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ZEEV

STERNHELL

DAL XVIII SECOLO ALLA GUERRA FREDDA

SAGGI Baldini Castoldi Dalai editore


«Si forgia, da Herder a Spengler a Meinecke, un’altra modernità
che per un secolo e mezzo non ha cessato di contrapporsi alla
modernità razionalista, proclamandone il crollo dei valori. Questi
valori potevano e s s e r e quelli del razionalismo dei Lumi,
deN’umanesimo antico coi suoi principi radicati nella legge
naturale, o della morale cristiana. I valori universali, così come i
principi dell’89, la democrazia di Weimar o la Terza Repubblica,
non sono crollati da soli. Non sono stati la ricerca della pluralità,
né lo sviluppo delle scienze della natura, la scoperta che ci
potevano essere più geometrie, così come mentalità differenti e
psicologie dissimili, che dovevano produrre necessariamente
l’idea che, allo stesso modo, c’erano più morali, più verità o più
specie umane. L’idea di differenza comporta tanti pericoli quanto
quella di uniformità. Ponendo l’accento su ciò che separa gli
uomini, rifiutando l’idea che p o ssa esistere una sola natura
umana, lo si è visto, si provoca lo sfacelo dell’umanità.»

ISBN 9 7 8 - 8 8 - 6 0 7 3 - 0 6 0 - 2

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Questo è un libro di storia delle idee. Tratta
della rivolta intellettuale contro l’ Illumini­
smo e i suoi principi fondanti (la libertà indi­
viduale, l’autonomia della ragione, il metodo
scientifico), così come si è sviluppata dal
XVIII secolo fino alla fine del X X . A partire
dalla Rivoluzione francese, Edmund Burke,
Joseph de Maistre e tutti i loro epigoni ro­
mantici hanno contrapposto alla filosofia de­
gli Enciclopedisti una concezione della vita e
della politica in cui quel che conta non è ciò
che rende gli uomini uguali ma ciò che li ren­
de diversi: la storia, la cultura, la lingua, l’et­
nia. Per duecento anni questa polemica non
si e mai sopita e anzi è stata alimentata da
nuovi autori e nuovi argomenti. Herder,
'Faine, Sorel, Spengler, Croce, Maurras, Ber­
lin, per citarne alcuni, hanno criticato l’idea
di una ragione «astratta» opponendole una
visione «concreta» della vita, in base alla
quale l’individuo è sempre immerso in una
comunità e nella Storia. E partendo da
un’approfondita analisi di questi presupposti
che Sternhell ci dimostra come il nazionali­
smo, la critica alla democrazia, il risorgere di
una religiosità militante siano il risultato non
di un movimento antimoderno, ma di una di­
versa idea della modernità che ha radici lon­
tane e con la quale dobbiamo fare i conti an­
cora oggi.
Zeev Sternhell è uno dei maggiori storici del
pensiero politico moderno. Insegna all’Uni­
versità ebraica di Gerusalemme. E autore di
opere fondamentali, che hanno fatto molto
discutere, sull’ideologia fascista e sul sionismo
(Nascita dell'ideologia fascista, Né destra né si­
nistra, Nascita di Israele) tutti pubblicati da
BCE)edilore.
Di Zeev Sternhell
nel catalogo Baldini Castoldi Dalai editore
potete leggere:

N asata dell’ideologia fascista

Né destra né sinistra. L’ideologia fascista in Francia

N asata di Israele. Miti, storia, contraddizioni


Zeev Sternhell

Contro rilluminismo
Dal XVIII secolo alla guerra fredda

TRADUZIONE DI
Massimo Giuffredi e Haría La Fata,

Baldini Castoldi Dalai


E d ito ri d al 1897

www.bcdeditore.it e-mail: info@bcdeditore.it


Traduzione dal francese
di M assim o Giuffredi e Ilaria L a Fata

Titolo originale:
«L e s anti-Lumières»

© 2006 Librairie Arthème Fayard

© 2007 Baldini Castoldi Dalai editore S.p.A. - Milano


ISB N 978-88-6073-060-2
A Z iva
INDICE

PREM ESSA ........................................................................................................ 9

INTRODUZIONE.............................................................................................. 13

CAPITOLO 1
Lo scontro delle tradizioni...........................................................................57

CAPITOLO 2
Le fondamenta di un’altra modernità...................................................... 135

CAPITOLO 3
La rivolta contro la ragione e i diritti naturali....................................... 208

CAPITOLO 4
La cultura politica dei pregiudizi.............................................................. 276

CAPITOLO 5
La legge dell’ineguaglianza e la guerra alla democrazia........................ 331

CAPITOLO 6
I fondamenti intellettuali del nazionalismo............................................409

CAPITOLO 7
Crisi di civiltà, relativismo generalizzato e morte dei valori
universali all’inizio del X X secolo........................................ 464

CAPITOLO 8
G li antilluministi della guerra fredda..................................................... 548

EPILOGO .................................................!...................................................616

INDICE DEI NOMI 645


PREMESSA

Uno studio come quello proposto in questo libro richiede che ci si de­
dichi, all’interno di uno stesso quadro concettuale, a una grande varietà
di problemi, a prima vista molto diversi. Una simile impresa non è mai
facile; è anzi particolarmente ardua nel caso di cui ci occupiamo qui,
perché la contestazione dell’Illuminismo è un fenomeno complesso, dal­
le molteplici stratificazioni e sfaccettature, e le sue ramificazioni, dalle
origini ai giorni nostri, sono numerose e spesso impreviste. Questa con­
testazione permanente e allo stesso tempo in evoluzione ha finito con il
suscitare e alimentare una vera e propria cultura antilluministica, senza
la quale mi sembra difficile concepire il disastro del X X secolo.
La struttura dell’opera è analitica e non organizzata per autori, men­
tre la cronologia, nell’insieme, viene rispettata, cosa che permette di co­
gliere la dinamica dell’evoluzione delle idee. Nella mia analisi degli in­
tellettuali antilluministi ho privilegiato le loro opere essenziali, quelle
che non hanno cessato di pesare sulla vita delle idee e attorno alle quali
si è andata costruendo tutta una cultura politica. Qualsiasi lettura della
storia è una scelta e un’interpretazione, è ovvio: nessuno vi sfugge, e al­
tre scelte o altre interpretazioni diverse dalle mie sono altrettanto legit­
time. Io ho cercato quindi di seguire i consigli di Hippolyte Taine a pro­
posito di Thomas Carlyle: è proprio dello storico eliminare ogni forma
di «vegetazione parassita» che si accumula durante la ricerca per coglie­
re solo «l’utile e solido legno».
Per quanto riguarda le fonti secondarie, nella mia scelta ho utilizza­
to i lavori dal mio punto di vista più significativi, quelli che hanno sti­
molato la mia riflessione, e non tutte le opere importanti che invece lo
avrebbero meritato, se il mio obiettivo fosse stato circoscritto soltanto a
una o due figure tra quelle che sono oggetto della mia ricerca.
Il lavoro per questo libro, si è prolungato per diversi anni in quattro
paesi; mi è dunque capitato di leggere una stessa opera in due o tre edi-

9
Premessa

zioni differenti, a volte anche in lingue differenti. Ho fatto del mio me­
glio per unificare le citazioni, ma questo non è stato sempre possibile.
Comunque fornisco sempre i riferimenti completi di un’opera quando è
citata per la prima volta, ma quando un riferimento è troppo distante dal
punto in cui è apparso la prima volta i dati bibliografici compaiono di
nuovo. E per questo che non è presente una bibliografia: dal momento
che tutte le fonti sono citate in nota, mi è sembrato superfluo riprender­
le alla fine del volume in ordine alfabetico.
Tutte le volte che è stato possibile ho utilizzato i testi francesi. Quan­
do questo non è stato possibile, mi sono riferito di preferenza all’edizio­
ne inglese. In caso di dubbio ho verificato comparando l’originale alle
traduzioni, e fornisco le due citazioni. Quando sono io stesso a tradurre,
preferisco il senso letterale all’eleganza dello stile. Le traduzioni in fran­
cese dal tedesco, per quanto riguarda Herder e Spengler, e in inglese per
Meinecke, sono affidabili e fedeli, cosa che ha assai facilitato il mio com­
pito, permettendomi di confrontare l’originale ai testi francesi e inglesi.
La mia conoscenza del tedesco non mi avrebbe permesso né di risolvere.
da solo i problemi posti da certe fonti né soprattutto di procedere a una
velocità ragionevole. Al fine di facilitare la lettura delle citazioni mi sono
permesso in certi casi di modernizzare l’ortografia e di evitare un uso ec­
cessivo di corsivi e maiuscole.
Durante gli anni di questo lavoro ho contratto numerosi debiti. Il
primo con mia moglie, Ziva: ha cominciato a lavorare prima di me su al­
cuni dei problemi qui trattati ed è sua anche l’idea di questo libro che,
senza di lei, non avrebbe mai visto la luce. Il tempo e l’energia che mi ha
dedicato sono andati a scapito del suo lavoro; le sue ricerche e le sue idee
sull’architettura moderna e il suo contesto culturale, così come sugli in­
timi legami che si sviluppano tra poli di attività intellettuale hanno sti­
molato notevolmente le mie riflessioni.
Nella lettura del manoscritto, comprese le correzioni linguistiche,
Françoise Laurent ha messo la sua intelligenza, il suo senso critico, la sua
capacità di cogliere la concatenazione delle idee, uniti a quarant’anni di
amicizia, dai tempi lontani in cui, a Scienze Politiche, aveva reso leggi­
bile la mia tesi di dottorato, che è diventata poi il mio primo libro. Vor­
rei che sentisse qui l’espressione della mia profonda gratitudine.
I miei ringraziamenti vanno anche alle varie istituzioni che mi hanno
aperto le porte e che hanno favorito il mio lavoro. A Gerusalemme 1TJ-

10
Premessa

niversità Ebraica, la mia casa madre, offre un ambiente intellettuale di


grande qualità. La Israel Science Foundation, l’università e i suoi biblio­
tecari che, a dispetto dei drammatici tagli economici, sostengono la ri­
cerca per quanto concesso dai loro mezzi, così come il nostro Diparti­
mento di Scienze Politiche mi hanno fornito l’aiuto materiale che mi ha
permesso di impostare il mio progetto e di condurlo a termine.
Ho cominciato questo lavoro a Wassenaar, al Netherlands Institute
for Advanced Studies; nelle sue linee essenziali l’ho portato avanti a G e­
rusalemme e poi al Centre d’Histoire di Scienze Politiche di Parigi e al
Remarque Institute dell’Università di New York, dove è stato pressoché
portato a termine. Vorrei esprimere la mia riconoscenza ai miei colleghi,
al professor Henk Wesseling, dell’Università di Leida e rettore del NIAS
all’epoca del mio soggiorno a Wassenaar, al professor Jean-François Si-
rinelli, direttore del Centre d’Histoire di Scienze Politiche, e al suo se­
gretario generale Pascal Cauchy, al professor Tony Judt, direttore del Re­
marque Institute, e a Jair Kessler, sua direttrice amministrativa.
Un libro appartiene al suo autore, ma anche al suo editore. Come
sempre, da una ventina di anni a questa parte ho potuto beneficiare del­
l’amicizia e della profonda comprensione che Claude Durand e Denis
Maraval hanno per la natura e il senso del lavoro scientifico. Il mio ma­
noscritto deve una forma adeguata all’argomento alla professionalità e
all’amore per i lavori ben fatti di Denis Maraval. E lui che, con l’aiuto di
Nathalie Reignier-Decruck, coordinatrice editoriale la cui attenzione be­
nevola non è mai venuta meno, ha saputo trasformare un manoscritto in
libro. Christelle Kremer non si è risparmiata nella compilazione dell’in­
dice e di questo la ringrazio vivamente. Ancora prima che il libro giun­
gesse in libreria, aveva già beneficiato dell’intelligente sostegno dell’ad­
detta stampa Marion Corcin. Ancora una volta, che siano ringraziati tut­
ti i miei amici della Librairie Fayard.

11
INTRODUZIONE

La rivolta contro l’Illuminismo francese - o, più precisamente, contro


l’Illuminismo franco-kantiano - segna la nascita di una cultura politica
che pone un’alternativa globale alla visione del mondo, dell’uomo e del­
la società creati dal XVIII secolo. La modernità razionalista risale alla ri­
voluzione scientifica del XVII secolo e alla sua immediata espressione
politica in Hobbes, alla rivoluzione del 1688-1689 in Inghilterra e, in
Francia, alla querelle des Anciens et des Modemes all’inizio del Settecen­
to. Il teorico della Gloriosa Rivoluzione, Locke, sta alla politica e in ge­
nerale alle scienze umane come, nel secolo precedente, Newton stava al­
la matematica, alla fisica e alle scienze naturali. Fontenelle, morto nel
1757 all’età di cento anni, una delle migliori penne del suo tempo e uno
dei grandi modemes per la sua critica razionale, aveva, con Bayle, pre­
parato lo sviluppo filosofico del secolo successivo.
Tuttavia la vittoria di un razionalismo sia culturale che politico pro­
duce molto rapidamente una risposta violenta e si fa quindi avanti un’al­
tra cultura politica. Il pioniere della cultura antilluminista, Giambattista
Vico, pubblica nel 1725 la prima versione dei Principi di scienza nuova
d’intorno alla comune natura delle nazioni (Scienza nuova). Nella nostra
prospettiva, Vico costituisce il primo anello dell’antirazionalismo e del-
l’antintellettualismo, del culto del particolare e del rifiuto dell’universa­
le. Egli è il primo a proclamare il rigetto dei principi del diritto natura­
le. Tuttavia, poiché resta sconosciuto fuori di Napoli e poi dellTtalia fi­
no all’inizio del X IX secolo, il suo vero ruolo storico consiste più nel
consolidamento della cultura antilluministica tra Ottocento e Novecen­
to che nella sua creazione. Per cui, in termini di influenza diretta e im­
mediata, i fondatori della cultura antilluministica sono Johann Gottfried
Herder e Edmund Burke.
Dopo il V secolo ateniese, il Settecento è stato il secondo grande mo­
mento del pensiero politico. Fu allora che vennero costruite le idee mo-

13
Introduzione

derne sulla storia, sulla politica e sulla cultura. L’Illuminismo fu in pri­


mo luogo un movimento politico: «Avevo scoperto che tutto si legava in­
timamente alla politica», dice Rousseau, «e che, da qualunque lato si af­
frontasse il problema, nessun popolo sarebbe mai stato altro che quello
che la natura del suo governo lo avrebbe fatto essere. Così il grande pro­
blema del miglior governo possibile mi pareva ridursi a questo: “Qual è
la natura del governo atto a formare il popolo più virtuoso, più illumi­
nato, più saggio, il miglior popolo, insomma, usando questa parola nel
suo più alto significato?”» 1Nel XVIII secolo il potere politico era dive­
nuto il fondamento di qualsiasi potere, e l’autore del Discours sur l’iné­
galité aveva capito molto bene il suo tempo pensando che la libertà po­
litica fosse la base di tutte le altre libertà. Qui sta il motivo dell’influen­
za che ha esercitato. Hume, il filosofo politico dell’Illuminismo britan­
nico, si schiera dalla sua parte a proposito della potenza delle idee: «C o­
me non vi è partito, nell’età presente, che non sappia mantenersi in vita
senza un sistema filosofico o speculativo i cui principi siano connessi con
il suo sistema pratico e politico, così noi troviamo che ognuna delle fa­
zioni in cui la nazione è divisa ha costruito un edificio del primo tipo al
fine di proteggere e di coprire quello schema di azione che persegue».2
All’infuori di Rousseau, l’Illuminismo francese non ha conosciuto gran­
di filosofi. Locke, Hume e Kant provengono dall’Inghilterra, dalla Scozia e
dalla Germania. Per contro, in Francia sono stati molto numerosi i grandi
spiriti in grado di lottare senza sosta sia contro il male che per la diffusione
delle loro idee. Era il periodo dell’intellettuale universale rappresentato da
Voltaire, nel quale Nietzsche avrebbe visto «uno dei più grandi liberatori

1. J.-J. Rousseau, L e confessioni, trad, di Michele Rago, Einaudi, Torino 1955, p. 445.
Rousseau meditava allora sulle sue In stitution spolitiques, opera che, dice (p. 444),
«doveva a mio parere mettere il suggello alla mia reputazione». Questo libro, co­
me si sa, non ha mai visto la luce.
2. David Hume, «Sul contratto originale», trad, di Enrico Mistretta, in Opere fib so -
fiche, voi. Ili, Laterza, Roma-Bari 1987, p. 467. Ecco il testo originale: «A s no
party, in the present age, can w ell support itself, without a philosophical o r specula­
tive system o f principles, annexed to its p olitical or practical one; we accordingly
find, that each o f the factions, into which this nation is divided, has reared up a fa ­
bric o f the form er kind, in order to protect an d cover that scheme o f actions, which
it pursues», in P olitical Essays, a cura di Knud Aakonssen, Cambridge University
Press, Cambridge 1994, p. 186 (Saggio 23).

14
Introduzione

dello spirito»3. Tutti i philosophes, nel senso che questa parola ha acquisito
nel XVIII secolo, consideravano la politica come l’unico strumento in gra­
do di cambiare la vita. Mai prima di allora si era discusso tanto intensa­
mente sul mondo di domani: la politica era diventata affare di tutti.
Era il periodo dell’Encyclopédie: il Dictionnaire raisonné, tanto deni­
grato, era pieno di lacune, come la maggior parte delle opere collettive,
soprattutto quando esse mirano alla diffusione della conoscenza, ma la
sua prima edizione in ventotto volumi costituì un’impresa senza prece­
denti nella storia del sapere. Diderot e D ’Alembert pongono l’uomo al
centro dell’universo e l’individuo afferma il suo diritto alla felicità attra­
verso il progresso materiale: egli si emancipa per mezzo della ragione. Ma
allo stesso tempo l’uomo del Settecento riporta le passioni al loro giusto
posto: «Checché ne dicano i moralisti, afferma Rousseau, l’intelletto uma­
no deve molto alle passioni, le quali, per comune consenso, a loro volta
gli devono moltissimo: il nostro intelletto si perfeziona per opera della lo­
ro attività. Noi cerchiamo di conoscere soltanto perché desideriamo di
godere, e non è possibile concepire per quale motivo chi non avesse né
desideri né timori si prenderebbe la briga di ragionare».4H secolo dei Lu­
mi non è mai stato quel secolo di aridità intellettuale e di valorizzazione
dei sensi come ancora oggi lo dipingono abbondantemente i suoi nemici.
Il termine «antilluminismo» è stato probabilmente coniato da Nietz­
sche ed era di uso corrente in Germania all’inizio del X X secolo5. Non è ca-

3. Friedrich Nietzsche, Umano, troppo umano. Frammenti postum i (1876-1879), trad, di


Sossio Giametta e Mazzino Montanari, Adelphi, Milano 1965,1.1, p. 489, epigrafe del­
l’autore alla prima edizione dell’opera pubblicata in omaggio «alla memoria di Voltaire
in occasione della celebrazione dell’anniversario della sua morte, il 30 maggio 1778».
Nietzsche dichiara di offrire «al momento giusto un omaggio personale» a Voltaire.
4. J.-J. Rousseau, O rigine della disuguaglianza, a cura di Giulio Preti, Feltrinelli, Mi­
lano 2006, p. 49.
5. Cfr. Robert Wokler, «Isaiah Berlin’s Enlightenment and Counter-Enlightenment»,
in Joseph Mali e Robert Wokler (a cura di), Isaiah Berlin’s Counter-Enlightenment,
American Philosophical Society, Philadelphia 2003, pp. VII e 26. Wokler fornisce
come fonte i Nachgelassene Fragm ente della primavera e dell’estate 1877 in Nietz­
sche Werke: Kritische Gesam tausgabe, Walter de Gruyter, Berlin 1967, voi. IV/2, p.
478,22 [17]. In effetti, Nietzsche scrive: «E s giebt Kürzere und langäre Bogen in der
Culturentwicklung. D er Höhe des Aufklärung entspricht die H öhe der Gegen-Aufklä-
rung in Schopenhauer und W agner» [«Nello sviluppo della cultura vi sono archi più
lunghi e più brevi. Al culmine dell’Illuminismo corrisponde il culmine della reazio­
ne all’Illuminismo di Schopenhauer e Wagner», Umano, troppo umano, 1.1, p. 385].

15
Introduzione

suale che Nietzsche concepisca questo concetto per definire le idee di


Schopenhauer e di Wagner, e noi non dobbiamo la creazione del termine
solo al genio filosofico dell’autore di Schopenhauer come educatore, ma an­
che al fatto che è proprio negli «anni di Nietzsche» che l’antilluminismo di­
venta un vero e proprio torrente intellettuale. E allora che la rivoluzione an­
tirazionalista e antiuniversalista della fine del XVIII secolo si diffonde,
adattata ai bisogni di una società che in poche decine di anni è cambiata co­
me mai prima. In inglese la parola Counter-Enlightenment esisteva almeno
una quindicina d’anni prima del suo utilizzo, nel 1973, da parte del celebre
storico delle idee britannico Isaiah Berlin, che se ne è ritenuto l’inventore.
È stato utilizzato, dice Robert Wokler, da William Barrett, professore ame­
ricano di filosofìa ai suoi tempi molto noto e direttore della celebre rivista
di sinistra Partisan Review. Barrett fu uno dei primi accademici americani
a fare conoscere l’esistenzialismo ai suoi compatrioti. Non c’è da stupirsi se
questo concetto nietzschiano appaia proprio in un libro sull’esistenziali­
smo6. Tuttavia è stato certamente grazie all’innata propensione di Isaiah
Berlin per le formule e per la loro divulgazione che Counter-Enlightenment
ha finito per acquisire diritto di cittadinanza nel mondo anglofono.
Se questa terminologia non sembra avere un’esistenza originale in
francese è forse anche dovuto al fatto che Gegen-Aufklarung è stato piat­
tamente tradotto come « reaction à la philosophie des Lumières»7. Non ci

6. Cfr. Irration al m an: A study in E xisten tial Philosophy, Doubleday, New York 1962,
p. 274: «E xisten tialism is the counter-Enlightenm ent come a t last to philosophical
expression ». Isaiah Berlin pensava di esserne stato l’inventore, nel 1973: Wokler (si
veda la nota precedente) si riferisce a Ramin Jahanbegloo, Conversation with
Isaiah Berlin, Peter Halban, London 1992, pp. 69-70, la cui traduzione francese di
Gérard Lorirrry è apparsa sotto il titolo En toutes libertés: entretiens avec Ram in
Jahanbegloo, Ed. du Félin, Paris 1990. Ecco che cosa dice Berlin: «I don’t know
who invented the concept o f “Counter-Enlightenm ent”. Som eone m ust have said it.
C ould it be m yself? I should be som ew hat surprised. Perhaps I did. I really have no
idea». In francese è stato tradotto: « Je ne sais p as qui a inventé le concept de Con­
tre-Lum ières. Q uelqu’un a dû prononcer le mot. Est-ce que cela pourrait être m oi?
J'en sarais supris. Réellem ent, je n’en a i p as la m oindre idée» (p. 93), che non è esat­
to, perché non riporta quel «perhaps I did».
7. È proprio così che la traduzione francese rende il concetto di Gegen-Aufklarung.
Ecco il testo del paragrafo 22 [17] citato sopra: « I l y a des courbes plu s ou m oins
courtes ou longues dans le développem ent d’une civilisation. A u sommet de la phi-

16
Introduzione

si è resi conto che Nietzsche aveva inventato un concetto analitico di ca­


pitale importanza per definire un fenomeno di civiltà. In compenso, l’e­
spressione «anti-philosophes» è apparsa circa nel momento stesso in cui
gli enciclopedisti assumevano il nome di philosophess. Per cui, anche se
in francese non si parla di «anti» o di «contro» Illuminismo, l’idea in sé,
dal Settecento e per tutto l’Ottocento e Novecento, segue il suo corso:
via via che ci si avvicina al secolo appena trascorso il corpus intellettua­
le basato sulla guerra airilluminismo franco-kantiano diventa un po’ al­
la volta l’ideologia dominante del mondo contemporaneo.
Proprio come l’Illuminismo, l’antilluminismo è un movimento poli­
tico e anche il suo assalto viene sferrato prima della Rivoluzione france­
se e senza rapporti con essa. Nell’ultimo quarto di questo grande secolo
si produce in pratica un rovesciamento di valori dalle implicazioni
profonde e tenaci, il cui intero significato non sarebbe stato colto che
dopo un secolo. Burke ed Herder - e prima di loro Vico, come si è det­
to - si sono lanciati in guerra contro l’Illuminismo francese, contro il ra­
zionalismo, contro Descartes e contro Rousseau ancor prima della presa
della Bastiglia. Mezzo secolo separa la Scienza nuova di Vico, nella sua
versione definitiva del 1744, dalla caduta dell’Ancien Regime; Burke ha
scagliato le sue prime critiche più di trenta anni prima della Dichiara­
zione dei diritti dell’uomo, ed Herder, che a dispetto della sua avversio­
ne all’Illuminismo francese avrebbe accolto con entusiasmo la caduta8

losophie des Lum ières corrispond le som m et de la reaction à la philosophie des Lu­
m ières chez Schopenhauer et Wagner. Les points culm inants des petites courbes se
rapprochent le plu s de la grand courbe-rom antism e». Si veda Friedrich Nietzsche,
Œ uvres philosophiques com plètes III, Hum ain, trop humain - Un livre pour esprits
libres 1, Fragm ents posthum es (1876-1878), Gallimard, Paris 1988, pp. 437-438. In
A urora, parlando dell’«ostilità dei tedeschi contro l’illuminismo», Nietzsche op­
pone una «grande reazione» alla «grande rivoluzione»: il termine «reazione» è uti­
lizzato nel suo significato proprio e circoscritto. Si veda Friedrich Nietzsche, A u­
rora, pensieri su i pregiudizi m orali, trad, di Ferruccio Masini, Adelphi, Milano
1978, paragrafo 197, pp. 141-143.
8. H termine «axiti-philosophe» si ritrova nel 1751 nei Pensées antiphilosophiques del­
l’abate Allemand o nel 1767 nel D ictionnaire anti-philosophique di Louis Mayeul
Chaudon. Il termine compare anche in Diderot nel 1747 (Pensées philosophiques)
e nel D ictionnaire philosophique di Voltaire del 1767. Si veda Darrin M.
McMahon, «The Real Counter-Enlightenment: the Case of France», in «Isaiah
Berlin’s Enlightenment and Counter-Enlightenment» già citato.

17
Introduzione

della monarchia autoritaria in Francia, già dal 1769 aveva manifestato la


sua ostilità ai principi difesi dai philosophes.
Senza dubbio l’Illuminismo è percorso da correnti molteplici e con­
traddittorie, esattamente come il movimento che lo contesta, e non po­
trebbe essere altrimenti. Se il rigoglio intellettuale, il pluralismo, la dif­
ferenza e le contraddizioni interne costituiscono una caratteristica fon­
damentale dell’Illuminismo, lo stesso avviene per rantilluminismo. Di­
sconoscere queste differenze sarebbe un grave errore. L’Illuminismo non
è costituito da un corpus di idee sempre ben strutturato, quanto piutto­
sto da una tradizione intellettuale con obiettivi pratici e immediati; tut­
tavia, nonostante questa eterogeneità, esiste un denominatore comune a
tutte le forme e varianti dell’Illuminismo, così come dell’antilluminismo.
Questo perché, nonostante tutto ciò che separa Voltaire da Rousseau,
Rousseau da Condorcet, Montesquieu da Diderot e dagli enciclopedisti,
i pensatori illuministi francesi, affiancati dal loro principale alleato,
Kant, sono uniti da un certo numero di principi che costituiscono il cuo­
re della grande rivoluzione intellettuale del XVIII secolo. Senza timore
di alterare le complesse realtà del periodo che va dall’inizio del XVIII se­
colo ai giorni nostri, si può affermare che esiste una coerenza e una lo­
gica in ognuna delle due tradizioni intellettuali.
In effetti, è proprio contro questa nuova visione della storia, del­
l’uomo e della società, contro le nuove teorie della conoscenza, contro
il famoso Sapere aude kantiano che si levano tutte le varianti dell’antil­
luminismo. Da due secoli i suoi pensatori fanno guerra ad alcuni di
quei principi fondamentali che hanno reso possibili l’instaurazione
delle libertà inglesi e poi le due grandi dichiarazioni dei diritti e le due
rivoluzioni della fine del Settecento. E per questo che l’interpretazio­
ne degli eventi inglesi della fine del Seicento rappresenta un punto di
partenza imprescindibile: affinché la critica ai fondamenti del raziona­
lismo politico, e quindi del liberalismo, possa essere convincente, era
assolutamente necessario che l’anno 1689 non segnasse l’inizio di una
nuova epoca ma semplicemente la restaurazione delle vecchie libertà
inglesi. Per Hume questa teoria, legata a Burke e alla sua scuola, era
pura fantasia: le libertà inglesi costituivano una novità uscita dalla ri­
voluzione e non la resurrezione di una presunta vecchia costituzione
basata su documenti come la Magna Charta. Tutte le opere storiche di
Hume sono basate su questa idea: le vecchie carte tanto venerate non

18
Introduzione

erano in realtà che degli elenchi di privilegi che alcuni nobili avidi di
potere erano riusciti a imporre a una monarchia tendente al dispoti­
smo. Il sistema inglese non era basato né su una presunta antica costi­
tuzione né su un originario contratto di governo ma su un compro­
messo politico e una dipendenza reciproca tra corona e Parlamento, e
dunque su un equilibrio delicato9.
Tuttavia il vero obiettivo dell’esecrazione di Burke e della sua scuo­
la è proprio la Dichiarazione francese dei diritti dell’uomo e del cittadi­
no. Nel 1789 era ancora possibile occultare Locke e Hume, la Gloriosa
Rivoluzione poteva essere interpretata in modi diversi, soprattutto sul
continente, e l’America era ancora troppo lontana dai centri del potere
e della cultura per potere svolgere un ruolo d’avanguardia nell’evoluzio­
ne della civiltà. Inoltre i critici deUllluminismo fecero di tutto per ac­
creditare l’idea per cui la ribellione delle colonie inglesi d’America non
era affatto contro VAncien Regime, e ancora meno era un sollevamento
della ragione sovrana contro la storia. I più intelligenti tra loro, come il
letterato Friedrich von Gentz, traduttore e interprete tedesco di Burke -
e più tardi consigliere di Metternich - pensavano che la Dichiarazione
d’indipendenza fosse stata la copertura ideologica di cui i coloni aveva­
no bisogno per dare alla secessione una dimensione epica; nei fatti essi
non avevano alcuna intenzione di opporre i diritti dell’uomo ai diritti
specifici dei membri di una comunità storica. All’inizio dell’anno 1800
Gentz pubblicò un lungo articolo nel quale si impegnò a separare la ri­
volta delle Tredici colonie, semplice movimento di secessione con obiet­
tivi moderati, ben definiti e limitati, dalla Rivoluzione francese, fatto vio­
lento e veramente mostruoso10; l’appello ai nefasti principi di «diritti na­
turali e inalienabili» deve, secondo lui, essere considerato un errore di
giudizio. Questo saggio fu subito tradotto in inglese da John Quincy

9. David Hume, Politicai Essays, a cura di Knud Haakonseen, Cambridge Univer­


sity Press, Cambridge 1994, Introduzione, pp. XX-XXII.
10. Gentz aveva fondato a Berlino una rivista di idee, Historisches Journal, sulla qua­
le pubblicò, in aprile e maggio 1800, il suo saggio su «Le origini e i principi del­
la Rivoluzione americana comparati con le origini e i principi della Rivoluzione
francese»: Friedrich Gentz, The French and American Revolutions compared,
trad. di John Quincy Adams, introduzione di Russell Kirk, Gateways editions,
Chicago [1955], Si vedano in particolare le pp. 53 e sgg.

19
Introduzione

Adams, futuro presidente degli Stati Uniti e allora ministro plenipoten­


ziario a Berlino. Caduto nell’oblio, il testo fu ristampato nel 1955 per di­
ventare, in tempi di guerra fredda, uno dei pilastri della campagna ideo­
logica contro l’Illuminismo.
Da Adams a Russell Kirk negli anni Cinquanta fino a Gertrude Him-
melfarb ai giorni nostri, passando per Cari Becker negli anni Trenta", si
nota nei critici americani dell’Uluminismo lo stesso atteggiamento, che
consiste nel minimizzare al massimo, ossia cercare di ignorare compieta-
mente, l’influenza decisiva della filosofia dei diritti naturali sulla forma­
zione della società, dello Stato e della nazione in America*12. Non po­
trebbe essere altrimenti. Se la Rivoluzione francese è stata una rivolta
contro Dio e contro l’ordine naturale delle cose e, per di più, anticipa­
trice della Rivoluzione sovietica, e se per contro l’America era l’ultimo
bastione della libertà, diventava urgente dimenticare la portata ideologi­
ca della fondazione degli Stati Uniti per non farne che un accidente che
un governo più abile di quello di Giorgio III sarebbe stato sicuramente
in grado di evitare. Che ci si trovi alla fine del XVIII secolo o nel bel
mezzo della guerra fredda, per la visione conservatrice del mondo il sen­
so della guerra d’indipendenza americana non poteva avere un signifi-

1i . Russell Kirk, The Conservative Mind, from Burke to Santayana, Henry Regnery
Company, Chicago 1953 (sesta ristampa 1963) e la sua introduzione alle Reflec­
tions on the Revolution in France di Burke, Gateways editions, Los Angeles 1955
(Kirk, iniziatore del culto contemporaneo di Burke, è considerato uno dei primi
portavoce del conservatorismo della seconda metà del Novecento); Gertrude
Himmelfarb, The Roads to Modernity, The British, French, and American
Enlightenments, Knopf, New York 2004; Carl L. Becker, The Heavenly City of
Eighteenth Century Philosophers, Yale University Press, New Haven 1965 ( 1J ed.
1932) [La città celeste dei filosofi settecenteschi, trad, di Umberto Morra, Ric­
ciardi, Napoli 1946]. Tutti questi autori vedono in Burke il fondatore di un con­
servatorismo «illuminato», nei fatti l’unico uomo dei Lumi bene intesi; si veda
un altro recente esempio nell’antologia di Jerry Z. Muller che, come altri, asso­
cia fium e alla famiglia conservatrice: Conservatism: an Anthology o f Social and
Political Thought, Princeton University Press, Princeton 1997.
12. Si veda l'introduzione di Russell Kirk in Gentz, The French and American Revo­
lutions Compared, pp. Ill-XI. Si vedano anche le critiche rivolte a un’altra ope­
ra di Cari Becker, The Declaration of Independence, da Yehoshua Arieli, autore
dell’ammirevole Individualism and Nationalism in American Ideology, Harvard
University Press, Cambridge (Mass.) 1964, p. 369.

