Sei sulla pagina 1di 17

RERUM VULGARIUM FRAGMENTA

(Ariani)
GENESI DEL LIBRO: Dopo aver costruito organismi complessi come i Familiarum rerum e il De
remediis col duplice procedimento della recollectio di scritti già esistenti, Petrarca si arrovella per
decenni intorno alla sfida dell’invenzione di un libro di poesia volgare. All’inizio c’è una ossessione:
ricostruire nella scrittura una vita con gli sparsa fragmenta. Questa esistenza contemporanea tra
vita e letteratura nel processo organizzativo dei libri è fondamentale: l’ordine testuale si
costituisce su un ordine imposto alla fictio autorappresentativa che in quel dato testo deve trovare
un assetto esemplare. La mutatio animi, attestata nel Secretum, e la sapienza del senex, che
giudica l’errore giovanile sono gli strumenti etico-ideologici su cui si fonda il lavoro stesso di
riassunzione degli sparsa fragmenta. Del Canzoniere sono distinguibili nove redazioni, per cui è
stato possibile scevereare le fasi successive di un work in progress sensibilissimo a motivazioni
ideologiche, culturali e autobiografiche. Una prima traccia del libellus è risalente al 1330, con un
nucleo di 25 componimenti raggruppati in una «raccolta di servizio». Una prima «forma» di
serialità organizzata, dotata di un componimento proemiale (RVF XXXIV) è quella del 1342 dove il
mito di Dafne già dispiega e dissemina i senhal di Laura-Lauro. Fra il 1347 e il 1350 già 150
componimenti sarebbero stati proemiati da RVF I e darebbero vita ad una «seconda forma» già
organizzata secondo una progressione cronologico-diaristica suddivisa in rime in vita e in morte: lo
spartiacque era RVF CCLXIV. Ma è solo con la cosiddetta «forma Correggio», elaborata tra il 1356 e
il 1358, che la struttura del libro viene a delinearsi: RVF I – CXX, la ballata Donna mi vene, CXXII-
CXLXIV, CCLXIV-CCXCII, costituiscono già un iter autobiografico riconoscibile, anzi sono già un
«canzoniere» compattato secondo regole che solo la redazione definitiva oblitererà
completamente. Una quarta «forma», detta «Chigi», viene lavorata tra il 1359 e il 1362 con
l’aggiunta di altri 32 componimenti alla prima parte e 12 alla seconda. La quinta forma, di mano di
Giovanni Malpaghini risale al 1366-67 ed è completa tra RVF I-CLXXVIII e CLXXX-CXC per la prima
parte, CCLXIV-CCCXVIII per la seconda. Seguono una sesta «forma», detta «pre-Malatesta»,
lavorata tra il 1367 e il 1371-72 e una settima, detta «Malatesta», perché inviata a Pandolfo
Malatesta, signore di Fano, che gliene aveva fatto richiesta. C’è poi un’ottava detta «Queriniana»
perché rappresentata dal manoscritto D II 21 della Biblioteca Queriniana di Brescia, dalla quale è
espunta la ballata Donna mi vene e che presenta, nella seconda parte, l’ordine CCLXIV-CCCXXXIX,
CCCXLII, CCCXL, CCCL-LII, CCCLIV, CCCLIII, CCCLV, CCCLXVI. E infine una nona che adempie
finalmente alla forma del Vaticano 3195 – tra il 4 gennaio 1373 e il 18 luglio 1374.- con la sequenza
definitiva e un riordinamento di 31 componimenti, per dislocare, a ridosso della canzone della
Vergine i sonetti di ‘pentimento’. L’attenzione maniacale al libro, anche nella sua forma materiale,
non rimase senza esiti nella tradizione editoriale, manoscritta e a stampa: i più di 200 codici tre-
quattrocenteschi inventariati dipendono tutti, con scarti poco significativi, proprio dalle quattro
‘edizioni’ approntate da Petrarca stesso (Chigiana, Queriniana, Malatestiana e Vaticana). Per la
prima volta l’auctor è stato anche l’artefice dell’archetipo da cui dirama la «fortuna» della sua
opera, anche se l’equivoca autorevolezza delle «forme» intermedie continua a lungo a provocare
una circolazione del libro non necessariamente nella fisionomia definitiva sancita dal Vaticano
3195. La prima edizione autorevole per avere una «vulgata» per tutti gli editori è l’edizione curata
da Pietro Bembo del 1501 che poté lavorare sul Vat. Lat. 3195.

IL LIBRO DI POESIE: Ci sono alcuni criteri ordinativi che in Petrarca maturano definitivamente dopo
la morte ‘fisica’ di Laura: la disposizione diaristica del libro, con una progressione cronologica
scandita da componimenti ‘di anniversario’. A parte il sonetto proemiale, il numero dei
componimenti – 365 – risillaba giorno per giorno una misura in sé astratta – un anno -, ma
simbolica e riassuntiva della durata iterativa in cui le stazioni della vicenda amorosa sono
singolarmente segnate. Tra la data del primo incontro, il 6 aprile 1327, e la morte di Laura, il 6
aprile 1348, il diario viene costruito per forza di rammemoramento ossessivo-iterativo: l’anno
simbolico è sommatorio, si dilata e si ripete in una serie temporale incisa da appuntamenti
memoriali. L’ossessione diaristico-memoriale trama la progressività del libro stesso, ma in limine
alle rime «in morte» la scansione degli anniversari dirada. La morte impone una cronologia
diversa, puntata ascensivamente al superamento della linearità consecutiva in una dimensione
atemporale. Il 6 è il pernio numerologico del libro che avvalora le date dell’incontro e della morte
di Laura nel numero calendariale dei 366 componimenti, in cui appare appunto due volte e in cui
‘rinasce’ dalla somma dei suoi fattori come se le due date fatidiche contenessero il ritorno annuale
della memoria innamorata in cui si esaurisce simbolicamente l’intero tempo mondano. La mutatio
animi, indotta proprio dalla natura redentrice dell’amata, taglia in due la serie cronologica
ritardando, alla soglia delle rime «in morte», la segnatura dell’evento ferale annunciato solo in
RVF, CCLXVII. Un effetto di sfasatura, anticipato, dai sonetti di presentimento della morte di Laura
(CCXLVI-CCLIV) e provocato dalla sovrapposizione, sull’io fittizio-agens nel romanzo, dell’auctor
onniscente, che dispone la serie secondo una ricerca di verosimiglianza diaristica. Petrarca ha
voluto porre il proprio libro in una tradizione ben precisa – Orazio, Properzio, Tibullo, Ovidio, il
Cicerone epistolare, le Confessiones agostiniane – ma procede poi per conto proprio inventando
una struttura che semmai deve qualcosa a taluni, ben individuati precedenti romanzi. Alcuni poeti
provenzali, a lui ben noti, avevano già organizzato nuclei di componimenti che possono far
pensare a dei veri e propri incunaboli della forma-canzoniere. Ma saranno stati due autori volgari a
lui ben più vicini a inventarsi la forma canzoniere: la trafilatura ordinata secondo blocchi narrativi
escogitata da Guittone d’Arezzo per i propri sonetti e la recollectio di componimenti preesistenti
nella sequenza narrativa della Vita nova di Dante. La tecnica dell’operazione è la stessa: costituire
una storia d’amore cronologicamente scandita trascegliendo e ordinando una produzione già
esistente e di una certa consistenza per combinarla con testi esposti ad hoc per riempire o dare
senso a vuoti autobiografici scoperti à rebours. Da Guittone e Dante, Petrarca apprende anche «la
tecnica di connettere i singoli microtesti mediante riprese lessicali, ritorni di immagini e sviluppi
tematici». L’ossessione della recollectio di sparsi frammenti esistenziali-testuali, trasformata
dall’auctor in principio ordinatore dell’io-agens disgregato e inscritto nella fictio narrativa, è
dunque il criterio sommatorio del libro volgare, da cui si diramano tutte le innervature simboliche,
ideologiche e morali che lo ordiscono, secondo un progetto di assoluta congruenza e compattezza
che non ha precedenti nella tradizione classica e romanza.

