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C’era una volta la morte

 Domenico Sabatini
Prologo

I Greci dell’età arcaica – 600 a.C. – non avevano paura della morte. Nell’esigua iconografia del tempo,
rappresentata quasi esclusivamente dalla pittura vascolare, Thanatos (la morte) aveva un aspetto
gradevole e giovanile, appena un po’ di barba in più rispetto ad Hypnos, suo fratello gemello, che era il
sonno (Figura 1).

Figura 1 – Hypnos (a destra) e Thanatos (a sinistra) trasportano il


corpo di Sarpedonte; da una lekythos a fondo bianco del Pittore
di Thanatos (ca. 460 a.C.) al British Museum, Londra.
I Greci non temevano la morte, ma erano terrorizzati dalla vecchiaia. Il suo dio Geras era un orribile
nano cachettico e meritava la violenza di Ercole, che lo colpisce a randellate, in una fatica non
raccontata in mitologia (Figura 2).

Figura 2 – Geras picchiato da Ercole con la clava, pelike attico


480-470 a.C., Parigi, Louvre.
Nell’idea eroica che gli antichi Greci avevano della vita, gli uomini non solo non avevano paura della
morte, ma sapevano benissimo di avere un “rapido destino” (Omero, Iliade I, 417). I morti delle
Termopili per Simonide non solo conquistarono con la morte “la parte maggiore della virtù”, ma
addirittura una “fama immune da vecchiaia”. Per Iperide, la «bella morte» equivale a un passaggio
iniziatico: “Allora erano ragazzini immaturi, ora sono uomini fatti (Epitaph. 28). Insomma, come
sostiene Jean-Pierre Vernant (1), in quell’epoca storica mortalità ed immortalità non erano termini
antitetici, ma addirittura sinonimi (« mortalité et immortalité, au lieu de s’opposer, s’associent […] et
s’interpénètrent »).

E non poteva avere paura della morte chi nella morte trovava l’immortalità.

Perché questo prologo sull’antica Grecia? Certamente per sfoggio culturale. Ma anche perché, quando si
dice che una volta la morte era un’altra cosa, si pensa sempre agli antichi Greci, agli Egiziani, agli
Assiri e Babilonesi. Invece no. La morte era un’altra cosa cinquant’anni fa. La linea di confine sul
cambiamento dell’idea sociale della morte nelle diverse epoche storiche è collocata da Ariès (2) agli
inizi del ‘900, e da Illich (3), che usa uno schema storiografico simile, nella seconda metà del secolo
scorso.

Morte antica

E com’era una volta la morte? Lo dice Ariès (2), da cui tutti hanno ripreso. Era consapevole, familiare,
pubblica.

 Morte antica: consapevole


Sulla consapevolezza della morte riprendo due esempi di Ariès. Il primo appartiene alla letteratura
cavalleresca medievale. I cavalieri della chanson de geste,  e poi quelli dei romanzi tardo-medievali,
sapevano di andare incontro alla morte. Certo, ogni volta che indossavano un’armatura o impugnavano
un’arma, erano obbligati a pensarci; ma non è questa la consapevolezza di cui si vuole parlare. Gawain
(Galvano), personaggio del ciclo del re Artù – siamo nel 1400 – colpito a morte, dice ai suoi amici:
“Sappiate che non vivrò altri due giorni”. Praticamente si fa la prognosi da solo. Il re Ban, padre di
Lancillotto, dopo una disastrosa caduta da cavallo, vede sangue da ogni parte, e  invoca il Cielo dicendo:
“Ah Signore Iddio soccorretemi, perché vedo e so che la mia fine è arrivata”. Anche i cavalieri
sgangherati recuperavano nei loro ultimi istanti un’insospettata saggezza; per esempio Don Chisciotte:
“Nipote mia mi sento vicino a morire,” (Don Chisciotte, cap. LXXIV).

