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Il libro

Q
uesta raccolta di importanti testi duecenteschi può essere
una felice scoperta, afferma Marco Santagata nella sua
premessa. Addirittura, precisa, una doppia felice scoperta:
«quella di una tradizione in volgare di visioni dell’aldilà e di testi
didattico-escatologici che precede di poco il poema di Dante, e quella
di una zona padana, fra Milano e Verona, sulla cui produzione
letteraria quasi mai anche le persone colte – prese dai lirici di Sicilia,
dai guittoniani, dagli Stilnovisti, dai laudisti, insomma, dalla grande
fioritura poetica dell’Italia mediana – gettano un occhio».
I poemi di Bonvesin da la Riva e Giacomino da Verona, qui
accompagnati da alcuni passi scelti dalle opere di Uguccione da Lodi
e Pietro da Barsegapè, costituiscono esiti letterari di inconfondibile
fisionomia e grande tenuta per diversi motivi. In primo luogo per
l’energia della tensione e delle finalità squisitamente morali che si
prefiggono, e che costituiranno sempre, anche nei secoli successivi,
una matrice e un carattere della cultura letteraria settentrionale. In
secondo luogo per il loro collocarsi attivamente in un clima e in una
tematica – quelli, appunto, delle visioni e dei viaggi d’oltretomba –
specifici dell’epoca e che troveranno poi nella Commedia dantesca la
più elevata e ineguagliata espressione. E ancora per la grande forza
ruvida, originaria, espressivamente inquieta e carica di episodi e
scene di una penetrante concretezza, dei versi di questi quattro
autori. La cui opera viene qui proposta, nella versione originale e
nella traduzione in versi italiani, da quattro poeti del nostro tempo,
Maurizio Cucchi, Mary Barbara Tolusso, Giorgio Prestinoni e
Fabrizio Bernini: decisamente, apertamente coinvolti dall’esemplarità
di quei lontani maestri, tanto da impegnarsi nell’esercizio e nella
bellissima avventura di ricrearne lo spirito e i valori.
VISIONI DELL’ALDILÀ PRIMA
DI DANTE
Testi di Bonvesin da la Riva, Giacomino da Verona, Uguccione da Lodi,
Pietro da Barsegapè

Versioni poetiche di Maurizio Cucchi, Mary Barbara Tolusso, Giorgio Prestinoni,


Fabrizio Bernini
A cura di Maurizio Cucchi
Premessa di Marco Santagata
PREMESSA
di Marco Santagata

Bonvesin da la Riva, Giacomino da Verona, Uguccione da Lodi,


Pietro da Barsegapè (più comunemente Bescapè): penso che i nomi
di questi poeti settentrionali del XIII secolo, ad eccezione forse di
quello di Bonvesin, dicano poco o niente a gran parte dei lettori;
darei per certo che pochissimi abbiano letto qualche loro verso. Del
resto, dove avrebbero potuto leggerli: solo di un paio di opere di
Bonvesin (il Libro delle tre scritture, in volgare, e, in latino, il De
magnalibus urbis Mediolani) a si hanno edizioni acquistabili in libreria.
E se anche un volenteroso se ne fosse procurata qualcuna in
biblioteca, avrebbe incontrato non poche difficoltà a districarsi tra gli
ostici volgari lombardi e veneti di quell’epoca. Per i cultori della
poesia italiana questa edizione può essere una felice scoperta. Essa
presenta i testi in libere traduzioni poetiche in italiano di oggi
rendendoli così intellegibili anche senza un commento esplicativo.
Penso che le scoperte, in realtà, possano essere almeno due: quella di
una tradizione in volgare di visioni dell’aldilà e di testi didattico-
escatologici che precede di poco il poema di Dante, e quella di una
zona padana, fra Milano e Verona, sulla cui produzione letteraria
quasi mai anche le persone colte – prese dai lirici di Sicilia, dai
guittoniani, dagli Stilnovisti, dai laudisti, insomma, dalla grande
fioritura poetica dell’Italia mediana – gettano un occhio.
Se ai nomi detti sopra aggiungessimo quello del cremonese
Girardo Patecchio (autore di una libera parafrasi dei Proverbi
attribuiti a Salomone e di una Frotula che elenca una serie di cose e
comportamenti «noiosi», cioè spiacevoli e fastidiosi) e qualche
anonimo, come i misogini Proverbia quae dicuntur super natura
feminarum (Proverbi sulla natura delle donne), detti anche Proverbi de
femene, forse di area veneta, avremmo un quadro pressoché
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completo della tradizione didattica lombardo-veneta in volgare. Una
tradizione, estesa dai primi del Duecento fino all’inizio del secolo
successivo (Bonvesin è sostanzialmente un contemporaneo di Dante)
e caratterizzata da un precipuo intento didattico-divulgativo, che si
impernia su due poli: la diffusione di una saggezza popolare di cui i
proverbi sono parte integrante e, suo carattere peculiare, la
narrazione di visioni dell’aldilà. È questo secondo e più ricco filone
che induce a fare il nome di Dante.
Come non si può confermare, così non si può escludere che Dante
– almeno durante il suo primo soggiorno veronese, prima cioè di
iniziare la composizione del poema – possa aver conosciuto la
Babilonia infernale e la Gerusalemme celeste del frate minore
Giacomino, forse contemporaneo di Bonvesin: pur senza rivelare
contatti diretti, certe scene corali di diavoli in gara tra loro e in caccia
crudele di qualche dannato sembrerebbero anticipare il clima e le
modalità di rappresentazione delle zuffe fra diavoli, e fra diavoli e
peccatori, dei canti dei barattieri. Ma se anche un qualche influsso
dovesse essere provato, ciò non attenuerebbe la sensazione di
estraneità della Commedia a quei prodotti didattico-morali. Ciò che
conta, anche in relazione alla Commedia, è constatare come nel XIII
secolo si ingrossi, passando dal latino al volgare, l’onda di quella
produzione mistico-escatologica che per tutto il Medioevo aveva
dato alla luce innumerevoli visioni oltremondane e viaggi nell’aldilà.
Insomma, nel poema dantesco culmina una tendenza che nei
decenni di poco anteriori si era fatta ancora più vivace che nel
passato. A ravvivarla erano stati soprattutto due fenomeni collegati:
il grande sviluppo degli ordini mendicanti e, con esso, della
predicazione. È significativo che proprio le prediche rappresentino il
primo e più importante riferimento di molte delle visioni qui
raccolte. Il pubblico e gli intenti dei nostri divulgatori sono
sostanzialmente gli stessi dei predicatori: come le prediche, anche
queste visioni si rivolgono al popolo con l’obiettivo di convertire i
peccatori suscitando in loro paura delle terribili pene infernali e
desiderio delle inenarrabili gioie paradisiache. E perciò anche la
retorica e le tecniche della rappresentazione sono molto simili. In
entrambi gli ambiti inferno e paradiso non sono una dimensione
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altra, ma la continuazione del nostro mondo: i tormenti minacciati e
le beatitudini promesse non sono che amplificazioni iperboliche di
ciò che gli uomini soffrono o godono sulla Terra. È un modo di
pensare, prima ancora che di scrivere, che a Dante sarà del tutto
estraneo.
Soffermarsi a elencare a uno a uno i tanti aspetti che differenziano
in modo radicale queste visioni dal poema dantesco aggiungerebbe
ben poco a quanto si ricava da una lettura anche cursoria in
parallelo. Due punti, però, valgono la pena di essere sottolineati:
nelle visioni pre-dantesche mancano, da un lato, la politica e la
storia, dall’altro, la dimensione teologica. Sono mancanze gravide di
conseguenze. Per esempio, in quelle visioni a essere torturati
all’inferno o beatificati in paradiso non sono anime dotate di una
loro individualità, ma esponenti di determinate classi di peccatori o
di benefattori. Pertanto, non hanno una storia e tanto meno una
personalità; non sono dannati perché si sono macchiati di questo o
quel peccato e non sono salvati grazie a determinate opere di bene o
a sacrifici particolari sopportati per amore di Dio. Per quanto
riguarda l’assenza di cultura teologica, o meglio, filosofico-teologica,
è sufficiente osservare che in quelle visioni manca il purgatorio.
Bonvesin sente sì la necessità di un elemento di mediazione tra le
dodici pene dell’inferno e le dodici gioie del paradiso, ma lo trova
nella passione di Cristo (raccontata nel libro mediano intitolato alla
scrittura rossa): la mediazione, però, pur corretta – è stato il sacrificio
del figlio di Dio a schiudere all’umanità la via della salvezza –,
costringe a distogliere lo sguardo dal vero tema del poemetto che è
la condizione delle anime dopo la morte del corpo. Ci si è chiesti più
volte perché Giacomino da Verona e Bonvesin ignorino il purgatorio.
La cronologia dei loro poemetti è incerta, ma sembra probabile che
siano anteriori al 1274, anno in cui il concilio di Lione, mettendo fine
a una secolare discussione, aveva fissato dottrinariamente l’esistenza
del luogo di purgazione. Esistenza, comunque, che era oggetto di
dibattito da tantissimo tempo. Anche dopo il concilio permasero a
lungo, però, parecchie resistenze ad accettare quella soluzione: si è
dunque ipotizzato che Bonvesin e Giacomino potessero appartenere
a correnti conservatrici. b In realtà, che abbiano scritto prima o dopo
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il concilio, nel loro rifiuto si coglie la diffidenza nei confronti della
teologia del divulgatore che non ha fatto studi regolari specifici.
Stabilire quale sorte toccasse dopo morte alle anime dei peccatori che
non meritano l’inferno era infatti un problema necessariamente
implicato con sottigliezze teologiche, mentre lo scopo delle loro
scritture era quello di colpire, impressionare o, al contrario, sedurre e
persuadere: una finalità pratica che abbisognava di tinte forti e
chiaroscuri, di immagini che si imprimessero nella memoria, di
episodi e racconti di vita quotidiana. «Con gli esempi il lettore deve
infine capire» scrive Giacomino all’inizio della Gerusalemme celeste,
invitando coloro che leggono il suo poema a non «svilirlo con
sottigliezze varie».
Del fatto che l’oltretomba descritto nelle proprie visioni sia una
continuazione di questo mondo Bonvesin è pienamente consapevole,
tanto da dichiarare in limine alla Scrittura negra: «Dalle pene del
mondo e dalle sue paure / potrà capire l’uomo come saranno dure /
le pene dell’inferno». Ebbene, la compenetrazione di mondano e
oltremondano è l’aspetto dal quale possono scaturire per un lettore
di oggi le più gradite sorprese. Penso ai tanti squarci di vita
quotidiana descritti nelle visioni infernali come comportamenti
riprovevoli, ma per noi carichi di suggestioni. Solo un paio di
esempi: «Invece di seguire le prediche e le messe, / me la spassavo
allora nei più folli sollazzi», confessa il reprobo di Bonvesin,
«preferivo ascoltare parole inebrianti / che epistole, vangeli o esempi
edificanti. // Racconti di Rolando e non dei bravi santi, / racconti di
lussuria…». E al contrario i piaceri della vita di società possono
essere il paradigma sul quale costruire le gioie paradisiache: «Lassù
non manca al giusto» scrive ancora Bonvesin «avere né potere, / servi
ben messi e pronti, gioielli e anche giullari: / giullari che le feste
rendono più perfette, / con versi così belli che io non li so dire. //
Davanti a lui risuonano cortesi melodie / usano diane e organi in
dolce sinfonia»; per parte sua, Giacomino da Verona, parlando in
termini tecnici dei cori dei beati («talmente in sintonia sono tutte le
voci / che di un’ottava sale una e in quinta l’altra»), non si perita di
fare del Cristo un maestro di cappella: «è per questo che Cristo che
sta sul santo trono / li insegna a solfeggiare perché eseguano il
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canto». Gli esempi potrebbero essere tanti, sia in negativo che in
positivo. Quasi sempre il rapporto fra aldiquà e aldilà è giocato
sull’iperbole. Ne scaturiscono scene truculente o ossessivamente
gaudiose, efficaci sulla psiche dei lettori di allora, ma lontane dalla
nostra sensibilità. A meno che non le prendiamo come esempi di
comico, di un realismo forse involontario che alle nostre orecchie,
oggi, suona quasi parodico. Per noi è pressoché impossibile
identificarci con la sorte del reo cucinato dai diavoli così come la
racconta Giacomino:

Restando in quel tormento, gli sopravviene un cuoco,


Belzebù fa di nome, tra i peggiori del luogo,
lo mette a rosolare, come un bel porco al fuoco,
per cucinarlo in fretta lo infila in uno spiedo.

Poi al re dell’inferno lo invia come gran dono,


costui lo guarda bene e infine gli urlerà al messo:
«Questo non vale» dice «neppure un fico secco,
la carne è ancora cruda. Poi il sangue è ancora fresco.

E portaglielo ora rapidamente indietro,


e di’ a quel vile cuoco che non mi sembra cotto,
che deve rovesciarlo a testa in giù, capovolto […]».

Lo spessore tragico è evaporato, non resta che una scenetta


godibile per la sua comicità. E però nella memoria del lettore di oggi
può scattare una reminiscenza capace di riattivare,
retrospettivamente, qualcosa della drammaticità originaria della
visione. Sul colpevole prigioniero dei diavoli può sovrapporsi,
infatti, l’immagine di un altro prigioniero, ma questo innocente: un
uomo che vive sospeso, in bilico fra resistenza e tradimento, fra
l’essere «farcitore o farcito». È il prigioniero della Bufera di Montale.
Le metafore gastronomiche, dalla «salsa» di Giacomino al pâté di
Montale, finiscono per gettare un ponte fra queste due figure
sconosciute l’una all’altra, per suscitare una illusione di parentela:
La purga dura da sempre, senza un perché.
Dicono che chi abiura e sottoscrive
può salvarsi da questo sterminio d’oche;
che chi obiurga se stesso, ma tradisce
e vende carne d’altri, afferra il mestolo
anzi che terminare nel pâté
destinato agl’Iddii pestilenziali.

Ripeto, la parentela è illusoria, ma in poesia succede che certe


illusioni siano produttive di senso.

a. Mi riferisco al Libro delle Tre Scritture, a cura di Matteo Leonardi, Ravenna 2014 e
a Le meraviglie di Milano, a cura di Paolo Chiesa, Milano 2009.
b. Lo pensa Jacques Le Goff, La nascita del Purgatorio, Torino 1982, pp. 379-80.
Visioni dell’aldilà prima di Dante
BONVESIN DA LA RIVA
Libro delle tre scritture
nella versione poetica di Maurizio Cucchi

Esponente della cultura milanese vissuto nel XIII secolo (circa tra il
1250 e il 1315), Bonvesin fu membro del Terz’Ordine degli Umiliati,
fu Doctor gramatice, e si dedicò a opere di beneficenza e assistenza,
finanziando ospedali e scuole private. La sua opera letteraria
comprende il ben noto elogio in prosa latina della sua città, De
magnalibus urbis Mediolani (Le meraviglie di Milano, 1288), scritti
volgari didattici in versi come De quinquaginta curialitatibus
(Cinquanta cortesie da desco), il poemetto in distici latini De vita
scholastica (legato alla sua personale esperienza di insegnante), i
contrasti in volgare Disputatio rosae cum viola (opera tra le sue
maggiori), Disputatio musce cum formica, Laudes de Virgine Maria, e il
Libro delle tre scritture qui proposto e considerato un possibile
antecedente della stessa Commedia dantesca. Come ha scritto
Gianfranco Contini, in Bonvesin si può riconoscere «la personalità
più rilevante della cultura milanese duecentesca; e il maggiore fra
quanti si esprimono nel volgare locale, non solo per Milano […] ma
per la Lombardia nel senso medievale del termine e addirittura per
l’intero Nord».
Matteo Leonardi, che ha curato l’edizione del Libro delle tre
scritture, ci dice che Bonvesin fu figura eminente in quella schiera
d’intellettuali lombardi e veneti che nel XIII secolo elessero la lingua
parlata a strumento di divulgazione morale in forma scritta, senza
temere di elevare lo status della lingua volgare a “lingua letteraria”,
con l’intento, nel caso del Libro di Bonvesin, «di ammaestrare
spiritualmente un pubblico “volgare”» riuscendo a fondere «il rigore
didattico e formale che deriva all’autore dalla sua esperienza
magistrale alla vivacità narrativa della predicazione in versi, alle cui
forme tende ad assimilarsi».
Il poema è diviso in tre parti, come indicato dal titolo, e
appartiene al genere delle visioni ultramondane. Nella prima parte
vengono narrate le pene dell’inferno, nella terza le glorie del
paradiso, mentre la seconda è dedicata alla Passione di Cristo.
Bonvesin compone in quartine monorime di alessandrini. Nella
traduzione ho cercato di rispettare il ritmo per ogni emistichio,
concedendomi qualche maggiore libertà nell’uso della rima – che ho
utilizzato liberamente in ogni quartina, cioè in modo non
regolarissimo, come si potrà notare, soprattutto per evitare effetti
involontariamente parodistici (essendo ben diversa la nostra
percezione della rima e del suo valore rispetto ai tempi dell’autore).
Ho conservato, dall’originale alla traduzione, qualche parola
rimasta, attraverso i secoli, nel dialetto milanese, data l’efficacia
espressiva e il sapore di forte connotazione locale che è ancora in
grado di proporre (per esempio «stremir», «schisciar»). Così come ho
cercato di mantenere un certo tono popolareggiante, presente nella
pur colta lingua bonvesiniana.
Il testo originale riprodotto è quello dell’edizione curata da Matteo
Leonardi (Bonvesin da la Riva, Libro delle Tre Scritture, Ravenna
2014), la cui ricca annotazione è stata preziosa per chiarire il
significato di molte parole, di molti passaggi di un volgare spesso di
difficile decifrazione o interpretazione.
SCRITTURA NERA

Nel nome di Cristo e di Santa Maria


quest’opera in lor gloria incominciata sia:
chi vorrà qui sentire elevate parole
oda dunque e comprenda per la sua cortesia.

Udire e non capire non servirebbe al caso


e chi bene intendesse niente ancora sarebbe
se non ponesse in opere quello che avesse inteso,
a che vale se l’uomo cuore e mente non usa?

In questo nostro libro tre sono le scritture:


la prima è proprio nera e di grande paura,
la seconda è rossa, la terza è bella e pura,
e lavorata in oro perché dolcezza narra.

Questa scrittura nera dirà di quali sorti:


di quando nasce l’uomo della vita e di morte,
delle dodici pene d’inferno il male forte.
Dio non ci faccia mai entrare in quelle porte.

La rossa si determina dalla passion divina,


dalla morte di Cristo figlio della regina.
La dorata dirà della corte divina,
delle dodici glorie di quella terra fina.

Di queste tre scritture volentieri diremo,


della scrittura nera diremo ora la sorte,
chi allora leggerà con il cuore e la mente,
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piangere e sospirare dovrà amaramente.

La nascita dell’uomo è di un tale colore


perché egli è generato da schifose interiora
dove il sangue è mischiato con puzza e con sozzura;
e in quel lurido albergo rimane ad albergare.

Quando è venuta l’ora, l’ora della sua nascita,


non porta in questo mondo nulla di cui campare,
miseramente arriva, membra deboli e fiacche:
pensando a tutto questo chi si potrà vantare?

Lo dico ben sicuro: non è nobile il mondo,


c’è poco da esaltarsi, se si pensa nel giusto,
come pur si dovrebbe, subito si vedrebbe
quanto vile ed orrendo sia il venire al mondo.

È sempre miserabile la vita di ogni uomo.


Fin tanto che è piccino non riesce a lavorare,
tormenta sempre gli altri, dà un continuo daffare:
è un fastidio lui stesso da nutrire e allevare.

E dopo che è cresciuto, che è bello di persona,


che si tratti di un maschio o di gentil fanciulla,
potrà anche sembrare di fuori bella e buona,
dentro nessuno è bello, né cavalier né dama.

Non c’è maschio né femmina che sia di tal bellezza,


né piccolo né grande, né regina o contessa,
che sia bella di dentro, lo dico con chiarezza,
è anzi ricettacolo di gran puzza e bruttezza.

Dal corpo mai non esce beltà, solo sozzura:


da quella bella bocca vengon fuori scaracchi,
schifo esce dal naso dagli occhi e dalle orecchie,
un bel corpo di fuori e dentro un gran marciume.
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Non c’è alcun cibo al mondo che sia tanto prezioso
da non marcire dentro, non appena nascosto:
dalle membra del corpo, benché sembri prezioso,
non esce alcun buon frutto che non sia fastidioso.

Le facce tenerelle di dame e di donzelle,


la tinta sulla pelle le fa parer più belle:
chi volesse raschiarne uno strato sottile
farebbe sfregio e danno a quel color gentile.

In tutta la sua vita, da piccolo o da adulto,


da noie e vari mali sarà spesso aggredito:
se si crederà in alto si troverà caduto,
si crederà vincente e invece avrà perduto.

Che sia ricco o sia povero o che sia sofferente,


che abbia fame o sete o sia assai vergognoso,
la ruota non si ferma va sempre rotolando:
ora ride ora invece piange va in malora piangendo.

Altri hanno un figlio stolto oppur matto o balordo,


qualcuno invidierà il suo felice stato
e verrà derubato e infine rovinato.
…………………………………………….

O da qualche altra parte verrà uno derubato


da ladro o da tempesta e di tutto privato,
e cadendo dall’alto si troverà abbattuto
sentendosi poi spesso sfiancato e affaticato.

Oppure sarà infermo e alquanto sconsolato


per la febbre o la gotta o per altra disgrazia,
perdendo il suo valore fino alla ripugnanza
e senza più bellezza turbato e indebolito.

Un giorno canterà, sarà allegro e sereno,


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un altro sarà invece addolorato e triste;
un giorno riderà euforico e gentile
e un altro sarà orribile sarà meschino e vile.

Quanto più sarà in alto per avere e potere,


per nobiltà di nascita e abbondanza di onori
per signoria illustre e per i suoi castelli,
tanto più tanto spesso avrà noie e tormenti.

Più grande è il suo pericolo quanto più sarà in alto:


ma invero se cadesse dal signorile spalto,
… sarebbe troppo greve, con disonore il salto;
è meglio stare in basso, restarsene protetto.

Chiunque da femmina nato e poco vivendo


è pieno di miserie, di grandissima pena.
La sua misera vita che è pur solo un momento,
è soltanto un passaggio, vola via come il vento.

La rosa molte volte che splende dal mattino


perde a sera il colore che si spegne e svanisce.
Così è la nostra vita, la vita di ogni umano,
finiscono nel niente le sue glorie mondane.

La nostra vita misera, che muta nel suo stato,


dichiara, mostra e predica che l’uomo al mondo nato,
nel suo pellegrinaggio, non si debba esaltare,
ma stare in penitenza e in umiltà campare.

La vita così misera Dominedio ci ha dato,


in modo che per quella sia sempre predicato,
e ben riconoscendo questo fragile stato
non esista materia per sentirsi esaltato.

Affinché non si affidi a questa ombra vana,


in cose transitorie nella beltà mondana,
ma debba invece tendere alla gloria suprema,
verso la nostra patria dov’è ricchezza sana.

Se l’uomo in questo mondo dolor non conoscesse,


né paura, né pena né ciò che a lui nuocesse,
sapere non potrebbe pur volendo sapere,
qual pena sia all’inferno di cui paura avesse.

Dalle pene del mondo e dalle sue paure


potrà capire l’uomo come saranno dure
le pene dell’inferno e avrà una grande ansia
di potere scampare da simili sventure.

Chi ragionasse bene su quello che è la vita,


così fragile e misera e invero così abietta,
non avrebbe ragione di farne esaltazione,
ma in gloria dell’altissimo diverrebbe umilissimo.

Della morte dell’uomo vi voglio ricordare,


e quando io ci penso già comincio a tremare,
ché tale è la sua forza e tale il suo orgoglio,
che non guarda o distingue il frumento dal loglio.

Non le si può sfuggire, né pregando né a forza,


e la vita di ognuno col furore si smorza.
L’anima porta via e lascia qui la scorza,
il corpo sfatto ormai, disdicevole avanzo.

Le membra raggrinziscono, le gote già afflosciate,


sordido e sfigurato il corpo abbandonato,
orrendo e penzolante chi gli darebbe un bacio?
il viso è triste e afflitto, gli occhi, la bocca, il naso…

Lo sguardo ne è stravolto, è cupo, spaventoso,


quello stesso che i fasti mondani si godeva,
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i denti digrignati, la bocca spalancata,
che nel bere e mangiare tanto era raffinata.

Più non domanda vita, né cibo raffinato,


né carne, spezie, pane, né vino prelibato.
O bocca resa sconcia dov’è adesso il mangiare,
di cui riempivi il ventre e a schifo ti ha ridotto?

Dove hai lasciato i cibi che erano tanto fini?


Abbandonato è il ventre, più niente oramai chiede.
Solo schifosi vermi ne faranno pastura,
quanto più sarà grasso più nutrirà la terra.

Le braccia e le gambe grosse e ben formate,


vigorose e anche belle, son solo pelle e ossa
e presto marciranno in terra, nella fossa.
Coraggio e nobiltà non andranno in battaglia.

O Dio, o carne misera, quanto sei stanca e triste:


come sei sfigurato e orrendo alla vista.
Non esiste per l’uomo medico né legista,
che difenderla possa affinché non marcisca.

O forse i tuoi parenti, e amici e casamenti,


moglie, figli, nipoti che appaiono dolenti,
gli averi e la grandezza? Quanto male ti senti:
il tuo albergo è la fossa, i vermi i tuoi parenti.

Carne, quando sei in vita, perché dunque ti esalti?


I vermi più ti aspettano se ti lasci tentare
da buon cibo e ricchezze; son rari i tuoi pensieri,
fin tanto che non pensi di subirne gli assalti.

Sofferenze e tormenti e morte e sete e fame,


tutto questo ci tocca dal peccato di Adamo:
la nostra vita fragile passa da quella porta,
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che piaccia a Dio, che certo saprà ricompensarci.

Da questo mi allontano e vi dirò la pena


che ha l’uomo quando muore, cosa assai dolorosa:
all’ultimo respiro il male che ne viene
non si può raccontare né scriverne conviene.

Non c’è di che stupirsi se è causa di dolore


quando si esala il fiato con l’umano calore:
si scuotono le membra dolenti e sofferenti,
come a albero divelto, con crudele fragore.

Se l’uomo è benestante ed è persona forte,


si angustia più degli altri, si rassegna di meno,
quando l’anima va, quando il corpo abbandona:
la morte crudelissima nessun uomo perdona.

Se alcuno comprendesse tale grande dolore,


per mille carri d’oro, né per nessun onore,
non soffrirebbe morte, ne avrebbe un gran timore,
nemmeno se dovesse risorgere, tornare.

Per essere padrone del mondo e di ogni avere,


se ne fosse il prescelto la morte non vorrebbe:
chi alla morte pensasse certo non peccherebbe,
servirebbe anzi l’anima, seguendo il giusto andare.

Guai allora a colui che morirà in peccato:


dopo mortale angustia avrà eterno tormento,
da ogni bene del mondo sarà abbandonato,
né mai ci sarà un mezzo che lo possa salvare.

L’umano peccatore, quando deve partire,


non porta in sé soltanto la pena di morire,
che pure è grave angustia, ma se ne deve andare
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dove altro, e ben presto, egli dovrà patire.

Mentre muore l’infermo, volge intorno lo sguardo


e ha vicino i demoni che gli fan gran paura:
sono neri e deformi di orribile figura,
e dicono l’un l’altro: «Questo è nostra pastura.

Nella sua vita è stato sempre in nostro dominio:


senza nessun indugio scrolliamo via dal corpo
quest’anima dannata, che subito dal corpo
venga qui separata, e sia poi tormentata».

Il peccatore intanto va verso il suo tormento


e dice: «In questa pena mi aspetta un gran dolore,
un simile spavento non l’ho proprio cercato,
se devo andar con questi, che bel divertimento…».

Rispondono i demoni: «Povero penitente,


non sai che cosa sia, ancora non sai niente:
presto ti porteremo al nostro fuoco ardente,
dove male e paura non cessano un istante.

Dinanzi a Belzebù nel più profondo pozzo,


davanti al nostro capo sarai presto portato
e là dovrai soffrire tormenti smisurati;
secondo il tuo operare verrai così pagato».

Risponde il peccatore che vede anche se muore;


si volge in gran tristezza, si torce nel dolore,
e dice: «O me misero, o mio povero cuore.
……………………………………………………………………..

Oi me meschino e misero, ben altro avrei voluto!


Se devo esser punito con così gran tormento,
ritornerei nel mondo volentieri, contento:
farei la penitenza che Dio avrà voluto».
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O dolce Padre altissimo, sarebbe gran conforto
se potesse tornare al mondo col suo corpo:
l’anima è uscita via e lui intanto è morto;
tardi si è ricordato, non ci ha pensato in tempo.

Egli è subito morto, senza nessuna tregua


in inferno precipita e non fa in tempo a dire:
«Dove mi hanno mandato? Ma che ragione c’era
perché fossi cacciato quaggiù solo a soffrire?».

Rispondono i demoni, quelli che ha più vicini:


«Nella tua vita fosti uomo bene istruito:
perché peccavi, allora? E non ti confessavi.
A far cattive azioni sei stato sempre pronto».

Risponde il peccatore, sforzandosi a parlare:


«Credevo nel mio corpo, in quella brutta scorza,
di fare penitenza non mi ero mai sforzato.
La mia grande follia il mio bene ha smorzato».

Gli spiriti parlarono neri e trasfigurati:


«Poiché l’anima e il corpo sono entrambi colpiti,
il giorno del giudizio, i piedi liberati,
nel fuoco corpo e anima saranno tormentati».

«Dio – dice il peccatore – me misero e meschino,


dov’è quel grande avere che vivo possedevo?
Altri gode i miei beni e io sono un mendico:
nessuno più mi aiuta, né parente né amico.

Son misero e dolente, afflitto e sconsolato,


dov’è il mio gran potere, il più splendido onore,
l’orgoglio e la superbia? O cuore mio angustiato,
di tutto son privato, son mendico e angosciato.

Che sarà degli eredi che avevo tanto amato?


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Mi curavo dei figli, l’anima ho trascurato.
Ai figli e alle ricchezze mi sono dedicato,
così è giusto che sia con infamia dannato.

Ho perso ciò che avevo, me misero e dolente,


e mai non trovo pace in questo fuoco ardente,
e non verrò salvato dai figli o da altra gente,
dai tesori del mondo che qui non contan niente.

Altri potrà godere le mie larghe ricchezze,


in molli agi e abbondanza d’estate e anche d’inverno,
ben poco preoccupati se io sono all’inferno,
troppo tardi ho pensato di leggere il quaderno.»

Ma quanto è folle e sciocco chi solamente guarda


l’inizio delle cose e ad altro non attende,
non guarda quel che segue, non lo vede né intende
gli sembra un buon inizio ma ha una coda che offende.

Si giudica alla fine e allora si comprende


il senno di chi è saggio e vuol comprare o vendere.
Se il peccator guardasse verso dove discende,
il dolce Gesù Cristo giammai vorrebbe offendere.

Delle dodici pene dell’inferno, iniziamo


con parole di pianto per l’uomo di coscienza;
chi ha orecchie adesso ascolti, chi ha cuore adesso intenda,
chi sa si metta all’opera, chi non sa adesso apprenda.

Ci fosse chi sentisse di quelle gran paure,


vedrebbe anche commuoversi le pietre così dure:
quando ci penso su, sento una gran paura;
ci guardi il buon Signore da simili sventure.

Se anche tutte le lingue che ci sono nel mondo,


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di quelle pene enormi potessero parlare,
la millesima parte non potrebbero dire:
in quell’orrendo albergo non fa bene albergare.

Tanti sono i tormenti che è impossibile dire:


chi ci pensasse sopra certo non peccherebbe
chi avesse un po’ di cuore, prima ci penserebbe,
chi guardasse un po’ avanti, più non si volterebbe.

I miseri sopportano di ogni sorta i tormenti


e han tutto il contrario di quei dolci diletti,
che godevano al mondo coi loro mezzi abietti;
come avevano agito vengono ripagati.

I tristi peccatori laggiù sono pagati


per quello che hanno fatto, per i loro peccati,
e nel senso contrario vengono tormentati
in modo che il castigo corrisponda al peccato.

Comincio a raccontarvi la prima punizione,


cioè la cupa fiamma che brucia in quella tana
e molto di più arde della nostra nel mondo,
che a confronto con quella sembra fresca fontana.

Se anche l’acqua del mare fosse tutta riunita


nemmeno un solo guizzo della fiamma dannata
potrebbe esserne spento. O Dio, che gran tormento,
come deve soffrire chi arde condannato.

L’arsura di quel fuoco è tanto smisurata,


che se nel nostro mondo ne arrivasse una fiamma,
il mondo in breve tempo non avrebbe durata;
sarebbe indescrivibile: arsura desolata.

In quella grande arsura giaceva il peccatore,


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dentro come di fuori era un tizzone acceso.
Non una sola goccia gli veniva donata;
laggiù avrà da restare martirizzato e chiuso.

O dio, che dura pena, che avvilente martirio.


In un piccolo fuoco se io mettessi un braccio,
che male sentirei: sarebbe follia pura
se non avessi cura di evitar tanta arsura.

Piangendo per il male così parlò quel misero:


«Volentieri morrei se potessi morire.
E quanto a penitenza non potrà mai finire,
perciò da questo fuoco non potrò mai fuggire.

Siccome io bruciavo nell’amore carnale,


nel fuoco d’avarizia che è un vizio capitale,
eccomi qui punito nel gran fuoco infernale,
e il mio riso è stravolto in un perpetuo pianto.

Me misero e dolente, io ardo in questo fuoco,


la mia lingua è una fiamma, non ho una goccia d’acqua;
confuso in questa angustia, patisco e mi contorco;
e più qui passo il tempo più patisco il tormento».

Detta la prima pena narrerò la seconda,


cioè quella gran puzza che il misero circonda:
non può aver altra aria, né luogo in cui fuggire;
avesse solo questa, di pena, basterebbe.

La puzza e l’aria sporca dello zolfo bruciante,


quella di tutto il mondo confronto a questa è niente,
se messa tutta insieme per quanto puzzolente
non varrebbe una goccia di quella puzza ardente.

La puzza dello zolfo è tanto ripugnante


p p g
che se un qualsiasi uomo quel poco ne annusasse,
ne cadrebbe colpito, ucciso sull’istante,
tanto è dura la pena che quel che dico è niente.

Cosa potrebbe fare essendo tutto avvolto,


senz’altra aria che quella avendo respirato
soltanto quella puzza? E siccome è dannato,
sarà sempre in tal modo, sappiamo, tormentato.

Oh, che pena tremenda mi sembra che sia questa:


foss’io in una casa tutta piena di fumo
e ci stessi anche poco, sarei un disgraziato
avrei gli occhi che piangono, mi mancherebbe il fiato.

Dio mio, cosa può fare chi è dentro quell’odore,


che non può prender aria nell’infernal bruciore?
Quando io penso a questo, mi viene un gran tremore:
ci salvi dalla puzza il nostro creatore.

«Dove sono arrivato – si chiede il peccatore –


ma che gran puzzo è questo, dove sono venuto?
Morirei volentieri, ma non sono ascoltato:
non trovo in me ragione, mi sento annichilito.

La pena del calore per punirmi non basta,


risparmiatemi questo che molto mi tormenta:
ma in odor di peccato vissi una vita guasta,
per questo ho questa puzza che mi affligge e sovrasta.

La puzza che io soffro è cosa da non credere:


se al mondo solo un poco ce ne potesse stare
magari in un vasetto, talmente ammorberebbe
che tutto il mondo e l’aria presto si perderebbe.

Di me, lasso tapino cosa sarà creduto,


se dentro questa puzza soffro così straziato?
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Io piango, oh che tormenti, sono stanco e pentito,
non potrò più star bene per dimora né stato.

Da questo puzzo orribile chi mi potrà salvare?


Qui non trovo nessuno per farmi consolare.
Ohi me lasso e tapino, che cosa devo fare?
E chi posso pregare che mi possa salvare?»

Detto delle due pene ora dirò la terza,


cioè del gelo gelido di quella mala terra:
la gente non ci pensa, e tanto quaggiù impazza,
che tutto il nostro mondo dovrebbe andare in pezzi.

È tanto smisurato quel gelo stravolgente,


che neanche basterebbe tutto il fuoco del mondo
a sciogliere e sgelare quel ghiaccio opprimente:
neanche per un ghiacciolo sarebbe sufficiente.

Ed è talmente freddo quel ghiaccio tormentoso,


che il ghiaccio che c’è al mondo, e dico poco o niente,
parrebbe accanto a quello caldissimo e bollente:
è in quel gelo che trema il peccator dolente.

In quel luogo è disteso, misero peccatore:


ghiaccio di dentro e fuori, tanto è tremendo il gelo.
che le membra gli tremano senza nessuna tregua
e tutte assai gli dolgono scosso dal gran tremore.

Spesso ho visto d’inverno molti uomini tremanti,


essendo malvestiti, e battere anche i denti:
cosa si può pensare di chi è così punito
che gela dentro e fuori, che non verrà salvato?

In quell’orrendo freddo si lamenta il dannato,


e dice: «Me dolente, come son tormentato.
Le mie midolla gelano e in cuore mio ho pregato
che morte mi prendesse, se accettarmi volesse.

Freddo ero nei peccati del caos secolare,


finché rimasi al mondo, e per questo ora soffro
il gran gelo e il tremore e sempre più io soffro:
e più rimango qui più son pronto a soffrire».

Dopo la terza pena, vi dirò della quarta,


dei vermi velenosi che laggiù stanno fieri:
se quando sono solo mi entra nei pensieri,
provo una gran paura, mi turbo e mi addoloro.

I vermi velenosi nell’eterna calura,


scorpioni, serpi, bisce, dragoni, che paura!,
come i pesci nell’acqua, ci vivon per natura,
e il misero avvelenano con morsi, che paura!

Traboccano di rabbia, son così sozzi e neri…


Se un uomo li vedesse, tanto son spaventosi,
morirebbe d’angoscia, non potrebbe resistere,
tanto sono angoscianti, tanto sono mostruosi.

Da quei vermi schifosi il misero è smangiato,


e solo nel midollo non viene avvelenato;
tutte le membra infatti ne sono rosicchiate:
o dolce Padre altissimo, come soffre il dannato.

Io vedo molte volte che un solo vermiciattolo


con morsi perniciosi mette a rischio di morte;
che accadrà dunque allora al dannato colpevole?
Che punizione atroce, che pena insopportabile.

«Oh – dice il peccatore – come sono angustiato.


Al mondo ero invidioso, ma ora altri mi rode.
Di ingannare il mio prossimo ero desideroso;
ne sono ripagato da un male tormentoso!

Gli altri rodevo al mondo e provocavo il male,


qui mi rodono i vermi e io son sconsolato:
di quel male che ho fatto, Dio mio, sconto la pena;
mai ci sarà rimedio a tutto questo male.

Sento che mi rimorde la coscienza, adesso.


Del male fatto al mondo non mi sono curato
per questo ora dai vermi sono morso ed oppresso;
il mio male è gravissimo, mai verrò liberato.»

Dopo la quarta pena ora dirò la quinta,


che è nello star là dentro con una gran paura,
per le facce dei miseri che sono incatenati
e vicini ai demoni: così sono puniti.

I peccatori in pena in quella grande arsura


son neri e sfigurati, hanno sembianze laide,
e l’un guardando l’altro sente una gran paura,
ma più immondi di loro sono i demoni laidi.

Son laidissimi e orrendi, di sembianze tremende,


più neri di caligine e con la faccia aguzza,
hanno una barba vasta e sudici capelli,
una capigliatura che fino ai piedi scende.

Dagli occhi, fuoco ardente, sembrano uscire lampi


che schizzano in violente, rovinose scintille,
come nella fucina dal ferro le faville.
Ci guardi da quei mostri la nostra gran regina.

Dal grugno e da narici esce una fiamma nera:


crudelissimo il volto e perfido lo sguardo,
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ali spinose e orrende. Dio mio, che brutta schiera,
è un male separarsi dalla sovrana vera.

Hanno il grugno tirato, la lingua sanguinante,


il grugno come porci, ne esce il fuoco ardente,
hanno zampe da orso, unghie d’acciaio pungente;
la coda crudelissima è quella di un serpente.

Agitano le corna come lesine aguzze,


han denti da cinghiale che escono dal grugno,
non dico quasi niente questi orrori narrando
e alla dolce regina io qui mi raccomando.

Nel mondo non c’è uomo, si pensi a chi vi piace,


anche se da lontano dovesse veder Satana,
che non preferirebbe stare in una fornace
piuttosto che vedere quel nemico rapace.

Non c’è uomo nel mondo di sé tanto sicuro,


che fosse così audace in quel caso pauroso
da non cadere morto d’angoscia e di dolore,
per la grande paura davanti a tanto orrore.

Dio mio cosa può fare chi tanti in una schiera


ne vede che lo guardano con quelle brutte facce
e ognuno di quei demoni lo offende o lo minaccia?
Fosse anche solo questa è pena assai severa.

So che l’uomo, di notte, se è solo nella via


e gli par di vedere fantasma o altra ubbia
e magari è una pianta o una frasca o un’altra ombra,
tanto se ne spaventa, ci fa una malattia.

Da ciò si può capire che soffre il peccatore


quando vede i demoni perfidi in allegria;
non può neanche se vuole non sentirsi spaurito.
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Ma il saggio, o Dio mio, non muore nel peccato.

«Oh – dice il peccatore – che brutta compagnia,


il suo tremendo sguardo come mi fa star male:
piuttosto che soffrire una paura tale
vorrei che mi cadesse addosso una montagna.

Io che mi dilettavo, durante la mia vita,


con cibi prelibati in giochi, feste e danze,
con belle donne accanto che io per follia
vedendole speravo di averle in mia balia.

Sono stato punito per le mie gravi colpe,


non posso più trovare allegria né bellezza,
ma solo facce nere, paura e gran bruttezza:
si è volto il riso in pianto, il piacere in tristezza.»

La sesta pestilenza che subisce il dannato


è nelle voci tristi, nel pianto e nelle urla:
laggiù c’è gran paura e si sente gridare,
il tuono e la tempesta fanno meno fragore.

Se il mondo all’improvviso tutto si rovesciasse


e il tuono dappertutto nel frastuono scoppiasse,
lo spavento sarebbe minore, in quel furore,
di quel che fa un demonio urlando minaccioso.

Laggiù innumerevoli gridano tutti insieme:


i peccatori piangono, il loro cuore trema
e gridano a gran voce, nessuno può salvarli,
mentre ghignano i diavoli che son lì a tormentarli.

Al mondo non c’è uomo che potrebbe mangiare,


se anche solo un demone si mettesse ad urlare;
sarebbe meno atroce lasciarsi scorticare,
che una di quelle voci udire e ascoltare.

