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CLASSICI ITALIANI

COLLEZIONE FONDATA DA

FERDINANDO NERI
DIRETTA DA

MARIO FUBINI
MANIFESTI ROMANTICI
E ALTRI SCRITTI
DELLA POLEMICA
CLASSICO-ROMANTICA
A CURA DI
CARLO CALCATERRA

NUOVA EDIZIONE AMPLIATA


A CURA DI

MARIO SCOTTI

UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE TORINESE


© De Agostini Libri S.p.A. — Novara 2013
UTET
www.utetlibri.it
www.deagostini.it

ISBN: 978-88-418-8935-0

Prima edizione eBook: Marzo 2013

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trasmessa in alcuna forma e con alcun mezzo, elettronico, meccanico o in fotocopia, in disco o in
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degli apparati critici, introduzione e traduzione del testo qui riprodotto.
PREMESSA ALLA NUOVA EDIZIONE

Nell’adempiere al compito affidatomi da Mario Tubini e dalla UTET di


preparare una nuova edizione de I manifesti romantici del 1816 e gli scritti
principali del «Conciliatore» sul Romanticismo, curati da Carlo Calcaterra
ed apparsi in questa collana di «Classici italiani» nel 1950, mi sono
proposto di allargare la scelta, eliminare qualche svista, aggiornare la nota
bibliografica, conservando però la fisionomia e il carattere del volume,
quale si presentò la prima volta ai lettori e quale continua ad essere,
importante documento di un certo modo di considerare il romanticismo
italiano e, per la ricchezza e varietà dell’informazione, base di successive
indagini e interpretazioni. Modificare il capitolo introduttivo, i preamboli ai
singoli testi, le note, sarebbe stato una mancanza di rispetto storico, oltre
che una contaminazione di prospettive e momenti culturali diversi. Meglio,
allora, rifare ex novo il lavoro. Dunque, il libro si ripresenta immutato nelle
sue linee fondamentali. Ma non è parso inopportuno arricchirlo di nuovi
testi che sono: Sulla maniera e la utilità delle traduzioni, di M.me De Staël;
il cap. XIII e la «Note D» del Grand Commentaire e le Osservazioni sul
Giaurro, di Ludovico di Breme; l ’Introduzione alla «Biblioteca Italiana», di
Pietro Borsieri; i Cenni critici sulla poesia romantica e l ’Appendice ai
«Cenni critici», di Carlo Giuseppe Londonio; infine le Postille di L. Di
Breme sull’Appendice ai «Cenni critici» del Londonio. Le introduzioni e le
note a queste parti aggiunte sono di carattere esegetico-erudito e non
storico-critico, onde evitare disparità inopportune con il lavoro del
Calcaterra. La presenza di alcuni dei nuovi testi ha ovviamente imposto di
modificare in parte il titolo del volume.
MARIO SCOTTI
INDICE DEL VOLUME

Premessa alla nuova edizione

Introduzione

Nota bibliografica

M.ME DE STAËL, Sulla maniera e la utilità delle traduzioni

LUDOVICO ARBORIO GATTINARA DI BREME, Intorno all’ingiustizia di alcuni


giudizi letterari italiani, Discorso
DIODATA SALUZZO, Le rovine, ode
Dal «Grand Commentaire»
Osservazioni su «Il Giaurro»

PIETRO BORSIERI, Avventure letterarie di un giorno o consigli di un


galantuomo a vari scrittori
Dialogo che serve di prefazione
I.Io
II.La compera di un buon libro o Censura della a «Biblioteca Italiana»
III.La visita o rivista di due articoli così detti «italiani» del signor T. C.
IV.Il Caffè ovvero disputa sull’Autenticità e originalità dei «Dialoghi degli Antichi letterati
nell’Eliso»
V.Il Passeggio, con quel che segue o cenni sulle a «Cronache di Pindo» e sull’Opera buffa
VI.L’incontro d’un poeta o idee sovra Lucano, sovra limitazione dei grandi scrittori stranieri,
e sul discorso di Lodovico di Breme
VII.Il Pranzo
VIII.Il Teatro
IX.Riflessioni un po’ serie

Introduzione alla Biblioteca Italiana

GIOVANNI BERCHET, Sul «Cacciatore feroce» e sulla «Eleonora» di


Goffredo Augusto Burger, Lettera semiseria di Griso stomo al suo
figliuolo

GIUSEPPE CARLO LONDONIO


Cenni critici sulla poesia romantica
Appendice ai «Cenni critici sulla poesia romantica»
Postille di Ludovico di Breme sull’Appendice ai «Cenni critici sulla poesia romantica» del
signor G. C. Londonio

DAL «CONCILIATORE»

GIAN DOMENICO ROMAGNOSI, Della poesia considerata rispetto alle


diverse età delle nazioni

ERMES VISCONTI, Idee elementari sulla poesia romantica


Art. I. Nozioni generali
Art. II.Definizione del classicismo, della poesia promiscua al genere romantico ed al genere
classico, e di quella che e estranea all’uno e all’altro
Art. III.Definizione della poesia romantica
Art. IV.Una composizione può essere in parte romantica, ed in parte classicistica
Art. V.Rettificazione di alcuni falsi supposti
Art. VI.Sul classicismo nella pittura e scultura, e nei balli pantomimici

Dialogo sulle unità drammatiche di luogo e di tempo

GIOVANNI BERCHET, Della Romanticomachia


«Narcisa». Romanzo in quattro canti di Carlo Tedaldi-Fores

DAGLI SCRITTI PROIBITI DEL «CONCILIATORE»

ADEODATO RESSI, Lettera di un italiano al «Conciliatore»


Dell’equilibrio
Indice dei nomi

Indice delle tavole


INTRODUZIONE
Il romanticismo è stato il movimento spirituale più profondo e più vasto
del secolo passato e ha proiettato raggi vivissimi sui primi decenni del
nostro secolo. Di spiriti romantici siamo ancora compenetrati; di molte
forme del romanticismo ancora viviamo e soffriamo; di molte sue idee
ancora ci facciamo una forza; altre consideriamo una debolezza e un
pervertimento.
È dunque giusto che gli storici, riguardando nel suo complesso il secolo
passato, tentino di chiarire che cosa sia stato il romanticismo nella vita
italiana, quali principii, quali tendenze, quali forme esso abbia avuto presso
di noi. Comprendere l’immediato passato significa in tal caso ripensare le
vie percorse, per meglio vedere in noi stessi, capire il nostro presente,
scorgere le vie nuove.
Come per altri vasti e multiformi movimenti ideali, quali l’Umanesimo, il
Secentismo, l’Illuminismo, anche per questo si sono date le interpretazioni
più contraddittorie. Già nel secolo XIX molti storici avevano cercato di
intendere le caratteristiche fondamentali del romanticismo, sollevandosi
sulle passioni e sui contrasti romantici, dei quali pur vivevano; ma si può
dire che la meditazione sintetica e serena dell’intricatissimo argomento sia
stata intrapresa soltanto nell’età nostra, quasi che soltanto alla distanza di
più che un secolo dalle origini, dopo che nella filosofia, nelle lettere, nelle
arti sono stati compiuti in tutte le direzioni e in tutti i modi i più audaci
esperimenti, sia possibile quel primo distacco storico, che permette di
vedere dall’alto e rimeditare nel suo complesso tutta la vita dell’Italia,
rinnovantesi nel dramma immenso delle azioni e reazioni ideali.
Esamineremo le più importanti interpretazioni, che, avanzate nel primo
trentennio di questo secolo, hanno preparato quell’atmosfera di
contemplazione superiore, la quale consente di giudicare con larghezza e
concretezza nuova.
Può essere detto che in Italia il primo avviamento a una interpretazione
unitaria del romanticismo sia stato dato da Guido Muoni, che nel 1906 con
le Note per una poetica storica del romanticismo tentò di ricondurre a una
condizione psichica fondamentale quel grande movimento dello spirito: al
sentimentalismo, derivante dal contrasto tra le aspirazioni e la realtà e
risolventesi nella maggior parte delle anime in quell’intimo dissidio, che fu
detto il male del secolo ed era attestato dall’«analisi elegiaca dell’io», dalla
«ricerca e dall’ingrandimento d’ogni miseria», dall’«intenerimento
sull’anima incompresa».
Ma, quasi nel medesimo tempo, altri studiosi, avvertendo la grande
diversità che vi è tra il così detto romanticismo italiano e quello tedesco,
negarono che si potesse parlare di un vero e proprio romanticismo italiano,
perché il movimento che siamo soliti dire «romanticismo nostro», a loro
giudizio non era stato che una trasformazione del classicismo. Per questi
studiosi, italiani e stranieri, il vero romantico venne a essere l’10, svincolato
da tutte le leggi, libero in ogni suo attimo e palpito, assillato dall’oscura
coscienza di un’inesausta insoddisfazione, specie di angelo dolorante e
caduto, creatura arcana di Dio, smarrita nello spazio e nel tempo, di sé
sempre assetata e di sé in cerca senza tregua, fatalmente destinata a non
trovarsi mai, Ahasvero di tutti i sentimenti, di tutti gli istinti e arbitrii, di
tutte le immaginazioni e fantasie.
Esisteva nella letteratura italiana questo Ahasvero che cammina per tutte
le terre dell’anima senza mai giungere a una meta? Non certo nel Manzoni,
imperniato dottrinalmente — si diceva — nel precetto pratico dell’utile, del
vero e dell’interessante; non nel Di Breme, nel Borsieri e nel Berchet, per i
quali il romanticismo finiva con l’essere un aspetto della vecchia disputa
intorno alla preminenza dei moderni sugli antichi; non, in complesso, nel
Conciliatore, che per il suo stesso nome era la negazione di ogni libertà e
autonomia dell’io. Dunque il romanticismo italiano non esisteva, perché
mancava delle condizioni spirituali che contrassegnano il vero
romanticismo e sono la totale liberazione dell’io da tutti i decaloghi divini e
umani, lo sprigionamento da ogni realtà quotidiana in nome di tutte le
libertà dello spirito, la Sehnsucht, che, perennemente inappagata di ciò che
esiste, tende infinitamente a qualche cosa che non esiste. Tutt’al più, per
trovare in Italia condizioni spirituali simili a quelle del vero romanticismo,
si sarebbe dovuto giungere alla scapigliatura di Rovani, Tarchetti, Praga,
Boito, Pinchetti, Camerana, alle larve dei crepuscolari dubitanti di esistere,
ad alcuni sperduti, senza più meta, della più recente letteratura.
Tentativi di spiegazione estremistica erano questi: e Benedetto Croce,
intendendone la limitazione, si adoperò di superarli, negando che entro
l’estetica propriamente detta possa esservi una forma romantica
contrapposta a quella classica, perché l’arte quando raggiunge la sua
pienezza, vale a dire quando la poesia trova la sua forma, è già per se stessa
classica: «il romantico è il momento passionale, pratico e materiale
dell’arte, e il classico quello teoretico e sintetico, in cui la materia si
converte in forma… Romantico e classico sono momenti dello spirito
umano, appartengono a ogni uomo, e sono non due forme d’arte, ma la
materia e la forma d’ogni arte, la materia che non esiste realmente nell’arte
in quanto arte se non come contenuto, e cioè come forma». In altre parole la
forma vera e propria dell’arte è una sola, quella classica; e quel momento
dello spirito, che noi diciamo romantico, non è in ogni poeta se non lo stato
potenziale, informe, incompiuto, che precede la forma.
La questione parve così risolta in sede teorica, o meglio disciolta
astrattamente col porre sullo stesso piano come poeti perfetti, cioè classici
nella loro forma, Omero e Tolstoi, Sofocle e Shakespeare, e come
romantici, cioè artisti incompiuti, i poeti non poeti, rimasti al momento
passionale, gli scrittori d’ogni tempo e luogo che non hanno raggiunto la
perfezione.
Sotto l’aspetto generale della filosofia dell’arte la questione è certamente
posta nei giusti termini e tal soluzione era già implicita nel primo nostro
romanticismo, giacché Ludovico di Breme, che amava l’analisi delle idee,
riguardando le polemiche che si erano svolte in quegli anni in Europa e
considerando l’uso non ancora ben definito della parola «romantico»,
diceva nel 1818: «…io non sono Romantico se non in quanto la Romantica
si trova legittimamente compresa nella vasta sfera di quel dominio ch’è di
tutta ragione della Poesia e delle Arti Creatrici: non già così ch’io riconosca
[una] non necessaria alternativa fra la Classica e la Romantica: ché l’una e
l’altra sono assurde denominazioni e mal costituirebbero per sé un genere e
un sistema».
Ma nel primo nostro romanticismo era anche implicito che la tanto
discussa parola non indicasse in generale LO stato d’animo artistico che
precede la forma, bensì UNO stato d’animo, che, in quell’ora storica, in vari
modi e con varie tendenze aveva una sua ragion d’essere e cercava sue
proprie forme. E questo è ancora il punto che dev’essere chiarito nelle
discussioni odierne.
Il problema storico del romanticismo, considerato come movimento
spirituale moderno e non già come il momento preclassico in Omero o
nell’Ariosto o in altri singoli poeti, rimane insoluto; e perciò, fra coloro
stessi, che pur dichiarano di non esser alieni dall’accogliere in linea teorica
quell’estensione della parola romantico ai momenti passionali di tutti i
tempi, si è venuta acuendo la domanda: «Nella genericità del fatto
preartistico si dissolve veramente ogni significato concreto della parola
“romanticismo”? Che cosa è allora quel particolar romanticismo o momento
passionale, che diede nuovi avviamenti e nuove forme allo spirito in tutti i
campi sul finir del Settecento e al principio dell’Ottocento? Può essere
veramente assunta la parola romantico a significare in tutte le età, in tutte le
letterature e per ogni artista ogni stato d’animo passionale e pratico non
ancora diventato poesia, ogni moto d’ispirazione che non abbia trovato la
sua forma, così che Omero possa essere detto classico allorché giunge
all’immagine “absoluta, expleta, perfecta”, romantico quando praticamente
dormicchia, vale a dire sembra non aver raggiunto la perfezione formale?
Nel tempo stesso che diciamo classico Orazio perché il momento passionale
dell’arte diviene in lui poesia, diremo dunque romantico quel produttor di
libri, illuso dalle Muse, le cui immagini si compongono come sogni di
febbricitante, velut aegri somnia?».
In realtà è necessario intendersi da capo sul valore dei termini. Allorché
Aulo Gellio, citato appropriatamente dal Croce, per determinare l’origine
della parola classico, fissava l’antitesi tra scriptor classicus e scriptor
proletarius, vale a dire tra scrittore abbiente e scrittore non abbiente, non
voleva affatto definire i due momenti dell’arte: quello passionale e pratico
della materia e quello della forma perfetta. Voleva soltanto dire che vi sono
scrittori spiritualmente ricchi e scrittori poveri; scrittori degni di stare nelle
classi superiori dello spirito, perché sono tra gli abbienti dell’ingegno, e
scrittori che non possono e non devono essere classificati, perché non hanno
intima sostanza, cioè non posseggono dentro di sé.
La contrapposizione tra scrittore classico e scrittore romantico non può
essere dunque quella tra scriptor assiduus, cioè ben assestato e abbiente, e
scriptor proletarius, che fa numero con i non possidenti; ma è un’altra del
tutto fuori della larga contrapposizione gelliana. Essa è una
contrapposizione moderna, tutta nostra, come attesta implicitamente
l’aggettivo romantico, che fu molto discusso tra gli stessi dottrinari del
romanticismo, ma non potè essere sostituito, perché non fu trovata altra
parola più adatta a significare nuovi modi dello spirito nel senso che le si
attribuiva.
Tutti i primi nostri assertori del romanticismo furono persuasi che le
parole Romantik, Romantisme, Romantica, Romanticismo, indicassero un
modo di sentire, immaginare e pensare, il quale, pur avendo profonde radici
nel passato e specialmente nel Medio Evo, era venuto prevalendo nei tempi
moderni e veniva manifestandosi con nuovi aspetti e nuovi accenti. Fin
Ermes Visconti (divulgatore superficiale di idee elementari sulla poesia
romantica, quando sia paragonato ad altri disquisitori contemporanei),
sollecitando i lettori a non far equivoci sul nuovo significato di quella
parola «romantico» e venendo a un esempio specifico, ebbe a dire nel
Conciliatore con l’arguzia di chi fa una distinzione ovvia, sulla quale non è
necessario spendere molte parole: «Non si confonda il romantico
recentemente ideato dai Tedeschi colla vecchia parola inglese romantik, la
quale corrisponde a romanzesco: sarebbe un confondere le tre Grazie colle
grazie che fanno i sovrani quando assolvono un reo».
Che significato ha dunque quell’aggettivo romantico, il quale reca nella
prima sua radice il nome di Roma, eppure per suffisso si allontana
dall’immagine classica, che questo per tradizione richiama?
La parola «romantico», nel senso proprio indicato dall’etimologia,
designa genericamente una nuova condizione ideale sviluppatasi dalla
romanicità, cioè da quella immensa temperie entro cui molti secoli prima si
erano formati i popoli moderni d’Europa, allorché gli elementi superstiti
della civiltà romana, il sentimento religioso cristiano, tutto rivolto
all’interiorità, e lo spirito giovine delle popolazioni barbariche,
sopraggiunte nella storia, così si erano fusi da destare nuovi sensi di vita.
Il significato più profondo della parola «romantico», diffusosi in Europa
sul finir del Settecento e al principio dell’Ottocento, fu riposto nello
sviluppo di quell’interiorità, che era il patrimonio più essenziale dell’uomo
nuovo, fosse egli o non fosse di origine romanza, fosse rimasto cattolico o
fosse uscito dal cattolicismo. Quella parola, più indeterminata che non
l’aggettivo «romanzo», ebbe la virtù di indicare duttilmente una condizione
d’anima, capace di infinito e di indeterminato nella nuova interiorità.
Mi spiego. Tra gli aggettivi formatisi per suffissi dall’etimo roman della
parola romanus (romantius, romancius, romansius, romanilis, romaniscus,
romansalis, ecc.) la parola romantico, foggiata sull’etimo romant, venne a
indicare qualche cosa di più consono al sentimento poetico moderno che
non l’aggettivo romanico, appropriato a indicar forme spirituali post-
romane, già riconosciute dalla storia; venne a denominare una nuova
intimità fantastica, cui non bastavano a designare l’aggettivo romanzesco,
appropriato al mondo immaginoso delle avventure, cavalleresche e non
cavalleresche, e l’aggettivo romantesco, il quale da un lato significava
poeticamente l’andar «a briglia sciolta» in un medio evo nibelungico-eroico
o «il raggirarsi nell’aria or qua or là a capriccio, scendendo poi a terra in
traccia di selve e di romitaggi e sospirando miracoli d’amore», dall’altro
accennava criticamente a ciò che di esagerato e di falso potesse essere nelle
fantasie romanzesche; venne a dire un infinito lirico dell’anima, che
caratterizzava in senso moderno la stessa «poesia ingenua e sentimentale»,
contrapposta genericamente dallo Schiller alla «poesia oggettiva o ellenica,
in cui predomina la realità». In particolar modo, dal principio
dell’Ottocento, la parola romantico, nelle designazioni sostanziali, venne a
significare complessivamente tutti i nuovi modi di sentire, da quelli
strettamente romanzi a quelli indipendenti e autonomi per libero sviluppo
dell’interiorità venne a significare affermazione di sé entro gli spiriti
religiosi, popolari, cavallereschi, patriottici della civiltà moderna e ad un
tempo libertà di seguire ogni nuovo impulso che da quegli spiriti potesse
destarsi in qualsiasi direzione; venne a significare in nome del sentimento e
della fantasia il riconoscimento di tutte le nuove possibilità liriche
dell’anima e dell’arte, che sono forma nuova in quanto sono nuovo
sentimento e nuova fantasia.
È pertanto logico domandare: Entro quella profonda trasformazione, la
quale si estese in Europa come uno sconfinato labirinto per tutti i domini
dello spirito e prese aspetti diversi non solo da popolo a popolo, ma da
singolo a singolo, possiamo noi parlare di una romanticità italiana, sia nel
senso di un potenziamento di tutte le più originali attitudini del nostro
ingegno romanzo, sia nel senso di una riconosciuta autarchia a tutte le
ispirazioni e a tutte le fantasie, che possano sorgere nelle anime singole?
Non esito a rispondere che nella storia spirituale del popolo italiano,
dall’estremo Settecento a oggi, vi è stata una vera e propria romanticità, la
quale ha preso atteggiamenti e modi nostri, per esigenze gnoseologiche, per
necessità etiche, per motivi estetici.

Quali condizioni gnoseologiche, consapevolmente e inconsapevolmente,


erano prevalse nel Seicento e nel Settecento? L’atmosfera spirituale, in cui i
nostri poeti avevano veduto e rappresentato in quei secoli la realtà, era stata
prevalentemente sensistica e razionalistica. L’Adone, per attestazione del
Marino stesso, era stato il poema della pentapoli dei sensi, cioè dell’empirìa
sensoria, trasfigurata nel caleidoscopio abbagliante di tutte le meraviglie;
l’Arcadia il tentativo di uscir dalla poetica barocca, ritornando a semplicità
e misura per mezzo del sentimento vigilato dalla ragione.
Quello stesso arguto giuoco di sentimento e ragionevolezza, che oggi lo
storico considera come la caratteristica delle canzoni passionate del
Settecento, derivava dall’atteggiamento fondamentale dell’Arcadia, che non
rinnegava i sensi ma li vigilava, che riconosceva la virtù nativa del
sentimento, ma voleva fosse disciplinata dalla ragione. Perciò, nel meriggio
d’Arcadia, a Parma, il poeta dell’Atene d’Italia, nel tempo stesso che
raffigurava procacemente le delizie perigliose dell’amore, esaltava l’austero
Condillac come il filosofo che nelle impressioni dei sensi e nella riflessione
aveva svelato definitivamente «l’origin vera del conoscer nostro» e aveva
quindi mostrato come meta della saggezza «l’oprar dell’uomo che ragion
guida» e ancora nel 1792 il Mascheroni, mentre cantava con purezza Lesbia
Cidonia «qual gemma che brilla in cerchi d’oro», indicava a sua volta come
fondamentale lo studio sensistico dell’origin vera del conoscer nostro e
inneggiava alla scienza come al trionfo dell’intelletto e della ragione.
Ora in Italia il preromanticismo settecentesco e il romanticismo
dell’Ottocento furono scoperta e riconquista delle terre ignote dell’anima, le
quali sfuggivano al sensismo e al razionalismo.
Questa riconquista incomincia istintivamente con l’Alfieri, che da poeta
riguarda i sensi come «vil servaggio», sebbene dottrinalmente non sappia
superare il sensismo, e disdegna che il sentimento sia oppresso, mortificato,
soffocato dalla ragione.
Prosegue col Foscolo, col Leopardi, col Manzoni, che in forma diversa,
dopo aver aderito, in un primo tempo, al sensismo e al razionalismo,
trascendono da poeti, come ben disse il Gioberti, quelle prigioni dell’anima.
Il senso e la ragione, che presumevan di tutto spiegare, in realtà
lasciavano insoluti tutti i problemi maggiori. Nella consapevolezza di quelle
insufficienze ideali, nella visione di quelle profondità inesplorate, il
romanticismo italiano trovò la sua ragion d’essere; e fu pertanto innanzi
tutto negazione del gretto sensismo in nome degli affetti e della poesia;
affermazione della libertà di credere, sperare, sognare, contro il
volterrianismo beffardo; coscienza dei limiti dell’intelligenza e della
ragione e riconoscimento delle possibilità infinite delle energie irrazionali
dell’anima.
Il romanticismo reca in sé il concetto istintivo della creazione continua e
imprevista, sfuggente a ogni legge. Dove la Ragione dice morie; il
romantico risponde vita; dove la filosofia dice corpo, egli risponde anima;
dove la scienza dice fissità, egli risponde mobilità; dove l’assolutismo dice
servitù, egli risponde libertà.
Gnoseologicamente il romanticismo era dunque una liberazione:
liricamente era poesia del liberato mondo. La frase è del Carducci. Quando
egli, nell’ode Presso l’urna di Percy Bysshe Shelley, dopo aver contemplato
dal monte dei secoli tutto il cimitero della storia e cercato rifugio all’anima
sgomenta nell’isola de le belle, nell’isola de gli eroi, nell’isola dei poeti,
saluta il cuor de’ cuori
poeta del liberato mondo,

con una frase stupenda, che ha un particolare significato per l’autore del
Prometeo liberato e può avere altri sensi non meno profondi quando sia
riferita ad altri scrittori, i quali nel secolo XIX cercarono un’intima
liberazione, segnava la via maestra per intendere i modi e le forme del
romanticismo.

Chiarita questa posizione gnoseologica, per cui il romanticismo è


contìnua liberazione di sé, non solo si comprende come esso possa avere
modi spirituali divergenti in contrasto con le più varie formazioni di vita,
ma anche si vede come possa dar origine alle più dissimili condizioni
etiche, sia sotto l’aspetto individuale, sia sotto l’aspetto sociale, politico,
civile.
Sul finir del Settecento e al principio dell’Ottocento il mutarsi delle
esigenze gnoseologiche doveva di necessità produrre un mutamento nel
modo di concepire e valutare la vita, dovunque si acuisse dolorosamente un
senso di contrasto tra l’io e la realtà e dovunque una reclusione delle anime
si mutasse in oppressione o impedimento di pensiero e azione.
Quali condizioni etiche erano prevalse per opera dei principali nostri
scrittori nella letteratura del Seicento e del Settecento?
Il marinismo non solo aveva precluso gli orizzonti ideali, ma aveva
estenuato le anime; l’Arcadia, pur tentando di ridar valore al sentimento
sopra il senso, si era stemperata in un edonismo idillico e non aveva
rinvigorito la vita. Contro questa estenuazione il romanticismo fu la riscossa
di ogni intima energia, avvaloramento delle forme d’anima obliterate o
rattratte: nuova vibrazione umana nell’amore e nel dolore; nuova coscienza
dell’io nella tristezza incolmabile dell’universo; nuovo sentimento del male
e del bene; libero varco a tutto ciò che di angelico o di demoniaco possa
avere lo spirito; giustificazione di tutti i dissidi interiori; nuova scoperta di
quanto l’uomo possa e valga per sé e per gli altri.
Sotto l’aspetto etico pertanto il romanticismo potè nel secolo passato
giungere per molti autori all’individualismo più esasperato, per altri a un
approfondimento e a un affinamento delle relazioni dell’individuo con gli
altri uomini.
Nel romanticismo era tutto l’uomo: e perciò poterono in esso coesistere
moralismo e immoralismo, egotismo e altruismo, sublimazione eroica della
volontà e rinuncia disperata alla vita, disfrenamento d’ogni istinto e
disciplina per il conseguimento di libertà superiori a quelle singole.
Poterono a buon diritto appropriarsi il nome di romantici gli excubitores
della risurrezione: Pellico, Di Breme, Santarosa, Borsieri, Berchet,
Manzoni, Gioberti, Mazzini, Mameli, Poerio, Prati, Giuseppe Verdi; e dirsi
a loro volta romantici i trovieri della desolazione e della morte: Emilio
Praga, Iginio Ugo Tarchetti, Arrigo Boito, Giovanni Camerana, Arturo
Graf, Guido Gozzano, Italo Svevo, Luigi Pirandello.
Tolti all’anima tutti i confini, fu fatalmente romantico che apparissero in
cerca di un’ultima Tuie irraggiungibile i migranti del sogno, i pallidi
errabondi, i bei melanconici, gli scapigliati, i reietti da sé e dagli altri, i
cadaveri viventi, gli «alberi sradicati e maledetti», i poeti suicidi, che oggi
alcuni storici, per la tendenza a considerar essenziali e risolutivi gli esempi
estremi di ogni movimento spirituale, sogliono dire «i veri romantici», «i
soli romantici», «gli unici romantici».
Ma queste, per testimonianza degli scapigliati stessi, non furono che
alcune forme di romanticismo, non tutto il romanticismo. Il più grande
nostro romanticismo, per la sua stessa inquietudine del finito e la sete
inesausta dell’infinito, per l’insofferenza della materia cieca e l’anelito
religioso alle forme più pure dello spirito, per l’angoscia dell’asservimento
e l’aspettazione arcana di nuove giustizie, per l’orrore del vuoto e del nulla
e la consapevolezza radiosa di essere una nuova idea di Patria, Nazione,
Umanità, fu profondamente costruttore. Anzi per le condizioni tragiche,
nelle quali trovavasi allora l’Italia, fu ragione vitale del primo nostro
romanticismo il raggiungere nella nuova Europa alcune delle forme etiche
più generose e più alte.
Senza di esse non si spiegherebbe il risorgimento italiano, che per più di
un cinquantennio, nei momenti più ardui, per la lotta impari contro i nemici
interni ed esterni, parve un anelito disperato verso l’irrazionale e l’illogico.
Allorché sul finire del Settecento il Piemonte, sentinella avanzata delle
Alpi, sotto la raffica francese, aveva invocato l’unione degli Stati italiani
per la comune difesa contro l’invasore, le speranze di coloro che pur
avevano intraveduto le possibilità di un «imminente risorgimento», erano
fallite per i piccoli calcoli dei computisti, che dicevano «Non mi conviene»,
per i pavidi ragionamenti degli interessati, che obiettavano «Non tocca a
me», per l’egoismo geloso dei singoli staterelli, che temevan di essere
sommersi nelle fortune altrui; ma sopra tutto erano fallite per una general
mancanza di poesia, di fede, di ardore. Le anime circospette, i soppesatori
del pro e del contro, i ragionieri del «Si può» e «Non si può», avevano
allora scosso la testa come dinanzi all’ineluttabile. Nell’angoscia della
disunione e del disamore molti disperarono allora che l’Italia potesse più
risorgere.
Il romanticismo fu l’annunziatore che si scoprivan le tombe e si levavano
i morti; fu la poesia arcana che sorresse gl’incatenati dello Spielberg e diede
fortezza nel morire ai martiri di Belfiore; fu il gran volo di spiriti, che,
scortando l’alma di Carlo Alberto, levò nei cieli l’invocazione:
Rendi la patria, Dio; rendi l’Italia
a gl’italiani.

Il romanticismo fece razionale l’irrazionale; logico l’illogico; possibile


l’impossibile. Tutte le scorie bruciarono in quel fuoco; i computi stessi di
coloro che, avendo responsabilità di comando, dovettero commisurar le
forze all’impresa, presero un’altra luce: così alta fu la potenza del
sentimento, così pura la poesia del sacrificio e della dedizione, così
profonda la fede nell’immancabile risurrezione, che giustamente è stato
detto che senza romanticismo non sarebbe stato possibile il risorgimento.

Qui appare il terzo aspetto del nostro argomento: quello estetico. Il


tramutarsi delle condizioni gnoseologiche e delle aspirazioni etiche portò
seco un profondo cambiamento nelle esigenze estetiche.
Come abbiamo detto, il Barocco era stato la forma audace di un
illusionismo immaginifico e verbale, che con la meraviglia speciosa aveva
tentato di trasfigurar l’empirìa sensoria; l’Arcadia si era tolta al manierismo
del mirabile col manierismo del bucolico e dell’accademico, ridando cioè
valore al sentimento idillico sopra le parvenze ingegnose e applicando
praticamente e filosoficamente, in nome della misura e della convenienza,
la teoria del bello ideale o bello assoluto, la quale, già preparata dal
Rinascimento, riaffermata dagli stilisti e manieristi del Seicento, era per
eccellenza la dottrina dell’arte classicheggiante, vale a dire d’imitazione.
A questa dottrina estetica, assolutistica e unilaterale, reagì il
romanticismo italiano.
Su quale principio era fondata la dottrina del bello assoluto nel
Settecento? Lo indicheremo con le parole di uno dei filosofi di quell’età:
«Come nel sistema universale del vero vi è un solo vero, così nel sistema
universale del bello vi è un solo bello, e questo non può essere che il più
semplice, il più schietto, il più puro», vale a dire il bello del Partenone e
quello del Pantheon, la poesia d’Omero e quella di Virgilio, l’arte di Grecia
e quella di Roma, l’arte di Raffaello e quella del Palladio.
Per questa dottrina nel nostro Settecento, teoricamente, erano state
condannate come forme espressive inferiori tutte le arti barbare: quella
indiana e la cinese, l’egiziana e la gotica, la moresca e la fiamminga.
«Gotico» era stato nel Settecento, per i dottrinari del bello ideale, sinonimo
di barbaro, di brutto. In nome di questa teoria il Bettinelli, che non era
affatto uno stravagante o un improvvisatore, ma il consequenziario ardito di
una dottrina estetica, aveva fatto proclamare da Virgilio stesso nelle famose
lettere agli Arcadi che la Commedia di Dante era un’opera informe,
abnorme, mostruosa, perché non rispondeva al bello greco e latino, e aveva
giudicato senz’altro Guglielmo Shakespeare «il poeta barbaro dell’orrido,
del tetro, del macabro» Francesco Milizia, consequenziario ancora più
implacato del Bettinelli, era giunto a dire il Mosè di Michelangelo un
mastino orribile, vestito come un fornaro; il Galeani Napione, senza
tremare, aveva riguardato il Duomo di Milano come un monumento di
tritumi, lamentando che alle maestose forme degli ordini antichi nei secoli
XIII e XIV, si fosse sostituita nell’architettura la minutaglia degli ornamenti
gotici; l’Algarotti non aveva accolto nella sua galleria un solo esemplare
della nostra arte anteriore al Quattrocento; il Conte Emanuele Bava di San
Paolo aveva considerato i fiamminghi come pittori di ghiribizzi, di
bambocciate, di scene da taverna, di grotteschi spettacoli di piazza, di
omiciattoli deformi, laceri e cenciosi. Il Goethe stesso, che per genio tutti
superava i piccoli dottrinari e doveva poi nelle sue opere accogliere tutte le
voci del mondo, allorché nel 1786 era venuto in Italia, e, con la mente tutta
presa dal Palladio, era passato per Assisi, aveva sentito repulsione per la
basilica dai babilonici contrafforti, non aveva degnato di uno sguardo
Cimabue e Giotto ed era salito ad estasiarsi al tempio di Minerva.
Nessuna estetica raggiunse mai in Italia una certezza dottrinaria così
assoluta come quella che animò in quel tempo G. B. ed Ennio Quirino
Visconti, Stefano Borgia, Lodovico Bianconi, l’Amaduzzi, il Winckelmann,
il Mengs, il Sulzer, Carlo Fea, l’Arteaga, Tommaso Valperga di Caluso,
Benedetto Stay, Giovan Gherardo de Rossi, il Franchi di Pont, il Conte di
San Paolo, Ignazio de Giovanni, il Ponziglione, il Magnocavallo, Raimondo
Cunich, il Webb, il D’Azara e in genere i più rigorosi trattatisti del bello e
dell’arte. Non solo tutta una letteratura critica fu costruita su quei principii
creduti fermi e incrollabili, ma molti artisti e poeti, praticamente, non
videro salvezza fuor di quella dottrina. Il Rolli nei forbiti suoi Endecasillabi
annunziava:
Le arti al gran termine van d’uno stile.

Lodovico Savioli vedeva l’ultima prova dell’arte nel poter dare alla
parola la trasparenza alabastrina delle immagini di Ovidio e Properzio. Il
D’Agincourt, uomo dottissimo e finissimo, che, come il Winckelmann e il
Mengs, aveva fatto di Roma la capitale del bello ideale e consumò decenni
nello scrivere la Storia dell’arte dalla decadenza del IV secolo al suo
rinascere nel secolo XVI, soleva dire che egli era lo storico del brutto,
perché, ad ammaestramento universale, ricercava come le arti figurative
dalla barbarie del Medioevo fossero risalite agli splendori del
Rinascimento.
Alle sentenze apodittiche di questa dottrina i romantici italiani opposero
il desiderio di intendere le forme più diverse dello spirito, da tempo a
tempo, da luogo a luogo, da anima ad anima.
Non solo vi era stata Atene, ma vi erano Firenze, Venezia, Palermo,
Milano, Parigi, Londra, Madrid ed altre città, cioè tanti centri di cultura
quanti i centri di vita.
Non solo vi era la Roma antica, ma la Roma del Medioevo; non solo la
Roma del Rinascimento, ma una Roma perenne, sempre la medesima e
sempre diversa, nella quale gl’Italiani, a dire del Denina, avrebbero potuto
ritrovare il centro spirituale di un nuovo risorgimento.
L’opposizione intima alle restrizioni, che vietavano di riconoscere come
arte le figurazioni che fossero fuori delle regole segnate dagli antichi,
incominciò nel Settecento stesso, per opera di coloro che, pur ammirando
come insuperata l’arte greca e latina, istintivamente non potevano non
gustare l’arte gotica, l’arte moresca, l’arte fiamminga, né volevano
precludersi di capire il Duomo di Milano pel Partenone, Dante per Virgilio,
Shakespeare per Sofocle, Ossian per Stazio, Michelangelo per Fidia e
Prassitele, Teniers per Raffaello. Questa comprensione, a giudizio dei
novatori, era un allargamento di orizzonti. Per essa da Roma, da Firenze, da
Bologna, da Milano, da Torino, da Napoli l’Italia rifaceva suo
spiritualmente il mondo, e in questo riponeva se stessa come spirito
perennemente vivo.
Così avvenne che tutte le forme d’arte e i poeti di tutte le letterature
ebbero diritto di cittadinanza nella nostra estetica; il Medioevo, che era
stato riguardato come la selva della nuova barbarie, apparve la fucina
spirituale della nuova civiltà e la fonte profonda delle nuove arti e della
nuova poesia; la Divina Commedia, che era stata paragonata per dispregio a
un tempio gotico, fu considerata il capolavoro dell’Italia risorgente dopo il
Mille; il precetto di Michelangelo che «chi siegue altri, non va mai avanti»,
ripudiato dal Milizia come un’eresia, fu inalberato come principio vitale che
veniva dalla nostra stessa storia; Shakespeare, il barbaro enorme, divenne
uno dei classici del romanticismo. Molti di coloro stessi che
dottrinariamente, per educazione stilistica, sul finir del Settecento e sul
principio dell’Otto cento, dichiaravano di non poter rinunciare alle regole
classicheggianti, non appena udivan nell’aria la nuova musica italiana,
piangevano e deliravano, come se uno spirito nuovo li rivelasse a se stessi.
La trasformazione in molte anime si svolgeva quasi inconsapevolmente:
ed era trasformazione tutta italiana, profondamente italiana, simile a quella
per cui già nel Settecento il classico Piranesi aveva rappresentato Roma
nelle sue acqueforti con un nuovo senso che al Bianconi pareva una «bella
infedeltà» ed era per contro la luce di una nuova visione interiore, un nuovo
modo di vedere l’antichità stessa.
Ma i più rigidi assertori del bello assoluto non intesero quella
trasformazione come un mutamento interiore, che in ultima analisi veniva
dalle profondità stesse dello spirito italiano. Come gente privilegiata che
aveva il monopolio del bello, videro nella trasformazione del gusto un
pervertimento, nell’ampliamento d’orizzonte una minaccia
d’imbarbarimento e sollevarono le più alte strida contro l’allargamento dei
confini dell’estetica col fremito di chi assiste a una profanazione. Esempio
tipico fu il Bettinelli, che, avendo intuito come per il venir meno della
dottrina del bello ideale, non solo sarebbe stata sovvertita l’arte, ma tutto un
modo di vedere, ideare, concepire, fin dal 1796, nei Dialoghi d’Amore,
quasi scolta avanzata, lanciò l’allarme contro il sopraggiungere del nemico:
«Salvate la vostra età, o italiani, dal precipizio imminente… Corri, o Nume
del Parnasso italiano, e salva l’Italia, che già sente il redivivo Seicento,
diviene inglese e tedesca…».
Se non che l’avanzamento, che al Bettinelli pareva minaccia di rovina,
per contro al Denina, al Di Breme, al Pellico, al Borsieri, al Berchet e a tutti
i novatori, fattisi ben presto legione, parve l’annunzio di una vita più nostra
e più libera. Essi sentirono che romanticismo non significava per gli italiani
andar contro Roma, non era negazione della latinità, ma anzi un
potenziamento dell’italianità, sempre aperta per virtù native a tutte le forme
di vita; perciò non accettarono l’identificazione di romanticismo e
imbarbarimento, e, levando l’annunzio inatteso: «Il mondo è ancor
giovine», vollero innanzi tutto dire: «Lo spirito nostro non conosce
vecchiezza».
Entro quest’atmosfera di libertà interiore, che diviene a se stessa impulso
creativo, dev’essere pertanto intesa la formulazione del pensiero teoretico
centrale nei tre manifesti romantici, raccolti in questo volume, i quali sono
diversi nello stile e per molti aspetti particolari sono variamente vincolati
alle discussioni speculative del Settecento, ma collimano nel voler
ricondurre l’arte e la letteratura alle sorgive della vita.
A quali intuizioni immediate condusse allora in letteratura il risalire alle
fonti della vita?
Dagl’intelletti più sottili e avveduti fu già allora nettamente definita una
volta per sempre la distinzione tra classico e classicheggiante, classico e
classicista, classico e classicomane (la parola è del Di Breme); cioè, tra
scrittore grande, originale, sostanzioso per se stesso, e scrittore derivato,
imitatore, pedantesco, che non vive di vita propria, ma a spese del classico;
fu allora fermata nella storia la contrapposizione tra lo scrittore romantico,
che sente tutte le esigenze dell’anima moderna, e lo scrittore
classicheggiante, scolastico e accademico, il quale non è affatto il classico,
ma il parassita del classico.
Il Di Breme, il Borsieri, il Pellico, il Berchet, il Manzoni, il giovine
Gioberti, il Rosmini, dichiararono a ragion veduta, non per convenienza o
compromesso, che ogni scrittore classico, greco o latino, vivendo per se
stesso, cioè per intima ricchezza, sarebbe stato assiduus, cioè ben radicato
nei domini dell’anima; riconobbero consapevolmente che negli scrittori
greci e latini anche la mitologia e le regole aristoteliche avevano un’intima
giustificazione, perché quei miti erano parte viva della loro vita ideale,
quelle regole erano norme interiori di una poetica in atto, cioè veri e propri
modi di concepire e creare. Ma non ammisero che quella mitologia, quelle
regole, quel modo di sentire, ideare e raffigurare potessero essere riprodotti
ab externo, cioè per imitazione, per mimetismo formale, per tradizione
accademica; come finirono col negare ogni mitologia nuova, creata in
contrapposizione a quella antica, a partire dagli aerei Silfi e dai terrestri
Gnomi, diffusi nella letteratura del Settecento, specialmente dal Riccio
rapito del Pope, a venire ai lèmuri e alle streghe dell’«audace scuola
boreal», che riempiva di raccapriccio il Monti. Era un’ingenuità il dire: «Io
ho bisogno di una mitologia per comporre». Il poeta per se stesso non ha
bisogno di puntelli e appoggi, ma trae dall’intimo con libera fantasia tutto il
suo mondo, sia che, come il Foscolo e il Leopardi, sulle soglie dell’infinito,
con un ardor che consuma, dica gli inni e i pianti delle «nate a vaneggiar
menti mortali», sia che, come Alessandro Manzoni, illumini di Dio ogni
dolore e ogni ascensione.
Questa fu in arte la posizione centrale del romanticismo italiano. Da essa,
non per dettami stranieri, ma direttamente, venne l’antitesi inalienabile che i
primi nostri romantici videro tra il mondo spirituale dei classici antichi,
quale era riprodotto ab extra dai classicheggianti, e il mondo spirituale dei
moderni, che vuole e ricerca per sé la sua forma originale; da essa la
contrapposizione, spesso feroce, a tutto ciò che si scriveva non più per
intima fede, ma per convenzione scolastica e vuoto accademismo, e
l’affermazione risoluta che per l’artista conta soltanto il genio. L’unica
conciliazione possibile era questa: Essere se stessi. Per questa via anche i
romantici non sarebbero stati inferiori ai classici antichi, purché avessero
saputo dare forma nuova a sostanza nuova.
Quali erano i classici moderni? È detto esplicitamente dal Di Breme, nel
Discorso intorno all’ingiustizia di alcuni giudizi letterari italiani, dove
congiunge poeti di tutti i tempi per genio originale e diverso: «La natura
mette in una stessa classe Omero, Dante, Shakespeare, Sofocle, Alfieri,
Schiller, Anacreonte, Petrarca, Virgilio, Tibullo, Racine, Voltaire, Terenzio,
Goethe, Lessing, Tasso, Milton, Ariosto, Parini, Parny… e sì fatti».
E sì fatti: cioè, tutti gli scrittori originali per intima potenza fantastica:
quali furono — possiamo aggiungere, riguardando la letteratura italiana
della prima metà dell’Ottocento, — Foscolo, Manzoni, Leopardi, cioè gli
scrittori «più abbienti» dell’età nuova. Per ciascuno di essi si può oggi
ripetere la frase che il Di Breme adoperava nel 1817 pel Manzoni e che il
giovine Gioberti ripeteva ricercando le fonti della nuova poesia: «La sua
poetica è nell’anima».
Giunto a questo punto, il lettore avrà già compreso di per sé quanto sia
errata l’asserzione, accolta in molte storie letterarie, che il romanticismo
italiano abbia avuto inizio con la Lettera semiseria di Grisostomo. Non
solo, a dir il vero, questa, considerata singolarmente, viene terza dopo il
Discorso del Di Breme intorno all’ingiustizia di alcuni giudizi letterari
italiani e dopo le Avventure letterarie di un giorno del Borsieri, ma in
complesso i tre manifesti romantici del 1816 furono ad un tempo il punto
d’arrivo di un profondo rivolgimento italiano, che aveva già avuto principio
nel Settecento, e il punto di partenza per altre battaglie ideali. In altre parole
il romanticismo italiano era già in atto prima che i proclami del Di Breme,
del Borsieri e del Berchet ne tentassero la sistemazione dottrinaria.
Teoreticamente esso era già implicito nella Scienza nuova di G. B. Vico,
che aveva affermato la piena libertà del sentimento e della fantasia di contro
alla ragione; era annunziato da tutte le pagine dei nostri scrittori, che in
pieno illuminismo affermavano essere «l’immaginazione la vera facoltà
creatrice, sia che inventi, da sé affatto, le parti di un tutto [da essa trovato],
sia che, adoperando cose che già esistono o disperse o informi, ne formi un
tutto nuovo» (Denina); era alle porte con l’incitamento di Tommaso
Valperga di Caluso, maestro della nuova generazione piemontese, che,
sebbene cresciuto tra il razionalismo cartesiano e l’empirismo baconiano,
nell’osservare i disdegni e gli entusiasmi dei giovani, pronti a sovvertire i
vecchi ordini mentali e desiderosi di aprire vie nuove, esclamava: «Non
pongo limiti al valore altrui».
Liricamente, cioè come ispirazione interiore, era in atto nelle tragedie
dell’Alfieri, che, multanime, dal Filippo alla Mirra e al Saul, anelava alla
liberazione dell’io; nei canti del «Solitario delle Alpi», che, insonne come
una scolta del sentimento, vedeva accavallarsi sul mondo pericolante
nuvole tempestose, foriere di angoscia e desolazione; nell’invocazione
ardente di Diodata Saluzzo, che è del 1793:
Dolci compagni dell’ore più liete,
prole dei forti, fratelli, sorgete.