Il secondo esempio proviene dalla storia, ed è quello di  Madame de Montespan,  raccontata da Saint-
Simon. La marchesa di Montespan era la più famosa ed importante Maîtresse-en-titre del re Luigi XIV,
nel tempo in cui le cortigiane erano anche colte ed intelligenti. La marchesa aveva paura della morte, ma
aveva paura soprattutto di morire sola, e di non essere avvertita in tempo. “Dormiva con tutte le cortine
aperte e molte candele in camera sua, e intorno le donne che vegliavano; e voleva trovarle, ogni volta
che si ridestava, intente a chiacchierare,  a scherzare, o mangiare,  per essere certa che non si
assopissero.”

Le Litaniae Sanctorum, nella terza parte, contengono l’invocazione a Cristo; esse recitano una lunga
lista di libera nos, Domine, che parte da “ogni male, ogni peccato” e arriva a invocare la liberazione dal
terremoto, dalla peste, dalla fame, dalla guerra. Tra tante sciagure possibili c’é anche la  subitanea et
improvisa morte.

La morte imprevista e improvvisa era temuta perché non consentiva di pentirsi. Ma c’era anche un
motivo più nobile: si riteneva la preparazione spirituale alla morte un gesto umanamente qualificante. In
altre parole, non si voleva perdere l’esperienza del morire. Oggi vogliamo morire senza dolore e senza
consapevolezza, come scrive Mary Wesley, in una citazione che ho di terza mano (4): “La mia famiglia
ha la propensione – deve essere questione di geni – a morire sul colpo. Sei qui e un minuto dopo non ci
sei più. Eccezionale. Prego di aver ereditato questo gene. Non ho nessuna voglia di tirarla per le
lunghe, di diventare un fardello inchiodato a un letto. Uno shock brusco e fulmineo per i miei cari, ecco
quel che desidero: più piacevole per loro, delizioso per me”.

Una volta si era tutti consapevoli della più semplice delle banalità, cioè che la morte appartiene alla vita,
e che non può essere relegata, come facciamo spudoratamente oggi, sempre fuori di sé, e collocata oltre
la fine di una infinita vecchiaia.

A Subiaco, in provincia di Roma, c’è il Sacro Speco o Monastero di S. Benedetto, sorto a partire dal sec.
XI, che contiene affreschi del XV secolo, tra i quali si scorge un esempio interessante di Trionfo della
morte. La rappresentazione è articolata in scene diverse: alcuni cadaveri giacciono al suolo; sopra di
essi un cavallo montato da uno scheletro vivacissimo – la morte –  coi capelli al vento e le pupille nere,
che va contro un giovane per colpirlo con una lunga spada. Dietro al cavallo, dietro alla morte,
perfettamente ignorati, un gruppo di vecchi chiede, con le mani incrociate, di poter morire. Ma la morte
ha deciso che non è il loro momento.
Una volta erano consapevoli di morire, perché lo ricordavano ogni giorno, e non solo dentro i cimiteri,
non solo sulle tombe, come nell’affresco della Trinità del Masaccio a Santa Maria Novella, che nel
sarcofago mostra uno scheletro che dice: “Io fu già quel che voi siete, e quel ch’io son voi anco sarete.”

Il memento mori con tutte le sue espressioni era dappertutto: sui muri, sui quadri, sui tavoli, sulle
scrivanie; lo portavano addosso come scritta, come ninnolo.

Il tema della morte era un genere  pittorico, come “Incontro dei tre morti e dei tre vivi”, “Trionfo della
morte”, “Danza macabra”. E in letteratura era diffusissimo come ars moriendi, genere letterario a scopo
didattico-devozionale, destinato a tutti. L’ars moriendi considerava la morte un processo, per il quale
l’uomo ha bisogno di aiuto; era un “apprendistato permanente all’incontro con la morte”. Addirittura,
qualora il moribondo non avesse mostrato consapevolezza della morte, c’era chi veniva commissionato
ad informarlo, non solo per un gesto di carità, moralmente dovuto, ma soprattutto per un dovere sancito
giuridicamente. Il Medioevo lo annoverava tra i compiti deontologici del medico. Le artes moriendi del
XV secolo lo attribuivano come principale dovere morale all’amico “spirituale”, che riceveva
l’eloquente nome di nuncius mortis (5).