RIME IN VITA E IN MORTE DI MADONNA LAURA: Il sonetto proemiale istituisce il discorso


d’amore su una divaricazione temporale tra passato e presente. Ciò implica una duplice scissione:
dell’io lirico (l’agens della vicenda amorosa e l’auctor che la scrive post eventum o che ne raccoglie
le sparse, pregresse tracce) e dell’oggetto del desiderio (Laura viva in illo tempore/Laura morta hic
et nunc). I componimenti in vita vengono inscritti a posteriori nel libro, il giudizio morale di
condanna che li sigilla in passato e nella sanzione di irriconoscibilità, impone una prospettiva
nichilista anche a quella fame amorosa. L’exitus di Madonna e la definitiva conversio in Deum sono
i punti di fuga retroattivi che distanziano temporalmente e ideologicamente il vaneggiar in rime
sparse dall’atto fondante della loro riconsiderazione ‘postuma’, dalla prospettiva dell’io narrante
finalmente altr’uom dell’io narrato. La grande trovata di Petrarca è stata proprio porre l’intero
Canzoniere sotto il segno della palinodia. L’auctor, come Dante, oggettiva la vicenda dell’agens
come una sintetica allegoria delle età dell’uomo, nel caso di Francesco le stazioni della
conversione dalla follia dell’adulescens (il vaneggiar) alla sapienza del senex (il cognoscer) da
l’altr’uom a quel ch’i sono, dal passato del vissuto al presente della scrittura ordinatrice: dunque
dall’errore al pentérsi alla finale clarificatio del «conoscer chiaramente» il vanitas vanitatum. La
recollectio dei fragmenta è una sorta di autoterapia, funziona come la curatio imposta da Agostino
a Francesco nel Secretum: ricostruire la propria fabula e fare del libro delle rime sparse l’esito di
quel processo di autovalutazione e riscatto, fino alla redenzione finale della scrittura stessa
nell’innografia mariana. L’auctor conosce se stesso denunciando in scriptura il proprio, passato
vaneggiar, l’altr’uom protagonista della narratio: le rime sparse che lo costituiscono in quanto io
lirico sono le tracce lasciate dalla passata pervicacia della colpa, ma l’averle ordinate in una storia
‘moralizzata’ esige l’assoluzione. In questo modo Petrarca ha potuto conciliare due passioni
antitetiche: il desiderio erotico come forza distruttiva, che ammorba e frantuma l’io, e il desiderio
della scrittura, che invece mette ordine nella dissoluzione, sana la malattia e ricostruisce l’io
frammentato nella continuità organizzata del romanzo autobiografico, perfettamente identificato
nel libro dei fragmenta L’oggetto del desiderio, Laura, da ossessione deviante diventa guida alla
conversio: l’exitus di Madonna trasforma l’assenza mortifera della grande nemica in una presenza
mediatrice che risana il pellegrino, il cui desio è redento in quanto motore stesso della mutatio
animi, e lo consegna, purgato, nelle man dell’altra Madonna, suprema mediatrice di redenzione
del desiderio.

MEMORIA POETICA E MITOPOIESI: Lo strumento che l’auctor dal e nell’agens istituisce il discorso
d’amore come narratio moralizzata di una mancanza rammemorata e segnata nel libro-diario. La
scrittura poetica è l’esito di una memoria desiderante che fissa per verba l’imagine impressa
nell’agostiniana aula interiore in cui si annidano i phantasmata: il rimembrar è l’unica facoltà
intatta nel deserto del vanitas vanitatum, i gesta si salvano solo nella narratio, segnatura di ombre
e sogni che nutre l’immaginazione. Il codice lirico non può dunque che dispiegarsi in forma di
romanzo, di memoria narrante. Sulla diffrazione di prospettive autobiografiche e oggettivanti, che
l’auctor può subito attivare, nel ricordo, l’intelaiatura etica della storia erotica: l’identificazione
Laura-Cristo (IV), la moralizzazione sacrificale della data dell’incontro (III), la peccaminosità del
folle desio (VI). Come nel Secretum, il giudizio etico a posteriori entra però in conflitto con una
profonda tensione dissociante, la sfrenata ambizione alla gloria poetica, che istituisce finalmente
l’equipollenza allegorica Lauralauro, dalla quale diparte l’asse semantico più pervasivo delle rime
«in vita». L’ossessiva dinamica attrazione-fuga connota il discorso amoroso come ossimoro
permanente: Laura è luce accecante che abbaglia e annienta, «dolcemente […] consuma e
strugge», attrae e respinge. Laura è dunque monstrum, prodigio, centro di meraviglie; la
formulazione miracolistica dell’oggetto d’amore induce una mitografia allusiva e polimorfica nel
dramma memoriale narrato: Laura è Dafne che sfugge e si tramuta in alloro, è Narciso che si
contempla allo specchio e si nega ad ogni contatto, è Medusa che pietrifica l’amante, è Fenice che
produce mirabolanti paradossi e risorge dalle ceneri, è Euridice per sempre perduta da Orfeo. La
mitopoiesi simboleggia dunque Laura come fantasma inafferrabile, crudele-pietoso, marmo o
cerva fuggente, inseguita da un agens orbo o zoppo, smarrito in un bosco-labirinto che è poi il
groviglio stesso della scrittura poetica, vanamente ossessionata dal desiderio di fissare, di scolpire
l’idolo, di figurare lo sfrenato obiecto e condanna a perdersi. Il discorso d’amore non può che
essere quindi il discorso della mancanza, dell’approssimazione perennemente difettosa, come
privazione immedicabile: scrivere la sua inafferrabilità coincide con il desiderio della poesia e la
constatazione della sua impossibilità (Laura-Lauro). Fin dall’inizio, Madonna è pura forma,
fantasma-idolo perseguitante, imagin donna che disgrega e trasforma l’amante. Di qui la
particolarissima descriptio personae di Madonna, la cui figura corporea è segnata solo per disiecta
membra, a tratti sineddochici di un tutto infigurabile, che si concede ad una contemplazione per
barlumi, riflessi, illuminazioni, emblemi. Laura è nominata soltanto in CCXXXIX, CCXCI e CCXXXII: un
senhal peraltro scomposto e polverizzato fonicamente nella scrittura secondo prolungamenti ad
eco altrettanto ossessivi, flatus vocis che è l’unica traccia, nella scrittura, dell’inafferrabile absens
amica. Del fantasma, nella scrittura, è insito, fin dall’inizio, un destino di morte, essendone l’exitus
fondamento essenziale dello statuto eticofigurale stesso di Laura, che esiste dunque come oggetto
di considerazione poetica solo in quanto predestinata a priori a sanzionare anche storicamente la
propria assenza. Ma anche la conversione e il superamento dell’amore deviante per Laura sono
inscritti, fin dall’inizio, nel libro: in XIII 13 è lei, stilnovisticamente, «ch’al ciel ti scorge per destro
sentiero»; in LXII l’angoscia del dispietato giogo induce l’agens a invocare, per la prima volta,
l’aiuto divino per «altra vita» e «più belle imprese», le «’nsegne di quell’altra vita» già profilandosi
nella tempesta provocata da «L’aura soave, a cui governo et vela / commisi entrando a l’amorosa
vita», a ribadire l’antitesi, analizzata nel Secretum, tra il desiderio e la «superna strada» che dritta
si staglia di fronte all’io-personaggio figurato come viator in itinere smarrito nel labirinto per un «sì
lungo ir desiando». È la morte della donna del fratello Gherardo (XCI) a incidere, come nel
Secretum e nel De vita solitaria, una cesura nella historia. Il modello morte corporale-pentimento-
conversione assicura al libro, secondo un’orditura antifrastica che percorre tutte le opere
petrarchesche, l’indispensabile direttrice palinodica. Le rime «in morte» aprono un sommario
prospettivo della vita dell’agens, ora però oggettivata e valutata eticamente: la memoria
innamorata, l’ossessione fantasmatica, la fiamma distruttiva sono gli ostacoli canonici, le stazioni
di un iter che dallo sviamento dei sensi giunge al bivio pitagorico, che il tempo e la metamorfosi
dell’ossessione, finalmente mellificata, spingono l’agens a ripercorrere, ora nella giusta direzione.
All’iniziale tensione nichilistica delle rime «in vita«, quelle «in morte» sostituiscono,
antifrasticamente, la palinodia di una sicura ascensività, contrappuntata da fantasie di
appagamento fantasmatico che si concretizzano nei ritorni notturni di Laura e nella formulazione
di una specie di ‘paradiso’ laurano che sembra dovere qualcosa a quello dantesco ed è antitetico al
paradiso-deserto che chiuderà i Triumphi sull’unico, esclusivo trionfo celeste, quello di Laura.
L’orditura del libro è curva, tautologica, iterativa, in quanto, come risulta in extremis dal giudizio
sospensivo della Ragione, nei Fragmenta, come del resto nel Secretum, è inscritta un’ambiguità di
attrazione-repulsione per l’oggetto amato a cui sembra por fine soltanto lo strappo ‘mistico’ di
R.V.F. È un’acutissima percezione del tempo e degli estremi-contrari provocati dal mutamento
come compresenza di vita-morte, prodigio-annientamento, a connettere le due parti in un unico
formulario ossessivo.

