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Domenico Sabatini
Prologo
I Greci dell’età arcaica – 600 a.C. – non avevano paura della morte. Nell’esigua iconografia del tempo,
rappresentata quasi esclusivamente dalla pittura vascolare, Thanatos (la morte) aveva un aspetto
gradevole e giovanile, appena un po’ di barba in più rispetto ad Hypnos, suo fratello gemello, che era il
sonno (Figura 1).
E non poteva avere paura della morte chi nella morte trovava l’immortalità.
Perché questo prologo sull’antica Grecia? Certamente per sfoggio culturale. Ma anche perché, quando si
dice che una volta la morte era un’altra cosa, si pensa sempre agli antichi Greci, agli Egiziani, agli
Assiri e Babilonesi. Invece no. La morte era un’altra cosa cinquant’anni fa. La linea di confine sul
cambiamento dell’idea sociale della morte nelle diverse epoche storiche è collocata da Ariès (2) agli
inizi del ‘900, e da Illich (3), che usa uno schema storiografico simile, nella seconda metà del secolo
scorso.
Morte antica
E com’era una volta la morte? Lo dice Ariès (2), da cui tutti hanno ripreso. Era consapevole, familiare,
pubblica.
Il secondo esempio proviene dalla storia, ed è quello di Madame de Montespan, raccontata da Saint-
Simon. La marchesa di Montespan era la più famosa ed importante Maîtresse-en-titre del re Luigi XIV,
nel tempo in cui le cortigiane erano anche colte ed intelligenti. La marchesa aveva paura della morte, ma
aveva paura soprattutto di morire sola, e di non essere avvertita in tempo. “Dormiva con tutte le cortine
aperte e molte candele in camera sua, e intorno le donne che vegliavano; e voleva trovarle, ogni volta
che si ridestava, intente a chiacchierare, a scherzare, o mangiare, per essere certa che non si
assopissero.”
Le Litaniae Sanctorum, nella terza parte, contengono l’invocazione a Cristo; esse recitano una lunga
lista di libera nos, Domine, che parte da “ogni male, ogni peccato” e arriva a invocare la liberazione dal
terremoto, dalla peste, dalla fame, dalla guerra. Tra tante sciagure possibili c’é anche la subitanea et
improvisa morte.
La morte imprevista e improvvisa era temuta perché non consentiva di pentirsi. Ma c’era anche un
motivo più nobile: si riteneva la preparazione spirituale alla morte un gesto umanamente qualificante. In
altre parole, non si voleva perdere l’esperienza del morire. Oggi vogliamo morire senza dolore e senza
consapevolezza, come scrive Mary Wesley, in una citazione che ho di terza mano (4): “La mia famiglia
ha la propensione – deve essere questione di geni – a morire sul colpo. Sei qui e un minuto dopo non ci
sei più. Eccezionale. Prego di aver ereditato questo gene. Non ho nessuna voglia di tirarla per le
lunghe, di diventare un fardello inchiodato a un letto. Uno shock brusco e fulmineo per i miei cari, ecco
quel che desidero: più piacevole per loro, delizioso per me”.
Una volta si era tutti consapevoli della più semplice delle banalità, cioè che la morte appartiene alla vita,
e che non può essere relegata, come facciamo spudoratamente oggi, sempre fuori di sé, e collocata oltre
la fine di una infinita vecchiaia.
A Subiaco, in provincia di Roma, c’è il Sacro Speco o Monastero di S. Benedetto, sorto a partire dal sec.
XI, che contiene affreschi del XV secolo, tra i quali si scorge un esempio interessante di Trionfo della
morte. La rappresentazione è articolata in scene diverse: alcuni cadaveri giacciono al suolo; sopra di
essi un cavallo montato da uno scheletro vivacissimo – la morte – coi capelli al vento e le pupille nere,
che va contro un giovane per colpirlo con una lunga spada. Dietro al cavallo, dietro alla morte,
perfettamente ignorati, un gruppo di vecchi chiede, con le mani incrociate, di poter morire. Ma la morte
ha deciso che non è il loro momento.