Morte antica: addomesticata


Una volta si viveva – con – la morte, che era un fenomeno naturale, vissuta dentro il quotidiano, dentro
uno spazio comune, tra le mura domestiche. Però Ariès non dice “domestica” ma “addomesticata”; e
non lo spiega. I suoi lettori  e commentatori riprendono l’aggettivo, che sempre trovano molto
appropriato, ma non lo spiegano. E allora ce lo spieghiamo da soli.

“Addomesticare” in francese è “apprivoiser”, un verbo che ogni bambino francese conosce benissimo,
appena ha imparato a leggere o anche prima. “Apprivoiser” è usato e spiegato nel Piccolo principe di
Saint Exupery, che in Francia è come per noi il Pinocchio di Collodi (senza gli stravolgimenti di Walt
Disney). “Qu’est-ce que signifie “apprivoiser? (Che significa addomesticare ?, chiede il
principe). C’est une chose trop oubliée, dit le renard; ça signifie “créer des liens”.( E’ una cosa
dimenticata, risponde la volpe; significa creare legami). Quindi non è sottomettere, conquistare, ma
creare legami. Perché – dice la volpe – si può conoscere bene solo quella persona che addomestichiamo.

Morte antica: pubblica


La morte era una actio publica. Nella scena dell’agonia c’erano tutti, amici, parenti, conoscenti,
estranei. “Chiunque poi poteva seguire il sacerdote che recava il sacramento nella casa del morente,
fino alla stanza dove questi giaceva. Anzi, c’era una indulgenza che conferiva la remissione di quaranta
giorni di pene nel Purgatorio per chi si associava a tale opera buona.” (6) Anche i bambini, “e questo
in ottemperanza a un preciso costume del tempo, perché si voleva che i bambini venissero in contatto
con la morte e ricevessero, con spontaneità ed efficacia, gli insegnamenti di un evento naturale che a
parole si faticava a trasmettere, tanto grande era il mistero del morire.” (7)

Insomma, la morte per gli “antichi” non è solo “un dramma personale, ma coinvolge anche la comunità
che ha la funzione di mantenere la continuità della specie. Questa presenza fa in modo che la morte non
sia lasciata a se stessa e ai suoi eccessi. La ritualizzazione acquista un forte ruolo nel dare un senso
comunitario al morire, nel far superare la tragicità dell’evento evitando il fatto che la morte possa
costituire un’avventura solitaria. Il morire deve risultare un fenomeno pubblico che coinvolge la
comunità intera”. (8)

Oggi a fare pubblico sono rimasti i manifesti funebri e i funerali.

La morte oggi

La morte oggi non c’è più. È scomparsa. Noi viviamo come se la morte non ci fosse; come se la morte
non avesse a che fare con la vita, con la nostra vita; come se non avesse un senso sociale. La morte è
talmente negata, che siamo in una società “amortale”, come dicevano Ivan Illich e Edgard Morin più di
cinquanta anni fa, o in una società “post-mortale”, come scrive Céline Lafontaine più recentemente
(citati da 9).

E però, suona paradossale la negazione della morte oggi, in un’epoca in cui si fanno i salti mortali per
prolungare il morire. Detto meglio: “Nello stesso momento in cui si sono profuse risorse colossali ed
enormi capitali scientifici, culturali e finanziari allo scopo di allungare la vita, di migliorarne le
possibilità e la durata, di rallentare i processi di senescenza, di lenire i dolori, di guarire o almeno
contenere malattie in passato inesorabili, di fronte a quest’ultima barriera si e continuato a preferire il
non sapere, il non indagare, il non conoscere.”  (10.
La negazione della morte si ottiene con molte strategie o con meccanismi di  psicologia personale e
sociale, variamente individuati e approfonditi dagli studiosi. Li abbiamo presi dagli autori riportati in
bibliografia, e li riportiamo in una specie di sinossi, attribuendoli all’autore (tra parentesi) di maggiore
riferimento:  1) Morte proibita (Geoffrey Gorer); 2) Morte rimossa (P. Ariès, N. Elias); 3) Morte sotto
privacy (V. Thomas);  4) Morte occultata (M.T. Russo; D. Sabatini); 5) Morte medicalizzata (I. Illich)

