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La scelta dell’uomo di fronte al

dolore
Giorgia Banzola
A.s. 2017-2018

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Il Galata suicida

Il “Galata suicida”, la scultura conservata nel Museo Nazionale


Romano di Palazzo Altemps, a Roma – conosciuta anche come
“Galata Ludovisi”, perché nel Seicento faceva parte della
collezione d’arte del cardinale Lodovico Ludovisi (1595-1632) –,
è un’opera in marmo realizzata nel I secolo a.C. ed è la copia
romana di un originale bronzeo greco risalente agli ultimi tre
decenni del III secolo a.C.
Il modello ellenico faceva parte del “Donario di Attalo”, un
monumento dell’antica Pergamo che il re Attalo I commissionò
allo scultore di corte Epigono per esaltare la vittoria riportata dal
proprio esercito contro la tribù celtica dei Galati.
Ai piedi del magnifico guerriero celta – raffigurato nell’atto
estremo del suicidio che si procura configgendosi la spada in una
spalla – una donna esanime: il combattente preferisce darsi la
morte e uccidere la propria compagna piuttosto che cadere
prigioniero degli odiati nemici.

Il suicidio in età classica


Il suicidio si inserisce dunque tra una delle numerose vie che
l’uomo sceglie di percorrere quando si ritrova davanti al dolore,
sia che questo derivi da una spinta personale o che venga indotto
a causa di fattori esterni.
L’esempio che maggiormente incarna questo atto estremo
nell’antichità è la figura di Seneca, portato a togliersi la vita
dall’imperatore Nerone. Condannato a morte in precedenza da
Caligola, riuscì a sottrarsi da tale pena e finì in esilio per ordine di
Claudio che poi lo richiamò a Roma, divenne tutore e precettore
del futuro imperatore Nerone, su incarico della madre Giulia

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Agrippina Augusta. Quando Nerone e Agrippina entrarono in
conflitto, Seneca approvò l'esecuzione di quest'ultima come male
minore. Dopo il cosiddetto "quinquennio di buon governo" o
"quinquennium felix" (54-59 d.C.), in cui Nerone governò
saggiamente sotto la tutela di Seneca, l'ex allievo ed il maestro si
allontanarono sempre di più e il filosofo si ritirò dalla vita
politica. Tuttavia Seneca, forse implicato in una congiura contro
l’imperatore (nonostante si fosse ritirato a vita privata), cadde
vittima della repressione, e venne costretto al suicidio dallo stesso
Nerone.

Se nell’antica Grecia l’atto del suicidio veniva condannato in


quanto “noi uomini stiamo dentro a una carcere, e non ci è lecito
di liberarcene e fuggire”, come afferma Platone nel Fedone, e i
filosofi greci consideravano il suicida un disertore dalla vita,
antitetica è la visione nella dottrina stoica.
Seneca, seguace di tale pensiero filosofico, riteneva il suicidio
espressione di estrema libertà, la via di uscita offerta al saggio per
portare a compimento la propria vita virtuosa: il suicidio è visto
come il minor male, l'ultima via di uscita che la situazione offre al
criminale per non continuare ad essere tale, l'ultima opportunità
offerta dalla ragione allo schiavo dell’irrazionale.
In Seneca il tema della morte, strettamente collegato a quello del
tempo, rappresenta una problematica centrale nelle sue opere.
L’incombere di questa inevitabile tappa della vita porta il filosofo
a cercare di prepararsi costantemente tale momento, a considerare
ogni giorno come fosse l’ultimo e a vederlo come liberazione
dalle sofferenze e da quello stesso carcere corporeo di cui parlava
Platone.
Cosi scrive il filosofo nel De ira:

“Perché aspetti che qualche nemico venga a liberarti,


distruggendo il tuo popolo, o che un re potente accorra da terre
lontane? Da qualunque parte guardi, c'è la fine dei tuoi mali.
Vedi quel precipizio? Da quello, si scende alla libert à. Vedi quel

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mare, quel fiume, quel pozzo? La libertà siede là, sul fondo. Vedi
quell'albero basso, rinsecchito, malaugurato? La libertà è
appesa a quello. Vedi il tuo collo, la tua gola, il tuo cuore? Sono
vie di scampo alla servitù. Ti mostro forse uscite troppo laboriose
e che richiedono molto coraggio e molta forza fisica? Chiedi qual
è il sentiero della libertà? Qualunque vena del tuo corpo.”
(Seneca, De ira, XV, 3-4)

Questo si collega a una delle Epistulae ad Lucilium (70, 14-19)


dove Seneca esprime la sua idea di morte come exitus, a
differenza della vita che è invece un introitum; all’uomo è quindi
stato concesso un solo ingresso alla vita, ma molte vie d’uscita.
Legata a ciò è la metafora che Seneca utilizza per il suicidio: una
via libertatis capace di infrangere i catenacci della schiavitù della
vita e che permette di lasciare quel domicilium dell’anima che si
era destinati ad abbandonare.