PASSIONE CIVILE E RELIGIOSA: Se la distinzione tra auctor e agens è la funzione più dinamizzante
del libro-canzoniere, è inevitabile che il primo proietti nel secondo anche il ritratto di moralista-
filosofo chiamato ad intervenire sulle cose del mondo, che Petrarca ha lucidamente tratteggiato di
sé nelle epistole come nel Bucolicum carmen. L’effetto di realtà indotto dall’impalcatura diaristica
dei Fragmenta e la poetica del «vario stile» comportano di necessità sottili connessioni tra il
romanzo d’amore e l’impegno civile dell’auctor. Analogamete a Laura-lauro, proprio i Colonna
offrono a Petrarca i senhal del discorso politico: nella serie proemiale, che si è visto contenere
tutte le cellule generative dell’immaginario lirico, Petrarca ha incastonato anche RVF VII, che dà
inizio alla tenace polemica antimodernista e al ritratto del moralista filosofo civilmente impegnato
ma, appunto, sotto l’ala protettiva dei Colonna. L’invenzione poetica di alcuni ‘miti’ destinati a
radicarsi tenacemente nella tradizione retorica della poesia italiana – Roma caput orbis, l’Italia
antica madre, la virtù e l’antiquo valore dei progenitori, la barbarie del «tedesco furor» - è affidata
alla voce di un io che assume volentieri accenti profetici e apocalittici e si veste comunque dei
panni del defensor pacis in nome di una memoria dell’antica virtù contrapposta al furore. La
formula «ascoltate e lette», ricalcata su una analoga più volte usata nelle opere erudite, denuncia
la complessa trama retorica di questo Petrarca violento e stentoreo, che con le fortunatissime
canzoni LIII e CXXVIII ha inventato un codice lirico-oratoriale che ha marcato profondamente la
poesia italiana. La reattività a certi eventi scandalosi della propria epoca induce il poeta a una
timbratura biblica e dantesca dell’indignatio contro la moderna Babilonia, secondo moduli
medievali trasvalutati in un sillabato aspro e scostante che comprova la molteplicità di registri di
cui è capace la scrittura petrarchesca. Un esercizio di asperitas che nelle grandi canzoni civili cede
invece alle ampie volute di una parenesi ‘tragica’ che sperimenta le modalità di un pathos da
esibire pubblicamente come l’altra faccia, la più sublime, di un io lirico che sembra voler sfidare,
col parlar grande, la sua stessa inclinazione all’understatement, alle nuge ora forzate a rivelare la
propria percussiva forza definitoria. È un Petrarca che inventa nuovi miti per una capacità di sintesi
che adibisce all’ipotiposi di Italia e di Roma l’emblema laurano dei capelli acuito
espressionisticamente in un’immagine marcata dall’asperitas dantesca: il codice lirico si dimostra
così duttile anche ad un uso diverso, di alta retorica civile. Sul doppio registro politico-religioso e
sulla renovatio dell’amante, sottratto ad una passione deviante e peccaminosa. All’amore-passione
e alla pietas patriottico-religiosa non sono riservati registri formali distinti, anche se
l’omologazione stilistica non dissimula la sapiente allusività dell’impegno civile all’ossessione del
folle desio e viceversa.

POETICA E POESIA: IL FANTASMA E L’INEFFABILE – In Petrarca, poesia e poetica coincidono


nell’atto stesso della scrittura, sottoposta a un perenne controcanto autocritico e
problematizzante, inscritto nel discorso d’amore secondo ardui giochi di specularità e
allegorizzazione. L’oggetto del folle desio è la scrittura stessa: l’equivalenza Lauralauro, fondante la
possibilità di dire di Madonna, irradia le proprie ambivalenze sull’intera sequenza dei fragmenta,
proprio mentre intesse la lode del fantasma laurano. Alla soglia del Canzoniere è dunque inciso un
altro asse semantico, che intaglia trasversalmente tutto il libro: l’inettitudine del mezzo a ridire
l’ineffabile prodigio di Madonna, immaginato fantasma e corpo caduco. Il topos
dell’inesprimibilità, di ascendenza classica e medievale, con profonde attinenze mistiche, viene
rivitalizzato da Petrarca e protenziato ai limiti della dicibilità, secondo un modulo ossessivo
utilizzato, con esiti in parte analoghi, anche da Dante nel Paradiso, anche se Petrarca non sembra
scorgere una metafisica della luce dietro l’idolo accecante di Laura. L’assoluta preclusività del tema
poetico e la sua reductio a fantasma, a puro suono, a senhal, sono il portato di un’inafferrabilità
che è della Gloria stessa. La pietrificazione dell’io (di smalto) e la sua morte (v. 45) incorniciano un
desio che costringe a dire, anche quando il mezzo (la lingua) ne è incapace. La ripresa di certi topoi
della tradizione cortese – il cuore diviso, la dipintura del core, l’ineffabilità di Madonna – diviene,
in Petrarca, analisi critica del processo stesso della scrittura. La disamina critica dell’inefficienza del
mezzo è tecnica (l’operation), il ragionamento è palesemente autoriflessivo. Eppure la scrittura
vige proprio nell’atto di negarsi, di arrendersi all’ineffabile. È proprio l’abbaglio relativo
all’incapacità a ridire il prodigio, a provocare «parole nuove». Tessere la lode di Laura è così
devastante che è impossibile che il «defetto d’arte» non precluda alla poesia di continuare a
risillabare, instancabilmente, l’impossibilità stessa del dire. Il topos dell’ineffabilità, acuito dalla
morte dell’oggetto del desiderio, può toccare l’apice di una vera e propria mistica del silenzio. È
l’immutabilità stessa della scrittura, la sua coazione a iterare il medesimo, a garantirne la
persistenza in poesia come sfogo, come voluptas lugendi che diviene voluptas dicendi,
incontenibile desiderio di scrittura. Lo straordinario potenziamento di un topos così logoro come è
quello dell’ineffabilità risponde a un preciso intento ideologico: giustificare antifrasticamente la
ragione stessa della lode di Madonna e la novità dello stile che declama la difficultas dell’oggetto
propostosi. La riduzione del nome di Laura a mero effato fonosimbolico, da analizzare e
disseminare nel testo come a ostentare la labilità di ogni operation, è un preciso segnale di
poetica: quello insistito sull’aura è infatti un esercizio di trobar clus, così come il topos
dell’indicibilità implica il controcanto di un’asperitas, di una petrosa violenza verbale, che
disperatamente tenta di fermare, in intagli indelebili, la fantasmatica volatilità del nomen. I
PRAEDECESSORES E L’IMITATIO – Petrarca ha disseminato nel libro molteplici segnali che
rimandano alle sue auctoritates volgari, inscritte nel testo ad autorizzarne lo sperimentalismo e a
farne risaltare la novità. Il maestro del trobar clus, Arnaut Daniel, è alluso nella difficile canzone
Verdi panni (XXIX) ed è esplicitamente messo in testa a quel manifesto letterario che è la canzone
‘per citazioni’, Lasso me (LXX) dove Petrarca esibisce gli auctores del suo apprendistato volgare:
appunto Arnaut, Guido Cavalcanti, il Dante delle rime petrose, Cino da Pistoia. La canzone Nel
dolce tempo de la prima etade (XXIII), citata per ultima, viene offerta dal suo autore come
l’incunabolo di una maestria tecnica costruita su precise coordinate formali: il trobar clus
arnaldiano, l’alta teoresi cavalcantiana dell’amore mortifero, la petrosità dantesca, la dulcedo
ciniana. Il vario stile dell’allievo di una scuola diversamente frequentata e poi superata, viene
presentato dunque come mixtio riassuntiva dei grandi modelli, ma in una chiara scansione storica
interna, a ribadire l’onniscenza critica dell’ultimo fra cotanto senno nell’inventare la propria
vocalità. In Petrarca il trobar clus è sempre esercizio di supreme squisitezze formali, ai limiti di un
narcisismo aristocratico e intrepidamente schifiltoso, anche se il vanitas vanitatum insinua
continuamente, ancor di più la morte di Laura, la svalutazione del mezzo nell’auspicio stesso di
uno stile di inimitabile perfezione. L’estrema lucidità dell’impianto ideologico su cui Petrarca ha
fondato la possibilità stessa del libro di esistere, nonostante la pervicace, corrosiva palinodia
insinuata, fin da RVF I, nella scrittura che lo sostanzia, è dovuta a un sapiente discrimine delle
componenti formali ereditate e ad una onniassorbente memoria allusiva e contaminativa che
inventa un «amoroso canto» attraverso inarrivabili sedimentazioni. Gli auctores, classici e volgari,
sono come assorbiti e dissimulati in una stratificazione prospettica che lascia intravedere una
storia della poesia nel momento stesso in cui se ne proclama l’insufficienza e l’impraticabilità.
L’inaudita ‘profondità’ storica della sua poesia è pari soltanto alla complicatezza dei mezzi stilistici
addotti per occultarla, cancellandone le tracce in una mutatio insignis di incredibile duttilità
metamorfica. È lo stesso Petrarca a lasciare volutamente le tracce di una collocazione prospettica
del proprio lavoro volgare, anche quando sembra volerne prendere le distanze. La solita palinodia
è il punto retroattivo per dislocare la poesia volgare e le sue scaturigini siciliane allo stesso livello
di dignità ‘tecnica’ degli auctores classici e, nel contempo, i propri sparsa poemata in un preciso
alveo storiografico, la sui stratificata memoria letteraria è oramai un dato di fatto incontrovertibile.
L’istituzione di un modello operativo di imitatio volgare di pari efficienza e autonomia rispetto a
quello sanzionato dagli auctores ha imposto a Petrarca una riflessione teorica sui fondamenti della
letteratura che, in ambito romanzo, non ha eguali se non in Dante stesso: l’implacabile ossessività
della denuncia dell’insufficienza del mezzo e dell’impredicabilità dell’oggetto poetico immettono
nei Fragmenta l’indispensabile rovello metodologico che fa scattare tutto un sistema di
connessioni intertestuali tra l’auctor e i praedecessores che costituiscono la materia stessa,
citazionale ed emulativa, della memoria poetica, quella «retroacti temporis memoria» che nel
Canzoniere funziona appunto come l’immane collettore di altri tempi poetici, introiettati nel
grande crogiuolo selettivo e sperimentale delle petrarchesche «moderne carte».