Morte oggi: proibita


La morte proibita è un’espressione di Philippe Ariès; Michel Vovelle parlava di tabù della morte (citato
da 11). Abbiamo attribuito l’espressione al sociologo inglese Geoffrey Gorer, perché è lui che ha teso di
più l’elastico sul concetto di proibito; e ha fatto diventare la morte “pornografica” (12). Il ragionamento
di Gorer è semplice e convincente: la sessualità una volta era un argomento proibito; guai a parlarne in
società, e scandaloso accennarlo in presenza di bambini. Oggi (1955) che il sesso lo regalano in ogni
luogo e a qualunque ora del giorno, e non solo a chiacchiere, oggi il vero argomento proibito è la morte,
che quindi è diventata come la pornografia di una volta.

Morte oggi: rimossa


Ariès (e altri) parla di “rimozione” della morte, e la intende in senso strettamente psicanalitico: “…
meccanismo psichico che allontana dalla coscienza desideri, pensieri o residui mnestici considerati
inaccettabili e insostenibili dall’Io, e la cui presenza provocherebbe dispiacere e angoscia”. Altri autori
(13) usano “rimozione” in senso fisico, strutturale, come “spostamento” delle immagini della morte o
dei suoi simboli, come allontanamento del morente dai luoghi tradizionalmente deputati alle sue cure.

Morte oggi: privata (sotto privacy)


Louis Vincent Thomas parla di “privatizzazione della morte”. L’espressione “sotto privacy” è nostra;
indica la stessa cosa, ma suona come “sotto silenzio”, “sotto vuoto”.

Scrive Thomas (citazione approssimativa, perché ricostruita da appunti personali): “Una morte che
viene rinchiusa nella privacy di una stanza di qualunque istituzione; basta che sia un po’ più in là; un
luogo – clandestino – dove bisogna andare; un luogo che ti faccia invisibile agli occhi del mondo.”

Sostanzialmente si tratta di “morire soli”, ma non di solitudine psicologica o esistenziale. Si tratta di


solitudine sociale;  di isolamento, di segregazione.

“Mai come oggi i morenti sono stati trasferiti con tanto zelo igienista dietro le quinte della vita sociale,
per sottrarli alla vista dei vivi; mai in passato si è agito con tanta discrezione e tempismo, per
minimizzare il passaggio dal letto alla morte.” (14).

Descritta così, è proprio una deportazione.

Edvard  Munch fece a ottanta anni “Autoritratto tra orologio e letto”, un ritratto sulla propria  vecchiaia,
che per lui era come la morte, e che mostra bene  il senso dell’isolamento e della deportazione. Un
uomo solo, una sagoma nera con la valigia in mano, quindi in un luogo dove si va (o dove si è spinti). Il
passato colorato dietro le spalle, che scomparirà appena si chiuderà la porta. La sagoma disegna davanti
a sé un’ombra come una croce; la figura è collocata tra un letto che sa di ospedale e un orologio senza
lancette e senza tempo.
Morte oggi: occultata
La morte è “occultata” secondo Maria Teresa Russo (15), ma abbiamo rielaborato l’idea e il suo
sviluppo.

La morte viene occultata in tre modi: 1) si smette di parlare della morte in sé; 2)  si sovraespone la
morte tramite i media; 3) si nega l’inevitabilità della morte.
Si smette di parlare della morte in sé
Cioè non si parla più della morte. Diceva Pascal: “Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la
miseria, l’ignoranza, hanno risolto, per vivere felici, di non pensarci.”

Oppure se ne parla, ma scomponendola nelle piccole minacce quotidiane (fare attenzione alla strada;
ricordarsi di mettersi il casco; raccomandarsi di guidare con prudenza….), e di fatto vaporizzandola in
tanti possibili guai, che non sono più la morte.