La capacità di sopportazione del dolore

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Il filosofo vede quindi il suicidio come una possibile scelta che
l’uomo può fare di fronte alle sofferenze della vita, davanti a quei
dolori che invece Archiloco, in uno dei frammenti giunti a noi (fr.
13 W), invita a sopportare.
Il lirico, nato a Paro, isola delle Cicladi, attorno al 680 a.C., scrive
infatti così:

“Certo i dolorosi lutti, o Pericle, né alcuno dei cittadini


disprezzando godrà di banchetti né la città:
tali infatti l'onda del rumoreggiante mare
sommerse, e gonfi per le sofferenze abbiamo
i polmoni. Ma gli dei tuttavia ai mali incurabili,
o amico, la forte sopportazione posero
(come) medicina. Talora uno talora un altro ha questa sorte; ora a noi
si volse, e lamentiamo la ferita sanguinante,
ma ancora altri raggiungerà. Però al più presto
fatevi coraggio, allontanando il lutto femmineo.”

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Questa elegia dedicata al marito della sorella di Archiloco, e
amico del poeta, Pericle, venne composta a seguito di un
naufragio che causò la morte di molti concittadini tra cui il
destinatario di questo frammento.
L’evento tragico offre ad Archiloco l’occasione di riflettere
riguardo ai dolorosi lutti (κήδεα στονόεντα), alle sofferenze che
gonfiano i polmoni (οἰδαλέους δ'ἀμφ' ὀδύνῃς ἔχομεν
πνεύμονας), alle ferite sanguinanti che la sorte infligge a tutti gli
uomini.
Ma gli dei hanno offerto un rimedio a questi mali incurabili,
ponendo come φάρμακον la τλημοσύνην: la sopportazione virile e
forte che non consiste nell’abbandonarsi al lutto e al pianto, ma
nel rassegnarsi davanti al male sapendo che questo, essendo
ciclico, colpisce in maniera casuale ciascuno e per questo motivo
non dura in eterno.

L’ambitiosa mors e il suo


rovesciamento

Seneca, restando fedele alla sua idea di suicidio e a ciò che questo
atto comporta, prepara il proprio exitus come un evento teatrale e
addirittura corale se si considera che all’evento assiste una cerchia
di amici e parenti, un pubblico di discepoli che condividono gli
stessi punti di vista e gli stessi ideali. La morte del filosofo,
descritta in particolare da Tacito negli Annales (XV libro), viene
inevitabilmente accostata a quella di Socrate trovando dei
parallelismi non solo grazie alla presenza di persone care e
stimate che accompagnano la morte dei due personaggi, ma anche
grazie al veleno. Quest’ultimo per Socrate diventa causa della
propria morte, mentre per Seneca non è sufficiente: a causa del
gelo che ormai aveva invaso le sue membra e del corpo che
resisteva all’azione del veleno stesso, fu costretto ad entrare in un
bagno a vapore dove finalmente spirò.

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Seneca è consapevole che la propria morte lascerà un segno e per
questo si tratta di un atto che deve essere preparato come una vera
e propria messa in scena, un’ambitiosa mors che racchiude il suo
dolore politico scaturito dal principato di Nerone, ma che intende
soprattuto fungere da exemplum nel presente e tra i posteri.

Alla fermezza tipica dello stoico che traspare nella figura di


Seneca si oppone l’ironia che caratterizza il racconto del suicidio
di Petronio offerto da Tacito nel XVI libro degli Annales: il
protagonista, così come Socrate e Seneca, discute con gli amici,
tuttavia non riguardo a temi filosofici come l’immortalità
dell’anima, ma piuttosto trascorre le sue ultime ore dedicandosi
agli svaghi, sedendosi a banchetto, recitando versi leggeri (levia
carmina et facili versus) e accostandosi a quei piaceri della vita
che avevano caratterizzato la sua esistenza. Infine cerca di far
apparire la sua morte come fosse accidentale, dettaglio che
richiama il sonno di Catone poco prima di suicidarsi, esattamente
il contrario dell’enfasi e dell’ostentazione che stavano alla base
del tipico suicidio stoico.