LA METRICA VOLGARE: Petrarca filtra e sistema con lucidità i polimorfismi metrici due-
trecenteschi. Le cinque rime ammesse (canzone, sestina, sonetto, ballata, madrigale) già
denunciano un intento di raffinata elezione: infatti i quattro madrigali e le sette ballate
condividono con le forme più illustri tessiture squisite, tutt’altro che populares. Le 29 canzoni, di
tale saldezza formale da costituire il modello della canzone post-petrarchesca, ospitano nel loro
simmetrico regno certi artifici ‘arcaizzanti’ (come coblas unissonans, capcaudatas, capdenals,
rentronchadas, capfinidas) che Petrarca riutilizza come moduli struttivi propri e come allusione ad
una traditio non rinnegata. Le nove sestine collocano l’auctor in un gioco di sfida proprio nei
confronti dei maestri, Arnaut e Dante, che vi si erano avvicinati con circospezione: ad essi Petrarca
fa omaggio addirittura di un’inaudita, complicatissima sestina doppia. Il sonetto, massimo
rappresentante della regolarità petrarchesca può anche concedersi a schemi strofici ‘anomali’
mentre addirittura il madrigale può sembrare un’invenzione di Petrarca, tanto rari e discutibili
sono i precedenti. Le ballate poi sono promosse per un calcolo emulativo nei confronti di Arnaut e
Dante, e comunque sono giudicate perfectae, se la ballata del ‘codice degli abbozzi’ Amor, che ‘n
cielo, pur postillata nella seconda redazione come «proximior perfectioni», è rimasta fuori dal
Canzoniere. La legge suprema della medietas regola dunque anche le scelte metriche: da un apice
di tragica gravitas ad un minimo di apparente disimpegno ‘leggero’, i Fragmenta contengono un
registro di possibilità ampio, se non sconfinato, raggio, in cui si contemperano gli opposti della
difficultas e della dulcedo. Il recupero di elementi ‘arcaici’ serve a storicizzare, chiamando a
testimoni gli auctores, con l’assorbimento fornito dalla ‘forma’ media. Su 29 canzoni, due (XXIX e
CCVI) sono a coblas unissonans, con due rime interne la prima, con schema strofico a
retrogradatio con tre sole rime e mutazione dello schema strofico ad ogni coppia di stanze la
seconda. Un’altra canzone, la CV, presenta coblas capcaudatas, cioè un rimalmezzo al 1° e al 4°
verso che riprendono la rima finale della strofa precedente. La CXXXV e la CCCLXVI presentano in
comune rimalmezzo all’ultimo verso di ogni stanza, mentre la seconda ha in proprio coblas
retronchadas, con la parola Vergine ripetuta in anafora ai versi 1° e 9° di ogni stanza. Come si
vede, si ha più un regesto di eccezioni che di norme: con le prime che hanno la funzione,
importantissima nel progetto complessivo del Canzoniere, di esercitare la varietas come difficultas,
mentre le seconde non rinunciano a sottili deviazioni dalla traditio. La gravitas del modulo ‘tragico’
viene ribadita alla grande in canzoni lunghissime e in strofe imponenti attestandosi comunque la
media su 5-7 strofe e sugli 11-15 versi. Nonostante la canzone petrarchesca costituisca il modello
della sua fortuna dopo Petrarca, non ci si può esimere da una diagnosi complessiva di
sperimentalismo in questo genere metrico: cioè, le eccezioni e gli artefici sono tali e tanti da
insinuarsi nella norma come ardui virtuosismi destinati a far risaltare il complessivo lavoro di
regolarizzazione. In questo senso è da notare che Petrarca non supera mai, a differenza di Dante,
la misura da 2 a 4 versi per i piedi di ogni stanza, che nella sirma non ci sono mai rime irrelate e
che non tutte le stanze finiscono con un dittico a rima baciata. Dunque un’attenta cernita dei
moduli duecenteschi e del canone dantesco, con l’abbandono di dispositivi sentiti come o troppo
liberi o troppo vincolanti: una calibratissima mixtio dunque di regolarità e variazioni, come sempre
in Petrarca. Che a Petrarca interessi questo complesso gioco tra difficultas e dulcedo è dimostrato
ampiamente dalle 9 sestine con le quali si confronta con Arnaut e Dante: una sfida in piena regola
e proprio sul campo più difficile, portata alle estreme conseguenze nelle 12 stanze della CCCXXXII
con retrogradatio doppia, schema inventato da Petrarca e tanto più rilevante perché inserito,
come unicum della serie, nelle rime ‘in morte’, più refrattarie al genere, di quelle ‘in vita’, ad
accogliere ardui virtuosismi. Passando alle forme brevi del sonetto, della ballata e del madrigale, il
dato più rilevante è l’imponente sproporzione quantitativa del primo rispetto a tutti gli altri
quattro metri. Un simile privilegio contraddistingue i Fragmenta dagli auctores precedenti, attenti
a provarsi più volte in altre forme: il bilanciamento dei quozienti di incidenza non tollera
discussioni, al sonetto è affidata una continuità di discorso e di variatio inconfrontabile con le altre
misure metriche. Petrarca costruisce comunque sonetti ‘singolari’ e anche in questo si mostra
incline a lavorare sulle prime due strofe: al lettore è messo sott’occhio uno schema hapax o raro
subito in limine, a indicare, con una sorta di rubrica metrica, che ci troviamo in un campo
sperimentale. I sonetti ‘anomali’, per l’assorbimento della forma media che comunque il Petrarca
utilizza sempre, perdono quasi del tutto la loro rilevanza di eccezioni, tale è la massa ‘media’ dei
dispositivi di interrelazione e temperamento messi in opera per smussare, modulare, rilevare o
‘melodizzare’ gli omoteleuti, aspri o dolci che siano. A Petrarca interessa provarsi, come sulle
canzoni, su un ventaglio ragionevolmente ampio di possibilità, senza rinunciare però a costruire il
libro più per somiglianze che per differenze, rimanendo a queste ultime il ruolo di ardue varianti
virtuosistiche nell’ambito di un processo normativo e normalizzante, che proprio per questo, per la
sua temperata ‘ricchezza’, costituirà il codice per tutta la rimeria lirica a venire. La presenza nel
Canzoniere di 7 ballate è stata sempre considerata imbarazzante per gli esegeti, in quanto metro
storicamente ‘basso’. Si tratta di detriti dell’età giovanile, per lo più risalenti al periodo
avignonese, salvate dal Petrarca come testimonianze di un iter compositivo variegato e curioso ma
poi, alla fine, puntato su un ordine rigoroso di esclusioni e ammissioni. Le ballate infatti risultano
condividere forme stilistiche e immagini con le altre rime sparse e sono adibite a espressioni
patetiche e anche tragiche: in una parola, sono perfettamente integrate nei Fragmenta. La
presenza dei quattro madrigali è eccezionale, essendo i primi madrigali d’autore attestati, e
ambigua, perché più attenti a oscure occasioni ‘cortesi’ che al romanzo laurano. Può trattarsi di
detriti giovanili come di maturi esperimenti atti a movimentare la historia, secondo quel gusto per
gli ‘effetti di realtà’ cui Petrarca indulge per dare parvenza di continuità diaristica al libro. La stessa
conformazione metrica delle rime sparse, con l’accoglimento di forme ‘facili’ (madrigali, ballate) e
ardue (sestine=, evidenzia una volontà di adesione-differenziazione dalla traditio e dalla pratica
poetica coeva, assommandone e filtrandone le esperienze, chiamata la prima a testimoniare e
autorizzare l’eccellenza dell’ultimo cantonre, la seconda a metterne in rilievo l’inconfondibilità. È
dunque la varietas la funzione dinamica del poetare, da intendere come flessibilità della
mescidazione stilistica a piegarsi alla varia, drammatica complessità della psicomachia
rappresentata. Il classicismo volgare petrarchesco si è sistematicamente costruito come ‘poesia
della poesia’. La fondazione della poesia moderna come coscienza della propria fragilità pertiene
tutta a un Petrarca che ha scelto una scrittura come palinodia e splendore fascinatorio coniugati
arditamente nell’arduo esercizio sperimentale di un’inventio incontenibile.

LEGGERE IL CANZONIERE (Tonelli)


1 – Dai frammenti al libro

Petrarca ci lascia 72 fogli di pergamena su cui ci sono i 366 componimenti del Canzoniere, questi
fogli andarono a costituire il Codice Vaticano Latino 3195. Fatto ancora più straordinario è la
conservazione di un piccolo gruppo di fogli i quali, raccolti e riuniti insieme dopo la morte del
poeta, andarono a costituire il Vaticano latino 3196. Si tratta di ‘carte sparse’ che provengono da
tempi lontani e fra di loro distanti, e testimoniano fasi di scrittura assai diverse per un numero
limitato di rime del Canzoniere e per qualche passo dei Trionfi. Il Vaticano latino 3196 è anche
detto ‘Codice degli abbozzi’ perché su quelle pagine in qualche caso si trovano i veri e propri primi
abbozzi, le prime stesure dei testi, grazie ai quali si può assistere alla nascita di liriche anche
famosissime per poi seguirne l’affascinante percorso di elaborazione: il labor limae del poeta per la
prima volta nella storia documentato dalla sua propria mano. Nasce qui l’attenzione alla storia
elaborativa dei testi, e fin dal Cinquecento, quando Pietro Bembo, che fu in possesso di entrambi i
codici autografi, nelle Prose della volgar lingua si interroga sui motivi delle scelte formali di
Petrarca, inaugurando, di fatto, la ‘critica delle varianti’.

