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Capitolo 


IL SAGGIO DI UN MAESTRO 

Alludo al contributo di Gianfranco Folena, intitolato La tradizione delle opere di


Dante Alighieri, uscito nell’anno delle celebrazioni del settimo centenario della
nascita di D.1 Ne riporto il testo con i seguenti interventi:
1. Ometto la parte relativa alle opere “minori” di D.; riproduco quindi solo
le pagine introduttive e quelle che riguardano la Commedia.
2. Ometto le note bibliografiche dell’autore.
3. Adotto le sigle dei mss. del Petrocchi, che a volte non coincidono con
quelle usate da Folena.
4. Aggiungo una paragrafatura (tornerà utile nel resto della dispensa).
5. Aggiungo qualche breve nota di commento.
Lo studio va completato e aggiornato per lo meno con le pagine dedicate alla
Tradizione del testo [della Commedia] e alle Edizioni del poema nell’Enciclopedia Dan-
tesca, 1970/19842, a cura di Antonio Enzo Quaglio, il capitolo di Claudio Cio-
ciola, Dante, 2001 e col libro di Saverio Bellomo, Filologia e critica dantesca, 2008,
oltre che con alcune pagine del libro Nuove prospettive (a c. di Paolo Trovato),
2007, tutti di piú facile reperibilità; mi riferisco solo ai saggi omogenei a quello
di Folena, cioè a panorami di natura riepilogativa. Ovviamente bisogna tener
conto della ricca bibliografia successiva, ma il contributo di Folena è cosí lim-
pido e cosí pieno di osservazioni ancora utilissime (insieme con qualche rara
opinione non del tutto convincente) che la sua lettura non può che risultare di
gran beneficio agli studenti. Nel 2001 Rudy Abardo2 (L’edizione critica, p. 282)
scriveva che il saggio di Folena «ancor oggi, dopo 35 anni, conserva tutto il
suo fascino: testo esemplare per chiarezza espositiva, informazione ed equili-
brio fra posizioni critiche diverse». Dopo 9 anni il giudizio non è mutato. La
maggior parte del contenuto di questa dispensa prenderà spunto dai problemi
messi in luce dal saggio di Folena.

1 Folena, La tradizione, 1965.


2 Abardo, L’edizione critica, 2001, p. 282.
APPUNTI SUL TESTO DELLA COMMEDIA DANTESCA

GIANFRANCO FOLENA 
LA TRADIZIONE DELLE OPERE  
DI DANTE ALIGHIERI

1.1. PREMESSA

Le vicende tumultuose e in tanta parte misteriose della vita di Dante durante


l’esilio, e la straordinaria fortuna del «poema sacro», dell’«alta Comedía», subito
dopo la morte, insieme con le accese polemiche religiose e politiche suscitate
dall’opera maggiore e dalla Monarchia, hanno lasciato un’impronta decisiva sulla
tradizione delle opere, volgari e latine, la piú varia e complessa forse che ci sia
offerta dalle letterature moderne dal punto di vista culturale-sociale e geografi-
co come da quello delle condizioni intrinseche della trasmissione. Si va da una
tradizione amplissima come quella della Commedia, cosí copiosa da aver resa fi-
nora irrealizzabile una completa recensio, a tradizioni larghe ma assai piú limitate
anche nell’orizzonte geografico come quelle della Vita Nuova e del Convivio, fi-
no a tradizioni ristrettissime e tarde come quella di talune Epistole conservate
unicamente dal Boccaccio, o quella della Questio trasmessa addirittura soltanto
da una stampa del primo Cinquecento.
Di Dante non si è scoperta finora neppure una firma autografa, il che non
significa che autografi danteschi non possano esistere, in documenti d’archivio
o sui margini di mss. da lui posseduti, e non possano essere in futuro rivelati:
certo è che finora le ricorrenti «scoperte» di postille autografe di Dante in mar-
gine a canzonieri provenzali si sono rivelate ingenue fantasticherie.1 Né si ha

1 Come rammenta Giancarlo Savino (L’autografo virtuale della «Commedia», 2001, p.


1099), «la speranza di un ritrovamento di autografi danteschi, vagheggiata anche per inte-
ressi extrafilologici, riaffiora di quando in quando nelle gazzette, specie vicino o in mezzo a
occorrenze centenarie». Per es. «Giovanni Russo (Ultrasuoni alla ricerca degli autografi di Dante,
in «Corriere della sera» del 15 dicembre 1964) aveva annunciato l’impiego di un “apparec-
chio ultrasonico”, costruito dal Politecnico di Milano, “nella ricerca degli autografi della
Divina Commedia che, secondo una certa tradizione, sarebbero nascosti in qualche casa di
Ravenna”. [E] i frati di San Francesco a Ravenna si sarebbero dichiarati certi di ritrovare gli
autografi [di D.] nel loro chiostro (“L’Avvenire d’Italia” del 12 settembre 1965)» e cosí via.
Le uniche informazioni che possediamo sulla grafia dantesca ci derivano da Leonardo Bru-

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CAP. I – IL SAGGIO DI UN MAESTRO

alcuna traccia di libri posseduti da Dante: tutti i suoi libri sono andati dispersi.
E tutti i mss. dell’opera sua con la sola eccezione di alcune Rime e poi di
frammenti della Commedia conservati nei «Memoriali bolognesi» […], segno
della precoce fortuna e diffusione dell’opera di Dante a Bologna (di questa for-
tuna testimoniano anche due dei piú antichi commenti), sono copie posteriori
alla morte. Né, alle origini della tradizione, Dante sembra aver lasciato alcun
residuo del suo lavoro letterario, di incertezze pentimenti elaborazioni: cosí di-
versamente dai suoi successori, dal Boccaccio e soprattutto dal Petrarca, che
ha il culto delle proprie carte e del proprio labor limae poetico. La tradizione di
Dante invece è monolitica e ha resistito finora a ogni tentativo di individua-
zione di varianti redazionali (con una sola eccezione probabile per alcune rime
incluse nella Vita Nuova e conservate anche in tradizione diversa, extravagan-
te). La fortuna della Commedia, almeno in un primo tempo, sembra avere steso
un’ombra su quella delle altre opere volgari, anche se in seguito l’avrà di rifles-
so alimentata: la tradizione della Commedia è non soltanto incomparabilmente
piú larga ma anche piú raffinata e lussuosa: molte copie manoscritte sono in
pergamena con fregi e miniature spesso di alta qualità. E certo il testo della
Commedia si diffuse presto non soltanto in Toscana anche in mezzo al popolo,
come mostrano p. es. i due aneddoti narrati dal Sacchetti, che, per quanto cer-
tamente inventati, non son per questo meno significativi, come documento
d’una fortuna orale che in Italia arriderà piú tardi in misura uguale solo alla
Gerusalemme Liberata del Tasso.1
Narra il Sacchetti (nov. CXIV) che una volta «lo eccellentissimo poeta
volgare», trovandosi nei paraggi di Firenze, sentí un fabbro che, battendo il
ferro sull’incudine, per accompagnare il suo lavoro «cantava il Dante, come si
canta uno cantare, e tramestava i versi suoi, smozzicando e appiccando, che
parca a Dante ricever di quello grandissima ingiuria ». Sicché il poeta adirato
comincia a gettare in mezzo alla via gli arnesi del fabbro, e alle rimostranze di
questo risponde che se egli non vuole che sian guastate le proprie cose, non
deve guastare l’opera del poeta. «Tu canti il libro e non lo di’ com’io lo feci; io
non ho altr’arte, e tu me la guasti». Un altro aneddoto simile riferisce il Sac-
chetti a proposito di un asinaio (nov. CXV) che «andava drieto agli asini can-
tando il libro di Dante, e quando avea cantato un pezzo, toccava l’asino e di-

ni, che avrebbe «veduto [...] alcune epistole di sua propria mano scritte». Lo stesso Bruni ci
comunica che Dante «fu ancora scrittore perfetto» [cioè fu uno scriba rifinito; si rammenti
che nel Medio Evo il latino scribere e i suoi derivati romanzi si riferiscono soprattutto al
concetto di “trascrivere”, “copiare” un testo che a quello di “esserne l’autore”] «intentendo
come perfezione [...] una manualità rispettosa della morfologia delle lettere e delle loro
proporzioni – “et era la lettera sua magra et lunga et molto corretta”, cioè di peso unifor-
me, con le aste sottili e allungate”» (Savino, L’autografo virtuale, 2001, p. 1109).
1 Si vedano anche le citazioni in esergo, che indicano se non altro una ricezione sul
piano di un godimento estetico non propriamente impegnato sul versante dottrinale. Inol-
tre Boccaccio (Trattatello) ricorda che la Commedia «pasce con dolcezza e bellezza del testo
non solamente gli uomini, ma i fanciulli e le femmine».

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APPUNTI SUL TESTO DELLA COMMEDIA DANTESCA

ceva: – Arri!». La risposta di Dante, «Cotesto arri non vi miss’io», è divenuta


proverbiale.
Il Sacchetti, che pure era uomo di cultura non aristocratica, dà prova qui
sorridendo del religioso rispetto per il testo «sacro» e delle preoccupazioni su-
scitate dalla sua volgarizzazione. Di questo culto per l’eccellenza dell’arte e la
gravità della materia, anche i manoscritti ci forniscono le prove: la tradizione si
mantiene quasi sempre a un livello relativamente elevato, è oggetto di cure in-
terpretative, e perciò raramente meccanica, strumento essa stessa di elevazione
culturale, anche se non mancano testimonianze di una digradazione popolare,
per es., nelle citazioni a memoria di versi e passi famosi del poema che fiori-
scono i margini di mss. diversi fin da epoca antica, a modo di glosse (come, fra
gli esempi piú antichi, le glosse dantesche contenute nel cod. 190 di Montecas-
sino, della prima metà del ‘300, che presentano un testo al massimo corrotto e
dialettalizzato).
La trasmissione delle opere volgari di Dante attraversa ambienti di cultura
estremamente vari: se la tradizione manoscritta del Decameron sembra affermar-
si soprattutto in mezzo alla classe mercantile, quella di Dante è assai piú multi-
forme, anche se certo anch’essa laica in grande prevalenza. Fra i primi copisti
ci sono soprattutto notai, letterati di varia cultura, aristocratici. Se a Firenze il
pubblico piú appassionato proviene dalla borghesia colta, media e piccola, e a
Bologna si sente talora l’eco della fortuna nell’ambiente universitario, a Vene-
zia p. es. la fortuna di Dante si affermerà particolarmente fra la nobiltà colta,
per opera di «copisti per passione» aristocratici, come Iacopo Gradenigo: e so-
prattutto nel nord fioriranno le copie principesche, riccamente decorate e illu-
strate. Fra i copisti ce ne sono molti evidentemente professionali, che eseguo-
no talora e fanno eseguire in serie molti esemplari: ma ci sono anche amateurs
illustri come il Boccaccio e Filippo Villani.
La diffusione manoscritta della Commedia e delle altre opere di Dante non
è stata ancora studiata dal punto di vista geografico ed economico-sociale, sia
attraverso l’esame e il colorito dei mss. sia attraverso gli inventari delle biblio-
teche antiche:1 tema fondamentale per la storia della cultura e della lingua ita-
liana, perché la prima unificazione culturale e linguistica italiana, e l’espansione
del toscano fuori dei suoi confini naturali, sono in tanta parte legate alla fortu-
na e al culto e all’imitazione del testo dantesco.
Anche i punti di partenza diversi della tradizione delle diverse opere, i
centri di diffusione originari (che andranno certo messi in rapporto con le vi-
cende dell’esilio di Dante) non hanno potuto finora esser determinati con sicu-
rezza: si è parlato per la Commedia di un archetipo emiliano o romagnolo (e cer-
to si vede bene l’importanza di Bologna nella prima diffusione), per il Convivio,
con piú valide anche se non inoppugnabili ragioni, di un archetipo aretino,

1 Qualche ottima osservazione in merito in Luisa Miglio, Lettori della «Commedia»: i


manoscritti, 2001, di cui si parla qui al cap. II, § 2.