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La poesia come sfogo per il dolore
Anche nella letteratura italiana è presente il tema del dolore e ciò
a cui questo porta, un tema che in particolare per Ungaretti deriva
dall’esperienza personale della guerra che travolge l’animo del
poeta.
Gli orrori e la violenza vissuti in prima persona da Ungaretti
trovano uno sfogo attraverso le parole e la poesia, capaci di dare
sollievo e di presentare una ragione per vivere nonostante attorno
vi sia un mondo pervaso da scontri, sangue e uccisioni.
Nella poesia In memoria collocata all’inizio della prima
edizione della raccolta Il porto sepolto, Ungaretti mette in
evidenza l’importanza di saper comporre versi, un tema che mette
in relazione la propria esperienza autobiografica e la vicenda
dell’amico Moammed Sceab morto suicida.

Locvizza il 30 settembre 1916.


Si chiamava
Moammed Sceab
Discendente
di emiri di nomadi
suicida
perché non aveva più

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Patria
Amò la Francia
e mutò nome
Fu Marcel
ma non era Francese
e non sapeva più
vivere
nella tenda dei suoi
dove si ascolta la cantilena
del Corano
gustando un caffè
E non sapeva
sciogliere
il canto
del suo abbandono
L’ho accompagnato
insieme alla padrona dell’albergo
dove abitavamo
a Parigi
dal numero 5 della rue des Carmes
appassito vicolo in discesa.
Riposa
nel camposanto d’Ivry
sobborgo che pare
sempre
in una giornata
di una
decomposta fiera
E forse io solo
so ancora
che visse

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La vicenda di Moammed Sceab consente infatti di introdurre uno
dei motivi di fondo della raccolta: quello dell’esilio, inteso come
perdita immedicabile di ogni punto di riferimento, che la poesia
ha il compito di sublimare e di sanare, proponendosi come ricerca
di una identità originaria perduta.
La peregrinazione dell’individuo è parallela alla rottura dei
legami con il passato e all’impossibilità di reintegrarlo nel
presente. Il suicidio dell’amico comprende e racchiude in qualche
modo il destino stesso del poeta, corrispondendo a un’analoga
ricerca di valori, che si conclude tragicamente in chi non sa (o
non sa più) esprimerli e comunicarli (cfr. vv. 18-21). Oltre a
sollecitare la commossa pietà del ricordo, il gesto diventa così
l’equivalente della poesia, con la quale ha in comune la medesima
ansia di liberazione e di «abbandono».
Sceab non possiede il dono della poesia, attraverso cui Ungaretti
riesce invece a sopportare il medesimo destino di uomo
caratterizzato dalla condizione di sradicato: il poeta nasce nel
1888 ad Alessandria d’Egitto da genitori italiani, e lì trascorre la
giovinezza. Si trasferisce poi a Parigi nel 1912, entrando a
contatto con i grandi intellettuali del tempo, tutti luoghi a lui
molto cari a cui dedica la poesia Fiumi nella quale ripercorre le
tappe che lo hanno accompagnato nel suo viaggio della vita e che
l’hanno fatto crescere. Tuttavia, a differenza del compianto amico
arabo, Ungaretti riesce a “sciogliere il canto del suo abbandono”
(vv. 20-21) e salvarsi grazie alla poesia, trovando in questa una
via di liberazione dal proprio dolore.
L’amico ha pagato con il suicidio l'incapacità di uscire dalla
solitudine attraverso relazioni d'amore e di amicizia;
Ungaretti invece - come si coglie nel finale - si salva grazie alla
poesia. Essa è infatti un ponte di comunicazione, che consente
anche di tramandare agli altri il valore delle esperienze compiute
e degli incontri fatti (E forse io solo / so ancora / che visse); è un
luogo d'incontro e un mezzo per illuminare, almeno in parte, il
mistero della vita.