L’autografo del canzoniere: Il codice Vat. Lat. 3195 presenta 366 componimenti non numerati e
organizzati in due sezioni: la prima parte va dal sonetto incipitario Voi ch’ascoltate in rime sparse il
suono al sonetto che corrisponde al numero d’ordine 263 Arbor victoriosa triumphale, la seconda
dalla canzone I’vo pensando, e nel pensier m’assale (264) alla canzone conclusiva Vergine bella,
che, di sol vestita (366). Non esiste un titolo assegnato da Petrarca alla prima e alla seconda
porzione del testo, ma genericamente sono state sempre indicate come ‘in vita’ e ‘in morte’ di
Laura. Nelle edizioni odierne, il titolo è stato «Parte prima» e «Parte seconda». Nel codice i primi
263 componimenti sono separati dai successivi 103 solo da alcuni fogli lasciati in bianco. La
ricostruzione del Wilkins vuole che nell’autunno del 1366 Giovanni Malpaghini da Ravenna, già da
qualche tempo al servizio di Petrarca, era stato assunto perché trascrivesse le sue lettere familiari
(Familiarium rerum libri). Giovanni aveva inoltre una straordinaria sensibilità poetica e notevole
memoria e conoscenza dei classici, dopo aver terminato il lavoro sulle Familiares iniziò il lavoro di
ricopiare in bella le poesie volgari del Canzoniere. La copia procedeva in parallelo nella prima e
nella seconda parte del testo, obbedendo alle puntuali e progressive richieste di Petararca che
passava al copista i componimenti da trascrivere. Si tratta di una porzione: da un lato il lavoro
giunse al testo 190, dall’altro iniziò con la canzone I’vo pensando, e nel pensier m’assale fino al
sonetto 318. Per questa porzione, il Canzoniere viene definito idiografo: scritto da terzi, ma su
precise indicazioni e sotto la costante sorveglianza dell’autore. Malpaghini se ne va all’improvviso
e senza spiegazioni, almeno è così che dice il Petrarca, e quindi al Vat. Lat. 3195 ci si mette a lavoro
lo stesso autore che continua l’opera di copiatura in bella dei componimenti dal 191 al 263 nella
prima parte e dal 319 al 366 nella seconda. Il lavoro di Petrarca sul codice ebbe luogo a partire
dall’autunno del 1367 per proseguire sicuramente fino al 1374. In questo periodo di circa sette
anni risulta importante la fase che corrisponde alla forma Malatesta, dal nome di Pandolfo
Malatesta al quale fu dedicata la raccolta in questa sua redazione intermedia: vi si può riscontrare
esitazione che riguarda sia la scelta di alcune liriche, prima inserite, poi rimosse e sostituite, sia la
successione dei testi: operazioni che sembrano non rispondere a pianificazione convinta e
duratura. Fino all’ultimo l’ordine dei testi conclusivi rivela equilibri provvisori, incertezze che
addirittura potrebbero non essere state risolte nella stesura che conosciamo come definitiva. Gli
ultimi interventi dell’autore sul Vat. Lat. 3195 sono significativi: viene sostituito un testo con
l’attuale 246, e la trascrizione dei numeri dal 256 al 263, cioè dei sonetti che per lo più
costituiscono il ciclo del presentimento della morte di Laura. Questi risultano essere le immissioni
estreme, datate dai filologi all’ultimo anno di vita del Poeta, fra il 1373 e il 1374. Anche la seconda
parte ha un aggiunta di testi, che sono stati immessi su fascicoli annessi da ultimo a quelli
originariamente predisposti per il codice, e ad esso interfogliati, costituita dai testi 337-349 e 356-
365. L’estrema azione compiuta dall’anziano poeta sul codice è infatti quella di riordinare gli ultimi
31 componimenti con una numerazione che ne indica una successione diversa rispetto a quella
nella quale i testi susseguono nelle pagine. Restano fermi, col numero d’ordine 31, la canzone alla
Vergine e con il numero 1 di questa serie il sonetto 336. È da sottolineare come su questa
numerazione Petrarca manifesta dubbi e ripensamenti: i numeri arabi a margine dei 31 testi finali
in qualche caso sono cancellati e riscritti, in qualche caso semplicemente cancellati e a fatica
riconoscibili sotto la rasura. Con l’ordine dei testi conclusivi era in gioco il senso più profondo del
libro di una vita, e con esso anche la memoria poetica della sua vicenda terrena per come nei
decenni era andato costruendola, adeguandola, ripensandola, ristrutturandola e riordinandola.

Il codice degli abbozzi: Si tratta di venti carte che contengono 54 rime del Canzoniere in vari stadi
di elaborazione, 11 testi che non furono accolti nel libro, 4 sonetti di corrispondenti del Petrarca,
parti di due capitoli dei Trionfi (il terzo del Triumphus Cupidinis, il Triumphus Eternitatis), il
frammento di una lettera familiare. Le carte del 3196 sono anche di tempi molto remoti, e
attestano l’attività su alcune rime fin dalla metà degli anni Trenta. È databile al biennio 1336-38 il
primo nucleo, a testimoniare il quarantennale impegno intorno alle rime del libro. In questo codice
c’è anche un corredo di annotazioni di Petrarca a datare, commentare, dare indicazioni a sé stesso
in merito al lavoro in corso o da compiersi. Si tratta di postille marginali, apposte sopra, a fianco,
sotto i versi e nei bordi bianchi delle carte, rigorosamente scritte in latino, cioè in quella che è la
sua lingua d’uso nella quotidianità lavorativa. La lingua latina si giustappone così al volgare che
viene invece a rappresentare per il poeta la lingua ‘assoluta’ della poesia, come osserva Contini.
Qui si può ricostruire anche quando Petrarca decide di far diventare le ‘rime sparse’ in ‘rime
ordinate, da veri e propri fragmenta di cui resta testimonianza nel titolo del libro, a tasselli lirici
strutturanti una narrazione: le annotazioni di commento ai testi presenti sul Vat. Lat. 3196
raccontano parte di questa lunga storia iniziata negli anni Trenta e terminata con la morte del
poeta. Ci sono tutte le segnature del poeta che decide di trascrivere, e trascrivere in ordine, le
poesie che ritiene debbano far parte della recollectio. In ordine: è la ratio di una costruzione di per
sé significante, la logica del libro ormai ideato che inizia a prevalere e da un certo momento in poi
a dettare i criteri di trascrizione da quei fogli sparsi che raccoglievano in modo per gran parte
‘indifferenziato’. I componimenti saranno trascritti secondo un ordine specifico e pensato,
trascegliendo da testi ivi o altrove conservati e provenienti da varie, anche distanti stagioni
temporali, ovvero scritti appositamente per quell’ordine, per quel libro che si va delineando e
conformando. Sul verso della carta 9, sopra la stesura dell’attuale sonetto 34, Apollo, s’ancor vive il
bel desio, abbiamo la data d’inizio di questo lungo percorso, «ceptum transcribi ab hoc loco, 1342
Augusti, 21 hora sexta». Il primo libro che studia questo codice in maniera ‘scientifica’ è del 1642,
Frammenti copiati dall’originale di M. Francesco Petrarca di Federico Ubaldini, che si può
considerare il primo vero testo che fonda la ‘filologia d’autore’. Da qui in poi se ne susseguono
tanti altri studi, l’ultimo dei quali è di Laura Paolino. A quali conclusioni si arriva? La prima fase
registrata nel codice risale al biennio 1336-38 al quale sono riconducibili i primi autografi poetici in
volgare pervenutici. La seconda fase è da collocarsi negli anni 1348-50, e riguarda le carte 11v, 12-
14 che contengono la seconda parte della canzone 23, il primo getto, rifiutato, e la prima versione
della canzone 268, Che debb’io far, che mi consigli Amore? Scritta da Petrarca probabilmente in
seguito alla notizia della morte di Laura che lo raggiunse a Parma il 19 maggio 1348. Al periodo
1353-57 appartengono le carte 6 e 15v, dedicate a un frammento della Familiare XVI, 6 e ad alcuni
versi della canzone poi 73; al 1357-58 le carte 17 e 18 con il terzo capitolo del Triumphus Cupidinis.
Degli anni 1359-60 sono le carte 3-5 con 20 sonetti i quali benché non turri rigorosamente
consecutivi, saranno poi le giunte della ‘forma Chigi’ del testo. Sono quindi carte di transito di
sequenze già più o meno ordinate, o comunque prossime alla definizione. Le carte 1 e 2
denunciano uno stato assai diverso per alcuni dei testi che vi sono in gran parte stati direttamente
composti negli anni 1366-68: fra questi, i sonetti ‘dell’aura’ che si vedono nascere l’uno dall’altro e
scambiarsi versi e terzine. Rappresentano un momento di scrittura molto vicino al codice di ‘bella
copia’, sono carte in diretto servizio di quello, stazioni di scrittura transitorie, concepite come di
breve durata in vista di una rapida copia sul codice che si andava configurando come il più ampio
collettore ‘in pulito’ cui Petrarca avesse mai destinato fin lì i suoi testi.