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CAP. I – IL SAGGIO DI UN MAESTRO

mentre la tradizione del De Vulgari Eloquentia è settentrionale e collocabile fra


Bologna e Padova.
Le polemiche e le condanne ecclesiastiche possono avere in qualche caso
condizionato, cioè limitato, ma anche favorito per reazione (che la condanna è
talora un potente strumento di involontaria propaganda), la diffusione delle
opere volgari, oltre che in modo particolare della Monarchia, condannata e bru-
ciata pubblicamente a Bologna nel 1329 dal cardinale Bertrando del Poggetto:
qualche anno dopo il Capitolo provinciale dei Domenicani riunito a Firenze
proibiva ai frati piú giovani di leggere e possedere i libri di Dante «in vulgari
compositos» (8 settembre 1335). E anche questo può valere come testimo-
nianza della fortuna rapida, crescente e assorbente, delle opere di Dante anche
negli ambienti religiosi.
Particolarmente importante appare l’apporto del Boccaccio alla edizione e
alla tradizione complessiva delle opere volgari (oltre che alla trasmissione delle
opere latine), con la formazione accanto alla Commedia di un «canone» di opere
poetiche minori, che ebbe poi una straordinaria fortuna. Il Trattatello in laude di
Dante nacque infatti come prefazione a una edizione di opere poetiche volgari,
comprendente la Vita Nuova, una collana di 15 canzoni «distese» e infine la
Commedia. E il Boccaccio stesso preparò non meno di quattro raccolte consi-
mili, cercando di eliminare errori dal testo col confronto eclettico di diversi e-
semplari ma soprattutto attraverso congetture molto soggettive e arbitrarie, ri-
toccando spesso il testo dantesco secondo i propri gusti. L’editio variorum forni-
ta dal Boccaccio fissò un testo che si divulgò largamente ed ebbe una vasta dif-
fusione per tutto il secolo successivo ed oltre.
Ma, tranne che in questo episodio e in pochissimi altri meno importanti di
questo, le diverse opere di Dante hanno avuto tradizione separata e disparata
tanto nella trasmissione manoscritta quanto nelle edizioni a stampa: si pensi
che se le prime edizioni della Commedia appartengono ai primordi della stampa
(1472) e se il Convivio compare per la prima volta a Firenze nel 1490, per i tipi
di ser Francesco Buonaccorsi, per la Vita Nuova, dopo che le poesie erano sta-
te estratte nella Giuntina del 1527, bisogna attendere la princeps sorrentina del
1576, per Bartolomeo Sermartelli; per le opere latine, la princeps della Monarchia
comparve a Basilea nel 1559, per Giovanni Oporino, quella del De Vulgari Elo-
quentia, dopo l’edizione della traduzione italiana di G. G. Trissino (Vicenza,
1529), vide la luce a Parigi nel 1577 per opera del fiorentino Iacopo Corbinelli.
Questa situazione editoriale, che ebbe ripercussioni sulla tradizione manoscrit-
ta alimentandola fino a tardi per le opere piú rare sul mercato fu in parte il ri-
flesso dell’incomprensione del Rinascimento italiano per il pensiero come per
l’arte di Dante, oltre che di censure ecclesiastiche, in parte il risultato di tradi-
zioni già cosí diversamente caratterizzate fin dalle origini.
Un interesse globale per la produzione di Dante, e per le opere minori la-
tine non meno che per quelle volgari, sarà solo l’effetto della migliore com-
prensione storica instaurata dalla erudizione settecentesca e poi dalla filologia e

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APPUNTI SUL TESTO DELLA COMMEDIA DANTESCA

dalla critica del secolo XIX, e darà i suoi frutti maturi soltanto nel nostro seco-
lo: nella seconda metà del secolo XVIII cominciano a comparire a Venezia e-
dizioni di «tutte le opere» di Dante, dalla prima, che è l’ed. Zatta del 1757-8
(rist. 1760), all’ed. Pasquali del 1772 fino all’ed. Gatti del 1793; e a Firenze nel
1830-43 si ha l’ed. Ciardetti di tutte le opere. Ma solo nella seconda metà
dell’Ottocento si impone l’esigenza scientifica che ha il suo primo insigne ri-
sultato complessivo nell’edizione di Oxford del 1894, e la sua piú matura ma-
nifestazione globale fino ad oggi nell’edizione fiorentina della «Società Dante-
sca Italiana» del 1921, per quanto notevoli progressi particolari siano stati
compiuti da allora in poi. [...]

LA DIVINA COMMEDIA

1.2. [COMPOSIZIONE E PUBBLICAZIONE]

Pochissimi elementi sicuri possediamo sulla composizione e sulla pubbli-


cazione della Divina Commedia. Non sappiamo quando Dante cominciò a
comporre la sua Commedia (come suona il titolo originale, mentre
l’attributo di divina fu consacrato molto tardi, solo con l’ed. veneziana del Gio-
lito curata nel 1555 da Ludovico Dolce): se prima dell’esilio, secondo la notizia
riferita dal Boccaccio e probabilmente fantastica (anche se può contenere un
fondo di verità), del ritrovamento dei primi 7 canti dell’Inferno lasciati a Firenze
e inviati a Dante in Lunigiana nel 1306; o addirittura dopo la morte di Arrigo
VII come altri hanno sostenuto, cosa ancor piú improbabile; oppure intorno al
1306 secondo l’ipotesi per noi piú plausibile. Certo è che le prime due cantiche
dovevano già circolare quando il poeta era intento all’«ultima fatica», che do-
vette concludersi solo nell’estremo tempo della sua vita, se nell’Ecl. I a Gio-
vanni del Virgilio Dante, fra la fine del 1319 e l’inizio del ‘20, ne parla come
d’opera non ancora conclusa contrapponendola alle due riguardanti gli infera re-
gna, già pubblicate. Insieme con questo, l’altro terminus ante quem assolutamente
incontestabile per la pubblicazione delle prime due cantiche è costituito dai
primi frammenti presenti nei «Memoriali» e Registri bolognesi a cominciare dal
1317 per l’Inferno (III 94-6, 103-4; V 16-7) e dal 1319 per il Purgatorio (I 1). Ma
c’è un altro argomento che indica come probabile la circolazione di una parte
del poema prima dell’aprile 1314: in una glossa autografa dei suoi Documenti
d’Amore (cod. Vat. Barb. 4076, c. 63v: ed. Egidi, II. 375), stesa secondo
l’ipotesi ancora piú probabile tra fine 1313 e inizio 1314 (e prima della morte
del papa Clemente V, nell’aprile 1314), Francesco da Barberino, trovandosi a
Mantova e discorrendo di Virgilio aggiunge: «Hunc [Vergilium] Dante Arighe-
rii in quodam suo opere quod dicitur Comedia et de infernalibus inter cetera multa tractat,
commendat protinus ut magistrum [Tu se’ lo mio maestro... Inf. I 85]; et certe, si
quis opus illud bene conspiciat, videre poterit ipsum Dantem super ipsum

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CAP. I – IL SAGGIO DI UN MAESTRO

Virgilium vel longo tempore studuisse [vagliami ‘l lungo studio... Inf. I 83], vel in
parvo tempore plurimum profecisse». È questo il primo accenno alla circola-
zione dell’Inferno (non direi anche del Purgatorio che non mi pare possa essere
adombrato in quel vago cetera multa, e anzi mi pare che ne sia assolutamente e-
scluso), che doveva essere divulgato da qualche tempo. Gli argomenti ripetuti
anche di recente per portare la pubblicazione dell’Inferno oltre l’aprile 1314 e
quella del Purgatorio oltre l’autunno 1315, in base a supposte profezie di avve-
nimenti storici post eventum, non hanno alcun peso e indicano solo il pericolo di
fondare ipotesi cronologiche, addirittura l’ipotesi di revisioni successive al
compimento delle cantiche in vista della pubblicazione, su dati storici interni
che non siano assolutamente sicuri, ma, come in questi casi, aleatori e contro-
versi. Noi non vediamo infatti in Inf. XIX 84 alcuna prova che la profezia della
dannazione del pontefice simoniaco sia posteriore alla morte di lui, né trovia-
mo in Purg. XXIII 109-11 che la vaga profezia di Forese Donati su Firenze
possa essere riferita alla sconfitta di Montecatini dell’agosto 1315, e via dicen-
do. Possiamo solo dire che l’Inferno si sarà divulgato prima dell’aprile 1314 e il
Purgatorio forse qualche tempo dopo.
La composizione del Paradiso fu iniziata forse intorno al 1316, quando
Dante (se va accolta, come ci sembra, la cronologia proposta da F[rancesco]
Mazzoni) accompagnava l’invio a Cangrande della Scala del primo canto del
Paradiso con la discussa Epist. XIII. Di qui, come da una notizia riportata dal
Boccaccio, dell’invio a Cangrande di gruppi di canti (e riferita certo impro-
priamente anche alle altre due cantiche composte e pubblicate prima che Dan-
te si legasse col Signore di Verona), come anche dall’invio di 10 canti a Gio-
vanni del Virgilio, annunciato nell’Ecl. I, si può argomentare che il Paradiso, a
differenza delle altre due cantiche, venisse diffuso progressivamente, almeno
in una cerchia di amici. Comunque il poeta non dovette tornare piú sulle canti-
che già pubblicate né fornire una nuova «edizione» complessiva dell’opera sua:
il fatto che gli originali delle cantiche venissero diffusi successivamente e che la
fortuna manoscritta dové essere subito intensa ci sembra che renda già impro-
babile l’esistenza di un archetipo, caratterizzato da errori e di colorito lingui-
stico emiliano-romagnolo, per tutta la tradizione, postulato ma non dimostrato
dal Casella, anche se è probabile che Bologna sia stata il centro piú attivo della
prima diffusione manoscritta.
Prove indirette di una rapida fortuna si possono ricavare da allusioni lette-
rarie o imitazioni in scritture contemporanee: come quella, che riteniamo sia la
piú antica, di un conoscente e ammiratore e poi commentatore per tre volte
della Commedia, il notaio fiorentino Andrea Lancia, il quale nel suo giovanile
compendio volgare dell’Eneide (contenuto in un ms. del 1316 e utilizzato da
Giovanni Villani nel l. I della Cronaca, anteriore al 1320) rivela nel rendere il te-
sto latino filigrane dantesche, evocando p. es. sicuramente nel tradurre Aen. II
793 un passo famoso del Purgatorio (II 81). Moduli danteschi entrano presto
nella tradizione linguistica dei volgarizzatori dei classici latini. [...]

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APPUNTI SUL TESTO DELLA COMMEDIA DANTESCA

1.3. [PRIME TESTIMONIANZE MANOSCRITTE]

Le prime testimonianze manoscritte organiche a noi giunte direttamente o


indirettamente appartengono al IV decennio del sec. XIV, e sono quindi po-
steriori di diversi anni alla morte di Dante: esse presuppongono del resto, co-
me vedremo, una diffusione manoscritta molto rapida ed ampia (e abbiamo si-
cure notizie di antichi manoscritti perduti circolanti ancora nel ‘500). Della tra-
dizione piú antica abbiamo solo le attestazioni sporadiche (in frammenti li-
mitatissimi dei quali i piú ampi comprendono poco piú di 20 versi: Inf. V 1-23
in un Registro del 1319; Purg. XI 1-24 in un Memoriale del 1327) fornite dai ri-
cordati «Memoriali» e Registri dei notai bolognesi (Bo), cui si possono aggiun-
gere i frammenti di un passo del Purg. e di tre del Par. traslitterati in ebraico in
un ms. databile intorno al 1325, oggi perduto. [...]