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The pain is replaced by the memory

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In English litterature Thomas Gray talks about the theme of pain
linked to the memory of the villagers who lie buried in the
churchyard.
Elegy written in a country churchyard was probably written in
1746 and it was originally a somewhat shorter poem than the
version he published in 1751, and some have speculated that the
poem may have been occasioned by an actual death, perhaps that
of Gray’s friend Richard West in 1742.
When Gray designated his work as an elegy, he placed it in a long
tradition of meditative poems that focus on human mortality and
sometimes reflect specifically on the death of a single person.
By setting his meditation in a typical English churchyard with
mounds, gravestones, and yew trees, Gray was also following a
tradition.
This place allowing the poet to meditate on the inevitability of
death and on the suffering that comes from.
This pain is linked to the deaths of poor men and rich men alike,
because the poet considers that the poor die before they can make
a mark on the world and Gray praises the modesty of the graves
in this churchyard, imagining how a humble old farmer will see
him after his death.

The churchyard graves may also contain the remains of a person


who had the ability to become a great scholar, a generous national
leader, or a man who could have been a great poet but is in the
end no more than a mute inglorious
Milton.
Gray goes on to speculate, however, that poverty may have
prevented some dead men from doing not good but evil; now
death has made them guiltless of shedding blood and they have
not been able to slaughter, to refuse mercy, to lie, or to wallow in
luxury and pride.
In Gray’s poem the suffering that stems from the regret and from
the loss of the people who are dead, provides an opportunity for

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the poet to reflect about death and past life of every man who is in
the graveyard, with no distinction.

In front of this pain, Gray decides to use his poetry to celebrate


every single life of these man and is aware that this suffering may
be replaced by the memory of they, and this memory lives
timeless.

This is a poem that expresses the sentiment known as “memento


mori”, a reminder of our own mortality. In fact when the poet in
the first three stanzas describes a rural scene, he notices that the
scene is beautiful, but the life is not blissful. Thanks to this
countryside Gray reflects not only on the suffering that results by
the absence of the dead, but at the same tame the landscape offers
a reflection about the fate that every man have in common:
death’s destiny.
In particular in the second part of the elegy, the poet explains the
sentimental and pathetic side of the grave: the contemplation of
humble and raw graves of farmers suggest to Gray the image of
the dead who asks to the visitor at least a tear or a whisper for his
own fate.

The last three stanzas is the epitaph of the poem. Here, the poet
declares his grave is upon the lap of earth. He justifies his life as
worthwhile as he was generous and sincere. He concludes his
epitaph by stating the reader not to ask anything more about the
poet’s vice and virtues but leave it to God.
Gray's 'Elegy Written in a Country Churchyard' is the culmination
of the literature of melancholy as well as of the Churchyard
school. The poet reflects in the village cemetery on the graves of
the humble and poor in its generalizing treatment of traditional
themes and in the representative images evoking the country
scene.

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Il dolore che deriva dalla volontà
Schopenhauer nella sua opera il mondo come volontà e
rappresentazione (1819), mostra come il dolore derivi da una
continua mancanza che l’uomo ha e tale mancanza è data dalla
volontà.
Parte dal fatto che se noi fossimo solo conoscenza e
rappresentazione, non potremmo mai uscire dal mondo
fenomenico, ma poiché siamo anche corpo, non ci limitiamo a
vederci dall’esterno, bensì ci viviamo anche dall’interno. Ed è
proprio quest’esperienza che ci permette di squarciare quel velo
di Maya, che secondo il filosofo ricopre tutte le cose e rende la
realtà illusoria e mistificata, e di afferrare la cosa in sé.
Infatti, ripiegandoci su noi stessi, ci rendiamo conto che l’essenza
profonda del nostro io è la volontà di vivere, un impulso che ci
spinge ad esistere e ad agire.
E l’intero mondo fenomenico è la maniera attraverso cui la
volontà si manifesta.
Nel secondo libro della sua opera Schopenhauer infatti afferma:

Fenomeno significa rappresentazione, nient’altro: ogni


rappresentazione, di qualsiasi tipo essa sia, ogni oggetto, è fenomeno.
Cosa in sé, invece, è solo la volontà.

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Se l’essere è la manifestazione di una volontà infinita, la vita è
dolore per essenza.
Infatti, volere significa desiderare, e desiderare significa trovarsi
in uno stato di tensione per la mancanza di qualcosa che non si ha
e si vorrebbe avere. Il desiderio è, dunque, assenza.
Inoltre, per un desiderio che viene pagato, ne rimangono molti
altri insoddisfatti che continuano a generare nell’uomo uno stato
di insoddisfazione e, dunque, di dolore.
Schopenhauer arriva a ritenere che il godimento fisico e la gioia
non sono che cessazione di dolore: mentre quest’ultimo,
identificandosi con la volontà, è la struttura della vita, il piacere è
solo un derivato del dolore. Accanto al dolore egli pone la noia,
che subentra quando viene meno l’aculeo del desiderio e dunque
“la vita umana è come un pendolo che oscilla incessantemente fra
noia e dolore, con intervalli fugaci, e per di più illusori, di piacere
e gioia.”