Ma sopra tutto già viveva all’ombra dei cipressi e dentro l’urne


confortate di pianto; s’insinuava nei primi studi del giovinetto Leopardi, che
pur si struggeva sui classici; s’alzava come una preghiera dai primi inni
sacri del Manzoni; fremeva nella Francesca da Rimini del Pellico. Allorché
l’astro di Napoleone scendeva nell’Oceano, già «guidavaci una voce che
cantava di là», già svelavasi nella poesia il volto dell’Italia nuova.
Balenava quel volto come una speranza nella strofe che il Santarosa, con
la mente al suo poeta, ripeteva, offrendosi al dolore:

O Vate nostro, in pravi


secoli nato, eppur creato hai queste
sublimi età che profetando andavi;

splendeva quella poesia come una promessa, che va oltre la morte,


nell’invocazione del Foscolo:
E tu onore di pianti, Ettore, avrai …;

annunciavasi l’Italia nuova come una certezza nelle parole semplici, con cui
Ludovico di Breme rispondeva a uno straniero irridente: «Amo la patria;
l’amo quanto la vita». Non sarebbero passati che pochi anni e il
romanticismo si sarebbe irradiato d’eterno nella voce rigeneratrice dell’inno
La Pentecoste:
Nova franchigia annunziano
i cieli, e genti nove;

avrebbe toccato l’apice della sofferenza umana nella desolazione del


Leopardi, a cui dall’inconoscibile pareva giungere il grido: «A te la speme
nego… anche la speme».
In questa antitesi stavano i due poli della nuova vita interiore: ed era
nell’arcana dialettica dell’anima nostra che l’Italia, ricercandosi nel dolore,
vedesse l’uno e l’altro.
Nella letteratura nostra del secolo passato rifluì tutta la vita, con la
vicenda passionale di tutti i sentimenti, dalla speranza alla disperazione,
dalla fede alla negazione, dall’entusiasmo alla sfiducia, perché una nazione
non risorge se nelle prove supreme non rifà in sé tutto l’uomo.
Nelle prime pagine dello Zibaldone il Leopardi giudicava «l’eroismo e il
sagrifizio di se stesso e la gloriosa morte», di cui aveva parlato il Di Breme
nello «Spettatore», illusioni spente «in tempi di ragione e di filosofia» e
soggiungeva: «come son questi, ch’essendo tali, sono anche quello ch’io
dico, cioè privi affatto di eroismo». A molte idee del Di Breme e dei
dottrinari romantici il Leopardi amò contrapporsi e noi non possiamo non
essere con lui, allorché, esaminando le Osservazioni dibremiane sul
Giaurro del Byron, tradotto da Pellegrino Rossi, contestava che i poeti
moderni nel patetico o sentimentale siano superiori agli antichi e
specialmente ai Greci e ai Latini. Giustamente il Leopardi, dopo aver
dimostrato che la poesia non sta soltanto nel patetico, osservava che nulla è
peggiore del sentimentalismo, cioè dell’affettazione, in cui
«facilissimamente» la poesia sentimentale incorre, ottenendo l’effetto di
spegnere «invece di destare quei sentimenti che vorrebbe», e conchiudeva
che nell’esprimere i moti del cuore «il sommo dell’arte è la naturalezza», in
cui i poeti antichi raggiunsero forme tanto mirabili quanto semplici. Ma nel
pensare che i tempi moderni potessero essere ancora capaci di fortezza, di
gloriosa morte, di eroismo, di «generose anime», di «annegazione della
volontà», di inalzamento sopra i bassi appetiti materialistici, di accensione
poetica, il Di Breme e i primi romantici videro più a fondo, perché
istintivamente ebbero più fiducia nella natura dell’uomo sempre risorgente,
quantunque l’eccessivo razionalismo, «la nuda e secca ragione», maledetta
dal Leopardi, possa immiserire la vita. Per questa inestinta capacità di
ascensione poetica, la poesia stessa del Leopardi, che dalle canzoni
generose alla patria si levò pochi anni dopo con lirica originalissima alla
contemplazione di tutto il dolore, fu sentita dal popolo italiano non solo
come mirabile opera d’arte per la bellezza formale, ma anche come un
momento sublime del nostro patire umano, della nostra catarsi e della nostra
risurrezione. Quella poesia era più soave e bella che il fiore stesso del
deserto tra i sassi e le lave dello sterminator Vesevo. Il permanere della
poesia sulla ricerca disperata di una ragione di vita era la prova, venuta dal
cuore stesso del Leopardi, che l’animo non può posare nelle negazioni
inesorate della «ragione distruttrice» e che il sentimento e «il caro
immaginar» hanno fino all’ultimo la potenza di avvivar la morte e il
deserto, di superare, cioè, fin anche l’acerbo vero, in cui possono affisarsi le
sconsolate investigazioni dell’intelletto.
Ben mille volte
fortunato colui che la caduca
virtù del caro immaginar non perde
per volger d’anni; a cui serbare eterna
la gioventù del cor diedero i fati;
che nella ferma e nella stanca etade,
così come solea nell’età verde,
in suo chiuso pensier natura abbella,
morte, deserto avviva…

Così aveva augurato il Leopardi al Pepoli; così poteva ripetere a se stesso


in Italia chiunque serbasse desiderio di nuova primavera e amor di poesia.
Un popolo, non meno che l’uomo singolo, non deve lasciar cadere la vita,
nemmeno nelle ore più tragiche o in quelle più desolate. Perciò in definitiva
il risorgimento fu una vittoria della vita sulla morte, della fede sulla
negazione, della speranza sulla disperazione, della volontà sulla rinunzia,
dell’eroismo sulle illusioni spente, come, sia pure tra angosciosi contrasti e
intemperanze passionali, dopo il crollo dell’impero napoleonico, avevano
intraveduto i primi suscitatori della buona battaglia italiana.
Senza un’accensione del sentimento e della fantasia non sarebbe stato
possibile elevare gli animi singoli e la nazione tutta sopra la sfiducia, che
protraeva all’indefinito la servitù e il marasma.
«Le vie dell’anima precedono tutte le altre», aveva insegnato il Di Breme
e avevano ribadito il Borsieri e il Berchet, esortando gli scrittori a
rigenerare la letteratura nella vita.
Non si può dunque togliere senza ingiustizia al romanticismo del Di
Breme, del Borsieri e del Berchet l’aver intuito che soltanto per vie interiori
il popolo italiano sarebbe potuto giungere di nuovo a un’«ascensione
poetica della mente e del cuore» e a un’«ascensione eroica». Dal più tardo
romanticismo, inteso all’esasperazione dell’io e al suo annientamento,
quest’ultima frase, che fu poi spesso ripetuta, è stata considerata una
iattanza retorica, una «quarantottata». No, è di più lontana vigilia; è
propriamente del 1818. Anzi il Di Breme, in un momento che si potrebbe
quasi dire di estasi, guardando il futuro, osava scrivere: «… contemplo
l’ascensione poetica della mente e del cuore stare a paro di sublimità
colPascensione eroica»; e attestava di porre in quella contemplazione, che
esaltava a’ suoi occhi «la dignità umana», la più alta voluttà: «ritengo per
una rozza e stupida calunnia contro la voluttà, l’averla i gretti cuori
supremamente riposta negli orgasmi sensuali».
Sarebbe un diminuire non soltanto il romanticismo italiano, ma anche
quello europeo, il cancellare dalla storia queste trepidanti aspettazioni
dell’anima.

Indicato il significato fondamentale dei tre manifesti, possiamo entrare


più liberamente nell’esame di quelle parti, che, come abbiamo accennato,
appariscono incongruenti e quasi contraddicenti al pensiero essenziale per
inattese commistioni di idee non romantiche. L’arduo e intricato esame
gioverà a meglio chiarire la posizione teoretica del Di Breme nel
romanticismo e a un tempo quella del Leopardi di fronte al romanticismo.
Riduciamolo ai punti essenziali.
Duplice era stato il motivo, per cui il Leopardi aveva criticato le
Osservazioni del Di Breme: uno estetico e uno morale. Nelle pagine sulla
poesia il giovine Leopardi aveva fatto pernio specialmente sull’estetica del
bello ideale, nella quale egli erasi formato studiando amorosamente i greci e
i latini («il suppor vita nelle cose, per esempio inanimate, diversa dalla
nostra, ripugna di maniera al nostro istinto e alla nostra natura, che
appartiene appuntino a quello che si chiama cattivo gusto, al gusto che si
chiama gotico, che si chiama cinese»). Nelle considerazioni
sull’impossibilità morale che i tempi di ragione e di filosofia conducano
all’eroismo, aveva applicato all’Italia un’argomentazione, in lui già ferma
da alcun tempo come un caposaldo: «La ragione è nemica d’ogni
grandezza: la ragione è nemica della natura: la natura è grande, la ragione è
piccola… La pura ragione dissipa le illusioni e conduce per mano
l’egoismo. L’egoismo spoglio d’illusioni estingue lo spirito nazionale, la
virtù, ec., e divide le nazioni per teste, vale a dire in tante parti quanti sono
gl’individui… Più ella si perfeziona, più l’essere ragionante diviene
imperfetto: ella rende piccoli e vili e da nulla tutti gli oggetti sopra i quali
ella si esercita, annulla il grande, il bello, e per così dir la stessa esistenza, è
vera madre e cagione del nulla, e le cose tanto più impiccoliscono quanto
ella cresce».
Oggi il motivo per cui alcune idee del Di Breme appariscono
incongruenti o indebolite da paralogismi, è un altro, di indole speculativa: il
compromesso dottrinale, che egli tentò di fare, tra alcune forme dell’astratta
ideologia razionalistica, cioè derivate da altro principio filosofico, e le
nuove idealità romantiche, che rivalutavan in pieno il sentimento e la
fantasia. Quando egli nelle Osservazioni, or ora citate, saliva dagli
entusiasmi pel Byron alla visione idillica di un Cartesio poetico, che
operasse nella letteratura una rivoluzione simile a quella che il Descartes
aveva compiuto nella filosofia e allevasse «un incontaminato giovine»
libero da canoni accademici, da artifizi urbani, da corruttele soffocatrici,
«completamente», nell’ammirazione dell’onnigena Natura, mostrava nel
modo più specioso a quali allucinazioni potesse condurre il tentar di
amalgamare filosofie diverse.
Fu questo un difetto comune a tutti i primi trattatisti del nostro
romanticismo e forse, per la crisi stessa che suscitava nella vita dello spirito
il formarsi di una dottrina romantica mentre quella illuministica era ancora
in pieno vigore, era inevitabile che il primo nostro romanticismo passasse
per questi tentativi di compromesso, che oggi sono la sua parte morta.
Quei nostri primi romantici avevano riaperto la Scienza nuova del Vico,
avevano intuito che, nell’indagare la formazione della poesia e lo svolgersi
dell’umana storia ideale, quel filosofo aveva veduto più a fondo di quanti
fin allora avessero scritto su quegli argomenti; ma, vincolati com’erano a
molte idee illuministiche, le quali erano di dominio generale, non trovarono
la via di risolvere tutto il loro pensiero in senso vichiano. Scriveva il Di
Breme nel Grand Commentale: «Je prouverai que depuis Vico jusqu’à
Beccaria et à Mario Pagano, aucun de nos penseurs n’a mérité l’aveu de nos
docteurs». Ma quella designazione ammirativa del Vico, che, come è noto,
fu anticartesiano, congiunta a quella di Cesare Beccaria, che per sua stessa
attestazione risolveva tutto il suo pensiero nel razionalismo, indica
implicitamente che il Di Breme stava col Vico in un senso, con Cartesio e i
razionalisti in un altro.
Il Di Breme assunse così, in modo più stridente, un atteggiamento
consimile a quello che già aveva preso il maestro suo Tommaso Valperga di
Caluso, che, dopo aver introdotto la Scienza nuova in Piemonte e averla
additata come opera di grande valore agli studiosi che lo frequentavano,
sebbene avesse intuizioni acutissime, che superavano l’illuminismo, e
prodigasse ai giovani incoraggiamenti preromantici, non ebbe l’ardimento o
la forza di varcare i limiti del suo razionalismo, nel quale conciliava la
«ragion felice» di Cartesio e l’empirismo baconiano; un atteggiamento
consimile a quello di Prospero Balbo, che, dopo aver sentito il fascino delle
idee vichiane ed essersi accorto di alcuni vuoti nella storiografia
illuministica, dopo aver posto sentimento e gusto nella poesia ossianica e
còlto una nuova vibrazione lirica nel Solitario delle Alpi e in Diodata
Saluzzo, tenne il pensiero entro schemi razionalistici, quantunque avesse
constatato nel periodo della rivoluzione francese e in quello napoleonico
che l’uomo «filosofico», cresciuto nel culto della Dea Ragione, era non
meno fanatico e feroce, passionale e ingiusto, di quello che si diceva essere
stato l’uomo anteriore al secolo dei lumi; un atteggiamento consimile a
quello di altri filopatridi, da lui conosciuti già vecchi e tardi, i quali, pur
sentendo l’assillo di quegli impulsi dello spirito, che l’illuminismo aveva
compresso o lasciato nell’ombra, e rifuggendo toto homine dalle negazioni
e distruzioni, a cui l’eccesso di razionalismo conduceva, non seppero
portare il loro pensiero interamente fuori dell’impalcatura ideologica
predominante, persuasi che una rescissione assoluta non fosse possibile.
La differenza fu una sola: che, laddove il Caluso, Prospero Balbo e altri
filopatridi furono ideologi moderati, i quali, per esigenze religiose e
sensibilità di nuova poesia, avvertivano che la vita non si esauriva
nell’illuminismo e che la ragione non era tutto, al contrario il Di Breme, che
poneva le fonti della poesia nell’interiorità del sentimento e
dell’immaginazione ed era dagli avversari rimproverato di esagitazione ed
estremismo, fu un romantico, il quale riconosceva che il sentimento e la
fantasia non erano tutto e che nella vita dello spirito la ragione aveva pure i
suoi diritti.
Vero è che egli, quando invocava «un Cartesio poetico» non voleva
affatto auspicare un maestro che applicasse alla letteratura la filosofia
cartesiana, ma «un liberale condottiero», che, per assoluta indipendenza
dalle convenzioni artistiche, accumulatesi nei secoli, e con una radicale
indifferenza rispetto a ciò che era stato fatto dagli antichi, in ciò solo
rappresentasse Cartesio, nel non tener impossibile in poesia qualsiasi forma
nuova d’invenzione o di imitazione della natura e nel pensare che le età
avvenire per originalità potessero non solo gareggiare col passato, ma
superare ciò che qualsiasi secolo e qualsiasi nazione potessero aver fatto.
Ma nel richiamare l’immagine di Cartesio come quella di un innovatore,
che aveva dato principio alla filosofia moderna, egli, pur riguardandolo non
senza romanticismo, ne accoglieva a suo modo la formula.
Nell’interpretare la formula cartesiana il Di Breme faceva fulcro
specialmente sul sum, inteso nel senso di «esisto»: «Cartesio non volendo
argomentare dell’uomo che dall’uomo, torse gli occhi dalla immensa
farragine delle opinioni; si disimpacciò da quelle dottrine di che già le
scuole, l’educazione e la consuetudine lo avevano imbevuto, e ricco in certo
modo di quella studiosa ignoranza, pieno il petto di felici presentimenti, ei
si affacciò con sincerità a se stesso: dubitante s’ei dovesse mai nulla sapere:
indifferente su di ciò ch’ei fosse per dover credere; certo solo frattanto di
esistere in un qualche determinato modo».
Tra i modi di esistere il Di Breme riteneva il sentire non inferiore al
cogitare, come radice di forme dello spirito che nella vita non valevan
meno dei lumi della ragione. Perciò, in ultima istanza, egli invocava nelle
lettere un innovatore ab imis, il quale, affidandosi al sentimento e a una
libera cultura, suscitasse nell’arte e nella letteratura una rivoluzione simile a
quella che Cartesio aveva portato in filosofia col Cogito ergo sum. Ma con
questa distinzione egli già ammetteva i diritti della ragione fuor del campo
creativo, in cui erano sovrani il sentimento e la fantasia; anzi si dichiarava
pronto ad accogliere nel suo «romanticismo filosofico» (la frase è sua) i
risultati buoni, ai quali potesse essere giunto l’illuminismo.
Specialmente nel problema linguistico sfuggì al Di Breme e ai primi
romantici il profondo nucleo di vero, che era nella dottrina vichiana,
giacché, sebbene essi condannassero apertamente il pedantismo dei
linguaioli, i quali finivano col «voler che la favella materiale serva
d’invariabile misura ai concetti», nondimeno non seppero progredire sulla
concezione illuministica di quella «grammatica intellettuale d’Europa», di
cui avevan gettato le fondamenta Bacone e Cartesio e tracciato le linee
costruttive i sistemi ideologici e razionalistici del Settecento; non
riuscirono, cioè, a vedere l’inconsistenza di quella grammatica razionale,
«miracolosa chiave di ogni sapere», diffusasi in Italia fin anche nelle scuole
con i libri del Soave, per cui ogni popolo avrebbe dovuto saper adattare
«l’espediente meccanico della favella a quell’idioma universalissimo», che
era «carattere distintivo» di quel secolo, come modo di pensare e ideare.
Questo errore ideologico è dovuto al fatto che essi, sebbene
ammettessero che nelle prime età del genere umano l’immaginazione aveva
avuto più parte che non la ragione nel creare il linguaggio, ritennero che
questo nel suo più alto sviluppo, vale a dire nella moderna civiltà, fosse
prevalentemente opera della ragione e che perciò nelle questioni
linguistiche generali sarebbe stato buona mèta ideale che a tutte le lingue
presiedesse una grammatica razionale universale, quasi una perfecta dicendi
ars logica.
Il Leopardi, pochi anni dopo, si trovò di fronte al medesimo problema.
Come è noto, anch’egli non accolse interamente la Scienza nuova, e,
sebbene ammettesse che le lingue antiche, architettate sul modello della
immaginazione, fossero varie e quelle moderne, più architettate sulla
ragione, fossero monotone, storicamente, sotto l’influsso del Soave, del
Sulzer e di altri trattatisti, ritenne «insufficiente il dire che la lingua
dell’immaginazione precede sempre quella della ragione». «Nella Grecia —
egli soggiungeva — a’ tempi stessi d’Omero, già molto colti (e similmente
in tutti i casi dove trattasi di poesia e di prosa colta e letteraria),
l’immaginazione avea già dato alla ragione tutto il luogo che bisognava
perché questa potesse avere una sua lingua». Praticamente fece inoltre
quest’ammissione: «Non è bisogno che una lingua sia definitivamente
poetica, ma certo è bruttissima e inanimata quella lingua che è
definitamente matematica. La migliore di tutte le lingue è quella che può
esser l’uno e l’altro, e racchiudere eziandio tutti i gradi che corrono fra
questi due estremi». Ma, prescindendo dal problema storico e da quello
pratico e inalzandosi a indagine più generale, dichiarò che «la ragione senza
notizia del bello, delle illusioni, entusiasmo ecc. e di ciò che spetta
all’immaginazione e al cuore, è essa medesima un’illusione e un’artefice di
mitologia, come lo sono le dette cose», e, a differenza del Di Breme, senza
remissione coperse di dispregio il linguaggio razionalistico, meccanico,
geometrico, lineare, astratto; considerò bruttissima e acerbissima la
mitologia della ragione; avversò implacabile la lingua ideologica universale
e giunse a dire: «Il sommo grado della ragione consiste in conoscere che
quanto ella ci ha insegnato al di là della natura, tutto è inutile e dannoso, e
quanto ci ha insegnato di buono, tutto già lo sapevamo dalla natura; e
l’avercelo essa fatto disimparare, e poi tornare a impararlo e a crederlo, ci
ha sommamente nociuto, non solo per quel frattempo, ma irreparabilmente
per tutta la vita, perché gl’insegnamenti ricevuti dalla ragione, quantunque
conformi ai naturali, non hanno più di gran lunga la forza né l’utilità di
quelli ricevuti dalla natura, e vengono da cattiva fonte e velenosa alla vita,
anzi vengono dalla morte, invece di venir dalla vita».
In altre parole, il Leopardi, non solo per motivi estetici e morali, ma
sopra tutto per motivi gnoseologici, non accettò la conciliazione tra
immaginazione e ragione, tra poesia e ideologia, a cui avevano creduto di
poter accedere il Di Breme e gli altri primi nostri romantici. In questo
senso, sotto l’aspetto dottrinale, egli, che riconobbe fino all’ultimo esser
l’immaginazione «la più feconda e meravigliosa ritrovatrice dei rapporti e
delle armonie più nascoste», «la sorgente della ragione stessa, del
sentimento, delle passioni, della poesia», e tutto «l’intelletto»
(«Immaginazione e intelletto è tutt’uno»), sebbene abbia giudicato il
romanticismo «sistema falsissimo in teoria, in pratica, in natura, in ragione,
in metafisica, in dialettica», può parere teoreticamente più consequenziario
dei primi nostri romantici e quindi, sotto un certo aspetto, più vichiano.
Ma, se ci fermassimo a quest’apparenza, mostreremmo di non aver
compreso il punto essenziale della divergenza dottrinale.
L’argomentazione, per cui il Leopardi negò come un controsenso la
lingua ideologica universale, non dipende affatto da una più profonda
comprensione del pensiero del Vico, ma da una negazione più generale e
più radicale, che egli traeva dallo stesso Cartesio. Il Leopardi, ponendo tutta
la vita dello spirito nell’immaginazione e nelle illusioni, da essa generate
(«non v’è altro di reale nè altro di sostanza al mondo che le illusioni»), e
assegnando alla ragione l’infimo posto, come alla più povera e alla più
squallida delle illusioni, non solo dava all’immaginazione un senso diverso
da quello vichiano e svuotava per altra via ogni ideologia razionalistica, ma
addirittura negava all’uomo dalle fondamenta, la possibilità di qualsiasi
certezza: «II mio sistema introduce non solo uno Scetticismo ragionato e
dimostrato, ma tale che, secondo il mio sistema, la ragione umana per
qualsivoglia progresso possibile, non potrà mai spogliarsi di questo
scetticismo; anzi esso contiene il vero, e si dimostra che la nostra ragione
non può assolutamente trovare il vero se non dubitando; ch’ella si allontana
dal vero ogni volta che giudica con certezza; e che non solo il dubbio giova
a scoprire il vero (secondo il principio di Cartesio), ma il vero consiste
essenzialmente nel dubbio, e chi dubita, sa, e sa il più che si possa sapere».
In conclusione, egli metteva in dubbio fin anche la logicità della formula:
Cogito ergo sum. Pel Di Breme la grandezza di Cartesio stava nel nuovo
edificio di pensiero, di cui, insieme con Bacone, aveva gettato le
fondamenta; pel Leopardi stava soltanto nel dubbio metodico, per cui ogni
filosofia costruttiva e conclusiva diventa una chimera: «Cartesio distrusse
gli errori de’ peripatetici. In questo egli fu grande, e lo spirito umano deve
una gran parte de’ suoi progressi moderni al disinganno procuratogli da
Cartesio. Ma quando questi volle insegnare e fabbricare, il suo sistema
positivo che cosa fu? Sarebbe egli grande, se la sua gloria riposasse
sull’edifizio da lui posto, e non sulle ruine di quello de’ peripatetici?
Discorriamo allo stesso modo di Newton, il cui sistema positivo, che già
vacilla anche nelle scuole, non ha potuto mai essere per i veri e profondi
filosofi altro che un’ipotesi, e una favola, come Platone chiamava il suo
sistema delle idee, e gli altri particolari o secondari e subordinati sistemi o
supposizioni da lui immaginate, esposte e seguite… Paragonando la
filosofia antica colla moderna, si trova che questa è tanto superiore a quella,
principalmente perché i filosofi antichi volevano tutti insegnare e
fabbricare: laddove la filosofia moderna non fa ordinariamente altro che
disingannare e atterrare… Per ben conoscer [la natura] non è bisogno alzare
alcun velo che la cuopra: è bisogno rimuovere gl’impedimenti e le
alterazioni che sono nei nostri occhi e nel nostro intelletto; e queste,
fabbricateci e cagionateci da noi col nostro raziocinio. Quindi è che i più
semplici più sanno: che la semplicità, come dice un filosofo tedesco
(Wieland), è sottilissima, che i fanciulli e i selvaggi più vergini vincono di
sapienza le persone più addottrinate: cioè più mescolate di elementi
stranieri al loro intelletto».
Questa pagina per la nostra particolare questione è risolutiva. Di quanto il
Di Breme, che voleva essere romantico, restrinse il potere
dell’immaginazione, accettando nel problema linguistico l’ideologia
illuministica e, in genere, una signoria extrapoetica della ragione, di tanto il
Leopardi, che non voleva essere romantico, lo ampliò, respingendo in pieno
l’una e l’altra. Il punto capitale di dissidio tra il Di Breme e il Leopardi sta
in questa diversa posizione rispetto a Cartesio, al razionalismo, all’ideologia
linguistica. Essa pone tale distacco tra il pensiero dell’uno e quello
dell’altro, che teoreticamente non è possibile nessun avvicinamento. In
ultima analisi la posizione del Leopardi, che risolve tutta la vita dello
spirito, non escluso l’intelletto, nell’immaginazione, è più radicale di quella
del Di Breme, il quale avrebbe amato veder armonicamente operanti
sentimento, immaginazione e ragione e dalla contemplazione della
concordia discors nel mondo saliva a quella dell’armonia prestabilita, a cui
era giunta la filosofia del Leibnitz. Il Leopardi, al contrario, giudicava
«monadi, ottimismo, armonia prestabilita, idee innate, favole e sogni». La
negazione assoluta dà maggior rilievo all’inconsapevole romanticismo, che
era in atto nella sua poesia per la potenza nativa della fantasia e per
l’arditissimo approfondimento di una nuova interiorità, di cui fin allora
nessuno aveva dato la lirica. Che cosa era quella nuova interiorità? Era la
poesia delle illusioni, le quali, generate dall’immaginazione, come unica
realtà del nostro mondo, sono anche l’unica apparente sostanza, con cui
tessiamo la labile trama della nostra vita e delle nostre ideologie. Tra tali
immaginazioni una delle più naturali e delle più nobili, per i sentimenti che
poteva suscitare, era quella della patria: e perciò con tutta congruenza e
naturalezza il Leopardi non solo ammise che gli abitanti di una terra, i quali
parlino la medesima lingua, costituiscono una nazione e che «ogni lingua
perfetta è la più viva, la più fedele, la più totale immagine e storia del
carattere della nazione che la parla», ma anche deplorò che lo scadimento
politico e militare avesse «prodotto» in Italia «morte e privazione di
letteratura, d’industria, di società, di arti, di genio, di coltura, di grandi
ingegni, di facoltà inventiva, d’originalità, di passioni grandi, vive, utili o
belle e splendide»; e giunse a dire: «Noi non possiamo avere lingua propria
moderna perché oggi non viviamo in noi, ma quanto viviamo è in altri, e
per altrui mezzo, e di vita altrui, ed anima e spirito e fuoco non nostro.
Poiché la vita ci vien d’altronde, è ben naturale che di fuori e non
altrimenti, ci venga la lingua che in questa vita usiamo. E così dico della
letteratura».
Per risollevare l’Italia sarebbe stata necessaria, a suo giudizio, «l’attività
e l’uso della molla principale della vita», cioè dell’immaginazione, «molla
che quando è capace di azione (e non può esserlo senza le circostanze
corrispondenti) vince la forza di tutte le altre molle». Da questa persuasione
deriva quella celebre sua pagina, che pare smagata per la parola iniziale
«illusioni» e non è, pel significato concreto che tale parola ha nella mente
leopardiana: «Se i prìncipi risuscitassero le illusioni, dessero vita e spirito ai
popoli, e sentimento di se stessi; rianimassero con qualche sostanza, con
qualche realtà gli errori e le immaginazioni costitutrici e fondamentali delle
nazioni e delle società se ci restituissero una patria, se il trionfo, se i
concorsi pubblici, i giuochi, le feste patriotiche, gli onori renduti al merito,
ed ai servigi prestati alla patria tornassero in usanza; tutte le nazioni
certamente acquisterebbero, o piuttosto risorgerebbero a vita, e diverrebbero
grandi e forti e formidabili».
Ma il Di Breme, che, come abbiamo veduto, poneva il sentimento alle
radici della vita ideale e lo riteneva, non meno del pensiero, una forza
effettiva della vita, non avrebbe mai acconsentito a dire la patria soltanto
un’illusione. Per lui la patria, la nazione, l’Italia erano una realtà sentita e
veduta: e il risorgimento non poteva essere affidato soltanto
all’immaginazione, ma a tutte le virtù di cui il popolo italiano fosse capace.
Stando così le cose, su quest’argomento non rimaneva che un solo punto
d’incontro possibile tra il Di Breme e il Leopardi: nel riconoscere che la
rinnovazione della cultura era strettamente connessa al risorgimento politico
dell’Italia, sia che questa risorgesse per opera di illusioni generose (come
voleva il Leopardi), sia che risorgesse per fede sostanziale in se stessa
(come voleva il Di Breme). E l’incontro ideale, indipendentemente dai
principii filosofici antitetici, vi fu. Il Di Breme nel 1816 aveva detto l’Italia
«il paese che di tutta Europa, se la Spagna ne traggi, è forse il meno
cospicuo oggidì per varietà e solidità di studi veramente esemplari»,
Scriveva più ampiamente il Leopardi nel novembre del 1823, prescindendo
dalla disistima che egli faceva della filosofia razionalistica e dalla disistima
ancora più profonda, che egli faceva della maggior parte degli Italiani di
quel tempo: «Tra le cagioni del mancar noi (e così gli spagnuoli) di lingua e
letteratura moderna propria, si dee porre, e per prima di tutte, la nullità
politica e militare in cui è caduta l’Italia non men che la Spagna dal
seicento in poi, epoca appunto da cui incomincia la decadenza ed estinzione
delle lingue e letterature proprie in Italia e in Ispagna… La nullità politica e
militare degl’italiani e spagnuoli ha prodotto il mancar essi di lingua e
letteratura moderna dal seicento in qua, ed il mancarne oggi. Essa nullità è
cagione che l’Italia e la Spagna abbiano perduto d’allora in poi il loro essere
di nazione. Quindi essa è cagione che l’Italia e la Spagna non abbiano, e
d’allora in qua, né letteratura moderna, né filosofia ec. Esse non hanno
lingua moderna propria, perché mancano di propria letteratura e filosofia
moderna; ma di queste perché ne mancano? perché non sono più nazioni; e
noi sono, perché senza politica e senza milizia non influiscono più né sulla
sorte degli altri, né sulla lor propria, non governano né si governano, e la
loro esistenza o il lor modo di essere è indifferente al resto d’Europa…
Senz’attività, senza industria, senza spirito di letteratura, d’arti, ec, senza
spirito né uso di società, la vita degli spagnuoli e degl’italiani si riduce a
una routine d’inazione, d’ozio, d’usanze vecchie e stabilite, di spettacoli e
feste regolate dal Calendario, di abitudini ec. Mai niuna novità fra loro né
nel pubblico né nel privato, di sorta nessuna che dimostri in alcun modo la
vita. Tutto quello ch’e’ possono fare si è di ricevere in elemosina un poco di
novità sia di cose, sia di costumi, sia di pensieri, e quasi un fiato di falsa ed
aliena vita, dagli stranieri. Questi sono che ci muovono quel pochissimo che
noi siamo mossi…».
Queste pagine brucianti potrebbero essere oggi riprodotte come il più
amaro commento, che mai sia stato scritto, ai motivi per cui il Di Breme, il
Borsieri, il Berchet, sia pure con idee filosofiche diverse e con altri gusti
letterari, avevano nel 1816 intrapreso la battaglia romantica.

Quale contenuto diedero gli autori dei tre proclami alla parola
«risorgimento»? Adoperarono essi questa parola, nel 1816, sopra tutto nel
significato di «risorgimento della cultura», come a tutta prima si potrebbe
dedurre dagli argomenti letterari, trattati nei tre opuscoli, o essi nel
pensiero, svolgendo quegli argomenti, segnavano a se stessi anche un’altra
mèta, di cui non facevano allora tema aperto, ma di cui vagheggiavano
l’immagine?
Nel Di Breme, nato a Torino e ivi formatosi sul finire del Settecento, la
parola «risorgimento» si riconnette manifestamente al significato con cui
l’avevano adoperata gli scrittori della Sampaolina e della Filopatria.
Laddove il Leopardi, come appare dalle pagine precedenti e da altre dello
Zibaldone, considera il risorgimento politico e militare premessa necessaria
al risorgimento delle lettere, della filosofia, delle scienze e di ogni altra
forma di cultura, perché la decadenza della letteratura, della filosofia e di
ogni altra attività italiana nell’Europa moderna era stata, a suo giudizio,
conseguenza del decadimento politico e militare, il Di Breme considera il
risorgimento delle lettere, della filosofia, delle scienze e delle altre attività
ideali premessa e concomitanza indispensabile al risorgimento politico e
militare della nazione, perché questo non può essere senza risorgimento
dell’animo.
Quando egli parla di «un risorgimento di idee», di «una più generosa
coltura degli spiriti», di «quella valorosa gioventù, che ora si sta raccolta
meditando e silenziosa, e adulta si fa ad un tempo con una più robusta e più
vasta filosofia», di «una splendida Era», che sta per sorgere, egli
chiaramente riecheggia le speranze dell’imminente risorgimento, quali
erano state enunciate dal conte Benvenuto di San Raffaele, amico di suo
padre e dell’Alfieri, e da altri scrittori subalpini, che egli aveva o letto o
conosciuto a Torino nella giovinezza. Basta riprendere in mano la lettera
che egli rivolse nel 1818 a Giuseppe Grassi, esortandolo a voler preparare
pel Conciliatore uno scritto in cui fosse illustrato quanto i piemontesi
avevano fatto per le lettere specialmente nella seconda metà del Settecento,
per capire subito che il Di Breme ha un legame inscindibile con la cultura
subalpina anteriore. Dice egli tra l’altro: «Che diamine d’osservatore era
egli quel Baretti dell’indole e delle doti d’una nazione, se proclamò
assolutamente come inetto agli studi poetici, morali e affettuosi, non che
alle arti quel Piemonte che si modificò del vivente ancora di Baretti, e
poscia in tante guise, negli Alfieri, ne’ Denina, nei due Napioni, nel Tana,
nel Federici, nel Passeroni, nel Bo-doni, nel Cigna, nel La-Grangia,
Berthollet, Saluzzo, S. Raffaele, Vernazza, Fea, Ghio, Regis, Vassalli,
Giobert, Botta, Caluso, De Rossi? E i Milanesi che ebbero mai prima
dell’unico loro Parini? E chi diede più uomini italici all’Italia se non è la
patria di Denina che primo ne scrisse le rivoluzioni; di Alfieri che ne fondò
il teatro e ne rinnovò lo spirito politico; di Baretti, solo fra gli italiani che
pigliasse a vendicarla in questo suo libro [Gl’Italiani o sia Relazione degli
usi e costumi d’Italia ] dalle calunnie d’un estero [il dott. Sharp ], e il solo,
che riunisse sin qui in sommo grado l’erudizione delle lingue estere a quella
della propria sua, e ad un brio d’ingegno tutto nuovo e non saputosi da
alcun altro italiano imitare poscia? Così avesse avuto filosofia, che non
avrebbe scusate tante melensaggini e superstizioni degl’italiani, e, superiore
a’ risentimenti, avrebbe detto che il Piemonte è il vero vivaio dello spirito
in Italia».
L’incremento, che all’Italia era venuto da quell’alacrità intensa e
multiforme, permaneva, a suo avviso, così vivo, che anche dopo la caduta
dell’impero napoleonico poteva indicare in qual modo dovesse essere
ripresa una vasta azione preparatrice. Per questo riconoscimento il Di
Breme si ricollega agli scrittori della sua terra.
Vi è una sola differenza, ma, in questo punto, capitale. Laddove il conte
di San Raffaele e gli annunziatori dell’«imminente risorgimento» avevano
specialmente parlato ai piemontesi, esortandoli a porsi con lo studio alla
testa dell’Italia per dar principio a un’era nuova, il Di Breme parla a tutti
gl’Italiani.
Valga un esempio.
Il conte Vincenzo Marenco di Castellamonte nella parte terza del libro Lo
spirito di patriotismo riguardo alle scienze ed alle lettere appresso le
nazioni, scritto nel 1776 e pubblicato nel 1783, aveva esortato i piemontesi
«a eccitare vieppiù lo spirito d’invenzione e di fantasia creatrice», fuor delle
«regole moltiplicate», che, come «altrettanti limiti ed impacci,
s’attraversano allo spirito». Egli aveva fatto viva lode di coloro che
procedono con metodo, ma aveva ritenuto «difficile che i metodici
pensatori possano giammai per via di metodo sollevarsi a segno di
collocarsi ad un tratto in quell’eminente punto di vista, che in un momento
schiera e presenta i differenti aspetti, sotto di cui può una data cosa
considerarsi, di ravvisarne ad un tratto tutti i rapporti, la distesa
abbracciarne, prevederne le conseguenze, e dominarne insomma tutta
l’idea». Aveva quindi detto contro l’accademismo e l’imitazione, che
gravavano le lettere italiane: «… è necessario primieramente d’inspirare
negli animi un certo ardir generoso, che delle difficoltà faccia caso, ma
s’avvezzi a mirarle con intrepido sguardo, e da esse arrestar non si lasci.
Quindi bisogna lasciare agli ingegni una certa libertà di propria condotta,
perché di troppo al giogo dell’esempio e dell’imitazione avvezzandosi, non
ne rimangano avviliti e non facciano come quel nuotatore, che, sempre
avvezzo ad avere al fianco l’assistenza dell’esperto maestro, non osa
giammai senza il fedele appoggio fidarsi all’onde, né dalla sua guida pur
d’un braccio staccarsi, non ostante la propria abilità per sostenersi a nuoto.
Né già dee questo chiamarsi uno sprezzare temerariamente l’autorità de’
venerabili antichi o de’ modelli, che ad imitar si propongono, né soverchia
affettazione del nuovo, ma è servirsi d’un dritto che ne compete, di ricorrere
al fonte originale e a tutti comune, cioè alla natura, mentre in tanto
pregiabili sono gli ottimi antichi, in quanto hanno questa ben imitato. Ora
follia sarebbe il darsi a credere che tutto il di lei Bello abbiano poi così
ricopiato, che nulla più da trarre a noi rimanga da questa perenne ed
illimitata sorgente, o che privilegiate così debbano riputarsi le loro
invenzioni, che di migliori o d’eguali non sieno da stimarsi i moderni
capaci; epperciò piucché gli antichi la loro maniera d’imitazione imitare
dobbiamo. Ogni altra imitazione servile diventa, e gli animi avvezza ad una
limitata foggia di pensare, ossia a sempre ripensare lo stesso, come sempre
lo stesso ragionerebbe colui ancora che i filosofi studiasse per ritrovare in
essi la verità, e non per avvezzarsi a cercarla». Da queste premesse aveva da
ultimo il Marenco derivato un’esortazione ai giovani: «S’avvezzino
adunque gli animi giovanili a sentire per tempo il pregio della propria
esistenza, cioè a riconoscere in se stessi la medesima capacità, ch’ebbero
quantunque altri Scrittori, e ’l dritto, che hanno di aspirare a non minore
eccellenza».
Le medesime idee ritornano negli scritti del Di Breme, specialmente nel
Discorso intorno all’ingiustizia di alcuni giudizi letterari italiani e nel
Grand Commentane, con orizzonte non più soltanto subalpino, ma italiano.
Alcuni fatti storici avevano ormai dimostrato che il risorgimento non
poteva essere addotto da un solo Stato, italiano o straniero, ma doveva
essere opera di tutti gl’Italiani: innanzi tutto la dolorosa esperienza fatta
durante la guerra delle Alpi, dal 1792 al 1796, allorché il Piemonte, sebbene
fossero stati rivolti appelli ai singoli governi d’Italia, era rimasto solo a
lottare contro l’invasore; quindi gli avvenimenti svoltisi nel periodo
napoleonico e specialmente le vicende del Regno Italico, che molti avevano
creduto poter essere per l’Italia preparazione a maggiori fortune. Il risultato
di queste esperienze è implicito nel carteggio e negli opuscoli del Di Breme,
come una dimostrazione storica, sulla quale non sia più necessario
nemmeno discutere.
«Veglino a vicenda le famiglie — dice egli nel Grand Commentaire —
sull’onore e sulla prosperità dell’una e dell’altra e una catena di braccia
fraterne allacci i nostri Lari, dalla cima delle Alpi alla tomba di Virgilio. La
politica rispetterà un giorno questa commovente unanimità dei cuori
italiani; giacché la politica non trae potenza che dalle condizioni sociali che
noi le presentiamo: essa calcola sui nostri vizi e sulle nostre debolezze, ma
si sottometterebbe alle nostre virtù o cesserebbe di essere una politica.
Concittadini! i destini nostri sono opera nostra… Prima d’essere costituiti
con legge, non dipenderebbe che da noi ricostituirci nello spirito».
Per questo spirito il Di Breme è ormai alieno da qualsiasi politica
regionalistica, e, allorché nel 1820 vede a Torino rattrappirsi la vita per
grettezza di calcoli o per animo reazionario di contro alle speranze dei
liberali, con i quali cospira per «fondar una prospettiva» (intendi: per
cercare su quali basi potesse essere fondato un disegno di risorgimento
politico), con parole roventi non esita a dichiarare di non voler più essere
piemontese. Scrive il 7 marzo 1820 a Federico Gonfalonieri, raffigurando
Torino come una città di falliti: «L’ignoranza, la spilorceria, la viltà, la
caparbietà, l’ozio, l’astio vicendevole, la presunzione e tutte le ridicolezze
portate in trionfo, mi circondano, mi stanno innanzi agli occhi e
m’inseguono da mattina a sera. Fo il sordo, il muto, il serio per poco
ancora, ma or ora ti so dire che schiatto in uno scoppio o di ridere o di
rabbia che lo sentirai da Milano. Appena è concepibile che si nasca oggidì
Piemontese: qual sì orrenda colpa si ha da aver commessa nel nulla per
esserne così barbaramente esiliato? Ma il ritornarvi, chi n’era uscito, e
ridivenire Piemontese, ciò non ha scusa; e per lodevoli che ne sieno le
intenzioni, un sì fatto partito è pur sempre vergognosissimo».
Se non che giudizi non meno violenti per ira e disdegno si leggono sulle
condizioni dell’Italia tutta e sul carattere degli italiani nelle sue lettere alla
contessa d’Albany e ad altri; e per esse si comprende che egli, proteso
com’era a cercar da ogni lato una rispondenza palese o segreta alla
«prospettiva», che aveva nella mente, vedendo la maggior parte dei Torinesi
e la maggior parte degl’Italiani così discordanti dal suo ideale, giungesse a
dire che non intravedeva possibilità di rigenerazione «prima della terza
generazione». In realtà egli sapeva che l’Italia non era morta e nell’intimo
confidava che ella potesse quanto prima balzare verso migliori forme di
vita, quantunque molti dicessero che a tre, a quattro, a cinque anni dal
crollo napoleonico fosse troppo presto tentar la sorte. Perciò nel 1820,
lodando il Gonfalonieri per l’azione benefica che svolgeva a Milano a
favore delle scuole di mutuo insegnamento, diceva: «L’albero che piantasti
coprirà d’una vasta ombra il terreno della tua patria. Le altre imprese cui
desti moto, o che, solo, conduci, sono pienamente armoniche colla prima e
collo scopo generale che ti proponesti. Se i destini d’Italia s’abbelliranno, se
batterà l’ora della nostra rigenerazione, quest’epoca invocata e sospirata
troverà il tuo paese assai più maturo».
Qui, come in altre lettere, la parola «rigenerazione» è sinonimo di
«risorgimento» non solo nella cultura, ma nella politica e in tutta la vita
sociale. Qual era la rigenerazione ideale, a cui egli mirava? È detto in
un’altra lettera, rivolta a Federico Gonfalonieri fin dal 16 maggio 1816,
nella quale parla del nuovo ordinamento dato all’Europa dai sovrani della
Santa Alleanza: «Lasciali fare, il genio dei tempi è più indomabile che tutte
le congiurate armi del mondo. Vedrai tu forse ancora, ma vedranno certo i
figli tuoi, cadere e rovinare tutto cotesto edifizio artifiziale, nato dal gran
contrasto di pochi lumi e di molta ignoranza ne’ secoli andati. Il giorno
d’oggi, che sembra essere l’epoca del rassodamento delle vecchie ragioni
monarchiche, è forse invece la vigilia d’una benigna generalissima
eruzione, non più giacobinesca né ladronesca, ma bensì prodotta dal forte
ed ognora crescente volere di tutti, e dalla ovunque diffusa luce del buon
senso e della ragione adulta. La nazion maestra [l’Inghilterra] agogna allo
scopo, direi quasi sovrumano, di ben tosto maturare e far toccare segno a
questo voto, cui partecipano oggimai persino l’artigiano e l’agricoltore. Ei
non son già chimere di ornati dicitori, né di atrabiliari filosofi; sono frutti di
esperienza, sono luminosi prodotti di quanto ha saputo combinare di più
savio e di più praticabile quel governo miracoloso, mente ed occhio
dell’incivilito mondo. L’Inghilterra doveva voler primamente la caduta del
mostruoso colosso, che torreggiava solo sul continente, ed a riuscirvi fece
cospirare con meravigliosa armonia tutti quei signori che ora parteggiano
fra loro l’Europa. Dopo terminata la essenziale e fondamentale impresa, è,
parmi, evidente che nulla di più grande, né più a lei vantaggioso resta da
operare, che costituire gli stati in maniera che la volontà generale, ossia
l’espressione del bisogno generale, divenga legge ovunque; perché tosto
vedrassi esser legge allora il commercio e tutto ciò che a facilitarlo tende;
legge quella libera circolazione di gente e di cose, che ha da mantenere e da
stabilire ognora più la preponderanza di quegl’isolani; legge insomma una
certa libertà individuale che senza nulla togliere al dominio della morale e
della religione, svincolerà i popoli da que’ ceppi, che rendono impossibile il
progressivo perfezionamento della specie umana».
Poche settimane dopo, in giugno, apparve il Discorso del Di Breme
intorno all’ingiustizia di alcuni giudizi letterari italiani. Questo è dunque
l’orizzonte politico entro cui il Di Breme diede principio alla battaglia
romantica.
Nella lettera al Confalonieri, or ora citata, il punto che rivela contro qual
nemico il Di Breme scende risolutamente in campo, è l’accenno alle
vecchie monarchie. Egli vuole che alle monarchie assolute siano sostituiti
governi costituzionali, in cui i rappresentanti del popolo abbiano parte nel
reggimento dello Stato con il libero esame dei principii statutari, dei fini e
dei metodi, con l’opera legislativa, col consiglio avveduto e lungimirante,
con assidue provvidenze sociali e politiche.
Vivissime erano state in Piemonte nella seconda metà del Settecento le
discussioni sull’utilità che potessero recare a uno Stato i governi
costituzionali o misti (così erano allora detti), e, come abbiamo narrato nel
volume Il nostro imminente risorgimento, non solo le opinioni erano state
divise, ma non erano anche mancate critiche sagaci alla costituzione
inglese, la quale già allora era da molti citata come modello. Il Di Breme,
persuaso che dopo le turbinose vicende politiche dell’ultimo
venticinquennio sia un formidabile errore il ritorno all’assolutismo, rivolge
di nuovo la mente alla costituzione inglese come a un esempio; ma, come
mostrano le sue lettere al Pellico e ad altri, non è restio dal prendere in
esame altre forme di costituzione, che si vengono ideando secondo le
condizioni e i bisogni di altri Stati.
Ciò che innanzi tutto gli importa è l’abbattimento dell’assolutismo:
perciò, nel 1820, a Torino, quantunque sia angosciato per la perdita tragica
del fratello Filippo ed egli stesso sia gravemente ammalato e già vicino alla
morte, cerca coloro che possono giovare alla nuova «prospettiva» politica,
alla quale egli intende cooperare, e parla e scrive per avviare il moto
costituzionale. L’impeto, con cui nelle sue lettere or bolla l’uno con
l’epiteto di vile («Grassi è un vile»), or loda un altro come un forte
(«perdiamo in Guasco un forte»), or esalta coloro che ardono per l’idea
(«Emanuele1 è sublime sempre»), viene da questa febbre di pensiero e
d’azione, che gli divora la vita. I vili sono coloro che, timorosi di esporre il
Regno di Sardegna a nuovo repentaglio dopo il pericolo mortale che aveva
corso durante la rivoluzione francese e durante l’impero napoleonico, si
assoggettano rassegnati all’assolutismo; i forti e i sublimi sono gli
ardimentosi, pronti a tutto rischiare pur di giungere a una forma di governo,
che, tutelando gl’interessi vitali dello Stato, sia garanzia delle libertà
individuali e consideri legge del vivere civile «la libera circolazione di
gente e di cose».
Queste erano le idee politiche, con cui egli due anni prima aveva a
Milano promosso e «stimolato» la pubblicazione del Conciliatore, quasi
come una scuola di mutuo insegnamento, portata in una sfera superiore,
quella delle idee, profittevole non solo ai lettori, ma ai collaboratori stessi.
Quel periodico, mentre col titolo e col programma si proponeva in realtà
la ricerca di una concordanza tra le antitesi, facendo opera di conciliazione
ideale e collaborazione sociale in tutti i campi, da quello letterario a quello
umanitario, in realtà era, politicamente, un foglio avverso alle forme di
governo assoluto prevalse dopo il crollo napoleonico, e i conciliatori erano
consapevoli che la circolazione di idee, nelle quali tutti potessero
consentire, avrebbe indebolito l’assolutismo, togliendogli appoggio
nell’opinione pubblica, e l’avrebbe fatto cadere. Diceva il Di Breme:
«Colleghiamoci innanzi tutto con l’intenzione di farci migliori… Al punto
in cui sono l’azione e la reazione delle cognizioni, non si giunge più a
edificare Stati solamente a braccia d’uomini né col suonare a stormo».
Questa direttiva fondamentale chiarisce pertanto sotto l’aspetto politico
anche le tendenze del Borsieri e del Berchet, che per necessità si mossero
per alcun tempo nell’ambito del governo austriaco, ma nell’animo erano da
esso staccati.
Il Borsieri, che aveva compiuto gli studi di diritto a Pavia, nel 1807,
ancora scolaro, era sorto a difendere Gian Domenico Romagnosi contro il
Guillon per il discorso, nel quale il maestro aveva ricercato Quale sia il
Governo più adatto a perfezionare la legislazione civile, designando quello
unitario, «diretto da uno solo, che non tolleri nello Stato classi privilegiate e
in faccia alla legge consideri ogni privato uguale a qualunque privato».
Questa massima romagnosiana era stata confermata nel Borsieri dagli
avvenimenti posteriori e in essa dev’essere cercato il caposaldo del pensiero
politico, a cui mentalmente si conciliano le idee esposte nelle Avventure
letterarie di un giorno.
Non romagnosiana, cioè non dottrinale, ma più propriamente emotiva,
letteraria e pratica, è la convinzione politica, che nell’intimo si inserta alla
trama della Lettera semiseria del Berchet, il quale non aveva compiuto
studi giuridici, ma nel periodo della maggior gloria napoleonica si era
contrapposto per senso di indipendenza alle lodi servili rivolte dal Monti al
despota nel Bardo della Selva Nera, aveva con intendimento non solo
letterario ma anche politico tradotto il Bardo di Tommaso Gray, in cui un
bardo non cortigiano maledice gli oppressori della sua terra ed esalta chi
opera per la libertà della patria, aveva in discussioni sulla musica dato
evidenza al modo di sentire italiano e considerato nell’arte principio vitale
la libera espressione dei sentimenti e degli affetti, non esclusa la «violenza
di emozioni», generata dalle passioni. Non solo per le idee sull’arte, ma
anche pel sentimento politico il Berchet non poteva non essere in definitiva
col Di Breme e con gli scrittori del Conciliatore. Il dolore appassionato e
travolgente, con cui poco più tardi inveì contro Carlo Alberto, che egli e
tutti i patrioti avevano riguardato come il principe che, dando uno Statuto,
avrebbe potuto condurre l’esercito piemontese a liberare la Lombardia e
costituire un regno veramente italiano, viene da questa profonda fede
politica, che era stata per lui «il raggio vermiglio d’italiana aurora».
Nel Conciliatore egli, nel medesimo tempo che insieme col Di Breme,
col Borsieri, col Romagnosi, col Pecchio, col Sismondi, col De Cristoforis,
con Ermes Visconti, col Ressi, col Serristori, col Confalonieri e con altri,
trattando degli argomenti più vari, cooperava a divulgar idee e a sommovere
la cultura comune, nell’intimo, come il suo Pellico, di cui più tardi diede
nella romanza Il romito del Cenisio un’immagine, che per l’affetto non
tramonta, era la poesia di una fede e insieme la fede nella poesia, perché in
questa aveva sempre veduto non soltanto una forma d’arte appartenente
all’estetica, ma una virtù lirica operante nella vita.
Che significato ha dunque il nome del Vico, che si legge nei tre manifesti
del 1816 e in altri scritti di quei romantici? Nel pronunziare quel nome,
volevano essi indicare genericamente soltanto un grande, che aveva
«pensato e scritto cose appartenenti all’estetica», o anche un grande che
nella storia del pensiero italiano aveva senso più vasto? Per quei romantici
egli era un pensatore dalle «mille ingegnose idee», formanti sistema; era un
veggente, che aveva letto nella «tela ideale su cui corrono i fatti», vale a
dire aveva disvelato il corso che segue la storia delle nazioni e il ritorno
delle medesime rivoluzioni, allorché le società distrutte risorgono dalle loro
rovine. In lui il Di Breme, il Borsieri, il Berchet trovavano la parola
«risorgimento» e con le speranze, per cui erano pronti a patire per la patria
decaduta e sventurata, la riempivano del loro animo. Questa è la risonanza
più vasta, che quel nome ha nel loro animo, anche quando lo citano soltanto
per un argomento che pare letterario (e spesso lo mettono primo innanzi a
tutti) o allorché lo intendono a mezzo o addirittura lo fraintendono.
Volevano che la Scienza nuova fosse letta, perché quella lettura conduceva a
capire che per i popoli prostrati può esservi risorgimento. Quel libro
moveva tutto lo spirito, portandolo a riflettere su tutti i suoi aspetti e sopra i
suoi sviluppi, dal senso al sentimento, dalla fantasia all’intelletto, dagli
istinti alla moralità, nella storia del genere umano. L’indagine del pensiero
vichiano, quand’anche non fosse accolta in tutto alla lettera o conducesse a
discussioni, dava lievito a nuove idee, vigore a nuovi pensieri.
In questo senso il Di Breme e gli altri romantici nella storia del
vichianismo italiano segnano un tramite fra le riflessioni particolari, che
dalla Scienza nuova avevano derivato i filopatridi, e la trasfigurazione
immaginosa, che del Vico fece il Gioberti, vedendo in lui il pensatore che
con volo metafisico aveva dato alla parola «risorgimento» un contenuto
vivificatore entro la trama ideale, su cui si sviluppa la storia delle nazioni
rispetto all’universale.
Si dica pure che quel vichianismo romantico finì col trasfigurare la
concezione dei corsi e ricorsi per motivi contingenti o empirici e che
soltanto per quella trasfigurazione «metafisica» il Gioberti nel Primato,
adducendo il pensiero vichiano nella formula protologica universale, potè
credere di integrare la Scienza nuova e di dimostrare che dal principio
universale dello scibile (Dio che si rivela) scende «la formula italica», cioè
quella del primato ideale italiano, perché l’Italia, «il Primo e l’Ultimo della
storia», per missione divina, s’immedesima con la formula protologica:
«L’Ente crea l’esistente». Questo contenuto religioso dato alla formula
italica, come a termine ideale nel quale si doveva credere per trovar la
pienezza del risorgimento, ha la sua giustificazione storica proprio nel fatto
che era romanticismo in atto, cioè opera di sentimento e fantasia più che di
argomentazione logica. In realtà quella trasfigurazione non fu tutta
empirismo, ma anche fede in quell’idea o in quel mito, che, prima del 1848,
agì in molte menti come un pensiero propulsivo, trasferendo la parola
«risorgimento» dalla sfera ideologica, in cui l’avevano adoperata e
divulgata gli scrittori piemontesi del Settecento e autori di altre regioni, a
una sfera italiana e universale, quasi sacra. Se è vero che la maggior opera
politica del Gioberti dev’essere intesa come il poema epico del primato
italiano, consono al travaglio potente di quell’ora, in cui la nazione voleva
mostrare al mondo l’alto suo diritto a risorgere, e che l’afflato religioso
conviene per natura all’epopea, è anche spiegabile che i romantici abbiano
ricevuto dalla Scienza nuova del Vico più un impulso creativo che uno
stimolo a mere indagini speculative.
La storia del vichianismo, riguardata nella sua duplice interpretazione,
trascendente e immanente, sia sotto l’aspetto della pura speculazione, sia
sotto quello delle deduzioni pratiche, non è senza un suo dramma
grandioso. Il Gioberti era così persuaso della trascendenza vichiana, che,
sebbene lodasse il Denina per aver nelle Rivoluzioni d’Italia, primissimo tra
i nostri storici (1769-1770), riguardato le regioni italiane singolarmente e
nel loro insieme, lamentava che avesse ignorato quella grande concezione,
la quale apriva la via a potenziare filosoficamente la storia della civiltà
italiana entro quella universale. In questa critica non solo dev’essere veduta
una contrapposizione metodologica di due modi di storiografia, quello che
mira a una narrazione coordinata e prospettica degli eventi e quello che
procede «a rigor di teorica», ma una delle antitesi più profonde tra
l’Ottocento romantico e il Settecento illuministico, giudicato utile, ma
insufficiente per le limitazioni del suo pensiero a condurre il popolo italiano
al risorgimento. Quest’antitesi, che il Di Breme, il Borsieri, il Berchet nel
1816 non riuscivano ancora a discriminare nel profondo, sebbene
proclamassero che i lumi della ragione non erano tutto l’uomo e che pel
risorgimento degl’italiani era necessario un nuovo impulso creativo,
dev’essere tenuta presente se si voglia comprendere come in Italia la
filosofia, la storiografia, la letteratura nella prima metà dell’Ottocento
cerchino manifestamente una loro originalità.
Il Borsieri afferrò più tardi in pieno l’antitesi delle due concezioni
proprio per opera della filosofia giobertiana, quantunque egli, che inclinava
alla filosofia scozzese e più propriamente a quella di Tommaso Reid,
rimanesse dubbioso innanzi al principio fondamentale della filosofia
giobertiana, «che tutta quant’è l’umana ragione non altro sia che una
rivelazione prima, fattasi nel linguaggio», e quindi esitasse ad accogliere
razionalmente le conclusioni estreme del Primato, che gli parevano
utopistiche. Sagace e arguta è sotto questo aspetto la lettera che egli il 17
novembre 1843, pel tramite di Federico Confalonieri, riuscì a trasmettere da
Milano al Gioberti, evitando la censura austriaca: «Gli Arconati sono testé
partiti per Genova, alla volta della Toscana e poscia per Napoli. Presso di
loro era un esemplare del Primato ch’io ho letto ed ammirato in infiniti
luoghi, insigni per verità, per bellezza, non di rado anche per sublimità di
concetto e per vastità di vedute. Non parlo dello stile, che è tutto un’aurea
dettatura. Ma colla schiettezza che io stimo mia quanto vostra, è mio debito
di non dissimularvi ch’io rimango grandemente sospeso infra due, circa la
verità dell’assunto fondamentale dell’opera. Comprendo benissimo ch’essa
in realtà, è, di prima intenzione, indirizzata ai Principi Italiani ed al Papa,
anziché al popolo; veggo che è la soluzione di un problema quasi disperato:
come migliorare la condizione dell’Italia, data la sua impotenza ad aiutarsi
da sé, e la nessuna fiducia che si deve porre nello straniero; e infine tengo
per molto che, se anche non riusciste nell’intento intrapreso, il vostro libro
diffonde tante verità preziose, atte a mettere radice nelle buone coscienze,
ed a far germogliare il primo germe di opinione nazionale, che è ben altra
cosa della così detta opinione del secolo od europea. Per altro rispetto, il
primato d’Italia, desunto dall’essere Roma il centro del Cattolicesimo, e la
felicità della penisola da acquistarsi mercé l’arbitrato del Papa sopra i suoi
Principi stretti in federazione, conseguono in buona parte da quella teoria
fondamentale, che tutta la ragione umana è rivelazione, e che il vero
religioso è principio e base di ogni vero filosofico. Io dunque riconosco che,
in forza della coscienza d’ogni scrittore il quale sia persuaso di aver
afferrato un vastissimo principio di verità, la vostra opinione sulle cose
d’Italia e sui destini di essa non doveva essere altra da quella che è. E se mi
è lecito accennare con uno scherzo ciò che sarebbe troppo lungo a spiegarvi
seriamente, dirò che sottoscriverei pienamente al vostro Primato, quando
fosse possibile per una volta, che Voi diventaste Papa, e che io fossi —
indegnamente — il vostro Segretario di Stato».
Il nodo del risorgimento, allorché si diffuse per tutta Italia il Primato,
stava adunque ancora, a giudizio del Borsieri, nel contrasto tra la ragione
teoretica e la ragione pratica, che da due generazioni invano si cercava di
sciogliere. Il Gioberti, in questa particolare questione, affidandosi al suo
principio che l’idea dell’essere è cognizione non di un principio astratto, ma
dello stesso essere reale, veduto nella sua attività creatrice, finiva col ridurre
la ragione sotto la categoria della fede e del sentimento, illudendosi di
restaurare l’unità dell’essere e del pensiero. Così aveva già fatto, con forze
speculative più limitate, il Di Breme, ogni volta che, nel veder l’incapacità
della ragione a passare per se stessa nelle questioni capitali a soluzioni in
atto, aveva sollevato il sentimento e la fede sulla ragione, e quindi l’attività
pratica su quella teoretica. Egli aveva imparato dalla filosofia di Tommaso
Valperga di Caluso esservi due modi di certezza: di ciò che è (l’Ente, Dio) e
delle cose che esistono (esistenti); ma non era giunto a superar
filosoficamente la dualità nell’idea protologica, che condusse il Gioberti a
concepir Il Primato come leva ideale del risorgimento. Egli si era ristretto a
parlare della necessità di una rigenerazione, ottenuta non solo per le vie del
pensiero, cioè per mezzo di più elevata e diffusa cultura, ma anche per
opera del sentimento religioso, della morale, della fede.
Alieno per natura dagli irrigidimenti dottrinali dei teologi, avverso a
molti mezzi e istituti, di cui temporalmente la Chiesa si era servita nella sua
storia (per es., all’Inquisizione, che in lui destava quasi orrore), propenso a
pensieri di riforma, che lo inducevano a sognar come mezzo di redenzione
civile e sociale un ritorno al cristianesimo primitivo, per cui la parola di
Cristo non fosse più strumento d’oppressione dei poveri per opera dei ricchi
e «un re onesto e credente capisse che un re cristiano non può essere
monarca», il Di Breme deplorava che il clero fosse rimasto testimone del
naufragio delle libertà. Ma teneva alla sua professione di fede, come alla
ragion prima che lo distingueva dalla gente senza principii. Scriveva a
Luisa Stolberg, contessa d’Albany, il 15 ottobre 1819: «Alla professione di
fede che faccio io stesso d’una religione, troppo poco filosofica a quel che
mi assicurano i savi dei giorni nostri [intendi: i filosofi, devo io il fatto di
non appartenere alla turba cinica che ammorba la nostra Italia. I teologi non
sono in vero dalla mia parte; i frammassoni nemmeno; ma la mia coscienza,
la mia coscienza, Signora, che nulla e nessuno giammai intimideranno, mi
consola degli anatemi degli uni e degli altri. Sì, io credo in Dio, nella sua
provvidenza, nella sua giustizia: questo mondo, i successi degli sciocchi e
dei cattivi, la mia propria esistenza votata da molto tempo a pene squisite e
profonde, tutto mi dà il diritto di far assegnamento sopra un’immortalità
futura. Il mistero delle mie afflizioni non può giustificarsi che con
isperanze; io ho ragione di non far più calcoli su compensi e risarcimenti
passeggeri. Io non mi accordo più che con destini superiori e con
consolazioni del più alto ordine».
Per consimili stati d’animo, com’è noto, passò anche il Gioberti e
anch’egli volse l’animo a una riforma della Chiesa. Ma il punto che
avvicina il Di Breme e il Gioberti non sta in condizioni d’animo fluttuanti
né in pensieri di riforma ecclesiastica, che in definitiva non potevano
collimare. Sta invece nell’intuito, che, come abbiamo messo in luce, essi
ebbero per la prassi ideale del risorgimento: nell’aver, cioè, creduto
religiosamente che l’uomo debba partecipare alla vita universale con spirito
creativo; sta nell’aver veduto la necessità vitale che la cultura non sia
soltanto di idee astratte, gelide e lontane, ma debba avere un carattere etico
e religioso, se in ogni tempo non voglia perdere la sua efficacia
rigeneratrice; sta nell’aver dato un impulso energetico, sia pure in misura
molto diversa, l’uno nel 1816, l’altro nel 1843, allo sviluppo creativo del
risorgimento.

