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OPERE PETRARCA PRIMARIE

SECRETUM
(Ariani) Il titolo non vuol sottrarre il libro al pubblico, ma enuncia appunto l’oggetto della disamina
(l’intimo conflitto «curarum suarum») e la cruda durezza dell’analisi, da negare, per un’esigenza di
decorum, all’indebita curiosità dei contemporanei, ma scrupolosamente documentata per i
posteri. Il Secretum è un rendiconto di almeno un decennio di «crisi permanente», dalla prima
avvertenza di impraticabilità delle opere intraprese alla scelta di Milano, nel 1353, come soggiorno
italiano. Il genere letterario prescelto è il dialogo platonico-ciceroniano che consente al Petrarca
una nitida scansione dei termini del conflitto, pur rientrando nell’interesse per gli exempla,
rappresenta una svolta radicale rispetto a congeries filologico-erudite che aveva scritto in
precedenza. All’incipit, con l’evidenza dell’aggancio citazionale agli attacchi dei Soliloquia
agostiniani e della Consolatio Philosophiae di Boezio, marcati dal comune rinvio a Cicerone,
Petrarca ha affidato il compito di segnalare al lettore le coordinate ideologiche e culturali del
dialogo. Petrarca però ha sostituito se stesso, come agens, alle personificazioni (Ratio e
Philosophia) dei modelli, inventando una terza dramatis persona (la Veritas) che corregge la
dicotomia dialogica in una struttura triadica perfetta e asimmetrica, per il silenzio di Verità giudice
imparziale. In questa maniera l’autore ha innovato il codice della confessio sostituendo un agens
autobiografico all’io narrante delle Confessiones agostiniane e garantendosi così un’oggettività
storicizzante che lascia impregiudicati i termini dialettici del soliloquium senza celarne la veridicità
di testimonianza in factis. Il Proemio sceneggia infatti l’azione dialogica in forma di visio: a
Francesco che sta meditando sulla morte, appare la Verità in compagnia di Agostino, venuto a
soccorrerlo e a curarlo dalla malattia (le passioni terrene) che lo affliggono. L’incipit ha una qualche
affinità con i canti proemiali della Commedia: l’inquadratura visionistico-allegorica della altercatio
tra Agostino e Francesco «in secretiorem loci partem» e l’esplicito senso simbolico della durata
temporale del dialogo (tre giorni), hanno la funzione di garantire al Secretum meum il valore di
un’esperienza veridica, assoluta ed esemplare. La Veritas è una allegoria, visualizza il dissidio
interiore e per Petrarca significa la realtà storica della sua peregrinatio. Questa esige un pubblico
che constati e sancisca l’avvenuta curatio dell’«historicus et poeta» ossessionato dalle passioni che
ostacolano l’ambita esemplarità.

TRAMA: Il primo libro chiarisce che quella di Francesco è una malattia della volontà: Agostino
rimprovera all’interlocutore una corrosiva inettitudine a far corrispondere al velle, il posse, di
capire cioè che «il principio della mia infelicità è nato dalla mia stessa volontà». Francesco dovrà
distruggere ogni cupiditas e perseguire un solo desiderio, quella «concupiscentia summe
felicitatis» a cui si giunge solo attraverso il disprezzo del corpo e un’assidua meditatio mortis.
