secondo Herder «è ai loro costumi che non solo l’Inghil
terra ma gran parte dell’Europa deve lo splendore della sua cavalleria»;
questo testo non si trova in Ancora una filosofia della storia ma nelle Idee.
I normanni apportarono «valore e forza fisica, abilità e accortezza in tut
te le attività più tardi chiamate cavalleresche, un grande sentimento del
l’onore e della nobiltà d’origine»32.
Herder non solo ha uno sguardo amoroso per tutti questi popoli del
Nord, per tutte queste tribù germaniche, ma conferisce il prestigio del
genio a tutti gli stereotipi, che diventano rapidamente famosi e assumo
no un ruolo importante nello sviluppo del mito germanico. «La loro al
ta, forte e bella corporatura, i loro occhi di un azzurro minaccioso, era
no animati da uno spirito di fedele devozione e di temperanza che li ren
deva obbedienti ai loro capi, coraggiosi nell’attacco, resistenti nei peri
coli, e perciò assai ben visti come alleati o temuti da altri popoli, soprat
tutto dai romani degenerati.» Qualche riga dopo aggiunge: «La lunga re
sistenza condotta contro i romani da molti popoli della nostra Germania
aumentò naturalmente le loro forze e il loro odio contro il nemico ere
ditario»33. L’ammirazione di Herder per le virtù guerriere dei germani,
per il loro rozzo sistema di vita di nomadi e di cacciatori, non ha in pra
tica limiti. Certo, tutti questi popoli non avevano gli stessi costumi o la
stessa civiltà, ma esisteva un fondo comune: ciò che rimaneva comunque
«nel valoroso tedesco originario» era «il suo Theut o Tuisto, Mann,
Hertha e Wotan, cioè un padre, un eroe, la terra e un generale»34. Her
der termina il capitolo dedicato ai «popoli germanici» sia con una con
fusa osservazione sulla «situazione politica» dei tedeschi, che sarebbe al
l’origine dei lenti progressi della civiltà europea, sia con una tirata chia
rissima, che avrà anch’essa un grande avvenire: «Sono dunque loro che
non solo hanno conquistato, consolidato e organizzato alla loro maniera
la maggior parte dell’Europa, ma che l’hanno anche difesa e protetta;
32. Herder, Idées pour la philosophie de l'histoire de l’humanité, livre XVIII, ch. IV,
p. 363.
33. Ibid., livre XVI, ch. III, pp. 293-295.
34. Ibid., p. 297.
423
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I fondamenti intellettuali del nazionalismo
tire dal IV secolo essi si mescolano «alle ondate degli altri barbari che
portarono la desolazione fino a Roma e in Africa»’9. Roma era crollata
perché non c’erano più uomini come Mario per tenere testa ai barbari,
perché c’erano più monaci che soldati: «Il cristianesimo apriva il cielo,
ma rovinava l’impero»3940. L’alto Medioevo fu un tempo « d ’ignoranza ge
nerale»,41 in «questi tempi barbari» tutto fu soltanto «confusione, tiran
nia, barbarie e povertà»42. Il feudalesimo aveva prodotto un «mostruoso
aggregato di membra che non formavano affatto un corpo. [...] Ogni ca
stello era la capitale d’un piccolo Stato di malfattori», le campagne era
no desolate, le città devastate e i contadini trascinati in guerra conside
rati meno dei cavalli43. In quanto alle norme e agli usi, compresi quelli
della cavalleria, non erano altro che precetti per una continua guerra ci
vile44. Il XIII secolo rappresentò una svolta: si passò «dall’ignoranza sel
vaggia all’ignoranza scolastica»: da allora fino quasi a oggi, dice Voltaire,
gli studi di scolastica sono rimasti «sistemi di assurdità tali che, se venis
sero attribuiti ai popoli di Taprobane, crederemmo di calunniarli»45.
Lo stesso è per la Chiesa di quei tempi: la festa del Santo Sacramen
to, racconta Voltaire, ha avuto origine dalle visioni di una religiosa di
Liegi che, nel 1264, immaginò di vedere ogni notte un buco nella luna;
ebbe poi una rivelazione che le chiarì che la luna significava la Chiesa e
il buco una festa che mancava. Un monaco compose con lei l’officio del
Santo Sacramento e la festa di Liegi venne adottata da Urbano IV per
tutta la Chiesa46. Fin dalle prime pagine dell’Essai sur les mœurs Voltaire
si occupa delle «favole assurde» alle quali «la maggior parte del genere
umano [...] insensato e stupido» trova un senso, come nel caso di «tut
ti coloro che si credeva fossero nati dal commercio soprannaturale della
divinità con le nostre mogli e con le nostre figlie»47. Sono queste frecce
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I fondamenti intellettuali del nazionalismo
48. Herder, Ancora una filosofia della storia, p. 103 (S. 567).
49. Rouché, La Philosophie de l’histoire de Herder, pp. 102 e 540, cita i Commentari
al Nuovo Testamento del 1775.
50. Citato in Rouché, Introduction a Herder, Une autre philosophie de l’histoire, p. 77.
51. Herder, Ancora una filosofia della storia, pp. 18-20 (S. 490-491): Herder cita il t.
Ili di Miscellany («Characteristics» di Shaftesbury).
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I fondamenti intellettuali del nazionalismo
55. Herder, Idee per la filosofia della storia dell’umanità, libro XIII, cap. IV, p. 252.
56. Herder, Ancora una filosofia della storia, p. 105 (S. 568-569). Herder parla del
l’amore per la città come amore per i propri concittadini (Biirgerliebe).
57. Herder, Idee per la filosofia della storia dell’umanità, libro XIII, cap. IV, p. 251.
58. Herder, Ancora una filosofia della storia, p. 27 (S. 499).
59. Ibid., p. 29 (S. 501).
60. Ibid., p. 28 (S. 500).
61. Ibid., p. 30 (S. 501).
428
I fondamenti intellettuali del nazionalismo
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I fondamenti intellettuali del nazionalismo
elevò poi alle idee di castità e d’onore, nobilitando così la parte migliore
delle inclinazioni umane»67.
L’apologià herderiana del Medioevo germanico ingloba praticamen
te tutti gli aspetti della vita sociale e politica. Il pastore luterano riversa
il suo disprezzo su «ogni classico bel pensatore che consideri la raffina
tezza del proprio secolo come il nec plus ultra dell’umanità» e che colga
ogni occasione per «coprire di rampogne secoli interi di barbarie, di mi
serabile giurisprudenza, di superstizione, di insipienza», contro i con
venti e le chiese, le scuole e le corporazioni. Allo stesso tempo questi cat
tivi pensatori non cessano di «innalzare un inno di gloria alla luce del no
stro secolo, alla sua frivolezza e licenza cioè, al suo calore per le idee e
alla sua freddezza per l’azione, alla sua apparente forza e libertà e alla sua
effettiva debolezza mortale, al suo accasciarsi sotto l’incredulità, il di
spotismo e la fastosa sensualità»68. Bisogna vedere i tempi del Medioevo,
dice Herder, «nella loro natura e nei loro propri fini, nei loro piaceri e
costumi» e, se si affrontano le cose nel modo giusto, si può notare che
allora c’era, al di là delle apparenze violente, «alcunché di solido, di con
nettivo, di nobile»69. Qui si tratta della natura della società, ed è questa
la ragione per cui Herder deplora «i vincoli corporativi allentati», la ra
gione per cui si beffa della libertà del suo tempo o, in altre parole, del
suo individualismo, per opporre subito valori, norme e strutture sociali
medievali: era un mondo in cui «signori e servi, re e sudditi furono sem
pre più ravvicinati», in cui fu ostacolato lo «sviluppo delle lussuose e
malsane città, baratro delle forze vitali dell’umanità», in cui « l’assenza
del commercio e del raffinamento impedirono ogni sfrenatezza, mante
nendo la semplice umanità». Era un mondo in cui «le rozze corporazio
ni e la cavalleria produssero certo l’orgoglio artigiano e nobiliare» ma an
che «la fiducia in se stessi, un senso di solidità nell’àmbito del proprio
ambiente, e di virilità nel proprio nucleo sociale». Qui Herder fa un pas
so avanti ed esalta le virtù delle «Repubbliche guerriere e armate città»
che dovevano germogliare più tardi dal terriccio creato dal Medioevo70.
67. Ibid., pp. 4647 (S. 515-516). Si vedano le stesse formulazioni alle pp. 57-58 (S. 527-528).
68. Ibid., p. 55 (S. 524).
69. Ibid., p. 56 (S. 524).
70. Ibid.,pp. 56-57 (S. 526).
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85. Herder, Ancora una filosofia della storia, p. 62 (S. 530). «E s ward unser Denken»
(«ecco... il nostro pensiero») è, osserva Rouché, una parodia di «es ward liebt»,
cioè «e la luce fu» (Genesi, I, 3).
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«arbitra dell’Europa, dea della pace, filosofa sul trono», e le predice che
darà il suo nome al secolo, come Pietro il Grande88.
Questo fedele suddito poteva immaginare solo una consultazione
del monarca con i rappresentanti «naturali» della società. In effetti la
partecipazione del popolo ai pubblici affari, che Herder sembra recla
mare, è la partecipazione della nazione in quanto corpo. L’essenziale non
è che la massa dei governati partecipi, ma che lo spirito nazionale sia rap
presentato. Non è in discussione una sovranità popolare, né una qual
siasi forma di parlamentarismo, ma che l’anima nazionale e lo spirito po
polare impregnino il governo: è dunque necessario che i governanti ap
partengano alla stessa cultura dei governati. Ciò che importa, alla fine, è
che le élite siano nazionali, che, così come il monarca, parlino e scrivano
nella lingua nazionale, e che l’influenza straniera sia eliminata. La mo
narchia assoluta gli ripugna, in quanto contraria all’ordine politico e so
ciale medievale, distruttrice dei diritti dei signori, delle gilde e delle cor
porazioni così come delle «libertà» locali, che altro non erano che privi
legi locali. Ciò che importa a Herder è che lo Stato sia nazionale e che il
genio delle nazioni pervada lo Stato, ma nulla osta che l’anima naziona
le si incarni in una monarchia assoluta. E appunto ciò che emerge dal
Giornale di viaggio 1769, in cui Herder preferisce «a Federico, il cui Sta
to si basa unicamente su piani personali», Pietro il Grande, che aveva
«per così dire sentito in sé tutto ciò che la nazione russa poteva diventa
re e stava diventando»89. Riconoscere, sentire e preservare l’anima di un
popolo è un dovere sacro. Se la Russia porta in sé tante speranze, è per
ché non è stata toccata dal latino, dalla civiltà monastica e dal cattolice
simo romano: «Solo la storia russa si basa su documenti scritti nella lin
gua del paese», mentre in tutti gli altri paesi d’Europa «la lingua dei mo
naci ha soppiantato tutto ciò che ha potuto»90.
Per Herder «le nazioni si modificano a seconda del luogo, del tem
po e del loro carattere interno; ognuna di esse porta in sé la misura del
la propria perfezione, che non è paragonabile con quella delle altre»91.
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95. F.M. Barnard, Herder’s Social and Political Thought: From Enlightenment to Na
tionalism, p. 57.
96. Citato in Lévy-Bruhl, «Les idées politiques de Herder», p. 932. Rouché fornisce
lo stesso testo nella sua introduzione a Herder, Une autre philosophie de Thistoi
re, p. 9 (ediz. Suphan, Band I, p. 366) corne anche nella sua tesi del 1940, p. 36.
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97. Ibid.
98. Herder, Ancora una filosofia della storia, pp. 85-86 (S. 552-553): «Nella corte di
Luigi XIV, Corneille trovò un modello per i suoi eroi, e Racine per la sua sensibi
lità». Benché in Ancora una filosofia della storia egli attacchi Montesquieu e Vol
taire per le loro generalizzazioni, lui stesso non esita a fare ben di peggio.Con qual
che tratto sommario schizza l’essenza dei popoli, spesso con formule rozze, con
venzionali, perfino ridicole, in particolare quando si tratta della Francia: i francesi
mancano di profondità e di immaginazione, il loro spirito è più teatrale che since
ro e così via. E il paese dell’etichetta, della stilizzazione, dei riti, insomma la Cina
dell’Occidente. Ben diversamente quando si tratta dei tedeschi. Pur mancando di
originalità, il ritratto della Germania tracciato da Herder e le cui grandi linee di
fatto si trovano già in Lutero, in Lessing, in Leibnitz, diventerà un classico quadro
d’insieme nel quale i tedeschi si riconosceranno fino alla metà del Novecento.
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99. Su questo punto si veda la prospettiva di Rouché, che scriveva quando il nazi
smo era già al potere ma prima che compisse le azioni più barbare (La Philo
sophie de l’histoire de Herder, p. 28).
100. Crépon, «Langues et histoire (Herder, critique de Voltaire)», p. 125.
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I fondamenti intellettuali del nazionalismo
costruisce una teoria della lingua come tradizione. Le cose che la lingua
immagazzina, che vi si depositano, sono, secolo dopo secolo, generazio
ne dopo generazione, i pensieri di un popolo, quei pensieri che appun
to fanno della sua lingua una lingua nazionale. La lingua è il legato che
ogni generazione eredita dalla precedente e che deve incrementare, il ca
pitale che ogni nazione deve fare fruttare. Ma essa non è solo serbatoio,
è anche contenuto: il deposito, i pensieri di una letteratura passata che
la letteratura successiva deve rielaborare. La storia della lingua altro non
è che il lavoro della tradizione101.
Ne consegue che per Herder le lingue non sono prodotti dell’inge
gno umano; la lingua di un popolo è l’anima stessa di un popolo, dive
nuta visibile e tangibile. Ogni nazione pensa come parla e parla come
pensa. La sua lingua è un tutto organico che vive e si sviluppa come un
essere vivente. In essa si esprimono il carattere, il temperamento, i modi
di sentire e di pensare, la specificità e l’originalità di un popolo. Non re
sta mai immobile, vive la vita stessa della nazione e la sua evoluzione for
nisce la chiave della storia nazionale. Ogni particolarità di una lingua ha
la sua ragione d’essere102103.
In altre parole, la lingua è lo specchio della cultura, è «il dizionario
dell’anima», è la chiave della nostra comprensione dell’uomo e della sua
posizione nell’universo10*. Ne consegue che un popolo non può essere
privato della propria lingua: quando una lingua cessa di essere uno stru
mento e diventa il tesoro di una nazione, l’espressione della sua anima,
della sua individualità e il veicolo di una tradizione, abbandonarla è tra
dimento. Mancare di rispetto a una lingua comincia ad assomigliare mol
to a una dichiarazione di guerra culturale, apportatrice di un pericolo di
annientamento.
Si giunge qui a un elemento essenziale della critica di Herder all’Il
luminismo. Per Voltaire il genio di una lingua non è il genio di un po
polo, non esprime il carattere di un popolo o qualche qualità costitutiva
della sua natura. Il genio di una lingua è una certa «capacità di dire nel
modo più breve e più armonioso ciò che le altre esprimono in modo
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106. Herder, Idées pour la philosophie de l’histoire de l'humanité, livre XIX, ch. Il, p. 411.
107. Citato in Lévy-Bruhl, «Les idées politiques de Herder», p. 933.
108. Citato in ibid., p. 934. Il gesuita francese Dominique Bouhours aveva nel 1671
innalzato il francese alla dignità di lingua naturale dell’uomo. Solo i francesi
parlavano: gli altri cantavano, fischiavano, sospiravano o, come i tedeschi, ran
tolavano. In Bouhours si trova anche la frase di Carlo V, attribuita nella stessa
forma anche a Federico II, re di Prussia, cioè che egli parlava in tedesco solo
ai suoi cavalli, in italiano e francese agli esseri umani: si veda Martin Bollacher,
« “L’œil de taupe de ce siècle très lumineux”. Diagnostic du présent par Her
der dans Une autre philosophie de l’histoire», in Pierre Pénisson (a cura di),
Herder et la philosophie de l’histoire, p. 61, che cita Dominique Bouhours, Les
Entretiens d’Ariste et Eugène. L’edizione più recente di questa opera, presso
Champion, curata da Bernard Beugnot e Gilles Declercq, risale al 2003.
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I fondamenti intellettuali del nazionalismo
risveglio non può che manifestarsi con l’uso della lingua tedesca, la lingua
materna, troppo spesso considerata allora come un idioma barbaro di una
plebe incolta. «Noi siamo quelli che siamo. E da tanto tempo che siamo
spinti lontano dalla nostra casa, strappati a noi stessi, al servizio di altre na
zioni, asserviti a loro; non è giusto forse togliere il nostro presente da ma
ni selvagge e crudeli e gridare: “Conosci te stesso, poiché altri ti conosco
no e ti sfruttano”? Riconquistati per non essere conquistato.»109
Non è tutto: al contrario delle lingue romanze, figlie del latino, che
quindi sono solo nipoti del greco, la lingua tedesca è «sorella del gre
co». Le lingue romanze, lingue derivate, di formazione recente, non
possono rivaleggiare in nobiltà con una lingua antica quanto il popolo
che la parla e rimasta pura. Questa idea che, secondo quanto Lévy-
Bruhl scriveva nel 1887, Herder ha solo indicata, sarà sviluppata da
Fichte nei Discorsi alla nazione tedesca, in cui il rettore dell’università di
Berlino, basandosi sulla comparazione delle lingue, dimostra che, di
tutti i popoli d’Europa, quello tedesco è il più antico, il più immune da
mescolanze, il più nobile110.
In realtà la gerarchia delle lingue, delle culture e dei popoli è intrin
seca in Herder ed è radicata nel suo antiuniversalismo e antirazionali
smo, nella sua visione della nazione come unità etnica. Il multiculturali
smo herderiano, il suo ideale del tutto teorico di Humanität non basta
no per assicurare una vera eguaglianza tra gli uomini. Il suo patriottismo
letterario, il suo attacco contro le influenze straniere, la sua difesa delle
culture nazionali si traducono immediatamente, e fin dall’inizio della sua
carriera, in un nazionalismo politico. La filologia, la letteratura e in ge
nerale la cultura al servizio della nazione non sono un’invenzione di
Fichte ma dello stesso Herder. Siccome non è un patriota prussiano ma
un patriota tedesco, Herder può suscitare equivoci: il patriottismo cul
turale era ai suoi tempi il solo patriottismo che poteva assicurare l’unità
morale, che a sua volta era allora la sola forma di unità possibile. La sua
Germania è definita dai soli criteri concreti dell’epoca: la storia, la cul
tura, la lingua, la tradizione luterana, il Medioevo germanico ovvero, in
termini più generali, il suo «carattere», il suo «spirito», il suo «genio».
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era morto di fame, fino ai «negri tedeschi» venduti sulle rive del Missis
sippi o dell’Ohio, il vanto nazionale di questo popolo così maltrattato e
così paziente è di dimenticare se stesso e di dedicarsi all’opera santa del
progresso deH’umanità. Il sublime destino dei tedeschi è di vivere per gli
altri, non per se stessi, di essere una nazione educatrice del mondo112.
Da qui derivano conclusioni che Herder e i suoi contemporanei ela
borano ognuno a suo modo ma che vanno tutte nella stessa direzione.
Ogni popolo, per il suo carattere e per la sua essenza, ha una particola
re missione da compiere nella storia. Ne consegue che i popoli che han
no già svolto la loro missione devono lasciare il posto a quelli di cui è
giunto il turno. In Herder questo sviluppo è inserito in un progetto di
vino: «La provvidenza stessa [...] ha voluto raggiungere i suoi fini nel
l’avvicendamento, nella continuità, risvegliando forze nuove, lasciando
ne morire altre»11314.Ora, secondo Herder e i suoi contemporanei, la Ger
mania ha ancora una missione importante nel futuro. Nella visione di
Fichte tocca alla Germania trovare la vera forma dello Stato, che conci
lierà cristianesimo e principi della società moderna. Ma è ancora Herder
che lancia la formula del «popolo giovane» che raccoglie l’eredità di po
poli esausti: nella centunesima Lettera per l’avanzamento dell’umanità
egli dichiara: «Sì, noi siamo arrivati tardi! Noi siamo quindi molto più
giovani. Noi abbiamo ancora molto da fare, mentre altre nazioni entra
no nella stasi dopo avere prodotto ciò di cui erano capaci»11“1. Il genio
francese è esaurito, è condannato a ripetersi, la missione della Francia,
entrata nella seconda metà del XVIII in un periodo di decadenza, è con
clusa, comincia quella della Germania.
Da questo momento, da Herder a Sieburg, autore negli anni Trenta
di Chi sono questi francesi?, la Germania non cesserà di brandire la pro
pria giovinezza: questo coinvolgente mito antifrancese è un mito her-
deriano. Herder è andato anche oltre: ha riconosciuto al suo popolo
non solo una superiorità dovuta alla sua giovinezza, ma una superiorità
112. Ibid., p. 942. I «negri tedeschi» sono evidentemente gli immigrati giunti dalla
Germania.
113. Herder, Ancora una filosofia della storia, pp. 35-36 (S. 507).
114. Citato in Lévy-Bruhl, «Les idées politiques de Herder», p. 943. Rouché, in La
Philosophie de l ’historié de Herder, p. 567, nota 2, dà una traduzione legger
mente diversa (S. XVIII, p. 112).
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115. Adam Müller ripeterà di nuovo, nel 1806, che la Germania è una nazione par
ticolarmente umana, e Fichte, nei suoi Discorsi alla nazione tedesca, dirà an
ch’egli che l’universalità è il carattere del tedesco. Questa idea non è giunta a
Fichte da Herder, il cui poema fu pubblicato solo nel 1812, tuttavia Herder gli
ha trasmesso un’altra idea importante: quella per cui il tedesco sarebbe una lin
gua originale, non derivata, e perciò superiore alle lingue romanze. Rouché, La
Philosophie de l’histoire de Herder, pp. 567-568. Sulla superiorità del tedesco,
Rouché cita la prima raccolta di Frammenti (S. I, p. 189 e S. II, p. 30) e la cen
tunesima delle Lettere per l’avanzamento dell’umanità del 1796, in S. XVIII,
pp. 112 e 208.
116. Herder, Ancora una filosofia della storia, p. 38 (S. 509).
117. Ihid., p. 29 (S. 500), pp. 40-41 (S. 512), pp. 60-61 (S. 528).
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tra gli uomini. L’idea proposta da Rouché, per la quale l’umanità si ac
corda con le nazionalità proprio perché essa esclude il nazionalismo,119
corrisponde senza dubbio alle intenzioni di Herder. Tuttavia, fin dall’i
nizio, il problema è sapere se il nazionalismo culturale, il culto dei geni
nazionali, del particolarismo, di ciò che separa gli uomini nella vita quo
tidiana porti più facilmente al conflitto che alla comunanza tra gli uomi
ni. Le differenze sono concrete, vive; la fraternità tra gli uomini non può
cancellare le frontiere culturali e linguistiche; non ne è capace nemmeno
il cristianesimo. Il particolarismo, già durante la vita di Herder, si è mo
strato ben più potente del denominatore comune di «umanità». Certo, il
nazionalismo, nel senso che questa parola ha assunto nel Novecento,
non risponde a ciò cui Herder aspirava, e lui non poteva prevedere i suoi
sviluppi futuri, però tutti questi sviluppi sono già delineati nella sua lun
ga lotta per la salvaguardia delle specificità nazionali, linguistiche, cultu
rali, storiche, come anche nella sua guerra contro l’influenza francese. Il
male non sta solo nel fatto che questa influenza è straniera ma anche che
essa ha un carattere cosmopolita, che in fin dei conti è la stessa cosa. L’i
deale di «umanità», radicato nella religione e non nel riconoscimento
dell’eguaglianza di esseri razionali e di collettività di individui tutti par
tecipi di diritti naturali, si sfalda rapidamente quando le realtà nazionali
restano e si trasformano in bastioni del nazionalismo.
A questo punto è necessario spiegare l’atteggiamento del tutto di
verso di Burke e di Herder rispetto alla Rivoluzione francese. Come mol
ti tedeschi, Herder ha accolto la caduta de\YAncien Regime con entusia
smo. Nelle sue opere degli anni intorno al 1790, come nella sua corri
spondenza, non parla quasi mai della Rivoluzione e non cita mai le Ri
flessioni di Burke, pur possedendone la traduzione fatta da Gentz. Si sa
che continuò a giudicare con favore la Rivoluzione fino al 1793 e definì
la guerra solo difensiva della Francia come il «primo esempio di guerra
santa e giusta»120.
Barash ritiene che sia proprio in questi anni in cui Burke lancia il suo
formidabile attacco contro la Rivoluzione francese che il grande princi-
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121. lbid., pp. 213-217. Barash cita le Lettere per l’avanzamento dell'umanità datate
all’epoca di Weimar.
122. lbid., p. 217 (citazione dalle Lettere).
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I fondamenti intellettuali del nazionalismo
dove, al contrario, si è visto che Herder non attacca i non europei. Poi,
se non esiste un metro di paragone, ciò non significa forse ricadere nel
la forma primaria di relativismo? In questo caso di che cosa si tratta: di
relativismo proveniente dalla sua lunga battaglia contro l’universalismo
o da uno spirito di tolleranza? Si tratta di una visione dell’unità del ge
nere umano che travalicherebbe, alla fine della sua vita, il limitato oriz
zonte delle particolarità nazionali di Ancora una filosofia della storiai Ba
rasti e Berlin pensano, con altri, che sia la convinzione umanista e reli
giosa di Herder a prendere il sopravvento, ispirando il suo pluralismo123124.