1.4. [COMMENTI]

Elementi utili per la tradizione piú antica possono venire dalle piú antiche
traduzioni latine come quella del monaco benedettino Matteo Ronto, che è
già però della fine del secolo (1392 ca.): ma soprattutto si deve tener conto si-
stematicamente della tradizione frammentaria rappresentata nel loro interno
dai piú antichi commenti della Commedia. La trasmissione della Commedia
si complica infatti fin dall’inizio con l’esegesi, unendosi al testo la chiosa o un
commento organico data la particolare natura dell’opera, considerata come un
trattato di dottrina teologica e morale, e talora di intelligenza non facile anche
nella lettera. I commentatori hanno dato «edizioni commentate» che presup-
pongono un lavoro interpretativo e critico e quindi una trasmissione non mec-
canica: le cose si complicano ulteriormente perché testo e commento hanno
spesso tradizione separata e al commento viene sovrapposto un testo diverso
da quello originale e il nuovo testo può reagire sui «richiami» al testo nel
commento (e può anche verificarsi piú raramente il caso inverso), sicché il te-
sto originale usufruito dall’antico commentatore è attestato spesso solo
nell’interno della glossa.
I primi commenti che ci rimangono sono immediatamente successivi alla
morte di Dante: sono del 1322 l’epitome in versi o Divisione del poema di un
figlio del poeta, Jacopo Alighieri, che accompagnarono un esemplare della
Commedia offerto, con un sonetto di dedica, a Guido da Polenta (1 aprile
1322), e dello stesso anno sembrano le mediocri Chiose alla cantica dell’Inferno di
lui, in volgare. Assai piú importante è il commento latino all’Inferno composto
probabilmente nel 1324 da Graziolo Bambaglioli, cancelliere del Comune di
Bologna (e di partito politico avverso a Dante, cioè «guelfo nero»: proprio a lui
forse nel 1329 il Vernani dedica il suo De reprobatione Monarchie), tanto piú che
esso è conservato in un manoscritto antico, il cod. Colombino di Siviglia (Si),

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CAP. I – IL SAGGIO DI UN MAESTRO

riferibile se non, come s’è creduto, agli anni immediatamente successivi alla
stesura del commento, all’incirca alla metà del ‘300.1
Un altro bolognese, maestro di grammatica, Jacopo della Lana, compose
negli stessi anni (1324-8 ca.) il primo commento complessivo della Commedia,
in volgare (fu tradotto in latino dal contemporaneo giureconsulto Alberico da
Rosciate, di Bergamo), che ebbe larga fortuna e ci è conservato da alcuni dei
codici piú antichi e autorevoli della Commedia, come il codice trascritto proba-
bilmente intorno al 1340 da un noto amanuense bolognese che conosciamo at-
tivo fin dal 1322, maestro Galvano, e andato smembrato in due parti, la prima
delle quali contenente Inf. e Purg. è a Firenze, Ricc. 1005, la seconda contenen-
te il Par. a Milano, Braidense AG. XII 2 (Rb); il codice di Parigi, Bibl. Nat., it.
538 (Pa) trascritto nel 1351 da un altro famoso copista della Commedia, Bettino
de Pilis (della cui mano conosciamo almeno altri due manoscritti assai piú tar-
di, l’Ashb. App. 2369 della Bibl. Laur. di Firenze, del 1368-9, e il cod. 6 della
Bibl. Com. di Ravenna, del 1370); il codice di Francoforte (1352-62 ca.) detto
Arci-β dallo Schmidt-Knatz (Franc); il Vaticano Ottob. 2358, e vari altri mss.
piú tardi. Come si vede Bologna ha un posto privilegiato anche nella prima
produzione di commenti.
Il primo commento fiorentino è quello davvero eccellente detto «Otti-
mo», con ogni probabilità da attribuire al notaio fiorentino Andrea Lancia già
ricordato, composto intorno al 1334 e rielaborato successivamente per due
volte, sicché ne abbiamo 3 redazioni diverse. Al decennio successivo risalgono
il pregevolissimo commento (1341 ca.) di un altro figlio di Dante, Pietro Ali-
ghieri, del quale abbiamo pure diverse redazioni successive, e quello di Guido
da Pisa, del solo Inferno, composto fra il 1343 e il ‘50 e contenuto (è ancora i-
nedito) in un codice molto antico, da assegnare alla metà del secolo XIV, il
cod. 597 del Musée Condé di Chantilly (Cha).2 Ma con questi commenti si varca
ormai il limite rappresentato dalle piú antiche attestazioni manoscritte organi-
che sicuramente datate: ed essi, come ancor meno quelli della seconda metà
del secolo, del Boccaccio (1373), di Benvenuto Rambaldi da Imola (1375), di
Francesco da Buti (1385 ca.), documenti di pubbliche «letture» tenute a Firen-
ze, Bologna, Pisa, nulla possono offrire sotto il rispetto testuale per la ricostru-
zione della tradizione piú antica, mentre danno testimonianza del diffondersi
di una «vulgata» e della fortuna dell’opera dantesca dentro un quadro ideologi-
co e una cornice di gusto letterario che stanno profondamente mutando. [...]

1.5. [CARATTERISTICHE DELLA TRADIZIONE]

1 Probabilmente sec. XIV ex.-XV in. (cf. Romanini, Altri testimoni, 2007, p. 92).
2 Probabilmente 2º quarto del Trecento.

© Alfonso D’Agostino 15
APPUNTI SUL TESTO DELLA COMMEDIA DANTESCA

La recensio dei mss. della Commedia, nonostante un lavoro ormai secolare, è an-
cora ben lungi dall’essere completa e sistemata in maniera soddisfacente: man-
ca un inventario preciso e aggiornato degli oltre seicento mss.;1 e mancano an-
cora, con qualche eccezione, uno studio comparativo, cronologico e geografi-
co, in base a sicuri dati paleografici e linguistico-culturali, anche dei soli mss.
piú antichi non datati e una precisa identificazione degli amanuensi e scriptoria
trecenteschi della Commedia. La tradizione manoscritta della Commedia è come
un fiume il cui corso piú alto vicino alle sorgenti non solo ci è ignoto ma appa-
re, dall’analisi delle prime acque attingibili, già carico di confluenze che hanno
confuso e rimescolato le correnti. È una tradizione che si rinnova incessante-
mente in rapporto alla domanda e alle diverse esigenze dei tempi successivi: e
la moneta nuova spesso caccia e distrugge quella vecchia, che è di solito la
buona. Sono cosí andate distrutte non solo tutte le copie delle due prime can-
tiche circolanti quando il poeta era ancora vivo, ma anche gli apografi del-
l’intero poema curati subito dopo la morte dai figli (come quello di Jacopo nel
1322) o da altri, e tutti gli esemplari che dovettero essere molto numerosi ese-
guiti nei primissimi anni. Una domanda fortissima, la fretta di copisti talora i-
gnoranti o poco intelligenti, un orizzonte geografico assai vasto, un pubblico
assai vario di lettori non sempre cólti e preparati a intendere un dettato di cosí
forte novità, dovettero produrre presto corruttele ed errori, di origine conget-
turale oltre che meccanica: e perciò si dovette affermare assai presto sulla tra-
smissione verticale l’esigenza orizzontale della ricerca di esemplari autore-
voli e della correzione in base ad essi del testo esemplato. L’abbondanza delle
copie rende d’altronde possibile agli amanuensi il controllo di diversi esem-
plari e il passaggio da un esemplare all’altro. Cosí tradizioni diverse si
incrociano e si mescolano; talora, come s’è visto, la chiosa si sovrappone al te-
sto. C’è inoltre un’altra possibile fonte di contaminazione, oltre che di inno-
vazione e corruttela, la memoria. Sappiamo che la Commedia è divenuta presto
popolare, e mandata a memoria e recitata quasi come un cantare (si ricordino
gli aneddoti, fantastici ma significativi, narrati dal Sacchetti); sappiamo che ci
sono stati copisti che hanno trascritto molte e molte volte il testo del poema,
ed essi, anche se scrupolosi, saranno stati facilmente sottoposti a processi di
contaminazione mnemonica (l’abitudine di citar Dante a memoria si è
conservata del resto fin quasi ai nostri giorni: cosí faceva ancora Francesco De
Sanctis, le cui citazioni dantesche presentano tante corruttele mnemoniche).
Cosí molteplici spinte sincroniche orizzontali, contribuiscono a inde-
bolire, talora a obliterare le linee diacroniche, verticali, i rapporti la-
chmanniani. La determinazione dei rapporti verticali può del resto far leva qui
molto raramente, data la serratissima struttura numerica del poema, e data la

1 Ora piú di ottocento, tra quelli che tramandano almeno una cantica e i frammentarî.
Il regesto di Marcella Roddewig (1984) ne elenca 844 (fra superstiti e dispersi), quello del
sito Dante Online (http://www.danteonline.it/italiano/codici_indice.htm) 827.

© Alfonso D’Agostino 16
CAP. I – IL SAGGIO DI UN MAESTRO

particolare natura del suo metro, la terzina a rime incatenate (fattori che hanno
potentemente contribuito alla integrità della trasmissione), sugli elementi di so-
lito piú sicuri della classificazione genealogica, cioè sulla presenza di lacune
meccaniche evidenti o anche di evidenti interpolazioni: anche se non man-
cano casi anche famosi di interpolazione, come quello di sei terzine interpolate
nel c. XXXIII dell’Inf. dopo la storia di Ugolino che si trovano nei codici Pari-
gino it. 540, veneto del sec. XIV, Chig. L. VII. 292 della Bibl. Vat., del sec.
XIV, e Canon. 103 della Bodleiana di Oxford, pure veneto del 1443 [...]; o
quello di due canti apocrifi de Usurariis e de Gulosis che si trovano nel cod. S.
Pantaleo 8 della Bibl. Naz. di Roma [...]. Ma sono rare eccezioni che confer-
mano la regola.
Per questi processi organici di contaminazione le costellazioni di varianti
si distribuiscono irregolarmente determinando fra i mss. soprattutto nei piani
piú alti della tradizione rapporti variabili. Comincia dunque fin dalle origini un
lavoro critico sul testo del poema sacro, condotto frammentariamente ed epi-
sodicamente, secondo il gusto del copista editore: di questo lavoro ci offrono
lampante testimonianza i piú antichi mss. sicuramente databili che siano giunti
fino a noi. [...]

