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Centro di Studi sulla Fortuna dell’Antico “Emanuele Narducci”

Echo 13

Aspetti della Fortuna dell’Antico


nella Cultura Europea
Atti della Decima Giornata di Studi
Sestri Levante, 15 marzo 2013

a cura di
Sergio Audano e Giovanni Cipriani
ECHO
Collana di studi e commenti diretta da Giovanni Cipriani

Comitato scientifico
Sergio Audano, Pedro Luis Cano Alonso, Nicole Fick, Giulio Guidorizzi,
Giancarlo Mazzoli, Robert Proctor, Giunio Rizzelli, Silvana Rocca, Elisa
Romano, Valeria Viparelli.

Segreteria di redazione
Grazia Maria Masselli, Tiziana Ragno, Biagio Santorelli.

© 2014 Aps IL CASTELLO Edizioni


86100 Campobasso, Piazza della Vittoria 14/C
71121 Foggia, Via Conte Appiano 60
Sito web: www.ilcastelloedizioni.it
e-mail: info@ilcastelloedizioni.it

Direttore editoriale: Antonio Blasotta

Editing: Alba Subrizio

ISBN 978-88-6572-120-9
LE SFIDE DEL CAMBIAMENTO:
DALLE MONOGRAFIE SALLUSTIANE
AL CICLO DELLE FONDAZIONI DI ASIMOV

Giusto Picone
(Università di Palermo)

1. Da Gibbon ad Asimov

«La Trilogia Galattica di Isaac Asimov è il ‘ciclo’ fantascien-


tifico più famoso e più venduto del mondo. I tre volumi, usciti
per la prima volta rispettivamente nel 1951, 1952 e 1953, sono
stati da allora ristampati innumerevoli volte in America, in edi-
zioni sia economiche sia rilegate, e tradotti in una ventina di lin-
gue. Eppure, se si confronta quest’opera così fortunata con al-
tre grandi saghe spaziali, essa appare a prima vista assai meno
ricca, e quasi incurante di quegli ingredienti tradizionalmente
ritenuti capaci di attirare il lettore di fantascienza. L’infinita e
paradossale varietà del cosmo è qui appena sfruttata, paura,
orrore e meraviglia di fronte all’ignoto non hanno parte nella
composizione, armi, macchine, animali impensabili restano tra
le quinte. […] Dov’è allora il fascino di questo immenso affre-
sco galattico, che cosa lo rende così irresistibilmente leggibile?
Anzitutto, proprio la sua immensità, o meglio, l’impressione di
immensità che riesce a suscitare. […] Stabilito il tono (l’unico
possibile) per trattare una materia fredda e remota per defini-
zione, costruita con una cassa di risonanza piena d’incalcola-
bili, misteriosi echi siderali, Asimov mette in moto la sua vasta
trama, ispiratagli, come egli stesso ammette, dalla Decadenza
e caduta dell’Impero Romano di Gibbon. Poiché la fantascienza
è in fin dei conti una letteratura d’intrattenimento popolare, i
colpi di scena, i segreti, le motivazioni, gli equivoci, i sentimenti
che fanno parte del classico armamentario romanzesco sono
qui utilizzati a piene mani, e con notevole maestria e tempesti-
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Aspetti della Fortuna dell’Antico nella Cultura Europea

vità, per movimentare il tramonto del primo impero galattico


e la nascita del secondo. Tuttavia, non c’è dubbio che la ragio-
ne fondamentale del successo della Trilogia sta nel fatto che si
tratta di un libro di storia. Chi vi si addentra, può non conosce-
re Gibbon, Toynbee o Marx, ma la sua reazione sarà certamente
quella dell’amatore di storia che si aspetta dallo ‘specialista’ un
racconto e insieme una spiegazione del racconto […].
E a libro chiuso, la più difficile delle domande. È questo
ramificato e stupendo ‘sistema’ romanzesco a dovere tut-
to agli scrittori di storia, o non saranno invece questi, con le
loro ben congegnate fabbricazioni, a dovere tutto all’arte dei
romanzieri?»1.

L’intero Ciclo delle Fondazioni è costituito da sette roman-


zi, pubblicati in un arco di tempo assai ampio, tra il 1951 e il
1992; tuttavia i tre romanzi della trilogia originale, nota come
Trilogia Galattica o Cronache della Galassia o Trilogia della Fon�
dazione (Foundation, 1951; Foundation and Empire, 1952; Se�
cond Foundation, 1953), videro la luce nel breve giro di tre anni
e soltanto a distanza di tre decenni, nel 1982, Asimov cedette
alle fortissime pressioni dei lettori e del suo editore, la Double-
day di New York, dando infine un seguito alla Trilogia con due
sequel e con altrettanti prequel che però, con grave disappunto
dei tanti appassionati, presentavano rispetto al nucleo iniziale
caratteristiche molto diverse, sia sul versante del contenuto sia
sul piano stilistico.
Va detto che la Trilogia della Fondazione è in realtà una
raccolta di racconti scritti tra il 1942 e il 1949, apparsi per la
prima volta e con straordinario successo sulla fortunata rivi-
sta di fantascienza Astounding Science Fiction, diretta da John
W. Campbell. Il dato cronologico relativo alla composizione è
significativo, poiché l’angoscia che pervadeva la società nor-
damericana e, più in generale, il mondo occidentale negli anni
del secondo conflitto mondiale e del successivo dopoguerra, al
cospetto di un mutamento globale che appariva epocale ma di
cui non si intravedeva lo sbocco, è senza dubbio il motivo ispi-
ratore delle storie confluite poi nella silloge. Un cambiamento
decisivo era dunque in atto e si realizzava tanto rapidamente

1
Fruttero-Lucentini 1982, V s.
Giusto Picone 55

quanto pericolosamente, distruggendo l’antico ordine politico:


come fare per salvare i fondamenti culturali e istituzionali di
una civiltà in via di dissoluzione ed evitare che, con la sua fine,
si inaugurasse una lunga era di anarchia e di barbarie? È que-
sto il tema di fondo che percorre l’intera Trilogia e che fa sì che
essa si dispieghi, come osservano Fruttero e Lucentini, senza
dar spazio agli ingredienti che caratterizzano tante altre saghe
della letteratura fantascientifica, dalle epiche battaglie inter-
galattiche alla rappresentazione dell’ignoto, dell’orrore e del
meraviglioso, elementi tradizionalmente costitutivi delle sto-
rie che hanno per oggetto il cosmo e la sua misteriosa, infinita
e sconvolgente varietà.
Il primo Ciclo delle Fondazioni ha invece un ipotesto dichia-
rato, la celeberrima History of the Decline and Fall of the Roman
Empire di Edward Gibbon, che pose al centro della sua monu-
mentale opera, pubblicata in sei volumi dal 1776 al 1788, la
descrizione e l’analisi dei comportamenti e delle decisioni che
determinarono il crollo dell’Impero romano. E difatti i tre ro-
manzi di Asimov hanno il taglio e l’andamento della scrittura
storiografica, a partire dal ruolo centrale che vi riveste la ge-
niale invenzione narrativa della ‘psicostoria’, la scienza messa
a punto da Hari Seldon, che, sulla base di complesse funzioni
matematiche, consente di prevedere le crisi che determineran-
no inevitabilmente il collasso dell’Impero galattico. Di più: la
psicostoria è lo strumento di cui si serve Seldon per inviare
su Terminus, pianeta sul margine estremo della Galassia, una
comunità di scienziati, ufficialmente incaricati di redigere l’En�
ciclopedia Galattica, summa universale del sapere scientifico e
tecnologico che si vuole salvare e consegnare alle successive
generazioni, ma in verità deputati a costituire il nucleo occulto
del nuovo, futuro Impero. È evidente che Asimov, nel deline-
are la trama della sua costruzione letteraria, ha ben presente
la funzione svolta dalle comunità monastiche durante il Medio
Evo e non è certo casuale che al pianeta liminare nel quale ope-
ra nascostamente la Fondazione sia assegnato il nome latino
di Terminus: nell’immaginario dello scrittore d’origine russa
opera con forza il paradigma esemplare della vicenda di Roma,
dalla sua caduta alla miracolosa rinascita, dovuta alla riscoper-
ta di quella grande civiltà, custodita per secoli nel segreto delle
celle e delle biblioteche conventuali.
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Aspetti della Fortuna dell’Antico nella Cultura Europea