Rouché è convinto che Herder sia insieme Stürmer e Aufklärerm. Ma
non è forse legittimo vedere in lui allo stesso tempo e per gli stessi moti
vi il pensatore che, più di chiunque altro, ha ispirato, con la sua feroce
guerra aH’Illuminismo, il relativismo moderno?
Herder nel 1789 ha capito la grandezza di quella rivoluzione dei di
ritti dell’uomo e, cosa ancora più importante, ha colto nella caduta del-
YAncien Régime la materializzazione della filosofia illuminista, che cam
biava il mondo, e ha capito che il mondo diventava così migliore? Era
stato consapevole che, tradotto in termini politici concreti, il particolari
smo esacerbava le relazioni tra gli uomini? Oppure, cosa probabilmente
più vicina alla realtà, vedeva negli avvenimenti del 1789 una rivolta lo
cale, popolare e soprattutto nazionale contro un regime dispotico per il
quale non aveva alcuna simpatia? E probabile che l’immagine di una na
zione in armi, le vittorie di Valmy e di Jemappes, la conquista della li
bertà da parte di un popolo in rivolta abbiano acceso la sua immagina
zione. Al contrario di gran parte dei commentatori moderni, Herder
sembra aver capito molto presto che, se la Rivoluzione era possibile, è
proprio perché la nazione aveva già preso coscienza della propria esi
stenza e della propria maturità e aveva fiducia in se stessa. Nella Francia
rivoluzionaria lo Stato coincideva col popolo, cosa che per Herder era
l’ideale che cercava di realizzare per il proprio paese. E del tutto logico
che egli abbia capito che non era la Rivoluzione a forgiare il popolo ma
il popolo a fare la Rivoluzione. La nazione era una realtà e la caduta del-
YAncien Régime significava che un lungo processo era giunto a termine.
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129. Rouché, Introduction a J.G. Herder, journal de mon voyage en l’an 1769, pp.
41-42 (S. IV, p. 472). Questa frase non figura nel Giornale di viaggio 1769 ben
sì negli estratti e note di lettura redatti a Nantes e a Parigi.
130. Herder, Idées pour la philosophie de l’histoire de l’humanité, livre XVI, ch. Ili, p. 297.
131. Ibid., livre XVIII, ch. III, p. 355.
132. Ibid., livre XVIII, ch. V, p. 369 et livre XVI, ch. III, p. 297.
133. Ibid., livre XVII, ch. I, p. 317.
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140 . Herder, Idées pour la philosophie de l’histoire de l’humanité, livre IV, ch. V, p.
107; si veda anche l’intero libro IV.
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141. Kant, «Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico», in Scrit
ti di filosofia politica, p. 20 (corsivo nel testo).
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C A P IT O L O 7
1. Non intendo qui tornare sulla dimostrazione fatta nel mio Maurice Barrès et le na
tionalisme français, nuova edizione, Fayard, Paris 2000. Non è tuttavia possibile,
in un’opera che tratta di problemi come questi, non dedicare qualche pagina a
questa figura eminente del pensiero antilluminista.
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che si trova di irrazionale nel mondo»19. A costo di tornare sui propri pas
si, egli rifiuta con Diderot anche Rousseau, che un tempo aveva definito
un «genio» e un «altro me stesso»: quando l’atteggiamento storicista e
comunitario comincia a prevalere, Barrès trova Le Contrai social
«profondamente imbecille» e non si spiega «l’influenza di un simile in
dividuo»20. Il grande errore di Rousseau è di aver voluto «razionalizzare
la vita», che vuol dire «sterilizzarla», poiché «l’idea razionalista è contra
ria alla vita e alle sue forme spontanee»21. Rousseau è colpevole di aver
concepito un sistema falso perché fondato sulla concezione di un «uomo
astratto»; e l’autore de L'Appel au soldat pone la domanda ormai classica
del pensiero storicista, comunitario e neoconservatore in rivolta contro i
Lumi franco-kantiani, quella che nella seconda metà del Novecento fa
ancora la gioia di Isaiah Berlin: «Quale uomo? Dove abita? In che epo
ca vive?»22 In tale contesto, quello dell’attacco ai diritti dell’uomo, Barrès
si appella all’autorità di Taine e di Burke. A un razionalismo che «vuole
ignorare le eterne alture», egli oppone l’esperienza; alle risorse della ra
gione individuale oppone quel «tesoro lentamente formato» rappresen
tato dalla ragione collettiva, a sua volta plasmata dalle forze dell’incon
scio nazionale23.
Il primato dell’inconscio e dell’istinto è proclamato a voce alta da
Barrès fin dall’inizio della sua carriera. Egli afferma che «è l’istinto, ben
superiore all’analisi, che crea l’avvenire»,24 e che i problemi della vita
«appartengono all’ordine sentimentale, ereditario, riguardano l’antica
inconsapevolezza»25. L’istinto, il sentimento intuitivo e irrazionale, l’e
mozione e l’entusiasmo sono le forze profonde che determinano il com
portamento umano. Il razionalismo è cosa da sradicati, da tutti quelli che
hanno perso il sentimento di appartenenza alla loro comunità naturale,
etnica e religiosa; ottunde la sensibilità, uccide l’istinto. E per questo che
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a Barrès ripugna ogni norma universale: rifiuta l’idea di una verità i cui
principi valgano per tutti. Nella sua mente, « l’insieme dei rapporti giu
sti e veri tra oggetti dati e un uomo determinato, il francese, sono la ve
rità e la giustizia francese. E il nazionalismo netto altro non è che rico
noscere l’esistenza di questo punto»26. Se i valori morali appartengono
alla specificità di ogni cultura, per la rigenerazione della Francia, per la
restaurazione della nazione e dello Stato, bisogna «radicare l’individuo
nella Terra e nei Morti»27.
Si è vista nei capitoli precedenti la profonda influenza esercitata da
Herder e Burke su Renan e Taine. Tuttavia, per cogliere tutta la com
plessità del cammino generale delle idee, come dei rapporti spesso sor
prendenti e sempre tortuosi tra il nazionalismo tedesco e quello france
se, bisogna tornare a Michelet. Barrès ammirava Michelet, poiché aveva
scoperto nel grande storico repubblicano, anch’egli entusiasta della
scuola storica tedesca, un aspetto passato inosservato: la visione della
cultura, della storia e della nazione dell’autore del Popolo è più vicina a
quella di Herder che a quella che si trova nelYEncyclopédie e nei pensa
tori dei Lumi francesi. Infatti è proprio Michelet, questo straordinario
diffusore di idee, che introduce Herder in Francia ed è sempre lui che
scopre Giambattista Vico, il «fondatore della filosofia della storia, il
Dante dell’era prosaica dellTtalia»28. Nel 1827 il giovane Michelet fa
uscire un primo volume contenente un suo adattamento della Scienza
nuova, e nel 1835 pubblica in un secondo volume un saggio introdutti
vo dell’opera di Vico con la sua traduzione dell’opera maggiore del filo
sofo italiano29. L’infatuazione di Michelet per Vico, il quale pensa che la
ragione, giunta tardi, non faccia che disseccare la nostra anima, è molto
significativa: sulle sue orme, Barrès non dirà niente di diverso.
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Crisi di civiltà
Nel 1825 Michelet incontra Edgar Quinet che lavora alla traduzione
delle Idee per la filosofia della storia dell’umanità. Inizia così un mezzo
secolo di amicizia e insieme la scoperta da parte di Michelet dell’autore
tedesco ammirato da Quinet. Un mese dopo il loro primo incontro, Mi
chelet inizia a studiare il tedesco. La traduzione di Quinet appare nel
1827. Nel 1905 Gustave Lanson ha giustamente visto che Michelet, co
me Quinet poco tempo prima, va a cercare in Herder il mezzo per co
struire una filosofia della storia. Del resto, a quanto pare, è solo dopo
avere conosciuto Herder che Michelet avrebbe davvero assimilato Vi
co50. Se per filosofia della storia si intende uno sforzo della ragione per
rendere la storia razionale,51 è rilevante che Michelet si sia rivolto a Her
der e non a Voltaire o Rousseau e che non abbia utilizzato di più Guizot,
che pure ammirava per avere colto per primo «la storia delle idee sotto
la storia dei fatti»52.
Aver trascurato Montesquieu appare tuttavia più significativo. D ’al
tra parte, nel X IX libro ¿<AYEsprit des lois si trova tutto ciò di cui Mi
chelet avrebbe potuto avere bisogno. Herder non è stato il solo ad ave
re avuto «il senso del nazionale», non è stato il solo a riconoscere l’a
spetto nazionale della letteratura, del linguaggio, della legislazione e, lo
si è visto nei capitoli precedenti, non aveva avuto nel Settecento il mo
nopolio della riflessione sullo specifico e sul particolare. Montesquieu
non parla forse dello «spirito generale di una nazione» o dei «caratteri
delle nazioni»,55 non manifesta fin dal 1720, con le Lettres persanes, la
consapevolezza della relatività della nostra civiltà? Non esprime, ne L’E
sprit des lois come nelle sue Considérations sur les causes de la grandeur
des Romains et de leur décadence, il senso della relatività storica? Come
mai allora Michelet si volge a Herder e alla Germania?
La spiegazione sta senza dubbio nel fatto che lo storico ha sentito
una profonda affinità col risveglio nazionale tedesco. In fin dei conti, egli3012
471
Crisi di civiltà
non ama il razionalismo dei Lumi e ritiene, come Herder, che il ricorso
troppo frequente alla ragione smorzi le forze vitali. Ha trovato nella her-
deriana filosofia della storia l’idea della missione nazionale al servizio
deH’umanità, cosa che gli ha permesso di conciliare il suo umanesimo col
suo senso della superiorità nazionale. Ha ragione Lanson a osservare che
Michelet si è formato abbastanza al di fuori della scuola storica france
se’'1. Non è senza interesse osservare che prima di lui de Maistre aveva in
trodotto nella cultura francofona del X IX secolo l’idea secondo la quale
«le nazioni come gli individui hanno un loro carattere e anche una loro
missione; e come, nella società degli individui, ogni uomo riceve dalla na
tura i tratti della sua fisionomia morale [...], così nella società delle na
zioni ognuna di esse presenta all’osservatore un carattere indelebile, ri
sultato di tutti i caratteri individuali»55. E per arginare l’influenza di Vol
taire che de Maistre afferma: «ogni lingua ha il proprio genio, genio che
è unico, perciò bisogna escludere ogni idea di composizione, di forma
zione arbitraria e di convenzione antecedente»56. È ancora contro Vol
taire che de Maistre vede «nell’introduzione fuor di misura di parole
straniere [...] uno dei segni infallibili della degradazione di un popo
lo»57. La guerra ai Lumi comporta sempre una dimensione nazionale e
provinciale, un campanilismo acceso.
Nei fatti, il ricorso di Michelet a Herder invece che a Montesquieu
avrà ormai un peso notevole nell’evoluzione del pensiero nazionalista in
Francia. È proprio l’eredità herderiana e vichiana che Michelet trasmet
te prima a Renan, poi a Barrès. Nei fatti, Il popolo si può leggere come
una classica professione di fede herderiana. È seguendo il filo rosso che,
partendo da Herder e passando per Michelet e Renan, arriva ai teorici
del nazionalismo contemporaneo che si può capire non solo l’espansio
ne di fine secolo ma anche un fenomeno a prima vista curioso: verso il
1900 il nazionalismo tedesco e quello francese convergono fino a mo-34567
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Crisi di civiltà
strare caratteristiche assai simili. Curioso perché, se a est del Reno, dal
la Germania all’Ucraina, alla Russia e ai Balcani, questa concezione lin
guistica e culturale e non politica della collettività, così come l’idea dei
popoli giovani ai quali appartiene l’avvenire, costituiscono una vera ri
velazione, quindi una forza mobilitante primaria, simili idee in Francia
non rispondono ad alcun bisogno concreto. Se era naturale che in quel
le regioni Herder diventasse un profeta, e il particolarismo nazionale,
storico e culturale, più tardi biologico, diventasse la punta di diamante
dell’azione politica, non lo era per niente nella terra d’elezione della mo
narchia accentratrice e della Repubblica giacobina. Negli imperi multi
nazionali, dove la collettività è definita dalla lingua e dalla cultura e non
dallo Stato o dalla dinastia, i concetti di «genio nazionale» e di «caratte
re nazionale» erano motori straordinariamente potenti di rivolta, quan
do non di liberazione. I criteri nazionali possono presentare anche un
certo carattere democratico, antidinastico, caro a Herder e già visibile
nel Voltaire delTErr«/ sur les mceurs, che contrappone alla storia pro
priamente politica delle dinastie la storia culturale delle nazioni. Certo,
nel caso di Voltaire la questione era il ruolo del Terzo Stato di fronte al
la monarchia, mentre in Herder ciò significa che il popolo andava al di
là delle frontiere dello Stato e non coincideva per niente con esso.
Ma in Francia, nello Stato-nazione per eccellenza, nel paese in cui la
nazione è il prodotto di un lungo processo politico, in cui le frontiere
culturali e linguistiche in pratica coincidono con le frontiere politiche, la
filosofia della storia di Herder non risponde ad alcun bisogno concreto,
salvo a quello che permette, esaltando la patria e identificandola col ge
nere umano, di innalzarla al di sopra delle altre nazioni. E tuttavia i due
nazionalismi, quello francese e quello tedesco, cominciano dalla prima
metà del X IX secolo a presentare caratteristiche analoghe, spesso iden
tiche: il movimento di rivolta contro lTlluminismo, movimento di chiu
sura culturale che la Germania aveva innescato e grazie al quale iniziava
il suo lungo processo di unità nazionale, investiva progressivamente la
Francia. Tale processo culminerà alla svolta del secolo.
Il popolo rappresenta questo versante della storiografia e del nazio
nalismo francesi segnato dalla vittoria dei valori particolari su quelli uni
versali. Certo, l’altro versante, quello che nella lntroduction à l’Histoire
universelle prosegue la tradizione dei Lumi, è tutt’altro che scomparso.
«La Francia non è una razza come la Germania: è una nazione. Sua ori-
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gine è l’incrocio delle razze, l’azione la sua vita [...]. L’individuo deriva
la sua gloria dalla sua volontaria partecipazione all’insieme.»38 È appun
to «questa intima fusione delle razze [che] costituisce l’identità della no
stra nazione, la sua personalità»39. Ecco perché solo la Francia «vuole la
libertà nell’eguaglianza, cioè a dire proprio lo spirito sociale. La libertà
della Francia è giusta e santa. Merita di dare inizio a quella del mondo,
e di riunire per la prima volta tutti i popoli nel segno di un’autentica
unità di intendimento e di volontà»40. E più avanti: «Molto sarà perdo
nato a questo popolo in forza del suo generoso istinto sociale. S’interes
sa alla libertà del mondo; si preoccupa per le sciagure più lontane. L’in
tera umanità vibra in lui. In questa viva simpatia c’è tutta la sua gloria e
la sua bellezza»41.
Michelet è convinto che in Herder l’idea della missione di cui è inve
stita la nazione sia tutta di pace e di civiltà. Il sogno della grandezza del
la patria, radicato in un profondo sentimento di superiorità culturale, l’i
dea del popolo eletto dalla provvidenza per guidare il genere umano, si
esprimono nell’idea di una essenziale identità tra l’interesse nazionale e il
bene dell’umanità. Ecco spiegato l’entusiasmo di Michelet per Herder.
Come la Germania presso l’autore delle Idee, anche la patria di Michelet,
poiché essa ha avuto il senso del sacrificio, è povera e straziata, «seduta a
terra come Giobbe. [...] Se si ammassasse tutto ciò che ogni nazione ha
speso, in sangue, in oro, in sforzi di ogni tipo per le cose disinteressate de
stinate al mondo intero, la piramide della Francia salirebbe fino al cielo,
la vostra, nazioni che vi credete così importanti, la vostra, il cumulo dei
vostri sacrifici arriverebbe alle ginocchia di un fanciullo»42. Grazie alla
Francia, guida e Messia dell’umanità, verrà creata la grande Città univer
sale dalla quale nessuno sarà escluso43. Questa idea di una missione civi-
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LiAppel au soldat? Chi può non riconoscere nella critica a questa «nuova
cultura moderna [che] è in realtà una meccanica», nella negazione che
«lo spirito della filosofia moderna debba essere una meccanica»,57 il mo
dello di successivi attacchi contro la modernità? Quando l’idea di Taine
per la quale l’uomo è vittima di troppa cultura58 diventerà luogo comune,
non ne deriverà forse il culto della violenza creatrice di morale e di bel
lezza? Quando si sarà sviluppata l’idea che il progresso comporta qual
cosa di perverso, non ne verrà forse una sintesi che celebrerà la gloria del
la tecnologia moderna ma che odierà la modernità ideologica?
Negli anni che precedono la Prima guerra mondiale l’effetto dell’ac
cumulo di un secolo di storicismo si fa sentire appieno. E proprio su
questa base che viene fondata l’Action française e che Maurras prosegue
l’opera del nazionalismo integrale di Barrés fino a Vichy. Meno di cin
quantanni dopo le battaglie di fine secolo, quando il nazionalismo della
terra e dei morti diventa il motore intellettuale della Rivoluzione nazio
nale di Vichy, il particolarismo nazionale e razziale dà prova della sua po
tenza a lungo accumulata: l’idea secondo la quale non possono condivi
dere la stessa eredità culturale se non uomini uniti da legami di sangue
mostra allora la sua potenza distruttrice.
Maurras non ha prodotto un’opera politica sistematica e non è un
grande scrittore, ma è un incomparabile caposcuola. Nel 1937 riunì col
titolo Mes idées politiques vecchi articoli di giornale che fece precedere da
una prefazione, «La politique naturelle», scritta per l’occasione. Per la ve
rità, questa collezione di articoli non va oltre l’Enquête sur la monarchie.
Sembra chiaro quindi che per Maurras tutto era stato detto già al tempo
dell’affare Dreyfus. In questo senso egli chiarisce bene la grande proble
matica intellettuale della Francia tra le due guerre: gli anni Venti e Tren
ta non potevano ambire alla qualità della produzione intellettuale di ini
zio secolo. Tuttavia è proprio in quegli anni, conclusi con la disfatta del
1940, che quelle idee trovano la loro espressione più compiuta.
57. Herder, A ncora una filo so fia della storia, pp. 66 e 67.
58. H. Taine, A ppun ti su Parigi. Vita e opinioni d i Federico Tommaso Graindorge, a
cura di Giovanni Battista Angioletti, Domus, Milano 1945, pp. 225 e 249-250. È
bene qui citare un’interessante tesi di laurea inedita, spesso saccheggiata e rara
mente citata, di A. Schuin, L e Pessim ism e historique au X IX ' siècle: H ippolyte
Taine, éd. de l’auteur, Genève 1982.
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59. Maurras, L e m ie idee politiche, trad. di Franco Pintore, Volpe, Roma 1969, pp.
5-6. In un’opera concisa e notevole, che tratteggia molto bene la figura di Maur
ras e fornisce utili riferimenti bibliografici, Bruno Goyet insiste sulla posizione
del tutto singolare di Maurras nella storiografia francese: una onnipresenza nel
l’ombra, un pensiero che si espande largamente su tutte le componenti della de
stra. Uno sforzo particolare vi è fatto per minimizzare il ruolo di Maurras nel
l’antisemitismo francese. Si veda il suo Charles M aurras, Presses de Sciences-Po,
Paris 2000, pp. 128-132.
60. Maurras, R om antism e et Révolution, in Œ uvres capitales , Flammarion, Paris
1954, vol. II, pp. 33-34; Trois idées politiques, in Œ uvres capitales, Flammarion,
Paris 1954, vol. II, E ssais politiques, p. 87.
61. Maurras, R om antism e et Révolution, pp. 34-36.
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in questi testi che non sia già stato detto da Burke, che pure, come Maur-
ras, sapeva invocare l’autorità dell’autore Esprit des Lois quando gli
conveniva e in modo sempre molto selettivo, così come tutto era già sta
to detto da de Maistre e in pratica anche da Herder. Contrariamente a
de Maistre, suo maestro, e a Rivarol, Maurras non ha molto rispetto per
Burke, un britannico e quindi poco amato, nel quale vede solo un «pra
tico» della politica, tuttavia la loro comune rivolta contro i Lumi fa sì che
essi usino gli stessi argomenti84. Maurras vi aggiunge però le acquisizioni
della biologia, la quale, permettendogli di identificare nel modo giusto
l’essenza dell’ereditarietà, della selezione e della continuità politiche, ve
niva in soccorso alla scienza politica. Nonostante le distinzioni che esi
stono tra l’eredità politica e quella biologica, esse hanno in comune qual
cosa di essenziale: l’uomo è «un essere vivente soggetto alle leggi della
vita»85. Pertanto è assurdo parlare di un contratto che sarebbe all’origi
ne della società, e l’individuo non è il fine dell’azione politica e sociale.
Non è la felicità dell’individuo l’obiettivo verso il quale una società può
tendere; l’unico compito della politica è la «prosperità della vita delle co
munità»86. E per questo che i principi dell’89, e prima di tutto l’egua
glianza, sono tanto assurdi quanto criminali.
Una società può tendere all’eguaglianza, ma la biologia ci insegna
che « l’uguaglianza c’è solo al cimitero»87. Ognuno deve avere il maggior
numero di diritti possibile, «ma non dipende da nessuno far sì che que
sti diritti siano uguali quando corrispondono a situazioni naturalmente
diseguali»88. Come tutti i darwinisti sociali, Maurras concepisce il corpo
sociale in termini biologici. In pratica, assimila la biologia alla storia e la
società è per lui un prodotto della natura. L’eguaglianza può esistere al
l’inizio, in fondo alla scala sociale, ma più l’essere vive e si perfeziona,
«più la divisione del lavoro comporta la disuguaglianza delle funzioni, la
quale comporta una differenziazione degli organi e la loro disuguaglian
za. [...] Il progresso è aristocratico»89.
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Burke dice la stessa cosa ma in altri termini: anche per lui una società
civilizzata è per sua natura non egualitaria. Cento anni dopo, Maurras
può sviluppare questa idea facendo appello non solo all’esperienza ma al
la scienza, nella persona di Comte. Per quest’ultimo «la politica, figlia
della biologia, implica [...] leggi precise, anteriori e superiori alle volontà
degli uomini: è in base a queste leggi naturali che le legislazioni devono
essere giudicate». Qui ci si presenta un testo fondamentale che potrebbe
uscire direttamente dalla penna di Burke, di Herder o di Taine. Il fatto
che si presenti in un contesto in cui Maurras si rifà a Comte - che Taine
dice di non avere letto, cosa che il fondatore dell’Action française gli rim
provera duramente - è ancora più significativo. «Una legge politica giu
sta, afferma Maurras, non è una legge regolarmente votata, ma una legge
che concorda col suo oggetto e che conviene alle circostanze. Non la si
crea, la si enuclea e la si scopre nel segreto della natura dei luoghi, dei
tempi e degli Stati.»90 Questa vecchia formula, che Herder e Burke già
utilizzavano e che Taine doveva riprendere, ritorna innumerevoli volte in
tutti i nemici dei Lumi e costituisce per loro una sorta di manifesto.
In questo contesto conviene osservare il posto della ragione nel pen
siero maurrasiano. E soprattutto non bisogna cadere in trappola: anche
se si rifiuta di trascurare le risorse della ragione, Maurras non è un razio
nalista. Avrebbe potuto fare sua l’idea di Schmitt secondo la quale «è in
primo luogo soltanto nella “durata” che il tempo diviene quell’abisso ir
razionale da cui scaturiscono gli accadimenti storici»91. Per prima cosa
egli sostiene che «l’istintività e l’inconscio sono alla base della natura
umana», che ragione e sentimento si sorreggono9293.Ma l’essenziale sta nel
la dipendenza totale dell’individuo dalla sua comunità culturale e nazio
nale. Come in Burke e in Herder, questa dipendenza non vale solo per i
vivi ma anche per i morti. «La nostra patria non è nata da un contratto
tra i suoi figli, non è frutto d’un patto convenuto tra le loro volontà», la
Francia non esiste grazie ai suoi quaranta milioni di uomini vivi ma gra
zie a «un miliardo di uomini morti»95. Una «nazione è composta di per-
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sone che sono nate qui e non là. Essa implica nascita, eredità, storia, pas
sato»9495.Quindi «la patria è una società naturale o, ciò che significa esatta
mente la stessa cosa, storica», è « “una cosa eterna”», non è «un insieme
di individui che votano, ma un corpo di famiglie che vivono»’'’ . La nazione
per Maurras è «la più ampia delle cerehie comunitarie che siano», la
realtà «più forte» e, se pure non intende fare della nazione un Dio, «un
assoluto metafisico», ne fa perlomeno «una dea», la «dea Francia»96. La
Francia «vale più dei nostri francesi»: poggia su «generazioni di signori,
d’eroi e di artisti, di semidei e di santi» e non sul suffragio universale. Il
nazionalismo applicato agli antenati, «al loro sangue e alle loro opere», è
la salvaguardia della nazione contro lo straniero, e lo straniero può esse
re anche, e forse soprattutto, «lo Straniero dell’interno»97.
Come Herder e come Spengler, Maurras sa che il pericolo di morte
incombe su tutte le nazioni e tutte le civiltà. Il solo bastione che gli si pos
sa opporre è la tradizione che riunisce «le forze della terra e del sangue»98.