Se udissero il bel canto di un dolce fratino


o allodole e calandre e di altri uccellini,
o zufoli e tamburi o anche organi e diane,
udissero le viole, ciaramelle e canzoni:

non per gioco o conforto, né per altri piaceri


potrebbe rincuorarsi per non morire subito,
sentendo laggiù in fondo quei rumori infernali,
se anche di un solo diavolo, tanto brutti e brutali.

Come sarà infelice chi arriva a questi lidi,


sentendo quei rumori con tanto turbamento;
quanto soffrirà il misero che in vita non fu accorto,
che ora è spaventato e mai avrà conforto.

Ecco che cosa dice quel misero dannato:


«Povero me, che sorte! Ma che cosa ho sentito!
Odo i pianti dei miseri e il ghignar del folletto.
Sono orrendi lamenti, soffro e sono avvilito.

Sono tutto stremito da questo gran fracasso.


Son grida di paura che mi vengono inflitte.
Se nessun’altra pena non mi fosse assegnata,
già questa basterebbe, tanto è già grama e abietta.

Invece di seguire le prediche e le messe,


me la spassavo allora nei più folli sollazzi:
preferivo ascoltare parole inebrianti
che epistole, vangeli o esempi edificanti.

Racconti di Rolando e non dei bravi santi,


racconti di lussuria: non ne ero mai sazio,
e ora sento solo continue urla e pianti
e il ghigno dei demoni mi fa sentire affranto».
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Dei sei grandi tormenti finora ho raccontato;
la dama gloriosa e suo figlio preghiamo
che ci sia data grazia affinché noi possiamo
sottrarci a quelle pene quando trapasseremo.

Dopo quelle sei pene delle altre dirò adesso,


e dirò della settima, se c’è chi vuol sentire,
di ciò che i demoni sono soliti fare
volendo i peccatori essi stessi punire.

Vi posso dunque dire della settima pena


cioè di quella pena vituperosa e oscena
che fanno per sé i diavoli. Dio mio com’è sventato
colui che finché vive non volge lor la schiena.

Che grama sorte ha il misero finito tra i demoni.


Laggiù non c’è mai pace, laggiù non c’è riposo,
chi va tra quelle braccia non avrà mai soccorso;
non c’è pietà dei miseri nell’infernal recesso.

Subiranno altre pene quei dannati costretti


già a patire i tormenti dei mostri maledetti.
Non si potrebbe dire con parole o con atti
quanto siano straziati e afflitti, i poveretti.

Membro a membro li scarpano con gli artigli e i dentoni,


li masticano e picchiano con colpi di bastoni,
con forche e coltellacci li tagliano, li squartano,
come si fa al macello con maiali e montoni.

Se son morso da un cane o se mi taglio un dito,


o magari se inciampo, urlo con tutto il fiato:
se con un gran pietrone dovessi esser ferito,
cadrei per terra afflitto, tanto sono stremito.

O dio, che posson fare, percossi, dilaniati,


p p
picchiati dai demoni e morsi e trascinati?
Se con qualche altra pena non fossero puniti,
oltre a questa sarebbero comunque ben pagati.

Ancora li tormentano con un altro dolore,


le membra gli incatenano con ira e con furore;
quanti sono i peccati in cui muore il peccatore,
tante son le catene a legarlo con dolore.

I ceppi e le catene pesantissime e ardenti


storcon loro le membra, son tutti sofferenti:
ogni male del mondo, persino il più straziante,
a confronto di quello vi sembrerebbe niente.

Dio mio, io trovo troppo atroce quel dolore:


se stessi anche per poco in un carcere al buio,
rinchiuso e incatenato, ne sarei tormentato.
Dio mio, quanto sta male, il misero dannato.

Non basta neanche questo ai vili rinnegati.


Li tengono all’incudine, miseri e disperati,
li pestan con martelli, che sono smisurati,
come pezzi di ferro che vengono schiacciati.

Con quei grossi martelli gli stanno sempre intorno,


e fanno un grande cerchio e squadrano quei miseri
e danno martellate tutti insieme a stormo:
dio mio che gravi angustie, in quel gramo soggiorno.

Martellan con martelli, in cerchio numerosi,


che schisciano quei miseri più di intere montagne.
Se io mi schiscio un dito, ho dei dolori forti.
Che ne sarà dei miseri oppressi dai tormenti?

I perfidi demoni ancora non contenti


delle pene che infliggono ai dannati dolenti,
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fiumi interi di bronzo fanno colare ardenti
e così li battezzano. Ma che orrendi tormenti!

Soffocano, là dentro e vanno tutti sotto.


Se in vita non mi pento son folle e scellerato;
se mi tocca una sola goccia d’acqua bollente,
tanto per dirne una, subito mi spavento.

Dopo averli sciacquati dentro quei fiumi ardenti,


di dietro li torturano come cani rabbiosi,
senza misericordia per i loro lamenti,
tanto che peggio fanno, più ne sono orgogliosi.

Sulle rive del fiume ci son montagne ombrose,


alte, una meraviglia, irte da far paura,
e son tutte coperte di spine molto aguzze,
e in modo eccezionale pungenti e velenose.

Su quei monti li spingono, fin su, fino alla cima,


e tra spine pungenti, perché non c’è gramigna,
e lì le spine scerpano le membra e le dilaniano,
finché son tutte a pezzi e niente sta più insieme.

Dopo averli portati sulle cime dei monti,


li trascinano via e son peggio che morti,
poi li buttano giù da quelle cime irte:
nei fiumi ardenti cadono con orribili salti.

I rinnegati demoni, che stanno tutti insieme,


non alleviano ai miseri la grave penitenza:
non serve al peccatore compiere uno sforzo
per trovare riposo, meno ancora salvezza.

Non solo quelle pene infliggono, ma peggio,


e gliene fanno tante che è meglio non parlarne:
quando ci penso, infatti, mi prende lo spavento.
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Dio mio non far entrare anche noi in quel gregge.

Se mi punge una spina o mi punge un’ortica,


se mi morde una pulce oppure una formica,
mi stremisco di certo senza il minimo indugio,
o dio, che cosa grama perdersi dopo morti.

«Oh – dice il peccatore in quelle atroci pene –


qui non trovo tormento che possa sembrar lieve:
se potessi morire morirei volentieri,
perché qui non c’è tregua mai, né lunga né breve.

Gli altri al mondo rodevo, mordevo, percuotevo


e qui son ripagato del male che facevo:
povero me tristissimo, io qui non trovo pace,
ho perso ogni mio bene cadendo in mali atroci.

Poiché stavo nel mondo legato nei peccati,


mi tengono quaggiù le membra incatenate.
Io stesso son l’autore dei dardi avvelenati
dai quali le mie membra son ferite e piagate.

Da che angosciosa angustia io sono qui straziato.


Mi hanno trascinato tra spine, lacerato,
dalla cima dei monti mi hanno scaraventato.
E qui non c’è nessuno che si sia impietosito.

Le membra neanche un’ora mi hanno lasciato insieme,


mi hanno disfatto tutto in questa pena infame:
al mondo non pensavo a questa dannazione;
non posso più sperare di aver consolazione.

Finché stavo nel mondo ero cieco ai peccati,


mi davo un gran da fare ed ero stolto e matto,
per questo nel tormento mi trovo qui costretto
e non posso pregare questi qui, maledetti.»
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E adesso andremo a dire dell’ottava passione,
che il misero sopporta senza remissione,
cioè di fame e sete: laggiù in nessun cantone
si trova vino o acqua né un boccone di pane.

Così muore di fame, non trova pane il misero,


no, neanche una briciola, tanto male è ridotto:
fosse il mondo di pane e gliene fosse portato,
non potrebbe sfamarsi, tanto è oramai conciato.

Non gli danno del pane, mangia carboni ardenti


e poi, per companatico, tossici velenosi,
giù per la gola spingono gli zolfi puzzolenti.
La fame crudelissima non si placa un momento.

Lì viene meno il misero anche per la gran sete.


Neanche una stilla d’acqua può avere anche se chiede:
giù per la gola spingono, invece che bevande,
solo bronzo colato. Che orribili vivande.

Se solo per due giorni stessi senza mangiare,


io morirei di fame, e se mi torturassi
a restar nel gran caldo afflitto dalla sete,
oh, quanto starei male se il bere mi mancasse.

Quanto io soffrirei se fossi in quell’inferno,


dove non c’è sollievo, sia estate oppure inverno,
non c’è pane, né vino, né acqua in eterno,
solo gran fame e sete, che orribile soggiorno.

Se mentre sto mangiando io trovo un verme morto


dentro la mia minestra, subito mi disgusto:
perché un boccone amaro, se viene alla mia bocca,
non appena lo sento io subito lo butto.

Dio mio, cosa può fare chi ha ricevuto in bocca


p
solo carbone e tossico e una puzza schifosa
o bronzo fuso ardente? Che strada dolorosa.
È matto chi ha una vita nei peccati confusa.

Dice il misero: «Adesso mi tocca malasorte,


ho una fame tremenda e gran sete sopporto,
se mille carri d’acqua bevessi in una volta
non spegnerei la sete che tanto mi tormenta.

Né fiumi, né fontane, neanche l’acqua del mare,


questa sete grandissima potrebbero smorzare.
Se il monte fosse pane, da poterlo mangiare,
la fame crudelissima io non potrei placare.

Tu, gola maledetta, ricevi un pagamento


per quello che tu hai chiesto durante la tua vita:
buon vino alle taverne e buon cibo hai voluto,
digiunare per l’anima non ti è proprio piaciuto.

In questo modo pessimo ripago la mia gola


dei pasti delicati che si godeva allora.
Soffrire fame o sete? Ma neanche per un’ora.
Qui con bere o mangiare nessuno mi consola.

E poi devo pagare, in vero giustamente,


perché coi bisognosi io non fui mai benigno;
nel far misericordia io fui sempre taccagno,
per questo son punito e tanto duramente».

La nona passione, se c’è chi vuol sapere,


è nelle gravi asprezze di vesti e del giacere:
dirò prima dell’abito, quello che si può avere,
poi vi dirò del letto di cui si può godere.

Il vestito è tessuto tutto di rovi e spine,


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di peli duri e aspri di seta velenosa:
e pungono e tagliano i peli che li sfregano
più di rasoi ardenti. Che pena spaventosa.

È tossico il vestito e tutto velenoso,


è avvelenato il misero ed emette urla altissime.
Lo taglian tutto i peli, la pena è tremendissima,
ha piaghe dentro e fuori, su tutta la persona.

Dentro un pozzo abissale, in quella gran fornace,


laggiù trova il dannato il letto dove giace:
né cuscino né paglia nella cupa dimora,
né lenzuola su cui dormire e stare in pace.

I ferri aguzzi e ardenti gli trapassano il petto,


bisce, scorpioni e zolfo sono il suo orrendo letto:
o Dio, che grande angustia, che grande sofferenza,
come giace soffrendo, misero e maledetto.

Dio mio che grande pena si soffre in quella tana:


se io non ho camicia, solo panni di lana,
sento pungermi i peli. Ho fatto gran mattane,
non ho curato l’anima perché restasse sana.

Qualcosa come terra mi sento sotto il dorso,


in letto ovunque sia, e dormire non posso:
sono davvero misero, sono stato sventato,
non ho fatto quel bene che dona il buon riposo.

In queste grandi angustie, il peccatore dice:


«Che brutta veste è questa, e che brutte camicie,
che letto! Maledico colui che chi qui mi mise.
Con angoscianti pene mi ha ………….

Dov’è ormai quella veste così preziosa e bella,


con cui io m’adornavo come fa una pulzella,
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e il letto adorno e alto e il fregio di bei fiori?
Tutto ho perso, me misero, sbalzato fuor di sella.

Quando vedevo il povero andare malvestito,


senza neanche una casa, ne ero infastidito.
Io non gli davo niente, eppure avevo tutto,
io non me ne curavo, per questo son punito».

Della decima pena adesso vi racconto:


e quando io ci penso, non trovo alcun conforto,
ed è una pestilenza con mali d’ogni sorta:
chi non guarda più avanti è solo cieco e matto.

Da ogni sorta di male è tormentato il misero:


tutto pieno di fistole, malsano e smanioso,
ha febbre, è paralitico ed è tutto rognoso,
è gonfio, ha la gotta, malato è di pellagra;

è zoppo, non ci vede, ha il dorso verminoso;


la testa gli fa male, è orrenda e tutta guasta,
ha gli occhi storti e marci, il collo scrofoloso,
ha male ai denti e grida, sembra un cane rabbioso.

Han le braccia slogate, han le guance cadenti,


la lingua tutta gonfia e la faccia consunta,
hanno il cancro, sono orbi, hanno spalle pendenti,
lo schifo delle orecchie puzza terribilmente.

Le membra sono tutte gonfie e avvelenate,


le interiora che han dentro sono marce e impestate,
tutto pustole è il petto, gli tocca un male atroce,
e tutti queste pene non gli danno mai pace.

Vi dico tutto questo e quasi niente dico


di quelle pestilenze che patisce il dannato:
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il numero dei mali, per quanto mi affatico,
non si può raccontare, anche se molto dico.

Insomma, non c’è morbo che il dannato non abbia:


il morbo meno grave gli porta tanta rabbia
che neanche si può dire. Chi vuol sapere sappia
come soffre l’uccello che è preso in quella gabbia.

Il morbo meno grave porta maggior tormento


delle pene del mondo tutte insieme ad un tempo:
se un dente mi fa male, io grido e mi lamento;
chissà che male avrei fossi là sprofondato.

In quelle pestilenze ecco il misero piangere


e dire: «Come soffro, che dolore mi tocca.
Il morbo mio è gravissimo, le membra mi distrugge;
che male ho nelle braccia, negli occhi e nella faccia.

Finché stavo nel mondo, mi curavo del corpo;


ero florido e grasso, come se fossi un porco,
ero prospero e sano; fui proprio matto e sciocco;
la salute dell’anima la curavo ben poco.

La verità lasciavo e le ombre seguivo:


la salute del corpo, non l’anima curavo,
e intanto non temevo la peggior malattia,
per questo son qui oppresso da ogni altro malanno».

La pena undicesima che confonde il dannato


è il tremendo rimpianto di quello che ha perduto:
beni del paradiso che avrebbe goduto,
fosse stato per tempo accorto e avveduto.

Quando sente il gran peso di tanto patimento


e vede che ha perduto i più dolci piaceri
p p p
del paradiso, i beni, l’allegria e il gran conforto,
crepa allora d’invidia, si torce nei tormenti.

Capisce che ha perduto le supreme ricchezze,


tesori e gran corona e feste e allegrezze,
ricchissime dolcezze, dolcissime ricchezze:
ne prova una gran rabbia e cade in gran tristezza.

Vede che nella vita quel guadagno prezioso


poteva guadagnare e quel grande tesoro:
così piange e sospira; egli fu matto e ozioso,
ma tardi se n’è accorto per piangere il suo errore.

Egli vede che il povero è lassù in paradiso:


se ne faceva beffe quand’era ancora vivo.
Il povero è contento e lui è nei tormenti,
sta crepando d’invidia, niente lo muove al riso.

Questo è il maggior tormento, gli dà colpi di stecche


più duri che se all’uomo strappasser le busecche
fosse fatto a brandelli o tutto scorticato:
sfuggirà a tale pena chi non morrà in peccato.

Poi vede che ha perduto, misero cattivello,


la vista così dolce di un volto tanto bello,
cioè la dolce faccia del nostro buon Signore,
che è il Padre onnipotente. Per questo nel dolore.

La faccia, che è dolcissima, del dolce Gesù Cristo,


non può vedere, o Dio, com’è infelice e triste.
Non potrebbe descriverne, scrittore né giurista,
il cruccio, se anche il mondo di fogli fosse fatto.

Se per sua negligenza l’uomo perde i suoi beni,


diventando un mendico, ne soffre gravemente.
E che sarà di lui, del misero piangente,
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che ha perduto il tesoro, dove andrà, mendicante?

Qui si dice il misero: «Come sono abbattuto,


dolcissime ricchezze, dio mio, cosa ho perduto.
Quel ch’io scherniva al mondo, quel povero scacciato,
ha trovato il tesoro, mentre io l’ho perduto.

Per la mia negligenza, ho perso un gran conforto,


ho perso la ricchezza della gaiezza eterna.
Povero me, tristissimo, non sono stato accorto,
mai sarò liberato da questo mio tormento.

Né Cristo, né un suo messo io volli al mondo amare,


la sua faccia, perciò, non potrò mai vedere.
Mi gonfio più di un rospo, se mi metto a pensare
al bene che ho perduto e non posso riavere».

La pena dodicesima, che è anche la peggiore,


fa disperare il misero, lo riempie di dolore,
un colpo dopo l’altro per ogni suo errore,
tremendissima pena, spaventoso tremore.

Disperato quel misero di uscire mai non spera


da quel grande patire e così si dispera,
sente in sé rabbia e angustia e si strappa i capelli:
è matto chi nel bene non sa perseverare.

Non spera di ottenere alcun miglioramento,


ma si aspetta al contrario solo un peggioramento,
cioè di esser punito con un castigo doppio
il giorno del giudizio, con un doppio tormento.

Dio mio, che grande angustia di esser in questa attesa,


quanto soffrirà il misero in questa punizione
senza sperare mai di aver consolazione,
solo peggioramenti, doppia maledizione.
p gg pp
Se dovesse sfuggire ai suoi grandi dolori,
dopo averli patiti per centomila anni,
per quella tal speranza sopporterebbe meglio,
sperando che finissero quegli atroci dolori.

Se su fino alle stelle fosse pieno di miglio,


e se soltanto un grano il mondo ne perdesse
in centomila anni, quando fosse finito
il misero godrebbe di essere liberato.

Fossero fatti i monti tutti interi di senape,


se i grani una formica li avesse traportati
a Roma tutti quanti, sarebbe il dannato
felice di esser libero, e avrebbe anche sperato.

Ma ormai non può alla fine alcun bene aspettare,


perciò si scarpa tutto e prende a sospirare;
si rode con i denti la lingua, tanto soffre,
e dice: «Me dolente, cosa dovrò mai fare?

Sono tanto confuso, e come sono oppresso;


ogni buona speranza ormai io l’ho perduta.
Non posso più aspettarmi di esser consolato,
aspetto il dì novissimo per esser giudicato.

Il giorno del giudizio con gran tremore aspetto,


sarà punito il corpo misero e maledetto.
Non mi servirà allora battermi qui sul petto
né dire la mia colpa: con gran paura aspetto.

Quando son stato un’ora in quel malvagio inferno,


mille anni mi sembrano nel pessimo soggiorno;
che devo far, me misero, che per sempre, in eterno
in pianto e in angustie passerò qui l’inverno?

Io sono in grandi angustie per la mia vita storta:


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non c’è più chi mi aiuta o che mi dia sostegno;
io soffro e mi dislenguo, sono tutto svenato;
non ho pensato in vita di avere questa sorte.

Non ho pensato al mondo a come sarei morto,


pensavo a mangiar bene a bere ed arricchire,
a vivere negli agi a cui devo sfuggire,
dolore e poi dolore mi tocca sopportare.

Per il bene del mondo io mi sono ingannato;


gli ho dedicato il corpo, l’anima ho trascurato;
non volevo capire il bene del divino,
così nella lussuria me stesso ho dissipato.

Ohi me tristo e dolente, prigioniero e dannato,


ai dolori che soffro non crederebbe un uomo.
Dove sono finito? Troppo son stato iniquo,
niente mi è più possibile, sono come un mendico.

Di servire il mio Dio mi vergognavo in vita,


per cui ora sopporto vergogna che avvilisce,
vergogna che confonde, tanto è smisurata,
e un’angosciosa angustia che qui mi è destinata.

Di un’angosciante angustia il corpo si dislengua,


non posso mai aspettarmi né riposo né tregua:
i dolori che soffro, la tormentosa brega,
quanto mi sia pesante nessuno che lo intenda.

O dolorosa angustia, dolore su dolore,


o pena mia angosciosa avvolta nel dolore:
in me, nelle mie membra, tutto è solo dolore;
il bene che ho perduto, chi lo trova abbia a cuore».
SCRITTURA ROSSA

Della scrittura rossa vi voglio ora qui dire,


della Passion di Cristo a chi vorrà sentire,
che per noi peccatori lui volle sopportare:
dirò in parole alate da piangere e stremire.

La passione del figlio della regina narro,


e lei mi dia la grazia e l’allegria più fina
per dire degnamente la passione divina;
e dopo ciò si scampi dall’infernal ruina.

Il dolce Gesù Cristo, da Giuda già tradito,


dai giudei nella notte fu preso e assalito:
arrestato e legato, tanto disonorato,
nemmeno fosse un ladro da loro catturato.

Lo portano dal primo di tutti i sacerdoti


e il palazzo fu scosso: rumori e terremoti;
al re di tutto il mondo non furono devoti
e tutti lo schernivano, scrivani e sacerdoti.

Beffavano, schernivano quel Signore adorato


con puzza e con sozzura il volto fu sporcato,
i servi lo irridevano, facevano peccato;
chi fosse a maltrattarlo non si è mai più saputo.

Qualcuno lo picchiava sulla testa o con schiaffi,


E mentre lo ferivano di dietro, gli dicevano:
«Ora indovina, Cristo chi è che te le dava;
se sei figlio di Dio, saprai chi ti picchiava».

Come potrebbe un uomo credere a tanto oltraggio:


non c’era compassione, la gente lo scherniva,
dicevano: «Che muoia, non ha senso che viva»;
Gesù, molto umilmente, solo per noi subiva.

Alla fine lo portano davanti a Pilato


e lo accusano, falsi, quel Signore lodato,
vogliono che lui muoia, in croce sia inchiodato:
di lui si fanno beffe, come se fosse un matto.

Non valse che Pilato di salvarlo cercasse,


che parlò perché il popolo infine si calmasse,
gli dicevano: «Muoia, ci son buone ragioni»
e chiedono a Pilato che venga crocifisso.

Dicevano a Pilato: «Se lo lasciamo andare


è un’offesa per Cesare, perché va in giro a dire
che è il re dei giudei e figlio dell’Altissimo,
e allora anche tu neghi l’autorità di Cesare».

Quando capì, Pilato, cosa voleva il popolo,


vide che non serviva cercare di aiutarlo,
e fu allora che disse: «Me ne lavo le mani:
del sangue di quest’uomo non voglio avere colpa».

«Il suo sangue – risposero nel modo più deciso –


sui nostri figli cada oltre che su di noi.»
Così, infine, Pilato lo lasciò in lor balia:
«Facciano quel che vogliono, è una grande follia».

I giudei rinnegati lo prendono e lo spogliano,


duramente lo pestano, senza tregua o pietà,
lo picchiano e bastonano con sua grande afflizione,
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ha le membra segnate, nessuno ha compassione.

Non c’erano due dita per traverso nel corpo


che non fossero guaste e livide talmente
che le carni sembravano nere come caldare:
senza pietà colpivano e con grande piacere.

Quella gente giudea così forte pestava


che tutte masaravano le sue povere membra:
tutto il corpo pareva ricoperto di lebbra
e il sangue da ogni parte in terra gli cadeva.

La carne era piagata, di pustole coperta,


il sangue dalle membra per terra gocciolava;
nessuna compassione c’era in quei rinnegati
che ancora gliele davano, tutto lo masaravano.

Le pena che subiva troppo era dolorosa


e non c’è da stupirsi che fosse tormentosa:
siccome era il suo corpo quanto mai vigoroso,
quel supplizio divenne ancora più penoso.

Non gli avessero inflitto nessun altro tormento,


già questo era tremendo subito in quel momento
ma il popolo a quel punto non era ancor contento:
dopo averlo picchiato passò allo schernimento.

Vestono da re il figlio della nostra regina,


di porpora preziosa fanno una veste fina,
continua a farsi beffe quella gente mastina
gli fanno una corona intrecciata di spine.

Le spine d’oltremare erano molto grosse


e tutto intorno al capo gli avevano piantato:
ne fanno una corona i giudei rinnegati;
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peggio gliene facevano più erano appagati.

Pungevano le spine che aveva per corona,


erano dure e aspre, nei libri lo leggiamo:
sul capo di Gesù, che gentile persona,
le spine conficcavano per fargliene corona.

Che le spine lo piagano non vorrei neanche dirlo:


il sangue da ogni parte della testa gli piove,
la faccia è insanguinata; e chiunque sapesse
di questa sofferenza piangerebbe commosso.

Mai nessun uomo al mondo, che non sia un insensibile,


sospirare e poi piangere dovrà a queste parole
e non gli gioverà un bel suono di viole
udendo la passione di Gesù così folle.

Incoronato il figlio nato della regina


e come un re vestito di quella veste fina,
la gente maliziosa davanti a lui si inchina,
e gli fa reverenza con la faccia maligna.

E poi lo salutavano gli scribi e i farisei,


dicendo «Dio ti salvi, tu sei figlio di Dio».
Lo stavano schernendo, tanto erano crudeli,
perché Cristo diceva: «Sono il re dei giudei».

Si facevano beffe di lui, lo deridevano,


e senza essere offesi da lui, lo schiaffeggiavano.
E sputavano in faccia a un uomo tanto bello:
per il dolce Gesù nessuna compassione.

Cristo era bellissimo e di grande dolcezza.


E mai nato di donna fu di tale bellezza,
tanto dolce e benigno. Dio mio che nequizia!
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Gli gettavano in volto lo sputo e la sporcizia.

La faccia strabellissima del figlio di regina,


così dolce e benigna, così preziosa e fina,
era stata insozzata da sudiciume e sputa,
e il sangue dalle gote colava con rovina.

Dopo che i giudei l’ebbero schernito a piacimento,


gli tolsero la porpora per condurlo al tormento,
gli fecero portare con grande disonore
la croce e intanto il popolo lo accerchiava in fermento.

E andando insieme a lui continuano a schernirlo;


tutti gli urlano contro, continuano a ferirlo,
e gli occhi, di sporcizia, godono a imbrattargli
facendo diventare il suo volto brutto e orrendo.

Alle beffe del popolo non c’era chi pensasse,


al luogo del supplizio prima che ci arrivasse:
come fosse un cagnaccio rabbioso o una serpe.
………………………………………………………………………….

Non ci fu uomo al mondo tanto disonorato,


né asino o giumenta che tanto mai soffrisse
come nostro Signore, perché ci redimesse
dai peccati del mondo nostri o di chi verrà.

Santa Maria madre e Maria Maddalena


e altre donne accanto con gran dolore e pena
seguivano Gesù, vedendone la pena,
il disonore e gente che ancora lo malmena.

Dio sa come soffrivano avendo ben veduto


lo strazio e il vituperio che facevano al Cristo.
La sua dolce madre era talmente triste
che dirlo non saprebbero scrittori né legisti.

E dopo aver veduto così conciato il figlio,


soffriva così tanto, tanto era addolorata,
che era come morta, le membra spaventate
a tal punto che un uomo non lo saprebbe dire.

Per suo figlio provava sofferenza e tormento,


un dolore angoscioso, un’angustia opprimente;
piangeva e sospirava, lacrimava talmente
che tutto si scioglieva il suo cuore dolente.

Tanto era addolorata da non potersi muovere:


la portava la triste compagnia delle donne
fino sul posto dove Gesù Cristo doveva
finire sulla croce. Dio mio, come pativa.

Quando Cristo arrivò sul luogo del supplizio,


fu subito disteso sul legno della croce,
e vicino ai ladroni che l’avevano offeso;
Gesù in mezzo a loro per scherno fu disteso.

I due piedi e le mani gli furono inchiodati,


per questo sopportava dolori smisurati:
così robuste e forti ma così tormentate,
le membra vigorose dai chiodi trapassate.

Ma siccome le membra aveva vigorose,


reggevano i dolori anche più tormentosi,
le mani doloranti, i piedi eran nervosi,
da quattro parti il sangue dai buchi gli sgorgava.

I due ladroni furono sulla croce legati,


ma le membra del Cristo furono inchiodate,
i piedi uno sull’altro da un chiodo trapassati:
erano in grande angustia quei piedi delicati.
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Il suo prezioso sangue dalla fontana viva,
dalle mani e dai piedi usciva come un fiume;
dal capo fino ai piedi tutta la carne viva
insanguinata e guasta ovunque appariva.

Dal capo fino ai piedi non c’era nel suo corpo


parte che ormai non fosse sconciata e sanguinante.
Quanto male pativa, Dio, che brutto momento!
quando ci penso sopra non riesco a darmi pace.

La croce dove Cristo pativa era molto alta,


il corpo era disteso in quel modo tremendo
e tutto quel dolore il corpo gli allungava,
il capo, senza appoggio, quanto ormai gli pesava…

O tormentosa angustia, dolore e poi dolore,


il corpo di Gesù è avvolto dal dolore:
in tutte le sue membra il male era un gran male,
e tra i giudei non c’era chi non lo dileggiava.

Perciò diceva il Cristo: «O voi, giù nella via,


venite qui a vedere se al mondo c’è un dolore,
davvero così grande e acuto come il mio».
Tale era la sua angoscia che non si può narrare.

Perciò egli aveva detto quella notte passata:


«Oh, triste la mia vita, finirà tormentata»;
e per questo diceva che lo stava aspettando
una passione dura e si stava angustiando.

E strasudò d’angustia, il nostro gran Signore,


come gocce di sangue gocciolava il sudore.
Tanto era in quella notte preso da gran timore
di ciò che lo aspettava in pena e gran dolore.

Davanti a lui il popolo continuava a schernirlo:


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del dolce Gesù Cristo nessuna compassione;
con un bastone in testa c’era chi lo feriva,
altri con la sporcizia il volto gli imbrattava.

C’era poi chi lanciava pietre, terra o dei legni;


reverenza facevano, rinnegati, maligni,
lo prendevano in giro con insulti e con ghigni.
………………………………………………………………….

E poi lo salutavano dicendo: «Dio ti salvi,


se sei il re dei giudei, se sei il figlio di Dio».
Lì non c’era nessuno, scriba né fariseo,
che non lo sbeffeggiasse davanti o anche da dietro.

Diceva l’uno all’altro, volendolo schernire:


«Lui salva gli altri, ma non può salvar se stesso;
ma se giù dalla croce lui potesse smontare,
gli crederemmo tutti, senza più dubitare.

E dicevano al figlio di Dio quei malvagi:


«Scendi se proprio sei il figlio dell’Altissimo;
se ti vediamo giù ti crediamo, è certissimo».
Delle beffe del popolo quello che dico è niente.

La sua dolce madre, assistendo agli eventi,


vedendo che suo figlio subiva quei tormenti,
e affronti e disonore e grande umiliazione
mentre era sulla croce e grandi schernimenti,

tutta si contorceva, tanto era il suo dolore,


e piangeva e piangeva e intanto sospirava,
quasi veniva meno in angustie e lamento
e non si può descrivere il suo grande sgomento.

Vedendo di suo figlio le membra lacerate,


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malconce e sanguinanti, e così sfigurate,
dal capo fino ai piedi tumefatte e piagate
di strazio e di sozzura insozzato e umiliato,

tutta si condoleva di un male smisurato,


di angustiose angustie durissime e profonde:
in tutto il corpo era dal dolore stremata,
quanto dolore aveva non si può neanche dire.

Il dolore a fatica riusciva a contenere,


perché era stradurissimo e grande il suo soffrire;
maggior dolore al mondo non si può immaginare
di quel vedere il figlio la passione patire.

Le sue membra sembravano, in tanto sospirare,


che tutte si sciogliessero lascrime lacrimando,
molto si addolorava il figlio suo vedendo
così malconcio e lacero lentamente morendo.

Non poteva parlare, tale era il suo dolore,


ma quando la sua lingua si sforzava di dire,
la sua gran sofferenza la lingua le impastava,
si torceva infelice, tanto si condoleva.

Perduta la parola, la voce le mancava,


piangendo si torceva, torcendosi piangeva,
piangeva sospirando, piangendo sospirava:
nessuno che pensasse al male che mostrava.

Tanto era il suo dolore che mai nessuno ebbe


angustie così atroci, mai soffrì tanta pena:
il contegno di lei rendeva manifesto
che permaneva in lei un dolore funesto.

O grande compassione della nostra regina,


di quella dolce madre che è nostra medicina,
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che tanto sospirava piangendo la rovina,
sentendo per suo figlio una tremenda pena.

O preziosa dama, o stella mattutina,


piangendo i miei peccati il mio cuore declina,
affinché lacrimare potessi a tal rovina,
come facevi tu per la passion divina.

Intanto Gesù Cristo sulla croce pendeva


e guardava sua madre che tutta si doleva,
e volle consolarla, ma farlo non poteva:
lei non si dava pace, tutta si contorceva.

Lacrimando piangeva, dicendo amaramente:


«O Dio, figlio dolcissimo, o Dio, figlio possente,
che devo fare, io, infelice e dolente?
per me dolore e male non cessano un istante.

O figlio benignissimo, o figlio onnipotente,


chi farà che io muoia e immediatamente?
O figlio, dolce amore, tu muori, me presente:
o Dio, tu mi abbandoni, infelice e dolente.

Stradolcissimo figlio, o figlio incoronato,


lascia che con te muoia non lasciarmi qui sola.
Se muori senza me, non avrò più rifugio:
per te tutta vien meno la mia triste persona.

O morte crudelissima, tu mi devi ammazzare,


più di ogni altra cosa vorrei poter morire;
dopo che il mio buon figlio non si volle salvare,
che la povera madre possa con lui morire.

O Dio, figlio dolcissimo, o mia grande allegrezza,


vita della mia anima, mio piacere e allegrezza,
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lascia che con te muoia chi vive in sofferenza,
il mio prego esaudisci, toglimi sofferenza.

Ogni essere umano, che sia figlio gentile,


deve sempre esaudire la madre sventurata;
o Dio, figlio prezioso, e da me tanto amato,
nella passione accoglimi, son tanto addolorata.

O miseri giudei, voi mi dovreste uccidere,


dopo aver inchiodato mio figlio sulla croce:
la madre insieme a lui venite a crocifiggere,
me misera morendo col figlio vendicate.

O dolorosa angustia, dolore e poi dolore,


o pena stradurissima che le membra mi abbatte,
io prego che la morte venga e da qui mi tolga,
che tanto la desidero, ma sembra non mi accolga.

Se potessi morire, sarebbe gran conforto,


più che restare al mondo in questa condizione:
per mio figlio che muore io provo un gran dolore;
sarò così lasciata senza nessun conforto.

Il bene e la speranza, la mia gioia finisce


ed ogni mio conforto da me ormai svanisce:
o Dio, che devo fare? Come soffre il mio cuore!
Povera me, che fare? c’è mio figlio che muore.

Perché mai sopravvive la madre a tal dolore,


proprio mentre suo figlio muore nel disonore?
O morte crudelissima, scatena il tuo furore,
perché muoia con lui; sarebbe un gran ristoro.

O figlio, dolce figlio, io mi rallegrerei


se morissi con te. Con te morir vorrei,
perché dopo la morte con te io tornerei;
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dopo di te vivendo, io troppo soffrirei.

O morte crudelissima, quanto tu sei crudele


se non mi fai morire: mi sei troppo nemica.
Se potessi morire, morirei volentieri
anziché sopravvivere al figlio in tal maniera.

Povera me infelice, misera e sconsolata,


da me non vuol venire questa morte agognata.
Me dolente e tristissima, come son sventurata,
dal mio figlio dolcissimo sarò abbandonata.

Benignissimo figlio, vita della mia vita,


ascolta le preghiere della madre avvilita
che vorrebbe morire: abbine compassione,
condivida morendo con te la tua passione.

Niente mi è più greve, e niente mi è più amaro


che a te sopravvivere figliolo mio caro.
Dopo, cosa farò? Il vivere mi è odioso,
di sospiri e di pianti non è il mio cuore avaro.

O figlio, dolce amore, mi sei padre e marito,


mi sei fratello e figlio, o cuore mio angosciato;
ora son resa vedova dal figlio mio prezioso,
dal padre e dal fratello, dal dolcissimo sposo.

Oggi se perdo tutto, la mia gioia più grande,


se perdo il mio conforto, il mio premio prezioso:
o dolore angoscioso o perdita angosciosa,
non vedo alcun sollievo a un male così grande.

O figlio stracarissmo, cosa posso ormai fare?


amore dilettissimo, dove dovrò andare?
Non so dove mai volgermi, non mi so confortare,
nel pianto e nei sospiri son costretta a restare.
p p
Chi mi potrebbe dare sostegno e un po’ d’aiuto?
Io sto venendo meno per il troppo dolore;
finirò assai prostrata, se non mi fai morire,
lasciami qualche cosa che mi sia di conforto».

Allora Gesù Cristo, signore onnipotente,


dolente e angoscioso, sul legno della croce,
fa un cenno a san Giovanni mentre stava piangendo
e a lui si raccomanda per sua madre dolente.

Poi volle consolare la madre nel dolore


e disse: «O dolce madre, tu che stai sospirando,
tu sai che venni al mondo per volontà del Padre,
per subir la passione, sulla croce morendo.

Nel mondo, o dolce madre, tu sai che son venuto,


e aver da te la carne tu sai che ho voluto,
per mezzo della croce, dove sono inchiodato,
devo salvare il mondo, che era ormai perduto.

Ma senza la passione come si compirebbe


ciò che è nelle Scritture? La passione più dura
soffro perché la gente si salvi da sventura,
dai peccati del mondo, dalle pene infernali.

Se anche devo morire sul legno della croce,


venuto il terzo giorno sarà resurrezione:
allora mi vedrete con gran soddisfazione,
a te e ai miei discepoli quel giorno apparirò.

Davanti a te, allora, io mi presenterò.


O madre, così incline a piangere e soffrire,
poni fine al dolore, cessa quel sospirare,
alla più alta gloria del Padre voglio andare.
Rallegrati, invece, o dolce madre amata:
ho trovato la pecora che si era smarrita,
grazie a questa passione sarà infine salvato
tutto il mondo, e per questo dev’essere compiuta.

O madre stradolcissima, ma perché ti dispiace


se faccio questa morte che pure al padre piace?
Il calice che ho avuto non vuoi che beva in pace,
affinché del demonio l’opera si disfaccia?

O madre stradolcissima, o madre mia preziosa,


esci dal tuo dolore, non esser lacrimosa,
se anche sia che muoia di morte tormentosa,
certo non ti abbandono, non devi essere afflitta.

No, io non ti abbandono, non avere paura,


nei secoli dei secoli, sempre sarò con te
e se anche la morte mi schiaccia io non posso
essere maledetto: ho divina natura.

Sai bene, dolce madre, da dove son venuto,


non soffrire così se sarò risalito;
devo tornare al Padre che quaggiù mi ha mandato,
ma il tempo di tua morte non è ancora arrivato.

Con me verrai un giorno, ma non puoi farlo adesso:


Giovanni, tuo nipote, ti starà accanto intanto,
e al posto di tuo figlio ti obbedirà con cura,
lui sarà il tuo sostegno, non aver mai paura».

A san Giovanni, allora, disse queste parole:


«Ecco la madre tua, a te la raccomando;
tu devi averne cura e stare al suo comando
essere il suo sostegno nel mondo rimanendo».
E mentre Gesù Cristo tutto questo diceva
la madre, con Giovanni, ascoltando capiva;
ma per il gran dolore parlare non potevano;
quello che lui diceva udivano, ascoltavano.

Vedendo che Gesù poco a poco moriva,


che era quasi già morto e il suo fiato finiva,
tanto dolore avevano, che nemmeno potevano
rispondere a Gesù che oramai moriva.

Erano come morti davanti al Signore,


parlare non potevano per il grande dolore,
udivano e tacevano, piangendo per amore,
vedendolo morire in tale disonore.

Intanto il re di gloria, in quella condizione,


disse che aveva sete. Subito gli fu offerto
aceto mescolato a fiele in una spugna
messa in cima a una canna ed era quasi morto.

Quell’amara bevanda ebbe appena assaggiato,


«È consumato» disse, e dopo aver parlato,
reclinò un po’ la testa e disse: «O Padre amato,
in tue mani il mio spirito sia raccomandato».

Detto questo esalò il suo ultimo fiato,


il sole s’oscurò, l’aria si fece buia,
ci fu subito dopo un grande terremoto
e anche il grande tempio fu in due parti spaccato.

Mentre il corpo di Cristo era così umiliato,


Longino lo colpì con la lancia sul fianco,
e quando dalla lancia fu ferito e piagato,
sangue e acqua gli uscirono dal lato martoriato.
In vita e dopo vita, il nostro gran Signore
sopportò strazio, pene e grande disonore.
Al mondo non c’è uomo, sia giusto o peccatore,
che non possa commuoversi per questo gran dolore.

Abbiamo ricordato la tremenda passione


che Gesù sopportò senza remissione.
sapendo tutto questo un uomo di valore
non potrà non commuoversi, averne compassione.

Udendo la passione del Cristo venerato,


di come fu tradito, di come fu vessato,
non c’è uomo qui al mondo tanto duro di cuore
da non sentirsi tutto stremito e amareggiato.

Mai un uomo potrebbe in pace sopportare


……………………………………………………………
la passione crudele udendo raccontare
che sopportò per noi Gesù nostro signore.

E non gli sarà greve d’inverno né d’estate


sopportare per Dio vergogna e povertà,
e fame e sete e freddo, disagi e infermità,
ingiurie e disonore che gli fossero inflitte.

Non dovrà essergli greve nessuna sofferenza,


né il perdonare a chi gli avrà recato offesa
nè sarà molto afflitto facendo penitenza,
e piangendo i peccati con gran resipiscenza.

Nessun piacere avrebbe nel mangiare e nel bere,


pensando che il Signore per noi subì il martirio,
senza peccato alcuno, né colpevole azione;
fu solo per noi reprobi ridotto al vituperio.
SCRITTURA AUREA

La lettera dorata vengo ora a raccontare,


ed è cosa dolcissima da leggere e ascoltare:
se qualcuno vorrà udire un bel cantare,
per grazia dell’Altissimo qui ne voglio narrare.

Qui vi verrò a dire delle dodici gioie,


delle glorie dolcissime, le gloriose dolcezze,
beni del paradiso, quelle grandi ricchezze:
in parole di festa e di grande dolcezza.

Son parole che a leggerle si prova gran conforto,


perché è molto piacevole, parla di gioia e gloria:
mio Dio che dolce premio per chi è vissuto accorto,
come sarebbe bello raggiungere quel porto.

Può esser molto allegro il giusto per suo merito


con ricchezze e tesori così grandi premiato.
Chi perde tutto questo è matto ed è malato:
perdendo un tal tesoro può solo esser compianto.

E quanto sia grande quel prezioso tesoro,


non si può immaginare, lo dice anche san Paolo.
Chi legge la scrittura che è lavorato in oro,
se non fa penitenza è più duro di un toro.

Prima che vi racconti dei grandi giovamenti,


delle dodici glorie in terra dei viventi,
vi voglio ricordare di quali benefici,
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di ciò che viene al giusto alla sua dipartita.

Giunto alla fine, il giusto, all’ultimo respiro,


volge attorno il suo sguardo e in cuor suo si addolora,
ma vede accanto gli angeli che sono allegri in viso.
Stanno aspettando l’anima di chi sta per morire.