2. Mondo alla rovescia e memoria. Il lascito dei padri

Roma, dunque, il travaglio all’interno e all’esterno dei suoi


confini, protrattosi per secoli sino al precipizio finale, l’insisti-
to, angoscioso interrogarsi dei suoi intellettuali sulle modalità
atte ad affrontare il turbine del cambiamento e impedire che
esso divenga disordine ingovernabile. Com’è ben noto, la crisi
si manifesta in tutta la sua gravità già nel I secolo a.C. e trova
un suo primo approdo nella cosiddetta “rivoluzione romana”2,
che vede il collasso della repubblica e l’avvento del principato
augusteo. A Sallustio il mutamento che investe lo Stato e rove-
scia i virtuosi mores dei cives Romani, sostituendo fides, pro�
bitas ceteraeque artis bonae con le pratiche perverse indotte
da avaritia e ambitio, appare inatteso e incomprensibile, frutto
dell’irrompere dell’irrazionale nella Storia dell’uomo; senza al-
cuna ragione e senza alcun segno premonitore, dopo il trionfo
di Roma su Cartagine e la meritata conquista del dominio in-
contrastato sull’intero orbe terraqueo, saevire fortuna ac mi�
scere omnia coepit:

Sed ubi labore atque iustitia res publica crevit,


reges magni bello domiti, nationes ferae et populi
ingentes vi subacti, Carthago, aemula imperi Ro�
mani, ab stirpe interiit, cuncta maria terraeque
patebant, saevire fortuna ac miscere omnia coe�
pit. Qui labores, pericula, dubias atque asperas res
facile toleraverant, iis otium divitiaeque optanda
alias, oneri miseriaeque fuere. Igitur primo imperi,
deinde pecuniae cupido crevit: ea quasi materies

2
Syme 1939. Riguardo alla relazione tra passato e presente che
quel saggio necessariamente evocava in chi nel primo trentennio del
‘900 aveva vissuto il tramonto della democrazia liberale in Italia e in
Germania, meritano di essere ricordate le parole di Arnaldo Momigliano
nella sua introduzione all’edizione italiana dell’opera (Torino 1962, IX):
«Ricordo di aver letto The Roman Revolution quando ormai la guerra
era stata dichiarata e le notti si facevano sempre più lunghe su Oxford
immersa nell’oscurità. Il libro afferrava il lettore, stabiliva un rapporto
immediato tra l’antica marcia su Roma e la nuova, fra la conquista del
potere di Augusto e il colpo di stato di Mussolini e forse quello di Hitler.
Nell’incisiva vivezza con cui uomini e situazioni dell’antica Roma erano
rappresentati si rifletteva la esperienza di situazioni del nostro tempo».
Giusto Picone 57

omnium malorum fuere. Namque avaritia fidem,


probitatem ceterasque artis bonas subvortit; pro
his superbiam, crudelitatem, deos neglegere, om�
nia venalia habere edocuit. Ambitio multos mor�
talis falsos fieri subegit, aliud clausum in pectore,
aliud in lingua promptum habere, amicitias ini�
micitiasque non ex re, sed ex commodo aestumare
magisque voltum quam ingenium bonum habere.
Haec primo paulatim crescere, interdum vindicari;
post, ubi contagio quasi pestilentia invasit, civitas
inmutata, imperium ex iustissumo atque optumo
crudele intolerandumque factum. (Cat. 10)

L’‘archeologia’ di Roma, che nel Bellum Catilinae si estende


per otto capitoli (6-13) ed è collocata subito dopo il proemio
e il ritratto esemplare del ‘sovversivo’ Catilina, presenta una
struttura bipartita perfettamente bilanciata. A una sorta di età
dell’oro storicizzata (ius bonumque apud eos non legibus ma�
gis quam natura valebat, 9,1), in cui non vige alcuna costrizio-
ne giuridica o normativa, ma i cittadini sono raffigurati come
‘naturalmente’ impegnati in una perenne e spontanea compe-
tizione virtuosa (cives cum civibus de virtute certabant, 9,1),
tutta tesa all’acquisizione della gloria individuale e all’accre-
scimento del potere e della grandezza della res publica (6-9),
si contrappone la degradazione del presente (10-13), ove alla
sovversione dell’ordine etico si accompagnano anche il rove-
sciamento dell’ordine fisico, l’alterazione della scansione che
regola l’abituale successione di notte e giorno, sonno e veglia,
e, perfino, l’inversione dei comportamenti sessuali rispettiva-
mente pertinenti a uomini e donne (13, 1-3).
Vitia nepotum vs mores maiorum, dunque, e, parallelamente
o, per meglio dire, conseguentemente, chaos vs cosmos. Miscere
(10,1) è difatti il termine-chiave che, nell’incipit della sezione
destinata a illustrare le piaghe del presente, definisce gli effetti
generati dall’azione di un Caso inesorabilmente caecus, capace
di obnubilare le menti umane e ribaltare il tempo perfetto degli
antenati nella ferrea aetas contemporanea.
Non vi è dubbio che l’evocazione dei nobili trascorsi del-
la virtuosa Roma primitiva assolva nella prima monografia
sallustiana una funzione ‘contrappresentistica’, per usare la
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Aspetti della Fortuna dell’Antico nella Cultura Europea

felice formulazione assmanniana relativa alla mitodinamica


del ricordo3. Il ricordo, infatti, qui «non si limita a misurare il
passato come strumento di orientamento e controllo cronolo-
gico» e il mitizzato tempo delle origini non riveste la funzione
fondante di porre «il presente sotto la luce di una storia che
lo fa apparire dotato di senso, voluto da Dio, necessario e im-
mutabile»; al contrario, esso «diffonde sul presente una luce
del tutto diversa, che mette in rilievo ciò che manca, ciò che è
scomparso, perso, emarginato, rendendo consapevole la frat-
tura tra ‘un tempo’ e ‘adesso’: qui il presente non viene fondato
bensì, piuttosto, …scardinato o perlomeno relativizzato rispet-
to a un passato più grande e più bello»4.
La polarità Oro/Ferro sottesa ai capitoli 6-13 è un’invarian-
te presente in molti testi latini5 pressoché coevi o immediata-
mente successivi alla formulazione sallustiana, che affrontano
il tema di un cambiamento avvertito come radicale, parimenti
percepito e descritto come relativo non soltanto alla dimen-
sione sociale e politica, ma tale da investire la fragile struttu-
ra dell’ordine cosmico, determinandone il collasso e il conse-
guente ristabilirsi del chaos archetipico, di cui si fa metafora
pregnante l’immagine dell’oscura notte di Ade che si stende
sulle terre e nel cielo e si sostituisce alla luce del giorno, annul-
lando per sempre ogni distinzione tra i tria regna6.
Per Sallustio esiste tuttavia un antidoto alla rottura del pat-
to generazionale che aveva unito i discendenti agli avi nella
gara inesausta che si dispiegava lungo l’asse diacronico, in una
mirabile contentio honestissima fatta di imitatio e, al contem-
po, di aemulatio delle virtutes icasticamente raffigurate dalle
maiorum imagines conservate negli armaria posti nelle alae
delle domus nobiliari, testimoni eloquenti delle glorie della
gentes che avevano reso grande Roma:

3
Assmann 1997, 50-55.
4
Assmann 1997, 50 s.
5
Sul mito dell’aurea aetas nelle riscritture poetiche latine è tuttora
fondamentale Pianezzola 1979.
6
Su questo motivo, al contempo ideologico e letterario e, in partico-
lare, per la sua incidenza nel corpus tragico di Seneca rinvio alle conside-
razioni in Picone 2004.
Giusto Picone 59

Ceterum ex aliis negotiis, quae ingenio exer�


centur, in primis magno usui est memoria rerum
gestarum. Cuius de virtute quia multi dixere, prae�
tereundum puto, simul ne per insolentiam quis exi�
stimet memet studium meum laudando extollere.
Atque ego credo fore qui, quia decrevi procul a re
publica aetatem agere, tanto tamque utili labori
meo nomen inertiae imponant, certe quibus maxi�
ma industria videtur salutare plebem et conviviis
gratiam quaerere. Qui si reputaverint, et quibus
ego temporibus magistratus adeptus sum [et] qua�
les viri idem assequi nequiverint et postea quae
genera hominum in senatum pervenerint, profecto
existimabunt me magis merito quam ignavia iudi�
cium animi mei mutavisse maiusque commodum
ex otio meo quam ex aliorum negotiis rei publicae
venturum. Nam saepe ego audivi Q. Maximum, P.
Scipionem, praeterea civitatis nostrae praecla�
ros viros solitos ita dicere, cum maiorum imagi�
nes intuerentur, vehementissime sibi animum ad
virtutem accendi. Scilicet non ceram illam neque
figuram tantam vim in sese habere, sed memoria
rerum gestarum eam flammam egregiis viris in
pectore crescere neque prius sedari, quam virtus
eorum famam atque gloriam adaequaverit. At
contra quis est omnium his moribus, quin divitiis
et sumptibus, non probitate neque industria cum
maioribus suis contendat? Etiam homines novi, qui
antea per virtutem soliti erant nobilitatem ante�
venire, furtim et per latrocinia potius quam bonis
artibus ad imperia et honores nituntur; proinde
quasi praetura et consulatus atque alia omnia
huiusce modi per se ipsa clara et magnifica sint ac
non perinde habeantur, ut eorum qui ea sustinent
virtus est. Verum ego liberius altiusque processi,
dum me civitatis morum piget taedetque. Nunc ad
inceptum redeo. (Iug. 4)

Questo remedium, l’unico praticabile nella degradata di-


mensione della politica e della società contemporanee, è la
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Aspetti della Fortuna dell’Antico nella Cultura Europea

memoria rerum gestarum: tocca, cioè, allo storico il compito


di salvaguardare il deposito prezioso di un passato esemplare,
monumentum che solo può consentire di misurare la distanza
abissale che separa oggi e ieri e, per questa via, indurre alla
speranza che sia ancora possibile riannodare i fili recisi tra le
generazioni. La scrittura storiografica viene perciò individuata
quale sostituto simbolico alle imagines, vettore privilegiato cui
è affidato il compito di trasferire tra avi e nepotes la memoria
culturale collettiva e ricreare il tessuto connettivo necessario
alla sopravvivenza dell’identità comune.
Negli anni convulsi in cui la crisi dei valori su cui si reggo-
no le istituzioni sociali e politiche di Roma determina il crollo
dell’ordinamento repubblicano non è soltanto Sallustio ad av-
vertire l’esigenza di individuare nuovi strumenti mediante cui
la conservazione della memoria consenta la realizzazione di un
nuovo patto generazionale, capace di garantire la trasmissione
alla generazioni successive del patrimonio di pratiche e di cre-
denze che hanno reso grande la res publica: è questo, infatti, il
tema oggetto centrale di riflessione nell’ultimo Cicerone7.
Si deve all’acuta lettura del Brutus, recentemente proposta
da R.R. Marchese8, l’osservazione che in quel dialogo è opera-
to un primo deciso intervento volto alla definizione di solidi
quadri di memoria, legati alle prerogative dell’eloquenza quale
modello principe di intervento nella realtà; ed è in Bruto che
l’Arpinate riconosce l’erede designato, colui che potrà racco-
gliere il testimone e trasmetterlo alla nuova classe dirigente
che dovrà sanare i guasti del recente passato. Non vi è certo
bisogno di ricordare che, a soli due anni di distanza dalla com-
posizione dell’opera, il ruolo svolto da Bruto nell’assassinio di
Cesare tolse ogni attendibilità a quell’ipotesi. Tra il settembre e
il novembre del 44 a.C., in un arco di tempo brevissimo, Cicero-
ne avviò e portò a compimento la stesura del de officiis, l’ultimo
suo trattato, in cui si intrecciano le tematiche che sembrano
stargli quasi ossessivamente a cuore in questa fase estrema
della sua vita: l’eredità costituita dalla riflessione sulle forme
che devono regolare le relazioni e l’interazione tra i cives, con-

7
Sulla relazione che è possibile istituire tra le monografie sallustiane
e l’ultimo Cicerone cfr. Gabba 1979.
8
Marchese 2011.
Giusto Picone 61

segnata al figlio Marco, l’erede prescelto, con un’evidente in-


tenzione simbolica; la rifondazione della res publica, ridotta in
cenere dal conflitto civile, per la quale i figli potranno contare
sul lascito dei padri. Riveste grande interesse, in quest’ottica,
il confronto che nella sezione proemiale del terzo libro viene
istituito tra l’otium di Scipione maggiore e quello dello stesso
Cicerone:

Sed nec hoc otium cum Africani otio nec haec


solitudo cum illa comparanda est. Ille enim requie�
scens a rei publicae pulcherrimis muneribus otium
sibi sumebat aliquando et coetu hominum frequen�
tiaque interdum tamquam in portum se in solitudi�
nem recipiebat, nostrum autem otium negotii ino�
pia, non requiescendi studio constitutum est. Extin�
cto enim senatu deletisque iudiciis quid est, quod
dignum nobis aut in curia aut in foro agere possi�
mus? Ita qui in maxima celebritate atque in oculis
civium quondam vixerimus, nunc fugientes con�
spectum sceleratorum, quibus omnia redundant,
abdimus nos quantum licet et saepe soli sumus.
Sed quia sic ab hominibus doctis accepimus, non
solum ex malis eligere minima oportere, sed etiam
excerpere ex his ipsis, si quid inesset boni, propte�
rea et otio fruor, non illo quidem, quo debeat is, qui
quondam peperisset otium civitati, nec eam solitu�
dinem languere patior, quam mihi adfert necessi�
tas, non voluntas. Quamquam Africanus maiorem
laudem meo iudicio assequebatur. Nulla enim eius
ingenii monumenta mandata litteris, nullum opus
otii, nullum solitudinis munus extat; ex quo intelle�
gi debet illum mentis agitatione investigationeque
earum rerum, quas cogitando consequebatur, nec
otiosum nec solum umquam fuisse; nos autem, qui
non tantum roboris habemus, ut cogitatione tacita
a solitudine abstrahamur, ad hanc scribendi ope�
ram omne studium curamque convertimus. Itaque
plura brevi tempore eversa quam multis annis
stante re publica scripsimus. (off. 3, 1, 2-4)
62
Aspetti della Fortuna dell’Antico nella Cultura Europea