Una volta erano consapevoli di morire, perché lo ricordavano ogni giorno, e non solo dentro i cimiteri,
non solo sulle tombe, come nell’affresco della Trinità del Masaccio a Santa Maria Novella, che nel
sarcofago mostra uno scheletro che dice: “Io fu già quel che voi siete, e quel ch’io son voi anco sarete.”
Il memento mori con tutte le sue espressioni era dappertutto: sui muri, sui quadri, sui tavoli, sulle
scrivanie; lo portavano addosso come scritta, come ninnolo.
Il tema della morte era un genere pittorico, come “Incontro dei tre morti e dei tre vivi”, “Trionfo della
morte”, “Danza macabra”. E in letteratura era diffusissimo come ars moriendi, genere letterario a scopo
didattico-devozionale, destinato a tutti. L’ars moriendi considerava la morte un processo, per il quale
l’uomo ha bisogno di aiuto; era un “apprendistato permanente all’incontro con la morte”. Addirittura,
qualora il moribondo non avesse mostrato consapevolezza della morte, c’era chi veniva commissionato
ad informarlo, non solo per un gesto di carità, moralmente dovuto, ma soprattutto per un dovere sancito
giuridicamente. Il Medioevo lo annoverava tra i compiti deontologici del medico. Le artes moriendi del
XV secolo lo attribuivano come principale dovere morale all’amico “spirituale”, che riceveva
l’eloquente nome di nuncius mortis (5).
“Addomesticare” in francese è “apprivoiser”, un verbo che ogni bambino francese conosce benissimo,
appena ha imparato a leggere o anche prima. “Apprivoiser” è usato e spiegato nel Piccolo principe di
Saint Exupery, che in Francia è come per noi il Pinocchio di Collodi (senza gli stravolgimenti di Walt
Disney). “Qu’est-ce que signifie “apprivoiser? (Che significa addomesticare ?, chiede il
principe). C’est une chose trop oubliée, dit le renard; ça signifie “créer des liens”.( E’ una cosa
dimenticata, risponde la volpe; significa creare legami). Quindi non è sottomettere, conquistare, ma
creare legami. Perché – dice la volpe – si può conoscere bene solo quella persona che addomestichiamo.
Insomma, la morte per gli “antichi” non è solo “un dramma personale, ma coinvolge anche la comunità
che ha la funzione di mantenere la continuità della specie. Questa presenza fa in modo che la morte non
sia lasciata a se stessa e ai suoi eccessi. La ritualizzazione acquista un forte ruolo nel dare un senso
comunitario al morire, nel far superare la tragicità dell’evento evitando il fatto che la morte possa
costituire un’avventura solitaria. Il morire deve risultare un fenomeno pubblico che coinvolge la
comunità intera”. (8)
La morte oggi
La morte oggi non c’è più. È scomparsa. Noi viviamo come se la morte non ci fosse; come se la morte
non avesse a che fare con la vita, con la nostra vita; come se non avesse un senso sociale. La morte è
talmente negata, che siamo in una società “amortale”, come dicevano Ivan Illich e Edgard Morin più di
cinquanta anni fa, o in una società “post-mortale”, come scrive Céline Lafontaine più recentemente
(citati da 9).
E però, suona paradossale la negazione della morte oggi, in un’epoca in cui si fanno i salti mortali per
prolungare il morire. Detto meglio: “Nello stesso momento in cui si sono profuse risorse colossali ed
enormi capitali scientifici, culturali e finanziari allo scopo di allungare la vita, di migliorarne le
possibilità e la durata, di rallentare i processi di senescenza, di lenire i dolori, di guarire o almeno
contenere malattie in passato inesorabili, di fronte a quest’ultima barriera si e continuato a preferire il
non sapere, il non indagare, il non conoscere.” (10.
