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LETTERATURA ITALIANA (Dalle origini a metà


Cinquecento), Manuale per studi universitari - Mondadori
Lettere moderne (Sapienza - Università di Roma)

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EPOCA 1

LE PRIME TESTIMONIANZE POETICHE (cap.1)


- Il primo documento della lingua italiana è l’Indovinello Veronese, che è stato considerato un
testo poetico a tutti gli effetti. Non vi sono certezze né sulla datazione né sulla lingua né
sull’interpretazione. Alcuni sostengono sia stato trascritto tra la fine dell’8 secolo e gli inizi del 9,
che i versi siano affini all’esametro e che la lingua non sia latina, ma un primo tentativo di
scrivere in volgare italiano.

- Le prime tracce certe del volgare compaiono tra la fine del 12 secolo e gli inizi del 13 nei ritmi,
testi di argomento religioso con finalità principalmente didattiche, caratterizzati da irregolarità
del verso e legati al mondo giullaresco. Sono legati all’Italia mediana (zona orientale e centro-
meridionale delle Marche, Umbria e Lazio) il Ritmo su sant’Alessio e il Ritmo cassinese. Il primo
è la traduzione della Vita latina del santo ed è composto in lasse monorime di ottonari-novenari
concluse da due o tre versi decasillabi o endecasillabi con rima diversa. Il secondo, di metro
molto simile, narra di due sapienti, uno occidentale e uno orientale, che discutono sulle loro
concezioni del mondo (il primo materialistica, il secondo ascetica e mistica). Tra i ritmi di
argomento storico-politico annoveriamo il ritmo bellunese e quello lucchese, rari nel loro
argomento perchè la poesia del Duecento è centrata sulla poesia d’amore.

- Se i ritmi quindi appartengono ad una tradizione didattica e religiosa, il primato cronologico


della lirica profana in volgare italiano spetta alla canzone Quando eu stava, databile tra il
1180 e il 1210, basata sul modello della poesia dei trovatori. Attraverso questa canzone
possiamo individuare una fase aurorale della poesia lirica italiana che è fortemente influenzata
dai trovatori e che presenta già molte caratteristiche che si riscontrano poi nei poeti siciliani,
specialmente la rappresentazione della donna come domina e l’esplicito riferimento alla curtisia
(‘cortesia’).

* Letteratura in Francia:

Lingua d’oc (Sud Francia, Provenza..) —> corti raffinate, poesia d’amore

Lingua d’oil (Nord Francia) —> epica medievale: ciclo carolingio, ciclo classico e ciclo bretone-
arturiano

DALLA SICILIA ALLA TOSCANA.


LA TRADIZIONE LIRICA NEL VATICANO LATINO 3793 (cap.2)
Di poesia in volgare distinguiamo una fase preistorica, con notizie del tutto incerte (si parla di
tracce), e una fase storica, che si concretizza alla fine del 1200 con la selezione e la
conservazione della produzione poetica italiana delle Origini in alcune importanti raccolte
manoscritte, definite ‘canzonieri’: al loro interno vengono copiate centinaia di componimenti che
si possono collocare tra gli inizi del 13 secolo e gli anni in cui sono attivi i copisti stessi. Tramite
tali manoscritti distinguiamo 3 fasi:

1) Vaticano Latino 3793: rappresenta l’evoluzione della poesia duecentesca dalle Origini agli
autori della generazione immediatamente precedente a quelle di Dante

2) Laurenziano Redi 9: è la principale testimonianza su Guittone d’Arezzo

3) Chigiano L 305: celebra i rimatori che secondo Dante hanno rinnovato la poesia italiana (lo
stilnovo)

Tra la fase preistorica delle tracce e quella storica dei canzonieri non è detto che ci sia stata una
frattura netta, poichè la scoperta di Quando eu stava non consente di escludere che Federico II
abbia solo posto il suo sigillo su una poesia già presente e che quindi la poesia italiana debba
essere anticipata di alcuni decenni.

La produzione poetica dei Siciliani ci è nota attraverso i tre canzonieri appena citati (Vaticano
latino, Redi e Banco Rari 217). Sappiamo che i poeti siciliani si erano espressi utilizzando un
siciliano illustre, ma le poesie trascritte nei canzonieri giungono in lingua toscana. Si ipotizza
quindi che fosse già toscanizzato il manoscritto perduto da cui derivano i tre codici della poesia
siciliana. Si parla di adattamento in volgare toscano: questo processo genera la rima siciliana.

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Le uniche testimonianza di poesia siciliana fuori dai canzonieri sono il Libro siciliano, un
frammento di una canzone di Giacomino Pugliese, i sei componimenti presenti nei Memoriali
bolognesi e quattro poesie siciliane trascritte tra il 1250 e il 1270.

Un esempio importante è la canzone S’eo trovasse pietanza, attribuita a Re Enzo, figlio di


Federico II, trasmessa sia dai codici toscani sia dal “Libro siciliano”.

VATICANO LATINO 3793


E’ composto da 190 fogli per ventisei fascicoli complessivi. Il codice è stato allestito a Firenze, in
un ambiente mercantile di livello elevato. Grazie a questo manoscritto, conosciamo la lirica
Italiana delle Origini.

Il codice è diviso in due parti secondo un criterio metrico: prima le canzoni e poi i sonetti.
All’interno di questa struttura bipartita, l’altro criterio di ordinamento segue un disegno
storiografico e cronologico. Prima troviamo i poeti della scuola siciliana, poi i siculo toscani, poi i
poeti dell’Italia Municipale (Bologna) e i toscani fino ai fiorentini pre-Dante.

1) Indice

2) Giacomo da Lentini (protagonista della scuola siciliana)

3) Rinaldo d’Aquino (scuola siciliana)

4) Cielo d’Alcamo e testi giullareschi o popolareggianti (scarto stilistico)

5) Rimatori leggermente più tardi (tra cui re Enzo); poeti siciliani di Federico II, poeti siculo-
toscani

6) Guido Guinizzelli (il padre dello Stilnovo) e Bonagiunta Orbicciani

7+) Guittone d’Arezzo e Chiaro Davanzati e Monte Andrea (più importanti prima di Dante)

Alla fine della sezione delle canzoni, è inserito il testo Donne ch’avete intelletto d’amore, la
canzone più significativa della Vita Nova, ma è l’unico testo di Dante all’interno di questo codice,
mentre ricoprirà un ruolo di primo piano nel Chigiano L VIII 305. E’ possibile che Dante abbia letto
la poesia delle Origini da un manoscritto analogo al Vaticano.

LA SCUOLA SICILIANA
Nasce attorno alla Magna Curia di Federico II di Svevia, re di Sicilia dal 1198 e imperatore del
Sacro Romano Impero dal 1120.

La scuola sembra aver avuto caratteristiche unitarie: un gruppo di poeti che condividono la stessa
estrazione sociale, sono legati a un contesto politico preciso, utilizzano una stessa lingua
(siciliano illustre), compongono testi tra loro affini per temi e stile ispirandosi alla tradizione
trobadorica.

La nascita della scuola si pone all’apice di un progetto preciso dell’imperatore, di creare uno
stato solido e unitario all’interno del quale la cultura doveva avere un ruolo cruciale: così come
Federico aveva fondato lo studium napoletano, per evitare che i sudditi si recassero a studiare
altrove, l’imperatore avrebbe anche fondato un movimento poetico autonomo e originale che si
esprimeva nella lingua locale.

TEMI: poesia d’amore, totalmente svincolata da storia, politica o propaganda (probabilmente temi
che andavano trattati ancora in latino)

Forse è il rapporto con le tematiche fondanti della lirica cortese.

Nei siciliani si descrive molto dettagliatamente la fenomenologia amorosa e si riducono i


riferimenti alla realtà, ci si interessa agli aspetti universali dell’amore e si introduce una riflessione
già acuta di carattere filosofico. I caratteri distintivi sono quindi:

1- spersonalizzazione

2- universalità

3- approfondimento filosofico

METRI: canzone e sonetto

La canzone si modella sulla canso trobadorica, mentre il sonetto è un invenzione locale,


probabilmente di Giacomo da Lentini. Nasce dall’unione di più coblas sparse (stanze variabili dei
trovatori), tramite le quali, a partire da questa forma più ampia e mobile, i siciliani abbiamo
inventato la forma fissa del sonetto. Si stabilizza in questo contesto l’endecasillabo, il verso in
assoluto più importante nella lirica italiana.

E’ in questo contesto che si registra un divorzio tra poesia e musica, sancito proprio dalla Magna
Curia di Federico II (autonomia del testo poetico).

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GIACOMO DA LENTINI, POETA E “NOTARO” (1210-1260)

Giacomo da Lentini, definito il “notaro” (notaio), è da identificare con un notaio attivo alla corte di
Federico II tra gli anni 30 e 40 del Duecento. Fu uno dei primissimi poeti della scuola e certamente
il più influente: per la scelta del tema amoroso, per l’adozione e probabilmente l’invenzione del
sonetto.

La storia della prima tradizione poetica è strettamente legata ai trovatori: i poeti siciliani prendono
dai poeti in lingua d’oc le forme, gli istituti, gli artifici metrici, i temi, le immagini e il vocabolario
(es. l’amore è definito fino, cioè perfetto, come nell’espressione occitana fin’amors. Ciò avviene
grazie alla fitta circolazione della letteratura cortese francese poichè poeti e manoscritti si
muovevano attraverso le alpi, ed è così che la letteratura d’oc e d’oil si diffonde in Italia. Alcuni di
questi manoscritti arrivarono pure in Sicilia ed è il caso di Madonna, dir vo voglio (pag 24), che è
una tradizione (di Giacomo da Lentini) di un testo trobadorico di Folquet.

In questa poesia, troviamo gran parte delle tematiche che caratterizzeranno la poesia italiana fino
a Petrarca:

1) Il poeta si rivolge all’amata e mette in versi l’innamoramento

2) La donna è insensibile

3) L’amore fa soffrire il poeta

4) Afasia del poeta e difficoltà ad esprimersi adeguatamente

5) Poesia come sfogo alla sofferenza

6) Descrizione dell’amore tramite termine di comparazione con gli animali dei bestiari medievali

La poesia dei trovatori aveva una forte componente dialogica e lo strumento metrico di questo
dialogo è la cobla (strofa): i trovatori si scambiavano due o più coblas di argomento vario e
formavano la tenzone.

La tenzone è infatti uno scambio di strofe tra più poeti, in cui si affronta una stessa tematica da
punti di vista diversi. Le tenzoni siciliane sono dei dibattiti sul solo argomento dell’amore.

La tenzone siciliana più importante è trasmessa dal Barberiniano Latino 3953 ed è quella tra
Giacomo da Lentini, Iacopo Mostacci e Pier della Vigna, due poeti anch’essi attestati dalla corte
siciliana.

• Jacopo Mostacci ha un dubbio: l’amore ha un effettivo potere sugli amanti e li costringe ad


amare, ma ciò gli pare impossibile dato che l’amore è invisibile. Egli sostiene quindi che amore
non sia una sostanza, ma un accidente (qualcosa che capita) che nasce dalla visione piacevole
della persona amata. Egli vuole che il corrispondente esprima la sua opinione (il sentenziatore)

• Pier della Vigna risponde sostenendo che Amore è una sostanza che, pur essendo invisibile, ha
una forza reale e concreta, come quella che esercita la calamita sul ferro.

• Giacomo da Lentini emette il giudizio definitivo, ripercorrendo direttamente il De amore di


Andrea Cappellano: Amore è un sentimento interiore, generato e alimentato dalla visione
dell’amata. Esiste anche l’amore che non nasce dalla visione, ma non ha nulla a che vedere con
l’amore più forte.

CIELO D’ALCAMO E “Rosa Fresca Aulentissima”


Se torniamo ad osservare la struttura del Vaticano, troviamo un componimento del tutto
eccentrico rispetto al resto del corpus. Dopo le sezioni della scuola siciliana, troviamo il contrasto
Rosa Fresca Aulentissima, attribuito a Cielo d’Alcamo (ipotesi di Angelo Colocci, pag 30).

Si tratta di un dibattito in versi tra un giullare e una villana, secondo lo schema diffuso del
personaggio maschile che corteggia la donna, inizialmente ritrosa, ma che poi si concede.

All’inizio l’uomo si lancia in elogi smodati e chiede alla donna di soddisfare le sue voglie, perchè
non dorme più pensandola. Lei ribadisce che tutto ciò è una follia perchè non si concederà mai.
L’uomo ribadisce il proprio amore e la donna inizia a cedere, confessando che la sua reale paura è
la reazione dei parenti. Dopo una discussione sul matrimonio, la donna cede all’uomo.

Questo contrasto è una delle più importanti testimonianze della compresenza, nel Vaticano, del
registro “alto”, normalmente per la poesia amorosa, e di quello “basso”, tipico della tradizione dei
comico-realistici.

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DALLA SICILIA ALLA TOSCANA e Bonagiunta Orbicciani (1220-1290)


L’esperienza poetica della Scuola Siciliana ebbe una rapida influenza in tutta la penisola, forse in
parallelo con le vicende politiche di Federico II e dei suoi eredi e dei loro rapporti con il mondo
comunale e con le corti dell’Italia centrosettentrionale.

Nel corso del Duecento si assiste ad un intenso sviluppo della tradizione poetica volgare i cui
centri più attivi sono Bologna e la Toscana.

I poeti più importanti in questa fase sono Bonagiunta Orbicciani da Lucca, Guittone d’Arezzo e
Guido Guinizzelli

Si è parlato di una linea Bonagiunta-Guinizzelli della poesia italiana, dimostrando innanzitutto


l’affinità stilistica. Bonagiunta ebbe un ruolo centrale nel processo di acquisizione del modello
siciliano in Toscana: da un lato i suoi componimenti sono prossimi alla scuola siciliana, dall’altro,
con Guinizzelli, influenza i poeti toscani predanteschi e anticipa persino alcune innovazioni degli
stilnovisti.

Bonagiunta è essenzialmente poeta d’amore e la prima canzone trasmessa dal Vaticano tratta
del mondo in festa per l’arrivo della primavera e della sofferenza del poeta per un amore non
corrisposto.

Egli però scrive anche componimenti di carattere politico e morale, anticipando una modalità che
sarà propria soprattutto di Guittone d’Arezzo. Emblematica la canzone “dell’onore” che elogia la
liberalità contro l’avariai ed è ottimo esempio di poesia civile (pag 33)

GUITTONE D’AREZZO (1235-1294) E IL LAURENZIANO REDI 9 (cap.3)


E’ il più importante poeta italiano della seconda metà del duecento ed è il primo a introdurre
temi morali, politici e religiosi, finora esclusi.

Il manoscritto Redi 9 è la più importante testimonianza della centralità di Guittone nel panorama
della poesia italiana del tempo.

Nei primi fascicoli si trovano le sue lettere in prosa, poi troviamo due sezioni distinte: le poesie di
“frate Guittone” e poi quelle di “Guittone”. Questa bipartizione riflette la sua adesione ai ‘Cavalieri
della beata vergine Maria’. Troviamo quindi da un lato testi di carattere morale e religioso,
dall’altro, quelli di argomento amoroso.

• Egli narra la conversione nella canzone Ahi, quant’ho che vergogni e che doglia aggio, fatto che
avviene nel 1265, anno di nascita di Dante. Egli dice di essersi convertito ‘a mezza etate’ (per
l’epoca 35 anni), così come Dante dice di compiere il viaggio ultraterreno ‘nel mezzo del
cammin..’

La poesia di Guittone è caratterizzata da un dettato difficilmente comprensibile che si avvicina al


trobar clus (poetare oscuro) dei trovatori.

Tanti sono i suoi modelli, tra cui gli occitani e i siciliani, ma mostra di conoscere molto anche i
classici latini e la filosofia. Si ritiene fosse un autodidatta perché non c’è traccia dei suoi studi ad
Arezzo.

Egli è il primo ‘poeta impegnato’ e scrive nel mezzo delle lotte tra guelfi e ghibellini e tra Papato
e Impero. Nel 1259 andò in esilio ritrovandosi in netta opposizione con le decisioni politiche del
Comune.

• La prima canzone politica della letteratura italiana è “Ahi lasso, or è stagion de doler tanto”, in
cui egli giudica la sconfitta guelfa a Montaperti (1260) un evento vergognoso, che segna la fine
dell’autonomia comunale di Firenze: mette in parallelo gli eventi terreni con la decadenza dei
valori universali (è il trionfo dell’ingiustizia sul diritto). Firenze è stata sconfitta perchè era divisa
al suo interno e ha rinunciato alla propria libertà, e ora i ghibellini, rimasti in città dopo aver
scacciato i guelfi, devono accettare di servire i tedeschi di Manfredi (forte invettiva). In questa
situazione di crisi politica e morale egli entra a far parte dei frati Gaudenti.

• Ora parrà mette in scena la dialettica tra canto d’amore e canto morale ed egli spiega che chi
vuole poetare e dimostrare di valere deve lasciarsi guidare dalla giustizia, quindi non è vero che
solo chi ama può essere un poeta.

L’altra metà del corpus è di argomento amoroso, anche se cronologicamente dovrebbe precedere
la parte morale e religiosa (la cronologia viene rovesciata). Troviamo 24 sonetti in forma di
istruzioni all’amante, secondo l’Ars Amandi di Ovidio e il De Amore di Cappellano, e 86 sonetti
che costituiscono una serie concepita come un testo unitario. Qui egli dialoga con l’amata in un
sottogruppo di sonetti in tenzone.

• Il primo di questi 86 è Amor m’à priso, in cui egli descrive la sua totale sottomissione ad Amore,
rivolgendosi poi al testo poetico chiedendogli di descrivere la propria condizione.

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Il DOLCE STILNOVO: il nuovo canone del Chigiano 305 (cap.4)


Questo manoscritte sancisce un passaggio epocale perchè si apre con un gruppo di poeti quasi
del tutto assenti nei precedenti manoscritti: Guido Cavalcanti, Cino da Pistoia e Dante Alighieri, ai
quali si aggiunge Guinizzelli. Sono i poeti definiti stilnovisti in quanto appartenenti al dolce
stilnovo, definizione utilizzata per la prima volta da Francesco De Sanctis nella sua Storia della
letteratura italiana (1870-1871) per indicare un piccolo gruppo di poeti che ruota attorno a Dante.

• DEFINIZIONE: La definizione “Stilnovo” dipende in massima parte da Dante che, nel Purgatorio,
fa pronunciare a Bonagiunta Orbicciani di collocarsi, assieme a Giacomo da Lentini e Guittone
d’Arezzo, al di qua del dolce stil novo. Per Dante c’è quindi una differenza tra una maniera
antica di fare poesia e una maniera moderna, che ha come progenitore Guinizzelli (citato in
Purgatorio 26 come “il padre”) e che trova il primo esponente in Dante, poi Cavalcanti, Cino e
Lapo Gianni.

• CARATTERI: poesia nuova e dolce (in opposizione all’asprezza linguistica di Guittone e i


guittoniani), ispirata da Amore, che rivendica una più esatta corrispondenza tra ciò che il poeta
prova e il modo in cui si esprime. Si prende ispirazione direttamente dall’amore e si è dolci nelle
scelte formali. L’amore permette la realizzazione dell’uomo, il suo perfezionamento morale
perchè gli concede di realizzare la sua nobiltà d’animo (tecnicismo: gentilezza). Questa
gentilezza non si eredita come la ‘cortesia’ del contesto feudale, ma si possiede
indipendentemente dal contesto sociale (comunale in tal caso): questa teorizzazione della
superiorità della nobiltà d’animo su quella di sangue ha chiare ragioni sociali: Guinizzelli è un
giudice, Dante un piccolo borghese e Cino da Pistoia un giurista (fa eccezione Cavalcanti).

Il Dolce Stilnovo nasce a Firenze, nel contesto comunale (1280-1310), ma non si può tuttavia
considerare lo stilnovo come un movimento letterario organizzato a causa di differenze notevoli
tra i vari poeti, bensì un nuovo modo di poetare, concepito da un gruppo eterogeneo ma forse
consapevole della propria identità e della propria differenza rispetto ai contemporanei.

GUIDO GUINIZZELLI (1230-1276)


Nacque a Bologna nel 1230. Studiò diritto all’università e partecipò alla vita politica della città
dalla parte dei ghibellini. Costretto a fuggire nel 1274, dopo la vittoria guelfa, andò a Padova, dove
morì nel 1276.

Per comprendere in che senso Dante lo definisce “padre” dobbiamo tornare ai canzonieri
duecenteschi. Due esempi sono emblematici:

• In uno scambio di sonetti tra Guinizzelli e Guittone, egli definisce O caro meo padre Guittone,
probabilmente in senso antifrastico per mettere in dubbio l’autorità di Guittone.

• Bonagiunta invia un sonetto in tenzone “Voi ch’avete mutata la mainera” a Guido, che risponde
con “Omo ch’è saggio non corre leggero”. Bonagiunta rimprovera Guinizzelli di aver cambiato
il tono in cui si compongono poesia d’amore, puntando sull’oscurità e su contenuti difficili di
carattere filosofico/teologico veicolati dalle conoscenze universitarie e Guido risponde con un
testo di argomento morale rivolto a tutti gli uomini e non solo a Bonagiunta. Qui egli spiega che
il vero saggio non dà mai giudizi affrettati e riflette sempre su quel che dice, ché è folle chi
pensa di essere il solo detentore della verità. Così come esistono uccelli di ogni tipo, Dio ha
votato gli esseri umani di intelligenze diverse e per questo si deve evitare di dire ciò che si
pensa (precipitosamente). Il sonetto di risposta è quindi un modo ironico per suggerire a
Bonagiunta che avrebbe fatto meglio a tacere.

“Io voglio del ver la mia donna laudare”: è l’elogio della donna amata, del sui potere spirituale e
della virtù beatificante del suo saluto. Il sonetto si può bipartire: in una prima parte gli elenca delle
similitudini con le quali vuole restituire l’idea della bellezza dell’amata, mentre nella seconda parte
si concentra sugli effetti nobilitanti dell’amore (capacità di rendere umile grazie alla propria nobiltà
interiore, il saluto che concede salute, ovvero salvezza, la conversione dei fedeli). Questa donna è
immaginata come un essere sovrannaturale, in grado di attirare su di sé una devozione
paragonabile a quella di un fedele per la divinità e di compiere atti miracolosi che rendono gli
uomini virtuosi.

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“Al cor gentil rempaira sempre amore”: E’ la canzone manifesto dello Stilnovo, segue la
spiegazione strofa per strofa.

1) Identità naturale tra amore e cuore nobile: Tra amore e cuore nobile esiste un legame istintivo e
indissolubile (sono stati creati dalla natura nello stesso istante); allo stesso modo sono inscindibili
uccello e vegetazione dalla selva, sole e luce, fuoco e calore.

2) Innamoramento come massima espressione della nobiltà d’animo: Come il sole crea la
purezza della pietra preziosa, così l’innamoramento agisce sul cuore gentile dell’uomo, lo libera
da ogni bassezza e traduce in atto la potenziale nobiltà d’animo che egli ha ricevuto in natura.
Pertanto, la donna sta al cuor gentile, puro per natura, come la stella sta alla pietra preziosa,
purificata dal sole.

3) Incompatibilità naturale tra amore e natura volgare: L’amore sta nel cuore gentile come il fumo
nella torcia e il diamante nel minerale di ferro. Viceversa, un cuore vile è contro l’amore, come
l’acqua è contro il fuoco.

4) nobiltà dell’animo per virtù personali: La gentilezza, ossia la nobiltà di cuore, non si eredita dai
proprio natali, ma si realizza per virtù personali. E’ naturale che la gentilezza d’animo non sia
ereditaria: il cuore ignobile è come l’acqua (si fa attraversare dalla luce e non la trattiene), e il
cuore nobile è come il cielo (impregnato di luce)

5) rapporto uomo-donna come rapporto angeli-Dio: Come le intelligenze angeliche obbediscono


immediatamente a Dio, facendo ruotare il cielo a cui ciascuna è preposta, così la bellezza della
donna, risplendendo davanti agli occhi dell’uomo innamorato, ispira in lui il desiderio di obbedirle
e lo predispone alla virtù e al bene.

6) Facoltà miracolose della donna-angelo: Nel congedo, il poeta immagina che la sua anima
dopo la morte si trovi davanti al giudizio di Dio, al quale saprà giustificare il proprio errore (cioè
l’amore profano per una creatura terrena): la donna non distoglie dalla fede, ma è come una
creatura angelica che conduce a Dio.

Amare nobilmente significa possedere delle qualità morali individuali che ci distinguono dagli altri
uomini e questo amore scatta solo grazie alla mediazione di una donna-angelo.

GUIDO CAVALCANTI: il poeta e il filosofo (1255-1300)

Anche lui nel Chigiano. Nato a Firenze verso il 1259, nel 1300 prende parte ad alcuni scontri con i
Donati (guelfi neri) e viene condannato all’esilio dai priori di Firenze in seguito alla sconfitta dei
bianchi.

Le fonti lo descrivono come un filosofo, probabilmente in ragione della sua complessità teorica
della sua canzone più celebre: Donna me prega.

• RAPPORTO CON DANTE: Dante gli dedica la “Vita nuova” definendolo il suo primo amico e il
testo più importante è il sonetto di Dante “Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io, dove immagina
un viaggio fantastico in compagnia di Guido, Lapo Gianni e delle donne da loro amate. Poi
potrebbe essersi verificata una rottura tra i due, o per ragione politiche o filosofiche. Certo è che
Dante colloca il padre Cavalcante de’ Cavalcanti all’Inferno tra gli epicurei, coloro che ritengono
che l’anima muoia con il corpo.

• RAPPORTO CON BOCCACCIO: L’immagine di Guido come ateo o materialista era nota nel
300, anche favorita dalla novella 9 del Decameron, in cui egli è descritto come un filosofo
epicureo.

“Chi è questa che ven, ch’ogn’om la mira”: La prima strofa, ripresa dal Cantico dei Cantici,
introduce il motivo della donna-dea che, con la sua improvvisa apparizione e bellezza, fa tremare
e sospirare gli uomini. Nelle due strofe centrali torna il concetto di donna-umile, dolce e benevola,
alla cui superiorità si inchina ogni virtù. L’ultima strofa colloca la donna in una dimensione di
estatica superiorità: il poeta è impossibilitato a descriverla adeguatamente (ineffabilità della
visione e afasia)

“L’anima mia vilment’è sbigotita”: Tutto si svolge in una dimensione astratta in cui i personaggi
sono il cuore, l’anima e gli spiriti. Si descrive la battaglia tra questi nel momento in cui l’anima non
riesce a sopportare l’amore e si sente morire. La prima parte è una descrizione di questa battaglia
causata dalla vista dell’amata (per li occhi), poi segue una parte in cui ci si concentra sul colpo
d’Amore e infine troviamo un’invocazione ad un pubblico indeterminato che potrà solo piangere
guardandolo morire. Si descrive l’interiorità del poeta con la volontà di cercare un contatto diretto
col pubblico.

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“Donna me prega” è un esempio unico di rigore formale, di utilizzo della terminologia aristotelica-
scolastica e della dichiarata volontà di ragionare sull’amore in termini di filosofia naturale.

Nella prima strofa, dichiara di comporre su richiesta della donna e vuole spiegare le
caratteristiche d’amore con la filosofia naturale (lo farà dettagliatamente nelle successive
stanze). Poi torna a ribadire che solo chi non ha basso core può comprendere il discorso
sull’amore.

Nella seconda stanza Guido spiega che l’amore nasce dalla vista dell’oggetto amato che viene
accolta nella memoria: è un processo di passaggio di luce tramite un corpo trasparente. Ma in
realtà l0amore proviene da Marte, da un’oscurità, un desiderio troppo ardente di possesso.

L’amore è quindi un semplice nome e dipende dal libero consentimento degli amanti. Nelle stanze
successive, egli sancisce la separazione tra la ragione e l’amore, descritto come un sentimento
smisurato e irrefrenabile che toglie il dominio di sé, distogliendo l’uomo dalla contemplazione del
sommo bene e dalla filosofia (forte elemento di distacco con Dante).

In “Perch’i’ no spero di tornar giammai” Cavalcanti è vicino alla morte, che avverrà probabilmente
per una febbre malarica e costruisce questo sto come un “testamento”: si rivolge alla propria
anima pregandola di onorare la donna quando si troverà in sua presenza (commendatio animae).

CINO DA PISTOIA (1270-1366) E LAPO GIANNI (morto dopo il 1328)


• Lapo Gianni, notaio e giudice fiorentino, è un poeta particolarmente prossimo a Guinizzelli e al
Dante della Vita Nova. Viene citato nel De vulgari eloquentia tra coloro che hanno raggiunto
l’eccellenza del volgare.

• Cino da Pistoia, noto giurista dell’epoca, intreccia la sua produzione a quella di Dante: risponde
forse al primo sonetto della Vita Nova (come Cavalcanti), scambia numerosi sonetti con Dante e
gli scrive una canzone per consolarlo della morte di Beatrice. Nella canzone per la morte di
Dante, Cino offre una sintesi tra il poeta d’amore della poesia lirica e il poeta divino del “poema
sacro”: fa una preghiera a Dio affinché l’anima di Dante possa tornare in paradiso accanto a
Beatrice e, nel finale, la canzone assume il tono dell’invettiva contro Firenze, accusata di aver
scacciato il poeta, elogiando quindi Ravenna per conservarne le spoglie.

LA POESIA COMICO-REALISTICA (cap.5)


Accanto alla lirica di matrice cortese, i vari manoscritti individuano una linea artistica parallela ma
tematicamente e stilisticamente opposta. Si lascia il posto all’invettiva personale, all’improperio,
alla satira dei costumi, alla rappresentazione degli aspetti più materiali e degradanti della vita,
come l’erotismo osceno, la fame, l’immoralità, la taverna. Al linguaggio curiale, serio e tragico,
subentra un’esasperazione del dettato poetico in direzione espressionistica e paradossale.