Maurras non sapeva il tedesco e aborriva la Germania, ma l’espressione
«Blut und Boden» gli è venuta spontanea. Con lui, come con Barrès e tut
ti i darwinisti sociali, il nazionalismo francese degli inizi del X X secolo si
trova nella stessa posizione del nazionalismo tedesco. La tradizione, fatto
ovvio dopo Burke, si contrappone alla ragione: è l’«antitesi tra realtà e
idea o tra arte e natura, e può essere assimilata all’opposizione tra aceto e
olio»99. La tradizione è la base sulla quale poggia la civiltà.
Tuttavia Maurras stabilisce una netta differenza tra le civiltà e la Ci
viltà. Di civiltà ne esistono ovunque nel mondo, dalla Cina al Perù, dal
fondo dell’Africa all’Oceania. Ma di Civiltà con la maiuscola ce n’è una
sola, quella nata in Grecia e diffusa ovunque da Roma, prima la Roma
delle legioni, poi la Roma cristiana. «L’arte greca inventò la bellezza.
[...] La filosofia greca arrivò alla virtù.»100 La Francia, che ha saputo re
sistere a quel regresso della Civiltà che è stata la Riforma, è divenuta
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117. Georges Sorel, Le Procès de Socrate. Examen critique des thèses socratiques, Al
can, Paris 1889, p. 235. Si veda anche aile pp. 90-99, 101, 154-161, 178-179,
183-184, 207-209, 211-216, 236-239.
118. Ibid., p. 277. Si veda anche aile pp. 218 e 346.
119. Ibid., pp. 108-109, 172, 239-240, 346.
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120. Georges Sorel, Riflessioni sulla violenza, trad, di Antonio Sarno, pref. di Bene
detto Croce, Laterza, Bari 1970, pp. 59-66.
121. Georges Sorel, Le illusioni del progresso, trad, di Francesca di Montereale-
Mantica, Bollati Boringhieri, Torino 1993, pp. 10 e 13.
122. Ibid., pp. 14-15.
123. Ibid., pp. 17-19 e 21.
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mondo sociale, in quanto loro opera130. D ’altra parte Vico «ci insegna a
cercare l’origine delle nostre costruzioni metafisiche nelle costruzioni più
o meno empiriche della vita sociale»131. Da Vico Sorel ha appreso l’im
portanza dei fattori psicologici nella storia, intrecciati come sono alla vi
ta sociale. Sorel ritiene che tale analisi della storia abbia «un’importanza
capitale per l’interpretazione dei fatti secondo la dottrina del materiali
smo storico»132. Marxista, egli pensa che «il socialismo deve seguire una
via puramente scientifica, per arduo che sia talvolta il cammino della
scienza»,133 ma ha anche imparato da Vico che i giudizi morali sono «la
base di tutto il movimento storico»134 e che «nessun sistema filosofico ha
dovuto il suo successo al solo valore logico dei suoi argomenti; sempre è
occorso che l’autore facesse in modo di provocare nella nostra mente del
le emozioni che facessero pendere la bilancia dalla sua parte»135. Sotto
molti aspetti, grazie a Vico, il marxismo soreliano si scosta dalla volga
rizzazione marxista che, a quell’epoca, prevaleva ancora in Francia. Ma,
quando il marxismo sarà scomparso dal suo sistema, resterà sempre un
fondo vichiano, nel quale si innesterà l’insegnamento nuovo di Nietzsche
e di Bergson che si manifesterà nelle Réflexions e nelle Illusioni.
Si nota quindi che Vico ha avuto nel pensiero di Sorel un ruolo che
va ben al di là di ciò che pensava Croce. Secondo quest’ultimo Sorel
avrebbe solo mostrato l’utilità di alcune idee di Vico, soprattutto appli
cando il concetto di corso e ricorso alla storia del cristianesimo primiti
vo e alla teoria del movimento proletario moderno136. In realtà l’opera di
Vico doveva avere una parte determinante nella costruzione della infra
struttura del pensiero soreliano. Vengono prima di tutto da Vico e poi
da Taine le costanti essenziali di questo pensiero: il rifiuto del razionali
smo, deH’intellettualismo, del dubbio cartesiano, delle regole universali,
un’inclinazione per il pessimismo cristiano e quindi il rifiuto dell’idea di
progresso. E proprio da Vico che Sorel ha attinto la sua teoria dei miti,
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137. Sorel torna su questi temi in tutta la sua opera e sarebbe quindi superfluo ag
giungere citazioni. Qui si veda «Studio su Vico», pp. 63, e 46, 50, 54-55, 63-65.
138. Sorel, «Studio su Vico», pp. 94-95.
139. Ibid., pp. 101 e 105.
140. Sorel, Le Procès de Socrate, p. 332.
141. Ibid., pp. 106 e 12. Si veda Fernand Rossignol, Pour connaître la pensée de
Georges Sorel, Bordas, Paris 1948, pp. 64-65.
142. Sorel, «Vues sur les problèmes de la philosophie», Revue de métaphisique et de
morale, vol. 18, V, 1910, pp. 605-606.
143. Sorel, Le illusioni del progresso, p. 29.
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Pascal aveva avuto lo stesso ruolo. Sorel è affascinato da Pascal, così co
me è abbagliato dallo spiritualismo bergsoniano. Pascal è l’antitesi di
Descartes, il quale apre la strada agli enciclopedisti144.
Dopo il processo a Socrate e a Descartes viene quello al XVIII seco
lo. Sorel inizia da Condorcet, che porta a termine l’opera di Turgot e che
ha come punto di partenza Locke. Condorcet vede in Locke il pensato
re il cui «metodo divenne ben presto quello di tutti i filosofi»145. Questo
è, da Burke in poi, il peccato capitale per i nemici dei Lumi. Sorel cita
con sarcasmo Cordorcet parlando del «grido di battaglia» di Collins e
Bolingbroke in Inghilterra, di Bayle, Fontenelle, Voltaire, Montesquieu
in Francia e di tutti i loro seguaci: «Ragione, tolleranza, umanità». Tutti
«combatterono in favore della verità [...], dando la caccia nella religio
ne, nell’amministrazione, nei costumi, nelle leggi, a tutto ciò che presen
tasse il carattere dell’oppressione, della durezza, della barbarie»146. Si è
mai visto un progetto più ridicolo? Ma è proprio così che il secolo della
levità si è dedicato a una «orgia di astrazioni»147.
Con un gran colpo di scopa che vuole essere definitivo, Sorel spazza
via l’essenza dell’eredità intellettuale dei Lumi: Descartes, Locke e Rous
seau, il razionalismo, l’ottimismo, la teoria del progresso, quella dei dirit
ti naturali, il concetto atomistico dell’individuo prevalente dopo Flobbes
e Locke, e l’idea di società come aggregato di individui. L’Illuminismo ha
la diretta responsabilità della decadenza moderna, della mediocrità de
mocratica come anche di quel socialismo snaturato che è il socialismo de
mocratico. E affascinante vedere con quale entusiasmo Sorel riprende le
critiche più dure, più ingiuste e più false contro l’Illuminismo. Come per
Burke ed Herder, come per Carlyle, non ci può essere niente di buono nel
XVIII secolo. Sorel segue Taine nell’attacco al francese parlato e scritto a
quel tempo: è impoverito e in più manca di chiarezza. Uno come Con
dorcet voleva riformare il francese per creare una lingua scientifica uni
versale, ma una lingua si mostra tanto più atta a essere accettata come co
smopolita quanto più è distante dalla vita quotidiana148.
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149. Si veda Sternhell, Sznajder e Asheri, Nascita dell’ideologia fascista, capitoli 11 e III.
150. Sorel, Considerazioni sulla violenza, pp. 35-49.
151. Alain Pons, «Avant-Propos», in Vie de Giambattista Vico écrite par lui-même,
Lettres, La Méthode des études de notre temps, Grasset, Paris 1981, p. 11.
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afferma che le prime citazioni esplicite di Vico appaiono solo negli ulti
missimi anni del XVIII secolo, non ne consegue automaticamente che
idee venute da lontano non abbiano potuto diffondersi e non abbiamo
colpito spiriti che si occupavano delle stesse questioni. Vico fu certamen
te il primo ad affrontare in tutta la loro ampiezza le questioni che trava
gliavano tutti coloro che pensavano, leggevano e scrivevano al tempo dei
Lumi, ma una riflessione sull’origine delle società, del diritto, del potere,
sul posto della religione nella società era al centro del pensiero di H ob
bes e di Locke, senza parlare dell’enorme quantità di scritti e pamphlet
pubblicati nella seconda metà del XVIII secolo non solo in Olanda, libe
ra dalla censura che infieriva nel resto d’Europa, ma nella stessa Inghil
terra. Non è quindi impossibile che pensatori che riflettevano sulle stesse
questioni siano giunti a risposte assai simili. Né Herder né Burke hanno
conosciuto Vico, e la loro battaglia contro i Lumi francesi nulla deve alla
Scienza nuova. Ma, man mano che ci si inoltra nel X IX secolo e che la tra
duzione di Michelet, messa a disposizione del pubblico europeo nella
grande lingua della cultura dell’epoca, comincia a essere conosciuta dav
vero, il rifiuto dei Lumi che questo testo comporta, l’antirazionalismo al
quale Vico appone il sigillo del genio, iniziano a dare i loro frutti.
In quanto a Croce, c’è proprio l’opera di Vico alla base della sua cri
tica al XVIII secolo e ai suoi prodotti successivi, la democrazia, l’egua
glianza, la laicità. L’interpretazione che Croce dà di Vico è hegeliana, co
sa che non manca di avere anche una influenza duratura sulla sua visione
della democrazia e della religione. Croce ha fatto propria la critica vi-
chiana dei Lumi in ciò che essa aveva di più profondo e durevole. Catto
lico come Sorel, non poteva che provare un disagio intenso, quasi visce
rale, di fronte all’Illuminismo, disagio che doveva manifestarsi in una vio
lenta campagna durata più di un quarto di secolo contro la democrazia155.
La lettura dell’esposizione che Croce fa di Vico è importante più per
capire Croce che l’autore della Scienza nuova, tanto La filosofia di Giam
battista Vico esprime un atteggiamento poco critico: infatti Croce si rifà
155. Si può vedere un interessantissimo saggio di Croce scritto nel 1942, assai noto da
tempo in Italia, Perché non possiamo non dirci «cristiani», Laterza, Bari 1943. Que
sto sereno scritto appartiene già a un autore che dovrà presto iniziare a spiegare il
fascismo e preferirà dimenticare la sua lunga guerra ai Lumi e alla democrazia.
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a tal punto a Vico che il lettore già a conoscenza dei testi ha la sensazio
ne di avere sotto gli occhi un «Vico visto da se stesso». Ma ciò non di
pende da una inadeguatezza di Croce, al contrario. In pratica Croce si
identifica talmente col suo grande predecessore da usare le sue argo
mentazione come se fossero le proprie. Meinecke, Gadamer e Berlin ma
nifestano un riflesso analogo rispetto a Herder. Sotto molti aspetti, è il
caso di praticamente tutti i nemici dei Lumi: quando si rifiutano le pre
messe del razionalismo, non ci sono modi molteplici per attaccare il
XVIII secolo franco-kantiano. Pertanto, e non è certo una sorpresa, Cro
ce inizia con l’anticartesianismo. Senz’altro, dice, Vico non pensa che
tutte le idee di Descartes siano false, ma il cogito è solo «un mero segno
o indizio del mio essere: nient’altro»156. Allo stesso modo, lo si è visto pri
ma, secondo Vico l’uomo potrebbe dimostrare l’esistenza di Dio solo di
venendone il creatore157.
D ’altra parte Vico è per Croce, così come lo è stato per se stesso, il
fondatore delle «scienze morali», cioè umane e sociali158. Oltre a una
scienza sociale, la Scienza nuova comprende una filosofia dello spirito,
una storia o un gruppo di storie159. Tanto il cartesianismo, «tutto rivolto
alle forme universalizzanti e astraenti, trascurava le individualizzanti; e
tanto più il Vico doveva essere attirato da esse come da una mistero. Il
cartesianismo rifuggiva con orrore dalla selva selvaggia della storia», Vi
co vi si «internava bramoso»: egli «era portato a indagare, nelle loro
profonde differenze e opposizioni, i modi di sentire e di pensare delle di
verse età»160. Vico non fa storia nei particolari, cerca i «caratteri generi
ci» e concepisce la sua scienza nuova come una «scienza generalizzan
te»161. Infine, Croce non lo dice esplicitamente ma è proprio questo che
vuole mettere in evidenza, il concetto di «carattere», largamente usato
nel Settecento, è una creazione di Vico, per cui Herder avrebbe solo
adattato il pensiero del filosofo napoletano alle proprie esigenze. É con
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la sua critica a Machiavelli che Vico inizia il discorso: l’autore del Prin
cipe vede l’origine della grandezza romana nelle istituzioni, mentre l’ori
gine, e quindi le ragioni profonde di queste istituzioni, risiede nel carat
tere della società romana162. Ciò che permette di vedere nell’opera di
Montesquieu una imitazione di quella di Vico. Già nel capitolo III Cro
ce cita Vico: «Natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi
tempi e con certe guise, le quali sempre che sono tali, indi tali e non al
tre nascono le cose»163.
L’invenzione della storia inizia con la critica a Grotius e a Pufendorf,
come ad altri teorici del giusnaturalismo: tutti si sono occupati della na
tura umana ma, tracciando il corso della storia, hanno cominciato da
metà cammino, con l’uomo già civilizzato dalla religione e dalla legge. Si
sono concentrati sull’intelletto e hanno ignorato l’immaginazione e le
passioni, la poesia e le favole, queste forme di espressione maggiori del
l’uomo primitivo. «Avverso all’intellettualismo, simpatico alla fantasia»,
il pensiero di Vico scopre un mondo nuovo: prima di lui i miti e le favo
le erano considerati come allegorie, finzioni e imposture, non una scien
za dell’uomo primitivo164. Anche l’invenzione dell’estetica è opera di Vi
co165. La teoria della poesia di Vico è una innovazione rivoluzionaria, ca
povolge tutto dai tempi di Platone e Aristotele. Non si accontenta di di
re che «la forma poetica è la prima operazione della mente, che essa è co
stituita da sensi di passione, è tutta fantastica, priva di concetti e di ri
flessioni», e che è fatta di sentimenti ed emozioni166. Aggiunge che, a dif
ferenza della storia, la poesia ha per oggetto l’impossibile e che i suoi sog
getti favoriti sono i miracoli compiuti dai maghi. Quel mondo che inve
ce sperimentava lingue artificiali, che intendeva ridurre la metafisica e
l’etica a formule matematiche, in cui dominavano il distacco, il gelo, l’o
stilità e la derisione per tutto ciò che era originale e autentico, che cerca
va di liberare l’intelletto dai sensi e dall’intuizione, fu salvato dal genio di
Vico, che ha intravisto «la qualità genuina del linguaggio»167. Il linguaggio
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tale divisione tra eroi e famoli»178. Croce conclude sottolineando che «il
Vico inizia l’intelligenza dello spirito medievale, cioè della costituzione
mentale, sociale e culturale di quell’età»179.
Se, secondo la teoria vichiana del «ricorso», era stata possibile una
seconda barbarie, perché non dovrebbe esserci un terzo periodo, per
ché dovrebbe essere considerato necessariamente un male? Non po
trebbe essere il fascismo a rappresentare questo terzo ritorno? Non è
forse questa la spiegazione delle conseguenze pratiche che avranno la
lettura e l’interpretazione di Vico, la riflessione sulla sua opera, sul pen
siero e sul comportamento di Croce, pensatore e uomo politico, negli
anni che seguono la pubblicazione del suo libro nel 1911? Infatti la sua
critica alla scuola giusnaturalista, ai suoi fondamenti intellettuali, alle
sue formulazioni e ai loro significati pratici, il suo culto per le età eroi
che sono identici alle idee di Herder e di Burke, di Carlyle e di Sorel.
Tutto ciò sfocia in una lunga campagna contro la democrazia e in un al
lineamento alla più importante campagna antilluminista del suo tempo,
che la storiografia apologetica successiva al 1945 considererà un sempli
ce errore di percorso.
In realtà il lungo cammino, tutto in opposizione alla democrazia, che
Croce segue a partire dai primi del Novecento non è il frutto di un qual
che opportunismo ma del suo motto «contro il XVIII secolo»: è questo
che definiva esplicitamente gli obiettivi della sua critica intellettuale. Si ca
pisce così che le sue idee e il suo comportamento nei primi anni Venti non
sono la conseguenza di una incomprensione del fascismo ma del contrario.
Nessuno capiva il fascismo meglio di Croce, nessuno aveva una visione più
esatta del suo contenuto intellettuale e della sua funzione politica.
In pratica, dopo avere egli stesso contribuito, in compagnia di molte
altre figure eminenti del liberalismo italiano, all’ascesa al potere del fasci
smo, il senatore Croce non esita nel 1924, dopo l’assassinio del deputato
socialista Giacomo Matteotti, quando si presenta l’occasione di abbatte
re Mussolini con un possibile consenso del re, a schierarsi per il governo:
pur avendo già fatto esperienza del fascismo al potere, Croce vota lo stes
so la fiducia al suo capo. Pur avendo Mussolini assunto pubblicamente la
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183. B. Croce, Pagine sulla guerra, 2“ ed. con aggiunte, Laterza, Bari 1928, pp. 105
107; Materialismo storico ed economia marxista, pref. del 1917, Laterza, Bari
1968, p. XIV.
184. B. Croce, Pagine sulla guerra, p. 109.
185. B. Croce, Materialismo storico ed economia marxista, pref. del 1917, p.
XIV.
186. Daniel Gasman, Haeckel’s Monism and the Birth o f Fascist Ideology, Peter
Lang, New York 1998, p. 48.
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tarie. Tutti gli stereotipi che dalla fine del Settecento creano odio per i
Lumi troveranno assai presto in lui terreno fertile.
«Non, décidément, la Démocratie c’est le néantl C’est le troupeau con
duisant le berger, c’est le monde renversé, c’est le désordre, l’inanìté et
l’imbécillité organisés.»187Croce apprezza talmente questa citazione prove
niente dal Mercure de France del settembre 1915 che la fa propria e la ri
produce tale e quale, in francese, nel suo articolo scritto in ottobre. Il suo
contenuto è caratteristico del pensiero crociano e merita ancor più l’at
tenzione del lettore in quanto ripubblicato parola per parola nel 1928, nel
le Pagine sulla guerra, nel pieno della «fascistizzazione» dello Stato italia
no. Fu necessaria l’esperienza di tutti gli anni di dittatura fascista per con
vincerlo che non si poteva condurre senza conseguenze una guerra all’in
tellettualismo, all’universalismo, al razionalismo, al materialismo storico e
all’eredità dell’89. Croce doveva alla fine comprendere che la guerra alla
democrazia aveva un prezzo e delle conseguenze concrete. E per questo
che il suo voto di fiducia del 1924 assume un significato simbolico: nulla
può chiarire meglio l’ambiguità delle posizioni prese, per tutto il periodo
tra le due guerre, da tanti intellettuali europei di fronte al fascismo.
Non bisogna dimenticare che sono i nemici della democrazia venuti
dagli ambienti colti, appartenenti alle élite, spesso liberali, anche se in un
senso molto ristretto del termine, che consegnano l’Italia al fascismo.
Questo è il ruolo storico di Croce: la stessa funzione è svolta in Germa
nia da Spengler, Cari Schmitt e altri conservatori rivoluzionari, come
Arthur Moeller van den Bruck ed Ernst Jünger. Sono questi nemici dei
Lumi francesi, del razionalismo e dei valori universali, dell’eguaglianza e
dell’autonomia kantiana dell’individuo che hanno condotto le classi su
periori tedesche alle soglie del Terzo Reich187188. Nello stesso periodo Spen
gler diviene assai amato da quel vorace lettore che era Mussolini. Renzo
De Felice ha già dimostrato come il capo del fascismo italiano avesse co
minciato ad avere una conoscenza diretta della sua opera già nella
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seconda metà degli anni Venti. Nel 1928 Spengler e Mussolini scrivono
una doppia prefazione alla traduzione italiana di un saggio di un autore
tedesco le cui argomentazioni rientravano nella filosofia dell’autore del
Tramonto189. Si trattava di un argomento che stava a cuore ad ambedue:
la decadenza della razza bianca occidentale. Mussolini concorda con
Spengler sull’importanza che bisogna dare ai valori nella lotta contro la
decadenza. Fa agevolmente sua la concezione spengleriana del primato
della cultura, salvo per quel che riguarda le origini germaniche della cul
tura occidentale. Di più, per combattere la decadenza causata dalla de
mocrazia, Spengler simpatizza per la dittatura e per Mussolini che ne è
l’incarnazione e che lo affascina, così come affascina un Moeller van den
Bruck. Nel 1933 Mussolini fa tradurre Anni decisivi, opera degli ultimi
anni della vita di Spengler, quando l’autore del Tramonto critica il nazi
smo. Il Duce dedica a questa opera un articolo elogiativo. Come Spen
gler, egli concepisce il problema della salvaguardia dell’identità cultura
le dell’uomo occidentale sul piano dell’intera razza bianca e, come lui, ci
tiene a distinguersi dalle concezioni razziali del nazismo190.
Solo quando il male era ormai compiuto questi fieri nemici dei Lumi
e della democrazia misero in atto una relativa dissidenza; e bisogna in
tendersi bene sul termine «dissidenza». Il sacrificio accettato da Spengler
si riduceva a non poter pubblicare le sue riserve e le sue critiche, mentre
fùnger non ha esitato nemmeno per un momento a militare sotto il segno
della croce uncinata durante la campagna di Francia e nelle truppe di oc
cupazione a Parigi. La dissidenza non è stata molto dura nemmeno per
Croce, comodamente sistemato nella propria casa, mentre Gramsci è sta
to liberato solo per non farlo morire in prigione. Non c’è bisogno di dire
che la detenzione di Gramsci in durissime condizioni non suscita alcuna
reazione da parte di Croce. In tutti gli anni del fascismo, egli continua a
pubblicare la sua rivista La Critica e, separando la cultura dalla politica,
rende a Mussolini un servizio senza prezzo per il regime. Mentre Gram
sci sta pagando con la libertà, e in pratica con la vita, la convinzione che
189. Il titolo dell’opera era Régression des naissances: mort des peuples, di R.
Korherr, il quale affermava che il decremento delle nascite era il segno manife
sto del male che rodeva l’Occidente. Si veda il recente, ottimo lavoro di Didier
Musiedlak, Mussolini, Presses de Sciences-Po, Paris 2005, p. 261.
190. Musiedlak, Mussolini, pp. 262-267.
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i
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la critica risulta molto spesso disarmata sia per la visione grandiosa della
storia universale che l’opera offre sia perché essa viene vista come una pro
fezia del tramonto o della morte dell’Occidente. Qui conviene ricordare
ciò che lo stesso Spengler definiva un malinteso: l’opera era stata prodot
ta nella prospettiva di una vittoria tedesca. Il rimprovero di pessimismo
colpisce profondamente Spengler: reagisce nel 1921 sottolineando, in un
articolo intitolato appunto «Pessimismo», l’azione che il suo pensiero de
ve ispirare. Già nel 1919 aveva pubblicato il saggio politico Prussianesimo
e socialismo, che doveva ispirare tutti i diversi socialismi nazionali e che
mostrava bene come ciò che gli interessava, più che il tramonto dell’Occi
dente, fosse la sorte della Germania19'. In questo pamphlet egli propone
per il proprio paese un socialismo prussiano, antimarxista, un «socialismo
etico», negazione del liberalismo come della Rivoluzione sovietica19192.
Le sole filiazioni che Spengler riconosce sono quelle di Nietzsche e di
Goethe, soprattutto dell’autore del Wilhelm Meister, tuttavia egli è anche
un fedele discepolo di Vico, di Herder e di Burke, cosa che non ricono
sce. Gli ultimi due sono citati solo una volta, Vico è del tutto assente. Vi
co aveva già visto che la storia non è una, che è fatta di popoli che attra
versano, indipendentemente gli uni dagli altri, un ciclo completo. L’idea
di fasi organiche di ascesa e declino è sua, così come quella secondo cui
la storia non è un processo continuo. Quando un popolo ha attraversato
il ciclo di ascesa e declino, un altro popolo entra nel ciclo culturale e svi
luppa la propria fisionomia. Ma Vico, come Herder, è ancora cristiano.
L’abbandono della dimensione cristiana nel rifiuto dei Lumi avviene nel
la seconda metà del X IX secolo. Che Vico ed Herder non siano presenti
nel bagaglio culturale di Spengler, il quale va a cercare fino in Cina pensa
tori e uomini di Stato che il lettore europeo, al di fuori di una piccola cer
chia di eruditi, non ha mai sentito nominare, non è né naturale né logico,
e si può spiegare solo con la volontà di ridimensionare quanto più possi
bile il cristianesimo senza dovergli sostituire l’universalismo dei Lumi.
191. Gilbert Merlio, Oswald Spengler, témoin de son temps, Akademischer Verlag
Hans-Dieter Heinz, Stuttgart 1982,1.1, pp. 2-5. L’opera di Gilbert Merlio, sen
za dubbio una delle migliori nella bibliografia spengleriana in tutte le lingue,
meriterebbe una riedizione da parte di una casa editrice francese.