Poiché la volontà si manifesta in tutte le cose, il dolore non


riguarda solo l’uomo, ma investe ogni creatura. Tutto soffre. E se
l’uomo soffre di più rispetto alle altre creature, è perché egli,
avendo maggior consapevolezza, sente di più la spinta della
volontà e l’insoddisfazione del desiderio.

Le vie di liberazione dal dolore


Dal momento che la volontà si oggettiva nel mondo fenomenico
come sofferenza e dolore, Shopenauer, per sfuggire alla schiavitù
della volontà, ritiene che sia necessario superare e negare il
mondo fenomenico in cui l’individualità dell’uomo è legata al
ciclo continuo di privazione-noia.
Il filosofo individua tre forme di conoscenza non fenomenica alle
quali corrispondono altrettanti gradi di liberazione dai mali della
volontà: l’arte, la morale e l’ascesi.

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 L’arte: nell’esperienza artistica, il soggetto contempla un
oggetto a prescindere dalle forme della rappresentazione,
ovvero spazio, tempo e causalità, e a prescindere dalla
volontà di possederlo. L’artista, e colui che contempla
l’oggetto, appaiono come soggetti di una conoscenza pura e
precedente al processo di fenomenizzazione. Allo stesso
tempo l’artista nega la propria individualità, liberandosi
dalla volontà particolare di possedere l’oggetto contemplato,
di cui diventa puro osservatore disinteressato. Genio è
dunque colui che è in grado di negare la propria
individualità per contemplare l’universale durante tutto il
periodo necessario a creare un’opera d’arte. L’arte rimane
comunque una liberazione temporanea per il soggetto che la
contempla, in quanto rimane ancora legata, seppure in parte,
alla volontà.

• La morale: rappresenta, invece, una liberazione più duratura dai


mali provocati dalla volontà. Perseguendo la virtù, l’uomo non
considera più se stesso contrapposto ad altri individui, ma
riduce ad un’unica realtà il suo io e quello degli altri, superando
ogni forma di conflitto. L’individuo per poter conseguire questo
obiettivo da un lato si deve limitare a non compiere azioni che
possano recare danni ad altri individui, rispettando il diritto che
si realizza esteriormente nella forma dello stato, e dall’altro si
deve impegnare ad assumere un atteggiamento ancora più
positivo, sotto forma di amore compassionevole e aiuto nei
confronti del prossimo. La compassione rappresenta quindi un
ulteriore passo verso la frantumazione della volontà e verso la
sua negazione, ma nella stessa compassione resta un elemento
di volontà.

• L’ascesi: rappresenta la via d’eccellenza per l’annullamento


della volontà: attraverso la sistematica mortificazione dei

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bisogni della vita sensibile, quali il desiderio sessuale per mezzo
del quale la volontà ha capacità di riprodursi, l’uomo potrà,
infatti, negare la volontà di vivere in se stessa.

Esito di tale processo di negazione della volontà è l’affermazione


della volontà, intesa come non-volontà.

Il disagio della civiltà


Anche Freud nella sua opera “il disagio della civiltà” tratta del
tema della sofferenza, un dolore che scaturisce principalmente
dalle relazioni con altri uomini.
Per spiegare questo Freud parte dal fatto che il soggetto non è
distaccato fin dall’inizio dalla realtà, infatti il lattante non
distingue tra ciò che lui è individualmente e ciò che è il mondo. Il
senso del distacco è poi avvertito da adulto quando definisce se
stesso e il mondo come oggetto al di fuori e fonte di dispiacere.
Distingue infatti ciò che scaturisce dal suo io e quello che
proviene dal mondo esterno. L’io quindi si distacca dal mondo
esterno: includendo tutto da principio (quando è lattante), in
seguito separa ciò che è diverso da lui. Il mondo quindi diventa