20
Introduzione

cato paragonabile a quello della Rivoluzione francese. La distinzione tra


una buona «rivoluzione» e una rivoluzione «utopica», quindi cattiva, sa­
rebbe stata ripresa dopo la caduta del comuniSmo e rappresenta oggi
uno degli elementi ideologici del neoconservatorismo sia negli Stati Uni­
ti che in Francia.
E tuttavia certo che se non fosse stata seguita dalla Rivoluzione fran­
cese, la conquista dell’indipendenza da parte delle colonie inglesi del-
l’America del Nord avrebbe avuto effetto limitato. Mettendo fine al-
i VAncien Regime nel paese europeo più popoloso e più potente, la Rivo­
luzione francese ha dato vita politica al corpus intellettuale deU’Illumi-
nismo. Sono proprio i fatti di Parigi tra il maggio e l’ottobre 1789, seguiti
i dalla caduta della monarchia e dalla guerra europea, che hanno fornito
al passaggio verso la modernità le dimensioni di una rivoluzione giunta
\ dal profondo del XVIII secolo” .
L’Illuminismo voleva liberare l’uomo dalle costrizioni della storia, dal
giogo delle credenze tradizionali e non verificate: per questi motivi vide
la luce il liberalismo del Secondo Trattato di Locke, della Risposta alla do­
manda: che cose l’Illuminismo? di Kant e del Discours sur l’origine de
l’inégalité di Rousseau, tre pamphlet formidabili che scandiscono la libe­
razione dell’uomo. Ma se l’Illuminismo francese, o meglio rilluminismo
franco-kantiano, così come rilluminismo inglese e scozzese producono la13

13. L’idea di una rivoluzione non solo francese ma occidentale è stata sviluppata ne­
gli anni Cinquanta del Novecento da Jacques Godechot (La Grande Nazione.
Lespansione rivoluzionaria della Francia nel mondo. 1789-1799, trad. di Franco
Gaeta, Laterza, Bari 1962) e Robert Palmer (The Age o f thè Democratic Revolu­
tion, Princeton University Press, Princeton 1959 [L'era delle rivoluzioni demo­
cratiche, trad. di Adriana Castelnuovo Tedesco, Rizzoli, Milano 1971]). In un’al­
tra opera su La controrivoluzione. Dottrina e azione (1789-1804), a cura di Enzo
Turbiani, Mursia, Milano 1988, Godechot guarda in questa prospettiva ai moti,
alle rivolte e alle rivoluzioni della fine del XVIII secolo, dalla rivoluzione gine­
vrina del 1768 durante la quale i controrivoluzionari fecero bruciare dal boia il
Contrai social sulla pubblica piazza, fino alla rivolta in Olanda del 1783-1787 e
a quella scoppiata a Liegi nel 1790. In ambedue gli ultimi casi l’ordine fu rista­
bilito grazie a un intervento straniero. Nel frattempo si erano verificati disordi­
ni anche in Inghilterra, nel 1782-1784, e di nuovo a Ginevra, dove nel 1782 gli
oligarchi chiamarono in soccorso le truppe di Berna, di Zurigo, del re di Sarde­
gna e del re di Francia.

21
Introduzione

I grande rivoluzione intellettuale della modernità razionalista, il movimen-


i to intellettuale associato alla rivolta contro i Lumi non rappresentò una
controrivoluzione, ma un’altra rivoluzione: in questo modo non nacque
tanto una contromodernità quanto piuttosto un’altra modernità, basata
sul culto di tutto ciò che distingue e separa gli uomini - la storia, la cul­
tura, la lingua - una cultura politica che nega sia ia capacità che il diritto
^della ragione di plasmare la vita degli uomini. Secondo questi teorici l’e­
splosione, la frammentazione e l’atomizzazione dell’esistenza umana, de­
rivate dalla distruzione dell’unità del mondo medievale, sono all’origine
della decadenza moderna. Essi deplorano la scomparsa di quell’armonia
spirituale fondamento all’esistenza dell’uomo medievale, distrutta dal Ri-
nascimento per alcuni o dalla Riforma per altri. Rimpiangono il tempo in
cui l’individuo, retto dalla religione fino all’ultimo respiro, contadino o
artigiano che viveva solo per il suo mestiere, inquadrato dalla società in
ogni momento, non aveva altra possibilità di esistere che come ingranag­
gio di una macchina infinitamente complessa della quale ignorava la sor­
te. Così, piegato sulla gleba senza fare domande, aveva il suo ruolo nel
cammino della civiltà umana. Il male moderno è nato quando, da sem­
plice pezzo di un meccanismo sofisticato, l’uomo è diventato un indivi­
duo in possesso di diritti naturali. Da Burke a Meinecke negli anni Tren­
ta, l’obiettivo resta la restaurazione di quell’unità perduta.
In questo modo l’orizzonte dell’individuo si trova bloccato dalla ca­
micia di forza in cui lo rinchiude la sua comunità culturale. Il primato
della tradizione, dei costumi e dell’appartenenza a una comunità cultu­
rale, storica e linguistica, è stato proclamato da Vico. L’uomo, diceva Vi­
co criticando i teorici del diritto naturale - Hobbes, Locke, Grotius e
Pufendorf - non ha creato la società di sana pianta, ma è ciò che la so­
cietà ne ha fatto, i suoi valori sono sociali e quindi relativi. La relatività
dei valori rappresenta un aspetto fondamentale della critica all’Illumini­
smo e i danni provocati da questo concetto saranno grandi. Sarà proprio
quest’altra modernità a produrre la catastrofe europea del Novecento.
La coesistenza conflittuale di queste due modernità rappresenta una
delle grandi linee ideali della storia dei due secoli che separano il nostro
mondo da quello della fine del Settecento. Qui sta un fenomeno che
molto spesso sfugge all’attenzione degli storici: se la modernità illumini­
sta è quella del liberalismo che porta alla democrazia, all’inizio del N o­
vecento l’altra modernità, scendendo dalle vette dell’alta cultura ovesta-

22
Introduzione

vano Renan o Taine, assume nelle strade la fisionomia della destra rivo­
luzionaria, nazionalista, comunitaria - per la Germania si parla anche di
«rivoluzione conservatrice» - nemica giurata dei valori universali. Re­
spingendo, dalla seconda metà del XVIII secolo, l’idea dell’autonomia
dell’individuo, là modernità antirazionalista diventa, cento anni dopo,
una forza politica dalla straordinaria capacità di rottura, che riesce a
scalzare i fondamenti della democrazia. All’inizio del X X secolo compa­
re una nuova concettualizzazione, ma i contenuti e la funzione di que-
st’altra modernità restano. Come ai tempi di Herder e di Burke, le sue
bestie nere sono sempre Kant, Rousseau, Voltaire, e in generale tutti i
philosophes.
__Conviene a questo punto insistere su un altro elemento, anch’esso di
grande importanza: una delle spinte principali di questa campagna che
continua ben oltre la fine della Seconda guerra mondiale è l’attacco sfer­
rato in nome di un certo liberalismo. Un liberalismo opposto aH’Illumi-
nismo poteva ancora avere un senso e una funzione importante fino alla
seconda metà dell’Ottocento, ma dal momento in cui, per effetto della
rapida industrializzazione del continente europeo e della nazionalizza­
zione delle masse urbane, emerge una nuova società, il liberalismo antil-
luminista - spesso seducente, perché la sua nocività non è sempre evi­
dente - mettendo in discussione la capacità dell’individuo di essere pa­
drone del mondo in cui vive, indebolisce la stessa possibilità di soprav­
vivenza della democrazia.
Questa campagna contro rilluminismo è molto più sofisticata e più
sfumata di quella dei nemici classici, apertamente autoritari, del XVIII se­
colo ma, ponendosi come obiettivo la distruzione della visione atomistica
della società, preannuncia già la nascita del comunitarismo. Contrariamen­
te a quanto si pensa oggi in certi ambiti comunitaristi americani, la corre­
zione del liberalismo col comunitarismo si è tradotta, nel corso del X X se­
colo, in una diminuzione del liberalismo, o perlomeno del liberalismo co­
me lo intendevano Constant, Tocqueville e Mili. Infatti il pluralismo dei va­
lori che ne è la bandiera conduce necessariamente verso il relativismo. La
guerra fredda e il pericolo staliniano hanno provocato un massiccio ritorno
della critica aU’Illuminismo e alla Rivoluzione francese di Burke e Taine e
una rifioritura dei vecchi temi antilluministi maturati e sviluppati nell’Ot­
tocento. Un corollario dell’antirazionalismo è il relativismo: esistono così
un relativismo nazionalista, un relativismo fascista e un relativismo liberale.

23
Introduzione

Quest’ultimo è quello di Isaiah Berlin, che nella seconda metà del X X se­
colo segue la linea di pensiero avviata da Herder, della quale l’opera di Mei-
necke costituisce, fra le due guerre, un riferimento imprescindibile.
. Certo, la conoscenza storica è aliena dai concetti degli inizi assoluti e
lo zelo storico ha provocato il deperimento delle figure fondatrici“1. Tut­
tavia, se si dovesse assolutamente trovare una data precisa per il momen­
to in cui si avvia la campagna contro i Lumi - quella che assumerà il si­
gnificato conosciuto nei secoli X IX e X X - la scelta cadrebbe necessaria­
mente sull’estate del 1774, quando il giovane Herder, per alzare una diga
contro l’influenza dellTlluminismo francese in Germania, compose in tre
settimane il suo Ancora una filosofia della storia (Auch eine Philosophie
der Geschichte), delineando così una seconda modernità. Perché proprio
a questo mira il giovane pastore luterano che prestava il suo servizio a
Biickeburg, in Westfalia, quando scaglia il primo attacco globale contro
tutto ciò che conta nel pensiero illuminista: in primo luogo contro De­
scartes che, con il suo razionalismo, emancipa le scienze matematiche e
fisiche dalla teologia; contro Montesquieu, l’autore col quale deve misu­
rarsi chiunque allora scriva di scienze umane; contro Rousseau e Voltai­
re; ma anche, con altrettanto vigore, contro Hume, Robertson, Ferguson,
Iselin, Boulanger e D ’Alembert, per nominare solo gli autori citati diret­
tamente o chiamati in causa indirettamente e allusivamente in questo
pamphlet di non comune importanza sotto ogni punto di vista.
II bersaglio principale e immediato è Voltaire, che ha appena conia­
to il concetto di «filosofía della storia» o, se si vuole, un modo filosofico
di pensare la storia. Ma, con lui, anche Montesquieu è messo in discus­
sione altrettanto duramente e questo a prima vista potrebbe sorprende­
re, tenendo conto di alcuni obiettivi che Herder si pone. E tutta la mo­
dernità razionalista a essere presa di mira, attraverso gli autori francesi e,
con loro, praticamente tutti i grandi storici e pensatori illuministi ingle­
si. Una decina di anni dopo il pamphlet di Biickeburg si apre la polemi­
ca con Kant, che suggella simbolicamente la grande divisione tra i due
rami della modernità: la modernità portatrice di valori universali, della
grandezza e autonomia dell’individuo padrone del suo destino, una mo-14

14. Hans Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, trad. di Cesare Marelli, Ma­
rietti, Genova 1992, p. 507.

24
introduzione

dernità che vede la società e lo Stato come strumenti nelle mani dell’in­
dividuo, avviato alla conquista della libertà e della felicità; e la modernità
comunitaria, storicista, nazionalista, una modernità per la quale l’indivi­
duo è determinato e limitato dalle origini etniche, dalla storia, dalla lin­
gua e dalla cultura. Per Herder l’uomo è quello che hanno fatto di lui i
suoi antenati, la «zolla» (Erdscholle) nella quale essi sono seppelliti e dal­
la quale lui stesso è nato; non sono le buone istituzioni e le buone leggi
che plasmano gli uomini, non è la politica che li modella: la politica è
esterna all’uomo, è la cultura che ne costituisce l’essenza.
__ Alla fine del decennio segnato nella vita intellettuale dallo scontro
tra Kant ed Herder, il maestro e l’allievo, in branda crolla VAncien Re­
gime e la frattura tra i due rami della modernità diventa una realtà stori­
ca. Quando il pensiero degli Illuministi franco-kantiani viene tradotto in
termini concreti dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo, dopo che era
stata formulata, in condizioni meno drammatiche ma in termini altret­
tanto chiari e fermi, anche nelle colonie inglesi d’America, Edmund
Burke diffonde le sue Riflessioni sulla Rivoluzione francese. Questo gran­
de pamphlet è preceduto da A Vindication of Naturai Society del 1756 e
dalYInchiesta sul Bello e il Sublime del 1759. Fin dagli esordi della sua at­
tività politica e intellettuale, l’autore delle Riflessioni sulla Rivoluzione
francese definisce l’Illuminismo come uno spirito che nutre un movi­
mento di cospirazione intellettuale il cui obiettivo è la distruzione della
civiltà cristiana e dell’ordine politico e sociale da essa creato. Secondo lui
infatti l’essenza dell’Illuminismo consiste nell’accettare come unico prin­
cipio quello per cui la ragione è il solo criterio di legittimità di qualsiasi
istituzione umana. La storia, la tradizione, il costume, l’esperienza non
possono pretendere di rivestire il ruolo della ragione. Sapendo che que­
sta critica da sola non potrebbe valere, Burke aggiunge che la capacità di
una società di garantire ai suoi membri una vita decente non basta più
agli Illuministi e non può più legittimare tale società. Per loro una vita
decente non è sufficiente: esigono la felicità, in altri termini l’utopia. Co­
me Herder, nello stesso momento e indipendentemente da lui, Burke ne­
ga alla ragione il diritto di mettere in discussione l’ordine esistente. I di­
ritti dell’uomo, proprio come l’idea secondo la quale la società è un pro­
dotto della volontà dell’individuo ed esiste solo per garantire il suo be­
nessere, sono una chimera pericolosa, una vera rivolta contro la civiltà
cristiana. Ciò che esiste è stato legittimato dall’esperienza, dalla saggezza

25
\ntrodiaione

collettiva, e possiede una ragione d ’essere che può non essere chiara in
ogni momento per ciascun individuo ma è il frutto della volontà divina
presente nella storia. Per questo l’ateismo è un altro modo di distrugge­
re la civiltà. Una società esiste solo tramite la venerazione della storia, il
rispetto della Chiesa costituita e delle sue élite: sostituire le élite in cari­
ca con nuovi elementi, distruggere un sistema politico legittimato dall’e­
sperienza e da una tradizione più che secolare, abbattere la potenza del­
la Chiesa, può essere paragonato alla conquista di un paese civilizzato da
parte dei barbari. Ecco perché, per garantire la continuità di ciò che esi­
ste, conviene adoperare la forza; e la difesa dei privilegi è la difesa della
civiltà. In altri termini: tutto è legittimo, tutto è permesso, tutti i mezzi
sono buoni per abbattere la rivoluzione in Francia. Devono essere mo­
bilitate tutte le forze dello Stato britannico per fermare questa rivolta
contro tutto ciò che è e deve restare sacro.
Vero pioniere del principio della guerra ideologica, Burke inventa in
effetti il concetto di «contenimento», in voga durante la guerra fredda.
Burke aveva sperimentato in America il processo di containment, che si
sarebbe poi applicato al blocco sovietico: costruire una diga intorno alle
pretese dei coloni di tradurre in termini concreti, staccandosi dalla ma­
drepatria, i loro diritti naturali e proseguire così la Rivoluzione inglese del
1689 diventava l’obiettivo principale per contenere il male in contrade
lontane e impedire il suo arrivo in Europa. Quando però quella stessa ri­
voluzione illuminista scoppia in Francia, il contenimento non può più ri­
spondere ai bisogni del momento: alle porte dell’Inghilterra, nel cuore
della civiltà occidentale, bisognava rispondere con una guerra a oltranza.
E per questo che il grande parlamentare britannico non appare tanto
come il fondatore di un conservatorismo liberale - nella tradizione tory o
nella sua versione continentale - ma come il precursore di quell’atteggia­
mento che ai giorni nostri ha preso il nome di neoconservatorismo. I libe­
rali conservatori autentici come Tocqueville o Acton in Inghilterra o, più
vicino a noi, Leo Strauss o Raymond Aron, temevano la forza corruttrice
del potere. Essi erano gli eredi di Montesquieu e di Locke e se si rivolge­
vano innanzitutto aìYEsprit des lois, dovevano molte delle loro idee al Se­
condo trattato: il loro grande obiettivo era di garantire la libertà con il fra­
zionamento del potere e con lo sviluppo della capacità dell’individuo a te­
nere testa al potere. Invece i sostenitori del neoconservatorismo sono affa­
scinati dalla forza dello Stato: il loro scopo non è limitarne l’intervento, né

26
Introduzione

nell’economia né nella società, come volevano i liberali classici, ma al con­


trario di modellare la società e il potere a loro immagine.
Burke ed Herder, il quale nel frattempo ha scritto moltissimo e so­
prattutto, negli anni che precedono il 1789, ha realizzato l’altra sua opera
maggiore, Idee per la filosofia della storia deU’umanità (Ideen zur Philo-
sophie der Geschichte der Menschheit), evolvono in contesti completamen­
te differenti. Né il loro bagaglio culturale né i loro scopi immediati sono
gli stessi, e tuttavia coi loro principi essi portano avanti e rappresentano il
rovesciamento di valori che si costruisce progressivamente durante il
XVIII secolo. Vico, morto nel 1744, era ancora praticamente sconosciuto
quando Burke ed Herder iniziarono la loro battaglia. Essi rappresentano i
due volti del primo grande attacco contro l’autonomia dell’individuo. So­
no completamente diversi nella loro visione della Rivoluzione, e più avan­
ti vedremo come, ma le motivazioni della loro rivolta contro un progetto
di civiltà razionalista, basata su valori universali, sono molto vicine, per
non dire praticamente identiche. Essi tracciano non tanto le grandi linee
di una reazione contro la modernità, quanto piuttosto i contorni di un’al­
tra modernità, ognuno a suo modo, l’uno filosofo e critico della cultura,
teorico senza alcun contatto con il mondo politico, l’altro pensatore poli­
tico ma anche politicante rotto a tutti i trucchi del mestiere.
E difficile esagerare il peso storico di Burke ed Herder, sia nell’im­
mediato che a lungo termine. In effetti questi due perni della prima ri­
volta contro il corpus ideologico costruito dal XVIII secolo francese e in­
glese, sul quale aleggia la grande opera filosofica di Kant, fissano per qua­
si due secoli il quadro concettuale della critica aU’Illuminismo. Fino ai
suoi ultimi anni il X IX secolo svilupperà i principi ereditati da Herder e
Burke, aggiungendovi elementi propri, in particolare quelli del determi­
nismo culturale che entrano nella vita intellettuale e nel discorso storico
e letterario ben prima che il darwinismo sociale e il pensiero di Gobineau
acquisissero diritto di cittadinanza. Se questo processo si è sviluppato con
tale facilità è proprio perché il determinismo culturale, che in realtà non
è molto distante dal determinismo etnico e poi razziale, già alla fine del
XVIII secolo faceva parte integrante della rivolta contro i Lumi.
La prima generazione di intellettuali antilluministi ha visto il mondo
vacillare nel 1789. Carlyle, Taine e Renan costituiscono la seconda on­
data di decostruzione di questo pensiero, quella che cresce con la de­
mocratizzazione della vita politica, prima in Inghilterra, verso il 1830,

27
Introduzione

poi in Francia all’indomani del 1848 e poi del 1870. Il secondo Bill of
Rights inglese del 1867, la Comune di Parigi, la costituzione della Terza
Repubblica annunciano l’avvento di Calibano. In questo contesto pren­
de forma una riflessione sul venir meno della civiltà occidentale e della
sua eredità medievale, una civiltà organica, comunitaria, intrisa di timor
di Dio, in preda alla decadenza democratica e aU’influenza del «mate­
rialismo». Le grandi linee che orientano allora la critica della modernità
razionalista sono fissate per un secolo e mezzo. Carlyle e Taine hanno
scritto la storia di questa lunga caduta; con Renan, essi propongono
un’analisi del male e dei rimedi: sradicare l’idea dell’onnipotenza del­
l’individuo, ricostituire comunità organiche, porre fine alla farsa del suf­
fragio universale e dell’eguaglianza. Le loro opere rappresentano altret­
tante riflessioni sulla decadenza della Francia, il cui spirito non può non
ricordare quello del Giornale di viaggio 1769, che Herder aveva riporta­
to da Parigi. La Francia è sempre l’incarnazione di una cultura raziona­
lista figlia dei Lumi, rósa dalle velleità democratiche e dall’eredità di
Rousseau. Queste riflessioni vengono fatte mentre l’Europa si trova al­
l’apice della sua potenza; la Francia sta creando il secondo impero colo­
niale del mondo e l’eguaglianza vi si insedia come mai prima e come da
nessun’altra parte. Anche Herder e Burke si erano dedicati alla deca­
denza della Francia proprio nel momento in cui essa stava per dare al
mondo una lezione di vitalità fuori del comune: questo perché per i ne­
mici dell’Illuminismo, in un mondo che adotta il razionalismo, l’univer­
salismo e l’idea del primato dell’individuo come norme di comporta­
mento, la decadenza è inevitabile.
Tuttavia se il X IX secolo, nella sua fase di maturità, conserva ancora
una certa ambivalenza, non è più così durante i suoi ultimi due decenni.
In un nuovo contesto sociale e politico, mentre l’industrializzazione mu­
ta velocemente la faccia del continente, il rifiuto dellTlluminismo esplo­
de con una energia fino ad allora sconosciuta. Non è la Grande Guerra,
come si sostiene spesso, che segna l’inizio del X X secolo. Esso nasce
quando, in un mondo che cambia a un ritmo impensabile solo vent’anni
prima, appaiono contemporaneamente nuovi stili di vita, tecniche e tec­
nologie innovative, e quando crescita economica, democratizzazione del­
la vita politica e istruzione obbligatoria diventano una realtà, mentre per
la generazione precedente erano solo chimere. Il nuovo secolo si insedia
definitivamente quando il rifiuto deH’Illuminismo diventa un fenomeno

28
Introduzione

di massa, quando la democrazia recentemente acquisita, la libertà politi­


ca e il suffragio universale appaiono agli occhi di una parte importante
delle masse urbane come un pericolo per la nazione e per la civiltà.
E in questo nuovo contesto, agli inizi del Novecento, che monta e
poi tra le due guerre dilaga la terza ondata. L’antirazionalismo, il relati­
vismo e il comunitarismo nazionalista, queste tre salde basi della guerra
airilluminismo e ai principi dell’89, rivestono sempre la stessa funzione:
combattere l’umanesimo, i valori universali tanto derisi e infine la de­
mocrazia. In questo grande laboratorio ideologico della fine dell’Otto­
cento e dell’inizio del Novecento si prepara la catastrofe europea. Le ri­
flessioni sulla decadenza, l’orrore verso una cultura di massa ma allo
stesso tempo il culto dell’anima popolare riprendono spesso alla lettera
i grandi temi del pensiero di Herder e Burke, di Carlyle e di Taine, così
come quelli dell’opera di Renan. Con Maurras non ritorna solo de Mai-
stre, ma anche i principi essenziali che ordiscono la trama del pensiero
di Burke. Leggendo Spengler, si sente un’eco drammatizzata del pensie­
ro di Herder (anche se non significa che tutto Spengler si trovi già in
Herder). Ma è altrettanto poco convincente sostenere, come spesso ac­
cade, che l’opera dell’autore del Declino dell’Occidente sia stata pensata
non solo senza legami ma addirittura contro quella di Herder. Croce, la
cui critica serrata alla filosofia dei Lumi, alla teoria del diritto naturale,
all’umanesimo e alla democrazia («il nulla») precede di vent’anni l’av­
vento al potere d d fascismo, si congiunge allo storicismo di Meinecke15.

15. Friedrich Meinecke, Die Enstebung des Historismus, R. Oldenbourg Verlag, Mün­
chen 1959 [Le origini dello storicismo, trad, di M. Biscione, C. Gundolf, G. Zam­
boni, Sansoni, Firenze 1973]. Il termine historismus fu usato per la prima volta nel
1797 da Friedrich Schlegel e da subito acquisì un significato vicino a quello che
avrebbe preso in seguito. Nel 1857 un lavoro su Vico vedeva l’elemento essenzia­
le di una visione storicista nell’idea esaminata sopra, secondo la quale gli uomini
non conoscerebbero altra realtà che la storia. La riflessione sullo storicismo conti­
nuò per tutto l’Ottocento e l’inizio del X X secolo e culminò con Meinecke. Per i
diversi significati che assume questo concetto e anche per la sua storia si veda un
articolo che fornisce anche una vasta bibliografia: Georg G. Iggers, «Historicism:
The History and Meaning of the Term», journal of the History o f Ideas, voi. 56 (1),
1995, pp. 129-152. Di Iggers si consulti anche The German Conception of History:
the National Tradition of Historical Thought from Herder to the Present, Wesleyan
University Press, Middletown 1983 (prima edizione 1968).

29
Introduzione

Il 1936 era proprio un anno mal scelto, si direbbe, per dichiarare


guerra all’Illuminismo francese e fare l’apologià della specificità tedesca,
per celebrare la gloria dei Iati spontanei e irrazionali della vita e per re­
criminare sull’incapacità di comprenderli da parte del razionalismo oc­
cidentale. Tuttavia è esattamente quello il momento in cui Meinecke de­
finì la natura dello storicismo, che egli associa in primo luogo a Herder:
«Il principio primo dello storicismo consiste nel sostituire a una consi­
derazione generalizzante e astrattiva delle forze storico-umane la consi­
derazione del loro carattere individuale»16. Come ogni concetto ampio,
la nozione di storicismo - Historismus, nella sua lingua d’origine - ha
delle varianti, sia nazionali che di grado. Ma tutte queste varianti hanno
una base comune: oltre al valore positivo che viene accordato alla storia
intesa come progresso umano nella sua realtà immanente, vi si trova
l’opposizione al diritto naturale, all’intellettualismo, all’universalismo e
al razionalismo. Ne consegue che lo storicismo distrugge l’idea di una
natura umana comune, di una ragione universale dalla quale emanereb­
be una legge universale: in essa non si vede che un’astrazione priva di si­
gnificato e soprattutto ipocrita. Da Herder fino a Meinecke, Io storici­
smo, per riprendere la spiegazione data dallo stesso Meinecke, è un fe­
nomeno di rivolta contro l’idea che l’uomo «fosse rimasto in tutti i tem­
pi sostanzialmente lo stesso».
Quindi lo storicismo nega «l’atteggiamento giusnaturalistico del
pensiero, predominante sin dall’antichità, [che] inculcava la fede nella
immutabilità della natura umana, anzi, della ragione umana». Esso si op­
pone alla teoria del diritto naturale secondo la quale la ragione «asseri­
sce le stesse cose in ogni tempo, è capace di trovare delle verità eterne,
di valore assoluto, le quali corrispondono in pieno alla razionalità dQ

16. Meinecke, Die Entstehung des Historismus, p. 2: «Der Kern des Historismus be­
steht in der Ersetzung eine generalisierenden Betrachtung geschichtlich - mensch­
licher Kräfte durch eine individualisierende Betrachtung». Si veda anche la ver­
sione inglese: Historism. The Rise o f a New Historical Outlook, trad, di J.E. An­
derson, pref. di Isaiah Berlin, Routledge and Kegan Paul, London 1972, p. LV:
«The essence o f historism is the substitution o f the process o f individualising ob­
servation for a generalising view o f human forces in history». Si vedano anche le
pp. 2-4 (pp. LVI-LVII della traduzione inglese) [Le origini dello storicismo, pp.
X e X XI],

30
Introduzione

tutto l’universo». Meinecke era convinto che lo storicismo tedesco co­


stituisse «il grado più alto che sia stato raggiunto nella intelligenza delle
cose umane»17. Meinecke segue Troeltsch, che nel 1925, in Lo spirito te­
desco e l’Europa occidentale (Deutscher Geist und Westeuropa), caratte­
rizza lo spirito occidentale con la sua credenza in un diritto naturale, nel­
l’unità del genere umano e in alcuni valori universali. Invece lo spirito te­
desco si definisce attraverso una concezione pluralista della storia, una
fioritura di individualità nazionali senza alcun metro comune18. I due
storici parlano di ciò che separa la Germania dall’Occidente, ma in
realtà si tratta dell’abisso che separa la modernità dell’Uluminismo dalla
modernità antirazionalista e la Germania non ha il monopolio di questo
attacco contro il razionalismo e l’universalismo dei Lumi. Da Vico, il pri­
mo grande nemico del razionalismo, del diritto naturale e di un mondo
in cui la provvidenza è assente, fino a Croce e a Sorel, due suoi grandi
ammiratori, da Herder a Meinecke, fino a Barrès e a Spengler, la vene­
razione del particolare e il rifiuto dell’universale costituiscono il deno­
minatore comune a tutti i pensatori antilluministi, indipendentemente
dal loro ambiente e dalla loro epoca.
È Herder che ha lanciato sulla scena europea una visione della sto­
ria fatta di culture che, anche quando non sono incomunicabili, consi­
derano ogni apporto straniero pericoloso per la loro autenticità. Inoltre,
come testimonia la visione che Herder ha della Francia, queste culture
diventano facilmente antagoniste, proprio il contrario della visione di
Voltaire, di Montesquieu o di Rousseau. Ogni civiltà ha i suoi valori, pe-
culiarTe unici; ogni civiltà giunge all’apice e poi subisce un declino irre­
versibile. Con il suo culto per le individualità, storiche e culturali, Her­
der fonda lo storicismo e instaura il relativismo dei valori e delle verità,
cosa che è effettivamente alla base della frammentazione del genere
umano, della distruzione dell’idea di umanità che procede di pari passo
verso la pienezza dei tempi. Tuttavia Herder resta cristiano, come lo era
stato Vico: la provvidenza che regna sulla Storia conduce l’uomo verso

17. Meinecke, Die Entstehung des Historismus, pp. 2-4 (pp. LVTLVII della tradu­
zione inglese) [Le origini dello storicismo, pp. X-XII].
18. Max Rouché, La Philosophie de l’histoire de Herder, Société d’Editions Les Bel­
les Lettres, Paris 1940, p. 583.

31
Introduzione

la pratica delle virtù dell’umanità. Dio vi realizza il suo progetto di edu­


cazione del genere umano ma, poiché ogni nazione deriva direttamente
da Dio, l’idea razionalista di un progresso continuo deve necessaria­
mente scomparire. Lo storicismo continua il suo corso da Herder fino a
Meinecke ma il dualismo herderiano ancorato alla sua fede cristiana, che
Meinecke non manca di ricordare e del quale conserva ancora qualche
traccia, si smorza progressivamente. Con Spengler sparisce quanto ne
era ancora rimasto nel X IX secolo.
Infatti lo storicismo, o l’idea della individualità irriducibile delle cul­
ture e dei popoli, è proprio il concetto utilizzato per mostrare ciò che se­
para la modernità razionalista dalla sua antitesi. Non si tratta solo di una
sorta di constatazione neutra e priva di qualsiasi giudizio di valore, cioè
che sulla superficie terrestre ci sono un gran numero di culture e una va­
rietà infinita di usanze, di leggi e di comportamenti. Sua diretta conse­
guenza è la relatività generalizzata. Questa relatività è molto più radica­
le in Spengler che in Herder, ma i principi sono identici. Il relativismo di
Spengler è un relativismo integrale, nel senso in cui Maurras intendeva
la natura del suo nazionalismo. Il percorso di Herder è ancora incerto
ma già ben strutturato e il suo relativismo costituisce il primo anello di
una catena che termina con uno smembramento del mondo europeo.
Herder attacca le idee francesi, Nietzsche quelle inglesi, il che, alle soglie
del X X secolo, è la stessa cosa: come cento anni prima, si tratta ancora e
sempre del razionalismo, dell’idea di progresso, dell’utilitarismo e infine
dei diritti dell’uomo e dell’eguaglianza.
Il fascino esercitato dall’attacco storicista contro l’Illuminismo fran­
cese si manifesta negli anni Cinquanta sulla generazione della guerra
fredda. E allora che si forma la scuola totalitaria della quale Isaiah Ber­
lin, affascinato da Vico ed Herder ma anche da Machiavelli, ammiratore
di Meinecke e stroncatore di Rousseau, più vicino a Burke che a Toc­
queville e a J.S. Mill, è una colonna portante. Con l’ingresso di Berlin
sulla scena, la contestazione dell’Illuminismo riceve un nuovo slancio e
acquisisce una dimensione ulteriore. Infatti, nel mezzo del X X secolo, la
riflessione sull’Uluminismo e sulla modernità si sviluppa all’ombra delle
due rivoluzioni che, dal punto di vista degli anni Cinquanta, sembrano
essere collegate l’una all’altra. Nel 1972 Berlin scrive una prefazione elo­
giativa alla traduzione inglese di Die Entstehung des Historismus di Mei­
necke, apparsa nel 1936, e saggi non meno elogiativi su Herder e Vico.