È la scrittura, e specificamente la scrittura filosofica, a dover


assolvere il compito di gestire il cambiamento. Scipione aveva
potuto impiegare il tempo libero dalla politica per ripensare il
negotium, poiché esso non aveva bisogno di alcuna altra forma
di espressione e di intervento nella realtà che non fosse il ne�
gotium medesimo; l’otium di Cicerone si propone come neces-
sario surrogato di quel modello amato e vagheggiato, ma reso
ormai impraticabile dal venir meno dei caposaldi istituzionali
e delle dinamiche proprie della vita attiva (extincto enim sena�
tu deletisque iudiciis quid est, quod dignum nobis aut in curia
aut in foro agere possimus? 3,1,2). L’esigenza di ricordare, di
comparare ieri e oggi si traduce perciò nell’individuazione del-
la distanza e della discontinuità tra passato e presente, ma non
si esaurisce qui nella definizione di modelli di memoria con-
trappresentistici: assumendo come dato di fatto il crollo delle
istituzioni della vita pubblica e le trasformazioni dei compor-
tamenti, il de officiis si configura, infatti, come il luogo prescelto
per l’elaborazione del cambiamento. La discussione sui tratti
caratterizzanti l’identità comune e la meditazione sulla iustitia
e sulla circolazione di beneficia sono alla base del tentativo di
riconfigurazione dei mores e di riqualificazione dello scambio
di prestazioni e di controprestazioni tra i cittadini che viene
consegnato ai giovani, cui spetta la ricostruzione dello Stato. È
questo l’ultimo e più grande munus di Cicerone, al tempo stes-
so prezioso monumentum e corpus di praecepta, la cui efficacia
è però interamente affidata all’intelligenza e alla disponibilità
dell’accipiens9:

Habes a patre munus, Marce fili, mea quidem


sententia magnum, sed perinde erit, ut acceperis.
Quamquam hi tibi tres libri inter Cratippi commen�
tarios tamquam hospites erunt recipiendi, sed, ut,
si ipse venissem Athenas, quod quidem esset fac�
tum, nisi me e medio cursu clara voce patria revo�
casset, aliquando me quoque audires, sic, quoniam
his voluminibus ad te profecta vox est mea, tribues
iis temporis, quantum poteris, poteris autem quan�
tum voles. �����������������������������������������
Cum vero intellexero te hoc scientiae ge�

9
Per questa interpretazione del trattato cfr. Picone 2012.
Giusto Picone 63

nere gaudere, tum et praesens tecum propediem,


ut spero, et dum aberis, absens loquar. Vale igitur,
mi Cicero, tibique persuade esse te quidem mihi ca�
rissimum, sed multo fore cariorem, si talibus mo�
numentis praeceptisque laetabere. (3, 33, 121)

3. L’esilio, il dio, la pia gens

Il moto sconvolgente del cambiamento, in atto negli ultimi


anni della repubblica, si sostanzia in sanguinose guerre civili
che esigono risposte immediate: bisogna scegliere qui e ora tra
le avverse parti in campo; per chi si è collocato sul versante
che si è rivelato quello degli sconfitti, occorre poi cercare di
evitare irrimediabili conseguenze a un’opzione manifestatasi
drammaticamente errata.
È questa, in tutta evidenza, la condizione dei boni viri pom-
peiani dopo la disfatta di Farsàlo. Nell’autunno del 46 a.C. Ci-
cerone, ponendo fine al diuturnum silentium impostogli dal
conflitto e riprendendo la parola in Senato per render grazie
a Cesare che aveva concesso il ritorno a Roma a Marco Claudio
Marcello, suo irriducibile oppositore ed esule volontario a Mi-
tilene, aveva asserito che i vinti si erano schierati dalla parte
sbagliata non perché autori consapevoli di uno scelus gravissi-
mo, risoltosi in una contrapposizione fratricida, ma in quanto
vittime di un tragico errore cognitivo, determinato da un fatum
inesplicabile e crudele: proprio per questa ragione era giusto
che Cesare perseverasse in conservandis viris bonis, non cupi�
ditate praesertim aliqua aut pravitate lapsis, sed opinione offici
stulta fortasse, certe non improba, et specie quadam rei publicae
(20), elargendo il perdono ai rivali che avevano pagato con l’e�
xilium la loro colpa, frutto di error humanus, non di cupiditas o
di crudelitas.
In questo modo nella pro Marcello la clementia Caesaris fi-
niva con l’essere rappresentata come un atto poco men che do-
vuto, in cui certo trovava fulgida espressione la natura quasi di-
vina del vincitore (haec qui faciat, non ego eum cum summis vi�
ris comparo, sed simillimum deo iudico, 8) ma che, al contempo,
riconosceva compiutamente ai vinti il diritto, tanto sul piano
etico quanto su quello politico, di riprendere nella res publica
64
Aspetti della Fortuna dell’Antico nella Cultura Europea

il posto che avevano occupato in passato. Alla realtà effettuale


le astuzie della parola, di cui l’Arpinate si dimostrava una volta
di più maestro indiscusso, sostituivano una realtà virtuale, ric-
ca però di implicazioni politico-istituzionali determinanti per
tutte le parti in causa. Difatti, per i pompeiani sconfitti veniva
ipotizzata e motivata la riammissione nell’agone politico, su-
bordinandola all’accettazione di un’irreversibile connotazione
moderata; Cesare era indissolubilmente legato a una saggia
politica di clementia nei confronti degli avversari che avevano
deposto le armi e di ricomposizione della compagine statale,
ridotta in frantumi dal disastroso scontro del bellum civile; so-
prattutto, Cicerone assegnava a sé medesimo il ruolo di indi-
spensabile trait d’union tra gli antichi nemici, ponendosi quale
garante del foedus che avrebbe dovuto assicurare la coesione
sociale della nuova Roma. L’elogio del princeps si faceva stru-
mento di un’ardita operazione politica che, tuttavia, ben presto
si sarebbe manifestata velleitaria e irrealizzabile, come testi-
monia il disincanto che serpeggia già nelle due orazioni cesa-
riane successive alla pro Marcello, la pro Ligario e la pro rege
Deiotaro10.
Error, ignoratio, exilium. È facendo ricorso a questi materia-
li tematici e ideologici che Virgilio, nell’ecloga che apre la sua
raccolta poetica, formula in chiave bucolica, in anni assai vici-
ni all’orazione ciceroniana, il paradigma dell’esule, colpevole
solo di incomprensione dell’opzione che l’avrebbe consegnato
alla felicità assicurata dal giovane deus che ha sede nell’urbs
così diversa da ogni altra città nota ai pastori. Posto dinanzi
alla stupefacente constatazione dell’otium miracoloso in cui
si trova l’amico pastore-poeta Titiro e dell’universale, caotica
sovversione nella quale si colloca la sua tragedia individuale,
lo sventurato Melibeo comprende infine che il destino di morte
cui, assieme al suo gregge, è condannato, è diretta conseguenza
del fatto di non essere entrato ‘in relazione’, come pure avrebbe
potuto e dovuto, con la benefica divinità che non ha mancato

10
Per un’efficace illustrazione del contesto in cui maturarono i tre
discorsi cfr. Gasti 1997. Su natura e finalità della pro Marcello e sull’abile
falsificazione del ritratto dell’intransigente Marcello, raffigurato come il
doppio di Cicerone e il prototipo del pompeiano moderato, cfr. Picone
2008.
Giusto Picone 65

di inviargli segnali manifesti della sventura incombente: saepe


malum hoc nobis, si mens non laeva fuisset,/de caelo tactas me�
mini praedicere quercus (ecl. 1, 15-16). È stata dunque la mens
laeva del destinatario del messaggio divino (la folgore che col-
pisce le querce) a determinare, a livello di relazione, il malinte-
so, ovvero l’incapacità di recepire la comunicazione che gli era
stata ripetutamente indirizzata (saepe,15), con la conseguente
disconferma dell’emittente come soggetto parlante.
L’affermazione dell’infelice esule, destinato a un percorso
che lo condurrà inesorabilmente al di fuori dei confini del suo
mondo umano e poetico, verso la distruzione e l’annullamento,
introduce un decisivo elemento di distinzione tra lui e il suo
interlocutore: tanto attento, quest’ultimo, al culto del suo deus
quanto stoltamente indifferente, il primo, ai segni premonito-
ri giuntigli dal cielo. In altri termini, Melibeo confessa il suo
error, la ‘colpa’ che non gli ha fatto capire a quale funesto esi-
to la sua stessa inazione l’avrebbe consegnato. In quest’ottica
relazionale e pragmatica, il diverso destino dei due protago-
nisti del canto amebeo viene ricondotto alla diversa capacità
di comprensione e di azione di cui essi hanno dato prova. E,
difatti, da parte di Titiro la ricerca della comunicazione non si
è arrestata neppure dinanzi alla prospettiva della temporanea
dilacerazione del suo mondo bucolico, conseguente al viaggio
alla volta di Roma e alla ricerca del giovane deus: così il respon�
sum, collocato non casualmente al centro del carme (v. 45), è
stato inseguito, trovato e correttamente decodificato, mentre
il superamento della primitiva condizione di danneggiamen-
to (l’assenza della Libertas, v. 27) assume le caratteristiche di
una prova iniziatica attraverso cui l’eroe è potuto pervenire
all’ambìto esito dell’epifania divina11.
Se l’ecloga virgiliana e la pro Marcello ciceroniana manife-
stano pari comprensione per chi non è stato capace di intende-
re quale fosse la via da intraprendere e se tutti e due i testi, tan-
to differenti per genere letterario e per destinazione, pongono
allo stesso modo l’accento sulla natura divina di chi - Cesare