«Cangiato ogni forma avrei». Forme e storia del Canzoniere: al grande filologo Gianfranco Contini
si deve il testo critico del Canzoniere basato sull’autografo Vaticano (3195) e uscito per la prima
volta nel 1949, rimarrà l’edizione di riferimento anche per tutte le successive. Ernest Hatch
Wilkins, che amava definirsi «amicus transatlanticus» di Petrarca, fu lo storico e filologo
statunitense che pubblicò nel 1951 il fondamentale saggio sulla Formazione del Canzoniere in cui
ha saputo individuare alcune tappe fondamentali del libro precdenti la forma finale che
conosciamo. La prima serie di testi di cui si possa documentare l’esistenza è di fatto una ‘raccolta
di servizio’ dell’autore, solo intesa a conservare i testi scritti, senza che di per sé venga a rivelare
propositi di strutturazione ordinata (1336-38). Tutto cambia con la postilla apposta da Petrarca sul
sonetto Apollo, s’ancor vive il bel desio nel momento in cui decide di copiarlo come primo di una
silloge ordinata che comprendeva altri sonetti già presenti su quelle carte antiche. Siamo nel 1342
e, grazie a quella postille, si assiste all’atto di nascita del libro di rime fra di loro seriate secondo
un’intenzione strutturante. La fase documentale successiva è del 1356-58: testimonianze indirette
portano infatti tracce del libro che Petrarca aveva allestito per farne dono al signore di Parma Azzo
da Correggio. La sua conformazione è congetturale, non basata su un testimone che ce lo
trasmetta per intero, ma è opinione condivisa che questo codice prezioso in pergamena
contenesse i testi dall’attuale numero 1 alla sestina 142, con un testo, la ballata Donna me vene
spesso ne la mente, poi espunto e sostituito con l’attuale madrigale 121; e dalla canzone 264 al
sonetto 292, per un totale di 171 componimenti. Sono passati 20 anni dalla prima forma, ed è
intervenuto un fatto fondamentale perché nel 1348 c’è la morte di Laura. Santagata è però
convinto che a quest’altezza cronologica non vi sia ancora la divisione in due parti del testo,
portando ragioni legate all’architettura complessiva che in quegli anni Petrarca stava dando alle
sue opere, facendo perno in particolare sul dialogo del Secretum per raccontare la sua propria
vicenda interiore e umana. Il libro è sicuramente ripartito nella successiva forma Chigi, così
denominata perché ci è trasmessa materialmente da un codice del fondo chigiano della Biblioteca
Vaticana che è riconosciuto come autografo di Giovanni Boccaccio. Nel 1363 infatti, Boccaccio
soggiorna presso Petrarca a Venezia. Il Canzoniere è molto più ampio della forma Correggio ed è
costituito da una prima parte che arriva fino al sonetto 189, Passa la nave mia colma d’oblio e da
una seconda che si conclude con il sonetto 304 (Mentre che ‘l cor degli amorosi vermi). Le due
parti assommano complessivamente 204 testi. Da fine 1366 o inizio 1367 la storia del libro la si
può seguire sul Vat. Lat. 3195: con la forma ‘Giovanni’, che è quella che corrisponde per la prima
parte alla porzione 1-190, Una candida cerva sopra l’erba e per la seconda ai numeri 264-318 (Al
cader d’una pianta che si svelse). Da quel momento in poi sono stati ricostruiti i vari passaggi degli
interventi petrarcheschi, che si snodano fra i testi preparati sulle carte degli abbozzi e il codice in
pulito: dove Petrarca aggiunge, sposta, corregge, inserisce nuovi fogli e rinumera, trascurando così
gli aspetti più ‘formali’ di politezza del segno. Tra la forma di Giovanni e la redazione Vaticana
finale, Petrarca riesce ad allestire un altro codice, che non si è conservato, per farne dono al
signore Pandolfo Malatesta: in tale forma il Canzoniere è tràdito da un codice quattrocentesco. Per
merito di Michele Feo, abbiamo cognizione di alcuni importanti aspetti di questa redazione grazie
a una lettera di accompagnamento e di alcune postille che corredano i testi, aumentati ma non
ancora giunti ai 300 componimenti, e presentanti, in certe zone, un ordine alterato rispetto alle
forme che l’avevano preceduta e alla loro seriazione successiva. Nella lettera, che è datata al
gennaio del 1373, Petrarca dice a Pandolfo di aver fatto lasciare nel codice allestito dei «bona
spatia» fra prima e seconda parte, giacché raccontache, di quando in quando, su antichissime
schede andava trovando testi che in qualche caso salvava dal giudizio del fuoco. E in effetti sono
documentate sul codice laurenziano alcune giunte, tra cui la canzone della Vergine, che poi solo
nella redazione vaticana fermata al 1374, si troverà al numero d’ordine 366: Vergine bella.
Petrarca si mostrava dunque, a un anno e mezzo dalla sua morte, ancora affatto incerto
sull’effettiva consistenza numerica del suo libro di rime. Manifestava chiaramente l’intenzione di
tenere sotto controllo anche quella copia che metteva in circolazione quell’anno, all’insegna della
volontà di lavorare al suo Canzoniere per ampliarlo senza un limite che già fosse prestabilito.

2 – Costruzione e struttura di un monumento

Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono è il sonetto che apre il Canzoniere, un metro lirico minore
secondo la gerarchia dei generi che aveva codificato Dante nel De vulgari eloquentia. È il primo di
una serie di 366 testi che si concluderà con una canzone, il genere, all’opposto, più nobile rivolto
alla Vergine Maria, Vergine bella, che di sol vestita. È un’apostrofe al lettore a cui si chiede pietà e
perdono. A comporre questo Canzoniere era un uomo in parte diverso da chi si trova a raccontare
e che giudica ora la sua propria storia, colui che alimentava il proprio cuore di sospiri amorosi.
Vanità e vergogna sono le chiavi di interpretazione proposte per la sua esperienza passata. È la
condizione che mette il soggetto in grado di prendere le distanze e di esprimere un giudizio morale
non solo su sé stesso, ma anche su «quanto piace al mondo». La tipologia del proemio e una
raccolta di rime d’amore, già sperimentato classicamente da Orazio, Ovidio e Properzio, viene così
riproposta e insieme combinata alle parole bibliche iniziali dell’Ecclesiaste («vanitas vanitatum, et
omnia vanitas») che ricordano all’uomo come ogni cosa e attrazione terrena sia transeunte e priva
di autentico valore. Si tratta di una posizione complessa e articolata nel tempo, dovuta a una
consapevole, faticosa crescita e trasformazione, a una mutatio animi non del tutto riuscita e
tuttora in fieri, cui il lettore è invitato ad assistere passo passo col leggere i testi che ne
mostreranno fin lì il percorso nel suo previo svolgimento. Al tempo stesso al lettore è richiesto di
collaborare per la finale riuscita del cambiamento. Il modello di questo cambiamento è, almeno in
parte, quello delle Confessiones di sant’Agostino: chi ora ‘ben vede’, consapevole infine di quanto
l’uomo che fu aveva sbagliato, si sente di consegnare a empatici ascoltatori, i «voi» selezionati in
quanto intendenti d’amore, la ‘sua’ verità. Verità morale, verità di un accidentato itinerario
interiore che dovrà sostituire quella ‘banale’, volgare di una solo apparentemente comune storia
d’amore e perdizione. Il sonetto proemiale è sì retrospettivo, un flash back, si colloca come un
appello ‘assoluto’ alla speranza. È anche vero che chi racconta è sempre lo stesso uomo che prima
errava e che, tuttavia non è in grado di liberarsi di quel cruccio del tutto. Non ha una vicenda
esemplare da additare a chi l’ascolta, né chiede conforto, ma condivisione: non chiede perdono a
Dio, ma agli uomini, al lettore e per ottenerlo parte da una dichiarazione di colpevolezza.