Francesco non si capacità che la scoperta della propria fragilitas non lo induce ancora ad una
conversio, ma Agostino oppone l’urgenza di una liberazione da quella «pestis fantasmatum» che
gli ossessiona l’anima. Questa è prigioniera di un corpo-carcere che, soggetto alla corruzione,
ingenera le passioni e intrappola Francesco in una «mira fluctuatio», ne disintegra la personalità in
un’«intestina discordia» dominata da una anxietas che «ha orrore delle sue macchie e non le lava;
conosce la tortuosità della strada e non l’abbandona; teme il pericolo incombente ma non lo
scansa». Nel secondo libro Agostino procede a demolire la superbia di Francesco a fronte di
un’universale fragilitas delle cose umane travolte dal tempo e lo sollecita ad una vera consideratio
dell’«humilitas conditionis». Il richiamo al nosce te ipsum (conosci te stesso) mette in moto una
spietata autoanalisi del paradosso che regola la vita terrena: l’esame dei peccati capitali che
tengono lontano Francesco dalla virtù, infrange le rovinose lusinghe fantasmatiche del corpo-
carcere e conduce la curatio agostiniana al fondo delle contraddizioni di Francesco, l’atra voluptas,
l’oscuro piacere del peccato. Vi sono, ancora peggiori, due ferite intrattabili e incise nell’intimo alla
cui disamina è dedicato il terzo libro: due catene che non consentono di meditare né sulla morte
né sulla vita, «amor et gloria» per Francesco sentimenti nobilissimi, per Agostino la peggiore delle
pazzie. Così Agostino aggredisce il mito di Laura, un piccolo corpo corruttibile assoggetato al
tempo e alla morte nella cui contemplazione Francesco ha smarrito la «nativa virtus», perché ha
allontanato l’animo dall’amore celeste e ne ha deviato il desiderio dal Creatore alla creatura. Il
desiderio di Laura è diventato desiderio di gloria, legando alla prima la seconda catena. A quel
punto Francesco confessa il «maior morbus» per il quale, secondo Agostino, ha obliato se stesso,
in cui ha sprecato il suo tempo e che lo distolgono dalla contemplazione e dal desiderio
dell’eterno. Francesco conviene sulla necessità, fatta presente da Agostino, di riappropriarsi di se
stesso, ma si confessa non ancora in grado di resistere al desiderio delle cose terrene. Il Secretum
è la drammatizzazione di un dissidio irrisolto tra due culture, una ascetica e l’altra mondana, che
sono entrambi seducenti per Petrarca. Alla fine il dialogo ha una sospensione: Petrarca lascia
impregiudicati i poli contrapposti del paradosso.

La riconsiderazione globale della propria esperienza ha indotto Petarca a contrapporre due culture
di fatto conflittuali: l’ascetismo medievale e l’etica classica della virtus contrapposta a Fortuna. La
‘segretezza’ del dialogo è implicata dalla sua stessa ambiguità epistemologica, che poteva
contrastare con l’immagine che Petrarca aveva deciso di costruire per i contamporanei attraverso
il De vita solitaria e il De otio religioso, le Familiares e il De remediis, quella dell’intellettuale
disinteressato e del filosofo intento alla meditatio mortis. È per questo che il Secterum offre una
più forte densità filosofica con Petrarca che traccia una mappa interiore, abitata da simboli che
devono a Platone, a Cicerone, a Seneca la loro alta funzionalità psicagogica, ossia un immaginario
‘terapeutico’ che cura i morbi dell’anima. È la ratio, impersonata da Agostino, a fornire al
perseguitato dalla Fortuna i remedia di una percussiva meditatio mortis: l’immagine dello specchio
interviene strategicamente a coniugare i dati della decadenza corporea con i dati dell’autoanalisi
coscienziale. La curatio agostiniana delinea un paesaggio dell’anima come luogo di avventure
coscienziali alla ricerca del remedium: il bivio pitagorico. Anche le identificazioni mitografiche di
Francesco con Narciso e Orfeo, polemicamente introdotte da Agostino, fissano il disocrso su
antitesi inconciliabili: la corporeità e lo specchio che la riflette nel suo delusivo splendore, l’assenza
e la perdita dell’amata che celebrano lo sfarinarsi del vissuto in una fantasmatica confusio.
L’auctor ha sottoposto la sua controfigura mondana alla violenta intromissione della sua altra
controfigura ascetica, Agostino, compresenti in una conflittualità intrinseca, costituzionale alla sua
cultura e ideologia. Il ‘libro segreto’ faceva dunque parte di un progetto che prevedeva la
costruzione di un autoritratto complesso e contraddittorio ma proiettato alla finale conversio in
Deum: che gli toccasse la parte di un messaggio ai posteri piuttosto che ai contemporanei, è il
portato di un’astuta strategia culturale da Petrarca sistematicamente perseguita.