La poesia comica viene trasmessa negli stessi grandi canzonieri della lirica cortese predantesca
e di quella stilnovistica (Rosa Fresca aulentissima, attribuita a Cielo d’Alcamo, considerato il
primo componimento comico italiano, è contenuta nel Vaticano Latino 3793, così come i sonetti
del fiorentino Rustico Filippi. Nel Chigiano troviamo poi il senese Cecco Angiolieri.)

Questi esempi di commistione documentano due aspetti fondamentali:

1) la convivenza pacifica tra i due versanti, con pari dignità letteraria e aventi il medesimo
pubblico

2) La netta separazione culturale e ideologica tra i due codici non si è ancora realizzata, ma si
inizierà a registrare a partire dalla fine del 1300. I poeti possono attingere al codice comico
così come a quello politico, morale, religioso, amoroso e così via, scegliendo la porzione di
mondo che si intende rappresentare ed adeguandosi così ad un repertorio topico e ad una
strumentazione stilistico-retorica codificati dalla tradizione.

La preferenza per tale poesia non va interpretata né come un innocuo divertimento né come la
replica irridente ad un linguaggio poetico, ma com un codice peculiare che riflette un diverso
atteggiamento verso la tradizione e la realtà.

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RUSTICO FILIPPI (1230-fine 1200)


E’ il primo a dedicarsi al comico in maniera non esclusiva, ma sistematica ed è specializzato
nell’invettiva.

L’origine di questo modulo retorico risiede nelle tenzoni occitane, in cui trovatori e giullari
inscenavano contrasti fittizi di fronte al pubblico delle corti. Il trapianto negli ambienti cittadini
italiani comporta la perdita della natura tennistica per arrivare alla forma monologica come
ritratto caricaturale, inserito in un contesto urbano e quotidiano fiorentino.

In alcuni casi l’invettiva ricalca modelli piuttosto consolidati, come l’improperium in vetulam, in cui
una vecchia viene ritratta con un gusto morboso per i particolari più abietti.

Il tono è quello burlesco più che quello della vera e propria satira: siamo di fronte ad innocue
canzonature rivolte verso personaggi dell’aneddotica cittadina bersagliati per le loro debolezza
psicologiche e i loro comportamenti.

CECCO ANGIOLIERI (1260-1312)

E’ il primo a consacrarsi in maniera esclusiva al comico.

Nasce a Siena nel 1260 e di lui non si hanno notizie dopo il 1313. Partecipa a diverse iniziative
militari dei guelfi senesi, tra cui probabilmente, tra cui probabilmente la battaglia di Campaldino.
Qui potrebbe aver mandato conosciuto Dante, al quale tra il 1290 e il 1300 invia almeno 3 sonetti
di natura burlesca e di polemica letteraria. E’ chiaro che, a differenza di Rustico, Cecco guarda
come testimone diretto allo Stilnovo.

TEMI:

-lamento per la povertà

-avversità della sorte

-conflitto con il padre avaro ed egoista

-amore non ricambiato per Becchina

-donna, taverna, dado

Questi sono i caratteri fondamentali di un ritratto autoderisorio e caricaturale, fondato


sull’esibizione delle proprie sventure.

I sonetti per Becchina formano un nucleo coerente, incentrato su una rappresentazione grottesca
e triviale del sentimento amoroso. In “Becchin’amor!” egli dialoga con l’amata e antepone all’io
nobile e virtuoso della poesia cortese l’io degradato e decisamente antiesemplare.

Non possiamo parlare di vera e propria parodia, dato che a rigore necessiterebbe di un bersaglio
polemico specifico e riconoscibile, ma possiamo farlo nella corona di sonetti di Cenne da la
Chitarra, giullare aretino, in risposta ad un’altra corona, composta d Folgòre da San Gimignano.

Galleria di oggetti e situazioni piacevoli (sul modello del plazer provenzale), la corona di Folgore
viene ridicolizzata tramite la riproduzione rovesciata di ogni immagine gentile in un’immagine
caricaturale e ridicola.

LA POESIA ALLEGORICO-DIDATTICA AL NORD E IN TOSCANA:


DAL CODICE SAIBANTE AL TESORETTO (cap.6)

In area settentrionale si sviluppa una poesia di carattere didattico, contenuta nel codice Saibante:
importante è il Libro di Uguccione da Lodi, un poemetto strutturato come un elenco di
insegnamenti religiosi, morali e di preghiere, accompagnati dalle rappresentazioni dei cieli e
dell’Inferno. Alla descrizione dei mondi ultraterreni si occupa anche il frate minore Giacomino da
Verona in due poemetti chiamati De Ierusalem celesti e De babilonia civitate infernali, in cui si
descrive il paradiso come una città celeste perennemente illuminata e abitata da angeli e beati
che cantano le lodi di Dio e l’Inferno come una prigione che impedisce di fuggire.

Ancora più significativo è Bonvesin de la Riva, autore del Libro delle tre scritture: la “negra”
sull’Inferno, la “rossa” sulla Passione di Cristo, la “doradha” sul Paradiso.

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In Toscana troviamo due grandi filoni: il poema che mette in scena il contrasto tra vizi e virtù e il
romanzo d’amore in versi, che è anche la storia dello sviluppo individuale del protagonista.

Questo poemetto allegorico in versi ha come principale rappresentante in Italia il Tesoretto di


Brunetto Latini. Secondo Dante, egli è colui che insegna come l’uomo diventa immortale grazie
alla fama ottenuta con le azioni virtuose. Viene però collocato nell’Inferno XV e si diffonderà quindi
l’immagine ambigua di maestro e peccatore.

In esilio in Francia dopo Montaperti (1260), torna a Firenze dopo il ritorno al potere dei guelfi.

Egli è maestro del “bene parlare”, in quanto autore di importanti volgarizzamenti dai classici e in
particolare dalla Retorica e anche maestro nella guida della repubblica poichè il Tresor non è
importante solo per la diffusione in volgare di importanti conoscenze filosofiche, ma soprattutto
perchè contiene una parte dedicata alla gestione dello Stato.

Il Tesoretto è la trasposizione del contenuto didattico del precedente in prima persona.

E’ un poema di formazione ricco di riferimenti autobiografici: Brunetto apprende del


capovolgimento politico avvenuto a Firenze e si perde in una selva diversa, dove incontra la
personificazione della Natura, il regno delle Virtù, il regno d’Amore (incontra Ovidio) e si mette in
cammino per l’Olimpo.

Per la scelta di narrare il percorso di formazione e di redenzione, può essere considerato un


anello di congiunzione verso la Commedia. In ogni caso, è certo che svolse un ruolo cruciale per
lo sviluppo intellettuale e culturale di Dante, ma la sua collocazione all’Inferno avviene forse per la
volontà di Dante di superarlo sia dal punto di vista morale sia da quello poetico.

LA POESIA RELIGIOSA DELLE ORIGINI


Il cristianesimo rielabora la tradizione poetica greco-latina in funzione della celebrazione di Dio: è
ciò che accade nell’inno. E’ determinante infatti il ruolo del canto e della poesia nella liturgia della
messa.

La lode in versi a Dio era un’esperienza comune e gli autori più noti sono san Francesco e
Iacopone da Todi.

SAN FRANCESCO (1181-1226)


E’ ben conosciuta la storia della conversione del santo (1181-1226), che, figlio di un ricco
mercante, rinuncia alle ricchezze per fondare l’ordine di frati minori, la cui regola è basta
sull’abbandono dei beni terreni e che, dopo il riconoscimento papale, diventerà uno dei più
importanti ordini religiosi.

Egli scrisse in dialetto umbro Il cantico delle creature, composto negli ultimi anni di vita e
probabilmente destinato al canto corale. Questo è a tutti gli effetti una lode a Dio e al creato
concepita sul modello dei Salmi biblici, dai quali riprende il lessico e le immagini.

L’interpretazione del Cantico però è dubbia a causa del ‘per’ che si ripete dal verso 10: ha valore
causale “sia tu lodato, Dio, a causa della luna” o ha valore di complemento d’agente “sia tu
lodato,Dio, dalla luna” ?

Il Cantico si apre con un’affermazione pessimistica: gli uomini non possono nominare il nome di
Dio, ma possono lodarlo attraverso gli elementi, che come uomo sono creature divine,
rispondendo ad un’idea di fratellanza universale tra l’individuo e il mondo. Nella seconda parte, lo
sguardo di Francesco si sposta agli uomini e poi arriva alla morte: corporale, che tocca tutti, e
spirituale, che non tocca chi muore nella volontà di Dio.

Il testo è ricco di tratti dialettali umbri (desinenza -u, il K..).

IACOPONE DA TODI (1230-1306)


In rapporto al movimento francescano si sviluppa anche la tradizione delle laude, il cui autore più
rappresentativo è Iacopone da Todi, a cui si attribuiscono 100 laudi e il primato di aver codificato
la laude nel genere della ballata.

Per ragioni cronologiche, tuttavia, si può ritenere che l’invenzione della lauda di tipo umbro-
toscano sia di Guittone d’Arezzo che compose precedentemente alcune ballate di materia sacra.

Anche Iacopone, come Guittone e Francesco, è un convertito: ciò accadde dopo la morte della
moglie, con l’adesione all’ordine degli “spirituali” (si distinguevano dai conventuali per la regola
della povertà assoluta). Egli giunge ad un ideale di distacco dal mondo terreno, ma continua a
parlare di vicende politiche: da questo punto di vista, è molto vicino a Guittone d’Arezzo (primo
poeta a non cantare solo l’amore).

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Que farai, fra’ Iacovone? È databile al tempo in cui il poeta fu imprigionato per aver fatto parte dei
frati rigoristi che si richiamavano a papa Celestino V, che abdicò facendo salire al soglio papale
Bonifacio VIII. Egli considera la prigonia motivo di gioia e colloca lo scontro terreno in un più
ampio conflitto tra il bene e il male.

O papa Bonifacio, molt’ai giocato al mondo è l’invettiva che Iacopone rivolge a Bonifacio VII,
prototipo del peccatore, traditore della missione pontificia e macchiato di ogni vizio.

Egli lo paragona a Lucifero.

Donna de Paradiso è il primo esempio di lauda drammatica: egli rappresenta Maria durante la via
crucis, dalla cattura fino alla croce, che si scioglie in pianto. Egli perde la “misura”, principio
aristotelico secondo cui la virtù sta nel punto medio tra l’eccesso e il difetto, perchè il suo amore
per Dio vuole essere folle e smisurato.

LE FORME DELLA PROSA (cap.85)

Se la poesia italiana delle origini si sviluppa in rapporto alla lingua d’oc, la nascita della prosa
volgare è legata ai modelli latini e oitanici.

Nel corso del 200 scrivere in prosa significava volgarizzare, cioè trasporre un testo in volgare
italiano: abbaino infatti fenomeni di ampliamenti e riscrittura, principalmente tra Bologna e
Firenze. A Bologna nasce la nascita della retorica in volgare, in strettissima connessione con la
tradizione latina. A Firenze, invece, i protagonisti del volgarizzamento sono Brunetto Latini e Bono
Giamboni. Brunetto volgarizza delle orazioni di Cicerone di argomento cesariano, ma soprattutto
è noto per la Rettorica, scritta per un ignoto fiorentino che voleva apprendere l’arte retorica.
Questa è una traduzione rielaborata del De invenzione di Cicerone ed egli si colloca come lo
sponitore, ovvero colui che espone il testo ai lettori. Egli spiega che la retorica non serve solo in
politica, ma anche in amore perchè tutta la poesia d’amore nel 200 può essere concepita come
un botta e risposta tra l’amata e l’amante, una tenzone per l’appunto.

Dalla lettaratura francese, la cultura italiana eredita il romanzo di materia bretone: in particolare la
storia di Tristano e Isotta, che viene volgarizzata nel Riccardiano 2543 ed è nota come Tristano
Riccardiano. (pag 87)

L’influenza della tradizione oitanica sulla prosa italiana è evidente nel Tresor di Brunetto Latini e
nel Milione, dettato da Marco Polo a Rustichello da Pisa, che scriveva in franco-italiano.

SCRIVERE LA STORIA: La storiografia compie molto tardi il passaggio al volgare, eccetto alcuni
esperimenti in Toscana nel 200. Il primo vero storico della letteratura italiana è il fiorentino Dino
Compagni che nella Cronica raconta in prima persone le vicende di cui fu protagonista nei primi
del Trecento .

SCRIVERE LA SCIENZA: Il latino resterà a lungo la lingua della scienza, eccetto per La
Composizione di Restoro d’Arezzo, trattato che divulga conoscenze scientifiche (struttura del
mondo, descrizione degli ordinamenti e dei movimenti celesti) tratte da opere latine o
dall’osservazione diretta della realtà.

SCRIVERE NOVELLE: Nel duecento non esiste ancora il romanzo in volgare, ma si sviluppa una
ricca tradizione di narrativa breve in prosa che ha come modelli la letteratura mediolatina e
romanza.

Il capolavoro è il Novellino, una raccolta di 99 novelle, che vertono sulle azioni nobili, le risposte
argute e gli atti di generosità compiuti da uomini di valore. Si descrive il mondo della cortesia con i
suoi valori, allo scopo di insegnare (exemplum), e di dilettare. Si anticipa il Decameron.

Il capolavoro della prosa duecentesca è senza dubbio la Vita Nuova di Dante.

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EPOCA 2
DANTE ALIGHIERI (cap.1)
SPERIMENTALISMO E AUTOBIOGRAFISMO
Dante nella storia letteraria fa “parte per se stesso” perchè emblematica è la sua assoluta
originalità: non solo non si può individuare un modello univoco, ma nemmeno un genere letterario
di appartenenza. Le sue due caratteristiche fondanti sono lo sperimentalismo e l’autobiografismo.

A fondamento della Vita Nuova sta l’idea di raccogliere le proprie rime giovanili in un racconto il
prova di una storia d’amore. Il Convivio nasce da un’esperienza analoga, ma ne conseguirà un
trattato filosofico, come commento alle proprie rime e impostato come un’autobiografia.

Il De Vulgari Eloquentia gli concede il titolo di “padre della lingua” per il riconoscimento del
volgare come lingua nazionale di cultura. Nella Commedia, sperimentalismo e autobiografismo si
aprono in un’invenzione potente e visionaria.

GLI ANNI GIOVANILI E GLI STUDI (1265-1295)


Nasce nel 1265 da una modesta famiglia, ma i beni e le rendite di famiglia, in seguito alla morte
dei genitori, gli assicurano una vita decorosa e una frequentazione della buona società fiorentina.

A 9 anni, come ci dice nella Vita Nuova, incontra Beatrice, figlia di Folco de’ Portinari, e nel 1277
si sposa con Gemma Donati, dalla quale avrà quattro figli, Giovanni, Pietro, Jacopo e Antonia.

Non abbiamo informazioni circa i suoi studi giovanili, ma sappiamo che apprese Grammatica,
Retorica e Dialettica presso Brunetto Latini (in maniera occasionale) e determinante fu l’incontro
con Guido Cavalcanti per l’interesse verso le letterature volgari e a filosofia.

Nel 1289 partecipò alla Battaglia di Campaldino dalla parte dei guelfi, che sbaragliarono i
ghibellini e, in questi stessi anni, si affermò come poeta d’amore in volgare, con una produzione di
rime che passa dai primi esperimenti alla conseguente sublimazione nella Vita Nova (1293). Nel
libello la storia della propria poesia viene fata coincidere con quella dell’amore assoluto per
Beatrice, morta l’8 giugno 1290.

AMICIZIA CON GUIDO CAVALCANTI


Dante scrisse il suo primo sonetto e lo inviò agli altri poeti fiorentini: il primo a rispondere fu
Cavalcanti, nominato poi da Dante come “primo de li miei amici”.

Grazie a Cavalcanti, Dante supera definitivamente la dimensione cortese, in cui rientrano ancora
le sue prime liriche e giunge in seguito alla Vita Nuova, dedicandola a Cavalcanti e rivendicando in
suo nome la scelta del volgare.

Ma il rapporto fra i due è problematico perchè, nonostante le continue dichiarazioni d’affetto, la


Vita Nuova giunge ad una poetica e a una concezione dell’amore totalmente opposta a quella
di Cavalcanti, in particolare rispetto alla canzone Donne me prega.

Per diversi studiosi, questo rappresentò la rottura del loro sodalizio umano e poetico, testimoniata
dal sonetto inviato da Guido a Dante I’ vengo ‘l giorno a te ‘nfinite volte, ma difficilmente può
essere acquisito come prova concreta della loro separazione perchè è quasi più forte il tono di
sincerità affettuosa e di stima profonda verso Dante.

Nella Commedia, Dante parlerà due volte dell’amico, in Inferno 10 parlando dell’accusa di
epicureismo rivolta a Guido, in Purgatorio 11 parlando del canone della gloria linguistica.

Non abbiamo quindi documenti che testimoniano una rottura polemica, a maggior ragione se
pensiamo che Dante non si presenta come un rivale ma come un suo legittimo successore: colui
che, attribuendo nuovi significati alla lirica d’amore, è stato capace di riprendere e proseguire il
cammino del maestro, il quale ad un certo punto della sua vicenda intellettuale potrebbe aver
abbandonato la poesia per dedicarsi allo studio della filosofia.

LE RIME GIOVANILI PRE-VITA NUOVA


Dante non raccolse mai le sue rime in un canzoniere, ma l’ordinamento più familiare ai lettori è
quello fissato a suo tempo da Michele Barbi per l’edizione nazionale del 1921 sulla base di criteri
biografici, stilistici e tematici.

La produzione giovanile è quella destinata a essere sottoposta ad una selezione ai fini della
costituzione del libro della Vita Nuova: non ci sono dubbi che tali componimenti siano da

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identificare con le rime che nel libello corrispondono alla “poetica della lode” e che Dante
consegnerà ai posteri con il nome di “dolce stil novo”.

• Ma le poesie delle lode sono solo il punto di arrivo di un forte sperimentalismo, influenzato
dall’eredità cortese, sia sul piano linguistico, per i ricercati provenzalismi o sicilianismi, sia sul
piano dei temi e delle metafore, di matrice ancora feudale. E’ il caso della canzone La
dispiegata mente, che pur mira, che sviluppa il tema trobadorico della lontananza dal dolce
paese.

• Ad un clima differente appartengono componimenti più leggeri tra cui Per una ghirlandetta, che
canta l’amore per una Fioretta. Al medesimo clima è da ricondurre il sonetto Guido, i’ vorrei che
tu e Lapo ed io, che celebra l’amicizia come intima condivisione d’amore e che sarà il
manifesto dello Stilnovo.

• Altri componimenti rimandano invece a una visione d’amore più drammatica, con la descrizione
di Beatrice come un oggetto di una passione cupa e sofferta “E’ m’incresce di me sì
duramente”.
• Abbiamo anche un registro comico, al quale fanno parte i sonetti scambiati con l’amico Forese
Donati, caratterizzati da un registro basso e quotidiano.

• Allo sperimentalismo dantesco si sono volute ricondurre due opere pervenuteci anonime, ma
giudicate attribuibili a Dante da Gianfranco Contini per riferimenti testuali e corrispondente di
tipo linguistico-stilistico: il Fiore (poema allegorico composto di 232 sonetti che narrano la
conquista della donna) e il Detto d’Amore (poemetto allegorico sull’amore cortese)

LA VITA NUOVA
• E’ un narrazione in prosa volgare della storia dell’amore di Dante per Beatrce, prima e dopo
la morte di lei, che include le liriche composte negli anni precedenti. Con “vita nuova” egli
intende “vita giovanile”, ovvero quel rinnovamento interiore che matura sotto il segno di Amore.

• Il libello include 31 poesie, di cui 23 sonetti, 2 sonetti rinterzati, 5 canzoni e 1 ballata, che si
alternano nel corso della narrazione senza rispettare la tradizionale separazione per generi
metrici propria dei canzonieri antichi. La prosa serve per collegare le liriche e narrare le
circostanze di composizione. Si parla quindi di prosimetro.

• Rispetto alla convenzionale struttura bipartita in vita e in morte, si può meglio riconoscere un
disegno tripartito: una prima parte introdotta dal proemio e concluda dalla crisi del “gabbo”,
una seconda parte incentrata sulla “materia nuova della poesia della lode e una terza parte che
si apre con la morte di Beatrice, che comporta l’entrata in una nuova materia e termina con la
visione finale.

Possibili modelli sono il De consolatione Philosophiae di Severino Boezio (per il prosimetro), le


Confessiones di Agostino (per l’autobiografia e il mutamento interiore), il Laelius de amicitia di
Cicerone (per l’ideologia amorosa), ma quest’opera, così com’è concepita, è un’opera senza
precedenti e presenta tratti esclusivi (1- la scelta di scrivere un libro totalmente in volgare, 2-
prosimetro sfruttato per una narrazione autobiografica coerente, 3- nuova concezione amorosa
che riprende il padre Cavalcanti e lo supera)

Per quanto riguarda i tempi e i modi di composizione, si colloca la composizione della Vita
Nuova fra il 1292 e il 1293, stando a una cronologia interna suggerita da Dante stesso.

Chiaro è che la Vita Nuova è un operazione a posteriori e ideologicamente orientata e quindi


sembra scontato supporre degli interventi posteriori sui singoli testi, adattati e rifunzionalizzati nel
complesso strutturale. Importante è anche la collocazione delle liriche all’interno della storia: un
esempio è la ballata Ballata, i’ vo’ che tu ritrovi Amore, che Dante invia a Beatrice dopo la perdita
del saluto, che sembra essere un componimento giovanile, non necessariamente riguardante
Beatrice, poi rifunzionalizzato all’interno del libello. E non si può di certo escludere che qualche
poesia sia stata scritta appositamente in funzione della Vita Nuova.

TRAMA

1-3 : Dante ricorda il primo incontro con Beatrice a 9 anni, e il secondo, 9 anni dopo, quando la
giovane gli rivolge il saluto salvifico .

Preda di amore, egli ha la visione di Amore che dà in pasto il suo cuore a Beatrice e poi si
allontana con lei nel cielo (chiede così ad alcuni poeti, tra cui Cavalcanti, di interpretare tale sogno
tramite il sonetto A ciascun’alma presa: inizia così l’amicizia con Cavalcanti)

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4-6 Per non compromettere Beatrice, Dante lascia credere di essersi innamorato di un’altra
donna, cui finge di dedicare le proprie liriche, assumendola come “donna schermo” tramite sehnal
(pseudonimo).

7-9 Quando la donna lascia Firenze, Dante, su esortazione di Amore, cerca un’altra donna
schermo cui dedicare i suoi versi.

10-17 La sua condotta risulta inopportuna e dà luogo a maldicenze: così Beatrice gli toglie il
saluto e Dante sconfortato, su suggerimento di Amore, compone una ballata di scuse.

Durante una festa, Dante incontra Beatrice, che ride del turbamento che egli manifesta e così
decide di non scrivere più di lei fin quando non saprà farlo in maniera più nobile.

18-21 A due donne gentili che gli chiedono spiegazione sul suo comportamento, egli risponde
con la canzone Donne ch’avete intelletto d’amore e il sonetto Amore e ‘l con gentile sono una
cosa: manifesta così la svolta che si è prodotta sulla sua concezione d’amore “poesia della lode”

22-27 Scrive poesia di lode e Tanto gentile e tanto onesta pare

28-34 Muore Beatrice (8 giugno 1290) e qui si apre la terza sezione del libello: Dante è addolorato
e nulla può aiutarlo. Dante viene notato da un’altra donna gentile.

35-39 Beatrice, apparsagli in sogno, lo richiama all’amore esclusivo per lei.

40-42 Il poeta rivolge un componimento a Beatrice e ad alcuni pellegrini di passaggio per Firenze.

Compone un sonetto in cui contempla l’anima di Beatrice nell’Empireo e il libello si chiude con
l’annuncio di una nuova opera, la Commedia, in cui Dante dirà quel che non è stato mai detto di
nessuna.

AMORE E RAGIONE
- Nel racconto del primo incontro, Dante sottolinea come Beatrice gli sia “apparsa” a 9 anni, già
“donna de la mia mente” (domina). Rivela pochi tratti emblematici della sua descrizione
(vestita di nobilissimo colore, umile, onesto e sanguigno) e rivela la genesi del suo sentimento
(dominio totale e incondizionato di Amore), elaborato sui modelli della filosofia aristotelica.
Conclude dicendo che il potere di Amore era così nobile da non esercitare mai il proprio
dominio senza la guida della ragione: Amore mai separato dalla ragione perchè solo così è il
tramite a Dio.

- […] Dopo che Beatrice nega il suo saluto a Dante, Amore gli appare in sogno in lacrime
(=premonizione della morte di Beatrice). Dante nutre ancora un sentimento immaturo perchè
proietta il fine del suo amore fuori di sé, ovvero nel desiderio del Saluto, mentre, secondo
amore, bisogna maturare un sentimento disinteressato e assoluto, in cui si è autosufficienti.

- […] Dopo la morte di Beatrice, il poeta, compreso il vero amore, ricade vittima a nuove
tentazioni terrene ed esprime il conflitto tra ragione e desiderio. Solo dopo un apparizione di
Beatrice in sogno, Dante si pente e torna a celebrare l’amore razionale.

AUTOBIOGRAFIA DI UN POETA
La storia del rinnovamento interiore ispirato dall’amore per Beatrice è la storia della poesia di
Dante.

La poesia della lode rappresenta senz’altro la conquista di un nuovo ideale linguistico e retorico,
improntato al valore della dulcedo.

Se il Dante che spera nel saluto è ancora legato alla tradizione cortese di poesia come richiesta
amorosa per una ricompensa, la perdita del saluto determina un superamento netto rispetto a
tale concezione.

Dopo la perdita del saluto, egli si chiude in uno stato di angoscia e dolore, ma presto si rende
conto che la poesia per questa via finisce in un vicolo cieco e si rassegna quindi al silenzio.

Qui nasce l’intuizione della lode, che è espressione di un amore disinteressato e


autosufficiente, che non richiede il “guiderdone” (ricompensa per il servizio amoroso), ma che ha
in sé la propria beatitudine, sul modello della caritas (amore incondizionato per Dio).

-“Tanto gentile e tanto onesta pare” è l’esempio supremo di questa lode incondizionata perchè
Dante crea un’atmosfera estatica con l’apparizione della figura femminile non concretamente
delineata. I dati fisici esprimono un significato spirituale: gli occhi infondono dolcezza nel cuore e
il viso esprime un fascino soave. Beatrice viene spiritualizzata e “appare”, “si mostra”, e il tutto si
conclude con un sospiro, manifestazione dell’ineffabile stato di grazia infuso dalla donna.

-“Oltra la spera che più larga gira” è il sonetto in cui egli contempla l’anima di Beatrice che risiede
nell’Empireo.

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L’IMPEGNO POLITICO E L’ESILIO (1295-1308)


- 1295 Firenze passa sotto il controllo dei Villani, ossia dei membri delle Arti principali, tra cui si
iscrive Dante, che entra a far parte dell’Arte dei medici e degli speziali.

- Firenze è sconvolta da un conflitto tra due grandi famiglie aristocratiche, i Donati (“antichi di
sangue”, che prendono il nome di Neri) e i Cerchi (“buoni mercanti e grandi ricchi, che
prendono il nome di Bianchi). Dante non si schiera apertamente poichè la moglie fa parte dei
Donati e Cavalcanti è uno dei principali esponenti dei Cerchi.

- 1300 Dante viene eletto Priore

- 1301 il conflitto si acuisce, acquisendo carattere politico. Bonifacio VIII, sollecitato dai Neri
che accusano i Bianchi di ghibellinismo, invia dalla Francia Carlo di Valois. Allora, il governo
fiorentino manda a Roma un’ambasciata guidata da Dante per evitare l’intervento francese, ma
Carlo di Valois entra a Firenze dalla parte dei Neri, che instaurano un nuovo priorato.

- 1302 Dante viene condannato al confino per corruzione e peculato, successivamente alla
confisca dei beni e al rogo. Trova ospitalità presso la ghibellina Arezzo.

- 1303 Dante è a Verona da Bartolomeo della Scala (lo ricorderà in Paradiso)

- Muore Bonifacio VIII e, dopo la morte di Bartolomeo egli torna in Toscana, cercando di
riallacciare i rapporti con gli altri fuoriusciti.

- 1304 I Bianchi decidono di tentare la via delle armi ma vengono sconfitti pesantemente nella
battaglia della Lastra, ma Dante, che si era opposto a tale decisione, decide di far “parte per
se stesso”.

- 1304-1320 A nome di Dante ci sono giunte 13 epistole, fondamentale documentazione degli


anni dell’esilio e del pensiero dantesco: sono concepite come un discorso pubblico. La più
rilevante è l’epistola XIII, indirizzata a Cangrande della Scala.

- Dante trova rifugio in Veneto da Gherardo del Camino e qui inizia a lavorare al Convivio e al
De Vulgari Eloquentia.

LE RIME DELLA MATURITA’


• RIME ALLEGORICHE: Nel Convivio, Dante afferma che le rime d’amore composte per la
“donna gentile” da cui è attratto nella parte finale della Vita Nuova hanno un significato
allegorico ed esprimono il suo amore per la Filosofia: non è certo che sia così, ma è evidente
l’operazione di presentarsi come cantor rectitudinis e non più come poeta d’amore. Le rime
per la “pargoletta” oppongono resistenza a essere intese allegoricamente perchè mettono in
scena una passione per una giovinetta, sublimata mediante le movenze e le immagini proprie
della lode beatriciana, come nella ballata I’ mi son pargoletta. Non mancano al tempo stesso
anno di stile più elevato che aprono considerazioni di ordine universale, come Amor, che modi
tua virtù dal cielo.