La negazione della morte si ottiene con molte strategie o con meccanismi di psicologia personale e
sociale, variamente individuati e approfonditi dagli studiosi. Li abbiamo presi dagli autori riportati in
bibliografia, e li riportiamo in una specie di sinossi, attribuendoli all’autore (tra parentesi) di maggiore
riferimento: 1) Morte proibita (Geoffrey Gorer); 2) Morte rimossa (P. Ariès, N. Elias); 3) Morte sotto
privacy (V. Thomas); 4) Morte occultata (M.T. Russo; D. Sabatini); 5) Morte medicalizzata (I. Illich)
Scrive Thomas (citazione approssimativa, perché ricostruita da appunti personali): “Una morte che
viene rinchiusa nella privacy di una stanza di qualunque istituzione; basta che sia un po’ più in là; un
luogo – clandestino – dove bisogna andare; un luogo che ti faccia invisibile agli occhi del mondo.”
“Mai come oggi i morenti sono stati trasferiti con tanto zelo igienista dietro le quinte della vita sociale,
per sottrarli alla vista dei vivi; mai in passato si è agito con tanta discrezione e tempismo, per
minimizzare il passaggio dal letto alla morte.” (14).
Edvard Munch fece a ottanta anni “Autoritratto tra orologio e letto”, un ritratto sulla propria vecchiaia,
che per lui era come la morte, e che mostra bene il senso dell’isolamento e della deportazione. Un
uomo solo, una sagoma nera con la valigia in mano, quindi in un luogo dove si va (o dove si è spinti). Il
passato colorato dietro le spalle, che scomparirà appena si chiuderà la porta. La sagoma disegna davanti
a sé un’ombra come una croce; la figura è collocata tra un letto che sa di ospedale e un orologio senza
lancette e senza tempo.
Morte oggi: occultata
La morte è “occultata” secondo Maria Teresa Russo (15), ma abbiamo rielaborato l’idea e il suo
sviluppo.
La morte viene occultata in tre modi: 1) si smette di parlare della morte in sé; 2) si sovraespone la
morte tramite i media; 3) si nega l’inevitabilità della morte.
Si smette di parlare della morte in sé
Cioè non si parla più della morte. Diceva Pascal: “Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la
miseria, l’ignoranza, hanno risolto, per vivere felici, di non pensarci.”
Oppure se ne parla, ma scomponendola nelle piccole minacce quotidiane (fare attenzione alla strada;
ricordarsi di mettersi il casco; raccomandarsi di guidare con prudenza….), e di fatto vaporizzandola in
tanti possibili guai, che non sono più la morte.
Oppure si nasconde la verità, cioè si mente. La menzogna (nella forma addolcita di “pietosa bugia”) era
prescritta dalla deontologia medica e nasceva dal bisogno di proteggere il paziente, risparmiandogli in
qualche modo il peso della sua sofferenza. Ma dopo il consenso informato, dopo che il paziente è
diventato finalmente utente-fruitore-cittadino-persona, la norma è caduta; il cittadino deve sapere tutto.
Soprattutto è cambiato il sentimento che sosteneva quel velo, sostituito dal desiderio di evitare
un’emozione troppo forte, a volte addirittura insostenibile, non più al moribondo, ma alla società e ai
familiari stessi.
Marie de Hennezel (16) parla di “malati costretti alla congiura del silenzio”, e racconta l’angoscia di
una paziente non dovuta alla consapevolezza della propria malattia, ma “allo scollamento fra ciò che
sentiva dentro di sé, quello che le diceva il corpo, e i discorsi che le propinavano.” Sempre de Hennezel
riferisce l’osservazione assennata di un’infermiera: “Le famiglie pensano sempre che il malato non
potrà sopportare la verità. Non si rendono conto che la sa già e che ne porta il peso da solo.”
Il finale è paradossale e terribile. Perché il gioco delle parti obbliga il moribondo a fingersi ignaro. Lui
sa, ma il copione della vita lo obbliga a non sapere (5).