11
Ho proposto questa chiave di lettura del componimento in Picone
1989. Per un commento esaustivo dell’ecloga, con puntuale riferimento
alle differenti posizioni espresse dalla letteratura secondaria cfr.
Cucchiarelli 2012, 133-170.
66
Aspetti della Fortuna dell’Antico nella Cultura Europea

prima, Ottaviano poi - si rende autore di un beneficium di stra-


ordinaria rilevanza, tale da assicurare ai donatari il miracolo di
un domani uguale per loro allo ieri, occorre però osservare che
il componimento poetico presenta un aspetto del tutto nuovo
e di grande importanza per la definizione della natura condi-
zionante dell’elogio e della sua subordinazione al permanere
del donum dispensato. Titiro, infatti, collega esplicitamente
l’impossibilità che il volto del giovane deus si cancelli dal suo
cuore al mantenimento dell’ordine cosmico di cui questi è ga-
rante e che per il pastore coincide con la certezza che il suo
spazio e il suo tempo non conosceranno mutamento alcuno:
ante leves ergo pascentur in aethere cervi, et freta destituent nu�
dos in litore piscis,/ante pererratis amborum finibus exsul/ aut
Ararim Parthus bibet, aut Germania Tigrim,/quam nostro illius
labatur pectore voltus (vv. 59-63). Letti nell’ottica relazionale
della reciprocità, questi versi manifestano in tutta evidenza il
potere di condizionamento che appartiene comunque al be-
neficato, ovvero all’attore debole dell’asimmetrica relazione
donante. Non bisogna dimenticare che nel carme virgiliano il
destinatario del dono divino ha conquistato la propria felicità
presente e futura attraverso la sofferta opzione ‘politica’ che ha
comportato la momentanea rinuncia al suo paradiso bucolico;
non ci troviamo perciò di fronte all’erogazione gratuita di un
beneficium ma alla meritata ricompensa che compete a chi ha
praticato la temporanea, dolorosa scelta del negotium, rappre-
sentato mediante l’immagine del viaggio iniziatico alla volta
della urbs, a discapito della illusoria permanenza nella sfera
incantata dell’amore e della poesia pastorale. Ciò spiega per-
ché Titiro, figura e simbolo dell’intellettuale consapevole delle
inesorabili urgenze della Storia, non abbia bisogno di delegare
ad altri il compito di dicere laudes del suo divino benefattore e
perché possa esprimere nei suoi confronti un elogio consape-
volmente condizionante.
Figura antitetica rispetto a Titiro per la sua sorte e per l’in-
capacità di comprendere, che coerentemente lo connota in
tutto il componimento e che ne fa l’uomo dello stupore nella
triplice dimensione temporale del presente (miror, v. 11), del
passato (mirabar, v. 36) e del futuro (mirabor, v. 69), Melibeo
condivide tuttavia con il vecchio fortunato un tratto distintivo
decisivo che lo rende a quello fratello: anch’egli è un pastore-
Giusto Picone 67

poeta, seppure per lui la gioia del canto sia ormai negata per
sempre (vv. 75-78). Si svela in questo modo uno dei nuclei ge-
netici dell’ecloga e, io credo, di tanta parte dell’opera poetica di
Virgilio, ovvero il tema del problematico rapporto tra intellet-
tuali e potere nella fase cruciale dello sconvolgimento provoca-
to dalle guerre civili. Al di fuori d’ogni prospettiva consolatoria,
l’esilio di morte cui è condannato Melibeo assolve la funzione
di denunciare con sconsolata durezza il rischio mortale che si
accompagna all’illusorio convincimento, così tipicamente ‘in-
tellettuale’, di potersi sottrarre alla necessità di fare i conti con
la politica e con la Storia.
Per Virgilio l’esperienza dell’exilium può essere pertanto
strumento di sofferta conquista della libertà politica e interio-
re, se vissuta nella consapevolezza della necessità dell’opzio-
ne compiuta, o condanna senza appello per chi nulla ha fatto
per evitare la catastrofe incombente; il tema del cambiamento
in atto si connette perciò indissolubilmente con la metafora
dell’esilio e con la duplice valenza che esso può assumere.
Mutamento e fuga sono anche al centro di un celebre com-
ponimento giovanile di Orazio, l’epodo 16, di cui la letteratura
critica ha frequentemente evidenziato la relazione oppositiva
con l’ecloga quarta12, ma che, a mio parere, costituisce un vero
e proprio controcanto all’ecloga prima. Anche questo carme
prende le mosse dalla constatazione degli esiti rovinosi del-
le guerre civili, che una nuova generazione torna a proporre,
determinando il suicidio della città e il collasso di Roma su sé
medesima. Cosa può fare la melior pars della comunità a fronte
del disastro indotto dalla impia devoti sanguinis aetas? La so-
luzione, l’unica possibile piae genti (v. 63), è la fuga al di fuori
dello spazio e del tempo, nella dimensione utopica degli arva
beata e delle divites insulae, ove vige una perenne, miracolosa
età dell’oro che non conosce successione delle stagioni, malat-
tie e morte (vv. 1-22; 39-42):

Altera iam teritur bellis civilibus aetas,


suis et ipsa Roma viribus ruit.

12
Una puntuale messa a punto sulla questione del rapporto tra epodo
16 ed ecloga 4, in riferimento anche alla vastissima messe di contributi in
merito, è in Cavarzere 1992, 217-233.
68
Aspetti della Fortuna dell’Antico nella Cultura Europea

quam neque finitimi valuerunt perdere Marsi


minacis aut Etrusca Porsenae manus,
aemula nec virtus Capuae nec Spartacus acer
novisque rebus infidelis Allobrox
nec fera caerulea domuit Germania pube
parentibusque abominatus Hannibal:
impia perdemus devoti sanguinis aetas
ferisque rursus occupabitur solum:
barbarus heu cineres insistet victor et Vrbem
eques sonante verberabit ungula,
quaeque carent ventis et solibus ossa Quirini,
(nefas videre) dissipabit insolens.
forte quid expediat communiter aut melior pars,
malis carere quaeritis laboribus;
nulla sit hac potior sententia: Phocaeorum
velut profugit exsecrata civitas
agros atque lares patrios habitandaque fana
apris reliquit et rapacibus lupis,
ire, pedes quocumque ferent, quocumque per undas
Notus vocabit aut protervos Africus.
[…]
vos, quibus est virtus, muliebrem tollite luctum,
Etrusca praeter et volate litora.
nos manet Oceanus circum vagus: arva beata
petamus, arva divites et insulas