Entro l’intima dinamica di quell’impulso creativo deve anche essere


intesa la raccomandazione insistente del Di Breme, del Borsieri e del
Berchet che siano largamente conosciuti gli scrittori stranieri e considerati
non inferiori agli antichi classici e ai principali autori italiani. Quella
raccomandazione a tutta prima parrebbe essere in contrasto con
l’aspirazione all’originalità e al contrario la convalida.
L’intendimento, con cui quei polemisti vollero e promossero in Italia con
nuovo animo la conoscenza delle letterature straniere, se attentamente si
leggono i loro scritti, fu un atto di fede nelle possibilità geniali degli
Italiani, che il vieto pedantismo, attardantesi per servile inerzia e pigro
conformismo, aveva mortificato, ma non soffocato. Fu un atto di fede,
perché essi erano certi che gl’Italiani, uscendo dalle viete forme letterarie,
ormai esauste, ed entrando nel libero circolo dello spirito moderno, nel
quale nuovi sentimenti, nuove fantasie, nuove idee cercano la loro propria
espressione, avrebbero avuto nelle arti e nelle lettere una nuova splendida
fioritura di valore universale.
L’illusione che fosse valentia ormeggiare pedissequamente il passato
nelle parole, nella grammatica, nello stile, impediva di scendere nelle
profondità dell’anima italiana moderna. Romanticismo era modernità, anzi
contemporaneità, proprio perché era interiorità. La continuità nelle lettere
non sta mai nel ripetere stilisticamente il già detto, ma nell’essere nuovo
sentimento, nuova fantasia, nuovo pensiero in forma nuova; nell’essere di
età in età contemporanei, superando per vita intima e per ingegno l’età
stessa, di cui si è parte. Perciò l’Italia che serbava una vitalità tutta sua, per
risorgere doveva uscire dall’idolatria del passato, che la portava fuori della
contemporaneità, alla ricerca di modi che più non erano interiori, e la
straniava dalla vita europea, chiudendola nell’isolamento; doveva conoscere
le letterature straniere, non per imitarle, ma per essere se stessa nel mondo
moderno.
Le parole del Di Breme su questo punto non ammettono equivoco:
«Falso egli è che per quei consigli noi venghiamo stimolati a ricopiare gli
estranei nelle loro letterature; ci si stimola a conoscerle, ch’è ben tutt’altro;
ci viene modestamente suggerito di entrar con tutte le civili nazioni in
commercio quotidiano d’idee e di lumi, possentissimo espediente onde
riacquistare anche noi, per emula gara, una qualche lodevole originalità,
lungi dal farci perdere l’attuale, ove mai di attuale ne avessimo. Non sono
già le traduzioni assennate, imprese coll’intenzione di fornire agl’Italiani
nuova materia ognora di studio e di meditazione, e condotte in tutte le loro
parti con una profonda intelligenza delle due lingue, non sono queste le
traduzioni pericolose; pericolosa, funesta, corrompitrice d’ogni carattere e
d’ogni fisionomia nazionale è quell’altra continua e inosservata traduzione,
e diciam pure imitazione, che, senza che altri ne la consigliasse mai, noi
andiamo facendo da tanto tempo dei libercoli, dei modi, dei tratti, delle
fogge forestiere; quelle sono che invadono presso che inavvedutamente il
pensiero, i sensi, e quindi adulterano l’indole degli Italiani».
Per questa medesima fiducia nella fantasia creativa degl’Italiani i primi
nostri romantici stimolavano gli scrittori a rientrar nella vita del popolo, a
osservarne i costumi, a esprimerne i sentimenti e le passioni, a dirne la
poesia in modi che non fossero accessibili soltanto ai letterati, ma a tutti
coloro che avevano sentimento, immaginazione, gusto, disposizione nativa
e una certa preparazione generale a fermar l’animo nella poesia.
«A questi tutti — diceva il Berchet — io dò nome di popolo»: vale a dire
alla moltitudine degli «individui leggenti e ascoltanti, non eccettuati quelli
che, avendo anche studiato ed esperimentato quant’altri, pur tuttavia
ritengono attitudine alle emozioni». Escludeva dal popolo, che per lui
indicava la vasta classe del pubblico medio, coloro che sono reclusi nella
vita vegetativa e possono essere non solo scalzi (cioè, gente grossa del
volgo), ma anche calzati (cioè, individui, che, sebbene abbiano scarpe e
vesti, non escono dalla vita animale); ed escludeva i raziocinanti schifiltosi
per raffinatezza e sottigliezza, non privi d’ingegno, ma sminuiti nella
sensibilità poetica da «perpetui raziocini e confronti», leziosi per troppo
ingentilimento e propensi per gusto all’argutezza e all’epigrammatico.
Con la frase «poesia popolare» intendeva egli dunque una letteratura
poetica più vasta di quella che più propriamente oggi suol dirsi tale (canti di
poeti del popolo o pel popolo), e in essa includeva anche opere d’arte di alta
fantasia, «che sono l’espressione arditissima di tutto ciò che v’ha di più
fervido nell’umano pensiero» e, come tali, sono accessibili a quegli uomini
capaci di sentire poesia e aperti alla cultura, i quali — egli diceva — a
consolazione de’ poeti vi sono in ogni terra, in copia ora maggiore, ora
minore, ma tuttavia sufficiente sempre.
Quando l’artista consideri che la sua nazione non è composta di pochi
raffinati e leziosi e che «mille e mille famiglie pensano, scrivono, piangono,
fremono e sentono le passioni tutte, …. può essere che a lui si schiarisca
innanzi un altro orizzonte, può essere che egli venga accostandosi ad altri
pensieri ed a più vaste intenzioni», che, cioè, si volga a più sostanziosa
creazione, restando col sentimento e con la fantasia al centro della natura
umana.
Da queste pagine, in cui il Berchet lamenta che i lettori dalla mente
inquisitiva e desiderosi di un’arte eccentrica abbiano la «fantasia stracca»,
«il cuore allentato», «sciupata in gran parte la tendenza poetica», si deduce
che anch’egli, come il Di Breme, dà alle parole «sentimento,
immaginazione, fantasia», una virtù formativa, non solo negli autori, ma
anche nei lettori. Ma il Di Breme, che tra gli autori del 1816 è il più audace,
sale a più profonde induzioni, mostrando l’uomo compartecipe della
creazione stessa della natura, non nel senso del naturalismo posteriore, ma
in un senso spiritualistico: «…nella natura, in ogni età e per prima cosa,
rispetto all’uomo, v’ha l’uomo… La natura non ti ha già composto nella
mira che tu imitassi lei in quel solo modo che intendi [quello dei
classicheggianti]: ché anche tu sei la natura, e sei per di più il suo
interprete, il suo rivale nell’ordine morale, sensitivo e immaginoso; e ciò in
tutti i tempi del mondo…». Per lui imitare la natura non può avere che un
significato: «gareggiar con lei nella stessa creazione, tentando animosi le
regioni dell’infinito».
In questa conclusione, da lui considerata la più alta, i paradigmi
compassati della lingua ideologica vanno senz’altro per aria: «il focolare
delle lettere e delle arti è nel centro dell’anima e l’intelligenza umana è un
astro attivo e animatore, il quale presta alla natura circostante assai più di
quanto ne riceva».
Il vero volto del romanticismo dibremiano è qui. Anima tormentata, non
solo per le contraddizioni speculative ed empiriche e per le antinomie
filosofiche e religiose, tra cui si dibatté tutta la vita, ma sopra tutto per una
sensibilità che aveva dello spasmodico, per la coscienza di un insanabile
dissidio tra la realtà e il sogno, per un’inquietudine indefinita e vagante che
lo portava a passar ore e ore nella solitudine sul lago di Como, tra acqua e
cielo, ascoltando melodie sospirose ed eteree, che vanivano con lui
nell’azzurro e nell’infinito, ritenne la musica la prova più arcana che
l’uomo partecipi originalmente alla creazione superiore della natura: «La
musica non ha nessun modello da imitare; l’uomo, soltanto l’uomo, ne ha
ricevuto il segreto; egli solo può largire a se stesso questo insigne beneficio
che gli ha fatto la Divinità pietosa… La natura di quest’arte è tutta in noi».
Quindi, considerando che in fondo ogni artista originale, nel momento in
cui si affida all’ispirazione, trova in sé la natura della sua arte, cioè non
imita e non traduce che se stesso, intuì che il tono creativo della musica si
rinnova nell’ispirazione di ogni opera geniale e pose il segreto
dell’originalità in quel dono musicale interiore.
Quanta distanza tra «l’entusiasmo, generatore delle belle arti», che il
Bettinelli aveva divulgato in una celebre opera, ancora pregiata al principio
dell’Ottocento, e l’intima originalità creativa, indicata dal Di Breme!
Ora, se si ricorda che una delle caratteristiche del vero romanticismo, per
consenso di tutti i critici, sta proprio nell’interpretazione creativa della
musica, non si potrà negare che egli è in quest’argomento un vero
romantico.

Siamo così giunti al punto più profondo di quell’intima indagine.


Nelle pagine precedenti abbiamo dato evidenza alle contraddizioni
speculative ed empiriche, nelle quali il Di Breme si avvolse, per aver voluto
in alcuni casi conciliare romanticismo e ideologia razionalistica. Ma, come
è noto, innumerevoli contraddizioni sono state avvertite anche nei romantici
tedeschi, inglesi, francesi. Ora, nel definire i momenti più nuovi del modo
di sentire e del pensiero di Ludovico di Breme converrà seguire il metodo
che è stato applicato a quei romantici, non fondando il giudizio essenziale
sulle contraddizioni dottrinali ed empiriche, che nell’urto di tendenze e idee
sono spesso dovute alla dialettica contingente dello spirito in cerca di una
soluzione, ma sui punti originali, sciolti da quelle contraddizioni. Coloro
stessi che hanno dichiarato indefinibile per le sue contraddizioni il
romanticismo tedesco, in realtà, nel cercare di capirlo nei singoli romantici,
prescindono da esse e in vero sono giunti a indicazioni critiche importanti,
di primissimo ordine per chiunque voglia orientarsi nella tortuosa
controversia, che è trasmutevole quanto l’incessante divenire delle anime
romantiche. Questo metodo discriminativo, che tien conto di tutti gli
elementi, giudicandoli in sé e in correlazione delle contraddizioni stesse,
conduce a riconoscere con piena consapevolezza che il romanticismo
italiano esiste, che nei tre manifesti del 1816 erano già impliciti modi
caratteristici del romanticismo posteriore e che molti stati d’animo e
ardimenti ora sentimentali ora speculativi del risorgimento italiano non lo
contraddicono, ma partecipano di esso.
Il Borsieri e il Berchet, entrando nelle discussioni romantiche pochi mesi
dopo che il Di Breme aveva pubblicato il suo discorso in difesa della
Signora di Staël, resero omaggio al libero e cavalleresco romantico, che
dalla polemica sulle traduzioni si era sollevato al problema di tutta la
creazione artistica e a quello del rinnovamento totale dello spirito italiano.
Il vincolo che lega dall’intimo i tre opuscoli del 1816, sta nell’adesione al
concetto centrale della liberazione interiore. Quegli scritti, quasi per
convenzione, sogliono essere detti i tre primi proclami teorici del nostro
romanticismo; ma per i modi di trattazione e specialmente per la forma ora
discorsiva ora contenziosa, sarebbe più appropriato dirli, secondo
l’intendimento degli autori, «collocuzioni», o «polemiche», disputazioni o
inquisizioni sulla poesia e sulla letteratura, che non «proclami».
In realtà il Di Breme nel suo Discorso, inizialmente, si propose soltanto
di ribattere con «liberi sensi» alcuni ingiusti giudizi letterari italiani; il
Borsieri definì le sue Avventure letterarie di un giorno «Consigli di un
galantuomo a vari scrittori» e, sebbene abbia in alcuni capitoli una garbata e
sorridente intonazione dialogica, profuse e stemperò talora le sue
osservazioni in pagine prolisse, che nulla hanno del proclama; il Berchet,
prendendo le mosse dal Cacciatore feroce e dall’Eleonora di Goffredo
Augusto Bürger per mostrare la necessità vitale che la poesia sia popolare e
per segnar le differenze tra la poesia detta «classica» e quella «romantica»,
creò con l’immaginazione quel gran galantuomo di Grisostomo, che con
bonarietà paterna e sodezza ambrosiana scrive una lettera semiseria, nella
quale affida al figliuolo tutto quello che pensa della letteratura italiana,
trapassata e contemporanea.
Ma la parola «proclami» è prevalsa nella dicitura comune, perché in
realtà quegli scritti, giungendo sotto le forme discorsive e polemiche alla
formulazione di un pensiero centrale sulla necessità di rinnovare
romanticamente la nostra letteratura, hanno finito con essere i primi
«manifesti» dottrinali del romanticismo italiano. Perciò abbiamo accolto
questa designazione sintetica nel titolo del libro, che per la prima volta
insieme li commenta, quasi a mostrare che essi, per aver delineato l’animo e
la mente dei primi nostri romantici tra l’illuminismo e l’idealismo, tra
letteratura di classe e letteratura per la vita, tra poesia per i dotti e poesia per
il popolo, non sono stati indegni di segnare una data nella storia dello
spirito italiano.
Il Conciliatore, due anni dopo, sia ne’ suoi ondeggiamenti tra
illuminismo e idealismo, che sono la parte più debole del periodico, sia
nell’esaltazione risoluta dell’impulso creativo, che è la parte più forte, sia
nelle pagine di «buon senso», conversevoli e semiserie, che stilisticamente
hanno un valore molto disuguale, reca spesso l’accento dei tre manifesti;
ma ha minor impeto d’assalto, volendo essere per definizione più
conciliante e proponendosi di sommovere tutti i campi della vita italiana per
studio di bene e carità di patria.

Si direbbe che il programma, passando dai tre manifesti, esclusivamente


letterari, al Conciliatore, che ha direttive più generali e trasforma spesso il
Di Breme, il Borsieri, il Berchet e altri letterati in poligrafi, guadagni in
estensione, ma perda in profondità. Perciò, come abbiamo già accennato, il
titolo stesso Conciliatore, con cui i primi romantici, a detta del Pellico, si
proposero di conciliare «tutti i sinceri amatori del vero», vien considerato
da molti come una preliminare negazione di romanticismo, più grave del
compromesso tra illuminismo e spirito romantico, che sta sullo sfondo dei
tre proclami. Carattere prevalente del foglio azzurro sarebbe l’empirismo
benefico, individuale e sociale, patriottico e umanitario. Gli scritti stessi sul
romanticismo, da esso pubblicati, quali l’articolo del Romagnosi, Della
poesia considerata rispetto alle diverse età delle nazioni, che suscitò
l’aperto dissenso del Berchet, e il saggio di Ermes Visconti, Idee elementari
sulla poesia romantica, sono, a giudizio di tutti, di gran lunga inferiori, pel
tono e per le idee, ai tre manifesti del 1816, quasi sia avvenuto un
annebbiamento o una diminuzione della vera idea romantica per amor di
genericità.
È vero: Il Conciliatore rappresenta spesso una media di idee meno
avanzate di quelle esposte nei tre proclami. Ma non vi è affatto negli autori
dei tre manifesti un oscuramento o uno sminuimento delle loro idee
romantiche, sebbene partecipino a discussioni sulla contrapposizione dei
nomi classico e romantico, i quali non tutti persuadono, sebbene per
l’allargamento del programma si valgano di idee illuministiche ancor vive e
operanti, sebbene, per agire sui lettori, ricorrano spesso a un buon senso
comune, che non ha nulla a che fare col romanticismo.
Con deliberato proposito essi accolsero il nome Conciliatore e diedero al
periodico il motto Rerum concordia discors, perché erano persuasi che in
alcuni momenti il tentar una conciliazione sia ragione di vita. Nel
collaborare al Conciliatore in ultima analisi nessuno di essi rinunziò alle
proprie tendenze romantiche né a quelle idee illuministiche, che essi
credevano potessero convivere col romanticismo; riconobbero soltanto che,
date le contingenze, tra le quali si deve di volta in volta pensare e agire, la
discussione delle idee e gl’intendimenti sociali possono portare,
specialmente in un periodico di carattere generale, a intonazione più larga, a
divulgazione più popolare, a una comprensione più vasta dei legami che
ognuno ha con modi mentali dell’immediato passato e del presente.
Perciò Il Conciliatore dev’essere letto come un’opera periodica che sta
per se stessa, con un suo meditato programma, il quale ha addentellati con i
manifesti del 1816, con l’alacre Biblioteca oltremontana e piemontese, in
cui i Filopatridi, illuministi e antilluministi, avevano trattato di filosofia
sociale e di studi generosi del bello, col Caffè verriano, sempre vivo nella
memoria dei lombardi; ma ha una sua fisionomia e i suoi intendimenti,
palesi e segreti, da 1818 e 1819, cioè rispondenti alle condizioni mentali, in
cui versava l’Italia nel grigio periodo che precede i moti del 1820 e del
1821.
Il poter riguardare molti modi di quella rivista divulgatrice come
oltrepassati significa soltanto che si è andati molto innanzi e che noi
abbiamo forme mentali diverse; ma il fatto che il governo austriaco
sottopose ad assillante censura il periodico e cercò di renderne impossibile
la vita, dimostra che allora per sentimenti e idee Il Conciliatore era, come
oggi si dice, «attuale» ed esercitava quell’efficacia rinnovatrice, nella quale
i fondatori e i collaboratori avevano sperato.
Amore dell’Italia è una delle parole che più spesso si incontrano nei
manifesti del 1816 e in altri scritti di quei primi romantici. Il Di Breme, che
un rapporto della polizia austriaca indicava come lo spirito inquieto, che
aveva animato l’impresa del Conciliatore, si consumò prima di poter
attestare anche con l’azione quell’amore. Ma per quell’amore il Borsieri
patì lo Spielberg; il Berchet andò per le dure vie dell’esilio.
L’immagine del trovatore d’Italia, che va, disfiorato dal dolore, percosso
dalla fortuna, lontano dal suo amore ed ha la morte nel cuore, per l’ardito
volo delle Fantasie e il canto errante delle romanze non potrà più essere
cancellata dalla storia del romanticismo con nessun sottile e ingegnoso
ragionamento filosofico o letterario. Il Berchet, che dei tre autori del 1816
era il solo veramente poeta, ponendosi a fianco dei «viandanti alla ventura»,
mostra ancora in atto uno dei più alti momenti lirici del romanticismo
italiano.

1. Emanuele del Pozzo, principe della Cisterna.


NOTA BIBLIOGRAFICA

Discussioni e polemiche sul romanticismo (1816-1826) a cura di Egidio


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Liceo-Ginnasio Giovanni Berchet, Milano, Tipografia Grafica, 1951.
[Contiene: Prefazione di Joseph Colombo, pp. 5-7; ALFREDO GALLETTI,
Giovanni Berchet (nel centenario della morte), pp. 9-30; ETTORE ROTA,
Il pensiero politico di Giovanni Berchet, pp. 31-73; ARTURO
CODIGNOLA, Un accorato appello di Giovanni Berchet al Governo di
Carlo Alberto, pp. 77-85; FRANCESCO LUIGI MANNUCCI, Berchet e
Mazzini, pp. 87-100; ROBERT VAN NUFFEL, Esercizi linguistici e
traduzioni inedite di Giovanni Berchet, pp. 101-143; VITTORE PISANI,
Giovanni Berchet e la Čakuntala di Kalidasa, pp. 145-154; ANTONIO
GASPARETTI, Giovanni Berchet traduttore delle romanze spagnole, pp.
155-170; ZELMIRA ARICI, Giovanni Berchet e Costanza Arconati
Visconti. Anni di esilio e di attesa (1821-1838), pp. 171-200;
GIUSEPPINA BERTONI, Tradizione di generosità e di amor patrio nella
famiglia di Costanza Arconati, pp. 201-220; VIRGINIA MONZINI,
Manzoniane cautele, pp. 221-233; CARLO CORDIÉ, Don Ciccione della
Mamma detto l’«Estatico», pp. 235-254; BENEDETTO CROCE, Poesia del
Berchet, pp. 255-262; ENZO PETRINI, Lingua e poesia in Giovanni
Berchet, pp. 263-278; MARCELLO AURIGEMMA, Poetica linguistica e
linguaggio artistico di Giovanni Berchet, pp. 279-303; ITALO BERTELLI,
Le poesie giovanili di Giovanni Berchet, pp. 305-335; MARIO FUBINI,
Stile critico del Berchet, pp. 337-357; ALDO VALLONE, Il trapasso
dall’Illuminismo al Romanticismo nel «Conciliatore», pp. 359-385;
NATALE CACCIA, L’episodio di Parga in alcuni componimenti poetici
francesi ed inglesi, pp. 387-417; EMILIO SIOLI LEGNANI, Il «Saluto
all’Italia il 6 aprile 1848» non è del Berchet, pp. 419-427; MARIO
MARCAZZAN, Lettera al Preside del Liceo Berchet, pp. 435-441].
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italiano di filologia», X, 1957, pp. 85-87; di Guido Bezzola, in
«Giornale storico della letter. ital.», vol. CXXXIV, 1957, pp. 424-427;
di Marco Pecoraro, in «Lettere moderne», IX, 1957, pp. 307-318; di
Alberto Cento, in «Belfagor», a. XIII, 1958, pp. 495-499].
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ADOLFO JENNI, Italiani all’Istituto Fellenberg di Hofwil, Berchet mancato
insegnante in Svizzera e due sue lettere inedite, in «Giornale storico
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AURELIO LEPRE, Mito e realtà nelle polemiche del Berchet, in «Belfagor»,
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«Conciliatore»

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citato più innanzi.
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1818 e prelude alla pubblicazione del Conciliatore), in «Fiera
Letteraria», 25 luglio 1946.
Il Conciliatore, Foglio scientifico-letterario, a cura di Vittore Branca,
Firenze, Le Monnier, 1948-1954, 3 voll., accurata edizione con
importante prefazione.
Del Conciliatore a cura di Vittore Branca è apparsa la ristampa stereotipa
nel 1965 (Firenze, Le Monnier). Delle molte recensioni ricordiamo
quelle di FRANCESCO FATTORELLO, in «Rassegna storica del
Risorgimento», gennaio-giugno 1949; ERNESTO ARTOM, in «Il
Risorgimento», I, 1949; CARLO CORDIÉ, in «Archivio Storico
Lombardo», S. VIII, II, 1950; ROBERT VAN NUFFEL, in «Les lettres
romanes», IX, 1955; FIORENZO FORTI, in «Giornale storico della letter.
ital.», CXXXII, 1950, pp. 262 sgg.; ETTORE MAZZALI, in «La Rassegna
della letter. ital.», 1954, pp. 440-443; FOLCO PORTINARI in «Lettere
italiane», VI, 1954, pp. 312-314; FRANCIS DEBYSER, in «Revue de
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RICCARDO MASSANO, Silvio Pellico «milanese», in Studi critici offerti dagli
scolari a Giovanni Getto nel suo ventesimo anno di insegnamento
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DOMENICO CONSOLI, Ermes Visconti fra dottrina e critica, in «Giornale
italiano di filologia», N. S., VII [XXVIII], 1, 1976, pp. 19-83.
Altre copiose notizie sulla formazione del primo romanticismo italiano
possono essere vedute nel vol. Il nostro imminente risorgimento, Torino,
Soc. Editr. Internaz., 1935; nel profilo di Tommaso Valperga di Caluso, che
fa parte del vol. I Filopatridi, ivi, 1941; nell’introduzione «Dalla Filopatria
al romanticismo», premessa al vol. Le Adunanze della «Patria Società
Letteraria», ivi, 1943; nel libro Il Parnaso in rivolta, Milano, Mondadori,
1940; nella rassegna Denina, del «Giornale stor. della letter. ital.», CIII,
1934; nel saggio Dal Denina al Di Breme, Extrait du Recueil des Mélanges
Hauvette, Paris, Les Presses Françaises, 1934; nella rassegna Gli studi
italiani sul Settecento nel primo trentacinquennio del secolo XX, edita a
Roma dal periodico «Cooperazione intellettuale», IV-V, 1936-1937; nel
saggio La letteratura italiana veduta da un condillachiano (Carlo Castone
della Torre di Rezzonico), in «Convivium», 1947, n. 3; nel saggio
Sull’origine della parola «Risorgimento», ivi, 1947, n. 1; nella rassegna al
libro di Ernesto Pontieri, Nei tempi grigi della storia d’Italia, Saggi storici
sul predominio straniero in Italia (Napoli, Morano, 1949), apparsa nel
«Giornale stor. della letter. ital.», vol. CXXVII, e nella Rassegna
settecentesca (giansenismo), ivi, vol. CXXVI, pp. 383-400.
Né si dimentichino le pagine sul Di Breme, sulla Staël, sul Borsieri, sul
«Conciliatore», sull’Alfieri, sul Caluso, che si leggono nel vol. Lettere
inedite di LUIGIA STOLBERG CONTESSA D’ALBANY a Ugo Foscolo e
dell’abate LUIGI DI BREME alla Contessa d’Albany pubblicate da Camillo
Antona-Traversi e da Domenico Bianchini, Roma, Euseo Molino Editore,
1887, e nel saggio di DINA LANFREDINI, M.me de Staël e i suoi amici italiani,
in «Rivista di letterature moderne», a. I, 1946, e a. II, 1947, Asti-Firenze, i
numerosi accenni al Di Breme nel libro di P. P. TROMPEO, Nell’Italia
romantica sulle orme di Stendhal, Roma, Casa Ed. «Leonardo da Vinci»,
1924; e, per il senso ideale, le due raccolte di saggi: LUIGI AMBROSINI,
Cronache del Risorgimento e scritti letterari, Milano-Roma, Soc. Edit. «La
Cultura», 1931; FILIPPO BURZIO, Anima e volti del Piemonte, Torino,
Edizioni Palatine, 1947.
In questo volume i tre manifesti romantici del 1816 e gli scritti principali
del Conciliatore sul romanticismo sono adunati la prima volta, per
mostrarne il nucleo sostanziale, le consonanze e le differenze; e sono
commentate la prima volta le Avventure letterarie di un giorno del Borsieri,
finora troppo trascurate dalla critica.
AL LETTORE. — Nei Manifesti del 1816 le note contrassegnate con una
lettera minuscola dell’alfabeto (a, b, c, d…) sono dei singoli autori.
M.me DE STAËL
L’articolo di M.me De Staël De l’esprit des traductions, tradotto da
Pietro Giordani, apparve col titolo Sulla maniera e la utilità delle traduzioni
nella «Biblioteca Italiana» (tomo I, gennaio 1816, pp. 9-18). Sulle bozze fu
soppressa questa chiusa:
«Il presente Governo sente manifestamente quanto sia necessario
dirizzare gli ingegni alle lettere, alle belle arti, alle scienze. Il conte di
Saurau, governatore della Lombardia, in un discorso recitato pubblicamente
disse che era debito de’ governanti dar coraggio agli intelletti ed aiutare gli
studi. Sentenza onoratissima e memorabile, degna che si accolga, degna che
si ripeta. Il maresciallo conte di Bellegarde, generale d’insigne merito,
poteva (come sogliono i gloriosi nelle armi) volere unicamente comandare
ed essere ubbidito: e nondimeno quando fu capo dell’amministrazione
civile mostrò in quanto pregio avesse le arti di pace e quanto gli piacesse di
usar la vittoria non per superbia ma per sicurezza alla tranquillità futura de’
popoli. Abbraccino gli Italiani queste fortunate condizioni e ne facciano suo
profitto; non lascino invilire il loro bel paese: ma seguitino di farlo stimare
ed amare dall’Europa, camminando vigorosamente negli studi, solo
cammino onorato che rimanga a nazioni disarmate e divise».
Il Luzio, pubblicando questo brano (G. Acerbi e la «Biblioteca Italiana»,
in «Nuova Antologia», LXVI, 1896, pp. 594-595; l’art, fu poi accolto nel
vol. Bozzetti di storia letteraria e politica, Milano, Cogliati, 1910, pp. 1
sgg.), osservava come «lo scaltro Saurau, che aveva colto con piacere
l’occasione portagli dalla Staël di battere in breccia i pregiudizi italiani
sull’inferiorità intellettuale de’ Tedeschi, non volle che queste ultime linee
scoprissero troppo il suo gioco e urtassero le suscettibilità nazionali».
«Come è noto, l’articolo della Staël sollevò vive recriminazioni e allora
la «Biblioteca Italiana» nel fascicolo d’aprile tentò di gettar acqua sul fuoco
con uno scritto (anonimo, ma certamente di Pietro Giordani, il quale aveva
tradotto l’articolo De l’esprit des traductions), intitolato: Sul Discorso di
Madama di Staël - Lettera di un Italiano ai Compilatori della Biblioteca
Italiana. Mad. de Staël replicò nel fascicolo di giugno con una Lettera ai
sig. compilatori della Biblioteca Italiana, che la rivista dichiarò di
pubblicare «secondo il desiderio della celebre autrice, rigorosamente
tradotta» (per motivi di stile non credo che l’anonimo traduttore sia stato
questa volta il Giordani; ma l’Acerbi). Cfr. A. LUZIO, G. Acerbi ecc., cit.;
M. BARBI, Giordani o Gherardini contro M.me de Staël?, in Scritti vari di
erudizione e di critica in onore di R. Renier, Torino, Bocca, 1912.
L’articolo della Staël sulle traduzioni apparve innanzi tutto nella versione
italiana, pubblicata dalla Biblioteca. La scrittrice, che era stata invitata
direttamente dall’Acerbi a collaborare, aveva proposto altri scritti; ma,
disgustata dalle polemiche suscitate dal primo e resa diffidente dal contegno
dell’Acerbi, che dirigeva il periodico, dopo aver mandato la Lettera ai
compilatori della Biblioteca Italiana, apparsa nel fascicolo di giugno, non
pubblicò ivi altri articoli e consentì col Di Breme, col Borsieri, con i primi
nostri romantici nel giudizio sulla Biblioteca Italiana» (Calcaterra).
L’articolo nella veste italiana fu pubblicato in PIETRO GIORDANI, Opere,
Firenze, Le Monnier, 1846, vol. I, pp. 258 sgg.; fu poi incluso nella silloge
Discussioni e polemiche sul Romanticismo, a cura di Egidio Bellorini (Bari,
Laterza, 1943, vol. I, pp. 3 sgg.). L’originale francese lo si veda in M.ME DE
STAËL, Opere scelte, con introduz. e note di Carlo Pellegrini, Bologna,
Zanichelli, 1925, pp. 164 sgg.
Il testo che qui presentiamo è esemplato su quello del primo fascicolo
della Bibl. Ital.
Agli studi sul Romanticismo indicati nella bibliografia, che contengono
riferimenti più o meno ampi a questo articolo, si aggiungano: Madame de
Staël et l’Europe, Colloque de Coppet 18-24 juillet 1966, Paris, Editions
Klincksieck, 1970; RICCARDO MASSANO, Finalità e caratteri del tradurre
nel pensiero dei primi romantici italiani, Torino, Accademia delle Scienze,
1960; e le citate edizioni delle Lettere milanesi del Pellico e delle Lettere di
L. di Breme.
Sulla Biblioteca Italiana si veda l’importante articolo di ROBERTO
BIZZOCCHI, La «Biblioteca Italiana» nelle polemiche linguistiche e
letterarie del primo Ottocento, in «Giornale stor. della lett. it.», CLIII,
1976, pp. 321-375.