(Rico-Marcozzi) Venne iniziata la composizione nel 1347 e viene considerata l’opera più
significativa per l’evoluzione intellettuale di Petrarca, cui egli affidò la creazione di un suo nuovo
ritratto modellato sulle Confessioni di Agostino e sul percorso di conversione del Padre della
Chiesa: il Secretum meum, nei cui tre libri – corrispondenti a tre giornate – è inscenato un dialogo
tra Franciscus e Augustinus. Costui, al cospetto della Verità che assiste muta, interroga il proprio
interlocutore invitandolo a una profonda analisi della sua interiorità: nel libro I si tratta della
debole volontà di Petrarca, nel II si assiste a un esame di coscienza modellato sull’escussione dei
peccati capitali, nel III sono affrontate le due sue passioni, l’amore per Laura e il desiderio di gloria
letteraria. L’opera non era destinata alla circolazione, e fu Tedaldo della Casa a copiare (a Padova
nel 1378) il testo e le annotazioni dall’autografo petrarchesco nel Laurenziano XXVI sin. 9, che
fornisce anche indicazioni sulla complessa elaborazione del dialogo. Petrarca data l’azione tra il 12
novembre 1342 e il 6 aprile 1343, ma gli anni – 1353, 1349, 1347 – segnati a margine della carta
243 r della copia di Tedaldo, e sicuramente derivanti dal suo antigrafo, rappresentano senza
dubbio quelle della stesura dell’opera: composto originariamente nel 1347, il Secretum passò per
un’altra versione nel 1349 e acquisì la sua forma attuale in un rifacimento integrale, nell’inverno e
in prossimità dell’inizio della primavera del 1353. Dopo questa data Petrarca non lo ritoccò più, ma
rileggendolo nel 1358 vi appose le postille marginali che ne segnano le date di composizione e
rifacimento.

FAMILIARES
(Ariani) L’invenzione di un epistolario che promuovesse il privato è l’impresa più nuova
dell’umanesimo petrarchesco. L’autore denuda se stesso e offre i suoi errori quale materia
esclusiva della comunicazione epistolare. Quel che conta è l’orditura del libro costruito a forza di
sottrazione e autocensura onde eliminarne contraddizioni e dissonanze. L’epistola proemiale Ad
Socratem suum (datata 13 gennaio 1350) è un testo capitale per enucleare le tecniche di
smontaggio e rimontaggio applicate da Petrarca allo sterminato prodotto della sua confessata
grafomania. La mutatio animi e l’universale caducità autorizzano l’epystolarium ordo, la
ricostruzione a posteriori di eventi che solo la riscrittura può riscattare dalla casualità e dal
disordine imposti da Fortuna. La veridicità del documento epistolare deve però piegarsi a un
progetto che ne elevi l’altrimenti indecorosa immediatezza: di qui il processo di lucida
autofalsificazione messo in atto tramite l’inserimento di lettere fittizie, il rifacimento di quelle
ammesse alla silloge, la frantumazione di alcuni pezzi e il loro montaggio in altre unità epistolari. Il
lungo processo elaborativo – dal 1351 al 1366, da un primitivo progetto in 12 libri a quello
definitivo in 24 – risponderà poi all’esigenza di far coincidere la progressività sempre aperta del
libro con la calcolata aleatorietà della vita esemplata, per cui da un certo momento in poi, ogni
missiva effettivamente inviata è già pensata per una sua precisa assunzione nell’epystolarium
ordo. L’architettura della silloge si regge su ben calibrati bilanciamenti: ad un libro I di pretesi