32
Introduzione

Questi libri ebbero allora un enorme successo proprio perché, ripren­


dendo le grandi linee del pensiero di Burke e di Taine, Berlin, come la
Arendt e Talmon, va a toccare le corde giuste dell’intellighenzia liberale
dell’epoca, alla quale la scuola totalitaria forniva una spiegazione at­
traente e semplice dei mali della guerra fredda. L’autore di Vico and Her­
der applica le critiche e i principi comuni alle tre generazioni che aveva­
no portato avanti il rifiuto della modernità razionalista e di una visione
ottimista del progresso dell’umanità alla situazione di un mondo sul qua­
le aleggia la minaccia bolscevica, facilmente concepita come una versio­
ne moderna dell’odiato giacobinismo.
Personaggio di grande carisma, dalla fine degli anni Cinquanta Berlin
gode di un prestigio senza pari nel mondo anglosassone. Morto nel 1997,
ai nostri giorni in certi ambienti intellettuali americani è oggetto di un ve­
ro e proprio culto, tanto da diventare quasi intoccabile. Era un uomo fuo­
ri del comune, e su questo tutti quelli che lo hanno conosciuto sono d’ac­
cordo. Esule in Inghilterra nell’ultima fase dell’infanzia, rimase fedele alle
sue origini ebraiche e per tutta la sua vita dimostrò una incrollabile dedi­
zione alla causa del nazionalismo ebraico. Immensamente colto, Berlin
giunse rapidamente ai vertici della carriera universitaria. Dall’inizio degli
anni Sessanta fu l’intellettuale britannico più noto al pubblico colto, quel
pubblico al quale si indirizzavano la sue conferenze e i suoi scritti. Nobili­
tato dalla regina nel 1957, presidente e fondatore del Wolfson College a
Oxford nel 1966, presidente della British Academy negli anni Settanta, eb­
be un ruolo di primo piano nella vita intellettuale del suo paese di adozio­
ne ma anche nel mondo anglofono in generale: mentre tutti i pensatori di
Oxford si inoltravano nella filosofia analitica, Berlin ha saputo salvare la
storia delle idee e preservarle lo statuto di disciplina autonoma.
La sua opposizione aU’Illuminismo, che si pone dal punto di vista di
un difensore della libertà, è particolarmente sintomatica e richiede una
riflessione, non fosse altro perché Berlin riprende la parte essenziale del­
le argomentazioni avanzate da Meinecke quarant’anni prima. Per Berlin,
esempio eccellente degli antilluministi «molli», così come per Meinecke,
sembra non esistere un nesso di causa ed effetto tra la guerra al raziona­
lismo, all’universalismo e al diritto naturale e l’avanzata del fascismo e
del nazismo. Certo, durante una delle numerose interviste che rilasciò
negli ultimi anni di vita, Berlin ebbe qualche parola elogiativa per i Lu­
mi, ma l’insieme del suo lavoro si inserisce bene nella linea di un rifiuto

33
Introduzione

totale dei loro fondamenti e principi19. A volte sembra che Berlin non
fosse del tutto consapevole della portata del proprio pensiero o della
portata della linea di pensiero iniziata da Herder. Ipnotizzato dalla guer­
ra fredda, si scaglia all’attacco di Rousseau, poi dell’idea di libertà «p o­
sitiva» per scrivere, in nome del pluralismo, un vibrante elogio della li­
bertà «negativa». In una serie di lavori, in particolare quelli che furono
pubblicati in Controcorrente e in II legno storto dell’umanità, egli rese un
servizio enorme a tutti gli odierni nemici del razionalismo e dell’univer-
salismo: prima dei postmoderni e in un contesto essenzialmente politico,
nonostante il fatto che il suo pensiero non sia monolitico e che abbia an­
zi molte ambiguità, prova come si possano contestare i fondamenti del­
l’Illuminismo restando su posizioni liberali: nell’introduzione a Contro-
corrente, che chiede a Roger Hausheer di scrivere in nome suo, tutto è
esplicitato: Berlin considera i principi deH’Illuminismo francese come
fondamentalmente opposti a quelli di una giusta società. Inoltre la sua
interpretazione deH’Illuminismo riprendeva l’essenziale delle idee riba­
dite di generazione in generazione dai tempi di Herder e Burke. Ai no­
stri giorni questi stereotipi ritornano con forza nel neoconservatorismo.
Lo scontro permanente che oppone un insieme di idee ancorate ai
principi illuministi e un corpus ideologico che si considera come un’al­
ternativa a esse è divenuto così una delle grandi costanti del nostro mon­
do. Questo confronto può cambiare volto o dimensione, può esserne
privilegiato un aspetto piuttosto che un altro, ma dalla seconda metà del
XVIII secolo il rifiuto deirilluminismo appartiene al nostro orizzonte in­
tellettuale e politico.
Qui bisogna sottolineare che molto spesso il peso dei pensatori di que­
sta corrente si è fatto sentire solo diversi anni dopo la pubblicazione delle
loro opere maggiori. Tuttavia ognuno di loro ha avuto immediatamente un
grosso successo. Da Burke fino a Meinecke, passando per Taine, Renan,
Carlyle, Maurras, Barrès, Croce e Spengler, ognuno degli autori qui studia­
ti è stato un autore di successo se non proprio un caposcuola riconosciuto.
E tutti, allo stesso tempo, si sono considerati come combattenti coinvolti in
uno scontro di civiltà. Da Herder e Burke, partiti in guerra contro la civiltà

19. Isaiah Berlin, lin toutes libertés: entretiens avec Ramin Jahanbegloo, trad. di G é­
rard Lorimy, Fd. du Félin, Paris 1990. Si veda il nostro cap. 7.

34
Introduzione

razionalista e anticristiana dell’Illuminismo franco-kantiano, fino a Berlin,


mobilitato nella guerra ideologica contro il comunismo, quel comunismo di
cui vedeva in Rousseau e nel XVIII secolo le origini morali e intellettuali
profonde, sono tutti soldati di una grande crociata. Tutti si considerano, se­
condo l’espressione di Berlin, nuotatori «controcorrente».
Nei fatti, la corrente era quella dell’Illuminismo franco-kantiano, la
corrente della democrazia e della sovranità del popolo nel senso proprio del
termine, il senso che gli attribuirono Rousseau, Bentham, MiU e Tocque­
ville, quello di un sistema in cui la libertà fosse compatibile con l’egua­
glianza, in cui l’eguaglianza fosse compatibile con l’autonomia dell’indivi­
duo e con la sua sovranità, in cui la libertà non fosse definita solo come un
non intervento nella sfera individuaKTdTdSscuno ma còme il diritto impre­
scrittibile dell’uomo di essere padrone del proprio destino. In tutti questi
uomini sono comuni la sete di anticonformismo e la sensazione di militare
nella battaglia per la salvaguardia di un'intera civiltà. Herder e Burke, sia il
filosofo che l’uomo politico, si ergono contro il diluvio filosofico illumini­
sta, il primo contro il razionalismo e il deismo, il secondo contro la tradi­
zione liberale che risaliva a Locke. Carlyle si schiera contro l’Inghilterra dei
due Bills of Rights che spingono il paese sulla via della democrazia; Renan
e Taine cercano di salvare il loro paese, e con lui tutta la civiltà occidentale,
dalla democrazia trionfante nella Francia della Terza Repubblica. All’inizio
del Novecento Croce avrebbe proseguito i loro sforzi e piaudito alla nasci­
ta del fascismo, affossatore dell’odiato XVIII secolo, così come Spengler
avrebbe contribuito energicamente alla caduta del regime di Weimar.
Maurras avrebbe visto nella sconfitta della Francia del 1940 la tanto attesa
occasione per seppellire i Lumi francesi, i principi dell’89, la Rivoluzione e
la Repubblica. Di fronte a un’Europa dominata intellettualmente da un’in­
tellighenzia di sinistra, spesso simpatizzante comunista, Berlin, sulle orme
di Meinecke, imposta ancora una volta il processo all’Illuminismo raziona­
lista. Per tutti questi intellettuali il razionalismo è la radice del male: con­
duce all’utopia, all’idea, di tutte la più nefasta, secondo la quale l’uomo è in
grado di cambiare il mondo; uccide gli istinti e le forze vitali; distrugge i le­
gami quasi carnali che uniscono i membri di una comunità etnica; ci fa vi­
vere in un mondo chimerico. E non è un caso che, a forza di considerarsi
difensori di una corrente minoritaria, tutti questi anticonformisti finiscano
col creare una nuova forma di conformismo e con il promuovere molte idee
che in poco tempo sarebbero diventate altrettanti luoghi comuni.
introduzione

_ Un elemento importante del pensiero antilluminista fino alla secon­


da metà del Novecento è la concezione del ruolo dello Stato. Nessuno
degli intellettuali analizzati qui, eccetto Berlin, che scriveva nella secon­
da metà del Novecento, teme la potenza dello Stato quando questa fre­
na la spinta della democrazia e viene esercitata al servizio delle élite e
dell’ineguaglianza. Non sono fanatici del laissez-faire, Carlyle è il primo
a testimoniarlo, o difensori incondizionati delle libertà individuali con­
tro lo Stato: Croce non ha esitato ad accordare il suo sostegno a Musso­
lini durante la fase decisiva dell’ascesa al potere. Essi sono distanti dal­
l’idea di uno Stato «guardiano notturno»; un governo forte in quanto ta­
le non li spaventa molto, non più di uno Stato bellicoso, anzi. Per loro la
guerra è insieme naturale e necessaria ed è l’espressione della vitalità di
una comunità. Tutti subiscono il fascino delle vittorie riportate dagli
eserciti della Rivoluzione, della dittatura napoleonica, della Prussia vit­
toriosa sulla Francia nel 1870, dell’annientamento della Comune, della
messa in sordina della democrazia durante la Prima guerra mondiale.
Tutti praticano qualche forma di nazionalismo.
Per loro frenare e neutralizzare il potenziale rivoluzionario e preser­
vare l’ineguaglianza non significa abbandonare le nuove classi sociali sor­
te dall’industrializzazione al libero gioco delle forze economiche, che ine­
vitabilmente produce miseria e di conseguenza rivolte e rivoluzioni. Solo
Herder, originario delle marche dell’Est europeo, vissuto in un ambiente
investito da una vera industrializzazione solo mezzo secolo dopo la sua
morte, è poco consapevole della crescita delle nuove classi sociali. Vice­
versa l’astio di Burke ha un motivo forte nella spinta dei nuovi centri ur­
bani, e il timore di vederli influire sulla vita politica dà origine alla sua fe­
roce opposizione a qualsiasi riforma del sistema elettorale, poiché ogni
cambiamento avrebbe potuto far vacillare il potere dell’aristocrazia asso­
ciata alla grande borghesia mercantile. Lui stesso dovette la sua elezione
a Bristol alla fama di parlamentare favorevole a un compromesso con i co­
loni americani (la prosperità del porto della città dipendeva per buona
parte dal commercio atlantico). Tutti i suoi successori, alle prese con le
dure realtà dei due secoli successivi, saranno perfettamente consapevoli
del ruolo che può avere uno Stato che interviene nell’economia per ca­
nalizzare e padroneggiare la democrazia. Procedendo nel X IX secolo, il
ruolo dello Stato diviene quello di contenere le velleità egualitarie, defi­
nite come un attentato all’ordine naturale delle cose o anche come pure

36
Introduzione

e semplici illusioni demagogiche. L’inevitabile democratizzazione e il pro­


gressivo accesso al suffragio universale della popolazione (maschile) non
hanno riconciliato i liberali ostili aH’Illuminismo con i principi della de­
mocrazia, ma hanno fatto loro accettare la sgradevole - e per loro peri­
colosa - realtà della democrazia politica. Alcuni, come Croce, hanno re­
sistito fino alla morte della democrazia: il fronte si era ormai spostato ver­
so la difesa delle élite sociali e culturali su un nuovo terreno e bisognava
proteggere l’alta cultura dal pericolo costituito dall’istruzione primaria
obbligatoria. Un obiettivo fondamentale di questa nuova forma di libera­
lismo, che propongo di definire «liberalismo bloccato», è stato quello di
limitare gli effetti della democrazia e impedirne l’espansione circoscri­
vendola al suffragio universale. Dapprima si trattava del diritto di voto:
durante i critici anni 1830-1870 Carlyle, Renan e Taine fecero di tutto per
evitare che il suffragio universale (maschile) divenisse la regola in Francia
e in Inghilterra. Insieme alla paura di vedere affermarsi la «libertà positi­
va», nel significato definitivamente acquisito da questo termine con
Isaiah Berlin alla fine degli anni Cinquanta, cioè la libertà dell’individuo
di decidere chi avrà il diritto di governare in suo nome e di imporgli la
propria autorità così come di mettere a profitto la legge della maggioran­
za per influire sull’economia e sulla società, giunge il timore di un co­
stante calo del livello culturale: la paura di un sistematico logorio della
cultura alta e di una perdita della posizione che le spetta nella vita socia­
le non hanno mai smesso di modellare la visione di un Carlyle, di un Re­
nan, di un Taine, come di un Croce o di un Meinecke.
— Ecco perché le riflessioni sulla decadenza occupano un posto cen­
trale nel loro pensiero. Ecco anche perché la religione è vista come uno
strumento di salvezza sociale: la religione, spesso, anche se non sempre,
senza fede né metafisica, ricopre un ruolo determinante, almeno fino al­
la metà del X X secolo in Europa, e negli Stati Uniti fino ai giorni nostri.
Nessuno di questi pensatori prova rispetto morale per la società borghe­
se, ma essi vedono nella proprietà privata un pilastro sacrosanto dell’or­
dine costituito. Storici delle idee e critici della cultura che si considerano
anche filosofi, tutti valutano la nazione come la cornice migliore dell’or­
ganizzazione sociale. Il tipo di solidarietà originato dalla nazione sembra
loro più solido di qualsiasi altro cemento sociale. Non è un caso se anche
Burke è ritenuto uno dei fondatori del nazionalismo: per esserlo i suoi ti­
toli sono meno evidenti di quelli di Herder ma non meno reali.

37
Introduzione

Conviene ribadire ancora che, pur non essendo tutti sostenitori del­
l’intera eredità dell’Ancien Regime, la maggior parte dei detrattori dell’Il-
luminismo, tranne forse Herder, ritiene che quella forma di organizzazio­
ne sociale abbia avuto aspetti positivi e sufficienti per togliere ogni giu­
stificazione alla Rivoluzione francese. Burke, che nelle sue Riflessioni sul­
la Rivoluzione francese mostra un paese prospero e tutto sommato felice,
governato da un re bonario e preoccupato del benessere dei suoi sudditi,
stabilisce la linea argomentativa per due secoli: se anche non raggiunge la
perfezione, l’ordine esistente permette comunque di condurre una vita
decente, o in altri termini una vita civile. La permanenza della civiltà oc­
cidentale, la grande civiltà cristiana, è garantita solo se la realtà non è le­
sa in quello che ha di essenziale. Tuttavia i nemici dellTlluminismo, non
lo ripeteremo mai abbastanza, non vivono rivolti al passato. Non mostra­
no nostalgia per il passato prossimo ma per una storia altamente selettiva
e molto spesso, perlomeno fino all’inizio del X X secolo, per la cultura or­
ganica del Medioevo cavalleresco e cristiano come lo vedono loro.
La scelta degli autori qui analizzati attiene alla loro influenza diretta e
immediata sulla vita intellettuale del loro tempo e dal carattere rappresen­
tativo ed emblematico delle loro opere. Al centro di questo lavoro si tro­
vano proprio le figure ambigue, quelle che non sono tutte di un pezzo e
sfuggono così alle categorizzazioni facili. «Spettatori coinvolti», non si pre­
sentano in bianco e nero e sono per questo i più interessanti e i più signi­
ficativi20. Alcune loro opere mostrano un’evidente duplicità, frutto di con­
traddizioni che dipendono dall’evoluzione delle persone e dall’influenza
degli eventi. A volte essi stessi correggono le loro prese di posizione a di­
stanza di qualche anno o decina di anni. Fra tutti questi autori si sono in­

20. È per questo che oggetto principale di questo libro non sono i nemici classici
della Rivoluzione francese e della democrazia, le figure fatte tutte di un pezzo o
gli antiliberali famosi, nonostante il fatto che una visione d’insieme della nostra
problematica renda inevitabile la loro presenza. Tra molte altre opere importan­
ti si possono consultare tre studi particolarmente pertinenti: Albert O. Hirsch-
man, Retoriche dell'intransigenza, trad, di Giovanni Ferrara degli Liberti, Il Mu­
lino, Bologna 1991; Stephen Holmes, The Anatomy of Antiliberalism, Harvard
University Press, Cambridge (Mass.) 1993 [Anatomia dell’antiliberalismo, trad,
di Rodolfo Rini, Edizioni di Comunità, Milano 1995] e Richard Wolin, The Se­
duction o f Unreason: the Intellectual Romance with Fascism from Nietzsche to
Post-Modernism, Princeton University Press, Princeton 2004.

38
Introduzione

tessuti dei legami duttili e insieme complessi. Sono tutti d’accordo nel ve­
dere nell’azione l’esito del pensiero. Tutti si volgono al loro mondo non so­
lo per comprenderlo e per imparare a viverci ma anche per cambiarlo, per
dirla con Marx. Per loro il pensiero rimane intimamente connesso all’a­
zione; erano tutti intellettuali impegnati nel senso proprio del termine e
tutti avrebbero sottoscritto questa ammissione di Renan, fatta l’indomani
di Sedan: «Ci tengo particolarmente a evitare il rimprovero di avere rifiu­
tato alle questioni del mio tempo e del mio paese l’attenzione dovuta da
ogni cittadino [...] Prima di proclamare che il saggio deve rinchiudersi nel
pensiero puro, bisogna esser sicuri che si sono esaurite tutte le possibilità
di far sentire la voce della ragione»21. A eccezione di Herder, che viveva in
un ambiente dove gli affari pubblici erano privilegio di un piccolo nume­
ro di dignitari intorno al monarca, tutti gli altri erano affascinati dalla po­
litica, in tutti l’attualità si innestava sulla riflessione storica e tutti sono
giunti alla politica attraverso la storia. Gli autori di cui ci occupiamo qui
sono contemporaneamente attori e osservatori. Nessuno di loro ha lascia­
to un lavoro politico sistematico, ma hanno tutti prodotto opere di analisi
politica e di battaglia intellettuale scritte per incidere sul presente. Alcuni,
come Herder, Burke, Carlyle o Renan, pur pubblicando libelli scritti in
fretta, hanno nondimeno realizzato dei classici del pensiero politico.
Tuttavia, visto che le domande concrete che si posero tutti questi au­
tori erano di interesse generale, le loro risposte dovevano assumere im­
mediatamente un valore universale. Tutti erano non solo storici e critici
della cultura, «filosofi della storia», secondo la loro definizione, storici
delle idee, dell’arte, delle religioni o della letteratura, ma anche pubbli­
cisti di fama e di talento, impegnati nella vita pubblica dei loro rispetti­
vi paesi. Anche quando non furono uomini politici attivi per tutta la vi­
ta, come Burke, uno dei primi grandi intellettuali divenuto un politico
professionista, vi si dedicavano di tanto in tanto. Come Barrès, deputa­
to a Parigi, come Croce, che fu deputato, senatore e ministro negli anni
Venti, come Renan, che si candidò con poca fortuna alle elezioni politi­
che per due volte, nel 1863 e nel 1871. Quando scrivevano del passato,

21. E. Renan, La Réforme intellectuelle et morale de la France, in La Réforme intel­


lectuelle et morale, Calmann-Lévy, Paris, 12' ed., Œuvres complètes, s.d. [1929],
Préface, pp. II-I1I.

39
Introduzione

pensavano tutti al presente e si interessavano al passato solo per trovare


risposte ai brucianti problemi del loro tempo. Questo rimprovero, se
davvero lo è, lo faceva già Gibbon a Voltaire.
Ma il rimprovero più consueto che gli intellettuali antilluministi han­
no sempre rivolto agli Illuministi è di non essere mai usciti dai loro studi
né dal dominio dell’astrazione e quindi di conoscere poco e male il mon­
do come è realmente. All’origine di questa leggenda c è Burke, uno dei
migliori oratori parlamentari del suo tempo. In effetti questa è solo una
favola, poiché, lungi dal restare immersi in problemi solo teorici, i grandi
intellettuali illuministi ragionavano in primo luogo sulle questioni politi­
che e sociali concrete del loro tempo. Peraltro molti di loro ricoprivano
cariche pubbliche importanti come Turgot, Montesquieu o l’appaltatore
generale delle imposte Helvétius, oppure lavoravano per i ministri o per
i loro uffici, come Voltaire e Mably o come Hume, capo di gabinetto pres­
so l’ambasciatore britannico a Parigi e poi per sei mesi incaricato d’affa­
ri. Inoltre, come ha ben dimostrato Daniel Roche, le accademie di pro­
vincia, quei grandi luoghi del pensiero illuminato che furono i principali
capisaldi della lotta contro VAncien Regime, erano al servizio delle loro
città, delle loro province e dello Stato22. È interessante notare come l’ac­
cusa di irrealismo e di utopismo indirizzata per due secoli agli Illuministi
francesi dai loro avversari non è stata di solito rivolta ai tedeschi del
XVIII secolo. Eppure, se c’erano intellettuali scissi dalla vita politica, era­
no proprio quelli tedeschi. Ma siccome la maggior parte dei filosofi e de­
gli scrittori d’Oltrereno, dopo il secondo Fichte ed Hegel, andavano in
soccorso dell’ordine esistente, si presumeva che fossero persone pratiche,
consapevoli delle difficoltà dell’amministrazione dei popoli.
La coerenza del pensiero antilluminista dipende anche dal fatto che
tutti gli autori dopo Burke ed Herder si sono letti l’un l’altro con grande

22. Keith Michael Baker, «O n the problem of the Ideological Origins of the French
Revolution», in Dominick LaCapra e Steven L., Kaplan, Modern European Intel­
lectual History. Reappraisals and New Perspectives, Cornell University Press,
Ithaca 1982, a p. 207 cita Daniel Roche, Le siècle des Lumières en province.
Académies et académiciens provinciaux, 1680-1789, Mouton, Paris 1978, t. I, p.
206. Si veda anche, dello stesso autore, La France des Lumières, Fayard, Paris
1993, e L’Illuminismo: dizionario storico, a cura di Vincenzo Ferrane e Daniel
Roche, Laterza, Roma-Bari 1997.

40
Introduzione

attenzione. Per lo storico delle idee che si dedica oggi alla loro opera, es­
sa costituisce certo materiale di prima mano, ma allo stesso tempo ognu­
no di essi è interprete del pensiero dei predecessori, storici delle idee, cri­
tici della cultura, filosofi politici e anche pubblicisti di fama. E un feno­
meno interessante in sé e non privo di significato che tutti questi autori,
da Burke a Herder fino a Berlin, prendano spesso di mira una caricatura
dell’Illuminismo e non quello che è in realtà; ma di questori occupere­
mo piu avanti. Si sa che gli studi sulle influenze sono tra i più complessi
che esistano. In questo caso però le cose sono relativamente semplici:
Taine scrive molto su Burke e Carlyle, Meinecke dedica lunghe analisi a
Burke e un centinaio di pagine a Herder e risponde a Cassirer senza no­
minarlo, Renan vede in Herder il più grande filosofo venuto al mondo
dopo Platone, Carlyle, affascinato dalla Germania, importa in Inghilterra
il pensiero del movimento Sturm und Drang del quale aveva fatto parte il
giovane Herder. Croce legge Vico con lo stesso entusiasmo di Meinecke
per Herder, e alcune formule usate per glorificare l’opera dell’autore del­
la Scienza nuova e per denigrare l’Illuminismo si ritrovano vent’anni più
tardi nei lavori di Meinecke e poi nei saggi di Berlin. Nel 1895 George
Sorel pubblica un lungo studio su Vico che precede di oltre quindici an­
ni quello di Croce. Tra i fondatori italiani delle scienze sociali, che si ispi­
rano anche a Croce e che saranno tra i più acerrimi nemici del XVIII se­
colo, non si contano i debiti nei confronti di Taine. Berlin scrive con ana­
logo entusiasmo su Vico, Herder e Meinecke, attaccando allo stesso mo­
do rilluminismo francese e, con la sua versione del loro pensiero, ag­
giungendo un nuovo anello alla cultura politica antilluminista.

Questo lavoro è dunque rivolto alla comprensione e alla ricostruzio­


ne, al di là di ogni contraddizione, dei fondamenti intellettuali comuni
agli antilluministi. In primo luogo, io penso che i rapporti tra le idee, la
politica e la cultura siano rapporti diretti. In secondo luogo, non è mia
intenzione fornire in questo libro una realtà culturale, ideologica e poli­
tica in tutti i particolari né rappresentare esattamente il pensiero di ogni
autore in tutta la sua complessità, ma mostrare ciò che questa realtà ha
di essenziale e di tipico.
In effetti, se lo storico delle idee non vuole scrivere un semplice rac­
conto, cronologico o tematico, se vuole capire alcuni fenomeni di civiltà,
gli riesce difficile non mettersi alla scuola di Tocqueville, sempre alla ri-

41
Introduzione

cerca delle «idee madri»2’. Questo principio, la cui paternità appartiene a


Montesquieu, è stato ripreso dapprima da Taine esattamente nei termini
usati da Tocqueville2'1e poi da Max Weber, che ha riformulato l’idea in ter­
mini di idealtipo. Per Weber - questo si sa, ma è sempre utile ricordarlo -
l’idealtipo è un «quadro concettuale» che, «considerato nella sua purezza
concettuale, [...] non può mai essere rintracciato empiricamente nella
realtà»23245. L’autore di L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, solita­
mente rivendicato dai sociologi, come Tocqueville prima di lui o dopo di
lui il Raymond Aron delle Etapes de la pénsée sociologique, era in realtà
uno storico delle idee. Lo stesso avviene per quanto riguarda il filosofo
Ernst Cassirer. Se la sua Filosofia dell’Illuminismo, pubblicata nell’ottobre
1932, resta ancora oggi il più importante lavoro su questo tema, è perché
il discepolo di Kant lavorava nella scia di Weber. Da Tocqueville ad Aron,
questi grandi storici delle idee riuscivano ad andare all’essenziale e a co­
gliere le grandi linee di un fenomeno, pur sapendo che non stavano co­
gliendo tutti i particolari e tutte le componenti esatte di una data situazio­
ne storica26. Un concetto storico come, nel nostro caso, l’antilluminismo -

23. Alexis de Tocqueville, L’Antico regime e la Rivoluzione, a cura di Corrado Vivan-


ti, Einaudi, Torino 1989, p. 230, e Corrispondenza tra Alexis de Tocqueville e
Arthur de Gobineau (1843-1859), a cura di Luigi Michelini Tocci, Longanesi, Mi­
lano 1947, p. 201. Si veda anche la seconda parte di L’Antico regime e la Rivolu­
zione, p. 429: «Il mio pensiero naufraga nei particolari e non riesce a estrarre idee
madri»; e, più avanti, in fondo alla stessa pagina, «A priori non potrei fare niente
di buono, ma forse dall’esame dei particolari nasceranno le idee madri».
24. Hippolyte Taine, Le origini della Francia contemporanea. Cantico regime, a cura
di Piero Bertolucci, Adelphi, Milano 1986, p. 375.
25. Max Weber, Saggi sul metodo delle scienze storico-sociali, a cura di Pietro Rossi,
Edizioni di Comunità, Torino 2001, p. 188.
26. Raymond Aron, Le tappe del pensiero sociologico, trad. di Aldo Devizzi, Monda-
dori, Milano 1981, pp. 453-455. Tra i numerosi lavori dedicati a Max Weber, si
consulti: Walter Runciman, A critique of Max Weber s philosophy o f social Scien­
ce, Cambridge University Press, Cambridge 1972; Nasser Behnegar, Leo Strauss,
Max Weber and thè scientific study o f politics, University of Chicago Press, Chi­
cago (111.) 2003; Karl Lowith, Max Weber and Karl Marx, a cura di Tom Botto­
more e William Outhwaite, Routledge, London 1993 [Max Weber e Karl Marx,
trad. di Anna Kùnkler, in Marx, Weber, Schmitt, Laterza, Roma-Bari 1994]; Max
Weber: Criticai Responses, a cura di Brian S. Turner, Routledge, London 1999, 3
voli.; si veda in particolare il voi. Il, Max Weber: criticai assessment, a cura di Pe­
ter Hamilton, Routledge, London 1991 (8 voli.).

42
Introduzione

e qui bisogna insistere per evitare qualche malinteso nella dimostrazione


che si svolgerà in questo libro - non comprende i caratteri di tutti gli in­
dividui inclusi nell’estensione del concetto stesso, né i caratteri medi degli
individui presi in esame, ma mira al tipico, all’essenziale.
Dobbiamo soffermarci anche su un altro importante elemento espli­
cativo. Mettendo in risalto l’esistenza di un denominatore comune alle
diverse varietà di antilluminismo, insistendo sulla coerenza interna delle
loro componenti, io prendo necessariamente posizione nel dibattito con­
temporaneo sulla storia delle idee. Da oltre quarant’anni io considero la
storia delle idee come uno strumento eccezionale per ragionare sui fon­
damenti dei postulati più solidi27. Nella sua introduzione alla raccolta di
saggi di Isaiah Berlin, Controcorrente, Roger Hauser, che scriveva in no­
me e per conto di Berlin, ha efficacemente mostrato quello che provano
tanti storici delle idee: la loro disciplina soffre spesso di una situazione
ambigua, cioè di una disaffezione le cui motivazioni non sono sempre vi­
sibili. Può darsi che tali motivazioni dipendano dal fatto che la storia del­
le idee pone questioni inquietanti, spesso dolorose, facendo così vacilla­
re credenze e certezze stabilite. In effetti, essa svela gli schemi, le cate­
gorie, i concetti guida con i quali noi ordiniamo e interpretiamo la mag­
gior parte della nostra esperienza, soprattutto nel campo della morale,
della politica e dell’estetica28.
Nessun’altra disciplina sa mettere in luce allo stesso modo la conti­
nuità di una tradizione, la filiazione delle idee e la loro carriera spesso
avventurosa e singolare ma sempre affascinante. Nessun’altra disciplina
è in grado di cogliere meglio le scosse ai valori di una civiltà e la tradu­
zione in termini politici dei cambiamenti che avvengono. Ciò porta evi­
dentemente a interrogarsi sugli intimi legami esistenti tra la riflessione fi­
losofica, la ricerca storica, la produzione letteraria e la politica. Mentre
in Francia la storia del pensiero è sempre stata il parente povero, in Ita­
lia, in Germania, in Inghilterra e negli Stati Uniti sotto l’influenza della
grande ondata di immigrati tedeschi, per la maggior parte ebrei in fuga

27. Mi permetto qui di rimandare alla mia Introduzione alla nuova edizione di Ni
droite ni gauche. L’idéologie fasciste en France, Fayard, Paris 2000.
28. Roger Hausheer in Isaiah Berlin, Controcorrente. Saggi di storia delle idee, a cu­
ra di Henry Hardy, intr. di Roger Hausheer, trad. di Giovanni Ferrara degli
Liberti, Adelphi, Milano 2000, p. XXIII.

43
Introduzione

dal nazismo, negli anni Trenta ebbe inizio e continuò per tutto il dopo­
guerra un vero rinnovamento intellettuale, che fu anche un esame di co­
scienza. Questa riflessione sul disastro europeo fu spesso incentrata su
un profondo interrogativo circa lo storicismo o, in altri termini, sul si­
gnificato che il rifiuto dei valori universali può avere per un’intera civiltà.
La storia delle idee vedeva così uno sviluppo notevole un po’ ovunque,
eccetto in Francia.
Bisogna ancora dire che sottovalutare la forza delle idee è un erro­
re non soltanto comodo ma anche molto comune. Le idee spingono
l’uomo all’azione e, anche se si trattasse solo della razionalizzazione del­
le pressioni psicologiche o sociali o dei processi economici, le costru­
zioni intellettuali assumono rapidamente una propria potenza e diven­
gono forze politiche autonome. E difficile capire come la sola forza de­
gli eventi avrebbe potuto produrre quei fenomeni senza precedenti
quali furono in primo luogo la Rivoluzione francese e poi le rivoluzioni
del Novecento.
In Francia, contrariamente a quanto succede nel mondo anglofono
o nella sfera d’influenza della cultura tedesca, la storia delle idee non ha
mai acquisito un vero diritto di cittadinanza, e questa discussione con­
temporaneamente concettuale e storica appare spesso evitata. L’ho già
ribadito altrove: quando il weberiano Aron scrisse un bel libro sulla sto­
ria delle idee, ritenne utile, per essere preso in considerazione, intito­
larlo Le tappe del pensiero sociologico. Bisognerà poi attendere il 1966
perché Fayard pubblichi la traduzione del grande libro di Cassirer su
La filosofia dell’Illuminismo, uscito in lingua originale nel 1932. Del re­
sto, il famoso lavoro di Arthur O. Lovejoy, The Great Chain o f Being,
considerato nel mondo anglofono il fondamento della storia delle idee
come disciplina universitaria autonoma, non è mai stato tradotto in
Francia29.

29. Arthur O. Lovejoy, The Great Chain of Being: A Study in the History of an Idea,
Harper Torchbooks, New York 1965 [La grande catena dell’essere, trad, di Lia
Formigari, Feltrinelli, Milano 19661. Si vedano l’introduzione e in particolare le
pp. 21-29. La prima edizione di questo lavoro risale al 1936. Nel gennaio 1940 Lo­
vejoy fondò il notissimo Journal o f the History of Ideas. Sulla personalità di Lovejoy
si veda Gladys Gordon-Bournique, «A.O. Lovejoy and the “History of Ideas”»,
Journal of the History of Ideas, voi. 48, II, aprile-giugno 1987, pp. 209-210.

44
Introduzione

In una serie di conferenze tenute ad Harvard nella primavera 1933,


Lovejoy propone il concetto dell’idea in quanto unità autonoma (unit-
idea). Secondo lui lo storico può isolare questo concetto e seguirne l’e­
voluzione attraverso tutte le sfere del pensiero: la storia, la filosofia, la
letteratura, la politica, l’arte o la religione, e questo fa sì che «la stessa
idea ricompaia, spesso notevolmente camuffata, nelle sfere più diverse
del mondo intellettuale»’0. L’evoluzione di un’idea, nelle sue diverse
sfaccettature, forme e accezioni, può essere seguita contemporaneamen­
te in diverse discipline e per periodi molto lunghi, fin dalle origini del
pensiero in Grecia. Lovejoy definisce così i contorni del suo progetto: lo
storico delle idee può attingere a più di una disciplina, a più di un aspet­
to della vita intellettuale e, cosa non meno importante, anche a epoche
diverse. Lovejoy è convinto che le «sfere più diverse del mondo intellet­
tuale» abbiano in comune molto più di quanto generalmente si creda.
Questa visione multidimensionale della storia delle idee costituisce il
contributo più importante e durevole che Arthur Lovejoy e i suoi se­
guaci hanno dato alla riflessione storica. L’autore di The Great Chain of
Being ha avuto anche il grande merito di porre con rigore le questioni di
continuità e influenza nei lunghi periodi storici, che sicuramente sono
tra le più ardue e delicate, anche se è comunque ovvio che continuità
non significa determinismo.
Viceversa la sua idea dell’autonomia dei concetti in rapporto al loro
contesto culturale, linguistico e politico, nel complesso accolta molto fa­
vorevolmente alla sua apparizione, ha rapidamente prestato il fianco al­
la critica. È Lovejoy stesso ad aprire la sua nuova rivista al dibattito che
durerà oltre mezzo secolo’1. La critica più importante è naturalmente ri­
volta al postulato secondo il quale un’idea può essere percepita come un
elemento autonomo. I primi censori si levano dunque in nome del con­
testo, dello spirito di un’epoca e infine della storia delle idee come Gei-301

30. Lovejoy, The Great Chain of Being, p. 15: «The same idea often appears, someti­
mes considerably disguised, in most diverse regions of the intellectual world» [La
grande catena dell’essere, p. 22].
31. Si veda il fascicolo di aprile-giugno 1987 del journal o f the History o f Ideas, voi.
48, II, e segnatamente l’articolo di Daniel J. Wilson «Lovejoy’s The Great Chain
of Being after Fifty Years», pp. 187-206. Si veda anche Thomas Bresdorff, «Lo-
vejoy’s idea of “Idea”», New Literary History, voi. 8, II, 1977, pp. 195-212.