Trasportare da una ad altra favella le opere eccellenti dell’umano ingegno


è il maggior benefizio che far si possa alle lettere; perché sono sì poche le
opere perfette, e la invenzione in qualunque genere è tanto rara, che se
ciascuna delle nazioni moderne volesse appagarsi delle ricchezze sue
proprie, sarebbe ognor povera: e il commercio de’ pensieri è quello che ha
più sicuro profitto.
I dotti e anche i poeti, in quella età che gli studi risorsero, pensarono a
scriver tutti in una medesima lingua, cioè latino, perché non volevano che
ad essere intesi lor bisognasse di venire tradotti. Il che poteva giovare alle
scienze, le quali non cercano le grazie dello stile per esprimere i loro
concetti. Ma da ciò accadde che il più degl’Italiani ignorasse quanta dovizia
di scienze abbondasse nel paese loro, perché il maggior numero di quelli
che potevano leggere non sapeva latino. E d’altra parte, per adoperare
questa lingua nelle scienze e nella filosofia bisogna creare vocaboli che ne’
romani scrittori ci mancano. Laonde i dotti d’Italia venivano ad usare una
lingua che era morta, e non antica. I poeti non uscivano dalle parole né dalle
dizioni de’ classici: e l’Italia, udendo tuttavia sulle rive del Tevere e
dell’Arno e del Sebeto e dell’Adige la favella de’ Romani, ebbe scrittori che
furono stimati vicini allo stile di Virgilio e di Orazio, come il Fracastoro1, il
Poliziano2, il Sannazaro3: dei quali però se non è oggidì spenta la fama,
giacciono abbandonate le opere, che dai soli molto eruditi si leggono: tanto
è scarsa e breve la gloria fondata sulla imitazione. E questi poeti di
rinnovata latinità furono rifatti italiani dai lor concittadini: perocché è opera
di natura che la favella, che è compagna e parte continua di nostra vita, sia
anteposta a quella che da’ libri s’impara, e si trova solamente ne’ libri.
So bene che il miglior mezzo per non abbisognare di traduzioni sarebbe il
conoscere tutte le lingue nelle quali scrissero i grandi poeti, greca, latina,
italiana, francese, spagnuola, inglese, tedesca. Ma quanta fatica, quanto
tempo, quanti aiuti domanda un tale studio! Chi può sperare che tanto
sapere divenga universale? e già all’universale dée por cura chi vuol far
bene agli uomini. Dirò di più: se alcuno intenda compiutamente le favelle
straniere, e ciò non ostante prenda a leggere nella sua propria lingua una
buona traduzione, sentirà un piacere per così dire più domestico ed intimo
provenirgli da que’ nuovi colori, da que’ modi insoliti, che lo stil nazionale
acquista appropriandosi quelle forestiere bellezze. Quando i letterati d’un
paese si vedono cader tutti e sovente nella repetizione delle stesse imagini,
degli stessi concetti, de’ modi medesimi; segno è manifesto che le fantasie
impoveriscono, le lettere isteriliscono: a rifornirle non ci è migliore
compenso che tradurre da poeti d’altre nazioni.
Nella quale opera, acciocch’ella sia profittevole, guardiamoci dall’usanza
francese di tramutar sì le cose altrui che della origine loro niente si ravvisi.
Colui che mutava in oro ogni cosa che toccasse, non trovò più cosa che lo
nutrisse. Né da quella perversa maniera di traduzioni caverebbe alimento il
pensiero: né apparirebbe novità nelle cose pur di lontano cercate; poiché si
vedrebbe ognora la stessa faccia, con poca varietà di ornamenti. Ma questo
error de’ Francesi ha molte scuse: l’arte dei versi appo loro è piena di
malagevolezze: rarità di rime; non diversità di metri; difficoltà d’inversioni:
il povero poeta è chiuso in giro sì angusto, che di necessità egli dèe ricadere
se non sopra gli stessi pensieri, almeno sopra emistichi somiglianti; e la
struttura de’ versi prende naturalmente una monotonia noiosa; dalla quale
può bene talora liberarsi l’ingegno quando più s’alza ne’ suoi voli, ma non
quando cammina per così dire sul piano, e passa d’uno in altro argomento, e
spiega il suo concetto, e raccoglie le sue forze, e prepara i suoi colpi.
Sono perciò rare tra’ Francesi le buone traduzioni poetiche; eccetto le
Georgiche volgarizzate dall’abate De-Lille4. I nostri traduttori imitan bene;
tramutano in francese ciò che altronde pigliano, cosicché noi sapresti
discernere: ma non trovo opera di poesia che faccia riconoscere la sua
origine, e serbi le sue sembianze forestiere: credo anzi che tale opera non
possa mai farsi. E se degnamente ammiriamo la georgica de l’abate De-
Lille, n’è cagione quella maggior somiglianza che la nostra lingua tiene
colla romana onde nacque, di cui mantiene la maestà e la pompa. Ma le
moderne lingue sono tanto disformi dalla francese, che se questa volesse
conformarsi a quelle, ne perderebbe ogni decoro.
Gl’Inglesi, tanto più liberi di noi e nel comporre i versi e nel rivoltare le
frasi, avrebbero potuto arricchirsi di traduzioni fatte con esattezza e
naturalezza; se non che i primi autori di quella nazione ricusarono tale
fatica: e il Pope5 (che è pur l’unico) ha cavato due bei poemi dall’Iliade e
dalla Odissea; ma non ritenne punto di quell’antica semplicità, nella quale
sentiamo l’efficacia e l’arcana potenza dello stile d’Omero.
E per verità non è verisimile che per tremila anni l’ingegno d’Omero sia
rimasto superiore a tutti gli altri poeti. Ma nelle tradizioni, ne’ costumi,
nelle opinioni, in tutte le sembianze di quel tempo omerico, ci è qualche
cosa di primitivo che insaziabilmente diletta: ci è un principio del genere
umano, una gioventù de’ secoli, che leggendo Omero ripete ai nostri animi
quell’affezione di che ognora ci commove il rimembrare della nostra
fanciullezza: e questo interno commovimento, che si mescola colle imagini
dell’aureo secolo, fa che il più antico de’ poeti sia da noi anteposto a tutti
gli altri poeti. Che se alla composizione omerica togli quella semplicità di
un mondo che incomincia, ella non è più singolare, e diviene comune.
In Germania si è voluto da molti eruditi che le opere d’Omero non
fossero composte da un solo6; e che l’Iliade e l’Odissea fossero una raccolta
di canti diversi, coi quali si celebrava in Grecia il conquisto di Troia, e ’l
ritorno de’ vincitori. A me pare che a questa opinione si possa facilmente
contraddire; e che l’unità di concetto della Iliade non conceda il credere
quella diversità e di scrittori e di tempi. Perché proporre unicamente di
cantare lo sdegno d’Achille? I fatti seguenti, e sopra tutto la presa di Troia
ond’ebbe fine la guerra, doveano naturalmente esser subietto a quelle
rapsodie che si dicono da diversi autori composte, e doveano divenir parte
di quel poema che s’intitola da Troia. Ora lo eleggere fra tanti casi uno solo,
cioè la collera di Achille, e intorno a quello ordinare tanti accidenti che un
poema comprende, è disegno che una sola mente può immaginare e
colorire. Né io perciò voglio qui disputare d’una sentenza, che a mantenerla
o a combatterla vorrebbe una erudizione spaventevole: dico solamente che
della principale grandezza di Omero dèe tenersi partecipe il suo secolo;
poiché fu pur creduto che molti poeti di quella età avessero contribuito alla
Iliade. E ciò si aggiunga agli altri argomenti che c’inducono a credere che
quel poema è come uno specchio, nel quale si rappresenta il genere umano
già pervenuto a un certo segno di civiltà e quell’opera è suggellata più dal
carattere comune del secolo, che dal proprio dell’autore.
Non bastò ai Tedeschi d’investigare dottamente l’esistenza di Omero:
vollero che divenisse loro cittadino. E la traduzione del Voss7 è riputata
somigliar l’originale più di qualunque siasi fatta in altro linguaggio; perché
egli adoperò il ritmo degli antichi: e affermano che il suo esametro tedesco
seguita di parola in parola l’esametro greco. Io credo che tale traduzione sia
efficacissima a farci precisamente conoscere il poema antico; ma dubito che
abbia potuto travasarsi nella lingua tedesca tutto intero quel poetico, che le
regole non insegnano, e gli studj non imparano. Rimarranno le quantità
sillabiche; ma l’armonia de’ suoni come può essere la medesima? La poesia
tedesca perde il suo naturale suono, premendo di passo in passo le orme del
greco; né per tanto può intonare quel verso musicale che si cantava sulla
lira.
Tra tutte le moderne lingue l’italiana è la più acconcia per imprimere tutti
i sentimenti e gli affetti dell’Omero greco. Ella veramente non ha lo stesso
ritmo: né l’esametro può capire nelle lingue che oggidì si parlano; poiché le
sillabe lunghe e le brevi non hanno punto di quella misura che appo gli
antichi le notava8. Nondimeno dalle parole italiane risulta un’armonia alla
quale non bisognano spondei né dattili; e la costruzione grammaticale di
quella lingua è capace di una perfetta imitazione de’ concetti greci. Ne’
versi sciolti il pensiero, nulla impedito dalla rima, scorre liberamente come
nella prosa, serbando tuttavia la grazia e la misura poetica.
L’Europa certamente non ha una traduzione omerica, di bellezza e di
efficacia tanto prossima all’originale, come quella del Monti9: nella quale è
pompa ed insieme semplicità le usanze più ordinarie della vita, le vesti, i
conviti acquistano dignità dal naturale decoro delle frasi: un dipinger vero,
uno stile facile ci addomestica a tutto ciò che ne’ fatti e negli uomini
d’Omero è grande ed eroico. Niuno vorrà in Italia per lo innanzi tradurre la
Iliade; poiché Omero non si potrà spogliare dell’abbigliamento onde il
Monti lo rivestì: e a me pare che anche negli altri paesi europei chiunque
non può sollevarsi alla lettura d’Omero originale, debba nella traduzione
italiana prenderne il meglio possibile di conoscenza e di piacere. Non si
traduce un poeta come col compasso si misurano e si riportano le
dimensioni d’un edificio; ma a quel modo che una bella musica si ripete
sopra un diverso istrumento: né importa che tu ci dia nel ritratto gli stessi
lineamenti ad uno ad uno, purché vi sia nel tutto una eguale bellezza.
Dovrebbero a mio avviso gl’Italiani tradurre diligentemente assai delle
recenti poesie inglesi e tedesche; onde mostrare qualche novità a’ loro
cittadini, i quali per lo più stanno contenti all’antica mitologia: né pensano
che quelle favole sono da un pezzo anticate, anzi il resto d’Europa le ha già
abbandonate e dimentiche. Perciò gl’intelletti della bella Italia, se amano di
non giacere oziosi, rivolgano spesso l’attenzione di là dall’Alpi, non dico
per vestire le fogge straniere, ma per conoscerle; non per diventare
imitatori, ma per uscire di quelle usanze viete, le quali durano nella
letteratura come nelle compagnie i complimenti, a pregiudizio della
naturale schiettezza. Che se le lettere si arricchiscono colle traduzioni de’
poemi; traducendo i drammi si conseguirebbe una molto maggiore utilità
poiché il teatro è come il magistrato della letteratura. Shakspear tradotto
con vivissima rassomiglianza dallo Schlegel10, fu rappresentato ne’ teatri di
Germania, come se Shakspear e Schiller fossero divenuti concittadini. E
facilmente in Italia si avrebbe un eguale effetto; poiché i drammatici
francesi tanto si accostano all’italiano quanto Shakspear al tedesco: né
parmi a dubitare che sul bel teatro milanese non fosse gradita l’Atalìa11, se i
cori fossero accompagnati dalla stupenda musica italiana. Mi si dirà che in
Italia vanno le genti al teatro, non per ascoltare, ma per unirsi ne’ palchetti
gli amici più famigliari e cianciare. E io ne conchiuderò che lo stare ogni dì
cinque ore ascoltando quelle che si chiamano parole dell’opera italiana, dèe
necessariamente fare ottuso, per mancanza di esercizio, l’intelletto d’una
nazione. Ma quando Casti componeva i suoi drammi comici12, e quando
Metastasio adattava così bene alla musica que’ suoi concetti nobilissimi e
graziosissimi, non era minore il divertimento, e molto profitto ne faceva
l’intelletto. In questa continua ed universale frivolezza di tutte le pubbliche
e private radunanze, dove ognuno cerca l’altrui compagnia per fuggire sé
stesso e liberarsi da un grave peso di noia, se voi poteste per mezzo a’
piaceri mescere qualche util vero, e qualche buon concetto, porreste nelle
menti un poco di serio e di pensoso, che le disporrebbe a divenir buone per
qualche cosa.
Havvi oggidì nella Letteratura italiana una classe di eruditi che vanno
continuamente razzolando le antiche ceneri, per trovarvi forse qualche
granello d’oro: ed un’altra di scrittori senz’altro capitale che molta fiducia
nella lor lingua armoniosa, donde raccozzano suoni vôti d’ogni pensiero,
esclamazioni, declamazioni, invocazioni, che stordiscono gli orecchi, e
trovan sordi i cuori altrui, perché non esalarono dal cuore dello scrittore.
Non sarà egli dunque possibile che una emulazione operosa, un vivo
desiderio d’esser applaudito ne’ teatri, conduca gl’ingegni italiani a quella
meditazione che fa essere inventori, e a quella verità di concetti e di frasi
nello stile, senza cui non ci è buona letteratura, e neppure alcuno elemento
di essa?
Piace comunemente il dramma in Italia: e degno è che piaccia sempre
più, divenendo più perfetto e utile alla pubblica educazione: e nondimeno si
dèe desiderare che non impedisca il ritorno di quella frizzante giocondità
onde per l’addietro era sì lieto. Tutte le cose buone devono essere tra sé
amiche.
Gl’Italiani hanno nelle belle arti un gusto semplice e nobile. Ora la parola
è pur una delle arti belle, e dovrebbe avere le qualità medesime che le altre
hanno: giacché l’arte della parola è più intrinseca all’essenza dell’uomo; il
quale può rimanersi piuttosto privo di pitture e di sculture e di monumenti,
che di quelle imagini e di quegli affetti ai quali e le pitture e i monumenti si
consacrano. Gl’Italiani ammirano ed amano straordinariamente la loro
lingua, che fu nobilitata da scrittori sommi: oltreché la nazione italiana non
ebbe per lo più altra gloria, o altri piaceri, o altre consolazioni se non quelle
che dava l’ingegno. Affinché l’individuo disposto da natura all’esercizio
dell’intelletto senta in sé stesso una cagione di mettere in atto la sua
naturale facoltà, bisogna che le nazioni abbiano un interesse che le muova.
Alcune l’hanno nella guerra, altre nella politica: gl’Italiani deono acquistar
pregio dalle lettere e dalle arti; senza che giacerebbero in un sonno oscuro,
d’onde neppur il sole potrebbe svegliarli.

a. Questo articolo è della celebre baronessa di Staël. La sua gentilezza si è compiaciuta di farne
dono ed onore alla Biblioteca Italiana: e noi nel dare la traduzione del nobile suo discorso
intendiamo di far cosa grata ad ogni lettore, e di render pubblica la nostra riconoscenza.

1. Il veronese Girolamo Fracastoro (1478-1553), medico, filosofo, elegante poeta in latino. Fu


autore dei poemetti Syphilis sive de morbo gallico (Verona, 1530), Alcon seu de cura canum
venaticorum, Joseph; della raccolta di liriche Carmina. Allievo del Pomponazzi, amico e compagno
di Copernico, medico del Concilio di Trento, compose anche importanti opere scientifiche e
filosofiche. Appunto perché veronese, vissuto quasi sempre nella sua città natale, M.me de Staël ha
menzionato l’Adige.
2. Il Poliziano è citato per la sua produzione poetica in latino, comprendente epigrammi, elegie,
odi — modellate su Catullo, Tibullo, Orazio, Ovidio —, e le Sylvae (Manto, Rusticus, Ambra,
Nutricia), prolusioni in versi ai suoi corsi allo Studio fiorentino.
3. Il Sannazaro latino, autore delle Eclogae piscatoriae, del De partu Virginis, delle Elegie e degli
Epigrammi. Il Sebeto, citato poco prima, è un fiumicello che scorre alla periferia di Napoli, famoso
nella tradizione poetica per essere stato celebrato da Virgilio, Columella, Stazio, Pontano, Sannazaro,
ecc.
4. La traduzione delle Georgiche di Jacques Delille apparve sul finire del 1769 ed ottenne
immediatamente un grande successo: Voltaire propose la elezione del Delille all’Accademia di
Francia per il merito di questa traduzione. Sainte-Beuve scrisse che «Les Géorgique furent sur les
toilettes comme un volume de l’Encyclopédie ou comme le livre de l’Esprit» e aggiunge che Delille
«a d’ailleurs, dans sa traduction, le mérite de l’élégance, telle qu’on l’entend vulgairement, le mérite
aussi de la continuité et de la longueur de la tâche, et enfin celui d’avoir fait connaître agréablement
aux femmes et à une quantité de gens du mond un beau poëme qui n’etait pas lu» (Oeuvres, Paris,
N.R.F., 1951, vol. II. p. 73).
5. La traduzione dell’Iliade di Alexander Pope apparve tra il 1715 e il ’20; quella dell’Odissea (per
la quale fu aiutato da due eruditi di Cambridge, Broome e Fenton) tra il ’23 e il ’25. Il giudizio della
Staël ricalca quello del Cowper: «non c’era cosa al mondo di cui Pope fosse più interamente
sprovvisto quanto un gusto per Omero» nella sua traduzione, in luogo della «semplicità e maestà»
d’Omero, troviamo «l’orpello dell’abbellimento moderno a ogni piè sospinto». Oltre il Pope altri
letterati inglesi avevano affrontato la traduzione, sia pure parziale, dei poemi omerici (Chapman,
Dryden, Congreve, Thomas Yalden, ecc.): cfr.: CHALMERS, The works of the English Poets from
Chaucer to Cowper, London, 1810, voll. X-XII.
6. Ch. Gothlob Heyne, che procurò una famosa edizione dell’Iliade (1787-1802), sostenne l’unità
dei poemi omerici, ma ammise che alcuni episodi dovevano ritenersi aggiunti posteriormente alla
composizione originaria. Molto nota è la tesi di F. A. Wolf (Prolegomena ad Homerum sive de
operum homericorum pristina et genuina forma variisque mutationibus et probabili ratione
emendandi, Halis Sax., 1795): all’età di Omero non si conosceva la scrittura — o non era usata per le
opere letterarie —, sicché era impossibile comporre e tramandare mnemonicamente due poemi quali
l’Iliade e l’Odissea. Così come ci sono giunti sono la cucitura di canti epici dovuti a diversi autori. Si
veda il capitolo La questione omerica dal Rinascimento al Wolf, nella Storia della letteratura greca
di C. CESSI (Torino, 1933, vol. I — il solo pubblicato —, pp. 592 sgg.).
7. Di Johann Heinrich Voss (1751-1826) la traduzione tedesca dell’Odissea apparve nel 1781;
quella dell’Iliade nel 1793 insieme con la seconda edizione dell’Odissea. Si confronti quanto qui dice
M.me de Staël con quel che aveva scritto nel cap. IX della seconda parte del De l’Allemagne: «L’arte
del tradurre è più raffinata in tedesco che in qualunque altro idioma europeo. Voss tradusse nella sua
lingua i poeti greci e latini con sorprendente esattezza; … qualunque sia il pregio della traduzione di
Omero che dobbiamo a Voss, essa fa dell’Iliade e dell’Odissea poemi di stile greco benché le parole
sian tedesche» (trad. ital. di A. Caporali, Torino, 1943, p. 151); «Il tedesco è la sola lingua moderna
che abbia sillabe lunghe e brevi come il greco e il latino; tutti gli altri idiomi europei sono più o meno
fortemente accentati, ma i versi non potrebbero misurarsi al modo antico, secondo la lunghezza delle
sillabe: l’unità delle frasi è, come quella delle parole, dovuta all’accento, da cui dipende in parte il
significato di quel che si dice; si insiste su ciò che deve determinare il senso, e la pronuncia, facendo
spiccare questa o quella parola, collega tutto con l’idea principale. Non così la durata musicale dei
suoni nel linguaggio, assai più favorevole dell’accento alla poesia, perché non ha oggetto
determinato, e non dà che un piacere nobile e vago, come tutti i godimenti senza scopo. Presso gli
antichi, le sillabe erano scandite secondo la natura delle vocali e i rapporti reciproci dei suoni, e ne
decideva soltanto l’armonia: in tedesco tutte le parole accessorie sono brevi, e la dignità
grammaticale, cioè l’importanza della radice, determina la sua quantità c’è meno grazia in questa
specie di prosodia che in quella degli antichi, perché dipende da combinazioni astratte più che da
sensazioni involontarie: tuttavia è sempre un gran vantaggio per una lingua aver nella prosodia di che
supplire alla rima» (ivi, p. 152).
8. Le lingue romanze hanno perduto il senso della quantità, cioè della durata delle sillabe: la loro
metrica non è più prosodica, ma ritmica.
9. La traduzione del Monti fu pubblicata nel 1810 dall’editore Bettoni di Brescia; corretta nel 1812
e in varie altre edizioni secondo i suggerimenti degli amici, tra cui il Lamberti e il Mustoxidi.
10. Nel 1796 apparvero tradotte in tedesco da A. W. Schlegel le prime scene di Romeo e Giulietta;
dal 1797 al 1801 uscirono otto volumi con 16 drammi di Shakespeare tradotti; nel 1810 seguì un
nono volume con altri drammi. Sul lavoro dello Schlegel ha scritto R. Haym: «Questa traduzione,
migliorabile bensì nei particolari, ma nell’insieme insuperata, conteneva la chiave dei tesori poetici di
tutte le letterature moderne, era il dono più grande che, accanto alle libere creazioni dei grandi poeti
tedeschi, si potesse fare alla nazione e interveniva nello sviluppo del teatro nazionale e nella svolta
che la poesia di Schiller doveva prendere nel suo secondo periodo drammatico» (La scuola
romantica, trad, ital., Milano-Napoli, 1965, p. 163).
11. La tragedia di Racine incontrò il favore dei romantici, in genere non indulgenti con il poeta
francese. Si tenga presente il giudizio che di quest’opera dette A. W. Schlegel: «Ma prima ch’egli
Racine desse l’ultimo addio alla poesia ed al mondo, spiegò tutte le forze nell’Atalìa. Non solo è
questa l’opera sua più perfetta; ma, secondo mio avviso, è quella eziandio, fra le tragedie francesi,
che, del tutto libera, vie più s’accosta al grande stile della tragedia greca. … L’interesse della
curiosità, la commozione ed il terrore si succedono a vicenda, e prendono pure una forza ognor
crescente, la semplicità più severa è congiunta ad una ricca varietà, talvolta ad una grazia seducente,
più spesso ad una maestosa grandezza, e lo spirito de’ Profeti fa spiegare al genio poetico un volo
infino allora sconosciuto» (Lez. XI, trad. Gherardini).
12. Lo sposo burlato (1778), Il re Teodoro in Venezia (1784), La grotta di Trofonio (1785), Prima
la musica e poi le parole (1786), Il Cublai gran Can de’ Tartari (1786-87), Teodoro in Corsica
(1787), Il Catilina (1788), ecc. Molti melodrammi del Casti, tra quelli qui indicati ed altri ancora,
non furono mai pubblicati (i loro manoscritti si conservano nella Biblioteca Nazionale di Parigi). Per
ulteriori notizie e per rimandi bibliografici si veda la Nota biografico-critica di E. Bonora, premessa
a una scelta del teatro del Casti inclusa nel volume: P. METASTASIO, Opere, Milano-Napoli, 1970.
LUDOVICO
ARBORIO GATTINARA DI BREME
Ludovico Di Breme. Dipinto su rame.
«C’était un jeune homme d’une taille fort élevée et fort maigre, souffrant déjà de la ma… ladie de
poitrine qui l’a mis au tombeau peu d’années après … Il avait beaucoup de hauteur, d’instruction et
de politesse. Sa figure élancée et triste ressemblait à ces statues de marbré blanc que l’on trouve en
Italie sur les tombeaux du onzième siècle. Il me semble toujours le voir montant l’immense escalier
du vieux palais sombre et magnifique dont son pere lui avait laissé l’usage…».
STENDHAL
INTORNO ALL’INGIUSTIZIA DI
ALCUNI GIUDIZI LETTERARI ITALIANI
DISCORSO

L’opuscolo, co’ tipi di Giovanni Pirotta, in-8 picc., di pag. 62, apparve
nella prima quindicina di giugno, 1816, a «Milano, presso Giovanni Pietro
Giegler, Libraio sulla Corsia de’ Servi, Num. 603».
Il Di Breme aveva da prima pensato di dedicare l’opuscolo a DIODATA
SALUZZO, come appare da una sua lettera da Milano del 27 maggio 1816,
pubblicata nel vol. Poesie postume di DIODATA SALUZZO CONTESSA ROERO
DI REVELLO, Aggiunte alcune lettere d’illustri scrittori a lei dirette, Torino,
Tip. Chirio e Mina, MDCCCXLIII, p. 569; ma, come deducesi da altra lettera
del Di Breme, ivi pubblicata a p. 573 (Milano, 12 giugno 1816), la Saluzzo,
pur ammirando la Staël, da cui era a sua volta «amata e stimata», e pur
consentendo alla ristampa dell’ode Le rovine, non accettò la dedica per
alcune «sue inquietudini» [intendi: per desiderio di non essere coinvolta in
polemiche letterarie], che il Di Breme stesso riconobbe «fondatissime».
L’opuscolo, come era prevedibile, aggiunse esca al fuoco, cioè alle
polemiche suscitate dall’articolo della Signora di Staël. La storia di quelle
controversie, come ho detto, può essere veduta nel libro di GUIDO MUONI,
Ludovico di Breme e le prime polemiche intorno a Madama di Staël ed al
romanticismo in Italia (1816).
A pag. 55-56 egli così riassume il suo pensiero: «Nelle Avventure
Letterarie il Borsieri diede un giudizio del Discorso del Di Breme, che pur
ritenendo d’amichevole simpatia può essere accettato anche da noi come
moderatissimo, giusto e rispondente a verità: — “Non poco rumore si
muove ancora contro l’autore di un Discorso sopra l’ingiustizia di alcuni
giudizi letterari italiani; ma quanto a me, credo che tutta la più severa
censura di quello scritto si possa ridurre a queste due cose: lo stile è bello
frequentemente, ma non però sempre eguale: e le opinioni dell’autore
essendo non comuni in Italia andavano preparate ed esposte con maggior
artificio”. — Questo appunto seppe poi fare il Berchet, incontrando miglior
fortuna e maggior plauso. Quanto a me, concludendo, poiché ad alcuno [G.
MAZZONI, Le origini del Romanticismo, in «Nuova Antologia», 1° ottobre
1893] piacque chiamare il Berchet, il Torti, l’Ermes Visconti ed il Manzoni
“gli Evangelisti del nostro Romanticismo”, continuando qual esso pur sia
codesto paragone, reclamo dalla giustizia della storia che a Ludovico di
Breme si conceda quell’appellativo che fu già del Battista, “il Precursore”;
che tale fu veramente, e non invano, con tutta la generosità disinteressata
del suo animo ardente».
È un’iperbole.
Basti qui riconoscere che fu primo in Italia nell’intendimento di definire
le tendenze e i fini della nuova letteratura, che si diceva romantica. Due
anni dopo la stampa del Discorso, nel 1818, il Di Breme, mentre già si
preparava la pubblicazione del Conciliatore, ringraziando Michele Leoni
per avergli mandato alcune sue traduzioni, così riguardava, nel complesso,
la questione:
«La Signoria Vostra ci dà di molti e gravi e belli suoi lavori, e non cessa
di arricchire la letteratura italiana colle più solenni traduzioni dall’inglese.
Che sia benedetta! L’orgoglio nazionale è un funesto affetto allorché si
propone di ignorare ciò che non si sa, e si sente, e si fa altrove. Noi (istrioni
di patriottismo e recitanti) la coscienza patriottica la serbammo tutta per le
cose in cui poco monta e poco influisce questo o quel sistema, e vogliamo
essere italiani nelle particelle, negli avverbi e negli arzigogoli. Nei costumi,
nella politica, nell’armi, nelle foggie non aspiriamo a nulla di veramente
nostro, e ci rassegnamo, con vergognosa prudenza e con vile disinvoltura, a
pazientare e a ricopiare l’altrui. Qual meraviglia poscia, se da tanta bassezza
emerga e provenga ignoranza e se da entrambe si diffonda così verde astio e
invidia così sfrontata contro i pochi, robusti ancora, e intemerati, e ingenui
nel loro fervore?
«Prima ch’io mi avventurassi in questa lizza sapevo bene con qual genia
mi era forza venire alle mani: nec spes me fefellit. Ma nei tempi corrotti è
dovere dei buoni lo stimare meno la propria e individuale dignità che l’utile
dei futuri: e ciò che sovratutto importa si è di non lasciar che il tempo e il
protratto silenzio prescrivano contro la verità. Bisogna mantener vivo il
grido della ragione e del cuore, onde non s’ammutoli l’una e l’altro per
disuso; e tramandarlo di bocca in bocca fino a quei nipoti, appo i quali è
destino che divenga poi voce universale e trionfante. Né io mi sarei pigliata
affatto siffatta briga letteratesca, se non credessi che all’unico vero sistema
letterario tien prossimamente dietro l’unico sistema intellettuale e morale
d’un popolo: e intanto mi appiglio alla sola opportunità che i tempi ne
acconsentono di combattere gli artifizi e il falso sapere.
«Se la Signoria Vostra Pregiatissima mi rende, come credo, leale
giustizia, le ha da essere dimostrato appieno ch’io non sono Romantico se
non in quanto la Romantica si trova legittimamente compresa nella vasta
sfera di quel dominio ch’è di tutta ragione della Poesia e delle Arti creatrici:
non già così ch’io riconosca non necessaria alternativa fra la Classica e la
Romantica: ché l’una e l’altra sono assurde denominazioni, e mal
costituirebbero per sé un genere e un sistema».
Il Di Breme con questa riflessione, a ragion veduta, modera l’impeto, con
cui in una nota del Discorso aveva detto «la Romantica un solenne genere
di letteratura», sebbene «si desiderasse tuttavia una più completa e meglio
definita Poetica di esso genere».
La polemica col Londonio, di cui ho parlato in altro libro, non era stata
inutile, quantunque il Di Breme, per risentimento, nella lettera al Leoni
giudicasse «melensa e sleale» l’Appendice ai «Cenni critici sulla poesia
romantica», che quel valentuomo (così noi oggi lo riteniamo) aveva poco
prima pubblicato (Milano, coi tipi di Giovanni Pirotta, 1818).
Con la riflessione centrale, che si legge nella lettera al Leoni, il Di Breme
si portava in una sfera superiore alle contese, sempre contingenti, e al
diverbio stesso col Londonio; nel medesimo tempo poneva nei giusti
termini la questione, riconoscendo che quel contrasto tra spirito classico e
spirito romantico aveva un particolare significato storico per le condizioni
nelle quali si trovavano allora la letteratura, la filosofia, la storiografia, la
politica per una trasformazione profonda degli animi e del modo di pensare.
Vedi la lettera del Di Breme a Michele Leoni nel saggio di PAOLO NEGRI,
Romanticismo piemontese, pubblicato nella rivista «La Cultura» del De
Lollis, cit.
Per la sdegnosa repulsa dell’umanesimo erudito e pedantesco, che il Di
Breme fa nel Discorso, cfr. AUGUST BUCK, Lodovico di Breme und die
literarische Tradition Italiens, «Romania», vol. I, Mainz, Florian
Kupferberg, 1948. Ma l’argomento deve essere considerato entro il
ripensamento critico che i nostri primi romantici fecero di tutta la nostra
letteratura e delle virtù libere e profonde dell’anima. Così la loro ostilità
all’Accademia della Crusca deve essere riguardata entro la loro concezione
linguistica.
Riguardo al nome proprio del polemista, che ora è «Lodovico», ora
«Ludovico», si avverta che da ultimo egli preferì la forma «Ludovico».
Breme è borgo della Lomellina, in provincia di Pavia, presso Sartirana,
dove gli Arborio Gattinara avevano i loro feudi. Perciò, in italiano, si deve
scrivere Breme e non Brême, alla francese. La storia dell’antica Abazia di
Breme è direttamente congiunta con quella della Novalesa.

Mio Padre1!

Lo scritto, che si adorna in fronte dell’onorando e caro Nome Vostro,


liberamente ragiona contro quella specie di volgare e pernicioso
entusiasmo delle patrie lettere, che in luogo di rendersi, con luminose opere
contemporanee, esemplare alle vicine nazioni, e memorabile alla futura
nostra, usa sfogarsi in ciance biliose, e fa pompa di antichi fasti, e di tutto
si soccorre, e perfino di calunniose imputazioni, onde sfregiare, se possibil
fosse, nella nostra terra i nomi più illustri di tutta Europa. Inutile invidia!
sconsigliato avvedimento! che a null’altro giovando fuorché a blandire
l’Italia nell’attuale suo sonno colle vane immagini delle andate glorie, le
faranno intanto perdere fin quella di ospitale e di gentile.
A Voi, mio Padre, che mai non foste, né sarete, per volgere di tempi e di
destini, nel numero di quelli, o timidi, o artifiziosi, o sconfortati animi che
tengono le verità per un flagello delle generazioni; a Voi sempre ardente di
un operoso amore del grande e dell’utile in pro di tutti, se anche figlio io
non vi fossi, dovrei questo mio discorso rivolgere. Se non che a ciò fare mi
consiglierebbe allora profonda ammirazione, laddove mel persuade insieme
un dolcissimo amore.
La speranza di un risorgimento d’idee, e di una più generosa coltura
degli spiriti, scevra da quelle intestine gelosie ch’ebbero fin qui il nido loro
negli studi medesimi, che più ne dovevano guarire i cuori degli Italiani,
s’affida in quella valorosa gioventù, che ora si sta raccolta meditando e
silenziosa, e adulta si fa ad un tempo con una più robusta e più vasta
filosofia. Passata quindi l’irritazione dei privati odierni risentimenti, che
tanto hanno di efficacia negli studi, non saranno allora più contrastate
quelle dottrine, che oggidì spaventano ancora gli uni, e sconcertano l’amor
proprio di certi altri. Allora incomincerà una splendida Era, il cui radioso
crepuscolo Voi potrete forse ancora dal più tardo Vostro, ma pur sereno
crepuscolo, salutare. Ma piuttosto noi saluti neppure il Vostro Lodovico
quel felice periodo, se indugiando troppo a comparire, dovess’egli, onde
gioirne, veder frustrati il presentimento e la forte brama ch’ei nutre di non
sopravvivervi.
Il devotissimo e tenerissimo dei Figli
LODOVICO DI BREME2.
Or superbite, e via col viso altiero
Itale genti! e non chinate ’l volto,
Sì che veggiate ’l vostro mal sentiero!
Purg., Cant. XII, v. 70.