• RIME PETROSE: Lo sperimentalismo dantesco conduce alle rime pertosse, due canzoni e due
sestine, che hanno per tema l’angoscia provocata nel poeta da una passione sensuale per una
donna fredda e insensibile, chiamata appunto Pietra (sehnal). Egli prende le distanze dalla
dulcedo stilnovista per sperimentare un linguaggio artificioso, fortemente espressivo,
foneticamente e sintatticamente aspro, ricalcando il trobar car del provenzale Arnaut Daniel. In
“Così nel mio parlar voglio esser aspro” Dante dichiara di voler usare un linguaggio aspro e un
ritmo martellante per parlare di una donna bella ma crudele: il poeta/amante non ricambiato
non sa difendersi e descrive gli sforzi per nascondere agli altri il suo amore, come se si
vergognasse di esserne preda. Dante si augura che la donna provi la sua stessa sofferenza e
che latri anch’essa d’amore, ma alla fine la scena si ribalta con il bacio finale.

IL CONVIVIO
E’ un prosimetro che consiste in un auto commento alle canzoni composte negli anni precedenti.
L’operazione, apparentemente analoga a quella della Vita Nuova, si connota profondamente
diversa. Presentata come opera della piena maturità, ha finalità didascaliche, dichiarate dal titolo
“banchetto della conoscenza”, e contenuti filosofici: Dante si propone di raccogliere le briciole di
scienza cadute nella mensa dei sapienti e di offrirle a coloro che sono esclusi dal sapere.

La stesura dell’opera si colloca non a caso nei primi anni dell’esilio, quando Dante è ormai
escluso dalla politica attiva, perchè affida alla scelta di comporre un trattato filosofico in volgare

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con intento didascalico la possibilità di riaccreditarsi come intellettuale impegnato nella


formazione etico-culturale delle élites italiane.

I modelli sono il De consolatone Philosophiae di Severino Boezio, cui Dante si richiama sia per la
struttura del prosimetro e per la personificazione della Filosofia, il Tresor di Brunetto Latini per
l’intento divulgativo di trasmettere il sapere, e l’opera aristotelica per i contenuti filosofici.

STRUTTURA: Dante non termina il Convivo per dedicarsi alla Commedia e ci sono giunti solo 4
libri o trattati: il primo è un’introduzione, il secondo un commento alla canzone Voi che
‘ntendendo il terzo ciel movete, il terzo alla canzone Amor che ne la mente mi ragiona e il quarto a
Le dolci rime d’amore ch’i’ solia.

- Nel capitolo introduttivo, Dante spiega che la nostra ultima felicità risiede nella conoscenza e si
propone di offrire ciò che egli ha raccolto alla mensa dei sapienti, accompagnando la vivanda
delle sue canzoni con il pane di un commento che le renderà commestibili, cioè
comprensibili in ogni loro parte. La scelta del volgare avviene sul piano pratico di proporsi
come mediatore nei confronti di un pubblico nazionale più ampio possibile. Il latino è
sicuramente superiore per nobiltà, virtù e bellezza, ma ciò che serve ora è il volgare come
lingua di trasmissione della conoscenza filosofica, perchè il latino porterebbe beneficio solo a
pochi.

- Il secondo e il terzo trattato sono tesi a rivendicare l’amore del poeta per la filosofia,
reinterpretando la “donna gentile” come allegoria della Filosofia. Più che cercare di forzare il
testo, pare utile interrogarsi sulle ragioni che hanno portato Dante ad una rilettura così
spregiudicata della Vita Nuova, ragioni che sono probabilmente da ricondurre all’esigenza di
rimuovere da sé l’immagine giovanile di un poeta amoroso “fervido e appassionato”

- Nel quarto trattato, affronta l’arduo tema della nobiltà, che racchiude questioni di carattere
etico, sociale e politico. Con una procedura tipica della quaestio, che prevede la propedeutica
confutazione delle opinioni contrarie alla propria, Dante dimostra che per nobiltade si intende
perfezione di propria natura in ciascuna cosa e non può derivare dal possesso di ricchezze. La
conclusione dantesca preclude quindi il titolo di nobile non solo all’aristocrazia di sangue ma
anche alle nuove classi mercantili, rivendicando l’ideale di una nobiltà morale e intellettuale.

IL DE VULGARI ELOQUENTIA
E’ un trattato in latino dedicato all’eloquenza in lingua volgare, probabilmente iniziato attorno al
1304 e rimasto incompiuto.

L’opera è del tutto originale perchè, a differenza di opere come il De invenzione ciceroniano o l’Ars
poetica di Orazio che sicuramente lo avranno influenzato, il De Vulgari presenta uno straordinario
eclettismo, passando dall’approccio filosofico all’indagine a carattere sociolinguistica e
storiografico, fino a giungere alla definizione delle norme retorico-stilistiche della poesia aulica in
volgare. Non è difficile intravedere dietro tale progetto la speranza di guadagnarsi prestigio.

Il trattato si interrompe bruscamente nel mezzo del Capitolo 14 del secondo libro e avrebbe
dovuto comprendere 4 capitoli: 1) origini del linguaggio e definizione di volgare illustre; 2) teoria
medievale degli stili; 3) prosa illustre; 4) stile comico

Dante basa il trattato su una rivoluzionaria scelta culturale: il volgare è più nobile del latino.

Il volgare è una lingua naturale, adoperata sin dalle origini da tutti gli uomini e quindi
differenziatasi in parlate diverse, mentre il latino è una lingua artificiale, una gramatica elaborata
da dotti per la creazione letteraria.

La lingua primigenia era l’ebraico, che in seguito alla confusione babelica ha dato vita a tre ceppi
linguistici in Europa: uno germanico-slavo, uno greco e uno romanzo (suddiviso in francese d’oil,
provenzale d’oc, in italiano del sì).

Andando alla ricerca del volgare illustre, egli riflette una straordinaria coscienza delle varietà
regionali, ma nessuna delle quali trova rispondenza nel volgare illustre che, per definizione, è:

-illustre, in quanto illumina

-cardinale, perchè intorno a esso ruotano tutti i volgari italiani

-aulico perchè deve avere sede in un aula regale

-curiale, perchè specchio della misura e dei valori cortesi.

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Dante riconosce l’uso del volgare illustre ai soli poeti dotati di ingegno e dottrina, che hanno come
argomento i “magnalia” (cose elevate e ammirevoli: salvezza, amore, virtù).

Inoltre, in questa sua operazione di critico militante si possono evidenziare tre dati:

1) Canonizzazione dell’esperienza stilnovista, con i nomi dei tre poeti che conobbero
l’eccellenza del volgare (Guido, Lapo, “un altro” e Cino da Pistoia)

2) Condanna radicale di Guittone d’Arezzo, accusato di costituire esempio di ignorantia,


occasione per rimarcare limiti della poesia dell’aretino e dei suoi seguaci, relegandola a un
ambito municipale

3) Riconoscimento di Cino da Pistoia come migliore poeta d’amore: perchè? La scelta può
avere o un significato polemico che confermerebbe la rottura con Guido o, al contrario,
sarebbe potuto apparire mistificante relegare Guido in quel ruolo minore di cantore d’amore
(non ci si vuole riconoscere Dante stesso, che si definisce cantor rectitudinis)

GLI ANNI DELLA COMMEDIA (1308-1321)


La salita al trono imperiale di Enrico VII di Lussemburgo suscita forti attese, che sembrano
trovare compimento quando Enrico decide di scendere in Italia alla fine del 1310, per riaffermare
l’autorità imperiale e per essere incoronato a Roma dal papa. Dante (firmatosi l’exul inmeritus) si
schiera apertamente in suo favore.

Tra i comuni guelfi che resistono all’imperatore c’è Firenze, cui Dante minaccia un inesorabile
castigo per la città ed esorta l’imperatore a rivolgervi contro la sua azione militare.

Enrico pone l’assedio a Firenze, ma non riesce ad entrare e nell’estate del 1313 muore di malaria,
facendo svanire agli occhi di Dante il sogno di una pax augusta. Dante gli riserva un seggio in
paradiso (l’alto Arrigo).

DE MONARCHIA: E’ in questo periodo che Dante comincia a comporre la Monarchia, in cui


legittima sul piano teologico, filosofico e storico l’autorità imperiale, proprio durante la discesa di
Enrico VII. Egli si propone di dimostrare che l’impero universale è necessario per il buon
ordinamento del mondo, che i Romani fondarono l’impero in accordo con la volontà divina e che
l’autorità imperiale deriva da Dio e non dal pontefice. Al di là del suo valore intrinseco, l’opera si
rivela utile ai fini della comprensione di fondamentali tempi e concetti della Commedia.

1313-1315 Nel 1314, Dante scrive una epistola ai cardinali italiani per esortarli a riportare la sede
papale da Avignone a Roma. Firenze emana un’amnistia, ma Dante la rifiuta aspramente,
determinandosi una nuova condanna a morte. Così lascia la Toscana e torna a Verona da
Cangrande della Scala, la cui generosa ospitalità è celebrata nel Paradiso.

Dei rapporti privilegiati con Cangrande è prova l’epistola XIII, con cui Dante gli dedica il Paradiso.

Nel 1319 si trasferisce a Ravenna presso Guido Novello e completo il Paradiso.

Nel 1320, un maestro di retorica dell’università di Bologna gli rimprovera la scelta del volgare per
un poema di argomenti tanto elevati come la Commedia e Dante risponde con un’egloga in
esametri sul modello delle Bucoliche, in cui rivendica la sua fiducia nel poema, che gli farà
tributare l’alloro poetico dalla sua Firenze.

Declina l’invito a Bologna e nel 1321 si ammala e muore a Ravenna, dove ancora oggi è sepolto,
avendo Firenze invano nei secoli successivi tentato di riavere le spoglie.

LA DIVINA COMMEDIA
Per quanto riguarda i tempi di composizione della Commedia, gli studiosi fanno coincidere
l’inizio di composizione del poema, con l’interruzione del Convivio e del De Vulgari, da collocare
quindi intorno al 1307-1308.

Le tre cantiche furono comunque scritte e pubblicate in tempi diversi, con le prime due che
potrebbero essere state oggetto di una revisione comune, e l’ultima che impegnò il poeta fino alla
fine della sua vita. E’ inoltre probabile che gruppi di canti iniziassero a circolare presso amici e
corrispondenti man mano che venivano composti.

Probabilmente la prima edizione completa della Commedia fu curata dal figlio Iacopo.

TITOLO: “Divina Commedia” risale in realtà al letterato Ludovico Dolce, che lo pubblicò sotto
tale intestazione nel 1555, riprendendo la formula da un passo del Trattatello di Boccaccio.

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Dante la chiama solo “commedia” perchè il genere della commedia, al contrario della tragedia
che è vincolata a un registro e a una materia elevati, permette massima varietà di contenuti e stili,
dall’infimo al sublime, dal comico al tragico.

STRUTTURA: La commedia si compone di tre cantiche, che corrispondono a tre regni


oltremondani: Inferno, Purgatorio e Paradiso. Ogni cantica prevede 33 canti, cui si aggiunge 1
proemio che coincide con Inf.1, per un totale di 100 canti, nei quali si distribuiscono i 14.233 versi
del poema. E’ evidente la fondamentale simbologia cristiana della Trinità: questo non riflette
solo la struttura del poema, ma anche l’ordinamento morale (3 regni ultraterreni) ed è frequente in
numerose soluzioni narrative (le tre fiere, i tre giri della nave di Ulisse).

TERZINA DANTESCA: Inoltre il numero tre contraddistingue l’innovativa soluzione metrica della
terzina che, legata all’endecasillabo in una struttura ternaria con schemi rimico ABA, BCB, CDC
ecc., è un’invenzione dantesca

+ geografia fisica e morale dell’aldilà da guardare a pag 137

ENEA E PAOLO, POSSIBILI INFLUENZE : UNICUM SENZA PRECEDENTI


Nel secondo canto dell’Inferno, Dante manifesta a Virgilio i suoi timori circa il viaggio, non
ritenendosi degno di tale impresa. Fino ad ora solo due uomini l’avevano compiuta: un eroe
classico, Enea, e un santo, Paolo. Dante teme che la sua venuta sia “folle”, ma dietro la
consapevolezza di umile peccatore, si sta di fatto mettendo alla pari dei suoi predecessori.

Il modello Virgiliano dell’Eneide rappresenta per Dante un punto di riferimento fondamentale, sia
perchè il suo autore viene scelto come guida attraverso Inferno e Purgatorio, sia perchè egli
riconosce il testo come portatore di valori religiosi e profetici (ricerca di conoscenza e affinamento
spirituale dell’anima), caricandolo anche di precisi valori storico-politici agli occhi del poeta esule
(fondazione di Roma e impero di Augusto = ristabilire ordine politico e morale nella cristianità).
Inoltre l’Eneide gli fornisce spunti e immagini poetiche, tra cui la descrizione dei mostri infernali o
la geografia dell’oltretomba.

Per quanto riguarda Paolo, ci si riferisce alla seconda Epistola ai Corinzi, dove l’apostolo dice di
essere stato rapito al cielo. Inoltre il poeta ha presente la Visio Pauli, un testo apocrifo in cui si
racconta il viaggio ultraterreno di San Paolo.

In ambito romanzo, nel XIII secolo si sviluppa il genere delle visioni allegoriche: poemetti in
volgare in cui il protagonista narra un viaggio allegorico-didattico in prima persona

a in forma di sogno o immaginazione.

In realtà la Commedia si spinge ben oltre la tradizione latina delle visiones e quella dei poemetti
allegorici in volgare e ben oltre l’emulazione dell’epica classica di Virgilio, Ovidio, Lucano e
Stazio perchè Dante concepisce un poema sacro senza precedenti, un unicum straordinario non
riconducibile a nessun genere, senza modelli a cui uniformarsi e senza poter essere imitato.

IL SENSO ALLEGORICO DELL’OPERA


Il primo canto, nonostante la funzione di introdurre l’opera al lettore e di spiegare le ragioni del
viaggio, può apparire disorientante.

Non è chiaro se quella presentata come un’esperienza realmente vissuta sia una visione mistica.
Dante dice di essere “pieno di sonno”: sonno della coscienza o sonno in senso letterale?

La commedia va al di là del senso letterale e include dei sovrasensi di carattere simbolico-


allegorico: l’allegoria è un procedimento proprio della cultura medievale che consiste nel
riconoscere significati ‘altri’ rispetto a quelli espressi dalla lettera del testo.

Possiamo definirla polisemica, perché presenta diversi livelli di senso, in cui è possibile e
necessario interpretare delle parti senza mai forzare la lettera del testo.

AUTOBIOGRAFIA E UNIVERSALITA’
Dante, tramite l’Io cristiano, narra in prima persona una proprie esperienza esistenziale.

Si parla però di un “Io” complesso perchè va distinto tra Dante-autore e Dante-personaggio.

Il primo è l’auctor che racconta, onnisciente, il viaggio come un’esperienza conclusa, mentre il
secondo è il viator, il protagonista del viaggio la cui prospettiva è tutta interna.

Questa distinzione ovviamente era incomprensibile a Dante che si sforza sempre di rinsaldare la
propria identità con il protagonista del viaggio, anche tramite la strategia dell’emozione rivissuta
(rievocando un evento, sperimenta le stesse sensazioni).

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La dimensione autobiografica è forte e la ritroviamo nella figura di Beatrice, anche nelle anime
incontrate nel cammino, Brunetto Latini, Forse Donati e nelle numerose profezie post eventum
riguardanti l’esilio e così via.
Dante è “passionato”, cioè prova emozioni forti come la paura, la vergogna, la compassione,
quando è costretto a confrontarsi con peccati che riconosce come propri.

Ma Dante è anche “Everyman” perchè si fa portavoce di un messaggio universale, ponendosi


come “qualsiasi uomo”.

DANTE POETA E PROFETA


Nella cultura medievale, poesia e profezia non sono affatto separate, ma sono strettamente
collegate: il poeta è investito di una missione profetica.

Fictio o visio? Immaginazioni, sogni e visioni veritiere, anche in stato di veglia, erano ammesse
non solo dalla letteratura religiosa ma anche dalla tradizione filosofica aristotelica. Difatti, alcuni
antichi commentatori non avevano dubbi a proposito dell’ispirazione divina del poema e non è
affatto inverosimile pensare che Dante ritenesse la sua parola poetica intimamente ispirata dallo
Spirito Santo.

LA FILOSOFIA: IL SINCRETISMO DANTESCO


Dante affronta quasi tutte le questioni filosofiche dibattute al suo tempo, a partire da quelle
essenziali per la salvezza: la predestinazione della grazia, il libero arbitrio, la natura e le funzioni
dell’anima umana, i limiti della conoscenza razionale. Il risultato è un personale sincretismo,
fusione di dottrine di diverse origini, che concilia la fede cristiana con la filosofia di Aristotele.

LA POLITICA: L’ESILIO, FIRENZE, L’IMPERO


L’esperienza dell’esilio determina la tensione e la passione che alimentano la tematica politica, nel
suo oscillare tra indignazione per lo stato di degenerazione e la strenua fiducia in un’imminente
intervento provvidenziale.

La voce dell’exul inmeritus risuona forte e viva in primo luogo per l’agognata Firenze, maledetta
per la sua scellerata condotta attuale e rimpianta come il “bello ovile” della sua infanzia. L’amico
Ciacco, dannato tra i golosi, nel preannunciare a Dante il suo esilio imputa la discordia che dilania
Firenze alla sua caduta nei tre grandi vizi capitali: superbia, invidia e avarizia.

La corruzione e la decadenza di Firenze riflettono tuttavia una rovina morale e politica che
oltrepassa i confini municipali e pervade l’intera penisola italiana, che Dante vede abbandonata
dalla casa imperiale tedesca nelle mani dei francesi Angioini e in quelle del Papato abbruttito dal
potere temporale (Dante sostiene la teoria dei due soli)

LA LETTERATURA: I POETI DELLA COMMEDIA


Il viaggio oltramondano è anche un viaggio letterario in cui Dante ripercorre la sua formazione e la
sua storia di poeta. A Dante preme pronunciare una parola definitiva circa il proprio ruolo e
primato all’interno della più alta tradizione letteraria volgare. Infatti, in Inf. 4, Dante si colloca come
come unico e degno erede della più alta tradizione classica poichè, fissando il proprio canone di
autori classici, e ponendosi quindi al seguito di Omero, Virgilio, Orazio, Ovidio e Lucano.

Dante traccia inoltre la storia della poesia d’amore volgare, partendo dallo scambio con
Bonaggiunta Orbicciani in Purg. 24, dove egli rivendica l’autosufficienza della poesia, la
definizione di stilnovo e la netta separazione tra i vecchi poeti e il nuovo modo di far poesia.

REALISMO E PERSONAGGI
Il realismo psicologico della commedia è forse uno dei tratti più coinvolgenti, perchè le ombre
della Commedia mantengono tutta la loro individualità storica di esseri umani in carne ed ossa e
sono umanamente vivi, in un luogo senza tempo e senza imminenza.

Basti soffermarsi sulla descrizione di Farinata degli Uberti, capo dell’opposta fazione ghibellina, e
di come Dante rappresenti l’alto sdegno di “magnanimo” che gli era proprio da vivo e che lo è da
morto. Al contrario, la descrizione della fragile figura paterna di Cavalcante de’ Cavalcanti,
ansioso di scorgere i figlio.

La vita terrena di tali personaggi diviene “figura” della loro condizione oltramondana, che a sua
volta riproduce i tratti psicologici e caratteriali propri della realtà mondana. L’aldilà diventa teatro
dell’uomo e delle sue passioni perchè Dante, descrivendo lo stato delle anime dopo la morte,
mette in scena il mondo dei viventi, con le sue passioni, dilemmi ed errori.

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LA LINGUA DEL MOLTEPLICE


L’intrinseca varietà della materia esige un linguaggio altrettanto mutevole e plastico. Dante riesce
in questa mimesi linguistica, raccogliendo tutta la sua sperimentazione: l’ideale dulcedo delle
liriche stilnovistiche, la ricercata fisicità delle petrose, la sostenuta retorica delle canzoni morali, il
registro basso e colloquiali dei sonetti comici.

La componente più evidente del plurilinguismo dantesco è senz’altro il lessico.

La base linguistica è il volgare fiorentino che viene adoperato in tutte le sue varianti, alternando
forme arcaiche e moderne, termini dotti e popolareggianti, parole basse e oscene.

In tale dimensione rientrano anche i dialettalismi, i latinismi e i gallicismi. Egli conia anche lingue
demoniache, come “Pape, Satàn! Pape, Satàn! Aleppe!” e neologismi.

Non meno elaborate e mutevoli sono le strutture sintattiche e retoriche, tra le quali spicca la figura
della similitudine, con cui egli dà concretezza a situazioni straordinarie o astratte, che vengono
così ricondotte entro l’orizzonte esperienziale del lettore

+ Donne ch’avete intelletto pag.160

+ Canto 26 Inferno, Purgatorio e Paradiso

GIOVANNI BOCCACCIO (cap.3)


UN AUTORE TRA DUE CULTURE
Sin dalla giovinezza, Boccaccio si è mosso tra due diversi modelli culturali, uno filogino e
incentrato sul rapporto tra amore e poesia, l’altro misogino e incentrato sulla ricerca della
sapienza.

Le opere giovanili, scritte in volgare, ispirate al codice cortese e segnate da una posizione filogina
che valorizza il ruolo delle donne, sembrano contrastare con le opere senili, per lo più redatte in
latino, non prive di accenni misogini anche violenti. Il passaggio dalle prime alle secondo sarebbe
dovuto all’incontro con Petrarca (1350) e all’assunzione di voti, con conseguente ingresso nello
stato clericale (1360).

Con la sua esperienza letteraria, egli ha superato la contrapposizione tra cultura “alta” (in latino) e
cultura “bassa” (in volgare), riscattando tradizioni e temi addirittura folklorici, fin ad allora
considerati privi di dignità artistica, adoperandoli anche alle sue opere erudite.

Egli si impegna per un progetto innovativo di letteratura mezzana, collocata al centro tra “alto” e
“basso” con l’obiettivo si soddisfare la domanda culturale e artistica di un pubblico nuovo, in cui
si sovrapponevano provenienza mercantile e ambizione artistica.

Boccaccio si ribella quindi un autore sperimentale, che ha saputo attingere al mondo popolare,
adeguandolo a necessità più complesse: è il capostipite della narrativa moderna.

DUE CITTA’: FIRENZE E NAPOLI


Nasce nel 1313 a Firenze o più probabilmente a Certaldo (Boccaccius da Certaldo), figlio naturale
di Boccaccio di Chiellino e di donna ignota, trascorre l’infanzia a Firenze.

Nel 1327 segue il padre a Napoli, interrompendo la formazione scolastica per avviarsi alla pratica
mercantesca.

Si manifesta presto la sua vocazione per gli studi letterali e la propria passione per la poesia,
dopo esser stato costretto a lavorare per altri 6 anni in ambito giuridico.

Maggiorenne, senza pressioni e senza insegnamenti, inizia lo studio della letteratura.

Se mercatura e diritto sono espressione della provenienza fiorentina, a Napoli egli entra in
contatto con il codice cortese. Nella sua formazione agiscono congiuntamente due diversi
ambiti: da una parte, il mondo fiorentino, in lingua volgare, basato sulla diretta conoscenza delle
attività pratiche, dall’altra, quello napoletano, in cui sono compresenti il codice cortese di
impronta aristocratica e il livello erudito degli studi universitari e della cultura latina.

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LE PRIME SPERIMENTAZIONI NAPOLETANE


• Caccia di Diana (1334?), poemetto in terzine di endecasillabi diviso in 18 brevi canti, trasfigura
la corte angioma in una cornice mitologico-allegorica. Riprendendo la tradizionale
contrapposizione tra Diana e Venere, lo scrittore vi celebra infatti le donne napoletane.

• Filostrato (1335?), primo poema della letteratura italiana scritto in ottave, narra dell’infelice
amore di Troilo per Criseida (tratta un episodio della guerra troiana).

• Filoloco (1336), primo romanzo originale in prosa della letteratura italiana, narra l’amore di due
giovani Florio e Biancifiore, vicini sin dalla nascita e allontanati per volere dei genitori di lui.
Boccaccio trasformò la storia ormai nota in una vicenda allegorico-religiosa.

• Teseida (1340-1341), poema in ottave di dodici libri, in cui le gesta di Teseo fanno da sfondo
alla contesa amorosa tra Arcita e Palemone, innamorati di Emilia.

LE MATRICI LETTERARIE DEL PRIMO BOCCACCIO


Fra queste sicuramente Dante ha un ruolo di rilievo, che si nota specialmente nella sua spiccata
tendenza allo sperimentalismo (dalla prosa al verso, dalle terzine all’ottava). Inoltre Boccaccio gli
rimase fedele per tutta la sua vita, sforzandosi di promuoverne la lettura e la comprensione,
arrivando a farsi copista della sua opera e a realizzare un commento della Commedia.

Boccaccio si rivolge con curiosità anche a Petrarca, che costituisce il più probabile destinatario
della seconda epistola in latino.

L’ultimo tassello dell’influenza napoletana su Boccaccio è la cosiddetta “epistola napotelana”, in


cui l’autore dialoga in volgare napoletano con l’amico Franceschino dei Bardi, facendo riferimento
a se stesso in terza persona coma a un “abbate Ja’ Boccacci”, il quale scrive sempre. Questo
gioco metaletterario mostra molti punti di contatto con quella cultura del realismo problematico
tipica del Decameron.

RITORNO A FIRENZE
Costretto a tornare a Firenze nel 1340, termina il Teseida e la Fiammetta, ma inizia anche nuovi
progetti.

• De Canaria (1341-42): operetta geografica dedicate alle Canarie

• Commedia delle ninfe fiorentine (1341-1343): prosimetro noto anche come Ninfale d’Ameto, in
cui racconta dell’incontro del rozzo pastore Ameto con sette ninfe (raffigurazione allegorica delle
virtù). Queste lo liberano dalla sua originaria condizione bestiale fino a realizzarne a pieno
l’umanità.

• Amorosa visione (1341-1343): poema allegorico in terzine con cui, tramite lo schema della
visio, il poeta illustra la sala di un castello, sulle cui pareti sono illustrati i seguaci della Sapienza,
coloro che hanno aspirato alla gloria mondala, quanti si sono macchiati di avarizia e infine il
trionfo di Amore.

• Elegia di madonna Fiammetta (1343-1344), ispirata alle Heroides ovidiane, è il primo romanzo
in prosa di tutta la tradizione occidentale in cui una donna narra in prima persona la sua storia.
Fiammetta, napoletana, esprime il dolore per essere stata tradita e abbandonata da Panfilo, che
è tornato a Firenze. Grazie alla controfigura di Fiammetta, Boccaccio può riprendere l’intero
repertorio amoroso di matrice ovidiana e provenzale.

• Ninfale Fiesolano (1344-1346?): poemetto pastorale in ottave dedicato alle mitiche origini di
Firenze.

• Buccolicum Carmen: corrispondenza poetica in esametri latini intrecciata con il grammatico


Checco di Meletto Rossi. Boccaccio reinterpreta l’antico modello delle Bucoliche di Virgilio in
chiave politica, trascrivendo allegoricamente la propria posizione rispetto ai fatti che agitavano il
regno di Napoli. Ciò mostra la volontà dell’autore di partecipare alle vicende del mondo
angioino.

LA SVOLTA DI META’ SECOLO: L’ARRIVO DELLA PESTE


La terribile epidemia della peste nera proviene da Oriente e si sviluppa rapidamente a partire dal
1347, dalla Sicilia al Nord Europa: un vero disastro che cambia il volto del continente europeo,
riducendo la popolazione di quasi un quarto in meno di 4 anni.

A Firenze arriva nella primavera del 1348: si può parlare di un’autentica catastrofe culturale, che
spinse la popolazione ad adottare comportamenti esasperati.

Uno dei problemi principali fu la mancanza di un quadro concettuale che consentisse di


comprendere la peste: ciò produsse shock cognitivo d’enorme portata.

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Da qui parte Boccaccio con le 100 novelle contenute dentro un racconto esterno, che non solo
offre una rappresentazione dettagliata del morbo e dei suoi effetti sugli esseri umani, ma ne fa il
presupposto dell’opera, il suo nucleo centrale.

Al pari del personaggio-Dante, costretto a fare un viaggio lungo, pauroso e faticoso per potersi
salvare, anche i dieci giovani della brigata protagonisti del Decameron devono impegnarsi in un
percorso conoscitivo. Al posto dell’allegorica “selva” dantesca, c’è la peste, un evento storico
preciso, che però assume un significato morale.

L’introduzione della prima giornata descrive gli aspetti medico-sanitari, ma soprattuto gli effetti
politici: a causa delle diverse “paure e imaginazioni” ispirate dall’epidemia, ognuno fa quel che
vuole (chi si chiude in casa, chi si concede solo al godimento…) e la profonda incertezza è
aggravata dall’indebolimento degli istituti civili e religiosi.

Boccaccio utilizza un linguaggio tragico, con uno stile elevato, pieno di latinismi e formule
complesse, per evidenziare la perdita di ogni punto di riferimento sociale.

Lo stesso accadde per i legami familiari.

La fonte principale dell’opera è l’Historia Langobardorum di Paolo Diacono, nel cui secondo
libro è raccontata la peste “giustinianea”, che divampò in Italia nel VI secolo d.C. E’ qui che egli
trova descritto quello spettacolo di paura e disperazione cui egli stesso ha assistito.