Si dicono l’un l’altro: «Costui è in nostra cura,


lievi custodiremo la sua anima pura,
e poi lo porteremo per sua buona ventura,
nella suprema gloria, nella gioia più pura».

E allora dice il giusto: «Vedo grandi dolcezze,


qui c’è un gaudio dolcissimo e c’è un grande piacere;
che bella compagnia, quella che mi auguravo,
se devo andar con loro non avrò da temere».

Gli rispondono gli angeli: «Non vedi ancora niente,


presto ti portemo dov’è l’Onnipotente,
dove potrai vedere la faccia rilucente,
il viso stradolcissimo di quel Signor potente.

Tu vedrai molto presto la ricchezza preziosa,


la dolcissima gloria, la dolcezza gloriosa,
conforto e allegria e festa deliziosa
e mai non sentirai sofferenza angosciosa».

Allora dice il giusto: «Come ho desiderato


di poter pervenire a questo gran conforto,
penso di esser vicino al massimo diletto
e riceverò dunque il compenso perfetto».

Mentre così parlava uscì il suo ultimo fiato,


e gli angeli gli prendono l’anima quand’è spirato,
lo portano lassù, nel dolce paradiso,
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così ogni sua lacrima è per sempre asciugata.

Al cospetto del Padre dolcissimo, gioisce,


in diletto ed in gloria festeggia e si conforta:
piacque a Gesù Cristo fosse aperta la porta,
lassù dove è il giusto da tanto bene accolto.

Allora canta il giusto e dice: «O me beato,


il dolce Gesù Cristo ne sia glorificato,
Padre e Spirito Santo per quello che mi ha dato;
che sia benedetto e sempre ringraziato.

Quello che davo ai poveri nel tempo trapassato,


con grande contentezza io qui l’ho ritrovato;
del bene fatto al mondo son stato ripagato;
godo del grande amore, come sono beato!».

Qui il giusto ebbe risposta e con queste parole:


«Poiché nella tua vita hai servito il Signore,
per questo tu avrai sempre conforto e grande onore,
e mai dovrai temere di avere alcun dolore.

Qui rimarrai per sempre davanti al tuo Signore,


in dolcissima gloria in dolcezza gloriosa;
e nel giorno novissimo sarà il corpo radioso,
qui resterà con l’anima in gioia e in splendore».

E allora dice il giusto: «O gran dolcezza eterna,


quanto sarà infelice chi perde questa gioia.
Se anche non avesse paura dell’inferno,
dovrebbe prodigarsi per vivere in eterno.

Se anche non ci fosse l’inferno a far paura,


dovrebbe adoperarsi per poter conquistare
questa gloria bellissima che la gioia assicura,
una festa talmente piacevole e sicura».
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Qui della prima gloria della città eterna,
è bene che io dica e della gran bellezza
in terra dei viventi, delle piazze e contrade
che son tutte oltremodo lucenti e ben ornate.

Quella città suprema è di oro lucente,


piacevoli le piazze, le mura risplendenti,
i prati ed i giardini adorni e accoglienti
di gigli strabianchissimi e di altri fiori aulenti.

Lassù, in quel giardino, c’è quel fiore lucente.


Non c’è nessuna stella con luce più splendente;
ci son rose marine, talmente stralucenti
che il sole, al confronto, sembra non esser niente.

In quel giardino splendono fiori di ogni sorta,


vermigli, indaco e gialli, con buonissimi odori,
e verdi e strabianchissimi, non perdono colori
e tutti pienamente splendono senza sosta.

Non ci son brutte bestie, né lacrime, né urla,


ma ci sono uccellini che esuberanti cantano;
i versi stradolcissimi grande dolcezza portano,
godono in grande amore coloro che li sentono.

Di pietre preziosissime son coperte le mura,


di gemme splendidissime e di molto valore;
vale di più una gemma, che adorna quelle mura,
di quelle di oltre mille mondi, tanto è il valore.

Le stanze son dipinte di dolcissimo azzurro,


c’è un lavoro bellissimo d’oro lucente e puro,
con un tale splendore che il sole pare oscuro
vicino a quelle stanze, tanto risplende puro.

È tutto stralucente di una luce straintensa,


lassù in quelle stanze non c’è luogo che sia
né possa mai cadere in tenebre notturne:
non c’è sole né luna nella dimora eterna.

La chiarità di Dio è di tale fulgore


che laggiù non occorre che altra luce ci sia.
………………………………………………………………………
Quella luce splendente non si può raccontare.

Là non c’è troppo caldo né freddo fastidioso,


non fiocca e non tempesta, e non c’è mai tristezza.
Né scighera né nubi, né paura angosciosa.
………………………………………………………………………

Il tempo là è strabello, il clima temperato,


dolcezze e allegria, ognuno è consolato
ha salute con gioia, prosperità e diletto,
abbondante ricchezza, nessuno è spaventato.

Lassù niente si perde e niente mai s’invecchia,


non c’è niente che muti, che si guasti o marcisca;
non c’è rincrescimento e nessuno perisce,
non ci son sozzi vermi, né scorpioni, né bisce.

Ogni cosa è in salvo e fresca e rinverdita


rimane integra sempre, godibile e in salute;
la volontà dei giusti si compie in ogni cosa,
le feste che si fanno non saran mai finite.

Non ci sono montagne, valli o terre selvagge,


né sterpi, rovi o spine, non ci son pietre aguzze,
luoghi impervi o fossati, né figure paurose,
né fantasie, né furie o cose spaventose.

È una pianura amena di angoli piacevoli,


con arbusti bellissimi, proprio meravigliosi,
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fiori e foglie non cadono perché sono perenni.
Ci sono molti frutti e anche questi piacevoli.

I frutti di quegli alberi in terra dei viventi,


sono talmente buoni, così dolci e gustosi,
che assaggiandone un po’, giammai e per sempre,
non sentirste angustie, né febbre, né tormenti.

E allora si rallegra il giusto, si addolcisce,


non gli rincresce il tempo che passa, rinverdisce,
più a lungo lì rimane e più ne è rapito
si sente fresco e vivo e non è mai incupito.

Si trova proprio bene e vede con piacere


le bellezze del luogo dove adesso dimora;
se anche ci sta mille anni non gli par neanche un’ora.
Chi è stato accorto in tempo, Dio, come può gioire.

Il giusto, rimirando quei luoghi così adorni,


le piazze, le contrade, le belle case, gli orti,
e tutti quei diletti trova tanto piacere.
Mille anni? Neanche un’ora, e nessun dispiacere.

Dio, signore di gloria, dolce re che stai alto,


potessimo anche noi compiere quel bel salto,
essere noi lassù, in quella dimora alta,
dove regnano sempre gaudio e gioia elevata.

In questa dolce gloria dice il giusto cantando:


«Dio, come son beato questa città ammirando,
ma che grande dolcezza, come io sto godendo,
che dolci versi odo: gli angeli stan cantando.

Ma che grande bellezza, come sono contento,


che opere strabelle ci sono in paradiso.
In pianti ed in miserie stavo al mondo umiliato;
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o che gaudio dolcissimo: qui il pianto è volto in riso.

Siccome in penitenza ho passato la vita,


piangendo e digiunando fui sempre molto afflitto,
son sempre stato puro in parole e nei fatti,
per questo son nel numero dei santi benedetti.

Siccome in buone opere mi sono adoperato,


né ho amato vedere i più folli piaceri,
adesso sono in pace, nella gioia sperata,
e ora la bellezza vedo più delicata.

Perciò in paradiso mirando mi diletto


questo chiaro splendore e il male non mi aspetto:
Dio, come può star male il misero dannato,
il quale a queste glorie non può esser chiamato.

Dio, splendore purissimo nella città celeste,


è grande il mio conforto in questa bella festa:
qui non piove e non fiocca, qui non c’è mai tempesta,
ma c’è sempre bel tempo, stradolcissima festa».

La gloria seconda è nel soave odore,


così stradilettevole che neanche si può dire:
l’odore di ogni spezia che al mondo puoi trovare,
paragonato a quella è una puzza infernale.

Un’aura lievissima e tutta profumata,


spira strasuavissima, è dolce ed è serena
come non potrei dire né scrivere con penna:
e niente è tutto il balsamo di ogni spezia terrena.

Tanto, là, sa di buono il più sublime fiore,


che le rose e i gigli e le spezie mondane,
messe insieme saprebbero di puzza e di pantano,
p p p
confronto a un fiorellino di quel fiorir sovrano.

Ci sono tanti e olenti fiori in quella città,


viole, rose ed i gigli di grande soavità,
che profumano ovunque, per piazze e per contrade:
e troppa è la fragranza dei prati di città.

Se nel mondo ci fosse solo uno di quei fiori,


tutto il mondo sarebbe profumato dal fiore
ed esalerebbe agli uomini tutta la sua dolcezza
tanto che nessun uomo sentirebbe il dolore.

L’odore di quel fiore è talmente piacevole


che nessuno sarebbe così tanto ammalato
da non esser guarito dal morbo che lo affligge
se soltanto sentisse quel profumo squisito.

Dio, che possiamo dire dell’eterno tripudio


di fiori innumerevoli in quella terra pura?
C’è un profumo dolcissimo, soave per natura;
che allegria per il giusto che sta in quella dimora.

Il giusto in quella gloria canta per grande amore,


e dice: «O me beato, la puzza non mi sfiora.
C’è un odore mirabile in questa terra santa,
sanno di buono i fiori e piante di ogni sorta.

Il mio cuore stragode in questo odor soave;


per un uomo è incredibile la goduria che provo;
non perderebbe tempo chiunque avesse un cuore
pur di aver questa gloria, che mai verrebbe meno.

Nel lezzo dei peccati non mi sono guastato,


così nessuna puzza qui mi ha appestato,
ma un profumo mirabile dolcemente mi arriva:
farò qui la mia Pasqua sempre con gran conforto».
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Quello che ora diremo è della terza gloria,
delle grandi ricchezze di onori in abbondanza;
lassù il giusto possiede beni senza timore,
mirabili possessi, domini e castellanze.

Non mancano gioielli, né gemme preziose,


non oro o argento al giusto, né feste deliziose,
né orti, né palazzi, né camere gioiose,
solo dolci ricchezze, nobili e amorose.

Lassù possiede il giusto onore e dignità,


lassù ognuno è re, ha grande potestà,
è capo di province, di bellezze è il signore,
le signorie del giusto non si posson narrare.

Lassù non manca al giusto avere né potere,


servi ben messi e pronti, gioielli e anche giullari:
giullari che le feste rendono più perfette,
con versi così belli che io non li so dire.

Davanti a lui risuonano cortesi melodie


usano diane e organi in dolce sinfonia:
i più bei versi al mondo, il meglio che ci sia,
parrebbero in confronto paura e villania.

Lassù il giusto si gloria e gode in gran dolcezza,


tante le sue ricchezze, tanti i suoi onori,
anche un solo denaro, del minimo valore,
vale di più del mondo intero, è una certezza.

Nessuno dei suoi averi potrebbe mai guastarsi,


né esser divorato né mai venire meno,
saran sempre abbondanti: o Dio, è davvero bello
trovar queste ricchezze che mai verranno meno.

Che gioia per il giusto che ha fatto un tal guadagno,


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che ha un simile tesoro stragrande oltre misura:
perdere le ricchezze è un rischio che non corre;
che gioia per colui che ha pensato al futuro.

Per questo il giusto canta e dice: «O me beato,


che gran ricchezza è questa che mi son guadagnato,
come son pieno e ricco, e come sono agiato;
non mi mancherà mai un tesoro pregiato.

Intanto sono qui, straricco e benestante,


e tutto ciò che voglio io l’ho immediatamente,
averi e gran tesoro non saran mai perduti,
non mi manca il denaro né oro sufficiente.

Qui qualsiasi moneta val più di mille mondi;


delle noie patite nel mondo non mi curo;
io ho vinto il mondo con forza e in battaglia,
perciò non avrò mai dolori né travagli.

Poiché nella mia vita fui sulla retta via,


disagio, umiliazioni, povertà sopportai,
adesso in paradiso dei tesori son degno,
così dei grandi onori nel delizioso regno.

Siccome ciò che avevo sempre condividevo


con bisognosi e poveri nel tempo in cui vivevo,
ora sono esaltato nella ricchezza vera
e questi grande onore non potrà mai finire».

Il quarto gran conforto nella corte celeste,


essendo uscito il giusto dalla prigione umana,
è il suo canto più bello di un usignolo o gianna,
e fa più dolci suoni di un organo o di diana.

Quando si sa scampato dalla pena mondana,


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da noia o da miseria, da prigione terrena,
è tutto confortato da una dolcezza piena:
non può capire un uomo il godere che prova.

Sa di essere uscito da ogni tentazione,


dal dubbio e dal pericolo, da ogni tribolazione
che non potrà cadere né avere mai tormenti:
il cuore suo stragode di dolci sentimenti.

Non potrà più peccare né essere turbato


e non è più in pericolo di smarrire il suo stato,
né di andare all’inferno, nel male sprofondato,
perciò ne ha grande gaudio, dolcezza smisurata.

Se un uomo fosse in carcere e a morte condannato,


poniamo che scampasse, non sarebbe beato
come lo è il giusto, allegro per essere scampato
al carcere del mondo e sano e confortato.

Se uno fosse malato di un morbo assai spiacevole,


di lebbra, di gran febbre, di gotta tormentosa
e fosse tutto pieno di un dolore umiliante
che gridar lo facesse con un grido angoscioso,

se fosse liberato dalle sue sofferenze,


non avrebbe un conforto così grande e piacevole
com’è il paradiso al giusto dilettevole
per essere scampato a gravi turbolenze.

Ma in fin dei conti, io non dico quasi niente


del gaudio che il giusto prova in sé quando vede
che è partito dal mondo con un salto virtuoso
ed è venuto alla gloria del Dio Onnipotente.

Per queso canta il giusto e prende a raccontare:


«O Dio come posso rallegrarmi così
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io l’altissimo re voglio glorificare
di questo gran conforto che mi ha voluto dare.

Le lacrime e i pianti dagli occhi mi ha asciugato,


dai mondani pericoli protetto e scampato:
o gloriosa festa e conforto trovato,
in questa gran dolcezza son sicuro e affrancato.

Dio, come sono allegro, come sono guarito,


dal carcere del mondo fin qui sono salito,
con un salto virtuoso che io ho compiuto;
non temo alcun pericolo che mi possa annientare.

Non per mille migliaia né d’oro né d’argento


io tornerei al mondo, neanche per poco tempo
………………………………………………………………………
per mille mondi d’oro, tanto sono contento».

E ora la quinta gloria in terra dei viventi,


dove si ammira il volto così bello degli angeli
e di nostra regina e i volti stralucenti
del dolce re di gloria con grandissima gioia.

È dolcezza mirabile ed è gloria fiorita,


dilettevole festa, stradolce e soddisfatta
vedere in volto gli angeli e la santa Maria,
la faccia dell’Altissimo che ha tutti in sua balia.

Chi vedesse un angelo, tanta è la sua bellezza,


ne avrebbe tal conforto, così tanta dolcezza
e tanto volgerebbe il cuore in allegrezza
che non avrebbe più dolore né tristezza.

Vedendo uno di quelli ne avrebbe un tal godere,


un così gran conforto, un così gran piacere,
che se lo scorticassero non ne avrebbe dolore,
finché il volto di un angelo continuasse a vedere.

Tanto ha da stragodere, tanta dolcezza avrebbe,


anche se martoriato, e niente sentirebbe
finché il volto di un angelo potesse egli ammirare,
e tanta è la sua gloria che non si può narrare.

Dio, come può godere il giusto in paradiso,


ce ne sono a migliaia con dolcissimo viso:
quanta gloria fiorita, com’è il giusto gioioso;
il suo cuore è stradolce, il pianto volto in riso.

O che festa giuliva, che gloriosa festa,


veder tanta dolcezza e mirabili gesti:
veder gli angeli in viso nella città celeste,
le facce degli arcangeli è un grande accadimento.

Continuassi a parlare per centomila anni,


non potrei raccontare delle gioie grandissime,
come vedere gli angeli. O dio, un premio bellissimo!
Quelli che non lo avranno son troppo matti e folli.

Che mai si può pensare della regina pura,


la signora degli angeli? Dio, che grande tripudio
vedere la sua faccia, tanto dolce bellezza,
la faccia strabellissima, piena di gran dolcezza!

O gaudio dolcissimo, o allegria fina,


mirare lo splendore di nostra gran regina,
la forza stramirabile, la stella mattutina,
la rosa odorosa che è nostra medicina.

La Vergina chiarissima è di tale splendore


che messa a confronto con il disco del sole,
la sfera, in paragone, non ha alcun valore,
ma perderebbe in tutto, tanto è il suo splendore.
p p
Piacesse al Creatore che di ciò fossi degno,
di ammirare anch’io il bel volto benigno
di quella dolce dama, lassù, nel grande regno;
a lei, per tutto il tempo, mi dono e mi consegno.

O dolce Padre altissimo, di te che penseremo?


È certo dolce gloria, che dire non possiamo,
la tua dolce faccia vedere e rimirare;
che gioia per il giusto che ne potrà cantare.

O dolce re di gloria, Signore onnipotente,


tanta è la sua bellezza, tanta è la sua dolcezza,
che il giusto quando mira il suo bello splendore,
si stradolcisce in cuor godendo grande amore.

Questa gloria dolcissima quanto sia in vero grande,


non vi potrà spiegare legista né scrittore:
il giusto ha questa gloria, che gli dà gran conforto,
di mirare la faccia di quel grande Signore.

Se uno fosse torchiato dalle pene d’inferno


e poi dall’altra parte vedesse la gran gioia,
cioè il dolce viso di quel Signore eterno,
direbbe «non è niente» del male dell’inferno.

Niente egli sentirebbe dell’infernal tristezza,


e tanto stragodrebbe vedendo tal dolcezza.
Che ciò sia vero, noi abbiamo la certezza:
Agostino lo dice per nostra sicurezza.

Qui dice allora il giusto: «Che conforto piacevole,


come sono contento e che grande dolcezza,
potrò mai sentirmi stanco con tanta bellezza?
molto, qui, mi rallegro, oltre l’immaginabile.

Gode il cuore vedendo i volti risplendenti


p
degli angeli bellissimi, così belli e piacenti,
della dama sovrana del dio onnipotente:
questo è un piacere pieno e dolce e divertente.

Siccome in vita mia il mio Signore amavo,


col cuore e con la mente spesso a lui pensavo
e volentieri suoi messi a visitare andavo
e ricevevo i poveri, molto li consolavo.

Per questo sono qui, dov’è il desiderato,


dolce volto di Cristo che è tanto delicato:
o festa e ancora festa, festa così apprezzata,
o che gloriosa gloria, qui mi viene donata».

Dopo la quinta gloria, vi racconto la sesta.


che è nell’udire canti d’armonia deliziosa,
quei canti stradolcissimi di troppo gran conforto,
che suonano gli angeli in quel luogo di festa.

Lassù cantano gli angeli canzoni raffinate,


versi così piacevoli e al mondo mai sentiti,
fanno stradolci canti in concerti perfetti
davanti al re di gloria, il figlio di Maria.

Gli Angeli e gli Arcangeli cantano i mattutini,


Dominazioni e Troni e poi i Cherubini,
e ancora i Principati, Virtù e Serafini,
e con le Potestà, facendo begli inchini.

Son questi i nove ordini, cantano dolcemente,


c’è chi canta per primo e poi c’è chi risponde.
Fanno festa cantando e piace così tanto
che per quanto io dica non dico quasi niente.

I versi di ogni angelo sono di tal dolcezza,


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sono così piacevoli e tanto confortevoli,
che i più bei versi al mondo, dico con sicurezza,
paragonati a quelli ci parrebbero orribili.

Se gli uccelli del mondo e tutti gli strumenti


risuonassero insieme tutti allegri e contenti,
parrebbero al confronto solo immondi lamenti
tanto son dolci quelli in terra dei viventi.

Si può dunque ben credere che quella gran dolcezza,


sia una dolce festa e un eterno tripudio,
dove sono in migliaia che per loro natura
cantano tutti insieme versetti in gran dolcezza.

Nessun uomo nel mondo sentirebbe dolore,


finché i canti di un angelo potesse egli sentire,
fosse anche martoriato non potrebbe patire
il male e la dolcezza gli scenderebbe in cuore.

Se centomila anni durassero quei canti,


non gli parrebbe un’ora, tanto lui ne godrebbe;
che allegria per il giusto, e che grande conforto,
udirne a migliaia cantare versi santi.

Se tutte le erbe al mondo e insieme anche le foglie,


avessero la forza, la lingua per parlare,
dicendo della gloria di quel dolce cantare,
la millesima parte non ne potremmo dire.

Laggiù il giusto si gloria e ha quello che ha voluto;


udendo tali versi sente stringersi il cuore.
Come sarà beato chi in peccato non muore
Dio mio, è davvero saggio chi fugge dal peccato.

«O Dio – dice il giusto – quale dolce diletto,


che dolci versi odo, e che bella armonia:
è questo un gran conforto, che gran consolazione,
il cuore mi si volge in allegria perfetta.

Volentieri ascoltavo, nel tempo in cui vivevo,


le prediche, le messe e le buone parole;
la vanità del mondo non volevo ascoltare
e dai folli diletti sempre mi allontanavo.

Perciò ora son degno di udire il gran conforto,


i canti stradolcissimi: Dio mio quanto piacere
e quanto mi ha giovato essere stato accorto.
Così non udrò mai spiacevoli rumori.»

Della settima gloria verremo qui a narrare,


la dona Gesù Cristo, se voi vorrete udire,
volendo ai santi giusti di mano sua servire,
ché nella loro vita lo vollero obbedire.

Il nostro re di gloria di mano sua consola


il giusto benedetto che lassù ha dimora;
di sua mano lo serve, col suo amore lo onora,
questo concede al giusto perché in vita fu accorto.

E lo conforta tutto e tutto lo rincuora,


gli offre i suoi servizi e il cuore gli addolcisce:
di tutto ciò che vuole, tutto ciò che gradisce,
tutti ciò che desidera: sempre lo esaudisce.

Più di quanto non chieda più di quanto non voglia


gli dà il nostro Signore, volendolo appagare:
i doni che fa al giusto, tanto lui lo sa amare,
e i bellissimi premi non si posson narrare.

O Dio, che gloria avere un così gran Signore,


avere il re di gloria a far da servitore.
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Il gaudio che ha il giusto, che trova tanto onore,
non lo può raccontare sapiente né scrittore.

«O Dio – canta il giusto –, è la più grande gioia


che il dolce re di gloria mi faccia una carezza,
che sia qui a servirmi con tanta confidenza,
e il mio cuor si rallegra, si volge a gran dolcezza.

O gloria dolcissima o pura allegrezza,


qui io non posso avere che una grande dolcezza,
e un bene dopo l’altro, con grandissimo gaudio,
mi tocca e mi conforta e mi tiene in tripudio.

Nel mondo tribulavo finché laggiù ho vissuto,


ma Dio e i suoi messi io ho sempre servito,
per questo adesso il Cristo mi fa allegro e contento,
mi serve e mi regala tutto ciò che domando.»

Dopo la gloria settima parlerò dell’ottava,


dei cibi deliziosi della pace sovrana:
lassù si trova il giusto in dimore bellissime,
ha cibo spirituale, verace e dolcissimo.

Lassù non c’è mai cibo che sia guasto o ammuffito,


e non è mai sgradevole e neanche insufficiente;
non c’è un boccone amaro, cattivo o velenoso,
né si guasta o marcisce, non è mai disgustoso.

Ma è sempre molto fresco, impeccabile e sano,


soave e assai piacevole, profumato e condito,
puro, amabile, bello e molto saporito,
così dolce il sapore che non si può spiegare.

Il cibo è molto buono, il pane lì è bianchissimo,


le frutta son dolcissime, davvero preziosissime,
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è pane scelto e buono e il migliore del mondo,
paragonato a quello parrebbe velenoso.

Vale più un bocconcino di quel pane che è eterno


di tutto quanto l’oro e l’argento del mondo:
così buono è il sapore del vino celestiale,
che il nostro accanto a quello è veleno mortale.

Non c’è uomo nel mondo pur gramo e tormentoso,


da non esser per sempre pacificato e allegro
se gustasse anche poco di quel cibo glorioso,
tanto è sano e dolce, soave e prezioso.

Là non mancano cibi sceltissimi e stradolci,


il pane strasoavissimo, vini stradelicati,
i datteri e i frutti hanno soave odore:
quei sapori dolcissimi non si posson narrare.

Ci son sedie bellissime, davvero stralucenti,


dipinte e intagliate, mirabilmente ornate;
vale di più un pezzetto di quelle belle sedie,
che mille carri d’oro e non è ancora niente.

I deschi son preziosi e belli e risplendenti,


adorni e lavorati, con fregi eccellenti,
poi tovaglie di seta e tutte ricamate,
con lavori mirabili, piacevoli e lucenti.

Ci sono coppe d’oro, pure e meravigliose,


che sono tutte adorne di pietre preziose,
nelle quali si bevono bevande gloriose,
bevande stradolcissime, saporite e odorose.

Là non c’è nessun vaso che non sia assai prezioso,


sono belli e piacevoli come non può esser detto:
il nostro re di gloria, il figlio di Maria,
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prepara lui stesso la tavola imbandita.

Lassù, a quella tavola, il giusto si allieta:


stando in quelle delizie il cuore si addolcisce;
il cibo assai piacevole che molto gli è gradito,
lo fa stare beato e lo rinvigorisce.

Vedendo il Padre Altissimo che viene lì a servire,


il cuore gli si volge alla piena allegrezza
piacesse a Gesù Cristo che per la sua grazia
potessimo anche noi godere quei piaceri.

E qui racconta il giusto: «O che grande allegrezza,


è proprio un bel convivio, deliziose vivande,
che dolcissime cose, qui, il cibo e le bevande,
non potrebbe descriverle scrittore né sapiente.

Siccome in vita mia mortificai la gola


e afflissi il mio corpo, e per Dio lo facevo,
allora il Padre altissimo mi pasce e mi consola,
mi serve e con amore molto grande mi onora.

Dell’eterno convivio per questo sono degno


e sono ristorato dal Signore benigno:
o che cena piacevole, che fortuna ho avuto
avendo guadagnato il mirabile regno».

Della nona gloria ora verrò qui a dire,


delle vesti preziose, per chi vorrà sentire,
di quanto siano belle, e senza mai mentire,
ma non c’è lingua al mondo che le possa narrare.

Là ci son vesti adorne di grande qualità,


di seta e di porpora, di bisso e panno fino:
come può stare bene chi in tempo è stato accorto,
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e quegli abiti belli indossa dopo morto.

Non ci sono vestiti che siano scuri o bruni,


ma sono risplendenti e senza macchia alcuna:
quello che meno splende splende più della luna;
accanto a quei vestiti la neve sembra bruna.

Nessun uomo nel mondo, per quanto tormentato,


o debole e ammalato, non guarirebbe subito
se avesse anche soltanto uno di quei vestiti:
hanno un grande valore, non si può immaginare.

Là non c’è nessun panno che possa rovinarsi,


né a causa delle tarme potrà mai bucarsi,
né che si possa rompere e neanche invecchiare,
né che dispiaccia al giusto potendosi sporcare.

Ma sono tutti abiti durevoli e adornati


e nuovi e sempre freschi, strabelli e raffinati,
tessuti a fili d’oro, lucenti e lavorati,
con figure mirabili dipinte e disegnate.

Sono vesti acconciate con gemme risplendenti,


con gemme preziose, strabelle e strapiacenti.
I vestiti del mondo più belli e più piacevoli
in confronto parrebbero brutti e disonorevoli.

Il giusto, rimirando, quelle vesti perfette,


ha il cuore che si volge alla gloria perfetta;
son tutti incoronati di corone fiorite:
le stelle, in paragone, parrebbero annerite.

Il giusto, in tanta gloria, si sente confortato


e dice: «Me beato, sono infine arrivato!
Essendo stato al mondo accorto e avveduto,
ora mi trovo in gloria e mi sento appagato!
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Non mi curavo al mondo di vani adornamenti
e rivestivo i poveri, miseri e freddolosi,
per questo ora mi trovo in terra dei viventi,
porto grandi corone e begli adornamenti».

La grande bellezza è la decima gloria,


il puro splendore la sua grande beltà,
e tanto il giusto splende nella grande città,
che un uomo non potrebbe averne neanche metà.

Ed è talmente bello in quella sua figura,


tanto è la sua forma adorna e aggraziata,
che quando egli si guarda ne prova un tale gaudio
che si trasforma tutto in gioia e in tripudio.

La faccia stralucente splende di un tal colore


che il sole in paragone sembrerebbe incolore;
la lingua per parlare è di grande dolcezza,
gli occhi son luminosi, del più grande splendore.

I capelli egli ha d’oro, lucenti e pettinati,


i denti strabianchissimi, il volto colorito,
le mani strabellissime, piedi assai delicati
e tutte le sue membra strabelle e ben formate.

Nessuno che sia infermo, dolente o rancoroso,


né piccolo né troppo grande, né ernioso,
né vecchio, né deforme, né muto, né lebbroso,
né zoppo, storpio o cieco e non lentigginoso.

Lassù ognuno invece è sempre allegro e sano,


di forma armoniosa, integro e molto bello,
e fresco ed è ben fatto, di gradevole aspetto,
diritto, lindo e giovane, piacevole e perfetto.
Lassù nessuno è pigro, né matto, né spiacevole,
né magro, né stragrasso, non puzza e non ha febbre:
nessuno è marcio dentro, né brutto, né spiacevole
e non gli puzza il fiato, non è certo sgradevole.

Ognuno invece è adorno e lesto e intelligente,


cortese e armonioso, leggiadro e avvenente,
è bello dentro e fuori, profumato e splendente,
il fiato sa di buono, ha un odore fragrante.

Ma in fin dei conti io non dico quasi niente


della grande bellezza del giusto, che non viene
mai meno: come è bello servir l’Onnipotente
il quale dona al giusto questa festa splendente.

Lassù si guarda il giusto, si vede così bello,


e dice: «Me beato, che bella novità.
Al mondo ero creduto e vile e miserello,
e ora sono qui, splendente e tanto bello.

Poiché tenevo l’anima monda da ogni peccato


e mondane sozzure, tutto io fui mondato,
per questo le mie membra son lucenti e curate
e di questo splendore non si può raccontare».

Veniamo adesso a dire della gloria undicesima,


di questo bel soggiorno che ha il giusto, in eterno,
perché egli è scampato dalle pene d’inferno,
così ne ha grande gaudio, dolcezza sempiterna.

Quando sente la gloria della suprema pace,


essendo egli scampato dalle grinfie di Satana,
dai dolori tremendi dell’orrenda fornace,
è tutto confortato da una gioia verace.

E vede il peccatore nell’infernal calore,


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oppresso dall’angustia, nel pianto e nel tremore,
mentre lui è scampato a quel grande dolore:
e tutto si rincuora, gode per grande amore.

E poi vede il superbo che soffre e non ha niente,


si beffava di lui, nel tempo in cui viveva,
e ora lui vive in pace e non può più cadere:
lassù si esalta tutto, nella dolcezza viva.

Se tutte quante le erbe e le foglie parlassero,


in centomila anni non potrebbero dire
il gran gaudio del giusto e tutto il suo conforto
vedendo che i demoni non gli danno tormento.

Vedendo che è arrivato a questo gran sollievo,


che può vedere il volto, vedere la bellezza,
la faccia dell’Altissimo provandone dolcezza,
tanto che tutto in lui è pieno di allegrezza.

Per questo il giusto canta, dicendo: «Son scampato


ai tormenti infernali, qui mi trovo protetto;
per mani dei demoni non sarò mai punito.
O che gaudio dolcissimo, che dolcezza perfetta!

O grandissimo gaudio, io non ho più paura


che Satana negrissimo mi colpisca e mi opprima:
scoppierà dall’invidia, di dolore e di pena
per non avermi preso nel suo dannato inferno.

Crepa dunque di invidia: lui non mi ha catturato,


vede che son fuggito dal fuoco sempre acceso.
Si gonfia più di un rospo, il dolore lo ha preso,
lodato sia l’Altissimo, che da lui mi ha difeso».

Dodicesima gloria sarà la sicurezza:


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in paradiso ha il giusto fermissima speranza;
di poter peggiorare non deve aver timore,
non deve mai temere né angoscia né dolore.

È una gloria mirabile, mirabile allegrezza,


dolcezza e poi dolcezza, dolcissima dolcezza,
l’aver questa speranza e grande sicurezza
di un eterno tesoro senza mai sofferenza.

Il giusto mai non teme di avere alcun tormento,


spera che al dì novissimo avrà un miglioramento,
che il corpo sarà in gloria e in grande godimento
e sarà per il giusto un doppio pagamento.

Per grande amore aspetta la dolcezza verace,


quando nel dì Novissimo risorgerà in pace
per virtù dell’Altissimo, che può ciò che gli piace,
e udirà la voce del Signore verace.

Egli udirà la voce del figlio dell’Altissimo:


«Venite, benedetti del padre Onnipotente,
la gloria voi avrete e sarà eternamente».
Dio mio, che grata voce per il giusto che ascolta.

Questa voce dolcissima per l’anima ed il corpo


sarà una doppia gloria di festa e di conforto.
Dio, come sarà bello venire a tanta gioia,
trovare tanta gloria per chi fu in vita accorto.

Perciò stragode il giusto e tutto si consola,


e perciò egli aspetta che venga anche quell’ora
che il corpo in tanta gloria risorgerà ancora:
e tutti si conforta, quando ci pensa sopra.

Se poi dovesse uscire da quel luogo beato,


dopo anche esserci stato per moltissimo tempo,
p p p
non potrebbe sentire il minimo timore
di finire all’inferno, di esserne bruciato.

Di questo non può avere timore né apprensione,


mai perderà lo stato di, in eterno, beato,
senza fine godrà quella grande dolcezza,
in festa ed in gioia, in gloria e in sollazzo,

In questa dolce gloria, il giusto prende a dire:


«O dio quanto posso rinfrancarmi e godere.
Questa mia dolce gloria non potrà mai finire,
per rinnovarsi sempre e sempre rinverdire.

O piacevole gloria che sempre mi rinnova,


non potrò mai udire una cattiva nuova,
fino alla mia fine vissi in buon operare,
e per questo non temo che mi offenda un dolore.

Turbamento o dolore ormai più non aspetto:


perché in penitenza mi sono consumato,
perché in sempiterno qui eletto sono stato;
il giorno del giudizio con gran conforto aspetto.

Aspetto il dì nuovissimo, della resurrezione


del corpo che qui intanto in allegria e in piacere
e in splendore purissimo risplende e si conforta.
Il godere che aspetto non si può raccontare,

Dio, come son contento del bene fatto al mondo.


Io della penitenza portai il peso leggero,
perciò ora sono in pace e in dolcezza gioconda:
alle mie dolci glorie non c’è fine né fondo.

Nel gaudio dolcissimo rimarrò tutto il tempo:


qui sono beatissimo e ricco ed eccitato,
gioioso e allegrissimo, gioioso e consolato;
g g g
il dolce Padre altissimo ne sia glorificato».

Abbiamo raccontato la lettera dorata,


che da leggere è dolce e piace, è delicata.
Chi legge questo scritto non è uomo che possa
arrivare alla gloria di fatica stremato.

E se questo mio scritto per grande amor leggesse,


non c’è uomo del mondo che incerto rimarrebbe
sul fare penitenza, affinché poi potesse
guadagnarsi una vita che mai deluderebbe.

O dio, è proprio matto, cattivo e stupidissimo


chi perde un tal tesoro qualche scusa adducendo!
E come invece è saggio, nobile e buonissimo,
chi guadagna un tal premio sempre in bene operando.
DE SCRIPTURA NIGRA

In nom de Iesù Criste e de sancta Maria


quest’ovra al so honor acomenzadha sia:
ki vol odir cuintar parol de baronia,
sì olza e sì intenda per söa cortesia.

Odir e no intende negota zovarave,


e ki ben intendesse anc negota farave,
ki no metess in ovra zo k’el intenderave:
o l’om no mett lo cor e l’ingegn, nïent vare.

In questo nostro libro da tre guis è scrigiura:


la prima sì è negra e è de grand pagura,
la segonda è rossa, la terza è bella e pura,
pur lavoradha a oro ke dis de grand dolzura.

De la scrigiura negra da dir sì ven la sorte:


dra nassïon de l’omo, dra vita e dra morte,
dre dodex pen dr’ inferno o è grameza forte.
De faza ke no intramo dentro da quelle porte.

La rossa sì determina dra passïon divina,


dra mort de Iesù Criste fïol de la regina.
La lettera doradha sì dis dra cort divina,
zoè dre dodex glorie de quella terra fina.

De tute tre scrigiure diram allegramente:


de la scrigiura negra diram imprimamente,
la qual ki la lezesse col cor e co la mente,
e sospirar e planze devrav amaramente.

La nassïon de l’omo sì è de tal color


k’el fi inzenerao il brut interïor
de sangu’ ked è mesgiao de puza e de sozor:
in bruta albergaria perman albergator.

Quand è venuo lo tempo, zoè k’el ven a nasce,


no porta in quest mondo dond el se possa pasce,
ma ven cativamente, col membre flevre e lasse:
nixun serav superbo, ki sover zo pensasse.

Segurament lo digo ke il mond no è baron


ke zamai devess star in exaltatïon
segond zo k’el devrave, s’el fess ben pensason
com sïa vil e horrida la söa nassïon.

La vita ked el mena despresïadha pare.


Fin a tant k’el è pizeno per lavorar no vare,
altrù imbrega sempre, le soe breg no en rare:
conven ke brega sia a pass e nudrigare.

Da po k’el è cresudho, k’el è bel in persona,


voia k’el sïa masgio, voia zentil garzona,
ben pò aver de fora parudha bella e bona,
bel è nixun de dentro, ni cavalé ni dona.

No è masgio ni femena ke sia de tal belleza,


ni pizeno ni grande, regina ni contessa,
ke bella sia de dentro, zo dig a grand boldeza,
anz è vaxel de puza, vaxel de grand bruteza.

Dal corpo za no exe bontà, se no sozura:


fò per la bella boca se fa scarchai e spudha,
pel nas e per le oregie e per li og pur brutura;
lo bel vaxel de fora, ma dentro è grand marzura.
No è condug il mondo ke sia sì precïoso
ke dentro no marcisca, quam tost el g’è ascoso:
dal membre del so corpo, anc paira ’l precïoso,
no ex alchun bon frugio, se no fastidïoso.

Le faze tenerelle dre don e dre donzelle,


lo coiro k’è de sovra le fa parir plu belle:
ki hav reschiniar via dra setileta pelle,
macinia ge farave il colorae facelle.

In tuta söa vita, tal picen tal cresudho,


da brega e da travaia sovenz fi combatudho:
quand el se cre ess levao, trova k’el è cazudho;
quand el se pensa venze, intant el ha perdudho.

Ora ric ora povero e ora gramezoso,


on k’el ha fam on sedhe on k’el è vergonzoso,
la rodha no ha stao, va sempre in regoroso:
ora ridhe, ora planze e ora fi dagnoso.

Oltri ha fio arnaldo on mat on travacao,


on sì g’avrà invidia alcun del so bon stao,
per que ’g firà tollegio lo so con grand peccao
……………………………………………………………

On in qualk oltra parte firà pres e robao


da latro on da tempesta, on k’el firà sforzao,
e ora caz da alto, dond el ven affollao,
on ke sovenz el è stang e affadhigao.

Ora serà infermo con grand desconsolanza


de febra on de gota on de oltra pesanza,
sì k’el no è sì bello ni de sì fort possanza
k’el non devenia sozo e lass in grand turbanza.

L’un di serà cantando, alegro e confortoso,


e l’oltro di serà e trist e gramezoso;
l’un di serà in riso e alt e gratïoso,
l’oltro di serà vile e horrio e vergonzoso.

Quant l’om serà plu alto d’aver e de possanza,


de nobili parenti, de honor ke i sovravanza
e de grand segnoria e de grand castellanza,
tant el ha molta fiadha plu brega e plu turbanza.

Plu è ’l perigoroso in quant el è plu alto:


sed el veniss a caze dal segnoril aspalto,
… trop serav greve e desorevre salto;
mei è a star al basso e star in segur stao.

Zascun k’è nao de femena, vivando pizen tempo,


è plen de molt miserie e de grand cargamento:
la söa vita misera, ked è pur un momento,
sì è pur un passagio, strapassa com fa ’l vento.

La rosa molta fiadha ke da maitin resplende,


lo so color da sira delengua e dessomente:
cotal sì è la vita de zascun hom vivente,
le glorïe mondane tut cazen in nïente.

La nostra vita misera, ke no perman in stao,


ne mostra e ne predica ke l’om k’il mond è nao
in quest peregrinagio no debia ess exaltao,
ma star in penitentia semprunca humilïao.

La vita così misera, Dominodé n’à dao


azò ke lu per quella debia ess predicao,
e lu recognoscando lo so sì fragel stao
no possa aver materia k’el debia ess exaltao;

azò k’el no’s confidhe in questa ombria vana,


il cosse transitorie, in la beltae mondana,
ma debia impensar dra glorïa soprana,
d’andar in nostra patria, o è richeza sana.
Se l’om in questo mondo dolor no cognoscesse
ni pagura ni pena ni cossa ke i nosesse,
saver el no porave, se ben saver volesse,
que foss dolor de inferno, dond el temor avesse.

Ma per le pen del mondo e pel present pagure


sì pò comprender l’omo ke quel dr’inferno en dure,
dond el se ’n dé comove lo cor a grang rancure,
e far k’el possa fuzere da quel rëe venture.

Ki ben pensass la vita ke n’è apresentadha,


sì fragel e sì misera e sì despresïadha,
nexuna persona unca devrav ess exaltadha,
anz a l’honor dr’Altissimo sempre humilïadha.

Dra mort la qual fa l’omo aregordar ve voio,


dra qual, quand eo ge penso, con grand tremò ’m condoio,
k’ell’è de tanta forza e è de tant orgoio,
no guarda a discerne qual sia forment on loio.

Ni’s pò fuzir per presi ni se pò venz per forza:


la vita de omihomo con so furor se smorza.
Ella ne mena l’anima, quilò reman la scorza,
lo corpo desformao, k’è dexdesevre cossa.

Le membre sì ’g recïano, le golt han flevre raso,


desfigurao e sozo lo corpo g’è remaso,
despendorao e gramo, no è ki ’g daga baso:
lo vis è trist e horrio, la boca, li og e ’l naso.

La guardatura è volta e soza e travacadha,


ke ’l vanitae mondane veder s’è delectadha,
li dingi reginai, la boca ’g sta badhadha,
k’in bev e in mangiar tant era delicadha.

Plu no demanda vita ni delicao condugio


ni carne ni plumento ni pan ni vin cernudho:
oi boca desoradha, o he lassao quel frugio
dond tu passiv quel ventre ke a soz port t’à redugio?

O he ’t lassao quii cibi k’eran de tal mainera?