45
Introduzione

stesgeschichte. Il Geist non ha qui alcuna connotazione mistica o mitolo­


gica, ma rappresenta semplicemente l’insieme delle caratteristiche e del­
le componenti di un periodo o di un movimento che lo storico percepi­
sce come unità e il cui impatto è superiore a quello di ognuna delle sue
componenti’2. Di fronte a queste obiezioni, Lovejoy difende il suo meto­
do, che consiste semplicemente nel passare i testi al setaccio per vedere
se una stessa componente ritorni davvero in due o più contesti diversi” .
Si pone così, quando la storia delle idee diventa a pieno titolo una disci­
plina universitaria, la questione del contestualismo.
Nello stesso periodo, in uno storico francese delle idee come Max
Rouché, autore dell’opera fino a oggi più completa su Herder, anche se
magari invecchiata, spunta l’idea secondo la quale una grande opera ha
sempre due significati: quello che le dà l’autore e quello che le attri­
buiranno le generazioni successive. Qui si pone inevitabilmente il pro­
blema di sapere se tutte le interpretazioni sono ugualmente valide. Se
è normale che generazioni diverse cerchino in un’opera un significato
che risponde alle loro domande, dove passa il confine tra un’interpre­
tazione legittima e una distorsione, volontaria o no? Chi è abilitato a ri­
solvere la questione? Herder può essere contemporaneamente un
grande umanista e il precursore di un nazionalismo biologico? E anche
Nietzsche sarebbe allo stesso tempo un individualista sfrenato, antina­
zionalista e filoebraico, e uno dei fondatori del nazismo? Esistono al­
meno dei criteri che ci permettano di comprendere le intenzioni del­
l’autore, contrariamente a quanto pensava Jacques Derrida, al di là del­
le contraddizioni di cui è fatalmente costellata ogni opera importante?
Non è forse evidente che un testo deve essere letto solo alla luce degli
scopi che si prefissava l’autore? Ma non è anche evidente che, dal mo­
mento in cui viene messa in circolazione, un’opera assume un’esisten­
za e un significato propri ed esercita un’influenza che non è sempre, e32

32. Leo Spitzer, « Geistesgeschichte vs. History of Ideas as applied to Hitlerism»,


journal o f the History of Ideas, voi. 5, II, aprile 1944, pp. 194-203. Spitzer rim­
provera a Lovejoy anche di separare ragione e sentimento.
33. Arthur O. Lovejoy, «Reply to Professor Spitzer», journal of the History of Ideas,
voi. 5, III, giugno 1944, pp. 204-205. E interessante constatare come Lovejoy ri­
sponda in anticipo, nelle prime pagine del suo articolo, a quella che più tardi
sarà la critica postmoderna.

46
Introduzione

spesso non lo è affatto, nelle intenzioni dell’autore? Quando un’opera


viene fatta propria e saccheggiata senza vergogna come quella di Nietz­
sche da parte dei nazisti, non conviene quantomeno domandarsi se es­
sa non vi prestasse il fianco? La lunga lotta dell’autore di A l di là del
bene e del male contro l’Illuminismo, l’umanesimo, l’eguaglianza, la
democrazia, che ha avuto un ruolo di primo piano nell’educazione di
un’intera generazione di tedeschi, non ha forse contribuito ad aprire
una breccia che ha permesso un’usurpazione in sé inaccettabile? Come
mai una tale disavventura non è potuta capitare alle opere di Tocque­
ville o di Benjamin Constant?
Questi interrogativi torneranno più volte. Al momento vorrei sem­
plicemente far notare che la prima difficoltà posta dal metodo Lovejoy
viene meno quando il periodo analizzato possiede un’indiscussa unità.
Seguire l’evoluzione di un concetto o di un’idea, sia l’idea di progresso,
di libertà o il concetto di storia, dall’antichità a oggi pone chiaramente
allo storico, più che al filosofo, problemi di estrema complessità. Se un
tale approccio permette a volte risultati che colpiscono, può anche esse­
re all’origine di distorsioni concettuali o di errori colossali. Lo stesso ac­
cade quando ci si interroga sulla dimensione sociale delle ideologie o sul­
la loro effettiva influenza sul corso degli eventi. La ricerca, a secoli di di­
stanza, di influenze dirette o nascoste può essere fruttuosa, come per
esempio nel caso di una riflessione sulla presenza di radici platoniche nel
pensiero di Rousseau, ma può anche risultare uno sterile esercizio. Tut­
tavia, così come è ovvio che Machiavelli, di norma insignito del titolo di
fondatore della scienza politica, non poteva fare riflessioni sulla politica
come le facciamo noi oggi, è chiaro che era in grado, come Aristotele, di
fare osservazioni interessanti sulla natura umana, sul potere, lo Stato,
l’arte di guidare gli uomini o la religione. Alcune sue osservazioni po­
trebbero essere di oggi se, proprio grazie al suo lavoro, non fossero di­
ventate luoghi comuni. Tanto più che Machiavelli ha continuato a esse­
re letto e riletto nel XVIII e X IX secolo proprio perché storici, scrittori,
uomini politici o anche semplicemente molti lettori colti pensavano che
l’autore del Principe e dei Discorsi avesse espresso qualche idea utile al
loro tempo. Tutti gli uomini sono figli del loro secolo, e Chateaubriand
lo ricordava molto opportunamente nel momento in cui il vecchio mon­
do dell'Ancien Regime spariva per sempre. Prima di lui, Voltaire pensa­
va analogamente che «ogni uomo è formato dal suo secolo» e aggiungeva:

47
Introduzione

«Ben pochi si innalzano sopra i costumi del tempo»’*4. Sono proprio que­
sti uomini eccezionali che riescono a vedere oltre l’orizzonte e oltrepas­
sare il loro momento storico. I problemi posti da Dante o san Tommaso
d ’Aquino non sono più i nostri. Questo non significa che il dibattito me­
dievale sul conflitto latente o aperto fra i due poteri, quello spirituale e
quello temporale, sia privo di senso attuale. Le questioni di principio che
potevano essere sollevate dall’opposizione di Chiesa e Stato mantengo­
no il loro significato, non fosse altro perché quei principi possono esse­
re tradotti in termini che ci sarebbero familiari. Il pluralismo non è altro
che il primo di questi termini.
Tuttavia, ancora una volta, queste problematiche spariscono quan­
do l’ambito della ricerca è limitato a un periodo che costituisce una ve­
ra e propria unità di tempo storico. E il caso di quello che va dalla fine
del XVII secolo ai giorni nostri. E utile ricordarlo ancora, non fosse al­
tro perché una delle grandi linee d’attacco contro l’Illuminismo passa
attraverso l’idea secondo la quale la Rivoluzione francese è stata un’e­
splosione religiosa preparata da illuminati e condotta da fanatici, cre­
denti convinti quanto gli uomini del Medioevo, partiti alla ricerca di ve­
rità eterne e del paradiso terrestre. L’idea che la Rivoluzione presentas­
se un carattere fondamentalmente religioso era tutt’altro che originale.
Lanciata a suo tempo da de Maistre, ripresa da Tocqueville, sviluppata
da Hippolyte Taine sotto il velo di una ricerca storica positivista, accre­
ditata negli Stati Uniti negli anni Trenta dallo storico Cari Becker,
vent’anni dopo essa avrebbe entusiasmato la scuola totalitaria. Mentre
la guerra fredda era al culmine, avanzava l’idea secondo la quale l’uto­
pia illuminista aveva partorito la Rivoluzione sovietica, poi lo stalinismo
e i gulag. Adorno e Horkheimer propendevano invece per una filiazio­
ne tra Illuminismo e nazismo. Questo attacco, si sa, continua ancora og­
gi sotto diverse forme. Per esempio, secondo Derrida, che usa questa
argomentazione contro Husserl, ci sarebbe solo un passo tra l’umanesi­
mo, quale che sia, e il razzismo, il colonialismo e l’eurocentrismo. Nei
fatti, qualsiasi umanesimo coinciderebbe con una tendenza all’esclu-

34. Voltaire, Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni e sui principali fatti della sto­
ria da Carlomagno sino a Luigi XIII, trad. di Marco Minerbi, CdL, Milano 1966,
4 voli., t. II, cap. 82, p. 360.

48
Introduzione

sione” . Non è necessario dire che questa condanna totale dell’umanesi­


mo falsa completamente sia lo spirito illuminista franco-kantiano che
quello inglese e scozzese.
Bisogna soffermarsi ancora brevemente su un altro aspetto della vi­
vace polemica in merito alla natura, al senso e alla metodologia della sto­
ria delle idee che da un quarto di secolo oppone scuole, conventicole e
correnti di pensiero. Si tratta dell’approccio a mio parere meno fertile,
un procedimento associato al contestualismo linguistico nella sua ver­
sione «dura», quella che rifiuta qualsiasi metodo analitico che utilizzi al­
tri elementi esplicativi che non siano il linguaggio e il vocabolario. Per
questa tendenza esiste solo il testo, vale a dire che sarebbero degne di
analisi solo le forme del discorso. Se, come pensano alcuni, le intenzioni
dell’autore ci sfuggono fatalmente perché la nostra storicità implica l’im­
possibilità di valicare il nostro orizzonte storico, se il senso di un testo at­
tribuito da uno storico non è quello voluto dall’autore ma condizionato
dalle origini, dalle idee e dai valori di cui lo storico è portatore e depo­
sitario, se inoltre, come sostiene Derrida, l’intenzione di un autore è per
noi un principio inaccessibile, perché noi non potremo mai conoscere lo
stato intellettuale e le disposizioni mentali di qualcun altro’6, allora la
storia delle idee si scontra con ostacoli insormontabili’7. Il problema, né3567

35. Alain Renaut, «Les humanismes modemes», in A. Renaut (a cura di), Histoire de la
philosophie politique, t. Ili, Lumières et Romantisme, Calmann-Lévy, Paris 1999, p. 45.
36. Cfr. Mark Bevir, che propone un’eccellente critica al contestualismo linguistico:
«The Errors of Linguistic Contextualism», History and Theory, 31 (8), 1992, pp.
276-298. Dello stesso autore si veda anche The Logic o f the History o f the Ideas,
Cambridge University Press, Cambridge 1999. Si veda inoltre John E. Toews,
«Intellectual History after the Linguistic Turn», American Historical Review, voi.
92, IV, 1987, pp. 879-907; Anthony Padgen, «Rethinking the Linguistic Turn:
Current Anxieties in Intellectual History», Journal of the History of Ideas, voi.
49, III, 1988, pp. 519-530.
37. Per il problema della storia delle idee contro la storia culturale, qui non affronta­
to, cfr. Nancy J. Christie, «From Intellectual to Cultural History: The Comparati­
ve Catalyst», Journal of History and Politics, voi. 6,1988-1989, pp. 79-100. Riguar­
do all’importanza dell’«archeologia del sapere» per lo storico si veda, tra gli altri,
Larry Shiner, «Reading Foucault: Anthi-Method and the Genealogy of Power-
Knowledge», Llistory and Theory, voi. 21, III, 1982, pp. 382-397; Jeffrey Weeks,
«Foucault for Historians», History Workshop Journal, voi. 14, 1982, pp. 106-119.

49
Introduzione

più né meno, verte infatti sulle nostre capacità di comprendere il signifi­


cato dei testi sui quali lavoriamo.
Fortunatamente questi testi sono tutt’altro che indecifrabili. Quen-
tin Skinner fa giustamente notare come, a forza di concentrarsi esclusi­
vamente sul linguaggio di un autore, noi corriamo il rischio di inserirlo
in una tradizione politica totalmente diversa, ingannandoci così comple­
tamente anche sul senso del suo pensiero politico’8. Di conseguenza la
corrente contestualista moderata accetta che si rifletta sulle intenzioni di
un autore, e quindi sul significato di un testo anche al di là del contesto
linguistico. Tuttavia, dopo questi saggi consigli, Skinner, che è senza
dubbio il maggiore contestualista «tenero», si avventura anche lui in
un’impresa di classica decostruzione della storia delle idee. In un bril­
lante articolo che ha avuto una profonda influenza da quando è stato
pubblicato nel 1969, egli demolisce un’idea che ha sempre giustificato lo
studio della storia del pensiero politico: quella secondo la quale i grandi
autori del passato avrebbero posto delle questioni che sono ancora le no­
stre, e cercato soluzioni a problemi che ancora oggi abbiamo. In un te­
sto che è diventato una sorta di bolla pontificia postmoderna, Skinner
sostiene che ogni autore che, in ogni tempo e in ogni luogo, si dedichi a
un dato problema, si trova in una situazione unica e scrive per alcuni let­
tori e non per altri, cerca soluzioni a domande concrete che sono esclu­
sivamente sue. In questo modo qualsiasi testo, qualsiasi enunciato di fat­
ti, qualsiasi principio, qualsiasi idea tratta della specificità di una situa­
zione e dell’unicità di un momento. E quindi futile e ingenuo parlare di
«verità universali» o di «problemi immortali»: non è possibile andare ol­
tre il proprio tempo e il proprio luogo, non esistono questioni eterne co­
me non ci sono concetti eterni, ma soltanto concetti specifici, ben defi­
niti, che appartengono a società specifiche e dunque diverse. Questa è
l’unica verità generale che possa esistere, non solo per quanto riguarda
il passato ma anche per il presente3839.

38. Quentin Skinner, «Some problems in the Analysis of Political Thought and Ac­
tion», in ). Tully (a cura di), Meaning and Context: Quentin Skinner and His Cri­
tics, Polity Press, Cambridge 1988, p. 106.
39. Quentin Skinner, «Meaning and Understanding in the History of the Ideas», Hi­
story and Theory, 8, 1969, pp. 49-53. Si veda anche Dominick LaCapra e John P.

50
Introduzione

Se i postmoderni avessero semplicemente voluto dire che ogni ge­


nerazione deve pensare per se stessa, cercare da sé la soluzione dei pro­
pri problemi e non sperare di trovare in Aristotele, sant’Agostino o
Machiavelli risposte concrete, in grado di guidare l’azione politica im­
mediata, avrebbero enunciato una verità evidente. Se avessero sempli­
cemente voluto mostrare che i problemi posti da Platone erano quelli
della democrazia ateniese e non quelli della democrazia francese di og­
gi, avrebbero semplicemente formulato una verità lapalissiana. Ma non
è questo il loro obiettivo; la loro posizione è più complessa perché, in
effetti, consiste nel negare l’esistenza di verità e di valori universali.
Tramite il contestualismo, il particolarismo e il relativismo linguistico,
concentrandosi solo su ciò che è unico e specifico e negando l’univer­
sale, ci si trova giocoforza sul versante deH’antiumanesimo e del relati­
vismo storico.
Basta analizzare il XVIII secolo per rendersi conto della profondità
del fossato che separa, su entrambe le sponde dell’Atlantico, la moder­
nità razionalista dai suoi nemici. Al di là di tutto quanto poteva distin­
guere i fondatori degli Stati Uniti e gli uomini della Rivoluzione france­
se, essi avevano in comune l’eredità di Locke e della Gloriosa Rivoluzio­
ne del 1689, di Rousseau e Voltaire, di Madison e Hamilton, di Condil­
lac, di Condorcet e di Saint-Just, un buon numero di concetti e di con­
vinzioni: erano senza dubbio tutti persuasi di operare in un contesto spe­
cifico, per cambiare o creare una data situazione in un luogo ben defini­
to ma anche di formulare dei principi di portata universale. Lavoravano
tutti per il presente, volevano cambiare il mondo che era loro e solo lo­
ro, ma allo stesso tempo avevano tutti la chiara consapevolezza di essere
gli autori di atti che impegnavano i posteri senza possibilità di ritorno.

Diggins, «The Oyster and the Pearl: The Problem of Contextualism in Intellec­
tual History», History and Theory, vol. 23, II, 1984, pp. 151-169; «Rethinking In­
tellectual History and Reading Texts», History and Theory, vol. 19, II, 1980, pp.
245-276; Eric Miller, «Intellectual Discourse after the Earthquakes: a Study in
Discourse», History Teacher, vol. 30, III, 1997, pp. 357-371; due articoli di D o­
nald R. Kelley, «Horizons of Intellectual History: Retrospect, Circumspect, Pro­
spect», journal of the History of Ideas, vol. 4 8 ,1, 1987, pp. 143-170 e «What is
Happening to the History of Ideas», journal of the History of Ideas, vol. 51, I,
1990, pp. 3-25.

51
Introduzione

In effetti nessun’altra epoca se non PHIuminismo, questo straordina­


rio esordio dell’età moderna, può vantarsi di avere sviluppato una con­
sapevolezza tanto esplicita della frattura col passato. Mentre il Medioe­
vo cercava la sua legittimità nel solco del sistema intellettuale del perio­
do classico, la modernità nascente si considerava una rottura storica sen­
za precedenti. L’«età moderna» si era volontariamente ed espressamen­
te presentata come tale e aveva voluto prendere le distanze dall’epoca
che la precedeva definendola «Medioevo» e interponendola tra sé e l’an­
tichità. La stessa parola Lumières rappresentava proprio la presa di co­
scienza delle intenzioni razionali dell’epoca nuova: la consapevolezza di
sé è uno dei fenomeni costitutivi dell’inizio di una fase storica. L’età mo­
derna non esiste prima del momento in cui si dichiara tale; certo la de­
nominazione non ne fu il motore, dice Hans Blumenberg, ma essa ne eb­
be costantemente bisogno per strutturarsi40. Molto più delle generazioni
precedenti, gli Illuministi hanno avuto la percezione di una rottura deci­
siva e dell’inizio di qualcosa di irreversibile.
L’esempio più probante della duplice dimensione assunta dalle loro
opere è senza dubbio il destino del famoso Federalista, il più importan­
te lavoro di filosofia politica mai realizzato negli Stati Uniti. Questo li­
bro, si sa, non è altro che una raccolta di manifesti elettorali. Scritta tra
il 27 ottobre 1787 e il 16 agosto 1788, durante la campagna condotta nel­
lo Stato di New York per la ratifica della Costituzione promulgata nel
1787, questa serie di 85 articoli pubblicata sulla stampa della città di
New York aveva un obiettivo primario, chiaro e ben definito: in primo
luogo convincere la popolazione di quello Stato decisivo che tanto la li­
bertà quanto la proprietà privata sarebbero state preservate e protette
nel quadro di uno Stato federale con un forte potere centrale. In secon­
do luogo, bisognava dimostrare che la libertà non dipendeva dalle di­
mensioni di un paese ma da buone istituzioni: a questo proposito, gli au­
tori si richiamano all’autorità del «celebre Montesquieu». Il loro terzo
scopo è di provare che poteva esistere una democrazia che non fosse di­
retta ma rappresentativa. Infine, essi vogliono dimostrare che la libertà
esige che siano ben formulati i limiti dei diritti della maggioranza. Men­
tre stavano conducendo una battaglia elettorale fondamentale, i tre

40. Sul concetto di epoca, si veda Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, p. 499.

52
Introduzione

autori, che scrivevano con lo pseudonimo di Publius, erano perfetta­


mente consapevoli del valore universale dei loro scritti e dei loro atti.
Alexander Hamilton, James Madison e John Jay sapevano che l’espe­
rienza alla quale invitavano i loro concittadini non aveva precedenti e
rappresentava una rivoluzione di carattere universale. La Costituzione si
riferiva a problemi concreti che gli americani della fine del XVIII seco­
lo dovevano affrontare e fu votata proprio perché rispondeva ai loro bi­
sogni e alle loro speranze, ma essa formulava anche principi generali che
per i fondatori erano buoni e giusti, e quindi valevoli per tutti gli uomi­
ni in ogni tempo e in ogni luogo41. Nel corso di questi ultimi due secoli
tale giudizio non è stato smentito. Ancora oggi negli Stati Uniti il Fede­
ralista gode dello statuto riservato ai testi sacri della storia americana ed
è secondo per autorità solo alla Costituzione.
La campagna raggiunse l’apice quando, nel marzo 1788, i primi 36
articoli furono pubblicati in volume. Due mesi dopo, il 28 maggio, ap­
parve un secondo volume con gli articoli dal 37 all’85. Un anno dopo, al­
l’inizio di maggio del 1789, a Parigi si aprivano gli Stati generali. Mentre
Madison, oggi riconosciuto come il «padre della Costituzione», diveniva
per otto anni il leader intellettuale del Congresso, prima di essere il ter­
zo presidente degli Stati Uniti, mentre Hamilton diveniva il grande mi­
nistro delle Finanze che George Washington, eletto il 6 aprile 1789, at­
tendeva, e John Jay assumeva la presidenza della Corte suprema, in
Francia cominciava la Rivoluzione. Nel gennaio del 1789 nelle tredici
vecchie colonie si svolgevano le prime elezioni federali; in Francia veni­
vano promulgate le lettere patenti per regolare le elezioni per gli Stati ge­
nerali e l’abate Sieyès pubblicava Quest-ce que le tiers état? Sei mesi do­
po, il 17 giugno, il Terzo Stato prendeva il nome di Assemblea naziona­
le e il 27 giugno lo stesso re ordinò l’unificazione dei tre ordini. L’Ancien
Regime non esisteva più. Qualche settimana dopo veniva promulgata la
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Testo quanto mai di
circostanza, quello strumento di attacco nato in momenti di crisi e di ri­
volte fissava la data di nascita dei nuovi tempi. Nello stesso momento, i

41. Un altro problema, quello doloroso e vergognoso della schiavitù nel Sud o della
discriminazione istituzionalizzata fino agli anni Sessanta del Novecento, non può
essere affrontato qui.

53
Introduzione

paragrafi della Dichiarazione proclamavano in poche formule sintetiche


le idee principali deU’Illuminismo francese. I principi dell’89 stavano per
fare il giro del mondo.
Il Federalista da solo è in grado di confutare le basi di un certo po­
stmodernismo applicate alla storia delle idee. Si tratta in effetti di un
esempio pressoché ideale: uomini che, in una fase critica della loro co­
munità, vengono chiamati a risolvere problemi politici concreti in un
paese ai margini della civiltà e offrono risposte di valore universale rea­
lizzando un classico del pensiero politico. Lo stesso avviene per Edmund
Burke: è improbabile che, se la Rivoluzione fosse stata solo una reazione
a una crisi di regime, un palliativo destinato a porre fine alle rivolte gra­
narie o al fallimento finanziario, magari un incidente di percorso o il ri­
sultato di una macchinazione, Burke si sarebbe mai innalzato al livello
della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e che il suo pamphlet, Rifles­
sioni sulla Rivoluzione francese, destinato semplicemente a colmare una
breccia dalla quale egli vedeva precipitare il diluvio, sarebbe stato, dopo
oltre due secoli, il manifesto intellettuale del conservatorismo d’assalto.
Divenuto molto rapidamente la bibbia del conservatorismo rivoluziona­
rio che si sarebbe manifestato alla svolta del X X secolo, questo procla­
ma alimenta oggi il neoconservatorismo. La ragione è che, rivolgendosi
ai suoi compatrioti per parlare loro della Costituzione inglese o della Ri­
voluzione del 1689, occupandosi degli usi e dei costumi del suo paese, o
difendendo le tradizioni inglesi, Burke formula un certo numero di prin­
cipi altrettanto astratti e altrettanto universali di quelli espressi dai tanto
esecrati rivoluzionari francesi.
Prendendole difese della storia, dei pregiudizi e della religione con­
tro la ragione, della comunità contro l’individuo, rifiutando i principi del
contrattualismo e i dogmi che l’Europa doveva alla scuola giusnaturali-
sta, lo stesso Burke provocò a sua volta una risposta. I diritti dell’uomo,
l’altro magnifico pamphlet che si deve a Thomas Paine, divenne altret­
tanto popolare. «Il grande americano», come era talvolta definito in In­
ghilterra, divenuto cittadino francese, come l’altro radicale Jeremy
Bentham e come Schiller, per decreto dell’Assemblea nazionale, e poi
eletto deputato del Pas-de-Calais, aveva già pubblicato, due anni prima
del Federalista, Il senso comune, opera che lo rese celebre. Così gli auto­
ri del Federalista, Burke e Paine, entrambi noti nei loro rispettivi am­
bienti, tra il 1788 e il 1791 scrissero alla svelta tre pamphlet su questioni

54
Introduzione

scottanti che tuttavia stabiliscono principi fondamentali per la vita poli­


tica e sociale.
Quasi un secolo prima, scrivendo il Secondo trattato sul Governo, an­
che Locke aveva un obiettivo immediato, ben comprensibile ai suoi con­
temporanei come anche per noi: voleva dare una base ideologica al cam­
biamento di regime che si stava compiendo in Inghilterra. Dopo cinque
anni di esilio in Olanda, ritorna con Guglielmo d’Orange e giustifica il
trionfo della rivoluzione del 1689. Ancora una volta fu uno scritto di cir­
costanza a impregnare rapidamente il dibattito politico, proprio come do­
po le due rivoluzioni della fine del Settecento. Per Rousseau l’autore del
Secondo trattato è il «saggio Locke»; viceversa, per de Maistre l’odio ver­
so Locke è l’inizio della saggezza. Le dichiarazioni americane dei diritti
mettono in pratica il pensiero di Locke. Quanto a Burke, non potendo at­
taccare apertamente il teorico della Gloriosa Rivoluzione ma richiaman­
dosi a modo suo a quella stessa Rivoluzione, nelle sue Riflessioni non lo
nomina nemmeno una volta. Per Burke, Locke semplicemente non esiste,
così come non esistono i fondatori degli Stati Uniti. Era il modo più sem­
plice, anche se non il più serio, per non misurarsi con la teoria dei diritti
dell’uomo verso la quale il fondatore del conservatorismo nutriva un vero
orrore. E per questo che Burke non si inscrive nella grande tradizione del
liberalismo inglese, non ne è un anello, come invece si crede spesso: al con­
trario Burke fonda una nuova tradizione politica, quella di un liberalismo
«bloccato», «incompleto» o «mutilato», di sua concezione. Ai nostri gior­
ni, questa varietà di liberalismo assume l’aspetto del neoconservatorismo.
Quando Fichte, nel 1806-1807, redige i suoi Discorsi alla nazione te­
desca in una Berlino occupata da Napoleone, non ha altro scopo che lan­
ciare un appello alle armi, ma così facendo adatta il pensiero di Herder
alla situazione creata dalla conquista della Germania da parte delle trup­
pe francesi e diviene uno dei grandi profeti del nazionalismo. Quando i
rapporti di forza si rovesceranno, nel 1871, all’indomani di Sedan, Re­
nan scriverà la Réforme intellectuelle et morale de la France, un saggio vi­
rulento contro il Settecento francese dove, come Taine ne Les Origines
de la France contemporaine, considera l’Illuminismo, la Rivoluzione,
Rousseau e la democrazia responsabili della decadenza francese. Lo stes­
so tipo di argomentazioni ritorneranno dopo la disfatta del 1940 e, nei
mesi in cui inizia la Rivoluzione nazionale, la Réforme verrà letta come
se fosse fresca di stampa.

55
Introduzione

Tutti questi autori erano coscienti del carattere storico delle loro
idee, ma allo stesso tempo tutti ponevano questioni fondamentali sulla
natura umana o sulla vita dell’uomo in società e cercavano di delineare
una buona società. Tutti intendevano andare oltre il loro contesto im­
mediato e tutti erano consapevoli di affermare un certo numero di verità
fondamentali, di «principi eterni» e non si sentivano schiavi di paradig­
mi: il fatto che alcuni scrittori contemporanei ricoprano questi termini di
sarcasmo non cambia nulla alla realtà. Tutti volevano interrogarsi sulla
nascita e la caduta delle civiltà e non esitavano a porsi in una prospetti­
va lunga venticinque secoli dialogando con Platone.
In questa riflessione sulle sorti delle civiltà si fa strada, all’inizio del
Novecento, l’idea che l’Illuminismo non appartenga solo al Settecento e
che in effetti sia una forma di civiltà che dall’Atene di Pericle fino alla
Cina di Confucio, appartiene alle fasi di decadenza, quando i miti spari­
scono e si afferma il regno della ragione. Il pensiero illuminista può dun­
que essere ritrovato in ogni tempo e in ogni luogo nel mondo e rappre­
senta una minaccia permanente per la cultura bene intesa.

56
CAPITOLO 1

Lo scontro delle tradizioni

Per abbracciare in tutta la sua ampiezza il significato della campagna


contro rilluminismo francese e comprenderne tutta la complessità, bi­
sogna cominciare dal periodo tra il XVII e il XVIII secolo. Il trionfo dei
Modernes nella famosa querelle, avviata nel 1687 nello stesso momento
in cui in Inghilterra si prepara la Gloriosa Rivoluzione, annuncia il pri­
mo successo dei Lumi. Furono proprio questi i due aspetti della prima
vittoria dei nuovi valori.
La Gloriosa Rivoluzione fu una consacrazione formidabile, intellet­
tuale e politica, che ebbe come principi ideologici i due Trattati sul go­
verno di Locke. Nel momento in cui in Inghilterra il regime stava rapi­
damente cambiando, senza resistenze o spargimenti di sangue, la Fran­
cia, sul finire del regno di Luigi XIV, può lanciarsi solo in una lunga e
dura "battaglia intellettuale. Questa enorme differenza tra le due situa­
zioni'segnò in modo indelebile l’Illuminismo francese e avrebbe per­
messo di parlare ormai, dalla fine del XVIII e per tutto il X IX secolo, di
uno scontro di civiltà. Nelle condizioni politiche e nel contesto sociale
prevalenti ih Trancia nel Settecento la consapevolezza delle ingiustizie e
dei mostruosi abusi che costituivano la realtà dei tempi, la guerra all’au­
toritarismo, la lotta per la libertà e per il diritto degli uomini a liberarsi
dal giogo del passato avrebbero assunto le forme di una violenta campa­
gna ideologica e culturale.
Il rifiuto dell’esistente produce una spinta senza precedenti nella ri­
flessione storica: non si era mai tanto discusso così sul mondo di doma­
ni; si medita sul passato ma non ci si inchina né di fronte alla sua auto­
rità né a quella del presente, e se non ci si inchina di fronte al presente è
perché si è convinti di avere il diritto e la capacità di modellare il futuro.
« “Quanto al modo in cui il mondo è stato governato [...] fino a oggi,
non deve interessarci altro che per fare un buon uso degli errori e dei
progressi che la storia ci mostra”, scrisse Tom Paine nella sua famosa

57
Lo scontro delle tradizioni

confutazione alle Riflessioni sulla Rivoluzione francese di Burke. Chi è


vissuto cento o mille anni fa è stato a suo tempo moderno, così come noi
lo siamo oggi. Anche rispetto a lui vi sono stati degli antichi, e altri an­
cora ve ne furono rispetto a questi ultimi; anche noi, a nostra volta, sa­
remo chiamati antichi. [...] La verità è che questi frammenti di antichità,
con il dimostrare tutto, non provano nulla. E un continuo contrapporsi
di autorità ad autorità, fino a che non si risale all’origine divina dei di­
ritti dell’uomo nella creazione.»1
Contrariamente a un’idea diffusa dai primi nemici dei Lumi, che il
X IX secolo non ha mancato di adottare, il tempo di Voltaire, di Gibbon
e di Hume segna in realtà il vero inizio della storiografia moderna. La sto­
riografia è divenuta possibile solo con l’esordio della critica, e la critica è
possibile solo dal momento in cui l’individuo afferma la propria autono­
mia. La storiografia diviene una forma di attività intellettuale solo quan­
do l’uomo cessa di cercare la volontà divina nella storia e si affida alla ra­
gione individuale per comprendere il passato e preparare il futuro.
Il tratto distintivo dell’Illuminismo è la critica, in nome della ragio­
ne, dell’ordine politico esistente ma anche della morale, della religione,
del diritto, della storia. Kant lo sapeva e Cassirer e Husserl hanno volu­
to fare l’elogio della ragione in un momento difficile della storia del lo­
ro secolo. La critica globale dell’esistente segna l’inizio nella modernità.
E proprio durante gli ultimi anni del XVII secolo che la modernità co­
mincia a insediarsi come l’espressione di una rottura che si vuole radica­
le contro il passato (l’antichità) e soprattutto contro i suoi modelli nor­
mativi. Con la famosa disputa des Anciens et des Modernes si produce
una rottura peculiare, praticamente senza precedenti, che consacra i
contenuti di rivolta, di innovazione e di critica che si volevano associare
all’idea di modernità. La controversia esplosa alla fine del Seicento fu
l’ultima della lunga catena di riflessioni sugli antiqui e i moderni, il cui
inizio risale a Cassiodoro, lo storico di Teodorico il Grande, all’indoma­
ni della caduta dellTmpero romano d’Occidente2. Il dibattito sulla mo-

1. Thomas Paine, l diritti dell’uomo e altri scritti politici, a cura di Tito Magri, trad,
di Marina Astrologo, Editori Riuniti, Roma 1978, p. 143.
2. Si veda Tilo Schabert, «Modernity and History I: What is Modernity?», in The
promise of History: Essays in Political Philosophy, Walter de Gruyter, Berlin e New
York 1986, pp. 9-21.