La differenza però è che l’opera di Boccaccio è tutta urbana, con epicentro Firenze. In questo
quadro si spiega la scena dell’incontro di 7 giovani donne in Santa Maria Novella, con la loro
decisione di andare a rifugiarsi in una villa di campagna e l’invito di tre giovani amici a partire con
loro. Questa descrizione della peste fonda la cornice del Decameron. L’incontro in chiesa infatti
sigla il passaggio dalla peste alla vita lieta, dalla distruzione alla ricostruzione, dalla devastazione
del contagio all’organizzazione civile della vita in comune.

LA SVOLTA DI META’ SECOLO: L’INCONTRO CON PETRARCA


Nel 1350 egli conosce Petrarca e stringe un sodalizio con l’autore molto intenso (si visitano
spesso in varie città). Ancor prima di conoscerlo, egli ne aveva scritto la biografia

Il legame induce Giovanni a seguire Francesco sulla via della riscoperta degli auctores classici e
il loro scambio intellettuale è molto intenso.

L’amicizia presenta qualche incomprensione riguardo l’eredità dantesca che Giovanni venera,
mentre Francesco guarda con sospetto, se non con fastidio. Nella Familiare XXI, Petrarca vuole
difendersi dall’accusa mossagli secondo la quale egli sarebbe invidioso di Dante e spiega quindi
a Boccaccio tutte le ragioni per le quali egli non può che portare rispetto verso l’illustre poeta: egli
mostra e nasconde la sua ammirazione verso un enorme precedente letterario, ingombrante, ma
secondo lui essenziale.

Nonostante le varie divergenze, Boccaccio propone un ritratto illustre di Petrarca, paragonandolo


a Virgilio: il poeta moderno e quello antico avrebbero scelto entrambi a libertà del giogo delle alte
protezioni, l’uno andando via da Roma, l’altro lasciando Avignone: entrambi dedicati poi ad una
vita tranquilla, casta e solitaria.

Muovendosi tra l’ammirazione per Dante e la rispettosa amicizia per Petrarca, Boccaccio riesce a
tenere unita la tradizione poetica: dal mondo antico di Virgilio e Ovidio a quello moderno di
Dante, Petrarca e lui stesso.

IL DECAMERON
COMPOSIZIONE E DIFFUSIONE DEL’OPERA
La scrittura dell’opera inizia dopo il 1349 e si conclude circa nel 1360 ed è certo che è solo dopo
la pesta che egli decide di organizzare le novelle all’interno della cornice.

Boccaccio copia poi il proprio capolavoro in un codice autografo esemplato sul modello del libro
universitario.

Per quanto riguarda la diffusione, per molto tempo si è parlato di una diffusione “per passione”,
ovvero portata avanti da dei copisti che la avrebbero copiata per piacere personale. Ora si è più
inclini verso il gruppo dei manoscritti “a prezzo”, cioè realizzati da professionisti.

Gli antichi lettori del Decameron provengono sia dal mondo dei mercanti, sia da quello dei
funzionari e degli amministratori della cosa pubblica, sia da presenze aristocratiche.

Per quanto riguarda la diffusione geografica, si parte dall’asse Firenze-Napoli, fino ad una
notevole fortuna internazionale (si pensi a Goeffry Chaucher, che lo riprende nei Canterbury Tales).

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BOCCACCIO E L’INVENZIONE DELLA NOVELLA

-NARRATIVA BREVE: Boccaccio non si era mai sperimentato nella “narrativa breve”, se non in
minima parte nel Filoloco riprendendo il modello retorico della quaestio, ma nemmeno in quel
caso si trattava di racconti brevi autonomi. Ciò era normale, poichè la narrativa d’autore aveva di
solito dimensioni maggiori.

-MOLTEPLICITA’ DI FORME E TEMI: L’autore non si limita a enunciare i due temi principali (Amore
e Fortuna, ma segna a molteplicità dei casi che verranno narrati. La raccolta si ispira infatti alla
varietà di tempi, di personaggi, di stili e di registri espressivi. (influenza exempla, fabliaux, vidas)

-INFLUENZA DELLA RETORICA: Egli afferma di voler raccontare “cento novelle o favole o
parabole o istorie”. Probabilmente per novelle si intendono questi brevi componimenti in prosa di
argomenti diversi, per favole i fabliaux francesi in versi (tematiche amorose), per parabole gli
exempla (racconti orali di insegnamento morale), per istorie le nozioni storiche, realistiche o
biografiche. Certo è che nella retorica del tempo si distinguevano tre generi narrativi: la historia
(racconta le imprese realmente avvenute), l’argumentum (racconta le cose che potrebbero
avvenire), la fabula (racconti né veri né possibili).

-FUNZIONE MORALE: Sicuramente il lemma “novella” indicava il racconto di un evento


caratterizzato dalla novitas e funzionalizzato a un progetto educativo. Lo scopo era
l’ammaestramento. Boccaccio si svincola dal discorso morale, realizzando il passaggio
dall’esposizione di un caso tipico alla rappresentazione di un caso particolare, con conseguente
aumento della dimensione problematica del racconto.

Il novellare si configura come una pratica, un’attività sociale prima ancora che un genere
letterario (azione che risponde ad un insieme di regole e convenzioni collettivamente riconosciute
ed eseguite). Pampinea propone il racconto all’iniziale proposta di intrattenersi con il gioco perchè
“il novellare può porgere, dicendo uno, a tutta la compagnia che ascolta diletto”.

LA STRUTTURA: TRE CERCHI CONCENTRICI


Il Decameron si presenta come una mirabile sintesi di brevitas e di narrazione, che Boccaccio
realizzò su due tipi principali: il dialogo e il racconto-peripezia.

Modello fondamentale era il Novellino, antologia narrativa realizzata a Firenze circa cinquant’anni
prima del Decameron, che raccoglieva 100 novelle di autori sconosciuti.

L’opera si muove su tre livelli strutturali:

1) Livello esterno: Autore e Lettrici (Proemio, Introduzione alla quarta giornata, Conclusione)

2) Livello mediano: vita della “lieta brigata”

3) Livello interno: azione delle novelle (Cento novelle vere e proprie)

Questi tre livelli vengono tenuti assieme da una serie di rapporti interni importanti: qui entra in
gioco l’influenza dantesca partendo dai cento racconti (cento canti) fino al simbolismo dei tre
uomini e delle sette donne (numeri perfetti della tradizione antica e cristiana).

La cornice decameroniana è allo stesso tempo un principio di organizzazione tematica e la


rappresentazione di un progetto educativo, incentrato sull’arte della parola (autoeducazione).

1) PRIMO CERCHIO:

Boccaccio utilizza la “forma libro” per creare una figura d’autore, ossia per legittimarsi all’interno
della nuova letteratura in volgare.

La forma-libro inoltre gli consente di sottolineare la responsabilità del lettore, che aggiunge il
sottotitolo “Comincia il libro chiamato Decameron, cognominato Prencipe Galeotto”, in cui vi è
una chiara allusione a Dante (Canto V, Inferno) e al romanzo di Chretien de Troyes.

L’autore si riserva tre spazi per interloquire col Lettore e orientarne la comprensione.

1- Nel proemio egli individua il fruitore nelle donne “innamorate” segregate in casa, verso le quali
la narrazione novellistica si propone come cura della malinconia. Questa definizione del pubblico
serve a caratterizzare un tipo di lettore che si colloca a metà tra le opere colte, scritte in latino, e la
produzione popolare, affidata all’oralità del volgare.

2- Nell’Introduzione della IV giornata, egli si difende da 5 accuse: la scelta delle donne come
destinatarie privilegiate, la sconvenienza della materia troppo bassa per un autore maturo, la
futilità dei racconti narrati, lo scarso valore sociale di un’opera simile, la falsità dei racconti.

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3- Interviene poi nella conclusione, con la difesa contro alcune domande sottintese che le lettrici
potrebbero rivolgergli. Qui egli rivendica una piena autonomia stilistica, affermando che la
letteratura non risponde a criteri morali, ma alla qualità delle novelle. Al tempo stesso,
l’interpretazione di tali novelli è in mano alle Lettrici, in base al loro orizzonte culturale e morale.

2) SECONDO CERCHIO:

Se la cornice tiene insieme racconti diversi, Boccaccio collega questa necessità alla vita della
brigata. I 10 giovani decidono di condurre una vita piacevole, affidando ogni giorno a uno di loro il
compito di organizzare le attività in comune, compresa la scelta del tema intorno al quale si
dovranno narrare le novelle. Il novellare è un’attività regolata e non conflittuale. L’armonia del
gruppo è confermata anche dall’eccezione, risultato di una scelta condivisa, di Dioneo che non
rispetta il tema prescelto.

Tutto ruota attorno all’onestà e all’idea di spostarsi in campagna per vivere “allegrezza, piacere e
festa” sotto il segno della ragione. Le tensioni che talvolta agitano la brigata rappresentano la
tensione tra il principio dell’onesto e la ricerca del piacevole (“piacere onesto” è la risposta alla
dissoluzione minacciata dalla peste). La vita della brigata si rivela un processo di conoscenza,
basato su regole ce non s’informano a un’astratta Tavola della legge, ma al principio dinamico
della circolazione narrativa, basata su collaborazione e dialogo.

3) TERZO CERCHIO
Amore e Fortuna sono i fili conduttori delle novelle, ma, andando più nello specifico, nel corso del
novellare si affrontano 8 argomenti (due giornate sono a tema libero, la 1 e la 9).

2- Fortuna

3- Valore individuale

4- Amore infelice

5- Amore felice

6-7-8: Comicità

10: Liberalità e magnificenza

I PERSONAGGI
I personaggi sono rappresentanti di una ricca stratigrafia sociale e sono un’organica raffigurazione
della realtà contemporanea.

• I mercanti: questi sono la tipologia sociale prevalente (ser Cepparello), ma Boccaccio


rappresenta anche le caratteristiche meno esemplari (Landolfo Rufolo, Andreuccio da Perugia).

• I religiosi: questa è la categoria descritta in termini negativi perchè frati, monaci e abati agiscono
per fini del tutto mondani, indifferenti alle regole del sacerdozio e anzi pronti a infrangere le
leggi. La loro principale caratteristica è l’ipocrisia, assieme alla lussuria.

• I Ceti umili: sono numerosi i personaggi provenienti dal mondo dei lavoratori, di cui l’autore
registra con sensibilità le differenti professioni.

• I Parassiti e approfittatori: es. Cecco, Ciacco e Bondello

• Gli Artisti: di questi sono messi in mostra l’ingegnosità e l’abilità intellettuale (Giotto, Guido
Cavalcanti)

IL REALISMO
Il Decameron è tutto orientato sul presente e ciò vale sia per la conversazione tra la brigata sia per
la comunicazione col lettore. Ma questo realismo altro non è che un fatto formale perchè vi
agiscono le scelte della retorica, l’invenzione dei personaggi e così via. L’autore spiega che la
letteratura è basata sul riciclaggio, sulla ripresa di materiali tradizionali, che vengono adattati alle
nuove necessità. Non esistono “gli originali” e l’opera, tutt’al più allude alla realtà.

FIRENZE NELL’OPERA
Firenze stabilisce l’orizzonte culturale, etico e ideologico che dà senso alla pratica narrativa della
brigata. I principali caratteri di questo orizzonte sono:

-netta contrapposizione col contado (secondo tradizione latina rusticus vs. urbanus): questa
contrapposizione è forte anche nei confronti delle città rivali (novella di Maso del Saggio)

-trattamento dello spazio: l’attenzione ai nomi, ai luoghi, l’orientamento politico, con i vari richiami
ai pettegolezzi, rendono queste novelle “calde” per l’implicito riferimento a codici condivisi: un
sistema allusivo stabilisce il netto confine tra fiorentini e forestieri (es. Frate cipolla)

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LA CORTESIA COME MODELLO PROBLEMATICO


La cortesia rappresenta il perno etico e ideologico del Decameron. Boccaccio ha conosciuto il
modello delle virtutes cavalleresche, tramite il soggiorno a Napoli, e si immette in questa linea,
adattandola al contesto fiorentino, caratterizzato da una stratificazione sociale più articolata di
quanto non fosse il mondo feudale. Infatti, il ceto dirigente delle città italiane è una realtà ibrida, in
cui gli esponenti del ceto mercantile convivono coi membri di una aristocrazia cittadina.

Egli elabora quindi una nuova norma comportamentale.

Il tema della non sovrapponibili tra la prospettiva feudale e quella comunale, sotto il profilo
economico, è visibile nella novella di Nastagio degli Onesti e Federigo degli Alberghi.

-Nell’etica cortese, è inoltre fondamentale la misura, ossia il controllo razionale, la ponderazione.

-Altro elemento da considerare è il carattere relazione della cortesia, che stabilisce una netta
contrapposizione con la villania e l’avarizia (novella di Erminio Grimaldi),

Boccaccio non interpreta la cortesia come una prerogativa aristocratica basata sullo ius
sanguinis, ma come effetto dell’elevatezza d’ingegno.
-La centralità della cortesia in amore è confermata anche nel registro comico (novella VII 7)

-Il trattamento più complesso della cortesia è quello riguardo alla magnanimità, in cui la cortesia è
vista come una virtù che presiede alle forme della relazione umana e ha quindi una natura politica,
perchè stabilisce chi è simile e chi va tenuto a distanza.

UN’EPOPEA DE’ MERCATANTI?


La formula “epopea de’ mercatanti” si deve a Vittore braca, e secondo questa interpretazione, il
Decameron sarebbe un racconto delle origini (epopea) raffigurante l’inizio del Rinascimento, frutto
dell’energia di un gruppo sociale omogeneo (mercanti).

Ma la formula appare adeguata solo se si pensa alla preminenza quantitativa di questo tipo di
personaggi, ma rischia di ridimensionare la complessità del Decameron, dove spesso viene fatta
una rappresentazione ambigua del mondo dei mercanti: Boccaccio infatti ne spiega la
complessità, l’instabilità, la debolezza morale (es. Ser Cepparello).

Del resto, il sistema di valori proposti da Boccaccio non può coincidere con l’accumulazione di
ricchezza, “avarizia”, che, nell’accezione italiana antica, è sinonimo di cupidigia, perchè sarebbe
del tutto incompatibile con la cortesia.

L’ARTE DELLA PAROLA


Tra le altre cose, il Decameron è senza dubbio una grande esaltazione delle capacità espressive
dell’uomo. Ciò si nota sia nel cerchio esterno, con la dedica alle donne, sia nel secondo cerchio,
con le performance narrative, sia nel terzo cerchio, poichè la maggior parte delle novelle si
basano sulla capacità di utilizzare le risorse del linguaggio.

Ma i massimi vertici dell’arte della parola sono raggiungi dall’ambito del comico, sia nelle novelle
di motto, in cui l’intelligenza umana si concentra in poche battute, sia in quelle di beffa, in cui
spesso v’è un discorso più ampio e articolato.

La parola artistica può agire in maniera positiva o negativa perchè è di natura ambigua.

Nella Conclusione infatti egli si rivolge di nuovo alle donne, che devono mostrarsi capaci di
interpretare i racconti e di stabilire con le narrazioni non solo una relazione empatica, ma anche
un rapporto ermeneutico di messa a distanza, nonostante il coinvolgimento emotivo.

LE OPERE IN LATINO
Alla svolta di metà secolo di Boccaccio, va ricondotto anche il precisarsi di un nuovo progetto
letterario, segnato dall’influenza di Petrarca e caratterizzato dall’impiego della lingua latina e
dall’interesse erudito.

Si mira dunque al recupero dei modelli antichi e soprattutto ad una grande sintesi capace di
collegare il mondo classico e la tradizione biblica alle esigenze del presente. Egli si impegna
dunque su:

1) le opere erudite: di questo gruppo abbiamo la Genealogia deorum gentilium, trattato di


mitologia di 15 libri, come portatore autonomi di valori universali, e il De montibus, dizionario
geografico basato su fonti classiche e medievali
2) le raccolte narrative d’impianto storico: di questo gruppo abbiamo il De casibus virorum
illustrium, che raccoglie una serie di exempla morali tratti da biografie di uomini illustri, e il De
mulieribus claris, opera nata su ispirazione del De viris di Petrarca e costituita da 106 biografie
di donne divenute celebri per scelleratezza o grande virtù (da Eva alla vita della regina
Giovanna).

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IL CORBACCIO
Il Corbaccio, operetta allegorica risalente al 1366 e narrata in prima persona, tratta di un uomo
che, disperato per l’amore non corrisposto di una vedova, invoca la morte.

Addormentatosi tra le lacrime, il narratore-protagonista riceve in sogno l’apparizione del defunto


marito della donna, che gli rivela di essere stato inviato da Dio, per intercessione della Madonna,
al fine di salvarlo dal labirinto d’amore nel quale è caduto. Lo spirito rimprovera al protagonista la
passione in cui è caduto, facendogli osservare quanto sia disdicevole dedicarsi all’amore alla sua
età, soprattutto quando si è passata una vita intera negli studi.

L’invettiva contro amore risponde a precisi modelli medievali, e erudizione antica, interesse
astrologico e misoginia ribadivano sempre la separatezza dell’intellettuale dagli impegni sociali.

Non deve quindi stupire la polemica misogina del Corbaccio, dove si legge una celebre accusa
alle opere in cui si narrano le imprese amorose di Tristano, Lancillotto e dei compagni erranti.

UN PROGETTO CON DUE TESTE


Il Corbaccio potrebbe far parte di quella “letteratura mezzana” collocata tra “alto e basso” e
mirante a soddisfare un pubblico nuovo. Si spiega infatti in questo modo anche quanto si legge
nell’epistola inviata dall’autore nel 1373 a Mainardo Cavalcanti, sconsigliandosi di far leggere il
Decameron alle donne di casa. Ciò sembrerebbe smentire il Proemio dell’opera, ma la lettera non
è una condanna alla raccolta, quanto sembra imporre il controllo della lettera, ma anche
prefigurare un lettore aperto, disponibile e soprattutto consapevole delle proprie responsabilità.

Infatti una condanna all’opera appare difficile da sostenere, se consideriamo che in quegli stessi
anni l’autore utilizza il codice autografo del Decameron noto come Hamilton 90 e oggi custodito a
Berlino.

Egli realizzò tale codice intorno al 1370, e sostiene l’utilità di scrivere racconti, respingendo
l’accusa che i poeti siano chiacchieroni, e al contrario difendendo il valore civile della narrazione.

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LA POESIA DEL TRECENTO (cap.4)


UNA NUOVA STAGIONE POETICA
Forti dell’eclettismo tematico e stilistico della Commedia, i poeti di questa nuova stagione
rispondono ad un quadro politico e sociale mutato profondamente. La crisi delle grandi istituzioni,
dei Comuni e il sorgere delle prime signorie determina conseguenze sul piano degli ambienti della
produzione culturale.

- I rimatori diventano funzionari di corti (non più semplici borghesi d’alto rango), professionisti
al soldo delle istituzioni o uomini di estrazione schiettamente popolare. L’attività letteraria
conosce un fenomeno di professionalizzazione in direzione cortigiana e i prodotti letterari si
propongono spesso come prodotti occasionali, di immediato consumo.

- Fondamentale è anche il moltiplicarsi di luoghi di produzione e di circolazione della letteratura,


che si oppone ai pochi centri e ai gruppi ideologicamente connotati del Duecento. Questo
comporta una maggiore diffusione di esperienze individuali e ovviamente una
frammentazione di indirizzi e tendenze.

- Il tema amoroso non è più esclusivo, ma si dà spazio anche ad altre tematiche quali la
politica, l’autobiografismo, la visione allegorico-didattica, la narrativa.. Si richiede dunque un
pubblico nuovo di estrazione borghese e cittadina, che favorisce la sperimentazione di inedite
forme d’espressione.

PERSISTENZA DELLO STILNOVO: TRA VENETO E TOSCANA


Il Trecento è il secolo della canonizzazione dello Stilnovo e del trapianto della cultura letteraria
toscana in area veneta, specialmente tra Padova, Treviso e Venezia.

La più antica testimonianza di questa tradizione risale agli anni 1325-35 ed è il Barberiniano
Latino, il cui responsabile editoriale è il poeta Nicolò de’ Rossi: egli raccoglie componimenti di
Guinizzelli, Dante, Cavalcanti, Cino e Lapo Gianni, assieme ai poeti del versante comico, e si pone
come continuatore di questa tradizione letteraria assimilata. La raccolta, assieme al Colombino 7
1 32, manifesta tutti i caratteri del libro d’autore, in cui si può riconoscere un progetto editoriale
addebitabile a un unico responsabile.

I primi cento sonetti del Colombino costituiscono un vero e proprio “canzoniere” in senso forte: il
precedente più prossimo ai RVF di Petrarca, dedicato a Floruzza.

Lo stilnovismo di Nicolò de’ Rossi è il portato più originale della cultura trecentesca, ma non è
l’unico ad averlo assimilato. Citiamo anche il padovano Matteo Correggiaio e il veneziano
Giovanni Quirini (considerato il primo imitatore di Dante).

Si parla quindi di uno Stilnovo “debole”, che cioè paradossalmente persiste laddove si consuma,
diventando una vera grammatica della poesia. Si forma così il primo vero canone della poesia
italiana, che diventa il filone dominante rispetto al quale d’ora in poi ogni letterato sarà chiamato
al confronto.

EFFETTO COMMEDIA: LA POESIA ALLEGORICO-DIDATTICA


I primi lettori della Commedia ne valorizzano soprattutto il carattere di summa enciclopedico-
dottrinale e repertorio storico-mitologico. Essa diventa prima di tutto un grande serbatoio di temi
e immagini facilmente esportabili.

L’influenza dantesca si misura specialmente in Fazio degli Uberti, che è tra gli esempi più
fortunati di questo vasto filone imitativo: il Dittamondo infatti è tra i tributi più diretti ed espliciti al
poema dantesco. Anche qui vi è un personaggio-poeta che intraprende un viaggio verso la
salvezza dopo esservi stato indirizzato dalla Virtù che gli appare in sogno. La differenza principale
è l’argomento storico-geografico del poema, ma l’impronta dantesca è la cosa più evidente.

Al contrario, Cecco d’Ascoli si impegna nella polemica antidantesca nell’Acerba: Dante è il


bersaglio polemico di tutta l’opera, a cominciare dalla sua struttura metrica. La cosa
fondamentale è l’accusa ideologica di un uomo di scienza che rivendica la superiorità della sua
verità sulle vane fantasie dell’autore.

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TRA REALISMO E CORTESIA: NUOVE FORME DELLA LIRICA TRECENTESCA


Si assiste a una vera fusione di stili che pervade generi metrici e tematici diversi. Si adotta un
registro intermedio che doveva trovar maggiore circolazione e apprezzamento presso un nuovo
pubblico cittadino e borghese.

L’allargamento del pubblico della poesia è uno dei principali vettori di innovatività. Tra i fenomeni
più appariscenti vi è la diffusione della terzina, adottata per componimenti relativamente brevi
caratterizzati dalla sovrapposizione tra il racconto in prima persona e una narrazione che procede
per “stazioni”. Si tratta di un passaggio importante perchè getta le basi per la fortuna che
soprattutto nel Cinquecento il ternario conoscerà come metro specifico del genere satirico.

Tra gli esperimenti più innovativi, vi è quello di Antonio Pucci, che sperimenta i generi più
disparati. Scrive in terzine due tra i suoi componimenti più noti “Noie” e “Proprietà di Mercato
Vecchio”: in quest’ultimo traccia un disegno del popolo fiorentino e delle tumultuose attività che si
svolgevano nella piazza del mercato.

Importante è anche Franco Sacchetti, per lo sperimentalismo della seconda metà del secolo.
Egli è autore del Pataffio, una funambolesca raccolta di proverbi, detti, apparentemente senza un
tangibile senso logico, che vuole raccogliere materiale linguistico eccentrico diffuso preso i
parlanti fiorentini e disporlo in un dialogo enigmatico. (semantica del non senso > nascita del
genere metrico della frottola)

Possiamo citare anche Antonio Beccari, poeta professionista al servizio di signori e potenti, al
quale va attribuita l’invenzione di uno dei generi tematici più fortunati nella poesia europea almeno
fino al 600: la disperata. Anche il Saviozzo ne fa uso, descrivendo le sue sciagure, lamentandosi
della sua cattiva sorte e maldicendo il mondo, la società e il destino, che lo costringono alla
povertà.

LA LETTERATURA NELLE PIAZZE: POESIA PER MUSICA E CANTARI


Tra le nuove mode letterarie, vi è la poesia profana per musica e per danza. Le arie di
produzione e circolazione di manoscritti sono la Lombardia e il Veneto e successivamente la
Toscana: ci si specializza principalmente in madrigali e ballate.

Tra i nomi superstiti quello di Niccolò di Neri Soldanieri, che si ricorda specialmente per le
“cacce”, genere nuovo di struttura metrica libera, con strofe di misura varia e con schema ritmico
discontinuo.

Fondamentali sono però i cantari in ottava rima, perchè saranno all’origine del genere del poema
cavalleresco di autore come Pulci, Boiardo, Ariosto. I cantari sono poemetti narrativi di lunghezza
variabile, che trattano i temi più vari: storie di Vangelo, vite di santi, storie ispirate alle chansone
de geste. Un esempio famoso è costituito dal Cantare di Piramo e Tisbe.

LA PROSA DEL TRECENTO (cap.5)

Mentre il latino resta la lingua ufficiale della cultura accademica ed ecclesiastica, il volgare si fa
spazio e anzi acquista il primato in ambiti diversi della comunicazione pratica e letteraria.

Si assiste dunque ad un’attività di volgarizzamenti dei testi latini di età classica o altomedievale.
Si traduce un’enorme quantità di opere, che costituiscono uno il principale veicolo della crescente
alfabetizzazione e della progressiva estensione del volgare a un raggio sempre più largo di usi.

Si volgarizzano ad esempio autori di testi letterari (Livio, Ovidio..), storiografi e trattatisti (Cicerone,
Seneca).

Il centro di questa cultura è senz’altro Firenze, ma, se il toscano acquista lo statuto di lingua di
koinè sovra-regionale nella poesia, lo stesso non si può dire per la prosa, che si avvale ancora
delle tradizioni linguistiche autoctone.

Il proliferare di volgarizzamenti comporta il consolidarsi della prosa, che si irrobustisce sul piano
della salda sintassi latina.

Un altro genere conosce nel trecento sviluppi considerevoli: la letteratura religiosa, costituita da
exempla, che narrano tramite un linguaggio semplice ed efficace il messaggio evangelico presso
stati della società laici e illetterati.

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LA NOVELLA DOPO BOCCACCIO


La straordinaria fortuna del Decameron ha un duplice effetto. Da un lato, costituisce la spina per
operazioni simili (nasce infatti il genere della novella con propria dignità e autonomia letteraria),
dall’altro, l’imitazione del modello comporta l’attenuazione dei suoi caratteri più innovativi.

E’ dalla Toscana che si decide di proseguire il programma boccaccesco, decisione di un pubblico


borghese, dotto, cosmopolita e alfabetizzato.

Alcuni invece rifiutano l’impostazione boccaccesca, come ser Giovanni che scrive il Pecorone,
con una logica antitetica al Decameron.

Un modello differente è offerto dal Novelliere di Giovanni Sercambi, che racconta un lungo
viaggio di una comunità in fuga dalla peste, in 150 novelle.

Emblematica è la scelta di Franco Sacchetti di gareggiare sottilmente con Boccaccio,


sopprimendo integralmente la cornice nelle sue Trecento novelle.

Egli si pone agli antipodi di Boccaccio, definendosi discolo e grosso (rozzo e incolto) contro il
litteratus Boccaccio. Il fine del novellare risiede dunque prima di tutto nel suo valore di esempio e
per Sacchetti il male è una condizione costante dell’uomo, all’interno della quale tutti sono
immersi, e rispetto alla quale il racconto perde ogni valore di trasformazione, riducendosi a
cronaca.

Si pensi alla novella di Fazio da Pisa, che si vanta di profetizzare il futuro: egli viene messo alle
strette da Sacchetti stesso (fusione narratore, autore, personaggio) che rivela la truffa
dell’astrologo poichè se è impossibile ricostruire il passato con esattezza, tanto più lo sarà per
l’impredicibile futuro.

SCRIVERE LA STORIA
Parallelamente alla novella, anche la storiografia in volgare raggiunge nel Trecento la maturità di
genere letterario. Vi è infatti la ricerca di una legittimazione storico-culturale delle diverse identità
municipali, l’urgenza di interpretare i nuovi processi all’interno di una visione storica generale che
ne rintracci le cause e ne prospetti gli sviluppi possibili.

E’ la cronaca ad assumere fondamentale importanza nella scrittura della storia, ovvero il progetto
di un’identità municipale e un’autocoscienza politica collettiva.

Dino Compagni è il primo rappresentante di questa nuova tradizione cronachistica. La sua


Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi tratta delle vicende politiche fiorentine dal 1280 al
1312, concentrandosi in particolare sul conflitto tra guelfi bianchi e neri. Egli interpreta la storia
con un’ideologia provvidenzialistica, cioè secondo l’idea che il volere di Dio condizioni la storia.

Un esempio può essere il brano in cui egli spiega la sconfitta dei fiorentini per mano dei pisani
dopo l’occupazione di Lucca del 1342, additando la colpa ai loro peccati, alle loro cieche
ambizioni espansionistiche, all’odio fratricida, e così via.

Un altro storico importante è Giovanni Villani, che con la sua Nuova cronica, che prende le
mosse dall’episodio biblico della Torre di Babele fino al 1348, ottiene un’enorme fortuna.