1.6. [MART E TRIV]

Il piú antico ms. della Commedia che ci sia noto è un codice fiorentino del
1330 che non conosciamo direttamente, ma solo attraverso la testimonianza di
un appassionato dantista fiorentino del sec. XVI, Luca Martini, il quale tro-
vandosi a Pisa nel 1548 poté averlo in prestito dal suo possessore, messer Pro-
zio Grifi, e ne eseguí fortunatamente una collazione, che si può presumere ac-
curata e pressoché completa, su un esemplare dell’ed. Aldina del 1515 (ora a
Milano, Bibl. Naz. Braid., AP. XVI. 25).1 Quest’episodio è certo legato agli stu-
di preparatori che un gruppo di filologi fiorentini stava compiendo, per una
nuova ediz. della Commedia, su mss. antichi: sappiamo che due anni prima il
Martini con altri tre studiosi, sotto la guida di Benedetto Varchi, aveva colla-
zionato nella Pieve di S. Cavino in Mugello, su un altro esemplare della stessa
Aldina del 1515 (del quale purtroppo si son perse le tracce), 7 mss. della Com-
media, fra i quali due, posseduti dallo stesso Martini e andati poi perduti, consi-
derati particolarmente autorevoli e preziosi per antichità: un cod. pergamena-
ceo del 1329, designato con la sigla A,2 e un cartaceo ritenuto antichissimo e

1 Questo codice è siglato Mart.


2 Per il codice “A” si veda ora Boschi Rotiroti, Il manoscritto perduto, 2008. Martini qua-
lificava Mart come scritto in lettera mercantile («Et detto testo antico è scritto in carta pe-
cora, di lettera mercantile come il mio che, quando riscontrammo a San Gavino, fu segnato
A, che lo trovammo molto buono; et a me pare della medesima mano», apud Savino,
L’autografo virtuale, 2001, pp. 1102-3. I paleografi ritengono che non possa trattarsi di scrit-
tura “mercantesca”, visto che «un impiego librario della scrittura mercantesca, specie per

© Alfonso D’Agostino 17
APPUNTI SUL TESTO DELLA COMMEDIA DANTESCA

detto D. È questo un episodio molto importante della filologia volgare del


‘500 (e come si vede, dalla metà del sec. XVI ad oggi si sono verificate perdite
altrettanto gravi di quelle verificatesi in epoca antica). Il codice collazionato dal
Martini (Mart) ci offre d’altra parte una viva testimonianza del metodo ec-
dotico di un copista-editore fiorentino del 1330.
In una notizia aggiunta dopo l’explicit, trascritta dal Martini e certo auten-
tica anche per caratteri intrinseci (lingua, uso del cursus ecc.), questo copista, un
certo Forese (forse un Forese [di Chierico di Martello] Donati poi pievano di
S. Stefano di Botena) scrisse parole che meritano di essere trascritte per intero
per il loro valore paradigmatico:

Et ego Forensis, ei<us>dem conditoris concivis, presentem librum scripsi


manu propria gratis et precibus Ioannis Bonaccursi [figura assai nota e au-
torevole di mercante e uomo politico] de Florentia, amici K<a>rissimi. Si
qua vero parte vel partibus quicquam inveniatur [ms. quisnam invenerit] scrip-
tura confusum, rogo ne mee forsitan imputetur inertie: nam defectu et im-
peritia vulgarium scriptorum liber lapsus est quam plurimum in verborum
alteratione et mendacitate. Ego autem ex diversis aliis respuendo que falsa
et colligendo que vera vel sensui videbantur concinna, in hunc quam so-
brius potui fideliter exemplando redegi. Dans initium operi die XVª mensis
octubris, et ut mihi per tempus vacabat, usque ad diem XXXm mensis ia-
nuarii proximi subsequenter explicandum transtuli, anno veri domini
MCCCXXX, XIIIª indictione » [cioè 15 ott. 1330 - 30 genn. 1331].

Ecco dunque che il primo ms. della Commedia del quale si conosca la lezione è
una editio variorum, un vero e proprio tentativo di edizione critica fondata su di-
versi esemplari utilizzati ecletticamente secondo un iudicium soggettivo, o, co-
me dice Forese, secondo il sensus, il gusto. L’analisi interna della varia lectio di
Mart conferma che ci troviamo in presenza di un testimone eccezionale, che ha
probabilmente attinto a filoni di tradizione non altrimenti noti o con scarsissi-
me conferme (sicché, come vedremo, soprattutto su Mart si è imperniata la i-
potesi di una famiglia α, ristrettissima ipotesi già a prima vista aleatoria, dato
che si tratta di un testo sistematicamente contaminato), anche se molte pecu-
liarità andranno attribuite ad interventi congetturali arbitrarii, cioè al sensus di
Forese.
A questa peculiarità di lezione si mostra congiunto un altro famoso anti-
chissimo manoscritto, il Trivulziano 1080 (Triv), trascritto nel 1337 da un noto
e fecondo (anche se non cosí prolifico come un tempo si è creduto) copista

un testo come la Commedia, non è compatibile con quell’altezza di tempo, né reperibile


[...] entro i termini cronologici dell’antica vulgata [...] Una cosa è certa: quella dei due codici
visitati da Luca Martini doveva essere una scrittura di indubbia tradizione corsiva, ma evi-
dentemente appropriata, per i copisti, alla rappresentazione del poema» (Savino, L’autografo
virtuale, 2001, pp. 1103, che in fondo opta per una grafia d’ispirazione cancelleresca (pro-
babilmente una “bastarda cancelleresca”). Per le questioni grafiche si veda qui il cap. II.

© Alfonso D’Agostino 18
CAP. I – IL SAGGIO DI UN MAESTRO

fiorentino, Francesco di ser Nardo da Barberino, sul quale avremo occasione


di ritornare presto. Sembra innegabile che, come ha sostenuto il Vandelli con
validissimi argomenti, Triv dipenda da Mart: anche se certamente non ne sarà
apografo diretto, ma andranno postulati fra i due uno o piú intermediarii. [...]

1.7. [LA]

Il piú antico manoscritto datato della Commedia che ci sia stato conservato
nell’originale ci presenta anch’esso un caso di tradizioni sovrapposte, per quan-
to di natura e di significato diverso. Si tratta del Codice Landiano 190 della
Bibl. di Piacenza (La) copiato a Genova nel 1336, ad istanza del podestà Becca-
ro de Beccaria, nobile giureconsulto pavese che conosciamo come dotto e ap-
passionato raccoglitore di libri, dal copista marchigiano Antonio da Fermo
forse appartenente al seguito del podestà. Ma il codice fu poi corretto da
un’altra mano antica, posteriore forse d’un decennio o due, che raschiò in mol-
ti luoghi la lezione primitiva e sovrappose a questa, che risulta tuttavia quasi
sempre leggibile a occhio nudo o con mezzi endoscopici, la lezione provenien-
te da un esemplare di tradizione assai diversa e piú tarda, vicina alla vulgata del
gruppo Strozziano (cfr. oltre): correggendo errori del trascurato copista, ma
anche cancellando lezioni arcaiche e buone. Che la seconda mano non sia la
stessa, come credette il Bertoni, è dimostrato anche dal diverso colorito lingui-
stico che non presenta i tratti marchigiani (p. es. art. lu, -nğ- > -ñ-, metafonesi
ecc.) dell’originale. Ecco dunque che qui, entro un solo ms., è possibile distin-
guere due tradizioni nella loro stratificazione cronologica, e cogliere in atto il
processo di «ringiovanimento» e di livellamento del testo. [...]

1.8. [ALFA E BETA?]

Nella lezione fondamentale delle testimonianze piú antiche, Mart (e Triv) da un


lato e La dall’altro, sembrano delinearsi due tradizioni diverse (anche se oggi
l’esistenza di due famiglie α e β di cui essi sarebbero i rappresentanti piú anti-
chi non appare affatto sicura e dimostrata), ma soprattutto attraverso di esse si
manifesta in atto un intenso processo di contaminazione. Fra gli altri mano-
scritti di sicura antichità alcuni sembrano avvicinarsi piuttosto al primo che al
secondo filone: fra questi il già ricordato Rb, trascritto dal bolognese maestro
Galvano col commento del Lana intorno al 1340; il Vaticano Urb. lat. 366
(Urb) trascritto in Emilia nel 1352; il cod. di Madrid, Bibl. Nac. 10186 (già L.
110) trascritto da un copista ligure nel 1354 (Mad); il cod. di Palermo, Bibl.
Naz. XIII. G. 1, della metà del secolo (Pal. XIII.G.1). Fra i codici piú antichi

© Alfonso D’Agostino 19
APPUNTI SUL TESTO DELLA COMMEDIA DANTESCA

vanno inoltre ricordati il cod. di Firenze, Bibl. priv. Ginori Venturi (Gv),1 che
contiene il solo Paradiso e porta la data del 1338, la cui autenticità è contestata
ma probabilmente attendibile; il cod. di Berlino, Staatsbibl., Hamilton 203
(Ham), trascritto a Pisa dal mercante lucchese Tommaso Benetti nel 1347; il
cod. di Parigi, Bibl. Nat., it. 538 (Pa) già ricordato, trascritto nel 1351 dal copi-
sta (forse padovano) Bettino de Pilis col commento del Lana, col quale si può
menzionare l’altro Parigino it. 539 (Pr) non datato ma della stessa epoca; il cod.
di Firenze, Bibl. Laur., XL. 22 (Laur) trascritto nel 1355 forse nelle Marche
(Sassoferrato?), e l’altro Laur., XL. 36 (L 36); il cod. Belgioioso della Trivulzia-
na di Milano (Tz); il cod. già ricordato di Chantilly, Musée Condé, ms. 597 (Cha)
col commento di Guido da Pisa; il cod. di Bologna, Univ. 1638 (BU),2 col com-
mento di Pietro di Dante (redazione edita dal Nannucci); il codice di Londra,
Brit. Mus.,3 Egerton 943 (Eg), col quale si può ricordare l’altro Egerton 3017
(Eg 3017) proveniente dalla biblioteca Rinuccini e affine a La e al gruppo dei
«Cento»;4 quello di New York, Pierpont Morgan Libr. M. 289 (Morg. M 289); il
Vat. lat. 8376 (Vat. 8376: cfr. sotto); il cod. di Parma, Bibl. Pal., 3285 (Parm); il
cod. della Bibl. Universitaria di Budapest (Bud) trascritto e miniato a Venezia in-
torno alla metà del sec. XIV; tutti sicuramente o presumibilmente non poste-
riori al 1355.
Ritenuti un tempo antichissimi, ma da collocare comunque non molto ol-
tre la metà del secolo, sono il già menzionato cod. di Francoforte detto Arci-β
(Franc) col commento del Lana; il Cod. Colombino di Siviglia, Bibl. Capit., 7. 5.
40 (Si), contenente l’Inferno con le chiose del Bambaglioli; il cod. di Cortona,
Bibl. Com., cod. 88 (Co), copiato e miniato da Romolo Lodovici di Firenze; e
quelli di Firenze, Bibl. Laur., Ashb. 828 (Ash), che se non è del 1335 (secondo
la data apposta da una seconda mano alla fine del codice) sarà apografo non
molto piú tardo di un codice di quell’anno, e l’altro della Bibl. Naz., Pal. 313,
con le chiose di Jacopo Alighieri, il famoso codice miniato già appartenente a
Gaetano Poggiali (Po), che tentò di dimostrarlo anteriore al 1330 e di identifi-
carlo col cod. A del 1329, posseduto come abbiamo visto da Luca Martini,
mentre non è certo anteriore alla metà del secolo. [...]

1.9. [GRUPPO DEL CENTO]

Abbiamo lasciato finora espressamente da parte il blocco piú ampio, compatto


e centrale della tradizione trecentesca della Commedia, che ha la sua solida base
a Firenze intorno alla metà del secolo, all’ingrosso fra il 1340 e il 1360. Siamo

1 Ora a Ravenna, Convento di S. Francesco, Centro dantesco dei frati minori conven-
tuali, C 5.
2 Non capisco a quale codice si riferisce.
3 Ora British Library.
4 Si direbbe meglio «del Cento» (forse errore di stampa, cf. infra, § 9).