58
Lo scontro delle tradizioni

dernità continua dal XII al XVIII secolo. Questo perché, come ha mo­
strato Jiirgen Habermas, l’idea di modernità si ritrova ogni volta che in
Kuropa si prende coscienza di un’epoca nuova3. La scuola detta di Char-
tres, con Bernardo di Chartres e Giovanni di Salisbury, sviluppa l’idea
secondo la quale gli antichi erano dei «giganti» sulle cui spalle stavano
dei «nani», ma, grazie alla loro posizione, i nani potevano vedere più
lontano degli antichi. Nel XVI secolo il dibattito oppone due schiera-
menti ben definiti: con Rabelais, Giordano Bruno e Jean Bodin, con
Francis Bacon all’inizio del secolo successivo, i moderni non temono più
di affermare la propria superiorità45.
Di fronte si erge lo schieramento degli antichi: in un bel capitolo dei
suoi Essais, giustamente intitolato «Della consuetudine e del non cam­
biare facilmente una legge accolta», dopo avere evocato i grandi nomi
dei tempi antichi, da Socrate e Platone a Ottavio e Catone, Montaigne
proclama: «La novità mi disgusta, sotto qualsiasi aspetto si presenti, e ho
ragione, perché ne ho veduti effetti molto dannosi. [...] Ma anche il mi­
glior pretesto per un’innovazione è molto dannoso: adeo nibil motum ex
antiquo probabile est»?.
A metà del XVII secolo Pascal assume una posizione di compromes­
so in quello che sembra l’ultimo sforzo per salvare il salvabile dell’auto­
rità degli antichi6. Tuttavia diventa sempre più difficile mantenere questo
complesso equilibrio, man mano che un numero crescente di europei si
convince che i capolavori di Corneille, Racine e Molière, di Poussin,
Charles Le Brun e Claude Perrault erano ben altro che una semplice imi­
tazione degli Anciens. Per molti il secolo di Luigi XIV non era inferiore

3. Jiirgen Habermas, «L a modernité: un projet inachevé», Critique, n. 413, ottobre


1981. Su questo argomento si veda Zeev Sternhell, «L a modernité et ses ennemis:
de la révolte contre les Lumières au rejet de la démocratie», in Leternel retour.
Contre la démocratie, l’idéologie de la décadence, Presses de la Fondation nationa­
le de sciences politiques, Paris 1994.
4. Tilo Schabert, «Modernity and History I: What is Modernity?», p. 13.
5. Michel de Montaigne, Saggi, a cura di Fausta Garavini, 2 voli., Adelphi, Milano
1992, pp. 155-156. Si veda anche la p. 154 su «quel buono e grande Socrate» che
«rifiutò di salvarsi la vita con la disobbedienza a un magistrato, e proprio a un ma­
gistrato assai ingiusto e iniquo». Traduzione del testo latino: «Tant’è che nessun
cambiamento dell’antico uso merita approvazione».
6. Schabert, «Modernity and History I: What is Modernity?», pp. 13-15.

59
Lo scontro delle tradizioni

all’età di Augusto. Il 27 gennaio 1687, all’Académie française, Charles


Perrault recitò un famoso poema sul secolo di Luigi il Grande, dichiara­
to superiore all’antichità7. La famosa querelle imperversa fino alla sua
conclusione, un quarto di secolo dopo, con la Lettre à l’Académie di Fé­
nelon. Nel 1715, alla vigilia della morte, l’autore delle Aventures de Télé­
maque mette fine a quella che chiama «la disputa» o anche «la guerra ci­
vile àe\YAcadémie»'. «Io non esalto gli Antichi come modelli senza im­
perfezioni; io non voglio togliere a nessuno la speranza di vincerli. Mi au­
guro al contrario di vedere i Moderni vittoriosi con lo studio degli stessi
Antichi che avranno sconfitto»8. In verità, nelle sue implicazioni profon­
de, la Lettre à l’Académie manifesta un carattere molto più moderno dei
pamphlet controrivoluzionari della fine del Settecento: lungi dall’inchi-
narsi ciecamente di fronte al genio dei tempi antichi, Fénelon non esita a
esaltare i suoi contemporanei: «Bisogna confessare che tra gli Antichi ci
sono pochi autori eccellenti, e che i Moderni ne hanno alcuni le cui ope­
re sono preziose»9. L’arcivescovo di Cambrai non manca di sottolineare le
debolezze e i difetti degli Anciens, specialmente in filosofia, ma si soffer­
ma anche sulle difficoltà intellettuali e storiche provate dal lettore mo­
derno che affronta le loro opere. In questo modo egli afferma non solo il

7. Si veda Charles Perrault, Parallèle des Anciens et des Modernes en ce qui regarde
les Art et les Sciences, Eidos Verlag, Munich 1964, pp. 165-171 (fac-similé dell’e­
dizione del 1688).
8. Fénelon, «Reflexions sur la Grammaire, la Rhétorique, la Poétique et l’Histoire
ou Mémoire sur les travaux de l’Académie française à M. Dacier», in Œuvres, II,
a cura di Jacques Le Brun, Gallimard, Paris 1997, p. 1197. Il titolo consueto con
cui questo testo è universalmente noto è «Lettre à l’Académie». In appendice a
questo volume si trovano le prime due versioni di quel testo, che ebbe innume­
revoli edizioni (pp. 1199-1237). In una prima versione Fénelon osserva che «la
guerra civile déiVAcadémie» può avere effetti benefici permettendo un certo per­
fezionamento del gusto. Se egli teme per «gli autori pieni di talento e delicatezza
che oseranno abbandonare e disprezzare gli Anciens», non è perché chiede loro
di inchinarsi a essi. Al contrario: «Mi auguro che li superino, ma credo che si
debba imparare a superarli dagli stessi Anciens, posto che vi si possa riuscire» (p.
1225). Si veda anche p. 1220: «D a parte mia vorrei che i Modernes superassero
tutti gli Anciens».
9. Ibid., p. 1191. Si veda anche p. 1224: «Abbiamo solo un numero molto piccolo di
autori eccezionali tra i greci e i latini. Ne abbiamo di eccellenti in diversi generi
nel nostro secolo e nella nostra nazione».

60
Lo scontro delle tradizioni

diritto all’innovazione ma anche a un continuo cammino in avanti, in no­


me del progresso dello spirito umano e dell’indipendenza di ogni gene­
razione. Del resto l’autore di Télémaque esprime un sentimento assai mo­
derno della superiorità del suo secolo «che sempre più esce dalla barba­
rie»,10 dice. Qualche pagina prima ricorda i franchi di Clodoveo, che non
erano altro che «una turba errante e selvaggia, e se si è potuto scorgere
un raggio di nascente educazione sotto l’impero di Carlo Magno, [...] la
rapida caduta della sua dinastia ricacciò l’Europa in una barbarie spa­
ventosa. San Luigi fu un prodigio di ragione e di virtù in un secolo di fer­
ro. Noi usciamo a malapena da questa lunga notte».11
In questo modo la modernità ideologica acquisisce la sua definitiva
patente di nobiltà e viene stabilita l’idea di progresso lineare: il presente
è concepito come infinitamente superiore al passato prossimo e non sof­
fre alcun complesso di fronte alla grandezza dell’antichità. Nei fatti la
sua superiorità comincia già ad affermarsi chiaramente. Il culto del Me­
dioevo che appare all’inizio del XVIII secolo con Vico e alla sua fine con
Herder e si sviluppa con forza durante il primo romanticismo non costi­
tuisce in alcun modo una forma di ritorno alla fede o una scoperta di una
brillante civiltà perduta, ma soltanto una rivolta contro i Lumi. Non è un
caso che questa venerazione di un mondò scomparso abbia inizio con gli
autori della Scienza nuova e di Ancora uria 'filosofia della storia. Per certi
versi l’agostiniano Fénelon, autore della Famosa Dcmonstratìon de l’exi-
stence de Dieu, che scrive tra il XVII e il XVIII secolo, è più vicino ai
grandi «pagani» deH’Illuminismo francese che non ai loro nemici, i Vi­
co, Hamann, Herder, Burke o de Maistre, baluardi della fede e delle
Chiese stabilite.
La Lettre presenta un altro aspetto interessante. II suo autore si au­
gura che YAcadémie «ci fornisca un trattato sulla storia»: Fénelon la
considera una disciplina chiave, uno strumento incomparabile «che
chiarisce le origini, e spiega attraverso quale cammino i popoli siano
passati da una forma di governo a un’altra». Ma per fare la storia oc­
corrono bravi storici: lo storico si dedicherà prima di tutto a «dipinge­
re gli uomini eminenti e a scoprire le cause degli eventi». Egli dovrà

10. ìbid., p. 1191.


11. Ibid., pp. 1179-1181.

61
Lo scontro delle tradizioni

dare prova di obiettività, di senso critico, di curiosità, non sarà acceca­


to dal patriottismo, presenterà i fatti senza pregiudizi, non si lascerà ac­
cecare dalle idee correnti («egli segue il suo gusto senza consultare quel­
lo del pubblico»12).
Il bravo storico non cade nell’anacronismo e non si lascia coinvolge­
re nella ricerca di innumerevoli «fatti minuti»; bisogna lasciare «questa
superstiziosa esattezza ai compilatori». Non è un «arido e triste realizza­
tore di annali» che potrebbe produrre solo «una storia per così dire tri­
tata in piccoli pezzi e senza alcun filo di vivace narrazione». Lo storico
degno di questo nome deve invece ricostruire «esattamente la forma di
governo e i particolari dei costumi della nazione di cui scrive la storia,
per ogni secolo». E in questo che egli deve dare prova di precisione: nel
tratteggiare le epoche, le strutture di potere e, come diremmo noi, le
mentalità e le strutture sociali, perché è proprio questo che vuol dire Fé-
nelon, ed è proprio questa la lezione che imparerà Voltaire: «Ogni na­
zione ha i suoi costumi molto diversi da quelli dei popoli vicini. Ogni po­
polo cambia spesso per i propri costumi». Qui si trova anche l’origine di
quelle famose scoperte che di solito si accreditano a Herder. Nell’idea di
Fénelon, il bravo storico è come il bravo pittore: «La perfezione princi­
pale di una storia consiste nell’ordine e nella sistemazione. Per giungere
a questo bell’ordine, lo storico deve abbracciare e possedere tutta la sua
storia. La deve vedere interamente, con un solo sguardo. Bisogna che la
giri e la rigiri da tutti i lati, finché non abbia trovato il suo vero punto di
vista. Bisogna mostrarne l’unità e ricondurre, per così dire, a una sola
causa tutti gli eventi principali che ne dipendono»13.
Lettore esigente, Fénelon conclude con una critica concisa ma ser­
rata ai grandi storici dell’antichità: Erodoto, Senofonte, Polibio, Tucidi­
de, Sallustio, Tacito, tutti hanno i loro difetti, spesso grandi14. Al lettore
non resta che concludere da solo: il mondo va avanti e il futuro appar­
tiene ai Modernes.
In effetti, la rivoluzione scientifica e quindi sociale verificatasi nel
XVII secolo, che consacra la vittoria dei Modernes e la cui ultima tappa

12. Ibid.,p. 1178.


13. Ibid., pp. 1178-1181.
14. Ibid., pp. 1183-1184.

62
Lo scontro delle tradizioni

si svolge negli anni di «crisi della coscienza europea», secondo la fortu­


nata espressione di Paul Hazard15, favorisce l’emergere di una intuizione
poco comune nella storia della nostra civiltà: l’idea, anzi ormai la con­
vinzione, che gli uomini abbiano il diritto di costruire un mondo diver­
so da quello che hanno ereditato. In questo modo la storia cessa di co­
stituire un’autorità tutelare: se, come pensa Fénelon, il mondo è appena
uscito dalla barbarie, è escluso che vada a cercare le sue norme di com­
portamento in quella lunga notte dalla quale è emerso da poco. Così si
libera uno straordinario serbatoio di energia, prima intellettuale e poi
politica. Ogni generazione si sentirà libera di lanciarsi non solo alla sco­
perta dell’univèrso fisico ma della storia, dell’antropologia, delle nuove
strutture politiche e sociali. L’individuo si sentirà padrone della propria
esistenza, pari ai più potenti, in grado di crearsi un mondo che i suoi an­
tenati non potevano nemmeno sognare. Comincera a chiedere conto e a
interrogarsi sulle ragioni delle sventure che lo colpiscono: è la famosa
domanda che emerge all’inizio del primo capitolo del Contrai social e
nelle cento pagine del Discours sur l'origine de l’inégalité parmi les hom-
mes, dove Rousseau si interroga sulle origini della società civile e, così fa­
cendo, ci offre uno straordinario saggio di antropologia filosofica senza
Dio. Rousseau, come uòmo dei Lumi crea una storia delle origini del­
l’umanità che distrugge la concezione religiosa della vita. È per questo
che fu il pensatore più odiato dai nemici dei Lumi, colui che eliminò la
Rivelazione dalla vita degli uomini e colui che, ai primi passi del capita­
lismo, alzò la bandiera della rivolta contro le ingiustizie sociali. All’origi­
ne del male si trovano le strutture sociali e non la natura umana, la pro­
prietà e aH'origine dei mali della società borghese per come essa funzio­
na nel Settecento, dove la libertà non esiste e dove domina l’inegua­
glianza. Contrariamente a un’idea radicata, Rousseau non era un pessi­
mista: se l’autore del Discours sur les Sciences et les Arts non può essere
annoverato tra i teorici dell’idea di progresso, per lui l’uomo era co­
munque padrone del proprio destino. Per gli Illuministi il male non sta­
va nell’uomo ma nella condizione sociale, nell’ignoranza, nella supersti­
zione e nella povertà.

15. Paul Hazard, La crisi della coscienza europea, a cura di Paolo Serini, Il Saggiato­
re, Milano 1968, 2 voli.

63
Lo scontro delle tradizioni

Alain Renaut ha brillantemente dimostrato che Rousseau è davve­


ro il primo a formulare l’idea che la libertà umana si manifesti con la
capacità di affrancarsi dalla natura, quindi per mancanza di definizio­
ne o di essenza. Noi conosciamo la metafora sartriana del tagliacarte
che compare in uno dei testi più famosi del pensiero del Novecento,
Lexistentialisme est un humanisme. In quella famosa conferenza del
1945, l’autore di L'Etre et le Néant insiste sulla differenza di principio
tra umanità e «cosità»: rimprovera alla teologia e alla filosofia tradizio­
nale di avere concepito l’uomo sul modello dell’oggetto fabbricato e
Dio, analogamente, su quello dell’artigiano supremo. In una simile vi­
sione del mondo la libertà umana sparisce, poiché l’uomo si ritrova pri­
gioniero di una natura, assegnato a una finalità o a un modello, dal qua­
le non può evadere più di quanto non possa farlo il tagliacarte. L’uma­
nesimo autentico, invece, è caratterizzato dall’idea che « c ’è almeno un
essere che esiste prima di potere essere definito, e questo essere è l’uo­
m o»16. A totale insaputa di Sartre, dice Renaut, indicando così un
aspetto fondamentale del pensiero del XVIII secolo, misconosciuto
perché mal compreso, questa concezione fenomenologica o esistenzia­
lista dell’umanesimo, lungi dal rompere con la filosofia dei Lumi, si ri­
congiungeva invece alle principali tesi di Kant o di Fichte sull’umanità
dell’uomo intesa come storicità: queste tesi erano in gran parte eredità
di Rousseau17.
In effetti, nel suo Discours sur l’origine de l’inégalité parmi les hom-
mes, Rousseau per primo formula quest’idea che sarà ripresa da Kant,
come mostra Renaut, in Idea di una storia universale. «Ogni animale ha
delle idee, poiché ha dei sensi; dice Rousseau, e anzi, fino a un certo pun­
to, combina le sue idee. L’uomo, in ciò, non differisce dall’animale che
per il più o il meno [...]. Dunque, quello che dà all’uomo un posto spe­
cifico tra gli animali non è tanto l’intelletto quanto la sua qualità di agen­
te libero. [...] La spiritualità della sua anima si manifesta soprattutto nel­
la coscienza di questa libertà.»18

16. Citato in Alain Renaut (si veda la nota seguente).


17. Alain Renaut, «Les humanismes modernes», in Alain Renaut (a cura di), Histoire
de la philosophie politique, t. III, Lumières et Romantisme, Calmann-Lévy, Paris
1999, p. 38.
18. J-J. Rousseau, Origine délia disuguaglianza, pp. 47-48.

64
Lo scontro delle tradizioni

Rousseau mostra che è per diretta conseguenza di questa capacità di


non essere prigioniero dei condizionamenti naturali che solo l’uomo si
scontra con i problemi della storia individuale e della storia collettiva: at-
iraverso l’educazione e attraverso la politica. Una simile rielaborazione
antinaturalista dell’uomo, una simile rinnovata concezione dell’uomo,
non potevano essere pensate senza profonde ripercussioni nell’ordine
politico. Rousseau, e poi Kant, mostrano in questo modo che l’uomo è
perfettibile e che questa perfettibilità è un continuo annullamento della
natura, dunque una costruzione di sé tramite se stessi e di conseguenza
una storicità. È la storicità di un distacco dai condizionamenti naturali
continuamente rinnovato. L’importanza di quanto Rousseau abbozzava,
dice Alain Renaut, non si potrà mai considerare eccessiva. L’autore del
Discours sur l’origine de l’inégalitéparmi les hommes aveva trovato la pri­
ma protezione radicale contro il razzismo: « l’uomo selvaggio», pur co­
minciando la sua evoluzione «attraverso funzioni puramente animali» e
ricordando ancora l’animalità a causa della sua assenza di storicità, non
è assolutamente un animale. E diretto da facoltà comuni a tutti gli uo­
mini in ogni tempo e in ogni luogo. Queste facoltà, anche se ancora po­
co sviluppate, portano in germe il segno di una libertà infinita il cui svi­
luppo è concepito come un processo di distacco dalla natura. Per Rous­
seau l’umanità restava sempre una sola e medesima umanità19.
Questo umanesimo è alla base dell’odio dal quale Kant, sotto questo
aspetto allievo di Rousseau, e lo stesso Rousseau furono perseguitati per
due secoli. Conviene del resto aggiungere che Rousseau aveva combat­
tuto in anticipo l’idea secondo la quale il concetto di natura umana pre­
sente in tutti gli uomini poteva portare a una tirannia dell’universale. Le
critiche rivolte alla filosofia universalista moderna per non avere denun­
ciato la schiavitù dimenticano non solo Rousseau, ma Montesquieu e
Voltaire, gli enciclopedisti e gli Illuministi inglesi. Ma.è soprattutto la Ri­
voluzione a essere trascurata. Di fatto, la schiavitù è stata abolita dalla
Rivoluzione francese. Gli schiavi, come gli ebrei, furono liberati e, per la
prima volta nella storia, tutti gli uomini che vivevano all’interno dello
stesso paese, la Francia, dovevano sottostare alle stesse leggi e diventa­
vano cittadini liberi ed eguali nei diritti. Per Kant, come per Rousseau

19. Renaut, «Les humanismes modernes», pp 38-41.

65
Lo scontro delle tradizioni

prima di lui, tutti gli uomini, chiunque essi siano, appartengono a que­
sto mondo umano che è la storia concepita come perfettibilità.
Fontenelle, una delle bestie nere di tutti i nemici dei Lumi, come
Georges Sorel all’inizio del Novecento, che vedono in lui il simbolo del
male, esprimerà prima di Kant e di Rousseau la magnifica fiducia in se
stesso dell’uomo moderno. Gli uomini sono gli stessi in ogni tempo e in
ogni luogo: «In virtù di che cosa il cervello di allora avrebbe dovuto es­
sere meglio organizzato?» Non è forse chiaro che «la natura ha tra le ma­
ni una certa pasta che è sempre la stessa, e che gira e rigira incessante­
mente in mille modi»? «I secoli non producono alcuna differenza natu­
rale tra gli uomini. [...] Eccoci dunque tutti perfettamente eguali, anti­
chi e moderni, greci, latini e francesi.»20 Gli Anciens non hanno fatto al­
tro che precedere i Modernes nel tempo, e questo crea l’illusione che es­
si abbiano inventato tutto. Al loro posto, i Modernes sarebbero giunti
agli stessi risultati. Ma, nei fatti, i Modernes sono giunti a risultati mai ot­
tenuti dagli Anciens. Questi non avevano solo pregi, anzi: colmi di difet­
ti e debolezze, hanno «utilizzato la maggior parte delle idee false che si
potevano produrre. Era assolutamente necessario pagare all’errore e al­
l’ignoranza il tributo che essi hanno pagato». Quello che, secondo Fon­
tenelle, mancava indubbiamente agli Anciens era il metodo scientifico, o
ciò che egli definisce esattezza e rigore: «Non di rado deboli rapporti,
piccole somiglianze, fantasie poco solide, discorsi vaghi e confusi, ven­
gono presi per dimostrazioni»21. I secoli passati non hanno avuto alcun
Descartes: grazie a questo balzo in avanti, in tutti i campi del sapere re­
gna «una precisione e un’esattezza, fino a ora sconosciute»22. Ecco per­
ché «essendo dunque illuminati dalle concezioni degli antichi, e dai loro
stessi errori, non è sorprendente che li superiamo»23. Le generazioni si
succedono e gli ultimi venuti saranno sempre superiori ai loro predeces­
sori: «È evidente che tutto ciò non ha fine, e che gli ultimi fisici o mate­
matici dovranno naturalmente essere i più abili»24. Il progresso delle co-

20 . Fontenelle, Digressione sugli antichi e sui moderni, a cura di Alfonso M. Iacono,


Manifestolibri, Roma 1996, pp. 25-27 e 31.
21 . Ibid., pp. 39-41.
22 . Ihid., p. 43.
23. Ibid., p. 39.
24. Ibid., p. 41.

66
Lo scontro delle tradizioni

noscenze è infinito, e si è sempre i Modernes di qualcuno: «Vi era un


tempo in cui i latini erano i moderni, e allora si lamentavano del culto
per i Greci»;25 «bisogna poter digerire che Demostene e Cicerone ven­
gano comparati con un uomo che può anche avere un cognome france­
se».26 L’autore di Entretiens sur la pluralità des mondes habités invita
ugualmente i suoi contemporanei a liberarsi dalla propensione degli uo­
mini ad «abbandonare la ragione per i pregiudizi». E utile riconoscere
che «la lettura degli antichi ha dissipato l’ignoranza e la barbarie dei se­
coli precedenti», e che il mondo deve alla rinascita dei greci e dei latini
il fatto di essere uscito dai «secoli barbari che hanno fatto seguito a quel­
li di Augusto»,27 ma questo non significa che ci si debba inchinare per
sempre di fronte alla saggezza degli Anciens.
Qui si vede, come in una sorta di microcosmo, tutto quello che se­
para lo spirito dei Lumi dai suoi nemici. In effetti non soltanto il Me­
dioevo idealizzato da Herder e dai romantici appare come un periodo di
barbarie, ma Fontenelle paragona l’evoluzione dell’umanità a quella di
un individuo, con una sola ma fondamentale differenza riguardo a Vico,
a Herder, a Spengler: il progresso è infinito. L’uomo ha avuto la sua in­
fanzia, ha la sua età matura, «ma debbo confessare che quell’uomo non
avrà vecchiaia [...], in altre parole gli uomini non degenereranno mai, e
le idee sane di tutte le buone menti che si succederanno, si aggiungeran­
no sempre le une alle altre»28.
La vittoria dei Lumi nel XVIII secolo non poteva più essere messa
in dubbio: essa fu resa possibile da un lato dal magistero esercitato da
Locke e dal successo del razionalismo universale di Christian Wolfe, e
dall’altro lato dall’insuccesso della Scienza nuova di Vico. «Voi che vive­
te, e soprattutto voi che cominciate a vivere nel XVIII secolo, rallegrate­
vi.»29 Tutte le argomentazioni dell’apologià dei Modernes vengono mobi­
litate per delineare, come fa Chastellux, un quadro apocalittico della

25. Ibid., p. 63. Si veda anche p. 47.


26. Ibid., p. 49.
27. Ibid., pp. 53-55.
28. Ibid., p. 51.
29. Chastellux, De la Félicité publique, citato in Paul Hazard, La Pensée européenne
au XVIII siècle de Montesquieu à Lessing, Fayard, Paris 1995; Hachette, «Plu­
riel», p. 271.

I
67
Lo scontro delle tradizioni

brutalità e barbarie dei costumi antichi e per concludere che «quei mo­
numenti di crudeltà provano sufficientemente la superiorità della nostra
filosofia moderna su quella che ha potuto uniformarsi a tali abomini»’0.
Lo stesso quadro di barbarie ritorna in Volney che, in più, si prende gio­
co dell’adorazione superstiziosa per i greci e i romani, dei quadri idillia­
ci che dipingono la libertà e l’eguaglianza di cui essi avrebbero goduto,
quando invece Sparta e Roma erano oligarchie brutali che tenevano sot­
to il loro giogo intere popolazioni di schiavi e di plebei parimenti mise­
rabili. Lo stesso Chateaubriand sapeva che le antiche Repubbliche non
potevano nemmeno supporre l’esistenza della «libertà figlia dei lumi»3031.
Tuttavia, pur avendo una chiara coscienza della specificità del loro
tempo e facendo valere la consapevolezza della modernità, gli Illuministi,
proprio come i loro successori del X IX e X X secolo, non vedono la loro
epoca come «ultima e singolare». Senz’altro la loro era una grande epo­
ca, ma il cammino in avanti non si sarebbe mai fermato. Spesso la storia
dell’Europa appare sotto forma di un vasto movimento di preparazione
dei tempi moderni: l’esordio della democrazia può essere intuito già nei
presocratici. Ma non c’è nessuna «fine della storia»: nessuna epoca, nes­
sun popolo può pretendere di avere raggiunto l’optimum. Non c’è alcu­
na linea di arrivo. Invece Burke considerava il suo mondo come la perfe­
zione; con l’Inghilterra del XVIII secolo, secondo i suoi principi genera­
li, si era raggiunto il massimo. Egli aveva pensato alla fine della storia due
secoli prima di uno dei suoi seguaci neoconservatori, Francis Fukuyama32.
E proprio a questa scuola di pensiero che appartiene l’idea della fine della

30. Chastellux, De la Yélicité publique, citato in Jean-Fabien Spitz, La libertépoliti-


que: Essai de Généalogie conceptuelle, Presses universitaires de France, Paris
1995, p. 498.
31. Frangois-René de Chateaubriand, Memorie d'oltretomba, a cura di Ivana Rossi,
Einaudi-Gallimard, Torino 1995, 2 voli., prima parte, libro VI, cap. 7, p. 225.
Chateaubriand narra il suo arrivo nel 1791 a Filadelfia, dove doveva incontrare
Washington: «la libertà che conoscevo era quella degli antichi, la libertà figlia dei
costumi in una società nascente; ignoravo però la libertà figlia dei lumi e di una
vecchia civiltà, quella libertà di cui la Repubblica rappresentativa ha dimostrato
la realtà: voglia Dio che sia duratura!»
32. Francis Fukuyama, The End of History and thè Last Man, The Free Press, New
York 1992 (si veda il nostro Epilogo) [La fine della Storia e l ’ultimo uomo, trad.
di Delfo Ceni, Rizzoli, Milano 2003],

68
Lo scontro delle tradizioni

storia che all’inizio dell’ultimo decennio del Novecento accende l’imma­


ginazione degli ambienti neoconservatori americani.
Contrariamente a un luogo comune, la critica universale, nella quale
Paul Hazard a ragione vede l’anima dell’Illuminismo, non aveva inten­
zione di cambiare l’uomo ma soltanto lo stato sociale. La critica era con­
cepita come uno strumento migliorativo della condizione umana, uno
strumento per il progresso e la felicità. La felicità diventava un diritto, la
cui idea si sostituiva a quella di dovere. Era lo scopo di tutti gli esseri in­
telligenti, il punto verso il quale tutte le loro azioni convergevano. In que­
sto modo si annunciava la fine della brama di assoluto” . La filosofia do­
veva essere guidata dalla pratica, non avrebbe più dovuto essere altro che
la ricerca della felicità. Il bene dell’individuo diventava l’obiettivo finale
di qualsiasi azione politica e sociale: era questo il contributo fondamen­
tale della scuola giusnaturalista. Il pensiero di Locke, il suo teorico più fa­
moso, domina il XVIII secolo, anche dopo la comparsa di Rousseau. A
partire da Hobbes, alla metà del XVII secolo, di cui Locke segue il pen­
siero, si afferma progressivamente la sovranità della ragione, che si svi­
luppa definitivamente cento anni dopo. Anche quando si è d’accordo sui
suoi limiti, la si sa incapace di conoscere la sostanza e l’essenza, non ci so­
no dubbi sul suo ruolo: scoprire, osservare i fatti e analizzarli, portare al­
la luce gli elementi del reale, paragonarli, scoprire i legami che li unisco­
no e trarne delle leggi. Il metodo sarà dunque quello dell’esperienza. La
ragione ha l’incarico di rivelare la verità e denunciare l’errore; essa è uni­
versale, identica in tutti gli uomini, e da essa non dipendono solo la scien­
za e le arti ma anche l’avvenire del genere umano.
Ma «che cosa significa illuminare»? chiedono gli uomini del XVIII
secolo tramite Moses Mendelssohn” . E Kant che, in un testo famoso,
uno dei più belli mai prodotti dai pensatori del suo tempo, pubblicato
nel dicembre 1784, avrebbe dato in poche pagine, sulle quali non ci stan­
cheremo mai di tornare, la definizione più esatta di Illuminismo, e quel­
la più vicina allo spirito dei philosophes: «Lilluminismo è l’uscita del-34

33. Paul Hazard, La Pensée européenne au X V llle siècle, pp. 18-33.


34. M. Mendelssohn, «Sur la question: que signifie éclairer?», in I. Kant, Qu est-ce
que les Lumières?, Traduction, préface et notes de Jean Mondot, Publications de
l’université de Saint-Étienne, Saint-Étienne 1991, pp. 67 e sgg.

69
Lo scontro delle tradizioni

l’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità
è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro.
[...] Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligen­
za! E questo il motto deH’lluminismo»55. L’appello di Kant all’emancipa­
zione del soggetto umano dagli intralci della storia e della religione è un
corollario della sua visione dei Lumi come un processo dinamico, un
continuo cammino verso un’autoemancipazione sempre più avanzata.
Questa visione ottimistica della storia è basata sul concetto del primato
dei diritti dell’uomo: sotto l’influenza di Rousseau, Kant comincia a con­
siderare la libertà come il primo principio della morale, e la teoria del
contratto sociale gli appare ormai come la sola filosofia politica compa­
tibile con una simile concezione della morale56. Kant ha sottolineato il
suo debito con Rousseau: «Rousseau mi ha corretto [...] Lio imparato a
rispettare gli uomini e mi sentirei all’improvviso più inutile di un comu­
ne lavoratore se non credessi al tempo stesso che le mie osservazioni pos­
sano rappresentare un valore per tutti, in grado di costruire diritti del­
l’umanità»57. Egli vedeva nell’autore del Contrat social il Newton della
morale: «Rousseau fu il primo a scoprire, nella molteplicità delle forme
assunte dall’uomo, la sua natura profondamente nascosta»58.
Per Kant gli uomini del suo tempo non erano ancora padroni del lo­
ro destino, non si erano ancora liberati dai pregiudizi e dalle superstizio­
ni, ma, se l’età non era ancora illuminata, era già quella della ragione e
della critica. È proprio da questa critica razionale delle certezze e dei va­
lori tradizionali che procede la teoria dei diritti naturali, il principio del35678

35. Kant, «Risposta alla domanda: che cos’è rilluminismo?», in Scritti di filosofia po­
litica, a cura di Dario Faucci, trad. di Gioele Solari e Giovanni Vidari, La Nuo­
va Italia, Firenze 1967, p. 25 (corsivo nel testo). Sulla critica di questo testo da
parte di Michel Foucault, si veda il suo «Q u ’est-ce que les Lumières?», in Ma­
gazine littéraire, aprile 1993, pp. 62-74. Si veda anche Maurizio Passerin d’En-
trèves, Cntique and Enlightenment: Michel Foucault on «Was ist Aufklärung»,
Institut de ciències politiques i socials, Barcelone 1996.
36. F.C. Beiser, Enlightenment, Revolution and Romanticism. The Genesis o f Modem
German Political Thought, 1790-1800, Flarvard University Press, Cambridge
(Mass.) 1992, pp. 30-33, 37.
37. Kant, Annotazioni alle Osservazioni sul sentimento del hello e del sublime, a cu­
ra di Maria Teresa Catena, Guida, Napoli 2002, p. 64.
38. Ibid., p. 80.

70
Lo scontro delle tradizioni

primato dell’individuo in rapporto alla società e l’idea per la quale il be­


rte e la felicità devono sempre essere l’obiettivo di ogni azione politica. E
la critica razionale dell’ordine esistente che permette di concepire la so­
cietà come un aggregato di individui e lo Stato come uno strumento tra
le mani dell’individuo. E dunque la critica che produce la nostra visione
edonista e utilitaristica della società e dello Stato: per tutto il X IX e il X X
secolo la reazione contro i Lumi definirà in termini di «materialismo» que­
sto concetto del primato assoluto dell’individuo in rapporto alla colletti­
vità. Rapidamente «materialismo» - liberalismo (nel senso che questo ter­
mine assume in Inghilterra e negli Stati Uniti), democrazia, socialismo -
diventa la parola chiave per eccellenza per designare il male.
La liberazione dell’individuo, nel senso che Kant ha dato a questo
processo, trova la sua concretizzazione nella Rivoluzione francese. Kant è
rimasto fedele alla Rivoluzione malgrado il trauma del 1793 e continua a
pensare che la ragione non solo permetta ma addirittura obblighi a cam­
biare la società conformemente ai principi della giustizia. Nel 1797 egli
continua a esprimere la sua convinzione che l’uomo possa migliorarsi39. La
Rivoluzione traduce anche in termini politici la visione storica dell’Illumi-
nismo: una visione lineare che concepisce il futuro come la realizzazione
dei progetti utopici del presente40. «Le utopie», scrive Octavio Paz, «sono
i sogni della ragione. Sogni attivi che si trasformano in rivoluzioni e rifor­
me.»41 In pratica, la negazione del valore intrinseco dell’utopia non è che
un altro modo di scalzare i fondamenti della modernità in ciò che essa ha
in sé, come la definisce Jürgen Habermas, del progetto illuminista42.
Kant, questo si sa, non riconosceva agli individui il diritto di resi­
stenza al potere politico, e in questo egli si pone al di qua non solo di
Locke ma anche di Hobbes. Se quest’ultimo non accordava agli uomini
il diritto alla ribellione, lascia comunque intravedere la possibilità che il
potere, mettendo in pericolo la vita dell’individuo, perda la sua ragione
d’essere e quindi la sua legittimità e finisca per corrompersi, cosa che
rappresenta un altro modo di aprire uno spiraglio alla rivolta. Su questo

39. Beiser, Enlightenment, Revolution and Romanticism, p. 38.


40. F. Lattraverse, W. Moser (a cura di), «Avant-propos», in Vienne au tournant du
siècle, Albin Michel, Paris 1988, pp. 9-10.
41. O. Paz, «Poésie et modernité», Le Débat, septembre 1989, p. 4.
42. J. Habermas, «L a modernité: un projet inachevé», Critique, 413, octobre 1981.