Per Orazio nessuna illusione, dunque, in una salvezza che


giunga dall’interno di quella urbs che, sin dalla sua origine, reca
in sé la maledizione del cruor di Remo che ne ha contaminato
le mura nel momento della fondazione e che impone la itera-
zione del fratricidio archetipico, sempre destinato a ripetersi
di generazione in generazione con il crimine delle guerre civili
(sic est: acerba fata Romanos agunt/scelusque fraternae necis,/
ut inmerentis fluxit in terram Remi/sacer nepotibus cruor, epod.
7, 17-20). E nessuna speranza nell’intervento salvifico di un
giovane deus, cui gli intellettuali dovrebbero assicurare il loro
consenso compiendo una precisa scelta politica e una opzio-
ne, seppur momentanea, per il negotium a discapito dell’otium
litteratum. Al contrario, la salvezza va ricercata al di là di ogni
confine conosciuto, nella dimensione radicale della lontanan-
Giusto Picone 69

za e dell’alterità che, sul piano simbolico, coincide con la sfera


dell’interiorità: assoluto ‘fuori’ e assoluto ‘dentro’ sono sem-
plicemente l’uno il significante dell’altro e spetta alla persona
loquens del vates additare la direzione verso cui incamminarsi
per lasciare alle spalle, una volta per tutte, i mali labores che
travagliano la civitas. Problema e soluzione finiscono così per
identificarsi paradossalmente nella fine di Roma; il conflitto
tra i cittadini ha distrutto i vincoli di sangue e ridotto i Romani
alla condizione di impii, sicché per quanti vogliono cancella-
re lo stigma dell’esser figli di Remo e porre come elemento di
aggregazione comunitaria la pietas si «impone la rinuncia al
proprio passato, alla propria memoria culturale, alla propria
storia»13, intraprendendo un viaggio che è e deve essere sen-
za ritorno. Occorre raccogliere la sfida del cambiamento, se si
vuole che la comunità romana abbia una meta alternativa ri-
spetto alla desolazione senza speranza prodotta dal nefas dei
bella civilia, ma per giungere a tanto è necessario recidere le
radici putrescenti e rifondare un sistema di valori condivisi: è
un fine che può conseguire soltanto il gruppo dei pii che, tanto
consapevolmente quanto virilmente, accetta di porsi al di fuori
della politica e della Storia, in uno spazio liminare e utopico
ove, sotto la guida del poeta-vate, potrà costruire un nuovo
modello identitario capace di garantirne la sopravvivenza e il
futuro.

4. In nemora et lucos. La Fondazione dei poeti

«Il Dialogus de oratoribus può essere definito una ‘tavola


rotonda’ sui problemi connessi con l’arte oratoria quali pote-
vano prospettarsi a Roma negli anni Settanta del I secolo dopo
Cristo: il rapporto tra ‘impegno’, civile e politico (oratoria), e
‘disimpegno’ (poesia), la situazione dell’eloquenza latina in
quegli anni, l’analisi delle ragioni della ‘decadenza’ – non da
tutti ammessa – rispetto agli splendori dell’ultima età repub-
blicana. Sullo sfondo, il problema del cambiamento avvenuto

13
Marchese 2010, 61; si deve a questa studiosa la proposta esegetica
dell’epodo 16 sopra illustrata (particolarmente nel cap. 2, Politica, storia
e cambiamento. Gli Epodi civili, 45-64).
70
Aspetti della Fortuna dell’Antico nella Cultura Europea

nel mondo romano a partire dagli anni di Augusto»14.


In verità, più che sullo sfondo il problema del cambiamento
è posto assolutamente al centro del dialogo, cui prendono par-
te quattro interlocutori (Curiazio Materno, Marco Apro, Giulio
Secondo, Vipstano Messalla), tutti probabilmente già morti
quando il testo fu scritto, quasi certamente nel primo decennio
del II secolo d.C. La cornice dell’opera, infatti, affronta in termi-
ni diretti la frattura tra i priora saecula, in cui talenti e gloria di
oratori eminenti hanno trovato piena realizzazione e la aetas
che condividono l’autore del dialogus, Tacito con ogni probabi-
lità15, e il dedicatario Fabio Giusto, consul suffectus nel 102 d.C.:

Saepe ex me requiris, Iuste Fabi, cur, cum priora


saecula tot eminentium oratorum ingeniis gloria�
que floruerint, nostra potissimum aetas deserta et
laude eloquentiae orbata vix nomen ipsum orato�
ris retineat; neque enim ita appellamus nisi anti�
quos, horum autem temporum diserti causidici et
advocati patroni et quidvis potius quam oratores
vocantur. (1, 1)

Che la frattura tra passato e presente si sia effettivamen-


te compiuta non v’è dubbio: resta da capire perché ciò si sia
verificato, e il cur è appunto l’oggetto della richiesta che Fa-
bio Giusto rivolge a Tacito. Questi ritiene la questione di tale
pondus che non sarebbe adeguata una risposta personale, ne-
cessariamente parziale e condizionata dalla valutazione di in�

Lenaz 1993, 5.
14

La paternità tacitiana è solo una delle molteplici questioni tuttora


15

aperte, nonostante l’immensa mole di studi e di interventi critici in


merito: mi limito qui a ricordare i problemi della cronologia, dello stile,
dell’estensione della lacuna tra i capp. 35 e 36, della possibile esistenza
di una seconda lacuna, del ruolo del personaggio di Secondo, della reale
posizione dell’autore in merito al quesito sulle ragioni della decadenza
dell’eloquenza e dell’eventuale condivisione del punto di vista espresso da
Materno. Per un’ampia panoramica di tali questioni cfr. l’Introduzione di
H. Heubner al commento di Güngerich 1980; una sintesi necessariamente
concisa, ma efficace, è nel già citato Lenaz 1993, 5-29. Utili riferimenti
al contesto storico in Desideri 1985; sempre fondamentale, per questo
aspetto e per la collocazione dell’opera nella produzione di Tacito, Syme
1958.
Giusto Picone 71

genia e di iudicia dei suoi contemporanei. La scelta di Tacito è


quindi quella di affrontare la questione attraverso il ricordo e
il resoconto di una discussione cui ha assistito, svoltasi tra in-
terlocutori a suo dire autorevoli, sermo che ha anche il merito
di sottoporre alla riflessione posizioni tra loro diverse e tutte
a modo loro convincenti (1, 2-3): si tratta di una modalità che
nell’organizzazione dei contenuti e nella forma dell’espressio-
ne intende far evidente riferimento ai dialoghi di Cicerone in
cui sono rievocati discorsi svolti nel passato (de re publica 1,
13; de amicitia 3; de natura deorum 3, 10) e, in modo affatto
particolare per l’ovvia analogia tematica, a de oratore 1, 4.
In effetti, e questa è la prima sorpresa per il lettore, la di-
scussione relativa allo scarto tra passato e presente della pra-
tica oratoria verrà affrontata soltanto a partire dal cap. 14, con
l’arrivo di Messalla, che si assume il compito di individuare le
cause della decadenza dell’eloquenza. Prima di allora, Apro e
Secondo si recano nel cubiculum di Materno, in cui si svolge
l’intero dialogo, per esortare l’amico a operare una revisione
del Cato, la fabula praetexta di cui egli aveva dato pubblica let-
tura il giorno prima, e che molte chiacchiere malevole aveva
suscitato. Trovano un Materno più motivato che mai a prose-
guire la sua attività di poeta e Apro lo rimprovera di consuma-
re ormai tutto il suo tempo in questo modo, omissis orationum
et causarum studiis (3, 4). Ha inizio così un processo, il cui im-
putato è la poesia e chi intende occuparsi dei carmina in modo
esclusivo (Materno), e che ha come accusatore Apro e come
giudice Secondo. Lo sviluppo del sermo intorno ai due temi (se
sia preferibile essere poeti o essere oratori; se effettivamente
l’oratoria degli antichi sia superiore a quella contemporanea)
lascia chiaramente emergere il punto di rottura tra presente
e passato: come è mutato il modello di azione e di intervento
nella realtà per chi vive e opera nella Roma imperiale?
Questo è il punto nodale ed è in relazione a esso che cia-
scuno degli interlocutori del dialogus recita una parte fissa. Le
indicazioni di Tacito, nella cornice, sono d’altronde chiare: nel
corso della discussione vengono passate in rassegna le posizio-
ni più diverse, ma tutte probabiles (1, 3). Rispetto al tema della
decadenza dell’eloquenza, con la sola eccezione di Apro, tutti i
personaggi hanno in comune la consapevolezza di una caduta
rispetto a un passato migliore, più autorevole, più credibile. Le
72
Aspetti della Fortuna dell’Antico nella Cultura Europea