© Alfonso D’Agostino 20
CAP. I – IL SAGGIO DI UN MAESTRO

nell’età del Decameron, età per Firenze di grande espansione economica e di alta
coscienza di un primato culturale e linguistico che ha i suoi primi fondamenti
nella Commedia. La nuova borghesia mercantile ricca e aperta alla cultura volga-
re ricerca sempre piú il poema di Dante, a Firenze e fuori, sicché si organizza a
Firenze una forte produzione commerciale in serie tale da rispondere
alla crescente domanda. I prodotti di questi scriptoria fiorentini della metà del
secolo, giunti fino a noi numerosi, sono il segno del predominio economico e
culturale fiorentino e dell’importanza che le classi dirigenti fiorentine, formate
essenzialmente di mercanti, attribuiscono a questa attività editoriale (basti pen-
sare al Boccaccio editore di Dante). I nitidi spaziosi esemplari fiorentini, ele-
gantemente scritti su due colonne, tendenti ad uniformità nella scrittura (con
tipi cosí simili che è spesso estremamente difficile distinguere i prodotti di ma-
ni diverse) e anche nella ortografia, sembrano invadere allora il mercato ed a-
vranno certo eliminato molte tradizioni concorrenti. Si assiste cosí al formarsi
di una «vulgata» normalizzatrice e livellatrice, risultato di un vasto
processo di conguaglio orizzontale: anche nella lingua si verifica una evidente
normalizzazione, in senso fiorentino alquanto popolareggiante, e spesso un
rammodernamento dei tratti fiorentini arcaici, secondo il gusto mutato.
Il maggiore filologo e dantista fiorentino del ’500, Vincenzio Borghini, os-
serva in una sua interessante Lettera intorno ai manoscritti antichi (in Opusc. ined. e
rari, Firenze, 1844, t. I, pp. 23-4)1 che gli amanuensi del sec. XIV «furono per
la maggior parte persone che ne teneano bottega aperta, e vivevano di scrivere
i libri a prezzo: e si conta d’uno che con cento Danti ch’egli scrisse, maritò
non so quante figliuole; e di questi se ne trova ancora qualcuno, che si chia-
mano “di quei del Cento”, e sono ragionevoli, ma non però ottimi». A parte
l’acuto giudizio sul valore complessivo di questa tradizione, «ragionevole» ma
davvero non «ottima», si deve notare che l’aneddoto sul copista di «cento Dan-
ti», in sé non incredibile e certo antico e fondato sull’evidente appartenenza di
molti esemplari alla stessa mano e sull’«aria di famiglia» che lega fra loro le
mani di questi atéliers fiorentini oltre che sulle notizie di questa florida attività
editoriale (in un ms. fiorentino della Commedia, il Laur. XL. 16 [Lau] si trova già
la dichiarazione – ma di mano assai posteriore al codice, del sec. XV – «Que-
sto Dante de ciennto»), indusse alla fine del secolo scorso alcuni studiosi, co-
me il Tauber e il Marchesini ad attribuire tutti gli esemplari noti di questa serie
fiorentina ad uno stesso copista, che venne identificato con l’unico che si sot-
toscriveva in uno di essi, appunto quel Francesco di ser Nardo da Barberino
che già ben conosciamo come il trascrittore di Triv, nel 1337. Ma a lui appar-
tiene sicuramente con Triv solo quel manoscritto, il Laurenziano XC sup. 125
(Ga),2 trascritto da lui nel 1347 (come risulta dalla sottoscrizione a c. 80 v:
«Franciscus Ser Nardi me scripsit in florentia. Anno domini MCCCXLVIJ

1 Ora in Vincenzio Borghini, Lettera intorno a’ manoscritti antichi, a c. di Gino Belloni,


Roma, Salerno Editrice, 1955, pp. 21-2.
2 Rectius 125b.

© Alfonso D’Agostino 21
APPUNTI SUL TESTO DELLA COMMEDIA DANTESCA

Ind. Jª») e giuntoci purtroppo mutilo (cc. 7-89: Inf. XII 10 - XXXIV; Purg. II-
XXXIII; Par. I 139 - XI 45, XXI 112 -XXXIII): di un altro ms. probabilmente
copiato da lui rimane un frammento (Par. V 77-140 - VIII 70) nell’Arch. di
Stato di Modena (Mo), mentre piú dubbia appare l’attribuzione di un altro
frammento (Inf. XXIII 31 - XXV 54) di Modena, Bibl. Est., ms. Campori M.I.
19 (Mo). Di mano sua, con la sigla F. N., abbiamo anche nel Ricc. 1523 una
versione di Boezio che si trova unita in Ga al testo della Commedia. È notevole
intanto che Ga rappresenti una tradizione molto diversa, e in complesso assai
meno autorevole di Triv, anteriore di un decennio (Mo, piú vicino a Ga, ne di-
verge tuttavia sensibilmente); e se negli altri esemplari «del Cento», una trenti-
na, vanno riconosciute alcune mani diverse e coeve, è probabile che a France-
sco di Ser Nardo vada riconosciuta una posizione di primo piano come copi-
sta-editore, forse quella di direttore di un atelier scrittorio.
Fra gli esemplari «del Cento», una sezione particolare è rappresentata dal
cosiddetto «gruppo Strozziano» (s), costituito dalla serie compatta dei cinque
Laurenziani Strozz. 149, 150, 151, 152, 153 (S 149 ecc.), copie di bottega assai
accurate e meccaniche dovute ad una sola mano (probabilmente la stessa che
ha trascritto il famoso Canzoniere Chigiano L. VIII. 305), e dagli altri Laur.
XL. 14 e XL. 16 (Laur. 40 14, Lau), Laur. Acq. 86 (Laur. Acq. 86), Laur. Ashb.
831 (Ashb. 831), dal Riccardiano 1010 (Ricc) molto accurato, dall’altro Ricc.
1048 (Ricc. 1048), e infine dai frammenti (Purg. XXV 40 - XXVII 78; Par. II 7 -
III 21) contenuti in due pergamene di Sarzana, Arch. notar. (Sa).
Al «gruppo del Cento» (c) in senso ristretto, cioè con la sottrazione del
«gruppo Strozziano», appartengono, insieme con Ga (e anche Mo), molti altri
codici trascritti a Firenze intorno alla metà del sec. XIV: il Laur. Ashb. 829
(Ashb. 829), il Laur. Ashb. 1 app. dant. (Ashb. App. 1), il celebre codice Mala-
spina, i Laurenziani XL. 12, XL. 15, XL. 35 (Laur. 40 12, Laur. 40 15, Laur. 40
35), i due della Nazionale di Firenze II. I. 130 e II. I. 132, il Vaticano Urb. 378
(Urb. 378) della stessa mano di Laur. 40 35, i Marciani it. Zan. 50 e 51 (Marc.
Zan. 50, Marc. Zan 51), il codice di Milano, Bibl. Naz. Braidense, AN. XV. 17½
(Br. AG XIII 41), il codice Lolliniano 35 (Lo) della Bibl. del Seminario di Bellu-
no, e qualche altro. [...]

1.10. [GRUPPO VATICANO]

Una tradizione affine, legata alla stessa produzione editoriale fiorentina in una
fase seriore, oltre la metà del secolo, e in particolare all’attività del Boccaccio
copista-editore della Commedia, è costituita dal cosiddetto «gruppo Vaticano»
(v), come si chiama, dal Moore in poi, il gruppo degli affini e dei derivati delle
copie boccaccesche. Secondo il Casella questo gruppo costituirebbe una rami-
ficazione di β collaterale a quella rappresentata da c e s. Fra i rappresentanti piú
antichi ed autorevoli di v è il Riccardiano 1012 (Ricc. 1012), col quale si alli-

© Alfonso D’Agostino 22
CAP. I – IL SAGGIO DI UN MAESTRO

neano molti altri, fra cui il Laur. XL. 13 e il Vat. Barber. 3644; ma il piú noto e
insigne per il peso che ha esercitato sulla tradizione è il Vaticano lat. 3199
(Vat), identificato con l’esemplare di dedica che il Boccaccio inviò al Petrarca,
probabilmente nel 1359, se a questo dono si riferisce la famosa lettera del Pe-
trarca al Boccaccio, Fam. XXI 15 (ma il Billanovich suppose che il codice fosse
recato al Petrarca in Avignone nel novembre 1351 da Forese Donati, che sa-
rebbe l’editore del «primo testo critico», cioè di Mart del 1330), e posseduto dal
Petrarca serví piú tardi a Pietro Bembo come base per la sua edizione Aldina
del 1502. Il Boccaccio si serví forse di un collaterale di Vat (eseguito proba-
bilmente dallo stesso copista fiorentino che avrà lavorato sotto la sua direzio-
ne) come base per le tre copie autografe che di lui ci rimangono e che sono, in
ordine di trascrizione, il già ricordato capitale Toledano Zelada 104. 6 [To], tra-
scritto secondo il Billanovich fra il 1357 e il 1359 e forse anteriore (ma altri,
come il Petrocchi, lo ritengono posteriore d’una diecina d’anni), il Riccardiano
1035 (Ri) contenente anche la silloge delle 15 «canzoni distese» di Dante, infi-
ne il Vaticano Chig. L. VI 213 (Chig), l’ultima copia eseguita dal Boccaccio
probabilmente poco prima che egli iniziasse la sua «lettura» di Dante in S. Ste-
fano (23 ott. 1373). Nei tre mss. ogni cantica è preceduta da un «Capitolo» in
terza rima che ne riassume la materia: la paternità di questi sommari poetici è
certo boccaccesca.
Le copie della Commedia esemplate dal Boccaccio si inseriscono, come ab-
biamo visto, in un piano generale di edizione di opere poetiche volgari, con la
Vita Nuova e le 15 canzoni: le progressive divergenze dal testo-base documen-
tate dalle tre copie successive non smentiscono la dipendenza di esse da
un’unica fonte, rappresentata da Vat o da un suo gemello, rispetto alla quale
sono presenti varie innovazioni congetturali dovute al Boccaccio e assai spesso
arbitrarie, confermate in parte dal suo commento ai primi 17 canti dell’Inferno,
o «Esposizioni sopra il Dante». Per l’autorità del copista la tradizione della
Commedia rappresentata dalle «edizioni» del Boccaccio ebbe notevole fortuna
nel tardo Trecento e nel Quattrocento e contribuí grandemente al diffondersi
di una «vulgata» seriore, in complesso assai poco genuina. Ma il «gruppo Vati-
cano», se linguisticamente rappresenta la stessa tendenza fiorentina volgareg-
giante di c e s, sembra mostrare talora, soprattutto in rima, tendenze piú con-
servative e arcaizzanti. [...]