Abandonao è ’l ventre, no è ki plu ’l reguera
se no li bruti vermini ke ’l pasceran vontera:
quant el serà plu grasso, intant n’avrà plu tera.

Le braze e le gambe, k’eran formae e grosse,


sì bel e sì fidante, mo en pur pel e osse:
za marciran in proximo entra terra il brut fosse,
proëza on baronia mai no faran in oste.

Oi De, oi carne misera, com ste tu lassa e trista:


com e’ t desfigurao, com he tu soza vista.
No ’s pò trovar pro homo ni medic ni legista
ke possa le defende ked ella no marcisca.

O è li toi parenti, li amis e i casamenti,


muié, fïoi, nevodhi ke ’s mostran sì dolenti,
l’aver e la grandisia? Oi De, com mal te senti:
la fossa è to albergo, l’è vermni en toi parenti.

Oi carne, in toa vita perké donca te exalti?


Li vermni plu te aspegiano in quant plu te atanti
in grassa e in drueza; li toi pensé en rari
per fin ke tu no pensi d’aver cotai gamaiti.

Le doie e li tormenti e mort e sedhe e fame,


tut queste coss avemo per lo peccao de Adame:
la nostra vita fragele orzem per quel forame
ke plaza a De, ke certo de nu firà levame.

Da zo sì me partisco: or ve dirò dra pena


ke ha l’om quand el more, com quella è soza zema:
quand ex lo flao dal corpo, la doia k’el ne mena
no se porav ni dir ni scriver co la pena.

El no è meraveia se quel è gran dolor


quand se partiss lo flao col natural calor,
ke tut se scrola ’l membre con doia e con tremor
ke l’arbor sì se strepa con sì crudel frentor.

In quant l’om è plu drudho e ’d plu fidant persona,


intant plu ha angustia e pezo se condona
quand l’arma se ’n partisce, ke ’l corp sì abandona:
la morte crudelissima a nexun hom perdona.

Se alchun poëss comprende quel grand dolor ke sia,


per mille carre d’oro ni per honor ke fia
no av sofrer la morte, tant el la temeria,
ponem ke resustar devess a tuta via.

Per ess segnor del mondo, de tut l’aver ke sia,


s’el ne fosse alezudho, la mort no prenderia:
ki sor la mort pensasse, zamai no peccaria,
anz servirav a l’anima teniand per bona via.

Dolent illora quii ke morirà i peccai:


pos la mortal angustia sempre han fì tormentai,
da tug li ben del mondo i han fì abandonai,
ni mai serà conseio ke i possan fì scampai.

Lo peccaor del mondo, quand el se dé partir,


s’el no portass se no la pena del morir,
ben k’la foss grev angustia, ben av de quella insir,
ma oltro apress conven k’el debia sostenir.

Intant ke mor l’infermo, k’el volz la guardatura,


apress g’è li demonij ke’g meten grand pagura,
k’en desformai e nigri e horribi de figura,
e disen l’un a l’oltro: «Quest è sot nostra cura.
Dentro il nostre ovre la soa vita è stadha:
senza tenor alcuno or fiza sì scorladha
quest’arma maledegia ke le a tuta fiadha
dal corpo se partisca, e po fia tormentadha».

Lo peccaor intanto se ’n va pur in redezo


e dis: «In questa pena quent gran dolor e’ vezo;
veder cotal pagura zamai no covedhezo;
se debio andar con quisti, quest è re stramadhezo».

Responden li demonij: «Oi miser ti dolente,


no se’ tu que zo sia, no e ’t anc cognoscente:
za tost te portaram il nostro fog ardente,
o doia e grand pagura zamai no dessomente.

Denanz dal Belzebub, il pozo profundao,


lo qual è nostro prencepo, za tost firé portao,
o ’t converrà sofrer tremor dexmesurao:
segond le toe ree ovre za tost firé pagao».

Respond lo peccaor k’el ve ben pur k’el more;


se volz in grand tristeza, se torz e tut se dore,
e dis: «Guaia mi misero, com mal me sta lo core.
…………………………………………………………………………..

Oi miser mi cativo, com mal me sta ’l talento.


S’eo debio fì punio de così grev tormento,
vontera tornareve al mond per grand talento:
farev tal penitentia ke De ’n serav contento».

Oi dolze Patre altissimo, com serav grand conforto


sed el poëss tornar al mond con lo so corpo:
el exe fora l’anima, e intant el è morto;
tard è ’l aregordao, no fo ’l per temp acorto.

Quam tost el è perio, senza nexuna triga,


el caz entro inferno, no fa el k’el no diga:
«O sont eo albergao? Rason no feva miga
ked eo devess venir a tal albergaria».

Responden li demonij, quellor ke g’en da presso:


«Tu fiv in töa vita ben predicao adesso:
perké peccav tu doncha? perké no fuss confesso?
In far le male ovre tu fuss sempre trop fresco».

Respond lo peccaor e a parlar se sforza:


«Eo crig al me’ re corpo, a quella bruta scorza;
dri fag de penitentia zamai no i feva forza.
La mïa grand mateza lo me’ bon stao asmorza».

Illò respond li spiriti, k’en desformai e nigri:


«Perzò ke l’arma e ’l corpo entrambi en colpivri,
il di dra grand sententia, ke i pe seran delivri,
lo corp e l’arma à arde in quist fog tormentivri».

«De – dis lo peccaor –, oi miser mi cativo,


o è l’aver tamagno k’eo possedheva vivo?
Lo me’ aver oltri ’l godhe e eo sont a mendigo:
no è plu ki m’aïdha, ni parent ni amigo.

Oi miser mi dolente, mi gram desconsoroso,


o è la grand possanza, l’honor meraveioso,
l’orgoi e la superbia? Oi cor angustïoso,
com sont eo descazao, mendig e angoxoso.

Com mal eo vi la heredex, lo qual eo tant amava:


curand eo dri fïoi, de l’arma no curava.
In fii e in richeze al mond eo me fidhava,
dond mo conven k’eo stia in pena desoradha.

Perdudho ho ’l me’ conseio, mi miser, mi dolente:


a mi zamai no manca dolor il fog ardente,
zamai no ’m scamparà ni fii ni oltra zente
ni anc mondan tesoro, ke tut caz in nïente.
Tai goen le mee richeze ke stan in grand sozerno,
ke stan drudhi e morbij de stae e anc d’inverno,
ke molt han pizna cura s’eo sont entro inferno:
eo sont tard regordao de lez in quest quaerno».

Com quel è mat e sempio ke guarda pur a prende


lo premeran principio e pur illò s’intende,
no guarda que se ’n segua ni a zo vol attende:
tal par ess bon principio k’è rea coa da rente.

La fin sì lodha l’ovra: illò sì se comprende


lo sen del savio homo ke vol comprar e vende.
Se ’l peccaor guardasse a la fin o el descende,
al dolce Iesù Criste zamai no av offende.

Dre dodhex pen dr’inferno quilò sì se comenza:


quest en parol da planze a l’om k’à cognoscenza;
ki ha oreg sì olza, ki ha cor sì intenda,
ki sa sì meta in ovra, ki no sa sì imprenda.

S’el foss ki ben odisse de quelle grang pagure,


el se ’n devrav comove le prëe k’en sì dure:
quand e’ ge pens ben sovra, e’ n’ho de grang pagure;
lo nost Segnor ne guarde da quel rëe venture.

Se tut le lengu’ dei homini k’il mond se pon trovar,


de quelle pen grandissime prendessen a parlar,
pur la millesma parte no aven recuintar:
in quella albergaria no fa bon albergar.

Tang en illò i tormenti ke dir no se poria:


ki sover zo pensasse, zamai no peccaria;
ki cor avess in corpo, denanz se guardaria;
ki se guardass inanze, de dre no i ’stoveria.

Illò sosten li miseri de tute guis tormenti


e han tut lo contrario de quii delectamenti
dond i al mond usavano con falz adovramenti;
segond le ovre proprie fi dai li pagamenti.

Li peccaor tristissimi illoga fin pagai


segond le ovre proprie de tug li soi peccai,
e de tut lo contrario i fin desconsorai,
azò ke ’l pen respondano a tug li soi peccai.

Ora ’v comenz a dir dra pena premerana,


zoè la flama scuria ke abrasa in quella tana:
tant ard plu quella flama ka no fa la nostrana
k’la nostra apress de quella parrav rasent fontana.

Se l’aqua de la mar illoga fiss collegia,


pur una sola gota dra flama maledegia
no av perir. Oi De, com quella è grand destregia;
oi De, com pò ess gramo ki ard in quella stregia.

L’arsura de quel fogo tant è dexmesuradha,


se in mez de questo mondo ne foss una flamadha,
lo mond in poca hora no g’av aver duradha:
cuintar no se porrave l’arsura profundadha.

In quella grand arsura fi ’l peccaor desteso:


de fora e de dentro par un cairo apreso.
Pur d’una sola gota el no vol fì inteso;
illò conven k’el sia marturizao e preso.

Oi De, quent dura pena, quent dexorevre lazo.


In un fog picenello sed eo teniss un brazo,
quent re temp eo avreve: quent grand mateza fazo
se quella grand arsura sgivar no me percazo.

Con plang e con dolor lo miser prend a dir:


«Vontera morireve, sed eo poëss morir.
In fag de penitentia no voss eo perfinir,
perzò da questa flama zamai no poss fuzir.

Per quel ked eo ardeva pur in l’amor carnal,


il fog dra avaritia, ke m’era tut mortal,
perzò eo fiz punio il grand fog infernal,
lo me’ ris è stravolto in plang perpetüal.

Oi miser mi dolente, eo ard in questo fogo,


la lengua m’ard a flama, ni stiza d’aqua trovo;
in confundevre angustia me torz e me comovo:
quant eo g’apen plu digo, intant eo sont plu novo».

Dig de la prima pena, dirò de la segonda,


zoè dra puza grande ke ’l peccaor circonda:
no pò aver oltro airo, ni trova o el se asconda;
s’el no avess se no questa, ben li serav aonda.

La puza e ’l soz airo del sofreg abrasente,


le puz de tut lo mondo, anc parlo quas nïente,
no aven ess tut insema cotanto puzolente
com è pur una gota de quel pudor ardente.

La puza de quel soffrego sì fortment è corrota,


se l’om, qual el se sia, n’anasass pur ’na gota,
mort cazerav de angustia, tamagna avrav l’angoxa:
tant è fort quella pena k’eo parlo quas negota.

Que doncha pò far quello ke g’è tut invoiao,


ke no pò prend oltro airo ni asazar lo flao
se no de quella puza? Com quel è blastemao,
ponem k’el sïa sempre così passïonao.

Oi, quent terribil pena me par ke quella sia:


s’eo foss in una casa ke foss de fum compia
e eo ge stess ben poco, oi De, com mal staria,
ke li og me planzeraveno e ’l flao me mancaria.

Oi De, que pò far quello ke sta in tal pudor,


ke no pò prend oltro airo in l’infernal ardor?
Quand eo pens sover zo, eo sont in grand tremor:
da quel pudor ne guarde lo nostro crëator.

«Oi – dis lo peccaor –, o sont eo mo venudho,


quent grand pudor è questo o eo sont descendudho?
Vontera morireve, ma eo no fiz olzudho:
in mi no so conseio, così sont confundudho.

La pena del calor no scusa ni me basta


ked eo no habia questo ke molto me contrasta:
in puza dri peccai eo tign mia vita guasta,
per quel ho questa puza ke malament me tasta.

La puza k’eo sofresco nexun me ’l crederave:


se in mez del mond ne fosse pur tant como starave
in un vaxel ben pizeno, sì grand pudor farave
ke tut lo mond e l’airo in poc se perderave.

De mi lasso tapino que donca pò fì creto,


ke tut in questa puza permagn dolent e breto?
I plang e i tormenti, oi, quant eo sont recreto:
mai no avrò bon stao ni log ni bon asseto.

Da quest pudor horribile, oi De, ki m’av aiar?


nexun quiloga trovo ke’m voia consolar.
Oi lasso mi tapino, zamai que debio far?
A mi no val far prego k’eo possa plu scampar».

Le doe pen v’ho za digio, or ve dirò dra terza,


zoè del zer fregissimo de quella terra inversa:
la zent no’g pensa sovra, tant è ’lla mo perversa
k’el è quas meraveia ke ’l mond no se reversa.
Tant è dexmesurao quel zer meraveievre
ke tut lo fog del mondo no’g serav sì bastevre
ke derzelar poësse la giaza dexasevre:
pur a un giazol ben pizeno no serav ben durevre.

Tant è illoga fregissima la giaza confundente,


la giaza de quest mondo, anc parlo quas nïente,
parrav apress de quella stracolda e strabuiente:
in quella giaza trema lo peccaor dolente.

Illoga fì desteso lo miser peccaor:


fora e dentro g’è giaza per forza del fregior.
Le membre tut ge tremano senza nexun tenor
e tute ge stradoleno del zer e del tremor.

Eo ho vezuo d’inverno ke l’om sovenzo trema,


sed el è malvestio, e i ding ge bat insema:
que doncha pò fì creto de quel ke ha tal blastema
ke dentro e fora zera, ni ha ki plu ’l redema?

In quella grand fregiura lo miser se lamenta,


e dis: «Oi mi dolente, com lo me’ cor tormenta.
Le mee nïol en giaza, lo me’ cor atalenta
de prend adess la morte, sed ella foss contenta.

Freg eo era i peccai del segolar bedesco,


perfin k’eo stig al mondo, e imperzò sofresco
lo zer e lo tremor, e dentro ’l pen acresco:
quant eo apen plu digo, intant eo sont plu fresco».

Dig de la terza pena, dra quarta dir ve voio,


dri vermni veninenti ke ’g stan con grand orgoio:
quand intra mi solengo cotal pensé acoio,
de grand spaguramento me turb e me condoio.

Li vermni venenusi in l’eternal calura,


scorpïon, biss, serpenti, dragon de grand pagura,
com fan li piss entr’aqua, ge viven per natura,
ke ’l peccaor venenano con pexima morsura.

I en sì plen de rabia e en sì soz e nigri,


se li homni li vedhesseno com i en spagurivri,
d’angossa moriraveno, no’g seraven bastivri,
tant i en desformai e tant en angoxivri.

De quii vermni ascorusi sì è ’l miser cairolento,


ke fora pel nïole lo van aveninendo;
le membre tute quante sì ie van i rodendo:
oi dolze Patre altissimo, com quel è grand tormento.

Eo vezo molta fiadha k’un vermen ben asevre


met l’om al trag dra morte con mors angustïevre:
que doncha pò fì creto del peccaor colpevre?
Quent dura pena el porta, com pò ’l ess angoxevre.

«Oi – dis lo peccaor –, com sont angustïoso:


al mond altrù rodeva, ma mo eo sì fiz roso.
A inganar lo proximo trop era desedroso:
or n’ho tal pagamento dolent e angoxoso.

Altrù rodeva al mondo, dond era mal e dagno,


ma mo me roe li vermini, desconsorao remagno:
de quel mal ked eo feva, oi De, com eo ’l bregagno;
mai no serà conseio il me’ dolor tamagno.

La mïa conscïentia me remordeva adesso,


del mal k’eo feva al mondo eo n’era trop incresso,
dond mo me roen li vermini ke’m tenen qui sopresso:
dal me’ dolor gravissimo mai no farò regresso».

Dig de la quarta pena, dirò de la cinquena,


la qual sì è là dentro veder pagura plena,
veder le faz dri miseri ke stan in la cadhena
e dentro apress li diavoli: questa è terribil pena.

Li peccaor ke apenano in quella grand arsura


en desformai e nigri e’d sì soza figura
ke l’un con grand angoxa de l’oltro se spagura,
ma soz en li demonij e de maior sozura.

Quii en strasoz e horrij, terribi de figura,


plu nigri ka caligine, la faza i han agudha,
la barba molt destesa, li crin de grand sozura:
mintro ai pei ge bate la grand cavellatura.

Li og en pur fog ardente, dond par ke illò dalfina,


ke stizan le filapole apres con tal rüina
com stiz de ferr cosente ke buie in la fusina:
da quii punax ne guarde la nostra grand regina.

Dal grogn e dal narise sì ex la negra flama:


lo volt è crudelissimo, la guardatura grama,
le al de spin horribele. Oi De, quent bruta rama,
com fa re despïarse da la soprana dama.

I han lo grogn tirao, la lengua sanguanente,


oreg a moho de porci, dond ex lo fog ardente,
le zampe com de orso, le ong d’azal ponzente;
la codha crudelissima sì è pur un serpente.

Le corne aguz com lesne, dond i van smanïando,


li ding com foss de verro fò del so grogn mostrando:
eo parlo quas nïente dre soe sozur digando;
a la regina dolce eo ’m rend e recomando.

Il mond no è hom vivo, ki intenda a ki el plax,


sed el vedhess da lonze lo volt del Satanax,
ke no fuziss plu tosto in una ardent fornax
ka quel voless attende a quel nimig ravax.
No serav hom al mondo de tanta segureza,
ke tant foss inboldio in quella spagureza,
ke no cazess zos morto d’angoxa e de grameza,
tant av aver pagura vezand cotal bruteza.

Oi De, que pò far quello ke tang in una traza


ne ve ke’g guarda adosso con dexorevre faza,
e ke zascun de lor ge offend on ge menaza?
Senza altra pena alcuna questa av ess ben grevaza.

Eo vez ke l’om de nogie, s’el è sol entra via,


s’el g’è devis k’el veza fantasia o altra arlia,
e fors serà un legno o frasca o altra ombria,
el s’ha sì aspagurir k’el n’à prend malatia.

A zo se pò cognosce ke ’l peccaor se dore


quand el ve li demonij con alegrevre core;
fuzir cotal pagura no pò se ben el vore:
oi De, com quel è savio ke i peccai no more.

«Oi – dis lo peccaor –, quent pessima compagna,


la söa guardatura com malament me dagna:
inanze ka sofrer la pagura tamagna
vorev k’el me cazesse adoss una montagna.

Eo pur me delectava il temp dra vita mia


in veder bon condugi e zog e ballaria,
le belle don apresso, le que per grand folia
vezand le desedrava d’aver tut in bailia.

Or fiz eo mo punio de quella grand rëeza,


no poss eo plu veder beltae ni alegreza,
se no le negre faze, pagur e grand bruteza:
lo ris m’è volt in plangio, lo zog in grand tristeza».

La sexta pestilentia ke porta ’l peccaor


sì è le grame voxe, lo plang e lo rumor:
illò è sì grand stremirio e è sì grand crïor,
lo tron e ’l tempesterio no farav tal frentor.

Se tut in un momento lo mond se travacasse


e ’l tron da tut le parte con grand rumor sgiopasse,
no serav tal stremirio ke tal furor menasse
com fa pur un demonio con cridhi e con menaze.

Illò ’g n’è senza nomero ke crïan tug insema:


li peccaor sì planzeno e tut lo cor ge trema,
ad alta vox i criano, no han plu ki i redema,
e li diavoli ghignano ke i dan la grand blastema.

Al mond no è hom vivo ke mai poëss mangiar,


pur un de quii demonij sed el odiss crïar:
plu ge serav lev cossa a lassà ’s scortegar
ka una de quel voxe odir e ascoltar.

S’el ge foss cantà inanze plu dolzement ka ian


e lolder e galandrie e altre olcel sopran,
tambur e segurei e organ e dïan,
vïol e caramelle e anovelet urban:

per zog ni per conforto ni per dolcez mondan


no se reboldirave k’el no moriss perman,
sed el da l’altra parte odiss le vox sotan
pur d’un de quii demonij, tant en soz e vilan.

Oi De, com pò ess gramo ki ven a quel deporto,


zoè odir quel rumor con tanto desconforto;
com pò ess gram lo misero ke a temp no fo acorto,
ke sta in tal stremirio o mai no è conforto.

Illò prend a parlar lo miser cativeto:


«Que olzo, mi dolente, com eo sont in re asseto.
Eo olz li plang dri miseri e li ghign del foleto:
com quist en soz lamenti, ke’m fan star gram e breto.

Com quest è grand stremirio, quent grand strabusenadha:


quent grand pagura eo olzo, ke m’è qui destinadha.
Se nexuna altra pena no foss aordenadha,
questa av ess ben bastevre, tant è ’la dexoradha.

Quand eo deveva odir le mess e ’l predicanze,


eo zeva a odir cantar le mate delectanze:
plu ’m delectava odir parol de inebrïanze
ka epistol ni evangelij ni altre bon xembianze.

Li cunti de Rolando, ma no de alcun bon sancto,


li cunti de luxuria odir no era stangio,
e mo no poss odir se no crïor e plangio
e li ghign dri demonij dond eo sont mo afrangio».

De sex grangi marturij aregordao avemo:


la dama glorïosa e ’l so fïol pregemo
ke lu ne dïa gratia azò ke nu possemo
fuzir da quel angustie quand nu strapassaremo.

Pos quelle sex angustie dei altre voio dir:


de la setena parto, s’el è ki ’n voia odir,
de zo ke fa i demonij per so us mantenir,
voiand li peccaor de söa man punir.

De quel seten marturio aregordar ve posso,


zoè de quel marturio stradexoreve e grosso
ke fan per si li diavoli. Oi De, com quel è osso,
perfin k’el viv il mondo ke a lor no volz lo dosso.

Com pò ess gram lo misero ke g’è fuzio in scosso:


illò no g’à ’l plu stao, illò no g’à reposso;
ki va entre soe braze no firà plu rescosso;
pietae no’g fì dri miseri k’en pres in quel resgiosso.
No ’g scusa le altre pene ai peccaor constrigi
ke i no abian quelle ke i fa li maledigi:
cuintar no se poria per fag ni anc per digi
li strag ke fan li diavoli dri peccaor affligi.

A membro a membro i scarpano col gramp e coi denton,


li biassan e i seguiano e i nizan coi baston,
con forc e cortelazi li fan pur in bocon,
com fa i beché mondani dri porc e dri molton.

Se pur un can me morde, on k’eo me taie un didho,


on k’eo scapuz un poco, a tuta fiadha cridho:
se d’una prëa grossa lo cò me foss feridho,
per terra caz de angustia, così sont eo stremidho.

Oi De, que pò far quii ke fin sì scavezai,


batudhi dai demonij e mors e stracinai?
Se d’alcuna altra pena no fossen tormentai,
de quella sola s’aveno giamar molben pagai.

Ancora li tormentano d’un oltro grand dolor:


le membre gh’incaënano a ira e a furor;
con tang mortai peccai com mor lo peccaor,
con tant cadhen ge ligano le membre con dolor.

Le bog e le cadhene pesant e trop ardente


le membre sì ge guerzano e ’l fan star trop dolente:
le doi de tut lo mondo le plu straveninente
apress de quel marturio pariraven nïente.

Oi De, com quel me par dolor angustïoso:


s’eo stess un pizen tempo in carcer tenebroso
destreg e imbogao, trop serev gramezoso.
Oi De, com pò ess gramo lo miser tormentoso.

No stan pur sover questo li gloti renegai,


ma tenen sor l’incuzine li misri desperai,
sì i schizan coi martei k’en trop dexmesurai,
com fi i massei del ferro quand i fin desmassai.

Con quii martei pesanti assai ge stan de torno,


ke squataran li miseri d’incerc in grand contorno,
e fan tan marteladha, bastass ke foss un stolmo:
oi De, quent grang angustie, com i ’g dan re sozorno.

Li martei dond martellano d’incerc in grand compagne


plu schizano li miseri ka no farav montagne.
S’eo pur me schiz un didho, le doi me paren stagne:
oi De, que pò fà i miseri k’an le doie tamagne?

Li confundui demonij no en anchora contenti


de dar pur quelle pene ai peccaor dolenti;
illoga flum de bronzo ge corren molt ardenti,
o li batezan lor: oi De, quent grev tormenti.

Illò dentro i suffocan e tug i cazen soto:


s’eo no fo penitentia, com sont eo fol e gloto;
se pur ’na gota d’aqua buient me toca a bioto,
a tuta fiadha angustio a dirve pur un moto.

Da po ke li an saiquai in quii flum tormentusi,


de dre sì se i stracinano a moho de can rabiusi:
no’g fi misericordia dri misri lamentusi;
quant i ge pon far pezo, intant n’en plu gabusi.

Da entramb le part dri flumi sì è i mont ombrïusi,


alt ked è meraveia e irt e spagurusi,
e en coverg per tuto pur de spin regorusi,
li quai en oltra modho ponzent e venenusi.

Sor quel montagn li erpegan mintro a la colmegna,


zos per quii spinz ponzenti, ke illò no è gramegna:
li spin ge scarpa ’l membre, dre que no’g par insegna
ke tut no sïan guaste, nïent se ’n ten insema.
Quand li han erpegai in cima ai mont adolti,
per quella istexa via li erpegan pez ka morti,
o sì i reversan zoso da quii sopran aspolti:
i flum ardent i cazeno con dexorivri solti.

Li renegai demonij, ke tugi stan insema,


ai misri za no calano de dar sì grev blastema:
a peccaor ke sia no val ke tant se prema
ke recrëar se possa, ni trova ki ’l redema.

No’g fan pur quel angustie, ma ’g fan ancora pezo,


e tant ge’n fan de greve ke quas nïent ve’n lezo:
quand eo ge pens ben sovra, in tut me spagurezo.
De faza ke no sìamo del nomer de quel grezo.

Se pur un spin me ponze on una qualk ortiga,


on k’en me morda un pulese on una qualk formiga,
el me stremiss per certo senza nexuna triga:
oi De, com pò ess gramo ki pos la mort mendiga.

«Oi – dis lo peccaor in quest… sì greve –,


quilò no trov tormento ke a mi someia leve:
sed eo poëss morir, vontera morireve,
ke qui no fi lassao reposs ni long ni breve.

Altrù rodeva al mondo, mordeva e percotiva,


ma mo eo fiz pagao del mal ked eo feniva:
oi lasso mi tristissimo, ke qui no trovo riva;
perdudho è ’l me’ conseio, fag ho mortal cadiva.

Perké eo stig al mondo ligao entri peccai,


perzò me fì in quest logo li membri incaënai:
per mi medhesm li ho fagi li dard atossegai,
dond è li membri proprij feridhi e implagai.

Oi angoxosa angustia, com fiz eo desubrao:


li spin me strazan tuto, o eo fiz erpegao
da la cima dri monti, on k’eo fiz stramenao;
quilò trovar no posso ki ’d mi fiza peccao.

Le membre pur un’hora mo’m fin lassae insema,


ma tut me fin desfagie, oi confundevre pena:
rason no feva al mondo d’aver cotal blastema;
zamai no poss attende reposs ke tant me prema.

Perfin k’eo stig al mondo entri peccai fu cego,


illò tut m’adovrava, trop era mat e bego:
perzò eo fiz ’dovrao in quest torment intrego,
e tai no’m lassa in stao a ki no’m val far prego».

Quilò sì ven a dir dr’ogena passïon,


la qual sosten lo misero senza remissïon,
zoè de fam e sedhe: illò no g’è canton
o sïa vin ni aqua ni pan, pur un bocon.

El mor adess de fame ni pò trovar condugio,


de pan pur una grigora, a tal port è ’l redugio:
se tut lo mond foss pan ke i foss inanz adugio,
no’g scoderav la fame, tant è ’l de fam stradugio.

In log de pan conven k’el mang carbon ardenti,


in log de companadhego li tosseg veninenti:
zos per la gola i inspenzeno li zoffreg puzolenti.
La fame crudelissima no’g balca in tug li tempi.

Illò delengua ’l misero de sé, k’el ha sì grande,


ke aver ’na stiza d’aqua no pò ke tant demande:
zos per la gola i inspenzeno, in log de soe bevande
ge fì lo bronz colao. Oi De, quent soz vivande.

Se pur du di eo stesse ke negota mangiasse,


eo mancarev de fame, e s’eo m’afadhigasse
de stae per la calura e grand sé m’agrezasse,
oi De, com mal stareve se ’l bever me mancasse.
Quent re temp eo avreve s’eo foss in quel inferno,
o no se pò redeme de stae ni anc d’inverno
ni pan ni vin ni aqua, ma semprunca in eterno
el g’è sé e fam durissima: oi De, quent re sozerno.

S’eo vez entra menestra la qual eo debio spende


un qualke vermen morto, l’angoxa me comprende:
un boconcel amaro, sed eo lo vegn a prende,
com plu tost eo lo sento, lo but incontinente.

Oi De, que pò far donca quel ke no sent in boca


se no carbon e tossego e puza sì corrota,
on bronz colao e ardente, ke mala vïa toca?
Mat è ki ten la vita entri peccai corrota.

Quiloga dis lo misero: «Quent mala vïa tenio.


Eo moiro adess de fame; tamagna sé sostenio,
se mille carr de aqua eo bevess a un contenio,
no’m scoderav la sedhe dond eo tant me desvenio.

Li flum ni le fontane con l’aqua de la mar


la sé, k’eo ho tamagna, no m’aven asmorzar;
se li mont fossen pan ked eo devess mangiar,
la fame crudelissima no m’ave abalcar.

Tu, gola maledegia, tal pagament recivi


segond k’eran quel ovre k’in töa vita fivi:
bon vin per le taverne e bon condug querivi,
in ieiunar per l’anima nexuna forza fivi.

Com malament eo compro le ovre de la gora,


li pasti delicai k’ella prendeva illora:
sofrer ni fam ni sedhe no volea pur un’hora;
de bev ni de mangiar no è hom ke ’m consora.

Anc oltro m’à nosudho, dond quest dolor m’è degno:


i pover besoniusi ked eo no fu benegno;
in far misericordia perzò ked era pregno,
no trov quilò nïente ke no me sia malegno».

La passïon novena, s’el è ki vol saver,


l’asperitae gravissima dra vesta e del giaser:
dirò imprima dra vesta, quent el la pò aver,
po ve dirò del legio, com el ge pò godher.

La vestmenta è texudha de spin e de rovedha


e de pii dur e asperi de veninenta sedha:
plu ponzen e plu taiano li pii o el se frega
ka li rasor taienti. Oi De, quent soza brega.

La vestmenta atosgadha e veninenta tuta


lo miser avenena, li grangi cridhi el buta,
li pii lo taian tuto, la pena è soza e bruta:
fora e dentro è plage in la persona tuta.

Entro poz de abisso, in quella grand fornaxe,


illò ge trova ’l tristo lo so leg o el giase:
no g’è plumaz ni paia in quel sozisme case,
ni drap sul qual el possa dormir e star in paxe.

Li ferr aguz e ardenti, ke i passa ’l doss e ’l pegio,


e scorpïon e bisse e zoffreg è il so legio:
oi De, quent grand angustia, com quel è grand despegio,
quent re giaser g’à dentro lo miser maledegio.

Oi De, quent grang angustie se porta in quella tana:


sed eo no ho camisa ma pur li pann de lana,
li pii me ponz la carne. Com eo faz grand matana
sed eo no fo tai ovre ke l’arma sïa sana.

Sed eo pur qualke terra me sento sot lo dosso


in leg on o me sia, za ben dormir no posso:
com sont eo donca misero, com sont eo mat e osso
sed eo no fo quel ovre ke l’arma abia reposso.

In queste grang angustie lo peccaor sì dise:


«Quent rea vesta è questa, com quest en ree camise,
in quent re leg eo giaso: mal abia ki’m ge mise.
Con angoxevre pene com el m’è ………….

O ho lassao la vesta sì precïosa e bella,


dond eo sì m’adornava a moho d’una polzella,
e ’l leg adorno e alto e ’l frix dra flor novella?
Tut ho perduo, mi tristo, cazuo sont fò dra sella.

Quand eo vedheva andar lo pover malvestio


ni da giaser trovava, eo ’l vedheva a invidho,
no’g dava leg ni vesta: pur k’eo foss ben guarnio,
de lor no me curava, perzò ’n fiz mo punio».

De la desena pena quilò sì v’aregordo:


quand sover quest eo penso, in mi no è conforto,
zoè dra pestilentia d’omïa guisa morbo:
ki no se guarda inanze, trop è quel mat e orbo.

D’omïa guisa morbo sì è ’l miser tormentoso:


tut è infistolao, malsan e smanïoso,
febros e paraletico, dal cò tro ai pei ronioso,
cretic e ingotao, inflao e pelagroso;

e losc e zop, il dosso sidrao e vermenoso;


lo cò ge dol per tuto, k’è brut e ascaroso,
entramb li og en marci, lo collo screvoroso,
li ding ge dol, el cria, bastass k’el foss rabioso.

Le braze deslongae, le golte g’en cazudhe,


la lengua besinfladha, le faze desveniudhe,
e cancro e orbexie, le spalle pendorudhe,
la puza dre oregie horribelment ge pudhe.
Le membre en per intrego inflae e veninente,
le interïor k’en dentro en marz e puzolente,
lo peg è pur pusteme, ke ’l fan star molt dolente:
nexun dolor k’el abia zamai no dessomente.

La somma sì è questa, ke quas nïent ve digo


de quelle pestilentie ke porta ’l trist inigo:
lo nomero dri morbi, con quant eo me fadhigo,
cuintar no se poria, sed eo ’g teniss ben digo.

No è de guisa morbo ke illò ’l miser no habia:


le menor pen del morbo en plen de tanta rabia
ke dir no se poria, ki ’l vol saver sì ’l sapia.
Com pò ess gram l’olcello k’è pres in quella capia.

Lo morbo men dagnevre sì è maior tormento


ka tut le pen del mondo in tut lo nostro tempo:
se pur un dent me dole, eo crio e sì ’m lamento;
com mal starev s’eo fosse in quel profundamento.

Dentro in quest pestilentie lo miser prend a planze


e dis: «Oi mi dolente, quent grand dolor m’atanze.
L’infirmitae gravissima le membre tut me franze:
com mal me sta le braze, lo vis, li og e le sguanze.

Perfin k’eo stig al mondo, curava pur del corpo;


teniva druo e grasso, bastass k’el foss un porco,
e san e confortoso: com fu eo mat e orco;
dra sanitae de l’anima eo curava molt poco.

La veritae lassava e andava pos l’ombria:


dra sanitae del corpo, ma no de l’arma mia,
temeva, e no curava de stragrand malatia,
perzò sont mo gravao d’infirmità compia».

La pena undexena ke ha ’l miser confundudho


sì è la grand grameza de zo k’el ha perdudho:
li ben del paradiso el av aver golzudho
s’el foss habiuo denanze acort e avezudho.

Quand el se sent in pene e in tamagn pesanze


e ve k’el ha perdudho sì dolze delectanze,
li ben del paradiso, confort e alegranze,
el crepa ben d’inodio e ’s torz in grang turbanze.

El ve k’el ha perdudho così sopran richeze,


tesor e grand corona e fest e alegreze,
richissime dolceze e dolcisme richeze:
illora el mena rabia e ’s volz in grang tristeze.

El ve k’in söa vita sì precïos guadhanio


aguadheniar poëva e lo tesor tamagno:
el planz e sì sospira; com fo el mat e zanio,
tard è ’l aregordao a planzer lo so dagno.

El ve…….. lo povero ki è in l’alt paradiso,


del qual el feva beffe il temp k’el era vivo:
lo povero se alegra e lu sta illò conquiso,
el crepa ben de invidia, a lu no ven za riso.

Quest è maior tormento, ke ge dà plu fort steche


ka no serav a l’omo s’el g’ foss tirao ’l buseche
on foss tut scortegao e foss fag im lambreche:
ki vol fuzir tal pena sì se guard k’el no peche.

Po ve k’el ha perdudho, quel miser cativello,


veder cotal dolceza, veder cotal novello,
zoè la dolce faza de quel Segnor sì bello
k’è Patre omnipoënte, dond el n’è gram e fello.

La faza stradolcissima del dolce Segnor Criste


no pò ’l veder: oi De, com el n’è gram e triste,
no poraven descrive scrivant ni anc legiste
la doia k’el ne mena, se tut lo mondo foss liste.

Se l’om perdess l’aver per so bescuramento,


dond el zess a mendigo, trop serav grev tormento;
que doncha pò fì creto del miser plangiorento
k’ha perduo tal tesoro, dond el va mendigendo?

Quilò sì dis lo misero: «Com sont eo confundudho,


richeze stradolcissime, oi De, com ho perdudho.
Quel k’eo scherniva al mondo, quel pover decazudho,
trovao ha grand tesoro, e eo sì l’ho perdudho.

In mia negligentia perdudho ho grand conforto,


perdudho ho grand richeza de l’eternal deporto:
oi lasso mi tristissimo, no fu per temp acorto,
mai no serò delivro dal tormentevre porto.

Ni Criste ni so messo al mond no voss amar,


perzò la söa faza mai no porrò mirar:
eo inflo plu ka brosco quand eo vegn a pensar
del ben k’eo ho perdudho e ’n poss plu recovrar».

Lo dodhesen marturio, k’è pez al peccaor,


sì è el desperao: quel è compio dolor
e pena sover pena, sover omia error,
grameza stradurissima, stragramismo tremor.

Lo miser desperao d’insir zamai no spera


da quel passïon grange, ma tuto se despera,
dond el ne mena rabia e d’angustia se pera:
mat è ki in bon ovre de De no persevera.

No spera ’l trist d’aver alcun meioramento,


ma sì spera pur sempre del so pezoramento,
zoè d’aver angustia con dobio pagamento
al di de la sententia ke ’l corp avrà tormento.
Oi De, quent grand angustia aver cotal speranza,
com pò ess gram lo misero ke apena in grand turbanza
e zamai no aspegia alcuna consolanza,
ma pur pezoramento, zoè dobia pesanza.

Sed el devess insir dai soi dolor tamagni,


quand el ge foss ben stao per centomilia anni,
per quella tal speranza mei portarav li dagni,
sperand ke fin avraveno li soi dolor grevagni.

Se ’l mond mintro al stelle de mei foss tut compio,


de quel se no una grana no foss amenuïo
in centomilia anni, quand el foss tut finio,
lo miser a quel termino torav k’el foss guario.

Se tut le montagn fosseno pur grane de senavre,


da po ke una formiga portadhe le avrave
a Roma tut insema, lo peccaor torave
k’el foss illora libero, e qualk speranza avrave.

Ma plu no pò a termino alcun ben aspegiar,


perzò se scarpa ’l tuto e prend a suspirar;
coi ding se roe la lengua, tant pò angustïar,
e dis: «Oi mi dolente, zamai que debio far?

Com sont eo confundudho e com sont affolao;


de tut le bon speranze com sont eo desperao.
Zamai plu no aspegio k’eo debia ess consolao,
aspeg lo di novissimo ke ’l corp firà pagao.

Lo di de la sententia con grand tremor aspegio,


ke ’l corp firà punio, mi miser maledegio.
No m’à valer illora a darme per lo pegio
ni a dir mëa colpa: con grand pagura aspegio.

Quand eo sont stao un’hora in quel malvax inferno,


mille ann el me pare, sì sont in re sozerno:
que debio far, mi lasso, ke zamai in eterno
in plang e in angustïe quilò farò l’inverno?

In queste grang angustie per mala vïa tenio:


no è plu ki m’aïdhe mi ki’m dïa sostenio;
per grand dolor delenguo e tuto me desvenio;
rason no feva al mondo d’aver cotal convenio.

Zamai no feva al mondo rason del me’ morir,


se no de ben mangiar e’d bev e d’inrichir,
de star drudho e morbio, dond debio mo fuzir,
dolor sover dolor me conven sostenir.

Eo crig al ben del mondo, a quel ke me inganava;


illò ge mis lo cor, de l’arma no curava;
da De no voss cognosce li ben k’el me prestava,
ma pur in grang luxurie li mei ben desubrava.

Oi tristo mi dolente, oi lasso mi cativo,


le doie k’eo sofresco no ’l crederav hom vivo.
O sont eo mo venudho? trop è ’l me’ cor inigo,
in mi no è conseio, venuo sont a mendigo.

A far li De servisij al mond me vergonzava,


dond mo conven k’eo porte vergonza desoradha,
vergonza confundevre e trop dexmesuradha;
oi angoxosa angustia ke m’è qui destinadha.

D’angustïevre angustia lo me’ cor sì delengua,


zamai no poss attende reposso ni anc trega:
le doie k’eo sofresco, la tormentevre brega,
com el me sïan greve no è hom ke me ’l creza.

Oi dolorosa angustia, oi doia sover doia,


oi angoxosa pena k’in gran dolor sì invoia:
in mi no è za membro ke tut no me stradoia;
lo ben eo l’ho perdudho, ki ’n pò trovar sì ’n toia».
DE SCRIPTURA RUBRA

De la scrigiura rossa quilò sì segu’a dire,


dra passïon de Criste a ki ’n plasess odire,
la qual per nu cativi ge plaqu’ de sostenire:
quest en parol mirabile da planz e da stremire.

Quilò ve dig del passio del fio de la regina,


la qual me dïa gratia e alegreza fina
ke parle drigiamente dra passïon divina;
apress zo sì ne scampe da l’infernal rüina.

Lo dolze Iesù Criste, quand Iuda l’av tradio,


la nog da li Zudé fo pres e asalio:
i lo legon sì preso, sì’g fen desnor compio,
bastass k’el foss un latro ke foss illò pario.

I lo menon al prencepo de tug li sacerdoti


e fevan sul palasio rumor e terremoti;
al rex de tut lo mondo no vossen ess devoti,
ma lo schernivan tugi, scrivant e sacerdoti.

Con beffe ne çugavano de quel Segnor lodhao,


dra puza e dra brutura lo volt ge fo sozao;
li servi lo schernivano a tort e a peccao;
ki tal desnor portasse zamai no fo trovao.

Oltri era ke i zucoti e le sguanzae ge deva,


oltri era ke ’l feriva de dré, po sì ’g diseva:
«Ora indivina, Criste, ki pos lo doss te deva;
se tu e’ fio dr’Altissimo, ben se ’t ki zo te feva».

No è hom viv ke creza lo grand desnor ke ’g fiva:


compassion no era al popul ke ’l scherniva,
ma pur dixevan: «Moira, no è rason k’el viva»;
Iesù molt humelmente tut zo per nu sostniva.

A la perfin e ’l menano denanze da Pillato


e falsament l’acusano, quel grand Segnor lodhao.
I volen pur k’el moira, e k’el fia crutïao:
de lu se beffan tugi, bastass k’el foss un mato.

Illò no ’g vass Pillato ke tant lo defendesse,


ke repairar lo populo con soe parol poësse,
ma pur dixevan: «Moira, ke de rason dé esse»,
e disen a Pillato ke crutïà ’l devesse.

I disen a Pillato: «A Cesar e’ pr’offende


se quest hom lass andar, perzò k’el è dicente
k’el è rex dri Zudé e fio dr’Omnipoënte;
e fors anc no vo’ tu ke Cesar sia possente».

Quand hav intes Pillato lo popul zo digando


e vi k’el no valeva ke tant lo foss aiando,
de lu dis quel illora: «Le man me sont lavando:
il sangue de quest homo eo no voi ess colpando».

«Lo sangue so – resposeno quellor a tuta via –,


sover li nostri fii e sover nu sì sia».
A la perfin Pillato de Crist ge dé bailia
k’i fazan zo k’i voiano per söa grand folia.