iuvenilia fa da speculare pendant il XXIV. L’epistolario culmina nell’istituzione di una biblioteca
esemplare che è anche una simbolica sequenza di verità indiscutibili anche quando il moderno
auctor si permette di discutere certe debolezze dei suoi antichi interlocutori. Si tratta di una vera e
propria autobiografia delle lettere, per stazioni diaristiche esemplari e, di fatto, decontestualizzate
per forza di sequenze predeterminate all’esito edificante: una struttura tautologica, che trova
giustificazione nei principi da essa stessa predisposti. I Familiarum rerum sono una straordinaria
enciclopedia intellettuale di nuovo impianto umanistico, al cui centro è l’infinita sfaccettatura del
viator in itinere, con le sue ossessioni e gli idoli polemici, le fantasie proiettive e gli intenti
didascalici, edificanti, civili, l’utopismo politico e le supreme squisitezze di una curiositas insaziabile
che fa spettacolo di se stessa. Il cosmico conflitto dei contrari, che troverà nelle Seniles e nel De
remediis memorabili pointes definitorie, dà alla scrittura delle Familiares un tipico procedimento
avvolgente, che consiste nel variare con sottili e sofisticate espansioni certi topoi che Petrarca ama
detrarre dall’assurdo del mondo, dall’immedicabile discrasìa tra desiderio e colpa, tra memoria e
perdita. Il gioco delle antitesi è non soltanto un modulo retorico, ma uno strumento di autoanalisi,
ma sempre sullo sfondo di un coinvolgimento universale. Petrarca amava molto il meccanismo di
demistificazione e auto smascheramento sanzionato da Orazio: è una stessa fabula ad
accomunare l’epistolografo al suo corrispondente, e alla platea dei lettori e clientes che pende
dalle sue labbra, nella sarcastica indagine sui contraria, insiti nella demenziale diffrazione tra
desiderio (votum) e disgregazione della soggettività (plures voluntates). L’affabuilazione
petrarchesca fissa una sententia come nucleo semantico generatore del discorso, per poi
dipanarne e diramarne il senso fino ad enucleare tutte le potenzialità contraddittorie, in una sorta
di avvolgente ma statica superfetazione dei nessi di senso impliciti. Ma tutto queto sempre in
un’oggettiva, fredda constatazione di una onnipervadente coincidentia oppositorum, come se la
sostanza del mondo e dell’esserci fosse soltanto un’immane, incombente antitesi e non restasse
che seguirne, assecondandone la frastagliata direzione, i sottili, smarrenti meandri. Il libro offre
anche le proprie coordinate letterarie: mai come nelle Familiares i problemi della scrittura sono
stati affrontati con una tale acuta attenzione agli strumenti di un’officina esibita, dall’autore, come
tecnicamente impeccabile. Il rovello della imitatio e dell’abstinendum verbis, dell’artificiosa
connexio e della reciproca implicazione tra artificio e infanno, della fictio, dell’eloquenza latina e
volgare, dell’allegoria e dell’exemplum, tramite il grande tema agostiniano della amans memoria si
intrecciano con la drammatica dialettica assenza-ricordo, al dulce amarum dei vite laquei, i ‘lacci
della vita’, alla lugendi dulcedo, ‘la dolcezza del piangere’, al sogno e alla fortuna: temi che
svariano tra eventi politici e cronachistici, calamità personali e collettive, virtù e vizi pubblici e
privati, in una sorta di vorace resoconto universale del possibile.