Oppure si nasconde la verità, cioè si mente. La menzogna (nella forma addolcita di “pietosa bugia”) era
prescritta dalla deontologia medica e nasceva dal bisogno di proteggere il paziente, risparmiandogli in
qualche modo il peso della sua sofferenza. Ma dopo il consenso informato, dopo che il paziente è
diventato finalmente utente-fruitore-cittadino-persona, la norma è caduta; il cittadino deve sapere tutto.
Soprattutto è cambiato il sentimento che sosteneva quel velo, sostituito dal desiderio di evitare
un’emozione troppo forte, a volte addirittura insostenibile, non più al moribondo, ma alla società e ai
familiari stessi.

Marie de Hennezel (16) parla di “malati costretti alla congiura del silenzio”, e racconta l’angoscia di
una paziente non dovuta alla consapevolezza della propria malattia, ma “allo scollamento fra ciò che
sentiva dentro di sé, quello che le diceva il corpo, e i discorsi che le propinavano.” Sempre de Hennezel
riferisce l’osservazione assennata di un’infermiera: “Le famiglie pensano sempre che il malato non
potrà sopportare la verità. Non si rendono conto che la sa già e che ne porta il peso da solo.”

Il finale è paradossale e terribile. Perché il gioco delle parti obbliga il moribondo a fingersi ignaro. Lui
sa, ma il copione della vita lo obbliga a non sapere (5).

Si sovraespone la morte tramite i media 


La morte viene “iper-rappresentata”, e così svanisce per eccesso di visibilità. “La morte, manipolata dai
moderni strumenti di comunicazione, è caricata di valenze che permettono di negarla alla coscienza
come morte reale e di renderla più accettabile come morte virtuale (11).

I mass media hanno desacralizzato la morte, e nello stesso tempo hanno “sostituito lo spettacolo al


rito.” (14)

Si nega l’inevitabilità della morte


La morte viene consegnata alla medicina tecnologica e diventa un’altra cosa. Il malato – detto terminale
– viene affidato alle terapie intensive, e fino alla fine ci sarà sempre qualcosa in più da fare. Si
sostituisce la morte con la malattia sempre potenzialmente curabile. E quando arriverà la fine, non sarà
la morte, ma il fallimento della Medicina, l’insuccesso della Scienza.

Meglio ancora se per errore, per colpa di qualcuno.

Morte oggi: medicalizzata


Il termine “medicalizzazione” è mutuato da Illich (3), che aveva inventato anche la parola “iatrogenesi”
(danni, malattie conseguenti all’azione di un atto sanitario), e che aveva dichiarato la corporazione
medica una grande minaccia per la salute. Illich ha sempre irriso il mito della salute perfetta, che ci
espropria della salute e della vita. Ma non solo lui. Petr Skrabanek (scienziato e docente di Medicina
al Trinity College di Dublino) riteneva che siamo affetti da “salutismo coercitivo” (17), e che il
vitalismo non è la vita. Daniel Callahan (18) trovava dissennata e populista la definizione di salute
dell’OMS che ci portiamo addosso dal 1946: “stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e
non semplice assenza di malattia“. Su questa strada la Medicina ha perso i suoi “modelli intrinseci”, ed
è andata dietro a costruzioni sociali, che sono fuori dalla sua pertinenza; basti pensare all’alcolismo, alla
tossico-dipendenza, all’obesità, alle tristezze, alle compulsioni.
Sosteneva Callahan – da economista e bioetico – che “La Medicina non può e non potrà mai produrre
uno stato di “completo” benessere nemmeno sul piano fisico, che pure le è più familiare.
“Medicalizzazione” è – appunto – lo sconfinamento della Medicina dai suoi limiti, l’applicazione delle
conoscenze e delle tecnologie mediche a problemi storicamente non considerati di natura medica.

La “medicalizzazione” della vita diventa l’espropriazione della salute e produce solo guasti. La
“medicalizzazione” della morte corrisponde all’accanimento terapeutico. In qualunque luogo essa venga
realizzata. Che siano l’ospedale,  l’RSA, i reparti di terapie palliative, le case di riposo, i conventi di
suore; il domicilio. La medicalizzazione della morte avviene in qualunque luogo, ogniqualvolta
mettiamo addosso ad una persona più croci di quante essere umano possa sopportare.