Li renegai Zudé illora ’l spolïon


e durament lo bateno senza remissïon:
lo feron dri gamaiti con grand afflictïon,
ke ’l membre tut ge nizano, ni n’an compassïon.
Doe die in pertraverso in tut lo corp no era
ke tut no’g foss guastao e niz per tal mainera
ke ’l carne quas parivano sì negre com coldera:
mercé de lu no’g fiva, sì’g devan i vontera.

La zente dri Zudé sì fortment lo bateva


ke tut ge maxaravano le membre k’el haveva:
lo corpo tut pariva k’el foss covert de levra
e ’l sangu’ da tut le parte in terra ge cadeva.

La carne per afagio borniosa e implagadha,


lo sangu’ da le soe membre in terra ge gotava;
compassïon no have quella zent renegadha,
ma pur sempre ge devano e tut lo maxarava.

La pena k’el portava trop era angustïosa


e no è meraveia s’ell’era tormentosa:
per quel ke la soa carne molt era vigorosa,
perzò la söa pena tant fo plu angustïosa.

Se i no g’avessen fagio alcun oltro tormento,


quest era ben straduro ke i fo fag in quel tempo,
ma ’l popul sover questo no stet ancor contento,
ma, quand el fo batudho, ne fen grand schernimento.

A moho ’d rex lo vestin, lo fio de la regina,


de precïosa porpora, de quella vesta fina,
de schernie ke ge ’n fiva a quella zent mastina;
e po ge fen corona d’angustïosa spina.

Li spin oltramarin, k’eran dexmesurai,


il cò d’incerc incerco ge fivan inficai:
de quii ge fen corona li Zudé renegai;
quant i ge fevan pezo, plu n’eran consolai.

Le spin eran ponzente dond i ge fen corona,


e eran dur e aspere segondo zo ke sona:
il cò de Iesù Criste, de sì zentil persona,
coté spin g’inficavano, de quii ge fen corona.

Se li spin l’implagavano, a dir zo no m’astove:


lo sangue da la testa da tute part ge plove,
la faza è sanguanenta; zascun k’odiss le nove,
a lagremar e a planze el se devrav comove.

Mai no è hom il mondo ke no devess ess molle


a suspirar e a planze olzand coté parole,
ni far pro ge devrave li versi dre viole,
de Iesù Crist olzando la passïon sì folle.

Quand fo incoronao lo fio de la regina,


a moho de rex vestio de quella vesta fina,
la zent malitïosa denanz da lu s’agina,
sì ’g fevan reverentia con facïa maligna.

E po lo salutavano scrivant e farisé


digando: «De te salve, tu k’e’ fïol de De».
Zo fevan i per schernie, tant eran i crudé,
perzò ke Crist diseva: «Eo sont rex dri Zudé».

De lu sì fevan beffe e grand derisïon:


i ’g devan le sguanzae senza altra offensïon;
il volto ge spüavano a quel sì bel garzon;
del dolze Iesù Criste no ’g fiva compassion.

Crist era tant bellissimo e de sì grand dolceza


ke mai no naqu’ de dona ki foss de tal belleza,
sì dolz e sì benegno: oi De, quam grand rëeza
de quii ke ’g feva il volto la spudha e la bruteza.

La faza strabellissima del fio de la regina,


sì dolz e sì benegna, sì precïosa e fina,
ge fìva mo sozadha dra spudha e dra pessina,
e ’l sangue per le golte ge zeva con rüina.

Quand l’aven li Zudé schernio al so talento,


ge desvestin la porpora e ’l menon al tormento,
sì ’l fen portar la crox a grand desoramento;
pos lu s’acoi lo populo con grand tornïamento.

Andand con Iesù Criste, no ’l calan de schernir;


adoss ge crïan tugi ni ’l calan de ferir,
e tanta dra brutura per li og ge pon sternir
ke ’l volto brut e horrio dra puza ’g fan parir.

Le beff ke ’n feva ’l populo no è ki be ’l pensasse,


al log del so marturio inanz k’el arivasse:
s’el foss un can rabioso on serpa, sì bastasse.
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No fo unca hom il mondo ke tal desnor portasse,


ni asno ni zumenta ke tant passïonasse
com fé ’l nostro Segnor, azò k’el ne scampasse
da li peccai del mondo e nu e quang ne nasce.

Sancta Maria matre e Maria Magdalena


e oltre don apresso con doia fort e plena
seguivan Iesù Criste, vezand la söa pena
e ’l grand desnor ke ’g fiva e ’l popul ke ’l malmena.

De sa s’el eran grame quand ele l’aven visto,


lo strag e’l vituperio ke fiva a Iesù Criste.
La söa dolce matre tant era grama e triste
no l’av poër descrive scrivanti ni legiste.

Lo so fïol sì conzo da po k’ella lo vie,


ell’av le doi tamagne, sì dur e sì compie
k’ell’era sì com morta, col membre sì stremie
ke mai no è hom vivo ke lo poëss descrive.

Del so fïol portava angoxa tormentevre,


angustïosa doia, dolor angustïevre;
planzeva e suspirava, tant era lagrimevre
ke tut ge delenguava lo so cor angoxevre.

Tant era gramezosa ke andar no poëva:


la grama compagnia dre don la conduseva
per fin k’i fon al logo o Iesù Crist deveva
fi sor la crox metudho. Oi De, com mal ge steva.

Quand Crist fo arivao al log o el fo preso,


el fo a tuta fiadha sul legn dra crox desteso,
e du latron apresso ke molt g’aveva offeso;
Iesù in mez de lor per schernie fo desteso.

Intramb li pei e ’l man coi gioi ge fon passai,


dond el ne sosteniva dolur dexmesurai:
sì fort e sì fidanti, trop eran tormentai,
li membri vigorusi ge fivan ingioai.

Perzò ke i soi membri erano e fort e vigorusi,


intant i sostenivano dolur plu angustïusi,
le man ge stradolevano, li pei eran nervusi,
lo sangu’ da quatro parte g’insiva dai pertusi.

Li du latron da parte fon sor la crox ligai;


il membre del Segnor li gioi fon inficai,
li pei l’un sover l’oltro pur d’un gioo fon passai:
sentiva grand angustia li membri delicai.

Lo sangue precïoso da la fontana viva,


dal man e da li pei a moho de flum insiva;
dal cò mintro ai pei tuta la carne viva
guastadha e sanguanenta da tute part pariva.
Dal cò mintro ai pei no hav el membro il corpo
dond no gotass lo sangue e ke no ’g foss bestorto.
Oi De, com mal ge steva, oi De, quam re deporto:
quand eo ge pens ben sovra, in mi no è conforto.

La crox era molt olta o Crist angustïava:


illò ge fo desteso lo corpo per tal agra
ke li noi del so corpo per tut se deslongava:
al cò no li era podio, ke molt i grevezava.

Oi tormentosa angustia, oi doia sover doia,


lo corp de Iesù Criste in grand dolor s’invoia:
in si no ha el membro ke tut no ge stradoia,
entri Zudé no era ki lu schernir no voia.

Perzò diseva Criste: «Oi vu ke andei per via,


venì e sì guardei s’el è dolor ke sia,
s’el è il mond angustia sì grand com è la mia».
Tant angoxava Criste ke dir no se poria.

Perzò haveva ’l digio la nog ked era andadha:


«Oi trist la vita mia, ke dé fì tormentadha»;
e imperzò ’l diseva, per quel k’el aspegiava
la passïon durissima dond el angustïava.

El strasüò d’angustia, lo nostro grand Segnor,


a moho de got de sangue gotava ’l so sudor,
tant era in quella nogie compio de grand temor
de zo k’el aspegiava e pena e grand dolor.

Denanz ge steva ’l populo, ke sempre lo scherniva:


del dolce Iesù Criste compassïon no’g fiva;
dra cana per la testa oltri era ke’l feriva,
oltri era ke dra puza lo volto ge sterniva.

Oltri era ke trazeva on pree on terra on ligni;


i’g fevan reverentia, quii renegai maligni,
de schernie ke ge’n fiva, e po ne fevan ghigni
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E po l’asalutavano digand: «Salve te De,


tu k’e’ rex dri Zudé e k’e’ fïol de De».
Illò no era homo, scrivant ni farisé,
ke schernie no se’n fesse denanz e anc de dré.

Diseva l’un a l’oltro, de lu voiand beffar:


«Iesù sì salva li oltri, ma si no pò salvar;
sed el zos da la crox ben poëss desmontar,
nu g’avem po tug cre ni g’avem dubitar».

Diseva li malvax al fio dr’Omnipoënte:


«Se tu e’ fio dr’Altissimo, or zos dra crox descende;
se nu te vem zo far, nu t’am cre fermamente».
Dre beff ke’n feva ’l populo eo parlo quas nïente.

La söa dolce matre, vezand li convenenti,


lo so fïol vezando ke steva in grang tormenti,
desnor e vituperio e grang desoramenti
ke’g fiva sor la crox e strag e schernimenti;

ella se torze tuta, tant è ’l so cor dolento,


e planze lagremando con grand suspiramento,
delengua pur d’angustia, tant era ’l so lomento
no s’av poër descrive lo so contristamento.

Vezand lo so fïol col membre sì guastae,


malconz e sanguanente e sì desfigurae,
dal cò mintro ai pei bornios e implagae,
del strag e dra brutura e soz e desorae;

tuta se condoleva dre doi dexmesurae,


d’angustïos angustie, stradur e strafondae:
le membre soe tut erano per grand dolor gravae,
le doi k’ella portava no haven fì cuintae.

Apena ke ’l dolor in lé poëss caver,


tant era stradurissimo e grand lo so doler;
maior grameza al mondo ’la no poëva aver
com era ’l so fïol passïonao vedher.

Le membre soe parivano, tant era suspirando,


ke tut se resolvesseno in lagrem lagremando,
e molto s’ingramiva lo sol fïol vezando
sì guast e sì malconzo a poc a poc moirando.

Ni favellar poëva, sì fort angustïava;


ma quand la lengua soa a dir sì se sforzava,
lo so dolor grevissimo la lengua g’imbregava,
torzeva’s e ingramiva e molt se cordoiava.

Perdudha la favella, la vox sì ge mancava,


plurando se torzeva, torzandose plurava,
planzeva suspirando, planzando suspirava:
no è hom ke pensasse le doi k’ella mostrava.

Tant era ’l so dolor ke mai no fo hom nao


ke tant angustïasse, ke tant foss apenao:
per li contegn dra matre fiva denuntïao
ke dentro permaniva dolor dexmesurao.

Oi grand compassïon dra nostra grand regina,


de quella dolce matre k’è nostra medicina,
ke tanto suspirava planzand a tal rüina,
portand per lo so fio stradura disciplina.

Oi precïosa dama, oi stella matutina,


a planz li mei peccai lo me’ cor tu degina,
azò ke lagremar poëss a tal rüina,
sì com tu fiv in l’ora dra passïon divina.
Intant e Iesù Criste, ke sor la crox pendeva,
guardava invers la matre ke tuta se doleva,
e consolar la vosse: a lé nïent valeva
k’ella se condonasse, ma tuta se torzeva.

E lagremand plurava, digand amaramente:


«Oi De, fïol dulcissimo, oi De, fïol possente,
que debio far, mi lassa, mi grama, mi dolente?
dolor e grand grameza a mi no desomente.

Oi benignismo fio, oi fio omnipoënte,


ki me farà k’eo moira per ti incontinente?
Oi fio, amor me’ dolce, tu moiri mi presente:
oi De, com m’abandoni, mi grama, mi dolente.

Oi stradulcismo fio, oi fïol de corona,


lassa ke moira tego, pos ti no m’abandona.
Se senza mi tu moiri, no so o me repona:
per ti delengua tuta la mia trista persona.

Oi morte crudelissima, tu dibli mi olcir,


sor tut le coss me plax pur k’eo poëss morir:
da po k’al me’ bon fio no he voiuo parcir,
lassa k’la grama matre debia conseg morir.

Oi De, fïol dulcissimo, oi mia grand alegreza,


vita de l’arma mia, solaz e alegreza,
lassa ke moira tego, ke viv in grand tristeza,
exaudiss lo me’ prego, no’m lassa in tal grameza.

A omïhom vivente, k’è fio de bona fama,


sì dex a exaudir la matre k’è stragrama;
oi De, fio precïoso, ke’l me’ cor tant inama,
receve’m il to passio, k’eo sont dolent e grama.

Oi miseri Zudé, e mi olcir debiei,


perfin ke’l me fïol sor la crox ingioei:
la matre seg insema venì e crucifichei;
mi grama a qualke morte col me fïol svengei.

Oi dolorosa angustia, oi doia sover doia,


oi pena stradurissima ke’l membre me desvoia.
Eo prego ke la morte da quiloga me toia,
ke tanto la desedro, no par k’ella me voia.

Sed eo poëss morir, quel m’av ess grand conforto,


inanz ka permanir al mond a tal deporto:
del me’ fïol ke more quam grand dolor ne porto;
mo fiz abandonadha da tut lo me’ conforto.

Lo ben e la speranza e ’l me’ dolzor finisce,


e tut lo me’ conforto da mi se departisce:
oi De, que debl’eo far? Lo me’ cor ingramisce,
que debl’eo far, mi lassa, ke’ l’ me’ fïol finisce?

Oi De, que donca vive la matre a tal dolor,


perfin ke ’l so fïol se mor a tal desnor?
Oi morte crudelissima, adovra ’l to furor,
azò k’eo moira sego: quel m’av ess gran dolzor.

Oi fio, oi dolce fio, com eo m’alegrareve


pur k’eo moriss contego: conteg morir vorreve,
per quel ke pos la morte contego venireve;
a viv pos ti quiloga trop me serav stragreve.

Oi morte crudelissima, com tu me par crüera


ke tu no’m fe’ morir: tu m’e’ trop grand guerrera.
Sed eo poëss morir, plu morirev vontera
ka pos lo me’ fïol sorviv in tal mainera.

Oi lassa mi cativa grama desconsoradha,


a mi no vor venir la morte desedradha.
Dolenta mi tristissima, com sont desventuradha,
dal me’ fïol dulcissimo ke fiz abandonadha.
Oi benignismo fio, vita de l’arma mia,
recev li pres dra matre ke teg morir vorria;
dra matre k’è stragrama compassïon te sia,
receve ’m il to passio, ke moira a tuta via.

Negota m’è plu greve, negota m’è plu amaro


com è a sovervive pos ti, fïol me’ caro.
Pos ti que debio far? Lo viver m’è descaro,
in suspirar e in planze no è ’l me’ cor avaro.

Oi fio, amor me’ dolce, tu m’er e patre e sposo,


tu m’er frael e fio, oi cor angustïoso;
mo fiz eo svedoadha dal me’ fio precïoso,
da patre e da fraëllo, dal me’ dulcismo sposo.

Ancoi sì perd eo tuto lo me’ dolzor tamagno,


sì perd lo me’ conforto e precïos guadhanio:
oi angoxosa doia, oi angoxevre dagno,
no vezo mo conseio il me’ dolor tamagno.

Oi fio me’ stracarissimo, zamai que debio far?


amor stradilectissimo, o debio mo andar?
No so za o me volza, no’m poss plu confortar,
in plang e in suspiri conven k’eo debla star.

Ki ’m dé plu dar conseio, conforto ni sostegno?


Per grand dolor delenguo e tuta me desvenio;
se tu no voi ke moira, a grand baseza venio;
almen alcun conseio me lassa in me’ retegno».

Illora Iesù Criste segnor omnipoënte,


dolent e angoxoso, sul legn dra crox pendente,
de san Zohan fé segno plurand illò presente
e a lu sì recomanda la soa matre dolente.

Po vosse consolar la matre contristando


e dis: «Oi dolce matre, ke tant e’ suspirando,
tu sai k’eo vign il mondo, lo Patre me’ voiando,
per prender questo passio, sul legn dra crox moirando.

Il mond, oi dolce matre, tu sai ke sont veniudho,


da ti recever carne tu sai ke ho voiudho
perzò ke per la croxe, o eo sont mo metudho,
salvao debia ess lo mondo, lo qual era perdudho.

Sed eo no port lo passio, con s’av compì ’l scrigiure?


Tu sai k’el m’art portar le passïon sï dure
azò k’la zent humana se salv da ree venture
e dai peccai del mondo, da l’inferné pagure.

Anc sïa zo k’eo moira a quest crutïamento,


lo terzo di à esse lo me’ resustamento:
illora ’m vedheré con grand alegramento,
a ti e ai discipuli apparirò in quel tempo.

Denanz da ti illora eo m’ò manifestar.


Oi matre, k’e’ sì molle a planz e contristar,
demet lo to dolor e lo to suspirar,
a prender l’alta gloria dal Patre voi andar.

Inanz te di’ alegrar, oi dolce matre mia,


k’eo ho trovao la pegora la qua era peria:
per questa passïon k’eo port a tuta via,
se salva tut lo mondo, pur zo conven ke sia.

Oi matre stradulcissima, a ti per que desplax


se questa mort eo fazo k’al Patre me’ complax?
Lo calex k’el m’à dao no vo ’t ke ’l beva im pax,
azò ked eo desfaza l’ovra del Satanax?

Oi matre stradulcissima, oi matre precïosa,


demet lo to dolor, no sij sì plangiorosa;
anc sïa zo k’eo moira a mort angustïosa,
per quel no t’abandono, no sij sì gramezosa.

Zamai no t’abandono – de zo no habij tema –,


omïa temp del segoro serò conteg insema,
e quamvixdé la morte in carne me comprema,
segond la dignità no poss portar blastema.

Tu sai ben, dolce matre, dond eo sont descendudho,


no t’ingramir cotanto se mont dond sont venudho:
temp è k’eo torne al Patre ke m’à qui trametudho,
ma ’l temp dra töa morte no è ancora venudho.

Comeg verrai a tempo, ma mo no po ’t venir:


Zoan, k’è to nevodho, sì t’à intant servir,
in log de to bon fio curar e obedhir;
quel à ess to conseio, no ’t di’ zamai stremir».

A san Zoan illora Iesù parlò digando:


«Eco la töa matre, a ti la recomando;
de lé dibli curar e star al so comando
e so fedhel conseio dibli ess permaniando».

Intant ke Iesù Criste coté parol dixeva,


la matre e san Zoan scoltava e intendeva;
per grand dolor parlar nexun de lor poëva;
odivan e ascoltavano tut zo ke Crist dixeva.

Vezand ke Iesù Criste a poc a poc moriva,


k’el era quax za morto e ’l flao istex insiva,
tant eran dolorusi d’angustïa compia
k’i ’n poëvan responde a Iesù ke moriva.

I eran sì com morti denanz dal so Segnor,


intrambi no poëvano parlar per grand dolor;
odivan e tasevano, plurand per grand amor,
vezand ke Iesù Criste moriva a tal desnor.
Intant e ’l rex de gloria stagando a tal deporto
dis k’el haveva sedhe, e ’l popul fo acorto:
asé mesgiao con fere in sponga g’aven corto
in cima d’una cana, e era quax za morto.

D’quella bevanda amara quand el n’av assazao,


«L’è consumao», dis quello, e quand el hav parlao,
el aginò la testa e dis: «Oi Patre amao,
il toe man lo me’ spirito sïa recomandao».

E quand el hav zo digio, lo flao fo fora insio:


illora ’l sol s’obscura e l’airo fo imbrunio,
lo terremot apresso sì grand e sì compio
ke’l vel del templo grande in doe part fo spartio.

Stagand lo corp de Criste così deresïao,


Longin in quella fiadha ge dé dra lanza il lao,
e quand el l’av dra lanza ferio e implagao,
illora sangu’ e aqua g’insì dal so bon lao.

In vita e pos la vita lo nostro grand Segnor


sosten pur e miserie e strag e grand desnor:
il mond no è hom vivo ni iust ni peccaor
lo qual no se devesse comov a grand dolor.

Aregordao hablemo dra dura passïon,


la qua Iesù sostenne senza remissïon.
Ki sover zo pensasse, il mond no è baron
ke no ’s devess comove a grand compassïon.

Ki ben odiss lo passio de quel Segnor lodhao


e com el fo tradhio e fo passïonao,
mai no è hom il mondo sì ardio ni sì indurao
ke no devess ess tuto stremio e amaricao.

Mai no devrav ess homo ke no portass in pax


…………………………………………………………………….
quand el odiss cuintar la passïon malvax
la qual per nu sostenne Iesù segnor verax.

No ge devrav ess greve d’inverno ni de stae


portar per De desaxio, vergonza e povertae
e fam e sedhe e fregio, desnor e infirmitae,
offensïon e iniurie ke ge fissen portae.

No ge devrav ess greve le tribulatïon


ni a perdonar a quii ke’g fan offensïon
e star in penitentia con grand afflictïon
e planz li soi peccai con grand contritïon.

No ge devrav far pro lo bever ni ’l condugio,


pensand ke ’l rex de gloria sì fo per nu destrugio,
ke mai no fé peccao ni casonevre frugio:
el fo per nu cativi a tal desnor redugio.
DE SCRIPTURA AUREA

Dra lettera doradha mo voi aregordar,


la qual sì è dolcissima da lez e da ascoltar:
s’el è alcun ke voia odir del bel cantar,
per gratia de l’Altissimo quilò ne voi cuintar.

Quilò sì ven a dir dre dodex alegreze,


dre glorïe dolcissime, dre glorïos dolceze,
dri ben del paradiso, de quelle grang richeze:
quest en parol de festa, parol de grang dolceze.

Ki lez in questa lettera, questa è de grand conforto,


questa è de grand solazo, de glorïos deporto:
oi De, quent bel guadhanio, ki foss per temp acorto,
quam bel serav ascende a quel dolcismo porto.

Com pò ess alegro ’l iusto k’acata tal guadhanio,


richez così compie e lo tesor tamagno.
Quel hom ke ’l lassa perde, com el è mat e zanio;
a perd cotal tesoro trop è planzevre dagno.

E com el sïa grande, quel precïos tesoro,


pensar no se porave, zo dis meser san Polo.
Ki lez in questa lettera k’è lavoradha a oro,
s’el no fa penitentia, ben è ’l plu dur ka toro.

Inanz k’eo venia a dir dri grang confortamenti,


zoè dre dodex glorie dra terra dri viventi,
aregordar ve voio de quii alegramenti,
de zo ke ven al iusto i soi departimenti.

Quand ven la fin del iusto, ke ’l flao partir se vore,


k’el volz la guardatura e per grand pena ’s dore,
el vé apress li angeli con alegrevre core,
li quai aspegian l’anima del benedeg ke more.

E disen l’un a l’oltro: «Quest è sot nostra cura;


or fiza levemente servadha l’arma pura,
e po la portaramo in grand bonaventura,
in la soprana gloria, in l’eternal dolzura».

Illora dis lo iusto: «Quent grang dolcez eo vezo,


com quest è grand solazo e dolce stramadhezo;
così bella compagnia com eo la covedhezo:
se debio andar con quisti, quest no serà redezo».

Respond illora li angeli: «Tu vi ancora nïente,


za tost te portaramo dnanz da l’Omnipoënte,
o tu porré veder la faza relucente,
la faza stradulcissima de quel Segnor poënte.

Tu vedheré za tosto richeza precïosa


e glorïa dolcissima, dolceza glorïosa,
confort e alegreza e festa confortosa,
o mai no sentiré grameza rancurosa».

Or dis illora ’l iusto: «Com ben me sta ’l talento,


s’eo debio pervenir a tal confortamento;
el m’è devis ke sia a quel delectamento,
o eo devrò receve così dolz pagamento».

A quest parol intanto lo flao è departio,


e li angei prenden l’anima quam tost el è finio;
in paradis la portano, a quel dolzor compio:
omiunca söa lagrema dai og sì ’g fi furbio.
Dnanz dal Patre dolcissimo lo iusto se deporta,
in delectevre gloria festeza e se conforta:
plasess a Iesù Criste ke foss avert la porta,
là sus o è lo iusto ke tal dolzor apporta.

Illora canta ’l iusto e dis: «Oi mi bëao,


lo dolze Iesù Criste ne sia glorificao,
lo Patre e ’l Spirto Sancto de zo k’el m’ha donao;
el sïa benedegio e sempre regratiao.

L’aver k’eo deva ai poveri il tempo strapassao,


con grand alegramento quiloga l’ho trovao:
del ben k’eo feva al mondo eo fizo mo pagao;
per grand amor m’alegro: oi De, com sont bëao».

Quiloga fi resposo al iust a tal color:


«Perzò k’in töa vita serviss a De segnor,
perzò havré semprunca confort e grand honor;
zamai no t’art temer d’aver alcun dolor.

Quilò staré semprunca denanz dal to Segnor


in glorïa dolcissima, in glorïos dolzor:
lo corp il di novissimo serà in grand verdor,
quilò starà co l’anima in zoia e in splendor».

Illora dis lo iusto: «Oi grand dolzor eterno,


com pò ess gram quel homo ke perd cotal sozerno.
Ponem k’el no havesse alchun temor dr’inferno,
el devrav desbregarse de viv in sempiterno.

Se mai no foss inferno, dond l’hom havess pagura,


sì se devrav el dar adovrament e cura
per acatar tal gloria o è sì grand dolzura,
sì delectevre festa, sì grand e sì segura».

Dra premerana gloria de l’eternal citae


quilò sì ven a dire, zoè dra grand beltae
dra terra dri viventi, dre plaz e dre contrae,
le que en oltra modho lucent e ben ornae.

Quella cità soprana sì è pur d’or lucente,


le plaze delectevre, le mure resplendente,
li prai e li verzerij ornai e avenenti
de strablanchismi lilij e d’altre flor olente.

Là sus in quel verzé è quel floret lucente,


ka stella ni ka luna plu lux e plu resplende:
là en le ros marine, ke tant en stralucente
ke ’l sol apress de quelle parrav k’el foss nïente.

In quel verzé resplende d’omïa guisa flor,


vermeg e giald e endege, ke renden grand odor,
e verd e strablanchissime, ni perden mai color;
tut per afag resplendeno senza nexun tenor.

No g’è brut animai ni plangi ni romor,


ma el g’è le olcellete cantand a grand baldor;
li versi stradulcissimi menan cotal dolzor
ke’l cor de quii ke odheno stragoe per grand amor.

De pree precïosissime le mur en lavorae,


a zeme splendidissime e molt apresïae:
plu val pur una zema, dond en le mur ornae,
ka no fa mille mondi, tant en el straprovae.

Le camer en depengie de strafinismo azuro,


è fag lavor mirabile a or lucent e puro:
con tal splendor straluseno ke’l sol parrav obscuro
apress de quelle camere, tant è ’l so splendor puro.

Tant en el stralucente de lux sì stracompia,


là sus in quelle camere no è de part ke sia
o possa mai decaze ni nog ni tenebria:
ni sol ni luna lux in quella albergaria.

La clarità dr’Altissimo ge lux a tal bailia


ke sol illò no astove ni altra lux ke sia:
……………………………………………………………………..
la lux k’illò resplende cuintar no se porria.

Illò no è trop caldo ni freg ni conturbanza,


no’g floca ni ’g tempesta ni g’è desconsoranza
ni nuvol ni cigera ni tema ni pesanza.
……………………………………………………………………..

Ma el g’è strabel temporio, mirabel temperanza,


dolcez e alegreze, segura consolanza
e sanità con gaudio, drüeza, delectanza,
richeza abundïevre, aver senza temanza.

Illò negota ’s perde, negota g’invedrisce,


negota se stramudha ni ’s guasta ni marcisce:
no g’è recrescimento, nexun illò perisce,
no g’è sozor ni vermini ni scorpïon ni bisce.

Tut coss en salv illoga e fresc e reverdie


e sempre intreg e stavre, godhevre e ben polie;
le voluntà dri iusti in tut coss en compie,
le fest k’illò fin fagie mai no seran finie.

Illò no è montanie ni vai ni guastature


ni bozoi ni rovedhe ni spin ni pree agudhe
ni destreg ni anc fossai ni spaguros figure
ni fantasie ni furie ni anc altre pagure.

Ma el g’è planur mirabile e li losi plasivri


e li arborsei bellissimi e molt meraveivri:
ni flor ni foi decazeno, ma sempre g’en durivri;
illò se trova i frugi ke trop en delectivri.
Li frugi de quii arbori dra terra dri viventi
sì en de tal virtù, sì dulz e sì placenti,
ki n’asazass de quii, zamai per tug li tempi,
no sentirav angustie ni fevre ni tormenti.

Illò s’alegra ’l iusto e ’l so cor ge dolcisce,


no ge recress lo tempo, ma tut se rebaldisce;
quant el ge sta plu digo, intant plu g’abellisce,
intant el g’è plu fresco, zamai no s’ingramisce.

Intant ge par bel stao, intant se ne consora,


vezand cotal belleza là sus o el se demora;
quand el g’è stao mil anni, no par k’el sia una hora.
Oi De, com pò ess alegro k’el fo acort a hora.

Lo iusto remirando sì bei adornamenti,


le plaz e le contrae, li broi e i casamenti,
el se delegia tanto in quii delectamenti,
mil ann no’g par una hora, no g’è recrescimenti.

Oi De, segnor de gloria, oi dolce rex da olto,


anc poëssem nu far quel delectevre solto
ke nu fossem là suso a quel sopran aspolto,
o mai no manca gaudio ni glorïos deporto.

In questa dolce gloria lo iusto dis cantando:


«Oi De, com sont bëao cotal cità mirando,
com questa è grand dolceza, com eo ge sont golzando,
quent dulz versi eo olzo dri angeli cantando.

Com questa è grand belleza, com eo ne sont gaviso,


quent strabei lavorerij en quii del paradiso.
In plang e in miserie eo stig al mond conquiso;
oi gaudïo dolcissimo, ke’l plang è volt in riso.

Perzò k’in penitentia in mïa vita stigi,


in plang e in zezunij li mei cor fon affligi,
e ked eo me tign mondo per fag e anc per digi,
perzò sont eo in nomero dri sancti benedigi.

Perzò k’in bone ovre vontera m’adovrava,


ni le mat delectanze vedher me delectava,
perzò sont mo in requie e in festa desedradha,
perzò vez eo quiloga belleza delicadha.

Perzò in paradiso mirando me delegio


vedher splendor clarissimo, ni mai dolor aspegio:
oi De, com pò ess gramo lo miser maledegio,
lo qual in queste glorie no fa k’el sia alegio.

Oi De, splendor purissimo in la cità celesta,


com quest è grand conforto e quent zentil moresta:
quilò no plov ni floca, quilò no dà tempesta,
ma el g’è strabel temporio e stradulcisma festa».

La glorïa segonda sì è l’odor süave,


k’è sì stradelectevre ke dir no se porave;
l’odor de tut le spetie k’il mond se trovarave,
apress de quel odor stragrand puzor farave.

Una ora levesela, ke’d grand odor è plena,


ge corr strasüavissima, ke cotal dolzor mena
k’eo no ’l porrïa dir ni scriver co la pena:
nïent è tut lo balzamo ni spetïa terrena.

Tant sa de bon illoga l’odor del flor sopran


ke tut le ros e i lilij e spetïe mondan
savraven tut insema de puza e de pantan
apress d’una floreta de quel flor sì sopran.

Tant en le flor olente in quella grand citae,


vïor e ros e lilij de grand süavitae,
ke san de bon per tuto, per plaz e per contrae:
trop è l’odor mirabile del flor de quelle prae.

S’in mez del mond ne fosse pur una de quel fior,


per tut lo mond savrave de bon del so odor
e renderav ai homini per tut sì grand dolzor
k’el no serav hom nao ke mai sentiss dolor.

L’odor de quella flor serav sì delectevre


k’il mond no serav homo sì amorbao ni flevre
ke resanao no fosse dal morbo desplaxevre,
perfin k’el sentirave dr’odor meraveievre.

Oi De, que pò fì creto de l’eternal verdura,


o è flor senza nomero in quella terra pura?
Là è odor mirabile, dolcismo per natura:
com pò ess alegro ’l iusto ke sta in tal dolzura.

Lo iust in quella gloria per grand amor sì canta,


e dis: «Oi mi bëao, nexun puzor m’atanta.
Quest è odor mirabile in questa terra sancta,
trop san de bon li fior d’omïa guisa planta.

Lo me’ cor me stragodhe in quest odor süave;


lo godhio k’eo sostenio nexun hom crederave;
ki cor havess in corpo, za no s’infenzerave
per acatar tal gloria, ke mai no mancarave.

In puza dri peccai no tign la vita guasta,


perzò nexuna puza quiloga me contrasta,
ma grand odor mirabele con grand dolzor m’atasta:
semprunca in grand conforto quilò farò la pasqua».

Quilò sì ven a dir dra terza delectanza,


zoè dre grang richeze, dr’onor ke sovravanza:
illò possedhe ’l iusto aver senza temanza,
possessïon mirabile e drudha castellanza.
Al iust no manca zoie ni zeme precïose
ni oro ni argento ni feste confortose
ni brolij ni palasij ni anc camer zoiose:
là è zentil richeze e dolz e amorose.

Illò possedhe ’l iusto honor e dignitae,


zascun è rex illoga e ha grand poëstae,
segnor de grang provintie, segnor de grand beltae;
le segnorie k’à ’l iusto no porav fì cuintae.

Illò no manca al iusto aver ni segnoria,


donzei adorni e presti e zoie e zuiaria:
zuié, ke stan dnanz, fan la festa sì compia;
quent dulz versi i fan cuintar no se porria.

Denanz da lu ge sonano versit de cortesia


e de dïan e d’organi col son dra symfonìa:
li plu dolcismi versi k’in questo mondo sia
apress de quii parraveno pagura e vilania.

Illoga ’l iust se gloria e godhe in grand dolzor,


tant en le soe richeze, tant è lo so honor:
pur un soleng dané, quel k’è de men valor,
plu var ka tut lo mondo, zo dig a grand baldor.

Nexun aver k’el habia zamai no’g pò marcir


ni pò fi invorao ni pò dessomentir,
ma sempre plu g’abundia: oi De, quent bel venir
a prender tai richeze ke mai no’g pon fuzir.

Com pò ess alegro ’l iusto ke tal guadhagn ha fagio,


ke tal tesor possedhe stragrandismo oltra pagio:
de perd le soe richeze no pò venir a tragio;
oi De, com pò ess alegro k’el se guarda inanz fagio.

Perzò lo iusto canta e dis: «Oi mi bëao,


quent grang richez è queste k’eo ho aguadheniao,
com sont eo plen e rico, com sont eo asïao;
a mi zamai no manca tesor apresïao.

Intant sont eo quiloga e straric e mainente


ke tuto zo ke voio eo l’ò incontinente:
drüeza e grand tesoro a mi no dessomente,
dinairi no me manca ni or sufficïente.

Quilò no è dané ke mille mond no vaia;


de breg, k’eo ho vertio al mond, no me ne caia;
eo ho venzuo lo mondo per forza e per bataia,
dond eo no havrò zamai ni brega ni travaia.

Perzò k’in mïa vita per bona vïa tigni,


humilità, desaxio e povertà sostigni,
perzò in paradiso li grang tesor m’en digni,
e ’l grand honor apresso e i delectivri rigni.

Perzò ke ’l me’ aver vontera compartiva


ai povri besoniusi il temp ked eo viviva,
perzò sont exaltao in la richeza viva,
dal me’ honor grandissimo mai no farò cadiva».

Lo quarto grand conforto k’à ’l iust in cort soprana


sì è k’el è insio da la preson mondana,
dond el ne canta meio ka lissinioi ni iana
e fa plu dulzi versi ka organ ni dÿana.

Quand el se vé scampao da la mondana pena,


da brega e da miseria, da la preson terrena,
el se conforta tuto e n’à dolceza plena:
no è hom ke pensasse lo godhio k’el ne mena.

El vé k’el è insio da tug li atantamenti,


da dobio e da perigoro, da tug tribulamenti,
e k’el no pò plu caze ni mai haver tormenti:
lo cor tut ge stragodhe per grang alegramenti.

Zamai no pò peccar ni pò plu fi turbao,


no è plu a perigoro de perd lo so bon stao
ni anc d’aver l’inferno, o è dolor fondao,
dond el ne mena gaudio, dolzor dexmesurao.

S’alchun hom foss in carcere e a mort zudhigao,


ponem k’el ne scampasse, no serav tant bëao
com è lo iust, alegro de zo k’el è scampao
da la preson del mondo e san e confortao.

S’alchun hom foss infermo de morbo desplaxevre,


de levra, de grand fevra e’d gota tormentevre
e foss tut incargao de doia dexorevre,
dond el crïass adesso con crio angustïevre;

s’el foss deliberao da tut le doi nosevre,


no’g serav tal conforto sì grand e sì plasevre
com è in paradiso al iusto delectevre
de zo k’el è scampao dal mondo tribulevre.

La somma sì è questa, ke parlo quas nïente


del gaudïo del iusto k’el ha quand el se sente
k’el è partio dal mondo con solto stravaiente
e è venudho in gloria dnanz da l’Omnipoënte.

Perzò ne canta ’l iusto e prend a recuintar:


«Oi De, com eo me posso stragrandment alegrar.
L’altismo rex de gloria ne voi glorificar
de questo grand conforto k’el m’à voiuo donar.

Le lagrem e li plangi dai og el m’à furbio,


e dai mondan perigori scampao e guarentio:
oi glorïosa festa e confort stracompio,
mo sont segur e franco, quest dolzor è compio.
Oi De, com sont mo alegro, com sont eo mo guario,
da la preson del mondo ke sont qui strasalio:
quest è vaievre solto, lo qual eo ho compio;
zamai no tem perigoro dond eo debia ess perio.

Per carre mille milia ni d’oro ni d’argento


no tornarev al mondo a star ben picen tempo
…………………………………………………………………….
per mille mondi d’oro, sì ben me sta ’l talento».

La glorïa cinquena dra terra dri viventi


si è remirà ’l faze dei angeli placenti,
la faza dra regina e li vult stralucenti
del dolze rex de gloria con grang alegramenti.

Quel è dolzor mirabile e glorïa floria


e solazosa festa, stradolz e stracompia,
mirar le faz dei angeli e de sancta Maria,
la faza de l’Altissimo, ke n’à tug in bailia.

Ki pur vedhess un angelo, tant è ’l de grand belleza,


quel ge srav tal conforto, quel ge srav tal dolceza
e tant se volzerave lo cor in alegreza
k’el no porav sentir ni doia ni grameza.

Vezand pur un de quii, tant el hav stragodher,


tant el s’av confortar, tal goi n’av el haver,
sed el fiss scortegao, per quel no s’av doler,
la faza pur d’un angelo perfin k’el hav vedher.

Tant hav el stragodher, tamagn dolzor havrave,


ki ben lo marturiasse, per quel no sentirave,
la faza pur d’un angelo perfin k’el mirarave:
tanta srav quella gloria ke dir no se porave.

Oi De, com pò godher lo iust in paradiso,


ke’n vé cotanta milia con alegrevre viso:
oi quent florïa gloria, com pò quel ess gaviso;
lo cor ge stradolcisce, lo plang g’è volt in riso.

Oi festareza gloria, oi glorïosa festa,


mirar cotal dolceza, così mirabel gesta:
mirar le faz dei angeli in la cità celesta
e le faz dei archangeli trop è zentil moresta.

S’eo no calass de dire per cento milia anni,


cuintar no se porave li gaudïi tamagni
com è mirar quii angeli. Oi De, quent bei guadhagni;
quellor ke no li acatano, quii en trop mat e zagni.

Oi De, que pò fì creto de la regina pura,


ke è dona dei angeli? Oi De, quent grand verdura
mirar la söa faza de sì zentil figura,
la faza strabellissima, plena de grand dolzura.

Oi gaudïo dolcissimo, oi alegreza fina


mirar cotal splendor dra nostra grand regina,
la faza stramirabile dra stella matutina.
La rosa odorifera k’è nostra medicina.

Quella Vergen clarissima tant è de grand splendor


ke, s’ella foss in pairo co la rodha del sol,
la spera apress dra Vergene no hav haver valor,
ma perderav in tuto, cotant è ’l so splendor.

Plasess al Crëator k’eo foss de zo ben degno,


sì k’eo poëss anchora mirar lo volt benegno
de quella dolze dama là sus in quel grand regno:
a lé per tug li tempi me rend e me consegno.

Oi dolze Patre altissimo, de ti que pom pensar?


Com pò ess dolze gloria, plu k’eo no poss cuintar,
lo töa dolze faza vedher e remirar;
com pò ess alegro ’l iusto, com el ne pò cantar.

Oi dolze rex de gloria, omnipoënt Segnor,


tanta è la soa belleza, tant è lo so dolzor,
ke lo iusto mirando lo so bello splendor,
lo cor ge stradolcisce e goe de grand amor.

Questa sì dolze gloria com ella sïa grande,


no hav poër descrive legista ni scrivante:
lo iusto k’à tal gloria, com pò ’l ess confortante
k’el pò mirar la faza de quel Segnor sì grande.

S’alchun foss tormentao da tut le pen dr’inferno


e quel da l’altra parte vedhess cotal sozerno,
zoè la dolze faza de quel Segnor eterno,
tug hav mett per negota li grang dolor dr’inferno.

Nïent el sentirave de l’infernal tristeza,


cotant hav stragodher vezand cotal dolceza.
Ke zo sïa ver, nu n’ablem cotal fermeza:
sanct Augustin lo dise a nostra conforteza.

Quiloga dis lo iusto: «Quent grand confort è questo,


com questa è grand dolceza, com sont in bon asseto.
Vedher sì grand belleza, mai no serò recreto:
com eo quilò m’alegro, per nexun firav creto.

Lo cor me goe vezando le faze resplendevre


dei angeli bellissimi, così bel e dexevre,
e dra dama soprana e del Segnor vaievre:
quest è compio solazo e dolz e delectevre.

Perzò k’in mïa vita lo me’ Segnor amava,


col cor e co la mente sovenz l’imaginava
e li mess soi da presso vontera visitava
e receveva i poveri e molt li consolava:
perzò vez eo quiloga la faza desedradha
del dolze Iesù Criste k’è tanto delicadha:
oi festa sover festa, oi festa apresïadha,
oi glorïosa gloria, ke m’è qui presentadha».

Dig de la quinta gloria, dra sexta v’aregordo,


zoè odir li canti con delectevre acordo:
quii canti stradolcissimi trop en de grand conforto,
li quai resona li angeli là sus in quel deporto.

Illoga cantan li angeli canzon de cortesia,


versit sì delectivri ke dir no se porria:
i fan stradulci canti con grand strasonaria
denanz dal rex de gloria fio de sancta Maria.

Li Angeli e li Archangeli ge cantan li matin


e Dominatïon e Tron e Cherubin,
dapress li Principati Virtù e Seraphin
con tut le Poëstà fazand li bei ingin.

Quisti sì en nov ordeni, ke cantan sì dolzmente;


oltri en ke dis inanze e oltri respondente:
i fan tal cantaria, la festa sì placente
ke con quant plu ve digo eo parlo quas nïente.