192. Spengler, Preussentum und Sozialismus, O. Beck, München 1921 [Prussianesi
mo e socialismo, trad. di C. Sandrelli, Edizioni di AR, Brindisi 1994].
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Spengler si pone la domanda «in che forma il destino della civiltà occi
dentale si compirà nel futuro»201 e a questo scopo promette di cimentarsi
con la questione «che cosa è una civiltà»202. Questo è il punto chiave che
si pone davanti a noi «se si vuole davvero capire la grande crisi dell’èra
presente», problema che bisogna scrutare «da un’altezza atemporale, lo
sguardo rivolto al mondo storico delle forme di millenni»203.
Nel corso di tutta la sua introduzione Spengler sviluppa un relativi
smo radicalizzato, che va al di là di quanto pensava Herder, ancora cri
stiano, ma che si innalza su fondamenta e con materie prime fornite dal
l’autore di Ancora una filosofia della storia. «Perché, dal punto di vista
morfologico, il XVIII secolo dovrebbe essere più importante degli altri
sessanta secoli che Io precedettero?» Ma il problema è più vasto: «Non
è ridicolo contrapporre un’“èra moderna”, abbracciarne pochi secoli e
per di più localizzata essenzialmente nella sola Europa occidentale, a
un’“èra antica” che comprende invece millenni, nella quale si fa rientra
re come una semplice appendice, senza nessuna distinzione approfondi
ta, la massa di tutte le civiltà preelleniche?»204 Come Herder, Spengler è
convinto che «in realtà qui parla solo, non mitigata da alcuna scepsi, la
vanità dell’uomo euro-occidentale»20’ . Certo, è ovvio che l’esistenza di
Atene, di Firenze o di Parigi è più importante per la cultura occidentale
di «quella di Lo-yang e di Patalipùtra», ma nessuno ha il diritto di fon
dare «su questi giudizi di valore uno schema di storia universale». Allo
ra lo storico cinese avrebbe tutto il diritto di tracciare una sua storia uni
versale nella quale le Crociate e il Rinascimento, Cesare e Federico il
Grande siano passati sotto silenzio come dettagli irrilevanti206. Conviene
quindi mettere fine alla collocazione privilegiata dell’Occidente di fron
te all’India, alla Cina, all’Egitto, o di fronte alla cultura araba e messica
na, conviene liberarsi da questo schema occidentale, che Spengler chia
ma il « sistema tolemaico», «nel quale tante grandi civiltà gravitano intor
no a noi, quasi che fossimo il centro di ogni avvenimento mondiale»:
201. lbid.
202. Ibid., p. 34.
203. lbid., p. 81.
204. lbid., p. 54 (corsivo nel testo).
205. lbid., p. 53.
206. lbid., pp. 53-54.
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C risi di civiltà
210. Cfr. Merlio, OswaldSpengler, voi. I, pp. 39-40. Più avanti Merlio ricorda che la
critica della civilizzazione in Spengler si basa sulla contrapposizione tra cultu
ra e civilizzazione. Questa contrapposizione assai diffusa in Germania non è
stata inventata da Spengler, ma l’autore del Tramonto dell’Occidente trasforma
due aspetti sincronici di una stessa società in due fasi necessarie e successive
delle «culture alte»: «ogni civiltà ha una sua propria civilizzazione». Per lui si
tratta di «una successione organica rigorosa e necessaria. La civilizzazione è l’i
nevitabile destino di una civiltà» (pp. 263-264).
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che non esiste niente di «costante e universale» e che non si deve più
parlare «di forme del pensiero al singolare, del principio della tragicità
al singolare, del compito dello Stato al singolare. La validità universale
poggia su false inferenze da sé agli altri»215.
Dopo la critica al pensiero occidentale tramite Kant, giunge la criti
ca a Nietzsche. Certo, Nietzsche «già aveva avuto fra le mani tutti i pro
blemi più decisivi», ma «come romantico» non ha osato «fissare a nudo
la severa realtà216». Uno dei suoi meriti più grandi è «di avere posto il
problema del valore della realtà»,217 dice Spengler all’inizio del primo vo
lume del Tramonto, per proseguire parecchie pagine dopo: «Resterà
sempre un grande merito di Nietzsche l’aver indicato [...] [la] doppia
natura di ogni morale. [...] Buono e cattivo sono distinzioni del nobile,
buono e malvagio sono distinzioni del sacerdote. [...] I buoni sono i po
tenti, i ricchi, i felici [...]. Cattivi, vili, miserabili, infelici sono, nel senso
originario di tale termine, gli impotenti, i poveri, i falliti, gli imbelli, i pic
coli esseri, i figli di nessuno»218.
Nietzsche ha saputo andare ben oltre Descartes, poiché se l’auto
re del Discours de la méthode intendeva dubitare di tutto, non inten
deva dubitare del valore del suo problema; ma porre un problema, di
ce Spengler, non vuol dire risolverlo. Egli vuole mostrare anche che il
male non è circoscritto al razionalismo e all’universalismo dei Lumi,
ma che questo difetto è strutturale e si manifesta in ugual misura in
quell’antikantiano per eccellenza che è Nietzsche. In effetti, qual è
« l’orizzonte storico di Nietzsche»? chiede Spengler. Su quali basi po
sano esattamente «i suoi concetti», coi quali del resto l’autore del Tra
monto si identifica senza riserve, «di decadenza, di nihilismo, di revi
sione di tutti i valori, di volontà di potenza», se non sui greci e sui ro
mani, sul Rinascimento e sull’Europa contemporanea? Anche Nietz
sche è prigioniero della periodizzazione europea occidentale dell’anti
chità, del Medioevo e dell’epoca moderna. L’orizzonte intellettuale di
Schopenhauer, Comte, Feuerbach non è certo più vasto. La celebre
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C risi di civiltà
Nora di Ibsen non è altro che una grande borghese nordica di educa
zione protestante219.
In pratica Spengler accusa Nietzsche di essere stato, «in tutto e per
tutto [...] un discepolo dei decenni del materialismo»220. Lo stessa cosa
si può dire di Schopenhauer, il cui «sistema è un 'anticipazione del
darwinismo»121. Infatti Spengler pone tutto il X IX secolo sotto il segno
di Darwin e del darwinismo come lo intende lui: l’evoluzione è guidata
dalla selezione naturale e dalla legge del più forte. Secondo lui Nietz
sche è stato un «discepolo inconsapevole di Darwin»,222 ma dimentica
di precisare che l’autore di Nietzsche contra Wagner è anche l’autore, nel
Crepuscolo degli idoli, di un «anti-Darwin». Probabilmente lo sa, visto
che prende la precauzione di fare appello all’inconscio di Nietzsche. Ma
Nietzsche è anche discepolo di Marx: «Tale è la genealogia della “mo
rale dei signori”. [...] La “volontà di potenza”» è rappresentata oggi
«dai due poli della vita pubblica odierna, dalla classe operaia e dai gran
di uomini del denaro e deirintelligenza»22’. Nietzsche era socialista
«senza saperlo»,224 afferma con forza Spengler, procedendo chiaramen
te sulle orme di Sorel, anch’esso discepolo di Nietzsche. «La “morale da
schiavi” nietzschiana è un fantasma. La sua morale aristocratica è invece
una realtà.»225 Questa realtà è rappresentata al momento tanto dagli uo
mini d’affari che creano l’avvenire - i capitani d’industria di Sorel - che
dal socialismo.
E molto importante riconoscere in quale misura Spengler segua So
rel, che lo precede di una buona decina d’anni. Come in Sorel la rivolta
spengleriana contro lTlluminismo sfocia nel culto dei simboli ed è nutri
ta non solo dagli stessi riflessi antirazionalisti e antiuniversalisti, ma an
che da una medesima interpretazione di Marx. L’idea di lotta di classe
copre, secondo Spengler, una pura e semplice volontà di potenza e di
dominio. Marx pone il problema delle relazioni sociali in termini di po-
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C risi di civiltà
tere: intende dimostrare che il proletariato può e deve a sua volta diven
tare il più forte. Ha contribuito quanto Darwin alla genealogia della mo
rale dei padroni. In verità Spengler riprende l’essenziale dell’argomenta
zione di Sorel. Effettivamente si trova in Sorel, anch’egli assiduo lettore
di Nietzsche, il medesimo disprezzo per i Lumi, per l’idea di progresso,
per i valori liberali mascherati dall’infamia della «morale borghese», per
il «materialismo», per l’umanitarismo, per il parlamentarismo, per l’elet
toralismo e per i partiti politici: insomma per tutto ciò che, da vicino o
da lontano, sia attinente o somigli alla democrazia e al socialismo demo
cratico. Al centro del pensiero di Sorel si collocano le idee di mito e di
violenza creatrice di morale. La violenza proletaria distruggerà la marcia
democrazia borghese e il socialismo corrotto, suo alleato nella subalter
nità ai valori dei Lumi.
Spengler si considera un rivoluzionario, il primo a poter davvero
aspirare al titolo di inventore della storia universale. Di sicuro, un seco
lo dopo Herder, Spengler ha una libertà di manovra che quello non pos
sedeva. In più, non avendo niente di cristiano, meglio di Herder si può
permettere di affermare che tutto ciò che «in Occidente è stato finora
detto e pensato sui problemi dello spazio, del tempo, del movimento, del
numero, della volontà, del matrimonio, della proprietà, della tragedia,
della scienza rappresenta qualcosa di ristretto e dubbio, perché sempre
si è mirato a un 'unica soluzione, invece di riconoscere che vi sono tante
risposte quanti sono coloro che pongono le domande»226. Da ciò discen
de la conclusione fondamentale, che era già stata di Herder, che Maur-
ras e Barrès avevano ripreso e usato durante l’affare Dreyfus senza in
tuire di compiere una rivoluzione, cioè che «per altri uomini vi sono al
tre verità. E per il pensatore o sono tutte valide, oppure nessuna di esse
lo è»227. Circa trecento pagine dopo egli ribadisce la cosa in modo tale
che nessun malinteso è più possibile e la soluzione «di antiche difficoltà»
è ormai alla portata di tutti: «Vi sono tante morali quante civiltà, né più
né meno. A tal riguardo non esiste una libera scelta. [...] Il singolo indi
viduo può agire in modo morale o immorale, “buono” o “cattivo”,
seguendo il sentimento primordiale della sua civiltà, ma la teoria del suo
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C risi di civiltà
agire è assolutamente data. A tal riguardo, ogni civiltà ha una sua pro
pria misura, la cui validità comincia e finisce con essa. Non esiste una mo
rale valida per l’umanità in generale>>228. E più avanti: «M a proprio come
un’arte plastica, una musica o una pittura, una morale è un mondo con
chiuso di forme. [•••] Entro il suo ambiente storico specifico essa è sem
pre vera, così come è sempre falsa al difuori di esso»229.
E per questo che «l’innocente relativismo di Nietzsche» non può per
metterci di giungere alla comprensione della storia universale230. «Oggi si
può anche parlare della transvalutazione di tutti i valori», si è ben lonta
ni da ciò di cui l’Occidente ha davvero bisogno. «Sarà compito del futu
ro formulare una morfologia rigorosa di tutte le morali. Anche a tal ri
guardo Nietzsche ha fatto l’essenziale, ha compiuto il primo, decisivo
passo per raggiungere il nuovo punto di vista. Ma l’esortazione da lui fat
ta a tutti i filosofi, di porsi di là dal bene e dal male, fu lui il primo a non
seguirla. Egli volle essere a un tempo scettico e profeta, critico della mo
rale e annunciatore di una morale. Il che non si accorda. Finché si resta
romantici, non si può essere psicologi di primo rango.» Così Nietzsche
«qui, come in tutte le sue idee più importanti, è giunto, sì, fino alla soglia
ma non ha saputo oltrepassarla». Alla fine giunge perlomeno l’omaggio:
«Ma a tutt’oggi, non vi è chi abbia fatto meglio di lui.»231
Fare meglio di Nietzsche è appunto l’obiettivo che Spengler si è po
sto. Per capire il processo di tramonto dell’Occidente, dice, bisogna de
dicarsi al «problema stesso della civilizzazione». Per Spengler la civilizza
zione è «una successione organica rigorosa e necessaria [...], l’inevitabile
destino di una civiltà». Quindi «ogni civiltà ha una sua civilizzazione»232.
Egli dà per la prima volta a queste due parole, che fino ad allora designa
vano una vaga distinzione di ordine etico, un senso che esprime «una suc
cessione organica rigorosa e necessaria. La civilizzazione è l’inevitabile de
stino di una civiltà. [...] Le civilizzazioni sono gli stadi più esteriori e più
artificiali di cui una specie umana superiore è capace»233. Roma rappre-
521
C risi di civiltà
234. lb id .,p .n .
235. Ibid., p. 80 (corsivo nel testo).
236. Ibid., p. 85.
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242. Ihtd., pp. 92-93: «Unvergänglichkeit gewordener Gedanken ist eine Illusion»
(corsivo nel testo).
243. Ibid, p. 93.
244. Ibid.
245. Ibid.
246. Ibid., p. 96.
247. Ibid., pp. 99-100.
248. Ibid., pp. 100-101 (corsivo nel testo).
524
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Crisi di civiltà
mento di oppressione. Per Spengler invece il male sta proprio nella libe
razione e nella scissione tra l’oggetto e il soggetto251.
Per l’autore del Tramonto esiste un doppio problema: in primo luo
go, come in Barrès, la ragione strappa l’uomo dal suo radicamento nelle
forze del sangue e del suolo e la liberazione dell’uomo tramite la ragio
ne significa il suo sradicamento. Poi giunge un momento nel processo
culturale in cui la ragione cede il passo al giudizio, in cui lo spirito di
viene intelletto. Tale momento è il marchio caratteristico di tutte le civi
lizzazioni e segna l’inizio della decadenza. Nel capitolo dedicato ai «Pro
blemi della civiltà araba», Spengler parla di Maometto e di Cromwell in
un modo che non permette dubbi sulla sua conoscenza di Carlyle. Mao
metto e Cromwell, al pari dei grandi personaggi che li circondano, come
Abu Bakr e Omar o i capi puritani John Hampden e John Pym, presen
tano analogie di sentimenti e di toni che non possono ingannare. Per
Spengler come per Carlyle essi avevano la consapevolezza di una grande
missione che aveva dato a tutti, come ai puritani arabi contemporanei di
Maometto, la convinzione di essere eletti da Dio. Spengler ammira «il
grandioso slancio biblico» dei puritani, ma vede che «nel puritanesimo
si cela già il razionalismo. [...] Da Cromwell si passa Hume»252.
Qui Spengler chiama il XVIII secolo tempo delT«illuminismo» (tra
virgolette) e lo associa alla coscienza critica, per dare infine la sua defi
nizione del razionalismo: «Il razionalismo significa la fede esclusiva nei
risultati dell’intelligenza critica, dell’“intelletto”» 2” . Il XVIII secolo, co
me la città moderna, appartiene alla civilizzazione: al pari di Herder,
Burke, de Maistre, Maurras e Sorel, Spengler si leva contro la ragione
trionfante che tutto vuole spiegare, compresa la religione. «L’Illumini
smo passa sempre da un illimitato ottimismo intellettuale connesso al ti
po dell’abitante delle grandi città, a una scepsi assoluta.»2” Ecco il signi
ficato di «Weltanschauung» nel Tramonto: è «il termine che designa pre
cipuamente un essere desto evoluto che sotto la guida dell’intelligenza
critica, scava esplora un mondo illuminato senza dii, chiamando i sensi25134
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Ovunque si gioca ancora con miti ai quali non si crede più, proprio
come non si crede più ai culti coi quali si cerca di colmare il proprio
vuoto interiore. Insomma, «il materialismo è piatto e onesto, il giuoco
con la religione è piatto e disonesto»261. Queste sono le maggiori carat
teristiche della decadenza. Però la critica di Spengler all’ateismo dei Lu
mi o al «razionalismo quale religione delle persone colte»,262 non viene
fatta in nome della fede ma in nome della cultura, «sinonimo di forza
creativa religiosa»26’.
Questa critica al razionalismo è fatta in nome del sangue e dell’i
stinto, come in Barrès in nome della terra e dei morti. Il sangue è la cor
rente vitale che trascina la storia; la ragione minaccia lo slancio vitale e
quindi il razionalismo è condannato perché vuole cambiare il mondo.
Tale è il significato concreto di questa nuova fase della rivolta contro i
Lumi.
Per Spengler il razionalismo è insieme causa ed espressione della de
cadenza. Poiché egli si interessa prima di tutto ai problemi concreti del
la storia, per lui il razionalismo non è associato a Descartes ma alla filo
sofia inglese. In una accattivante sezione, intitolata «Idea di destino e
principio di causalità», nel secondo capitolo del Tramonto, dedicato al
«Problema della storia mondiale», Spengler mostra come la teoria della
«civilizzazione europea» (le virgolette sono di Spengler) sia nata nell’In
ghilterra di Locke, Shaftesbury e soprattutto di Bentham, e come «fu
portata a Parigi da Bayle, Voltaire e Rousseau». È in nome di questa In
ghilterra «del parlamentarismo, della morale sociale e del giornalismo»
che si è combattuto a Valmy, a Marengo e a Lipsia. Infatti, avendo come
intermediari «menti educate parimenti all’inglese come Rousseau e Mi
rabeau», la tendenza dell’esercito rivoluzionario «era stata fomentata da
idee di filosofi inglesi»264. Solo Goethe aveva capito il senso dello scon
tro di Valmy. E per questo che la Rivoluzione francese apre un’epoca,
nel senso antico del termine, dice Spengler, da non confondere con pe
riodo. L’epoca «resta necessaria e predeterminata» e «un avvenimento
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«l’ideale della libertà di stampa» ma anche che «la stampa stava al servi
zio di chi ne possiede gli organi»272. L’analisi di Spengler, lo si è visto, non
manca di esattezza: ai tempi di Walpole e dei suoi successori, egli dice, il
servizio verso il paese e il servizio verso il partito whig erano la stessa cosa.
Tuttavia, quando le idee borghesi o liberali sono passate dall’Inghil
terra alla Francia hanno assunto un senso astratto che non avevano nel
le isole Britanniche. La borghesia, per la via traversa della democrazia,
cerca di sottomettere il potere a norme giuridiche e morali: nulla è più
in contrasto con la natura stessa del potere. Sotto l’influenza dei sistemi
astratti che, dopo il trionfo del razionalismo, occupano il primo posto, la
borghesia mette in pericolo la nazione. Non sarebbe mai venuto in men
te a Richelieu o a Cromwell di prendere decisioni sotto l’influenza di
idee astratte. Ma non si tratta solo di idee o di spirito critico poiché, «a
lato dei concetti astratti appare il danaro astratto, disgiunto dai valori
originari della campagna; a lato dello studio del pensatore appare la ban
ca come potenza politica. Luna e l’altra cosa sono intimamente appa
rentate e inseparabili»273. Per cui, «se per democrazia s’intende la forma
che il Terzo Stato come tale vuol dare a tutta la vita pubblica, si deve di
re che democrazia e plutocrazia sono sinonimi»274.
Come Maurras, come Barrès e come Sorel, Spengler associa liberalismo
e socialismo marxista nella stessa rampogna. Al socialismo di origine
marxiana, che ha imboccato la strada della democrazia, Spengler oppone
nel periodo tra i due volumi del Tramonto il socialismo prussiano, naziona
le, ciò che lui chiama anche socialismo etico. É quello stesso socialismo che
Hendrick de Man stava innalzando a sistema in Au-delà du marxismo, ma
è a Sorel che spetta la palma di pioniere della critica a un socialismo pre
sentato come infeudato nella borghesia per via del denaro, del parlamenta
rismo e dei principi illuministi. In una nota a piè di pagina Spengler ri
prende quasi parola per parola una classica idea di Sorel, senza che Sorel
sia mai nominato in tutto il corso dell’opera: «Il grande movimento che si
serve delle parole d’ordine di Marx ha provocato un dipendere non degli
imprenditori dai lavoratori ma di essi e degli stessi lavoratori dalla Borsa»275.
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279. Ibid., p. 1345 (corsivo nel testo). In Nietzsche l’eguaglianza era «questa idea
moderna per eccellenza», questo «veleno sommamente micidiale», «la più
grande di tutte le menzogne»: citato da Gilbert Merlio, p. 324.
280. Ibid., p. 1333 (corsivo nel testo).
281. Ibid., p. 1332 (corsivo nel testo).
282. Ibid., p. 1331 (tra virgolette nel testo).
283. Ibid.
284. Ibid., p. 1330 (corsivo nel testo).
285. Ibid., pp. 1333-1334 (corsivo nel testo).
286. Ibid., p. 133 (corsivo nel testo. La parola «razziale» traduce «Rassezùgen»).
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287. Ibid.
288. Ibid., P- 1354.
289. Ibid., P- 1355.
290. Ibid., P- 1356.
291. Ibid.
292. Ibid., P- 1357 (corsivo nel testo).
293. Ibid., P- 1297.
294. Ibid., P- 1299.
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grande disastro culturale dei tempi moderni, era stata causata da una ri
nuncia delle élite di fronte alla rivolta della plebaglia. Mosca, per spie
gare il cammino della storia, fa del comportamento delle élite una sorta
di legge universale. Tutti i critici del Lumi si accordano nel vedere nel ra
zionalismo, nell’individualismo e nella democrazia pericoli per l’esisten
za della nazione. La democratizzazione rappresenta la rivolta delle mas
se avviata dalla borghesia. «Panem et circenses - questa non è che un’al
tra formulazione del pacifismo», afferma Spengler. «Un elemento antina
zionale è sempre esistito nella storia di tutte le civiltà.»523 Insieme col co
smopolitismo, il pacifismo è un valore dei poveracci. Ben prima dell’a
gosto 1914, Barrès e Thomas Mann, Croce, Sorel e Maurras rappresen
tano questa ondata di attacchi contro lTlluminismo, senza la quale la ca
duta della democrazia in Italia e in Germania, le sue continue difficoltà
in Francia fino alla creazione di tre regimi fascisti non diventano com
prensibili. Il fatto che Croce e Thomas Mann si siano ravveduti non fa
che sottolineare l’ampiezza del fenomeno.
Le conseguenze istituzionali e politiche non possono sorprendere.
La dittatura finisce per imporsi e i grandi uomini, i grandi capi, come di
ce Carlyle, appaiono. I capi carismatici in questione non sono, a quanto
pare, necessariamente degli uomini politici, ma comunque lo Stato mi
gliore è certo quello che si basa sul potere di uno solo. Il rafforzamento
dello Stato è una condizione necessaria per la sopravvivenza della nazio
ne: Maurras dedica la propria vita a cercare di convincere i compatrioti
che proprio per questa ragione la salvezza della Francia sta nella ditta
tura di un monarca. Spengler deplora che la monarchia prussiana si sia
lasciata andare a una democratizzazione, anche solo parziale.
Per Spengler, come per Maurras, se la democrazia liberale è la forma
di Stato in cui la politica è quanto di più lontano dal politico, la monar
chia assoluta è il regime che corrisponde perfettamente alla natura del po
litico: «Secondo un’evidenza che vige fin nel mondo animale, l’idea pri
mordiale dello Stato si è sempre legata al concetto di un monarca, di un
capo unico»; quindi la monarchia è naturale, appartiene alla natura della
vita, prolunga la natura sul piano statuale. Le folle umane, come le folle
animali, chiedono un capo, «sono “in forma” di fronte all’incalzare degli32
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È così che l’ideale dinastico assume un ruolo cruciale nella storia del
l’Occidente come la intende Spengler. La sua visione della formazione del
le nazioni e delle razze spiega il suo rifiuto del razzismo biologico nazista.
Il suo razzismo, e quindi il suo antisemitismo, erano fenomeni culturali, vi
cini piuttosto all’antisemitismo di Maurras e di Barrès. I popoli, afferma
Spengler, sono «di origine dinastica», la Germania è il prodotto «dell’idea
imperiale che ha fuso nella nazione tedesca una quantità di popoli primi
tivi del periodo carolingio», e in quanto al popolo francese, sottolinea
Spengler in un brano che sembra copiato testualmente da qualche scritto
di de Maistre, di Maurras o di Bainville, «deve la sua unità ai suoi re che
fusero in esso i franchi e i visigoti»: è «a Bouvines che esso imparò per la
prima volta a sentirsi come un tutto». Allo stesso modo la Prussia, «la na
zione più recente dell’Occidente [...], è creazione degli HohenzoUem»,2l!.
L’idea di patria è quindi il prodotto di un processo politico.
Che cos’è dunque la razza? Le razze, secondo Spengler, «non sono le
creatrici delle grandi nazioni, bensì la loro conseguenza. Nel periodo caro
lingio non esisteva ancora una sola razza». Ma è nel processo di formazio
ne della nazione nella cornice dinastica, che le «nazioni odierne» hanno
acquisito ciò che da esse «vien sentito e vien vissuto come razza»; è così
che si sono forgiati «i concetti storici [...] della purità di sangue e della pa
rità di nascita»529. Prima di tutto storica e non biologica, l’idea del sangue
e del suolo, legata a quella di patria e di specificità culturale, produce co
munque un violento antisemitismo, con le sue conseguenze pratiche: l’e
sclusione degli ebrei dalla comunità culturale, questa comunità di sangue
forgiata dalla storia alla quale essi non possono appartenere.