Certamente l’ospedale è il luogo medicalizzato per eccellenza. Ma l’alternativa ad esso non sono  il
domicilio e i suoi surrogati. Poteva esserlo il domicilio di cinquant’anni fa con le famiglie di allora e i
rapporti sociali di allora. Ma certo non quello di oggi di oggi, senza famiglia e senza disponibilità di
tempo per nessuno;  e soprattutto quando cominciano ad entrarci tubi, maschere, macchine, e carità e
compassione a pagamento.

Si va in ospedale perché “si crede che il ricovero in ospedale riduca la sofferenza o aiuti a sopravvivere
più a lungo (3, pag. 113). “Si va avanti con l’illusione che un rito costoso non può che essere utile ”.  (3,
pag. 113). Sicché: “La morte non è più la mèta ma la fine della vita (3, pag. 198).

Scrive Daniela Monti nella prefazione del libro da lei curato (4) “… il problema oggi non è cominciare
ma sospendere una terapia.” Che vuol dire affrontare il problema dalla fine. Aggiunge nello stesso
libro Giovanni Reale: “… religiosi e politici … sacralizzano più che la vita la tecnica che permette di
farla proseguire artificiosamente.”

E noi stiamo continuamente a ridisegnare gli spazi tra astensionismo ed accanimento terapeutico, cioè
tra il non fare e il fare troppo, con tutte le piccole, accidentate aree intermedie. Detto in modo scientifico
(e antipatico): “Dunque il limite etico sarebbe tra l’omissione di cure proporzionate, nella forma di
eutanasia passiva indiretta, che rappresenta la condizione di colpa, e l’omissione di cure
sproporzionate (cioè l’astensione dall’accanimento terapeutico), che rappresenta il comportamento
giusto” (19).

Questa linea esilissima, mal definita, spesso interrotta, che sarebbe lo spartiacque tra bene e male in
tema di eutanasia, la vogliamo disegnare sui letti di terapia intensiva o di rianimazione, nelle situazioni
più straordinarie, con l’intenzione di trovare la soluzione giusta per la nostra coscienza e –
democraticamente – valida per tutti. Perché “la parodia dell’etica non considera che l’eutanasia è
diventato un problema dopo e a causa della medicalizzazione dell’assistenza terminale.” (3)

… e la vita?

La lettura di Tolstoj da parte di Max Weber offre una possibile sintesi, riportando in modo illuminante il
tema della morte a quello della vita: “…. il suo [Lev Tolstoj] problema centrale si rivolgeva in misura
crescente alla questione se la morte fosse un fenomeno dotato di senso oppure no. E la sua risposta è
che per l’uomo civilizzato non lo è. E non lo è perché la vita individuale dell’uomo civilizzato, inserita
nel «progresso», nell’infinito, non potrebbe avere, per il suo senso immanente, alcun termine. Infatti c’è
sempre ancora un progresso ulteriore da compiere dinanzi a chi c’è dentro; nessuno, morendo, è
arrivato al culmine, che è posto all’infinito. Abramo o un qualsiasi contadino dei tempi antichi moriva
«vecchio e sazio della vita» poiché si trovava nel ciclo organico della vita, poiché la sua vita, anche per
quanto riguarda il suo senso, gli aveva portato alla sera del suo giorno ciò che poteva offrirgli, poiché
per lui non rimanevano enigmi che desiderasse risolvere ed egli poteva perciò averne «abbastanza».
Ma un uomo civilizzato, il quale è inserito nel processo di progressivo arricchimento della civiltà in
fatto di idee, di sapere, di problemi, può diventare sì «stanco della vita», ma non sazio della vita. Di ciò
che la vita dello spirito continuamente produce egli coglie soltanto la minima parte, e sempre soltanto
qualcosa di provvisorio, mai di definitivo: perciò la  morte è per lui un accadimento privo di senso.

E poiché la morte è priva di senso, lo è anche la vita della cultura in quanto tale, che proprio in virtù
della sua «progressività» priva di senso imprime alla morte un carattere di assurdità.”(20).