Li versi pur d’un angelo tant en de grand dolceza,


tant en stradelectivri, de tanta conforteza,
ke i plu bei vers del mondo, zo dig a grand boldeza,
apress de quii parraveno de stragrand spagureza.

Se tug li olcei del mondo e tug li instrumenti


sonassen tug insema con grang alegramenti,
apress li vers d’un angelo parraven soz lamenti,
tant en quii stradolcissimi in terra dri viventi.

Ben me pò fì credhuo ke quella è grand dolzura,


ke quella è dolz festa e eternal verdura,
o è cotanta milia ke cantan per natura,
ke cantan tug insema versit de grand dolzura.

No serav hom il mondo ke mai dolor sentisse,


li versi pur d’un angelo per fin ked el odisse:
se ben da l’altra parte marturïao el fisse,
tant mal no’g firav fagio ke ’l cor no ge dolcisse.

Per anni centomilia cotai versit olzando,


no’g parrav una hora, tant serav el golzando:
com pò ess alegro ’l iusto, com pò ess confortando,
ke n’oe cotanta milia in paradis cantando.

Se tut le herb e foie k’il mond se pon trovar


havessen lengua e forza de dir e de parlar,
digand adess dra gloria de quel bello cantar,
pur la milesma parte no haven recuintar.

Lo iust illò se gloria e ha tut zo k’el vore;


olzando cotai versi tut ge stragoe lo core.
Zascun havrà tal festa ke i peccai no more.
Oi De, com quel è savio ke dai peccai se tore.

«Oi De – zo dis lo iusto –, quent dolce delectanza,


quent dulz versi eo olzo, quent bella concordanza:
quest è sì grand conforto, sì dolce consolanza
ke tuto me se volze lo cor in alegranza.

Il mondo volentera, al temp ked eo viviva,


le mess e ’l predicanze e ’l bon parol odiva;
le vanità del mondo odir no consentiva,
dal mate delectanze in tut me departiva.

Perzò sì me è degno d’odir lo grand conforto,


li canti stradulcissimi: oi De, quent bel deporto,
com quel me fo bon segno k’eo fu per temp acorto.
Zamai no poss odir romor ni desconforto».

De la septima gloria quilò sì ven a dire,


la qual fa Iesù Criste, s’el è ki voia odire,
voiand ai sancti iusti de söa man servire,
li quai in söa vita ge vossen obedhire.

Lo nostro rex de gloria de söa man consora


lo iusto benedegio k’in paradis demora;
de söa man ge serve, per grand amor l’onora:
zo fa’l al iust per quello k’el è acort a hora.

El lo conforta tuto e tut lo rebaldisce,


el g’ aministra inanze e ’l so cor g’ adolcisce:
tut zo ke vol lo iusto, tut zo ge agradisce,
e tut zo k’el desedra al so voler compisce.

Plu k’el no sa querir ni no sa desedrar


ge fa ’l nostro Segnor, voiand lu consolar:
li don k’el fa al iusto, intant lo pò amar,
e i grang consolamenti no’s poraven cuintar.

Oi De, quent dolze gloria haver sì grand Segnor,


haver lo rex de gloria per so administrator.
Lo gaudïo k’à ’l iusto ke sta in tant honor,
no lo porav descrive legista ni scrigior.

«Oi De – zo canta ’l iusto –, quest’è grand alegreza,


ke ’l dolze rex de gloria me fa sì grand careza
k’el m’aministra inanze con tanta conforteza,
dond lo me’ cor alegro se volz in grand dolceza.

Oi glorïa dulcissima, oi alegreza pura,


quilò no’m poss eo volze se no in grand dolzura,
e l’un ben sover l’oltro con grand bonaventura
m’atasta e me conforta e’m ten in grand verdura.
Il mondo tribulevre perfin k’eo fu vivando,
a De e ai soi amisi eo fu aministrando,
perzò me fa mo Criste alegro e confortando,
me serv e m’aministra tut zo k’eo ge demando».

Pos la septima gloria dr’octava dir me plax,


dri cibi delectivri de la soprana pax:
illò sus trova ’l iusto in quel bellisme cas
spiritüal condugio, dolcissim e verax.

Illò no è condugio guasto ni mufolento


ni anc fastidïoso, ni manca in tut lo tempo;
no g’è bocon amaro ni soz ni veninento,
ni’s guasta ni marcisce ni dà recrescimento.

Ma sempre g’è recente e san e stracompio,


süav e delectevre, olent e ben condio
e net e pur e bello, amabil, savorio:
lo so savor dulcissimo no pò fì diffinio.

Tant è lo pan blanchissimo, tant è quel bon condugio,


tant è ’l precïosissimo e sì dolcismo frugio
ke ’l plu bel pan del mondo, plu bel e plu cernudho,
apress a quel parrave e veninent e bruto.

Plu val un boconcello de quel pan eternal


ka no fa tut l’argento ni l’oro temporal:
tant è de grand savor lo vin celestïal
ke ’l nostro apress a quello parrav venin mortal.

No è hom viv il mondo sì gram e tormentoso


lo qual no foss per sempre alegro e confortoso,
s’el gustass pur un poco de quel cib glorïoso,
tant è ’l e san e dolce, süav e precïoso.

Illò no manca cibi stradulz e straprovai,


lo pan strasüavissimo e i vin stradelicai,
li datar e li frugi con grang odor süavi:
li soi savor dulcissimi no porav fì cuintai.

Là è le scran bellissime, ke trop en stralucente,


depeng e intaiae, ornae mirabelmente:
plu val pur un picolo de quelle scran placente
ka mille carr de oro, e anc parl quas nïente.

Li disc en precïosi e bei e resplendenti,


ornai e lavorai de bei adornamenti,
e le tovai de sirigo, o è lavor depengi,
o è lavor mirabili, plasivri e stralucenti.

Le cop en d’or purissimo, lucent e specïose,


le que en adornae de zeme precïose,
o dentro fì bevudho bevande glorïose,
bevande stradulcissime, olent e savorose.

Illò no è vaxello ke straprovao no sia,


sì bei e delectivri ke dir no se porria:
lo nostro rex de gloria, fio de sancta Maria,
quel è administrator dra tavola bandia.

Là sus a quella tavola lo iust se rebaldisce:


stagand a tai delitie, lo cor ge stradolcisce;
lo cibo delectevre, ke trop ge abellisce,
lo ten in grand sozerno e tut lo reverdisce.

Vezand lo Patre altissimo ke ge ministra inanze,


el se ’g revolz lo core tuto in alegranze:
plasess a Iesù Criste ke per le soe possanze
poëssem nu venir a quelle delectanze.

Quilò recuinta ’l iusto: «Oi alegreza grande,


com quest è bel convivio, quent glorïos vivande;
quam dolce cossa sïano li cib e le bevande,
no lo porav descrive legista ni scrivante.

Perzò k’in mïa vita eo constrenzì la gora


e afflizeva ’l corpo, per De zo feva illora,
perzò lo Patre altissimo me pass e me consora,
me serv e me ministra, per grand amor m’onora.

De l’eternal convivio perzò sont eo mo degno


e fiz reficïao dal me’ Segnor benegno:
oi cena delectevre, com quel me fo bon segno
k’eo sop aguadhaniar così mirabel regno».

Dra glorïa novena quilò se segu’ a dire,


dre veste precïose, a ki plasess odire:
quant ele sïan belle, senza nexun mentire,
se tut le lengu’ parlasseno, no l’aven diffinire.

Là è le veste ornae de precïosa sorte,


de sirig e de porpora, de biss e de stranforte:
com pò ess alegre ’l zente ke per temp fon acorte,
le que de quelle veste s’adornan pos la morte.

Illò no è vestimenta ni scurïa ni bruna,


ma resplendent e clara, senza magia alcuna:
quella ke men resplende plu lux ka sol ni luna;
apress a quelle veste la nev parrav obscura.

No serav hom al mondo ke tanto tormentasse,


ni amorbao e debile, ke tut no resanasse,
sed el havess de quelle pur una k’el portasse:
tant en de grand valor no è hom ke ’l pensasse.

Illò no è drap alcuno ke mai dessomentisca,


ni anc ge intra cuse dond el incamorisca,
ni ke mai ’s possa rompe, ni vesta k’invedrisca,
ni ke recresca al iusto per ke ke l’insozisca.
Ma el g’è le vestimente stavre e molben ornae
e nov e sempre fresche, strabel e straprovae
e texudhe a fil d’oro, lucent e lavorae:
illò è figur mirabile e peng e desegnae.

Tut en ornae e conze a zeme resplendevre,


a zeme precïose, strabel e stradexevre:
le veste de quest mondo plu bel e plu plasevre
apress de quel parraveno sozura desorevre.

Lo iusto remirando le veste sì polie,


lo so cor se stravolze in glorïe compie:
tug en incoronai de quel coron florie
ke ’l stell apress de quelle parrav intenebrie.

Lo iust in questa gloria sì se conforta tuto


e dis: «Oi mi bëao, com eo sont ben venudho.
Per quel k’al mond eo fu acort e avezudho,
perzò eo sont mo in gloria, dond eo m’alegro tuto.

Al mondo no curava de van adornamenti


e revestiva i poveri cativ e fregiolenti,
perzò eo sont mo degno in terra dri viventi
portar le grang corone e i bei adornamenti».

La glorïa dexena sì è la grand beltae,


la specïa del iusto, la pura claritae:
tant è ’l iust specïoso in quella grand citae
ke ’l soe bellez per homo no pon fì recuintae.

Tant è ’l specïosissimo, de sì lucent figura,


tant è la söa forma ornadha e desponudha
ke, quand el se remira, el n’à sì grand dolzura
k’el se stravolze tuto in gaudio e in verdura.

La faza stralucente resplend a tal color


ke ’l sol apress a quella no g’av haver valor;
la lengua per parlar trop è de grand dolzor,
li ogi delectivri trop en de grand splendor.

Li soi cavì en d’oro, lucent e affaitai,


li dingi strablanchissimi, li vulti colorai,
le man en strabellissime, li pei stradelicai,
li membri tugi quangi strabei e ben formai.

No g’è alcun infermo ni gram ni rancuroso


ni grepo ni trop grande ni manco ni ernioso
ni veg ni desformao ni mudho ni levroso
ni zopo ni sidrao ni ceg ni lentigioso;

ma el g’è zascun illoga e san e alegroso,


de temperadha forma, intreg e specïoso
e fresc e ben formao, facent e gratïoso,
adrig e mond e zovene, compio e solazoso.

Illò nexun è pegero ni mat ni dexdesevre


ni magro ni stragrasso ni puzolent ni flevre:
nexun è dentro marzo ni brut ni dexdesevre,
ni ’g sa de re lo flao ni è za descordevre;

ma el g’è zascun adorno, vïaz e intendevre,


cortes e temperao e lev e ben desevre:
de fora e ’d dentro è bello, olent e resplendevre;
de bon ge sa lo flao, d’odor meraveievre.

La somma sì è questa: k’eo parlo quas nïente


dra grand beltae del iusto ke mai no dessomente.
Oi De, quent bel servir al Patre omnipoënte,
lo qual sì dona al iusto la festa sì mainente.

Illò se mira ’l iusto, lo qual se vé sì bello,


e dis: «Oi mi bëao, com quest è grand novello.
Al mond era tenudho e vil e cativello,
ma mo eo sont quiloga e resplendent e bello.

Perzò ke l’arma mia mondava dai peccai


e dal mondan sozure li mei cor fon mondai,
per quel ho mo li membri lucent e affaitai:
li mei splendor bellissimi no porav fì cuintai».

Quilò sì ven a dir de l’undexen sozerno,


de l’undecima gloria k’à ’l iust in sempiterno,
zoè k’el è scampao dai grang torment dr’inferno,
dond el ne mena gaudio e grand dolzor eterno.

Quand el se sent in gloria in la soprana pax


e k’el se vé scampao dal man del Satanax
e dai dolor gravissimi de l’infernal fornax,
el se conforta tuto e n’à dolzor verax.

El vé li peccaor entr’infernal calor,


ke stan in tanta angustia, in plang e in tremor,
e lu se vé scampao da quel sì grand dolor:
el se conforta tuto e goe per grand amor.

E po vé lo superbo k’in grand dolor mendiga,


lo qual de lu ’s beffava il temp ked el viviva,
e lu sta mo in requie ni pò plu fà cadiva:
illò el s’exalta tuto e n’à dolceza viva.

Se tut le herb e foie poëssen ben parlar,


in cento milia anni no haven recuintar
lo gaudïo del iusto e lo so confortar,
vezand ke li demonij no ’l pon plu tormentar.

Vezand k’el è venudho in tanta conforteza


k’el pò mirar la faza, mirar cotal belleza,
la faza de l’Altissimo, el n’à sì grand dolceza
ke tuto se ge volze lo cor in alegreza.
Perzò ne canta ’l iusto, e dis: «Com sont guario,
da l’inferné tormenti ked eo sont guarentio;
in forza dri demonij mai no firò punio:
oi gaudïo dolcissimo, quest è dolzor compio.

Oi gaudïo grandissimo, zamai no ho plu tema


ke ’l Satanax negrissimo me sforz e me comprema:
el sgiopa ben d’inodio e n’à dolor e pena
ked el no m’à compreso entr’infernal blastema.

El crepa ben d’invidia perk’el no m’à compreso,


k’el vé k’eo sont fuzio dal fog k’è sempre apreso;
el infla plu ka brosco per grand dolor sopreso:
lodhao ne sia l’Altissimo, ke m’à da lu defeso».

La dodhesena gloria sì è la confermanza:


in paradis ha ’l iusto fermissima speranza;
de pezorar lo stao no g’art aver temanza,
zamai no g’art temer ni doia ni pesanza.

Quest’ è mirabel gloria, mirabel alegreza,


dolzor sover dolzor e dolcisma dolceza,
haver cotal speranza, haver sì grand fermeza
de posseder semprunca tesor senza grameza.

Zamai no tem lo iusto d’aver alcun tormento,


ma spera il di novissimo d’aver meioramento,
ke ’l corp serà in gloria e in grand alegramento:
illora serà ’l iusto in dobio pagamento.

Per grand amor aspegia d’aver dolzor verax,


ke ’l corp il di novissimo resustarà in pax
per la virtù dr’Altissimo, ke pò zo ke ie plax,
e odirà la vox de quel Segnor verax.

El odirà la vox del fio dr’Omnipoënte:


«Veniven, benedigi del Patre me’ poënte,
e prenderì la gloria ke mai no dessomente».
Oi De, quent bona vox al iusto ke l’intende.

Per questa vox dolcissima illora l’arma e ’l corpo


seran in dobia gloria, in zog e in conforto.
Oi De, quam bel serave venir a quel deporto,
a prender tanta gloria, ki foss per temp acorto.

Perzò stragoe lo iusto e tuto se consora,


perzò ked el aspegia k’el ha venir quella hora
ke ’l corp in tanta gloria resustarà anchora:
el se conforta tuto quand el ge pensa sovra.

Se ’l iust insir devesse dal so confortamento,


quand el ge foss ben stao per un grandismo tempo,
el no porrav haver alchun spaguramento
e tema dond venisse a grand abraxamento.

De zo no g’art haver ni tema ni rancura


k’el possa perd lo stao de l’eternal verdura,
ma senza fin semprunca starà in grand dolzura,
in festa e in sozerno, in glorïa segura.

In questa dolze gloria lo iusto prend a dir:


«Oi De, com eo me posso godher e rebaldir.
Le mee dolcisme glorie zamai no han finir,
ma sempre han renovar e sempre reverdir.

Oi solazosa gloria, ke sempre me renova,


zamai no poss odir alcuna rëa nova:
mintro a la fin dra vita eo stig in bona ovra,
perzò zamai no temo dolor ke me comova.

Dolor ni conturbanza zamai plu no aspegio:


perzò k’in penitentia al mond eo fu confegio,
perzò in sempiterno quilò eo sont alegio;
lo di de la sententia con grand confort aspegio.

Aspeg lo di novissimo ke ’l corp ha resustar,


lo qual sì s’à quiloga godher e alegrar
e in splendor purissimo resplend e confortar:
lo godhio k’eo aspegio no se porav cuintar.

Oi De, com sont alegro del ben k’eo feva al mondo.


Per quel k’in penitentia porté l’asevre pondo,
perzò eo sont mo in requie e in dolzor iocondo:
il mee dolcisme glorie mai no è fin ni fondo.

In gaudïo dolcissimo quilò sont eo fermao:


ma eo sont bëatissimo e rie e exaltao,
zoios e alegrissimo, zoios e consolao;
lo dolce Patre altissimo ne sia glorificao».

Aregordao hablemo dra lettera doradha,


la qual è dolz da lezere, plasevre e delicadha.
Ki lez in questa lettera, no è persona nadha
ke d’acatar tal gloria devess ess fadhigadha.

S’el foss ki questa lettera per grand amor lezesse,


mai no è hom al mondo k’infenzer se devesse
de star in penitentia, azò ked el poesse
aguadhaniar tal vita ke mai no g’av incresce.

Oi De, com quel è mato, cativ e agamon,


ke perd cotal tesoro trovand scusation;
com quel è pro e savio, com quel è bon baron,
ke per ben far aquista sì grand possession.
GIACOMINO DA VERONA
De Babilonia civitate infernali
De Ierusalem celesti
nella versione poetica di Mary Barbara Tolusso

Non si sa precisamente quando Giacomino da Verona visse – anche


se, da un’analisi filologica dei testi, si presume che sia
contemporaneo di Bonvesin. Soprattutto non si sa se Dante, che
molto ebbe a che fare con Verona durante l’esilio, abbia mai avuto
l’occasione di leggere questo suo precursore. C’è chi, come Cesare
Segre, ritiene che questi anticipatori di Dante dediti all’aldilà, se pur
un aldilà più folclorico e modesto, siano stati dei veri pionieri. Ed è
difficile pensare che il grande poeta toscano non si sia ispirato anche
a Giacomino da Verona per formulare le sue immagini, come la
maledizione del canto III dell’Inferno, praticamente identica a quella
del verso 245 del De Babilonia civitate infernali.
Nei suoi due poemetti, De Babilonia civitate infernali e De Ierusalem
celesti, il poeta veneto – di cui l’unica notizia certa è l’appartenenza
all’ordine dei Frati Minori – si affida a un volgare veronese stretto,
adeguato ai suoi uditori. Tutta la sua opera è vocata alla semplicità
del suo pubblico. Non solo per la scelta del dialetto, ma anche per
l’immaginario a cui attinge. Il lettore più smaliziato riconoscerà
espressioni bibliche, provenienti soprattutto dall’Apocalisse e dal
repertorio dei padri predicatori, oltre che da alcuni poeti suoi
contemporanei, primo tra tutti Uguccione da Lodi. Così come la
lingua si attiene alla vulgata popolare, i temi trattati non subiscono
alcuna rielaborazione in termini di trascendenza. L’inferno e il
paradiso di Giacomino da Verona sono efficacemente materici,
immanenti, corporei. Il mondo dell’aldilà è della stessa materia del
mondo dell’aldiquà. Nessuna evocazione lirica, le gioie e le torture si
avvalgono di rappresentazioni frontali e riconoscibili, vicine alla
sensibilità del popolo: grandi bastonate nell’inferno e grandi
ricchezze nel paradiso. Anche se, bisogna ammetterlo, la fantasia
p g
declinata al male produce effetti più comici e grotteschi, ai nostri
occhi, mentre allora nulla doveva apparire così ingenuo: la gente
davvero moriva di fame, freddo e, in diversi casi, di botte.
Entrambi i poemetti sono concepiti in quartine monorime di
alessandrini, metrica qui tendenzialmente rispettata, esclusa la rima,
declinando i versi più a un gioco di assonanze interne, in modo da
non incedere in una cantilena troppo datata. Allo stesso modo le
licenze sono state applicate sempre ai significanti, mai ai significati,
per favorire la dinamica del ritmo e dell’allitterazione. Alcune regole
metriche sono state rispettate, altre no, ma senza alcun fine
profanatorio: piuttosto con l’intento di traslocare quel tempo,
attraverso la lingua, nei ritmi e nella percezione del terzo millennio.
Non un tradimento, ma una riapertura.
Il testo originale riprodotto è quello dell’edizione curata da
Romano Broggi in Gianfranco Contini (a cura di), Poeti del Duecento,
Milano-Napoli 1960, II, pp. 627-52.
BABILONIA, CITTÀ INFERNALE, LA SUA
TURPITUDINE E CON QUANTE PENE I
PECCATORI SARANNO PER SEMPRE PUNITI

Per amore di Cristo, signore e re di gloria,


e perché l’uomo sappia, racconterò una storia
e lo farò per quelli che la ricorderanno,
contro il diavolo falso ci dirà la vittoria.

La storia che vi voglio narrare ora è questa


di una città infernale, quant’è falsa e sbagliata,
la grande Babilonia, così viene chiamata,
secondo i santi padri e le loro pie scritture.

Dopo che intenderete il motivo e la ragione


di com’è fatta dentro in ognuno dei suoi lati,
riuscirete a trovare forse qualche perdono
da Dio con pentimento vero per i peccati.

Ascoltate. Pensate a quello che andrò a narrare


ché saranno parole dette in allegoria,
con le quali vi voglio spiegare una scrittura
che da tutte le parti sembrerà molto dura.

A ogni modo dico, per chi vorrà entrare


nel sacro insegnamento, se non sarà respinto,
potrà fare suo almeno un verso che sarà buono,
così voglio credere, prima della sua morte.

Cominciamo a leggere queste nuove parole,


per immagini e chiose della città maligna,
pregando che il Dottore di ogni divina azione
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faccia un’opera buona di questo mio racconto.

Il re di questa terra fu Lucifero reo,


quell’angelo che disse: «Metterò la mia sede
nell’alto firmamento. Voglio essere Dio»,
così cadde dal cielo insieme agli altri impostori.

La città è sconfinata, lunga, profonda e alta


colmata di ogni male, di infelicità piena,
tutti i santi dicono questa verità certa,
che chi là dentro entra, non potrà uscirne in fretta.

La città è collocata nel più profondo inferno.


Arsa costantemente di resina e di zolfo:
e se vi si gettasse tutta l’acqua del mare
brucerebbe all’istante come una cera sciolta.

In mezzo vi scolano acque davvero sporche,


amare più del fiele, di veleno mischiate,
serrate tutt’intorno da molte spine e ortiche,
più aguzze dei coltelli e più taglienti di spade.

La città è ricoperta da un cielo tutto tondo


simile a ferro e acciaio, all’andanico e al bronzo,
tutte le mura intorno sono di monti e rocce
così che il peccatore non potrà mai fuggire.

In alto vi è una porta e accanto quattro guardie,


Maometto e Trivigante, Barachino e Satana,
sono così crudeli, volgari e disumani
che saranno dolori per chi gli cade in mano.

Inoltre sulla porta c’è un’altissima torre


dove una sentinella da lassù fa la guardia,
non lascerà passare nessun uomo che voglia,
per tutte quelle strade, superare una soglia.
p q p g
In più è cosa nota ma di grande meraviglia
che la guardia mai dorma, ma tutto il tempo veglia,
fa cenni giorno e notte verso tutti i custodi
di non lasciare andare questa folla di erranti.

E poi da un’altra parte continua a dire e urla:


«Attenti che all’interno non vi sia tradimento.
Tenete l’uscio chiuso e ben guardate la via
ché della nostra gente nessuno scappi via.

E a chi verrà da voi come fosse un gran conte


correte lui incontro con viso molto allegro,
apritegli la porta e giù il ponte levatoio,
in città entri pure con canti di trionfo.

Poi al re Lucifero lo farete sapere,


perché così si industri di procurare al reo
un luogo tenebroso, là dove dovrà stare
colui che ha meritato questo suo giusto stato».

O misero infelice, dolente maledetto


colui che a tale onore sarà alla fine ammesso!
Non so voi che pensate, ma io glielo prometto,
da me nessuna lode, lui loderà se stesso.

E la mia mente e il cuore ben lo manifestano:


che è vera la lezione dell’alto mio Signore,
gli apparirà quel luogo tanto crudele e reo
che dopo la visione non si potrà lodare.

Appena sarà giunto molto velocemente


gli legheranno mani, piedi dietro alla schiena
e senza pietà alcuna battendolo con forza
sarà poi trascinato davanti al re dei morti;

colui farà arrivare un perfido ministro,


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che in base a ciò ch’è scritto lo metterà in prigione,
un posto più lontano del cielo dall’abisso,
per essere in eterno perseguitato e afflitto.

Dal pozzo viene fuori un fetore così grande


che a volerlo dire non saprei raccontare,
l’uomo che si avvicina e solamente lo annusa
non potrà liberarsi da una perenne nausea.

In ogni tempo e luogo non è mai stato visto


un tale territorio così maleodorante,
dove puzza e fetore che escono dal pozzo
a più di mille miglia si sentono a distanza.

Laggiù stanno serpenti, bisce, ramarri e rospi,


vipere e basilischi con dragoni mordenti:
più affilate di lame sono le unghie e i denti,
masticano in eterno e in eterno hanno fame.

Là ci sono demoni con dei grandi bastoni,


che spezzano le ossa e anche femori e spalle
e sono cento volte più neri del carbone,
se non mente il dettato dei celesti sermoni.

Tanto è orribile il volto della crudele banda


che avremmo più piacere di essere frustati
per alture e per monti, da Roma fino in Spagna,
piuttosto che incontrarne uno solo in campagna.

Perché in ogni momento, la sera e la mattina,


gettano dalla bocca sciami di puro fuoco,
cornuta hanno la testa, pelose hanno le mani,
urlano come lupi, ringhiano come cani.

Quando il dannato arriva e tra questi turpi cade,


lo immergono in un’acqua ch’è talmente gelata
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che un giorno sembra un anno, secondo ciò che è scritto,
prima di collocarlo dentro un luogo infuocato.

E quando è messo al caldo, vorrebbe essere al freddo,


tanto gli pare duro, feroce, forte e aspro,
libertà non conosce in alcun momento e sempre
dal pianto, dal dolore e dalla continua pena.

Restando in quel tormento, gli sopravviene un cuoco,


Belzebù fa di nome, tra i peggiori del luogo,
lo mette a rosolare, come un bel porco al fuoco,
per cucinarlo in fretta lo infila in uno spiedo.

E poi con acqua e sale, con fuliggine e vino


e fiele e forte aceto, più tossico e veleno,
danno forma a una salsa, tanto buona e squisita
che il Re divino possa preservarne i cristiani.

Poi al re dell’inferno lo invia come gran dono,


costui lo guarda bene e infine gli urlerà al messo:
«Questo non vale» dice «neppure un fico secco,
la carne è ancora cruda. Poi il sangue è ancora fresco.

E portaglielo ora rapidamente indietro,


e di’ a quel vile cuoco che non mi sembra cotto,
che deve rovesciarlo a testa in giù, capovolto,
in quel fuoco che avvampa per sempre notte e giorno.

Con precisione digli, proprio da parte mia


che non me lo riporti, ma laggiù lo abbandoni,
non sia mai negligente né pigro in questa azione,
ché il dannato è ben degno di questa espiazione».

Ciò che gli è comandato, non gli dispiace affatto,


sprofonda il reo in un fuoco che arde così forte
che tutti gli abitanti, sotto il cielo del mondo,
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nemmeno una favilla potrebbero smorzare.

Non è mai stato visto, né si potrà vedere


un fuoco così forte come divampa quello:
né denaro né argento, né città né castello
potrà salvare l’uomo che nel peccato muore.

Il fuoco è così grande, la fiamma e il calore,


che è difficile dire o leggere in uno scritto;
non emana splendore, tale è la sua natura
tanto scura e fetida, piena d’ogni sozzura.

La fiamma disegnata sul muro, carta o altro


non può far male a nulla rispetto a quella vera,
così il fuoco terreno rispetto a questo è niente,
Dio ci guardi davvero, ché non giunga a sfiorarci.

Così come nell’acqua cercano cibo i pesci,


i vermi maledetti consumano in quel fuoco,
divorano la bocca, gli occhi, cosce e talloni
di tutti i peccatori che sono lì sommersi.

In quel luogo i diavoli gridano a squarciagola:


«Attizza, attizza il fuoco che i malfattori aspetta!».
Potete immaginare in quale modo festeggi
il misero colpevole che attende questa festa.

Se un demone poi grida, un altro gli risponde,


un altro batte il ferro, chi ancora cola il bronzo,
altri attizzano il fuoco e corrono tutt’intorno
per dare al peccatore la rea notte e il reo giorno.

E per finire il tutto dall’abisso profondo


esce un grande villano, di Satana amicone,
alto ben trenta metri e con un bastone in mano
benedice le spalle del bugiardo cristiano,
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gli dice ad alta voce: «Ciascun si dia da fare,
ché il tempo non permette di stare fermi invano,
e chi non farà questo ne avrà certo un malanno,
quindi non si stupisca se poi cadrà in danno».

Le orribili creature rispondono: «Ben venga


questa buona notizia, purché succeda presto.
Tu camminerai innanzi, sarai la nostra guida;
riceva male quello che si farà codardo».

Corrono nella piazza diavoli giganteschi


ché qui di mezza tacca non pare ce ne siano
e ognuno laggiù grida: «Ammazza, ammazza, ammazza!
Ormai non può scappare il furfante mascalzone».

Chi prende dei badili, chi prende dei rastrelli,


altri gli attizzatoi, chi lance e chi coltelli,
non ricorrono a scudi, né a degli elmi ed elmetti
se hanno da esibire zappe, forche e martelli.

Sono così crudeli e abituati a far male


che uno di quei rei non aspetta mai l’altro:
e certo più beato chi può stare davanti,
correndo come cani preparati alla caccia.

Adesso pensa al gramo che vorrebbe scappare


e tutti quei demoni vede correre intorno
che a pagarlo un milione non se ne ferma uno,
mentre gli corre dietro gridando: «Fuoco, fuoco».

Facendo così tutti, tanto è forte il rumore


che già quello sarebbe gran pena al peccatore:
se un diavolo è cattivo, l’altro è ancora più atroce
e Dio colpisca quello che là dentro è il più infame.

Non saprei proprio dire chi è il peggiore o il migliore,


p p p p gg g
ché tutti sono demoni che regnano all’inferno,
tanto che sia d’estate quanto pure d’inverno
causano a tutti pena con quell’eterno fuoco.

Se in quella circostanza ci sono i più cattivi,


porranno i loro seggi nella città, al suo centro:
gli altri li venerano come fossero dei,
si mettono in ginocchio davanti ai loro piedi.

Accade che a ciascuno prenda una grande voglia


di fare il peggior male, nessuno si risparmia:
perciò il povero reo a voce alta si lagna,
quando si vede intorno l’orrenda gente cagna,

che atroce lo colpisce proprio in mezzo alla faccia,


lo afferra per la testa e su terra lo trascina;
chi guarda da lontano vuol essere vicino
per compiere furioso sul reo tutta quell’ira.

Chi colpisce le braccia, altri invece le gambe,


chi invece spezza ossa con bastoni e con stanghe,
con zappe e con badili, con mannaie e con vanghe:
così riempiono i corpi di ferite profonde.

A terra quasi morto quel poveretto cade:


a nulla vale il pianto per avere indulgenza;
dentro al naso uno spago e intorno al collo una corda,
lo trainano con botte in quella città sepolta.

Il peccatore allora non può che disperare


di non aver perdono da quella gente atroce,
da quel momento in poi può aspettarsi di avere
sol pena sopra pena, fuoco e dura prigione.

Al misero cattivo, sicuro erano meglio


mille ore da defunto che una sola da vivo,
ché lì non ha parenti e neppure un vero amico
e a tutti non importa neppure quanto un fico.

Queste crudeli beffe che ho appena raccontato,


che tante volte al giorno quella gente commette
e che lo fa urlando: «Egli ha ben meritato.
Avesse nella vita di Dio l’opera amato!

Ora è venuto il tempo dove sarà ingannato,


tempo in cui non si compie nessun tipo di bene,
anche se mai ci offrisse un monte d’oro colato,
non potrà mai più uscire da quel luogo spietato.

E se egli non ha mazze e tanto meno armamenti,


come sfruttava un tempo, saranno patimenti».
È l’ora in cui inizia lo sventurato a dire
con gran spreco di voce e con enormi sospiri:

«O misero cattivo, dolente sciagurato,


in che soci crudeli qui mi sono imbattuto!
Piacesse al Creatore che io non fossi nato
piuttosto che arrivare in questo luogo violento!

Maledetta sia l’ora, la notte, il dì e il momento


in cui mia madre scelse di unirsi con mio padre,
maledetto chi scelse di non farmi affogare
dentro il battezzatoio per quanto son reprobo.

Ma a un tale punto sono che non so più che accade,


non mi sembra Natale, né Epifania né Pasqua;
e chi si dà da fare per avere sfortuna,
invano si affatica, ché io ce l’ho intera».

Di buona voglia adesso il misero fuggirebbe,


egli non può più nulla perché la via è chiusa
e il diavolo l’ha stretto del tutto in sua balia,
neanche per tutto l’oro lo farebbe andar via.

Lì il triste scellerato si arrotola e si gira,


non trova alcuna pace, né un luogo buono e bello,
là dentro quell’inferno solo morte e flagello,
quanto per gli animali lo è lama e randello.

Si affollano i demoni, gli si mettono intorno


con bastoni di ferro pesanti più del piombo,
e tante gliene danno, di dritto e di rovescio
che il dannato vorrebbe non essere mai nato.

Ora prenda il cattivo i suoi figli e anche la moglie,


poi gli amici e i parenti, gli armamenti e i destrieri,
i castelli e le rocche ché lasciò l’altro giorno
e si faccia aiutare ché ne ha grande bisogno.

Come mi dice il cuore, nell’inganno è caduto,


se non mente il vangelo dell’alto Dio Signore,
lo insegna san Giovanni, Luca, Marco e Matteo
che chi giunge all’inferno mai più tornerà indietro.

Nessuno può aiutare l’altro che è con lui dentro


e chiunque è là chiuso ha per sé troppo da fare,
ma una cosa va detta secondo ciò che penso:
che di ridere il reo non ha proprio più voglia.

Così avviene lo stesso che accade al prato verde


che di giorno è mangiato fino alle sue radici
e infine in breve tempo, voi lo sapete bene,
di notte poi ritorna a rinverdire e a crescere.

Tutta la maggior pena che proverà il meschino,


sarà proprio il pensiero che non avrà mai fine
il fuoco dell’inferno e l’infuocato cammino,
in cui dovrà bruciare giorno, notte e mattino.
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Anche in quel brutto luogo, come si è già sentito,
un figlio incontra il padre e spesso con lui si arrabbia,
urla: «Il figlio di Dio che in cielo ha la corona
ti maledica, padre, l’anima e la persona.

Fin quando fui al mondo tu non mi hai castigato


e poi mi hai spesso spinto a commettere peccato,
per me hai conquistato tutto l’oro e l’argento,
quindi ora devo stare in un fuoco crudele.

E se io ben ricordo, velocemente ora,


tu mi correvi dietro con dei grossi bastoni
per farmi fare in ogni modo ciò che volevi,
se io non rovinavo il vicino e amico nostro».

E il padre gli risponde: «O figlio mio maledetto,


per ciò che fu il tuo bene qui sono stato messo,
ho abbandonato Dio, rinunciato a me stesso,
praticando l’inganno con usure e rapine.

Tutti i giorni e le notti ho sopportato disagi


per conquistare rocche, pinnacoli e castelli,
i monti e le campagne, boschi, vigne e poderi,
perché nella tua vita tu vivessi negli agi.

Tanto fu il mio pensiero, tanta per te la cura,


mio bel dolce figliolo, che Dio ti maledica,
più non mi ricordavo dei poveri di Dio
che di fame e di sete morivano per strada.

Ora io lo so bene che sembro folle e matto,


perché a niente servirà il piangere e disperarmi,
perché non ben pagato per tutto ciò che ho fatto
di un soldo così ricco che uno è più di quattro».

La battaglia tra loro è talmente grande e forte,


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come se si fossero così giurati morte,
e se potesse uno dare un bel morso all’altro,
ne sbranerebbe il cuore che sta dentro quel corpo.

La pena è così grande dentro le fiamme ardenti


che se avessero mille più cinquecento bocche
per raccontare giorno e notte senza fermarsi,
non potrebbero dirlo, non abbiate mai dubbi.

O sì, gente crudele che ora stai nel peccato,


quanto avrai da soffrire perché non ci hai pensato?
Per il dolore a un dente tutto il giorno gridate:
come sopporterete le sempiterne offese?

Ora solo un consiglio, se vorrete ascoltare,


fate la penitenza finché sarà permesso,
di tutti i vostri vizi chiedete a Dio perdono,
perseverando in quello fuggirete le pene;

ché sia il male che il bene vi è stato messo innanzi,


in modo che scegliate quello che più vi piace:
il male porta a morte con l’angelo caduto,
il bene dona vita stretti a Gesù nel cielo.

Ma affinché non pensiate con i cuori sicuri


che queste siano fiabe o novelle di giullari,
Giacomino da Verona, Ordine dei Minori,
ha compilato il testo con commenti e orazioni.

Ora avete ascoltato tante buone ragioni:


perciò preghiamo tutti perché Cristo e Sua madre
ne diano ricompensa a chi ha composto il sermone
e a chi l’ha ascoltato con grande devozione.
LA GERUSALEMME CELESTE, LA SUA
BELLEZZA, BEATITUDINE E LE GIOIE DEI SANTI

Ho qualcosa da dire, per chi vuole ascoltare,


di una città divina e di com’è fatta dentro,
e ciò che voglio dire, senza alcun cambiamento,
se lo tenete a mente, gran bene vi può fare.

Città dell’alto Dio, Ierusalem Celeste,


la terra ha questo nome, lucente, chiara e bella,
dove Cristo è signore, degno fiore novello,
che nacque da Maria, donna regale e pia:

contraria a questa terra, ve n’è una di pene,


Babilonia la grande, si chiama in questo modo,
là Lucifero gode con la sua compagnia,
là tormenta coloro che il buon Gesù hanno odiato.

Ora voglio parlare delle sante avventure,


della città celeste per simboli e figure,
anche se a raccontare questa loro natura,
arduo sarebbe ai santi con tutte le scritture.

Ma di verità certe ce ne saranno poche,


le altre, come dissi, saranno allegorie;
per cui voi che leggete queste scritture sante
non vogliate svilirle con sottigliezze varie.

Così io spero in chi nacque da un casto e puro parto,


con gli esempi il lettore deve infine capire,
la sua anima spesso dovrà fare un tal salto
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che ascenderà il profumo al Signore là nell’alto.

Chi vorrebbe svilirla o ancora non capirla,


mi pare, quanto a questo, che Dio non lo permetta;
adesso taccia e in pace confessi la sua colpa,
e lasci abbeverarsi chi vuole acqua divina.

Ora iniziamo a dire ciò che i santi dicono


della città celeste del Re del paradiso:
delle sue grandi beltà come in parte, mi sembra,
ne parli san Giovanni dentro l’Apocalisse.

Perciò «in parte» vi dico, che sono ben sicuro


che lui non fu poeta né uomo di gran senno
per poterla annunciare o davvero raccontare,
tanta è la meraviglia di questo firmamento.

Ora in ciò ch’egli dice e in ciò che sta scritto altrove,


io nutro la speranza nel nostro Gesù Cristo,
artefice e maestro della città celeste
e il mio canto su quella vi dirà il suo prodigio.

In primo luogo è tutta circondata da mura,


la città è costruita similmente a un quadrato;
pareti per lunghezza, larghezza e altezza uguali,
le fondamenta adorne di ogni pietra brillante.

Ad ogni lato stanno ben tre porte lucenti,


più chiare delle stelle, son alte, lunghe e spesse,
le loro volte ornate di oro e margherite,
non entra il peccatore, per quanto abbia forze.

I merli di cristallo, poi corridoi di oro,


l’angelo cherubino lì sopra fa la guardia,
è di fuoco divino la spada che trattiene,
la corona nel collo è decorata di gemme:
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non entrerà nessuno che l’angelo non voglia,
né mosca né tafano, né biscia né serpente,
né folle né sciancato, né alcuna altra gente
che nuocere potrebbe nella città celeste.

I sentieri e le piazze, i cammini e anche le strade


sono d’oro e d’argento, vestite di cristallo;
nell’azzurro gli angeli con le Virtù beate
alleluia cantano per tutte le contrade.

Dicono le scritture, in sacri testi e chiose,


che le case e i palazzi, là dentro edificati
sono così preziosi e stupefacenti luoghi
che nessuno può dire di averne visti altrove:

ché i mattoni e le pietre sono di fine marmo,


più bianchi d’ermellino, di luce attraversati,
camere e corridoi dalle pareti azzurre
sia all’interno che fuori di oro oltremarino.

Le colonne e le porte sono di un tal metallo,


più preziose dell’oro più chiare del cristallo,
né balestra o mortaio, né altre armi da offesa
possono a quei palazzi né alla città far danno:

perché proprio lì Cristo ne è principe e signore,


di tutta quella gente lui è il suo difensore,
per cui non ha motivo di avere alcun timore,
chi ne è un suo abitante, chi in quella città vive.

Vorrei narrare ancora che la scrittura dice


non ci sia sole e luna nella città celeste,
ma il volto del Signore nell’alta sua figura
là splende così tanto che qui non c’è misura.

Così tanta la luce ch’Egli sa emanare


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che mai giunge la notte, ma sempre chiaro è il giorno,
né nuvole né nebbia, come capita in terra,
niente mai può oscurare lo splendore del luogo.

Le acque e le sorgenti nella città scorrono,


più belle dell’argento, più belle anche dell’oro;
credetemi davvero: chiunque potrà berne
non potrà più morire, non avrà mai più sete.

E ancora: proprio in mezzo un bel fiume ci scorre,


è tutto circondato da un verde molto intenso,
di alberi e di gigli, di violette e di rose,
di altri fiori belli che esalano profumi.

Sono chiare le acque più del sole splendente,


sospingono per sempre gemme di margherite,
argento e oro fine, rare splendide pietre
simili a stelle poste nella volta celeste.

Tanta virtù zampilla da ognuna delle acque


che hanno il dono di dare la gioventù all’anziano,
l’uomo che da millenni giace nella sua tomba,
vivo e sano si leva se leggero le tocca.

Anche gli stessi frutti degli alberi e dei prati


che stanno lungo il fiume, piantati sulla riva,
se solo messi in bocca guariscono i malati,
son dolci più del miele e di qualsiasi altra cosa.

Sono d’oro e d’argento sia le foglie che i fusti


degli alberi che danno questi dolci raccolti.
Fioriscono nell’anno dodici volte tutti,
né mai perdono foglia, né mai saranno secchi.

Ciascuno degli alberi profuma così tanto


che a più di mille miglia quell’odore si sente,
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perciò la città intera, sia dentro che di fuori,
pare che sia sommersa di cannella e di menta.

Allodole e usignoli, con altri deliziosi,


cantano giorno e notte sopra quegli alberelli,
intonano canzoni più belle ed aggraziate
di quello che possono lire, viole e zampogne.