E evidente che qui Spengler inciampa nelle stesse difficoltà incon
trate da Carlyle e da Maurras. La comparsa di un grande uomo di Stato,
di colui che «il mondo antico designò come una divinità», e che diventa
«padre spirituale di una nuova razza», è prodotto dal caso, ma - e que
sta è la funzione essenziale del grande uomo - ha il compito di perpe
tuare la propria azione creando una tradizione. Poiché «creare una tra
dizione significa eliminare il caso»3283930. E in questo che uno Spengler, un
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336. Cfr., per esempio, Paul Bourget, Essais de psychologie contemporaine, Lemerre,
Paris 1885, 4‘ ed., p. 15: «Una nausea universale di fronte alle insufficienze di
questo mondo agita il cuore degli slavi, dei germani e dei latini e si manifesta
tra i primi col nichilismo, tra i secondi col pessimismo, tra noi con solitarie e
bizzarre nevrosi». Si possono, a titolo di esempio, consultare su questo sogget
to un numero speciale, dedicato alla decadenza, di Romantisme: Revue du Dix-
Neuvième siècle, n. 42, IV trimestre 1983, come anche l’edizione del 2000 del
mio Maurice Barrés et le nationalisme français (Fayard).
337. Spengler, Il tramonto dell’Occidente, vol. I, p. 96.
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culturale, poi etnico. Tale domanda può essere posta anche in modo di
verso: come stabilire il confine tra determinismo culturale e determini
smo etnico e razziale? L’ideale herderiano della separazione culturale è
all’origine di questa frammentazione e la xenofobia herderiana che si
manifesta nella sua visione della Francia così come nella visione di altri
popoli e culture, compresi i neri e gli ebrei, è alla base della filosofia del
la storia di Spengler, già nettamente biologica.
Il pensiero di Spengler costituisce l’ultima tappa di quella prepara
zione degli spiriti che, sola, doveva permettere il disastro del X X secolo.
È allora che giunge a termine il lungo processo di accumulazione le cui
prime basi sono state poste dalla rivolta herderiana contro la cultura dei
Lumi, seguita immediatamente da Ficthe e dalla generazione delle guer
re napoleoniche. Si può parlare di questo periodo nei termini usati da
Taine quando afferma che, ai tempi dei Lumi, la polvere da sparo si era
accumulata per esplodere infine con la Rivoluzione. La chiusura dei
mondi storici comincia con Herder, diventa poi sempre più ermetica per
giungere a essere completamente impermeabile con Spengler. Il deter
minismo biologico ne è la conseguenza logica.
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1. Per decisione del comune editore, Seeker & Warburg, in accordo cogli autori, l’o
pera della Arendt Le origini del totalitarismo è apparsa per la prima volta a Lon
dra nel 1951 col titolo The Burden of Our Time. Il libro di Talmon è uscito nel
1952 col titolo The Origins of Totalitarian Democracy.
2. A.D. Lindsay, The Modern Democratic State, Oxford University Press, London
1959, p. 14.
3. Si veda la sua «Introduction», in Social Contract: Essays by Locke, Hume and Rous
seau, Oxford University Press, London 1953 (P ed. 1947), p. LI.
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4. J.L. Talmon, Le origini della democrazia totalitaria, trad. di Maria Luisa Izzo
Agnetti, Il Mulino, Bologna 1967. Taine tuttavia non è citato nel testo e il suo no
me è accennato solo in una nota; e anche qui per criticare «il quadro esplicita
mente distorto fornito da Taine e altri del pensiero settecentesco» (pp. 357-358).
5. Su Becker, cfr. l’Epilogo.
6. Talmon, Le origini della democrazia totalitaria, pp. 357-358. Invece di essere con
finato nelle note, sarebbe più logico che questo avvertimento fosse stato posto al
l’inizio del volume, per mettere sull’avviso il lettore che avrebbe il diritto di po
tersi interrogare su questa scelta molto riduttiva.
7. In questo campo la sola differenza tra l’autore della Democrazia totalitaria e quello del
le Origines de la France contemporaine consiste nell’importanza che Talmon accorda
agli «irregolari del partito», Mably e Morelly, che Taine giustamente si limita a spaz
zare via (Le origini della Francia contemporanea. Cantico regime, pp. 413-414). Di Ma
bly non è presente alcuna citazione, Morelly ne avrà solo una alcune pagine dopo. Non
è privo di interesse constatare come Rousseau e Mably, che costituiscono i due pezzi
foni della dimostrazione di Benjamin Constant sulla tirannia moderna, hanno un ana
logo ruolo in Talmon e poi in Berlin. La domanda su perché proprio Mably sia di
ventato un rappresentante accreditato dell’Illuminismo francese trova probabilmente
la sua risposta in Constant. In effetti, a fianco della «metafìsica sottile del Contratto so
ciale [che] non giova, ai nostri giorni, se non a fornire armi e pretesti a tutti i generi di
tirannia», si trova Mably, «rappresentante di quella classe numerosa di demagoghi, be
ne o male intenzionati, i quali [...] parlavano di nazione sovrana affinché i cittadini
fossero più compiutamente assoggettati»: si veda Benjamin Constant, Dello spirito del
la conquista e dell’usurpazione nei loro rapporti con la civiltà europea, trad. di Augusto
Donaudy, Rizzoli, Milano 1961, pp. 101 e 103. Viceversa per Meinecke Mably non è
altro che un superficiale chiacchierone: Le origini dello storicismo, p. 154.
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il postulato per cui la storia ha uno scopo e una conclusione e che per rag
giungere questi obiettivi la vita e la società devono essere rimodellate da
capo a fondo. La storia viene in questo modo sostituita dalla sociologia,
sostiene Talmon. Secondo lui questo postulato, che ha assunto grande for
za alla vigilia della Rivoluzione francese, costituisce il denominatore del
comuniSmo, del socialismo e di altre scuole di pensiero della stessa ten
denza. In pratica, dopo il declino della credenza in una sanzione religiosa
e dell’idea di peccato originale, con l’avvento dell’età della ragione, la fe
de nell’uomo naturalmente buono o almeno perfettibile guadagna terre
no e con essa l’idea che, siccome gli impulsi naturali dell’uomo sono buo
ni, questi impulsi si armonizzerebbero da soli, una volta liberati dalle pa
stoie che li intralciano, mentre la conciliazione dei diversi interessi si rea
lizzerebbe anch’essa da sola. La struttura coesiva dell’universo è una ga
ranzia della possibilità di realizzare uno stato di giustizia assoluta. Allo
stesso tempo si è insegnato agli uomini che avevano diritto alla felicità e
che la dottrina laica dei diritti dell’uomo, che sostituisce la dottrina reli
giosa del peccato originale, sollecitando appetiti che mai avrebbero potu
to essere soddisfatti, invece di aver creato la felicità genera di fatto un’ac-
cresciuta miseria. La dottrina dei diritti dell’uomo si traduce pertanto in
un utilitarismo volgare. In tal modo si apre la strada alla demagogia e al
l’appello ai dittatori ritenuti in grado di appagare i nuovi appetiti9.
La tragedia dell’utopismo, secondo Talmon, sta nel fatto che «inve
ce di una riconciliazione tra libertà umana e coesione sociale, ha appor
tato una coercizione totalitaria»101. Il totalitarismo è quindi il risultato del
rifiuto della tradizione, delle abitudini o anche dei pregiudizi, e il pro
dotto della fede nella ragione come unico criterio di comportamento
umano. La ragione, come le matematiche, rappresenta in questo campo
la verità esclusiva. Nei fatti la ragione, secondo Talmon, risulta la guida
più fragile e ingannevole, poiché nulla può impedire che tra un gran nu
mero di «ragioni», ognuna delle quali si pretende verità esclusiva, si sca
teni un conflitto che può essere risolto solo con la forza". Nel mondo
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12. Si veda un bel libro di Lionel Gossman, Basel in tbe Age of Burckhardt: a Study
in Unseasonable Ideas, Chicago University Press, Chicago 2000.
13. Talmon, Utopianism and Politica, pp. 16-21. Talmon non scriverà più niente di
davvero paragonabile a questa sua conferenza del 1957. Negli anni Sessanta una
contrapposizione tra ciò che secondo Talmon costituisce una internazionale de
gli utopisti con stato maggiore a Mosca e il mondo libero perde credibilità e il
tono comincia a cambiare. D ’altra parte la guerra arabo-israeliana dei Sei Gior
ni del 1967 apre per Talmon un’altra problematica che egli vivrà ormai con in
tensità senza pari fino alla morte nel 1980: lo scontro quotidiano col nazionali
smo integrale ebraico lo rende consapevole che i problemi del mondo moderno
e del suo paese sono altrove. Talmon, conservatore liberale classico, per il quale
il ritorno degli ebrei alla terra degli antenati era il mezzo per costruire una so
cietà libera e aperta, aveva capito molto presto ciò che Berlin, nazionalista her-
deriano da sempre, non coglierà, o non vorrà cogliere, nella grande tranquillità
di quella riserva naturale, spesso isolata dal mondo esterno, costituita da un col
legio di Oxford. Per Talmon il nazionalismo, che, nella sua variante ebraica e
israeliana, era esploso col movimento «per la Grande Israele», rimane sino alla
fine della sua vita un pericolo di bruciante attualità. Lo è ancora in questo inizio
del X X I secolo.
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15. «Isaiah Berlin in Conversation with Steven Lukes», pp. 94-96 e 107-108 [Tra fi
losofia e storia delle idee, p. 63].
16. Berlin/Jahanbegloo, En toutes libertés, pp. 52-53. L’abisso è davvero molto
profondo. Strauss infatti rivolge al relativismo di Due concetti di libertà una cri
tica demolitrice: in sintesi egli pensa che «il liberalismo come lo concepisce Ber
lin non può vivere né senza una base assoluta né con una base assoluta». Secon
do Strauss bisognerebbe sapere per quale motivo i principi che Berlin concepi
sce e trova validi (Strauss intende dire il relativismo dei valori) sarebbero essi
stessi sacri e non capisce perché anche «verità eterne di una civiltà» dovrebbero
essere sottoposte alle contingenze e dipendere dal riconoscimento loro accorda
to o al contrario negato dalle generazioni future. Strauss pensa che se tali valori
ne possiedono uno intrinseco ed eterno, il loro abbandono vorrebbe dire che le
generazioni le quali responsabili questa scelta avrebbero semplicemente scelto di
ricadere nella barbarie: si veda Leo Strauss, «Relativism», in Helmut Schoeck e
James W. Wiggins (a cura di), Relativism and thè Study of Man, D. Van N o
strand, New York 1961, pp. 136-139. Devo al mio amico Heinrich Meier, pro
fessore di filosofia all’Università di Monaco di Baviera, che sta pubblicando in
tedesco le opere complete di Strauss, la comunicazione di tale testo, del quale,
mentre scrivevo questo libro, ignoravo l’esistenza.
17. «Isaiah Berlin in Conversation with Steven Lukes», pp. 94-96 e 107-108 [Tra f i
losofia e storia delle idee, p. 63],
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20. Isaiah Berlin, Controcorrente. Saggi di storia delle idee, a cura di Henry Hardy,
trad. di Giovanni Ferrara degli Uberti, intr. di Roger Hausheer, Adelphi, Mila
no 2000. «Sono lieto di esprimere la mia sincera gratitudine a questo giovane
studioso quanto mai promettente» scrive Berlin in una «Nota dell’autore» posta
in testa alla raccolta, «per aver fornito un’esposizione così partecipe e limpida
delle mie idee sugli argomenti discussi in questi scritti» (p. IX).
21. Ibid., p. XVIII.
22. Benedetto Croce, Bibliografia Vichiana, accresciuta e rielaborata da Fausto Ni
colini, Ricciardi, Napoli, voi. I, 1947; voi. II, 1948. Si vedano a titolo di esempio:
Elio Gianturco, Joseph de Maistre and Giambattista Vico (Italian Roots of De
Maistre’s Politicai Culture) [Washington, D.C., 1937]; Henry Packwood Adams,
The Life and Writings of Giambattista Vico, Russell and Russell, New York 1970
( l 1ed. 1935); Thomas Mary Berry, The Historical Theory of Giambattista Vico,
Catholic University of America, Washington 1949.
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23. I traduttori sono rispettivamente Thomas Bergin e Max Fisch, Cornell Univer
sity Press. Su Berlin e Vico, cfr. Joseph Mali, «Berlin, Vico and thè Principles of
Humanity», in Mali e Wokler, Isaiah Berlin s Counter-Enlightenment, pp. 51-71.
Di Mali si può consultare anche The Rehahilitation ofMyth: Vico’s New Science,
Cambridge University Press, Cambridge 1992. E sintomo della vitalità degli stu
di vichiani la traduzione in ebraico della Scienza nuova, edita nel 2005 con una
eccellente introduzione di Mali.
24. «Isaiah Berlin in Conversation with Steven Lukes», pp. 96-97 [Tra filosofia e sto
ria delle idee, p. 65].
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smo dei valori deriva da Nietzsche, almeno per quanto riguarda Weber».
Berlin risponde: «Lo so, ma io ho proposto questa tesi in modo del tut
to indipendente, senza rifarmi in alcun modo a Nietzsche né a Weber»25.
È piuttosto sorprendente che un professore di filosofia a Oxford, e poi,
dal 1958, titolare della cattedra di teoria sociale e politica, non abbia mai
letto Nietzsche e Weber.
Comunque l’interesse principale del lavoro di Berlin, il centro vita
le dei suoi scritti, è l’attacco che egli muove contro l’Illuminismo fran
cese. Certo, il suo atteggiamento verso il XVIII secolo è a prima vista
pieno di contraddizioni, ma un esame globale della sua opera non lascia
dubbi sulle sue opzioni ideologiche. Nel 1990, in un’epoca in cui da
tempo ha cessato di scrivere, si dichiara «un razionalista liberale»,26
quando ha invece passato la maggior parte della sua carriera a combat
tere il razionalismo. Nel già visto colloquio con Ramin Jahanbegloo di
chiara di non avere interesse per Spinoza, poiché, dice «è troppo razio
nalista per me»27. In effetti sono Vico ed Herder che lo affascinano, H a
mann e Sorel, come anche Burke, che lo attirano, de Maistre che lo
prende. Tutti questi pensatori sono antirazionalisti dichiarati. Ma dove
Berlin diventa davvero incoerente è quando parla di Voltaire, di Helvé
tius, di D ’Holbach e di Rousseau. «I valori dei Lumi», dice, «che gente
come Voltaire, Helvétius, D ’Holbach e Condorcet esaltavano, mi sono
profondamente simpatici. [...] Questi uomini sono stati dei grandi li
beratori. Hanno liberato la gente da orrori, oscurantismo, fanatismo,
opinioni mostruose. Si levarono contro la crudeltà e l’oppressione, con
tro la superstizione e l’ignoranza, e contro un gran numero di cose che
rovinava la vita alla gente. È per questo che io sono al loro fianco.»28 Ciò
sarebbe perfetto e assolutamente normale da parte di un liberale, ma
purtroppo tutta la sua opera testimonia il contrario e rappresenta una
lunga e tortuosa lotta contro i Lumi francesi, condotta il più delle volte
sotto la parvenza di una storia delle idee e contro gli autori che lui stes
so ha appena citato.
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29. «Isaiah Berlin in Conversation with Steven Lukes», p. 91 [Tra filosofia e storia
delle idee, p. 89].
30. Berlin, «Il divorzio tra le scienze e gli studi umanistici», in Controcorrente, pp.
136-137.
31. Berlin, «Giambattista Vico e la storia della cultura», ne II legno storto dell’uma
nità. Capitoli della storia delle idee, a cura di Henry Hardy, trad. di Giovanni Fer
rara degli liberti,Adelphi, Milano 2004, pp. 87-88.
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mœurs et l’esprit des nations, seguito dal Siècle de Louis XIV, rappre
senta una messa in atto di questo metodo che Herder si limiterà a pro
seguire; ma, avendolo fondato sull’irrazionale, riuscirà soltanto a per
vertirlo. Poiché Voltaire temeva l’irrazionale, dubitava di tutto e per lui
tutto meritava di essere messo in dubbio. La ragione è il solo baluardo
possibile contro la barbarie, il fanatismo e la stupidità” . Figura emble
matica deirilluminismo francese, prototipo dell’intellettuale impegna
to, profeta della tolleranza, Voltaire nel corso del X IX e X X secolo è
stato odiato dalla destra clericale, poco amato dalla sinistra che gli rim
proverava il suo versante borghese e «capitalista». Ancora oggi Voltai
re è pesantemente criticato per il suo antisemitismo: le critiche sareb
bero giustificate se ci si desse la pena di precisare che in discussione è
la religione in quanto tale. Tuttavia, è soprattutto dagli antirazionalisti
che egli viene combattuto. E proprio il suo razionalismo che gli ha pro
curato anche l’ostilità di Berlin, nonostante l’elogio della libertà fatto
da Voltaire nel Dictionnaire philosophique preceda il suo di più di due
secoli” .
Non è tutto: secondo Berlin Voltaire ha la responsabilità diretta del
totalitarismo. «I sistemi totalitari moderni», scrive, «combinano effetti
vamente, nei loro atti se non nel loro stile retorico, gli orizzonti di Vol
taire e di de Maistre.»3234 Per quanto grandi siano le differenze tra le idee,
i loro «atteggiamenti mentali mostrano spesso una qualità straordinaria
mente simile»: non si trova in loro «un benché minimo cedimento alla
mollezza, all’indeterminatezza o all’autoindulgenza intellettuale o senti
mentale [...]. Sono dalla parte della luce ferma e secca contro la fiam
mella tremolante». Il loro pensiero presenta una «gelida, levigata, chiara
superficie». Voltaire, «è vero, non difende né il dispotismo né l’ingan
no», ma a lui «si può chiedere di togliere di mezzo tutte le illusioni libe-
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Gli antilluministi della guerra fredda
rali»” . Qui ancora una volta non si può fare a meno di chiedersi dove
precisamente sia andato a finire Berlin nella sua lettura di Voltaire. Dav
vero Voltaire è impegnato a far perdere al mondo moderno tutte «le il
lusioni liberali» od organizza invece una straordinaria difesa dei diritti
dell uomo? Nello stesso contesto, quando si parla di liberalismo, è ridi
colo vedere il padre psicologico del totalitarismo in Voltaire, l’autore, nel
1763, in seguito all’affare Calas, del famoso Traité sur la tolérance, l’uo
mo che non ha mai cessato di combattere per la tolleranza, per la libertà
di espressione e per l’eguaglianza davanti alla legge, mentre Machiavelli
ne esce come uno dei grandi fondatori del pluralismo. Il pensiero del
l’autore del Principe è forse meno «gelido e levigato» di quello di Vol
taire? L’autore del Traité, che si ispira alla Lettera sulla tolleranza scritta
nel 1685-1686 da Locke esiliato in Olanda, ha forse prodotto un modus
operandi politico paragonabile a quello di Machiavelli?
Difensore delle vittime del sistema penale francese dell’epoca, Vol
taire, è noto a tutti, conduce una lunga e difficile campagna per la riabi
litazione dell’ugonotto tolosano Jean Calas, accusato nel 1762 di omici
dio, condannato e giustiziato. Voltaire impiega quasi due anni della pro
pria vita per la revisione del processo da parte del Consiglio del re e per
ottenere risarcimenti per la famiglia. È durante questa campagna per i
diritti dell’uomo che inizia a difendere anche la causa dei poveri e dei di
seredati in generale3536. Come si può riconoscere nella caricatura fatta da
Berlin l’eremita di Ferney, cui è interdetto il soggiorno a Parigi da Luigi
XV, l’autore delle Lettres philosophiques, uno dei più bei manifesti mai
scritti in favore della liberazione dell’uomo dall’irrazionale, dall’oscu
rantismo, dalle superstizioni e dai pregiudizi? Vi si può cogliere lo scrit
tore che professava un’ammirazione sconfinata per l’Inghilterra illumi
nata, per le sue libertà, mitiche o reali, per l’equilibrio dei poteri rag
giunto oltremanica e per il sistema politico britannico in generale? Si
può identificare, in questo stravolto ritratto di fondatore del «dispoti-
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37. Berlin, «Joseph de Maistre e le origini del fascismo», ne II legno storto dell'uma
nità, p. 241.
38. Voltaire, Dizionario filosofico, p. 438.
39. Ibid., p. 291.
40. Berlin, Freedom and its Betrayal: Six Enemies o f Human Liberty, Princeton Uni
versity Press, Princeton 2002. [La libertà e i suoi traditori, a cura di Henry Hardy,
trad, di Giovanni Ferrara degli Uberti, Adelphi, Milano 2005]. Pubblicati a cu
ra del suo esecutore testamentario Henry Hardy, questi testi sono invecchiati
molto male.
41. Berlin, Freedom and its Betrayal, p. 5 [La libertà e i suoi traditori, p. 29].
Gli antilluministi della guerra fredda
buone leggi. Qui bisogna aprire una parentesi: un altro grande re
sponsabile è Locke, che per la sua visione dei «vizi» e delle «virtù»,
che rimarrebbero « “per la maggior parte [...] gli stessi ovunque” , in
quanto “sono assolutamente necessari a tenere assieme la società uma
na”», viene riconosciuto colpevole di una dottrina utilitaristica assai
pronunciata4243. Locke ha quindi le stesse responsabilità di Helvétius;
tuttavia Berlin capisce che, anche se la visione della libertà di Locke
non è quella di una libertà negativa, fare di lui un nemico della libertà
pura e semplice comporterebbe, allineandosi a Burke, una definitiva
collocazione nel campo antidemocratico. Per combattere l’utilitari
smo senza distaccarsi apertamente dal liberalismo inglese, è sufficien
te prendersela con Helvétius, per il quale, come per tutti i philosophes
nella visione di Berlin, l’uomo appartiene alla natura ed è di «infinita
malleabilità», nient’altro che «un pezzo di argilla»: sarebbe dunque
criminale - questo è il senso che Berlin dà alle idee di Helvétius - la
sciare il governo degli uomini nelle mani di animi malvagi45. Berlin gli
rimprovera di vedere nell’interesse individuale la forza motrice del
comportamento umano. Tutta la sua filosofia, dice, è basata in primo
luogo sulla convinzione che il fine che muove gli uomini consista «nel
perseguire il piacere e nell’evitare il dolore», e poi che, per giungere a
ciò, essi hanno bisogno di capire il mondo e di capire se stessi, ovve
ro di sapere ciò che è realmente buono per loro. A questo scopo ser
vono loro delle guide e non si può concepire guida migliore della
scienza e individui più adatti a guidare gli uomini degli scienziati44.
Così, afferma Berlin, siamo diventati «animali addestrati a cercare sol
tanto ciò che gli è utile». E prosegue: «Una cosa è chiara: nel tipo di
universo descritto da Helvétius c’è poco spazio, o nessuno spazio, per
la libertà individuale. Nel suo mondo gli uomini possono forse diven
tare felici, ma la nozione di libertà finisce per scomparire. Scompare
perché, essendo tutti ormai condizionati a fare soltanto il bene, non
c’è più la libertà di fare il male»45. Il sistema utilitario di Helvétius
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55. «Isaiah Berlin in Conversation with Steven Lukes», p. 88. Su Voltaire si veda a
p. 91 [Tra filosofia e storia delle idee, pp. 58-59 e p. 59].
56. Berlin, «Sul presunto relativismo nel pensiero europeo del Settecento», ne II le
gno storto dell'umanità, pp. 113-114. Si veda anche alle pp. 73 e 119-120.
57. Meinecke, Historism. The Rise o f a New Historical Outlook, pp. 108-114 [Le ori
gini dello storicismo, pp. 108-114].
58. Berlin, «Giambattista Vico e la storia della cultura», p. 87, e «L’apoteosi della vo
lontà romantica», p. 295, ne II legno storto dell’umanità. F interessante notare
qui le riflessioni di Hausheer. Secondo lui l’autore dell’Erpr/7 des Lois ha la sim
patia di Berlin perché è solo a metà uomo dei Lumi, dato che il suo poco entu
siasmo per i progetti radicali infastidiva i suoi contemporanei più ottimisti, la cui
visione era più razionalista e più lineare. In realtà, «nel profondo del suo cuore»,
Montesquieu non è un razionalista, non è un cartesiano, e «la sua pratica smen
tisce le sue dichiarazioni». Qui si fa un passo ulteriore: sul concetto di uomo in
generale, Montesquieu prova solo una profonda diffidenza. Si veda Roger
Hausheer, Introduzione a Isaiah Berlin, Controcorrente, pp. XXXVI-XXXVII.
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59. Berlin, «Sul presunto relativismo nel pensiero europeo del Settecento», ne II le
gno storto dell'umanità, p. 116.