Bibliografia

1. Vernant JP. La «belle mort» d’Achille. In: Entre mythe et politique. Paris: Seuil 1996: 501-510.

2. Ariès P. Storia della morte in Occidente: dal medioevo ai giorni nostri. Milano: Rizzoli Editore
1978.

3. Illich I. Medical Nemesis. The Expropriation of Health, Pantheon, New York 1976, tr. it., Nemesi
medica. L’espropriazione della salute, Mondadori, Milano 1977, ripubblicato da Boroli, Milano 2005.

4. Monti D (a cura di). Che cosa vuol dire morire. Torino: Einaudi: 2010.

5. Capitani E. Commento a P. Ariès, Storia della morte in Occidente. Consultabile online


http://docenti.unimc.it/docenti/luigi-alici/2010/etica-e-antropologia-bioetica-Mod.-etica-e-antropologia-
2010/aries-storia-della-morte-in-occidente/at_download/file.

6. Mc Manners J. Morte e Illuminismo. Bologna: il Mulino 1984: 324. Citato in: Petrini M. La cura alla
fine della vita, Linee assistenziali, etiche, pastorali, URL: www.aracneeditrice.it/pdf/8879995367.pdf

7. Macellari G. La morte tra medicina e filosofia. In: AA.VV. La Fine della Vita. Per una cultura e una
medicina rispettose del limite. Bologna: Apèiron 2001: 167–168. Citato in: Petrini M. La cura alla fine
della vita, Linee assistenziali, etiche, pastorali, URL: www.aracneeditrice.it/pdf/8879995367.pdf

8. Donghi A. Io sono la risurrezione e la vita. La pastorale del morire cristiano. Libreria Editrice
Vaticana: 1996.

9. Ravasi G. Trappole postmortali, “Il Sole 24 Ore”, 6 novembre 2011.

10. Allievi S. L’uomo e la morte in Occidente. Verso un nuovo paradigma interpretativo.  URL:
www.lettere.unipd.it/static/docenti/275/mat_corso_morte.pdf

11. Di Mola G. La morte nella cultura occidentale: aspetti culturali e storico-antropologici.
Informazione Psicologia Psicoterapia Psichiatria”, n°36-37, gennaio agosto 1999, pagg. 2-17.
Consultabile online: www.in-psicoterapia.com/qtorctoanr/36-37/36-1-dimola-morte.pdf

12. Gorer G. The pornography of death. 1955. Consultabile online:  www.unz.org/Pub/Encounter-


1955oct-00049

13. Elias N. La solitudine del morente. Bologna: Il Mulino 2011.  Citato da Gian Luigi Cetto (a cura
di). La dignità oltre la cura. Milano: Franco Angeli editore, 2009: 180.

14. Thomas L-V. Antropologia della morte. Milano: Garzanti 1976. La frase dell’antropologo Louis
Vincent Thomas è ripresa da Giovanni Ancona in: La morte e il morire nella cultura
odierna, www.webdiocesi.chiesacattolica.it. Da consultare anche: Thomas L-V. Mort et pouvoir. Parigi:
Payot 1999, citato da 9.
15. Russo MT. Corpo, salute, cura. Linee di antropologia biomedica. Soveria Mannelli
(CZ): Rubbettino 2004: pag. 21, nella lettura che ne fa Elisa Tona, su web
http://docenti.unimc.it/docenti/luigi-alici/2010/etica-e-antropologia-bioetica-Mod.-etica-e-antropologia-
2010/aries-storia-della-morte-in-occidente/at_download/file

16. De Hennezel M. La morte amica. Milano: Rizzoli 1998.

17.  Skrabanek P. The human Medicine and the rise of coercive healthism. Social Affairs Unit, 1994.

18. Callahan D. Gli scopi della Medicina: nuove priorità, Rapporto dello Hastings Center, 1997. Da
consultare anche: Callahan D. La Medicina impossibile. Milano: Baldini e Castoldi 1998.

19. Sabatini D. Letture brevi di Gerontologia. Roma: CESI editore 2008.

20. Weber M. La Scienza come professione. La politica come professione. Milano: Mondadori 2006:
20-22.

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