Egli recupera uno schema tradizionale di impianto universalistico ed enciclopedico. E’ centrale


nella sua opera il clima di Firenze.

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EPOCA 3
INTRODUZIONE ALL’UMANESIMO (1377 fine cattività avignonese - 1494)

Quest’azione culturale, sentita come fortemente collettiva, nasce dalla riscoperta dell’uomo e
della classici.

E’ in questo periodo che nasce infatti il termine “umanista” e si riferisce a colui che si dedica agli
studia humanitatis, ovvero le humanae litterae (discipline che formano l’uomo). L’umanista
prende le distanze dal semplice grammatico, perchè è un retore che evince dalla lettura delle
opere antiche un ammaestramento valido per la vita attiva di ogni giorno.

L’umanesimo è innanzitutto la grande stagione del ritrovamento dei manoscritti che


conservavano le opere dell’antichità classica. Seguendo l’esempio di Petrarca (1345 data
fondamentale, ritrovamento epistole ciceroniane ad Atticum), gli intellettuali si impegnano in
un’imponente attività di recupero, riuscendo a riscoprire testi dei più svariati tipi: dalle orazioni alle
opere retoriche, dai libri filosofici a commenti letterari fino a trattati delle più disparate discipline.
Nasce così la scienze filologica che permette di disseppellire dalle biblioteche e catalogare
l’enormità di testi ritrovati.

In quest’epoca si acquisisce consapevolezza del mutamento della storia, vista per la prima volta
come una serie di epoche in successione. La storia è fondata su legami di causa-effetto (non più
su un piano divino), della quale l’uomo è l’unico protagonista assoluto.

Si contrappone così l’età presente all’età buia del medioevo e si stabilisce invece una continuità
tra l’età presente e la riscoperta età classica.

Gli antichi infatti non sono un modello staccato dalla prassi, ma un modello concreto che va
incarnato nei comportamenti quotidiani. La passione per gli antichi diventa un ideale culturale.

Nasce in quest’epoca il concetto di imitazione, intesa come volontà di imitare la lingua antica,
abbandonando il proprio metodo linguistico per entrare in quello dell’antichità. Bisogna trovare
però, come già raccomandava Petrarca, un proprio personale modo di esprimersi così da
assomigliare agli antichi come i figli assomigliano ai padri.

Si individuano due modelli canonici: Cicerone per la prosa e Virgilio per la poesia.

Un concetto fondamentale è anche quello di renovatio, ovvero far rinascere le forme antiche.
Questo significava ripristinare forme della società precristiana e quindi non deve stupire che gli
umanisti spesso venissero accusati di paganesimo (la grande stagione greco-romana si sviluppa
in parte prima di Cristo e la quasi totalità dei testi ammirati sono scritti da autori pagani).

Padova è il centro più caldo dove spicca l’azione degli umanisti, specialmente di Lovato dei
Lovati, che nel 1290 esortava ad ispirarsi ai veterum vestigia vatum, le impronte degli antichi da
calpestare fedelmente.

Per quando riguarda Firenze qui vi è una stretta connessione tra cultura umanistica e gestione
dell’amministrazione pubblica. Come diceva Aristotele, infatti, l’uomo è animale civile e le
humanae litterae devono ispirare l’azione concreta.

Nascono in quest’epoca le accademie, luoghi di incontro liberamente gestiti dagli umanisti. Qui ci
si organizza sui principi dell’otium, ovvero l’indipendenza rispetto agli impegni quotidiani, e la
sodalitas, il riconoscimento reciproco degli intellettuali come corpo separato rispetto al potere e
caratterizzato dall’amore per lo studio e la discussione disinteressata, libera dagli obblighi della
dipendenza gerarchistica. Ma questo non significa straniamento dal resto del mondo, anzi gli
umanisti conservano un interesse pragmatico e concreto verso il mondo perchè la conoscenza
delle parole porta alla conoscenza delle cose.

I generi prevalenti sono l’epistola e il dialogo. L’epistola è espressione di familiarità, frutto


dell’appartenenza a un comune orizzonte di valori morali e di stili di comportamento, che trova
adeguata corrispondenza nella lingua e nello stile. E’ dunque un colloquio diretto.

Il dialogo è caratterizzato da forte teatralità, giacché vengono rappresentati dei personaggi che
discorrono tra di loro, tenendo sempre a mente che orario è parola chiave di quest’epoca. Questo
congiunge retorica e filosofia, perchè conferma la fondamentale unione tra ricerca espressiva e
impegno morale.

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ALLA SCOPERTA DEGLI ANTICHI (cap.1)


Oltre al ruolo determinante di Petrarca nella ricerca di un patrimonio letterario disperso, anche
Poggio Bracciolini (1380-1459) esercita un ruolo importante perchè ritrova gran parte delle
orazioni ciceroniane (Pro Roscio, Pro Murena..), il De rerum natura di Lucrezio e una copia integra
delle Institutiones oratoriae di Quintiliano.

Sono i barbari, i selvaggi e violenti Goti, responsabili della caduta di Roma, ad aver causato
l’impoverimento culturale che è durato per secoli (Medioevo, età di mezzo).

Lo dimostra un vero e proprio manifesto dell’Umanesimo come la Praefatio di Lorenzo Valla


(1407-1457), che rivendica la grandezza di Roma e della lingua latina, come fondamento della
civiltà occidentale, contro l’imbarbarimento della società medievale.

Valla chiarisce il principio fondamentale dell’Umanesimo, saldando in maniera definitiva la retorica


con la filologia. Da questo momento in poi il restauro di testi antichi farà tutt’uno con l’imitazione
della loro lingua e stile, mentre la letteratura diventa la base della convivenza umana e anzi la
grazia della stessa identità collettiva.

POESIA E PROSA LATINA DL QUATTROCENTO (cap.2)

SALUTATI E IL PRIMO UMANESIMO A FIRENZE


Salutati nasce a Pistoia ne 1331 e si rivela molto attivo per la vita pubblica fiorentina (nomina di
cancelliere nel 1375) ed è la più diretta immagine dell’intellettuale impegnato non nella battaglia
politica ma in uno scontro per l’affermazione degli ideali del nascente Umanesimo.

Egli scrive il De fato et fortuna, opera incentrata sul delicato rapporto tra la libertà del volere
umano e il dogma di onniscienza divina: infatti la sua azione si traduce in una critica implicita al
formalismo dei saperi della scolastica, poichè è necessario porre l’accento sulla prospettiva
morale e sulla riflessione etica..

Scrive pure il De tyranno, opera in cui ragiona sulla legittimità dell’eliminazione del tiranno,
concentrandosi sull’antico esempio di Cesare. Per Salutati, la res publica è qualunque forma di
governo che sia orientata al bene comune.

Ma la lezione più importante di Salutati è nell’aver creato una sorta di giunzione tra il mondo
classico e la fede cristiana: non deve esistere alcun contrasto tra lettura dei classici pagani e
quella dei testi sacri, poichè anche i secondi sono caratterizzati da una scrittura “poetica” e la loro
intepretazione trae dunque giovamento da una piena conoscenza della letteratura antica.

Egli è responsabile di un magistero che inciderà su i due umanisti forse più influenti della prima
parte del secolo: Leonardo Bruni e Poggio Bracciolini.

LEONARDO BRUNI
Bruni nasce ad Arezzo tra il 1370 e il 1375, allievo di Salutati, segue l’azione politica del maestro
in un paio di ore mirate all’elogio di Firenze come modello di virtù e di ordinamento democratico,
Laudatio Florentine urbis.

Invece nei Dialogi tra Bruni, Salutati, Roberto de’ Rossi e Niccolò Niccoli, vi è un esempio di
estremismo umanistico da parte di Niccoli, che condanna la letteratura volgare della stagione
precedente in una serrata critica alle opere di Dante, Petrarca e Boccaccio.

Trasferitosi poi a Roma, Bruni sarà fondamentale per la traduzione dell’Etica Nicomachea di
Aristotele e il Fedro di Platone: si impegnerà quindi a dare un nuovo testo latino ad opere capitali
della filosofia classica per restituirne il volto originario. Compone poi anche il De interpretatione
recta, nel quale discute sulle regole da osservare in una traduzione.

Tornato a Firenze, viene nominato cancelliere della Repubblica nel 1427 e qui compone in volgare
le Vite di Dante e del Petrarca.

POGGIO BRACCIOLINI
Nato nel 1380 a Terranova, allievo di Salutati, è fondamentale per la scoperta del testo integrale
dell’Institutio oratoria di Quintiliano e per il De Rerum natura di Lucrezio.

Egli matura un’idea di Umanesimo di matrice laica, di un sapere fondato sui classici antichi e
opposto alle rigidità della scolastica.

Tra le opere morali (tra cui il De avaritia, De vera nobilitate, De infelicitate principum), egli è famoso
per il Liber facetiarum, ovvero 273 brevi racconti, scritti in un latino vivace ed efficacissimo, nei
quali converge il modello di Boccaccio e quello di Sacchetti.

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LE GRANDI SCUOLE E GLI IDEALI DELL’UMANESIMO


Nel 1397, Manuele Crisolora, su invito della repubblica, comincia a tenere a Firenze corsi di
lingua e cultura greca. Sono corsi che consentono una conoscenza man mano più diffusa del
greco e che offrono le premesse per una nuova e migliore ricezione della grande tradizione antica.

Tra le sue traduzioni più importanti, la Repubblica di Platone: si dà così inizio ad una
riappropriazione della filosofia classica.

Arricchita dal greco, lo studio dei classici viene ritenuto un passaggio necessario per la
formazione delle nuove classi dirigenti ed è su questo punto che si fonda l’impianto pedagogico
del primo Umanesimo.

Con l’idea di intrecciare una solida competenza retorica (in latino e in greco) e una conveniente
crescita della persona e del carattere, nascono le grandi scuole del primo 400, a partire da quella
di Guarino Veronese, a Firenze: si studia la mattina il latino e il pomeriggio il greco e si mira
all’apprendimento pratico direttamente dai testi antichi.

Memorabile anche la scuola di Vittorino da Feltre, che si sviluppa quasi per gemmazione in molti
altri centri della penisola.

Il legame tra affermazione dell’Umanesimo e contesto politico trova conferma anche a Milano
durante la stagione dei Visconti (fine 300-1447). La corte di Milano rappresenta in effetti un punto
di riferimento importante sul piano culturale ed è sicuramente da menzionare Francesco Filelfo.

Egli, nato a Tolentino nel 1398, è fondamentale perchè si dedica sia alle lettura degli antichi, sia
alla lettura della Commedia e del Canzoniere (componendo poi, tra l’altro, un ricchissimo
commento all’opera petrarchesca). Egli è segnale di come la tradizione volgare stia pian piano
guadagnando posizioni nella cultura di metà secolo.

Mentre un’esperienza umanistica matura anche a Bologna, a Venezia vanno sicuramente


menzionati Pietro Paolo Vergerio il Vecchio, Gasparino Barzizza e Guarino.

L’UMANESIMO A ROMA: BIONDO FLAVIO E ENEA SILVIO PICCOLIMINI


L’umanesimo romano raggiunge la sua fase più importante con Biondo Flavio e Enea Silvio
Piccolimini.

Biondo Flavio, nato a Forlì nel 1392, avvia una poderosa operazione storica su Roma antica,
partendo dal De verbis romanae locutionis. Qui si dibatteva della lingua parlata nell’antica
Roma: alcuni, tra cui lui, ritengono che si parlasse la stessa lingua della letteratura della stagione
aurea, altri, tra cui Bruni, ritengono che si parlasse una lingua distinta dal latino classico delle
opere dei grandi autori.

Biondo sostiene che il latino era sempre stata una lingua unitaria, fatte salve le distinzioni di
registri e livelli sociali, mentre Bruni distingue tra la forma “regolata” del latino classico e una
lingua popolare dell’uso quotidiano. Più che gli esiti del dibattito, conta il segnale di una
coscienza storica ormai raffinata sulla necessità di un recupero del volto originario di una
classicità preziosa.

Egli scrive inoltre la Roma instaurata, la Roma triumphans, le Decades (progetto non concluso) e
l’Italia illustrata: è dunque proprio nell’ampiezza dello sguardo e nel coraggio della
sovrapposizione tra diverse prospettive che le operazioni storiografiche di Biondo Flavio
rappresentano passaggi importanti di un Umanesimo maturo.

Spicca un’altra figura importante nello scenario romano, Enea Silvio Piccolomini, nato a Siena nel
1404. Poeta raffinato, capace di riprendere da vicino e con esiti notevoli i modelli dell’elegia latina,
viene incoronato poeta da parte dell’imperatore Federico III. Poi sceglie di avviare la sua carriera
ecclesiastica, fino a venir eletto papa con il nome di Pio II.

Importante è la sua opera il Dialogus, in cui discute il ruolo e l’autorità del pontefice.

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LORENZO VALLA (1407-1457)


Nell’esperienza di Valla, tutta giocata nei confini della prosa latina, può vedersi una sintesi della
fase più ambiziosa dell’Umanesimo italiano: si coglie infatti il valore decisivo della pratica
filologica contro ogni principio di autorità e per questo capace di scardinare credenze secolari.

Egli nasce a Pavia nel 1407, si forma in parte da autodidatta e nella sua prima produzione
menzioniamo il De vero bono, trattato che inizialmente portano il titolo di De voluptate, e verteva
appunto sulla questione del piacere e del bene. Egli riproduce qui un dibattito tra un personaggio
portatore della filosofia stoica e un’epicureo: Valla propone una soluzione di tipo cristiano, che
sposa la posizione epicurea e critica le massime stoiche, rifiutando ogni distinzione tra
dimensione corporea e dimensione spirituale e inscrivendo la ricerca del piacere in una
prospettiva religiosa.

A metà degli anni Trenta, egli avvia le Elegantie, opera articolata in 6 libri, costituita da un’analisi
della grammatica e del lessico della lingua antica. A guidare l’opera è l’elogio altissimo del latino
classico, visto come lingua viva e di ordine culturale.

Valla mira alla piena conoscenza della parola come condizione prima per un intervento sula realtà,
e dunque come codice universale di governo del mondo. E’ lo stesso principio a guidare il De
falso credita et ementita Constantini donatione, opera con cui Valla affronta l’esame del
documento della Donazione di Costantino sulla cui base la Chiesa fondava il potere temporale.

Questo documento riportava l’atto con cui l’imperatore Costantino avrebbe trasmetto nel 314 a
papa Silvestro I il potere politico su Roma e sull’intero Occidente: documento che legittimava da
secoli le prese di potere politico della Chiesa.

Valla compie un capolavoro proprio sul piano dell’analisi linguistica, dimostrando come tutta una
serie di tracce rendesse insostenibile l’antichità e dunque l’originalità del documento.

Sfugge al processo dell’Inquisizione ed elabora un metodo filologico sempre più raffinato,


confermando il principio di una valenza universale della parola sulla pratica culturale.

LEON BATTISTA ALBERTI (cap.3)


Leon Battista Alberti incarna l’ideale uomo universale che solitamente attribuiamo all’Umanesimo.

Nasce nel 1404 a Genova e la sua prima formazione avviene a Padova, poi a Bologna. Egli
frequenta infatti una pluralità di centri culturali, i cui principali saranno tre: Firenze, le città padane
e Roma.

Firenze è il principale centro della sua attività (Palazzo Rucellai, Santa Maria Novella), ma lo
accolgono bene anche le città padane (Tempio Malatestiano a Rimini e a Mantova). Il terzo polo è
Roma, cui Alberti torna più volte in qualità di ecclesiastico e d’intellettuale al servizio dei papi.

Cosa non frequente anche tra gli altri grandi umanisti, egli viaggia moltissimo, ma Firenze
costituisce il centro della sua riflessione.

Possiamo partire dal trattato latino De commodis letterarum atque incommodis, in cui affronta una
riflessione sulla figura e la funzione dell’intellettuale.

Differenziandosi dalla tipica pretesa umanistica che gli studi fossero una forma di partecipazione
alla vita pubblica, l’autore sostiene che lo studio implica isolamento dai clamori della città e che è
un’attività silenziosa e privata.

Egli condivide l’idea della sodalitas, ovvero della convivenza colta tra uomini di lettere, capaci di
intervenire nella cose della politica, ma appartati in un’esistenza autonoma e solidale.

Scrive poi i Libri della famiglia, opera che rappresenta la conversazione tre alcuni parenti
dell’autore, che affrontano i temi del rapporto tra famiglia e società. Egli utilizza il volgare perchè,
al pari dell’Alighieri nel Convivio, punta a una forma espressiva moderna ed elegantemente
controllata. Il dialogo albertiano interpreta poi la famiglia come continuità generazionale e
l’intenzione pedagogica si incarna dunque nella stessa struttura del dialogo, con gli anziani della
famiglia che trasmettono la loro esperienza.

L’interesse per il volgare spinge l’autore a misurarsi con la scrittura poetica, componendo due
egloghe pastorali (Tyrsis e Corymbus) e due elegie (Agilitta e Mirtia).

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Questo generale rilancio della nobiltà del volgare raggiunge l’apice con la composizione della
Grammatichetta (1438-1441), che costituisce la prima trattazione grammaticale riservata a una
lingua moderna, nella quale egli descrive la struttura del volgare e ne difende la dignità stilistica.

Nel periodo fiorentino, egli compone il De Pictura e illustra i procedimenti matematici che regolano
la prospettiva pittorica: costruire uno spazio razionale con la geometria, basato sul principio
classico della convenientia, cioè composizione accurata e proporzionata.

Con l’organizzazione del Certame coronario, si sottolinea ancora una volta la nobiltà del volgare.
Questa è una gara tra poeti che, esprimendosi in versi volgari, devono esaltare il tema
dell’amicizia. Questo è un altro punto di divergenza con gli altri Umanisti, poichè, mentre i Medici
favoriscono il latino nel loro progetto di egemonia, egli promuove un evento in cui si esalta la
grandezza poetica del volgare (di pari dignità rispetto al latino.

La gara poi viene boicottata e il premio non viene attribuito a nessuno (probabilmente un
boicottaggio): una sconfitta per l’Alberti che si distanzia così da Firenze.

Intorno al 1440, ancora a Firenze, egli scrive le Intercenales, raccolta di testi latini di varia
lunghezza in cui si alternano dialoghi e narrazioni, ispirati al modello dell’autore satirico greco
Luciano di Samosata.

Quest’opera vuole essere un “farmaco”, capace di curare le malattie dell’animo non con una
medicina amara, ma con la leggerezza dell’hilaritas (modello di Lucrezio, poesia=miele per far
ingoiare filosofia).

L’opera è formata da 11 libri e vi sono distribuiti i vari turbamenti dell’animo umano (virtù,
ricchezza, discordia..)

Lasciata Firenze nel 1443, egli torna a Roma, dove matura l’interesse per l’architettura,
componendo il Descriptio urbis Romae e il De re aedificatoria: ribadisce che l’arte si basa su
principi razionali rigorosi e che essa è rivolta all’utilitas e alla venustas della città.

A Roma, egli può anche verificare le logiche del potere e l’inevitabile conflittualità con la libera
attività intellettuale. Nasce il Momus sive de principe: egli sottopone al suo giudizio la corte
pontificia di Niccolò V, trasfigurandola in una favoletta mitologia di cui è protagonista Momo, il dio
della calunnia e della maldicenza.

Tra le opere tecniche, merita una menzione anche il De Statua, in cui egli rielabora la concezione
corrente della scultura, restituendole dignità intellettuale e liberandola dal pregiudizio di essere
solo una faticosa attività manuale.

La sua ultima opera è il De iciarchia, dove ragiona sulla figura del capofamiglia. Egli utilizza il
volgare per affrontare il problema del governo domestico da una prospettiva conservatrice.
L’obiettivo è ovviamente politico poichè parlando del pater familias egli parla del princeps, capo
dello stato, secondo un modello che vede questo periodo caratterizzato dall’affermazione di stati
a impianto principesco. Il capofamiglia deve evitare la caduta nella tirannide tramite il
riconoscimento della legge come norma superiore cui attenersi. L’ipotesi è quella di un
governante virtuoso, il cui primato politico è conseguente all’educazione umanistica e al costante
esercizio della ragione. Ciò potrebbe alludere a un ripensamento rispetto alla separatezza tra
intellettuale e potere proposto quarantenni prima nel De commodis.

Muore nel 1472 a Firenze.

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PROSA E POESIA VOLGARE DEL QUATTROCENTO (cap.4)

Nel quadro della letteratura del 400, latino e volgare si intrecciano influenzandosi a vicenda.

Il latino, pero, resta la lingua dotta, ufficiale, mentre il volgare si presta a un impiego di carattere
pratico, lontano dalle scritture dei colti e in una sfera letteraria marginale.

Fa eccezione la Toscana, che, dopo il secolo delle Tre Corone, diventa una roccaforte per la prosa
e la poesia in volgare.

• EPIGONI DEL DECAMERON E NOVELLE SPICCIOLATE

La novellistica in volgare si muove lungo due principali direttive: da un lato, la strada aperta da
Boccaccio (epigoni del Decameron), dall’altro le novelle spicciolate.

Tra gli epigoni del Decameron, occorre citare le Novelle di Gentile Sermini, che allestisce un
corpus di 40 novelle disposte senza un ordine preciso. Il tema centrale è la beffa, assieme alla
satira antiecclesiastica e quella del villano. (lessico ovviamente colorito)

Le novelle spicciolate, invece, sono novelle singole, redatte principalmente in area fiorentina, che
trattano di beffe e motti. Ricordiamo il Grasso legnaiuolo, che narra di una celebre burla ordita da
un gruppo di buontemponi guidati da Brunelleschi, ai danni del legnaiuolo detto il Grasso, il quale
finisce per credere di essere un’altra persona, un tale Matteo. Egli comprende poi di essere stato
raggirato e si reca in Ungheria per riscattarsi dall’umiliazione subita.

Lo scherzo ha un valore corale: è una “brigata” sullo sfondo di Firenze, nella quale la burla è una
vocazione fisiologica per dimostrare l’ingegno di un gruppo sociale ben determinato. Il tema della
beffa è infatti tra i prediletti nella narrativa toscana.

• CANTARI E ROMANZO CAVALLERESCO

La narrativa in versi è rappresentata dai cantari, componimenti in ottave, espressione di una


cultura medio-bassa, che pure dispone dei mezzi retorici per catturare e divertire il pubblico.
Notevole è il godimento popolare, specialmente dei cantari di tema cavalleresco, che verranno poi
nobilitati da grandi autori come Luigi Pulci e Boiardo.

In toscana, per quanto riguarda i cicli medievali, il maggiore esponente è Andrea da Barberino,
che affronta nuovamente le principali tematiche delle chansons de geste. La sua opera più
famosa è il romanzo cavalleresco i Reali di Francia, che narra le vicende della casa di Francia, dal
suo fondatore Fiovo fino a Carlo Magno. Si ricorda un racconto, quello dell’incontro tra Berta e
Milone, con la conseguente nascita di Orlando, che è frutto del topos dell’innamoramento nato
dagli sguardi.

• ZIBALDONI, MEMORIE E LIBRI DOMESTICI

Tra le forme della produzione in prosa occupano un posto minore le scrittura private, i diari, le
memorie e le lettere. Ricordiamo i Libri dei Mercanti, che possono essere visti come esempi di
scrittura privata, e importanti sono i Ricordi di Giovanni di Pagolo Morelli, membro di una storica
famiglia di mercanti, che indicano preti di natura sociale e politica e ideali ispirati alla prudenza e
alla difesa della borghesia.

• LA LETTERATURA RELIGIOSA TRA ASCETISMO E IMPEGNO SOCIALE

La letteratura religiosa si pone con un duplice atteggiamento, o si distinguono forme di ascetismo


o la scena è attraversata da un forte impegno sociale.

Ricordiamo san Bernardino da Siena, famoso per le sue prediche in volgare, animate da dialoghi
con gli ascoltatori: egli sfrutta le novelle al fine di dare maggiore incisività. E’ esemplare il passo in
cui egli si scaglia contro le streghe e le loro pratiche: infatti, proprio in seguito a una delle
predicazioni romane di Bernardino, viene condannata la strega Finicella, bruciata nel 1424 sul
Campidoglio: si trattava probabilmente di una guaritrice che praticava anche aborti.

POESIA

- PETRARCHISMO: L’esperienza trecentesca influenza ancora il versante lirico. Nasce così il


petrarchismo, ossia l’emulazione dello stile e della forma del Petrarca volgare dei RVF. A
inaugurare il petrarchismo lirico, in ambito cortigiano, è Giusto de’ Conti, che scrive La bella
mano, “canzoniere” petrarchesco, che si ispira ai sonetti del guanto: egli canta l’amore per
Isabetta, diventando modello per la lirica successiva.

- POESIA BURCHELLIESCA: E’ la poesia in forma di sonetto, conosciuta come burchelliesca


da il Burchiello, poeta che perfeziona il genere. I sonetti alla burchia (alla rinfusa) mettono in

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scena situazioni paradossali, parodiche e apparentemente irreali, che creano disorientamento


nel lettore, soprattutto riguarda l’imprevedibile andamento (anche se è evidente una rigorosa
ratio dell’autore nella tessitura dei versi). Possiamo menzionare il sonetto Pirramo s’invaghì
d’un fuseragnolo: il componimento satireggia i testi nei quali i poeti ostentavano conoscenze di
mitologia e cultura classica. Alcuni degli auctores della cultura alta vengono degradati e ridotti
a compiere azioni ridicole o improprie. L’obiettivo è ridicolizzare una versificazione allora in
voga, quella dei dotti portatori di una cultura acquisita esclusivamente sui libri, ricca di forma e
vuota di contenuti. Il Burchiello sarà imitato, non solo in toscana e luigi Pulsi è senz’altro uno
dei suoi più validi continuatori.

EPOCA 4

UN NUOVO EQUILIBRIO POLITICO (1454-1494)


La seconda metà del secolo è caratterizzata da una lunga stagione di stabilità, il cui avvio si
colloca con la Pace di Lodi (1454): sono 5 i grandi stati regionali, Milano, Venezia, Firenze, Napoli
e lo Stato Pontificio.

Si consolidano dunque le istituzioni politiche, ma contemporaneamente si creano le condizioni


per lo sviluppo di una complessa e articolata cultura artistica e letteraria: è infatti proprio il
policentrismo politico (da un lato, fattore di debolezza dell’Italia verso i nascenti stati nazionali) a
consentire lo sviluppo di una cultura di eccezionale livello nelle singole corti, che divengono così
luoghi di elaborazione di modelli culturali.

La corte diventa il centro di irradiamento di una nuova cultura che ha il compito di offrire un
ritratto idealizzato e splendido delle singole realtà politiche. La corte è soggetto della letterature e
delle diverse manifestazioni artistiche, che ne descrivono con grande efficacia i valori.

Due principali cambiamenti rispetto alla prima metà del secolo sono:

1) Crescita del prestigio del volgare: il volgare inizia ad essere considerato uno strumento
espressivo d’eccellenza, legittimato a stare alla pari con il latino. Nasce così la
consapevolezza che il volgare possa ormai essere utilizzato come lingua di cultura, capace di
accogliere non solo la tradizione italiana, ma anche quella classica.

2) Mecenatismo: l’intellettuale ora è chiamato a subordinarsi alla celebrazione della corte presso
la quale è ospitato e, più in generale, della Signoria in cui opera.

Ovviamente le medesime istanze culturali sono declinate in modo diverso nelle varie realtà locali e
gli stati di dimensioni più modeste assumono un ruolo determinante nella produzione artistica
(Ferrara, Mantova, Urbino).

Resta di assoluta centralità la politica culturale di Firenze, promossa da Lorenzo de’ Medici, detto
il Magnifico, intelligente politico e abile poeta, capace di pensare alle arti come strumenti di
affermazioni egemonica nei confronti delle altre realtà politiche e culturali della penisola italiana.
Nella proposta fiorentina, si individuano tre direttrici:

-Accademia di Marsilio Ficino: riflessione filosofica

-Raccolta aragnonese: storia della letteratura italiana volgare per rivendicare il baricentro
fiorentino

-Angelo Polizano: matrice di carattere umanistico

Il punto in comune tra queste direttrici è l’intenzione di unire la cultura filosofica, la poesia
volgare e il grande patrimonio della classicità.

In quest’epoca è la lirica il genere più rilevante, sotto le forme di una imitazione sempre più attenta
e diretta di Petrarca. La differenza è che non ci si sofferma nello scavo dell’interiorità a discapito
di tutti gli aspetti del mondo esterno, ma si punta piuttosto a celebrare una dimensione sociale e
collettiva. Si pensi agli Amorum libri tres di Boiardo, che cantano di una storia di amore nata non
tra le pareti di una chiesa (Petrarca), ma nel corso di una festa a corte. Si sfrutta quindi la lingua
dei RVF per dare voce ad un mondo, interiore e insieme fortemente aperto a una dimensione
sociale, nuovo e ben diverso dai confini dell’universo petrarchesco.

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IL PASSAGGIO DAL MANOSCRITTO ALLA STAMPA (cap.1)

A Johann Gutenberg va attribuita l’invenzione della stampa. E’ responsabile di due innovazioni


assolutamente fondamentali: la prima è la creazione dei caratteri tipografici. Si tratta di piccoli
parallelepipedi di legno, alla cui sommità viene modellata in piombo la forma della lettera
desiderata. Il secondo accorgimento è la modifica alla formula chimica dell’inchiostro che, tramite
una miscela di olio vegetale e sostanze minerali cotte insieme, acquista una particolare
brillantezza di nero.

Si passa così dal regime manoscritto al regime tipografico, dove vige il principio dell’identità
delle copie. Il primo libro tipografico appare nel 1454 ed è la grande bibbia a 42 linee, realizzata
da Gutenberg insieme al socio Johann Fust.