71
Lo scontro delle tradizioni

punto Kant respinge le premesse dalla scuola giusnaturalista. Per lui un


diritto alla rivolta è una contraddizione in termini. Inoltre, al cittadino è
interdetto porre la questione dell’origine legittima o meno del sistema
politico vigente. Nietzsche gli avrebbe rimproverato duramente questo
conformismo tipico degli intellettuali, senza ricordare che si tratta so­
stanzialmente degli intellettuali tedeschi: «Già Kant fu, come noi scien­
ziati solitamente siamo, pieno di riguardi, sottomesso e, nei suoi rappor­
ti con lo Stato, senza grandezza»43. Ecco almeno un rimprovero che non
poteva essere rivolto ai philosophes francesi.
Secondo Kant, che cosa rimane allora al cittadino pensante? Un’ar­
ma sola, ma decisiva: la critica; un solo mezzo, ma sicuro ed efficace:
diffondere i Lumi, sviluppare VAufklärung. Quindi è nella libertà data
alla riflessione dei cittadini non violenti che Kant vede la grandezza del­
la sua epoca. È giunto il giorno in cui l’uomo può uscire da questa im­
maturità « imputabile a se stesso». Nessuna rivoluzione violenta farà na­
scere una vera riforma dei modi di pensare, anche se la facesse finita col
dispotismo e la repressione: solo VAufklärung può impedire che i vecchi
pregiudizi siano sostituiti da altri che non avrebbero maggior valore.
Perché il progresso proceda, la sola cosa che ha veramente valore per la
morale del mondo e per una politica che si consideri una politica dell’u­
manità, «non occorre altro che la libertà; e la più inoffensiva di tutte le
libertà, quella cioè di fare pubblico uso della propria ragione in tutti i
campi»44. «In tutti i campi» e «pubblico uso», queste sono le parole chia­
ve, dice Eric Weil: nulla può sottrarsi alla critica, né la religione, né i
principi della legislazione, né la Chiesa, né lo Stato; e questa critica do­
vrà essere fatta pubblicamente45.
L’Illuminismo è stato proprio un processo di lento passaggio dallo
stato di tutela allo stato di libertà. In questo si tratta davvero, come no­
ta Habermas, di un «progetto incompiuto»46. Ma questa è la nostra vi-

43. F. Nietzsche, Schopenhauer come educatore, a cura di Mazzino Montanari,


Adelphi, Milano 1985, p. 87.
44. Kant, «Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo?», in Scritti di filosofia po­
litica, pp. 25 e 27.
45. Eric Weil et olii, La Philosophie politique de Kant, Presses universitaires de Fran­
ce, Paris 1962, pp. 16-17.
46. Si veda Jiirgcn Habermas, «L a modernité: un projet inachevé» (sopra citato).

72
Lo scontro delle tradizioni

sione delle cose, non quella degli uomini del XVIII secolo: uno come
Voltaire era convinto dell’imminenza della vittoria, prodotto naturale
della rivoluzione intellettuale di cui era testimone. Né i tempi, né le opi­
nioni, né i costumi sono più gli stessi, «da circa cinquant’anni quasi tut­
ta l’Europa ha cambiato aspetto»/7 scriveva nel 1763: non cera alcuna
ragione di ritenere che questo cammino potesse fermarsi. Kant, testimo­
ne della Rivoluzione, si entusiasma per i fatti di Parigi. Il conflitto delle
facoltà, ultimo opuscolo pubblicato da vivo nel 1798, esprime l’ottimi­
smo di una generazione che ha visto la libertà prevalere in America, VAn­
cien Régime abbattuto, la Dichiarazione dei diritti dell’uomo proclama­
ta a Parigi e certe tendenze liberali apparire persino in Prussia. «La ri­
voluzione di un popolo ricco di spirito, rivoluzione che abbiamo visto
accadere ai nostri giorni, può riuscire o fallire; può essere [...] colma di
miserie e atrocità [...] questa rivoluzione, dico, trova però nell’animo di
tutti gli spettatori [...] una partecipazione, sul piano del desiderio, pros­
sima all’entusiasmo [...] che può essere causata solo da una disposizio­
ne morale intrinseca al genere umano.»4748 E Kant prosegue: i popoli avan­
zano verso una «forma politica» basata sull’amministrazione dello «Sta­
to, sotto l’unità del capo supremo (il monarca), secondo leggi analoghe
a quelle che un popolo darebbe a se stesso in base a principi giuridici
universali»4950.Ecco perché «anche senza il dono dello spirito profetico, io
ritengo di poter predire, in base agli indizi e ai segni premonitori dei no­
stri giorni, che il genere umano raggiungerà questo fine e quindi, al tem­
po stesso, che il suo avanzamento verso il meglio non sarà da qui in poi
del tutto impedito». La Rivoluzione francese è dunque il fenomeno che
attesta il cammino in avanti; «ha svelato una capacità e una disposizio­
ne» inerenti alla natura umana: «Solo questo fenomeno poteva promet­
tere d’unire nel genere umano, in base a interni principi giuridici, natu­
ra e libertà». Nonostante tutto, persino le atrocità, «quell’avvenimento è
troppo grande [...] per non tornare [...] alla memoria dei popoli»’1.

47. Voltaire, Trattato sulla tolleranza, a cura di Lorenzo Bianchi, Feltrinelli, Milano
2003, p. 50.
48. Kant, Il conflitto delle facoltà, a cura di Domenico Venturelli, Morcelliana, Bre­
scia 1994, p. 165 (corsivo nel testo).
49. Ibid., p. 169 (corsivo nel testo).
50. Ibid.,pp. 169-170.

73
Lo scontro delle tradizioni

Non che questo progresso sia automatico, precisa Ruyssen. Mentre l’a­
nimale si rimette passivamente alla legge della natura, nell’uomo natura
e libertà sono riunite. Per natura, gli uomini sarebbero tentati di com­
portarsi come gli animali, come quelle «docili pecore guidate, nutrite e
validamente protette da un padrone buono e accorto». Ma «a un essere
dotato di libertà non basta infatti godere il comodo della vita»: egli può
accettare «per il popolo al quale appartiene, solo quel governo in cui il
popolo partecipa alla formazione delle leggi»51. Ormai la specie umana è
in stato di allerta; conosce la sua forza. Dopo di ciò la lezione da trarre
dalla filosofia della storia non è una promessa ma un appello, un’eco del­
l’imperativo; invita l’essere ragionevole ad assumersi la responsabilità del
proprio destino52.
Il conflitto delle facoltà mette il punto finale all’appello lanciato nel­
la sua Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo? uscita nel 1784.
Nel 1790 Kant scrive ancora: «La prima massima [pensare per se stessi]
è quella di una ragione che non è mai passiva. L’inclinazione alla passi­
vità e di conseguenza all’eteronomia della ragione si chiama pregiudizio-,
il più grande di tutti consiste nel rappresentarsi la natura come se essa
non fosse sottomessa alle regole che l’intelletto le dà per fondamento
grazie alla propria legge essenziale, ed è la superstizione. La liberazione
dalla superstizione si chiama Illuminismo» ” . Il libero pensiero, il pensie­
ro liberato, è quello autonomo, quello che è autorizzato solo dal tribu­
nale del proprio intelletto, dice Françoise Proust, quello che si dà le sue
leggi da sé e riconosce come legittime solo le leggi naturali e morali che
gli fornisce la sua ragione. Questo è il senso che la parola «legge» assu­
me nel Settecento: la legge è l’opposto dell’arbitrio poiché è universale e
permette di risolvere il problema posto da Rousseau: trovare una forma
di legame tale per cui si sia liberi pur essendo costretti a obbedirvi. Que­
sto legame è la legge, alla quale l’uomo obbedisce liberamente perché è
la legge della sua ragione5'1. Questa arringa in difesa dei principi illumi-

51. Ibid., pp. 167-168.


52. Théodore Ruyssen, «La Philosophie de l’histoire selon Kant», in La Philosophie
politique de Kant, p. 51.
53. Françoise Proust, Introduction, in I. Kant, Vers la paix perpétuelle et autres tex­
tes, p. 6.
M. //*./. p ?.

74
Lo scontro delle tradizioni

nisti era una splendida risposta a Herder e a Burke, e anche, senza che
Kant avesse mai sentito parlare di lui, a Vico.
Una restaurazione e due rivoluzioni più tardi, un altro liberale illumi­
nato, Tocqueville, riassume ciò che per tutti gli Illuministi fu l’idea di li­
bertà, agli antipodi di quella alla quale credeva Burke: «Secondo la con­
cezione moderna, democratica e oserei dire giusta della libertà, ogni uo­
mo che si presume abbia ricevuto dalla natura le cognizioni necessarie per
comportarsi, reca in sé dalla nascita un diritto eguale e imprescrittibile a
vivere indipendente dai suoi simili, per tutto quanto si riferisce alla sua
persona, e a decidere come meglio crede del proprio destino»55. E così che
Tocqueville riunisce i due aspetti dell’idea di libertà che Benjamin Con­
stant, dopo Kant, aveva già esposto, che Burke aveva voluto ignorare e
che cento anni dopo Isaiah Berlin distinguerà56. In questo senso egli si pre­
senta come un liberale autentico, un liberale dei Lumi, e così facendo pro­
va che non esiste altro liberalismo se non quello legato ai principi illumi­
nisti. Qualche riga più avanti Tocqueville traccia il quadro concettuale del
nazionalismo liberale: «L’idea per cui ogni individuo, e per estensione
ogni popolo, ha il diritto di guidare le proprie azioni, un’idea ancora oscu­
ra, definita in modo incompleto e mal formulata, si introdusse a poco a
poco in tutti gli animi»57. Anni luce separano l’idea di nazione di Burke da
quella di Tocqueville. Per l’autore de LAncien Regime fu nel XVIII seco­
lo che si produsse la trasformazione che avrebbe permesso l’emergere dei
concetti di libertà moderna, libertà individuale e libertà collettiva.
Contrariamente a Burke, secondo cui la rivoluzione in Francia na­
sceva dalla rivolta contro la civiltà cristiana, Tocqueville si rende perfet­
tamente conto della realtà del XVIII secolo. Esaminando, sessant’anni
dopo, i cahiers preparati dai tre ordini alla vigilia della convocazione de­
gli Stati generali, quelli della nobiltà e del clero così come quelli del Ter­
zo Stato, egli scopre, «quasi con terrore, che quanto si chiede è l’aboli­
zione simultanea e sistematica di tutte le leggi e tutti gli usi vigenti nel
paese»58. Non è dunque la «cabala letteraria» parigina che ha la respon­

55. Alexis de Tocqueville, LAntico regime e la Rivoluzione, p. 32.


56. Si veda il cap. 8.
57. Tocqueville, LAntico regime e la Rivoluzione, p. 33.
58. Ibid., p. 233.

75
Lo scontro delle tradizioni

sabilità dei fatti del 1789. Per Tocqueville questa rivoluzione in arrivo
non è il prodotto di una vasta cospirazione contro la civiltà cavalleresca
e cristiana, come pensa Burke, ma piuttosto delle realtà deil’Ancien Re­
gime. Egli concentra la risposta in due capitoli di L’Ancien Regime et la
Revolution. 11 capitolo XII del secondo libro si intitola «Come, nono­
stante i progressi della civiltà, la condizione del contadino francese fos­
se talora peggiore nel XVIII secolo di quanto era stata nel XIII». Ecco
perché Tocqueville è spesso più vicino a Rousseau che a Burke, perlo­
meno quando si tratta dei contadini deU’Ancien Regime e non degli ope­
rai in rivolta del giugno 1848. Gran signore, egli capiva quel testo di
Rousseau che raccontava il suo incontro con un contadino al quale egli
aveva chiesto da mangiare: tale esperienza fu «il germe di quell’odio ine­
stinguibile che poi mi si sviluppò nel cuore contro le vessazioni subite
dallo sventurato popolo e contro i suoi oppressori»59. Ecco qualcosa che
Burke, e dopo di lui Taine, accecati dall’odio per ITlluminismo francese
e per la Rivoluzione, non avevano nemmeno tentato di capire.
Nel capitolo successivo, primo del terzo libro, Tocqueville cerca di
capire «Come, verso la metà del secolo XVIII, i letterati divennero i prin­
cipali uomini politici del paese, e quali conseguenze ne risultarono». Da
una parte, la loro stessa condizione li «disponeva a prediligere le teorie
generali e astratte in materia di governo e ad abbandonarvisi ciecamen­
te», ma allo stesso tempo Tocqueville chiarisce che, pur non partecipan­
do gli intellettuali francesi del XVIII secolo alla vita pubblica come in In­
ghilterra, essi non restavano comunque estranei alla politica: «Si occupa­
vano costantemente di materie attinenti al governo; era questa, a onor del
vero, la loro principale attività». In effetti sono queste le questioni fon­
damentali oggetto del loro interesse: «Ogni giorno li si udiva dissertare
sull’origine della società e sulle loro forme primitive, sui diritti primor­
diali dei cittadini e su quelli dell’autorità, sui reciproci rapporti, naturali
e artificiali, degli uomini, sui difetti o sulla legittimità delle consuetudini,
e sui principi stessi delle leggi. Addentrandosi di giorno in giorno fin nel­
le stesse basi della costituzione del loro tempo, ne esaminavano con cu­
riosità la struttura e ne criticavano l’assetto generale». E qui viene l’es­
senziale: «Non a caso i filosofi del secolo XVIII avevano in genere con-

59. J.-J. Rousseau, Le confessioni, pp. 179-180.

76
Lo scontro delle tradizioni

cepito nozioni tanto opposte a quelle che stavano ancora alla base della
società del loro tempo; tali idee erano state loro suggerite dalla visione di
quella medesima società che tutti avevano sotto gli occhi. Lo spettacolo
di tanti privilegi abusivi o ridicoli [...] spingeva, o meglio ancora faceva
simultaneamente precipitare l’animo di costoro verso l’idea di una natu­
rale eguaglianza delle condizioni. Nel vedere tante istituzioni anomale e
bizzarre, frutto d’altri tempi, [...] era facile per quei filosofi ripudiare le
cose antiche e la tradizione». E questa società, la sola che sia veramente
stata una società bloccata, una società senza futuro, a far sì che gli uomi­
ni di lettere francesi fossero «naturalmente sospinti a voler ricostruire la
società del loro tempo secondo un progetto totalmente nuovo, che cia­
scuno di loro tracciava alla sola luce della propria ragione»60.
Ecco in che cosa consiste «la filosofia politica del secolo XVIII», di­
ce Tocqueville, quando «si prescinde dai particolari per risalire alle idee
madri»: gli scrittori di quel tempo, quali che siano le loro differenze,
«pensano che convenga sostituire con regole semplici ed elementari, at­
tinte alla ragione e alla legge naturale, le consuetudini complesse e tra­
dizionali che reggono la società del loro tempo»61. Molto spesso lo stes­
so Tocqueville appare come un uomo del XVIII secolo per il suo profon­
do legame col razionalismo sperimentale. In UAncien Regime et la Re­
volution egli dedica alcune pagine straordinarie all’elogio degli uomini
del 1789: «È l’89, tempo d’inesperienza senza dubbio, ma anche di ge­
nerosità, di entusiasmo, di virilità e di grandezza, tempo di imperitura
memoria, verso il quale si volgeranno con ammirazione e rispetto gli
sguardi degli uomini, quando coloro che l’hanno visto e noi stessi sare­
mo da tempo scomparsi». Tocqueville prosegue, con un brano il cui ri­
lievo è evidente: «In quel momento i francesi si sentirono abbastanza fie­
ri della loro causa e di se stessi da credere di poter essere uguali nella li­
bertà. In mezzo a istituzioni democratiche introdussero quindi dapper­
tutto istituzioni libere»62. Qui Tocqueville, che non viene praticamente
ricordato da Berlin, risponde in anticipo all’autore di Due concetti di li­
bertà'. la libertà negativa significa difesa dell’individuo contro un’interfe-

60. Tocqueville, LAntico regime e la Rivoluzione, pp. 229-231.


61. Ibid., p. 230.
62. Ibid., pp. 301-302.

77
Lo scontro delle tradizioni

renza esterna, la libertà positiva è modellare il proprio mondo nell’egua­


glianza. Tocqueville lo vuole sottolineare e continua: «Non solo ridusse­
ro in polvere quella legislazione antiquata che divideva gli uomini in ca­
ste, in corporazioni, in classi, e rendeva i loro diritti anche più ineguali
delle loro condizioni, ma spezzarono in un colpo solo le altre leggi, ope­
ra più recente del potere regio, che avevano sottratto alla nazione il li­
bero godimento di se stessa»6364.
Questa società che, agli occhi di Tocqueville, non meritava di so­
pravvivere, rappresentava esattamente l’ideale di Burke, per il quale la so­
cietà del suo tempo andava preservata non per il semplice fatto che esi­
steva ma perché era la migliore possibile: ecco tutta la differenza tra un
liberale conservatore e il padre del neoconservatorismo. Non è un caso
che questo elogio del 1789 fatto da Tocqueville venga solo una pagina do­
po le dure critiche rivolte a Burke. Per Tocqueville, Burke non è altro che
un autore di «eloquenti pamphlets» che non ha visto «in quali condizioni
[...] quella monarchia, da lui rimpianta» aveva ridotto il paesew. Altrove
Tocqueville critica Burke per non avere capito la vera natura della Rivo­
luzione francese, venuta a spazzare via le vecchie istituzioni comuni a tut­
ta Europa, quella che Burke chiama l’«antica legge comune d’Europa»65.
Qui sembra che Tocqueville si inganni: Burke comprendeva bene la na­
tura di quella rivoluzione ed era proprio quella la causa del suo furore.
Ma è interessante osservare come Tocqueville faccia poco caso a Burke ne
l 'Ancien Regime. A giudicare dall’elenco dei brani copiati o riassunti in
vista della redazione del seguito de L’Ancien Regime, Tocqueville ha pra­
ticamente letto tutto Burke e considera una «mente potente» l’autore del­
le Riflessioni, ma lo vede accecato dalI’«odio [...] contro i nostri novato­
ri»; ammirevole quando si occupa di particolari, il suo orizzonte resta
però estremamente limitato: «il carattere generale, l’universalità, la por­
tata finale della Rivoluzione ai suoi inizi gli sfuggono assolutamente. Re­
sta come sotterrato nel vecchio mondo e nello strato inglese di esso, e non
capisce la cosa nuova e universale che sta accadendo»66.

63. Ibid., p. 302. Nel campo «conservatore» sarà capace di un simile elogio solo il
giovane Renan, proprio all’inizio della sua carriera.
64. Ibid., pp. 299-300.
65. Ibid., p. 71.
66. Ibid., pp. 596-597. Si vedano anche le pp. 597-598.

78
Lo scontro delle tradizioni

Contrariamente a Renan, Tocqueville mostrerà la grandezza della Ri­


voluzione alla vigilia della morte, nella sua opera più matura e, cosa an­
cora più significativa, questo elogio verrà dopo quello del XVIII secolo:
«Fu in quel secolo che per la prima volta si sentì parlare dei diritti gene­
rali dell’umanità, di cui ogni uomo può reclamare pari godimento come
legittimo e inalterabile retaggio, e dei diritti generali della natura di cui
ogni cittadino deve avvalersi»67.
Tocqueville è molto più vicino agli uomini del XVIII secolo che a
quelli del liberalismo bloccato della guerra fredda di un Berlin o del li­
beralismo neoconservatore di oggi, sia per la sua consapevolezza dell’e­
sistenza di «leggi fisse che non è forse impossibile scoprire»68 che per la
sua visione della Rivoluzione francese come una necessità. Egli pensa
che essa «sia scaturita spontaneamente da quello che precede»69 e che
«attuò improvvisamente [...] ciò che alla lunga si sarebbe compiuto len­
tamente da sé»: comunque, anche se non si fosse verificata nello stesso
modo o non avesse avuto luogo affatto, «il vecchio edificio sociale sa­
rebbe egualmente crollato dappertutto, prima o poi a seconda dei luo­
ghi»70. Alexis de Tocqueville è il più importante pensatore francese do­
po Rousseau e l’ultimo grande liberale. Nell’Ottocento in Francia gli
può essere paragonato solo Benjamin Constant e nel resto d’Europa so­
lo J.S. Mili è al suo livello. In effetti Constant e Tocqueville appartengo­
no a una tradizione politica che finisce con la morte dell’autore di La Dé-
mocratie en Amérique. Le due maggiori figure della seconda metà del
X IX secolo francese, Taine e Renan, appartengono già a un’altra scuola.
Tocqueville, e per molti aspetti Constant, anche se più problematico,
partecipano della tradizione razionalista e umanista deU’llluminismo
francese. Per contro, Hippolyte Taine prosegue e sviluppa la tradizione
di Burke, adattandola alla realtà della seconda metà dell’Ottocento.
,. Come Burke, Taine risale il corso della storia e in alcune dense pagi­
ne tratteggia un quadro affascinante del «terribile scontro» verso il qua­
le corrono le due tradizioni politiche, quella dei Lumi e la sua antitesi,

67. Ibid., p. 33.


68. Ibid, p. 15.
69. Ibid., p. 298.
70. Ibid., p. 11.

79
Lo scontro delle tradizioni

durante i due secoli precedenti la Rivoluzione francese. In questo modo


si produce quell’impatto violento che Taine definisce un scontro di ci­
viltà. L’autore della Histoire de la littérature anglaise si dedica a questa
contrapposizione che scuote il mondo già dalla fine del XVIII secolo in
un importante capitolo dedicato al suo grande predecessore, Burke. In
effetti, tra tutti i lettori delle Riflessioni sulla Rivoluzione francese, Hip-
polyte Taine è senza dubbio quello le cui opere sono piti conformi allo
spirito di Burke. I tedeschi Gentz e Rehberg erano stati tra i primi a ca­
pirlo subito e a cogliere il senso a lungo termine della sua campagna con­
tro i Lumi, il razionalismo e la democrazia. Ma l’allineamento di Taine a
Burke è molto più significativo: un secolo dopo la Rivoluzione, quando
il pensiero liberale classico aveva appena realizzato i suoi frutti migliori,
con La Démocratie en Amérique e On Liberty di J.S. Mill, Taine si rial­
laccia all’opera del pamphlettista irlandese.
La lettura di Burke che fa Taine è appassionata ma non sorprende.
Per lui «questo lungimirante politico si avvicina al genio»71. Tutta la sua
interpretazione della storia dellTnghilterra confrontata con quella della
Francia ricalca la visione che Burke ha reso celebre nella sua campagna
contro la Rivoluzione. Per cui l’autore delle Origines mostra come gli in­
glesi giungano «conservatori e cristiani alle soglie della Rivoluzione fran­
cese e invece i francesi liberi pensatori e rivoluzionari»7273.Confrontando
l’Inghilterra dell’ordine costituito con la Francia rivoluzionaria, concor­
da con il suo grande mentore nel dire che «mai il contrasto tra due spi­
riti e due civiltà è stato marcato in modo più visibile, ed è ancora una vol­
ta Burke che, con la superiorità di un pensatore e l’ostilità di un inglese,
si è incaricato di mostrarcelo»7*. Qualche pagina dopo, Taine ritorna su
questa idea: nella Rivoluzione francese non esplode «tanto l’urto di due
governi, ma di due civiltà e di due dottrine. Le due enormi macchine,
lanciate a tutta velocità e con tutto il loro peso, si erano scontrate fron­
talmente non per caso, ma per destino. Un’età intera di letteratura e di
filosofia aveva accumulato il carbone che riempiva i loro fianchi e co­
struito i binari che dirigevano la loro corsa». Così sono state lanciate

71. Taine, Histoire de la littérature anglaise, 17” ed., t. Ili, p. 324.


72. Ibid., p. 316.
73. Ibid., p. ò l i.

80
Lo scontro delle tradizioni

«crociata contro crociata» e l’Inghilterra «impaurita era tanto fanatica


quanto la Francia entusiasta». Taine mostra Pitt che rifiuta ai Comuni
«di trattare con una nazione di atei» e cita due importanti testi di Burke
come esempio del «furore dell’esecrazione, dell’invettiva e della distru­
zione» che regnavano allora: la Lettera a un nobile lord e le due Lettere
su una pace regicida74.
Come si è giunti a questo scontro di civiltà? La dimostrazione di
Taine riprende le argomentazioni di Burke quasi al completo. Non è sol­
tanto unidimensionale come lo era stata quella del deputato di Bristol
ma ancora molto ingenua. Se Burke aveva una scusa, il bisogno di pro­
paganda, da parte di Taine, a metà Ottocento, ci si poteva aspettare di
più. Cominciando dalla Costituzione inglese, egli constata che, contra­
riamente a quanto sembra di primo acchito, essa non è un ammasso di
privilegi, cioè di ingiustizie consacrate, ma un corpo di contratti, cioè di
diritti riconosciuti. Ognuno ha il suo diritto, piccolo o grande, che di­
fende con tutte le sue forze e del quale non cederà mai anche una pic­
cola parte. È con questo sentimento, dice Taine, che si conquista e si
mantiene la libertà politica: «E questo sentimento che, dopo avere rove­
sciato Carlo I e Giacomo II, si precisa in principi nella dichiarazione del
1688 e si sviluppa in dimostrazioni con Locke»7576.È così che Taine inter­
preta Locke: i due Trattati sul governo costituiscono una codificazione
delle libertà inglesi e non una teoria dei diritti naturali. Si tratta di uo­
mini liberi, dice, che «avendo trattato tra loro, sono ancora liberi. La lo­
ro società non fonda i loro diritti, li garantisce»'6. Ma i diritti garantiti so­
no diritti storici, non diritti naturali, gli uomini che fondano la società
non escono dallo stato di natura ma da uno stato storico che risale al­
meno al XIII secolo. Per quanto riguarda i diritti dei sudditi inglesi, i più
grandi come i più piccoli, non è «una filosofia che li fonda, è un atto e
un fatto, intendo la Magna Charta, la Petizione dei Diritti, YRabeas Cor­
pus Act e tutto l’insieme delle leggi votate in Parlamento». E Taine ag-

74. Ibid., p. 325. Se ne veda la traduzione francese, qui utilizzata per la scelta dei
brani, in appendice a Burke, Réflexions sur la révolution de Lrance, trad. de Pier­
re Andler, présentation de Philippe Raynaud, annotation d’Alfred I ierro et
Georges Liébert, Hachette (coll. «Pluriel»), Paris 1989, pp. 467-603.
75. Ibid., pp. 288-289.
76. Ibid., p. 290.

81
Lo scontro delle tradizioni

giunge un elemento per lui essenziale, ma che farebbe sorridere un Con­


stant o un Tocqueville, o persino un Carlyle, che non era vittima dell’i­
dealizzazione burkiana della Francia monarchica: tutti quei diritti «sa­
ranno anche ineguali, ma lo sono solo per accordo reciproco»77.
E per questo che la Costituzione è un contratto e l’inglese è pronto
a insorgere in ogni momento, fino allo stremo delle forze, per difender­
ne i diritti stabiliti. Quegli uomini si appassionano agli affari pubblici
perché sono i loro affari, mentre in Francia sono solo quelli del re e di
madame de Pompadour. La vita politica, così come la vita religiosa, è tra­
boccante di attività e dimostra una veemenza straordinaria, i giornali e i
pamphlet proliferano78. «C ’è qualcosa di Milton e di Shakespeare in que­
sta teatrale cerimonia, in questa solennità appassionata» che scopriamo
in un Pitt, un Chatham, un Fox, uno Sheridan o un Burke79. Finalmente
il cerchio si chiude: «Centocinquant’anni di riflessioni morali e di lotte
politiche hanno unito l’inglese alla religione positiva e alla costituzione
vigente». Quegli stessi «centocinquant’anni di educazione e di idee ge­
nerali hanno convinto i francesi ad avere fiducia nella bontà umana e
nella ragion pura»80.
Segue, per otto pagine, una sintetica esposizione del contenuto del­
le Riflessioni sulla Rivoluzione francese, costellata di citazioni lunghe e
ben scelte. Non deve stupire la totale mancanza di senso critico: nella
Histoire de la littérature anglaise Taine, lo storico, non solo non sente al­
cun bisogno di interrogarsi sul contenuto dell’attacco partigiano, spesso
falso, di un Burke impegnato nella quotidiana lotta politica, ma si ade­
gua senza incertezze al suo pamphlet. È totalmente distante dalla dura
critica di Burke fatta da Tocqueville in LAncien Regime. Nelle Origines
andrà ancora più lontano e farà suoi gli aspetti meno credibili della po­
lemica burkiana della quale imiterà il violento stile da crociata. È così
che l’odio di Burke per i rivoluzionari rivive con vigore, nella forma e nel
contenuto, sotto la penna dello storico francese per essere trasmesso di­
rettamente alla generazione della svolta del secolo. Si vedrà allora che le

77. Ibid., p. 291.


78. Ibid., pp. 288-300.
79. Ibid., p. 300.
80. Ibid., p. 316.

82
Lo scontro delle tradizioni

argomentazioni di Maurras non saranno differenti, anche se al fondato­


re deli’Action française non piaceva avere debiti con gli stranieri. Farà
quindi riferimento a de Maistre, per cui, verso il 1900, è difficile trovare
grosse differenze di principio tra l’opera di Burke e di de Maistre e la
i assa di scritti del teorico del nazionalismo integrale. Qui si pone subi­
to la domanda come mai anche Taine non si richiami all’autorità del­
l’autore delle Considérations sur la France. La risposta probabilmente sta
nel fatto che de Maistre si era fatto una fama di «reazionario» infre­
quentabile ed era del tutto di moda. Invece Burke era un autore rispet­
tabilissimo, considerato il rappresentante di quanto di meglio c’era nel
pensiero politico inglese dopo il 1789. Bisognerà aspettare Maurras per­
ché un ritorno a de Maistre non venga considerato un’aberrazione.
L’Inghilterra ideale descritta da Burke rappresenta per Taine il mo­
dello assoluto del regime perfetto. E Taine cita per pagine e pagine i pas­
saggi più netti, quelli che rappresentano il cuore del pensiero dell’auto­
re delle Riflessioni. Taine con Burke ricorda Renan con LIerder: i due
grandi nomi della Francia della fine dell’Ottocento trovano fonte di ispi­
razione solo nelle due culture politiche che hanno saputo resistere alla
Rivoluzione. «Non ci siamo lasciati vuotare dei nostri sentimenti per
riempirci artificialmente, come uccelli imbalsamati in un museo, di pa­
glia e cenci e insipidi frammenti di carta esaltanti i diritti dell’uomo.»81
Questa citazione di Burke spiega, secondo Taine, perché l’Illuminismo
non abbia avuto lo stesso effetto in Francia e in Inghilterra, perché i due
popoli si trovino, alla fine del XVIII secolo, in uno stato mentale com­
pletamente diverso e abbiano una visione opposta del bene politico e so­
ciale. È così che Taine può leggere con invidia quanto scritto da Burke:
«Noi consideriamo i re con venerazione, i Parlamenti con affetto, i ma­
gistrati con sottomissione, i preti con rispetto, i nobili con deferenza»82.
Lo stesso avviene quando continua a elencare, parlando in nome di
Burke e identificandosi con il proprio eroe a tal punto da utilizzare la pri­
ma persone plurale - Burke si esprimeva in nome di tutti gli inglesi - ogni
elemento che separa una cultura politica comunitaria e storicista dall’in-

81. Ibid., p. 318. Questo passo di Burke si trova in «Riflessioni sulla Rivoluzione
francese», in Scritti politici, a cura di Anna Mastelloni, Utet, Torino 1963, p. 256.
82. Ibid., p. 319.

83
Lo scontro delle tradizioni

dividualismo francese: «Noi ripudiamo questa ragione miope e volgare


che separa l’uomo dai suoi legami e non vede in lui che il presente, che
separa l’uomo dalla società e lo conta solo come una testa in un gregge».
«Noi disprezziamo» - qui si trova un citazione diretta di Burke - « “que­
sta filosofia di scolari e quest’aritmetica di doganieri” con la quale voi ri­
tagliate lo Stato e i diritti secondo i chilometri quadrati e le unità nume­
riche.»83 Quindi la Costituzione non è un contratto fittizio inventato da
Rousseau, ma un contratto reale ove tutte le parti si collegano le une al­
le altre e si sentono collegate, è un’eredità trasmessa da una generazione
all’altra; non c’è società senza credenze, nelle quali la giustizia ha la sua
origine, l’ateismo non è solo contro la ragione degli inglesi ma anche con­
tro i loro istinti, ed essi sono protestanti non per indifferenza ma per ze­
lo. Il rifiuto dei diritti della maggioranza e della sovranità del popolo è
assoluto. Qui Taine cita un altro brano importante: «Una vera aristocra­
zia naturale non è un interesse separato né separabile dallo Stato. Quan­
do le grandi moltitudini agiscono insieme sotto questa disciplina della
natura, io riconosco il popolo', ma se voi separate la specie volgare degli
uomini dai loro capi naturali per schierarli in battaglia contro i loro capi
naturali, in questo gregge sbandato di disertori e vagabondi io non rico­
nosco più il venerabile corpo che voi chiamate popolo»84. Infine si trova
l’orrore per l’eguaglianza o per il «livellamento sistematico» che, dopo
avere disorganizzato la società, porta al potere «avvocati attaccabrighe,
usurai spinti da torme di donne svergognate, di albergatori, di scrivani,
di garzoni di bottega, di parrucchieri, di ballerini di teatro»85. Secondo
Burke, ripreso da Taine senza esitazioni, quest’opera di distruzione è ir­
reversibile e il livellamento così prodotto finirà, «anche se la monarchia
riprendesse mai la sua autorità in Francia, con il consegnare la nazione al
potere più arbitrario che sia mai apparso sotto il cielo»86.