Sempre lussureggianti sono gli orti e i frutteti


nei quali divagano beati i cavalieri
che non hanno altra cura, né tormenti e pensieri
se non di benedire Dio creatore dei cieli;

che in mezzo a tutti loro sta seduto su un trono


tondo e gli angeli e i santi gli stanno tutti intorno,
lodando giorno e notte l’ammirabile nome
che tiene tutti in vita nel nostro terreo mondo.

Lì sta Dio dall’eterno, lì a Dio gli fanno ala


profeti e patriarchi tutti vestiti innanzi
di velluto turchino, verde, bianco e celeste
che lo glorificano con orazioni e canti.

L’eroica compagnia degli apostoli santi,


siede dodici troni tutti d’oro e d’argento,
lodando Gesù Cristo che in terra e dall’eterno,
tra così tanta gente, li scelse per compagni.

La nobile famiglia dei valorosi martiri


hanno i capelli adorni di una rosa vermiglia,
rendono grazie al Figlio della Vergine buona
perché li ha resi degni della Sua insegna in terra.

C’è una grande brigata di santi confessori,


tutti in anima e corpo sono glorificati,
magnificano Dio di giorno e anche di notte
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per averli chiamati a questo maestoso onore.

Davanti a Gesù Cristo da un tempo sempiterno


sta quell’eroica fila di vergini beati
che sopra tutti gli altri portano la bandiera
di onore e di bellezza con grande luce in volto,

cantano una canzone che è di vero conforto


e l’uomo che l’ascolta non teme più la morte,
lodano il creatore onnipotente e forte
che li ha condotti in cielo al tanto sicuro porto.

Creano tanta letizia queste genti beate,


con canti e con parole, come vi ho raccontato,
che tutto il cielo e l’aria e le contrade sembrano
gremite di strumenti, di voci incantate.

Le loro bocche mai, per nessuna ragione,


non lodano la santa Trinità, maestà vera,
e ciascuno lì canta con voce molto alta:
«Sanctus Sanctus Sanctus», facendo grande festa.

Mai si è riusciti in terra da nessuna persona,


né mai in terra vedremo solennità imponente
come fanno i cantori di quella città alta
davanti al Re di gloria, alla Sua maestà sovrana:

talmente in sintonia sono tutte le voci


che di un’ottava sale una e in quinta va l’altra
e dietro un’altra ancora talmente deliziosa
che mai è stata udita più seducente danza.

Ebbene dico ancora, senza bugie davvero,


che quanto a quelle voci, sembrerebbe una beffa
udire cetra o lira, né organo o ghironda,
né sirena né ondina, né altra cosa esistente:
è per questo che Cristo che sta sul santo trono
gli insegna a solfeggiare perché eseguano il canto,
dona il suo amore a tutti in modo così soave
che nessuno vorrebbe a lui levarsi davanti,

contemplano la forma luminosa e abbagliante


che è davvero serena, chiara, pulita e pura
che le stelle del cielo, l’astro notturno o il sole,
secondo la scrittura, davanti a lui si oscura.

Quella forma profuma proprio su ogni cosa,


che pare uscire dalla sua bocca un grande fiume
di erba, muschio e d’ambra, di balsamo e di menta
che nella città intera alita fuori e dentro.

A contemplare il viso di quel dolce Signore


tal estasi si sente, come si trova scritto,
da vincere e piegare qualsiasi altra dolcezza,
e beato chi in cielo potrà vedere Dio.

Perciò quei melodiosi tanto si rallegrano


che battono le mani e il cuore si rigenera
e i piedi volteggiano e gli occhi si illuminano,
diventano più belli quanto più lo guardano.

Così si abbandonano nell’amore perfetto,


tutti intorno al signore si tengono l’un l’altro
e a ciascuno di loro risplende tanto il corpo
almeno sette volte più di quanto può il sole.

Hanno ricami d’oro le sue solenni vesti,


più bianche della neve, più intense delle rose,
lo sguardo e la sua mente sono così sottili
che dal cielo alla terra tutto vede e conosce.

Ciascuno ha sicurezza che sempre il proprio corpo


p p p p
non debba mai morire, mai di nessuna morte
ma per sempre avrà vita, gran respiro e riposo,
piacere ed esultanza e pace di gran sollievo.

Per questo quando penso il cuore prova vergogna,


perché non faccio cose tali per cui l’anima
potrà estasiarsi in cielo di quel viso benigno
dell’alto Gesù Cristo che sempre vive e regna.

Ed è sicuro e vero, la scrittura lo dice,


che non c’è un’altra gloria, né un altro paradiso
se non di contemplare l’espressione e il bel viso
dell’alto Gesù Cristo che sempre vive e regna:

stanno dinnanzi a lui beati Cherubini,


in grandi processioni, pregano giorno e notte
i vespri e i mattutini, per noi stolti mortali,
perché Lui orienti al cielo questi nostri cammini,

cosicché noi potremo stare con tutti loro


su quell’alta dimora, tra fratelli e compagni,
davanti a Gesù Cristo, quel glorioso signore
che siede maestoso sul magnifico trono.

La mia mente e il mio cuore non potranno impedirmi


di dire ciò che un tempo non è mai stato detto,
quindi ancora racconto dell’altissimo trono,
di quanto a Dio è vicina la Vergine Maria.

Sopra tutti gli angeli, accanto al lato destro


del nobile Creatore, la sua sedia è adagiata
e al cielo rende luce, coronata di gloria,
dirò senza riserve, di gran lealtà e di amore.

Tanto è maestosa e grande quella gentil ragazza


che di lei continuano a parlare angeli e santi,
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non smettono di dire che è più preziosa e bella
più del fiore nel prato, più di rosa novella.

E non aggiungo «forse», né è sola mia opinione,


ché io lo so per certo, come anche le scritture,
che è la scala del cielo, porta del paradiso,
della luna e del sole ha più bello il volto e il viso.

Perciò un’illimitata celeste compagnia


la saluta a ogni ora con grande cortesia
come fece l’angelo appena in Terrasanta
quando disse alla figlia di Dio: Ave Maria.

Per sempre l’adorano, per sempre si inchinano


secondo ciò che dice la divina scrittura,
davanti a lei cantano sempre: Salve Regina,
Alma Redemptoris, Stella matutina.

E poi cantano un canto che è di tale bellezza,


dinnanzi a Gesù Cristo e alla Sua madre pura
che nessuna creatura conosce a questo mondo,
né si può raccontare in qualche nota misura:

non può pensarlo il cuore, né lingua può spiegare,


davvero così è detto, che il canto è tanto bello
che solamente in cielo si può cantare e dire
da quei puri che in terra vollero Dio servire.

Per nobile grandezza di quella santa donna


vengono inghirlandati da un’aulica corona
che effonde più profumo dell’ambra e d’erba muschio,
di gemma o altro fiore o di rosa di campagna.

Per onorare ancora quell’alta sua persona,


la nobile fanciulla che in cielo ha la corona,
le vengono donati destrieri e palafreni,
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in terra mai fu visto cavallo più di razza:

sono rossi i destrieri, corrono più dei cervi,


i palafreni bianchi più veloci dei venti,
e le staffe e le selle, gli arcioni e anche le morse
sono d’oro e smeraldo, fini, chiari e splendenti.

Per completare bene, come fa un gran signore,


alla Vergine dona un candido gonfalone
nel quale vi è il ritratto di chi le tentazioni
di Satana ha sconfitto, quel perfido leone.

Costui è il cavaliere di cui raccontai prima,


che al cospetto di Cristo intonerà il dolce canto
e dal Padre e dal Figlio e dallo Spirito Santo
dal cielo gli è concesso di starle sempre accanto.

Per questo ben dovranno ritenersi beati


coloro la cui opera li farà stare insieme
con i santi del cielo di fiori incoronati
dinnanzi alla Vergine per servirla per sempre.

Che altro devo dire o ancora in più raccontare?


Al mondo non esiste chi possa rivelare,
se non il Gesù Cristo e il suo amabile Padre,
il bene che avrà quello che in cielo andrà ad abitare.

Ora tutti preghiamo la Vergine Maria


ché per noi sempre stia davanti a Gesù Cristo,
ché lassù ci prepari il nostro celeste asilo
nell’ora in cui la vita in terra sarà compiuta.
DE BABILONIA CIVITATE INFERNALI ET EIUS
TURPITUDINE ET QUANTIS PENIS PECCATORES
PUNIANTUR INCESSANTER

A l’onor de Cristo, segnor e re de gloria,


et a tenor de l’om cuitar voio un’ystoria,
la qual spese fïae, ki ben l’avrà in memoria,
contra falso enemigo ell’ à far gran victoria.

L’istorïa è questa, k’eo ve voi’ dir novella


de la cità d’inferno quant ell’ è falsa e fella,
ke Babilonia magna per nomo sì s’apella,
segundo ke li sancti ’de parla e ’de favella.

Mo poi ke vui entendrì lo fato e la rason,


com’ ell’ è fata dentro per ognunca canton,
forsi n’avrì trovar da Deo algun perdon
de li vostri peccai, per vera pentixon.

E ço k’e’ ve n’ò dir, prendìne guarda e cura,


k’ele serà parole dite soto figura,
de le quale eo ve voio ordir una scriptura
ke da leçro e da scrivro ve parà molto dura.

Perçò tuta fïaa en la spirital scola


l’om k’entrar ge vorà, né no starà de fora,
ben ne porà-l’emprendro almen una lignola
a la soa utilitae, creço, enançi k’el mora.

Or començemo a leçro questa scritura nova


de la cità malegna per figura e per glosa,
e lo Dotor d’ogn’arte preg[h]em per divina ovra
g p g p
k’Elo nui [’n] questo scrito faça far bona prova.

Lo re de questa terra sì è quel angel re’


de Lucifèr ke diso: «En cel metrò el me’ se’,
e serò someiento a l’alto segnor De’»,
dond el caçì da cel cun quanti ge çé dre’.

La cità è granda et alta e longa e spessa,


plena d’ogna mal e d’ognunca grameça:
li sancti tuti el diso, per fermo e per certeça,
ka ki là dentro à entrar, no ’d’ à-lo ensiro en freça.

En lọ profundo de inferno sì è colocaa,


de raxa e de solfero sempro sta abrasaa:
se quanta aqua è en maro entro ge fos çetaa,
encontinento ardria sì com’ cera colaa.

Per meço ge corro aque entorbolae,


amare plui ke fel e de venen mesclae,
d’ortig[h]e e de spine tute circundae,
agute cum’ cortegi e taient plu ke spae.

Sovra la cità è fato un cel reondo


d’açal e de ferro, d’andranego e de bronço,
de saxi e de monti tuta muraa d’atorno
açò k’el peccaor çamai no se’n retorno.

Sovra sì è una porta cun quatro guardïan,


Trifon e Macometo, Barachin e Sathàn,
li quaḷi è tanto enoiusi e crudeli e vilan
ke dolentri quelor ke g’andarà per man.

Ancora su la porta sì è una tor molt alta,


su la quala sì sta una soa scaraguaita,
la qual nui’ om ke sia çamai trapassar laga
per tute le contrae, ke lì venir no’l faça.
p
E ben è fera consa e granda meraveia
k’ella no dormo mai, mo tuto ’l tempo veia,
façando dì e noito a li porter ensegna
k’igi no laxo andar la soa çento ramenga.

E po’ da l’altra parto sempro ge dis e cria:


«Guardai ke entro vui no regno traitoria.
Tegnì seraa la porta e ben guardaa la via,
ke de la nostra çente nexun se’n scampo via.

Mo ki verà a vui, com’el fos un gran conto,


encontro ge corì con molto alegro fronto,
la porta ge sia averta et abassao lo ponto,
e poi el metì en cità cun canti e cun trïumpho.

Mai al re Lucifèr sì lo fai asaver,


açò k’el se percaço de farge proveer
d’un tenebroso logo là o’ ’l deba çaser,
segundo k’el è degno e merito d’aver».

O miser mi cativo, dolento, maleeto,


quelui ch’a tal onor firà là dentro meso!
De vui no voio dir, mo eo ben ge’l prometo,
k’eo no de’-lo laudar s’el no se lauda ensteso.

Mo ben me’l manifesta la mento e lo cor meo,


s’el no mento la leço de l’alto segnor Deo,
k’el g’à parir quel logo tanto crudel e reo
k’el no se n’à laudar a le fine de dreo.

K’el no serà çà dentro uncana tanto tosto


cum’ igi g’à ligar le mane e li pei poi el doso,
e poi l’à presentaro a lo re de la morto,
sença remissïon batandol molto forto;

lo qual s’à far veniro un perfido ministro,


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ke l’à metro in prexon, segundo k’el è scrito,
en un poço plui alto k’el cel n’è da l’abisso,
per esro lì tutore tormentao et aflicto.

La puça è sì granda ke n’exo per la boca,


ka eo volervel dir tuto seria negota,
ké l’om ke solamentre l’aproxima né ’l toca
çamai per nexun tempo non è livro d’angossa.

Mai no fo veçù unca per nexun tempo


logo né altra consa cotanto puçolento,
ké millo meia e plu da la longa se sento
la puça e lo fetor ke d’entro quel poço enxo.

Asai g’è là çò bisse, ligurị, roschi e serpenti,


vipere e basalischi e dragoni mordenti:
agui plui ke rasuri taia l’ong[l]e e li denti,
e tuto ’l tempo manja e sempr’ è famolenti.

Lì è li demonii cun li grandi bastoni,


ke ge speça li ossi, le spalle e li galoni,
li quali è cento tanto plu nigri de carboni,
s’el no mento li diti de li sancti sermoni.

Tant à orribel volto quella crudel compagna,


k’el n’ave plu plaser per valle e per montagna
esro scovai de spine da Roma enfin en Spagna
enanço k’encontrarne un sol en la campagna.

Ked i çeta tutore, la sera e la doman,


fora per mei’ la boca crudel fogo çamban,
la testa igi à cornua e pelose le man,
et urla como luvi e baia como can.

Ma poi ke l’omo è lì e igi l’à en soa cura,


en un’aqua lo meto k’è de sì gran fredura
q g
ke un dì ge par un anno, segundo la scriptura,
enanço k’eli el meta en logo de calura.

E quand ell’ è al caldo, al fredo el voravo esro,


tanto ge pare-l dur, fer, forto et agresto,
dond el non è mai livro per nexun tempo adeso
de planto e de grameça e de gran pena apresso.

Staganto en quel tormento, sovra ge ven un cogo,


çoè Balçabù, de li peçor del logo,
ke lo meto a rostir, com’un bel porco, al fogo,
en un gran spe’ de fer per farlo tosto cosro.

E po’ prendo aqua e sal e caluçen e vin


e fel e fort aseo e tosego e venin
e sì ne faso un solso ke tant è bon e fin
ca ognunca cristïan sì ’n guardo el Re divin.

A lo re de l’inferno per gran don lo trameto,


et el lo guarda dentro e molto cria al messo:
«E’ no ge ne daria – ço diso – un figo seco,
ké la carno è crua e ’l sango è bel e fresco.

Mo tornagel endreo vïaçament e tosto,


e dige a quel fel cogo k’el no me par ben coto,
e k’el lo debia metro col cavo en çó stravolto
entro quel fogo ch’ardo sempromai çorno e noito.

E stretament ancor dige da la mia parto


k’el no me’l mando plui, mo sempro lì lo lasso,
né no sia negligento né pegro en questo fato,
k’el sì è ben degno d’aver quel mal et altro».

De ço k’el g’è mandà no ge desplase-l miga,


mai en un fogo lo meto, ch’ardo de sì fer’ guisa
ke quanta çent è al mondo ke soto lo cel viva,
q
no ne poria amorçar pur sol una faliva.

Mai no fo veçù, né mai no se verà,


sì grando né sì fer cum’ quel fogo serà:
aoro né arçento né castel né cità
non à scampar quelor k’en li peccai morà.

Lo fogo è sì grando, la flama e la calura,


k’el no se pò cuitar né leçros’ en scriptura;
nuio splendor el rendo, tal è la soa natura,
mo negro e puçolento e plen d’ogna soçura.

E sì com’ è nïento a questo teren fogo


quel k’è depento en carta né ’n mur né ’n altro logo,
così seravo questo s’el a quel fos aprovo,
de lo qual Deo ne guardo k’el no ne possa nosro.

E sì com’ entro l’aigua se noriso li pissi,


così fa en quel fogo li vermi malëiti,
ke a li peccaori ke fi là dentro missi
manja i ocli e la bocca, le coxe e li gariti.

Lì crïa li dïavoli tuti a summa testa:


«Astiça, astiça fogo, dolenti ki n’aspeta!»
Mo ben dovì saver en que mo’ se deleta
lo miser peccaor ch’atendo cotal festa.

L’un dïavolo cria, l’altro ge respondo,


l’altro bato ferro e l’altro cola bronço,
et altri astiça fogo et altri corro entorno
per dar al peccaor rea noito e reo çorno.

E a le fin de dreo sì enso un gran vilan


del profundo d’abisso, compagnon de Sathan,
de trenta passa longo, con un baston en man
per benëir scarsella al falso cristïan,
p
digando ad alta vox: «Ogn’om corra al guaagno,
k’el no porta mo ’l tempo k’algun de nui stea endarno;
e ki no g’à vegniro, segur sea del malanno,
no se’n dea meraveia s’el n’à caçir en danno».

Tuti li dïavoli respondo: «Sïa, sia,


quest’è bona novella, pur k’ella tosto fia.
Tu andarai enançi per esro nostra guia;
mal aia la persona ke g’à far coardia!»

Pur de li gran dïavoli tanti ne corro en plaça


(ké quigị da meça man no par ke se g’afaça),
crïando çascaun: «Amaça, amaça, amaça!
Çà no ge pò scampar quel fel lar falsa-capa».

Altri prendo baìli, altri prendo rastegi,


altri stiçon de fogo, altri lançe e cortegi,
no fa-gi força en scui né ’n elmi né ’n capegi,
pur k’i aba manare, çape, forke e martegi.

Tant’è-gi crudeli e de malfar usai,


ke l’un n’aspeta l’altro de quigi malfaai:
ki enançi ge pò esro, quigi è li plu bïai,
corando como cani k’a la caça è afaitai.

Mo’ ben pensa’l cativo k’el volo ensir de çogo,


quand el tanti dïavoli se vé corir da provo,
ke un per meraveia no ne roman en logo,
ke no ge corra dre’ crïando: «Fogo, fogo».

Così façando tuti, tant è fero remor


ke pur quel sol seravo gran pena al peccaor:
se l’un diavolo è reo, l’altro è molto peçor,
e Deo abata quel ke là dentro è meior.

Né ’l meior né ’l peçor eo no ve ’l so decerno,


p
ké tuti sun dïavoli e ministri d’inferno:
altresì ben l’istà com’ igi fa l’inverno
igi tormenta l’omo en quel fogo eterno.

Quelor ke en quell’afar se trova li plu rei,


en meço la cità fi posti li soi sei:
tuti li altri l’aora com’igi fose dei,
staganto en çinocluni davançi li soi pei.

Dondo a çascaun ne prendo voia granda


de far mal quant el pò, né unca se sparagna:
perçò lo cativello duramentre se lagna,
quand’el se vé da cerca star tanta çente cagna,

li qual per me’ la faça orribelmentre el mira,


e man ge meto in testa et in terra lo tira;
quelor ke g’è da lunçi aprò’ esro desira,
en lei cun gran furor per complir soa ira.

Altri ge dà per braçi, altri ge dà per gambe,


altri ge speça li ossi cun baston e cun stang[h]e,
cun çape e cun baìli, cun manare e cun vang[h]e:
lo corpo g’emplo tuto de plag[h]e molto grande.

En terra quasi morto lo tapinel sì caço:


no ge val lo so plançro ke perçò igi lo lasso;
al col ge çeta un laço et un spago entro ’l naso,
e per la cità tuta batando sì lo trasso.

Dondo lo peccaor enlora se despera


d’aver plui perdonança da quella çento fera,
mo pena sovra pena, fogo e preson crudela
da quell’ora enanço d’aver sempre spera.

Perçò ge foso meio al misero cativo


esro mill’ ore morto ke pur una sol vivo,
p
k’el no à lì parento ni proximan amigo
lo qual çoar ge possa tanto ke vaia un figo.

Mo tal derisïone com’e’ v’ò mo’ cuitae,


de si fa quella çente al dì spese fïae,
digando l’un a l’altro: «Ô l’à ben miritae.
Aveso en la soa vita l’ovre de Deo amae!

Mo’ è vegnù lo tempo dond el è enganà,


en lo qual çamai plu ben no se farà,
dondo, s’el gne deso un monto d’or colà,
d’entro questo logo çamai plui n’esirà.

E s’el no n’à le maçe e le arme men vegnir,


de ço k’el n’à servì ben ge ’l farem païr».
Dondo comença en l’ora cun molto gran sospir
lo miser peccaor ad alta voxo dir:

«O miser mi cativo, dolentro e malastrù,


en cum’ crudel ministri e’ me sunt embatù!
Plasesso al Creator c’unka no fos naxù
enanço k’a tal porto quilò foso vegnù!

Malëeta sia l’ora, la noito, ’l dì e ’l ponto


quando la mïa mare cun me’ pare s’açonso,
et ancora quelui ke me trasso de fonto,
quand el no m’anegà, tal omo cum’ e’ sonto.

M’ a tal ’de sun vegnù k’eo no so ke me faça,


k’el no me par Naalo né ’Pifania né Pasca;
mo la mala ventura, quellor ke se’n percaça,
endarno s’afaìga, k’eo sol l’ò tut’ afata».

Mo’ molto volenter lo miser fuçiria,


mai el no pò far nïento, k’el g’è serà la via,
ke tanto l’à ’l dïavolo destreto en soa bailia
ke tuto l’or del mundo çamai no ge’l toria.

Mo lì se volço e gira lo miser cativello,


no trovando requia né logo bon né bello,
mo quanto g’è là dentro sì g’è mort’ e flagello
segundo k’è a la cavra la maça e lo cortello.

Tuti li demonii se ge conça d’entorno


cun bastoni de ferro pesanti plu de plumbo,
e tanto ge ne dona per traverso e per longo
ke meiọ ge fos ancora a nasro en questo mondo.

Or toia lo cativo li figi e le muger,


li amisi e li parenti, le arme e li destrer,
li castegi e le roche k’ello lagà l’altrer,
e façase aiar, mo’ k’el’ i à gran mester.

Mo’ el è enganà, ço me dis lo cor meo,


s’el no mento la leço de l’alto segnor Deo,
ké san Çuano el dis, Luca, Marco e Matheo,
ke l’om ke va in inferno çamai no torna indreo.

De quanti n’è là dentro no pò l’un l’altro aiar,


ké çascaun ke g’è tropo à de si a far,
mo una consa voi’ dir, segundo ke me par:
ke non à voluntà de rir né de çugar.

Segundo k’è del prà così ne fas de si,


ke fina entro la terra serà manjà lo dì,
e poi en piçol tempo, vui ben lo cognosì,
êlla sera retorna cresuo e reverdì.

Tuta la maior pena ke aba quel meschin


sì è quand el se pensa ke mai el no dé aver fin
lo fogo de inferno e l’ardento camin,
en lo qual el bruxa çorno e noito e maitin.
q
Ancora en quel logo, sì com’a dir se sona,
lo fiio encontra ’l pare spese volte tençona,
digando: «El fig de Deo k’en cel porta corona
te maleìga, pare, l’anema e la persona.

K’enfin k’eo fui êl mondo tu no me castigasi,


mai en lo mal maior sempro me confortasi,
e poi l’or e l’arçento tu me lo concostasi,
dund eo ne sun mo’ meso en molto crudel braçi.

E s’eo ben me recordo, viaçament e tosto


tu sì me coreve cun gran bastoni adoso,
fosso ki ’l voleso, o per drito o per torto,
s’eo no confundeva l’amigo e ’l vesin nostro».

Lo pare ge respondo: «O fiiol malëeto,


per lo ben k’eo te volsi quilò sì sont-e messo;
eo n’abandonai Deo, ancora mi ensteso,
toiando le rapine, l’osure e ’l maltoleto.

De dì e de noto durai de gran desasi


per concostar le roche, le tore e li palasi,
li monti e le campagne e boschi e vigne e masi,
açò k’êlla toa vita tu n’avisi grand’ asii.

Tanto fo’l [to] penser e tanta la toa briga,


bel dolço fiiol, ke Deo te maleìga,
ke del povro de Deo çà no me’n sovegniva,
ke de famo e de seo for per le strae moriva.

Mo ben ne sunt-eo mo’ aparuo folo e mato,


k’el no me val nïento lo plançro né ’l desbatro
k’eo no sia ben pagao de tuto per afato,
de tal guisa monea ke l’un val plu de quatro».

La pugna è entro lor sì granda e sì forto


p g g
com’i s’aves çurà entrambidu’ la morto,
e s’el poëso l’un a l’altro dar de morso,
el ge manjaria lo cor dentro lo corpo.

Le pene è sì grande de quel fogo ardento


ka, s’e’ aveso boke millo e cincocento
le quale dì e noto parlase tuto ’l tempo,
eo dir no ve’l poria, no dubitai nïento.

O sì çente crudela ke stai en li peccai,


comọ soferì quellẹ pene, perqué no ve’l pensai?
Per lo dolor d’un dento tuto ’l dì vui crïai:
com’ portarì vui quelle sempiterna mai?

Mo’ eo v’ò dar conseio, se prendro lo volì:


fai [la] penitencia enfin ke vui poì,
de li vostri peccati a Deo ve repentì,
e persevẹrando en quello le pene fuçirì;

ké lo mal e lo ben davanço v’è metù,


ke vui toiai pur quel lo qual ve plase plu:
lo mal conduse a morto cun quel angel perdù,
e lo ben dona vita en cel con’l bon Iesù.

Mai açò ke vui n’abiai li vostri cor seguri,


ke queste non è fable né diti de buffoni,
Iacominọ da Verona de l’Orden de Minori
lo compillà de testo, de glose e de sermoni.

Mo asai avì entese de le bone raxon:


or ne preg[h]emo tuti ca quel ke fe’ ’l sermon
e vui k’entes l’avì cun gran devotïon,
ke Cristo e la Soa mare ge’n renda guiërdon.
DE IERUSALEM CELESTI ET DE PULCRITUDINE
EIUS ET BEATITUDINE ET GAUDIA SANCTORUM

D’una cità santa ki ne vol oldir,


com’ el’ è fata dentro, un poco ge n’ò dir,
e ço ke ge’n dirò se ben vol retenir,
gran pro ge farà, sença nesun mentir.

Ierusalem celeste questa terra s’apella,


cità de l’alto Deu nova, preclara e bella,
dond è Cristo segnor, quel’ alta flor novella,
k’è nato de Maria, vergen regal polçella:

contrarïa de quella ke per nomo se clama,


cità de gran pressura, Babilonia la magna,
en la qual Lucifèr sì sta con soa compagna
per crucïar quelor ke ’l bon Iesù non ama.

Or dig[h]em de le bone santissime aventure


de la cità del celo per ’sempli e per figure:
c’a diro ed [a] cuitarve le soe proprie nature
briga n’avria li santi cun tute le scripture.

Mo certe e veritevole sì ne serà alguante,


le altre, sì com’ disi, serà significançe;
donde vui ke leçì en le scripture sante
no le voiai avilar per vostre setiiançe:

k’eo spero en Quel ke naco de casto e vergen parto


ke l’om ke semplament l’à entendro en bona parto,
c’ancoi l’anema soa sì n’à far un tal salto
k’el n’ascendrà l’odor al Creator da alto.

Quelor ke l’à avilar né entendro en mala guisa


ben me par, quanto en questo, ke Deo cum si no à miga;
mo taça e stea en pax e söa colpa diga,
e lago oldir quelor k’è abevrai d’aqua viva.

Or començemo a dir ço ke li santi diso


de questa cità santa del Re de paraìso:
mo de le soe belleçe en parto, ço m’è viso,
san Çuano ’de parla entro l’Apocalipso.

Perçò ve’n digo «en parto» k’eo so ben per fermo


k’el no fo mai poeta né om de sì gran seno
ke le poëse dir né per arte comprendro,
tant’è le soe belleçe sus en lo sovran regno.

Mo d’enfra k’el ne diso e k’ell’ è ancora scrito,


e’ sì ò ben sperança êl segnor Iesù Cristo,
ke de quella cità fo fator e maistro,
ke sovra ço v’ò dir gran conse en questo dito.

Tuta emprimament, de cerca è muraa,


e ’n quatro cantoni la terra edificaa;
tant è alti li muri com’è longa e laa,
de prëe precïose de soto è fundaa.

Per çascaun canton sì è tre belle porte,


clare plu ke stelle et alte, long[h]e e grosse;
de margarite e d’or ornae è le soe volte,
né peccaor no g’entra, sì grand è le soe forçe.

Li merli è de cristallo, li corraor d’or fin,


e lì su sta per guarda un angel kerubin
cun una spaa en man k’è de fogo divin,
e corona à en cò tuta de iacentin:
lo qual no ge lassa andar là nuia çent,
vegnir tavan né mosca né bixa né serpent,
né losco né asirao né alguna altra çent
ke a quella cità pos’ esro nociment.

Le vïe e le plaçe, li senteri e le strae,


d’oro e d’arïento e dẹ cristallo è solae;
alleluia canta per tute le contrae
li angeli del celo cun le Vertù beae.

La scritura el diso, lo testo e la glosa,


ke le case e li alberg[h]i ke là dentro se trova
tant è-gi precïosi et amirabel ovra
ke nexun lo pò dir ke soto ’l cel se trova:

ké li quari e le pree sì è de marmor fin,


clare como ’l ver, blançe plu d’almerin;
dentro e de fora le çambre e li camin
è pente a laçur et or oltremarin.

Le colone e li ussi sì è d’un tal metal,


mei’ è ke no è or, clar è plui de cristal;
mangano né trabucho né altra consa ge val
c’a quigi alberg[h]i possa, né a la cità, far mal:

emperçò ke Cristo sì n’è dux e segnor,


e da tuta çento è so defensaor,
dund el no è mester k’ii aba algun temor,
ki de quela cità dé esro abitaor.

Ancora ve dirò ke diso la scritura


k’entro quella cità no luso sol né luna,
mai lo volto de Deo e l’alta Soa figura
là resplendo tanto ke lì non è mesura.

La clarità è tanta k’elo reten en si,


ke noito no ge ven, mo sempro ge sta dì:
né nuvolo né nebla, segundo ke fa qui,
zamai no pò oscurar la clarità de lì.

Le aque e le fontane ke cór per la cità


plu è belle d’arçent e ke n’è or colà;
per fermo l’abïai: quelor ke ne bevrà
çamai no à morir, né seo plui no avrà.

Ancora: per meço un bel flumo ge cór,


lo qual è circundao de molto gran verdor,
d’albori e de çigi e d’altre belle flor,
de rose e de vïole, ke rendo grando odor.

Clare è le soe unde plui de lo sol lucento,


menando margarite [e]d or fin ed arçento,
e prëe precïose sempromai tuto ’l tempo,
someiente a stelle k’è poste êl fermamento.

De le qualẹ çascauna sì à tanta vertù


k’ele fa retornar l’omọ veclo en çoventù,
e l’omo k’è mil’ agni êl monumentọ çasù
a lo so tocamento vivo e san leva su.

Ancora: li fruiti de li albori e de ḷi prai


li quaḷi da pe’ del flumo per la riva è plantai,
a lo so gustamento se sana li amalai;
e plu è dulçi ke mel né altra consa mai.

D’oro e d’arïento è le foie e li fusti


de li albori ke porta quisti sì dulçi fruiti,
floriscando en l’ano doxo vexende tuti,
né mai no perdo foia né no deventa suçi.

Çascaun per sì è tanto redolento


ke millo meia e plu lo so odor se sento,
p
dondo la cità, tuta, de fora e dentro,
par che sïa plena de cendamo e de mento.

Kalandrie e risignoli ed altri begi oxegi


çorno e noito canta sovra quigi arborselli,
façando lì versi plu precïosi e begi
ke no fa vïole, rote né celamelli.

Lasù è sempro virdi li broli e li verçer


en li quaḷi se deporta li sancti cavaler,
li quali no à mai cura né lagno né penser
se no de benedir lo Creator del cel;

lo qualo è ’n meço lor sì se’ su un tron reondo,


e li angeli e li santi tuti Ge sta de longo,
laudando dì e noto lo So amirabel nomo
per lo qual se sosten la çent en questo mondo.

Lì è li patrïarchi e li profeti santi,


ke Ge sta d’ogna tempo tuti vestui denançi
de samiti celesti, virdi, laçuri e blançi,
glorificando Lui cun psalmodie e cun canti.

Li benëiti apostoli, quel glorïos convento,


lì se’ su doxo troni tuti d’oro e d’arçento,
laudando Iesù Cristo ke en terra en lo so tempo
li alesọ per compagnoni for de cotanta çento.

Li martir glorïosi, quella çentil fameia,


lì porta tuti en testa una rosa vermeia,
regracïando ’l Fiio de la Vergen benegna
ke ’n terra li fe’ digni de portar la Soa ensegna.

Lì è granda compagna de confessor bïai,


en anima et in corpo tuti glorificai,
laudando ank’ igi Deo noito e dì sempromai
g p
de ço k’a tanto honor en cel li à clamai.

Li virgini santissimi, quella amirabel schera,


davançi Iesù Cristo tutora è ’mpremera,
e sovra li altri tuti sì porta la bandera
d’onor e de belleça cun resplendente clera,

cantando una cançon k’è de tanto conforto


ke l’om ke la pò oldir çamai no temo morto,
laudando el Creator omnipotent e forto
ke li à conduti en celo a tanto segur porto.

Lì fa tante alegreçe queste çente bïae


de canti e de favele, le quale e’ v’ò cuitae,
k’el par ke tuto ’l celo e l’aere e le contrae
sia plene de strumenti cun vox melodïae.

Ké le soe boche mai per nexun tempo cessa


de laudar la sancta Trinịtà, vera maiesta,
cantando çascaun ad alta vox de testa:
«Sanctus Sanctus Sanctus», façando grande festa.

Mai no fo veçù, né mai no se verà,


de nexun om teren sì gran solempnità
cum fa quigị cantator suso en quella cità
davanço el Re de gloria e la Soa maiestà:

ké le soe voxe è tante e de gran concordança


ke l’una ascendo octava e l’altra en quinta canta,
e l’altra ge segunda cun tanta deletança
ke mai oldia no fo sì dolcissima dança.

E ben ve digo ancora en ver, sença bosia,


ke, quant a le soe voxe, el befe ve paria
oldir cera né rota, organ né simphonia,
né sirena né aiguana né altra consa ke sia:
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emperçò ke ’l Re ke se’ su lo tron santo
sì ge monstra a solfar et a süir quel canto,
dond igi L’ama tuti sì dolçement e tanto
ke mai nexun de lor no se Ge tol davanço,

contemplando la Soa radïante figura,


la qual tant è serena e clara e munda e pura,
ke la luna e lo sol, segundo la scriptura,
e·lle stelle del celo davançi Lui s’ascura.

Ancora sovra tuto tanto l’à-L redolenta,


k’el par c’un grande flumo for per la bocha G’ensa
d’ambro e de moscà, de balsamo e de menta,
ke tuta la cità dentro e de fora s’empla.

E tanta deletança è a contemplar la faça


de quel dolçe Segnor, sì com’ scrito s’acata,
c’ognuncana dolçor ela venço e trapassa,
e bïao l’om ke Deo en cel veder Se lassa.

Perçò quigị cantaturi tanto se resbaldisso,


ke le man ge ne balla, lo cor ge’n reverdisso,
li pei ge ne saio, li ocli ge’n resclarisso,
e quanto igị plui Lo guarda, tanto plui g’abelisso.

E tant è entra si pleni de fin amor,


ke çascaun ten l’un l’altro per segnor,
e plui de seto tanto ke no fa lo sol
lo corpo ge luso a çascaun de lor.

D’oro è embrostae le söe vestimente,


blançe plui ke nevo e plui de rose aolente,
e tant’ à setille le veçue e le mente
ke de celo en terra cognoxo e vé la çente.

Ferma segurtà sì à tuti del so corpo


g p
k’el no dé mai morir unca d’alguna morto,
mo sempro aver vita, requïa e reponso
e gaudio e solaço e pax de gran conforto.

Dondo, quand eo ço penso, lo cor me se n’endegna,


k’eo no faço quelle ovre ke l’anema sia degna
a contemplar en celo quella faça benegna
de l’alto Iesù Cristo ke sempro vivo e regna.

Ell’ è vero e certo, e la scriptura el diso,


k’el no è altra gloria né altro paraìso
se no a contemplar la faça e lo bel viso
de Deo omnipotente, ke sempro regna e vivo:

a lo qual sta davançi li santi Cherubin[i],


le gran processïon, li vespri e li maitini,
pregando dì e noito per nui lassi tapini
k’el ne degno adriçaro en cel nostri camini,

açò ke nui possamo en quel’ alta maxon


esro cun lor en celo fraegi e compagnon
davanço Iesù Cristo, quel glorïos baron
ke se’ en maiestà su l’amirabel tron.

Mo perçò k’el no è dito né cuità da qui en dreo,


no me’l pò sofrir la mente né ’l cor meo,
k’eo no ve diga ancora de l’alto regal seo
de la Vergenẹ Maria, quant el è aprovo Deo.

Sovra li angeli tuti ke ’n cel rendo splendor,


da la destra parto del magno Creator
lo so sedio è posto, sença negun tenor,
encoronà de gloria, de bontà e d’onor.

Tant è alta e granda quela çentil polçella,


ke li angeli e li sancti de lei parla e favella,
g p
emperçò k’el’ è plui precïosa e bella
ke no è la flor del prà né la rosa novella.

E no ge meto «forsi», né el m’è così en viso,


ké ben lo so per certo, e la scriptura el diso,
k’el’è scala del celo, porta del paradiso,
e plu ke sol né luna bell’ à la faça e ’l viso.

Dondo una enumerabel celeste compagnia


tutore la salua con ogna cortesia,
segondo ke fe’ l’angelo en terra de Soria
quand el da la Deo parto ge dis: Ave Maria.

Sempromai l’aora e sempromai la enclina,


segundo ke ne cuita una raxon divina,
cantando enanço si sempre: Salve Regina,
Alma Redemptoris, Stella matutina.

E poi canta una prosa k’è de tanta natura,


dananço Iesù Cristo e la Soa mare pura,
che nuia consa è êl mundo, né om né creatura,
ke ve’l poës cuitar en alguna mesura:

ké ’l canto è tanto bello, sença nexun mentir,


ke cor no’l pò pensar né lengua proferir,
e solamentre quigi lo pò cantar e dir
ke voso en questa vita virgini a Deo servir.

Dondo quella dona tant è çentil e granda


ke tuti li encorona d’una nobel g[h]irlanda,
la quala è plu aolente ke n’è moscà né ambra,
né çiio né altra flor né rosa de campagna.

E per honor ancora de l’alta soa persona


quella nobel pulcella ke en cel porta corona
destrer e palafreni tanto richi ge dona,
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ke tal ne sia en terra per nexun dir se sona:

ké li destreri è russi, blanci è li palafrini


e corro plui ke cervi né venti ultramarini,
e li strevi e le selle, li arçoni et an’ li frini
è d’or e de smeraldo, splendenti, clari e fini.

E per complir ben ço k’adexo a gran baron,


la donna sì ge dona un blanco confanon
lo qual porta figura k’en le tentatïon
ii à vençù Sathàn, quel perfido lïon.

Quisti è li cavaleri ke v’è cuitai davanço,


ke en conspectu de Cristo canta lo dolçe canto,
k’è dal Pare e dal Fiio e dal Spirito Santo
en cel dai a la dona per starge sempro enanço.

Dondo porà quelor tegnirse ben bïai


li quaḷi farà quel’ ovre dond igị sia acompagnai
cun li sancti del cel ke dẹ flor è ’ncoronai
per servir a tal dona dananço sempromai.

Que ve dô-e tanto dir né tanto perlongar?


Nexun homo è êl mundo ch’unca ’l poës cuitar,
s’el no è Iesù Cristo e lo so dolçe Par,
lo ben k’avrà quellor ke là su à habitar.

Or ne preg[h]emo tuti la Vergene Maria


ke enanço Iesù Cristo per nui sempro ella sia,
ke n’apresto là su celeste albergaria
quando la vita nostra quilò serà complia.
UGUCCIONE DA LODI
dal Liber
nella versione poetica di Giorgio Prestinoni

Uguccione da Lodi rimase sconosciuto agli storici della letteratura


italiana fino al 1884, quando Adolf Tobler ne ritrovò l’opera nel
codice Saibante-Hamilton della Biblioteca di Berlino (n. 390) e
pubblicò Das Buch des Uguçon da Laodho (Il Libro di Uguccione da
Lodi). Le notizie sulla sua vita sono molto lacunose e incerte. Nacque
probabilmente nella seconda metà del XIII secolo a Cremona da
famiglia di origine lodigiana, il che spiegherebbe quel «da Lodi» che
non avrebbe motivo d’essere se Uguccione a Lodi fosse nato e vi
avesse trascorso gran parte della vita. Secondo quanto lo stesso
Uguccione indicherebbe nel Liber, si tratterebbe di un laico, forse
addirittura uomo d’armi in gioventù, che, nella seconda metà della
vita, sentendosi vicino alla resa dei conti con il buon Dio, scrisse
questo poemetto moraleggiante in lasse monorime di endecasillabi e
alessandrini; una sorta di sermone, che esorta al pentimento e alla
confessione dei peccati evocando le spaventose pene dell’inferno che
attendono i dannati e l’infinita misericordia divina che salverà i
penitenti.
Nel testo ritrovato da Tobler, il Liber è seguito da una Istoria in
novenari di rime baciate, inizialmente considerata opera giovanile
dello stesso Uguccione, ma poi attribuita a un non meglio
identificato Pseudo-Uguccione. Allo stesso Pseudo-Uguccione pare
siano da ascrivere anche un Liber Antichristi e una Contemplazione
della morte, che in un primo tempo furono accostate a Uguccione.
La lingua usata da Uguccione è una vera e propria lingua
letteraria organizzata come una koinè delle varianti locali del volgare
parlato in area lombardo-veneta. Si tratta in sostanza della lingua
usata anche da Giacomino da Verona, Bonvesin da la Riva e altri
poeti didattico-religiosi del XIII secolo del nord Italia, lingua
p g g
letteraria poi rapidamente sostituita dal volgare toscano e mai più
ripresa in seguito.
La trasposizione in italiano moderno dei passi scelti per questo
volume è stata realizzata in modo da mantenerne il più possibile il
ritmo e, di conseguenza, la lassa monorima, senza però ripetere la
sequenza di endecasillabi e alessandrini (che comunque nel testo di
Uguccione sono liberamente alternati).
La selezione dei duecento versi tradotti, sui circa settecento totali,
cerca di mettere in evidenza i brani che esortano al pentimento e alla
rettitudine, prospettando con grande concretezza le tremende pene
che attendono i dannati attraverso immagini estremamente vive ed
essenziali. Di particolare interesse sono apparsi i versi (da 380 a 428),
nei quali Uguccione si porta sul pericoloso terreno dell’eresia catara
(o patarina, come era denominata in territorio lombardo),
affrontando il tema della predestinazione – sembrerebbe con
l’intento di confutare questa teoria. Certamente, in quell’epoca e nel
nord-ovest d’Italia, gli eretici patarini si trovavano in numero
significativo e il loro credo era noto anche a livello popolare. Alcuni
studiosi hanno sostenuto che la confutazione di Uguccione non
appare granché convinta, ma più che altro di maniera, fatta per
evitare possibili e gravi conseguenze. In questo senso lascerei che sia
il lettore stesso a giudicare.
Si riproducono qui i versi 1-50, 80-2, 95-109, 130-65, 197-204, 380-
428, 665-702 nell’edizione di Adolf Tobler, Das Buch des Uguçon da
Laodho, Berlin 1884.
Nel tuo nome comincio, Dio padre creatore,
divina maestà, vero salvatore:
ti pregano e ti adorano i grandi ed i minori
principi, re, marchesi e gran signori.