(Rico – Marcozzi)In una fase iniziale, a partire dal 1345, la compilazione dovette ricevere il nome di
Epystolarium ad diversos liber e prevedere una divisione in dodici libri. Fra il 1351 e il 1353 la
raccolta, che aveva raggiunto gli otto libri, assunse il titolo di Familiarium rerum libri; nel 1356 il
progegtto si allargherà fino a comprendere venti libri. La sistemazione definitiva della raccolta
cominciò nel 1359 e due anni dopo le Familiares raggiungevano il libro XX. Nel 1363-1364 vennero
aggiunti altri quattro libri, e ancora nel 1366 la raccoltà recepì alcune lettere isolate, anche se le
date dei testi non superano mai il 1361, anno di morte del dedicatario Ludovico di Beringen. Per
parecchie Familiares l’editore Vittorio Rossi è riuscito a individuare tre redazioni distinte:
«l’originale (testo ) corrispondente alla lettera quale fu effettivamente spedita al destinatario e
conservata poi in raccolte miscellanee messe insieme dai corrispondenti stessi o comunque da
ammiratori del poeta; una redazione intermedia  che il Petrarca fece, sulla copia che conservava
di ogni lettera, in un primo assestamento della raccolta; il testo definitivo , quello che le lettere
assunsero in seguito all’ultima revisione, fornendo uno schema verificabile anche per molte altre
opere di Petrarca. Importante testimone è il manoscritto Marciano latino XIII 70 (= 4309)
conservato a Venezia, idiografo compilato tra il 1363 e il 1364, con correzioni apportate a mano
dell’autore, che costituisce un primo assemblaggio dei libri XX-XXIII. Nel 1366 l’epistolario,
comprendente trecentocinquanta lettere, fu trascritto da un copista di fiducia di Petrarca. Lungo
tutto il complesso processo di elaborazione solo un libro mantenne sempre la propria posizione
all’interno dell’opera: il XXIV e ultimo, indirizzato «ai più illustri tra gli antichi» - «antiquis
illustroribus» -, ovvero Cicerone, Seneca, Varrone, Quintiliano, Livio, Asinio Pollione, Omero,
Orazio e Virgilio. Varie lettere nel passaggio dal testo  al testo  soppressero o travestirono il
nome del destinatario originale, altre furono fuse tra loro in una sola o smembrate in più lettere, e
in genere subirono una quantità di modifiche intese, in linea di massima, a velare le circostanze
storiche concrete della loro prima stesura e, per contro, ad alzarne il tono e nobilitarne il valore
didattico. In effetti, come ha illustrato Billianovich, praticamente tutte le lettere del libro I e diverse
del libro II e dei libri seguenti sono missive fittizie, inventate da Petrarca fra il 1350 e il 1351 e
destinate a interlocutori altrettanto fittizi o ad amici già morti, allo scopo di prolungare
l’epistolario all’indietro nel passato, fino alla prima gioventù del poeta, nonché di fornire ad alcuni
temi importanti una trattazione più ampia e articolata nel tempo. Non mancano comunque lacune
temporali che lasciano nell’ombra molti momenti della biografia: l’opera ha così raggiunto la
posterità nelle forme volute e scelte dell’autore stesso, secondo il progetto autobiografico che, da
qui in avanti, contraddistinguerà gli interessi intellettuali di Petrarca, nella sua trasformazione da
storico in filosofo morale che volge ogni attenzione e forza all’analisi della propria anima.