83. Ibid., pp. 322-323.


84. Ibid., pp. 321-322.
85. Ibid., p. 323. Qui Taine ha pensato di addolcire il testo di Burke, pur citandolo
tra virgolette, certo ritenendo che il pamphlettista irlandese si esprimesse in ter­
mini un po’ troppo forti: utilizzando il termine «albergatori» l’autore delle Ori­
gines getta un velo pudico sul testo originale che parla di «tenutari di alberghi,
di taverne e di bordelli» («keepers of hotels, lavems and brothels»),
86. Ibid., p. 324. Citazione diretta di Burke, abbastanza fedele anche se parziale.

84
Lo scontro delle tradizioni

A eccezione di Herder, nessun critico dei Lumi prima di Burke ave­


va attaccato con una tale violenza le basi stesse del pensiero illuminista.
Infatti, contrariamente al luogo comune oggi largamente accettato sia in
Francia che nel mondo anglofono, l’importanza di Edmund Burke non
sta nel suo ruolo di baluardo della tradizione del liberalismo inglese ma
nelle sue funzioni di fondatore - con Herder - di una nuova tradizione
politica, quella di un’altra modernità, fondata sul primato della comu­
nità e sulla subordinazione dell’individuo alla collettività8'. Presa nel suo
insieme, l’opera del pamphlettista irlandese intende in realtà seppellire
le tesi del giusnaturalismo e del contratto sociale, di cui il Secondo trat­
tato di Locke è il manifesto inglese più compiuto, e che è anche uno dei
fondamenti deH’Illuminismo. In effetti la concezione del bene politico
elaborata da Burke rifiuta la concezione kantiana dell’autonomia del­
l’uomo e la libertà si riduce a privilegi ereditati e consacrati dall’uso. Per
lui non esistono i diritti dell’uomo come li concepiva Locke8788. Ma il con­
tributo più importante di Burke, e di Herder prima di lui, fu quello di

87. Un Burke liberale, illuminista, per come lo intendono i neoconservatori, emer­


ge, cosa che non sorprende molto, dalle opere di Gertrude Himmelfarb - The
Roads to Modernity: The British, French and American Enlightenments, Knopf,
New York 2004 - e di Conor Cruise O ’Brien, The Great Melody: A Thematic
Biography and Commented Anthology of Edmund Burke, The University of Chi­
cago Press, Chicago 1992. Il pioniere moderno del culto di Burke fu Russell
Kirk, autore di The Conservative Mind, from Burke to Santayana, H. Regnery,
Chicago 1953 (con diverse riedizioni, l’ultima del 2001) e di Edmund Burke, À
Genius Reconsidered, Arlington House, New York 1967. Un lavoro collettaneo,
pubblicato in occasione del bicentenario della nascita di Burke, vuole mostrare
un pensatore giunto a salvare il liberalismo da se stesso e fornire una visione glo­
bale della sua opera, compresa la sua influenza fino ai giorni nostri: Ian Crowe
(a cura di), Edmund Burke, His Life and Legacy, Four Courts Press, Dublin 1997.
88. Nonostante ciò in certi ambienti liberalconservatori Burke è considerato un ere­
de di Locke: questa è la posizione sia di O ’Brien che di Isaiah Berlin. Si veda la
loro corrispondenza in O ’Brien, The Great Melody, appendice, pp. 609 e 612.
Qui si impongono due osservazioni: Berlin confessa di conoscere di Burke solo
quello che sanno tutti, senza rendersi conto che quello che sanno tutti è spesso
falso, mentre in Cruise O ’Brien il nome di Locke compare una sola volta (p. 451)
in un lavoro di seicento pagine. O ’Brien sa molto bene che Burke aborriva le ba­
si del pensiero di Locke e si azzarda ad avanzare l’idea di cui sopra, che sa esse­
re falsa, solo in un articolo della New York Review o f Books senza riprenderla nel
suo libro su Burke, se non nella corrispondenza con Berlin in appendice.

85
Lo scontro delle tradizioni

mettere in risalto la linea di confine che passava tra i sostenitori di una


spiegazione razionale dei fenomeni culturali, sociali e politici, e coloro
che privilegiano un approccio antirazionalistico.
Considerato uno dei più importanti pensatori politici dopo la Rivo­
luzione francese, Burke non ha scritto una sola opera teorica. Però tutto
il suo lavoro intellettuale e politico si è sviluppato in una cornice concet­
tuale chiara e ben definita, dalla quale non si è mai scostato. Dopo la sua
Inchiesta sul Bello e il Sublime, scritta nell775, all’inizio della sua carrie­
ra, per combattere il razionalismo e l’idea dei diritti naturali, che non ha
avuto seguito ma che trenta anni dopo contribuì ad alimentare le sue Ri­
flessioni sulla Rivoluzione francese, Burke non ha mai smesso di lottare
per la stessa causa89. Nel suo formidabile pamphlet vengono riprese e rac­
colte tutte le idee più importanti formulate nei suoi scritti e discorsi poli­
tici degli anni Settanta e Ottanta del Settecento, a volte riformulate per le
necessità della più grande lotta politica della sua vita. È per la loro carat­
teristica di condensato di una gran mole di scritti destinati all’attività po­
litica immediata e dove si esprimono tutti i temi del liberalismo bloccato,
centrato su un rifiuto globale e totale dei Lumi, che le Riflessioni hanno
avuto un successo immediato e durevole e anche varia discendenza. In
questo periodo che cambia la faccia del mondo, le opere di circostanza
che si rivelano essenziali per la posterità non costituiscono un’eccezione:
I Diritti dell’uomo di Paine possiedono lo stesso vigore e la stessa qualità,
le Ricerche sulla Rivoluzione francese di August Wilhelm Rehberg,90 che
tuttavia non hanno mai raggiunto la fama delle Riflessioni, sono in realtà

89. I primi scritti di Burke sono raccolti nel volume I, pubblicato nel 1997, di The
Writings and Speeches o f Edmund Burke, Clarendon Press, Oxford 1989-2000.
La pubblicazione di questa esemplare edizione scientifica (anche se a volte net­
tamente apologetica su alcune questioni spinose come la tratta dei neri) sotto la
cura generale di Paul Langford, non è ancora terminata. Le citazioni di questa
edizione figureranno come «edizione di Oxford».
90. Si dispone ora di una traduzione recente in francese del primo volume: Recher­
ches sur la Révolution française, traduction, annotations et introduction de Lukas
K. Sosoe, préface de Alain Renaut, Vrin, Paris 1998. Lo scritto di questo alto fun­
zionario dello Stato di Hanover, pubblicato nel 1793, rappresenta l’equivalente
tedesco delle Riflessioni di Burke. Non ha mai potuto avere in Germania, presso
un pubblico già «burkizzato», come lo definisce Alain Renaut, il successo godu­
to dal parlamentare britannico, e in Francia è rimasto praticamente ignoto. Non

86
Lo scontro delle tradizioni

lavori importantissimi, e negli Stati Uniti II Federalista ha ancora oggi


un’influenza ineguagliata.
«L’autore delle Riflessioni sulla Rivoluzione francese», dice Burke,
«ha udito molto parlare di questi moderni lumi, ma non ha ancóra avu­
to la buona fortuna di vederne molti.»91 In compenso ha visto come «una
rivoluzione silenziosa nel mondo morale precedeva e preparava la rivo­
luzione politica»,92 come «la camarilla letteraria formò anni addietro
qualcosa di simile a un vero e proprio piano per la distruzione della re­
ligione cristiana»93. E proprio il rifiuto totale della Rivoluzione, senza la
minima esitazione, che non ha smesso di colpire l’immaginazione dei
contemporanei e delle generazioni successive fino a oggi. Il primo a rac­
cogliere il testimone, l’anno stesso della morte del pamphlettista irlan­
dese, è de Maistre. Leggendo de Maistre dopo Burke, ci si chiede in virtù
di quale gioco di prestigio uno sia conosciuto come liberale rispettabile
mentre l’altro appaia come un iperreazionario per alcuni o come il pri­
mo fascista per un Isaiah Berlin. Di sicuro non si trovano in Burke le fa­
mose formule demaistriane - «la guerra è divina» - o le immagini di car­
neficina che abbondano nell’autore delle Soirées de Saint-Pétersbourg,

c’è dubbio che il libro di Rheberg sia superiore a quello di Burke, abbia una
profondità che manca al pamphlettista britannico, ma non presenti vera origina­
lità rispetto alle Riflessioni. Si vedano per esempio le pp. 99-104 (114-117 del ci­
tato testo francese) sulla negazione dei diritti universali, del razionalismo, dell’e­
guaglianza tra gli uomini, dell’idea di contratto, dell’autonomia dell’individuo e
delle generazioni rispetto a quelle precedenti o della possibilità di cambiare una
Costituzione a maggioranza. Dire che «la Dichiarazione francese è un’accozzaglia
di massime filosofiche molto approssimative» e che «contiene solo diritti del cit­
tadino e per niente i doveri», affermare che «lo spirito metafisico si era impadro­
nito di tutte le menti dell’Assemblea nazionale» (pp. 135-136), nel 1793, e ancor
più in seguito, non era una novità per i critici della Rivoluzione. Che la poca fa­
ma di Rehberg rispetto alla gloria di Burke sia un’ingiustizia è sicuro, ma è pro­
prio il successo di Burke (che per altro Rehberg non manca di citare), durato fi­
no ai nostri giorni, che contribuisce all’oblio di tutti gli altri scritti dell’epoca ba­
sati sugli stessi principi miranti a scalzare le fondamenta dei Lumi francesi.
91. Edmund Burke, «Ricorso dai nuovi agli antichi Whig», in Scritti politici, p. 523.
92. Burke, «Deuxième lettre, sur le génie et le caractère de la révolution française,
dans ses rapports avec les autres nations» (Deuxième lettre sur la paix régicide),
in Réflexions sur la révolution de France, p. 600.
93. Burke, «Riflessioni sulla Rivoluzione francese», in Scritti politici, p. 285.

87
Lo scontro delle tradizioni )
/

ma il suo incitamento alla forza per soffocare nel sangue il nuovo regime
francese, il suo messianesimo antirivoluzionario, il suo orrore per quella
«falsa filosofia» che aveva infettato la società fino alle persone eminenti
di questo mondo non sono affatto inferiori alla veemenza del diplomati­
co savoiardo94. Ma per Burke la Rivoluzione non è il prodotto della vo­
lontà divina, è l’operato degli «uomini cattivi», quegli intellettuali che di­
struggono la religione, che scalzano la legittimità dell’ordine sociale tac­
ciandolo di essere profondamente ingiusto; essa è il prodotto del falli­
mento di una classe dirigente indebolita dalla prosperità come da una
falsa filosofia e dell’avanzata di un’altra classe sociale dagli oscuri dise­
gni. Da una parte Burke fa un’apologià òdi!Ancien Regime non ripresa
nemmeno da critici dei Lumi e della Rivoluzione come Carlyle, Renan o
Taine ma che si ritroverà in de Maistre e in parte anche in Maurras: egli
vede nell’Europa degli anni precedenti la Rivoluzione francese la più
bella età della storia umana95. Non pensava, come Tocqueville, che la vi­
ta del contadino francese nel XVIII secolo fosse più dura che nel Me­
dioevo96. Però egli comprende il carattere conflittuale della società fran­
cese e, come Carlyle, è consapevole della decadenza che caratterizza i
suoi ceti privilegiati.
Proprio Burke, il primo grande critico dell’intellettualismo, è stato
anche il pioniere della guerra totale, il primo a capire che si sarebbe po­
tuto bloccare la filosofia dei Lumi solo se le si fosse opposta una con­
trofilosofia altrettanto potente, poggiata su baionette tanto acuminate

94. Michael Freeman pensa a ragione che in un testo del 1795, Letter to William El-
lìot, Burke fornisca il miglior sunto del suo punto di vista sulle cause della Rivo­
luzione in Francia. Si veda il suo «E. Burke and thè Sociology of Revolution»,
Politicai Studies 25 (4), 1977, p. 466. In effetti questo scritto riprende per som­
mi capi ma in modo più sintetico tutte le argomentazioni già anticipate in modo
più diffuso nelle Riflessioni.
95. E. Burke, Letter to William Elliot, 26 May 1795, The Wrìtings and Speeches of
Edmund Burke (edizione di Oxford), voi. IX, p. 39. Questa lettera fu scritta in
risposta a una dura critica delle idee di Burke fatta dal duca di Norfolk ]’8 mag­
gio 1795 alla Camera dei lord. Norfolk pensava che non solo le idee di Burke
«distruggevano i diritti costituzionali degli inglesi, ma erano diametralmente op­
poste ai principi whig [che erano] i principi della Rivoluzione del 1688». Si ve­
da il testo completo di queste lettere alle pp. 29-44.
96. Alexis de Tocqueville, E Antico regime e la Rivoluzione, p. 209.

88
Lo scontro delle tradizioni

quanto quelle giacobine. Burke fu il primo a lanciare una campagna


ideologica che egli voleva vedere concretizzata con l’invasione della
Francia e la distruzione totale deU’aborrito regime. Quel sedicente libe­
rale non arretrava di fronte a nessun mezzo in grado di estirpare il male.
Per questo stesso motivo fu il primo teorico del cordone sanitario, l’in­
ventore dell’idea secondo la quale era utile contenere la peste ideologica
prima di partire alla riconquista. Fino ai suoi ultimi giorni non ha mai
smesso di predicare la guerra a oltranza contro la Francia rivoluzionaria,
la distruzione del regime, la conquista del territorio e la restaurazione
dell’antico ordine, come misura difensiva di fronte alla minaccia morta­
le che gravava sull’intero ordine europeo. Secondo lui, dopo avere rifiu­
tato le élite costituite, la monarchia, l’aristocrazia e il clero, i francesi ave­
vano cessato di costituire uno Stato, di essere un corpo, una corporazio­
ne, quindi una nazione. La nazione francese si trovava a Coblenza con
gli emigrati; a Parigi si era insediato il regno delle canaglie.
Burke è anche l’uomo che ha inventato il metodo della delegittima­
zione dell’avversario. Questa riguarda i grandi nomi della filosofia illu­
minista, gli eletti all’Assemblea nazionale, i leader della Rivoluzione ma
anche il popolo in rivolta contro l’ordine naturale delle cose, cioè il po­
tere reale, le gerarchie sociali, i privilegi della Chiesa. Per tutti gli anni
Novanta del Settecento Burke mostra un profondo disprezzo tanto per
il popolo, per la sua ingratitudine verso un regime che aveva assicurato
al paese ricchezza e benessere, quanto per i capi della Rivoluzione. L’au­
tore delle Riflessioni inaugura così una lunga tradizione di radicale de­
nigrazione delle élite rivoluzionarie che ritroveremo senza grandi modi­
fiche per tutto l’Ottocento, in Taine e nei maurrasiani, fino alla violenta
critica della Rivoluzione fatta alla fine del Novecento in occasione del
suo bicentenario. Les Déracinés di Barrès, così come L’Etape di Bourget,
si collegano al rigetto burkiano dell’uomo del popolo. L’odio di Burke
per i philosophes illuministi, Rousseau in testa, è inferiore solo all’odio
per il popolo di Parigi che ha preso d’assalto Versailles o per l’Assem­
blea nazionale che ha promulgato la Dichiarazione dei diritti dell’uomo.
Insomma, Burke inaugura una tradizione che il suo quasi contem­
poraneo de Maistre prosegue. I loro successori, i conservatori rivoluzio­
nari della fine del X IX e dell’inizio del X X secolo in Francia e in Ger­
mania, Maurras o il suo seguace d’oltremanica, Thomas Ernst Hulme,
teorico del vorticismo, traduttore di Sorel in inglese, Lagarde, Langbehn

89
Lo scontro delle tradizioni

o Spengler, si inscrivono a loro volta in questa linea di pensiero. Burke


ha più affinità con i neoconservatori americani di oggi che con i veri con­
servatori inglesi del X IX e X X secolo come lord Acton o Michael Oake-
shott. Infatti Burke è diventato famoso sia per il suo appello alla profon­
dità e alla ricchezza del reale, di ciò che è misurabile e concreto, all’im­
portanza del fatto indiscusso, cioè alla storia, contro le «astrazioni», le
«chimere», le «nubi» e le «illusioni», sia per la sua invocazione alla guer­
ra a oltranza contro il nemico ideologico e culturale, per parlare come
Maurras e i neoconservatori americani della fine del Novecento. A lui si
deve l’idea per cui qualsiasi cambiamento dell’ordine esistente assume
necessariamente i contorni di un’utopia e non può concludersi che in un
disastro. A lui risale anche l’invenzione dell’idea secondo la quale met­
tere in discussione il mondo così com’è rappresenta una dichiarazione di
guerra all’Occidente cristiano.
E sempre Burke a esigere di attenersi ai fatti: ciò che esiste sotto i no­
stri occhi ci arriva da lontano, per questa ragione assume legittimità e de­
ve essere preservato. Ogni oltraggio a un ordine consacrato dalla storia
costituisce un peccato mortale contro la civiltà. A lui si deve anche l’idea
dell’addomesticamento delle masse che Max Weber avrebbe sviluppato
un secolo dopo il maggior nemico della democrazia mai apparso in In­
ghilterra fino a Carlyle. Alla fine del X IX e all’inizio del X X secolo il
principio dell’addomesticamento delle masse per farne una macchina da
guerra contro la democrazia assumerà l’aspetto della destra rivoluziona­
ria. L’obiettivo resterà lo stesso, solo i mezzi si saranno evoluti.
La campagna di Burke contro i Lumi si è svolta in tre tappe. Con­
trariamente al luogo comune, il suo impegno contro la Rivoluzione ac­
caduta a Parigi ha potuto sorprendere solo coloro che avevano mal com­
preso sia il senso dei suoi primi scritti filosofici che gli obiettivi della sua
azione politica, comprese le questioni americane. Perche Burke ha lan­
ciato l’offensiva contro l’essenza deH’Illuminismo già all’apparizione, nel
1755, del secondo Discours di Rousseau. Tuttavia il suo odio per questo
autore scoppia in tutta la sua virulenza e anche in tutta la sua banalità nel
1791. Rousseau è la personificazione del male, di tutto ciò che è basso,
spregevole e pericoloso per la morale e per la politica cristiane. Corrut­
tore della morale, il ginevrino è anche il distruttore del gusto e dei pre­
giudizi aristocratici. Incarna il più grande fra tutti i peccati, l’orgoglio: è
lui che vede il fondamento dell’autorità e della sovranità nel patto tra gli
Lo scontro delle tradizioni

uomini. Per Burke, Rousseau, più che Voltaire, è il maître à penser degli
uomini che hanno messo le mani sulla Francia, perché «il vizio [...] è in
lui in tutto il suo splendore»97. Burke fustiga l’autore del Discours sur l’o­
rigine de l’inégalité per avere messo in piedi una teoria dell’eguaglianza
sociale basata sulla sua concezione di libertà e gli rimprovera il ricorso a
un diritto naturale astratto staccato dal cristianesimo98. Sotto la sua in­
fluenza è iniziata un’immensa rivoluzione che cambia i costumi, la poli­
tica e la società. Sotto l’impatto del pensiero di Rousseau spariscono lo
spirito di cavalleria e i «pregiudizi aristocratici»99. Si giunge infine quel­
la scena pittoresca il cui ridicolo non è forse sfuggito ai contemporanei:
i capi dell’Assemblea nazionale «litigano con calore su chi somigli di più
a Rousseau. Si sono appropriati realmente del suo sangue, del suo spiri­
to e delle sue abitudini. Lo studiano, lo meditano, sfogliano i suoi scrit­
ti in ogni momento che possono sottrarre alle laboriose macchinazioni
del giorno e alle dissolutezze della notte»100.
Queste frasi appartengono alla terza fase della guerra ingaggiata da
Burke contro l’Illuminismo francese. La prima è quella dei trenta anni
che precedono il 1789, la seconda produce le Riflessioni, la terza è quel­
la che segue immediatamente il suo pamphlet, con l’appello alla crocia­
ta contro la Francia dei diritti dell’uomo fino all’annientamento del ma­
le. I primi rintocchi della Rivoluzione confermano le sue intime convin­
zioni espresse fin dai primi colpi sferrati a Rousseau. Infatti la prima let­
tura di Locke lo aveva già convinto: il pensiero emancipato del Secondo
Trattato e il pensiero rivoltoso del secondo Discorso minacciavano un’in­
tera civiltà, la grande civiltà cristiana. Per lui la Rivoluzione francese non
era uno sfortunato incidente ma la messa in pratica delle idee del XVIII
secolo: era la prima rivoluzione totale della storia. Se egli non fosse sta­
to preparato intellettualmente e moralmente da tanto tempo, se la sua
avversione per i Lumi non avesse già raggiunto l’apice, l’esplosione del­
le Riflessioni non si sarebbe potuta verificare con tale violenza e tale ra-

97. Burke, «Lettre à un membre de l’Assemblée nationale», in Réflexions sur la ré­


volution de Prance, p. 352.
98. Ibid., pp. 351-357. Si veda anche Michel Ganzin, La Pensée politique d’Edmund
Burke, Librairie générale de droit et de jurisprudence, Paris 1972, pp. 112-114.
99. Ibid., pp. 352 e 355.
100. Ibid, pp. 351-352.

91
Lo scontro delle tradizioni

pidità. Burke, nel quale Tom Paine vedeva tutto sommato «un metafisi­
co»,101 non aveva paura delle idee in sé, temeva le idee nuove, le idee «il­
luminate» che egli chiamava, per meglio denigrarle, «astrazioni»: in altri
termini, le idee che offrivano l’immagine o il modello di un avvenire di­
verso dall’ordine esistente. Per combattere i fondamenti teorici della
scuola giusnaturalista, Burke formula i principi dello storicismo. La ca­
duta dclYAncien Régime in giugno, la notte del 4 agosto, la Dichiarazio­
ne dei diritti dell’uomo, le giornate del 5 e 6 ottobre dimostravano la po­
tenza del pensiero illuminista, quindi del pericolo mortale che ormai at­
tendeva l’Europa. E assurdo sostenere che Burke si sia mosso all’attacco
nel 1789 perché aveva previsto il Terrore e la lunga guerra europea. Ave­
va lanciato il suo assalto contro la Francia perché la trasformazione de­
gli Stati generali in Assemblea nazionale, la cancellazione degli antichi
privilegi e il trasferimento forzato del re e della regina rappresentavano
la conclusione dell’ordine cavalleresco ed esprimevano la fine dell’unico
ordine sociale e politico degno, secondo lui, di una società civile.
Questo scontro di civiltà, «uno dei più grandi spettacoli che occhio
umano abbia mai visto», è stato a sua volta definito da de Maistre come
una «lotta a oltranza del cristianesimo e del filosofismo»1021034. Tuttavia, lo
vedremo più avanti, l’unico cristianesimo degno di questo nome per de
Maistre è quello di prima della Riforma. Il protestantesimo, fondatore
dell’individualismo, si accompagna al giacobinismo ed è all’origine della
più grave caduta della «ragione umana» mai vista nella storia105. Il XVI
secolo rappresentò una prima insurrezione, quella dell’individuo contro
la disciplina collettiva, ma è solo nel XVIII secolo che « l’empietà diven­
ne realmente una potenza [...]. Dal palazzo alla capanna, essa si intro­
duce dappertutto e infesta tutto»101. Sono gli intellettuali, coloro «che si
chiamavano filosofi», che scatenano una «guerra mortale» al cristia-

10]. Thomas Paine, I diritti dell’uomo, p. 238.


102. J. de Maistre, Considerazioni sulla Francia, a cura di Massimo Boffa, Editori
Riuniti, Roma 1985, p. 40.
103. De Maistre, «Réflexions sur le Protestantisme», in Ecrits sur la Révolution,
PUF, Paris 1989, p. 37.
104. De Maistre, «Saggio sul Principio Generatore delle costituzioni politiche e del­
le altre intituzioni umane», trad. di Lamberto Crociani, in Scritti politici, Can-
tagalli, Siena 2000, p. 104.

92
Lo scontro delle tradizioni

nesimo105. Tutti gli scienziati, dice de Maistre, tutti gli uomini di lettere,
tutti gli artisti francesi hanno formato «dall’inizio del secolo una vera
congiura contro i pubblici costumi»: dopo essere riusciti a conquistare i
grandi signori e le donne, quei congiurati hanno «fatto in Francia disa­
stri incredibili»106. Hanno dato il loro contributo a quella corruzione e
degradazione generale che regnavano in Francia alla vigilia della Rivolu­
zione107. Hippolyte Taine non dirà niente di diverso, Maurras riprenderà
alla lettera questi temi.
L’identità dei grandi colpevoli non sorprende affatto: Montesquieu,
che sta a Licurgo come Batteux sta a Omero o a Racine, Locke, che fal­
lì clamorosamente quando volle dare leggi agli americani, Rousseau, uno
dei più pericolosi sofisti del suo secolo, l’uomo che forse ha errato più di
tutti, e infine l’arcinemico, Voltaire108. In alcune pagine del primo volu­
me delle Soirées de Saint-Fétersbourg, de Maistre versa il suo fiele sullo
«spirito corrotto» di Voltaire: «Osservate la fronte abietta che il pudore
non colorò mai, i due crateri spenti nei quali sembrano ancora ribollire
la lussuria e l’odio [...] la smorfia spaventosa [...] e le labbra strette da
una malizia crudele come una molla pronta a scattare per lanciare la be­
stemmia o il sarcasmo»109. La sfortuna più grande è che «le sue opere non
sono morte; esse vivono, ci uccidono»110.
Il «torrente rivoluzionario» la cui sorgente sta in «uno dei più gran­
di flagelli del genere umano»,111 la Riforma, rivela due caratteristiche es­
senziali: sebbene abbia nel tempo preso direzioni diverse, il suo caratte­
re generale non è mai mutato;112 quel carattere è « satanico» e «la distin­
gue da tutto ciò che si è visto finora, e forse da tutto ciò che si vedrà in

105. Ibid., p. 105.


106. De Maistre, Écrits sur la Révolution, p. 78.
107. Ibid., p. 79.
108. De Maistre, Le serate di Pietroburgo o Colloqui sul governo temporale della
Provvidenza, a cura di Alfredo Cattabiani, trad. di Lorenzo Fenoglio e Anna
Rossi Cattabiani, Rusconi, Milano 1971, pp. 63-64 e 117-118; Écrits sur la Re­
volution, pp. 133-134 e 144.
109. De Maistre, Le serate di Pietroburgo, pp. 197-199. Si vedano anche le pp. 195-
200.
110. Ibid., p. 196.
111. De Maistre, Considerazioni sulla Francia, pp. 6 e 23.
112. Ibid., p. 34.

93
Lo scontro delle tradizioni

futuro»11’ . Come Burke prima di lui, de Maistre vede nella Rivoluzione


«un evento unico nella storia» e ciò che la caratterizza «è che essa è mal­
vagia radicalmente; [...] è il più alto grado di corruzione che si conosca;
è impurità allo stato puro»11314. Per de Maistre le grandi rivoluzioni sono
guidate da una logica, sono il prodotto di una necessità, non sono mai
eventi fortuiti o accidentali. La constatazione secondo la quale «la rivo­
luzione francese guida gli uomini più di quanto gli uomini non la guidi­
no» si applica più o meno a tutte le grandi rivoluzioni; tuttavia questa os­
servazione «non è mai stata più evidente che in questa epoca»115. Questa
«forza travolgente che piega tutti gli ostacoli» fa sì che «perfino gli scel­
lerati che sembrano dirigere la rivoluzione non ne sono che meri stru­
menti». Per de Maistre gli uomini che sono stati spinti sulla scena non
hanno mai pensato a istituire il governo rivoluzionario o il regime del
terrore. La Repubblica fu istituita senza che essi sapessero quello che
stavano facendo: vi furono insensibilmente guidati dalle circostanze116.
Fu così che vide la luce «il più orribile dispotismo di cui la storia faccia
menzione»117. Infatti non si era mai vista «una tirannia più bassa e più as­
soluta» di questa «tirannia plebea»118. Renan e Taine si esprimeranno
nello stesso spirito ed è proprio questa idea che servirà a strutturare la
scuola totalitaria successiva alla Seconda guerra mondiale.
Infatti è da questo varco che si introduce l’autore delle Origines de
la F rance contemporaine. Lo spirito è lo stesso e lo stile è spesso simile.
Il terzo libro della prima parte delle Origines, «L’Ancien Régime», è de­
dicato alla formazione dello spirito rivoluzionario attraverso una «com­
binazione» del «sapere scientifico» e dello «spirito classico», il quarto è
dedicato alla sua diffusione119. L’attacco lanciato contro l’ordine costitui­
to è totale e prende le dimensioni di una guerra contro tutta una civiltà,

113. lbid., p. 36.


114. Ibid., p. 33 (corsivo nel testo).
115. lbid., p. 5. Si veda anche p. 6.
116. lbid., pp. 4-5.
117. lbid., p. 5.
118. lbid., p. 79.
119. Taine, Le origini della Francia contemporanea. L’antico regime, pp. 319-368 e
449-566. In questa critica al classicismo Maurras vedrà la grande debolezza
dell’opera di Taine.

94
Lo scontro delle tradizioni

la grande civiltà cavalleresca e cristiana. La Rivoluzione è il prodotto di


questa campagna intellettuale: la ragione si batte per la distruzione del­
la tradizione e questa «grande spedizione» si compie in «due tappe». La
prima è quella nella quale Voltaire guida «l’esercito filosofico» contro il
«pregiudizio ereditario»: in questa campagna si arruola Montesquieu ed
entrambi, descrivendo la grande differenza di costumi, religioni e sette
religiose, regimi e organizzazioni sociali, in Europa e altrove, dei loro
tempi e dell’antichità, scalzano i fondamenti della legittimità dell’ordine
esistente in Francia. Taine, come si vede, non è certo un fanatico del plu­
ralismo culturale. Ha un ordine di priorità ben definito. «Fin da questo
momento, l’incanto è rotto. Le antiche istituzioni perdono il loro presti­
gio divino; sono opera umana, frutto del luogo e del tempo, nate dalla
convenienza e dalla convenzione. Da tutte queste brecce entra lo scetti­
cismo.»120 Per uno come Voltaire la metà dei costumi e delle pratiche di
una «nazione bene ordinata» è fatta di abusi121. Nei confronti del cristia­
nesimo lo scetticismo si trasforma subito «in ostilità pura e semplice, in
polemica lunga e accanita». Alla fine non resta che il deismo122.
La «seconda spedizione filosofica» è costituita da due armate. La pri­
ma è quella degli enciclopedisti, da Diderot e D ’Alembert fino a D ’Hol-
bach, Helvétius, Condorcet, Lalande e Volney, tutti molto diversi tra lo­
ro ma concordi nell’avversione per la tradizione e nel comune grido di
guerra, ritorno alla natura e abolizione della società125. La seconda arma­
ta è «il battaglione di Rousseau e dei socialisti»: qui Taine dedica qualche
pagina eloquente, spesso perspicace, al nemico principale, che per altro
sembra venire direttamente dalla penna di Carlyle, e fissa per un secolo
la struttura della critica a quest’«uomo strano, originale e superiore ma
che portava in sé fin dall’infanzia un germe di follia [...], poeta vero e
poeta malato nello stesso tempo che, invece delle cose reali vedeva i pro­
pri sogni, viveva un romanzo», quell’uomo che «convoca le generazioni
con la tromba del giudizio universale»124. Per Taine, la visione dell’uomo
e in generale del mondo esterno professata dall’autore del Contrai social

120. Ibid., p. 388.


121. Ibid., p. 389.
122. Ibid, p. 388.
123. Ibid, pp. 389-398.
124. Ibid., pp. 399-400.

95
Lo scontro delle tradizioni

è il prodotto della sua visione di se stesso: siccome egli attribuisce solo al­
le circostanze le sue bassezze e i suoi vizi, pensa che sia lo stesso per l’uo­
mo. La natura è buona, nella struttura umana non ci sono difetti, è la so­
cietà l’unica responsabile di tutte le sventure. Taine moltiplica le citazio­
ni e le frasi famose apportatrici di tutte le sventure - «la natura ha fatto
l’uomo felice e buono, la società lo corrompe e lo fa miserabile» - per mo­
strare come la dottrina spiritualista si formi attorno a questa idea centra­
le. All’uomo non basta il-piacere personale, gli occorrono ancora la pace
della coscienza e le effusioni del cuore. Nessuno dei suoi impulsi e delle
sue inclinazioni naturali, quelle che ha in comune con gli animali, sono
cattive in sé. Il male è nel governo degli uomini: togliete queste dighe,
opere della tirannia e della consuetudine, e la natura riprenderà la sua an­
datura retta e sana, l’uomo non si ritroverà soltanto felice ma anche vir­
tuoso125. In base a questo principio l’attacco comincia, dice Taine. Storico
delle idee nutrito di Burke e di Carlyle, egli analizza la rivolta scatenata
da Rousseau. La sua è un’interpretazione priva di grande originalità, uni­
dimensionale, ma l’essenziale non è questo. Sono spesso le interpretazio­
ni più banali che colpiscono l’immaginazione e diventano idee correnti.
Per Taine, l’assalto condotto dall’autore dei due Discours è il più vio­
lento, è l’attacco globale che va infinitamente più lontano di quello di
Montesquieu e di Voltaire o di quello di Diderot e di D ’Holbach. È l’af­
fermazione del diritto alla felicità immediata, inseparabile dalla nobiltà
riconquistata dal soggetto umano, è il rifiuto totale dell’ordine esistente.
In poche pagine stringate, Taine cita i testi classici del Rousseau del Di­
scours sur l’inégalité e del Contrai social, quelli che hanno determinato la
sua gloria in campo repubblicano e contemporaneamente ne hanno fat­
to oggetto di accusa da parte di tutti i sostenitori del vecchio ordine: la
società politica all’origine fu «un contratto iniquo [...] concluso tra il ric­
co scaltro e il debole ingannato [...] [che], col nome di proprietà legale,
consacrò l’usurpazione del suolo». Oggi è un contratto ancora più ini­
quo, «grazie al quale [...] un pugno di gente annega nel superfluo men­
tre la moltitudine affamata manca del necessario». Qui Taine riprende la
sua analisi per mostrare come, secondo Rousseau, sia su questa inegua­
glianza fondamentale, destinata ad aumentare con il tempo, che poggia il

125. ìbid.,pp. 399-404.