La “medicalizzazione” della vita diventa l’espropriazione della salute e produce solo guasti. La
“medicalizzazione” della morte corrisponde all’accanimento terapeutico. In qualunque luogo essa venga
realizzata. Che siano l’ospedale, l’RSA, i reparti di terapie palliative, le case di riposo, i conventi di
suore; il domicilio. La medicalizzazione della morte avviene in qualunque luogo, ogniqualvolta
mettiamo addosso ad una persona più croci di quante essere umano possa sopportare.
Certamente l’ospedale è il luogo medicalizzato per eccellenza. Ma l’alternativa ad esso non sono il
domicilio e i suoi surrogati. Poteva esserlo il domicilio di cinquant’anni fa con le famiglie di allora e i
rapporti sociali di allora. Ma certo non quello di oggi di oggi, senza famiglia e senza disponibilità di
tempo per nessuno; e soprattutto quando cominciano ad entrarci tubi, maschere, macchine, e carità e
compassione a pagamento.
Si va in ospedale perché “si crede che il ricovero in ospedale riduca la sofferenza o aiuti a sopravvivere
più a lungo (3, pag. 113). “Si va avanti con l’illusione che un rito costoso non può che essere utile ”. (3,
pag. 113). Sicché: “La morte non è più la mèta ma la fine della vita (3, pag. 198).
Scrive Daniela Monti nella prefazione del libro da lei curato (4) “… il problema oggi non è cominciare
ma sospendere una terapia.” Che vuol dire affrontare il problema dalla fine. Aggiunge nello stesso
libro Giovanni Reale: “… religiosi e politici … sacralizzano più che la vita la tecnica che permette di
farla proseguire artificiosamente.”
E noi stiamo continuamente a ridisegnare gli spazi tra astensionismo ed accanimento terapeutico, cioè
tra il non fare e il fare troppo, con tutte le piccole, accidentate aree intermedie. Detto in modo scientifico
(e antipatico): “Dunque il limite etico sarebbe tra l’omissione di cure proporzionate, nella forma di
eutanasia passiva indiretta, che rappresenta la condizione di colpa, e l’omissione di cure
sproporzionate (cioè l’astensione dall’accanimento terapeutico), che rappresenta il comportamento
giusto” (19).
Questa linea esilissima, mal definita, spesso interrotta, che sarebbe lo spartiacque tra bene e male in
tema di eutanasia, la vogliamo disegnare sui letti di terapia intensiva o di rianimazione, nelle situazioni
più straordinarie, con l’intenzione di trovare la soluzione giusta per la nostra coscienza e –
democraticamente – valida per tutti. Perché “la parodia dell’etica non considera che l’eutanasia è
diventato un problema dopo e a causa della medicalizzazione dell’assistenza terminale.” (3)
… e la vita?
La lettura di Tolstoj da parte di Max Weber offre una possibile sintesi, riportando in modo illuminante il
tema della morte a quello della vita: “…. il suo [Lev Tolstoj] problema centrale si rivolgeva in misura
crescente alla questione se la morte fosse un fenomeno dotato di senso oppure no. E la sua risposta è
che per l’uomo civilizzato non lo è. E non lo è perché la vita individuale dell’uomo civilizzato, inserita
nel «progresso», nell’infinito, non potrebbe avere, per il suo senso immanente, alcun termine. Infatti c’è
sempre ancora un progresso ulteriore da compiere dinanzi a chi c’è dentro; nessuno, morendo, è
arrivato al culmine, che è posto all’infinito. Abramo o un qualsiasi contadino dei tempi antichi moriva
«vecchio e sazio della vita» poiché si trovava nel ciclo organico della vita, poiché la sua vita, anche per
quanto riguarda il suo senso, gli aveva portato alla sera del suo giorno ciò che poteva offrirgli, poiché
per lui non rimanevano enigmi che desiderasse risolvere ed egli poteva perciò averne «abbastanza».