1.11. [LAUSC]

Un altro importante episodio fiorentino della tradizione della Commedia è rap-


presentato dal cod. Laurenziano S. Croce XXVI sin. 1 (LauSC), trascritto da
Filippo Villani (come attesta anche un’annotazione di un antico possessore del
codice e amico del Villani, Tebaldo della Casa, ora a c. 215) non sappiamo
quando, perché la data del 1343 attribuita al codice della mano quattrocentesca

© Alfonso D’Agostino 23
APPUNTI SUL TESTO DELLA COMMEDIA DANTESCA

di Sebastiano de Bucellis non è attendibile, ed esso andrà assegnato alla secon-


da metà del ‘300 e probabilmente all’ultimo quarto. Si tratta anche qui di un
vero e proprio tentativo di restauro critico del testo, che attinge a diverse tra-
dizioni e le contamina: alla base starebbe una tradizione particolarmente rara
ed arcaica, vicina e probabilmente collaterale a quella rappresentata da Mart e
Triv, ma essa appare corretta e contaminata con una tradizione piú recente, af-
fine a quella rappresentata da Vat.
Linguisticamente il cod. Villani rappresenta tendenze ortografiche piú au-
liche degli altri mss. fiorentini, ma è difficile stabilire quanto vi possa essere at-
tribuito a conservazione arcaica e quanto invece a innovazione preumanistica:
appaiono indubbie tendenze latineggianti (p. es. nell’uso dei nessi di cons.+l,
delle forme non dittongate ecc.). E anche questi fatti inducono a inquadrarlo
in un’epoca piuttosto tarda del sec. XIV. È certo che a questo codice la filolo-
gia ecdotica dantesca, dal Witte in poi, ha attribuito forse un peso eccessivo,
facendone un caposaldo del testo oggi corrente: ma ci pare indubbio che esso
conservi, anche se contaminata, una tradizione molto antica e autorevole, e
che esso vada considerato il primo, e l’unico finora noto, dei recentiores non dete-
riores d’età umanistica, risalenti la corrente della tradizione verso acque piú lim-
pide e meno contaminate, alla ricerca di antichi esemplari.
Fra gli altri codici piú noti e studiati della seconda metà del Trecento, ba-
sterà qui ricordare il codice della Bibl. priv. Caetani di Roma (Cae), rubato nel
1945 e non ancora riemerso1 (contiene il commento di Benvenuto da Imola), il
codice della Bibl. priv. Florio già ad Udine (Florio), il codice Bartoliniano della
Bibl. civ. di Udine (Bart.), il codice Filippino della Bibl. Oratoriana di Napoli (Fi),
il cod. 512 della Bibl. del Monastero di Montecassino (Cass.), giudicato dal Pe-
trocchi di poco anteriore al 1368, contenente una importante redazione del
commento di Pietro di Dante, il cod. 1101 della Bibl. Angelica di Roma (An),
già utilizzato dal Moore: tutti tenuti presenti dal Petrocchi nel suo lavoro pre-
paratorio per una nuova edizione della Commedia fondata sull’antica tradizione
con alcuni riscontri piú recenti. Assai tardo (1398) è il cod. Laur. Tempi 1
(Temp. 1), noto come «Codice Tempiano Maggiore», che ha goduto in passato
di fama non del tutto meritata.
Troppo scarso interesse è stato rivolto secondo noi finora, dopo gli ampi
sondaggi del Moore, alla tradizione manoscritta della Commedia nel ‘400, che
è quantitativamente la piú ricca (comprendendo all’incirca i 2/3 di tutti i mss. a
noi noti), geograficamente la piú estesa, socialmente la piú varia e differenziata.
Certo, dato il progressivo livellamento e l’inquinamento e la confusione delle
acque col predominio di una vulgata corrotta e banalizzata, non molto di ge-
nuino si potrà ricavare dalla tradizione tarda: e tuttavia crediamo che non pos-
sano essere escluse sorprese di recentiores attingenti ancora alla tradizione piú
antica, p. es. in aree laterali conservative o isolate, oppure in area centrale co-
me nella Firenze di Lorenzo dei Medici, ricca di interessi storici e filologici per
1 Il codice è stato ritrovato nel 1979 (Petrocchi, Introduzione, p. 571).

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CAP. I – IL SAGGIO DI UN MAESTRO

la letteratura antica e i codici antichi: tanto piú che sappiamo che per tutto il
‘400 come poi nel ‘500 circolarono antichissimi esemplari poi perduti. Di fron-
te a proposte recenti, pur ragionevoli come quelle del Petrocchi, di limitare eu-
risticamente l’indagine ai soli testimoni piú antichi, crediamo che la via maestra
sia ancora quella lunga e difficile della recensio totale, e non saltuaria e meccani-
ca com’è stata spesso finora, ma attenta all’età e alla storia individuale dei ma-
noscritti, ai centri fondamentali della tradizione, ai nodi culturali che essa pre-
suppone, alla storia linguistica che si svolge all’interno di essa. [...]

1.12. [EDIZIONI A STAMPA]

Le prime edizioni a stampa non hanno molta importanza per il testo, da-
to che esse rappresentano per lo piú la riproduzione di un codice qualsiasi (di
solito di tradizione recenziore) con interventi congetturali arbitrarî e maldestri,
piuttosto che un lavoro anche embrionale di recensione critica, di editio vario-
rum; grandissima è invece la loro importanza culturale e linguistica. L’editio prin-
ceps della Commedia appare nel 1472 (dopo quelle del Canzoniere del Petrarca, del
1470, e del Decameron del Boccaccio, del 1471) a Foligno, promossa da Evange-
lista Angelini da Trevi e stampata da Giovanni Numeister di Magonza (11 a-
prile 1472), gremita di errori ma rappresentante una tradizione migliore di
quanto si sia detto, e migliore talora anche della famosa Aldina del Bembo: i
diversi esemplari noti presentano fra loro numerose divergenze; dello stesso
anno sono le edizioni di Venezia (già creduta di Iesi), «A Federico [de Comiti-
bus]», 18 luglio 1472, e quella di Mantova per «magister Georgius & magister
Paulus [di Butzbach, presso Francoforte] Teutonici».
Le edizioni successive si fondano spesso sulle precedenti: cosí quelle di
Napoli, dell’aprile 1477 [stamp. Mathias Moravus?], e del 1479, la ingiustamen-
te famosa edizione di Francesco Del Tuppo (s. d. ma del 1479) ritenuta un
tempo assai anteriore, che riproducono indipendentemente, correggendo erro-
ri ma spesso storpiando ulteriormente, esemplari dell’ed. di Foligno. Impor-
tante l’ed. di Venezia, di Vindelino da Spira («De Spira Vendelin fu il stampa-
tore») del 1477, col commento di Iacopo della Lana (ma attribuito a Benvenu-
to da Imola), e piú l’ed. di Milano detta «Nidobeatina», curata da «Martinus
Paulus Nidobeatus [cioè Nibbia] Novarensis cum Guidone Terzago» col
commento del Lana riveduto e alterato dal Nibbia, stampata da «L. & A. Pe-
demontani» nel 1477; ma la piú fortunata fu indubbiamente la princeps di Firen-
ze, per «Nicholò di Lorenzo», 1481, col nuovo commento di Cristoforo Lan-
dino (e con le splendide illustrazioni attribuite a Sandro Botticelli): l’ed. e il
commento del Landino dominano per tutta la fine del ‘400 ed oltre attraverso
numerosissime ristampe (Venezia, O. Scoto, 1484; Brescia, B. d Boninis, 1487,
Venezia, B. Benalio e M. di Codecà [Capocasa], 1491 Pietro Veronese [de Pla-

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APPUNTI SUL TESTO DELLA COMMEDIA DANTESCA

siis], 1491, M. di Codecà, 1493, Pietro d Quarengii, 1497 ecc.) fino all’ed. del
Bembo.
Dell’edizione di Pietro Bembo «in aedib. Aldi» [A. Manuzio], Venezia
1502 (che segue a un anno di distanza all’ed. aldina del Petrarca «Le cose vol-
gari» curata dal Bembo) possiamo ricostruire minutamente le fonti e la prepa-
razione, e il metodo editoriale che non si distacca affatto dalle precedenti se
non per le cure ortografiche e linguistiche. Il Bembo si serví del codice del Pe-
trarca, il Vat. 3199 (Vat), già posseduto e postillato da suo padre Bernardo
Bembo (amici del Landino e, assai piú del figlio, legato al culto di Dante): ne
trasse una copia autografa con interventi congetturali e regolarizzazioni orto-
grafiche (cod. Vat. 3197) che serví come esemplare per il tipografo che la ri-
produsse fedelmente. La troppo celebrata edizione del Bembo fissò poi il tipo
della «vulgata» tradizionale di gusto classicistico e formalistico: questo gusto è
evidente fin nel titolo «Le terze rime», polemicamente innovatore. La vulgata
del Bembo (anche con la importante riedizione veneziana del 1515 «Nelle case
d’Aldo & d’Andrea di Asola») domina per tutto il ‘500, nelle moltissime edi-
zioni che non portano nulla di sostanzialmente nuovo nel testo, mentre si rin-
nova il commento con A[lessandro] Vellutello (Venezia, Marcolini 1544),
B[ernardino] Daniello (Venezia, Pietro da Fino, 1568) e altri: solo a Firenze
esplorazioni nuove della antica tradizione manoscritta per opera prima di Be-
nedetto Varchi e poi soprattutto di Vincenzio Borghini e della sua cerchia e di
Jacopo Salviati e degli Accademici della Crusca approdano al primo tentativo
moderno di edizione critica, che è il testo edito a Firenze, Domenico Manzani,
1595, dagli Accademici della Crusca con l’utilizzazione di mss. antichi (alcuni
dei quali perduti), ma riferito ancora all’ed. del Bembo, le cui lezioni diverse da
quelle adottate sono segnate in margine.
La fortuna editoriale della Commedia tocca il punto piú basso nel sec. XVII
con appena 3 edizioni, ma risorge vigorosa nel sec. XVIII, p. es. con la nuova
edizione «ridotta a miglior lezione dagli Accademici della Crusca», Napoli, Lai-
no, 1716, e con quella di G. A. Volpi, Padova, Comino, 1726-7, e poi coi primi
tentativi di edizione di Opera omnia di Dante compiuti dagli editori veneziani
Pasquali e Zatta. [...]

1.13. [STUDI FILOLOGICI. PERAZZINI]

Il primo a formulare criteri sostanzialmente nuovi in materia di critica del testo


della Commedia (e in genere di critica di testi moderni) fu il veronese Bartolo-
meo Perazzini, arciprete di Soave, il piú acuto critico del testo e dantista del
sec. XVIII (anche se la sua opera è tuttora pressoché ignota), nelle sue Correc-
tiones et adnotationes in Dantis Comoediam (1775). Egli prospetta qui l’esigenza del-
la recensio dei mss. su basi geografiche e della loro classificazione genealogica,
sull’esempio di quanto avevano cominciato a fare in Italia le cerchie piú avan-

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CAP. I – IL SAGGIO DI UN MAESTRO

zate della filologia biblica e medievale, quella modenese del maurino


B[enedetto] Bacchini e di L[udovico] Muratori e quella veronese di S[cipione]
Maffei, soprattutto sull’esempio dell’ed. di S. Girolamo (Verona 1734 ss.) di
Domenico Vallarsi: e parallelamente a quanto veniva affermando in Germania,
prima del Lachmann, la philologia sacra protestante, col Wettstein, col Bengel e
col Semler fino al Griesbach.
Il Perazzini svolge una vivace polemica contro il culto dell’«ottimo» codi-
ce e contro i criteri eclettici dei Fiorentini Editores, gli Accademici della Crusca
(cfr. p. es. p. 56 op. cit.: «Quid vero si forte Florentini Editores praejudiciis acti
sint BONI interpretis, textus SACRI, vel OPTIMI codicis? nemo enim bonus
Dantis interpres dicendus est, cum nullus hominum quocumque ingenio et
quantavis eruditione praeditus omnia ejus mysteria revelare aut potuerit aut
possit, neque textus ullus sacer sit, nisi primum perfecte emendatus fuerit, cum
neque unum librum invenire fortuna sinat, qui ab amanuensium erroribus sit
prorsus immunis»). Il Perazzini afferma anzitutto il criterio della lecito difficilior,
fondato sulla contrapposizione tra fidelitas e diligentia: «Duae... sunt probatorum
codicum dotes: prima est, ut fideliter id referant, quod corruptum esse videa-
tur neque sit; altera, ut diligenter minuta quaedam, quae tamen tuta sint et ve-
ra, exhibeant, in quibus librarii ut plurimum falluntur... Et hoc moneo: indoc-
tum vel pretio conductum amanuensem facilius fidelem invenias quam diligen-
tem; contra vero in transcriptore erudito et libero cave ne forte diligentior fue-
rit quam fidelis». Perciò è indispensabile localizzare preventivamente i mss.,
anche per conoscere il grado di penetrazione e intelligenza linguistica che il
copista può avere del testo: «Non nihil intererit scire num codex Florentiae an
in alia qualibet Italiae parte transcriptus sit... » (op. cit. p. 55). In secondo luogo
è affermato, in linea di principio se non di fatto, il criterio della recensio e della
eliminatio codicum descriptorum: «Neque sufficit codices fideles quoad fieri possit
et accuratos elegisse: nam pensanda est insuper eorum auctoritas quae a fonti-
bus unde fluxerunt arguitur... Si constaret, inquam, textus omnes mss. qui Lu-
cae vel Florentiae asservantur ab uno eodemque exemplari transcriptos, non
plurium sed unius codicis pondus haberent et auctoritatem».
Particolare rilievo vien dato dal Perazzini all’usus linguistico dei mss. in
rapporto col criterio enunciato della lectio difficilior, «ut per fideliores et accura-
tiores codices mss. vividum illud et grammaticum dicendi genus, quod Aucto-
ris proprium est, restituatur» e aggiunge, op. cit. p. 55: «Quis enim aliunde sciat
num ille dixerit v. g. el pro ei vel egli...; saepius trono quam tuono, dove quam ove;
aliquando autem como, collo, curro pro come, colle, carro, sine rhythmi necessitate;
Fiorenza, nunquam Firenze, Pantasilea, non Pentesilea, et plura his similia?»): ma il
criterio dell’usus dei mss. va confermato attraverso la valutazione intrinseca
dell’usus Poetae (cfr. p. 66) che è il fondamento principale della critica congettu-
rale. In questo campo il Perazzini svolge i suoi piú acuti interventi fondati
spesso su considerazioni generali come quelle sull’accentazione medievale delle
barbarae voces, greche o ebraiche (cfr. p. 65), mentre per i troppo modesti mezzi