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per il soggetto un minaccioso al di fuori che vede come
contenitore di tutti i suoi dispiaceri.
Distaccandosene quindi si crea una sorta di protezione del suo io
chiamato io - piacere, creandosi un suo mondo fatto di soli
piaceri. La vita è troppo dolorosa per il soggetto il quale mira ad
un unico appagamento : la felicità.
Questo desiderio ha tuttavia due facce, una positiva e una
negativa: mira da un lato all’assenza del dolore e del dispiacere,
dall’altro all’accoglimento di sentimenti intensi di piacere. Il
programma per raggiungere il piacere stabilisce lo scopo della
vita, ma questo programma è in conflitto con il mondo intero;
tutti gli ordinamenti dell’universo si oppongono a esso e si
potrebbe dunque dire che nel piano della Creazione non è incluso
l’intento che l’uomo sia felice.
Le nostre possibilità di essere felici risultano quindi limitate,
mentre provare infelicità è meno difficile, in quanto la sofferenza
ci minaccia da tre parti:

1) dal suo stesso corpo, il quale è costretto a deperirsi, quindi il


soggetto è consapevole della sua precarietà.
2) dal mondo esterno che ci può distruggere
3) dalle relazioni con gli uomini, quindi dal confronto, dalla paura
della differenza, dallo scontro.

La sofferenza che ha origine nell’ultima fonte viene da noi


avvertita come più dolorosa delle altre e per questo la volontaria
solitudine, il distaccarsi dagli altri, sono il riparo più immediato
contro il tormento che possono arrecare le relazioni umane. Così
il mondo è causa di grave sofferenza quando lo fa stentare,
quando ricusa di saziare i suoi bisogni, come il soddisfacimento
pulsionale che può farlo arrivare alla felicità. Agendo quindi su
tali moti pulsionali si può sperare che il soggetto si liberi di tale
sofferenza.

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“Una pulsione, d’altra parte, non opera mai come una forza che d à un
impatto momentaneo, ma costituisce sempre una forza costante. Per di
più, dal momento che una pulsione opera dall’interno dell’organismo
e non dall’esterno, non ci si può sottrarre ad essa con la fuga. Un
termine migliore per identificare uno stimolo pulsionale è quello di “
bisogno”. Ciò che elimina un bisogno è l’”appagamento”, il quale può
essere ottenuto solo mediante un appropriato(adeguato) mutamento
della fonte interna della stimolazione.”

(SIGMUND FREUD, Pulsioni e le loro vicissitudini,1915)

Freud ritiene che la civiltà sia una tappa necessaria nel divenire
dell’umanità, ma che essa comporti un certo grado di infelicità.
Essa infatti porta l’uomo ad inibire molti desideri e pulsioni e a
rinunciare al soddisfacimento di molte esigenze, a meno che non
possa deviare verso delle mete socialmente e moralmente
accettabili, come ad esempio la sublimazione.
Le ragioni che inducono la società a reprimere la libido sono
chiare: da un lato deve neutralizzare una forza che opera in modo
individualistico e amorale, come per esempio il principio di
piacere ed il costituirsi del mondo piacevole del soggetto,
puramente individuale, minando quindi i presupposti stessi della
convivenza civile; dall’altro la società non può fare a meno delle
forze e dell’energia dei suoi membri e dunque deve obbligare
ciascuno di essi ad investire l’energia in prestazioni di tipo
socialmente accettabile. Vi è quindi la necessità di reprimere gli
istinti distruttivi e la civiltà lo fa attraverso norme, divieti, metodi
educativi. Però, visto che è necessario il dominio del Super-Io
(cioè la censura mentale) sull’Es (luogo della mente dove sono
racchiuse gli istinti), allora un certo grado di infelicità di
sofferenze è connesso con la civiltà.

L’uomo non può vivere senza la civiltà ma nella civiltà non può
vivere mai del tutto felice. L’uomo potrà trovare, tra le pressioni

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delle varie pulsioni e la necessità di costringerle, soltanto una
tregua mai la serenità completa.
Quindi, in primo luogo, il concetto della vita umana individuale e
sociale, come costituita da un conflitto immanente che può
trovare soluzioni o equilibri solo parziali, è l’antitesi della
concezione classica secondo la quale l’anima e, quindi, la società
umana sono sistemi di potenze destinate a cooperare insieme e
scambievolmente e il cui conflitto è un’eccezione insignificante;
in secondo luogo l’uomo come individuo con pulsioni specifica il
carattere terrestre dell’individuo; in terzo luogo il riconoscimento
dell’azione che la società esercita sull’uomo attraverso la
cristalizzazione del super io equivale al riconoscimento
dell’aspetto sociale della personalità umana.

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