60. Ibid.
61. Berlin, Freedom and its Betrayal, p. 20 [La libertà e i suoi traditori, p. 49].
62. Ibid., p. 26 [p. 57].
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soprattutto con Tocqueville, si pensa che i doveri del cittadino siano una
condizione della libertà: nessuno può godere dei propri diritti senza
adempiere i suoi obblighi di cittadino. Da Machiavelli in poi, la virtù e il
dovere sono le prime condizioni per l’esistenza dei diritti. Gli uomini
hanno uno scopo comune, che è quello di restare liberi: tutti condivido
no questa finalità comune ed è ciò che permette loro di perseguire fina
lità distinte6. Per Rousseau gli uomini devono volere essere autonomi
perché devono volere essere uomini, non schiavi o animali; devono vo
lere òhe in loro le azioni siano determinate dalla loro volontà; devono
quindi voler sfuggire alla stretta della volontà altrui, devono volere ciò
che sono destinati a èssere per loro natura, degli esseri morali. In questo
contesto, richiamandosi al brano famoso a proposito del quale l’autore
del Contrai social solitamente viene più attaccato, Jean-Fabien Spitz rias
sume ottimamente il ragionamento di Rousseau. L’idea secondo la quale
la legge mi costringe a essere libero significa che essa punisce tutte le in
frazioni commesse da me o dagli altri contro di me. Una infrazione non
punita diventa un privilegio per chi la commette; il privilegio distrugge
la libertà poiché toglie a coloro che ne sono privi ogni obbligo di co
scienza di obbedire alle leggi e di rispettare i diritti dei loro concittadi
ni. Questo obbligo è il nerbo della libertà, poiché è ciò che permette ai
cittadini di uno Stato libero di vivere in relazioni di diritto sostitutive
della violenza della natura: i loro reciproci rapporti sono regolati dall’i
dea di ciò che essi si devono e non dal timore delle punizioni6768.
E questa la linea di pensiero che i critici dei Lumi, da Herder a
Burke fino a Berlin, respingono. Il vero punto dolente si presenta quan
do Rousseau rifiuta di accettare l’ordine esistente, un ordine in cui la
legge è strumento di oppressione: invece di instaurare la giustizia e l’e
guaglianza, essa convalida giuridicamente il sistema che sta alla base del
le società del suo tempo, cioè il diritto del più forte: «Il più forte non sa
rebbe mai abbastanza forte per essere sempre il padrone, se non tra
sformasse la sua forza in diritto e l’obbedienza in dovere»69. Per Berlin,
67. J.-F. Spitz, La Liberté politique: Essai de généalogie conceptuelle, Presses univer
sitaires de France, Paris 1995, pp. 158-166.
68. Ibid., pp. 173-174.
69. Rousseau, Il contratto sociale, libro I, cap. 3, p. 13.
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Gli antilluministi della guerra fredda
78. Benjamin Constant, Dello spirito di conquista e dell’usurpazione nei loro rapporti
con la civiltà europea, trad. di Augusto Donaudy, Rizzoli, Milano 1961, p. 102.
79. François-René de Chateaubriand, «Essai historique, politique et moral sur les ré
volutions anciennes et modernes», in Œuvres complètes de Chateaubriand, Gar
nier Frères, Pari 1861, vol. I, p. 320.
80. Ibid., p. 343.
81. Ibid., pp. 549-550. Si veda anche aile pp. 553-557.
82. Friedrich Nietzsche, Umano, troppo umano, trad. di Sossio Giametta, Adelphi,
Paris 1979,1.1, p. 261.
83. Si veda Tean Lacoste, «postface», in Friedrich Nietzsche, Œuvres, éd. dirigée par
Jean Lacoste et Jacques Le Rider, Laffont, «Bouquins», Paris 1993, p. 1303.
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98. «Isaiah Berlin in Conversation with Steven Lukes», pp. 92-93 [Tra filosofia e sto
ria delle idee, p. 62],
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Gli antilluministi della guerra fredda
102. Si veda Vico and Herder [Vico e Herder]. Le differenze tra questa prima edi
zione e quella uscita dopo la morte di Berlin testimoniano il lavoro editoriale
compiuto da Hardy. Si veda Three Critici of thè Enlightenment, opera ripub
blicata dalla Princeton University Press nel 2000, che riprende Vico and Her
der [Vico e Herder] aggiungendo il saggio su Hamann. Per i cambiamenti e le
aggiunte si veda alle pp. 160-161 [pp. 200-201] di Vico and Herder del 1976,
dove Berlin prende tre citazioni da un’opera in russo, logan Gotfrid Cerder,
pubblicata a Mosca e a Leningrado nel 1959. Nel primo caso si tratta di Briefe
zur Beförderung der Humanität (Lettere per l’avanzamento dell’umanità) del
1793-1797, nel secondo caso è una citazione della quale Berlin non dice l’ori
gine e nel terzo si tratta di Arastea. Tutte e tre sono risolte con un unico riferi
mento di nota. Hardy ha verificato, sopprime la prima e seconda citazione a p.
160 [p. 200] che rimandano all’opera in russo e le sostituisce con due note (p.
184 dell’edizione del 2000) che rimandano all’edizione Suphan, la nota 6 rife-
rentesi al volume V, p. 546, cioè ad Ancora una filosofia della storia, l’altra al
volume XXIII, p. 498, quindi ad Arastea, e vi pone in mezzo la nota 5, che rin
via al volume X V II1, pp. 222-223, cioè alla lettera 44 e non alla 114 delle Let
tere per Vavanzamento dell’umanità. Un procedimento simile è usato per la no
ta 4 della p. 161 [22 a p. 201] dell’edizione del 1976. I due rinvìi al volume V
di Suphan vengono con ogni evidenza dall’opera di Frederick M. Barnard,
Herder on Social and Politicai Culture-, Hardy elimina il primo, in quanto erro
neo, lascia il secondo e sopprime il riferimento a Barnard, erudito britannico
che nel mondo anglofono rappresenta una fonte importante per la conoscenza
di Herder e che Berlin ha letto attentamente. Occultare sistematicamente le
fonti secondarie e rimpiazzarle con rinvìi a testi non citati da Berlin non è un
procedimento elegante. Le cose vanno in modo analogo alla fine del lungo pa-
579
Gli antilluministi della guerra fredda
ragrafo della stessa p. 161 [p. 201] del testo del 1976 (p. 185 dell’edizione del
2000): il fedele Hardy riscrive questo passo in terza persona e trasforma in pa
rafrasi un testo che Berlin offre ai lettori sotto forma di citazione diretta tra vir
golette e in prima persona, cosa che solleva dubbi sulla lettura delle fonti fatta
da Berlin. Un altro esempio, e si tratta di nuovo di Ancora una filosofia della
storia: la p. 191 [p. 220] di Vico and Herder, diventata p. 216 di Three Critics
of thè Enlightenment, si trova repentinamente coperta da sette note che ri
mandano tutte all’opera del 1774 e che non esistono nel testo originale. La p.
176 [p. 215] del testo del 1976 in cui Berlin rinvia all’opera di Barnard (note 1
e 2) [note 20 e 21 a p. 255] si riferiscono ora anch’esse al volume V dell’edi
zione Suphan, cioè ad Ancora una filosofia della storia-, si veda p. 201. Stesso
procedimento alle pp. 178-179 [pp. 217-218]: Barnard (nota 3 a p. 179) [nota
28 a p. 256] sparisce ed è rimpiazzato dalla nota 2 a p. 204 e tutta questa nota
viene riscritta; la nota a p. 203 non esiste a p. 178 [p. 217] dell’originale; stes
so lavoro a p.180 [p. 219] deH’originale (p. 205 della nuova edizione). A p. 223
dell’edizione del 2000 si constata la comparsa di due note che non esistono a
p. 197 [p. 226] del testo originale, e la nota che rinvia al testo di Voltaire è ri
prodotta con rinvio all’edizione delle Œuvres complètes del 1877-1885, mentre
Berlin cita un’edizione del 1785. Un’altra citazione attinta da un articolo del
Journal o f thè History o f Ideas è stata molto opportunamente sostituita da un
altro volume delle Œuvres complètes. Si veda anche p. 198 [p. 227] di Vico and
Herder confrontandola con la p. 223 di Three Critics o f thè Enlightenment.
103. In Francia un buon esempio è l’eccellente opera di Jean-Fabien Spitz, La Li
berté politique: Essai de généalogie conceptuelle, pp. 83-127. Questo fenomeno
lascia ancora più stupiti se si paragonano le sue dimensioni alla relativa oscu
rità nella quale resta immerso Michael Oakeshott, anche lui conservatore libe
rale, ma nel senso proprio del termine. In On Human Conduci [La condotta
umana, trad. di Guido Maggioni, Il Mulino, Bologna 1985] Oakeshott offre
una cornice teorica sofisticata per la visione del liberalismo che gli è propria,
una visione più raffinata di quella presente nella lezione inaugurale di Berlin,
davvero nella tradizione di Tocqueville e di Mili.
104. Quentin Skinner, «Un troisième concept de liberté», Le Débat, trad. dall’in
glese di Thierry Naudin, p. 133. Questo testo è la traduzione di una versione
abbreviata apparsa nella London Review o f Books (4 aprile 2002) della confe
renza inaugurale della serie «Isaiah Berlin Memorial Lectures» della British
Academy.
580
Gli antilluministi della guerra fredda
Conviene qui ricordare che Berlin sta attento a non inciampare in diffi
coltà come la questione della libertà civile, che si pone invece il conser
vatore liberale Michael Oakeshott - in che modo conciliare il principio
di non interferenza col problema di una certa identità tra libertà e leg
ge105- né in quelle che Tocqueville cercava di risolvere. In verità, per un
liberale come Tocqueville l’alternativa libertà negativa/libertà positiva è
quasi incomprensibile. Egli sa che la semplice esistenza di una garanzia
di diritti individuali sotto un regime costituzionale non basta per fare uo
mini liberi. Per lui la libertà non sta soltanto nella salvaguardia, intorno
all’individuo, di una zona di non-interferenza, ma nella sua capacità di
unirsi ai suoi concittadini per dominare la propria sorte. Ciò che stupi
sce Tocqueville è la capacità degli americani di riunirsi per governarsi da
soli senza attendere la protezione di un sovrano. In un capitolo affasci
nante della seconda parte della sua grande opera, egli fa vedere «come
gli americani combattono l’individualismo con la dottrina dell’interesse
bene inteso»106107.Nella prima parte volge lo sguardo alle associazioni po
litiche ed esamina la loro utilità per i «popoli democratici»lW. Non è la
sciando l’individuo a se stesso che lo si salva dal «dispotismo», bensì in
segnandogli ad associarsi ai suoi simili per governarsi da solo: è con la
stessa democrazia che si potranno superare i pericoli che f eguaglianza
presenta per la libertà108. Per Tocqueville la partecipazione del cittadino
agli affari della comunità, l’esercizio della sua sovranità, la sua capacità
di essere padrone di se stesso restano una condizione sine qua non della
libertà; la partecipazione politica consolida e sviluppa i costumi della li
bertà. Viceversa è proprio chiudendosi nella sfera del particolare, con
cependo la libertà solo in termini di non-intervento e vedendo nella li
bertà positiva il più grande pericolo che possa minacciare l’individuo,
che il cittadino finisce per provocare lui stesso l’intervento dello Stato e
della società. Solo gli uomini che non hanno «rinunciato all’abitudine di
dirigersi da soli» potranno essere capaci di «ben scegliere coloro che
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Gli antilluministi della guerra fredda
582
Gli antilluministi della guerra fredda
113. Isaiah Berlin, Two Concepts of Liberty, Clarendon Press, Oxford 1963, p. 14.
114. Ibid.
115. Ibid., pp. 7-11, 16 e 56-57. Berlin dà la definizione più succinta di libertà ne
gativa in termini di «freedom from» come contrario di «freedom to».
116. Ibid., p. 10, nota 1 (tra virgolette nel testo).
583
Gli antilluministi della guerra fredda
don School of Economics, che Berlin detestava senza mezzi termini per
via del fondo marxista del suo pensiero, aveva espresso, molti anni pri
ma di Berlin, la posizione classica della socialdemocrazia. Contro Acton,
il teorico conservatore del X IX secolo, il quale diceva che «la passione
per l’eguaglianza rende vana la speranza di libertà», Laski, autore di una
bella introduzione a La Démocratie en Amérique, risponde che, mancan
do certi elementi di eguaglianza, la libertà non può diventare reale117.
Non è strano che Laski si sia identificato con la concezione della libertà
di Tocqueville: dopo tutto, fin dalle origini, il socialismo democratico si
considera come il successore del liberalismo illuminato e non come il suo
becchino. E appunto contro questa linea fondamentale della cultura po
litica moderna che Berlin parte in guerra.
Poi Berlin affronta la nozione di libertà positiva: questa, associata
comò all’idea di autonomia, di autorealizzazione (self-fulfilment) e di capa
cità dell’individuo di essere padrone di se stesso, rappresenta in pratica il
contrario di tutto ciò cui Berlin aspira. Nella sua mente la libertà positiva
consiste nel subordinare 0 nostro comportamento al controllo del nostro io
«ideale», «vero», «reale» o «superiore». Non si tratta più di eliminare gli
ostacoli che impedirebbero all’individuo di esercitare la propria libertà e di
raggiungere i molteplici obiettivi, per quanto poco compatibili possano es
sere, che gli si presentano, ma di fare in modo che, dopo avere riconosciu
to la verità, egli cominci a esercitare la propria libertà per raggiungere il be
ne. Tale concezione della libertà permette di costringere gli uomini «a es
sere liberi», e così alla fine sfocia nella sottomissione dell’individuo sia alla
volontà generale di Rousseau sia alla necessità storica marxista118.
In realtà l’idea di libertà positiva, che è alla base della democrazia,
ha ben poco in comune con la descrizione fattane da Berlin. La libertà
positiva significa prima di tutto l’esigenza di autonomia invocata da
Kant, la volontà di uscire dalla stato di tutela e la capacità di realizzare
certi obiettivi. Il senso primo della libertà positiva è chiaramente la par
tecipazione alla sovranità. E proprio questa la ragione dell’odio che
117. Harold Laski, Liberty in thè Modem State, with a New Introduction, Penguin
Book, Harmondworth 1937, p. 7.
118. Berlin, Two Concepts o f Liberty, pp. 16-17. Si può consultare il saggio intro
duttivo di Alan Ryan in Alan Ryan (a cura di), The Idea of Freedom. Essays in
Honour o f Isaiah Berlin, pp. 4-5.
584
Gli antilluministi della guerra fredda
Berlin ha per Rousseau: per quest’ultimo la libertà esiste solo per l’uomo
che faccia delle scelte e che si sottometta solo a leggi alla formulazione
delle quali lui stesso abbia contribuito. Questo è ii significato della no
zione di «volontà generale» ed è così che la intende Kant. Sappiamo che
Rousseau era stato il grande maestro di Kant, colui che gli aveva inse
gnato a rispettare gli uomini. Infatti su che cosa precisamente si può fon
dare il principio di sovranità del popolo se non sul diritto di ognuno a
partecipare alla formulazione delle leggi e all’assunzione delle decisioni
politiche? Si tratta dunque di sapere «chi governa» e questo interrogati
vo è altrettanto importante del problema riguardo ai limiti dell’interven
to dello Stato. Ossessionato dalla sua paura del marxismo, Berlin offre
una argomentazione unidimensionale, senza sfumature, poco compatibi
le, come già Tocqueville sapeva benissimo, con la democrazia. Egli pensa
che la libertà positiva distrugga la pluralità dei valori, che implichi l’esi
stenza di una gerarchia dei valori, la quale porta a una deriva, cioè alla vo
lontà generale, e la volontà generale a sua volta porta alla morte della li
bertà negativa: ciò significa la condanna della libertà pura e semplice119.
119. Le critiche rivolte a Berlin, implicite, cortesi e moderate, o più radicali e più
violente, sono numerose: in francese si potrà consultare l’opera di Jean-Fabien
Spitz, La Liberti politique, che ne traccia un’eccellente analisi dalla critica clas
sica di Charles Taylor fino alla critica di ispirazione marxista di McPherson
passando da Skinner, senza dimenticare le critiche più dure che seguirono l’ap
parizione di Two Concepts o f Liberty, si veda in particolare alle pp. 97-121. In
tutto il suo libro Spitz fornisce ogni elemento di una critica «repubblicana»
francese, intelligente, colta, ma che avrà molte difficoltà a imporsi fuori della
Francia. L’opera diretta da Alan Ryan, The Idea of Freedom, già citata, nono
stante il suo tono generale estremamente laudativo, contiene diverse riserve: si
veda soprattutto il contributo di Taylor, «What’s wrong with Negative Li
berty», pp. 75 e sgg. [«Cosa c’è che non va nella libertà negativa», in Ian Car
ter e Mario Ricciardi (a cura di), Uidea di libertà, pp. 75-99], Skinner ritiene
che la dimostrazione di Berlin non sia valida perché le conclusioni si trovano
già nelle premesse. Sono pertanto le premesse stesse di libertà negativa, come
si trovano formulate in Berlin, che devono essere riconsiderate. Si veda Quin
tin Skinner, Liberty before Liberalism, Cambridge University Press, Cambridge
1998, pp. 114-115 [La libertà prima del liberalismo, a cura di Marco Geuna, E i
naudi, Torino 2001, p. 73]. Si veda anche William L. McBride, « “Two Con
cepts of Liberty” Thirty Years Later: A Sartre-Inspired Critique», Social
Theory and Practice, voi. 16, III, autunno 1990, pp. 297-322.
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Gli antilluministi della guerra fredda
120. Berlin, Introduction, Four Essays on Liberty, Oxford University Press, Oxford
1969, p. LVIII, nota 1 [Introduzione, Quattro saggi sulla libertà, trad. di Mar
co Santambrogio, Feltrinelli, Milano 1989, p. 63, nota 36]. Questo volume si
trova a sua volta incorporato in una terza antologia, Liberty [Libertà, trad. di
Gianlazzaro Rigamonti e Marco Santambrogio, Feltrinelli, Milano 2005].
121. «Isaiah Berlin in Conversation with Steven Lultes», p. 92 [Tra filosofia e storia
delle idee, p. 62].
122. lbid., p. 112 [p. 79],
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G li antilluministi della guerra fredda
123. Berlin, «L’apoteosi della volontà romantica», ne II legno storto dell’umanità, p. 329.
124. Si veda sopra, al cap. 1.
125. Berlin, «Two Concepts of Liberty», in Four Essays on Liberty, p. 171 [«Due
concetti di libertà», in Quattro saggi sulla libertà, p. 235].
126. La difesa della memoria di Berlin passa tra l’altro attraverso la necessità di mo
strare che non esisteva alcun legame essenziale tra il pluralismo e la definizio
ne di libertà in termini di libertà negativa; si veda Bernard Williams, «Libera-
lism and Loss», in Mark Lilla et alti, The Legacy of Isaiah Berlin, p. 93.
587
G li antilluministi della guerra fredda
differenza degli uni per gli obiettivi perseguiti da tutti gli altri costituisce
una condizione della libertà.
L’esistenza di una pluralità di valori, senza che sia possibile effettua
re tra loro una scelta razionale, è appunto ciò che accosta Berlin ai gran
di nemici dei Lumi. Come loro, «egli rifiuta liste a priori di diritti natu
rali» ma sa che, per «poter avere una società abbastanza decente», «prin
cipi generali di comportamento» devono esistere. Tuttavia, sollecitato a
definire la sua posizione, Berlin diventa sfuggente: «Non chiedetemi co
sa intendo per decente. Per decente, intendo decente. Sappiamo tutti co
sa vuol dire»'2. Il problema è che le cose non stanno assolutamente così
e che non esiste alcun accordo sulla definizione di una società «decen
te»: affinché una società sia degna di questo titolo, per alcuni basta che
siano assicurate l’eguaglianza di fronte alla legge e la libertà individuale,
e che a tale scopo siano ridotte al mi,limo le facoltà di intervento dello
Stato nell’andamento dell’economia e della società; viceversa, per altri,
senza una certa dose di eguaglianza e di giustizia sociale, la libertà e il di
ritto di voto perdono molto del loro significato. Tra queste due visioni di
una società funzionante ne esistono molte altre intermedie. Per cui il ri
fiuto di Berlin di prendere posizione, in nome della pluralità dei valori,
su una questione cruciale del nostro tempo costituisce una forma di neu
tralità conservatrice che necessariamente convalida l’ordine esistente. È
proprio qui l’intoppo: gli Illuministi francesi pensavano che fosse possi
bile definire una società decente. In ciò sono tutti rivoluzionari: tutti
combattono forme di discriminazione e lo fanno in nome dei diritti na
turali. Rousseau ha fatto più di chiunque altro per giungere a ciò: per
questo è la bestia nera di Berlin e dei neoconservatori di oggi, come, due
secoli prima, lo era stata di Burke.
Il neoconservatore O ’Brien, scrivendo nel 1992, non si inganna di
molto quando ritiene che Burke non sia più reazionario dello stesso
Isaiah Berlin. Nel suo scambio di lettere con O ’Brien, Berlin non prote
sta contro questo paragone. La parola «reazionario» era stata utilizzata
da Berlin a proposito di Burke nel 1980. Dodici anni dopo, nonostante
qualche reticenza, confessa di essersi sbagliato e, cedendo alle rispettose
critiche di Conor Cruise O ’Brien, concede a Burke la qualifica di «libe-127
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G li antilluministi della guerra fredda
128. Berlin in Conor Cruise O ’Brien, The Great Melody, appendice, pp. 608 e 613.
Nel suo articolo «Sul presunto relativismo nel pensiero europeo del Settecen
to», Berlin aveva incluso Burke nel gruppo dei reazionari con Hamann, Justus
Mòser e de Maistre: Il legno storto dell’umanità, p. 122.
129. Berlin, Two Concepts of Liberty, p. 55.
589
G li antìlluministi della guerra fredda
tendere, come voleva Ranke, di ricostruire gli eventi come sono avvenu
ti realmente, non accetta l’idea di una pluralità infinita di verità. Le in
terpretazioni divergenti non sono altrettante verità divergenti.
E insomma in questa cornice concettuale che si inscrive il grande
progetto di Berlin. Questo è formulato in una pagina importante di un
articolo del 1972 raccolto poi ne 11 legno storto dell’umanità. Nella sua
mente si tratta di demolire il grande edificio dei Lumi, identificato con
la tradizione culturale stessa dell’Occidente. Secondo Berlin il nucleo
centrale di questa tradizione posa su «tre dogmi incontestati: a) che per
tutte le domande autentiche esiste una risposta vera, una sola, tutte le al
tre essendo deviazioni dalla verità e pertanto false [...]; b) che le rispo
ste vere a tali domande sono in linea di principio conoscibili; c) che que
ste risposte vere non possono scontrarsi l’una con l’altra, perché una
proposizione vera non può essere incompatibile con un’altra proposi
zione vera; che, prese insieme, queste risposte devono formare un tutto
armonioso»00. Due anni dopo, nel saggio su Hume, Berlin ripropone an
cora una volta la sua visione dell’Illuminismo. L’idea che l’antirazionali-
smo possa provocare quel genere di disastri analizzati da Richard Wolin
non lo sfiora nemmeno. È bene quindi vedere da vicino questo testo, cui
Berlin attribuisce molta importanza. Secondo lui i philosophes francesi e
i loro seguaci di altri paesi sono accomunati da «una versione secolare
della vecchia dottrina del diritto naturale, secondo la quale la natura del
le cose possiede una struttura permanente, immodificabile, e le diffe
renze e i mutamenti osservabili nel mondo sono essi stessi soggetti a leg
gi universali e immutabili. Ed era in linea di principio possibile scoprire
queste leggi mediante l’uso della ragione e dell’osservazione controllata,
di cui i metodi delle scienze naturali costituivano l’applicazione meglio
riuscita. [...] Secondo tale dottrina, tutte le domande autentiche erano
in linea di principio suscettibili di risposta: la verità era una, l’errore mol
teplice; le risposte vere non potevano non essere universali e immutabi
li, ossia vere ovunque, in ogni tempo e per tutti gli uomini, e doveva es
sere possibile scoprirle mediante l’uso corretto della ragione»130131. Berlin
130. Berlin «L’apoteosi della volontà romantica», ne II legno storto dell’umanità, p. 294.
131. Berlin, «Hume e le fonti dell’irrazionalismo tedesco», in Controcorrente, pp.
242-243. Si veda Wolin, The Seduction of Unreason.
590
G li antilluministi della guerra fredda
insorge contro ciò che lui chiama «dogmi», che definisce «monismo» o
anche idea utopica.
A questo proposito bisogna rileggere l’introduzione alla raccolta
Controcorrente, scritta da Roger Hausheer per conto di Berlin, per dare
al tempo stesso un riassunto e un’analisi del pensiero dell’autore. Hau
sheer vuole mostrare in cosa consista il maggiore e originale contributo
di Berlin alla storia delle idee. Berlin ritiene che, da Platone in poi, in
grandissima maggioranza i pensatori, malgrado le loro profonde diver
genze, abbiano ammesso un postulato centrale, che nemmeno discuto
no, cioè che la realtà costituisca nel fondo un tutto razionale, ove ogni
cosa perviene in fin dei conti alla coerenza. Suppongono che esista un
corpo di verità accessibili all’intelletto umano, comprendente ogni que
stione concepibile, sia teorica che pratica. Che, per accedere a queste ve
rità, ci sia un solo metodo giusto, o un solo insieme di metodi £ che que
ste verità, proprio come i metodi usati per scoprirle, abbiano una vali
dità universale. In questo contesto Berlin inizia a regolare i suoi conti col
positivismo logico ed esprime la propria acuta consapevolezza dèll’infi-
nita diversità delle esperienze: egli sa che questa diversità è irriducibile.
Qui Hausheer aggiunge una annotazione importante: il rifiuto di Berlin
per Hume, Russell, Carnap, del primo Wittgenstein, del Circolo di Vien
na e delle principali tendenze del positivismo logico con i loro metodi,
che mirano a levigare e appiattire il reale, è paragonabile al rifiuto di Vi
co per Descartes, o di Hamann ed Herder per la filosofia francese dei
Lumi. È il legame che sente verso di loro che gli ha permesso di studiar
li con tanta simpatia e profonda comprensione1’2.