Se mai per cagion di lettere e di studi siasi alzato un incomodo sussurro,


egli è quello cui hanno dato motivo alcuni tratti in apparenza un po’ acerbi
diretti a noi da una penna molto celebre in Europa3, e di cui si inorgoglia
con gran ragione il Sesso più amabile. Che questa penna potesse scrivere
delle parole contumeliose e ingiuste contro gl’Italiani, anche prima di
leggere quegli scritti4 nei quali le si son volute rinvenire5, io non lo avrei
creduto; dopo letti, dico assolutamente e mantengo ch’elle non vi sono; che
la gloria italiana non è in essi nessunamente offesa; che noi non siamo
tacciati da questo gentile Spirito né di volgarità nell’ingegno, né
d’incapacità di segnalarci fra le nazioni, né ci si contendono le remote
glorie dei nostri Avi; bensì alcuni consigli vi raccolgo contro i quali non
basta già ribellarsi, né sfogarsi in querimonie, od in magnifiche esaltazioni
di noi medesimi, a provare che sieno superflui, non che pericolosi. Falso
egli è che per quei consigli noi venghiamo stimolati a ricopiare gli estranei
nelle loro letterature; ci si stimola a conoscerle, ch’è ben tutt’altro; ci viene
modestamente suggerito di entrar con tutte le civili nazioni in commercio
quotidiano d’idee e di lumi, possentissimo espediente onde riacquistare
anche noi, per emula gara, una qualche lodevole originalità, lungi dal farci
perdere l’attuale, ove mai di attuale ne avessimo. Non sono già le traduzioni
assennate, imprese coll’intenzione di fornire agl’Italiani nuova materia
ognora di studio e di meditazione, e condotte in tutte le loro parti con una
profonda intelligenza delle due lingue6, non sono queste le traduzioni
pericolose; pericolosa, funesta, corrompitrice d’ogni carattere e d’ogni
fisionomia nazionale è quell’altra continua e inosservata traduzione, e
diciam pure imitazione, che, senza che altri ne la consigliasse mai, noi
andiamo facendo da tanto tempo dei libercoli, dei modi, dei tratti, delle
fogge forestiere; quelle sono che invadono presso che inavvedutamente il
pensiero, i sensi, e quindi adulterano l’indole degli Italiani7.
Fermo io in queste persuasioni, mi accingo a palesare alcuni miei liberi
sensi contro l’importuno zelo di quei difensori della gloria letteraria
italiana, i quali v’ha chi teme che invece di risarcire l’onore degli studi
nostri, abbiano oramai preparata ai censori dei medesimi una troppo miglior
causa che non avevano innanzi per le mani.
Sarebb’egli mai accaduto di questa santissima fiamma del patrio amore
ciò che spesso veggiamo di tante altre nobili passioni? Elle degenerano nel
cuore di certuni in furore sconsigliato e pernicioso; talvolta elle servono di
pretesto e di maschera a cert’altri onde coltivare il proprio utile ed arrivare,
per vie in apparenza onorate, a dei privati loro intendimenti; alcuni
afferrano siffatte opportunità di rendersi pure in qualche modo, se non
insigni, almeno percettibili; e siccome fra tutte le virtù sociali la divozione
del comun Nome Italiano, sotto qualunque forma ella si mostri, è la più
universalmente acclamata, così l’ostentarla potrebbe perfin divenire un
espediente a cui ricorressero, prima degli altri, quelli che avessero bisogno
di ribattezzarsi all’onore fra i loro concittadini. Questi ben evidenti pericoli
fanno stare tuttalmeno in sul sospetto, e non permettono più che ad ognuno
che vocifera Italia, Italia, si esclami tosto, oh! vedete che ardente figlio la
patria ha in colui! che sincero e valoroso mantenitore delle sue prerogative!
Ma egli è sopratutto contro il malcostume di certi giornalisti letterari
d’Italia8 ch’io spargerò amare parole, e spero farlo coll’approvazione dei
buoni e gentili e liberali ingegni, e che più di tutti mi sieno grati quegli altri
savi ed urbani compilatori di fogli periodici, i quali formano per sé una
manifesta eccezione da quelli di cui intendo ferire qui o la sguaiata
oltracotanza, o anche la semplice inconsideratezza.
E per incominciare a dirittura da quest’ultimi, che compongono la classe
meno riprensibile dei zelatori importuni, io oserò dir loro fin da principio
che assai più di lode e di gloria torna al nostro paese e agl’ingegni nostri, da
un’ardita confessione de’ nostri vizi, se ne abbiamo, e dell’attuale nostra
inopia letteraria, ove mai vera essa fosse pur troppo, che non da tutte queste
ipocrite compiacenze dei meriti nostri. I nomi dei più acri e più veementi
censori dei nostri studi domestici o dei costumi nostri in ogni età, sono pure
i nomi ad un tempo di altrettante persone chiare per lo più nei nostri fasti
letterari o patriottici, e da essi tragge qualche gloria l’Italia, non dai risentiti
loro persecutori; ché anzi la memoria di questi adulatori dei paesani
coetanei, i quali avranno alzato un farisaico grido di scandalo contro i più
veridici e severi amanti della patria, è perduta.
Saria pur tempo di cessare dal contrapporre ai presenti rimproveri che
riceviamo, i meravigliosi successi dei Padri nostri. Tempo sarebbe di entrare
una volta nell’intima ragione della disputa che vogliam ad ogni costo
sostenere, e di ben afferrare l’essenza ed il sustanziale punto della quistione.
Siamo accusati di non contribuire per nulla al progresso attuale della
filosofia razionale e morale, e alle sue più sicure e luminose applicazioni;
accusati siamo di non anelare a tutta quella meta di perfezionamento (che
vuol dire di semplificazione) delle teoriche nostre, cui toccano già da vicino
alcune altre genti… e noi invece rispondiamo che Galileo, che Machiavelli,
e forse, che il Castelvetro9, di queste cose ne seppero più di tutti dei tempi
loro.
— Siamo pregati di restringere in numero le nostre cantilene, e di
estendere invece la poetica nostra, di ringiovanire un po’ l’estro italiano, di
essere noi gli Aristoteli dei tempi nostri, e d’imitare, piuttosto che
scimiottare, la spontanea concitazione degli antichi; e noi rispondiamo che
oltre il Dante, il Tasso e l’Ariosto, l’Italia può far pompa di ben una trentina
di poemi epici; che abbiamo un’Arcadia madre, mille seicento colonie
pastorali, la poetica del Menzini10 e del Minturno11 e una sterminata
biblioteca di rimari e rimerìe. — Ci si rimprovera di non avere peranco
adottata la grammatica intellettuale d’Europa, di cui gettò le fondamenta
Bacone12, e che per opera dei Locke13, Condillac, Du Marsais, Bonnet,
Smith, Dugald-Steward, Degerando, Tracy, Prévost14; non meno per quella
dei d’Irwing, Kant, Jacobi, Fichte, Ancillon15, ec. ec. ec., è divenuta la
miracolosa chiave d’ogni sapere; e noi, a questa parola di grammatica,
diamo tosto solennemente di piglio a Salviati, a Buommattei, a Cinonio, a
Corticelli16; invece di nominare per tutti quel veggente e assennato Padre
Soave17, che trasse dalle fonti il dritto positivo, dirò così, della nostra
lingua, e fu d’altronde infaticabile traspiantatore in Italia di tutti i
fondamentali moderni insegnamenti, e da cui solo abbiamo fin qui una utile
biblioteca pedagogica. Si tratta in somma di adattare l’espediente
meccanico della favella, le articolazioni, e, s’è fattibile, le fogge italiane a
quell’idioma universalissimo, carattere distintivo del secol nostro, che
lascia a mille miglia indietro tutte le geroglifiche intarsiature di parole, e i
nostri buratti, e i setacci; e noi invece siam fitti in questo bell’impegno di
voler che la favella materiale serva anzi d’invariabile misura ai concetti, e
che le parole divengano a vicenda, or laccio, or eculeo18, ed ora pastoie
delle idee.
Le persone che applicano il loro intelletto nel riandare cose già per lo più
sapute o non rilevanti da sapersi, e che se le fanno passare in un’unica loro
sustanza, pel solo motivo ch’elle sono scritte in quella lingua da essi tenuta
per magistrale; che mostrano di non intendere siccome le variazioni dei
tempi generano variazione nel sentire e nel pensare, e che queste hanno da
impressionare le favelle; queste persone, no che non avrebbero da voler
esse decidere, a qual grado di filosofia pervenuta sia fin qui la letteratura
d’Italia; mentre è già deciso invece che esse sono che rendono la dottrina
nostra così tardigrada e stagnante. A sentirli, costoro, non è più lecito
mostrare un’idea nuova fra noi, oppure si cessa di essere buoni italiani;
dapprima essi muovevano la guerra ai vocaboli soltanto, e perché non
intendevano le idee nostre, volevano ad ogni modo che per amor dell’Italia
le vestissimo di parole loro, che non ci avevano nulla che fare insieme; ma
oggi dànno assolutamente il bando alle idee e ai sensi più genuini e più
legittimi, e per poco che abbiano in sé di lume queste idee, di sustanzioso e
di nuovo, tosto elle putono loro di anglomania, di gallismo, di germanismo
e ti dicono in faccia, o ch’elle sono avvedimenti nostri, e conviene darne
gloria a fra Giordano19, al beato Jacopone, od a chi spetta di quegli spiriti
magni: o pure si tratta di ritrovati forestieri, e l’Italia non se ne ha che fare,
e chi è buon figlio dell’Italia deve anteporre le bugie nazionali alle verità
d’oltramonti e d’oltramare.
Noi siamo gente tutta ingegno; abbiamo splendore e vastità
d’immaginazione, fermezza nei propositi, profondità nei ragionamenti…
eh! chi le niega codeste madornali verità? Non è certo mestieri assottigliarsi
molto in dimostrare l’eccellenza della tempra italiana. Vien posta in
questione non già l’indole nostra, non è posto in dubbio se siamo naturati a
far molto e al far bene; bensì vi ha sospetto su l’attuale nostra volontà,
sull’energico uso di questi nostri mirabili pregi; ci si chiede conto della
direzione utile od inutile o perniciosa che per noi si è data nelle diverse età
alla cultura e alla disciplina delle menti nostre. Inerti siam noi, molli nel
culto del vero e del sublime; svogliata è attualmente l’anima italiana; il
tormentoso amor proprio soltanto è desto più che mai. Perciò invece di
drizzare ad alte mire le nostre intenzioni, più comodo ci sembra di
magnificare le frivolezze intorno a cui spendiamo la vita nostra letteraria.
Niuna insistenza nella meditazione; niun sincero fervore del bello, dico del
bello non artifiziale; niuno studio profondo sulle idee e sull’uomo; appena
sono intesi da noi, e meno si pensa a tradurre gli scritti di quegli uomini che
senza dubbio precedono colla fiaccola in mano, alla generazione tutta
d’Europa sulle tracce lievemente segnate da alcuni nostri maggiori20, e più
profondamente ormeggiate poi dal Verulamio per una parte21 e da Leibnizio
per l’altra22. I nostri studi sono di bibliografia, di cartulari municipali, di
parole e modi toscani, quali ne li forniscono i secoli parolai; ché troppo mal
si conosce ancora l’idioma di Dante, di Petrarca, di Machiavelli. In somma
questi uffiziosi campioni della maggioranza italiana escludono per lo più
dalla sfera delle nostre indagini tutto ciò che non sia ben circoscritto già e
determinato da qualche Autorità, segnato di formule, registrato nelle
rubriche della consuetudine. E perché mi sono lasciata correre dalla penna
questa taccia d’indolenza e di pigrizia contro di noi medesimi, voglio che
l’imparziale mio lettore osservi siccome io piuttosto la ripeto, anziché
essere il primo a produrla. Dessa trovasi frammischiata in mezzo a quelle
tante dolorose verità, che l’intrepido Baretti, da quell’uomo probo ch’egli
era, non dubitò di far sentire all’Italia; fosse piaciuto al destino protettore
delle nostre lettere, che quell’inesorabile nemico delle mediocrità e
dell’impostura non avesse di frequente scompagnata la forza de’ suoi
ragionamenti dalla imparzialità e da una più mite critica! E di fatto, dice
Baretti, chi mai ha in così dirotto modo moltiplicati fra noi gli imitatori
servilissimi dello sfibrato e abbindolato scrivere dei cinquecentisti, e chi ce
li fa credere il non plus ultra della perfezione in ogni genere, se non la
somma pigrizia di mente che fra noi regna? Chi mai, se non questa pigrizia,
ne fa tanto dire e ripetere e poi tornar a dire e tornar a ripetere che noi
abbiamo sovranità letteraria sopra tutte le nazioni, e che tutte le moderne
nazioni devono a noi tutto quello che sanno? Chi altri se non questa brutta
pigrizia ha dettate le Memorie Istoriche al ec. ec. ec., le poesie piacevoli al
Baretti, e tant’altri frivoli ed insulsi libercoli, librottoli e libracci a tanti
altri nostri odierni scrittori? Chi in somma ha procacciati tanti encomi in
iscritto a tanti nostri Etruscai, Ditticai, ec. e a tanti Versiscioltai e
Sonettanti e Canzonisti, e quel ch’è peggio ai nostri Goldoni e ai nostri
Chiari, se non questa maledetta maledettissima pigrizia, che resa Signora,
anzi tiranna delle menti nostre, non ci permette di durare quella fatica di
studio e di meditazione, che debbe assolutamente essere durata da
chiunque presume adoperare la pennaa?
Frontespizio dell’edizione originale del Discorso
di Ludovico Di Breme (Milano, Giegler, 1816).
Il peggio si è che tutti questi inceppamenti del pensiero ond’è irto
oggimai il campo degli studi, tutte queste Rabbinerie sono di spavento a
molti giovani ingegni, che la natura chiamerebbe pure per quella strada, e
sono un noiosissimo e funesto intoppo a quelli che vi si avviano. Quanti
studiosi uomini passano i giorni, i mesi, gli anni nel compilar zibaldoni di
frasi e di modi per ogni occorrenza avvenire! spendono essi la più verde
gioventù nello ammonticchiare Nomi, Date, Autorità alla perfine si vuol pur
pure sfoggiarli questi ammassi erculei, ed è allora che si fanno libri. Il
concetto sustanziale di questi libri, e tutte le idee che ne hanno da formare il
corpo, non sono già l’oggetto primario, né essere lo possono, d’un siffatto
meccanismo; ma tutt’anzi ed invece, le idee ci fanno una figura ipocrita, e
prestano servizio alle parole, e sono chiamate in grazia di quelle, e perciò vi
stanno poi così manifestamente a pigione. Ma fossero almeno con tutta
fedeltà espresse: oibò! si dice un po’ di più, un po’ di meno di quanto
s’avrebbe a dire; si sta a fianco soltanto della propria idea; le si batte
d’intorno, la non s’imperna mai, la non si rende mai insigne, e molto meno
si colorisce il proprio concetto, perché vero e genuino concetto non vi ha.
Davvero, non c’è libro scritto di questi odierni coetanei di Boccaccio, che in
fatto di gusto, di modi e d’urbanità non sia zeppo di pretti anacronismi. Ah!
ch’io temo sia purtroppo vero che noi da lunga stagione cessato abbiamo di
pensare nella lingua in cui scriviamo, e perciò appunto che non pensiamo
più in una lingua completa, nostra ed omogenea, noi pensiamo
confusamente, indefinitamente e al più eruditamente, ridotti così a far
tesoro di cose accidentali, di notizie positive, invece di nozioni essenziali.
Vincenzo Gravina, quel ritrovatore d’uno stile così efficace e così
insegnante; quell’uomo sì spesso avverso ai pedanti, i quali nulla meno se
lo rivendicano perché non sempre lo intendono, Vincenzo Gravina ebbe a
dire, questa lingua comune, che il nostro Dante prese, per così dire, fin
dalle fasce ad allevare e nutrire, sarebbe molto più abbondante e varia, se
’l Boccaccio ed altri di quei tempi, ai quali fu da Dante lasciata in braccio,
l’avessero del medesimo sugo e col medesimo artificio educata; e non
l’avessero dall’ampio giro, che per opera di Dante occupava, in molto
minore spazio ridotta. POICHÉ ESSENDO LA LINGUA PROLE ED IMMAGINE DELLA
MENTE E NUNCIA DEGLI UMANI CONCETTI, QUANTO PIÙ LARGAMENTE IL
CONCETTO SI DISTENDE, PIÙ LA LINGUA LIBERAMENTE CRESCE ED ABBONDAb.
Ma ch’io comprenda ora nel mio discorso quei temerari e calunniosi
Aristarchi senza missione, quei provocatori sconsigliati d’alcuni sublimi
ingegni forestieri. L’Italia li ricusa per suoi campioni, coloro che scendono
nell’arringo armati, sotto l’usbergo, da traditori, e fasciati il petto d’una vil
maglia, che li rende impuni; perché io assomiglio alla maglia d’uno sleale
aggressore quella troppo comoda oscurità sotto cui si ripara un anonimo
Zoilo; e chiamo avvedimento da traditore quell’industriarsi egli di irritare la
nostra coscienza patriotica con alcuni ospiti ragguardevoli, fingendo
colloqui, immaginando scene, apponendo loro parole contrarissime ai loro
sensi più solenni e ai loro ben più ponderati giudizi.
A qual segno non si è giunti d’arbitrario abuso della stampa? Dunque il
paese che di tutta Europa, se la Spagna ne traggi, è forse il meno cospicuo
oggidì per varietà e solidità di studi veramente esemplari24, quel paese ha
da formicolar pure di giornali dommatici, di securi giudici, d’intrepidi
Quintiliani! Forse perciò appunto che la vena dell’invenzione è secca per
alcuni momenti, o serpe nelle secrete viscere degli ingegni, i giornalisti,
gente sapientissima in ogni tempo, si argomentano di risarcire l’Italia in
questo frattanto coi loro vederi e saperi e motteggiari?… Perché mai la
professione delle lettere non è ella una prerogativa dei soli animi gentili, dei
soli spiriti educati? Si potrebbe egli dare mai una più plausibile restrizione
alla libertà della stampa? Chi viene da Costantinopoli ci racconta che quei
timidi Governanti guardano sospettosamente ad ogni sillaba che si avvia
alle officine tipografiche, e ad ogni scroscio d’un torchio degli stampatori
paventano non forse sia il trono che scrosci, o la moschea. Oh! che troni
dunque, che moschee, se a farli sussistere è di mestieri tener lontano il
perfezionamento delle idee! A noi, per la simpatia che i nostri Governi
provano colla ragione e colla verità, è conceduto un liberale uso della
stampa, e sia benedetto chi mantiene illeso un sì efficace mezzo di sociale
incremento: ma un liberale uso significa forse un uso libertino, screanzato, e
tale che ne discapiti la nominanza dei nostri costumi e della nostra
gentilezza?
Gli scrittori manifatturieri di critiche e di censure, li abbiamo sempre
veduti accattar volentieri delle brighe, e provocare tutta specie di persone.
Quel privilegio che si arrogano essi di ripararsi coi loro segreti divisamenti,
colla loro svenevole ironia sotto l’ammanto cattedratico, lo dovremmo
tenere in conto di una vera calamità nella Italia; e perché il vizio è antico fra
noi, quanto la generazione di questi faccendieri letterari, perciò scontiamo
da lunga pezza la colpa di averli sopportati, con una dolorosissima pena,
intendo la opinione poco buona che corre dei fatti nostri al di fuori, in
genere di maniere e di cortesie letterarie. Mi si dirà che i giornali non hanno
più tanta autorità che basti… la dovrebbero avere, se presso di noi queste
professioni non andassero in total corruzione. Qual è oggimai il colto
popolo d’Europa, cui non debba stare a cuore, e non abbia ragione di
esigere che i critici fogli dettati nella sua terra portino religiosamente
l’impronta nazionale in genere di scienze, di gusto e di costumi? Bella cosa
veramente sudare e spasimare cotanto ond’essere creduti pratici meglio di
Marco Tullio dell’urbanità latina, e non mostrarne poi di contemporanea!
S’ha un bel dire, ma codesti scritti è indispensabile che rappresentino con
fedeltà il più alto grado del nostro buon senso, e che segnino allo sguardo
degli altri popoli il punto più inoltrato dell’incivilimento fra noi.
Molti giornali è vero non serbano più efficacia nei nostri paesi, perché
conosciamo bene d’onde ebbe ognuno di essi le mosse, di quali artifizi e
gherminelle si soccorrano, e insomma a qual maniera di mariuolerie
letterarie servano spesso di puntello e prestino ricovero. Ma gli estranei li
conoscono essi questi espedienti di pochi fra gli Italiani? E se è vero che
ingiustamente romoreggi mala voce di noi negli altri paesi, se è vero che vi
si afferri con maligna compiacenza ogni opportunità di morderci, domando
io se tutte queste inconsideratezze, o freddure, o villanie, di che riboccano
certi articoli di certi fogli, non andranno esse confuse in quella storta
opinione, colla idea di carattere, di gusto, di educazione nazionali?
Si avviano, a cagion d’esempio, per la nostra penisola alcune persone
precedute da una riputazione europea. L’Europa non istarà già attenta alla
accoglienza che farem loro (giacché l’Europa, diciam noi, non rende una
filiale giustizia alla madre Italia) per riconfermarsi nella sua stima di queste
persone, o per ritoglierne loro porzione; l’Europa invertirà piuttosto l’ordine
del giudizio, e dall’accoglienza argomenterà del nostro ingegno attuale,
della nostra filosofia, e, quel che più monta, della nostra costumatezza e
bontà. Fosse pur vero che invece dei giornalisti senza missione toccasse a
quelle persone che formano il meglio di Milano, di Firenze, di Torino, di
Genova, ec., di raccontare l’impressione che hanno lasciata di sé qua e colà
questi nobilissimi perlustratori di popoli e di regioni! Direbbesi quindi a
Londra, a Parigi, a Berlino, a Dresda, ec., che una gentile ospitalità
ottengono puranco sotto ai nostri cieli gl’ingegni tutti, e più se più distinti;
che lo schietto aperto cuore della gente che vi abita, che la festiva nostra
poetica fantasia si fanno i primi ad incontrare chi ci viene a conoscere, e poi
la ragione armata di sottile discernimento, ma non iscompagnata mai da una
ospitale riverente modestia, li interroga, li ascolta, li intende (perché ove
mai non li sapessimo intendere, guai! alle nostre censure colla manìa nostra
d’insegnare tutto a tutti) e dimostra loro bel bello e senza risentimento,
siccome non è tanto vero che i pregiudizi nazionali sieno irradicabili d’infra
gli Italiani, quanto è vero che i pregiudizi nazionali de’ forestieri prestano ai
nostri troppo di corpo, li ingrandiscono a dismisura, e quinci solo avviene
che i pregiudizi degli Italiani traggono a sé la maggiore avvertenza di chi ne
prova degli altri.
Ma in luogo di rendere a noi questa pura giustizia, udite cosa io mi figuro
ci si dirà dovunque arrivino alcuni fogli di siffatti Zoili: «Ma non è questa,
Italiani reverendissimi, la terra dove riposano le incorruttibili ossa di quel
miracoloso uomo Messer Monsignor Giovanni della Casa, maestro d’ogni
bella creanza? Già è potuta dunque svanire la vostra religione per quel suo
molto bellissimo Galateo, e voi altri superiori in tutto di tanto ai Francesi vi
dareste ora piuttosto al turlupinare, come fanno essi, che hanno spirito di
farlo? Il galateo! il galateo! Si sa che se avvi civiltà nel mondo, ella è tutta e
soltanto originata da quel libro, ma ecco anche in ciò, Italiani, quel vostro
solito peccato; le scienze tutte erano invenzioni vostre non meno, ma ben
tosto ne cedeste l’uso, l’esercizio e le applicazioni ai vicini. Le scienze
ebbero in diebus illis nido fra voi: chi vel contende? ma quasi non vi
accorgeste di averle partorite, e fu soltanto dopo alcuni cent’anni che,
accolte, cresciute, educate da noi, invidia ve ne punse e bello vi pare oggidì
di poterne rivendicare i diritti paterni. Via, se i padri siete voi d’ogni sapere,
quelli che oggi professano e scienze ed arti, voi li dovreste accogliere
festosamente, come amorosi avoli fanno ai loro pronipoti e stringerli al
seno. Andatevi pur consolando, Italiani, col pensare che il conoscere,
l’antivedere, il ragionar forte e profondo, in chiunque si ammirino ai nostri
giorni, sono pur sempre vostri pregi, e soltanto vostri; ma riconoscete ad un
tempo che quelle maniere beffarde, e quei tratti villanzoni contro i gentili
spiriti peregrinanti nelle vostre contrade, non sono punto in armonia colla
amorevolezza e coi miti sensi, che ognuno vorrebbe pur trovare sotto que’
vostri splendidissimi soli, e che spirar dovrebbero da quei molli favoni, che
vi orezzano intorno e vi blandiscono la vita, e vi educano i cedri e gli oliveti
perpetui. L’Europa è innamorata del profumo che manda il vostro suolo; le
vostre rive suonano d’una melodia che fa irresistibile invito ad approdarvi:
archi, statue, obelischi vi rendono contemporanei dei più leggiadri e più
colti secoli andati, e quasi tanti benigni influssi non bastassero sopra le
indoli vostre, vi lampeggia intorno dal guardo delle vostre donne, e tenta
d’inclementirvi il cuore, il più fulgido, il più persuasivo sorriso. Voi Italiani
reclamate oggidì anche il vanto di essere sempre stati i più giusti
dispensatori di gloria e di corone; noi vel crediamo. È vero che cacciaste
Dante in esilio; che fu a Petrarca dura matrigna la patria; che Ariosto fu
ridotto a vivere di pochi baiocchi; che i pedanti nella morale e nelle lettere,
trassero l’adorabile Tasso alla disperazione. È vero che Galileo e
Machiavelli furono sospesi alle carrucole25; arsi Marc’Antonio De
Dominis26, Aonio Paleario27, Arnaldo da Brescia28, ec. Che da pochi giorni
appena si tornano a nominare presso di voi con giusto orgoglio i
Cesalpini29, Cavalieri30, Torricelli31, Castelli32, Corelli33, De Marchi34,
Bianchini35, Vico36, Fra Paolo37, ec. Ma noi coteste bagatelle le abbiamo
poste in oblio, pensando invece ai sommi onori di cui foste in
contraccambio cortesi e il siete tuttora molto, ai Beati Jacoponi, ai Fra
Guittoni, ai Cavalca, ai Passavanti, ai Boni Giamboni, ai Dini, ai Ricordani
Malespini, ec., e ai seicent’altri cervelli di quella forza, e pensando al
pacifico possesso di gloria onde circondaste ognora quei casti novellieri,
che sciolsero al bel mondo di Italia lo scilinguagnolo, e i Bembi, e
Buommattei, e Sperone Speroni e Salviati e Bastian de’ Rossi e Domenichi
e l’evirato Castiglioni38, ec. Pensando finalmente che se deste ai sommi
vostri Dante, Petrarca ed Ariosto tristi e tribolati giorni, ne rivaleste pur
degnamente la memoria, deputando i Danielli e Gesualdi e Giambullari e
Vellutelli e Landini e Simon Fòrnari e Orazio Toscanella39 a derivare dagli
scritti loro la più pura fonte di gusto e le più recondite norme e se il Tasso
campò tanto da salire trionfalmente le vette del Campidoglio, venne poi
Paron Goldoni che a risarcirnelo lo sollevò a paro dei suoi nobilissimi
Florindi40. Direte forse, Italiani cari, che di tutti questi a cui foste e siete
cortesi dei più insigni onori, niuno era forestiere all’Italia, e che trattasi qui
di tutt’altro caso… Eh! che la vostra cortesia non era nazionale soltanto,
ella era umana in dirittura, ella era cortesia veramente ecumenica, e di fatti
fra quei forestieri a cui largiste pure il privilegio del quinci e quindi, non
brillano forse di luce più solare, a cagion d’esempio, Monsù Menagio, e
quell’ameno abate Desmarais41, a cui fu conceduto di toccare il frullone
della sapienza, e di sedere, per Bacco! ove già il sublime ’Nferigno e lo
Infarinato42 sublimissimo? Forestieri sono pure all’Italia Locke e Condillac,
e non per questo vi arrossite di non saperne punto più in là di loro in fatto di
scienze intellettuali, e sia che poco intendiate quegli studi, o poco ve ne
curiate43, incontrastabile egli è che mentre già contate la quarantesima
edizione di Metastasio, avete ancora da imprenderne una, una sola completa
del vostro Genovesi. Forestieri sono Ugo Blair, Batteux, La Harpe44, dai
quali visibilmente attingete tutti i precetti e le norme vostre, a malgrado del
vostro Quadrio45 e di Monsignor Crescimbeni e del Minturno e del
Muratori e del Corticelli46 e di centomila venerandi aristotelici, che non
intendevano Aristotele, perché Aristotele, che aveva ingegno a macco, non
fu aristotelico giammai. Forestieri finalmente Mérian, Roscoe, Ginguené,
Sismondi, Laugier47, ch’ebbero la tracotanza di raccontarvi a fondo i fatti
vostri, e d’infondere vita e leggiadria molta a un corpaccio, che mercé de’
vostri compilatori, razzolatori, catalogai, s’assomigliò troppo fin qui a un
colosso è vero, ma elefantesco e cadaverico».
Ora confesso che un siffatto, o qualsiasi equivalente discorso, mi
parrebbe davvero in molte sue parti una pretta corbellatura, per quanto lo
avesse altri per tutto serio e grave, e mal sia a chi ne avesse data occasione
con certi suoi articoli contumeliosi e con certe postille, e postille di postille
piccanti, argute, d’una argutezza taverniera che consola48.
Udrò forse chi mi dica aver dato i Francesi per i primi in alcuni loro fogli
l’esempio di ridere un pochino a spese delle stesse persone? Oh! qui
prevedo che mi sarà indispensabile l’entrare alcun poco in materia, e avrei
un’infinità di cose da rispondere, ma non accennerò che le più concludentic.
Incomincio dunque dal rispondere che dei giornalisti beffardi e screanzati
certo n’ha da avere anche la Francia; ma in Francia, per caduno di questi,
v’ha dieci scrittori critici che usano sottile discernimento, che rendono
giustizia al vero, e cui disserrano le Grazie un gentil sorriso; ridono con
leggiadria, e fanno ridere a malgrado che si avesse voglia di tutt’altro, e
frammettono la festività alla discussione, e non accade loro mai d’insultare
goffamente al sesso, ai modi, all’individuo, di chiunque pur sia, ma tanto
meno di chi abita un’alta sfera del mondo degli ingegni; e se anche codesti
critici hanno talvolta il torto, quasi se lo fanno perdonare, di tanto ingegno
si soccorrono, e di tanta amenità sono armati. Rispondo in secondo luogo
che la posizione nostra e quella dei giornalisti francesi, per rispetto ad
alcuni scrittori, sono precisamente fra sé opposte. Noi dovremmo intanto
sentire e professare una vera e patriotica riconoscenza per quegli scrittori; a
criticarli, a correggerli, ci ha tempo d’avanzo; d’insultarli, di morderli non è
tempo mai. La quistione la quale si agita in Francia, tra la Classica e la
Romantica letteratura, è, in quel paese, affare più ancora civile e nazionale
che non soltanto letterariod, e chi sa entrare nello spirito di questi litigi ha di
già antiveduto che le passioni hanno da prendervi colà un’acre parte
contraria, mentre per le stesse passioni noi ci abbiamo invece da esultare e
da insuperbircie. I Francesi pretendono che i Greci abbiano ad essere
rispetto a noi, e per tutti li secoli avvenire, ciò che veramente non furono
mai, neppure a se stessi, cioè precettori in luogo della immediata natura.
Pretendono che l’arte di assalire gli ingegni ed i cuori da tutte le facoltà
intellettuali, immaginose e sensitive, non sia più conceduto alle forze
umane e che debbano in iscambio stare contenti gli uomini odierni e futuri a
ricopiare i Greci e i Latini.
Pretendono assai più ancora, cioè di avere potuto essi intendere meglio di
tutt’altra nazione cotesti insuperabili maestri della scena tragica e comica, e
finalmente pretendono per legittima conseguenza, che s’abbia da ravvisare
nella loro teatrale letteratura il supremo codice da seguire sino al
finimondo. Rispondo ancora che l’età, così detta aurea delle lettere francesi,
non mi sembra che si possa gloriare di niuno proprio, indigeno veramente,
né epico, né lirico, né drammatico poema, e che la perizia loro consistendo
piuttosto nella indicibile perfezione colla quale seppero raggiungere nella
Tragedia e nella Commedia le norme dell’antico modello (quale se lo
figurano essi), hanno perciò i Francesi tutte le ragioni di star fermi ad
incensare quell’idolo; ché così facendo essi incensano se stessi, e se l’idolo
venisse a cadere, i Sacerdoti ci scapiterebbero di troppo, e ritorneremmo noi
tosto esclusivamente in prima linea di poesia e d’invenzione. Sì noi,
rispondo in ultimo. Non noi pedanti, noi cruscanti, noi sesquipedali
umanisti49; non noi progenie staffilata, contristata, spaventata di
Quintiliano, di Alvaro50, di De Colonia51; ma noi di robusta e di gentile e di
sublime schiatta italiana; e la chiamino coi più generici titoli di schiatta
Meridionale o Romantica, come loro talenta52; purché ci riconoscano una
vera indole essenzialmente poetica, caratteristica; dico una ragion poetica
non più raccomandata alla sola erudizione di cose sognate tre mille anni fa,
ma capace di esprimere di per sé tutte quelle impressioni, tutti quegli effetti
che sono generati nelle facoltà sensibili e contemplative dell’uomo dalle
nostre religioni spirituali, dalle forme socievoli, dal dignitoso culto che
tributiamo alle donne, dalle arti, dai saperi infinitissimi di cui siamo in
possesso. Noi, torno a dire, non figli né dei Barlaamo53, né dei Crisolora54,
né di Gemisto Pletone55, né di Giorgio da Trabisonda56, né del Cardinal
Bessarione57 e né tampoco figli dell’Aurispa58 o del Filelfo59 o di Marsilio
Ficino60, del Trissino61, del Bibbiena62, del Castelvetro63 ec., ma
dell’Alighieri, per Dio! dell’unico, incomparabile, eterno Alighieri e del
sublime trovator Petrarca, Tirteo insieme dell’Italia Italiana e non Latina: e
di Ariosto lussureggiante romantico; e dell’infelice e nobilissimo Torquato,
altrettanto originale e moderno nel colorito e nell’argomento, quanto ligio al
rito epico e al sistema scolastico nella struttura della magnifica sua epopea.
Di tali siam figli, e non posso già credere che il compariremmo noi meno
gloriosamente (anzi credo assai più) se una sola metà di quegli astiosi e
incomodi Bizantini fosse venuta a mischiarci di grammaticherie e di
sofisticherie il patrimonio paterno, e a soffiare tra noi quell’umore di
intolleranza letteraria e di dommatica dittatura che molti seguaci di quegli
studi ereditarono poscia da essi in Italia. Non bastò già a quegli spurî Greci
(intendo specialmente quelli della seconda brigata) l’averci recato Omero,
Anacreonte, Senofonte, Aristotele ec., onde ogni età seguente imparasse ad
emularli. Oh! se fosse così, non ne ricorderemmo i nomi senza una assoluta
riconoscenza. Già si poteva prevedere entro quali spaziosi e liberali confini
avrebbe allora allignato in Italia l’arte dell’imitazione; perché il sommo
Italiano non l’aveva egli insegnata, e collo scarso sussidio di una lingua
ancor fanciulla sollevato aveva il suo Ugolino a paro del Laocoonte
Virgiliano; e chi sa fin dove saremmo progrediti su le venerande poste di
quel piede! Ma quei benedetti fuorusciti si diedero tosto ad organare a furia
officine di ricopiatura, a ridurre tutta quanta la ragion letteraria e filosofica
a meccanismo e ad allacciare gli ingegni con dei rituali poetici, piuttosto
che armarli di nuove penne e additar loro più ardue mete. Quindi, quindi fu
fattibile ed ovvio ad ogni miseruzzo ingegno d’intromettersi in quel
Santuario!
Eppure affermano molti, che nacque da quelle trapiantate scuole la
suprema fra tutte le dottrine, quella della imitazione della natura, e che
volete mai, dicono oggidì i precettisti, che vi si conceda di più? Ma cotesta
libertà ch’essi ne concedono d’imitar la natura s’assomiglia per verità molto
alla libertà dei fatalistif. Quegli spurî Greci che determinarono l’andatura
degli studi nostri, non seppero intendere (e volesse Iddio che lo
intendessero daddovero i nostri precettisti) siccome nella natura, in ogni età
e per prima cosa, rispetto all’uomo, v’ha l’uomo. Perché la natura non ti ha
già composto nella mira che tu imitassi lei in quel solo modo che intendi64;
ché anche tu sei la natura, e sei per di più il suo interprete, il suo rivale
nell’ordine morale, sensitivo e immaginoso; e ciò in tutti i tempi del mondo;
e se non vorrai cantare mai sempre se non gli armenti della Sicilia65 e lo
stretto d’Abido66 e gli occhi cervieri67 e Progne e Filomela68 e i polmoni di
Stentore69 e le stalle di Augia70, invece di dipingere con efficacia, nudi e
vivaci quei fenomeni che si producono in te dagli oggetti di che ella ti ha
circondato, e l’armonia loro71, non potrai già dire che tu la imiti, e molto
meno potrai dire che tu imiti, che tu traduca te stesso nelle opere tue. In
vista dunque d’imitarla72, inalziamoci a gareggiar con lei nella stessa
creazione; e se le nostre dottrine mistiche, morali, scientifiche, se i nostri
usi, i recenti affetti nostri hanno ampliato di tanto il campo dell’invenzione,
misuriamo noi tutta l’ampiezza di quell’orizzonte, lanciamoci in quella
immensità, e tentiamo animosi le regioni dell’infinito che ci sono
concedute. Così intende natura di essere imitata; ma il farlo con memorando
successo non è opera da tanti, che pur vi pongon mano, e s’arrogano pure di
sedere a scranna: non ella ve li ha destinati costoro; ella pochi ingegni vi
destina, e se li viene ideando con amore, e di così fino sentire, e di così
elevato ingegno li contempra, che ad ognuno che le riesce averne procreato,
ella si riposa per dei secoli interi da quel lavoro.
Eh! amici miei, che la natura non c’entra per nulla in queste nostre
decisioni e classificazioni di secoli inarrivabili, di letteratura classica, e non
classica; perché la natura non è così pettegola, come ce la figurano i
pedanti; non usa mica ella di stare a quelle loro etichette, e ci scommetterei
El Tesoro di Ser Brunetto Latino di Firenze partito in tre libri (osserva
lettore che miracolo bibliografico) a Triviso adì XVI decembrio
MCCCCLXXIIII in foglio, senza stampatore, e anche il suo Pataffio e Fra
Guittone con Monsignor Bottari73 e perfino le Delizie degli Eruditi, tutte
queste gemme io ci scommetto contro una sola pagina della Baronessa de
Staël, che la natura mette in una stessa classe Omero, Dante, Shakespeare,
Sofocle, Alfieri74, Schiller, Anacreonte, Petrarca, Virgilio, Tibullo, Racine,
Voltaire, Terenzio, Goethe, Lessing, Tasso, Milton, Ariosto, Parini, Parny75
ec. ec. e sì fatti; ma so bene che tutte queste cose udir non le potranno,
senza sentirsi rimescolar dal fondo la cista biliosa, coloro i quali, se mai il
vero ingegno, il sentir forte e delicato, la genuina ispirazione si
riconoscessero per li soli caratteri di legittima vocazione allo studio del
bello, cesserebbero di pompeggiare essi nella così detta repubblica delle
lettere e di cinguettare nei crocchi. Costoro non avendola sortita in sé quella
forza latente, sprovveduti di quello spirito ascoso, da cui s’hanno da
ripetere i grandi effetti, non vorrebbero che mai neppure se ne parlasse: ma
di tale spirito, di tale occulta forza quando lo scrittore non è dalla natura
armato, invano s’affanna di piacer collo studio e con l’arte; i cui ricercati
ornamenti abbagliano solo quei che sono prevenuti da puerili precetti, e
retoriche regolucce, le quali STEMPERANO LA NATURALE INTEGRITÀ
DELL’INGEGNO UMANO76. Mancomale, a questi è molto più opportuna quella
letteratura legale e simmetrica, che si fa abusivamente scudo dei gran nomi
dell’antichità e si viene puntellando a furia di citazioni e d’autorità; eppure
con buona licenza delle Signorie Loro, a chi pensa e sente per proprio
conto, e da per sé, sembrerà ridicolo ognora più e assurdo, che appunto dai
sublimi concetti di Omero e di Sofocle si pretenda che derivi un sistema di
scolastica superstizione, e che chi meno le sente codeste bellezze, chi non
ebbe umido mai il ciglio alla lettura di Virgilio, s’infinga d’esserne come un
protettore contro quelli che se lo leggono fervorosamente e per consolar la
vita. E in somma, con licenza sempre delle sullodate Signorie Loro, nulla
muoverà tanto la nausea di tutti i galantuomini, che abbiano fior di gusto,
quanto il vedere esse Signorie lambiccarsi il cerebro sopra quegli antichi
per pure trovarvi ed ammirarvi ciò che non vi fu mai, e che veramente non
vi può essere, o che rispetto ai tempi nostri ha cessato di esservi, e vietarci a
noi l’ammirazione di ciò appunto che sempre in essi vi sarà, dico il carattere
inventivo, l’efficacia originale e l’urbanità di quei dì; la sola che debba aver
di mira (ognuno nell’età sua) lo scrittore, quando siavi luogo a trarre vezzi e
ornamenti dalla urbanità; ma le Signorie Loro lasceranno pure che diciamo,
come già hanno lasciato dire, e non hanno voluto ascoltare altri ben più
autorevoli di noi. Invano furono ammonite di non porre il piede ove Omero
lo aveva posto. Invano si disse loro che laddove Omero mosso da PROPRIO
FURORE corse con passo largo e spedito, questi all’incontro, avendo sempre
l’occhio e la mente al cammino altrui, sembrano andare a stento cercando
l’orme col bastoncino; anzi quanto più d’essere omerici si sforzano, tanto
meno sono tali, perché manca loro la libertà e maestà dello spirito, e la
rassomiglianza viva, che sono d’Omero il pregio maggiore77.
Io venni tratto un po’ innanzi, e da un’idea nell’altra, da quel dover io
rispondere a chi pigliasse esempio dai giornali francesi onde censurare le
dottrine di alcuni distintissimi personaggi, che l’Italia ha ora in seno. Ma
che chiamo io censura di dottrine? Si sono essi mostrati da tanto questi
Signori, da condurre una soda e spiritosa discussione? Per me in
quell’articolo, verbi gratia, che incomincia a foglio 192 quaderno cinquanta
dello Spettatore78, io non so vedere oltre ad una maniera buffonesca, altro
che vilipendio, solenni e sfacciate calunnie, beffe insomma da ritorcere
contro del beffatore. Le postille poi, sieno quelle, o non sieno venute pur di
Firenze, superano ancor l’audacia del testo, e quelle pagine vengono a
formare così un monumento di vera oscenità contro due celebri ingegni,
meritevoli invece di tutti i nostri rispetti.
Il critico fiorentino ed il suo postillatore79 addurranno forse in iscusa, che
i forestieri non hanno il diritto d’insegnarci nulla, e che siffatta loro
presunzione è un attentato contro il nostro onor nazionale. Che gli Italiani
sono risoluti di voler sapere che cosa significhi, né la contemplazione
dell’infinito, né lo spirito delle leggi poetiche, né la poetica del cuore, né i
fenomeni intellettuali, né l’armonia delle nostre facoltà. Va benissimo, e gli
Italiani stieno pure nella loro risoluzione, ma queste non sono ragioni che
bastino al caso nostro, non giustificano dall’aver affibbiato spropositi alla
illustre viaggiatrice, e dall’averla calunniata per poter trionfare nelle platee
dei teatri e nei circoli dei caffé, di alcune parole un po’ franche, ch’ella è
venuta mescendo alle molte e sublimi lodi che largisce agli Italiani. Sieno le
sue dottrine o non sieno intelligibili a noi, che sappiamo de rebus omnibus
et quibusdam aliis, però sembrami che già ne fu presa testé in Italia una
barbara e ben sufficiente vendetta, con quelle traduzioni che fatte se ne
sono80. Oh! quelle sì che richiedesi una Sibilla onde intenderle e distradurle
nuovamente.
Il postillatore, che se la piglia così temerariamente pure contro di un
uomo da lui gnoccamente chiamato uno spirito lemure inclinato ad
inspirare paralogismi81, sappia, se noi sa, ch’egli è pur desso un tale a cui
la Germania concede il vanto del suo più acuto critico; che i suoi libri
esigono in buon dato cognizioni precedenti a essere ben compresi, e fino
senso poetico, e meditazione, e raccoglimento, e facoltà completa di studio
in una parola; e se l’intrepido postillatore vorrà mai un giorno immischiarsi
nelle altre faccende della letteratura, se avrà mai che fare coi Greci e coi
Romani, ei capirà forse allora che quello scrittore non avanza una dottrina
positiva che non regga all’esperimento delle già approvate erudizioni; che
dopo letto lui, si può dire di aver letto del meglio che si abbia sul teatro
degli Antichi, su quello degli Inglesi e dei Tedeschi82; che posti a confronto
con lui, il Quadrio83 non riesce più che uno scolastico catalogaio; il
Brumoy84 un freddo e superficial traduttore; Signorelli85 un ridondante
ripetitore, e che perfino l’immortale Barthélemy86 viene da lui sottoposto a
più di una legittima censurag.
Niuno vorrà più in Italia tradurre la Iliade ha detto la signora Baronessa
di Staël. Questo vorrà è l’espressione ricevuta da Adamo in qua, per
significare in simili casi che niuno dovrebbe volere. Ora a provare che la
signora Baronessa siasi ingannata, basta egli forse di annunziare, come fa il
postillatore in aria di trionfo, che tre letterati d’Italia si accingono pur ora a
pubblicare le loro traduzioni, dopo quella del cavalier Monti? Questa mia
osservazione non è mossa che dalla intempestività, o dalla mala fede di
quella a cui serve di risposta.
Il postillatore che se la vien cavando con migliaia punti (sic)
d’interrogazione e d’ammirazione, non sapendo che addurre di decisivo
contro certe forti riprensioni che ci si fanno, esclama: dunque gli Italiani
non sono meditativi, non sono inventivi, non hanno verità di concetti e di
frasi? Ma per carità non le tocchiamo queste corde, e rechiamo piuttosto i
monumenti delle recenti, originali nostre meditazioni, delle nostre
invenzioni, della nostra profonda, sustanziosa eloquenza, oppure
aspettiamoci che si risponderà alla risposta del postillatore, col solo
toglierle il punto interrogativo. Sì, è vero, abbiamo battezzato noi La
Grange87 e nostri sono Volta, Scarpa88, Mascagni89 e Piazzi90; a questi
aggiungeremo pure Monti, Visconti91, Verri92, Pindemonte, Foscolo; ma
bastano forse quei soli ai bisogni attuali del nostro incivilimento? Io per me
ad essi ne appello, e sottoscrivo alla sentenza che ne daranno quei luminosi
intelletti; essi, concittadini veri di quanti v’hanno in Europa insigni in tutte
le altre numerosissime facoltà.
No, che non è già dotta curiosità, che spinse l’autore dell’articolo a
visitare questa illustre Donna. Chi è mosso da una così nobile attrazione,
trova presso di lei assai più motivi di ammirazione, che argomenti d’insulto.
La signora Baronessa di Staël, che non ha la pratica di certe smorfie
letterarie, e che riceve la gente con semplice e linda maniera, non avrà
detto, v. g., al visitatore, voi mi sembrate uno dei barbassori d’Italia; o più
verisimilmente egli, nel cospetto suo, non sarà rimasto contento di sé, e
perciò si vendica di lei. Se avesse rinvenuto una forestiera circondata da un
solenne apparato scientifico, e di tutti gli utensili di studio, che non avrebbe
detto il signor Lepidino su la Femme savante? Ma essa non presta un
siffatto appiglio alla di lui triviale ironia; essa è una di quelle poche anime
che dallo studio traggono squisitezze di gusto nella vita abituale, e ride, e
parla e va, e viene, come quelle che non fanno altro poi che ridere e parlare,
e andare, e tornare; ma non perciò ella va esente da un nuovo motteggio del
giornalista fiorentino, che cerca di voltare in burla perfino l’assoluta
mancanza in lei d’ogni ridicolo e d’ogni caricatura letteraria.
I calunniatori della dottrina letteraria della signora Baronessa di Staël sul
conto dei nostri sommi scrittori, non si sono presi la minima cura di serbare
almeno qualche verisimiglianza. A tutti, letterati o no, io ne appello, a tutte
le più distinte ed autorevoli persone, alle amabilissime donne, ond’ella e il
suo nobile drappello furono qui in Milano circondati, e loro domando se
essere possa verisimile, che dopo percorse appena poche miglia da queste
mura, le si siano ad un tratto cambiate le idee, e se colei che si deliziava fra
noi nel farsi recitare i migliori squarci di Dante, di Petrarca, di Tasso, ec.,
abbia poi dovuto respirare nelle aure della Toscana un tal ribrezzo contro ai
medesimi, quale apparirebbe dalle sentenze che il giornalista le pone in
bocca? Oltre che (lo ripeterei mille volte) vi ha sempre una mancanza di
rispetto, o di riguardo almeno, nel citar le parole di una persona vivente e
nel profittare, quasi per derubarle al di lei labbro, della sua facile
accostevolezza, io che potrei qui ricordare più di un discorso di quella
Donna molto lusinghiero per la patria nostra, e specialmente per l’attuale
progresso dei lumi nella Lombardia, credo che sia molto più regolare e
molto più inappellabile l’autorità degli scritti suoi. Odano dunque gli
spassionati, odano pure i malevoli di lei, odano i pedanti, odano gl’ipocriti
zelatori della gloria italiana ciò che i Padri della nostra letteratura diedero a
quel suo ingegno e a quel suo armoniosissimo cuore, occasione di pensare e
di sentire.
«Or dunque se caldi siete veramente d’amor di gloria, fissate con
orgoglio il pensier vostro, su quei secoli che videro tra voi rinascere le arti.
Dante, l’Omero dei tempi moderni, poeta sacro dei religiosi nostri misteri,
tuffò il genio suo nello Stige per approdare all’inferno, e l’anima sua fu
tanto vasta e profonda, quanto gli abissi da lui descritti. L’Italia, quale era
nei giorni della sua possanza, tutta rivive in lui. Posseduto dal genio delle
Repubbliche, non men guerriero che poeta, egli accende tra i morti l’amor
delle gesta, e le ombre sue animate sono d’una vita più gagliarda e più forte
degli stessi viventi d’oggidì; le reminiscenze della terra le inseguono; inutili
passioni divorano loro il cuore; esca n’è il loro passato, che pure sembra a
quelle anime meno irrevocabile ancora dell’eterno avvenire. Direbbesi che
Dante esiliato dalla sua terra seco recò in quelle spiagge immaginarie le
pene onde aveva il cuore straziato; chiedono ad ognora, le Ombre, novelle
della gente viva, appunto come il poeta vien chiedendone della sua patria, e
il profondo inferno si para a lui dinanzi come la regione dell’esilio. Un
mistico incatenamento di cerchi e di sfere lo conduce dall’inferno al
purgatorio, dal purgatorio al paradiso. Fedele istorico della propria visione,
egli inonda di splendore i più oscuri luoghi, ed il trino mondo è completo,
animato, brillante come un pianeta novellamente scoperto nello spazio. Al
suono della sua voce tutto nella natura divien poesia; gli oggetti, le idee, le
leggi, i fenomeni tutti concorrono a formare un novello Olimpo di novelle
divinità ma anche questa mitologia della immaginazione si dissipa, si
annienta, come già quella del paganesimo, al disserrarsi del paradiso,
oceano di luce, scintillante di raggi, di stelle, di virtù e d’amore. Le
miracolose parole di questo altissimo fra i poeti fanno l’uffizio di un prisma
dell’universo; tutti i fenomeni vi si riflettono, vi si scompongono, vi si
ricompongono; i suoni imitano i colori, i colori sono fusi in armonia; la
rima or sonora, or bizzarra, or protratta, or rapida sembra inspirata a Dante
da una specie di poetica divinazione, ec. Il Dante sperava dal suo poema
ottenere la fine dell’esilio; mediatrice ne invocava la fama, ma ei morì
anziché raccogliere la palma della patria. Oh! spesso la vita labile
dell’uomo si consuma nelle traversie…
«Così pure il Tasso infelice, che gli omaggi vostri, o Romani, dovevano
consolare di tante sofferte ingiustizie, il Tasso bello, gentile, cavalleresco,
caldo d’ogni estro d’eroismo, e provando addentro quell’amore ch’ei
cantava, toccò le mura vostre, come già i suoi prodi quelle di Gerusalemme,
con rispetto e con gratitudine. Ma nella vigilia del di lui trionfo sei
rivendicò la morte per una sua solennità; il Cielo è geloso talvolta della
terra, e richiama i favoriti suoi dalle lusinghiere prode del tempo.
«In un più robusto e più libero secolo che non quello del Tasso, fu
anch’egli il Petrarca, come già il Dante, valoroso poeta dell’italica
indipendenza. Altrove non si sanno che gli amori suoi; il suo nome è qui
onorato da più severe reminiscenze; la patria, la patria sua lo inspirò meglio
ancora della sua Laura. Ei ridestò qui l’antichità, e lungi dal far ostacolo a
più profondi studi, l’immaginazione, quella possanza creatrice, fe’ ligio a
lui l’avvenire, e molti arcani gli svelò dei secoli andati. Egli ebbe a provare
che l’invenzione si soccorre assai del conoscere, ed il suo genio fu tanto più
originale che, simile alle forze perenni della natura, ei seppe essere presente
a tutte le età».
Questo aere puro, questo ridente clima inspiravano l’Ariosto; «egli
apparve come un’iride dopo le lunghe vostre guerre; lucido e vario come
quello messaggero del sereno, sembra egli scherzare familiarmente colla
vita; la gaia sua amena leggerezza non è già l’ironia dell’uomo: è la festività
della natura.
«Michelangelo, Raffaello, Pergolesi, Galileo, e voi intrepidi viaggiatori,
avidi di novelle contrade, sebbene non possa la natura mostrarne a voi di
più belle della vostra, congiungete anche la gloria vostra a quella dei poeti.
Maestri nelle arti, Scienziati, Filosofi, voi, non meno di essi, figli siete di
questo sole che ora svolve le immaginazioni, ora anima il pensiero, eccita il
coraggio, vi concede il sonno in grembo alla felicità, e tutti i beni sembra
promettervi, o farvi almeno tutti i mali obliare»93.
Forse li ha ella trovati l’illustre Donna questi concetti nel Vellutello e nel
Landino? Forse nelle nostre storie letterarie? Forse il giornalista di Firenze
e il suo corrispondente di Milano sanno parlare del bello e del sublime, e
farlo altrui sentire, e investirne gli animi assai meglio di così?…
Mi sembra che possa trovare qui acconcio luogo un saggio di quella
poesia, che, prescindendo da ogni ragione mitologica e di antica allegoria,
deriva tutta la sua efficenza dai costumi, dagli affetti e oserei quasi dire dal
sapore di quelle moderne età, che han pur tanto in sé di grandioso, di
patetico e di risplendente. Io non dubiterei di recare codesto componimento
ad esempio di perfetta lirica romantica94; e se i pochi intelligenti davvero,
perdonando ai rari nèi che vi s’incontrano, verranno in questa mia opinione,
allora la chiarissima Autrice di questa ode avrà ella tra i primi dimostrata
anche ai dì nostri, la verità di queste sue parole: «Mi pare che in un paese
tutto poetico che vanta la lingua la più nobile ed insieme la più dolce, tutte
tutte le vie diverse si possano tentare, e che sinché la patria di Alfieri e di
Monti non ha perduto l’antico valore, in tutte essa dovrebbe essere la
prima»95.
a. Allorquando Vittorio Alfieri venia visitando in Firenze i pedanti, com’egli li chiama (Vita,
epoca IV, cap. XI), mascheratosi da agnello per cavarne o lucri o risate, ed essendo quasi
impossibile il primo lucro, ne ritraeva in copia il secondo, modestamente quei barbassori gli
lasciarono, anzi gli fecero chiaramente intendere che se egli prima di stampare avesse fatto
correggere il suo manoscritto da loro, avrebbe scritto bene; allora fu che lo stesso Casalbigi,
illuminato censore di questo nuovo tragico, sdegnato contro il rumore che que’ pigmei fastidiosi
alzavano d’ogni intorno per isconfortare Alfieri e per intimidirlo, scrisse al dotto Lampredi, grande
ammiratore di quelle tragedie, le seguenti parole: Non mi fanno remora le dicerie dei critici, che
com’ella ben riflette, non fanno nulla e vogliono atterrire ed inquietare chi fa. Povera Italia! Ridotta
oggimai in quelle tenebre che altre volte seppe sgombrare dall’Europa intera. Siamo venuti a segno,
in quasi che tutte le scienze, di doversi prevalere del lume che ci vanno somministrando per condurci
le altre nazioni. Lume proprio non abbiamo più. Se alcuno ardisce di volercelo dare, è subito
perseguitato e deriso (6 maggio 1783).
b. Della ragion poetica, 1. II, § VIII. E il Gravina termina il paragrafo della Lingua e Repubblica
Fiorentina aggiungendo perché il Petrarca ed il Boccaccio ed altri tutti le scienze e le materie gravi