EPYSTOLARIUM LIBRI TRES
(Ariani) Petrarca separa le epistole in versi da quelle in prosa e dedica le prime al suo grande
amico, Barbato da Sulmona. La proemiale Epystola I 1 fu inviata a Barbato solo nel 1358 e la
raccolta completa pervenne al dedicatario solo nel 1364, l’anno stesso della sua pubblicazione. Le
Epystole sono di tutte le opere di Petrarca le meno schermate, nel senso di un collettore
composito di componimenti in esametri di cui non è dissimulata l’occasionalità, spesso umile e
quotidiana. La volontà dell’auctor è quella di configurare le Epystole come una collettanea, una
sorta di contenitore aperto in cui l’autoritratto lasciasse trasparire qualcosa di quei sedimenti,
detriti esistenziali, di quelle discrepanze eliminate invece, con accanita sistematicità, dalla raccolta
complementare dei Familiarum rerum. Si tratta quindi di un collettore di materiali espunti in
quanto non facilmente omologabili in un libro pensato e costruito come un sistema in cui tutto
deve tenersi senza dissonanze. L’apparente disordine è il criterio ordinatore della raccolta: il
modello oraziano, rigorosamente assunto a prendere le distanze da recenti esperimenti
metricamente inammissibili, offriva un’autorizzazione inattaccabile alla mediocritas della scrittura,
degli argomenti e dell’orditura complessiva. All’insegna della varietas Petrarca ha dunque
architettato l’apparente caos delle Epystole: le ‘umili’ occasioni di una Valchiusa sottratta al tempo
convivono con gli eventi di una vita ‘forzatamente’ pubblica e complessa. Ma nella raccolta
Petrarca ha strategicamente dislocato alcuni testi capitali per ombreggiare con sapienza
l’autoritratto: le ricadute nei lacci d’amore, il labirinto avignonese, le ossessioni del tempo, di
fortuna, di voluptas, morte, vanitas, bivio, della inanis gloria e della caducità, la condanna della
sua età signoreggiata da fortuna, voluptas e dedecus. Temi elaborati nelle grandi confessioni di I 6
e I 14, dove il fantasma perseguitante di Laura «dulce caducum» assume le sconvolgenti fattezze di
un incubo e il vanitas vanitatum degrada l’auctor a smarrito viator aggredito da impetuosa
voluptas, che ottenebra ratio e non lascia altro scampo a una perenne infelicità. Il sofisticato
montaggio di elementi classici e medievali non nasconde cioè un’antinomica epicizzazione dell’io,
che studia se stesso come privilegiato bersaglio dell’ineluttabile annientamento causato dalla
rapinosa corsa dei giorni, ma nel contempo dilata la propria interiorità a specola privilegiata da cui
osservare e giudicare il volucer cursus delle età. Il diarismo delle Epystole, che si radicano
cronologicamente ai primordi dell’attività petrarchesca, è dunque sintomatico di un pervicace
esercizio della contaminotio come modalità compositiva e luogo di conflittuale confronto tra le
diverse tensioni del meditare petrarchesco. La tormentosità dell’iter esistenziale è la condizione
stessa, dunque, per cui si possa formare una credibile autobiografia: il narcisismo dell’io messo in
scena prevede, per statuto retorico, l’esibizione delle ferite e degli sforzi per sanarle: l’epistola in
versi, come genere dell’understatement, dell’umile diario delle ‘occasioni’ contingenti, produce
una sorta di sublime della quotidianità dilacerata, un’esperienza del basso come piedistallo per
un’atteggiata ostentazione autobiografica. Qualunque sia infatti l’indice di veridicità del vissuto
esibito, è alla scrittura e solo ad essa, sovrana artefice della fictio, che pertiene il potere di
trasvalutare la quotidianità in exemplum.

(Rico – Marcozzi) Sono conosciuti comunemente come Epystole metrice, raccolgono sessantasei
componimenti in esametri, suddivisi in tre libri (quattordici nel I; diciotto nel II; trentaquattro nel
III), testimoni «di una produzione tipicamente petrarchesca, il dialogo poetico con amici e inimici,
presenti e lontani». Redatti per la maggior parte fra il 1331 e il 1351, comprendono anche esercizi
poetici assai precoci, come il Panegyricum in morte della madre Eletta (I, 7) e posteriori, come
Epystole metrice III, 29 del 1359. Dalla raccolta rimasero esclusi una lettera a Rinaldo Cavalchini
(scoperta nel 1987 da Michele Feo), un carme in distici elegiaci, l’epistola Exul ab Italia e qualche
altro componimento minore. Tramandate da parecchi manoscritti, molte Epystole circolavano
singolarmente e in versioni non sempre corrette. Nel 1364 Petrarca dispose la pubblicazione
dell’opera, al termine di un lungo processo di scelta, ordinamento e revisione cui sono attribuibili
non solo le varianti testuali dei codici, ma anche la sostanziale omogeneità stilistica della redazione
finale, tràdita, fra gli altri, dal codice Laurenziano XXVI sin 3, trascritto da Tedaldo della Casa, e
soprattutto dal Laurenziano Acquisti e Doni 684, che offre una versione molto vicina all’originale. Il
quattrocentesco Laurenziano Strozzi 141 riporta invece un’ampia collezione dei testi precedenti
alla riorganizzazione e alla rielaborazione (fase ).