personae sono ritagliate addosso ai protagonisti del sermo con


grande rispetto della loro realtà storica, senza vistose forzatu-
re: questa scelta li mantiene tutti egualmente complementari
rispetto al novero delle idee che l’autore intende gettare sul
tappeto e discutere.
Gli interlocutori del dialogus condividono dunque un oriz-
zonte nel quale tutti avvertono, come la vera marca identitaria
del presente, la profonda differenza rispetto al passato. Il dato
del cambiamento non è negato da nessuno, ma è interpretato
da ciascuno in termini davvero peculiari: in Materno è matura-
ta l’amara consapevolezza di una crisi morale, sociale e politica
che impedisce ormai di essere oratori e, al contempo, boni viri,
capaci di coniugare nell’eloquentia oratoria e nella prassi poli-
tica utile e honestum; per Apro la professione oratoria garanti-
sce successo e potere più che in passato; per Messalla la pratica
oratoria contemporanea non conserva neppure un pallido ri-
cordo della grandezza di un tempo. Perciò, mentre per Apro il
cambiamento ha un vettore assai positivo, secondo Materno e
Messalla esso è, per ragioni diverse, crisi di un modello antico
di intervento nella realtà. La ristrutturazione del cambiamento
ha luogo, nel corso del dialogus, secondo tre prospettive che
corrono parallele e che, come tali, non si incontrano mai; esse
generano altrettante strategie d’intervento, non solo profonda-
mente diverse ma radicalmente alternative l’una dall’altra.
Materno ha scelto la risposta paradossale alla crisi da cui si
sente attraversato, come uomo impegnato nella res publica gui-
data dal princeps e come oratore; in effetti, è proprio quest’op-
zione paradossale, incomprensibile agli occhi di Secondo e
Apro, che occupa la sezione iniziale del testo. Egli rinuncia al
ruolo dell’oratore e del patronus perché ne ha scoperto e spe-
rimentato il volto crudele e assassino, votato esclusivamente
all’utile personale; in questa funzione, sente di non realizzare
più gli obiettivi per cui è stato educato e in cui crede ancora, la
fama, il nomen, la notitia, la gloria; e d’altronde, come dichiara
in dial. 11, 2, non gli basta certo in causis agendis efficere ali�
quid, perché il successo nelle fatiche del foro distrugge l’inno�
centia, che considera la più importante forma di tutela perso-
nale e altrui. Materno compie così la scelta di sottrarsi a questo
ruolo, che comporta l’adesione eticamente spregevole all’usus
recens di un’eloquenza che mira al lucro e gronda di sangue
Giusto Picone 73

(12, 2), senza tuttavia rinunciare all’impegno in direzione del


bene comune; trova quindi la realizzazione di sé e di questo
importante obiettivo nel negotium poetico, proprio quello che i
suoi due amici considerano inspiegabile e pericoloso. I nemora
et luci, che egli dichiara di preferire alla città (12, 1), assumono
dunque i connotati del locus amoenus rispetto ai loci horridi,
marcati dal sangue e dalla corruzione, che gli oratori devono
frequentare per svolgere le proprie funzioni. Al modello di in-
tervento e di azione nella realtà che l’oratoria ha offerto per
secoli al cittadino desideroso di promuovere, con se stesso e i
propri mores, la vita comune, Materno sostituisce l’utopia del
secretum poetico, capace di coniugare innocentia e intervento,
efficace nel garantire, a chi pratica una simile opzione, eman-
cipazione dai ricatti cui l’insanum et lubricum forum costringe
chi ne fa parte.
Per contro, Apro non ha dubbi nel ritenere che ogni scelta e
ogni azione debba essere finalizzata ad utilitatem vitae. In que-
sta prospettiva, che esclude interamente dal proprio orizzonte
di attese la dimensione dell’honestum, valori da realizzare sono
voluptas, securitas, potentia, perpetua potestas che l’oratoria
esercitata come una professione può pienamente garantire. Le
condizioni stesse in cui gli oratori contemporanei sono chia-
mati a operare li rende gli unici soggetti pienamente padroni
di sé e autonomi persino rispetto al potere dell’imperatore; la
facultas dicendi, dispensata come un vero e proprio beneficium,
li pone infatti al di sopra di tutte le categorie sociali, in grado
di godere i frutti della ricchezza, della fama, della laus e per-
sino della reverentia principis (8, 3). In questo presente Apro
ritiene che ci si possa realizzare senza ricorrere alle imagines
genealogiche, al patrimonio di famiglia o alla gratia di qualche
potente. Al contrario, grazie all’ingenium si diventa autori del
beneficium eloquentiae che eroga sicurezza e successo a chi lo
dà e a chi lo riceve: perché mai si dovrebbe rimpiangere l’ora-
toria del passato, ora che essa ha goduto del perfezionamento
formale necessario a renderla un’arma adeguata al presente,
capace di probare fidem ed excusare libertatem (10, 8)? Gli
oratori, che egli, con espressione ossimorica per il lessico mo-
rale ciceroniano, ritiene esser nati ad voluptates honestas (6,
2), sono i veri padroni delle prerogative civili e politiche dei
sudditi del princeps, i depositari privilegiati di competenze che
74
Aspetti della Fortuna dell’Antico nella Cultura Europea

consentono di esercitare il dominio in una società ormai divisa


in dominatori e dominati. Di questo presente, dunque, occorre
godere tutti i vantaggi possibili.
Il terzo interlocutore, Messalla, ha la pars più articolata e
strutturata all’interno del dialogus: gli altri personaggi cono-
scono bene, di lui, la consapevolezza riflessa e approfondita
della frattura che viene registrata tra eloquenza degli antichi e
oratoria contemporanea, tanto che Apro con lo slancio aggres-
sivo che lo contraddistingue gli ruba letteralmente la scena,
parlando prima di lui, in una difesa preventiva degli oratori di
cui si sente parte. Messalla ha già indagato e meditato a lungo
sulle cause della frattura fra presente e passato, e le ha indivi-
duate nella desidia iuventutis, nella neglegentia parentum et in�
scientia praecipientium et oblivione moris antiqui (28, 2). La de-
cadenza dipende, a suo avviso, dalla negazione cui tutti i suoi
contemporanei hanno sottoposto i modelli educativi, culturali
e morali del passato. I suoi contemporanei sono letteralmente
caduti da una condizione di perfezione originaria; a differen-
za di Materno, che elabora l’utopia fondata sul recupero delle
prerogative degli uomini che hanno vissuto l’aureum saeculum,
Messalla si sente prigioniero di un presente che subisce, di cui
in fin dei conti accetta le regole, ma che non riesce in alcun
modo a modificare. È in grado solo di denunciarne il degrado
attraverso una strategia che usa la memoria del passato in fun-
zione contrappresentistica: non siamo più quelli di una volta,
il ricordo di pochi serve a segnare l’incolmabile distanza da un
grande e glorioso passato, senza però riuscire a proporsi come
lievito per il futuro.
Se il dialogus viene letto seguendo il filo rosso che Tacito
disegna per marcare la realtà del cambiamento come tratto
identitario della società imperiale in cui vive, è facile capire che
per intenderne l’operazione senza fraintenderne lo spirito non
basta la pur benemerita individuazione e interpretazione dei
modelli letterari, certo prevalentemente ciceroniani, che costi-
tuiscono gli ipotesti dell’opera. Occorre mettere in luce come
la domanda posta nella cornice, sul perché (il cur?) l’oratoria
fiorente del passato sia sfigurata nel presente, rappresenti un
interrogativo radicale su chi siano diventati i Romani, su quali
mores essi possano contare per realizzare se stessi, se esista
ancora una proposta di azione che appaia eticamente pratica-
Giusto Picone 75