scrissero in latino, e la volgare lingua non applicarono se non che alle materie amorose, così portati
sì dall’imitazione de’ Provenzali, sì dalla necessita di aprire il suo sentimento alle loro Dame…
perciò le parole introdotte dal Dante, le quali sono le più proprie e più espressive, rimasero
abbandonate dall’uso con danno della nostra lingua, e con oscurità di quel poema; nel quale era
lecito a Dante, sì per la grandezza del suo ingegno, sì per l’infanzia della nostra lingua, di cui egli è
il padre, sì per l’ampiezza e novità della materia, inventar parole nuove, usar delle antiche ed
introdurne delle forestiere, siccome Omero veggiamo aver fatto23.
c. Quali fossero sotto i governi francesi che si sono succeduti, quei fogli pubblici che pigliavano
pretesto dalle opere letterarie per deprimere la riputazione di queste persone, e se la critica ne fosse o
no diretta da ben altre intenzioni è facile immaginarlo, trattandosi, a cagion d’esempio, degli scritti
della Baronessa di Staël. No che quei fogli non dovevano perdonare alla figlia di Necker d’esser
divenuta in Europa un individuo così efficace a favore dell’incremento sociale. Gli articoli d’esso
giornale erano i precursori di quei terribili chirografi ministeriali, contro cui non valse poi né ragion,
né giustizia, e che costrinsero la intrepida donna a fuggire di terra in terra; e se il suo esilio sembrò
piuttosto un trionfo dovunque ella compariva, ciò provenne da quel diritto di universale cittadinanza
che dànno, dopo l’invenzione della stampa, il coraggio del vero e lo zelo della dignità umana.
d. E ciò vedrassi ben tosto nelle battaglie cui darà luogo ancora questa scissura d’opinioni; e il tono
che adotteranno i Francesi sarà ben oltre il puro letterario; e li vedremo risentirsi amaramente gli uni,
e dar fondo gli altri a tutta quanta la loro artiglieria di spiritosi sarcasmi, et flétrir par le ridicule ciò
che perderanno la speranza di abbattere colle ragioni; ma neppure ciò basterà loro, cred’io, e saranno
tanto ingenui dal finire coll’intimarci l’imitazione esclusiva di quel loro Gran Secolo di Lodovico
XIV, il solo che potè produrre (a sentire gli attuali loro classicisti) les écrivains du premier ordre.
Vedilo, tosto, lettore, se la nostra previdenza era giusta; cui cade or ora sott’occhio un libro uscito di
fresco in Parigi col titolo l’Anti-Romantique [di Saint-Chamans]1 e che potrebbe forse intitolarsi, o
almeno aver per epigrafe, il n’y a de l’esprit que pour nous et nos amis. Il libro è tutt’altro che
spregevole, e ripete veramente anche molte buone cose; ma osserva ti prego a che, da un punto
veramente letterario e speculativo, l’autore si lascia condurre, … je ne comprends jamais les femmes
dans mes hostilités: …je me plais à rendre justice aux Allemandes, dont je suis disposé à penser tout
le bien possible, si elles ressemblent, généralement, à celles que je connais. J’en ai vu qu’à
l’élégance de leur mise, aux charmes de leur figure, à la grâce de leur tournure, l’agrément de leur
esprit, le naturel aimable de leur politesse, j’aurais prises pour des Françaises… Peut-être ces
beautés étrangères seront-elles peu flattées de cette façon de les louer; mais je leur avouerai que si je
connaissais une manière de faire un plus grand éloge d’une femme, je l’aurois employée. — E dopo
adoperati tutti gli argomenti e le industrie finiranno pure in concludere anche così, d’ogni loro
letteratura classica. Perciò, torno a dire, il loro esempio è di poca autorità nel caso nostro.
1. Sul Dussault e su L’Anti-Romantique ou examen de quelques ouvrages nouveaux, par M. le
vicomte de S[aint-Chamans] vedi Borsieri a p. 224 di questo vol.; e cfr. G. Muoni, Ludovico di
Breme ecc., cit., p. 57; C. Calcaterra, Gli studi danteschi di V. Gioberti, in misc. Dante e il Piemonte,
cit., p. 141; A. Farinelli, Il romanticismo in Germania, Bari, Laterza, 1911, p. 201, e Il romanticismo
nel mondo latino, Torino, Bocca, 1927, v. III, p. 50.
e. Che la Romantica sia per sé un solenne genere di letteratura, non è più da porsi in dubbio; resta
da desiderarsi tuttavia una più completa e meglio definita Poetica di esso genere. Io credo che questa
sia opera da tentarsi con maggior successo in Italia che altrove, come lo farò ben tosto sentire. Intanto
cade qui in acconcio di riconoscere siccome il Gravina non dubitò di rivendicare le qualità
f. L’immagine presa una volta dall’originale della natura quanto ritraendosi per varie menti
trapassa, tanto più si va dileguando, e più gradi va perdendo di verità e di energia… onde chi più
legge, meno talora impara, se quel ch’è scritto non riscontra con quel che nasce sotto i nostri occhi
ogni momento. Gravina, § XVIII.
g. Ho fatto ricerca di giornali letterari milanesi usciti dopo la traduzione di Sofocle del Sig. Felice
Bellotti, nei quali un lavoro così grave e che onora per tanto gli studi di questa metropoli, fosse
chiamato a quel profondo esame che ben si merita: nulla ho rinvenuto di proporzionato alla pubblica
aspettazione, e al decoro di quel libro; mi fu detto essersene occupati alcuni giornali della Toscana;
non mi pare che quest’opera interessasse così poco la storia letteraria della Lombardia da doversene
cedere l’apologia agli emuli delle altre province d’Italia.
1. È il march. Ludovico Gius. Arborio Gattinara di Breme, nato nel 1754 a Parigi, ove suo padre
era ambasciatore del Re di Sardegna. Appartenne a sua volta alla diplomazia piemontese e sostenne
importanti uffici a Napoli, a Vienna, a Pilnitz, a Francoforte. Quando i Francesi invasero gli Stati
Sardi, fu ostaggio in Francia. Venuto nel 1804 a Milano, fu nel 1805 nominato da Napoleone
Consigliere di Stato e Commissario generale delle sussistenze per l’esercito d’Italia. Fu poi Ministre
de l’Intérieur du Royaume d’Italie dal 1806 al 24 ottobre 1809 e in appresso Presidente del Senato.
Caduto l’impero napoleonico riprese stanza nella Lomellina e a Torino, rivolgendo la mente e
l’azione al pubblico bene.
Per le notizie inesatte date su di lui nella Biographie des Vivans (Paris, Michaud) pubblicò
anch’egli un opuscolo di replica: Lettre | du | marquis | Arborio Gattinare de Brême | à ses fils à
Milan | Genève | J.-J. Paschoud | 1817 | pp. 14, che fu pure stampato col medesimo titolo a Brescia
dal Bettoni il medesimo anno. La lettera ha la data di Sartirana, 24 aprile 1817. Parlando dell’opera
da lui svolta durante il regno italico come ministro degli interni, egli dice tra l’altro: «Je ne ménageai
au besoin ni les hiérophantes de la révolution, ni leurs protecteurs; je fus assidu au travail, ami de
l’ordre et des mœurs; l’un des pilotes enfin actif et vigilant d’un vaisseau monté par plus d’un
corsaire» (p. 10). Per difendere la sua opera di Ministro del Regno d’Italia, pubblicò inoltre:
Observations | du | Marquis | Arborio Gattinare de Brêms | sur quelques articles peu exacts de
l’histoire de | l’administration du Royaume d’Italie pendant la | domination des Français, attribuée à
un nommé | M. Frédéric Coraccini, | et traduite de l’italien | Turin | De l’imprimerie de Joseph
Favalle | MDCCCXXIII | in 8°, pp. 96, con documenti. Notevoli sono anche i suoi memoriali sulla
Lomellina e sul Dipartimento dell’Agogna (1802 e 1803) e in particolar modo i suoi lavori di
argomento agricolo ed educativo, i quali hanno serbato il suo nome nella storia della nostra
pedagogia e della nostra agricoltura. Come il figlio Ludovico, fu un ammiratore entusiastico
dell’Istituto agricolo di Hofwyl e fu in relazione con il conte Luigi di Villevieille, che era ivi «braccio
destro del Fellenberg». Morì nel 1828 a Sartirana. Un accenno alla sua azione culturale, la quale
negli ultimi anni fu viva e intensa, è nel vol. G. CAPPONI, Sull’educazione e scritti minori, con pref.
di E. Codignola, Firenze, Vallecchi, 1921, p. III, e a p. 253 del vol. II del cit. Breve corso di storia
dell’educazione di P. Monroe ed E. Codignola. Nel saggio di G. VIDARI, Scuole mutue e asili
d’infanzia agli albori del Risorgimento, in «Rivista Pedagogica», A. XX, 1927, egli è designato come
«il capo piemontese del movimento lancasteriano». È figura che meriterebbe d’essere studiata. Cfr.
intanto DOMENICO CARUTTI, Storia della Corte di Savoia durante la Rivoluzione e l’Impero
Francese, Torino, Roux, 1892, vol. II, p. 366; GIOVANNI DE CASTRO, Milano durante la dominazione
napoleonica giusta le poesie, le caricature ed altre testimonianze dei tempi, Milano, Dumolard, 1880,
pp. 278–280 e p. 396, dove è anche un accenno al figlio Ludovico; ANDRÉ JANIN, Napoléon et
l’Italie, Paris, Janin, 1947, per l’inquadramento; MELCHIORRE ROBERTI, Milano capitale
napoleonica, La formazione di uno Stato Moderno, 1796–1814, tre voli., Milano, «Studi e testi di
storia milanese», 1946–1947; ANGIOLO GAMBARO, Movimento pedagogico piemontese nella prima
metà del secolo XIX, in «Salesianum», XII, 1950.
2. Nacque a Torino nel 1780; fu discepolo di Tommaso Valperga di Caluso, ardentissimo fin dalla
giovinezza negli studi di filosofia, letteratura, storia. A Milano fu elemosiniere del Vicerè Eugenio
Beauharnais, governatore dei Paggi della Corte di Milano, Consigliere di Stato nel Regno Italico,
cavaliere della Corona di Ferro. Visse libero dopo la caduta del Regno Italico e morì a Torino il 15
agosto 1820, a quarant’anni.
Si avverta che l’offrire al padre, da Milano, nel 1816, in segno di alto omaggio, quell’opuscolo
polemico, era di per sé un aperto segno di fierezza, di indipendenza e di fiducia in una nuova azione
ideale e pratica.
Come è risaputo, il governo austriaco mal tollerava che si facesse il nome del vecchio ministro,
che nel regno italico aveva dato prova di esperienza politica e di larghezza di idee. Il barone
Giuseppe Sardagna d’Innsbruck, alto ufficiale della magistratura austriaca, che aveva imposto un
«regolamento» alla Biblioteca Italiana, cercò di impedire che nella rivista si parlasse del march. Di
Breme e del figliuolo letterato. Allorché nel giugno del 1816 Mad. de Staël, con una lettera ai
Compilatori della Biblioteca Italiana rispose alle critiche che le erano state mosse (vedi Discussioni e
Polemiche, a cura del Bellorini, I, pp. 64–67), la censura austriaca fece togliere l’alto elogio che del
Di Breme letterato aveva fatto la scrittrice francese. Ben dice A. Luzio, nel saggio Giuseppe Acerbi e
la «Biblioteca Italiana», che nella lettera di protesta mandata allora dal Di Breme all’Acerbi, «non
parla soltanto la vanità del letterato», offeso pel disconoscimento, «ma anche un’indole generosa
insofferente d’ogni intrigo, d’ogni doppiezza». Ad ogni modo l’Acerbi non voleva rendersi ostile il
gruppo dibremiano e si giustificò dicendo che non aveva voluto rinfocolare le polemiche suscitate dal
discorso Intorno all’ingiustizia di alcuni giudizi letterari italiani; e quell’anno stesso, avendo la Staël
desiderato che nella Biblioteca Italiana fossero recensite le Memorie del Di Rocca intorno alla
guerra de’ Francesi in Ispagna recate dall’originale francese in italiano, Milano, Stella, 1816 (come
è noto, il Di Rocca dal 1810 aveva sposato segretamente la Staël) e avendo designato come
recensente il Di Breme, l’Acerbi pubblicò la recensione senza firma. Il Di Breme, fedele al suo
pensiero, scriveva in essa: «L’Italia futura avrà l’Alfieri per un suo filosofo politico non men
profondo talvolta di quanto lo ravvisi sublime tragico». Quel liberalismo non poteva certo piacere al
governo austriaco. E, allorché nel settembre del 1817 la Biblioteca Italiana parlò dell’apologia del
march. Di Breme (vol. VIII, p. 160), il Sardagna scrisse all’Acerbi: «Con somma sorpresa viddi dare
molti encomi alla schiochissima (sic) lettera del march. Breme, fareste bene di non stampare cose
simili senza consultarmi prima».
3. Madame de Staël.
4. Accenna allo scritto De l’esprit des traductions della Staël, che, tradotto in italiano da Pietro
Giordani col titolo Sulla maniera e sulla utilità delle traduzioni, era apparso nella Biblioteca Italiana
del gennaio 1816, e ai passi del romanzo Corinne e dell’opera De l’Allemagne, che dopo la
pubblicazione del suddetto articolo erano stati ripresi in esame, come a noi sfavorevoli, da sedicenti
difensori dell’onor nazionale.
5. Aveva dato il segnale d’attacco contro la Signora di Staël il giornale fiorentino Le Novelle
Letterarie con un’allegoria sconveniente e ingiuriosa, nella quale si introducevano nella discussione
allusioni alla vita intima della scrittrice e più particolarmente a’ suoi rapporti con A. G. Schlegel,
cioè a fatti che con la questione delle traduzioni non avevano a che fare. Aveva ripubblicato
quell’articolo lo Spettatore di Milano [Tip. Stella, aprile 1816, t. V, p. 192] con un’obliqua lettera
zelatrice, datata da Firenze, e con postille, che erano dette «piccantissime» per altre diversioni
dall’argomento e specialmente per un’allusione ai legami d’amicizia che la Staël nel 1803 aveva
avuto con Benjamin Constant. In questo modo, «per amor della gloria italiana» si volevano «ribattere
certe massime, parto di un fantastico cervello, le quali da una instancabile fabbricatrice di libri, nata
oltremonte, si andavano spacciando in Italia». La Staël nell’articolo era detta «vecchia Pitonessa» lo
Schlegel «lo spirito Lemure», che dettava gli oracoli alla vaticinatrice. A quegli attacchi unì di
traverso i suoi il Corriere delle Dame (19 maggio e 1° giugno 1816) con due articoli di T[russardo]
C[aleppio]. Quelle maniere di vilipendio erano definite da Ludovico di Breme malcostume letterario;
quel subdolo zelo dell’onor italiano era da lui detto patriottismo ipocrita.
In Piemonte, nel periodo della Filopatria, erano stati esaminati e discussi pensieri e giudizi della
Staël, ma col più profondo rispetto e con lealtà. Esempio di critica seria e garbata era stata la
rassegna, in cui la Biblioteca Oltremontana di Torino (1790, I, 3–23), molto letta e pregiata, aveva
preso in esame le Lettres sur les ouvrages et le caractère de J. J. Rousseau, apparse nel 1789. La
rassegna, composta dal Vernazza in collaborazione col Ponziglione, può essere riletta nel vol. I
Filopatridi, Torino, Soc. Editr. Internaz., 1941, pp. 269–275.
6. Importante, anzi sostanziale, è in questo punto la raccomandazione del Di Breme che il
traduttore dalle lingue straniere debba conoscere bene tanto la lingua da cui traduce, quanto la lingua
in cui traduce. Con la frase «profonda intelligenza delle due lingue» vuol dire la conoscenza interiore
dell’una e dell’altra, la piena padronanza del pensiero nella parola. Al contrario, le traduzioni dalle
lingue straniere erano per lo più fatte in Italia frettolosamente, senz’arte, da persone che conoscevano
all’ingrosso la lingua, da cui traducevano, e male scrivevano l’italiano. Inette sono sempre Je
traduzioni di chi mal possiede la lingua in cui traduce.
Molte traduzioni dalle letterature straniere si erano avute in Italia nel Settecento e al principio
dell’Ottocento; ma i romantici nostri pensavano che in questo campo fosse tutto da rifare e che la
diffusione delle letterature straniere dovesse essere intrapresa con senso d’arte e con spirito critico,
con gusto linguistico e modernità di pensiero. Condannavano in pieno le traduzioni incolte di gente
imperita o dei maneggioni che tiran via, e volevano che nello studio delle opere straniere
incominciasse secolo nuovo. Per essi l’essenziale della questione sta nell’ispirazione, nel gusto e
nella forma, con cui si traduce dalle letterature straniere.
7. Già nel Settecento era stata vivissima in Piemonte e in altre regioni italiane la reazione al
«franzesismo» e in genere all’esotismo, considerato come un modo di vivere, pensare, immaginare,
come un abito mentale. Vedi «Il nostro imminente risorgimento», cit., alle pp. 487–488, 492–502; e
le voci Antiesoticismo e Antifrancesismo a p. 349 del vol. Le Adunanze della «Patria Società
Letteraria».
L’osservazione del Di Breme è molto significativa, perché conferma che egli, sebbene fosse
cresciuto in una famiglia di diplomatici multilingui, che avevano molte relazioni oltre le Alpi,
sebbene egli avesse fatto letture innumerevoli di scrittori stranieri, specialmente francesi, e sebbene
amasse la compagnia dei maggiori letterati d’Europa, che a loro volta si compiacevan di frequentarlo
(Byron, Stendhal, Mad. de Staël, gli Schlegel, ecc.), voleva nel profondo non essere un esotizzante,
ma un italiano. Perciò si giustificava di aver dovuto pubblicare in francese il Grand Commentane sur
un petit article par un vivant remarquable sans le savoir (1817), per difendersi dalle false notizie
diffuse su di lui dalla Biographie des Vivans.
8. Vedi la n. 3 a p. 103.
9. Lodovico Castel vetro tradusse e commentò la Poetica di Aristotele.
10. ’L’Arte poetica di Benedetto Menzini (1646–1704), che faceva pernio sul «buon giudicio».
11. Antonio Sebastiano Minturno, autore di una delle più celebri arti poetiche del Cinquecento,
nella quale – dice il titolo — si contengono i precetti eroici, tragici, comici, satirici e d’ogni altra
poesia, con la dottrina de’ sonetti, canzoni ed ogni sorta di rime toscane; dove s’insegna il modo che
tenne il Petrarca nelle sue opere e si dichiara a’ suoi luoghi tutto quel che da Aristotele, Orazio ed
altri autori greci e latini è stato scritto per ammaestramento de’ poeti.
12. Francesco Bacone da Verulamio, instauratore del metodo sperimentale, col Novum Organum
(1620), antiaristotelico. La filosofia baconiana era stata il pernio degli studi filosofici a Torino nella
seconda metà del Settecento: in quella temperie filosofica si era formato il Di Breme nella prima
giovinezza. Cfr. «Il nostro imminente risorgimento», cit., e le Adunanze della «Patria Società
Letteraria», pp. XIV-XX, e p. 351.
13. Giov. Locke, autore del Saggio sull’intelletto umano (1690), filosofo sensista.
14. Stefano Bonnot de Condillac (1715–1780), il filosofo sensista più noto in Italia nella seconda
metà del Settecento, esaltato dal Frugoni come il pensatore che aveva disvelato «l’origin vera del
conoscer nostro», insegnò che tutte le idee provengono dai sensi; che le facoltà dell’anima, al pari
delle idee, non sono altro che sensazioni trasformate; unico metodo sicuro è l’analisi; le lingue sono
metodi analitici; il progresso dell’intelligenza dipende dalla perfezione delle lingue; una scienza altro
non è che un linguaggio ben ordinato, e l’arte dello scrivere si riduce a seguire il nesso delle idee.
Abbiamo di lui: Saggio sull’origine delle cognizioni umane; Trattato dei sistemi; Trattato delle
sensazioni; Trattato sugli animali, contro Buffon; Corso di studi del principe di Parma, che
comprende Grammatica, Arte dello scrivere, Arte di ragionare, Arte di pensare, Storia, Logica.
Cesare Chesneau Dumarsais, grammatico francese (1676–1756), scrisse un Traité des tropes e i
Principes de grammaire. Fu assai lodato dal D’Alembert nel t. VII dell’Encyclopédie e dal Destutt de
Tracy negli Elémens d’idéologie t. II (Grammaire), 1803, p. 9. Perciò è qui citato con onore dal Di
Breme.
Carlo Bonnet, nato a Ginevra nel 1720, morto il 1793, autore delle Considérations sur les corps
organisés e della celebre Palingénésie philosophique, in cui egli applica la legge di continuità
enunciata dal Leibniz.
Adamo Smith, fondatore dell’economia politica, autore dell’opera Ricerche intorno alla natura e
alle cause della ricchezza delle nazioni (1776). Il Di Breme qui lo cita per gli Essais philosophiques,
précédés d’un précis de sa vie et des écrits par Dugald…Stewart (Paris, 1797), tradotti dal Prévost.
Dugald-Stewart, discepolo di Ferguson e di Tommaso Reid, visse dal 1753 al 1828. Il Di Breme
qui lo cita per gli Elémens de philosophie de l’esprit humain (Genève, Paschoud, 1808), tradotti dal
Prévost. Fu poi molto letto anche dal Gioberti.
Giuseppe Degerando, di Lione, filosofo ed erudito, visse dal 1772 al 1843. Era allora molto letto in
Piemonte. Anche il giovine Gioberti lo cita ne’ suoi scritti.
Antonio Destutt de Tracy, filosofo sensista e uomo politico francese, visse dal 1754 al 1836. Opere
principali: Elementi d’ideologia; Trattato della volontà e de’ suoi effetti’, Saggio sul genio e sulle
opere di Montesquieu; Memoria intorno a Kant, ecc.
Pierre Prévost, nato a Ginevra nel 1751, morto il 1839, autore delle Observations sur les méthodes
employèes pour enseigner la morale (1782), del Mémoire sur le principe des beaux-arts ou Réponse
à cette question: Quelle est la cause du plaisir qu’excitent en nous les beaux-arts et en particulier la
poésie? (1787), è qui citato per gli Essais de philosophie ou étude de l’esprit humain (1804). Fu uno
degli autori più studiati dal Di Breme. Anche il giovine Gioberti, non molto tempo dopo, lesse i suoi
Essais e le sue traduzioni dallo Smith e dal Dugald-Stewart. Queste letture del Di Breme e del
giovine Gioberti dimostrano come a Torino, a partire dalle discussioni illuministiche dei frequentatori
della Sampaolina e da quelle dei Filopatridi, sia venuta ampliandosi nel primo Ottocento la
conoscenza della filosofia europea.
15. Davide Irving è qui citato per le Observations on the study of the civil Law, apparse nel 1815,
che ebbero allora grande successo.
Eman. Kant, il grande iniziatore dell’idealismo moderno, è citato per laCritica della ragion pura,
per la Critica della ragion pratica, per la Critica del giudizio.
Federico Enrico Jacobi è citato per l’opera Davide Hume e la fede o idealismo e realismo e per le
Lettere sulla dottrina dello Spinoza. Aveva combattuto il criticismo kantiano, sostenendo che le idee
astratte a nulla valgono e che da queste non si possono dedurre precetti immutabili e certi delle azioni
umane. La vera conoscenza umana è per lui il sentimento, nel quale soltanto raggiungiamo
l’unificazione con l’oggetto e il suo possesso nella certezza della fede. Il sentimento ha un duplice
oggetto: la realtà sensibile, che si rivela nella percezione; la realtà soprasensibile, che si rivela nella
ragione. Pel Jacobi dunque la conoscenza della verità dev’essere intesa come apprensione diretta
dell’assoluto da parte del soggetto e non come costruzione di forme astratte, che non colgono il puro
essere dell’oggetto. Per questa sua dottrina il Jacobi ebbe viva azione sul romanticismo tedesco. Egli,
sebbene accettasse la distinzione kantiana tra la ricettività dei sensi (sensibilità o facoltà di sentire) e
la spontaneità (per cui si modifica il proprio essere, indipendentemente dalle cause esterne),
estendeva il valore di ricettività al sentimento, all’intuizione, alla fede, al presentimento e anche
all’ispirazione. Il Di Breme cita il Jacobi dopo Kant, perché nell’antitesi tra il «sapere immediato»
(sentimento, fede, ragione) e il «sapere mediato» (sintesi della ragion teoretica) vedeva il dramma
gnoseologico della filosofia del suo tempo; e nella discussione stessa, allora vivissima, vedeva la
nuova grammatica intellettuale d’Europa, la chiave della nuova gnoseologia. Quel dramma era il suo
dramma. Nell’affidarsi al sentimento e alla fede, in molte questioni egli dava romanticamente la
prevalenza alla ragion pratica su quella teoretica; affidandosi in altre soltanto alla ragion teoretica,
come abbiamo veduto, non sorpassava i metodi del razionalismo illuministico.
Giovanni Amedeo Fichte, continuatore di Kant, è citato per l’idea della dottrina della scienza,
ossia di ciò che chiamasi filosofia.
Federico Ancillon (1767–1837), è citato pei Mélanges de littérature et de philosophie (Paris,
Schoell, 1809). Gli Essais philosophiques ou nouveaux mélanges de littér. et de philos. sono del
1817. Quest’autore fu assai letto in Piemonte e tenuto in gran conto anche dal giovine Gioberti.
16. Leonardo Salviati, uno dei fondatori dell’Acc. della Crusca, acerrimo avversario del Tasso,
vissuto dal 1540 al 1589, aveva scritto gli Avvertimenti della lingua sopra il Decamerone.
Benedetto Buommattei, di Firenze, grammatico, vissuto dal 1581 al 1647, con i due libri sulla
Lingua toscana aveva fatto testo per lungo tempo.
Marcantonio Mambelli, detto il Cinonio, gesuita e grammatico di Forlì, vissuto dal 1582 al 1644,
aveva fatto testo con le Osservazioni sulla lingua italiana.
Salvatore Corticelli, grammatico, nato a Piacenza nel 1690, morto nel 1758, barnabita, aveva
scritto le Regole ed osservazioni della lingua toscana e Cento discorsi sopra la toscana eloquenza.
17. Francesco Soave, di Lugano, somasco, visse dal 1743 al 1806. Scrisse: Istituzioni di logica,
metafisica ed etica; Grammatica ragionata della lingua italiana; Compendio di Storia Sacra e della
Mitologia; Novelle morali ecc. Tradusse inoltre le Lezioni di eloquenza dello scozzese Ugo Blair. In
filosofia fu un ideologo. Di lui il Di Breme diede giudizio più severo nel Grand Comm.: «Le père
Soave (qui s’est d’ailleurs rendu très recommandable par de longs travaux consacrés à
l’enseignement élémentaire) n’avoit pas encore donné dans l’un des volumes de l’Institut d’Italie,
une pauvre réfutation des premiers essais d’idéologie de M. de Tracy, que déjà j’avois médité sur
l’ouvrage de ce rigoureux philosophe, et payé mon tribut d’admiration à l’auteur». Lo scritto del
Soave, a cui qui il Di Breme accenna, è la Memoria sopra il progetto di elementi di ideologia del
conte Destutt di Tracy, presentata all’istituto Nazionale Italiano il io luglio 1804 e pubblicata nel t. I,
p. I, degli Atti di quell’Istituto, Bologna, 1809, pp. 47–69.
Come abbiamo detto nell’introduzione, il Di Breme nella concezione linguistica era ancora
vincolato all’ideologia settecentesca, quando parlava di un adattamento della lingua italiana
all’idioma universalissimo d’Europa, cioè a quello del pensiero filosofico, sociale, civile.
Romanticamente avrebbe dovuto considerar la lingua come formazione, sempre rinnovantesi, dello
spirito che sente, immagina e pensa. Ma la concezione illuministica era ad ogni modo superiore a
quella dei grammatici gretti e pedanti.
18. Eculeo: strumento di tortura.
19. Deride l’albagia con cui molti giuravano che nulla vi era di nuovo e che tutto era stato già detto
dagli antichi nostri e, purché si sapesse leggere, si trovava nelle loro opere: per es. nelle prediche di
Fra Giordano da Rivalto, nelle poesie di Jacopone da Todi e in altri scritti delle origini.
20. Leonardo da Vinci, Gerolamo Cardano, Bernardino Telesio, Giordano Bruno.
21. Per il metodo induttivo sperimentale.
22. Per la concezione dell’armonia prestabilita, che, secondo il Leibnitz, aveva la sua
dimostrazione nel ripetersi costante dei fenomeni naturali, nell’ordine che regola il mondo.
23. Queste citazioni graviniane del Di Breme confermano quel che ha detto J. G. Robertson nel
suo libro: Studies in the Genesis of Romantic Theory in the Eightcenth Century: essere stato il
Gravina, ne’ suoi limiti, uno dei preparatori della nuova critica. L’analisi del Robertson ha dimostrato
che l’autore della Ragion poetica, nel tempo stesso che si atteneva alla tradizione classica, finiva col
sommuoverla. Con la Ragion poetica e col trattato Della Tragedia il Gravina, insegnando il ritorno
allo spirito dei Greci, in conclusione ripudiava quel falso aristotelismo che aveva sostituito la lettera
allo spirito dello stagirita, ed era tra i primi a mettere, deliberatamente e consciamente, il dubbio
metodico o dialettico del Descartes come base alla critica letteraria, che può essere positiva o
negativa secondo che vi sono o non vi sono ragioni per pronunziare un giudizio. Il problema indicato
dal Gravina sarà quello che assillerà i critici e gl’indagatori dell’essenza dell’arte fino a Kant, a
Schiller e più oltre: scoprire una «ragione poetica» della creazione immaginativa, fantastica, e dare
una definizione del bello.
24. Della medesima opinione era il Leopardi. Vedi lo Zibaldone nell’ediz. di Milano, Mondadori,
1937, pp. 709-715.
25. È detto con mordace esagerazione, in senso di scherno.
26. Marcantonio de Dòminis, nativo di Arbe in Dalmazia, gesuita, poi vescovo di Segna e arciv. di
Spalato. Abbracciò il protestantesimo e si rifugiò in Inghilterra. Morì nelle carceri di Castel
Sant’Angelo a Roma. Visse dal 1556 al 1625.
27. Aonio Paleario (Antonio della Paglia) di Veroli, umanista e filosofo, nato verso il 1500,
giustiziato a Roma l’8 luglio 1570.
28. Adriano IV, avutolo nelle mani, lo fece mandare a morte nel 1155.
29. Andrea Cesalpini, naturalista, medico e filosofo, nato ad Arezzo nel 1519, morto a Roma nel
1603. Per il primo riconobbe il sesso ne’ fiori.
30. Bonaventura Cavalieri, matematico insigne, nato a Milano il 1598, morto a Bologna il 1647.
Seguì il metodo galileiano. Coltivò specialmente la geometria.
31. Evangelista Torricelli, faentino (1608-1647), fu il più illustre degli scolari del Galilei, sia per le
nuove scoperte, tra cui primeggia quella del barometro, sia per il valore letterario delle opere,
specialmente delle Lezioni accademiche.
32. Benedetto Castelli, bresciano (1577-1644), fu anche discepolo del Galilei e si dedicò
particolarmente all’idraulica, a cui fece fare notevoli progressi. Le sue opere principali sono: Misura
delle acque correnti e Dimostrazione geometrica della misura delle acque correnti. È inventore del
pluviometro.
33. Arcangelo Corelli di Fusignano (1653-1713), dette impulso ragguardevole alla musica
strumentale, perfezionando la fantasia, la toccata, il capriccio.
34. Francesco De Marchi, celebre architetto e ingegnere militare, nato a Bologna nel 1504, morto
all’Aquila nel 1576, è il creatore dell’architettura militare moderna, avendo preceduto di un secolo il
Vauban, al quale si attribuirono parecchie invenzioni del De Marchi.
35. Di Francesco Bianchini, astronomo, matematico, archeologo, letterato, nato a Verona nel 1662,
morto a Roma nel 1729, l’opera principale è l’Istoria universale provata con monumenti e figurata
con simboli degli antichi.
36. G. B. Vico, 1668-1744, l’autore de’ Principj di una scienza nuova, d’intorno alla comune
natura delle nazioni.
37. Paolo Sarpi, galileiano nelle scienze naturali, celebre per l’azione politica da lui svolta nella
contesa giurisdizionale tra Venezia e Paolo V e per l’Istoria del Concilio Tridentino. Su questo punto
del Discorso si veda C. CALCATERRA, Di alcune tendenze non cattoliche del primo nostro
romanticismo, nella riv. «La Cultura», 15 luglio 1924, vol. III, fasc. 9, p. 389.
38. In Fra Guittone d’Arezzo il Di Breme non vedeva che un vecchio ri matore rimasto «di qua dal
dolce stil novo» di Dante. Egli non amava gli scrittori del secolo delle origini, disdegnava i minori
del Trecento e faceva un fascio di Fra Domenico Cavalca, che aveva lasciato il Volgarizzamento delle
Vite dei Santi Padri, lo Specchio della Croce e altre opere, le quali più non rispondevano al suo gusto
linguistico; di Jacopo Passavanti, che aveva tradotto la Città di Dio di S. Agostino e scritto lo
Specchio della vera penitenza; di Bono Giamboni, volgarizzatore di Vegezio e Paolo Orosio,
traduttore del Trésor di Brunetto Latini e probabile autore dell’Introduzione alle Virtù di Dino
Compagni, autore della Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi; di Ricordano Malispini, autore
a sua volta di una cronaca fiorentina; degli antichi novellieri, tra i quali derideva specialmente Ser
Giovanni Fiorentino, autore del Pecorone.
Voleva lingua moderna, rispondente al pensiero moderno; perciò in questa stessa pagina fa un
fascio delle Prose della volgar lingua e degli Asolani del Bembo, della Lingua toscana del
Buommattei, dei discorsi e trattati e dialoghi di Sperone Speroni, degli Avvertimenti della lingua
sopra il Decamerone del Salviati, del cruscante Bastiano de Rossi, dei Dialoghi d’amore di Ludovico
Domenichi e di tutti i dottrinari cinquecenteschi della lingua. L’esagerata condanna in blocco è
dovuta all’impeto di reazione, da cui era preso ogni volta che udiva o leggeva trasposizioni di lingua
dal moderno all’antico, fatte in nome di modelli e di dottrinari del passato.
Nessuno però consentirà con lui per aver messo in blocco anche Baldassar Castiglione, autore del
Cortegiano, che è tra i migliori prosatori del Cinquecento e non merita l’epiteto di «evirato».
39. Bernardino Daniello, letterato del Cinquecento, da Lucca, scrisse una Poetica (1536), in cui
pose Aristotele e Orazio a fondamento delle sue dottrine; commentò Dante e il Petrarca.
Giov. Andrea Gesualdo, letterato del Cinquecento, copioso commentatore del Petrarca e
compassato autore di rime petrarcheggianti.
Pier Francesco Giambullari, nato a Firenze nel 1495, morto nel 1555. L’opera sua principale è
l’Historia dell’Europa, che va dall’887 al 947; ma scrisse anche De ’l sito, forma e misure dello
Inferno di Dante, Intorno al sito del Purgatorio di Dante e della Carità, degli Influssi celesti,
dell’Ordine dell’Universo, in cui prende argomento da alcuni luoghi della Divina Commedia. Andò
perduto il commento che egli imprese a fare del divino poema; ma si sa che attendeva ad esso fin dal
1538 con grande amore: rimase interrotto ai primi canti del Purgatorio e vi era premessa una vita di
Dante. Trattò inoltre dell’origine della lingua toscana e compose un trattato Della lingua che si parla
e scrive in Firenze.
Alessandro Vellutello, lucchese, letterato del Cinquecento, noto pel suo commento alla Divina
Commedia (Venezia, 1544) e per l’edizione da lui curata delle Rime del Petrarca con note e con vita
del grande lirico.
Cristoforo Landino, fiorentino, autore d’un importante Commento alla Divina Commedia, di una
raccolta di elegie latine (Xandra), di un trattato De anima e delle Disputationes Camaldulenses. Visse
dal 1424 al 1504.
Simon Fòrnari da Reggio di Calabria, primo espositore dell’Orlando Furioso (1549).
Orazio Toscanella, letterato del Cinquecento, volgarizzò Quintiliano e scrisse il Quadrivio.
40. Accenna al Torquato Tasso del Goldoni. Questo giudizio del Di Breme sul Goldoni fu poi
ampliato dal Borsieri nelle Avventure letterarie di un giorno. Il Borsieri ammetteva però che «non si
debba chiamar il Goldoni un Paron veneziano» in senso dispregiativo, «quand’anche si voglia così
significare che le sue commedie in dialetto veneto sono le più belle e le più spiritose».
Nel giudizio negativo, che il Di Breme diede in complesso del Goldoni, non manca innanzi tutto
un influsso di quello asprissimo dato dal Baretti nella Frusta letteraria, quindi un consenso alla
severa critica, che il Sismondi aveva fatto delle commedie goldoniane nell’opera Della letteratura
dell’Europa meridionale, e a quella non meno severa, che ne aveva fatto lo Schlegel nel Corso di
letteratura drammatica. Ma in ispecial modo esso è dovuto a un’incompresione di quell’arte. Il
giudizio sul Goldoni non poteva essere fondato sul Torquato Tasso, commedia artisticamente non
riuscita, che ai romantici anche dispiaceva perché sminuiva un «grande discepolo della gloria e della
sventura», a loro caro.
41. Gilles Ménage, erudito e lessicografo francese, nato ad Angers nel 1613, morto a Parigi nel
1692, si occupò sopra tutto delle etimologie e delle regole della lingua francese. Coltivò anche la
lingua italiana e scrisse di essa. Fu il maestro di Madame di Sévigné.
François-Séraphin Regnier-Desmarais, letterato e grammatico francese, conobbe molto bene la
lingua italiana e fu in grado di comporre non senza perizia sonetti nella nostra lingua. Anzi osò
indirizzare all’ab. Strozzi una raccolta di versi affermando di averli trovati in un codice attribuito al
Petrarca. Dall’inganno svelato ebbe maggior rinomanza. Nel 1667 l’Accademia della Crusca gli
conferì il titolo di accademico. Appartenne anche all’Accademia francese e fu uno de’ principali
autori del Dizionario. Ma sopra tutto è noto come grammatico per il Traité de la grammaire
française, apparso nel 1705.
42. L’Inferigno: nome accademico di Bastiano De Rossi (vedi la n. 7 a p. 120). Inferigno è agg. e
significa «fatto di farina e tritello»: es. pane inferigno. — L’Infarinato, nome di Leonardo Salviati
nell’Accad. della Crusca. Vedi la n. 1 a p. 109.
43. Non può essere detto che gl’italiani non si intendessero o non si curassero di quegli studi,
giacché ha sotto alcuni aspetti fondamento dialettico e quindi storico l’indagine perspicace che J. G.
Robertson, or sono più di vent’anni, ha compiuto nel volume: Studies in the Genesis of Romantic
Theory in the Eighteenth Century. Egli ha dimostrato che agli italiani del primo Settecento «è dovuto
quello stimolo il cui risultato finale fu la sconfitta della tirannia della ragione sull’immaginazione» e
che quelle idee continuarono a operare nel profondo, in Italia e in tutta Europa, anche nella seconda
metà del Settecento e al principio dell’Ottocento.
Ciò non esclude che in larghe zone della cultura generale, specialmente scolastica, fosse avvenuta
una fossilizzazione pedantesca della vecchia retorica aristotelica e oraziana. Questa intende qui
colpire il Di Breme. Ugo Blair, che il p. Soave aveva divulgato in tutte le scuole d’Italia, il Batteux, il
Rollin, La Harpe facevano testo negli schemi didattici, perché rispondevano alla concezione
classicheggiante razionalistica prevalsa in Europa nel Settecento. Ma gli animi di viva
immaginazione e intima alacrità sempre rompevano quegli schemi.
44. Per Antonio Genovesi vedi la nota a p. 298.
Ugo Blair è qui nominato per le Lezioni di eloquenza (vedi p. 109, n. 2). Carlo Batteux (1713-
1780) per l’opera Les beaux-arts réduits à un même principe. G. F. La Harpe pel Corso di letteratura
francese conosciuto col nome di Lycée.
45. Franc. Saverio Quadrio (1695-1756), autore della Storia e ragione d’ogni poesia.
46. Giov. Mario Crescimbeni è qui citato per la Istoria della volgar poesia, per i Commentari
intorno alla Istoria della volgar poesia e per i dialoghi sulla Bellezza della volgar poesia.
Pel Minturno, vedi la n. 3 a p. 107.
Lod. Ant. Muratori è qui citato per il trattato Della perfetta poesia italiana. Su questo punto
dissentì in parte dal Di Breme il Berchet, il quale nel Conciliatore del 12 novembre 1818,
esaminando la Storia della poesia e della eloquenza di Federico Bouterweck, giudicò che talvolta il
Muratori «sollevossi ad una sfera d’idee superiore a quella de’ suoi contemporanei italiani, e lasciò
qui sfuggir lampi precoci di quella filosofia applicata alle lettere, che, bambina allora, viene ora
crescendo in tutta l’Europa a robustezza virile». Su quel trattato vedasi ora M. Fubini, Dal Muratori
al Baretti, Bari, Macrì, 1946; e C. Calcaterra, Il barocco in Arcadia e altri scritti sul Settecento,
Bologna, Zanichelli, 1950.
Pel Corticelli, vedi la n. 1 a p. 109.
47. Giov. Bernardo Mérian (1723-1807), professore a Basilea, poi a Berlino, ove combatté le idee
filosofiche di Federico Cristiano Wolff leibniziano, è qui ricordato per la serie di Memorie intitolate
Comment les sciences influent dans la poésie (ann. 1778-91), che secondo l’Ancillon si sarebbero
dovute intitolare «Storia della poesia». Parlò della poesia italiana fino al Pulci e già aveva preparato
il materiale per trattare dell’Ariosto, quando morì. Fu anche il revisore della traduzione delle opere
dell’Algarotti (per Belletier, 1772, 8 voli.). Il Di Breme ebbe notizia di lui dall’elogio che ne scrisse
Federico Ancillon.
William Roscoe, storico inglese (1758-1831), scrisse la Vita di Lorenzo De Medici; la Vita di
Leone X, ecc.
Pier Luigi Ginguené, letterato francese (1748-1816) è qui citato per la Storia della letteratura
italiana, che, lasciata incompiuta, fu continuata da Francesco Salfi. I nostri romantici l’ebbero in
pregio.
Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi, storico ed economista ginevrino (1773-1842), scrisse
Della letteratura dell’Europa meridionale e la Storia delle repubbliche italiane nel medio evo.
Marie-Antoine Laugier, storico e letterato francese (1713-1769), gesuita, predicatore alla Corte, fu
segretario d’ambasciata e redattore della Gazette de France. Delle sue opere ricordiamo: Essais sur
l’architecture (Paris, 1753); Apologie de la musique française (1754); Histoire de la République de
Venise (1759-68; 12 voll.; a questa allude qui il Di Breme); Histoire de la paix de Belgrade (1763-68,
2 voll.).
48. Vedi la n. 3 a p. 103.
epica ed eroica al genere Romantico. Ei dice: è invero cosa assai strana, che per sostenere un
precetto d’Aristotele, o dagli altri male inteso, o da lui confusamente spiegato, ci riduciamo a
credere per narratore chi narra poche cose ridotte ad una, e non chi ne narra molte e principali …
Noi nell’epico genere anche abbracceremo que’ poemi eroici, che per essere di varie fila tessuti,
comunemente s’appellano Romanzi… Epico altro non significa se non che narrativo; perché non
sarà epico egualmente, anzi più, chi un volume di molte imprese grandi espone?… Perché non sarà
tanto epico, per cagion d’esempio, l’Ariosto, quanto è storico Tito Livio? Forse perché Omero della
guerra troiana quella sola parte ha voluto descrivere che nacque dall’ira d’Achille, sarebbe stato
meno epico se quanto in dieci anni avvenne di quello assedio avesse narrato?… E benché sembri
anche a me sommo artifizio il dilettare ed insegnare con una impresa di proporzionato corpo, che
diramandosi in molte azioni, pur poi si riduca e raccolga in una come più linee ad un medesimo
centro concorrono, ad imitazione dell’Iliade; pur non so perché un poeta narrando cose verisimili, e
con vivi colori rassomigliate, ma diversamente ordite o senza tale artifizio inventate, non debba
riputarsi epico e narratore: poiché siccome le cose in natura possono variamente succedere, così
dev’essere lecito variamente inventarle e narrarle, o secondo la loro unità, o secondo la loro
moltitudine. Onde io… nemmeno il romanzo dal poema so distinguere… le quali narrazioni per nome
aggettivo chiamavano romanzi, sottintendendovi il nome sustantivo di poemi… ma sia pure in loro
arbitrio il nome purché non separino la sustanza; se pur con maniera strana d’intitolare non
vogliono dare il nome d’eroico a quel poema ove fa la principale azione un solo, e negarlo a quello
dove per avventura molti principalmente operassero — ivi, § XIV. Questo carattere dell’unità di
soggetto, combinato colla varietà di personaggi principali e commendato dal Gravina, lo hanno
comune cogli Epici nostri i Romantici settentrionali Shakespeare e Schiller nella tragedia; or ecco un
altro carattere romantico non men distintivo ed insigne, e che il Gravina, da quell’ingegno svincolato
ch’egli era di spesso e generoso, piglia ugualmente a giustificare. La mescolanza discreta di varie
persone introdotte dall’arte siccome rassomiglia le produzioni naturali … così non è sconvenevole
alle eroiche imprese… et a qual si voglia eccelsa azione d’illustre padrone sia involta l’operazione
dei servi, questi colla bassezza dello stato loro non tolgono grandezza al fatto… A tale varietà di
persone e diversità di cose, vario stile ancora, e tra sé diverso conviene… ed in vero muove
compassione l’affanno che molti tollerano in cercando che nota convenga al Poeta epico; se la
grande, la mediocre, o l’umile, per dar qualche uso ai precetti che si ascrivono al Falereo, «E CHE
PER LO PIÙ S’ABBRACCIANO PER LEGGE DI NATURA UNIVERSALE…». Se alcun Poeta epico italiano
mantien sempre locuzione e numero eroico, sarà lodevole, purché imprese ed atti e persone eroiche
solamente rappresenti, ma biasimevole se mutando alle volte le persone e le cose non cangiasse con
loro anche lo stile… con ciò non solo nulla perde di grandezza, ma ne acquista maggiore di chi le
descrive in generale ec. ec. ec… Ivi, § XVI.
49. Il Di Breme avversò violentemente l’umanesimo erudito, considerandolo responsabile
dell’oppressione pedantesca e accademica, che per alcuni secoli aveva soffocato ogni genialità negli
studi letterari italiani.
50. Emanuele Alvarez, gesuita e umanista portoghese (1526-1583), autore di un trattato di
grammatica latina che ebbe un tempo fama grandissima.
51. Domenico De Colonia, gesuita e scrittore francese (1660-1741), scrisse tragedie, carmi
mediocrissimi, opere di pietà, lavori archeologici, ecc. Qui il Di Breme lo ricorda per i cinque libri
De arte rhetorica, apparsi a Lione nel 1710 e ivi ristampati più volte. Il De Colonia scrisse anche una
Histoire littéraire de la ville de Lyon; ma deve la sua notorietà sopra tutto alla Bibliothèque
janséniste, ou Catalogue alphabétique des principaux livres jansénistes ou suspects de jansénisme.
52. Nell’opera Littérature du Midi de l’Europe, pubblicata nel 1813, il Sismondi, facendo sua la
distinzione staeliana fra letterature del Mezzogiorno e letterature del Nord dell’Europa, aveva trattato
delle letterature di origine romanza e posto in primo piano la letteratura italiana. Quell’opera, molto
letta e discussa anche in Italia, aveva divulgato la distinzione.
In questo punto il Di Breme adopera la frase «schiatta meridionale o romantica» nel senso di
«schiatta romanza», come molti intendevano in quel tempo.
Il Sismondi si proponeva di dedicare un’opera anche alle letterature germaniche, ma poi non attuò
il disegno.
53. Barlaam, monaco basiliano, nativo di Seminara (Reggio Calabria), dal 1342 vescovo di
Gerace. Visse dal 1300 al 1348. Diede nozioni di greco al Petrarca.
54. Manuele Crisolora, umanista greco, di Costantinopoli. Nel 1397 fu inviato dall’imperatore
Giovanni Paleologo a chiedere aiuti ai principi d’Europa contro i Turchi. Fermatosi in Italia, si
adoperò alacremente al rinnovamento degli studi classici e aprì scuola a Firenze, Venezia, Pavia,
Roma; morì a Costanza nel 1415.
55. Giorgio Gemisto Pletone, dottissimo greco, venuto in Italia più che ottuagenario in occasione
del Concilio che mirava a rimuovere i dissidî fra la Chiesa greca e la latina, diffuse in Firenze (1439)
le dottrine platoniche e neoplatoniche; onde Cosimo il Vecchio concepì l’idea di far rivivere nella sua
città l’antica Accademia platonica. Tanta era la dottrina di Gemisto, che pareva ai discepoli fosse
trasmigrata in lui l’anima di Platone. Visse dal 1355 al 1452.
56. Giorgio da Trebisonda, umanista greco, insegnò in Italia, e tradusse l’Almagesto di Tolomeo;
morì a Roma. Visse dal 1395 al 1484.
57. Giovanni Bessarione, valentissimo umanista, discepolo di G. Gemisto Pletone, n. a Trebisonda
nel 1403, m. a Ravenna nel 1472. Si adoperò tutta la vita per il ritorno dei Greci all’unità romana,
specialmente nel concilio di Firenze del 1439; in premio n’ebbe da Eugenio IV il cappello
cardinalizio. Dopo il Concilio, disgustato della mala fede greca, si fermò in Italia. Nel 1463 fu creato
patriarca di Costantinopoli. Il suo palazzo in Roma era il ritrovo degli umanisti; difensore delle
dottrine di Platone scrisse in difesa di esse il libro In calumniatorem Platonis contro Giorgio da
Trebisonda, seguace di Aristotele.
58. Giovanni Aurispa, n. a Noto nel 1376, m. a Ferrara il 1459. Recatosi a Costantinopoli, vi
acquistò gran numero di preziosi manoscritti, che portò in Italia.
59. Francesco Filelfo, nato a Tolentino nel 1398, umanista fecondissimo e presuntuoso, si credette
al suo tempo il maggiore rappresentante della cultura ellenica. Fu discepolo del Crisolora e ne sposò
la figlia. Fu a Costantinopoli e insegnò successivamente greco e latino a Venezia, a Bologna, a
Firenze, a Milano e di nuovo a Firenze, dove morì nel 1481.
60. Marsilio Ficino, n. a Firenze (Valdarno sup.) nel 1433, m. a Firenze nel 1499, tradusse in latino
Platone e Plotino ed espose e illustrò sistematicamente la loro dottrina nei diciotto libri della sua
Theologia platonica.
61. Gian Giorgio Trissino, letterato vicentino (1478-1550), fu eruditissimo nella letteratura greca e
desiderò che la nostra si mettesse interamente sulle orme di quella. Scrisse un’Arte poetica, tradusse
e pubblicò per la prima volta il De vulgari eloquentia di Dante (1529), compose carmi latini, la
tragedia Sofonisba (1515), la commedia I similimi, il poema epico L’Italia liberata dai Goti (1548),
ecc.
62. Bernardo Dovizi, detto il Bibbiena, dalla patria (Bibbiena, in quel d’Arezzo), visse dal 1470 al
1520. Fu letterato, diplomatico e cardinale. Fu al servizio di Leone X. È autore della commedia
Calandria, rappresentata nel 1513 alla corte d’Urbino e nel 1518 in Vaticano nelle stanze dell’autore.
63. Per Lodovico Castelvetro vedi la n. 1 a p. 107.
64. Cioè, nel modo «fatalistico» dei classicheggianti.
65. È detto ironicamente per i rimaneggiatori di carmi pastorali, che avevano ripetuto a sazietà i
modi di Teocrito e di Virgilio.
66. La favola cioè di Ero e Leandro (Abido nell’Asia Min., sull’Ellesponto, di fronte a Sesto).
67. Gli occhi cervieri di Diana, dea della caccia. Occhi cervieri: di vista acutissima.
68 Progne e Filomela, perseguite da Teseo: questi fu mutato in sparviero, Filomela in usignuolo,
Progne in rondine.
69. Stentore, guerriero greco dell’assedio di Troia, dotato di voce così potente che con essa copriva
la voce di cinquanta uomini insieme (Omero, Iliade, V, 578).
70. Nelle stalle di Augia, re dell’Elide, erano tremila buoi ed esse non erano più state spazzate da
trent’anni. Augia promise a Ercole un premio di trecento buoi se fosse riuscito a spazzarle. Ercole,
per venire a capo dell’impresa, deviò il corso dell’Alfeo, e fece passare questo fiume nelle stalle del
re. Compiuta la fatica, domandò al re il premio; e non avendolo ottenuto, l’uccise.
71. È noto che molte anime romantiche aspirarono ardentemente all’armonia sopra le disarmonie.
Questo è uno dei motivi per cui il Di Breme fu affascinato dal gran sogno dell’armonia prestabilita
della filosofia leibniziana.
72. Per imitarla.
73. Giov. Gaetano Bottari, prelato della corte romana, scrittore d’arte e lessicografo, n. a Firenze
nel 1689, m. a Roma nel 1775. Appartenne all’Accademia della Crusca e fu uno de’ membri
incaricati della rifusione del vocabolario, la cui nuova edizione apparve nel 1738 in 6 volumi. A
Roma nel 1740 curò l’edizione del Virgilio del Vaticano, che vide la luce nel 1741. Lasciò molte
opere d’argomento artistico, archeologico e letterario.
74. Nel giudicare le tragedie dell’Alfieri il Di Breme si mantenne del tutto indipendente dalla
critica, in gran parte negativa, che ne aveva fatto A. G. Schlegel nel Corso di letteratura drammatica.
Ma l’alto giudizio che egli dava dell’Alfieri, ponendolo tra Sofocle e Schiller, non è dovuto a
regionalismo; è dovuto a un vero e proprio modo di sentire la poesia alfieriana, del tutto libero come
era già stato quello del Caluso. Il Di Breme in complesso era più attratto dal teatro tragico che da
quello comico. Questo valga a riconfermare il motivo per cui egli non intese l’arte del Goldoni: esso
non è puramente letterario, come molti hanno creduto, ma sopra tutto psicologico ed estetico.
75. Evaristo De Forges de Parny, poeta francese, n. nell’isola Maurizio il 1753, m. il 1814:
Oeuvres Complètes, Paris, 5 voll., 1808.
76. Gravina, op. cit., § XVI.
77. GRAVINA, op. cit., § XVII.
78. Aprile, tomo V, p. 192. Più tardi lo Spettatore pubblicò un altro articolo, La gloria italiana
vendicata dalle imputazioni della Signora Baronessa di Staël-Holstein, luglio 1816, Parte italiana, p.
150 e sgg.
79. Vedi la n. 3 a p. 103.
80. Allude alla pessima prima traduzione italiana dell’Allemagne di Mad. De Staël, fatta da Davide
Bertolotti sulla 2a edizione francese e apparsa a Milano nel 1814 per il Silvestri. Anche il Borsieri
nelle Avventure letterarie di un giorno (Milano, Giegler, 1816) giudicò assai male quella traduzione e
consigliò scherzosamente che le copie di essa fossero imballate «per la repubblica di S. Marino, per
Monza e per la nuova città di Varese».
81. Augusto Guglielmo Schlegel. Nel ripubblicare nello Spettatore (aprile, t. V, p. 192) l’articolo
delle Novelle letterarie fiorentine, il postillatore, accennando alle relazioni intime che Mad. de Staël
nel 1803 aveva avuto con Benjamin Constant, aveva detto: «Questi a quanto pare era il primo suo
Lemure, ed ella scriveva allora opere politiche. L’attuale suo spirito [A. G. Schlegel ] pare che
maggiormente inclini ad ispirarle paralogismi filosofici e letterari». Per le relazioni tra Mad. de Staël
e B. Constant, vedi Journal intime de B. Constant, avec introduction de D. Melegari, Paris,
Ollendorf, 1895.
82. A. W. Schlegel, Vorlesungen über dramatische Kunst und Litteratur, Heidelberg, 1809-11 (la
traduzione italiana di Giovanni Gherardini apparve dopo questo scritto di L. di Breme, nel 1817
[Milano, Silvestri] col titolo: Corso di letteratura drammatica).
83. Vedi la n. 3 a p. 123.
84. Pierre Brumoy, n. a Rouen nel 1688, m. a Parigi nel 1742, uno dei redattori del Journal de
Trévoux, è conosciuto sopra tutto per il suo Théâtre des Grecs.
85. Pietro Napoli Signorelli (1731-1815) è qui citato per la Storia critica dei teatri antichi e
moderni.
86. Jean-Jacques Barthélemy (1716-1795), autore del Voyage du jeune Anacharsis en Grèce
(1788).
87. Giuseppe Luigi Lagrange, grande matematico e astronomo di Torino, visse dal 1736 al 1813.
Diresse l’Accad. di Berlino e insegnò al Politecnico di Parigi. La sua opera capitale è la Meccanica
analitica. Per l’azione profonda che egli ebbe sulla cultura piemontese e poi su quella europea, vedi
«Il nostro imminente risorgimento» nel cap. Gli studi scientifici; il vol. Le adunanze della «Patria
Società Letteraria», a pag. 382; e il libro di Filippo Burzio, Lagrange, Torino, Unione Tip. Editr.
Torinese, 1942.
88. Antonio Scarpa, valente chirurgo e anatomico, nato a Motta di Livenza, professore all’Univ. di
Pavia. Visse dal 1747 al 1842.
89. Paolo Mascagni, anatomico, n. a Castelletto nel Senese, insigne per la Iconografia dei vasi
linfatici. Visse dal 1755 al 1815.
90. Giuseppe Piazzi, celebre astronomo, n. a Ponte nella Valtellina il 1746, m. a Napoli nel 1826;
teatino. Il 1° gennaio 1801 scoperse Cerere, il primo degli asteroidi compresi tra le orbite di Marte e
di Giove.
91. Ennio Quirino Visconti, il grande archeologo, nato a Roma nel 1751, morto a Parigi nel 1818.
92. Pietro Verri era morto fin dal 1797; Alessandro moiì proprio nel 1816; Carlo si spense nel
1823.
93. Corinna, ovvero l’Italia, t. I, c. 3: Inno di Corinna al Campidoglio.
94. Anche nella cit. lett. del 27 maggio 1816 egli dice questa lirica la prova «più maestrevole» che
«chi ha genio e armonia di animo e finezza di colorito, può derivare o dai costumi cavallereschi o
dall’eroismo cristiano o dal nobilitato amore verso le donne, o dagli stessi vizi dei nostri barbari
secoli, o dai costumi fieri dei nostri armigeri della media età, una poesia nobile, sorprendente,
vezzosissima».
95. Lettera di Diodata Saluzzo Contessa Roero di Revello a Lodovico di Breme.
LE ROVINE