Dalla Germania, la tipografia arriva in Italia, grazie all’officina di Subiaco: viene stampato
inizialmente un Donato (grammatica latina di livello scolastico), il De oratore di Cicerone e il De
civitate dei di Sant’Agostino. Vengono dunque sperimentati formati diversi per affrontare i tre
diversi domini della grammatica, della retorica e della teologia.

I due fondatori di questa officina poi si trasferiscono a Roma e la stampa acquista mano mano
una diffusione enorme in tutta Italia.

Nel corso del 400, i libri erano il libro “da banco” (pubblico universitario) , il libro umanistico
(umanisti) e il libro da bisaccia (pubblico popolare).

La compresenza di forma manoscritta e veicolo tipografico è determinante per la storia del libro in
volgare. Si passa dal 21% al 48% di testi in volgare e viene stampato Le cose volgari di Messer
Francesco Petrarcha da Aldo Manuzio, impaginata dal ventisettenne Pietro Bembo.

E’ dunque evidente che, se le opere volgari si affermano nel sistema letterario rinascimentale
grazie alla tipografia, ciò accade sia per motivi quantitativi (moltiplicazione copie) sia per ragioni
qualitative (bellezza e comodità).

La tipografia rappresenta una svolta epocale perchè necessita di procedure standardizzate,


come la normalizzazione dei criteri grafici e delle forme testuali, l’uniformità al rispetto delle
principali leggi ortografiche e linguistiche. Infatti, le opere iniziano ad essere sottoposte a un
processo di revisione che va dall’intervento sulla morfologia delle parole alla loro resa grafica e al
sistema dell’interpunzione.

Diventa centrale l’aspetto visivo perchè il numero di copie uguali introduce il nuovo statuto logico
dell’identità.

L’AMBIENTE LAURENZIANO (cap.2)

LORENZO DE’ MEDICI


Lorenzo de’ Medici è l’abile regista della vita intellettuale fiorentina del suo tempo perchè riesce a
coniugare l’impegno politico a quello poetico.

Nasce a Firenze nel 1449 e riceve un’educazione umanistica. Alle lettera classiche però preferisce
la letteratura volgare e inizia a comporre liriche di ispirazione petrarchesca,

Nel 1469, alla morte del padre, diviene di fatto signore di Firenze.

Tra i poemetti minori, troviamo il Simposio (rappresenta in rassegna i maggiori bevitori fiorentini,
nell’ambito di un convito tutto prosaico, dissacrante scrittura del Simposio platonico),
l’Uccellagione (poemetto che racconta di una battuta di caccia di un gruppo di amici), la Nencia
da Barberino (parodia in ottave dell’egloga rusticale + descrizione di Nencia con ironica
degradazione dell’amante petrarchesca) e il De Summo bono, opera filosofica di ambientazione
pastorale. Il Simposio e il De Summo bono sono testi profondamente differenti, tra i quali, però, vi
è una fitta rete di richiami. Il Simposio è una parodia dei Trionfi in terzine, in cui sfilano personaggi
virtuosi, degni di essere ricordati, mentre il De Summo bono è una parafrasi in volgare
dell’epistola De felicitate e dell’Oratio ad deum theologica di Marsilio Ficino. Il De summo bono è
dunque una palinodia (ritrattazione poetica di quanto già scritto in un altro componimento) del
Simposio: infatti fa una sorta di passo indietro che fornisce la prova dell’interezza di Lorenzo per
quella stessa filosofia di Ficino che prima aveva ridicolizzato.

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A Firenze, la congiura dei Pazzi, famiglia ostile ai Medici, sfocia nell’uccisione del fratello minore
di Lorenzo, che invece si mette in salvo.

La politica di Lorenzo è fatta di alleanze e accordi, rendendolo così il perno dell’equilibrio italiano.
Egli si dedica accuratamente al mecenatismo, facendo di Firenze la capitale culturale d’Italia e
guadagnandosi l’appellativo il Magnifico.

E’ soprattutto nella produzione lirica che Lorenzo si presenta come un punto di passaggio
importante per la storia della lirica italiana. Egli, oltre alla produzione alta, al petrarchismo e al
neoplatonismo, è autore di canzoni a ballo e carnascialesche, in cui il tema è il carpe diem.

Si ricorda la canzone di Bacco (di doman non c’è certezza), in cui egli instaura un continuo
dialogo con il senecano De brevitate vitae. La ierogamia tra Bacco e Arianna rappresenta il
ricongiungimento dell’anima al divino e diviene exemplum del percorso che ogni uomo dovrebbe
compiere per allontanare da sé le preoccupazioni della vita quotidiana.

Lorenzo muore nel’aprile del 1492.

LUIGI PULCI
Nato nel 1432, dopo una formazione in provincia, va a Firenze e viene preso sotto la protezione di
Lucrezia Tornabuoni ed è a lei che si deve l’incarico di comporre il Morgante.

Già negli anni 60, è cruciale il rapporto con il giovane Lorenzo, che diventerà la figura di
riferimento del percorso di Pulci. Poi, in occasione di una giostra che vede il trionfo del Magnifico,
egli viene scelto per comporre un poemetto celebrativo. E, ancora in rapporto a Lorenzo, scrive la
Beca da Dicomano, una sorta di risposta alla Nencia da Barberino, con la solita parodia della
poesia amorosa e della celebrazione delle bellezze delle donne.

Negli anni 70, però si distanzia dal neoplatonismo di Lorenzo, fino a scrivere un testo in chiave
anticifiana (Marsilio Ficino) contro le dottrine sull’anima e sulla sua immortalità: Ficino chiede
un’intervento di Lorenzo, costretto a prendere le distanze.

Egli così si sposta sotto un nuovo protettore, Roberto di Sanseverino e si impegna alla
composizione del Morgante.

Il Morgante è un poema epico-cavalleresco parodico, che attecchisce molto bene a Firenze


proprio grazie alla tradizione della poesia comico-realistica.

E’ una parodia popolaresca delle canzoni di gesta, ben note alla corte medicea.

Il poema narra le avventure di Orlando, che ha abbandonato Carlo Magno (“vecchio svampito e
credulone); narra del nobile Rinaldo, così impulsivo e ribelle da trasformarsi in un ladrone e del
gigante Morgante e del mezzo gigante Margutte. Il primo muore per una puntura di granchio, il
secondo muore soffocato dalle risate (epica rovesciata sotto il segno dello smisurato e
dell’iperbole).

MARSILIO FICINO: LA GRANDE TRADIZIONE FILOSOFICA


-E’ autore di un ampio lavoro di traduzione e di commento dell'opera di Platone, di Plotino e degli
scritti ermetici, fece conoscere alla cultura europea un patrimonio fino allora sconosciuto nella sua
complessità. La sua opera più personale è la Teologia platonica (1469-74, dedicata a Lorenzo
de’ Medici), in cui, contro gli sviluppi naturalistici e irreligiosi dell'aristotelismo, propose la ripresa
del pensiero platonico e ne mostrò l'affinità con il cristianesimo. Egli si propone infatti di mostrare
la via attraverso la quale pervenire alla certezza dell’immortalità dell’anima.

Egli analizza il percorso di ascensus che l’uomo deve compiere per raggiungere il divino, un
percorso che il filosofo può esprimere in forma meditata grazie all’uso sapiente del medium della
parola.

L’anima umana, infatti, ha una funzione mediatrice, è un medium tra lux e umbra e dunque,
ripercorrendo il cammino che ha condotto dall’unità originaria alla generazione degli enti
particolari, essa può ricongiungersi a Dio.

-Egli fonda a Villa Careggi l’accademia platonica fiorentina, che verrà frequentata da umanisti
quali Polizano, Pico della Mirandola e altri. Egli infatti considera le opere di Platone come fonti di
sapienza che, se interpretate correttamente, possono costituire una via di acceso alla divinità.

-Ficinio inoltre crede nel potere conoscitivo della poesia che sa svelare il vero solo agli occhi di
quanti sono in grado di cercarlo. E’ un inter che deve essere compiuto emulando l’armonia
celeste creata dai movimenti degli astri, con una poesia che divenga imitato naturae nel senso più
profondo.

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PICO DELLA MIRANDOLA


Egli nasce nel 1463 a Mirandola e si forma nelle università di Ferrara e Padova, dedicandosi alla
filosofia e al greco. Dal 1484 fa parte della cerchia medicea a Firenze e diventa esponente
dell’accademia platonica.

E’ importante poichè propone una possibile sintesi filosofica in una suprema sintesi che ne
evidenzi gli obiettivi comuni. Egli scrive 900 Conclusiones, anticipate da un trattato De digitate
hominis, che rappresenta un logo delle capacità e delle possibilità assegnate all’uomo.

L’uomo è libero nella sua essenza e nel suo pensiero e può elevarsi ad una dimensione
intellettuale, superando la sfera terrena. L’uomo può autodeterminarsi perchè non gli viene dato
nessun luogo o nessun carattere specifico.

Egli, inoltre, aggiunge che l’Umanesimo non è ateo, conciliando la visione cristiana con la nuova
concezione dell’uomo.

Altra opera importante sono le Disputationes adversus astrologos, un attico contro le pretese
degli astrologi di influenze dei pianeti sulla vita degli uomini: anche qui si risalta la libera
condizione dell’uomo nella definizione del proprio percorso.

Egli muore a Firenze nel 1494.

ANGELO POLIZANO
Nacque a Montepulciano nel 1454 e si dedica agli studi di grammatica, letteratura, greco e
filosofia, seguendo le lezioni di Marsilio Ficinio.

A 15 anni iniziò la sua carriera letteraria con la traduzione in esametri latini del libro dell’Iliade: fu
così accolto nella cerchia del Magnifico.

Tra il 1475 e il 1478, si dedicò alla scrittura del poemetto mitologico a scopo encomiastico
“Stanze per la giostra” per celebrare la vittoria che Giuliano de’ Medici aveva conseguito nella
grandiosa giostra (torneo) disputata a Firenze nel 1475. Egli narra del giovane Iulio che viene
colpito da Cupido e fatto così innamorare della giovane e bellissima Simonetta. Inizia così un
percorso di elevazione che lo porta ad abbandonare la caccia e la vita silvestre e lo spinge, grazie
alla passione per la donna, a invocare la Virtù, l’Amore e la Gloria.

L’opera non fu terminata a causa della morte di Giuliano nella congiura dei Pazzi.

In quest’opera, egli si mostra capace di combinare e intarsiare un grandissimo numero di


memorie classiche, filtrandole con la piena padronanza degli autori trecenteschi.

In gran parte prima del 1480, scrisse le Rime, che riuniscono una trentina di canzoni a ballo, di
registro serio e comico-burlesco, rispetti continuati e rispetti spicciolati. Le Rime non vengono
mai raccolte in un canzoniere perchè sono percepite come esercizi di un’arte estemporanea, frutti
discontinui di un laboratorio raffinato.

Intorno al 1480, compose la favola di Orfeo, destinata alla rappresentazione teatrale: è la prima
opera teatrale non religiosa in lingua volgare. Egli qui riprende il mito di Orfeo e la sua storia di
amore per Euridice. L’errore di Orfeo è letto come la ricaduta da parte degli uomini nella
dimensione terrena. Orfeo dunque si volge in modo repentino all’amore omoerotico, evitando del
tutto il “feminile amore” che porta solo sofferenza.

All’opera di poeta, egli unì un’importante attività di filologo. Nei Miscellanea sono raccolte le
morte dissertazioni dedicate ai problemi posti da una corretta ricostruzione e interpretazione dei
testi. Egli mette dunque a punto un vero e proprio metodo filologico che Mirta al recupero della
parola originaria degli antichi.

Polizano, in uno dei suoi viaggi, incrocia a Venezia Pietro Bembo e in questa scena fortemente
simbolica ci si può ravvisare il passaggio del testimone tra il protagonista della cultura di fine 400
e una delle figure principali del Rinascimento.

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L’AMBIENTE FERRARESE E BOIARDO (cap.3)

A Ferrara vi è la casa d’Este, dove le lunghe lotte di successione, rendono la città molto debole
sul versante politico-istituzionale.

In generale, il clima culturale delle corti dell’Italia padana è più aristocratico e una delle sue
peculiarità è il forte mecenatismo: il popolo, a causa del pesante fiscalismo, viene ricompensato
con rappresentazioni comiche e cavalleresche.

Tra l’intellettuale e il potere vi è un rapporto ben esplicito, in cui il poeta scrive in onore del
signore, il quale gli offre protezione (es. Boiardo serie al duca d’Ercole, Ariosto al cardinal Ippolito).

MATTEO MARIA BOIARDO


Nacque nel 1441 a Scandiano, feudo concesso al nonno nel 1423 da Niccolò III d’Este. Egli si
trasferì ventenne alla corte di Ferrara, al servizio di Borso d’Este, con il quale si recò anche a
Roma.

Nel 1469 si innamorò di Antonietta Caprara, che cantò nel suo canzoniere.

Nel 1476 passò al servizio del duca Ercole I e iniziò la composizione del poema l’Orlando
innamorato.

Morì nel 1494.

Fu autore di opere in latino e in volgare.

-Carmina de laudibus Estensium: poesie in onore degli estensi, in metro vario

-Pastoralia: 10 poesie pastorali ispirate al modello bucolico di Virgilio in volgare, sempre con
l’ideale di ricreare i generi classici in volgare (cinque vertono sulla liberalità e il senno, cinque sul
tema amoroso)

-Egloghe volgari: sono in terzine dantesche, di argomento personale, politico e amoroso.

-Traduzioni dal greco e dal latino: confermano il suo interesse per la cultura classica (Vite di
Cornelio Nepote, Metamorfosi di Apuleio, Ciropedia di Senofonte).

Ma l’attività letteraria di Boiardo si incentrò su un canzoniere giovanile (gli Amorum libri tres) e
sul capolavoro della maturità (L’Orlando innamorato).

-Amorum libri: le 180 poesie che costituiscono la raccolta (suddivisa in tre libri, come gli Amores
ovidiani) risentono dell’influsso petrarchesco, soprattutto per la volontà di costruire una sorta di
percorso spirituale. Raccontano la storia della passione amorosa del poeta per Antonia, la
delusione e la sofferenza per il tradimento e, infine, il ricordo malinconico di quell’amore.

L’influenza del Canzoniere di Petrarca è forte ma non si traduce in pura imitazione. La sua lirica,
infatti, è aperta allo sperimentalismo ed è percorsa da una vena sensuale e naturalistica, estranea
al grande poeta del 300. In Boiardo, ad esempio, la profonda e intima ricerca introspettiva di
Petrarca lascia il posto a un più libero e spontaneo fluire di sentimenti. (differenza fondamentale
pag.442 con Rvf 1)

Boiardo deve la sua fama all’Orlando innamorato, iniziato nel 1476 e interrotto a causa della
morte di Boiardo (1494), durante il passaggio delle truppe francesi di Carlo VIII (evento che pone
fine al mondo delle corti quattrocentesche).

La letteratura epico-cavalleresche costituisce la fonte dell’opera e l’autore dichiara di utilizzare


un libro di Turpino con lo scopo di conferire un’atmosfera fiabesco dalla narrazione.

Egli riprende il ciclo carolingio (combattere per fede) e quello bretone (combattere per amore),
fondendoli insieme: Orlando, infatti, paladino di Carlo Magno, si innamora della bellissima
Angelica, pronto ad affrontare mille avventure in difesa o per amore della donna. E’ proprio la
fusione dell’amore con l’eroismo individuale a costituire l’elemento innovativo fondamentale.
(motivo epico unito a motivo amoroso)

Orlando si presenta come l’uomo tipico del Rinascimento, in cui tutte le qualità sono esaltate: è
forte e colto. Boiardo, infatti, riprende questo antico genere epico-cavalleresco perchè crede nei
valori di quel mondo così distante, ma, allo stesso tempo, sentito così affine all’Umanesimo.
Cortesia, gentilezza, fedeltà sono valori che posso rivivere nella colta Ferrara, grazie a una
rinnovata sensibilità umanistico-rinascimentale.

Boiardo inoltre intende narrare una “bella istoria” a un pubblico signorile che si vuole divertire e
aspetta di vedere celebrate le azioni meravigliose di Orlando. E’ fondamentale anche il motivo
encomiastico-celebrativo: l’esaltazione della dinastia estense è nell’accenno alla storia d’amore

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tra Ruggero e Bradamante. Il giovane guerriero pagano Ruggiero è destinato a convertirsi al


cristianesimo e a sposare Bradamante, sorella di Ranaldo e cugina di Orlando, dando origine alla
casa d’Este.

La tecnica narrativa utilizzata è l’entrelacement, ovvero il continuo succedersi di storie diverse,


portate avanti contemporaneamente su piani narrativi distinti (crea coinvolgimento emotivo se si
pensa che il poema era pensato per una dizione orale alla corte estense).

Il romanzo si interrompe sull’innamoramento di Fiordispina per Bradanamente, con un’ottava che


registra, drasticamente, la rovina d’Italia.

L’Orlando furioso di Ariosto nasce come l’ideale continuazione dell’Orlando di Boiardo.

L’AMBIENTE NAPOLETANO (cap.4)

Nel regno di Napoli, le contese tra i vari rami degli angiomi favorirono l’intervento di Alfonso V di
Aragona, detto il Magnanimo, già sovrano di Aragona, Sicilia e Sardegna. Nel 1442 il regno di
Napoli entrò a far parte del dominio aragonese.

La figura di Alfonso risulta ingigantita da un’operazione corale di encomi, e l’Umanesimo


aragonese assume una forte impronta monarchica: c’è un sovrano virtuoso e illuminato,
sostenitore delle lettere (mecenatismo) e ripagato da una celebrazione in chiave di principe ideale.

ANTONIO PANORMITA (Antonio Beccadelli)


Nato nel 1394 a Palermo, entra da giovane nella corte di Cosimo de’ Medici, a cui dedica
l’Hermafroditus, una raccolta di epigrammi satirici dal contenuto apertamente osceno: egli
nasconde un uso sapiente dei modelli classici, intrecciando scandalo e raffinatezza, recuperando
la tradizione dell’epigramma antico (Marziale). Però, quest’opera viene ritenuta oscena ed egli si
sposta al servizio di Alfonso d’Aragona.

Egli lascia un segno profondo con la “Porticus Antoniana”, opera encomiastica verso Alfonso, e
con il suo ampio epistolario, spartito tra il versante pubblico e provato, destinato a diventare un
modello di prosa latina.

Egli è importante per l’Umanesimo italiano perchè conferma ancora una volta la centralità del
latino, che rimane così la lingua principe per l’elaborazione letteraria.

MASUCCIO SALERNITANO
Nato tra il 1410 e il 1415, entra nella corte di Alfonso ed è fondamentale per il cosiddetto
“Novellino”, raccolta di cinquanta novelle, articolata in cinque gruppi di dieci, sul modello
precedente del Decameron.

Guardato a livello strutturale, il Novellino ripropone ogni volta lo stesso schema: argomento,
esordio (con destinatario), narrazione, Masuccio (una sorta di bilancio, in chiave morale, che
l’autore assume sotto la propria voce). Le tematiche spaziano su motivi ormai consueti della
tradizione novellistica, dalla misoginia alla satira mirata contro gli ordini ecclesiastici.

GIOVANNI PONTANO
Nato in Umbria nel 1426, entra a Napoli come letterato, al servizio di Alfonso, nel 1448.

Dopo gli esordi con il Pruritus, una raccolta di epigrammi osceni sul modello del Panormita,
Pontano compone un Parthenopeus sive Amores, una raccolta di carmi di vari metri di materia
amorosa, che risente del modello di Catullo.

Ricordiamo gli Urania, gli Hendecasyllaborum libri, e il De amore coniugali, pensato inizialmente
come omaggio per la ragazza che poi sposerà. La celebrazione della moglie si accompagna alla
difesa degli ideali familiari, secondo un gusto oraziano di misura e austerità.

Accanto alla lirica, egli si occupa pure del De principe liber, una sorta di teorizzazione sulla figura
del principe ideale.

Importante anche per il dialogo umanistico (Charon, Actius, Antonius, Aegidius), che mette in
scena in forma aperta e divertita, sempre increspata di ironia, temi cruciali della cultura
contemporanea.

Nel 1486, viene incoronato poeta laureato a Roma, ma dì lì a poco, nel 1494, la discesa di Carlo
VIII in Italia provoca il decisivo tracollo della dinastia aragonese. Negli ultimi anni egli si chiude
negli studi, scrivendo innumerevoli trattati (De liberalitate, de prudentia..), dai quali emerge la
figura composta e orgogliosa di un letterato ritiratosi a vita pivata, ma ancora impegno nella difesa
di idoli che aveva rivendicato con voce ferma.

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LA LIRICA A NAPOLI TRA LATINO E VOLGARE: MARULLO E CARITEO

MARULLO: Sul versante latino, spicca la produzione di Marullo, poeta nato a Costantinopoli nel
1453 e passato in Italia da giovane. Egli arriva poi a Napoli ed entra in relazione con Pontano, per
una composizione di epigramma.

Pubblica una prima raccolta di Epigrammata, articolata in 4 libri, suo capolavoro: si rivela la
tradizione dell’Antologia greca e si mette in mostra soprattutto una voce poetica con venature
preziose e malinconiche. Da ricordare, l’epigramma dedicato alla morte del fratello (pag.467) di
memoria ovviamente Catulliana (carme 101).

Si ricordano pure gli Hymni nturales, una serie di 21 inni dedicati a diverse divinità con un
impegnativo disegno filosofico.

CARITEO: Sul versante del volgare, la cultura napoletana procede a una complessa assimilazione
del modello del canzoniere di Petrarca. La produzione più significativa è quella di Benedetto
Gareth, detto il Cariteo. Egli raccoglie le sue liriche in un macrotesto chiamato l’Endimione:
questo è emblematico perchè egli riesce a mediare tra la componente petrarchista e la fitte rete di
memorie classiche.

LA LIRICA VOLGARE TRA QUATTRO E CINQUECENTO (cap.5)


LA RACCOLTA ARAGONESE: E’ una raccolta di poesia toscana, da indirizzare come omaggio a
Federico d’Aragona e nasce dal desiderio di accorpare i maggiori risultati poetici conseguiti nella
lingua toscana: centinaia di poesie, da Dante fino allo stesso Lorenzo de’ Medici, con l’obiettivo
id politica culturale di dimostrare ai vertici della dinastia aragonese il rilevo della tradizione
toscana, una centralità culturale che valeva anche come legittimazione politica del ruolo di
Firenze.

A incorniciare il tutto è un’epistola proemiale attribuita a Polizano, in cui si pone l’accento sulla
“toscana lingua”, proposto come strumento per la letteratura a venire.

Proprio questa operazione di sistemazione e raccolta, e insieme di affermazione di dignità della


letteratura in volgare fanno di quest’opera uno snodo storico importante.

BUCOLICHE ELEGANTISSIMAMENTE COMPOSTE: Nel 1482, a Firenze, presso lo stampatore


Miscomini, viene pubblicata una raccolta di una traduzione delle Bucoliche virgiliane e delle
egloghe volgari di autori senesi e fiorentini.

Anche questa raccolta ha un’obiettivo politico: legittimare il regine mediceo, accostando autori
senesi e autori fiorentini. La poesia volgare viene così ulteriormente legittimata, sotto il segno di
una profonda continuità con la classicità.

LA POESIA CORTIGIANA DEL SECONDO QUATTROCENTO: La poesia volgare è la


legittimazione di una classe di intellettuali collocati intorno al principe e alla sua famiglia.

La lirica diventa così un codice condiviso di riconoscimento e di trasmissione dei valori, e si offe
in modo duttile a rispecchiare gli episodi della vita di corte.

Ci si rivolge soprattutto ai RVF di Petrarca, e agli autori classici e contemporanei, in una struttura
ibrida per toni e risultati.

Ricordiamo Antonio Tebaldeo, autore prolifico per la produzione volgare, approdata a una prima
edizione delle Opere. Egli riprende i topoi petrarcheschi per rendere la sofferenza amorosa.

Importante è anche Serafino Aquilano, diventato celebre per la sua arte dell’improvvisazione e
per una produzione abbondantissima, raccolta in un’opera suddivisa per ordine metrico. Egli
ripropone motivi classici della poesia cortigiana di quegli anni.

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EPOCA 5
RINASCIMENTO

LA CRISI POLITICA ITALIANA E LA CULTURA DEL RINASCIMENTO


L’ingresso in Italia delle truppe francesi di Carlo VIII nel 1494 segna la fine di un’epoca, poichè
si ha modo di percepire la sostanziale fragilità militare e politica degli stati regionali italiani, che li
porta, in tempi assai rapidi, verso un destino di inesorabile decadenza.

Infatti si farà sempre più chiara l’incapacità delle singole realtà politiche italiane di contenere le
ingerenze delle forze straniere (es. sacco di Roma 1527).

L’Italia è il teatro di una più complessa partita tra la monarchia francese di Valois e l’Impero di
Carlo V, che si concluderà solo nel 1559 con la pace di Cateu-Cambrésis, a sancire la
dominazione spagnola della penisola.

E’ in questo contesto di crisi che l’intellettuale si sforza di proporre una cultura di impronta
classicista, capace di mettere a frutto i risultati più avanzati della riflessione umanistica e insieme
di valorizzare il volgare quale strumento di espressione di una modernità legittimata a competere
con la cultura antica

LA QUESTIONE DELLA LINGUA


Pietro Bembo si impone nei vari dibattiti sulla lingua con le Prose della volgar lingua (1525), che
definisce le norme della lingua scritta e insieme il canone degli autori imitabili (Petrarca per la
poesia, Boccacio per la prosa).

L’IMITAZIONE DEI CLASSICI


E’ Bembo a istituire un legame tra imitazione ed emulazione, descrivendo un itinerario formativo
dello scrittore che procede dal lavoro di rifacimento e interiorizzazione dei modelli, per giungere
poi a una autonoma e matura espressione letteraria.

Ciò si riscontra facilmente nel genere del dialogo, con Bembo negli Asolani, le Prose della Volgar
lingua e il Cortegiano di Castiglione. La struttura del dialogo definisce tanto i valori etici e culturali
della cultura moderna, quanto l’ambiente in cui questi stessi valori vengono espressi e acquistano
un senso ultimo.

Significativo è pure il genere lirico, inscritto in una profonda imitazione del Canzoniere di Petrarca.

Forse il fronte nel quale si manifesta con maggior evidenza l’avvento della nuova stagione
classicista è quello teatrale, specie nel passaggio che si può osservare dalle traduzioni di testi
latini, capaci di costruire un nuovo linguaggio per la commedia e la tragedia.

I RIFLESSI DELLA CRISI TRA TEORIA POLITICA, STORIOGRAFIA E LETTERATURA


Il panorama di crisi sollecita in diversi dei più avveduti autori la volontà di offrire ambiziose
propose di interpretazione del presente, facendo incontrare l’esperienza concreta con la continua
lezione delle cose antiche, come dichiara Machiavelli nel Principe. Egli intende offrire al principe
strumenti concreti per agire e divenire protagonista attivo di una liberazione dalle forze straniere,
come del resto lo stesso Machiavelli ricorda nel capitolo finale della sua opera, richiamandosi alla
canzone Italia mia di Petrarca.

Guicciardini, invece, si allontana dalla fiducia di Machiavelli sull’universalità della storia e giunge
ad una lettura più attenta alla particolarità degli eventi, interpretabili solo grazie a una miscelata
dose di conoscenza storica (la Storia d’Italia).

Ma il riflesso di una realtà cupa si vede anche nell’Orlando Furioso dell’Ariosto, nel quale sono
frequenti le allusioni al mondo contemporaneo, con il loro portato di violenza ed eversione, oppure
nell’idealizzato universo dei pastori dell’Arcadia di Sannazaro, la cui edenica pace trascolora in
un clima di dolore.

IL MESTIERE DEL LETTERATO


Egli è l’uomo di corte del Quattrocento che, però, è sbigottito da molte contraddizioni, come
notiamo nel Cortegiano o nelle Satire di Ariosto, con le quali il poeta, sulla scia del modello
oraziano, rivendica una sua condizione di superiore saggezza ironizzando sulle follie del mondo
cortigiano.

In questi anni, si vuole far trasparire dalle opere una sorta di autoritratto nel quale il letterato
rivendica la propria autonomia.

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PIETRO BEMBO (cap.1)

Nasce nel 1470 a Venezia e riceve un’educazione umanistica di alto profilo.

Il padre vorrebbe indirizzarlo ad altri studi, ma la sua vocazione letteraria è più forte.

La sua prima opera andata in stampa è il De Aetna (1496): dialogo in cui lui e il padre sono intenti
a discutere temi scientifici e filosofici, in particolare del fenomeno delle eruzioni vulcaniche.

Questo dialogo viene stampato dal famoso editore Aldo Manuzio, caro amico di Bembo.

Nel 1501 egli stampa le Cose volgari di Petrarca e nel 1502 la Commedia, con il titolo Le terze
rime di Dante. Nel 1505, egli dà alle stampe la sua prima opera in volgare, il dialogo gli Asolani,
trattato sul tema amoroso che ricalca il luogo in cui l’opera è ambientata, Asolo: nella pause di un
matrimonio ambientato qui, tre giovani, avviano una discussione sul tema dell’amore (siamo sulla
falsariga del Decameron). Il dialogo è organizzato in 3 libri e tratta in ordine dell’amore infelice,
dell’amore felice e dell’amore come esperienza di perfezionamento per l’uomo. I modelli sono
senz’altro il dialogo classico di Cicerone e Platone e il De Amore di Marsilio Ficino. Egli introduce
l’intero dialogo con 3 diversi componimenti lirici, quasi ad esemplificare l’opera.E’ importante la
canzone “Amor, la tua virtute”, in cui Amore è visto come lo strumento per il perfezionamento
morale di ascendenza neoplatonica.