© Alfonso D’Agostino 27
APPUNTI SUL TESTO DELLA COMMEDIA DANTESCA

a disposizione ancora scarsa è l’utilizzazione della tradizione manoscritta. Ed ai


ciechi difensori della « vulgata » tradizionale che lo accusavano di innovazioni,
il Perazzini poteva rispondere con un Corollarium III (p. 67) che sintetizza
molto efficacemente la sua posizione polemica: «Potiori est in iure antiqua lec-
tio neglecta quam recentior, licet vulgatissima sit. Non ergo innovator dicen-
dus ego, sed qui textum olim receptum immutaverunt». [...]

1.14. [DA WITTE A VANDELLI]

Le acute intuizioni metodologiche e i principi di sana critica dantesca del Pe-


razzini ebbero scarso sviluppo anche da parte di diretti continuatori come
Gian Jacopo Dionisi, La D. C., Parma, 1795, e Preparazione istorica e critica alla
nuova ed. di Dante, Verona, 1806, e il padre Baldassarre Lombardi, La D. C.,
Roma, 1791 (e infine, dopo numerose riedizioni, Prato, 1847-52), i quali pur
giovandosi largamente dei materiali del P[erazzini], non intesero la novità dei
principi da lui enunciati né seppero svolgerli.
Reali novità nell’impostazione del problema del testo non portarono né
Ugo Foscolo, nel discorso sul testo La Commedia di Dante illustrata, Londra,
1825 (e cfr. l’ed. postuma curata da G[iuseppe] Mazzini sui mss. foscoliani,
Londra, 1842-3), dove pure si trovano sparse enunciazioni importanti, come il
principio della lectio difficilior e quello dei recentiores non deteriores, né gli Accade-
mici della Crusca nell’ed. fiorentina del 1837 «ridotta a miglior lezione da
G[iovanni] B[attista] Niccolini, G[ino] Capponi, G[iuseppe] Borghi e
F[ruttuoso] Becchi», con appendice critica sulle correzioni apportate al testo.
Il primo a dare un’impostazione veramente nuova al problema del testo
della Commedia (come di quasi tutte le opere minori) fu Carlo Witte (1800-83) il
piú operoso e maggiore filologo dantesco del sec. XIX oltre che storico del di-
ritto, il quale, dopo quasi un quarantennio di ricerche, iniziate quand’era gio-
vanissimo nelle biblioteche fiorentine e in molte altre biblioteche europee (vide
e collazionò circa 450 mss. della Commedia: le collazioni complete dell’Inf. III
sono conservate alla Bibl. Univ. di Strasburgo), forní nel 1862 la prima edizio-
ne critica fondata unicamente sulla tradizione manoscritta con l’applicazione
metodica e fruttuosissima del criterio della lecito difficilior. Giudicando impossi-
bile risalire attraverso la genealogia dei mss. all’originale o all’archetipo, dato il
progressivo corrompersi e contaminarsi della tradizione, egli pensò di limitare
la sua scelta a 4 mss. del sec. XIV da lui ritenuti particolarmente autorevoli
(LauSC, Vat, Rodd,1 Cae) e di fondare soltanto su di essi il suo testo, anche ri-
nunciando a lezioni preferibili di fonte diversa, e offrendo in apparato la do-
cumentazione completa di queste fonti e inoltre della «vulgata» a stampa
(l’Aldina del 1502 e le due edizioni della Crusca del 1595 e del 1837), il che fe-

1 Berlino, Deutsche Staatsbibliothek, Ital. 136 (già London, Rodd Library).

© Alfonso D’Agostino 28
CAP. I – IL SAGGIO DI UN MAESTRO

ce con rigore anche se non sempre con esattezza. Per quanto i testimoni scelti
non fossero fra i piú antichi, e tutti del secondo Trecento, il Witte ebbe intuito
felice nel fondare il suo testo principalmente sul codice del Villani, LauSC, che
noi sappiamo essere un antico tentativo di «edizione critica», risultato di un
oculato conguaglio di tradizioni diverse, certo preferibile alla tradizione rap-
presentata da Vat (e dalle edizioni del Boccaccio), fonte principale della «vul-
gata» a stampa. Per questo l’ed. Witte risultò di gran lunga migliore di tutte le
precedenti, anche se fondata su una recensio cosí limitata: e i Prolegomeni del Wit-
te segnano l’affermarsi di criteri scientifici e moderni di critica testuale. Si o-
scillò da allora in poi fra tentativi, per lo piú appena delibati, di recensio e classi-
ficazione genealogica complessiva (sulla base del grande inventario di Colomb
de Batines, Bibl. dant., Prato, 1846), e la ricerca di nuovi criteri conseguente al
fallimento di questi tentativi. Adolfo Mussafia, «Sul testo della D. C.: i codici di
Vienna e di Stoccarda», in Sitzungsber. d. kaiserl. Akad. der Wissetisch., Wien,
XLIX (1865), p. 141 ss., sostenne la prima via, quella, dopo l’inizio del Witte,
di «procedere alacremente ad esaminare da un capo all’altro il maggior numero
possibile di mss. e darne relazione esatta e completa, cosicché a mano a mano
riesca metterne in chiaro la vicendevole relazione e ridurre a pochi capi
l’esuberante loro quantità». E in vista di questo scopo, Ernesto Monaci, «Sulla
classificazione dei mss. della D. C.», in Rend. Acc. Lincei, Roma, 1888, stabilí
princípi di classificazione, assai semplicistici e molto meno sani di quelli fissati
poi da M[ichele] Barbi per la Società Dantesca Italiana nel Canone di luoghi scelti
(396 laci critici) già ricordato, del 1891.
Intanto uno scolaro zurighese di A[dolfo] Bartoli e di P[io] Rajna, Carlo
Täuber, incoraggiato dai maestri, aveva proceduto a una vastissima (circa 400
mss.) ma troppo frettolosa e incompleta (circa 100 loci critici) recensio ed era
giunto, attraverso un curioso procedimento eliminatorio simile alle fasi succes-
sive di un torneo sportivo, alla presunta identificazione di 17 «capostipiti», le
cui relazioni ultime restavano però indeterminate (C. Täuber, I capostipiti dei mss.
della D. C., Winterthur, 1889: che pure contiene notizie utili e osservazioni giu-
ste e valide, come il tentativo di cronologia dei mss., la precisa determinazione
della famiglia «vaticana» ecc.). Era facile a Vittorio Rossi, «Un nuovo lavoro sui
codici della D. C.», in Riv. delle biblioteche, II (1889), pp. 41-4, mostrare
l’infondatezza dei risultati del Täuber, mentre Carlo Negroni, Sul testo della D.
C., Torino, 1890, proponeva assai semplicisticamente di ricostruire il testo del-
la Commedia sui soli codici anteriori al 1350: criterio, oltre che metodologica-
mente errato, difficile da seguire dato che i codici sicuramente datati anteriori
al ‘50 si contano esattamente sulle dita di una mano e che molti sono fra i piú
antichi quelli di incerta datazione.
Era intanto apparso il lavoro piú ricco e fondato sul testo della Commedia
che sia stato finora prodotto, quello del Moore, preparatorio all’edizione di
Oxford del 1894, frutto di un’esplorazione larga e minuta e di un geniale empi-
rismo (E[dward] Moore, Contributions to the textual criticism of the D. C., including

© Alfonso D’Agostino 29
APPUNTI SUL TESTO DELLA COMMEDIA DANTESCA

the complete collation throughout the «Inferno» of all the mss. at Oxford and Cambridge,
Cambridge, 1889): il Moore rendeva noti i risultati della collazione parziale di
oltre 250 mss. e totale dei 17 mss. di Oxford e Cambridge per l’Inferno (del
quale forniva cosí l’ed. con l’apparato piú ricco finora esistente), e per una se-
rie di loci selecti, corrispondenti a cruces del testo, per le altre due cantiche; offri-
va una accurata descrizione di tutti i mss. utilizzati, fornendo preziosi elementi
per la precisa individuazione geografico-linguistica e cronologica di molti di
essi; e mentre affermava lucidamente l’impossibilità di una genealogia com-
plessiva, dato che la tradizione appariva contaminata fin dai rami piú alti, con-
tribuiva all’ulteriore determinazione di talune famiglie, come la «vaticana»; ma
soprattutto dava l’esempio concreto di una serie di applicazioni di criteri atti a
restaurare la lezione originale, come la lectio difficilior, l’usus scribendi, il rapporto
verticale con le fonti (cfr. p. es. App. I: Dantes references to classical authors as bear-
ing upon textual criticism). L’immenso lavoro si muoveva sulla linea di quello del
Witte, del quale si presentava modestamente come un’integrazione, confer-
mandone la bontà e presentando come conclusione (pp. 711-3) una brevissima
lista di correzioni proposte al testo del Witte (in tutto meno di 50).
Dal fondamentale lavoro del Moore partiva con intenti nuovi Michele
Barbi, Per il testo della D. C., Roma, 1891 (e poi soprattutto l’esemplare articolo
cit., in BSDI, N. S. IV [1897] pp. 137-58), affermando il principio della colla-
zione integrale dei mss. come premessa indispensabile per ogni ulteriore tenta-
tivo di soluzione, e mirando a conciliare il sano empirismo dei casi particolari
con l’esprit de système. Il canone per lo spoglio metodico dei mss. fissato dal
Barbi per la «Soc. Dant. Ital.», già ricordato, sembrò dare all’inizio buoni risul-
tati attraverso i lavori citati del Morpurgo, del Fiammazzo, del Marchesini, del
Barbi e del Vandelli, al quale la Società Dantesca affidò la realizzazione di una
nuova edizione critica: ma cominciò presto ad apparire insufficiente e limitato,
mentre esso rivelava sempre piú il groviglio inestricabile della tradizione. Il
Vandelli, attraverso un paziente vastissimo lavoro (il piú vasto e minuto che sia
stato forse compiuto sul testo della Commedia), del quale resta purtroppo una
documentazione minima, si convinse sempre piú dell’impossibilità di una clas-
sificazione dei mss., sia per la mancanza di troppi anelli alla catena sia per la
fusione insieme di molti anelli (si noti che egli aveva dato una delle prime e piú
valide applicazioni del metodo lachmanniano in campo italiano con la sua edi-
zione dei Reali di Francia, 1892): e venne limitando il suo scopo a una «edizione
provvisoria» che, dopo un primo saggio pubblicato nel 1902, egli forní, priva
purtroppo di apparato e di giustificazione, nella pur eccellente edizione della
Società Dantesca Italiana del 1921.
Nell’impossibilità di vagliare il peso delle lezioni, nella maggior parte dei
casi, in rapporto alla posizione dei mss., il Vandelli trovò che l’unica soluzione
era quella empirica e particolare di trattare come problema a sé le varianti di
ogni singolo passo, spostando in certo modo la ricostruzione genealo-
gica dai mss. alle varianti singole. Il suo principio direttivo fondamen-