«Sotto un certo aspetto», prosegue Hausheer scrivendo a nome di
Berlin, «l’intera œuvre filosofica di Berlin può essere vista come una
lunga battaglia, talora aperta, altre volte celata, ma sempre sottile, inge
gnosa e risoluta, contro la facile applicazione di modelli e concetti ina
deguati nel campo delle scienze umane. [...] Berlin mette infatti in
stancabilmente in guardia contro due pericoli mortali: quello di ab
bracciare sistemi onnicomprensivi [...] e quello di trasferire metodi e
procedure da una disciplina [...] a un’altra.»1” In altri termini, Berlin132
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G li antilluministi della guerra fredda
Esistono, dice Vico, tre fonti della conoscenza storica che non mentono
mai: la lingua, i miti e gli usi e costumi antichi141. Vico sviluppa questa te
si, dice Berlin, con erudizione, fantasia e audacia142. I suoi bersagli sono
in primo luogo Descartes e i cartesiani, che si sono completamente sba
gliati a proposito delle matematiche. Queste possono rilevare regolarità,
le occorrenze dei fenomeni del mondo esteriore, ma non ci permettono
né di accedere alla ragione essenziale di queste occorrenze né alle loro fi
nalità. Noi non possiamo conoscere la natura poiché questa non è ope
ra nostra. Tuttavia ciò contro cui Vico davvero si batte è l’insieme della
teoria dei diritti naturali fondata sull’idea che «la natura umana fosse
fondamentalmente la stessa in tutti i tempi e luoghi; [...] che esistessero
mete umane universali»: il napoletano «si propose di scuotere i pilastri
su cui poggiava l’Illuminismo»14’ . «Ciascuno stadio del ciclo storico del
le culture [attraverso il quale tutte le nazioni dovevano passare] rac
chiude i propri autonomi valori, la propria visione del mondo, e in spe
cie la propria concezione dei rapporti degli uomini tra loro e con le for
ze della natura. [...] Secondo Vico, ciascuna di queste culture, o stadi di
sviluppo, non è semplicemente un anello di una catena causale o di una
sequenza contingente, ma una fase di un piano provvidenziale governa
to daH’intendimento divino. E ogni fase è incommensurabile rispetto al
le altre, poiché ciascuna vive di luce propria e può essere compresa sol
tanto nei suoi propri termini [...]. Se una civiltà viene interpretata o,
peggio ancora, valutata mediante l’applicazione di criteri che sono vali
di solamente per altre civiltà, il suo carattere verrà frainteso [...] e il re
soconto che ne risulta sarà [...] fuorviarne, [...] poco coerente, una me
ra associazione accidentale di eventi: insomma, qualcosa che assomiglia
alle divertenti parodie voltairiane dei secolo bui.»144 Questo è il contri
buto che Vico, con grande plauso di Berlin, ha dato alla cultura antillu-
minista. Tali formule torneranno infinite volte in quasi tutti i testi im
portanti di Berlin. Sono riprese e riassunte, in una maniera molto acces-
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145. Berlin, Vico and Herder, pp. XVI-XIX [Vico e Herder, pp. 22-26].
146. Berlin, Il mago del Nord. ].G. Hamann e le origini dell’irrazionalismo moderno, a
cura di Henry Hardy, trad. di Nicola Cardini, Adelphi, Milano 1997, pp. 24-25.
147. Ibid., p. 159.
148. Ibid, p. 157.
149. Ibid, p. 158.
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G li antilluministi della guerra fredda
anni dopo ma dagli inizi degli anni Sessanta la transizione verso l’antira-
zionalismo soreliano si svolge in maniera naturale. Sorel, il grande nemi
co delle costruzioni razionaliste e dei «modelli», l’ammiratore di Vico, lo
stroncatore di Socrate e della morale della polis di Pericle, l’autore che
basa le sue opere maggiori sull’esaltazione del mito contro l’utopia ra
zionalista, lo affascina. Sorel difende la morale dei combattenti di Mara
tona contro quella dei Lumi ateniesi e, per interposto V secolo greco,
scalza le fondamenta del Settecento francese. In Sorel Berlin apprezza
l’elaborazione di una mitologia sociale moderna grazie a tutti gli stru
menti creati dal bergsonismo, strumenti che peraltro Sorel avrebbe po
tuto trovare «altrettanto facilmente nei romantici tedeschi francofobi di
un secolo prima»: si tratta essenzialmente dell’idea «per cui la ragione è
un debole strumento a paragone della potenza dell’irrazionale e dell’in
conscio nella vita degli individui come delle società»168. Berlin guarda
con favore l’antirazionalismo di Sorel, nonostante le sue ossessioni anti
democratiche e il suo disprezzo per i valori liberali e per la socialdemo
crazia. Sorel ci ha insegnato che «non dalla conoscenza teoretica, ma dal
l’azione e soltanto dall’azione discende la comprensione della realtà.
[...] L’intelletto congela e distorce. [...] La realtà deve essere colta in
tuitivamente, per mezzo di immagini, come la concepiscono gli artisti, e
non mediante concetti, discorsi o ragionamenti cartesiani»169. Da Vico e
Hamann fino a Sorel e Berlin, è sempre presente la stessa linea di pen
siero: gli antilluministi, proprio come pensava Spengler, sono davvero di
tutti i tempi e di tutte le culture.
Se de Maistre è presentato come un fondatore del fascismo nono
stante la sua quasi impermeabilità al nazionalismo, rafforzata dal suo
orientamento verso un’Europa cristiana governata da Roma dal capo
della Chiesa cattolica, Sorel sfugge a questa definizione poco lusinghie
ra. Nonostante il suo culto per la violenza e per le minoranze attive, il
suo odio per la democrazia e per il liberalismo, il suo nazionalismo, la
sua xenofobia e il suo antisemitismo, nonostante i fondatori del fascismo
così come i primi fascisti francesi vedevano in lui il loro profeta, Berlin
resta soggiogato dalla critica soreliana al XVIII secolo, dal suo disprezzo
600
G li antillumirmti della guerra fredda
601
G li antilluministi della guerra fredda
172. Si veda Gay, I he Party o f Humanity: Essays in the French Enlightenment, pp.
284-285.
173. Roger Hausheer, Introduzione a Isaiah Berlin, Controcorrente, p. XLIX.
174. Mark Lilia, «What is Enlightenment», in Joseph Mali e Robert Wokler (a cura
di), Isaiah Berlin’s Counter-Flnlightenment, pp. 1-11.
175. John Robertson, «The Case for the Enlightenment: A Comparative
Approach», in Mali e Wokler (a cura di), Isaiah Berlin’s Counter-Enlighten
ment, p. 73. E interessante confrontare questo articolo con quello di Graeme
Garrard, «The Counter- Enlightenment Liberalism of Isaiah Berlin», Journal of
Political Ideologies, voi. 2, ottobre 1997, pp. 281-296. Garrard presenta un Ber
lin proprio come lui avrebbe voluto essere visto: il suo attacco ai Lumi sareb
be stato motivato dalle sue convinzioni pluraliste e quindi liberali.
602
G li antilluministi della guerra fredda
176. Berlin, «Il divorzio tra le scienze e gli studi umanistici», in Controcorrente, p. 137.
177. Berlin, Vico and Herder, pp. XXII-XXIII [Vico e Herder, p. 29].
178. Ibid., pp. 187-189 [pp. 227-229].
603
Gli antilluministi della guerra fredda
uomini non si possono combinare, essi non possono mai diventare ciò
che sono o sono stati altri uomini; scTogm civiltà"è unica, «come potreb
be allora esistere, sia pure in linea di massima, un ideale u niversalm ente
valido per tutti gli uomini, in tutti i tempi e in tutti i luoghi?»179
Una cinquantina di pagine prima Berlin presenta i tre pilastri del
pensiero di Herder, che egli interiorizza a tal punto che in pratica tutti i
suoi saggi costituiscono soltanto un lungo sviluppo dei tre temi herde-
riani: populismo, espressionismo (termine usato nel suo senso generico)
e pluralismo. Questi tre elementi, Berlin lo sa meglio di chiunque, sono
incompatibili con le dottrine morali, storiche ed estetiche dell’Illumini
smo1“". Qui si trova anche la smentita di un’idea spesso espressa dai di
scepoli di Berlin e qualche volta da lui stesso1811823:nonostante il suo libera
lismo peculiare, bloccato, Berlin non solo non può essere considerato un
esponènte dell’Illuminismo, neanche di quello che a volte è stato chia
mato Illuminismo «scettico», ma ne è uno dei critici più duri. La sua cri
tica è tutta herderiana: se infatti, per quel che riguarda il predicatore di
Weimar, la guerra al monismo, «il conflitto dell’Uno e dei Molti (The
One and thè Many), è la sua ossessionante idée maitresse»,m2 è proprio
questa idea - la guerra a ciò che lui chiama «il monismo» dei Lumi, co
me giustamente osserva Mark Lilla - che rappresenta il grande progetto
perseguito dallo stesso Berlin181. Quindi l’attacco ai Lumi è condotto per
mezzo di tutti gli autori il cui pluralismo ha l’approvazione di Berlin,
quali che siano le riserve su altri aspetti del loro pensiero: de Maistre e
Sorel e prima di loro, anticipatore, Machiavelli. Fondamentalmente per
Berlin i nemici del «monismo», del razionalismo e dei valori assoluti so
no suoi amici. Che gli sia potuta sfuggire la stridente incompatibilità tra
il liberalismo e la critica ai Lumi da parte dei loro peggiori avversari è
davvero poco credibile.
604
G li antilluministi della guerra fredda
605
G li antilluministi della guerra fredda
presa di coscienza nazionale nel senso che lui dà a questo termine non sia
sfociata in un nazionalismo intollerante. Per cui è difficile capire come,
dopo la Seconda guerra mondiale, si possa ancora plaudire a questa con
cezione organica della società e vedervi, in rapporto ai Lumi francesi, un
grande progresso, ovvero una forma di liberazione. Berlin esalta Herder
per avere affermato un’unità totale di tutti i settori della vita: non si può
separare il corpo dalla spirito, le scienze dalle arti, la descrizione dei fat
ti e la loro valutazione, così come non si può separare l’individuo dalla
società188. Questo è effettivamente l’organicismo herderiano, molto inno
vatore secondo Berlin e nel quale egli vede un grande progresso.
La simpatia che Berlin mostra per il nazionalismo è davvero fuori dal
comune. Disorienta il fatto che l’immagine da lui fornita di Herder sia
quella di un santino: il suo nazionalismo sarebbe tutto culturale, pacifi
co, mai politico, o comunque democratico, innocente, cristianissimo,
quindi universale, immutabile, centrato su una cultura comune; la varietà
non può comportare il conflitto in quel gran nemico dell’uniformità. Il
nazionalismo è il naturale bisogno di «appartenere» e la sua concezione
dell’identità nazionale è nient’altro che una copia conforme della defini
zione herderiana. In pratica tutta l’opera di Berlin è un riflesso del pen
siero di Herder: «Gli uomini si aggregano in gruppi perché sono consa
pevoli di ciò che li unisce, perché sono accomunati da un’origine, da una
lingua, da un suolo e da un’esperienza collettiva. Questi vincoli hanno un
carattere di unicità, sono impalpabili e definitivi. Le frontiere naturali so
no naturali agli uomini, nascono dall’interazione fra la loro intima essen
za e il loro ambiente e la loro esperienza storica»189.
A credere a Berlin, Herder rifiuta tutte le dottrine basate sull’antro
pologia; è più liberale di Kant e già preannuncia lo spirito individualista
e cosmopolita di Weimar190. Tuttavia, meno di venti pagine dopo, si ap
prende che, «se egli denuncia l’individualismo, parimenti detesta lo Sta
to»191. Non è questa la minore delle debolezze che costellano gli scritti di
188. Berlin, Vico and Herder, p. 201 [Vico e Herder, pp. 238-239].
189. Berlin, «Il declino delle idee utopistiche in Occidente», ne II legno storto del
l ’umanità, p. 68.
190. Berlin, Vico and Herder, pp. 157-163, 175-176, 182 [Vico e Herder, pp. 202
207,213-214,220],
191. lbid., p. 181 [p. 219],
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G li antilluministi della guerra fredda
192. Berlin, «Il declino delle idee utopistiche in Occidente», ne II legno storto del
l’umanità, pp. 69-70.
193. Ibid., pp. 68-69.
194. Berlin, «L ’apoteosi della volontà romantica», ne II legno storto dell'umanità,
pp. 312-313.
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195. Berlin, «Il declino delle idee utopistiche in Occidente», ne II legno storto del
l’umanità, p. 69.
196. Berlin. Vico and Herder, pp. XX1II-XXIV [Vico e Herder, pp. 29-30].
197. Berlin, «Sul presunto relativismo nel pensiero europeo del Settecento», ne II le
gno storto dell’umanità, p. 133.
198. Berlin, «L ’apoteosi della volontà romantica», ne II legno storto dell'umanità,
pp. 312-313.
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G li antilluministi della guerra fredda
della virtù, legate “da una catena indissolubile”; un ideale in nome del
quale il nostro tempo ha visto gli esseri umani sacrificare se stessi e i pro
pri simili in numero maggiore di quanto, forse, sia mai avvenuto per
qualsiasi causa in tutta la storia deU’umanità»199201.
Berlin non smette di insistere sull’importanza dei più implacabili
detrattori dei Lumi nella storia del pensiero politico, sul loro ruolo es
senziale di raddrizzatori di torti di fronte alle sventure che il mondo
moderno deve ai Lumi francesi. Vede in questi ribelli degli ammirevo
li guastafeste, mentre nei fatti è un nuovo conformismo duro e soven
te portatore di sventure senza fine che essi provocano. Gli è grato per
avere predetto che è il razionalismo, e non il nazionalismo tribale, a
portare verso un disastro inevitabile. Tuttavia ha anche dei dubbi. Per
esonerare i grandi nemici dei Lumi dalla responsabilità storica che lo
ro compete, mette le mani avanti: «G li uomini non sono responsabili
del corso delle loro idee e ancor meno delle aberrazioni a cui esse por
tano»*"'. Più avanti ribadisce: «E un errore storico e morale identifica
re l’ideologia di un periodo con le sue conseguenze in un altro perio
do o con la sua trasformazione in un altro contesto e in combinazione
con altri fattori»20’. Ma se qui si tratta di una lezione di metodo che il
professore di Oxford ci offre, come mai lo stesso principio non si ap
plica né a Rousseau né a Voltaire né a Helvétius, tutti e tre consacrati
199. Ibid., p. 330. È interessante vedere in questo contesto come Roger Hausheer,
la voce del padrone nello stretto senso del termine, spiega il contributo di Ber
lin. Egli si erge contro gli articoli di fede essenziali del Settecento: razionalismo
liberale, cosmopolitismo, scienza, progresso e organizzazione razionale. La
dottrina secondo la quale le scienze sperimentali costituirebbero la sola via esi
stente per accedere alla conoscenza, dottrina che escludeva ogni sapere tra
scendentale o non razionale, riuniva, dice l’esegeta di Berlin, i principali arti
coli di fede del movimento illuministico francese. Tale dottrina suscita una
profonda «reazione contro l’arido razionalismo, il materialismo e il naturalismo
etico», anche, dice, nella stessa Francia con Diderot e soprattutto Rousseau, il
principale artefice di quella liberazione della sensibilità e delle passioni natu
rali. Ma la vera liberazione viene dalla Germania: è esattamente quello che di
ceva Meinecke. Cfr. Roger Hausheer, Introduzione a Isaiah Berlin, Controcor
rente, pp. XLVI-XLVII.
200. Berlin, Vico and Iierdcr, p. X X IV [Vico e Herder, p. 30].
201. Ibid, p. 184 tp. 222],
610
G li antilluministi della guerra fredda
611
G li antilluministi della guerra fredda
suo mea culpa: aveva professato idee sbagliate, era stato vittima di
inavvertenza, di idées reçues, aveva peccato per ignoranza. Ora si ren
de conto che Vico ed Herder non sono più relativisti di Montesquieu
e Hume206. Per salvare Vico ed Herder, e in pratica per salvare se stes
so dal disastro intellettuale costituito dal riconoscere nel relativismo la
base del pluralismo, Berlin mette insieme i due più grandi avversari
dei Lumi con i due loro pilastri e fa in modo di parlarne insieme. Si
può così pretendere che l’accusa di relativismo, ingiustamente rivolta
al Settecento nel suo insieme, debba essere respinta senza esitazioni
nel caso di Vico e di Herder proprio come per Montesquieu e Hume.
Una simile operazione di salvataggio, è inutile ribadirlo, non resiste al
l’esame.
Conviene affrontare un ultimo aspetto del pensiero o, se si vuole, del
l'eredità di Berlin. «Postmoderno in abito da sera»: questo ritratto di
Berlin tracciato da Ernst Gellner dopo l’uscita di una biografia scritta da
uno dei fervidi discepoli del pensatore di Oxford, John Gray, rappresen
ta un aspetto non trascurabile del contributo di Berlin alla cultura della
seconda metà del Novecento207. In effetti, avendo egli sempre saputo por
si all’interno del punto di vista liberale, sono pochi gli uomini che più di
lui hanno nuociuto alla tradizione dei Lumi. Il relativismo è inerente al
pensiero antilluminista e, nonostante i suoi sforzi, Isaiah Berlin è, come
Herder, un relativista che non voleva dirsi tale. Ora i pericoli del relati
vismo, sotto l’etichetta del pluralismo o sotto altra denominazione, non
c’è bisogno di dimostrarli, come anche il male fatto alle scienze umane e
alle scienze sociali dal rifiuto di accettare l’idea che il metodo scientifico
era solo uno. La campagna contro l’applicazione illuminista alle scienze
umane della rivoluzione scientifica del Seicento, che aveva cambiato la
faccia del mondo, doveva infine sfociare negli anni Sessanta e Settanta
del Novecento in un dubbio generalizzato o, come mostra ancora una
206. Berlin, «Sul presunto relativismo nel pensiero europeo del Settecento», in II le
gno storto dell’umanità, pp. 119-120. Si veda anche alle pp. 126-127.
207. Citato in Robert Wokler, «Isaiah Berlin’s Enlightenment and Counter-Enlight
enment», in Joseph Mali e Robert Wokler (a cura di), Isaiah Berlin’s Counter
Enlightenment, p. 14. Gellner parla di «a Sanile Row postmodernist» : Savile
Row è una via di Londra in cui si trovano i grandi sarti. Cfr. John Gray, Isaiah
Berlin, Princeton University Press, Princeton 1996.
612
G li antilluministi della guerra fredda
208. Ernst Gellner, «Anything goes. The Carnival of cheap relativism which threa
tens to swamp the coming fin-de-millénaire», The Times Literary Supplement,
16 giugno 1995. Raymond Boudon si dedica alla problematica àe\Yanything
goes nel contesto di un’eccellente analisi sulle debolezze della ricerca scientifi
ca francese nelle scienze sociali. Però le debolezze che egli coglie non sono li
mitate alle scienze sociali né alla sola Francia.
209. Raymond Boudon, «Les sciences sociales françaises: does anything go?», Com
mentaire, n. 110, estate 2005, p. 357.
210. Ibid.
613
G li antilluministi della guerra fredda
Negli ultimissimi anni della sua vita, quando il X X secolo volge an-
ch’esso al termine, Berlin torna al suo punto di partenza: riconosce che ci
si trova di fronte proprio a un relativismo, ma questo relativismo, dice, è
temperato dal fatto che tutti i valori provengono da un’evoluzione entro
una cultura umana comune2". Secondo lui Vico professava un tipo di re
lativismo che garantisce almeno l’esistenza di un pluralismo dei valori. È
però evidente che questo tronco comune non basta a reggere l’umanesi
mo e l’universalismo: Berlin non lo pretende nemmeno21212213.La cosa proba
bilmente più rivelatrice del suo pensiero è che si sottrae a qualsiasi giudi
zio globale, ebreo sionista,215 non si pone mai la domanda se questa rivol
ta contro il razionalismo non abbia responsabilità nella distruzione degli
ebrei europei. La ragione è semplice: il rifiuto del razionalismo e dei di
ritti naturali genera il pluralismo e la relatività dei valori, che ne è una fon
te di vita. Quando il grande nemico del genere umano non è l’antirazio-
nalismo, che genera il rifiuto dei diritti dell’uomo, ma il monismo, cioè
«la fede nell’esistenza di una verità universale», questo non significa for
se che, «senza voler applaudire o anche solo perdonare le stravaganze
dell’irrazionalismo romantico, si può riconoscere che i romantici, rive
lando che i fini degli uomini sono molteplici, spesso imprevedibili, e in
qualche caso incompatibili tra loro, hanno inferto un colpo mortale alla
proposizione affermante che, malgrado tutte le apparenze contrarie, una
precisa soluzione del grande gioco a incastro è possibile»?214
Leggendo gli scritti di questo grande intellettuale originario di Riga
che ha esercitato per mezzo secolo un magistero senza pari nel mondo
anglofono, si percepisce continuamente l’ombra di un altro provinciale
venuto anch’esso dalle rive del Baltico. Dietro Herder si possono scor-
211. «Isaiah Berlin in Conversation with Steven Lukes», p. 88 [Tra filosofia e storia
delle idee, p. 58].
212. Ibid. [p. 59], Egli è semplicemente affascinato dal fatto che, pur separato dai
pensatori tedeschi nel tempo e nello spazio, ha saputo esprimere, nell’isolamen
to più totale, l’essenziale delle loro tesi e in primo luogo di quelle di Herder.
213. Su questo aspetto della personalità di Berlin si veda l’eccellente lavoro di Pier
re Birnbaum, Géographie de Tespoir: l'exil, les Lumières, la désassimilation,
Gallimard, Paris 2004.
214. Berlin, «L’apoteosi della volontà romantica», ne II legno storto dell’umanità,
pp. 329-330.
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E P IL O G O
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Epilogo
617
Epilogo
6. Arendt, The Origins of Totalitarianism, p. 299 [Le origini del totalitarismo, pp.
414-415].
7. Ibid., pp. 299-300 [p. 415].
618
Epilogo
sandosi sui diritti prepolitici tanto odiati da tutti i nemici dei Lumi), po
tesse abbassare tutti i popoli civilizzati alla condizione del selvaggio. Poi
ché solo i selvaggi non possiedono altro che la loro umanità, dice la Arendt,
gli uomini si aggrappano alla loro nazionalità. L’argomento di Burke assu
me secondo lei un significato ancora più importante quando si prende in
considerazione la condizione umana di coloro che sono stati esclusi dalle
loro comunità politiche. Avendo perso tutti gli elementi che rappresenta
no il prodotto della nostra esistenza sociale, questi uomini avevano perso i
loro diritti reali e fu quindi possibile trattarli come non umani8.
L’argomento è stupefacente, poiché per Hobbes e Locke, per Rous
seau, Montesquieu e Voltaire, per i rivoluzionari francesi autori della Di
chiarazione dei diritti dell’uomo, gli esseri umani non si definiscono tra
mite la loro appartenenza a una comunità nazionale. Del resto, nel loro
pensiero, il selvaggio ha gli stessi diritti di un europeo. Gli ebrei non fu
rono sterminati perché, decaduti dalla loro cittadinanza, restava loro la
sola qualità di esseri umani, ma proprio perché questa qualità era loro
negata, perché l’idea di una natura umana comune a tutti gli uomini, l’i
dea di un diritto naturale valido per tutti e per sempre, era scomparso
nel corso della lunga lotta contro i Lumi. Chi, insomma, ha la responsa
bilità intellettuale della catastrofe europea del Novecento? Gli uomini
che per tutto il XVIII secolo, dal 1689 al 1789, parlano del diritto natu
rale, dell’unità del genere umano, dei diritti universali, «di questa nudità
astratta dell’essere umano» tanto maltrattata dalla Arendt, o quelli che
negano l’esistenza dei valori universali?
Gli ebrei furono perseguitati non in quanto esseri umani sprovvisti di
specificità politica, ma proprio in quanto vittime del frazionamento del ge
nere umano irrgruppi etnici, storici e culturali antagonisti a un livello sco
nosciuto in passato. Furono massacrati in quanto membri di un gruppo
umano ben definito, in quanto etnia per gli uni, in quanto razza per gli al
tri, in virtù di quei criteri ereditari decantati da Burke, esaltati da Herder
come sola fonte di dignità, sola fonte di sicurezza poiché sola definizione
che comporta una qualità esistenziale. Chi era figlio o nipote o pronipote
di ebreo non poteva sfuggire alla propria eredità. Fu la stessa cosa nel caso
di altri massacri: se il mondo non ha trovato niente di sacro nella «nudità
619
Epilogo
astratta dell’essere umano», non ha trovato allo stesso modo niente di sa
cro in ciò che ci poteva essere di concreto nella qualità di armeno, di in
tellettuale polacco o, più vicino a noi, di bosniaco o di albanese.
Prima di chiudere il cerchio con la discendenza neoconservatrice di
Burke, bisogna tornare al piccolo libro di Cari Becker, di cui si è già par
lato, risultato anch’esso, come l’opera di Lovejoy, di una serie di confe
renze tenute nell’aprile del 1931, ma questa volta a Yale, dove alcuni an
ni dopo si stabilirà Cassirer e dove la sua influenza è durata a lungo9.