A fare da spartiacque tra la produzione giovanile e quella matura, vi è un evento tragico per
Bembo, la morte del fratello Carlo, espressa in una sorte di piccolo poema funebre, modellato
sul carme 101 di Catullo.

Nel 1505 si stabilisce a Urbino e compone le Stanze, 50 ottave di tema amoroso.

Il vero momento di svolta nel suo percorso biografico è segnato dall’approdo a Roma, dove
giunge con il prestigioso incarico di segretario del papa Leone X.

Egli poi si inserisce nella polemica con Pico della Mirandola riguardo la determinazione del
canone degli autori giudicati esemplari, all’interno di una contrapposizione tra una imitazione di
modelli plurali, la cosiddetta docta varietas, e una imitazione che elegge al contrario un solo
autore come modello assoluto. Pico della Mirandola propende per la prima soluzione, mentre
Bembo per la seconda (Virgilio poesia, Cicerone prosa).

Nel 1525, egli pubblica le Prose della volgar lingua, un trattato in forma dialogica, in cui affronta il
problema della lingua italiana per definirne una norma grammaticale e per individuare i modelli da
imitare. Il dialogo è ambientato a Venezia. Egli sceglie come canoni Boccaccio per la prosa e
Petrarca per la poesia, per rendersi finalmente classico e moderno insieme.

L’opera ha come obiettivo quello di uscire da una situazione di crisi per il particolarismo delle
lingue cortigiane ed approdare a una lingua unita e coesa.

Egli introduce l’opera dicendo che non c’è una lingua se alle sua spalle non c’è una letteratura
che la forma e la legittima, poi individua i criteri per determinare tale lingua: la gravità e la
piacevolezza (sulla scorta del De oratore di Cicerone). Dante è troppo grave e troppo poco
piacevole, Cino il contrario.. è Petrarca il giusto mezzo perfetto.

Per quanto riguarda invece la poesia di Bembo, egli stampa le Rime, il risultato di un’attività di
poeta quasi quarantennale. Si tratta di una silloge di 60 testi, caratterizzati, per ciò che riguarda lo
stile e la metrica, da una preferenza per il modello petrarchesco, ma ancora disponibili a un certo
eclettismo. Egli vuole che l’opera diventi modello di un nuovo canzoniere. Da leggere pag.494 il
sonetto “Piansi et cantai lo stratio e l’aspra guerra”. Egli continua a lavorare alla definizione del
libro di rime sostanzialmente sino alla morte. Esce invece postuma quella che doveva essere
l’espressione dell’ultima volontà dell’autore, con la propensione ad accogliere con maggior
disponibilità temi e tessere della grande poesia classica. Da leggere il sonetto “O superba e
crudele..”, rifacimento della decima ode del quarto libro di Orazio, dedicata all’invecchiamento
della bellezza.

Nel 1530 ottiene l’incarico di storiografo ufficiale della Repubblica e nel 1539 viene nominato
cardinale dal papa Paolo III.

Egli poi avvia un lavoro delle sue lettere, italiane e latine, allo scopo di offrirne una edizione a
stampa. Le lettere escono tra il 1548 e il 1552, in cinque volumi, sulla scia delle Familiares di
Cicerone e Petrarca.

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IACOPO SANNAZZARO (cap.2)

Egli è una figura esemplare per comprendere il delicato e critico passaggio della cultura letteraria
e linguistica italiana dal Quattrocento al Cinquecento e la ripresa del classicismo.

Nasce a Napoli nel 1458, il 28 luglio, giorno di san Nazaro e la sua vita è costellata da varie
vicende sfortunate, tra le varie morti familiari e la morte prematura della donna amata.

Egli si forma nella Napoli aragonese, dove viene a conoscenza sia della letteratura italiana e
volgare, sia della cultura e lingua greca.

Si rivela importante la sua amicizia con Pontano che lo inserisce nella sua Accademia Pontiniana,
con il nome di Actius Sincerus.

• Le Farse: sono 6 componimenti in versi scritti per occasioni e feste conviviali, utilizzati per la
recitazione eseguita nell’ambiente di corte e ricco di elementi dialettali, con tematiche
quotidiane o mitologiche. (“La Farsa di Venere che cerca il figliuolo Amore”).

• Le Elegiae: per quel che riguarda la produzione latina, oltre agli Epigrammata e alle Eclogae
piscatoriae, egli si dedica all’Elegiarium libero, prove in latino che costituiscono la preistoria
dell’Arcadia. Da leggere i versi a Cassandra Marchese.

• L’Arcadia: è un prosimetro, ossia un misto tra prosa e poesia, di natura pastorale, fitto di
richiami classici a Teocrito, Virgilio e anche alla Vita Nova di Dante, la Commedia delle ninfe
fiorentine di Boccaccio e il Decameron. L’opera, nella sua redazione ultima, è divisa in dodici
parti, ciascuna preceduta da un Prologo e conclusa da un congedo. Il prosimetro gli permette di
muoversi fra due differenti modalità: nella prosa si concentra l’aspetto narrativo della scrittura,
mentre nella poesia quello orale e lirico. L’Arcadia rappresenta un esempio emblematico di
letteratura dell’utopia, un rifugio alternativo alla realtà e vicino alla mitica età dell’oro, ma
anche un luogo interiore. Nelle prime parti, viene descritta l’Arcadia, regione dell’antica Grecia di
ambientazione virgiliana: qui vivono dei pastori che si sfidano in gare di canto e qui vive l’autore
stesso, fuggito da Napoli per trovare sollievo alle sventure amorose.Eppure l’apparente serenità
del luogo non riesce a far dimenticare le angosce al protagonista e soprattutto la stessa Arcadia
appare come una prospettiva deludente, incapace di porsi come alternativa efficace al mondo
reale. Il romanzo è la crisi del protagonista e insieme la crisi della collettività poichè i temi
trattati vanno dall’esilio al desiderio di un luogo paradisiaco come rifugio ad una realtà minata
da pericoli, alle guerre e alla morte. L’opera è il prodotto di un raffinato scavo tra gli autori
classici e i maggiori letterati del Trecento, guardando soprattutto a Petrarca e Boccaccio.
L’Arcadia si apre con una descrizione del locus amoenus, secondo modalità classiche, ma il
percorso punta dall’alto verso il basso, in una negazione finale della prospettiva edenica iniziale.
Il racconto è espressione di un mondo umile, spontaneo e naturale e quest’opera gode di una
grande fortuna, entrando a far parte del canone della letteratura italiana. Sarà infatti tra i
principali ispiratori dell’Accademia dell’Arcadia, nata nel 1690.

• Sonetti et canzoni: l’opera è espressione di un colto e raffinato petrarchismo napoletano e


contiene 101 rime di vario metro, non presentando la struttura di un canzoniere. Il sonetto
iniziale è una constatazione sul dolore che obbliga chi scrive, con i suoi versi, a raccontare di
sospiri e affanni. La poesia può inoltre innalzare e eternare.

• De partu Virginis: è un poemetto latino in esametri, diviso in tre libri, narra della maternità di
Maria e della nascita di Gesù. Si colloca a pieno nella tradizione umanistica del poema sacro.
Nella descrizione della nascita del Redentore, è emblematico il unto in cui si insiste sul fatto che
la nascita di Gesù non ha comportato alcun dolore per la Vergine.

Sannazaro muore a Napoli nel 1530.

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LUDOVICO ARIOSTO (cap.3)


La poesia è il luogo della celebrazione degli alti ideali e va filtrata con la storia contemporanea.

Egli mostra l’amarezza della vita di corte, oppure l’ombra delle guerre d’Italia e della crisi religiosa
degli anni di Lutero. Tutto viene assorbito in una poesia capace di celebrare e immortalare la
grandezza ma anche di cogliere e osservare bassezze e vizi.

Per questa fiducia nella poesia come luogo per una trasposizione integrale delle vicende umane,
egli può essere considerato l’ultimo rappresentante di quel glorioso sogno dell’Umanesimo.

Nasce nel 1474 a Reggio Emilia, primo di dieci fratelli.

Intraprende a Ferrara gli studi di legge, ma poi passa a quelli umanistici: inizia qui una fase di
apprendistato, condotto con le lezioni del maestro Gregorio da Spoleto (lo cita nelle satire, pag.
513). La sua formazione non approda al greco, ma si ferma al latino e ad una rapida assimilazione
dei modelli della lirica latina.

Nel 1500, già al servizio degli Este, muore il padre ed egli diventa responsabile di tutta la famiglia.

Nel 1503 entra al servizio diretto del cardinale Ippolito d’Este e stringe con lui un rapporto di
dipendenza cortigiana destinato a durare 15 anni e a risultare decisivo.

Egli però non gode di un’effettiva prosperità economica ed è costretto a prendere gli ordini minori
per ottenere alcuni benefici ecclesiastici.

Egli progetta di comporre un poema in terzine a celebrazione della casata, l’Obizzeide, ma il


tentativo rimane presto interrotto e si dedica quindi al modello di Boiaro, componendo una
aggiunta all’Orlando Innamorato.

Egli sperimenta in versi riprendendo il modello petrarchesco intrecciandolo con la riscrittura di


Catullo, Properzio, Tibullo e Ovidio. (egli è sospeso tra petrarchismo e classicismo).

Ariosto però non avvierà mai una pratica di ordinamento e riunione delle sue poesie in Rime, ma
le confinerà in un laboratorio tutto privato di sperimentazione.

La pratica delle rime inserisce Ariosto in un clima vivacissimo delle corti dei primi anni del secolo:
attraverso viaggi, contatti, scambi egli partecipa e sperimenta il dialogo tra la cultura classica e
quella contemporanea.

Il centro della sua attività rimane però Ferrara e qui egli mette in scena due commedie, la Cassaria
(riprende i topi degli amanti giovani e dei vecchi avari plautini) e i Suppositi (lo scambio d’identità).
Il teatro ferrarese rifiorisce proprio in quegli anni, con una rappresentazione di classici del teatro
latino, da Plauto a Terenzio a Seneca.

Una terza commedia, il Negromante, è avviata nell’autunno del 1500, ma le guerre lo bloccano.

Egli, dopo la morte di Giulio II, papa con cui aveva avuto non buoni rapporti, spera di essere
ammesso al servizio del papa Leone X, ma questo si rivela “miope”, come lo definisce egli
stesso”, non scorgendo neppure l’Ariosto.

Così, egli torna a Ferrara, ancora al servizio di Ippolito.

IL FURIOSO DEL 1516


Nel 1516 esce la prima edizione del Furioso, ma, secondo Ariosto, l’opera ha bisogno di revisioni
e correzioni perchè è scritta in modo confuso e accidentato, piena di aggiunte e cancellature. Ci
viene descritto il manoscritto con quel particolare delle ottave spostate, che dice molto della cura
con cui egli struttura i canti.

Ariosto ottiene i privilegi di stampa per lo stato pontificio e per gli altri stati italiani: dispone di una
tiratura limitata di 1300 copie. La prima edizione è composta da 40 canti e l’impianto è già quello
definitivo sia per la proposta della materia imperniata sulla guerra tra Carlo e i “Mori”, sia per la
novità inaudita della follia di Orlando per amore. Importante è l’equivalenza tra la follia di Orlando
e quella del narratore, con un riferimento autobiografico alla passione di Ludovico per Alessandra
Benucci.

Il Furioso del 1516 è un capolavoro assoluto, distinto per equilibri e per scelte dall’ultima edizione
del 1532 (+4 canti + rivisitazione linguistica).

Un aspetto importante del Furioso è la sua storicità perchè il poema dell’Ariosto lascia intravedere
in molti passaggi un rapporto stretto con le vicende contemporanee: il poema assorbe le vicende
italiane, omaggiando ora Ippolito d’Este, ora il duca Alfonso d’Este, ora ancora Francesco I. Si
tratta di una pratica encomiastica, ma anche della dimostrazione di un poema che fa spazio ai
riflessi della difficile storia cinquecentesca.

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LA CESURA DEL 1517: LE SATIRE


Il rapporto con Ippolito è già logorato da anni, proprio in ragione del mancato riconoscimento
dell’eccellenza dell’Ariosto poeta, quando arriva l’episodio che determina la rottura. A fronte della
necessità del cardinale Ippolito di recarsi in Ungheria, Ariosto rifiuta di partire con il resto del
seguito e decide di rimanere a Ferrara: l’effetto immediato è l’esclusione dal servizio di cardinale
nel 1517.
Le sette satire, composte fra il 1517 e il 1525, rappresentano nella letteratura in volgare dell’età
rinascimentale un genere nuovo, pur riprendendo il modello della satira latina (Orazio).

La forma metrica è in terzine di endecasillabi a rima incatenata (terzina dantesca), ma il lessico è


semplice e il registro linguistico popolare.

Le Satire hanno un impianto epistolare, perchè sono dedicate ognuna ad un destinatario.

Si ricordano da un lato le satire prima del 1517, ovvero prima della rottura, e quelle dal 1523 al
1425, ovvero quelle durante e dopo la parentesi difficile della Garfagnana.

Le Satire non vanno considerate come una biografia in versi, ma come uno sguardo lucido sul
mondo contemporaneo e l’ambiente delle corti

Importante è la Satira I, in cui egli riepiloga le ragioni che lo hanno fatto rimanere a Ferrara e la
dedica al fratello minore e all’amico Ludovico da Bagno: egli affida loro il compito di dire al
signore che preferisce essere povero piuttosto che suo schiavo (cortigiano descritto come un
uomo incatenato e costretto).

Le Satire sono un luogo di grande sperimentazione, ma a dominare, pur nelle incertezze di un


animo oscillante, è sempre il desiderio di una dimensione tranquilla e riposta, di una dimora a
Ferrara in cui coltivare gli unici amori che non vengono mai meno, quello per la poesia e quello
per Alessandra Benucci.

Le Satire si aprono con un rifiuto (di andare in Ungheria) e si chiudono con una rinuncia (incarico
a Roma), quasi a chiudere il cerchio di un disegno coerente.

Escono soltanto postume perchè Ariosto non lavora mai alla loro diffusione a stampa.

L’AUTUNNO DELL’ARIOSTO, TRA GARFAGNANA E CINQUE CANTI


Dopo la rottura con Ippolito, egli passa al servizio di Alfonso d’Este e gli giunge l’incarico di
recarsi come commissario ducale in Garfagnana, una terra contesa tra Firenze e Ferrara,
percorsa da rivalità antiche e infestata da bande di briganti, la quale risulta particolarmente
difficile da governare.

Questo periodo è segnato dalla lontananza da Ferrara e da una mansione poco gradita, che gli
impedisce la pratica prediletta della poesia (Satira IV).

In questo periodo, egli scrive i Cinque canti, probabilmente componimenti che si ricollegano alla
zona conclusiva della vicenda narrata nel Furioso (forse una prosecuzione?), ma è certo che,
nell’edizione definitiva del 1532, egli esclude i Cinque Canti dall’operazione di ampliamento
narrativo che stava conducendo sul poema, cogliendo probabilmente la loro profonda differenza
dal Furioso.

IL SECONDO TEMPO DEL TEATRO


Il teatro ariostesco conosce uno straordinario rilancio, anche a seguito del successo del Furioso,
con rappresentazioni dei Suppositi, del Negromante e di una nuova commedia, la Lena.
Quest’ultima mette in scena le azioni della serva Lena, figura meschina e squallida, e gli amori di
Flavio e Licinia, che giungono a buon esito nonostante gli invidiosi. Egli qui utilizza l’endecasillabo
sdrucciolo, con cui Ariosto intende rendere il metro giambico dei modelli latini.

L’EDIZIONE DEFINITIVA DEL 1532


Ariosto opera una profonda revisione che tiene conto anche della pubblicazione delle Prose della
volgar lingua di Bembo (1525): adatta il canone linguistico a Bembo e aggiunge quattro episodi
significativi.

Il poema si amplia da quaranta a quarantasei canti.

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I fili narrativi principali sono 3: 1) l’amore di Orlando per Angelica (principessa che distrae i
paladini dai loro doveri); 2) guerra che il re dei Mori scatena contro Carlo Magno; 3) l’amore tra
il saraceno Ruggero e la cristiana Bradamante, da cui nascerà la dinastia estense.

La tecnica utilizzata è quella dell’entrelacement (come Boiardo): tanti fili narrativi contemporanei,
che vengono narrati, sospesi e ripresi, per creare suspence e aspettativa. Abbiamo “varie fila” per
“varie tele” e la gestione del tempo narrativo è assolutamente indefinita, con l’effetto di un
labirinto di storie e avventure intrecciato e complesso.

Dietro l’apparente confusione, a guardar bene una struttura solida presiede e sorregge tutta la
materia narrativa, XII (castello di Atlante), XXIII (follia di Orlando), XXXIV (Astolfo sulla luna): la
distribuzione di questi episodi crea una struttura del poema simmetrica e a campate regolari.

L’entrelacement inoltre consente un confronto silenzioso tra le azioni dei doveri personaggi e il
lettore, quindi, si trova di fronte ad una pluralità di torte che offrono un campionario di
atteggiamenti e condotte.

Il mondo cavalleresco è ribaltato e soggetto all’”artificio dell’abbassamento”, poichè dai grandi


valori epico-cavallereschi si arriva ai valori degli uomini comuni, e, appunto, anche alla pazzia.

-Importante è l’episodio della follia di Orlando, che si riduce ad uno stato bestiale, distruggendo e
devastando tutto quanto incontra, dopo aver scoperto l’amore di Angelica con Medoro.

L’esplosione della follia è il culmine di una condizione universale che trova potente metafora nel
secondo castello di Atlante, nel quel tutti i personaggi inseguono all’infinito gli oggetti dei propri
desideri.

-Fondamentale è anche l’episodio di Astolfo sulla luna, che va a recuperare il senno di Orlando e
a scoprire dove vanno a raccogliersi le tante cose smarrite dagli uomini.

L’elemento trainante dell’opera è l’ironia, che offre una visione disincantata della dimensione
umana e della sua transitorietà: è uno strumento conoscitivo.

I luoghi di quest’opera sono reali e immaginari e si muovono su un movimento circolare (spazio


umano, ci si muove sulla terra, senza prospettiva ultraterrena) e verticale (Divina Commedia).

La geografia è vastissima, perchè spazia da varie località in Europa, alla Luna..

La struttura riflette una concezione del mondo laica in cui l’uomo spesso si muove tornando al
punto di partenza: egli è infatti soggetto alla fortuna, non è artefice di questa (visione
pessimistica).

Le fonti narrative sono il filone carolingio (11° sec), in cui si esaltano i paladini di Carlo Magno
come modello di guerriero e martire della fede, il filone bretone (12° sec), che tratta di avventura,
amore come “ricerca” e elemento magico, e infine, Pulci e Boiardo (15° sec), con il Morgante
(epica cavalleresca parodica) e l’Orlando innamorato (esaltazione della cavalleria).

La lingua di Ariosto è una lingua ibrida, che intreccia gli esiti padani con una tendenza ad
accogliere tratti del fiorentino contemporaneo, con l’obiettivo evidente di raggiungere un pubblico
esteso.

Emblematica è anche la struttura dell’ottava (detta ottava aperta) che a volte è formata da 6+2
(con il distico finale impiegato in chiave di commento o di rilancio a sorpresa), a volte da 4+4, altre
da 2+2+2+2 (impiegate per le descrizioni liriche o per rendere rapidi movimenti narrativi)

Per l’Ariosto si parla di variatio, per conferire quell’immagine di fluidità e armonia su cui si
sofferma la critica.

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BALDASSARE CASTIGLIONE (cap.4)

Nacque nel 1478 presso Mantova.

Studiò a Milano, dove ricevette una solida preparazione umanistica e iniziò l’esperienza della
corte al fianco di Ludovico il Moro.

Nel 1499 entrò al servizio di Francesco Gonzaga a Mantova.

Nel 1503 andò a Roma, dove scrisse un celebre sonetto “Superbi colli, e voi sacre ruine”, circa un
gusto particolare per le rovine romane, intrecciandosi con un motivo diffuso, del tempo che divora
e distrugge ogni cosa presente.

Tra il 1504 e il 1513 fu alla corte di Urbino, per missioni diplomatiche, prima con i Montefeltro,
poi con i Della Rovere; qui iniziò a lavorare al Cortegiano.

Quando morì la moglie, intraprese la carriera ecclesiastica.

Morì di peste nel 1529 a Toledo.

• Tirsi: è una favola pastorale, nella quale interagiscono 3 personaggi principali (i pastori Iola, Tirsi
e Dameta). E’ un componimento assai in voga presso le corti perchè dietro i personaggi del
testo si celano allusioni ai membri della corte. E’ sostanzialmente poesia celebrativa, sia verso
Elisabetta Gonzaga, sia verso Urbino, che inizia ad assumere quelle caratteristiche mitiche che
saranno esaltate nel Cortegiano.

• Il libro del Cortegiano: si tratta di un’opera concepita durante un periodo di drammatica crisi
iniziato con le guerre d’Italia e segnato da vicende tragiche (Sacco di Roma 1527). Questo è un
trattato dialogico ambientato alla corte di Urbino nel 1507: egli immagina che un gruppo di
nobili discuta per 4 serate sulla figura e sulle qualità del perfetto cortigiano.

Nel libro 1, si discutono le doti fisiche e le virtù morali del cortigiano, che deve essere
nobile d’animo prima che di sangue e deve muoversi con grazia.

Nel libro 2, si prendono in esame i modi in cui egli deve dare prova delle proprie qualità.

Nel libro 3, si discute della dama di corte, la perfetta gentildonna di palazzo.

Nel libro 4, si parla del tema dell’amore (visto come un “gioco”, una messa in scena) della
moralità e della giustizia e si delinenano anche i rapporti del cortigiano con il principe: egli
deve consigliarlo, senza adulazione e dirgli la verità, correggendolo ove necessario.

L’opera è dedicata al nobile portoghese Miguel da Silva e la collocazione del dialogo a Urbino si
può leggere come un omaggio alla corte dopo egli trascorre un lungo e lieto periodo (dimensione
ideale). Uno degli aspetti su cui insiste particolarmente è la “sprezzatura”, ossia la capacità del
cortigiano di simulare naturalezza e disinvoltura, costruendola però con artificio e studio (brano 2).

Si discute anche della lingua, che deve essere una sintesi equilibrata tra l’uso contemporaneo e le
varietà presenti in Italia; inoltre, dev’essere un’osmosi tra l’orale e lo scritto.

Quest’opera ottiene nasce nel 1513, ma viene sottoposta a ripetute revisioni e quindi verrà
pubblicata solo nel 1528, dopo una revisione in chiave bembiana. Al tempo della pubblicazione,
egli non può che guardare a quella stagione urbanità come tramontata ed irripetibile nella storia
italiana. L’opera gode di uno straordinario successo, imponendosi ben presto come un classico,
dai tratti internazionali (successo anche europeo).

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NICCOLO’ MACHIAVELLI (cap.5)

Nacque a Firenze nel 1469 da una famiglia borghese.

Non è rimasta traccia dell’adolescenza e della sua prima giovinezza, ma sappiamo solo che il
padre garantì al figlio una buona educazione umanistica, basata sullo studio dei classici latini. Ne
è preziosa testimonianza una trascrizione giovanile del De rerum natura di Lucrezia, indizio forse
di un’inclinazione verso una concezione della vita di stampo materialistico, in netto contrasto con
lo spirito ardentemente religioso della Firenze dominata dal Frate Savonarola.

Nel 1498 entrò al servizio della repubblica di Firenze come segretario della seconda cancelleria:
le sue mansioni lo collocano al centro della politica fiorentina, a diretto contatto con gli
avvenimenti, di cui fu acuto osservatore.

La sua carriera fu favorita da Piero Soderini, gonfaloniere della Repubblica, di cui egli divenne
consigliere personale.

Nel biennio 1499-1500 si occupò della guerra contro Pisa ribelle (Discorso fatto al magistrato dei
Dieci sopra le cose di Pisa), 1499).

Nel 1502 fu presso Cesare Borgia, detto il Valentino, impegnato con ogni mezzo a creare un
vasto Stato nell’Italia centrale e che diverrà in un certo senso il modello per il suo Principe
(compone Del modo di trattare i popoli della Val di Chiana ribellati, Descrizione del modo tenuto
dal duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli).

Nel 1506, viene eletto segretario della magistratura e crea quindi un esercito non mercenario.

Egli ricava da queste esperienze materia per la teoria che andava intanto elaborando. Acquisiva
cioè una sempre maggiore consapevolezza della necessità di costruire in Italia uno stato unitario
moderno, e ne individuava l’ostacolo principale nella miopia politica delle classi dirigenti dei
singoli Stati.

Nel 1512 tornarono al potere i Medici, dopo la parentesi repubblicana voluta da Savonarola, ed
egli interruppe la sua splendida carriera: sospettato di complicità in una congiura contro i Medici,
fu imprigionato e mandato al confino per un anno a San Casciano.

Nel fitto scambio epistolare con l’amico Francesco Vettori, egli accenna, con orgoglio e amarezza
insieme, a una solitudine riscattata solo dalla lettura e dallo studio dei classici.

L’esilio a San Casciano è però produttivo perchè progetta ed elabora il Principe.

I suoi tentativi di essere accolto alla corte medicea fallirono per la diffidenza dei Medici e si
avvicinò così ad un gruppo di intellettuali fiorentini, che si ritrovavano agli Orti Oricellari (giardini di
Palazzo Rucellai). Compose in questi anni le sue opere minori, l’Asino, la Mandragola, la Favola,
l’Arte della Guerra e le Istorie Fiorentine.

Ammalatosi improvvisamente, morì a Firenze nel 1527.

IL PRINCIPE
Nel 1513, egli annuncia di aver scritto un “opuscolo” De principatibus, in cui si stabilizzavano le
caratteristiche e le tipologie dei principati, si spiegava qual è il modo per conquistarli, mantenerli e
perderli.

L’opera fu poi pubblicata postuma, nel 1532, con il titolo Il principe.

Secondo la lettera a Vettori, il destinatario dell’opera doveva essere il figlio di Lorenzo il Magnifico,
Giuliano de’ Medici, che nel 1512, era riuscito a ristabilire il governo dei Medici a Firenze.

Ma, dal momento che la città nel 1513 passò a Lorenzo di Piero II de’ Medici, l’opera fu
dedicata a lui.

Egli si colloca con quest’opera nella trattatistica politica, nata nel Medioevo con il nome di
“specula principis” (specchi del principe), che intendeva dormire un modello in cui rispecchiarsi
per vedervi riflesse le qualità e le virtù morali di un politico perfetto.

Egli, però, rovescia la prospettiva degli specula principis, e chiarire che non vuole occuparsi di un
principe immaginario a cui consigliare inutilmente le più ammirevoli virtù, di fatto impraticabili. Egli
vuole indicare regole pratiche, utili ai principi che vogliono mantenere il potere in situazioni
concrete e non in astratte circostanze ideali.

Nei capitoli 1-14 parla delle tipologie di principali, mentre nei 15-26 si concentra sulla persona e
sugli obiettivi del principe.

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Nello scrivere il trattato, egli è mosso dalla speranza che la sua crisi personale - l’emarginazione
dalla vita politica - e la crisi degli Stati italani possano trovare una soluzione nel restaurato potere
dei Medici a Firenze.

Comprendendo come la situazione politica fosse ormai ingestibile ed impossibile in una posizione
repubblicana (come aveva indicato invece nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio), sposò la
tesi della superiorità del moderno stato assoluto che, visto l’esempio delle grandi monarchie
europee, gli sembrava l’unico in grado di superare la situazione di crisi a lui contemporanea:
propose un principato, uno stato in cui il potere si concentra nelle mani di un signore, il principe.

Delineare la necessitò di uno stato monarchico non significa però legittimare il dispotismo
tirannico, ma adottare una soluzione eccezionale a causa dell’eccezionalità dei tempi (egli è
infatti avverso alla tirannia)

Il suo pensiero si fonda sulla capacità di analisi della storia passata e della realtà presente ed
egli sposa una visione laica e razione con disposizione a considerare l’uomo in tutte le sue
potenzialità.

Sono essenziali i concetti di virtù, fortuna e occasione: la virtù è l’insieme di quelle qualità che si
esplicano, oltre che nel sapere, nella vita politica, influenzandola; la fortuna è un fattore esterno
alla volontà umana che favorisce l’occasione, fattore indispensabile affinché gli uomini misurino
la loro virtù.

C’è però una contrapposizione tra virtù politica e virtù morale, perchè il principe deve saper
essere “volpe e leone”, ovvero deve saper utilizzare l’astuzia e la forza quando la fortuna lo rende
necessario: deve saper ingannare il popolo sciocco per il bene dello stato (La teoria insegna che è
meglio essere buoni che cattivi, ma l’esperienza il contrario).

Egli parla inoltre di prudenza, ovvero che l’azione del principe deve nascere da un calcolo,
affinché si riducano i margini di rischio: la conquista o il mantenimento dello stato dipendono
dall’abilità di prevedere, assecondare, indirizzare a proprio favore l’inevitabile variare della realtà.

LA DESCRIZIONE DEL MODO TENUTO DAL DUCA VALENTINO… (1503)


E’ il resoconto della strage di Senigallia, in cui Cesare Borgia sgominò i suoi nemici congiurati: qui
egli presenta questo astuto condottiero come un modello di uomo politico, fermo e spregiudicato,
anticipando il ritratto che ne farà nel Principe.