Visitando l’autrice, l’antico castello di Saluzzo.

Ode di DIODATA SALUZZO DI ROERO1.

Ombre degli Avi per la notte tacita


al raggio estivo di cadente luna
v’odo fra sassi diroccati fremere,
che ’l tempo aduna.

Incerte l’orme nella vasta ed arida


strada segnata dall’età funesta
tremante affretto; che dei prischi secoli
l’orror sol resta.

Eccomi al varco; non più altiero scuopresi


vana difesa della patria sede,
il fatal ponte, né alle trombe armigere
alzar si vede.

Ahi vaste Sale! qui gli Eroi che furono,


stavan seduti della mensa in giro:
del Trovatore qui su cetra armonica
s’udìa sospiro.

Qui sconosciuta la trilustre vergine


ignota ai prodi sen vivea secura
e sol nei sogni palpitava l’anima
vivace e pura.

Qui al suon dell’armi, che là giù squillavano,


in aureo manto la Consorte antica
forte vestiva al forte Duce impavido
elmo e lorica.

Ancor mi sembra udir sommesso piangere


fanciul, che l’elsa stringere volea
con debil mano al ferro altrui terribile
e noi potea.
Bambin minor d’un lustro egli qual siedasi
sul duro scudo rimirar qui parmi,
mentre le fanciulline i lacci intricano,
che annodan l’armi.

Il forte scudo verginella immobile


mirando andava pien di fiori il grembo;
e lasciavasi i fiori in fervid’estasi
cadere a nembo.

Coprian lo scudo ed il Bambin, che ingenuo


ridea tra fiori e l’armi in dubbia sorte.
L’uom così ride sul sentier suo labile
fra scherzi e morte.

Salve, o sacra rovina! Ah perché il rapido


fato tardommi ad affrettar la vita?2
La Magna età ben si doveva ai palpiti
dell’alma ardita3.

Nella mia destra d’Alighier la cetera


suonato avrebbe sui vetusti eventi;
ed a me sol4 giù dalla valle ombrifera
fan eco i venti.

Giù dalla valle, ove, chi sa? s’udirono


due fratei d’armi ragionar d’amore,
strette le palme fra curvati salici
sul primo albore.

Giù dalla valle, ove a tenzoni vindici5


spinsero entrambi il corridor veloce,
l’un dell’altro scudier6, e scudo ed anima,
e fama e voce.

Salve, o sacra rovina! io seguo, e schiudonsi


innanzi al lento e traviato passo
le doppie torri e meditando siedomi
sul duro sasso.

Oh! come brune l’alte cime incurvansi,


dei larghi muri, ove penétra appena
di luna un raggio, che la dubbia e pallida
luce qui mena!

Perché ferrate le finestre altissime,


ed è merlata la superba torre?
No! non qui ’l prode la lorica armigera
solea deporre.
Qui forse mentre un molle riso ingenuo
la verginella in dolce sogno aprìa,
al bel raggio di luna, occulta e perfida
l’Oste venìa.

Forse da quelle alte finestre videsi


entrar talvolta del castello avverso
il reo Signor, all’empie smanie vindici
d’ira converso.

Forse qui stretto il suo pugnai, lentissimo


muoveva il passo fra tacenti squadre,
e ai fanciullini sul materno talamo
svenava il padre.

E forse, ahimè! sulla sua cetra eburnea


il Trovatore dell’età passata
lodò gl’iniqui, se con lor sedevasi
a mensa aurata.

Chi sa se in mezzo a quegli acerbi e bellici


costumi avversi in ricca treccia e bionda,
non rea Consorte d’empie fiamme ardevasi
invereconda?

Qui sparse qui le disperate lagrime


furor geloso, d’ogni cuor tiranno;
quai furo i tradimenti, i colpi, i gemiti,
que’ muri ’l sanno.

Pensier funesto, in me chi mai ridestati?


Fuggiam, fuggiam dalle fatai rovine.7
Raggio di notte, tu la via rischiarami
fra sassi e spine.

Tutte l’età di variate furono


vicende ignote spettatrici alterne;
fra stessi affetti le stess’opre sorgono
girando eterne.

Sol l’alma ardente, che d’intorno cercasi


invan la pace e le virtù soavi,
in un pensier d’amor tutte rivestene
l’ombre degli Avi.

Addio, sacre rovine: allor che polvere


di voi non resti, gli obelischi e gli archi,
opra di noi, di questa polve andrannosi
pel tempo carchi.
E forse andranno vaneggiando i posteri
sul secol nostro lezioso e rio.
Il disinganno io m’ebbi, ombre terribili,
rovine, addio!8

1. Diodata Saluzzo dei conti di Monesiglio nacque a Torino nel 1774, morì nel 1840; fu consorte
del conte Roero di Revello. Scrisse liriche, poemetti, novelle, tragedie (Erminia, Tullia), commedie,
ecc. Il suo maggior lavoro è Ipazia ovvero delle Filosofie, che ella disse poema e romanzo in versi,
apparso da prima nel 1827 e ripubblicato nel 1830. Ma oggi è sopra tutto ricordata per le liriche (vedi
le sue Poesie, apparse nel 1796, e in ristampa accresciuta nel 1802). Fu ammirata dal Cesarotti, dal
Parini, dal Monti, dal Denina, dal Foscolo, dal Lamartine, dal Manzoni, dai Balbo, dal Gioberti.
Scrisse di lei l’Alfieri: «Ha sempre molti tocchi d’affetto, ha sempre roba da dire e la dice con
eleganza di frase, proprietà di termini somma, e spesso anche originalità d’espressione: solamente,
sul totale, dovrebbe levar qualche volta, piuttosto che aggiungere, e farsi più breve». Di lei bene ha
detto Guido Mazzoni nell’Ottocento che nelle sue poesie «v’è quasi ogni sapore e colore dell’arte [a
lei] contemporanea» e che ella prenuncia qua e là, se non l’arte manzoniana, quella de’ nostri
romantici in genere, per ciò che ebbero di buono, specialmente quando piange il fratello Federigo,
mortole sotto Verona nel 1799, mentre combatteva tra la cavalleria piemontese unita a’ Francesi, e
nell’ode su Le rovine del castello di Saluzzo. Non fu però così «spiccatamente romantica» da non
poter essere anche «ammirata e attribuita a se stessi dai classicisti». In realtà ella erasi formata sopra
tutto su Dante e sul Tasso, e Ludovico di Breme, come ben osserva il Mazzoni, l’addusse a esempio
«per l’accordo felice tra il vecchio e il nuovo». Vedi la bibliografia che dà su di lei il Mazzoni, op.
cit., 1a ediz., 1913, pp. 1312-1313; e aggiungi lo studio di M. Simonis, apparso nella Rassegna
Nazion., 16 gennaio e 1° agosto 1909; L. Collino, Diodata Saluzzo Roero, Torino, Paravia, 1925; B.
Croce, La «Sibilla Alpina», in «Critica», A. XXV, 1927; G. Acutis, op. cit., pp. 49-82; Guido
Bustico, Glaucilla Eurotea e i Pastori della Dora, nella riv. «Torino», 1939, e in «Atti dell’Arcadia»,
1939-1940; Carmine Jannaco, Nuove lettere di Diodata Saluzzo e dei suoi, in «Convivium», 1940.
2. La Saluzzo poi corresse: «Ah! perché rapido Non diemmi il fato quella età la vita»?
3. Si avverta che il Medio Evo è detto «la Magna età».
4. La Saluzzo poi corresse: «Or soli a me».
5. Poi la poetessa a «vindici» sostituì «nobili».
6. Poi: scudiero.
7. Il verso fu poi dalla Saluzzo rifatto: «Fuggiam dalle fatali alte rovine».
8. L’omaggio resole, dal difensore della Staël, piacque alla Saluzzo, la quale nel settembre di
quell’anno stesso gli mandò una nuova edizione delle sue poesie con alcune varianti nel carme Le
rovine, quasi a mostrare il suo desiderio di togliere i «nèi», di cui egli aveva parlato. Il Di Breme vide
in queste correzioni una prova di «spirito» e di «gusto» e in una lettera del 24 settembre 1816, dopo
aver detto che ella poteva credere alla sua lode, poiché egli «più non sapeva che farsi di poesia
inefficace», così le dava notizia delle ire suscitate dal suo scritto polemico tra i pinzocheri della
mediocrità e del pedantismo. «La zuffa è finita per parte mia, dacché gli avversarli sono di quella
specie con cui non mi degnerò mai di scendere in lizza, e mi basta averli segnati con pochi tratti
d’inchiostro. Altronde l’abbaiar non è rispondere, non è distruggere le ragioni, non è giustificarsi. Le
semplicissime teoriche da me prodotte non sono che un commentario di quel tenore che siegue la
natura nell’ispirare gl’ingegni atti all’inspirazione; la cosa andò sempre così, e prima di combattere
con successo le pagine 37, 38, 39, 40, 41, 42 e 43 del mio scritto, credo che bisogna cancellarla dal
libro della natura. Là non si tratta né di Staël né di Goldoni, ma dell’eterno vero. Il libro di Borsieri,
Le avventure letterarie di un giorno, è un’altra dose di emetico, amministrata a questi stomachi pieni
di amara bile letteraria e vuoti di sugo nutritivo; vomitata che avranno tutta quella linfa amara, non
avranno più né fiato né voce; fra dieci anni sembrerà impossibile che una siffatta operetta non
riscuotesse universale applauso; intanto vi applaudiscono gli imparziali e i veggenti. Se uscisse una
discussione contraria alla dottrina che io tengo per sola genuina, ma una discussione sostanziosa e
forte per le cose, mi terrei onoratissimo di riprendere la penna; e vorrei quasi avermi da ricredere che
lo farei con leale pienezza di cuore, non fosse che per dare io il primo quest’esempio nella pettegola
repubblica letteraria italiana. Intanto mi vo immaginando che sia più conducente al successo delle
mie idee, il metterle in evidenza coi fatti, anziché con ulteriori discussioni. Nelle discussioni ci vuole
analisi, svolgimenti di cose astratte, deduzioni generali, in una parola ci vuole filosofia, e per la
filosofia non ci sono lettori nella miracolosa Italia… Ella mi perdoni queste chiacchiere; ella tanto
diversa dalle contemporanee ed uguali sue, è forza che mi perdoni; oppure con chi sfogherò l’animo
mio pieno di desiderii e di sincero amor d’Italia?». (Poesie post. della Saluzzo, cit., pp. 574-577)
DAL «GRAND COMMENTAIRE»

Il Grand Commentaire sur un petit article, par un vivant remarquable


sans le savoir; ou réflexion et notices générales et particulières à propos
d’un article qui le concerne dans la «Biographie des Vivants» (Ginevra,
Paschoud, 1817) fu la risposta ai due profili biografici, di Ludovico di
Breme e di suo padre — il marchese Ludovico Giuseppe Arborio Gattinara
(sul quale si veda la nota 1 a p. 99) —, composti dall’abate Aimé Guillon
per la Biographie des Vivants edita dai fratelli Michaud come appendice
alla vasta Biographie universelle ancienne et moderne (1810-1828) allora in
corso. I profili dei due Di Breme, pur bene informati, avevano punte
maligne, ispirate dal legittimismo monarchico e dall’antibonapartismo
dell’autore e dell’editore. La risposta di Ludovico Di Breme va oltre la
questione personale. Al di là della vivace e polemica autobiografia
incontriamo un ampio quadro del periodo tra l’Impero e la Restaurazione:
sono passate in rassegna le condizioni politiche, intellettuali, religiose della
società milanese in pagine risentite, incisive, da cui emergono i protagonisti
delle vicende di quegli anni tumultuosi, il principe Eugenio Beauharnais, il
ministro Prina, gli aristocratici lombardi e piemontesi, con le loro
deficienze e le loro responsabilità. Importanti sono anche i giudizi sui
dibattiti culturali, sullo scontro che si veniva delineando fra due opposti
modi di concepire la letteratura: per questa ragione alcuni tratti del libro
portano luce alla intelligenza della polemica classico-romantica e
chiariscono certi presupposti da cui muovevano i novatori.
Il Grand Commentaire è stato recentemente riedito, a cura di G. Amoretti
(Milano, Marzorati, 1970). Il testo che qui si offre riproduce l’edizione
originale.

XIII.
Principes en discussion - Controverse - Tripots, etc. etc.

D’aussi loin que je me dévouai de moi-même à l’étude, je n’envisageai


guère les livres que comme l’un d’entre ses moyens, et si l’on veut, le plus
commode et le plus usuel: au reste il y a tant d’ustensiles et d’engins
littéraires que cela sent en effet la boutique et le métier et que chaque
praticien s’y croit maître; on a lieu de se convraincre tous les jours quec’est
la multitude et le mécanisme des rubriques et des procédés des études, qui
si souvent en font perdre de vue l’esprit et le grand but.
La plus solide, la plus fondamentale et la plus étendue des recherches que
l’homme puisse se proposer, ne sera jamais que celle de ses propres
facultés. Étudier la nature des choses, c’est beau à dire et c’est fastueux:
mais au fait cela n’a pas de sens, parce que pour des êtres bornés cela n’a
pas de sanction. Le seul examen de nos perceptions par l’esprit et par le
sentiment embrasse tout ce qui est à notre portée et comprend la
connoissance, non pas de l’univers absolu, mais, à coup sûr, de ce qui est
univers pour nous. Ajoutez-nous un moyen de perception (je ne dis pas un
sens de plus, un sens n’étant qu’un des moyens possibles de perception), ou
privez-nous d’un moyen, aussitôt l’univers se dilatera ou se rétrécira: c’est
que l’univers ne sauroit jamais être autre chose, pour chaque espèce
sensible, que ce disque d’existences aux bornes duquel parvient et s’arrête
le rayon de ses moyens, et dont elle est le centre: c’est qu’il y a sans doute
bien des grands et des petits univers dans l’univers, et que l’infini supérieur
à l’homme n’échappe pas plus à nos mesures, que l’infini placé au-dessous
de lui. Ces esprits que la religion et la poésie appellent des Anges, la
philosophie peut très-bien les concevoir comme des êtres en comparaison
desquels notre raison ne seroit qu’une sorte d’instinct: ou bien consentons à
notre tour à reconnoître que ce que nous appelons de l’instinct au-dessous
de nous, est tout juste une autre mesure de raison accordée à d’autres
espèces, et que cette mesure est enrapport avec celle de leur univers à elles.
Parce que nous discernons l’unité individuelle de l’éléphant et que des
générations microscopiques qui se succèdent sur lui, ignorent
vraisemblablement qu’il existe, nous croyons raisonner par excellence et
bien mieux que ces générations, mais c’est conclure faussement.
Je me flatte que personne ne découvrira là de système: ce n’en est
assurément point un: c’est l’antidote de tout système.
Une fois détrompé de toute curiosité présomptueuse et illégitime qui
nous feroit perdre du temps à la recherche de la pierre philosophale, l’esprit
se replie sur soi-même, et s’il a borné dèslors son champ d’observations, ce
n’est que pour le féconder d’autant mieux: si l’étude de l’homme devient la
seule importante, c’est que cette étude embrasse et suppose celle de toutes
les choses qui sont à sa portée, ou qu’au moins toutes les choses peuvent y
fournir et en devenir matière et aliment. Il n’y a qu’à se considérer comme
placé jusqu’à la mort sur le chevalet de l’expérience, et à ne pas laisser
s’évaporer les sensations. Je crois bien que Locke et son école n’auroient
mot à redire jusques-là. Mais les données de la philosophie expérimentale
ne parviennent-elles à l’âme que du dehors? N’en jaillit-il pas de son fond?
Ne sont-ce que les objets extérieurs qui agissent sur le clavier des
sensations intimes?
Le père Soave (qui s’est d’ailleurs rendu très-recommandable par de
longs travaux consacrés à l’enseignement élémentaire) n’avoit pas encore
donné dans l’un des volumes de l’Institut d’Italie, une pauvre réfutation des
premiers essais d’idéologie de M. de Tracy1, que déjà j’avois médité sur
l’ouvrage de ce rigoureux philosophe, et payé mon tribut d’admiration à
l’auteur. M. de Tracy a ensuite développé et appliqué ses principes; je l’ai
fidèlement suivi dans sa route: il faisoit bon y marcher dès-lors qu’il la
rendoit si lumineuse. Mais je ne différerai plus à déclarer que Locke,
Condillac et Tracy même en dernier lieu, me parurent toujours avoir
circonscrit malgré eux les bornes audelà desquelles leur science, et leurs
admirables investigations ne rendent plus raison de rien. Cette science laisse
en-dehors de soi trop d’incontestables faits de l’ame, tout en soutenant
qu’ils sont bien de son ressort: elle se réduit à ordonner en série légitime et
immédiate quelques propositions intermédiaires, entre les données
primitives de cette ame, et leurs dernières modifications dans de certaines
conjonctures, toujours sur la seule ligne de la raison: elle resserre l’homme
dans les bornes étroites de la science, voire elle ne tient compte ni des
intuitions immédiates, ni des apperceptions soudaines, ni des sentimens
primitifs, ni de tout plein d’activités internes et au fond elle n’admet de
convenu que ce qu’il y a de sujet à décomposition qu’elle appelle
démonstration: elle ne reconnoît en principe que ce qui aborde au foyer des
sensations, non ce qui en rayonne, non ce qui jaillit de notre substance
sensible et active, laquelle est tout à la fois et à soi-même, faculté et sujet de
sensations. Enfin, et ceci est bien sérieux, cette science en est encore à
balbutier et à s’esquiver touchant le grand principe de la réalité de
l’existence universelle, principe qui lui sert de base plus qu’à tout autre
système. C’est beaucoup oser sans doute, mais je ne craindrai pas de dire
que M. de Tracy lui-même n’a peut-être fait que reculer un peu, ou
transporter, cette merveilleuse dubitation de la métaphysique.
Je me demandois done toujours, où est l’homme? car bien assurément je
n’en concevois jusqu’alors que des profils: j’en voyois des analyses très-
justes sous de certains rapports, mais dont il ne résultoit après tout que des
membres épars. Les différens systèmes me paroissoient tous vrais et tous
faux, comme ces dissections et préparations anatomiques sous le rapport
des os, des nerfs, des veines, qui reproduisent assez rigoureusement les
divers mécanismes de notre organisation, mais éloignent plus qu’ils ne
rapprochent de la loi et du principe qui les coordonne tous, et les met en jeu.
Mon sens intime reclamoit aussi sa part de conviction, et récusoit cette
analyse passive, en tant que clef universelle et formule générale du
problème du mot.
La nature a balancé notre âme entre deux forces, entre deux grands
principes d’activité et de passivité. Si l’esprit setraîne sur la pénible et lente
route des décompositions, il est heureusement une autre force intérieure,
douée d’une merveilleuse propriété de synthèse, dont la nature distinctive,
comme l’on sait, n’est pas de recevoir l’enseignement, mais de le donner.
Nous sommes aussi la Nature, m’écriai-je, et c’étoit comme le refrein qui
venoit se placer de lui-même à chaque bout de méditation: et d’abord il me
parut aussi faux que mesquin de ne voir dans les fonctions du génie et dans
les jouissances de l’imagination, c’est-à-dire dans les arts, qu’un métier
d’imitation de la nature. Si ce qui nous entoure est la natura naturata, nous
sommes au contraire la natura naturans par rapport à nous-mêmes2. La
raison est peu-être la plus limitée de toutes nos facultés: elle est sans
contredit la plus précaire, la plus assujettie à de certaines formes et à des
artifices conducteurs, de nombres, de mots, de méthodes. L’homme a bien
encore d’autres aptitudes plus indépendantes: il plane par d’autres ailes au-
dessus de sa propre raison, et sa compréhension atteint beaucoup par-delà
son seul discernement. Supposé même que celui-ci, par analogie, fût à
l’âme ce que les yeux sont au corps, encore ne représenteroit-il pas, en vertu
de cette même analogie, les autres organes, et n’en tiendroit-il pas lieu;
c’est-à-dire qu’après avoir vu la vérité, il lui resteroit encore
allégoriquement à l’entendre, à la goûter, à la toucher.
Trois grands sentimens ressortoient à mes yeux du concours de ces
facultés indépendantes: 1°. le sens intime de la Divinité, dans ce qu’il a de
plus aimable comme aussi de plus accablant; 2°. celui des vertus héroïques;
je dis de la vertu qui ne calcule pas, qui s’énivre d’elle-même, qui joint de
sa propre pureté et de sa sublimité, et se dévoue à tout ce qui dépasse les
intérêts fortuits, artificiels et passagers3; 3°. l’ascension poétique de l’esprit
et l’embrasement poétique du cœur, ou le génie des arts. Infiniment loin au-
dessous, je crus voir que l’analyse grèle et transie, mais puissante à son tour
sur son terrain, étoit la seule 1°. à concevoir la possibilité de l’athéisme; 2°.
à honorer du nom de vertu le calcul des actions, et l’égoïsme plus ou moins
immédiat4; 3°. à engendrer la pédanterie, à consacrer les méthodes dans les
arts et les lettres, en voulant y assujettir même la faculté d’invention. Alors
je tombai à genoux, dans ma propre conscience, devant ce Bacon qui a tout
récomposé d’avance, qui de tous les hommes est celui qui a fait le plus
jusqu’à nos jours, à l’honneur de notre espèce et de la Divinité, en nous
instituant dans cette complète philosophie, qui, bien entreprise et bien
cultivée, pourroit donner au monde des Newton-Homère et des saints
philosophes. Dès ce moment, plus je comparois Platon, Malebranche,
Leibnitz, Cudworth5 et Kant avec Aristote, Hypocrate, Descartes, Locke et
Cabanis6, mieux je croyois sentir combien nous étions jeunes encore dans la
connoissance de nous-mêmes, et superficiels dans nos engouemens pour
des doctrines partielles. Il me parut que le jour étoit encore à venir, où ne se
bornant plus à définir l’homme un être destiné et composé de façon à
recevoir de l’esprit de tout ce qui l’entoure, on auroit enfin reconnu et
confessé une harmonie des facultés humaines. Dans le livre qui
recomposeroit ainsi notre système réel, dans un tei ouvrage sur l’imposante
fédération des facultés de l’âme, la philosophie de l’analyse joueroit au
reste un rôle encore assez beau, pour ne pas en décourager ceux qui s’y
appliquent.
J’ignorois la théorie romantique. J’ignorois les noms etles devises que
s’attribuent les deux partis; j’aurois préféré de les ignorer long-temps
encore. Le jour où l’on s’empresse d’affecter une dénomination de système,
avant que les matières soient discutées à fond, que les erreurs aient subi leur
précipitation, et qu’elles soient restées toutes seules d’un côté on prépare de
longues disputes inutiles: on appelle les passions à s’en mêler: on sonne
l’alarme: les partis se forment; l’un attache de l’orgueil, l’autre de l’odieux
à cette dénomination: elle devient un cri de guerre, et c’est alors le cas
deces sophismes de mots dont Bentham, par le secours de son digne et
savant interprète, M. Dumont de Genève, nous a fait comprendre et
développé les tristes influences dans les discussions7.
Je tombai sur des extraits critiques des doctrines de MM. Sismondi et
Schlegel, auxquels on ne manquoit pas d’associer la plupart des fois
Madame de Staël. Les plus beaux articles de ces feuilletons étoient, je crois,
de M. Dussault8, qui toujours se fait lire avec respect, et dont on tire tant de
profit, lors même qu’il en veut à des doctrines qu’on a souvent adoptées
avant de connoître les ouvrages qu’il combat et quiles proclament.
M. Sismondi9 conçut la grande pensée de nous conduire à la
connoissance de l’esprit des lois poétiques par l’examen comparé des faits
et des codes littéraires nationaux. Les circonstances physiques et les
influences des climats ne devroient jamais avoir d’effets plus sensibles que
sur les facultés poétiques des peuples; et cette démarcation géographique
seroit irrécusable, si les formes sociales, les moeurs et la fortune civile
n’avoient ensuite leur grande influence aussi; mais celle-ci n’est pourtant
que subalterne, précaire, et n’est pas toujours heureuse. M. Sismondi se
proposoit de signaler la part de chacune; il envisageoit donc la science des
théories de la manière la plus philosophique et la plus vaste possible: car
tout chef-d’œuvre des arts, pour être produit au moyen de l’esprit de
l’homme, n’en est pas moins un pur phénomène dans l’univers: l’histoire
naturelle de la poésie est donc la seule poétique immuable et complète.
M. W. Schlegel10 nous a étonné par la verve qui survit en lui à tant
d’études et qui s’identifie à tant de savoir: peutêtre ne nous a-t-il pas initiés
d’assez loin, nous autres hommes du midi, à cette direction que l’instinct
contemplatif prend en Allemagne. Arrivé, lui, dans cette direction, au point
le plus élevé, il veut nous persuader certain mal de nous et certain grand
bien des Espagnols, comme si ce point de vue d’où il découvre tout cela,
étoit en même temps, et devoit être le nôtre. Mais néanmoins quel beau
monument il a élevé à l’honneur des facultés poétiques! Combien il
ennoblit ces études, et que de vie, que de splendeur il restitue à l’antiquité!
Honneur à cette doctrine qui place le foyer des arts et des lettres au centre
de l’ame, et qui reconnoît dans l’intelligence humaine un astre actif et
animateur, lequel prête à la nature environnante beaucoup plus qu’il n’en
reçoit.
Mais combien elles durent me sembler froides, et, plus souvent encore,
choquantes, la plupart des réfutations du saint-office classique, vis-à-vis de
quelques sublimes pages de Madame de Staël?11 Tandis que les censeurs de
Madame de Staël ergotent et discutent, ou plaisantent sur des citations
frauduleuses et tronquées, elle produit des chefs-d’œuvres à chaque ligne, et
révèle des vérités que de graves docteurs auroient commentées en détail et
délayées dans des in-folio, si cet esprit eût honoré les siècles grecs au lieu
du nôtre. Mais ce qui n’a pu se faire de nos jours se fera peut-être; car
l’avenir trouvera long-temps encore la route des vérités morales, jalonnée
d’avance par cet esprit sublime12.
Mais il ne faut pas se flatter d’entamer encore avec beaucoup de succès
en Italie, toutes les questions qui ressortent de l’étude de l’homme, à
laquelle on doit enfin tout ramener; l’on y est à peine à Condillac, et déjà
l’on y a oublié les premiers pas que Genovesi et quelques autres napolitains
y avoient fait faire à la science de l’entendement13. C’est que pendant long-
temps, en Italie, on n’a connu en littérature d’autre habitude, que celle de
jouir immédiatement, et sans se soucier le moins du monde de se préparer
de nouveaux moyens, pour le jour où cette source d’amusement seroit
épuisée. Tant qu’on ne nous donne donc rien de nouveau qui nous ravisse
par le fait, et qui enlève notre suffrage, enfans gâtés comme nous le sommes
de la nature, nous préférons d’aller tout uniment notre bon homme de
chemin; et pour ce qui est des principes, nous trouvons plus tôt fait de
supporter ceux de nos rhéteurs, qu’au reste nous n’écoutons pas non plus
avec un intérêt qui puisse beaucoup les flatter. Aussi me gardai-je bien, en
mon particulier, de sortir des rangs par gaîté de coeur; personne n’étant plus
persuadé que ç’eût été se donner inutilement en spectacle.
Dans des pays où les lettres ne sont à peu près qu’un jouet, et n’agissent
guère qu’à la surface des esprits et des coeurs, il ne vant pas la peine de
s’attaquer à la vanité de ceux qui sont en possession de manier ce jouet.
De tous les liens qui attachent à l’étude, le plus rare est celui d’une
vocation intime et d’un irresistible attrait aux exercices de l’esprit, et ceux
qui y tiennent par ce lien seroient néanmoins les seuls qui vous
pardonneroient de tenter de bonne foi quelque découverte: vous n’auriez à
courir vis-à-vis d’eux que les risques attachés à la bonne ou mauvaise
nature de votre cause en soi. Si vous professez des erreurs, ils ne vous
l’imputeroient à aucune sorte de personnalité c’est cette erreur, non vous,
qu’ils combattroient. Mais ce parti est le plus foible, et d’abord ce n’est pas
un parti: ces élus, on peut les immoler un à un. Pour les autres, ils ont bien
affaire que vous veniez leur recommander du nouveau et du vrai: le
nouveau n’est pas nécessaire à faire aller la boutique; et le vrai y est très-
dangereux: les belles amorces que vous présentez aux oligarques de la
république! Ils font eux, dans cette république, comme ces hommes d’état,
qui sourient de pitié quand vous leur parlez au nom de la morale.
Mais il arrive que tout-à-coup on prend cela au sérieux, et que l’on se
sent couler dans l’âme une indignation que rien ne sauroit plus arrêter. Ceci
a lieu lorsque des circonstances quelconques, une rencontre imprévue,
découvrent à vos yeux bien pis que des préjugés, ou, si l’on veut même, pis
que des tripots littéraires: lorsque vous reconnoissez évidemment un foyer
de la plus active corruption, un double accord de l’ignorance et de la
cupidité, avec l’hypocrisie et le cynisme.
Il est bien légitimement fort, de nos jours, l’homme qui ne jette pas sa
conscience après son ambition, ou, pour mieux dire, dont l’ambition est
toute, et uniquement vis-à-vis de soi-même et des personnes qui ont
emporté son estime. Que peut-on lui faire? Le chansonner? Dénaturer tout
ce qu’il fait, ce qu’il dit, et préjuger de ses plus secrètes pensées? Même lui
susciter des persécutions, dans ce siècle des polices? Hé sans doute! mais
c’est précisément à ne pas s’effrayer de tout cela, qu’il y a de la force, et
qu’il peut y avoir une louable et vertueuse fierté. La vie est si courte, qu’il
vaut la peine de la brusquer un peu pour la rendre noble et désintéressée.
L’individu qui a reçu en partage quelque dose de vigueur dans l’âme, a une
grande tâche de reconnoissance à remplir envers la nature; or comme de
toutes les intentions de la nature envers les hommes, la sociabilité est la
mieux prononcée, cet individu doit faire hommage de son caractère à sa
patrie d’abord, et aux hommes qui co-existent avec lui, et le consacrer de
plus loin ensuite, à la plus heureuse réunion de tous les hommes ensemble;
ce but est réel; parce qu’il est réel il est philosophique; parce qu’il est
philosophique il est rigoureusement chrétien: c’est la carrière des obstacles
et des vertus, des efforts et de la gloire, des peines éphémères et des plus
ravissantes et nobles satisfactions. Que d’autres pensent, ou fassent
semblant de penser que la libéralité des principes et la vertu nationale
consistent à idolâtrer, à renforcer les préjugés communs, tels qu’ils se
trouvent à l’heure où l’on existe: à flagorner les plus forts, les plus heureux
et la multitude, tout juste parce qu’elle est multitude: à choyer l’ignorance,
à encourager la médiocrité pour se garantir un rôle durable: à outrager les
plus beaux génies de notre siècle, étrangers à notre pays, parce qu’ils ont
contr’eux les routiniers de tous les pays, et qu’ils n’ont dans le nôtre ni une
influence politique, ni une table ouverte. Que cette morale, que ces
sentimens, ils les étançonnent de toutes les précautions politiques, qu’ils les
déguisent sous toutes les formes et par les expressions les plus insidieuses:
nous ne troquerons pas nos sentimens contre les leurs; on ne nous
pervertira, on ne nous intimidera point par des paroles, fussent-elles cent
fois plus ronflantes et arrondies que celles de Boccace, autant qu’elles sont
plus fastidieuses; aussi spirituelles que celles de Berni, autant qu’elles en
sont plus bouffones: aussi sensées et piquantes que celles de feu le
journaliste Geoffroyl4.
Chiusa d’una lettera di Ludovico Di Breme a Giuseppe Grassi
(Torino, Accademia delle Scienze, Cart, 17666-99).
Les ouvrages de Madame de Staël prêchent la religion littéraire de la
pensée et des sentimens vrais et contemporains: ils consacrent à la gloire la
seule imagination productive, non cette imagination de commande qui imite
servilement la verve d’autrui: les neuf dixièmes des personnes qui veulent
résolument une réputation signalée dans les lettres et dans les arts, seroient
donc exclus de cette communion.
Cette même doctrine fonde l’élan de l’esprit sur l’intégrité du coeur et sur
l’élévation de l’âme: elle suppose, depuis les plus légères nuances de la
parole jusqu’à ses plus sublimes chefs-d’œuvres, en proportion directe et
réciproque entre le mèrite de l’écrivain et celui de l’homme, dans ses triples
rapports, envers Dieu, envers soi-même et envers la société. Le cynisme, la
démagogie, l’égoïsme, seroient donc jugés d’avance incapables de dépasser
la sphère de la médiocrité; et non seulement jugés tels, mais dénoncés
d’avance au bon goût, et renvoyés hors de ses domaines.
Madame de Staël a déconcerté l’hypocrisie, dont elle a suivi et signalé les
allures: elle alarme les tartuffes de toutes les bonnes choses, et voue au
mépris les satellites de toutes les tyrannies: elle ne pardonne pas plus aux
museleurs arbitraires de l’esprit, qu’à ceux de la volonté: elle relève
l’empire des lois nécessaires, et mine, pour le moins, celui des lois
capricieuses. Les museleurs, et l’engeance rampante, et les adorateurs de la
force, et tout ce qui a fondé ses calculs sur la foiblesse des uns et sur la
prépondérance des autres, pardonneront-ils à Madame de Staël?
Telle est l’élite, et voilà les classes au sein desquelles on trouve, dans
tous les pays, des gens irréconciliables avec les livres et les principes de
cette dame.
Les reproches que ceux-ci lui font, les motifs pour lesquels ils lui en
veulent, ne peuvent néanmoins être énoncés simplement et tels qu’ils sont:
on ne peut être reçu à lui en vouloir parce qu’elle ne cesse de rappeler
l’humanité à des vérités rayonnantes de beauté, de vertu, de justice et de
bonheur. Mais, en Italie surtout, les mythologues exclusifs et ceux qui
trouvent leur inspiration toute faite en grec et en latin: les peseurs jurés de
diphtongues: les pâtres de l’Arcadie, les disciples de Berni et de Baffo15; les
amplificateurs de collége, et en général tout ce qu’il y a d’esprits parasites
d’une part; de l’autre, les sorciers et les fermiers de la république littéraire,
les spéculateurs, les libellistes journaliers, ayant à leurs ordres des bandes
entières de frondeurs en titre et de crieurs en détail, crurent avoir beau jeu à
se pavaner de quelques honorables principes, et à invoquer, à son occasion,
la sainte religion de la patrie. Il fut décidé qu’on persuaderoit aux libéraux
qu’un article de Madame de Staël, inséré dans la Bibliothèque Italienne16,
étoit foncièrement illibéral: aux nobles, qu’il étoit jacobin: aux jacobins,
que c’étoit du mysticisme et de la dévotion: aux badauds, que leur empire
étoit menacé et que le commérage littéraire alloit être déconsidéré sans
retour; ce dernier coup fut le plus méchant et le plus efficace, car il
transforma tout plein de ces badauds en vipères.
Madame de Staël nous ayant jugé autrefois avec beaucoup de rigueur,
pouvoit au moins s’appuyer de l’exemple de plusieurs autres écrivains; elle
se distinguoit d’eux néanmoins, par ce tact si délié et cette finesse
d’observation qui la placèrent alors si fort au-dessus de nos autres censeurs,
comme elle s’est placée aujourd’hui au-dessus de tous nos apologistes.
Quelques années après, elle nous consacra sa Cornine17. Si par là elle a
voulu en quelque sorte se dédire, ce fut de sa part une action généreuse, et
dès ce moment nous dûmes nous féliciter de l’espèce d’injustice qui en
amenoit une si lumineuse réparation. Madame de Staël eut à supporter plus
d’une fois les critiques des autres pays, jaloux du monument qu’elle venoit
d’élever à la gloire du nôtre; l’espoir de la reconnoissance, ou au moins de
la bienveillance des italiens l’en consoloit; mais en Italie, les uns en
restoient aux premières impressions reçues, et il étoit décidé que rien
n’effaceroit à leurs yeux les reproches adressés en d’autres jours par
Madame de Staël, à la tournure de nos esprits et de nos coutumes. D’autres
n’étoient pas même satisfaits encore de Corinne, parce qu’il ne résulte pas
de ce livre que nous soyons parfaits, éminemment exemplaires et intègres
dans la jouissance des prérogatives dont la nature nous a comblés. Enfin, il
se trouvoit une autre classe encore dont le ressentiment déguisé étoit celui
d’un aveugle amour-propre, ligué avec l’ignorance, la paresse et l’orgueil:
cette classe en vouloit au livre de Corinne, précisément pour le éloges qui
nous y sont donnés. Nous y sommes peints si poétiques, si sensibles, si
enchanteurs: l’auteur nous a presque fait contracter l’engagement d’être
tellement aimables et originaux, tellement ardens de religion, d’amour,
d’enthousiasme pour tout ce quiest beau, que ceux-là en sont déconcertés,
qui auroient vouluêtre loués tels qu’ils sont et qu’ils veulent rester, non tels
qu’ils devroient, ou tout au moins pourroient être.
J’aime mon pays, oui sans doute, et je me trompe bien sicet écrit n’en
fournit par-ci par-là, quelques bons témoignages. Je l’aime ni plus ni moins
que la vie, mais apparemment chacun a sa façon de l’aimer; car je n’entends
goutte à certains patriotismes. D’abord les rivalrtés nationales, et jusqu’à un
certain point l’orgueil national, ne sont peut-être qu’un des degrès par où il
faut passer pour arriver avec le temps à une bien plus complète et plus
heureuse condition sociale; l’un des âges de la civilisation universelle18.
Peut-être, ce n’en est pas le chef-d’œuvre, et n’est-ce au contraire que la
dernière nuance de cette condition barbare dont nous sommes tous partis, et
dont l’introduction du Christianisme, entr’autres causes, et l’association des
peuples par le droit public depuis Charles-Quint, nous ont déjà si
heureusement éloignés: serions-nous parvenus aujourd’hui à une troisième
grande époque? Ah! sachons la fixer! Quoi qu’il en soit, et en attendant, il
faut tirer tout le parti possible de ces ambitions locales; la masse des
hommes subdivisée ainsi en petites masses, qu’on appelle nations, et dont
chacune a un centre d’activité à soi, y aura gagné pour le jour où un
système social plus simple et plus naturel opérera cette fusion générale, que
la morale invoque et que la politique ne comprend pas, avec tout son esprit,
elle qui soutient que des cabinets sont plus grands que des nations. Il faut
donc se perfectionner avant tout entre concitoyens, et dans l’intérêt des
rapports individuels communs: je conviens hautement de cela; mais jetiens
en même temps que la censure de nos mœurs et de nos artifices, est un
bienfait que nous devons invoquer de la Providence, et que nous ne
pouvons recevoir que des étrangers: nous ne pouvons pas nous regarder
nous autres; acteurs sur la scène de l’Europe, il faut tour-à-tour, à tous les
publics des spectateurs qui crient bravo à ces publics, ou qui les sifflent.
Toute l’Europe s’en trouvera bien. On nous blâme, on s’égaie sur notre
compte: le premier effet en est bien un peu mortifiant; mais corrigeons-nous
toujours, car tandis qu’il n’y a pas le sens commun à se fâcher de paroître
tel qu’on est, il y auroit de la véritable vertu nationale à devenir ce que l’on
veut paroître.— Mais la calomnie; mais les satyres mordantes; mais les
plagiats audacieux, dont même jamais on ne nous a dit bien obligé? — La
calomnie? Non, il ne faut pas la boire comme l’eau; mais il ne faut pas se
mêler non plus de la réfuter quand on n’est pas en état de la confondre par
ses propres armes: ou bien, et ni plus ni moins, l’histoire ne tiendra pas le
moindre compte de nos réfutations. Nous définissons nos moeurs avec
emphase, et ce n’est pas cela qui prouvera que nous avons de bonnes
moeurs. Nous définissons notre esprit d’autrefois: c’est merveille à
entendre; mais par malheur cela ne prouve rien non plus pour notre âge:
essayons à notre tour de dire aux françois, par exemple, qu’ils n’ont aucun
droit à la plus grande influence sociale: ils auront bientôt fait d’en appeler à
leur langue répandue partout, partout adoptée: à leurs livres que l’Europe
apprend par coeur: à cette mode, plus que mode, qui transforme leur pays
en véritable chef-lieu des usages universels: ce sera là, je crois, une
réfutation bien complète.
Non, sans doute, la calomnie n’est pas supportable pour une association
d’hommes caractérisée par ses lois, son éducation domestique et les
produits de son génie; mais voici d’abord un expédient aussi raisonnable
qu’infaillible, je pense, pour prévenir les imputations étrangères. Il faut
prendre, nous les premiers, les devants sur les étrangers, et retrancher de la
sphère des moeurs, d’après lesquelles nous consentons à être jugés, ce qui
nous expose effectivement à la calomnie; nous ne devons pas tolérer que les
torts, les travers ou les bruyantes inepties d’un certain nombre d’italiens,
puissent nous être imputés nationalement; ce qui arriverà néanmoins, si
nous ne proelamons notre désaveu de toute leur conduite; parce que ce petit
nombre est d’ordinaire le seul qui se remue, qui parle haut, qui colporte tout
à son aise, et qui aspire à se donner en échantillon du corps national.
Ceux qui approuveront cette façons de s’y prendre, auront fait par-là
même, l’apologie du discours que je publiai l’année dernière, sur l’injustice
de quelques jugemens littéraires italiens19. Une ligue qui me parut fondée
sur les principes et les intentions que j’ai dénoncés dans les pages qui
précèdent, travailloit de toutes ses forces et de tous ses moyens à éconduire
le public sur les doctrines d’une littérature envisagée sous le rapport de
l’harmonie complète de nos facultés; cette ligue arboroit l’étendart du
patriotisme, et c’étoit par patriotisme qu’elle s’exaspéroit en attendant,
contre Madame de Staël, contre MM. Sismondi et Schlegel, de façon à nous
faire passer aux yeux de l’Europe et de l’avenir, pour les plus rustres et
grossiers détracteurs qui eussent encore osé manier la plume. Dans les rangs
de ceux qui reprochoient à ces trois illustres personnages d’avoir trop
franchement critiqué nos chefs d’œuvres anciens, on découvroit des
frondeurs de Dante et de Pétrarque; des persiffleurs d’Alfieri; des
persécuteurs de Monti, de cet homme dans les vers duquel nous voyons
revivre tour-à-tour toutes les grêces et la splendeur de nos plus grands
maîtres, et qui a enrichi encore de nouvelles couleurs la palette italienne20.
C’est bien autre chose; c’est bien plus anti-patriote, cela, que d’avoir osé
reprocher à Goldoni, comme je l’ai fait par un seul mot, la mesquine et
piatte figure qu’il a prêté au pauvre Tasse21, et les maussades commères
dont il l’a entouré sur la scène, sous le nom de Duchesses et de Marquises,
en vue, nous dit-on, de rendre vraisemblables les vertiges de cette sublime
et resplendissante imagination. Que fis-je, au reste, dans ce discours, sinon
de déclarer que ce n’est pas l’esprit italien qui fait consister l’orthodoxie
littéraire dans un système d’ignorance de tout ce qui se pense et se découvre
hors de l’Italie; que ce n’est point cet esprit qui attribue plus que de la force
humaine aux génies de l’antiquité, et moins que cette même force aux
générations qui ont succédé et qui succèderont; qu’il n’est ni dans les
principes ni dans le goût de cet esprit, de flétrir et de fronder les sentimens
délicats, les pensées profondes, les élans généreux. Qu’eussions-nous perdu
les modèles grecs et latins, objets de notre culte, nous aurions encore une
seconde ligne de classiques indépendans à montrer, et qu’il n’est pas de
couleurs attrayantes dans le genre romantique dont la poésie italienne ne
puisse parer sans sortir de sa sphère; que nous sommes aussi capables de
nous tenir à l’école de Bacon, que dignes d’apprécier les hymnes chantés
par Corinne à l’honneur de nos génies et de notre inspiration indigène. Dans
ce discours, où je ménageois avec respect les opinions fondées sur des
études, pour ne faire main basse que sur celles fondées sur des partis,
j’excitai les italiens à secouer leur paresse: à se retremper dans la science
d’eux-mêmes et des choses, au lieu de se morfondre inutilement sur des
vocabularies; à les compléter, ces vocabularies, par de nouvelles séries
d’idées et par de belles analyses intellectuelles, sur chaque branche des
connoissances humaines. Je disois que la gloire des pères est une honte pour
des enfans dégénérés, et qu’il est interdit à ceux-ci de s’en vanter, les bras
croisés.
Il y a bientôt un an que ce discours a été publié j’en suis encore à
m’étonner comment on n’a pas épargné les sarcasmes à son auteur qui,
certes, a bien prouvé par la lettre dédicatorie à son père, et par tout le
contenu du reste, qu’il s’y attendoit sans les redouter. Comment ceux-là
même qu’il a tant soit peu dénoncés à une juste indignation des ames
indépendantes, ont-ils cru s’en venger dignement, et défarie son ouvrage
par des criailleries et par du ressentiment tout pur? Il falloit réserver
l’humeur pour la fin, et le bien réfuter auparavant.
J’ai consacré dans les journaux de ces dernières années plusieurs articles
anonymes à la louange de difiérentes productions. Il me paroît que l’éloge a
plus d’effet, quand celui qui le donne n’a pas l’air de faire contracter une
obligation envers lui à l’écrivain qui en est l’objet. Mais je me suis fait une
loi de me nommer en toutes lettres, chaque fois que je me permettrai
d’écrire contre qui et quoi que ce soit. L’abus qu’en général les journalistes
font de l’anonyme; cette commodité qu’ils y trouvent à débiter tant
d’inepties, à porter des coups si méchans, à se permettre chaque jour les
plus inconvenantes allusions, me fait horreur, et me paroît aussi lâche que
de mauvais goût, aussi immorale que grossière.
L’homme d’étude (je dis l’honnête homme) est seul contre les factions.
Le point de réunion entre lui et ses amis n’est jamais que la vérité, ou ce
qu’ils prennent pour elle. Les journaux, les cafés, le vestibules des théâtres,
tous ces foyers de partis sont gagnés d’avance par les folliculaires, dont au
fond la théorie est très-simple. Ces enthousiastes, disent-ils, pourroient
cependant rencontrer la vérité or comme nous avons tout à craindre d’elle,
faisons plus de bruit qu’eux. Les routiniers et leur école, qui ont leur
capitaux placés aussi sur cette banque de l’erreur, font chorus. L’homme
doué d’une raison bien affranchie connoît cela d’avance, et leur dit dans son
ame: «Il n’auroit tenu qu’à nous d’être les premiers de votre confrérie: mais
nous préférons vos enfans à vous. Jugez-nous sur nos véritables sentimens,
et rougissez: les voici. Nous voudrions pouvoir proclamer une doctrine qui
persuadât aux journalistes qui viendront dans cent ans d’ici, que ces mêmes
opinions que vous attaquez aujourd’hui avec tant de naïiveté, pourroient
bien, à cause des progrès vraisemblables qu’aura faits la critique littéraire,
valoir beaucoup moins à cette époque: qu’ainsi nous protestons dès à
présent contre tout ce que les habitués de ces jours-là feront et diront pour
les soutenir en dépit des lumières ultérieures, au développement desquelles
il nous suffit que nos efforts puissent contribuer. Mais entendez-vous cette
espèce d’ambition-là»?
En fait d’opinions et de doctrines, l’on n’est tenu à autre chose envers le
public, sinon à n’émettre que celles qu’on professe effectivement dans sa
propre conviction, et à se tenir prêts à les développer et les justifier de son
mieux. Voilà tout. Car tandis que l’auteur et ses contemporains n’occupent
qu’un point imperceptible dans les espaces de l’Univers et des temps, ces
opinions pourroient cependant renfermer quelque vérité éternelle, inaperçue
jusque-là, et en faire germer nombre d’autres; or le vrai, quoi qu’en pensent
les spéculateurs, vaut bien la peine qu’on lui sacrifie le sot plaisir d’être
salué de tout le monde en sa vie. L’espoir tout seul attaché à la perspective
de la vérité, suffit pour dédommager amplement des quolibets que les
méchans par intérêt lanceront sur ses adorateurs. Leur lot, aux uns, est de se
réjouir éternellement entre eux de ce que n’entendant rien à rien, ils sont
pourtant reçus à parler de tout, et de ce qu’ils parviennent à obstruer le
passage par où la lumière perceroit: le lot des penseurs est d’abord de
penser; et ensuite de fournir de leur classe ces individus qui seuls marquent
les époques de la croissance intellectuelle de l’esprit humain. Dans l’espace
qui les sépare, on ne voit à peu près que de l’espèce qui se remue. Pour ces
hommes timides qui ne savent pas renoncer à cet insignifiant accueil
universel, et qui ne dorment pas bien si un malotru les a pamphlettés, ceux-
là ne devroient faire que des madrigaux. Mais il est encore une sorte
d’écrivains qui, avec de bonnes intentions, ne laissent pas d’agir un peu
làchement; j’entends ceux qui se font un devoir de payer tribut à la niaiserie
vulgaire, par des allusions malignes contre ceux qui ont eu plus de courage
qu’eux. N’est-ce pas assez que les aveugles et les prôneurs de
l’aveuglement, en veuillent à ceux qui, à leur risque et péril, ont les
premiers allumé quelques fanaux sur la route, sans que ces autres, amis
pusillanimes de la lumière, arrivent ensuite avec leur bougie dans une
lanterne sourde, et toute en la tournant peu à peu dans la bonne direction, se
mettent à crier haro sur les premiers.
Si les plaisanteries les plus stupides et quelques roturières injures ne sont
point des réfutations, je n’en ai donc subi aucune22, quoiqu’on m’en eût fait
d’effrayantes menaces avant même que mon écrit parût. A les en croire,
j’allois être réduit à ne pouvoir même plus soutenir la discussion, tellement
on m’auroit prouvé de premier abord, de combien j’étois inférieur à la
sapience de mes adversaries. Je vais leur donner une nouvelle prise contre
moi, car je maintiens I.° Que ce discours renferme les principes, au moins,
de toutes les doctrines qui reposent depuis des siècles sous la garantie des
faits et de l’expérience. 2.° Qu’il présente en sus de ces principes, des
assertions d’autres faits bien notoires, dont j’ai laissé à mes lecteurs le soin
de trier les conséquences. 3.° Que j’y ai indiqué les extensions raisonnables
qu’on peut et doit donner aux théories reçues, et cela sans avoir attaché
beaucoup d’importance à ce qu’on adopte de nouvelles dénominations de
sources et de genres (D).
Mais si l’on ne se risqua pas d’entrer en lice, et d’entamer le fond et la
substance de la question, est-ce à dire que j’aie échappé à toute censure
raisonnable? Non: et c’est d’un de mes plus chers amis qu’elle m’est venue:
d’un homme que la nature aura doué en vain de l’esprit le plus distingué, et
destiné en vain aux plus heureuses études, si la fortune s’obstine à lui en
disputer les loisirs. Les liaisons entre gens d’étude ne sont pas toutes des
complots; M. Borsieri me reprocha franchement dans un livre qui a pour
titre Événemens littéraires d’un jour, ou quelques conseils d’un honnête
homme à plusieurs écrivains, quelques inégalités dans mon style, et trouva
que je n’avois pas amené par assez de précautions, des idées peu familières
encore aux italiens23. C’est qu’au lieu de serrer le tout dans le cadre d’un
seul discours, il auroit mieux valu peut-être en consacrer deux à son objet.
Ce petit ouvrage de M. Borsieri est jugé bien au-dessous de son mérite
permanent, par ceux qui ne l’envisagent ou font semblant de ne l’envisager
que comme un livre de circonstance: à la vérité c’est presque le titre lui-
même qui aura eu la faute d’en déprécier le fond, quand une fois toutes nos
disputes auront cessé. S’avisera-t-on alors d’aller chercher dans cette
brochure, ce qui de nos jours a peut-être été écrit de plus ingénieux parmi
nous et de plus irrécusable, sur les devoirs de la critique, et sur le goût et le
choix du style historique italien? S’imaginera-t-on alors que M. Borsieri,
sous le titre d’événemens d’un jour, a signalé les germes vicieux habituels
de nos études, et les misères qui en fournissent trop souvent le sujet? En
effet, les personnes auxquelles il adresse ses reproches, et qui tombent là
sous sa critique, ne sont que les infirmes actuels d’une espèce de maladie
indigène, laquelle se reconnoît toujours aux mêmes symptômes. On auroit
pu extraire de cet écrit plusieurs morceaux d’un intérét indépendant de toute
controverse, et en parer quelque journal littéraire, ou ceux qui se sont intrus
dans la littérature; mais, nous l’avons dit, les journaux sont accaparés. Le
gouvernement n’admet qu’une gazette politique qu’il afferme24: cette
feuille est bien évidemment instituée pour l’utilité et la commodité
publique, et puisqu’elle n’exclut pas plus la partie littéraire que les
annonces, et les affiches du barreau et du commerce, il est assez clair que le
fermier n’en est que le facteur politique, et au surplus le distributeur des
autres matières: mais il a trouvé bienséant et commode de la transformer en
propriété à lui25, sous le rapport des lettres et des arts: là il s’amuse tout
seul; là il prend tout seul ses ébats philosophico-dramatico-poético-moraux,
pour son compte et pour celui de ses bons amis, comme s’il eût fondé, lui,
ce journal. Mais a-t-il emporté ce bail sur les autres aspirans, au concours
aussi d’esprit et de doctrine? Est-il de rigueur que la confiance politique
entraîne avec soi la confiance littéraire? Et n’y aura-t-il plus moyen de
répandre, par la seule feuille nationale, les opinions et les jugemens qui ne
seroient pas du goût, ou à la portée de lui et de son conseil? Parce qu’il est
issu de Venise la superbe26, ne lira-t-on jamais dans l’auguste gazette qu’il
fait aux Milanois, quelques réflexions libres et désabusées, sur le genre
théâtral et sur les moeurs comiques, parfois un peu batelières, de maître
Goldoni? Aussi en refusant d’y insérer, avec les simples égards de la
politesse, l’annonce du livre de M. Borsieri, il n’a pas manque d’intercaler
dans un article de sa façon contre ce même livre, des vers d’autrui
personnellement satyriques contre l’auteur27. C’étoit d’autant plus mal à lui,
et cela ressembloit d’autant plus à un complot, que lorsque besoin y a
d’esprit, ce rédacteur n’est pas dans la rigoureuse nécessité de s’en faire
prêter. Depuis quelques années, certains hommes de lettres ont ici la bonne
foi d’emprunter le voile allégorique de l’ours, et de l’animal immonde,
quand ils veulent se mettre eux-mêmes en évidence. L’apologue, genre si
piquant par sa nouveauté, leur fournit la forme. De leur aveu donc, ils
étoient l’ours; M. Borsieri figuroit ensuite de moucheron: il n’y avoit là
d’exactitude allégorique que dans les ailes; mais tout-à-coup l’analogie
restoit en défaut, car au lieu de griffes, les plaisans avoient conservé des
mains crochues dans la personne de l’ours, vu le besoin qu’ils sentoient
d’ôter les ailes à M. Borsieri; expédient indispensable à ce que dans la suite
il ne volât pas plus qu’un ours, s’il étoit possible. Le bon sens enseigne et
Boileau a dit que le vrai doit régner partout, et même dans la fable28. Or, je
le donne en mille à tous les ours de la nature et des lettres, d’arracher les
ailes aux mouches qui les gênent29.
Nous en étions là, lorsque M. Berchet, jeune homme versé dans les
langues allemande et angloise, ajouta aux titres littéraires qui parent déjà
son nom, celui d’un beau travail à l’honneur de la poésie philosophique,
dont il envisage la popularité comme l’un des caractères précieux et
indispensables30. Il a raison, puisqu’il entend par-là, une influence étendue
des arts de l’esprit, sur toutes les classes de la société. Ce seroit rappeler les
Muses à leur antique importance et à leur ministère primitif: elles ne
sauroient plus l’exercer aujourd’hui par l’expédient des fictions grecques et
romaines, ni par des décrets académiques d’enthousiasme, signés Aristote,
et plus bas Horace. M. Berchet recompose l’inspiration en la saisissant dans
ses principes; il évoque toutes les puissances de l’âme d’abord; toutes celles
de la nature extérieure; les charmes et les phénomènes des climats; les
certitudes, les espérances, les rigueurs même de la religion immortelle des
Chrétiens; nos lois, nos faits, nos usages; il prouve que nous avons là un
beau champ; il nous exhorte à épuiser sur ces sujets toute la faculté d’amour
et de terreur; toutes les aptitudes d’élégance et de vigueur; d’essayer toutes
les touches mâles et voluptueuses dont nous sommes doués; facultés et
aptitudes qui assignent seules les confins de l’empire poétique. On lui a
reproché d’avoir affoibli l’effet de sa belle discussion, par les exemples
pratiques qu’il s’est cru permis de choisir, entre tant d’autres plus réguliers
qui se présentoient, et d’une popularité plus exquise: car tout ce qui est
irrégulier est aussi illibéral qu’illégitime dans les arts comme dans la
morale: et cela est irrégulier, ou peut au moins le paroître à son passage
d’une langue dans une autre, qui est puisé dans une modification de l’esprit
tout-à-fait bizarre et fantasque, ou dans tel petit coin du monde et dans telle
petite classe d’hommes. Il est question du Chasseur et de l’Éléonore de
Bürger. Je me bornerai à observer qu’en effet les Italiens sont un peu
excusables s’ils ne veulent pas commencer leur cours d’idées romantiques,
puisque romantique y a, par des essais de crédulité populaire: parce que les
Italiens, même quand ils sont superstitieux, ne sont pas crédules dans ce
genre-là: ils recourent à des pratiques extérieures, ils les multiplient les unes
sur les autres, se pourvoient d’expiations, même préalables, et voilà tout:
leur imagination n’en fait pas plus les frais que leur esprit. Il faut d’ailleurs
observer que sur cent apparitions de la Vierge et des anges, en Italie, il n’y
en a pas dix du Diable. M. Berchet sait bien que la classe vulgaire n’est
comptée pour rien jusqu’à présent chez nous, à la barre littéraire, et ne s’y
présente jamais; nous avons bien notre peuple aussi d’amateurs et de beaux-
esprits, sans contredit: mais il faut les chercher dans une classe influencée
par toute autre fantasmagorie que celle de Bürger. Pourquoi ne nous a-t-il
pas donné, au lieu de cela, quelques belles scènes du marquis de Posa, ou
l’entrevue de Marie et d’Élisabeth, et même la mort de Marie31, ou le
dernier acte d’Émilie Galotti?32 Tout cela est très-populaire en Allemagne,
et marque bien à quel niveau au-dessus du nôtre, y sont généralement élevés
et agissent les effets littéraires. C’est dommage que sa grande habileté à
traduire n’ait pas été employée plus fructueusement. La dernière partie de
son ouvrage me paroît un chef-d’œuvre d’ironie; d’autant plus chef-
d’œuvre, qu’elle a produit une complète mystification, et que beaucoup de
ceux sur lesquels elle tomboit directement, l’ont prise au sérieux et l’ont
acceptée comme une rétractation que l’auteur y faisoit, des doctrines qui la
précèdent.
Je résiste péniblement à la tentation de parer les dernières lignes de ce
chapitre, des noms d’une jeunesse de bonne foi, qui se sent la vue assez
forte pour ne point invoquer le louche et faux jour des crépuscules, et dont
l’esprit s’est élevé de bonne heure aux nobles hauteurs de l’indépendance.
Mais il ne faut pas lui rendre le mauvais service de la trop désigner à
l’envie, et aux niveleurs impitoyables de ces réputations, qui n’ont point
encore été cimentées, par une longue et vaste publicité. Il en est pourtant de
ces noms qui, en partie au moins, ont déjà subi leurs épreuves; j’en choisis
deux de préférence, pour payer tout à la fois un tribut à l’admiration
générale et à mon propre coeur; et d’abord celui de M. Alexandre Manzoni,
neveu de l’illustre Beccaria, homme dont la poétique est dans l’ame, et s’y
compose du plus rare assortment de vertus; l’un de ces esprits où, de toute
part, vont se confondre et se réunir comme dans un foyer d’attraction, les
rayons du beau et du vrai; tout ce qu’ils écrivent comme tout ce qu’ils font,
est un hommage continuel au génie des grandes pensées. Il m’est ensuite
permis de rendre une justice solennelle aussi à M. Sylve Pellico, depuis que
son nom est déjà si favorablement répandu, par sa touchante tragédie de
Françhise de Rimini. Les larmes qu’elle a fait couler ont effacé les plates et
glaciales censures, que ceux dont la vocation est de décourager le talent,
n’ont pas manqué de lui appliquer dans leurs feuilles dogmatiques. J’ai sous
les yeux un autre essai tragique de ce jeune homme33; en attendant que le
public en prononce, rien ne m’empêche de penser que cet ouvrage est l’un
des plus distingués dans ce genre, qui, même après les chefs-d’oeuvres
d’Alfieri, en laisse encore espérer d’autres à l’Italie: je dis dans l’art de
rendre éminemment tragiques les caractères les plus aimables et les
passions les moins haineuses, et dans le secret d’amener les événemens par
et non pour ces mêmes caractères: c’est-à-dire, sans d’avance tempérer
ceux-ci sur la catastrophe et sans les y exhausser à coups d’épaules, et
d’acte en acte. N’est-il pas vrai qu’on est plutôt en droit de demander plus
que moins, dès les premières scènes? L’artifice de la graduation est moins
important que la certitude des caractères, car ce qui dans l’âme des
connoisseurs, paralyse surtout et presque toujours l’effet final, c’est le doute
que ces personnages ne fussent, à la rigueur, au-dessous du dénouement
qu’ils figurent. Toute oeuvre dramatique atteindra la hauteur convenable,
dès-lors qu’elle sera une histoire simple, mais bien naturelle et nécessaire,
des coeurs et des esprits donnés, dans les circonstances où on les suppose.
Ce principe n’exclut pas, il exige, au contraire, tous les prestiges poétiques
et historiques; mais cette broderie, c’est-à-dire l’art, suppose avant tout un
fonds qui en soit bien susceptible, et ce fonds c’est la nature elle seule qui
doit le fournir.
Le mérite littéraire de M. Pellico est de ceux qui en désignent un bien
rare, dans le tempérament moral et dans le genre de sensibilité. La plus
belle merveille de l’organisation intellectuelle, aussi bien que physique,
c’est cette propriété d’assimiler les autres substances à la sienne propre: de
toute autre façon, on a beau étudier, on ne fait bonnement qu’entasser des
couches de matériaux les unes sur les autres. Il arrive ainsi qu’on porte son
érudition et sa doctrine, mais qu’on n’en grandit pas. Trop souvent même
c’est un poids lourd et supérieur à la mesure de la pensée; ce qui rend raison
de la fréquente alliance du savoir avec la sottise; et de la connoissance des
faits et des règies, avec une stupide ignorance des corollaires de ceux-là, et
de l’effet de celles-ci.