Ha molto da temere chi ti offende, Signore,


se si ricorda bene del fuoco e del calore
e dei nostri antenati di cui parla la scrittura
che sono all’inferno nella tenebra più scura.
Chi sta là dentro è un malvagio peccatore:

là non si troverà alcun buon albergatore,


né letto né desco che abbia onore,
né vaio né ermellino, né drappi di valore,
nessun piacere da sparvieri e astori;
non si distinguono i peggiori:

son tutti pieni d’ira e di furore,


degli avvoltoi e dei corvi ancor più neri.
C’è un albero, all’inferno, grande assai
più grande di qualunque si sia visto mai,
che nessun frutto o fiore porterà giammai;

lisci come una lama il tronco e la foglia:


il peccatore s’arrampica, voglia o non voglia,
e precipita quand’è più in alto
e cade in un fuoco così ardente
che cent’anni perché si freddi sono niente.
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«Dio misericordia» ognun di loro implora,
«ora non mi servono moglie né parenti,
né figlio né figlia, né frate né suora,
né rocca né torre né palazzi splendenti.»
Signore Iddio propizio, di tutti il maggiore,

prego e adoro te, del mondo il salvatore,


Tu mi preservi dalle pene infernali,
così che non senta quel fiero dolore.
Chi per te avrà fede e amore
deve esser molto lieto, mio Signore,

perché Tu l’albergherai tra rose e fiori


in paradiso, dove c’è tanto splendore
che sole e luna non avranno valore.
E siccome credo senza alcun timore
che tutto ciò sia vero, Dio gran redentore,

se ti piacerà, altissimo Signore,


perdonami perché sono un peccatore.
Padre del cielo altissimo, Re di gloria possente,
gloriosa maestà veramente onnipotente,
formasti il mondo dal nulla

cielo terra e mare quando non c’era niente;


poi creasti Adamo, nostro primo parente;
dalla sua costa modellasti Eva nel presente.
Ella mangiò la mela che le diede un serpente
e poi al compagno Adamo la donò

e gli fece una tal predica che quello l’assaggiò.

[…]

Oh genti crudelissime, come potrete guarire


se le opere di Dio non volete sostenere?
p
La vostra vanità vi porterà a morire.

[…]

E se sinceramente non v’andrete a convertire,


ecco qua quale sarà il vostro avvenire.
Le gran pene dell’inferno vi toccherà soffrire,
centomila volte peggio, senza mentire,
di tutto ciò che un uomo possa udire,

in cuor suo pensare o con la bocca dire.


Le anime che entrano non devono più uscire,
là non vale l’astuzia o altra arte per fuggire:
a un ministro crudele dovranno obbedire,
nel gran fuoco infernale bruciare e arrostire.

La gente non crede che ciò possa avvenire,


tanto in questo mondo si vuole divertire,
bere e mangiare, ben calzare e ben vestire,
uomini e donne, giocar e ridere a non finire
e altre cose fare che non mi piace dire,

[…]

L’avarizia in questo mondo abbonda a dismisura,


tradimento e inganno, adulterio e sozzura:
giammai la gente fu così falsa e spergiura;
all’opera di Dio non presta alcuna cura,
del gran Re, che sta nei cieli, di gloria pura,

Colui per il quale vive ogni creatura.


Sapete bene ciò che vi dice la scrittura:
siamo tutti fatti secondo la sua figura.
Non ho mai ritenuto stolto chi si assicura,
e di redimersi dai peccati non si dà cura.
Ora son persuaso: pochi sono costanti
e con altri scopi terreni sono in tanti.
Chi ha denaro da prestare a usura
per comperar campi, vigne, recinti e aratura,
Dio, per un buon raccolto come si dà premura,

«Quest’anno farò una ricca semina» dichiara.


Ma questa stessa semina non vedrà mai matura.
Dovrebbe rammentare la sua misera statura,
che arriva l’uomo con la canna per la sepoltura!
Quando il fiero sguardo è riverso,

superbia e orgoglio che aveva a dismisura


molto in fretta son gettati nella terra dura:
il drappo funebre è male avvolto e di scarsa fattura.
Moglie e parenti piangono la sua virtù imperitura,
ma la sua condizione è così dolorosa e dura

che pur di abbandonarla, di quei lamenti non si cura.


E ha l’anima dolente presso una grama pastura
nell’inferno ardente, in quella gran calura:
là non troverà una bella cavalcatura,
un destriero o un palafreno con soave andatura,

né finimenti preziosi, né vesti di gran filatura


né palazzo né torri né alcuna armatura.
La gente dovrebbe aver gran timore
della morte crudele, pessima e scura;
non le resiston re né imperatore,

né principe né duce, sia pur di gran natura.

[…]

Queste non son fiabe, bensì buone ragioni,


e son tutte parole dei libri e dei sermoni
p
che si possono ben dire in ogni magione

che sia caritatevole secondo religione.


Bisogna pregare con grande afflizione
perché il Creatore ci conceda remissione,
perché per noi provi compassione,
perché le nostre anime abbiano l’assoluzione.

[…]

Ecco qui un discorso molto usato:


quando gli uomini han bevuto e ben mangiato,
si dicono l’un l’altro: «Sai cosa mi ha insegnato
un mio buon amico letterato?
Che tutto è previsto fin da quando l’uomo è nato;

così ciò che gli spetta non gli sarà negato;


paradiso e inferno, è tutto predestinato».
Chi ha questa credenza mi par mal instradato
se non capisce meglio ciò che ha cominciato.
Se mi volete credere, benché non sia prelato,

e se volete intendere ciò che ho cominciato,


sperate nel Signore incoronato
attraverso il quale tutto il mondo è salvato;
e se vorrete capire, quando avrò spiegato,
ciascuno di voi avrà il cuore illuminato.

Tutti dovete sapere, così è annunciato


nel santo vangelo che ogni giorno è cantato:
chi segue il cieco finisce nel fossato.
Appaiono due cammini lato a lato:
uno di fango e melma, l’altro pulito e spazzato;

chi segue quello buono non verrà insozzato.


Dio nostro signore l’ha comandato;
g
l’apostolo e il profeta ben l’hanno imparato:
quel peccatore che nel cielo avrà sperato
come un ladro non verrà condannato,

non marcirà, non verrà percosso né spezzato,


né da vento o da tempesta divorato,
non arrugginirà, non sarà annerito né affumicato,
anzi, sarà puro e mondato più dell’oro cesellato;
quando arriverà la fine sarà salvato;

con gli angeli in cielo verrà portato.


Dalle beatitudini sarà molto rallegrato
quando sarà ricevuto e dai santi acclamato,
di un preziosissimo vestito addobbato
che non parrà né tessuto né filato

né in alcun modo cucito o tagliato;


di splendide perle sarà tutto adornato
più bianche della neve e dei fiori di prato;
avrà una corona lucentissima, più dell’oro colato,
che il sole, quando si leva, non è così dorato.

A chi fa opere buone questo è destinato,


non certo a chi vuol far ciò che è vietato
da Gesù Cristo altissimo, per noi condannato,
appeso alla croce, ferocemente inchiodato,
con pietre e bastoni battuto e lapidato

e ferito dalla lancia nel suo santo costato


(perfino chi lo ferì non fu dannato:
confessò la sua colpa e fu perdonato;
quindi nessuno deve esser disperato).

[…]

Oh Dio che conosci la mia contrizione,


Tu mi conduci a completa guarigione
attraverso la penitenza, la confessione,
l’elemosina e l’orazione.
Io voglio star sotto il Vostro gonfalone,

perché so che lì sta la ragione:


chi ti serve una gran ricompensa avrà,
il giorno del giudizio la riceverà
quando il Signore ci benedirà.
La veste di tal fatta sarà:

più delle piume del pavone brillerà.


Una corona né d’oro né di ferro porterà:
di fini smeraldi, rubini e diamanti;
sarà ornato da perle splendenti.
Così prego Dio che rallegrò Simone,

perché mantenga la sua promessa,


e mi conduca dalla parte dei buoni,
in modo che non resti tra i felloni
che han vissuto tra le disperazioni.
Quelli saranno nella mortal prigione

all’inferno in gran tribolazione;


là troveranno Apolin e Macon
e Trivigant, Dives e Faraon,
che non hanno buone intenzioni:
i loro generali sono crudeli felloni

più neri dei corvi e dei carboni,


che picchiano duro con mazze e bastoni,
con spiedi aguzzi e ardenti forconi.
E poi ci sono pene peggiori:
basilischi, orrendi dragoni,

rospi e serpi, ramarri e scorpioni,


p p p
che colpiscono gli occhi e il viso a ceffoni:
giammai in eterno ci sarà redenzione.
Quindi mi par ci siano buone ragioni
perché preghiamo con gran devozione

il Re della gloria perché ci perdoni


e ci conduca con la sua benedizione
nel proprio regno di redenzione.
Al To nome començo, pare Deu creator,
divina maiestà, verasio salvator:
a Ti prega et adora li grandi e li menor,
li principi e li re, li marqes e i contor.

Sire Deu, qi T’onfende dé aver grand paor,


s’el li remembra del fogo e del calor
qe la scritura dis e li nostri antecesor
qe èn en inferno en la grand tenebror.
Quili qe è là dentro molt è malvas segnor:

là no se trovarà nul bon albergaor,


leto ni banca qe sïa da onor,
vairi ni armelin, coltra né cuvertor;
no à desduto de sparver ni d’aostor;
nè so se cerne qual sïa lo peçor:

tuti son pleni d’ira e de furor


et è pl[u]i nigri de corv{i} ni d’avoltor.
E [en] l’inferno è un albro maior,
q’e [m]aior de negun ch’omo vedhes ancor,
nè çamai no portà nigun fruito ni flor;

la foia e lo fusto tronca como rasor:


o voia o no voia, su monta ’l peccator
e çó de su trabuca, quand è plui en altor,
e caçe en un fogo q’è de sì grand calor,
qe cent agni li par anci qe sia ’l fredor.
q g p q
«Deu miserere», clama çascun de lor,
«mo no me pò valer parente ni uxor,
né fiiolo né fiia, fradhelo né seror,
[n]é castelo né roca, grand palasio né tor».
Domenedeu propicio, qe de tuti es maior,

del mondo salvatore, a cui preg et ador,


Tu me defende de le pene ’nfernor,
q’eu mai no senta de quel fiero dolor.
Signor Deu, qi Te serve dé aver grand baudor,
e qi Te portarà bona fe et amor,

qé Tu l’albe[r]garas pur en rose et en flor


en paradiso, o’ è tanto splandor,
qe sol né luna no g’averà valor.
E sì com’ eu ço credo sença ogno tenor
qe tuto quest è vero, Deu magno redentor,

pur q’el Te plaqua, altissemo Signor,


Tu me perdona, c’asai son peccator.
Pare del ciel altisemo, re de gloria posente,
glorïosa maiesta, verasi’ omnipotente,
lo siegolo formassi tut emprimeramente,

ciel e terra e mar, qe tut era nïente;


posta faìs Adam, nostro primer parente;
de la costa de lui formàs Eva en presente.
Ela mançà del pomo qe li de’ un serpente,
al compagnon Adam alò ’n fe’ un presente,

tanto ’l capitolà finq’el se’l mis al dente.

[…]

O gente crudelissema, como devé guarir,


qe le ovre de Deu no volé mantegnir?
q g
Le vostre vanitadhe v’à condur a perir.

[…]

E se verasiamentre no v’avì convertir,


en presente ve digo que ve n’à avegnir.
Le grand pene d’inferno ve stoverà sofrir,
q’è cento milia tanto maior, sença mentir,
qe nui’ om no porave escoltar ni audir,

né en lo cor pensar, ni con la boca dir.


Le aneme qe là entra, çamai no ’nd’ à ensir,
qé là no val ençegni ni arte per foçir:
a crudhel marescalco serà dadhe a bailir,
en lo grand fuog d’inferno a brusar e rostir.

Mai no credhe la çente qe ço posa ’vegnir,


tant ie plas en ’sto mondo alegrar e sbaudir,
ben bever e mançar, ben calçar e vestir,
li omini e le femene molto çugar e rir
et altre cause far qe mi no cal de dir,

[…]

Avaricia en ’sto segolo abunda e desmesura,


tradhiment et engano, avolteri e soçura:
çamai no fo la çente sì falsa ni sperçura,
qe de l’ovra de Deu unca no mete cura,
del magno Re de gloria qe sta sopra l’altura,

Quel per cui se mantien ognunca creatura.


Ben savì que ve dise la divina scritura:
tuti semo formadhi a la Soa figura.
Mai quel tegn eu per fole qe tropo s’asegura,
ni d’ensir dig pecadhi çà no vol aver cura.
Mo sì son percevù: poqi è q[u]ig qe là dura;
lo plusor de la çente vol autra caosa dura.
Qi pò aver dinari de livrar ad usura
e comprar de la terra, campi, vigna e closura,
Deu, como se percaça d’aver bona coltura,

e dis: «Aguan farai riqa semenadhura»!


Mai tal l’à semenar, no l’à veder madura.
Mo s’el se recordasse de la scarsa mesura
c’omo ven con la cana a far la sepoltura!
Quando è reversaa la fera guardatura,

la soperbia e ’l regoio ch’avëa oltra mesura


molto tost è gitaa entro la terra dura:
lo torsel è malvasio et à rëa voltura.
La muier e i parentide grand vertù lo plura:
tal ie mena gran dol en la soa portadura,

s’el lo pò abandonar, asai poco n’à cura.


E l’anema dolentre à pres rëa pastura
entro l’infern ardente, en quela grand calura:
là no se trovarà bela cavalcadhura,
destrier ni palafren cum soaf ambladura,

né norbia vestimenta, né rica flibadhura,


palasio ni tor, ni negun’ armadhura.
Mai ben devria la çente aver molt grand paura
de la morte crudhel, negra, pessima e scura,
qe re ni emperador encontra lei no dura,

né principo ni dus qe sia d’alta natura.

[…]

Queste n’è miga flabe, anz è bone rason,


et è tute parole de libri e de sermon
p
qe se pò ben contar en çascuna mason

qe sea de caritade de religïon.


Pregar avemo con grand afliccïon
lo Crïatore qe ne faça perdon
e qe de nui abia remesïon,
sì qe le nostre aneme abia salvacïon.

[…]

Mo sì e un sermon qe molto fi usadho:


quando l’om è passudho e ben abeveradho,
dise l’un contra l’autro: «Sai que m’è ensegnadho
d[a] [u]n me’ bon amigo q’è ben enleteradho?
Ke tut è perveçuto de fin qe l’om è nadho;

ço q’elo dé aver, no li serà tardadho;


paradis et inferno tut è perdestinadho».
Mai quel q’à ’sta creença me par mal envïadho
s’el no entende meio q’elo à començadho.
Se voi me volé crere, anc no se’ eu abadho,

et el ve plas entendre quel q’eu ai començadho,


aibai bona sperança êl Segnor coronadho
per cui tuto lo mondo è guarid e salvadho;
et [s’] el ve plas entendre, quand eu l’avrò splanadho,
çascun de voi avrà lo cor enlumenado.

Tuti devé saver, tanto v’è noncïado


en lo guagnelio sainto ch’ogna dì fi cantado:
quelo qe va dreo ’l ceco, el caz en lo fosadho.
Mostrano doi camini, qe molt è lad a ladho:
l’un è fang e pessina, l’altr’ è mond e spaçado;

qi çirà per lo bon, çà no serà soçado.


E Deu nostro Segnore sì ne l’à comandadho;
g
l’apostol e’l profeta ben se n’è acordadho:
quel peccator ch’avrà en ciel teiauriçadho,
per ladro ni per fuiro no li serà envoladho,

no serà emporidho, roto ni magagnado,


ni vento ni tempesta no l’avrà devoradho,
no serà ruçenento, negro ni fumegadho,
anz serà pur e mondo plui de l’aur lavoradho;
quand vignirà la fin, ben li serà salvadho;

el çirà con li agnoli, en ciel firà portadho.


De le beatetudene serà molt alegradho
quand el serà dai sainti recevut e clamadho,
de molto preciosissema vestimenta aparadho,
qe no parà qe sea tessuto né filadho,

ni per negun ençegno cosidho ni taiadho;


de clare margarete serà tut adornadho,
blanqe plui qe no è neve né de flore de pradho;
coron’ avrà clarissema plui de l’auro coladho,
qe’l sol, quand el se leva, no è tanto smeradho.

A qi fai la bon’ovra questo i è destinadho,


mai quili qe vol far pur ço qe i è vedhadho
da Iesocrist altissemo qe per nui fo penadho,
en la cros fo metudho, feramen claveladho,
de pier’ e de bastoni batud e lapidadho

e ferì de la lança en lo So santo ladho


(Mai quel qe lo ferì, çà no fo el danadho:
perq’el disse soa colpa, el ie fo perdonadho;
perçò no dé nul omo esser desesperadho).

[…]

Oi Deu, qe sai la mïa empentison,


q p
Tu me condùa vera guarison
per penetencia e per confessïon
e per lemosena e per oracïon.
Vorav’ eu star al Vostro confalon,

qé ben sai eu qe·llo dis la rason:


quig qe Te serve avrà grand gueerdon,
al dì novissemo là recevrà lo don,
quand lo Signor darà benecïon.
Le vistimente sarà de tal façon:

plui resplandente de pena de paon.


Corona avrà né d’or né de laton:
de fin smeraldi, robin e de carbon;
de clare margarete serà soa ornason.
Mai eu prego Deu ch’alegrà Simïon,

qe ben atende la Soa promissïon,


q’El me conduga da la part de li bon,
q’eu no romagna daig pessimi felon
qe sempre volse star en desperason.
Quili çirà en la mortal preson

entro l’inferno en tribulacïon;


la trovarà Apolin e Macon
e Trivigant, Dives e Faraon,
q’ili non à de bona embandison:
soi marescalchi è cruel e felon,

asai plui nigri de corf né de carbon,


qe li dà speso de maçe e de baston,
de spedhi agudhi e d’ardente forcon.
Apreso quelo à maior pasïon:
de basalisc[h]i, de pesimi dragon,

rospi e serpenti, ligur e scorpïon,


p p g p
qe li percoe li ogli e ’l viso e lo menton:
mai unca en perpetuo no avrà redencïon.
Mo ben me par q’el sïa de rason
qe nui preg[h]emo con grand devocïon

lo Re de gloria q’El ne faça perdon


e q’El ne duga con Soa benedicion
en lo So regno, q’è de salvacïon.
PIETRO DA BARSEGAPÈ
dal Sermone
nella versione poetica di Fabrizio Bernini

Di Pietro da Barsegapè si hanno notizie scarsissime e frammentarie:


pare che fosse un «fanton», cioè un soldato di rango sociale
superiore che aveva l’incarico di difendere i propri concittadini, e
forse anche per questo un uomo dedito all’azione e alla riflessione,
alle armi e alla preghiera. Il suo Sermone, opera poetica di 2440 versi
a scopo didattico, ci arriva tramite una copia manoscritta custodita
alla Biblioteca Nazionale Braidense, e un’ edizione riveduta alla fine
dell’Ottocento ad opera del noto linguista Carlo Salvioni. A Pietro da
Barsegapè ha dedicato un saggio in tempi recenti Giuseppe
Polimeni, che insegna all’Università di Milano (Pietro da Barsegapè:
poeta in volgare nella Milano del Duecento, «Quaderni della Società
Pavese di Storia Patria» I 2004). Lo stesso Polimeni ha in corso un
notevole lavoro paleografico e storico-artistico su Pietro da
Barsegapè, che vedrà prossimamente la luce. È a lui che devo un
ringraziamento particolare per aver messo a disposizione dati,
informazioni e consigli.
In assenza di altre traduzioni oltre che di contributi esegetici,
immergermi in una lingua del Duecento, e per di più ibrida, visto
che l’autore era di Bascapè (comune dal quale deriva il cognome, che
si trova tra Milano, Pavia e Lodi), è stata un’operazione anche
ricostruttiva, nei limiti del possibile, per quanto riguarda
l’interpretazione del testo. La difficoltà maggiore è stata quella di
riuscire a comprendere certi modi di dire e alcune metafore o versi
che contenevano parole o lacerti che si riferivano a espressioni
dialettali o gergali, ai quali non ho potuto far altro che dare una
interpretazione personale visto il loro essere cadute in disuso. Certe
altre espressioni sono invece arrivate fino a noi, o almeno in un
passato non troppo lontano: si veda per esempio il caso di
p pp p p
«cadrega», che ho lasciato nella traduzione in nome di una lingua
popolare che è sempre stata artefice e maestra della lingua scritta.
Essendo poi il testo una riscrittura dell’Antico e del Nuovo
Testamento – probabilmente destinato alla recitazione orale ai fedeli
che non conoscevano il latino –, ho cercato di mantenere una certa
qual immediatezza, franchezza, esplicità, anche rozzezza letteraria
potremmo dire, come credo fosse nelle corde dell’epoca. La gente
doveva sentire immediatamente il messaggio, comprenderlo nella
sua espressione più quotidiana e reale, anche se vi era conservata
una solennità del dettato.
I brani da me scelti all’interno dell’opera sono relativi ai peccati
che l’uomo compie, in nome della costante e inevitabile, addirittura
necessaria, ricerca del piacere e della colpa che altrettanto
inevitabilmente ricade sull’uomo stesso.
Il testo originale adottato è quello di Carlo Salvioni, Il “Sermone”
di Pietro da Barsegapè, «Zeitschrift fur Romanische Philologie» XV
1891, pp. 438-40, 481-6, di cui si riproducono i versi 284-367, 2131-
215, 2274-379.
[…]

La prima è la Superbia che a Lucifero appartiene


cercò la sua amicizia quand’era molto bello
e fu con lei scacciato dal cielo nell’abisso,
e poi l’ha data al mondo per farcela restare
l’uomo l’ha pigliata e la tiene come amica:
perciò verrà cacciato dalla divina corte.
Seconda è la Gola, quella malvagia ancella
fa vendere la casa, la terra e poi la vigna;
per Dio non lascia fare nessuna carità,
è ingorda e non si sazia, è senza dignità.
Ti spinge a fare furti, ti insinua la rapina
pretende ad ogni pasto di essere servita.
Ha indotto in tentazione i primi genitori:
che forti e vigorosi vivevano contenti
in Paradiso insieme sempre allegramente,
ma furono scacciati molto malamente:
Adamo restò nudo e Eva altrettanto,
ma per quel vizio, la Gola, non contava poi tanto.
Così anche san Paolo ne ha dato spiegazione:
l’uomo deve vivere con la moderazione.
L’uomo ne è colpito, quindi è ammalato
dalla casa divina perciò sarà scacciato.
La terza ancella ha un nome: ed è Fornicazione
chi è saggio lo capisce che a Dio non è gradita.
È Dio a giudicare lussuria e infedeltà
e queste cose, lui, non le sopporterà,
q pp
dei vizi è il peggiore, è la più grande arsura
e questo è scritto bene nella sacra scrittura.
È immensa questa colpa e l’uomo che la compie
non riesce a liberarsi dal fondo del suo cuore.
L’uomo ce l’ha addosso, se n’è innamorato
perciò dal Paradiso lui verrà scacciato.
La quarta delle ancelle chiamiamola Avarizia,
è una delle colpe che vive in questo mondo,
di tutti gli altri mali ne sembra la radice
e anche Salomone è questo che ci dice.
Il povero sta all’uscio e grida carità:
ma non riceve niente, né aiuto né pietà,
lei vuole trattenere, fa come fosse colla
si tiene tutto stretto e un soldo non lo molla.
L’uomo l’ha pigliata e la tiene per amica
perciò sarà cacciato dalla casa divina.
La quinta delle ancelle mi sembra essere l’Ira
e ciò che Dio comanda non vuole mai seguire
affligge la famiglia, fa spesso litigare
è piena di molestia più che di pesci il mare,
divide chi è fratello, lo mette in disaccordo
e insinua la discordia anche tra chi è d’accordo.
Fa crescere le guerre e porta distruzione
e lì c’è tanto male che perde la ragione:
il fuoco si divora le case ed i pagliai,
e gli uomini colpiti non hanno scampo mai.
Caino se la tenne un po’ per compagnia
e uccise suo fratello, ma fu una gran follia:
fu maledetto poi da Dio onnipotente,
cacciato nell’Inferno dentro al fuoco ardente.
L’Ira restò al mondo per mettere veleno
così l’uomo e la donna non fan che litigare:
motivo dell’invidia, motivo dell’odiare
perdendo la ragione da pazzi diventare.
L’uomo l’ha afferrata e se la tiene stretta
ma poi nel gran giudizio sarà la sua disdetta.
p g g
La sesta delle ancelle è questa certamente:
Accidia viene detta, c’è scritto nella Bibbia,
e un gran fastidio sente per il sermon divino,
la messa non le piace né al vespro né al mattino
non vuole andare in chiesa a domandare grazia
non vuole spiegazioni delle sacre scritture
e con pensieri vuoti nel mondo se ne va
e non permette all’uomo nessuna utilità.
Chi serve questa serva è presto condannato
e dal regno dei cieli perciò sarà radiato.
Ora ricordiamo l’ultima di queste:
è ipocrita di certo, cioè la Vanagloria,
del bene che fa Dio non vuole interessarsi
e non gli rende grazia né tanto meno gloria.
Si vanta di ogni cosa e vuole approvazione
e va dicendo in giro che lei a tutti piace;
ha detto Gesù Cristo di questi peccatori
come si trova scritto dai divini scrittori.
La loro ricompensa hanno di già ottenuto,
cioè l’ostia mondana che tanto hanno voluto.
L’uomo l’ha pigliata, ma il giorno della morte
sarà scacciato male dalla divina corte.

[…]

È una certezza folle l’amara convinzione


di possedere sempre ricchezza e grande lusso,
perché ho veduto queste tristissime chimere
cadere molto in basso, perdere l’altezza
il mondo dove stiamo è fragile ed è vano
quello che stringiamo ci sfuggirà di mano.
Ognuno ha da pensare
e bene ragionare
e con quattro concetti
si può così salvare:
il primo è il trapassare
p p
e poi resuscitare,
il terzo è il Paradiso
e il quarto è dell’Inferno.
Chi ha in mente questa strada
vivrà senza peccato
ma chi non la percorre
se prima vive bene, poi sarà dannato.
Di questo nostro mondo abbiamo raccontato
e cosa si nasconde dentro il pover’uomo
e come Gesù Cristo è sceso sulla terra
passando per la madre, la Vergine Maria
per poi portare il peso fin sopra la sua croce
così che la salvezza per noi avesse voce.
C’è ancora altro da dire
restate ad ascoltare
di Dio onnipotente
che valuta la gente.
Nel giorno più tremendo, quello del Giudizio
lui sarà il flagello, terribile rovina,
potere di ogni cosa, la grande autorità,
e avrà per compagnia
la sua cavalleria:
gli angeli gloriosi
e i santi più preziosi.
Sarà l’immensa luce del largo suo splendore,
vivida presenza, immagine del sole,
Altissima Sapienza
immane sua potenza:
il re di ogni vivente
fortissimo e imponente
su quella gran cadrega, lassù solennemente!
E lì sarà la schiera
dei nunzi suonatori
i maggiori e i minori.
Tutti saran chiamati,
raduno generale
g
in fretta, senza attesa
la folla universale.
Virtù verrà dal cielo
e in Giosafat condotta
dal Padre più corretto
signore del verdetto.
Improvvisa calerà tempesta furibonda
perfino luna e sole verranno spaventati
le stelle della volta e tutti gli elementi,
l’aria tutta quanta compresi i firmamenti.
La Bibbia ce lo dice, è scritto molto bene
gli apostoli di Dio si terrorizzeranno
il cielo piegherà in collera divina
gli arcangeli anche loro insieme tremeranno.
Ma se questi avran paura
che diranno i peccatori,
quegli immondi né lavati
da colpevoli peccati?
Le anime peggiori batteranno i denti
perché là con loro, senza altri parenti,
soli senza aiuto poi si ritroveranno
e queste sole parole essi pronunceranno:
«Oh gran Dio, che fortuna i beati,
quelli giusti giudicati!».
Dio come un buon pastore
farà la divisione
che mette pecore da un lato
le capre dall’altro lato:
così i buoni alla sua destra
e i malvagi alla sinistra.
E così potrà svelare i suoi comandamenti
che ogni uomo capirà senza impedimenti
la sentenza che vuol dare
per il bene e per il male.
Chi avrà fatto il suo bene
l’avrà con sé in eterno,
chi avrà fatto del male
ugualmente in eterno.

[…]

Ce lo dice Giovanni, ma anche Marco e Matteo


e poi perfino Luca, discepolo di Dio:
il signore del cielo così li richiamerà
con rapida potenza lui la voce alzerà
su quelli che gli stanno dalla parte sinistra
e che non sono degni affatto della sua destra.
Così parla il Signore
là dove c’è dolore:
«Maledetti! Andate
tra tenebre profonde,
dentro quel fuoco eterno
dove sempre starete,
con quel mio nemico:
Lucifero l’antico.
Pietà vi domandavo ma non mi è servito
per essere salvato, per essere assistito
un po’ di pane e d’acqua avevo supplicato
malato e denutrito, caduto e malandato
ma nessuna pietà del mio povero stato
a chi vi scongiurava, quel povero affamato.
Ostili ai miei ministri
Maestri della Legge,
che sanno la dottrina,
la vera medicina!
Di seguire i precetti
vi siete rifiutati,
e ha poco ricevuto
chi vi chiedeva aiuto.
Soffrivo incarcerato,
un bimbo disperato,
nel tragico tormento,
g
soffrivo fame e sete
misero incatenato
sopportavo il martirio
nell’atroce delirio.
La mano era sospesa
ma nessuno l’ha presa
per provare a guarirmi».
E quelli rispondono
sconvolti e disperati:
«Quand’eri in quello stato
non ti abbiamo curato?
Se ce lo dicevano…
non stavi così male,
non sembravi patire
né qualcosa soffrire,
noi non comprendevamo
quanto eri bisognoso».
Gli ribatte il buon Dio,
dirà contro di loro:
«Quando i poveri erano
lì davanti ai vostri occhi
domandavano pietà…
ma voi niente carità!
Così me hanno chiamato
per riprendere fiato.
Io vi scaccerò, brutti farabutti
nelle fiamme più cocenti
maledetti e bestemmiati
voi starete sempre lì,
perché quando i figli miei
vi pregavano per me
non li avete ospitati
né alleviati né abbracciati.
Così respingendo loro
era me che avete offeso.
Quello che ora meritate
adesso lo vedrete.
Vi arderò nel grande incendio
crudele, pessimo e bollente,
nel fetore tra le fiamme,
nei tormenti e nei dolori,
fumo tossico e brumoso
molto oscuro e tormentoso.
E dopo il gran calore
ci sarà l’orrendo gelo,
«Fuoco, fuoco!» griderete,
nessun luogo nella quiete.
E tremenda fame e tremenda sete
ma né latte né miele troverete.
Anzi avrete molte pene
con durissime catene
che vi legheranno insieme,
e sarete martoriati
da scorpioni e da serpenti
e dai draghi assai azzannati
e pestati e divorati
ma non sarete ammazzati!
Vi darò molte torture
grandi mali, grandi pianti,
sarà infinita un’ora
e più neri della notte
quei castighi che vi mando
non daranno alcun respiro.
E vi voglio massacrare
e per sempre bestemmiare».
Quando Dio avrà deciso
e gli assolti e i condannati,
e i peccatori mandati
nell’inferno dei bruciati,
senza troppo ritardare
gli darà il colpo di grazia
nella tenebra profonda:
p
i diavoli per compagni,
nella più dura passione
dove non c’è redenzione.

[…]
[…]

L’una la superbia ke tene lucifero


Sego s’amigoe quando era tropo belo
E fo caçao del celo con essa in abisso
Posa l’a dada al mundo ke la stia con eso
L’omo l’a piliada e tenla per amiga
Per ço fira caçao dala corte diuina
La segonda e la gola quella maluax ancella
Ke fa uender la casa la terra e la uignia
No lasa da per deo nesuna caritadhe
Ke tuto uol per si et anche del’altro asai
Per le no roman a fare ni furto ni rapina
Ad oniunca pasto le’n uol esser seruia
Ela fe tol lo pomo ali prumer parinti
Cento anni ge pari k’ili aueseno ali dinti
Jn paradiso illi erano e steuan cortexe mente
Jlli foi caçai de fora molte uillanamente
Adam romase nudo e la conpagna nudua
No cala ala gora pur k’ella sia ben passuda
De ço dixe sancto paulo in soa predicança
Ke l’omo debia uiue con grande temperança
L’omo l’a piliada e tenela per amiga
Pero fira caçao dala maxon diuina
La terça ancella e la fornication
Molto desplaxe a deo ço dix lo sauiomo
Fornicatori et aduulteri de deo çudigare
Et el’e tal peccato ke deo nol uol portare
El’e piexor citae uenui a grande arsura
Cum se fa mention in la sancta scriptura
Si e un tal peccato cum plu l’omo lo faxe
Zamai no sen despartise da ke’l cor ge giaxe
L’omo l’a piliada e tenla per amiga
Per ço fira caçao dala corte diuina.
La quarta ancella si apella auaritia
Vna de le ree ke in questo mundo sia
De tuti li mai ela pare radixe
Segondo quelo ke salamon dixe
Lo pouero sta al’usgio e crida carita
No li uale clamare marce ne pieta
El’e fata teneure cum e fata la raxa
No uol ueder del ben insir fora de caxa
L’omo l’a piliada e tenela per amiga
Per ço fira caçao dala maxon diuina
La cinquena ancilla m’e uix ke sia l’ira
La qual non adoura dela lexçe diuina
Dolenta la famelia o ela brega speso
El’e plena de lagnia plu ke lo mar de peso
Partire fa fraelli e metege tençone
E metege grande discordia entro li conpagnione
La guera ua crescendo e metege tesura
Del mal fa quela asai si ke li no g’e mensura
Ardese le case le tegie e li paliari
Morti finon li homine prisi e maganai
Caym la tene un tempo in soa conpagnia
Olcixe lo fraello tropo fe grande folia
El fo maledegio da deo omnipoente
Caçao fo a l’inferno entro quelo fogo ardente
L’ira romase al mundo per fane desuiare
L’omo e la femena ki de sego bregare
Del’odio e de inuidia el’e fata fontana
Fa despartire l’omo dala raxon soprana
L’omo l’a piliada e tenela per amiga
Per ço fira caçao dala corte diuina
La sexena ancella me par forte secura
Accidia s’apella in la sancta scriptura
Auer in fastidio lo bon sermon diuino
No uol odir messa ni terça ni matin
No uol andar in ecclesia a deo marci clamare
Odir no uol uangeli ni pistole spianare
E uasen per lo mundo pur pensando uanitai
No lasa far l’omo cosa de utilitae
L’omo l’a piliada et tenela per amiga
Pero fira caçao dala maxon diuina
Dela setena ancella e uoio far memoria
Ela me par ypocrita çoe la uauagloria
De tuto lo ben ke’l fax no uol deo laudare
Ni fage gratia ni gloria a lui dare
Vol si laudare e fase laudare lo mundo
Vase gloriando ke’l plaça ad omiunca homo
E de costoro a dito lo segnor iesu x o
Entro lo uangelio si cum el se troua scripto
La lor marce illi an ça receuudhi
Zoe l’ostia mundana la qual i an uoiudhi
L’omo l’a piliada e tenela per amiga
Per ço fira descaça dala maxon diuina

[…]

Quel homo si e mato ke tropo s’asegura


Jn auere grande richeçe e stare in auentura
K’ ei’o ueçuo uentura e grande rikeçe
Ki en deuenue a grande baseça
Lo segolo e fragele e uane
Tal g’e anco no g’e doman
Zascaun deuria pur pensare
En in ben dire et in ben fare
E soura li quatro pensamente
Ond’omo uene a saluamente
Lo prumer si e de strapasare
E lo segondo de resuscitare
Lo terço si e’l del paradiso
Lo quarto e inferno ço m’e uiso
Ki pensera soura quisti quatro
Za no fara mortal peccato
E quel ke no ge pensara
Se ben el uiue mal g’aura.
Auemo dito de questo mundo
E de que e fato l’omo
E cum x e uene in terra
Jn la sanctissima polçella
E cum el porto grande passion
Per nu auer saluation
Ancora g’e un poco a dire
No ue recresca de l’odire
Com lo segnor omnipoente
Zudigara l’umana çente
A lo çudisio al di del’ira
Ke li sera de grande ruina
E li sera podesta
Forte mente acompagnia
E la celestia caualaria
Zoe li angeli gloriusi
Cum tuti li sancti pretiusi
Li sera lo grande splendore
Ki resplendera cum fa lo sol
La diuina maiesta
Pretiosa podesta
Jhesu x e poscente
Molto forte e grande mente
Se ponera suso la cadrega
E dauanço lu la nobel schiera
E cureri e tubaturi
E li grangi e li menuri
Omiunca persona debia li andare
A quelo aregno genera
q g g
Molto tosto e prestamente
Asemblara tuta la çente
Le grande uertue dal cel nera
Jn iosaphat la condura
L’altissimo uerax deo
Per çudigare lo bon dal reo
Mo li sera si grande fortuna
Turbar se n’a lo sol e la luna
Le stelle del cel e li alimenti
E l’airo e tuti li firmamenti
E ben uel dixe la scriptura
Ke li apostoli auran pagura
Quando illi uederan lo cel plegare
E li archangeli an tremar
Mo quando quili auran tremor
Que pora dire li peccator
Ki no seran mundi ni lauai
Dali crudelissimi peccati
Multi poran esser dolenti
Ke la no trouaran parenti
Ke posa l’un l’altro asconder
Ke molto auran de si a dir
Oi deo cum seran beati
Killi k’eran iusti trouati
Partir i aura lo segnore
Si cum fa lo bon pastore
Ki mete le pegore dal’una parte
E li caprili mete desuarte
Ke’l metera li bon dalo lado dextro
E li maluaxi dalo lado senestro
E sì fara comandamenti
Ke omiunca homo intença quetamente
La sententia ke’l uol dare
E manifesta lo ben dal male
Ki aurato fato ben so sera
E cum eso lu lo trouara
Ki mal aura fato lo someliente
Cum eso lu el sera sempre.

[…]

Zoan lo dixe marco et matheo


Et anche luca lo disipulo de deo
Lo rex de gloria si li apellare
Et a presente domandare
Quili k’in dala man senestra
Ke no fon digni dela destra
E po parla lo segnore
Da lado senestro o e’l dolor
Maledicti andauen uia
Jn la grande tenebria
Entro lo fogo eternale
Ke sempre mai deui li stare
Cum lo crudel inimigo
Lo diabolo uegio antigo
No me ualse marce clamare
Ke uu me uolisi albregare
Vu me uedisi afamado
Nudo e crudo et amalao
Non auisi pieta
Ke a nu fisi carita
Vu no credisti ali mei menistri
Ke dela leçe erano magistri
Ke ben saueuano la doctrina
Ki e ueraxe medesina
Da fare li mei comandamenti
Vu ue ne mostresi molto linti
E malamente si en receuui
De quili k’erano infirmi e nudi
Vu me uedisi incarcerao
Pouero e nudo e despoliado
Eo soffri dolor e tormento
Et afamao e sedolento
Et in carcere et in prexon
Sosteni fera passion
E molto grande infirmita
De mi non auisi pieta
No me uolisi souenir
Per uno pogie guarire
Responde li peccator
Con grande dolia e con tremor
Mo quando te uidemo in tal besognia
Ke unca de ti non auessemo sognia
Se altra persona nel dissese
A nu no par ke’l gel credesse
Ke nu te uedesemo infirmita
Ni soffrir necessita
Ni quando te uidemo nudo essere
Pouerta fame e sede.
Responde lo bon segnor
E si dira incontra lor
Quando uu uedissi lo pouer stare
Dauanço uu marce clamare
Ke a lor fasisti carita
Vu non auisi pieta
Jlli se reclamon da me
Non auisi in lor marce
Or uen andai uu mala çente
Entro lo fogo k’e tuto ardente
Maledicti et blastemai
Vu stari la sempre mai
Ke quand uedisi li minimi mei
Ke te queriuano lo ben per deo
Vu non uolisi unca albregare
Ni ge dese beuer ne mangiare
Mo quand lor non albregasi
A mi medesimo lo uedasi
Lo merito ke deuri auere
Jn proximan l’aui uedere
Vu andari in fogo ardente
Crudel e pessimo e boliente
Jn greue puça et in calor
Jn tormenti et in dolor
Jn fimo grande e tenebroso
Ke molto e forte et angososo
Aprouo dela grande calura
Auri si pessima fregiura
Ke tuti cridari fogo fogo
E çamai no trouari bon logo
E fame e sede euri crudel
Ma non auri lagie ni mel
Jnançe auri diuerse pene
De crudelissime cadene
Ad un ad un firi ligai
E molto firi marturiadi
De scorpion e de serpenti
E de dragon molti mordente
Ki u’an percoe e deuorae
Mo si no ue poran liuare
E quili marturii seran tanti
Doli augustie cridi et planti
Ki ue para mille anni una hora
E plu seran nigri ka mora
Quilli ke u’an marturiare
E çamai no deuri requiare
Or stari destrugi e malmenai
E dala mia parte sie blastæmai.
Quand’el’aura sententiao
Et asoluudo et condempnao
Et condempnao li peccatori
Entro lo fogo infernore
Molto tosto e ben uiaço
Ge dara lo grande screuaço
Jn la scuira tenebria
Cum demonii in compagnia
Jn quella dura passion
No g’e plu redemption

[…]
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Visioni dell’aldilà prima di Dante


di AA.VV.
© 2017 Mondadori Libri S.p.A., Milano
Ebook ISBN 9788852083402

COPERTINA || INTERPRETAZIONE DELL’OPERA ORIGINALE DI PABLO


PALAZUELO AFFICHE BARCELONA, 1977. | LITOGRAFIA. EDIZIONE DI 100
COPIE PIÙ PROVE D’ARTISTA.

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