© Alfonso D’Agostino 30
CAP. I – IL SAGGIO DI UN MAESTRO

tale fu questo: «la variante che si presceglie, mentre deve soddisfare alle esi-
genze del senso, deve insieme esser tale da rendere ragione del formarsi delle
rimanenti; deve, per dirla altrimenti, apparire di esse come la progenitrice o
necessaria o naturale, o almeno sommamente probabile». È un principio che,
per quanto fosse applicato dal Vandelli con grande ponderazione e finezza, la-
sciava un campo pressoché illimitato all’iudicium dell’editore, alla esperienza e
finezza dell’interprete.1 Eccellente uso fece d’altronde il Vandelli della sua pro-
fonda esperienza dell’usus volgare toscano dell’età di Dante per restaurare, con-
fortato d’altronde dagli studi e dalle esperienze di E[rnesto] G[iacomo] Parodi
e di M. Barbi, il colorito linguistico del poema nei suoi tratti arcaici e fiorentini,
sulla base della tradizione fiorentina piú antica, particolarmente di Triv (ma
non accogliendone i caratteri piú popolari), tenendo presente l’usus della gene-
razione di Dante e i caratteri intrinseci della lingua della Commedia, particolar-
mente in rima. Tale restauro linguistico suscitò soprattutto all’inizio fiere opposi-
zioni e polemiche, oggi molto ridotte anche se non del tutto spente: esso ri-
mane uno dei meriti fondamentali del Vandelli.

1.15. [CASELLA]

Una impostazione assai diversa dal problema del testo dette, dopo l’ed. del
Vandelli, Mario Casella, nel preparare, assistito da E. G. Parodi, una sua edi-
zione critica, purtroppo anch’essa priva di apparato e di giustificazione (Bolo-
gna, 1923), i cui fondamenti, enunciati nella introduzione, furono poi esposti
in un articolo «Sul testo della D. C.», in SD, VIII (1924), pp. 5-85. Già il Barbi
aveva affermato (art. cit. in BSDI, IV [1897] pp. 137-58) l’indipendenza di Triv
da tutto il resto della tradizione a lui nota. Sviluppando, con assai minore cau-
tela del Barbi, questa premessa (che pure, dopo che il Vandelli aveva dimostra-
to la dipendenza di Triv da Mart, veniva gravemente inficiata dalla originaria
contaminazione di questa tradizione), il Casella considerava tutta la tradizione
come bipartita in due famiglie inegualissime α e β, ritenute dipendenti da un
archetipo settentrionale, probabilmente bolognese o romagnolo, del quale as-
sai frettolosamente pensava di trovare le prove in supposti errori comuni ai
due rami dovuti a forme settentrionali conservate o non intese dai copisti (cosí
chi per che, Inf. IV 151, Par. XXIX 138; il metafonetico vidi per vedi, Inf. V 64-5;
rozza o roffa per roggia, Inf. XIX 33; si per sé, Par. XXXII 60). Nell’attesa di po-
ter stabilire se, oltre alle due osservate, esistessero altre tradizioni indipendenti
(la cui presenza avrebbe lachmannianamente facilitato il compito dell’editore),
il Casella formulava la sua ipotesi ricostruttiva nella seguente proposta stem-

1 In realtà si tratta di un raffinato strumento ecdotico, già messo in luce da Barbi


nell’ed. della Vita Nuova (1907) e poi teorizzato da Paul Maas (Textkritik, 1927); se applica-
to con buon criterio, non lascia affatto un campo pressoché illimitato al iudicium
dell’editore, che deve dimostrare i suoi asserti.

© Alfonso D’Agostino 31
APPUNTI SUL TESTO DELLA COMMEDIA DANTESCA

matica complessiva, che credo sia l’unica finora avanzata per la D. C. (adattia-
mo alle sigle precedentemente da noi usate, indicando anche i mss. che il Ca-
sella dichiara di aver utilizzato, ma la cui lezione non coincide per vero sempre
con quella da lui indicata nelle tavole dimostrative):

I codici utilizzati dal Casella sembravano essere stati solo quelli qui indicati, e il
fatto stesso che, a parte l’affermazione già tradizionale dell’esistenza dei tre
gruppi c, s, v uniti nella famiglia β onnicomprensiva (ceteri omnes), i rapporti alti e
altissimi dello stemma venissero fissati prima che si delineassero nei particolari
i rapporti dentro i piani piú bassi e quelli interni dei gruppi, e che le parentele
fossero determinate attraverso un numero assai ristretto di loci critici, indica la
precarietà e instabilità di questa costruzione.1
Del resto la stessa costituzione di α appariva affermata principalmente
«per via negativa», per l’assenza di errori comuni (e per lo piú supposti tali er-
roneamente) a β, piuttosto che per errori propri sicuri che non fossero lectiones
singulares di Triv.
Nella seconda parte del suo studio cit. il Casella esponeva d’altronde crite-
ri e conclusioni assai discutibili circa due punti molto delicati nella costituzione
del testo, cioè l’interpretazione della misura sillabica dei versi in rap-

1 In verità non è affatto cattiva prassi procedere dall’individuazione delle famiglie e


poi scendere a quella delle sottofamiglie, anzi è modus operandi da raccomandare, perché una
volta stabilite le prime sulla base dei soli errori comuni, le seconde si lasciano intravedere
anche in base alle lezioni caratteristiche comuni, cosa che non si può fare procedendo al
contrario, salvo continue petizioni di principio. Ciò che si può stabilire eventualmente per
ultimo è l’esistenza dell’archetipo, per il quale non sono indispensabili errori comuni (ossia
congiuntivi e separativi a un tempo), bastando quelli congiuntivi. Per tutto ciò si veda Al-
fonso D’Agostino, Capitoli di filologia testuale. Testi italiani e romanzi, Milano, CUEM, 20062.

© Alfonso D’Agostino 32
CAP. I – IL SAGGIO DI UN MAESTRO

porto alla dieresi e alla dialefe (attribuendo a Dante tipi eccezionali di endeca-
sillabo), e l’uso delle forme dittongate e non dittongate (dando del problema
della lingua una impostazione assai diversa da quella del Parodi, del Barbi e del
Vandelli).
Queste impostazioni trovarono subito recise opposizioni critiche, fra le
quali le piú vivaci e motivate furono quelle di S[antorre] Debenedetti, in Giorn.
stor. Lett, ital., LXXXV (1925), p. 353 […].
Vanno poi ricordate le edizioni assai pregevoli, anche se condotte con cri-
teri eclettici, curate da D[omenico] Guerri, Bari, 1933 («Scrittori d’Italia»), con
una lucida nota sul testo, e da N[icola] Zingarelli, Bergamo, 1934, con varianti
marginali. Ne discusse acutamente M. Barbi, «Ancora sul testo della D. C.», in
SD, XVIII (1934) pp. 5-57, poi in La nuova filologia e l’edizione dei nostri scrittori da
D. al Manzoni, Firenze, 1938, pp. 1-34: del Barbi cfr. anche per
l’interpretazione del testo i volumi Con Dante e coi suoi interpreti, Firenze, 1941 e
Problemi fondamentali per un nuovo commento alla D. C., Firenze, 1956.
Si attende ora, come uno degli apporti piú sostanziosi del centenario,1 la
nuova edizione critica affidata dalla «Società Dantesca Italiana» a Giorgio Pe-
trocchi. Il quale, come abbiamo già accennato, muovendo dalla constatazione
di un progressivo livellamento orizzontale e inquinamento della tradizione, ha
deciso di rifarsi, secondo la proposta già avanzata dal Negroni, ma con ben al-
tra consapevolezza e scaltrezza filologica, alla «tradizione piú antica», rappre-
sentata dai codici sicuramente databili o attribuibili a prima del 1355 (cfr.
d’altronde quanto propose da ultimo M. Barbi, SD, XXIII [1938], pp. 180-2).
In questo primo gradino il processo di contaminazione, già presente ma non
ancora molto avanzato, potrebbe lasciare la possibilità di stabilire, secondo il
Petrocchi, attraverso una collazione integrale, possibile per un numero limitato
di mss., una classificazione e una precisa individuazione di capostipiti: e so-
prattutto ne risulterebbero un testo e un apparato-base fondati sui mss. piú an-
tichi, come prima ipotesi di lavoro e punto di riferimento per l’esame ulteriore
del resto della tradizione manoscritta. [...]

1.16. [PETROCCHI]

I mss. presi a fondamento di questa proposta testuale sono, fra gli antichi, Ash,
Bo, Cha, Co, Eg, Ga, Gv, Ham, La, Lau, Laur, LauSC, Lo, Mad, Mart, Mo, Pa,
Parm, Po, Pr, Rb, Ricc, Sa, Si, Triv, Urb;2 fra i piú tardi, sempre trecenteschi, pre-
si come base di confronto della tradizione, sono An, Ba,3 Be (= Berlino, Staa-

1 Si rammenti che questo saggio di Folena uscí nel 1965, settimo centenario della na-
scita di Dante. L’ed. Petrocchi uscí poi negli anni 1966-67.
2 Fra i codici usati nell’ed. mancano Fi, Tz e Vat, mentre LauSC e Si sono usati come
codice di supporto, alla stregua dei mss. citati dopo.
3 Non so a quale cod. si riferisca.

© Alfonso D’Agostino 33
APPUNTI SUL TESTO DELLA COMMEDIA DANTESCA

tsbibl., cod. 136-2ª metà sec. XIV),1 Cae, Cass, Chig, Florio, Vat.2 La collazione di
questi mss., pur non permettendo per il momento al P[etrocchi] di giungere a
una classificazione nuova, ha mostrato che nella tradizione piú antica sono
presenti tutti i tipi principali di varianti posteriormente attestati. La proposta,
pur sollevando forti dubbi metodologici per le ragioni già accennate, potrà es-
sere valutata, come un’ipotesi di lavoro, solo alla prova dei fatti: e una precisa
registrazione della tradizione residua piú antica costituirà comunque un risulta-
to prezioso e duraturo. Delle tre vie che la critica del testo della Commedia ha
finora sperimentate, dopo aver abbandonato il dogmatismo del codice miglio-
re o l’eclettismo casuale, la prima, che è quella del Witte, del Moore e del Van-
delli, ha dato finora i risultati piú apprezzabili ma empirici; la seconda, del
Täuber e poi, su basi diverse, del Casella, non ha dato risultati sicuri per ecces-
so di fiducia o di precipitazione; resta da sperare che la terza, che prevede
l’utilizzazione preliminare della tradizione piú antica, porti un contributo utile
per avviare alla soluzione il piú arduo problema della filologia testuale italiana.
Ogni edizione critica è sempre del resto un progetto di lavoro, un punto di so-
sta e di partenza e non un traguardo finale. [...]

1 È il ms. Rodd di Witte.


2 In questo secondo elenco, che dovrebbe corrispondere a quello che Petrocchi esibi-
sce nell’Introduzione, p. 58, mancano i codd. Ri e To (oltre che LauSC e Si; cf. supra), mentre
ci sono in piú i codd. Ba (?), Be (= Rodd), Cae, Cass. e Florio.

© Alfonso D’Agostino 34

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