Eletto nello stesso anno alla presidenza dell’American Historical Asso
ciation, Becker pronunciò allora una allocuzione intitolata «Ognuno è
storico di se stesso», destinata a diventare un punto fermo nella storia in
tellettuale americana10. In occasione del venticinquesimo anniversario
dell’uscita di The Heavenly City, un convegno che riuniva un gruppo di
importanti specialisti attestava l’importanza riconosciuta all’opera11.
Estremamente provocatoria, presto divenuta famosa per chiunque si in
teressasse al Settecento, madre e nutrice della scuola totalitaria del N o
vecento, questa tesi è fatta per colpire l’immaginazione. Becker respinge
l’idea, ai suoi tempi largamente accettata, per la quale il Settecento, fon
damentalmente moderno, sarebbe la vera fonte del «clima d’opinione»
del Novecento12. Secondo lui il Settecento è infinitamente più vicino al
Duecento credente che al Novecento liberale, perché i philosopher erano
molto meno emancipati dal pensiero cristiano medievale di quanto pen-
9. Carl L. Becker, The H eavenly City o f the Eighteenth Century Philosophers, Yale
University Press, New Haven and London 1966: l’edizione qui utilizzata è la
ventinovesima ristampa [L a città celeste d e i filo so fi settecenteschi, trad, di Um
berto Morra, Ricciardi, Napoli 1946].
10. «Every man is his own historian».
11. Raymond O. Lockwood (a cura di), C arl B ecker’s Heavenly City Revisited, Cor
nell University Press, Ithaca 1958 (nuova edizione nel 1968). Tuttavia l’adesione
alla tesi di Becker è tutt’altro che unanime. Peter Gay, che doveva pubblicare
qualche anno dopo un’interessante storia deUTlluminismo, fece nel 1956 una
critica devastante al libro di Becker. Il testo di questa comunicazione, apparsa
dapprima nell’opera curata da Lockwood, è stato riedito dall’autore in una rac
colta di propri saggi: The Party o f Humanity. E ssay s in the French Enlightenm ent,
Norton, New York 1971, pp. 188-210.
12. L’espressione « clim ate o f opin ion» è un altro modo di tradurre la nozione di
« Zeitgeist » o di «spirito di un’epoca».
620
Epilogo
13. Becker, The H eavenly City o f the Eighteenth Century Philosophers, pp. 29-31 [L a
città celeste dei filo so fi settecenteschi, pp. 22-25].
14. Ibid., p. 161 [p. 128].
15. Si veda per esempio il recentissimo Peter Eli Gordon, «Continental Divide:
Ernst Cassirer and Martin Heidegger at Davos, 1929. An Allegory of Intellectual
History», M odern Intellectual H istory, I, 2,2004, pp. 219-248. Tale articolo con
tiene una eccellente bibliografia recente (nota 6, p. 222). In francese si pposso-
no consultare con profitto gli atti di un convegno tenuto a Nanterre nel 1988:
Jean Seidengart (a cura di), E rn st Cassirer: D e M arbourg à N ew York, l itinéraire
philosophique, Éd. du Cerf, Paris 1990.
621
Epilogo
622
Epilogo
A Yale, nel 1944-1945, Cassirer inizia a scrivere quella che sarà la sua
ultima opera, sul mito dello Stato. Nel 1944 aveva pubblicato un S a liti
sull’uomo nel quale forniva un sunto della sua antropologia filosol ica,
basata sui tre grandi volumi della sua Filosofia delle forme simboliche.
Tutte le argomentazioni di questa opera rientravano in una ricerca della
conoscenza di sé per mezzo della storia al fine di raggiungere una mi
gliore comprensione dell’uomo moderno. Ma, in quei tempi di guerra, ci
voleva qualcosa di più: Il mito dello Stato è pensato durante l’ultimo an
no di guerra e pubblicato dopo la morte dell’autore. Sotto molti aspetti
questa opera legata alle circostanze si presenta come un’appendice a La
filosofia dell’Illuminismo ma, come spesso capita alle opere di circostan
za, il lavoro non ha tuttora perso nulla del suo interesse1''.
Per Cassirer, come per tutti gli eredi intellettuali del Settecento fran
co-kantiano, i Lumi rappresentano effettivamente l’inizio della moder
nità. In realtà La filosofia dell’illuminismo è una risposta a una lunga
campagna contro i principi dei Lumi allora al suo culmine in Europa e
ben presente a qualsiasi osservatore della vita intellettuale. Ciò facendo
Cassirer rispondeva anche, in anticipo e senza saperlo, a Becker che a
quell’epoca non poteva conoscere ma che continua alteramente a igno
rare dieci anni dopo, dopo averlo letto. Il filosofo tedesco pone l’accen
to sulla novità e l’originalità deU’Uluminismo, sulla cesura che si opera
nel mondo rispetto ai grandi sistemi metafisici del Seicento, sulla fonda-19
19. Cassirer, I l m ito dello Stato, trad. di Camillo Pellizzi, Longanesi, Milano 1996. Va
osservato che nei capitoli XIII e XIV de II mito dello Stato , dedicati alle que
stioni che qui ci interessano, Becker e Lovejoy appaiono solo una volta, in note
a fondo pagina: da Becker Cassirer si accontenta di prendere in prestito una bel
la citazione di Chastellux, senza spendere una sola parola per l’autore del libro
(p. 311). In quanto a Lovejoy, è nominato anche lui una sola volta e in maniera
assai critica, come uno di quelli che associano automaticamente e a torto lo spi
rito romantico a Hitler: ibid., p. 315. È citato come autore di un articolo in The
Jo u rn al o f thè H istory o f Ideas, ma la sua opera maggiore, 7 he G reat Chain o f
Being [L a grande catena d e ll’essere ], non è nominata. Sembra che per Cassirer
non fosse il caso di perdere tempo per i due libri che facevano scorrere tanto in
chiostro negli Stati Uniti. Cassirer ricorda un’altra volta l’articolo di Lovejoy,
«The Meaning of Romanticism for thè Historian of Ideas», voi. 2, III, 1941, co
sì come la risposta di Leo Spitzer, pubblicata nella stessa rivista, voi. 5, II, 1944
(si veda la nostra Introduzione).
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Epilogo
26. Ibid., pp. 85 e 91. Quest’idea era già stata espressa da Talmon, quasi identica pa
rola per parola: «L a Rivoluzione francese confrontata alla rivoluzione americana
è stata un evento su un piano del tutto diverso. Essa è stata infatti una rivolu
zione totale nel senso che non ha lasciato intatta nessuna sfera e nessun aspetto
dell’esistenza umana, mentre la rivoluzione americana ha costituito un cambia
mento puramente politico» (Le origini della democrazia totalitaria, p. 41).
627
Epilogo
stessa linea di riflessione, fino al suo assalto del 2004, la Himmelfarb de
dica tutti i suoi sforzi per attrezzare il neoconservatorismo americano di
una cornice concettuale solida. Il nerbo del ragionamento, che copre or
mai più di mezzo secolo, consiste nel mostrare che i problemi essenziali
affrontati dagli uomini sono sempre d’ordine morale e culturale. Vieto-
nati Mitids inizia quindi come nel 2004 The Roads to Modernity. con
Burke.
In questa battaglia per l’egemonia culturale il neoconservatorismo
trae dall’opera di Burke tre lezioni essenziali: prima di tutto che una so
cietà civilizzata può sopravvivere solo sulla base di un capitale culturale
accumulato da tutte le generazioni che hanno preceduto la nostra, il che
significa che la libertà e tutti i valori liberali non possono sopravvivere se
non temperati da valori antiliberali giunti fino ai giorni nostri, e che per
questo fanno parte integrante e indistruttibile della nostra eredità. Poi
l’idea che i valori morali sono essenziali alla vita di una società ben ordi
nata e quindi predominano sui valori materiali, utilitaristici o che pro
vengono dalla volontà dei singoli. È questa idea che la Himmelfarb ha
esposto nel suo lavoro sull’epoca vittoriana e che i neoconservatori non
smettono di citare religiosamente: in Poverty and Compassion essa si
sforza di dimostrare che quando si aiutano i poveri e gli sfortunati si agi
sce in realtà per egoismo e per lavarsi la coscienza. Quindi, il più delle
volte, per fare il bene bisogna essere capaci di fare il male; bisogna saper
dominare la propria inclinazione istintiva verso la compassione poiché è
questo il vero interesse di coloro che vogliamo servire: è con questa pro
fessione di fede che inizia la più recente antologia-manifesto del neo
conservatorismo, The Neocon Reader. É qui inoltre che si viene a sapere
che il concetto di «conservatorismo compassionevole» (compassionate
conservatism), di cui George W. Bush ha fatto la colonna della sua poli
tica sociale, è tratto dal titolo della Himmelfarb27.
27. Irwin Stelzer (a cura di), The Neocon Reader, Grove Press, New York 2004, p.
19. Questa antologia esibisce i nomi di alcuni leader intellettuali e personalità
politiche «pensanti» del neoconservatorismo, da Irving Kristol, l’ideologo, e il fi
glio William, fino a Condoleezza Rice, John Bolton, l’attuale ambasciatore degli
Stati Uniti all’ONU, il suo predecessore al tempo di Ronald Reagan, Jean Kirk
patrick, Margaret Thatcher e, cosa che potrà sorpendere taluni, nonostante la lo
gica della scelta, Tony Blair.
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33. Kristol, Neoconservatism : The Autobiography o f an Idea, pp. 373-374 [// N eo
conservatorismo. A utobiografia d i u n ’idea, pp. 153-154]. Questo testo, «Ameri
ca’s “Exceptional” Conservatism» [«L’eccezionaiità del conservatorismo ameri
cano»], è del 1995. La rivista Encounter, pubblicata a Londra, era finanziata da
gli Stati Uniti nel quadro della guerra ideologica dell’epoca.
34. Michael Oakeshott, «O n being Conservative», pp. 168-182.
35. Ibid., p. 187.
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36. Irving Kristol, Neoconservatism: The Autobiography o f an Idea, p. 375 [// Neo
conservatorismo. Autobiografia di un’idea, p. 155].
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Burke e i Lumi francesi non è affatto uno scontro tra Illuministi e antil-
luministi ma tra un particolare tipo di Lumi e un altro42. Come abbiamo
già visto, O ’Brien, dopo l’uscita della sua opera su Burke, si è adoperato
per convincere Berlin a riconoscere Burke come un liberale. In effetti,
quando compare la raccolta di saggi di Berlin 11 legno storto dell’umanità,
O ’Brien oppone una sola riserva: non vuole lasciare nessuna ambiguità ri
guardo a Burke. Messo alle strette da un conservatore che gli intima di
trarre conclusioni che contrastano quelle che erano state sue da sempre,
Berlin tergiversa. Non giunge ad accettare facilmente l’idea che Burke,
che aborriva l’idea dei diritti naturali di Locke e la legge della maggio
ranza che quest’ultimo auspicava, così come temeva il razionalismo di
Montesquieu, possa essere un figlio dei Lumi, la cui critica avrebbe avu
to per oggetto, come intende O ’Brien, solo Voltaire e gli enciclopedisti43.
Infatti negli anni Novanta del Novecento, quando la guerra fredda e
il pericolo comunista appartengono a una storia passata, la Rivoluzione
francese non è più un ostacolo per Berlin. Non può impedirsi di prova
re una certa attrazione nei suoi confronti: non è la Rivoluzione francese
che ha liberato gli ebrei e altri oppressi? Essa ha avuto a lungo termine
effetti benefici, e quindi Berlin non può non provare una certa antipatia
verso l’autore delle Riflessioni sulla Rivoluzione francese, e si domanda
persino se Burke, col suo rifiuto dei diritti dell’uomo, non sarebbe stato
nella Francia del 1940 un pétainista. Ma, al momento del bilancio, que
sti resta sempre l’«ammirevole Burke» e Berlin resta persuaso che l’uto-
pismo del Settecento, che culmina nella Rivoluzione, così come tante
teorie razionaliste dell’Ottocento, siano all’origine di sventure senza fi
ne: le nobili idee del Settecento sono finite nel sangue e «la linea che
conduce fino a Lenin, Stalin, Mao e Poi Pot, non è ancora giunta alla fi
ne»44. Dall’inizio degli anni Cinquanta del Novecento Lenin e Stalin
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49. Zeev Sternhell, «Fascist Ideology», in W. Laquer (a cura di), Fascism : A R eader’s
Guide. Analyses, Interpretations, Bibliography, University of California Press,
Berkeley 1976, pp. 368-371. Questa opera ha avuto diverse riedizioni, compresa
una tascabile (Penguin Books, London 1979).
50. D evant l ’histoire: les docum ents de la controverse su r la sin gularité de l'exterm i
nation des ju ifs p ar le régim e nazi, Ed. du Cerf, Paris 1988.
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52. I contemporanei non si sbagliano quando parlano, usando l’espressione degli in
tellettuali fascisti francesi degli anni Trenta, Drieu la Rochelle e Bertrand de Jou-
venel, di un «fascismo del 1913». «G li storici del futuro si domanderanno se,
senza l’esplosione dell’agosto 1914, sarebbe stata la Francia il primo paese a
compiere una rivoluzione nazionale», scrive Jouvenel (Bertrand de Jouvenel, Le
Réveil de l’Europe,Gallimard, Paris 1938, p. 148). Due anni prima, nel 1936,
Drieu La Rochelle si esprime, secondo Pierre Andreu, negli stessi termini: «Sen
za dubbio, quando ci si riferisce a quell’epoca, ci si accorge che qualche ele
mento dell’atmosfera fascista si era raccolto in Francia nel 1913, prima che si
presentasse altrove. [...] Sì, in Francia, intorno a\YAction française e a Péguy, si
era formata la nebulosa di una specie di fascismo» (citato in Pierre Andreu, «F a
scisme 1913», Combat, febbraio 1936). Drieu parlava del resto volentieri di un
«fascismo rosso».
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53. Raymond Aron, Teoria dei regimi politici, trad. di Maria Lucioni, Edizioni di Co
munità, Milano 1973, pp. 243 e 248-249.
54. Furet/Nolte, Fascisme et communisme, p. 14.
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55. Per una dimostrazione articolata, si vedano i miei lavori N ascita dell'ideologia f a
scista (con Sznajder e Asheri), il saggio «Morphologie et historiographie du fasci
sme en France» pubblicato all’inizio della terza edizione rivista e ampliata di N i
droite ni gauche (Fayard, 2000), così come «From Counter-Enlightenment to thè
Revolution of thè XXth Century», in Shlomo Avineri e Zeev Sternhell (a cura di),
Europe’s Century o f Discontent: The Legacies ofFascism , Nazism and Communism,
The Hebrew University Magnes Press, Jerusalem 2003, pp. 3-22 e «Le fascisme,
ce “mal du siècle”», in Michel Dobry (a cura di), L e Mythe de Vallergie française
au fascism e , Albin Michel, Paris 2003. Un altro esempio di comparazione mecca
nica curiosa - è il meno che si possa dire —è la questione del ruolo «degli ex sol
dati» su cui i tre nuovi regimi hanno fatto «la leva del dominio incontrastato di un
solo partito»: Furet/Nolte, Fascism e et communism e , p. 13. Gli storici conservato
ri dimenticano che se le prime truppe, o piuttosto i primi manipoli di truppe d’as
salto fasciste e naziste effettivamente provengono dalle fila degli ex combattenti,
nei bolscevichi avviene l’esatto contrario. Nel campo leninista, più tardi, al mo
mento delle fallite rivoluzioni in Germania e Ungheria, sono i rivoluzionari di pro
fessione, antinazionalisti virulenti, spesso ebrei, a prevalere. D ’altra parte i soldati
russi sono pervasi da un grandissimo odio contro la guerra, non hanno mai fatto
la guerra di trincea, non sono mai stati esposti al genere di esperienze cantate da
Jünger e inoltre alcuni tra loro, già molto politicizzati, covavano un profondo ri
sentimento verso il regime. L’idealizzazione della guerra, il culto soreliano e futu
rista della violenza, fonte di morale e di virtù, erano completamente estranei a mi
lioni di russi in armi per i quali questo scontro non aveva alcun senso e alcuno sco
po. La stessa cosa si verificava negli eserciti austro-ungarici in cui proliferavano gli
schveik. D ’altra parte è bene non dimenticare che tutto il pensiero politico russo
fin dall’inizio dell’Ottocento ruota attorno all’idea di rivoluzione. La terra trema
va nell’Europa dell’Est dalla fine dell’Ottocento, e nel 1905 era apparso chiaro a
tutti che la caduta del regime era solo questione di tempo e di circostanze.
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56. François Furet, Il passato di un’illusione. L’idea comunista nel X X secolo, a cura
di Marina Valensise, Mondadori, Milano 2000, p. 560 (corsivo nel testo).
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nità che vive intorno all’anno 2000 in Europa occidentale e che, negli Sta
ti Uniti, non si trova al fondo della scala sociale? Del resto, esiste una ra
gione metodologica che permette di pensare che la barbarie staliniana sia
la sola via possibile per cambiare le strutture della nostra società?
Eccoci ritornati al problema fondamentale posto dalla querelle des
Anctens et des Modernes, con la quale inizia questo libro, all’idea del con
tratto sociale di Locke, all’individuo autonomo di Kant e, per parlare co
me Nietzsche, all’uomo secondo Rousseau. I loro principi sono universa
li e in virtù di tali principi gli uomini possono sempre aspirare a costruir
si un mondo diverso dal loro, in funzione dei loro bisogni e delle loro idee
sulla natura del bene politico. Indipendentemente dalle differenze tra i
grandi pensatori dei Lumi, il denominatore comune alle loro visioni del
mondo è il rifiuto delle cose come stanno. La cultura dei Lumi è una cul
tura critica, per essa nessun ordine stabilito è legittimato dal solo fatto di
esistere. Nessun ordine stabilito è legittimo se ingiusto. La giustizia e la
felicità sono valori e obiettivi validi e legittimi dell’azione politica, senza
che si debba verificare una sovversione della libertà, poiché la giustizia
sociale e la libertà non sono opposte concettualmente. L’uomo è capace
di progredire, a condizione che faccia appello alla ragione. Non è «la fe
de in una verità universale» che ha provocato i massacri del Novecento,
non è la volontà di rottura con l’ordine esistente, né la rivendicazione del
diritto alla felicità che li ha provocati, ma al contrario l’irruzione dell’ir
razionale, la distruzione dell’idea dell’unità del genere umano, una fede
assoluta nelle capacità della potenza politica, e quindi dello Stato, a pla
smare la società. Questi sono i mali contro cui hanno combattuto i Lumi
e i Lumi, come ben dicevano Spengler e Sorel, ma solo per meglio deni
grarli, appartengono a tutte le epoche. Il progresso può non essere conti
nuo, la Storia può avanzare lentamente, ma ciò non significa che l’uomo
debba rimettersi al caso o piegare la testa davanti ai potenti del momen
to, accettare i mali sociali come se fossero dei fenomeni naturali e non il
prodotto di un’abdicazione della ragione.
Per evitare all’uomo del XXI secolo di precipitare in una nuova epoca
glaciale di rassegnazione, la visione prospettica creata dai Lumi di un indi
viduo attore del suo presente, cioè del suo avvenire, rimane insostituibile.
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IN D IC E D E I N O M I
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Indice dei nomi
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Indice dei nomi
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Indice dei nomi
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Indice dei nomi
Haym, Rudolf 129, 446 217, 224, 236, 256, 260, 278,
Hazard, Paul 63, 69, 137, 138, 228 279, 285, 300, 482, 494, 497,
Hegel, Georg Wilhelm Friedrich 40, 500,524,583,619
137, 141, 181-183, 196-205, Hoche, Louis Lazare 397, 398
209, 230, 264, 386, 491, 509, Hofmannsthal, Hugo von 465, 466
511,544,643 Holbach, Paul Henry Thiry, barone
Heidegger, Martin 176, 621, 622, d’ 95, 96, 104, 496, 559, 565,
638 602
Hélvetius, Claude Adrien 40, 95, Hook, Sidney 642
122, 188, 240, 242, 460, 496, Horkheimer, Max 48, 525
517, 548, 559, 563, 564, 565, Huime, Thomas Ernst 89
567, 568, 602, 610, 615 Hume, David 14,18,19,24,40,58,
Herder, Johann Gottfried 10, 13, 132, 153, 160, 162, 163, 168,
17,23-25,27-41,46, 55,61,62, 185, 200, 210, 221, 258, 305,
67, 75, 83, 85, 101, 102, 105, 414, 415, 419, 431, 434, 436,
106, 114-125, 127-135, 137, 455, 526, 529, 566, 590, 591,
142, 143, 146-150, 152, 154, 612
155, 157, 159, 160, 162, 164, Hurd, Douglas 162, 168
166, 167-172, 174-190, 195, Husserl, Edmund Gustav Albrecht
197, 201, 202, 204-213, 215 48, 58,621,622
217, 219-234, 238-243, 266,
270, 276, 277 , 283 , 286, 289, Ibsen, Henrik 519
291, 295-300, 307, 317, 321 Iselin, Jean Rodolphe 24, 415, 434
325, 357, 359, 363, 366, 368,
375 , 376, 378, 387, 390, 403, Jacobi, Friedrich Heinrich 179,
409-476, 480, 482-486, 494, 182, 183,233
496-498, 502, 504, 508-516, Jahanbegloo, Ramin 555,559
520, 522,-524, 526, 531, 536, Jay,John 53,250
538, 543-549, 557-561, 568, Jean-Paul vedi Richter
570, 577, 579, 589, 591-593, Jefferson, Thomas 251, 263
595, 601, 603-617, 619, 624, Johnson, Samuel 400, 406, 568
629, 637, 639 Jourdan, Jean-Baptiste 397
Hiao, imperatore 422 Jouvenel, Bertrand de 176
Himmelfarb, Gertrude 20, 282, Jiinger, Ernst 171, 177 , 465 , 466,
626-629, 634 505, 506
Hinrichs, Cari 150
Hitler, Adolf 129, 173, 412, 569, Kant, Immanuel 14, 18, 21, 23-25,
611,621,636,638 27, 42, 58, 64-66, 69-75, 100,
Hobbes, Thomas 13, 22, 69, 71, 117, 176, 178, 179, 190, 201,
117, 134, 141-144, 146, 189, 202, 209, 216-228, 239, 241,
649
Indice dei nomi
650
Indice dei nomi
Maistre, Joseph de 29, 48, 55, 61, 174, 176, 186, 202, 229, 232,
83, 87-89, 92-94, 110, 150, 265, 269, 288, 307, 411, 413, 495,
266, 269, 270,272, 276,277, 498, 500, 504, 507, 539, 546,
281, 286, 289,291-295,302, 558, 567, 568, 589, 596-598,
306, 310, 357,370, 375,401, 603, 609, 637-639
420, 421, 450,464, 472,480,Mendelssohn, Moses 69, 496
482, 483, 526,542, 557,559,Mercier, Louis-Sébastien 100, 101
561, 572, 592,598-601,604, Medio, Gilbert 515,516,535,536
624, 625 Metternich, Klemens Wenzel von
Malebranche, Nicolas 274, 617 19, 627
Mali, Joseph 558 Michelangelo Buonarroti 460
Mallet, Paul Henri 149, 159, 160, Michelet, Jules 135, 171, 183, 195,
432 204, 206, 297, 387, 398, 448,
Malouet, Pierre Victor 328 468, 470-472,474-476, 495, 497
Man, Hendrick de 530, 534 Michels, Roberto 532, 533
Mann, Thomas 423,539,540 Mill, James 361
Maometto 221,400,422,526 Mill, John Stuart 26, 32, 35, 79, 80,
Mao Tse-tung 635,636 191,361,387,568,578,626
Maria Stuart 263 Milton, John 82
Maria Antonietta 112,396 Mirabeau, Victor de Riqueti, mar
Marinetti, Filippo Tommaso 545 chese di 109, 328, 528
Marivaux, Pierre Carlet de Cham- Moeller van den Bruck, Arthur 505
blain de 103 Molière, Jean-Baptiste Poquelin,
Marx, Karl 39, 137, 491, 504, 519, detto 59, 103, 121, 155
530, 621 Momigliano, Arnaldo 611
Massis, Henri 486 Mommsen, Theodor 171
Matteotti, Giacomo 502, 503 Montaigne, Michel de 59,210,573
Maulnier, Thierry 534 Montesquieu, Charles de Secondât,
Maurras, Charles 29,32,34,35,83, barone di La Brède 18,24,26,
■ 88-90, 93, 155, 272, 283, 286, 31, 40, 42, 52 , 65 , 93 , 95 , 96,
291, 292, 294, 300-302, 306, 104, 120-122, 132, 142, 147,
317, 331, 366, 371, 374, 375, 149, 151, 157-160, 183-189,
385 , 390, 401, 408, 419, 436, 195, 203, 204, 212, 221, 223,
450, 456, 460, 464, 478-488, 229-232, 240, 241, 246, 247,
520, 526, 529-532, 534, 536, 292, 295, 297, 324, 332, 351,
540, 542-545, 599, 608, 625, 368, 411, 414, 415, 419, 436,
630, 632, 634 446, 457, 471, 472, 479, 482,
Mazarino, Giulio 1 2 1 4 9 4 .4 % , 499, 515, 517, 546,
Meinecke, Friedrich 10,22, 24,29 548, 560, 566, 567 , 573 , 575,
35, 37, 41, 119, 150-153, 156- 589,611,612,617,619, 635
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