I DISCORSI SOPRA LA PRIMA DECA DI TITO LIVIO (1513)


E’ un’opera composita, non compiuta, che nasce come sistematizzazione del commento politico
al racconto storiografico dei primi dieci libri degli Ab urbe condita libri di Livio. Sono in parte un
commento progressivo, in parte un trattato organizzato tematicamente alla formazione, alla
politica e all’accrescimento di Roma.

La questione fondamentale è come riuscirono i romani a costruire una repubblica di così lunga
durata e così capace di espandersi: la premessa teorica è infatti che la storia è un’effettiva
conoscenza politica e deve essere fruita per imitazione.

Il fatto che i Discorsi e il Principe siano stati scritti a breve distanza di tempo ha posto problemi di
interpretazione del suo pensiero politico (oscillante?). Ciò, però, si spiega analizzando i contesti
politici esterni in cui lavora Machiavelli: nel Principe, egli indirizza un insieme di precetti ai signori
di Firenze per aiutarli nel riconquistare la città e in quel momento è solo un moderno stato
assoluto la soluzione funzionale ai suoi obiettivi; nei Discorsi, invece, non vi è un’urgenza di un
problema immediato e dunque, in un contesto libero da emergenza, egli indica la repubblica
come forma di governo preferibile perchè stabile e in grado di suscitare al meglio la virtù.

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L’ARTE DELLA GUERRA (1521)


E’ un dialogo in sette libri sulla tecnica militare dei romani, confrontata con quella, decaduta, dei
moderni. E’ infatti necessario sostituire gli eserciti mercenari con milizie arruolate tra i cittadini,
sull’esempio della legione romana. Ma “la lezione degli antichi” predomina sull’esperienza perchè
l’Arte pecca di astrattezza e la sottovalutazione dell’importanza della cavalleria, delle artiglierie
mostrano le lacune tecniche di Machiavelli.

MANDRAGOLA (1518)
E’ una commedia di 5 atti in prosa e prologo ambientata nel 1504. Lo stato d’animo amaro
dell’autore, costretto a stare lontano dalla vita politica, si riflette nell’opera.

La scena, fissa, rappresenta una piazza di Firenze e le vicende sono contemporanee, mentre i
nomi dei personaggi sono greci (tranne il latino Lucrezia). Racconta le vicende di Callimaco, un
gentiluomo fiorentino di 30 anni, che da 20 vive a Parigi, il quale, avendo sentito parlare della
favolosa bellezza di una giovane donna fiorentina, Lucrezia, decide di volerla incontrare e desidera
fortemente farla sua.

ASINO (1518)
Anche questo di carattere satirico-morale, incompiuto poema autobiografico e allegorico, sul
modello delle Metamorfosi di Apuleio. Il protagonista, in attesa che la sorte gli torni favorevole,
avrebbe dovuto essere trasformato in asino e compiere sotto tali spoglie un viaggio per il mondo
e per i vizi umani. (forte critica alla contemporaneità).

LA FAVOLA (1518)
E’ una novella con protagonista Belfagor arcidiavolo, che si collega alla tradizione della letteratura
misogina, di satira contro le donne. Belfagor, inviato sulla terra per appurare se le donne siano
davvero causa di perdizione, dovrebbe restare sposato per 10 anni ma preferite tornare prima nel
regolato inferno. Il vero inferno è quello sulla terra.

LA SERENATA: Testo composto forse per altri nel quale, per convincere la donna a corrispondere
all’amore, Machiavelli propone due esempi di mitiche serenate.

LE ISTORIE FIORENTINE (1520-25)


Composte su incarico del cardinale Giuliano de’ Medici, divenuto poi papa Clemente VII, narrano
le vicende di Firenze fino al 1492 (morte di Lorenzo il Magnifico). Machiavelli è interessato al
contenuto politico degli avvenimenti e alle dimostrazione che Firenze deve essere riformata da un
uomo che costituisca un governo misto, nel quale ognuno abbia il proprio posto e ruolo.
L’orientamento filomediceo dell’opera si esprime anche nell’elogio del Magnifico, la cui morte
segna il risolvere della ambizioni dei principi italiani. Questa analisi verrà ripresa da Guicciardini.

CLIZIA (1525)
E’ una commedia molto vicina ai modelli classici, ispirata a Plauto. Vi si narra di un vecchio,
Nicomaco, che si invaghisce della giovane serva Clizia e per questo subisce le beffe e il sarcasmo
di moglie e familiari. La vicenda sembra riflettere, in chiave ironica e dolente, l’amore senile di
Machiavelli per la giovane cantante Barbara Salutati.

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FRANCESCO GUICCIARDINI (cap.6)

Per gli incarichi diplomatici e politici ricevuti, fu spettatore, attore e diretto protagonista delle
travagliate vicende storiche che sconvolsero la penisola Italiana nel primo trentennio del 1500.

Tale ampio complesso intreccio di avvenimenti si svela nella sua opera maggiore Storie d’Italia,
mentre le riflessioni circa le esperienze maturate nella sua attività pubblica le troviamo nei Ricordi.

CONCEZIONE STORICA: Egli rifiuta una lettura della storia basata sull’individuazione di regole
universali che si ripetono immutabili all’interno di scenari cronologici diversi: al contrario, egli
considera ogni evento storico unico e irripetibile e quindi è necessario vagliare la complessità del
reale. Ciò lo conduce alla convinzione che l’unico comportamento razionale per un individuo
chiamato ad agire nella storia sia quello della difesa dei propri interessi, del proprio “particulare”: i
grandi progetti finiscono infatti per rivelarci velleitari e illusori, perciò è necessario mantenere un
atteggiamento prudente che permetta di realizzare obiettivi limitati, alla portata del singolo.

Con la Storia d’Italia egli apre ufficialmente la strada alla storiografia saggistica moderna.

Nacque a Firenze nel 1483, da una famiglia ricca e prestigiosa, e il suo matrimonio con Maria
Salviati, figlia del capo partito degli ottimani, gli spianò la carriera politica. Infatti nel 1511 ottenne
l’incarico di ambasciatore di Firenze: egli affinò la propria capacità di aperto e acuto osservatore
dei fenomeni politici. Risale a questo periodo l’elaborazione del primo nucleo dei Ricordi.

Rientrato a Firenze, dove nel frattempo era stata rovesciata la repubblica, si impegnò come
funzionario della Signoria. Nel 1516, il papa lo nominò governatore di Modena, poi di Reggio.
La sua reputazione di governatore severo e imparziale gli procurò l’incarico di presidente delle
Romagne. Questo fu il periodo di maggior prestigio di Guicciardini, che divenne un personaggio di
spicco nel panorama politico italiano ed europeo. Con la restaurazione della Repubblica, dopo il
sacco di Roma del 1527, egli venne emarginato dall’attività politica, a causa del lungo servizio
prestato ai Medici. Dopo la caduta della repubblica, nel 1530, poté tornare nella sua città e
ottenere nuovi incarichi, ma preferì poi ritirarsi a vita privata. Trascorse così il suo tempo nella villa
di S.Margherita in Montici, dedicandosi alla composizione della Storia d’Italia. Morì nel 1540,
quando il lavoro era ormai giunto al termine, ma privo di titolo e non ancora revisionato.

LA STORIA D’ITALIA (1537-1540): opera storiografica di venti libri in cui tratta degli avvenimenti
intercorsi dal 1492 al 1534. Essa abbraccia dunque uno dei periodo più travagliati della storia
della penisola, dalla calata di Carlo VIII alla lunga guerra tra Francia e Spagna per il predominio in
Italia. L’opera riflette dunque il senso della recente catastrofe italiana, che potrà con sé una più
generale crisi del mondo e della cultura rinascimentale, ormai in declino.

Egli sceglie di trattare questi avvenimenti da un punto di vista analitico, connettendo gli eventi e
ricostruendone dinamiche e cause. E’ molto distante la sua storiografia da quella umanistica, tutta
proiettata sul bisogno di trovare nel passato esempi di comportamento per costruire una più
avanzata convivenza civile. Ogni epoca ha la sua irripetibile peculiarità e i fatti trascorsi non
possono offrire modelli per interpretare il presente. Per quanto riguarda lo stile, egli aderisce alla
lezione del classicismo: la sua opera è infatti rivisitata in chiave bembiana e si ispira alle regole
per scrivere storia esposte da Cicerone nel De oratore.

RICORDI: è un’opera moralistica, che rifletta sulla natura e sul comportamento degli uomini,
svincolandosi però dal genere del trattato, per assumere una struttura aperta e frammentaria.
L’opera è fatta di rapire notazioni, pensieri brevi e massime morali, tra loro slegate o tutt’al più
raccolte per temi in brevi raggruppamenti.

CONSIDERAZIONI SUI DISCORSI DI MACHIAVELLI SULLA PRIMA DECA DI TITO LIVIO


Qui emerge fondamentalmente la distanza tra la ricerca di un Principe che, secondo Machiavelli,
abbia regole teorico-politiche generali e la convinzione di Guicciardini dell’incomparabilità di realtà
storiche diverse e della necessità di valutare con discrezione ogni circostanza. (differenza tra i 2)

STORIE FIORENTINE: racconta la storia di Firenze dal 1378 al 1509.

DISCORSO DI LOGROGNO: teorizza una riforma istituzionale per Firenze sul modello della
repubblica aristocratica veneziana. Egli mostra tutta la sfocia nei confronti di schemi interpretativi
generali e precostituiti, nonché la volontà di un approccio analitico alla storia.

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IL TEATRO DEL CINQUECENTO (cap.7)

Nel primo Cinquecento prende forma in modo unitario la tradizione teatrale italiana alla luce di un
aperto confronto con i modelli classici, che costituiscono, in un rapporto variato tra traduzione,
imitazione ed emulazione, un terreno privilegiato per sperimentare e codificare nuovi generi in
lingua volgare e conformarli ai bisogni del moderno pubblico delle corti.

La commedia e la tragedia, accanto al cosiddetto genere misto della favola pastorale, non sono in
realtà delle novità assolute: esistono infatti molte linee di continuità con diverse esperienze
maturate nel corso degli ultimi trent’anni del Quattrocento, ma è solo nel pieno 1500 che si
registra una forte convergenza verso forme omogenee, tanto sul fronte della prassi, quanto su
quello della riflessione teorica, in nome di una nuova civiltà teatrale che, pur nelle differenze legate
alle specifiche tradizioni delle singole realtà politiche, finirà per costituire un esempio imitato e
ripreso nell’intera Europa.

In questa stagione si assiste a una progressiva definizione delle norme del testo teatrale, e a un
nuovo e più consapevole regolarizzarsi delle modalità di rappresentazione del testo stesso. Allo
spettacolo viene dedicato uno spazio autonomo, il teatro appunto, sulla scorta del trattato De
architectura di Vitruvio si precisano le tipologie della scenografia, e viene infine costituendosi un
insieme di veri e propri professionisti, quali attori, scenografi, artisti, specializzati nella
realizzazione di spettacoli.


Esistono molte forme di spettacolo in qualche modo riconducibili alla tradizione teatrale, dalle
cosiddette sacre rappresentazioni, drammatizzazioni di episodi della storia del Nuovo e
dell’Antico testamento, alle feste pubbliche, spesso legate all’allestimento di giostre di matrice
cavalleresca o a celebrazioni varie.

Accanto a queste esperienze regolari convivono anche modalità di spettacolo più estemporaneo
come quello garantito dai “canterini”, artisti di strada specializzati nella recita a voce di poemi
cavallereschi, o dalle farse, un genere drammaturgico basato sulla messa in scena di piccoli
quadri di vita matrimoniale, con evidenti doppi sensi osceni.


TEATRO POLITICO: Si osserva che tutte le espressioni spettacolari sono a diverso titolo legate al
potere politico, tanto che ben presto ne diverranno una diretta emanazione, una sorta di
strumento insieme di governo e di autorappresentazione.


TEATRO UMANISTICO: A costituire un antefatto rilevante del pieno affermarsi della tradizione
teatrale nel Cinquecento è poi il teatro umanistico quattrocentesco, un’esperienza di solito attiva a
margine del mondo delle scuole, intesa come pratica didattica per consolidare la conoscenza
della lingua latina e per apprendere i rudimenti della retorica (Terenzio e Plauto). Le commedie
vengono tradotte in lingua italiana allo scopo di renderle facilmente fruibili a un pubblico più
ampio. In questo panorama un ruolo per certi versi eccezionale lo gioca la città di Ferrara, alla cui
corte, per diretta volontà della famiglia degli Estensi, si mettono in scena un gran numero di
commedie latine tradotte.

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LA POESIA DEL CINQUECENTO (cap. 8)

La lirica è forse il genere letterario nel quale si viene affermando con maggiore decisione nei primi
anni del Cinquecento la promozione di un nuovo classicismo volgare, e conseguentemente,
della lingua più adatta ad esprimerlo.

La proposta teorica e pratica avanzata da Pietro Bembo, risulta decisiva, tanto da essere additata
immediatamente dai contemporanei come modello indiscusso di lingua e di stile. La soluzione
normativa del letterato veneziano offre infatti la possibilità di dare forma a una poesia sostanziata
dal mondo mentale, affettivo e stilistico di Petrarca, eletto a modello principe, ma capace insieme
di esprimere, attraverso un raffinato gioco di mediazioni, un io lirico autonomo e screziato.

La poesia rinascimentale si pone con forza sotto il segno di Petrarca, tanto che spesso viene
indicata con il termine più specifico di petrarchismo.

La spinta verso la fondazione di una lirica ispirata ai principi di un classicismo volgare è animata in
prima istanza dalla volontà di superare la cosiddetta poesia cortigiana di fine Quattrocento,
avvertita come superficiale e troppo pericolosamente ancorata alle occasioni sociali.

Vi è un radicale ripensamento del canone letterario. Per questa ragione dall’inizio del secolo e
sino ai primi anni Trenta prendono forma diversi progetti di poesia, tutti accomunati dal desiderio
di ridefinire le forme della lirica volgare alla luce di un confronto aperto con i modelli della
tradizione classica e moderna: le Rime di Trissino, quelle di Bembo e di Sannazaro, i libri degli
Amori di Bernardo Tasso.

Se tutti questi poeti riconoscono la centralità del modello di Petrarca, diverso è pero il rapporto
che ciascuno stabilisce con l’intera tradizione classica e volgare.

-Trissino

Nelle Rime di Trissino si registra un classicismo disponibile, anche dal punto di vista metrico, ad
integrare nella tradizione letteraria italiana forme della poesia antica.

-Alamanni

Secondo un indirizzo parzialmente convergente con quello trissiniano, il fiorentino Luigi Alamanni
propone nelle sue Opere toscane un compatto piano di rifondazione della tradizione lirica volgare,
ma all’interno di una più ampia disponibilità a riprendere modelli greci e latini.

-Bernardo Tasso

Un classicismo disponibile ad accostare al modello di Petrarca quello dei classici anima anche
l’esperienza di Bernardo Tasso (Libro primo de gli Amori, Libro secondo, Terzo libro).

-Pietro Bembo

Il criterio più elettivamente selettivo di Bembo dimostra una fedeltà quasi assoluta a Petrarca, che
ben presto si afferma, tra le diverse proposte, come il modello destinato a godere di maggiore
fortuna. Come conseguenza del deciso affermarsi della soluzione bembiana, la centralità di
Petrarca nel sistema culturale italiano viene ulteriormente rafforzata a partire dai primi decenni del
secolo, tanto che lo studio e l’imitazione della sua poesia diventano due pratiche culturali che si
intersecano tra loro in modo sempre più fitto.

Questa nuova forma della poesia volgare che si viene elaborando, saldamente ancorata a un
progetto di lingua di canone letterario, ben presto diventa anche una pratica sociale condivisa, in
nome di un utilizzo sempre più diffuso del linguaggio lirico come strumento d’espressione
disponibile anche per i poeti meno esperti, tanto che trovano spazio, ad esempio, molte voci
femminili o di artisti. Si assiste quindi alla nascita di una sorta di moda, tanto che si è voluto
definire questo fenomeno un primo esempio di letteratura di massa, che pero incide anche sui
modi dell’imitazione, talvolta ridotti a forme stereotipate. Proprio alla luce di questo fenomeno,
fiorisce negli anni il genere delle antologie liriche, raccolte di autori moderni.

-La lirica spirituale



La lirica di carattere spirituale acquista nel corso del secolo una posizione di crescente centralità
all’interno della galassia della poesia cinquecentesca. Un primo sintomo del desiderio di
omologare la poesia petrarchesca all’interno di una dimensione esclusivamente religiosa si
riscontra nel Petrarca Spirituale, opera del frate francescano Girolamo Malipiero. Si tratta di un
tentativo di convertire la poesia petrarchesca da amorosa a spirituale: non quindi una condanna di
quella voce lirica, ormai considerata parte essenziale della cultura rinascimentale, ma un richiamo
alla necessità di riscrivere integralmente quell’esperienza sotto il segno della pratica devozionale.
Tutti i testi petrarcheschi, suddivisi per genere metrico, vengono letteralmente riformulati, mirando
ad eliminare le tracce della passione amorosa, trasformata in occasione di preghiera per via lirica.

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Vittoria Colonna

Vittoria Colonna, nata nel 1490, è una delle poetesse più capaci di padroneggiare con maturità il
codice lirico. Sarà la sua appartenenza al cosiddetto circolo degli “spirituali”, a spingerla verso
una poesia esclusivamente spirituale, pensata come esercizio di una privata meditazione religiosa.

La poesia della Colonna recupera da Petrarca lessico e forme, ma li reimpiega per temi e
armoniche rivolte allo scavo interiore e alla meditazione sui grandi misteri teologici della
cristianità.

Michelangelo

Lo stesso Michelangelo è autore di un discreto numero di liriche di argomento religioso.
L’esercizio lirico diviene per Michelangelo un impegno duratro e continuo, nel segno di una poesia
che ambisce a farsi riflessione intima e sofferta. I suoi sono testi caratterizzati da un
espressionismo talvolta rude, a specchio di una poesia di pensiero che fatica a svolgere in modo
lineare le sue riflessioni e preferisce addensamenti e accumulazioni a forme più distese e
riflessive.

Conosce una grande fortuna, ad esempio, il fenomeno delle riscritture in volgare del libro biblico
dei Salmi, e nascono anche generi letterari specializzati, come le Lagrime, poemetti che
drammatizzano eposido dell’Antico e del Nuovo Tescamento o della vita dei santi.

Le voci femminili

Le poetesse negli anni centrali del Cinquecento fanno gruppo, rappresentano cioè non poche voci

isolate, ma un più esteso fenomeno in nome del quale per la prima volta nella storia letteraria
italiana si riscontra una presenza femminile di grande rilievo per la quantità di figure coinvolte. Alla
donna non è più riservato solo il ruolo di oggetto delle attenzioni poetiche altrui, ma diventa essa
stessa protagonista attiva.

La possibilità di fare poesia per le donne deriva dal convergere di più elementi:

§ La convinta promozione del volgare a lingua della cultura. Non è un caso che molte delle

traduzioni delle opere di autori classici in lingua italiana abbiano come destinatario ideale

proprio il pubblico femminile.



§ Le caratteristiche stesse della lingua lirica cinquecentesca, cosi come viene normata da

Bembo, consente una praticabilità della poesia a una più estesa platea di praticanti.

La migliore testimonianza di quella nuova realtà è data dall’antologia intitolata Rime di diverse
eccellentissime donne, stamapata a Lucca nel 1559: si tratta di un primo tentativo di offrire una
mappa delle poetesse attive dagli anni venti in poi.

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LA POESIA COMICA DEL CINQUECENTO (cap.9)

FRANCESCO BERNI
Nacque a Lamporecchio nel 1497 e visse dapprima a Firenze, dove iniziò la sua carriera letteraria
e poi si trasferì a Roma. Fu al servizio del vescovo Giberti e nel 1532, impiegato presso il cardinale
Ippolito de’ Medici a Firenze, fu implicato nello scontro tra questi e il duca di Firenze. Forse
proprio in seguito a questo coinvolgimento, morì avvelenato nel 1535.

Fatta eccezione per le poesie latine (Carmina…), tutte le altre opere testimoniano la presa di
distanza radicale e polemica dal classicismo. Nel Dialogo contra i poeti, Berni attacca la cultura
ufficiale creando irriverenti caricature dei suoi esponenti.

Egli teorizza un modo diverso di far poesia, disincantato e giocoso, i cui discendenti si possono
ritrovare in Cecco Angiolieri e Burchiello.

I temi della raccolta “Le Rime”, sonetti satirici, vanno dalla parodia del petrarchismo agli attacchi
polemici contro personaggi illustri, alla pungente critica alla vita di corte.

GIOVANNI DELLA CASA


Nacque a Firenze nel 1503 da una ricca famiglia, studiò i classici e iniziò la carriera ecclesiastica.
Fece rapida carriera e morì ne 1556.

Egli è una delle figure più note soprattutto per la trattatista (Galateo), destinata ad un’ampia
fortuna, ma anche per la produzione lirica (le Rime), contraddistinta da una scelta di stile solenne
e difficile. Egli è autore di una poesia burlesca, che verrà favorita ancora di più dall’Accademia
dei Vignai, nella quale entrerà, un gruppo di letterati che ha dato vita a una produzione burlesca di
terze rime, destinata a fare scuola.

A Della Casa, le stampe antiche assegnano 5 capitoli burleschi.

Si ricorda “il Capitolo sopra il forno”, incentrato sulla lode paradossale del forno, traslato erotico
per indicare l’organo sessuale femminile. E’ una lode al rapporto sessuale, che sotto il profilo
linguistico risente della tradizione toscana precedente.

Il Galateo è un trattatelo destinato a guadagnare una fama europea e il suo titolo risponde alla
latinizzazione del nome di battesimo di Galeazzo Florimonte, ecclesiastico da molti anni amico di
Della casa: una figura che viene dunque certa come interlocutore ideale del trattato, il quale
tuttavia viene indirizzata a un giovane destinatario, con l’obiettivo di indicare delle regole per
“essere costumato e piacevole e di bella maniera”. L’opera ha un’impronta pedagogica e mira
infatti a regolare il comportamento raffinato dei “gentiluomini nelle relazioni”. Risente della
raffinata riscrittura di alcuni classici latini ma soprattutto della prosa di Boccaccio, dal Decameron
al Corbaccio.Il trattato viene subito assumendo come modello e testo di civilizzazione, per
proporre l’insieme dei comportamenti e delle buone maniere da tenere in società.

TEOFILO FOLENGO
E’ tra le personalità più affascinanti e complesse del nostro 500. La sua produzione si offre come
una rielaborazione di varie componenti, che la rendono un unicum nel panorama italiano.

Nasce a Mantova nel 1491 ed è importante perchè concepisce la lingua macaronica, basata su
un impasto di latino, volgare e elementi dialettali padani, al fine di fare oggetto di derisione la
cultura latina dei dotti.

Con il Liber Macaronices (1517) viene avviata la nobilitazione letteraria della poesia macaronica,
principalmente attuata tramite il rovesciamento del modello epico-virgiliano e le modalità della
letteratura cavalleresca.

Il suo capolavoro è il Baldus, una parodia del poema epico cavalleresco, in cui, in 25 libri, si
narrano le scorribande di Baldo e dei suoi amici attraverso l’ambiente contadino padano, e le loro
avventure in un mondo dai contorno fiabeschi.

Tra le opere minore, ricordiamo anche l’Orlandino, un poema cavalleresco in volgare.

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LE FORME DELLA PROSA DEL CINQUECENTO (cap.10)


La novella e il dialogo sono i generi preferiti.

E’ Pietro Bembo a legittimare la novella con il suo processo di codificazione, attuato nelle Prose
della volgar lingua (1525). La novella diventa così forma di intrattenimento nella società cortigiana.

Accanto alla novella, si pone il dialogo, che rimonta alla cultura greca, nascendo con una
impostazione filosofica. Questo viene utilizzato per mettere in scena dei contrasti e dei confronti
intorno a un argomento, espressione di una società incline al dibattito.

PIETRO ARETINO
E’ uno degli autori più emblematici del 500, ma subisce una sorta di damnatio memoriae, per la
sua condotta politica, segnata da frequenti capovolgimenti e per questo oggetto di severe
critiche, e a causa di alcuni scritti etichettati come pornografici.

Antiaccademico e anticlassicista, egli ha avuto modo di tessere rapporti con i più importanti
artisti del suo tempo e di interagire con i ponti del suo secolo, diventandone anche uno
spregiudicato critico.

Fa molto scandalo con la Cortigiana, commedia dai toni pasquineschi che critica aspramente la
Curia, e sedici calcografie su disegni di natura erotica, ovvero sonetti che esibiscono un
linguaggio erotico molto spinto in accompagnamento a delle immagini.

La sua condotta non viene più tollerata dalla Curia, che prova ad eliminarlo, ma non ci riesce.

Egli è pero famoso principalmente per i “dialoghi puttaneschi”, ossia il Ragionamento e il


Dialogo, due dialoghi di impostazione pedagogica dalle forti tinte parodiche rispetto al genere: nel
primo la Nanna racconta alla ruffiana Antonia la sua vita da suora, poi di moglie e infine di
prostituta, mentre nel secondo la Nanna insegna alla figlia Pippa l’arte del meretricio,

Questi costituiscono la fondazione del genere del “dialogo puttanesco”, considerati esempi di
pornografia cinquecentesca: egli crea molto scandalo e preoccupazione perchè racconta ciò che
avviene con frequenza all’interno dei conventi veneziani, situazioni molto prossime alla realtà.

Si ricordano anche le Lettere che testimoniano il sistema di rapporti politici, diplomatici e


intellettuali allacciati nel tempo (es. Lettera a Michelangelo sulla descrizione del Giudizio
universale: ecfrasis dell’affresco, ovvero descrizione verbale di un’opera d’arte visiva).

MATTEO BANDELLO
Egli è famoso per i Quattro libri delle novelle, comprendenti 214 racconti, che non presentano
pero una vera e propria cornice alla maniera del Decameron. Al suo posto l’autore fa precedere
ogni novella da una lettera dedicatoria indirizzata a un personaggio illustre, dove descrive le
circostanze in cui è venuto a conoscenza della vicenda che si dispone a narrare.

Le lettere, oltre a rendere omaggio al dedicatario, sottolineano l’elevata posizione sociale


dell’autore e il carattere cronachistico del racconto.

L’ambientazione può essere varia, storica o contemporanea.

Il carattere realistico delle sue narrazioni dà vita a una prosa piana, di registro dimesso e dalle
tonalità disomogenee: l’autore si discosta intenzionalmente dal raffinato modello strutturale e
linguistico di Boccaccio, consapevole che l’efficacia della sua narrativa non dipende tanto dal
valore formale quando dall’interesse dei casi raccontati.

Il novelliere ebbe successo in tutta Europa, fornendo a Shakespeare il motivo ispiratore delle
commedie Molto rumore per nulla, la Dodicesima notte e la tragedia Romeo e Giulietta.

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LE SCRITTURE D’ARTE FRA QUATTROCENTO E CINQUECENTO (cap.11)

Da una visione umanistica, secondo la quale l’antichità costituiva il momento più alto e
insuperabile, si giunge a un rovesciamento, che vede nella contemporaneità (specialmente
Michelangelo) il culmine di un processo giunto alla perfezione.

Le arti iniziano ad essere concepite come alla stregua di scienze e come tali necessitano di una
preparazione rigorosa e di un linguaggio tecnico e puntuale, che le sostenga e le legittimi.

LEONARDO DA VINCI
Artista multiforme, contribuisce con i suoi scritti al dibattito sull’arte.

Egli si definisce “omo sanza lettere”, a digiuno cioè del latino e del greco che gli avrebbero
permesso di avere accesso diretto alla produzione tecnica più importante e alle fonti antiche della
matematica e della geometria.

Egli ritiene che si debba far dialogare la scienza con l’esperienza, perchè sono strettamente
legata.

Il suo trattato più noto è quello della superiorità della pittura: in polemica con la cultura letteraria
esaltata dagli umanisti, egli sostiene l’importanza e la piacevolezza della pittura rispetto alla
poesia, poichè è volta alla rappresentazione di verità universali.

GIORGIO VASARI
La sua figura è fondamentale per il genere della biografia poichè egli scrive le Vite de’ più
eccellenti pittori, scultori e architettori: l’opera migliora tuttavia il genere della biografia umanistica,
facendola dialogare in modo costruttivo con la critica d’arte e la trattatistica storica. Lo scopo
dell’opera consiste nel fissare la memoria dei migliori architetti, pittori e scultori, che costituiscono
modelli a fini educativi.

Le Vite tracciano un’iter che va da Giotto a Michelangelo, un iter di perfezionamento nel quale si
arriva e eguagliare la natura nella bellezza: Michelangelo rappresenta la sintesi perfetta fra le arti.

Grazie al Vasari, viene codificato il genere della biografia d’artista, imponendosi come un classico.

BENVENUTO SELLINI
Egli è fondamentale per il genere dell’autobiografia.

Partecipa al Sacco del 1527, dovuto, com’è noto, ai Lanzechenecchi e la sua narrativa enfatizza
gli eventi e soprattutto colloca se stesso al centro della narrazione, descrivendosi come figura
assolutamente straordinaria rispetto alle altre.

L’autobiografia consiste nella narrazione delle vicende biografiche, stesa dalla persona che le ha
vissute ed egli compone la Vita scritta per lui medesimo
Rispetto alle Vite di Vasari, egli si distingue per alcuni tratti: primo fra tutti, una singolare
commistione tra memoria, autopromozione e affermazione di sé, in maniera romanzesca e eroica.
Egli parla di se stesso, proponendosi come modello, anche con uno smaccato esibizionismo.

L’edizione della Vita vede la luce solo nel 1728 e l’opera di lì a breve inciderà sulla costruzione di
un’altra celebre autobiografia, quella di Vittorio Alfieri.

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