bile, se abbia ancora senso coniugare utile e honestum, se val-


gano ancora le modalità di confronto intergenerazionale che
hanno consentito ai mores flessibilità e durabilità nel tempo,
anche nel tempo delle più grandi trasformazioni. Rispetto al
futuro, i personaggi del dialogus non sembrano saper attivare
alcuna riflessione che giunga a esiti comuni. A salvarli e a salva-
re le loro prerogative, nel presente e nell’immediato futuro, è la
scelta di vita che ciascuno di loro attua, rinunciando comunque
a una parte importante dell’identità tradizionale, e dunque la-
sciandosi attraversare dal cambiamento: Materno all’esercizio
dell’eloquenza oratoria in favore di una eloquenza poetica di
denuncia, Apro alla realizzazione dell’honestum in favore di
una prospettiva di potere giocata sul versante dell’utile, Mes-
salla al dialogo costruttivo con la realtà circostante in favore di
una prospettiva storica che registra impietosamente la caduta
da una passata grandezza. Tacito lascia che queste prospettive
rispondano tutte insieme al cur di Fabio Giusto, senza cercare
una conciliazione da offrire, già formulata, al lettore, e sfuggen-
do sistematicamente ad ogni tentativo di rintracciare la posi-
zione autoriale dietro l’una o l’altra delle partes dei personaggi.
Resta tuttavia apparentemente irrisolta un’aporia che buo-
na parte della letteratura secondaria non ha mancato di porre
in evidenza. Come spiegare la posizione assunta da Curiazio
Materno nell’intervento con il quale conclude il dibattito indi-
viduando le ragioni della grandezza dell’oratoria repubblicana
nella licentia di cui essa era alumna e nelle seditiones che tra-
vagliavano la civitas (40, 2), sicché la decadenza dell’eloquen-
za contemporanea deve essere attribuita alla magna quies
del saeculum presente (41, 5), cum de re publica non imperiti
et multi deliberent, sed sapientissimus et unus (41,4)? Sembra
qui, senza alcun dubbio, esaltata la forma di governo del prin-
cipato, che ha posto fine ai conflitti intestini e, con loro, all’u-
tilità della funzione sociale abitualmente assolta dall’oratore:
supervacuus... inter innocentis orator sicut inter sanos medicus
(41, 3). Eppure chi parla è lo stesso Materno che, il giorno pre-
cedente all’incontro con Apro, Secondo e Messalla, ha recita-
to in pubblico il suo Cato offendendo potentium animos (2, 1)
e che, agli inviti alla prudenza degli amici, volti a indurlo alla
retractatio del suo liber e all’espunzione degli aspetti politica-
mente più compromettenti, risponde ogogliosamente: leges...
76
Aspetti della Fortuna dell’Antico nella Cultura Europea

quid Maternus sibi debuerit, et adgnosces quae audisti. Quod si


qua omisit Cato, sequenti recitatione Thyestes dicet; hanc enim
tragoediam disposui iam et intra me ipse formavi (3, 3). Catone,
dunque, e Tieste, vere e proprie ‘figure di ricordo’, per usare la
terminologia assmanniana16, nomi parlanti che nel lettore evo-
cano immediatamente la polemica antimperiale e antitiranni-
ca. Come si coniuga la scelta radicale della poesia tragica quale
vettore atto alla denuncia di un potere liberticida e oppressivo,
testimonianza estrema resa a rischio della vita per tutelare la
propria dimensione etica e la propria dignitas, con l’elogio del
principato pronunciato a chiusura del dialogo? A me pare con-
vincente la soluzione proposta da G. Williams17, secondo cui
Materno nel suo ultimo intervento allude alla condizione po-
litica del momento storico in cui l’opera venne composta, nei
primi anni dell’impero di Traiano, alla cui sapientia sarebbe
qui implicitamente reso omaggio, mentre in precedenza, ri-
battendo ai suggerimenti preoccupati degli amici e alle argo-
mentazioni di Apro nel suo discorso di accusa contro la poesia,
l’oratore-poeta farebbe riferimento alla situazione della socie-
tà romana in epoca flavia, durante la quale, nel 75 d.C. o, al più
tardi, nel 78 d.C., il dibattito è realmente avvenuto o la finzione
letteraria immagina che si sia svolto.
Ma forse non è tutto qui e qualche altra considerazione è
possibile aggiungere. All’ironica affermazione di Apro, che
compatisce i poeti, costretti ad abbandonare le piacevolezze e
gli officia della vita cittadina, se vogliono comporre qualcosa di
degno (adice quod poetis, si modo dignum aliquid elaborare et
efficere velint, relinquenda conversatio amicorum et iucunditas
urbis, deserenda cetera officia utque ipsi dicunt, in nemora et
lucos18, id est in solitudinem secedendum est, 9, 6), Materno ri-
sponde con ferma determinazione:

16
Assmann 1997, 13.
17
Williams 1978, 33-37.
18
Com’è noto, questa formulazione è uno degli argomenti più forti
a favore della paternità tacitiana del dialogus; fu Lange 1832, 3-14, a
notare che Plinio il Giovane in una lettera a Tacito (epist. 9,10) attribuisce
allo storico la convinzione che i carmina debbano esser composti inter
nemora et lucos.
Giusto Picone 77

Nemora vero et luci et secretum ipsum, quod


Aper increpabat, tantam mihi adferunt volupta�
tem, ut inter praecipuos carminum fructus nu�
merem, quod non in strepitu nec sedente ante
ostium litigatore nec inter sordes ac lacrimas re�
orum componuntur, sed secedit animus in loca
pura atque innocentia fruiturque sedibus sacris.
Haec eloquentiae primordia, haec penetralia; hoc
primum habitu cultuque commoda mortalibus in
illa casta et nullis contacta vitiis pectora influxit:
sic oracula loquebantur. Nam lucrosae huius et
sanguinantis eloquentiae usus recens et ex malis
moribus natus, atque, ut tu dicebas, Aper, in locum
teli repertus. Ceterum felix illud et, ut more nostro
loquar, aureum saeculum, et oratorum et crimi�
num inops, poetis et vatibus abundabat, qui bene
facta canerent, non qui male admissa defenderent.
(12, 1-3)

Il secretum di nemora et luci si qualifica in queste parole


come lo spazio liminare in cui i poeti possono praticare la loro
arte, che ripropone la purezza e l’innocentia dell’eloquentia
delle origini, lungi dalla dimensione contaminata della urbs
ove l’oratoria è divenuta il telum cruentum del quale si servono
delatori quali Eprio Marcello e Vibio Crispo, non a caso citati da
Apro a riprova della utilitas oratoriae eloquentiae (8, 1).
Nemora et luci vs urbs, carmina vs oratoria eloquentia, au�
reum saeculum vs ferrea aetas: spazi antifrastici significano
tempi antagonistici, designati mediante l’evocazione della po-
larità Oro/Ferro, e ospitano contrapposte scelte di vita. Spetta
ai poeti, come insegna la lezione dell’epodo 16, farsi custodi,
nella barbarie del presente, dei valori etici che devono esser
posti a fondamento della civitas, testimoniare, col coraggio del-
la denuncia, al di fuori della politica e della Storia, l’esigenza
di una Storia e di una politica capaci di riedificare un sistema
di valori condivisi. Una sorta di Fondazione dei poeti, dunque?
Forse sì, quasi due millenni prima delle Cronache della Galas�
sia.
78
Aspetti della Fortuna dell’Antico nella Cultura Europea

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