Rime sparse e canzoniere: Il primo sonetto fornisce anche informazioni più tecniche, sulla raccolta
da rime sparse, dedicate a una dolorosa esperienza d’amore giovanile, che in un vario stile dicono i
sospiri e il pianto da quella causati. La dispersione delle rime richiama i fragmenta, il sostantivo del
titolo Rerum vulgarium fragmenta soppiantato nella vulgata da quello di Canzoniere: titoli
portatori di significati contrapposti, a ben vedere, quello d’autore che indica esplicitamente la
natura irrelata dei testi, e forse anche il fatto che già avevano circolato autonomamente e
singolarmente, come ipotizza Santagata nel suo commento, non ricondotti all’ordine d’autore che
li risignificava secondo una prospettiva ideologica. Con un principio, un evento centrale e decisivo,
una conversione-ribaltamento finale, è infatti una vera e propria storia d’amore quella che si può
seguire per gran parte dei componimenti dopo la premessa consegnata al primo sonetto: non già
testi irrelati, fragmenta, rime sparse, ma organizzati secondo una logica di svolgimento narrativo.
La conformazione nettamente bipartita del primo sonetto pare acquisire senso ulteriore alla luce
della struttura del libro. Le quartine sono riservate all’esperienza colpevole dell’amore e del vario
stile che ne rappresenta il contenuto di dolore rendendolo così condivisibile e partecipabile dai
lettori: nelle terzine la lucida valutazione di quell’esperienza diviene consapevole riappropriazione
del destino, ricomposizione della propria immagine nel mondo ed espressione di conquistata
saggezza. Con i sonetti 2 e 3 ha inizio la narrazione. Il giovenile errore viene circostanziato e
Petrarca riproporre le tappe retoriche del ‘cominciamento’, convenzionali alle raccolte degli
elegiaci e di Orazio. Sono così introdotti causa efficiente, causa finale, modo dell’innamoramento e
condizione iniziale dell’innamorato nel secondo sonetto (Per fare una leggiadra sua vendetta);
tempo dell’innamoramento nel terzo (Era il giorno ch’al sol si scoloraro). Nei sonetti 4 e 5 vengono
fornite informazioni relative alla donna che fu causa della caduta nella passione: in verità però
nessun tipo di realismo penetra nel testo a contaminare queste poesie esordiali, e le informazioni
sono piuttosto allusioni al valore emblematico della nascita di lei in un contesto umile (Que’
ch’infinita providenzia e arte). In questa prima parte non pronuncia mai il nome di Laura, se non
nel sonetto Quando io movo i sospiri a chiamar voi si può rintracciare al più l’improbabile Laureta.
Seguono poi i sonetti dal 6 al 10 che Santagata chiama il «prologo allargato» nel corso del quale, in
modo piuttosto inatteso, il ventaglio delle presenze si amplia. Fra il quinto e il sesto sonetto
sussiste un legame stretto che avrà tante implicazioni: il lauro, l’alloro con cui venivano incoronati i
poeti, di cui Petrarca stesso venne cinto, nel 1341, a Roma, con Laura che ne è il simbolo vivente,
viene dichiarato argomento e di quel testo e dei sospiri che danno origine al suono delle rime. Vi
compare quindi per la prima volta anche Apollo, dio della poesia cui il lauro è sacro, sorta di alter
ego e deuteragonista del giovane uomo colpito dalla freccia di Amore: entrambi innamorati della
medesima donna – Dafne, il greco per Laura -, sono destinati a desiderarla e cantarla, quasi fra
loro in gara, perpetuamente. MA oltre a Laura e Apollo, nei sonetti successivi vengono chiamati a
esser presenti nel libro amici e protettori di Petrarca. I destinatari dei sonetti 7-10 non vengono
nominati. Il tema della corruzione morale dei tempi viene affrontato nel sonetto 7 a favore di un
«gentile spirto» esortato a seguire la via della virtà e degli studi. Altro testo d’occasione e omaggio
a destinatario altrettanto ignoto è il 9 (Quando ‘l pianeta che distingue l’ore). Dedicato
esplicitamente a Gloriosa columna, forse il patriarca della famiglia Colonna, Stefano il Vecchio, o
più probabilmente Giacomo, l’amico e compagno di studi a Bologna, vescovo di Lombez, è il
sonetto numero 10, scritto per invitare l’illustre destinatario a unirsi una compagnia amicale.

«Vivomi intra due»: una struttura bipartita: l’elemento che struttura il Canzoniere è la divisone in
due parti. Una canzone di avvio al secondo tratto, la 264, e la scelta del metro più impegnativo e
alto, il solo adatto a trattare i magnalia secondo Dante, marca in modo anche formalmente
rilevato l’intento, il senso di una svolta.

I’vo pensando, e nel pensier m’assale


Una pietà sì forte di me stesso,
che mi conduce spesso
ad altro lagrimar ch’i non soleva:
che vedendo ogni giorno il fin più presso,
mille fiate ho chiesto a Dio quell’ale
co le quasi del mortale
carcer nostro intelletto al ciel si leva.

L’altro lagrimar cui il protagonista è condotto dal pensieri, dovrà contrassegnare questo nuovo
inizio: non più pianto d’amore, ma di contrizione, confessione a sé stesso di errori e sopravviventi
tentazioni nell’ambito di una riflessione più grave e angosciante sul passare del tempo,
sull’approssimarsi rapido del giorno estremo. Vari pensieri vengono posti in conflittuale dibattito:
dall’analisi critica dell’attesa di soddisfare alla passione amorosa, al modo di valutare nella sua vita
il ruolo della donna amata, all’amore nutrito nel tempo per lei, all’ansia di gloria. Questi sono i
temi che costituiscono argomento di dibattito nel Secretum. E così come nel dialogo tra
Augustinus e Franciscus, anche questo è un testo che si chiude in modo interlocutorio. Il sonetto
264 è intimamente legato con il sonetto proemiale, e rappresentano i cardini sui quali poggia
veramente l’architettura del libro, i due punti fissi. Sono i primissimi anni Cinquanta, forse lo stesso
1350 o il 1351, quando il sonetto 1 è stato scritto. Quella data è immediatamente successiva a
quella del grande significato storico e simbolico dell’epidemia di peste che nel 1348 aveva afflitto
l’Europa uccidendo un terzo della sua popolazione. Petrarca non decide di dare avvio alla seconda
parte del libro a far data da quell’evento. Pretende che la svolta ideologica e morale che ha deciso
che il suo libro rappresenti col suo secondo segmento sia indipendente dal destino che avrebbe
potuto sottrargli, con Laura, anche le ragioni prime del canto d’amore. Petrarca impone che la
canzone rappresenti una scelta indipendente dai fatti contingenti, non la conseguenza di una
accidentale morte. L’uomo antico sta per intraprendere la seconda tappa del percorso di
consapevolezza e di parziale mutatio animi che dovrà portarlo a coincidere con l’uomo nuovo che
ha aperto la raccolta. La novitas di cui il testo è portatore sarebbe ribadita dal suo numero
d’ordine: il fatto che il numero complessivo dei componimenti del libro corrisponda ai giorni di un
anno, in verità di un anno bisestile, è una concomitanza che ha spinto a riflettere sull’eventuale
significato attribuito a questo dall’autore. Il testo dedicato alla Vergine viene a coincidere con la
stessa data del testo proemiale, essendo separati da 364 testi. A quale giorno dovrebbe
corrispondere il sonetto 1? Perché il rango 264 sarebbe portatore di un’aggiunta di valore
simbolico? Tutto questo ha a che vedere con la donna amata o meglio con le date che la
riguardano e che la fanno finalmente entrare nella storia intima di personale trasformazione del
protagonista più autentico del libro: la data del loro primo incontro e la data della sua morte che
vengono sottolineate come straordinariamente coincidenti. Se il giorno dell’innamoramento fu il 6
aprile, venerdì santo, abbinando a ogni testo un giorno, giunti alla canzone 264 il calendario
corrisponderebbe al 25 di dicembre, data storica della nascita di Cristo, il figlio di Dio e dell’uomo
venuto in terra per consentire a tutti i mortali la possibilità di riscatto e redenzione dal peccato.
Una deduzione che però sembra non avere conferme, visto innanzitutto il carattere di precarietà
del lavoro svolto da Petrarca fino agli ultimi suoi giorni. L’impronta ideologica del testo, visto che
in Petrarca teleologia e numerologia non vengono mai prese in considerazione in quest’opera.
Rimane il fatto che, nel sonetto della Vergine, ritornano poi le preghiere fatte nel sonetto numero
1:

Vergine, tu di sante
Lagrime e pie adempi ‘l meo cor lasso,
ch’almen l’ultimo pianto sia devoto,
senza terrestro limo,
come fu ‘l primo non d’insania vòto (vv. 113-177)
[…]
Vergine, i’ sacro e purgo
al tuo nome e pensieri e ‘ngegno e stile,
la lingua e ‘l cor, le lagrime e i sospiri (vv. 126-128)

Santagata ipotizza che questa canzone sia stata concepita in data assai bassa, forse addirittura nei
primi anni Settanta. Non si trattava certo di un testo qualsiasi, da recuperare tra le rime sparse, e
venne scritto probabilmente in quegli anni o mesi immediatamente prima di chiudere il libro.
Forse Petrarca l’ha subito inviata al Malatesta con l’indicazione perentoria «in fine libri ponatur»;
la preghiera alla Vergine giungeva a risolvere le precedentemente provvisorie conclusioni della
raccolta che ne proponevano esiti affatto lontani e alla fine del tutto insoddisfacenti per Petrarca. I
tre testi capitali che delimitano la struttura del Canzoniere sono assolutamente autocentrati, e la
donna amata non vi ha alcun ruolo se non nella prospettiva del soggetto che intende allontanare o
superare la passione che gli ha o aveva suscitato.

Una storia (non solo) d’amore: il quarto dei testi soglia è una apoteosi del mito di Laura che «perde
ogni connotazione negativa e la frustrazione amorosa legata all’imprendibilità di Laura-Dafne si
rovescia nella celebrazione della castità dell’amata» (Santagata):

Arbor victoriosa triumphale,


honor d’imperadori e di poeti,
quanti m’ài fatto di doglioso e lieti
in questa breve mia vita mortale!