RERUM SENILIUM LIBRI


(Ariani) È un’altra raccolta epistolare che, come le Familiares, è concresciuta in sincronia con le
occasioni reali della corrispondenza. L’ambiguità tra letteratura e vita è ancora più forte, perché
Petrarca ha continuato a trascegliere da un materiale più vasto, senza esimersi dall’incastonare,
tra le lettere accolte, distribuite in 17 libri, alcune fittizie e alcune originali spezzate e ricombinate
con altre. Ideati nel 1356 quando la prima silloge sembrava destinata ad allargarsi a dismisura, nei
Senilium rerum la coincidenza fra temporum ratio e acquisizione nel libro della missiva eletta
comporta comunque un parziale mutamento tipologico. Il lungo arco temporale dal 1354 al 1374 –
avrebbe dovuto culminare nel definitivo autoritratto, quello della Posteritati che, rimasta
incompiuta, avrebbe da sola costituito il libro XVIII. La silloge si conclude su un estremo
documento polemico dell’umanesimo petrarchesco (XVII 3), la traduzione in latino della Griselda di
Boccaccio (Dec. X 10), con la quale veniva ribadito il rigoroso discrimine tra classicismo latino e
letteratura volgare. I motivi del pessimismo petrarchesco trovano poi nella straordinaria
paradossografia di Seniles XI 11, un’impressionante ostensione brevibus dell’universale concors
discordia, con uno sterminato regesto e accumulo di concrezioni ossimoriche, un pulviscolo di
fragmenta sintattici dove la materia del De remediis sembra concentrarsi nelle violente cifre
sintetiche di una visione del mondo ossessionata dall’eraclitea guerra di tutto contro tutto.

(Rico – Marcozzi) È dedicata a Francesco Nelli, al quale Petrarca diresse nel 1361 da Padova la
lettera proemiale. Le Seniles si presentano come complete, in quanto munite di una lettera di
chiusura datata «Inter Colles Eugeneos VI idus Iunias millesimo trecentesimo LXXIIII». Poco più di
un mese dopo Petrarca sarebbe morto. La vicinanza della data dell’epistola conclusiva e quella
della morte ci dice che la raccolta, pur se condotta a termine, non poté ricevere l’ultima mano. I
testimoni sono concordi per numero di libri e numero e disposizione delle lettere all’interno dei
libri (diciassette per un totale di centoventisette lettere), se si eccettua il fatto che l’editio princeps
ne aggiunge un diciottesimo con l’epistola Ad Posteritatem. È probabile che , come le Familiares
sono chiuse dalle lettere agli antichi, Petrarca volesse concludere le Seniles rivolgendosi ai posteri.
I temi della vecchiaia e della morte percorrono tutto il libro. Al centro dell’opera è collocato un
lungo elogio della vecchiaia vista come una stagione di quiete ed equilibrio interiore.
All’autobiografia ideale che veniva tessendo con le sue raccolte epistolari Petrarca voleva dare il
senso di un esemplare cammino di salvezza, dalle tempeste e dalle passioni giovanili fino alla
conquistata serenità e saggezza della vecchiaia. Due lettere propongono modelli ideali di
condottiero e di governante. Grande spazio occupa la questione della sede pontificia riportata
temporaneamente a Roma da Urbano V. Continua è la polemica contro i dialettici, gli astrologi, i
medici. Attraverso le Seniles si ricostruisce gran parte della biografia petrarchesca dal 1361 in poi,
ma alcune, come Seniles X 2 e XVI 1 con le loro lunghe rievocazioni autobiografiche, sono
importanti anche per gli anni precedenti.

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