Ma un uomo civilizzato, il quale è inserito nel processo di progressivo arricchimento della civiltà in
fatto di idee, di sapere, di problemi, può diventare sì «stanco della vita», ma non sazio della vita. Di ciò
che la vita dello spirito continuamente produce egli coglie soltanto la minima parte, e sempre soltanto
qualcosa di provvisorio, mai di definitivo: perciò la morte è per lui un accadimento privo di senso.
E poiché la morte è priva di senso, lo è anche la vita della cultura in quanto tale, che proprio in virtù
della sua «progressività» priva di senso imprime alla morte un carattere di assurdità.”(20).
Bibliografia
1. Vernant JP. La «belle mort» d’Achille. In: Entre mythe et politique. Paris: Seuil 1996: 501-510.
2. Ariès P. Storia della morte in Occidente: dal medioevo ai giorni nostri. Milano: Rizzoli Editore
1978.
3. Illich I. Medical Nemesis. The Expropriation of Health, Pantheon, New York 1976, tr. it., Nemesi
medica. L’espropriazione della salute, Mondadori, Milano 1977, ripubblicato da Boroli, Milano 2005.
4. Monti D (a cura di). Che cosa vuol dire morire. Torino: Einaudi: 2010.
6. Mc Manners J. Morte e Illuminismo. Bologna: il Mulino 1984: 324. Citato in: Petrini M. La cura alla
fine della vita, Linee assistenziali, etiche, pastorali, URL: www.aracneeditrice.it/pdf/8879995367.pdf
7. Macellari G. La morte tra medicina e filosofia. In: AA.VV. La Fine della Vita. Per una cultura e una
medicina rispettose del limite. Bologna: Apèiron 2001: 167–168. Citato in: Petrini M. La cura alla fine
della vita, Linee assistenziali, etiche, pastorali, URL: www.aracneeditrice.it/pdf/8879995367.pdf
8. Donghi A. Io sono la risurrezione e la vita. La pastorale del morire cristiano. Libreria Editrice
Vaticana: 1996.
10. Allievi S. L’uomo e la morte in Occidente. Verso un nuovo paradigma interpretativo. URL:
www.lettere.unipd.it/static/docenti/275/mat_corso_morte.pdf
11. Di Mola G. La morte nella cultura occidentale: aspetti culturali e storico-antropologici.
Informazione Psicologia Psicoterapia Psichiatria”, n°36-37, gennaio agosto 1999, pagg. 2-17.
Consultabile online: www.in-psicoterapia.com/qtorctoanr/36-37/36-1-dimola-morte.pdf
13. Elias N. La solitudine del morente. Bologna: Il Mulino 2011. Citato da Gian Luigi Cetto (a cura
di). La dignità oltre la cura. Milano: Franco Angeli editore, 2009: 180.
14. Thomas L-V. Antropologia della morte. Milano: Garzanti 1976. La frase dell’antropologo Louis
Vincent Thomas è ripresa da Giovanni Ancona in: La morte e il morire nella cultura
odierna, www.webdiocesi.chiesacattolica.it. Da consultare anche: Thomas L-V. Mort et pouvoir. Parigi:
Payot 1999, citato da 9.
15. Russo MT. Corpo, salute, cura. Linee di antropologia biomedica. Soveria Mannelli
(CZ): Rubbettino 2004: pag. 21, nella lettura che ne fa Elisa Tona, su web
http://docenti.unimc.it/docenti/luigi-alici/2010/etica-e-antropologia-bioetica-Mod.-etica-e-antropologia-
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17. Skrabanek P. The human Medicine and the rise of coercive healthism. Social Affairs Unit, 1994.
18. Callahan D. Gli scopi della Medicina: nuove priorità, Rapporto dello Hastings Center, 1997. Da
consultare anche: Callahan D. La Medicina impossibile. Milano: Baldini e Castoldi 1998.
20. Weber M. La Scienza come professione. La politica come professione. Milano: Mondadori 2006:
20-22.