96
Lo scontro delle tradizioni

potere arbitrario, fino al punto in cui «la soggezione ereditaria e perpe­


tua del popolo è apparsa di diritto divino, come il dispotismo ereditario
e perpetuo del re»126. Stabilita in questo modo l’illegittimità dell’ordine
esistente, resta solo da affermare che non c’è diritto se non per consenso
e che, alla fine, all’uomo divenuto adulto non resta che compiere un at­
to di ragione per abbattere quell’autorità che si dice legittima. In questo
modo tutte le istituzioni furono scalzate alla base e la filosofia dominan­
te ha tolto ogni autorità al costume, alla religione, allo Stato127.
In questo modo, in nome della sovranità del popolo, Rousseau - nel­
la sua Rivoluzione francese Carlyle parlerà del «Vangelo secondo Jean-Jac-
ques» - toglie autorità e forza al governo, rende semplici ufficiali gli eletti
dal popolo, e i suoi magistrati «dei lavoratori forzati dello Stato, più di­
sgraziati di un domestico o di un manovale»128. Un governo che cercasse
di fare il suo dovere diventerebbe immediatamente un usurpatore, contro
il quale l’insurrezione non costituirebbe solo il più santo dei diritti, ma an­
zi un dovere: «Il dogma della sovranità del popolo, interpretato dalla fol­
la, produrrà la perfetta anarchia, fino al momento in cui, interpretato dai
capi, produrrà il dispotismo perfetto»129. Qui ci troviamo al centro di un
aspetto fondamentale dell’analisi di Taine che, alla fine del X IX secolo,
avrebbe avuto un ruolo fondamentale nella lotta contro il principio del­
l’autonomia dell’individuo e contro la democrazia che ne deriva. Perché è
proprio Hippolyte Taine, per il quale la Rivoluzione francese è il più gran­
de disastro culturale di tutti i tempi, nel quale Nietzsche vede il più gran­
de storico vivente della sua epoca, che avrebbe alimentato la riflessione
storica dei critici dell’Illuminismo fino alla metà del Novecento.
In effetti Taine, con un linguaggio moderno e con alle spalle l’espe­
rienza delle rivoluzioni del 1848, della Seconda Repubblica, di Sedan e
della Comune, sviluppa l’idea, destinata a un grande avvenire, secondo
la quale la teoria della sovranità popolare ha un duplice aspetto. Da un
lato può condurre a un estremo indebolimento dell’esecutivo - «la de­
molizione permanente del governo» - dall’altro sfocia «nella dittatura

126. Ibid, pp. 411-412.


127. Ibid., p. 413.
128. Ibid., p. 434.
129. Ibid., p. 435.

97
Lo scontro delle tradizioni

illimitata dello Stato»1'0. Qui si trova l’origine prima dell’idea per la qua­
le la Rivoluzione è all’origine di tutte le dittature del X X secolo. Sia per
10 storico Jacob Talmon che per il filosofo Isaiah Berlin, e in pratica an­
che per altri studiosi della loro generazione, Rousseau è ancora e sempre
11 grande responsabile dell’ascesa della «democrazia totalitaria».
E proprio a Tocqueville, che per una volta Taine non trascura di ci­
tare, che si deve la sistematizzazione dell’idea secondo la quale, dal mo­
mento in cui il principio della sovranità popolare è acquisito, VAncien
Regime centralizzatore e distruttore delle libertà locali e parlamentari
porta direttamente a un dispotismo di tipo nuovo1’1. Solo che, contraria­
mente a Burke e a Taine, Tocqueville pensava che si sarebbero potuti su­
perare i pericoli della democrazia facendo appello alle sue virtù.
Seguendo Burke, Taine riconduce il dispotismo democratico all’idea di
un contratto sociale, prima e unica fonte del diritto. Nel momento in cui il
contratto tra «esseri perfettamente eguali e liberi, esseri astratti, specie di
unità matematiche, tutte dello stesso valore» è concluso, «tutti gli altri pat­
ti», cioè lo stato di fatto al quale dopo Burke è stato affibbiato il nome di
«patto storico» da tutti i critici dell’Illuminismo, «diventano nulli». In que­
sto modo vede la luce «il nuovo Stato», contro il quale nessuna delle vec­
chie istituzioni - Chiesa, famiglia, proprietà - può accampare diritti. Que­
sto Stato non è però lo Stato all’americana, una sorta di società di mutua
assicurazione. Taine non nutre alcuna simpatia per lo Stato concepito co­
me «una macchina utilitaria», quell’«impertinenza americana», come dice­
va Renan, ma non c’è nulla di peggio di quel «convento democratico che
Rousseau costruisce sul modello di Sparta e Roma», dove «l’individuo non
è niente» e «lo Stato è tutto». Questo «primogenito della ragione, suo fi­
glio unico e solo rappresentante», viene al mondo nel momento in cui «al­
la sovranità del re, il Contrai social sostituisce la sovranità del popolo»130132.
Nell’alienazione dell’individuo e nel suo asservimento a quel mostro
che si chiama sovranità popolare, Taine vede il fine di tutta l’opera di
Rousseau. Moltiplica le citazioni famose per dimostrare la totale sotto-
missione richiesta all’individuo con questo processo fondativo: prima

130. Ibid.
131. lbid.,p. 437.
132. Ibid., pp. 435-438.

98
Lo scontro delle tradizioni

del contratto sociale l’uomo era proprietario di beni, con il contratto so­
ciale si è alienato ed è divenuto debitore dello Stato. Nel «nostro con­
vento laico», dice, «tutto ciò che ogni monaco possiede è un dono revo­
cabile del convento»1” . Ma questo convento è anche «un seminario» nel
quale l’inquadramento dei cittadini è il primo pensiero dello Stato. Taine
illustra che cosa fosse per Rousseau la formazione ideale del cittadino:
quella auspicata da Platone nella Repubblica, quella di Licurgo e quella
praticata a Sparta. Il suo obiettivo era rendere ogni individuo parte in­
tegrante di un tutto, poiché esiste solo per e attraverso l’insieme. Per
mezzo della formazione e dello stile di vita, fin dalla più tenera infanzia,
i futuri cittadini si abituano a riconoscere nella decisione del popolo riu­
nito l’unica decisione legittima. Per dare una visione d’insieme dell’or­
rore che si prepara, Taine evoca il Code de la nature di Morelly, che com­
pleta il lavoro di Rousseau: Morelly - che a ragione Taine considerava
marginale, ma che in questo cotesto gli tornava utile - sarebbe stato uno
dei fondamenti della dimostrazione di Talmon nelle Origini della demo­
crazia totalitaria. Si delineano così i contorni dello Stato totalitario. Il ter­
mine sarebbe apparso solo un secolo dopo, ma i principi di base di que­
sto nuovo fenomeno sono chiaramente enunciati. L’interesse primario
dello Stato nuovo, dice Taine, «sarà sempre quello di formare volontà
che gli assicurino la durata, [...] di sradicare dalle anime le passioni che
gli sarebbero contrarie e di seminarvi quelle che gli saranno favorevoli
[...]. In un convento bisogna che i novizi siano educati da monaci; altri­
menti, quando saranno cresciuti, non vi sarà più convento»1’4.
Infine, e qui sta forse l’essenziale, quel convento laico ha una religio­
ne, «una religione laica», o in altri termini un’ideologia dominante con il
monopolio della legittimità. Ecco dunque l’altra grande idea che la scuo­
la totalitaria degli anni Cinquanta del Novecento trarrà dalle Origines. La
grande specificità dello Stato nuovo consiste nella sua ostilità «per le as­
sociazioni diverse da sé, perché sono sue rivali, l’ostacolano, accaparrano
la volontà e falsano il voto dei loro membri»1” . Qualsiasi opinione, qual­
siasi ideologia, qualsiasi organizzazione politica e sociale che non sia di-1345

133. Ibid., p. 440.


134. Ibid., p. 442.
135. Ibid.

99
Lo scontro delle tradizioni

rettamente al servizio dello Stato contribuisce a spezzare l’unità sociale e


per questo motivo è da proibire. Questo è per Taine il senso dell’idea di
volontà generale. I testi d’appoggio sono i passi famosi del Contrai social
che d’ora in poi serviranno a tre generazioni di critici deU’Illuminismo:
«E importante [...] che nello Stato non vi siano società parziali e che
ogni cittadino dia la propria opinione secondo la propria volontà»1’6.
I critici di Rousseau, dalle origini fino agli anni Cinquanta, mettono
l’accento sulla prima parte di questa frase. Nel seguito vedono la riduzio­
ne del corpo dei cittadini a un pulviscolo di individui, senza difese di fron­
te alla macchina dello Stato. Nel suo insieme, questo testo sembra loro get­
tare le basi del totalitarismo di sinistra. Kant invece intendeva il principio
della volontà generale in tutt’altro modo: per lui lo scopo al quale mirava
Rousseau era di assicurarsi che ogni individuo potesse partecipare alla for­
mazione della volontà generale e non dovesse obbedire a leggi diverse da
quelle che ha contribuito a formulare. In altri termini, se si accetta Kant,
Rousseau avrebbe posto proprio i principi della democrazia.
Qui Taine prosegue la sua dimostrazione, ma si sposta senza alcun
passaggio intermedio da Rousseau a Louis-Sébastien Mercier, autore di
L!an deux mille quatre cent quarante e di un centinaio di altri volumi, «in­
faticabile imbrattacarte» per gli uni, il «Rousseau del ruscello» o ancora
la «caricatura di Diderot» per altri137. L’autore delle Origines non pensa

136. Ibid. Taine cita il contratto sociale (a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, To­
rino 1966), li, 3, p. 43. La citazione è tagliata ma colpisce soprattutto il fatto
che Taine ometta il seguito: «Nel caso in cui non si possa fare a meno di società
parziali, è necessario allora moltiplicarne il numero e prevenirne la disugua­
glianza, come fecero Solone, Numa, Servio». Il cap. IV, ultimo del libro, pp.
171-184, tratta «Della religione civile».
137. Louis-Sébastien Mercier, Hanno del duemilaquattrocentoquaranta, trad. di Laura
Tundo, Dedalo, Bari 1993. Nato nel 1740, morto nel 1814, denigrato da alcuni, let­
to e apprezzato da altri, Mercier fu tradotto in diverse lingue. Lan deux mille qua­
tre cent quarante è del 1770 o del 1771. Fino al 1799, l’opera, che aveva avuto nu­
merose edizioni, si era diffusa in tutta Europa (Introduction a Mercier, Lan deux
mille quatre cent quarante. Rêve s’il en fut jamais, édition, introduction et notes par
Raymond Trousson, Editions Ducros, Paris 1971, p. 66). Ammiratore di Rousseau,
nel 1791 Mercier pubblica uno squillante De Jean-Jacques Rousseau considéré com­
me l'un des premiers auteurs de la Revolution; girondino, eletto alla Convenzione,
si salva dal patibolo per la caduta di Robespierre (Introduction, pp. 22-25).

Kl
100
Lo scontro delle tradizioni

soltanto che il futuro membro della Convenzione completi Rousseau, ma


che ne sia anche il seguito logico e quasi inevitabile. Egli riassume in
questo modo il pensiero di Mercier: « “C ’è una religione civile [...] e
spetta al sovrano fissarne gli articoli, non esattamente come dogmi reli­
giosi, ma come sentimenti di sociabilità, senza i quali è impossibile esse­
re buon cittadino o suddito fedele”». Il nemico più grande del «nuovo
legislatore» è il cristianesimo, perché «la patria del cristiano non è di
questo mondo»138. Tradotte in termini moderni, queste idee vogliono di­
re che il nuovo Stato non avrebbe tollerato l’esistenza di nessun partito
politico, di nessuna Chiesa, di nessuna organizzazione sociale o cultura­
le che non dipendesse da lui e che non fosse al suo servizio. Dopo Karl
Popper, autore, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, di The Open
Society and its Enemies, un simile sistema di governo è comunemente de­
finito come sistema totalitario. E questa è, dagli anni Settanta dell’Otto­
cento, la percezione di Hippolyte Taine. Il fatto che la sua interpretazio­
ne di Rousseau sia parziale, frammentaria e selettiva non cambia nulla:
l’autore del Contrat social è il prototipo del philosophe che impregna di
spirito rivoluzionario la Francia òté\’Ancien Régime, e tutta la Rivolu­
zione è il frutto del lavoro dei philosophes. Per Taine, come per i suoi ere­
di durante la guerra fredda, Rousseau in primo luogo, poi Morelly e
Mercier, creano le basi intellettuali del totalitarismo.
Le critiche rivolte da Taine allo spirito illuminista riprendono la par­
te essenziale delle argomentazioni di Burke ed Elerder e alimentano il
pensiero della generazione successiva al 1945. E curioso constatare con
quanta premura Taine si allinei all’autore tedesco nella critica sia della
lingua francese come si sviluppa nel Settecento sia dello spirito classico.
Taine difendeva una civiltà, non la sua patria. La sua condanna del grand
siècle francese è senza appello, violenta quanto quella di Herder nel suo
Giornale di viaggio ì 769 e in Ancora una filosofia della storia. In effetti,

138. Taine, Le origini della Francia contemporanea. L’antico regime, pp. 443-444.
Taine cita Lan deux mille quatre cent quarante, I, capitoli XVII e XVIII. I due
capitoli citati sono dedicati al celibato monastico e al culto dell’Essere supre­
mo. Il brano tra virgolette è dello stesso Taine, non di Mercier. Quest’ultimo si
era spesso vantato, con Lan deux mille quatre cent quarante, di essere stato il
profeta della Rivoluzione diciannove anni prima che esplodesse (Introduction,
p. 73). Tuttavia le affermazioni che gli attribuisce Taine non sono sue.

101
Lo scontro delle tradizioni

dice Taine, la lingua deli'Académie française e dei salotti è uno strumen­


to per spiegare, dimostrare, persuadere, uno strumento che si sviluppa
un secolo più tardi in «un metodo scientifico analogo aH’aritmetica e al­
l’algebra». Ecco perché «per il suo purismo, per il suo disdegno di tutti
i termini netti e i modi di dire vivaci, [...] lo stile classico è incapace di
rappresentare o registrare completamente i dettagli infiniti e casuali del­
l’esperienza»09. E incapace di esprimere la passione, l’individuo vivente,
il particolare e lo specifico. Questa lingua non può esprimere che una
parte della verità, una parte esigua, e con quello stile non si può tradur­
re né la Bibbia, né Dante, né Shakespeare: «leggete il monologo di Am­
ieto in Voltaire e guardate che cosa ne resta». Lo stesso vale per Omero
e Fénelon, o per gli stessi romanzieri del XVIII secolo: Fielding, Defoe,
Richardson hanno parole troppo franche, scene troppo forti, utilizzano
libertà e crudezze che contrariano i francesi. Per sua natura lo stile clas­
sico rischia sempre «di prendere per materiale dei luoghi comuni» e il ri­
sultato finale è di «poca o di nessuna utilità, oppure di uso pericoloso».
Ecco perché Taine, come Herder, deplora che il francese sia la lingua do­
minante in Europa. Perché la preponderanza del francese, la lingua del
metodo quasi matematico, significa la vittoria dell’«organo preferito del­
la ragione», o meglio «di una certa ragione, la ragione ragionante, quel­
la che vuole pensare con la minima preparazione e la massima comodità
possibili, [...] che non sa o non vuole abbracciare la pienezza e la com­
plessità delle cose reali»139140. Leggendo Taine, si potrebbe pensare che il
francese del XVII e del XVIII secolo fosse una lingua morta e gli Illu­
ministi automi pedanti senz’anima e senza vitalità.
La critica del francese, del classicismo e della ragione costituisce la
triplice spinta dell’attacco di Taine alla cultura illuminista. Del resto lo
stesso Taine si sia impegnato come nessun altro per radicare il mito se­
condo il quale agli Illuministi sarebbe mancato senso storico. Solo la
Germania, patria degli antilluministi herderiani, avrebbe posseduto il
senso storico. Questo mito rende facile mostrare l’uomo dei Lumi in tut­
ta la sua piattezza, in tutta la sua banalità e in tutta la sua aridità. In lui
«la forma è più bella di quanto il fondo sia ricco», la poesia non può na­

139. Ibid., pp. 352-353.


140. Ibid., p. 353.

102
Lo scontro delle tradizioni

scere, il poema lirico abortisce, come pure il poema epico. Taine chiama
a testimone Voltaire, il quale confessava che, «di tutte le nazioni civili, la
nostra è la meno poetica»1-". Mai «si sente il grido involontario della sen­
sazione viva»; a teatro, da Corneille e Racine fino a Marivaux e Beau-
marchais, non si vede che gente di mondo. In un carattere vivente l’arte
classica è incapace di cogliere il particolare, non crea individui verosimi­
li ma personaggi generici, si interessa poco alle circostanze specifiche, al
tempo e al luogo propri alle une e non alle altre. Si crea così un «mondo
astratto» dove, con Corneille e Racine, «attraverso la pompa e l’elegan­
za dei loro versi», si dipinge «l’uomo in sé»14142. Persino in Molière «si sop­
prime la singolarità dell’individuo, il viso diventa per un istante una ma­
schera teatrale». In conclusione: «C ’è dunque un difetto originario nel­
lo spirito classico». Nella giusta misura eso ha potuto produrre i suoi ca­
polavori più puri ma, peggiorando con il tempo, nel Settecento si mostra
incapace di rappresentare «la cosa vivente, l’individuo reale, quale esiste
effettivamente nella natura e nella storia»14’.
In più l’età classica «non ha senso storico» e ritiene che «l’uomo sia
dovunque lo stesso». Per cui, quando arriva la Rivoluzione, non si ha al­
cuna «idea della creatura umana quale essa è [...]. Tutti se la raffigura­
no come un automa elementare» trasformato da una «macchinetta per
produrre frasi [...] [in] una macchinetta per produrre voti». Infine «mai
fatti, solo astrazioni»144. In questo mondo astratto e artificiale non esi­
stono né l’individuo, organismo complesso dai caratteri stratificati e dal­
le peculiarità mescolate e aggrovigliate, individuo reale in tutta la com­
plessità dei contesti che sono i suoi, né il tempo e lo spazio, la natura e
la storia.
In questo modo si accredita il mito secondo il quale il pensiero illu­
minista misconosce la storia, la tradizione e l’eredità a beneficio di una
ragione incapace di cogliere l’individuo reale, ma la cui autorità si ac­
cresce per le scoperte scientifiche. Il XVIII secolo rinnega il pregiudizio
ereditario, abolisce il passato, rimuove la religione a vantaggio della ra­
gione e, non tenendo conto dell’esperienza, ricade ancora e sempre nei

141. Ibid., pp. 357-358. Taine cita VEssai sur le poème épique.
142. Ibid., pp. 359-360.
143. Ibid., pp. 360-362.
144. Ibid, pp. 363-367.

103
Lo scontro delle tradizioni

principi generali e astratti1'” . Adesso «l’uomo non immagina niente se


non in base alla propria esperienza»; la «ragione ragionante» non con­
cepiva che la verità si fosse potuta «esprimere solo attraverso la leggen­
da». Inoltre, «non potendo vedere le anime, si misconoscevano le istitu­
zioni» e, «non potendo capire il passato, non capivano nemmeno il pre­
sente». E così che VAncien Régime andava incontro alla disfatta: venti
milioni di uomini il cui stato mentale aveva appena superato quello del
Medioevo non potevano abitare che in un edificio sociale del Medioevo,
ma un Medioevo sistemato, una casa pulita dove, dopo avere aperto fi­
nestre e riparato recinti, si sarebbero conservati «le fondamenta, i muri
maestri e la distribuzione generale». Di questo il Settecento non era ca­
pace. Solo Montesquieu lo capiva, «la mente [...] più equilibrata del se­
colo», ma, isolato e senza influenza, camminava come «sui carboni ar­
denti»145146. Invece la ragione classica cessa di cogliere le radici «antiche e
vive delle istituzioni contemporanee», per lei «il pregiudizio ereditario
diventa, così, un pregiudizio puro e semplice; la tradizione non ha più
alcun titolo legittimo»: così armata, la ragione strappa alla tradizione «il
governo delle anime» e assicura «il regno della verità»147. Ogni barriera
viene abbattuta e nasce l’uomo moderno, mosso da due sentimenti, uno
democratico e l’altro filosofico, innalzandosi «dai bassifondi della sua
povertà e della sua ignoranza, [...] rimuovendo il peso della società sta­
bilita e dei dogmi accettati»148.
Il nuovo spirito filosofico, lo scetticismo che aveva preso il posto del
deismo, dice Taine, avevano cominciato prima di tutto a conquistare l’a­
ristocrazia: «I salotti si aprono alla filosofia politica, e di conseguenza, al
contratto sociale, aII’Encyclopédie, alla predicazione di Rousseau, Mably,
D ’Holbach, Raynal e Diderot. Nel 1759 d’Argenson, che se la prende,
crede già vicino il momento finale». E Taine lo cita: «Soffia su di noi un
vento filosofico di governo libero e antimonarchico [...]. Forse la Rivo­
luzione si farà con meno contestazioni di quanto si pensa; si farà per ac­
clamazione». In una nota a fondo pagina, l’autore aggiunge: «Sembra

145. Ibid.,pp. 375-376 e 387.


146. Ibid., pp. 384-386.
147. Ibid., p. 387.
148. Taine, Les Origines de la France contemporaine, Laffont, «Bouquins», Paris
1986, t. V, pp. 242 e 320.

104
Lo scontro delle tradizioni

una predizione della notte del 4 agosto 17 SS»»149. Poi viene coinvolto il
Terzo Stato, «i dogmi di eguaglianza e libertà filtrano e penetrano in
ogni classe che sa leggere. [...] E lo spirito di Rousseau, “lo spirito re-
pubblicano”; ha conquistato tutta la classe media, artisti, parroci, im­
piegati, medici, procuratori, avvocati, letterati, giornalisti»150. Ecco co­
me e perché la conquista giacobina è alla fine divenuta possibile: grazie
alla letteratura rivoluzionaria, numerosa e a buon mercato, «scende e si
diffonde la filosofia del XVIII secolo»: se al primo piano, nei begli ap­
partamenti dorati, «le idee» sono state solo dei «giochi d’artificio di una
serata», in altre parti della casa i fuochi accesi hanno trovato «mucchi
di legna accumulati da tempo» e nelle cantine era già pronto «un ma­
gazzino di polveri»151.
M Le accuse di Taine si ritrovano in Renan, sono identiche alle critiche
di Carlyle, non differiscono molto da quelle che quasi un secolo prima
lanciavano Herder e Burke e che si ritrovano nei neoconservatori un se­
colo più tardi. Gli stessi argomenti vengono ripresi con la stessa devo­
zione, perché le problematiche non sono cambiate di molto. Il Settecen­
to, dice l’autore de LA ven ir de la Science, consumato dallo «strano fuoco
che lo animava»,152153dal male, dalla depravazione e dalla decadenza che ne
derivano, impose «il giogo dello spirito ristretto», si irrigidì in un «cer­
chio di idee assai limitato»151. Così l’Illuminismo, da un secolo, è all’ori­
gine del «grande indebolimento morale» della Francia, in tutti i campi. Il
termine «veleno», molto utilizzato da Carlyle, ritorna in Renan per deli­
neare la natura dell’Illuminismo: «Il veleno, anche se preso a piccole do­
si, produce il suo effetto»154. Il risultato materiale di questo processo è la
legislazione rivoluzionaria, artificiale e astorica, livellatrice e distruttrice

149. Taine, Le origini della Francia contemporanea. Lantico regime, pp. 514-515
(corsivo nel testo).
150. Ibid., pp. 551-552.
151. Ibid., pp. 565-566.
152. E. Renan, La Monarchie constitutionnelle en France, in La Réforme intellectuelle et
morale, Calmann-Levy, Paris, 12‘ ed., série Œuvres complètes, s.d. [1929], p. 238.
153. Citato in Edouard Richard, Ernest Renan, penseur traditionaliste?, Presses uni­
versitaires d’Aix-Marseille, Aix-en-Provence 1996, pp. 162 e 131-132.
154. Renan, «Réponse au discours [...] Claretie», in Feuilles détachées, p. 1078, ci­
tato in Richard, Ernest Renan, penseur traditionaliste?, p. 163, nota 335.

105
Lo scontro delle tradizioni

della fede, ma i danni del materialismo si sono fatti sentire in tutti i cam­
pi della vita intellettuale e politica. La Francia è marcita a causa della me­
diocrità e delle astrazioni egualitarie. Insomma, qui sembra di sentire
Herder quasi parola per parola: da una parte «quel secolo non compre­
se la natura dell’attività spontanea», dall’altra fu un periodo che «non
comprese altro che se stesso e giudicò tutti gli altri secondo se stesso»1” .
La polvere esplode ai tempi della Rivoluzione francese, che secondo
Renan diventa subito una bassa democrazia terrorista, trasformatasi in
dispotismo militare e in strumento di asservimento per tutti i popoli15156.
Come in Taine, si approda a una visione della Rivoluzione che farà feli­
ce la riflessione storica sui mali della guerra fredda. Renan mostra come
« l’esperienza mancata della Rivoluzione ci ha guariti dal culto della ra­
gione»157. Questa tendenza prosegue nella prefazione all’edizione del
1890 de L’Avenir de la Science fino a rinnegare l’essenza dello spirito che
presiede all’edizione originale dell’opera158.
Occorre pertanto aprire qui una breve parentesi. Da un canto il gio­
vane Renan guarda alla Rivoluzione in un modo molto diverso dal Renan
del 1890, ma d’altro canto vede già come la problematica del suo tempo
si inscriva nel secolo precedente. Come Carlyle, anche lui è affascinato
da «questo immenso evento che rappresenta tutto il Settecento»,159 que-

155. Renan, L Avenir de la science, in Œuvres complètes de Ernest Renan, édition


definitive, établie par Henriette Psichari, Calmann-Lévy, Paris [1956], voi.
Ili, p. 749.
156. Renan, «L a guerra franco-prussiana», in Che cos’è una nazione? e altri saggi,
trad. di Gregorio De Paola, Donzelli, Roma 2004, p. 22.
157. Renan, La riforma intellettuale e morale della Francia, a cura di Regina Pozzi,
Istituto Storico Italiano, Roma 1991, p. 109. Si veda anche «Préface», in E. Re­
nan, Questions contemporaines, Calmann-Lévy, Paris, 7' ed., s.d. [1929], p. III.
158. In questo nuovo scritto Renan spiega la riedizione del libro. «Mi fu imposta una
condizione», dice, «che era di riprodurre il mio saggio di gioventù nella sua for­
ma ingenua, sovraccarica, spesso aspra [...] ora, lo schema della mia vecchia
opera non è affatto quello che sceglierei oggi.» Questo fa sì che per correggere
e modificare il contenuto, «quella folla di pensieri», che non erano più i suoi,
per determinare una nuova cornice concettuale che corrispondesse all’evoluzio­
ne del suo pensiero, si sarebbe dovuto «comporre un nuovo libro» (E Avenir de
la Science, p. 721). II libro viene quindi pubblicato come documento a testimo­
nianza delle idee che egli aveva nel 1848 ma che non ha più nel 1890.
159. Renan, L'Avenir de la science, p. 747.

106
Lo scontro delle tradizioni

sto «secolo che ha cambiato il mondo» e che rimane «il nostro model­
lo perpetuo» per avere saputo ispirare «convinzioni energiche, senza
farsi setta o religione, rimanendo invece puramente scienza e filoso­
fia»160. 11 XVIII secolo, afferma, «non ha né Racine né Bossuet e tutta­
via è molto superiore al XVII: la sua letteratura è la sua scienza, la sua
critica, la prefazione dell’Encyclopédie, i luminosi saggi di Voltaire»161.
Perché è nel XVIII secolo che l’umanità, «dopo avere vagato per se­
coli nella notte dell’infanzia, senza coscienza di sé, [...] ha preso pos­
sesso di se stessa». E così che «la Rivoluzione francese è il primo ten­
tativo dell’umanità di prendere in mano le redini e guidarsi da sola»:
è per questo che «la vera storia della Francia inizia nell’89; tutto ciò
che precede è la lenta preparazione all’89 e interessa solo in questa
funzione»162. Nel 1849, all’inizio della sua carriera, quando ancora la
politica non aveva nel suo pensiero quel ruolo che avrebbe avuto
vent’anni dopo, egli ha degli accenti molto kantiani: «L a Rivoluzione
francese [...] è il momento corrispondente a quello in cui il bambino,
condotto fin ad allora da un istinto spontaneo, dal capriccio e dalla vo­
lontà degli altri, diventa persona libera, morale e responsabile dei pro­
pri atti»16’. L’accesso dell’uomo alla maturità resta il senso della Rivo­
luzione: Renan guarda il XVIII secolo con gli occhi del giovane scien­
ziato, affascinato dal principio per il quale «la ragione deve governare
il mondo», da «quell’incomparabile audacia, quel meraviglioso e ardi­
to tentativo di riformare il mondo conformemente alla ragione»164165.
Nella nota 7 di questo brano, alla fine dell’opera, Renan scrive: «Si ve­
da come eminentemente caratteristica la Dichiarazione dei diritti nel­
la Costituzione del ’91. E il XVIII secolo nella sua interezza: il con­
trollo della natura e di ciò che esiste, l’analisi, la sete di chiarezza e di
ragione evidente»163. In un’altra nota nella stessa pagina si esprime
con un tono che difficilmente si può immaginare per l’autore della
Ré/orme intellectuelle et morale-. «L’anno 1789 sarà un anno santo

160. Ibid.,p. 812.


161. Ibid., p. 1039.
162. Ibid., p. 747.
163. Ibid.
164. Ibtd, p. 748.
165. Ibid, p. 1124.

107
Lo scontro delle tradizioni

nella storia dell’umanità»166. Il Renan del 1849 non ha dubbi: «Per


quanto mi riguarda, io penso che, fra cinquecento anni, la storia di
Francia comincerà dal giuramento della Pallacorda»167. Qualche pagi­
na dopo ci fornisce un brano assai caratteristico della percezione del­
la Rivoluzione tipica della generazione nata dopo la caduta di N apo­
leone: «N oi non abbiamo visto grandi cose; quindi in ogni cosa ci ri­
facciamo alla Rivoluzione: quello è il nostro orizzonte, la collina della
nostra infanzia, il nostro capo del mondo»168. La Rivoluzione è un fe­
nomeno che non ha paragone dopo le grandi invasioni e che indub­
biamente non si vedrà più per secoli, «la più meravigliosa delle epopee
in azione»,169 ma «quell’orizzonte è una montagna» e non può servire
da criterio per il futuro170.
Renan si spinge ancora più lontano: ritiene che il rinnovamento reso
necessario dal travaglio intellettuale del XVIII secolo non avrebbe potu­
to farsi pacificamente. E un’illusione pensare che si sarebbe potuta evi­
tare la distruzione dell’ordine costituito: non si sarebbe mai osato di­
struggere i privilegi, gli ordini religiosi, una massa di altri abusi: «Nulla
si fa con la calma: si osa solo nella rivoluzione»171. Andando avanti, la vio­
lenza è inevitabile: «Ci sono uomini necessariamente detestati e male­
detti dal loro secolo; il futuro li spiega e arriva freddamente a dire: è sta­
to necessario che ci siano state persone così»172. Infine: «Il fatto è il cri­
terio del diritto. La Rivoluzione francese non è legittima perché si è com­
piuta: si è compiuta perché era legittima»173.
Gli eventi del giugno 1848 e il colpo di Stato del 1851 avrebbero
portato Renan a un rovesciamento di prospettiva: già prima di Sedan
giunge a vedere nell’epoca dei Lumi le origini del male che consumava
la Francia. Tuttavia anche nel testo del 1849 gli elogi rivolti al Settecen­
to e alla Rivoluzione non devono ingannare: vi sono infatti già chiara-

166. Ibid.
167. Ibid., p. 1039. Si veda anche p. 1124: la Pallacorda «un giorno sarà un tempio».
168. Ibid, pp. 1028-1029.
169. Ibid, p. 884.
170. Ibid, p. 1029.
171. Ibid, p. 990.
172. Ibid, pp. 990-991.
173. Ibid, p. 1032.

108
Lo scontro delle tradizioni

mente formulate tutte le riserve e le critiche che andranno amplifican­


dosi col tempo. Nello stesso momento e nella stessa pagina ove abbon­
dano le glorificazioni, Renan accumula con eleganza anche le condanne.
La più grande delle rivoluzioni, dice Renan, fu la prima rivoluzione «fat­
ta da filosofi». Condorcet, Mirabeau, Robespierre offrono il primo
esempio di teorici che cercano di «governare l’umanità in un modo ra­
zionale e scientifico». Tutti i membri delle assemblee elette erano «qua­
si senza eccezione seguaci di Voltaire e di Rousseau». Il risultato non po­
teva tardare: «Il carro diretto da mani simili» doveva inevitabilmente
«andare a infrangersi in un abisso»174. Nei fatti il cammino delle società
è estremamente complesso, istituzioni che a prima vista appaiono assur­
de in fondo non lo sono quanto sembra, «i pregiudizi hanno la loro ra­
gione che uno non vede»175. Il rifiuto dei pregiudizi in blocco ha la chia­
rezza analitica amata dal XVIII secolo, ma quelle storture fanno parte in­
tegrante del «vecchio edificio dell’umanità»: la critica dei primi riforma­
tori fu «su diversi punti aspra, ottusa verso lo spontaneo, troppo orgo­
gliosa delle facili scoperte della ragione riflessiva»176.
E per questo che, in ultima analisi, nella Réforme la Rivoluzione è
descritta come un fenomeno contro la natura e contro la storia, che po­
teva quindi generare solo la decadenza, la mediocrità e, per quanto ri­
guarda la Francia, l’indebolimento e la perdita del suo posto nel mondo.
In due fasi essa fu sconfitta dall’«aristocrazia prussiana»: la prima fase fu
quella dal 1792 al 1815, la seconda dal 1848 al 1870177. Quest’interpreta­
zione è tipica della visione che dell’Ottocento avevano i critici dell'Illu­
minismo francese. La guerra che