Il sonetto 263 è stato l’ultimo componimento trascritto sull’autografo vaticano, ma nessun segnale
lo individua come scelto a rappresentare il momento solenne del cambiamento di registro morale
fra prima e seconda parte, né a livello contenutistico, niente anticipa quanto la canzone 264 porrà
al centro della sua riflessione. La distanza fra i due testi è abissale: sono i due poli estremi fra loro
non dialoganti del percorso dell’io, l’uno che, se lo leggiamo conformemente all’impostazione data
col primo sonetto, asservito alla vanità delle cose terrene, è ammaliato totalmente dal loro fascino
e ne tesse un elogio privo di dubbi; l’altro che invece va pensando, riflettendo e chiarendo a sé
stesso quale sia la gerarchia autentica dei valori al cospetto della morte e della trascendenza. Ma
concorre a strutturare il macrotesto anche su un’altra linea, ed è la linea dello svolgimento
narrativo che si dipana dal momento dell’innamoramento di Petrarca per giungere fino alla morte
di Laura e poi oltre. Questa linea più schiettamente narrativa è intrecciata a quella della
maturazione e trasformazione dell’io lirico fin qui analizzata nei testi posti ai confini del libro e
viene emblematizzata da un’unica data che congiunge la vita e la morte di Laura con il
protagonista-autore dei Rerum vulgarium fragmenta. La data dell’innamoramento diviene la ‘data
sacra’: sacra perché tale sarà per sempre nella memoria di Petrarca che torna sempre alla
folgorazione d’amore subita quel giorno, sacra anche dal punto di vista religioso, giacché cade nel
corso della settimana santa, e propriamente nel venerdì di Pasqua, il giorno della crocefissione e
morte di Cristo. Correva l’anno 1327, il giorno era il 6 aprile:

Mille trecento ventisette, a punto


Su l’ora prima; il dì sesto d’aprile,
nel laberinto intrai, né veggio ond’esca (Rvf 211, 12-14)

Sai che ‘n mille trecento quarantotto,


il dì sesto d’aprile, in l’ora prima,
del corpo uscìo quell’anima beata (Rvf 336, 12-14)

Così come l’inizio del libro mette l’accento sulla condizione morale del soggetto mentre l’initium
narrationis lo si ha coi sonetti 2 e 3, anche la sua seconda parte, come abbiamo visto, prende avvio
con la riflessione del e sul protagonista e il lamento-annuncio della morte di Laura è sfasato di tre
elementi lirici rispetto alla suddivisione del Canzoniere. Tutte le edizioni non basate sull’autografo,
hanno sempre pubblicato il testo diviso ‘in vita’ e ‘in morte’ di madonna Laura, puntando a
enfatizzare anche editorialmente quella che viene forzata a essere una ‘storia sentimentale’, un
‘romanzo di Laura’, piuttosto che autoanalisi critica, più personale ‘romanzo di formazione’ di
Francesco. È il sonetto 267 a registrare il primo grido di dolore per la scomparsa, ancora non detta,
della donna amata (Oimè il bel viso, oimè il soave sguardo); ed è poi con la canzone successiva,
Che debb’io far? Che mi consigli, Amore? Che si dice la morte di lei («Madonna è morta, e ha seco
il mio cuore»), si piange Laura in una richiesta di soccorso rivolta ad Amore, il quale interviene
nell’ultima stanza a sovvenire all’amante a sua volta tentato dalla morte. È un Amore consolatorio
e che raccomanda a Petrarca di pensare alla salute eterna; una nuova incarnazione dunque
d’Amore. Il personaggio di amore in un certo senso si rinnova a partire da questa canzone, diventa
più complesso e può mostrare altri aspetti, senza lasciare del tutto gli antichi. Nello stesso tempo
assume addirittura un ruolo di mediazione tra l’anima beata di Laura e il suo poeta. La morte di
Laura apre scenari inediti di consolazione e conforto amoroso per il disperato amante: il lutto per
la perdita può di quando in quando venir colmato nelle parole della poesia da un imprevedibile,
postumo consentimento amoroso della donna scomparsa. Sarà ancora amore ad essere
interpellato nella canzone 270, Amor, se vuo’ ch’i’ torni al giogo antico, e sfidato quale dio
spodestato da un ente assai più forte, Morte, perché provi a dimostrare la sua superiorità su tutti
gli altri déi col riportare Laura alla vita. Non tutti i testi di questa parte sono dedicati all’amore, ci
sono anche intervalli di altro genere. Come la 271, quando Petrarca sembra trovare un nuovo
amore che però viene stroncato subito dalla morte di lei, oppure il 269 dove il poeta non piange
solo la morte di Laura ma anche quella del cardinale.

Date e anniversari, realtà e finzione: il componimento 271 serve a fissare l’anno della morte di
Laura, cioè il 1348. Appena qualche testo prima, il 266 assolveva alla medesima funzione. Il
cambiamento di rotta della propria coscienza, che coincide con l’inizio della seconda parte, viene
volutamente datato 1345 attraverso la segnalazione di un duplice anniversario. L’ancoraggio di
alcuni testi a elementi storici reali e alle loro date induce il lettore ad affidarsi a tutto quanto si
trova nel Canzoniere come si trattasse di un’autobiografia attendibile, basata su ‘fatti’ realmente
accaduti all’autore che viene così a essere, per chi legge, in toto coincidente col protagonista. Un
modello molto simile a quello che Dante aveva usato per la Vita Nova che è un punto di
riferimento per l’ideazione e strutturazione del Canzoniere. A partire dalla morte di Beatrice. Così
come assai altri elementi narrativi della Vita nova sono ripresi, rilanciati e adattati al genere che
Petrarca con la raccolta di rime organizzate romanzatamente sta inventando: la sequenza della
premonizione di morte di Laura, si richiama al sogno annunciatore della morte di Beatrice che
Dante affida alla canzone Donna pietosa e di novella etade. La raccolta delle rime amorose riveste
un tassello decisivo nell’autobiografismo idealizzante di Petrarca che intende consegnarsi ai
posteri come saggio, stoico, uomo di fede, perché costruisce un ritratto (orale) del poeta/saggio da
giovane, che sarà in altra fase dedito ad altro tipo di studi, e dedito completamente all’insegna
della morale cristiana. Petrarca con il Canzoniere vuole documentare quel che è stato in un
segmento della linea della sua vita: in qual modo la fase dell’errore giovanile sia stata
faticosamente superata, in quale, dpo un certo numero di anni dalla morte di Laura, le stesse rime
volgari, che di quella raccontano la storia e soprattuto rappresentano il retaggio, siano state
abbandonate. Perché possa essere davvero funzionale a tutto questo in quanto prova
documentale, nella prospettiva di Petrarca, a un certo punto anche la scrittura delle rime deve
interrompersi, essere abbandonata: e lo deve dimostrare in quanto corrispondente a una porzione
discreta della vicenda anche intellettuale del poeta ora in veste di filosofo. Il Canzoniere deve
datare la sua fine. Petrarca così costruirà una narrazione di sé con il concorso di molte altre delle
sue opere; ma i Rerum vulgarium fragmenta in assoluta autonomia, iuxta propria principia, si
collocano in quel periodo da lui medesimo scelto e con precisione determinato all’interno della
ricostruzione della vita di messer Francesco Petrarca da lui stesso ideata. Il Canzoniere è costellato
di sonetti di anniversario che ‘puntellano’ il ricordo, che celebrano un calendario prima amoroso,
poi amoroso e luttuoso insieme creando una griglia temporale all’interno della quale dovrebbero
andarsi a distribuire le liriche rispetto a una cronologia che ha iniziato appunto dal giorno
dell’innamoramento, declinato solo piuttosto avanti nella raccolta, con il sonetto 211. L’ultmo dei
testi di anniversario è il 364:

Tenemmi Amor anni ventuno ardendo,


lieto nel foco, e nel duol pien di speme;
poi che madonna e ‘l mio cor seco insieme
saliro al ciel, dieci altri anni piangendo.
Ormai son stanco, e mia vita reprendo
Di tanto error che di vertute il seme
Ha quasi spento, e le mie parti estreme,
alto Dio, a Te devotamente rendo,
pentito e tristo de’ miei sì spesi anni,
che spender si deveano in miglior uso:
in cercar pace e in fuggir affanni

Sono molti i legami tra il sonetto 264 e quello proemiale, a richiamarne le premesse e anche a
valutarne, a distanza, la riuscita del programma che in Voi ch’ascoltate era stato enunciato. Da
sottolineare i richiami fortemente palinodici pentérsi / pentito, e giovenile errore / tanto error. E va
ricordato il vincolo perversamente generativo che qui, alla fine del libro, in una lucida e spietata
autoanalisi viene dichiarato: il frutto di vergogna confessato in RVF 1, col suo errore, è nato da
quello che originariamente era un ‘seme di virtù’ (di vertute il seme) immesso da Dio nell’uomo. Ed
è a Dio che si affida il protagonista della storia che giunge infine a sovrapporsi al suo autore: quel
che dice e dimostra è dunque che da quel momento in poi non ci saranno più rime d’amore né
perdita di anni e d’ingegno nell’ambito della poesia in volgare. La risoluzione viene fermata e
datata a un momento ben preciso, all’anno trentunesimo dalla caduta nel peccato, dunque al
1358. Iniziato l’amore col sonetto 2 nel 1327, avviata la seconda parte prima del 1348, concluso
nel 1358: questi gli estremi cronologici contenuti ed esibiti nella raccolta entro i quali si svolge la
storia narrata ed entro i quali l’autore pretende che si dispieghi e si contenga per intero la sua
pratica della poesia lirica e volgare. Grazie alle ricerche, che partono proprio dagli autografi,
sappiamo che tutto questo non è vero.

Dopo il 1348. Un Canzoniere postumo:

Potrebbero piacerti anche