1. Sul Destutt de Tracy si veda la nota 6 a p. 107. L’opera del padre Francesco Soave che
confutava la dottrina del filosofo francese è la Memoria sopra il progetto di Elementi di Ideologia del
conte Destutt de Tracy («Atti dell’Istituto Nazionale Italiano», Bologna, 1809, tomo I, pp. 47-69).
Nel Discorso il Di Breme aveva dato ben altro giudizio del Soave: cfr. p. 109 e nota 2.
2. Natura naturans era il principio attivo, cui si contrapponeva la natura naturata, l’insieme degli
accadimenti, nella filosofia di Spinoza. Il Di Breme si serve di questi termini per contrapporre alla
dottrina estetica della imitazione della natura il concetto dell’arte come creazione dello spirito. Si
confronti quanto qui è detto con il passo del Discorso: «In vista dunque d’imitarla (la natura),
inalziamoci a gareggiar con le nella stessa creazione;…» (p. 132 del presente volume).
A questo punto il Di Breme aveva aggiunto la seguente nota: «J’ose croire de plus en plus qu’on a
tenu trop exclusivement à définir les beauxarts une science d’imitation. On a dès-lors implicitement
avancé que la musique est moins dans la nature, parce que le modèle n’en est nulle part et que la
facuité n’en existe que dans l’homme. Mais la nature a tout fait en nous douant de cette capacité
merveilleuse. Céleste et mystérieuse aptitude qui produit en nous un avant-goût d’une existence plus
épurée! source de jouissances aériennes qui dégagent l’ame de ses liens et la placent comme en
suspens entre le ciel et la terre, entre le temps et l’éternité! qui absorbent tous ses autres besoins: qui
enchantent jusqu’au sentiment de ses peines et rendent exquise la consciencemême de sa foiblesse…
sa destination est toute comprise dans le cercle de nos plus douces ou plus énergiques émotions. Elle
n’a point de modèle à imiter: l’homme lui seul en a recu le secret; seul il est envers soi-même le
dispensateur de cette insigne bienfait de la compatissante Divinité. Quelquefois la musique devient
une expression, un langage, en nous ramenant par l’imagination à de certaines situations, et en
reproduisant en nous quelques-uns de leurs effets: elle n’est imitative alors que par accident, et par la
grande loi de l’association des idées, elle nous rappelle, ou nous suggère des pensées, en produisant
des sensations. La qualité de langage n’est done tout au plus qu’un des moyens accessoires de cet art
divin. La nature de cet art est toute en nous».
3. «Le livre d’Helvétius est funeste parce qu’il travaille à devenir vrai de plus en plus. D’abord
cette doctrine persuade qu’il ne se fait pas de bien: en second lieu, elle persuade à celui qui le ferait,
que personne n’y croira plus. Il n’y a que le petit nombre de ceux qui forment réellement exception,
qui trouve en soi une force supérieure à ces découragemens. S’il y eut une histoire naturelle de ces
ames-là, comme les ames vulgaires ont leur histoire naturelle dans le livre d’Helvétius, leur livre à
elles auroit peu de gens qui le comprendroient. La morale crie sans cesse contre la plupart des choses
comme elles sont: or ce livre-là, qui n’est que l’exposé secret et honteux des choses comme elles
sont, ne peut rien contre la morale» (Nota del Di Breme). Il libro dell’Helvétius è De l’esprit, apparso
nel 1758. Sul filosofo francese si veda la nota 1 a p. 266.
4. «Le crime essentiellement anti-social c’est l’égoisme: per lui succombent les families et les
états. La prospérité et l’amélioration générale sont incompatibles avec ce vice; et tout homme qui en
est incorrigiblement atteint, diverge du but commun et devroit être inexorablement abandonné
derechef à la foiblesse et àl’indigence des moyens simplement individuels, puisqu’il refuse de se
coaliser d’intention avec ses semblables. La vertu, au contraire, ne se rencontre que sur le chemin de
ce renoncement à soi-même qui a pour objet l’utilité générale; enfin le véritable héroïsme ne peut
consister que dans le plus haut degré de ce mérite social. C’est done sur cette échelle qu’il faut
mesurer le grand homme. Tous ces héros militaires qu’on ne cesse de nous présenter comme les
merveilles de la nature humaine, ne sont que des insignes criminels, tant qu’ils n’ont eu que leurs
grands intérêts pour mobiles: tant qu’ils n’ont envisagé l’association des hommes que comme une
vaste réunion de moyens, d’instrumens, de spectateurs. Mais le premier tyran armé, nuisit beaucoup
moins à l’humanité, que ne le firent ses präneurs: ce furent ces lâches, qui achalandèrent, à l’envi et
de siècle en siècle, ce monstrueux genre de célébrité» (Nota del Di Breme).
5. Ralph Cudworth (1617-1688): filosofo e teologo anglicano, fu allievo e poi professore
nell’università di Cambridge. Tra le molte sue opere va ricordato il Sistema intellettuale dell’universo
contro gli atei, apparso nel 1678 a Londra, in inglese, e poi tradotto in latino nel 1733 da G.
Mosheim. Fu considerato il rappresentante della scuola platonica di Cambridge.
6. Pierre-Jean-Georges Cabanis (Cosnac 1757 - Rueil 1808) fu letterato, medico, filosofo. La sua
opera principale, Rapports du physique et du moral, apparve nelle «Memorie dell’Istituto di Francia»
nel 1798-99 (fu poi nel 1802 stampato a parte). Il Cabanis, pur sostenendo l’influenza della vita fisica
sulla psichica, non giunse a un determinismo materialistico. La postuma Lettera sullecause prime
(1824) mostra un orientamento in direzione metafisica.
7. Con il ginevrino Etienne Dumont (1759-1820) il Di Breme strinse amicizia a Coppet (cfr. L. DI
BREME, Lettere, cit., p. 354). Il Dumont fu segretario e collaboratore di Bentham, di cui curò
l’edizione delle opere.
8. Jean-Joseph Dessault (1769-1824) fu per trent’anni critico letterario del Journal des débats, ove
sostenne la posizione dei classici. I suoi articoli furono raccolti in 5 volumi: Annales litteraires, 1824.
9. Nell’Avvertissement alla Littérature du Midi de l’Europe, apparsa nel 1813, il Sismondi
dichiarava: ho tentato «d’apprécier le mérite réel de ces écrivains, de le faire goûter, en écartant les
préjugés nationaux qui pouvaient rendre insensibles aux charmes d’une poésie différente de la nôtre;
j’ai cherchè è remonter des règles conventionelles de chaque littérature aux règles fondamentales,
que lesentiment et le goût ont rendues communes è tous les hommes … j’ai surtout voulu montrer
partout la influence réciproque de l’histoire politique et religeusedes peuples sur leur littérature et de
leur littérature sur leur caractère: fairesentir le rapport des lois du juste et de l’honnête avec celle du
beau; la liaison enfin de la vertu et de la morale avec la sensibilité et l’imagination».
10. Allude alle Vorlesungen uber dramatische Kunst, tradotte in italiano dal Gherardini nel 1817,
l’anno del Grand Commentane. Si vedano le lezioni IX riguardante il teatro italiano e XVI
riguardante il teatro spagnuolo. Circa quanto il Di Breme dice sul modo di considerare la poesia
come espressione dell’intimità spirituale si tenga presente questo passo della I lez.: «La poesia,
riguardata sotto il punto di vista più esteso, come la facoltà di concepir l’idea del bello e di renderlo
sensibile, è un dono compartito a tutta l’umanità intiera; e que’medesimi popoli che noi chiamiamo
barbari e selvaggi, non sono per questo rispetto privati dal cielo dei suoi favori. Tutto dipende dalla
grandezza delle facoltà morali. Dov’ella si manifesta, non bisogna fermarsi al di fuori, tutto
debb’essere ridotto a’ più intimi sentimenti della nostr’anima, e ciò che scaturisce da questo fuoco,
ha un valore incontrastabile; ma allorché non esiste un seme di vita nel centro dell’opere dell’uomo,
può ben esserne regolare la forma, ma non ci ha organizzazione reale, né vi si può osservare una
germinazione ardita e vigorosa».
11. Si veda la nota 2 a p. 103.
12. «Madame de Staël, seule dans son sexe, dit M. Lacretelle l’aîné, a su se former un talent à
part, des inspirations de l’ame, et des richesses de l’esprit observateur» (Nota del Di Breme). Pierre-
Louis de Lacretelle (1751-1824) fu giurista e scrittore; legato dapprima agli Enciclopedisti, fu
deputato all’assemblea legislativa (1791), membro del Corpo legislativo sotto il direttorio (1801);
sotto Luigi XVIII passò all’opposizione liberale. I Fragments politiques et littéraires, da cui è tratta
la citazione del Di Breme, furono pubblicati nel 1817.
13. Del Genovesi si ricordino le opere: Elementa Metaphysicae, 1743-’52; Meditazioni filosofiche
sulla religione e sulla morale, 1758; Logica per li giovanetti, 1766. Gli altri napoletani — da
intendersi in senso lato, come fioriti, operanti a Napoli — sono probabilmente quei pensatori che
segnarono il risorgimento culturale della città nella seconda metà del XVII secolo, quali Tommaso
Cornelio, Leonardo di Capua, Giuseppe Valletta. Ma quello del Di Breme è un riferimento
approssimativo.
14. Julien-Louis Geoffroy (Rennes 1743 - Parigi 1814, dopo avere studiato in collegio dai Gesuiti
fu precettore in una casa privata, poi professore di retorica al collegio di Navarra e di eloquenza al
Mazarino. Avversario degli Enciclopedisti, specie del Voltaire, dovette fuggire all’avvento della
Rivoluzione. Ritornò all’insegnamento e al giornalismo dopo il 18 brumaio. Collaborò nel 1789
all’Ami du Roi e dal 1800 al Journal des Débats, ove si occupò principalmente di critica teatrale. Nel
1808 pubblicò un Commento sopra Racine in 7 volumi, opera ricca di erudizione classica, notevole
anche per le traduzioni da poeti latini e greci. I suoi articoli furono raccolti in 6 volumi, sotto il titolo
Cours de la littérature dramatique ou Recueil des feuilletons (Parigi, 1819-20).
15. Giorgio Baffo (Venezia 1694 - ivi 1768) è il noto poeta pornografo, che Apollinaire avrebbe
giudicato «le plus grand poète priapique qui ait jamais existé et en même temps l’un des poètes le
plus lyriques du XVIIe siècle» (L’oeuvre libertine des conteurs italiens, I, Paris, 1910). La prima
raccolta delle poesie del Baffo uscì nel 1771; l’edizione completa nel 1789 a Venezia, con falsa
datazione, in 4 volumi. Per ulteriori notizie si vedano: G. NATALI, Il Settecento, Milano, 19646, I pp.
556 e 582, II p. 212; B. GAMBA, Serie degli scritti impressi in dialetto veneziano, II ed., a cura di N.
Vianello, Venezia-Roma 1959, passim.
16. Si tratta dell’articolo Della maniera e dell’utilità delle traduzioni: lo si veda in questo vol. a
pp. 83-92.
17. Confine ou l’Italie apparve nella primavera del 1807. Per indicazioni bibliografiche
rimandiamo alla bella voce di Giuseppe Gabetti (Staël) in Enciclopedia Italiana.
18. «Il y a trois degrés d’ambition dans les ames humaines, dit le Chancelier d’Angleterre. Au
dernier rang on peut mettre ceux qui ne sont jaloux que d’étendre leur propre nom dans leur patrie,
genre d’ambition qui a quelque chose d’ignoble et de bas. Un peu au-dessus sont ceux qui aspirent à
étendre l’empire et la puissance de leur patrie sur les autres nations; genre de pretention un peu plus
noble sans doute, sans en être moins ambitieux. Mais s’il se trouve un mortel qui n’ait d’autre
ambition que celle d’étendre l’empire et la puissance du genre humain tout entier, sur l’immensité
des choses, cette ambition (si toutefois on doit lui donner ce nom), on conviendra qu’elle est plus
pure, plus noble et plus auguste que toutes les autres; or l’empire de l’homme sur les choses n’a autre
base que les arts et les sciences, car on ne peut commander à la nature qu’en lui obéissant.
(Traduction d’Antoine Lasalle)». - Nota del Di Breme.
19. Lo si veda in questo volume, pp. 99-147.
20. L’atteggiamento del Di Breme nei confronti del Monti è, come quello di altri romantici italiani,
oscillante tra l’ammirazione e le riserve: sfogliando le sue lettere è possibile cogliere la storia di
questo atteggiamento.
21. Per il giudizio sul Torquato Tasso del Goldoni si veda la nota 1 a p. 122.
22. «Tout en remerciant les compilateurs du “Mercure de France” de m’avoir fait i’honneur
d’admettre dans leur journal un article apologétique de ma brochure, je ne dissimulerai pas qu’une
note entre autres qu’ils y ont appliquée, comme correctif, m’a paru là étrangement déplacée, et ne pas
ressortir simplement du genre de critique qui caractérise ce journal. La note vient à l’occasion de ce
que j’ai dit qu’il est ridicule et absurde de fonder un systèrne de superstition scolastique sur les
beautés d’Homère et de Sophocle. On me passe bien cela, mais on replique, encore moins sur les
défauts de Shakespeare et de Caldéron; comme si par opposition aux beautés d’Homère et de
Sophocle j’eusse recommandé un eulte exclusif, je ne dis pas envers les défauts, mais envers les
beautés aussi des tragiques anglois et espagnols, ou de qui que ce soit: comme si mon discours
insinuoit rien de ressemblant à cette espèce de fanatisme, et comme si j’y eusse même nommé une
seule fois Caldéron. Que mon correcteur me permette done de lui restituer ses conseils de tolerance
qui tombent ici à faux, et dont je crois que mon discours auroit pu lui prouver la superfluité: ce n’est
pas que je prétendisse à l’honneur d’être lu de lui: mais devoit-il faire à propos d’un passage
évidemment irrépréhensible, une note qui suppose d’ailleurs et m’impute des doctrines folles? Au
reste, je n’en veux à personne: les rédacteurs de ce journal ont acquis plus que le droit de se faire
pardonner quelque inexactitude» (Nota del Di Breme).
23. Si vedano in questo volume le pp. 350-351.
24. La «Gazzetta di Milano».
25. Francesco Pezzi (Venezia 1781 - Milano 1831) fu redattore della «Gazzetta di Milano» dal
1815 al 1831.
26. Veneziano era appunto il Pezzi.
27. Sulla «Gazzetta di Milano» del 23 settembre 1816 apparve una Varietà anonima — ne era
autore il Pezzi — contro le Avventure letterarie di un giorno del Borsieri. I versi sono di Trussardo
Caleppio: si intitolano Le fiere e il moscerino e apparvero sul «Corriere delle dame» del 21 settembre
1816. Entrambi gli scritti si vedano in Discussioni e polemiche sul Romanticismo, a cura di E.
Bellorini, Bari 1943, vol. I, pp. 179-184.
28. «Jamais au spectateur n’offrez rien d’incroyable: | Le vrai peut quelquefois n’être pas
vraisemblable. | Une merveille absurde est pour moi sans appas: | L’esprit n’est point ému de ce qu’il
ne croit pas». BOILEAU, Art poetique, III, vv. 47-50. Cfr. ORAZIO, Ars poëtica, v. 338. «Ficta
voluptatis causa sint proxima veris».
29. «Je demande pardon aux lecteurs, de les avoir arrêtés sur ces images et ces bouffonneries si
fort audessous de la dignité des lettres; mais on avoit tant compté sur ce moyen, qu’il étoit bon de le
signaler et de faire observer l’usage auquel ces messieurs l’ont employé» (Nota del Di Breme).
30. Allude alla Lettera semiseria.
31. Il marchese di Posa è il personaggio del Don Carlos di Federico Schiller, che incarna un alto
ideale politico-umanitario; l’incontro di Maria e di Elisabetta avviene nella scena IV dell’atto III
della Maria Stuarda; la morte di Maria è rappresentata nelle scene VIII-X della stessa tragedia.
32. Il dramma di G. E. Lessing.
33. Allude alla tragedia Eufemio. Di questo giudizio del Di Breme il Pellico dava notizia al fratello
Luigi in una lettera del 7 luglio 1817: «Lodovico giudica col massimo favore questa tragedia; non
gliel’ho ancora ritolta dalle mani, perch’egli ha promesso di farmene una critica accurata in iscritto,
promessa che non adempî subitamente per la premura che lo incalzava di finire il suo libro francese
(appunto il Grand Commentane)» (S. PELLICO, Lettere milanesi, cit., p. 94).
NOTE D1

Voici quelques réflexions sur les vicissitudes du langage, à propos de la


langue italienne, et du système des puristes.
La perfection d’une langue, de ce merveilleux véhicule de la pensée, est
le moyen le plus efficace de hâter les progrès de l’esprit humain; on peut
même dire que les sciences ont, sous plusieurs rapports, beaucoup moins
que les lettres, la civilisation pour objet et pour efiet. Je pourrois indiquer de
puissantes autorités, mais les bonnes raisons valent mieux.
La culture des lettres suppose une perfection de langage qui est elle-
même effet et cause tour-à-tour du développement, du perfectionnement de
la pensée. Dans le pays qui en est à ce point, l’esprit est exploité; les
hommes y éprouvent réciproquement un attrait qui les rapproche de plus en
plus et les humanise; leur entendement, leur imagination, leurs passions
s’interprètent mutuellement, s’entretiennement, s’étendent et se raffinent.
Les sciences, au contraire, isolent leurs cultivateurs plutôt qu’elles ne les
rassemblent; la méditation et les recherches exigent le silence, la solitude et
une profonde inaction, surtout, des facultés sensibles et imaginatives,
facultés éminemment sociales.
La poésie, chez une nation policée, met tout l’homme en activité, et si
d’une part l’ode érotique, l’élégie, le genre pastoral, bornent le travail de
l’esprit dans une sphère déterminée d’affections, et ne dépassent pas
certaines situations de la vie, il est bien sûr, en revanche, que le poème
épique et le haut dramatique demandent et réunissent le concours de toutes
les puissances et de tous les moyens intellectuels et moraux de l’homme.
C’est le complément de sa faculté littéraire; il a lieu à s’y montrer par tous
ses moyens, et un poème épique ne requiert pas moins de raison qu’un traité
de mécanique. L’auteur y apparoît dans toute la prodigieuse opulence des
facultés humaines; toutes y sont mises en action et se font mutuellement
ressortir. Toutes les modifications essentielles de l’homme, tous les nobles
sentimens qui honorent le coeur, les grandes pensées, les caractères de
toutes les vertus, de tous les vices, les prodiges des passions, les moindres
nuances et les accidens des affections, sont, grâce aux génies poétiques,
frappés depuis long-temps et dessinés en traits ineffaçables. Toutes les
situations du grand drame de la vie, toutes les chances, ont des tableaux et
des adages; heureux et brillans résultats de la réunion du génie au
sentiment. Que les grands poètes ont de puissance! Ils égalent la nature, ils
endorment l’affliction, ils charment la vie, ils vouent à l’immortalité les
faits de l’homme. Par eux, combien le temps devient auguste, et le fabuleux
véritable! Racine parle des temps grecs, des rivages troyens avec un
prestige que sans doute ces âges, ces régions, ces personnages n’eurent pas.
La Grèce est surnaturelle chez nos bons poètes modernes: quelques siècles
encore, et cette nation aura été deux fois antique. En Italie, de nos jours
même, justice soit rendue à quelques heureux esprits, à notre immortel
Monti surtout; le talent de rafraîchir ces mêmes images n’est pas perdu. J’en
appelle aussi à ceux qui ont connoissance de l’hymne d’Alcée, de M.
Foscolo: ils conviendront que la nature mythologique et héroïque occupoit
une région fort inférieure à celle où son génie parvient à l’élever.
C’est par sa littérature qu’une nation naturalise chez soi le génie et la
pensée de tous les temps et de tous les peuples. Elle peut tirer les sciences
de l’étranger aussi bien que les arts mécaniques; mais sa langue, son moyen
analytique, et, si j’ose ainsi m’exprimer, sa traduction nationale de
l’homme, elle ne les tire que de son pro pre fonds. «L’histoire, dit M.
Prévost2, offre des époques remarquables, des siècles fameux qu’on désigne
ordinairement par le nom des souverains qu’on suppose avoir le plus influé
sur les progrès de l’esprit humain. A ces époques on voit s’élever de toute
part des hommes éminens dans tous les genres. On se demande quelles
causes ont pu accumuler sur un petit nombre d’années tant de productions
supérieures à celles de tous les siècles précédens. Indépendamment des
circonstances du gouvernement, du caractère des princes, de l’état civil et
politique des nations; on doit imputer en grande partie ces créations du
génie aux progrès du langage. Un seul écrivain peut quelquefois le fixer et
lui donner son caractère. Aussitôt plusieurs autres s’emparent de cet
instrument devenu maniable, et tout en l’employant ils le rendent plus
parfait».
Une nation qui a bien achevé sa langue, peut l’envisager comme une
bonne monnoie qui représente fidellement la valeur des choses. En Italie, la
monnoie est souvent trompeuse de nos jours, et de mauvais aloi; les mots,
les tournures, sont restées en arrière des observations qui ont été faites, des
pensées qu’on a acquises, de la culture, en un mot, qu’on a exercé sur toutes
les facultés. Depuis l’epoque où la langue est demeurée stationnaire, on ne
met plus à la place des idées et des sentimens qu’on éprouve, que des à peu
près trop incomplets. On s’obstine a ne vouloir point admettre les variations
de la langue, parallèles aux modifications sociales. On crie au gallicisme, et
on a quelquefois raison, mais le plus souvent on se trompe. C’est beaucoup
plus dans la philosophie que dans le mécanisme du langage, que s’est
operée une révolution; c’est une langue générale qui domine aujourd’hui,
qui devient de tous les pays et qui représente l’empreinte des progrès de
l’esprit humain au dix-neuvième siècle. Si toutes ces innovations auxquelles
le langage se prête, eussent été commandées, elles ne se seroient point
opérées. C’est leur aptitude à l’intelligence commune qui en a déterminé
l’adoption et le choix libre; nous ne pouvons que seconder les lois de la
nature; l’esprit humain y a toujours perdu à se roidir et à tenir tête
contr’elle. Peutêtre est-il vrai que la langue franœoise s’est plus
naturellement et plus heureusement adaptée à cette modification que subit,
depuis cinquante ans à peu près, la pensée universelle. Mais partout on
nourrit aujourd’hui des idées très-simultanées, et l’on a besoin partout de
signes correspondans à cette parole interne, à cette intuition collective de
productions, de résultats, d’influences, de raisons composées, directes ou
inverses, d’analyses; partout on pense d’un coup à utiliser, à généraiiser, à
organiser, etc., et ce seroit impatienter l’esprit et le tenir en panne que de le
forcer à mettre des périphrases à la place de ces moyens concis, expéditifs
et gros de sens. Nos mots tendent à prendre aujourd’hui le caractère et la
valeur que les exposans ont en algèbre, tandis qu’ils étoient la plupart des
fois destitués de puissance, par effet de notre ancienne diffusion. La
physique et les sciences exactes ont beaucoup influencé notre mode
intellectuel, notre faœon de voir les choses et d’aborder les questions, c’est-
à-dire notre parole interne. Comment voudroit-on adapter encore à de
pareilles formes de la pensée le large habit de notre vieil italien? jadis il
étoit reçu d’employer des mots avant et après l’idée; vrais arabesques,
pompe et éloquence de convention; ce n’étoit ni le langage de la raison, ni
celui de l’imagination, puisque ce n’étoit pas celui de la nature, mais de
l’artifice et du mauvais goût. Avant de crier à l’alarme sur les dangers que
court l’éloquence par cette révolution dans le langage et dans le style, il
faudroit attendre que des occasions politiques favorables au développement
de l’art de la parole se fussent de nouveau présentées; ce n’est qu’alors
qu’on pourroit juger si nous sommes en état de rivaliser ou non avec les
orateurs de l’antiquité. L’heureux usage que des esprits distingués ont fait et
font en France du langage ainsi apprêté, prouve que le véritable et le plus
exquis sentiment, que l’imagination la plus éclatante n’ont point à se
plaindre de ce caractère éminemment raisonnable qui forme le cachet de
l’expression générle de nos jours. Il est même à remarquer que jamais les
sciences ne se sont prêtées de meilleure grâce aux ornemens et à l’urbanité,
qui paroissoient réservés exclusivement aux sujets littéraires. Le bon sens
les a dépouillées de cette écorce brute qui les enveloppoit; les savans, en
modifiant, eux les premiers, la langue générale, ont pu se mettre à même
peu-à-peu de renoncer à ces fastidieux répertoires, à ces obscurs
formulaires, qui de chaque province scientifique faisoient comme une
nation à part, distinguée des autres par une langue à elle seule; ils ont
puissamment augmenté par-là la masse des lumières, et ont réuni en foyers
une multitude de foibles rayons isolés. C’est dès-lors que les vérités se
fécondent et se reproduisent. Sans doute qu’il seroit absurde de trop
favoriser et de porter à son comble cette tendance que l’expression a
aujourd’hui, à devenir abstraite. Ce seroit tomber dans l’excès contraire au
défaut que présente le vieux style.
Pour ce qui est de la poésie, son langage exige toujours des exceptions.
Heureuse sous le rapport littéraire la nation qui a une langue poétique, et
qui trouve dans l’abondance et la variété de ses moyens de quoi se monter
toujours à la hauteur de l’inspiration et du sentiment, malgré tous les
progrès de la réflexion pure et de l’esprit méditatif: un langage qui se prête
à tous les charmes, à toutes les nuances des affections humaines; qui se
marie à toutes les chances des passions les plus exaltées; qui seconde, en un
mot, tous ces impétueux et fiévreux mouvemens d’une ame attaquée du
besoin de se répandre hors d’ellemême, et poussée au-delà des bornes de la
nature!
Il y a une éloquence de tous les temps; c’est toujours l’art de saisir
l’esprit du lecteur et de l’auditeur par toutes les prises qu’il vous présente,
soit par soi-même, soit comme individu modifié par les impressions de
l’âge et les conditions du pays où il existe. Restera toujours à examiner le
secret et la cause de l’effet que produisent incontestablement, des mots qui
semblent parasites dans les discours, et à découvrir leur fonction en
éloquence.
Malheur à l’écrivain qui n’a pas senti que chaque siècle a son style et sa
manière de peindre le sentiment, et que le goût des temps est soumis
jusqu’à un certain point au sceptre de la nécessité. Il faut bien comprendre
que le devoir de tout homme qui en appelle à des lecteurs où à des
auditeurs, consiste dans la fidelle traduction de toute sa pensée, et à ne pas
se laisser réduire à tirer ses idées des anciennes rubriques, et son appareil
oratoire d’un dictionnaire. C’est vraiment là ce qui constitue le pédant et
l’écrivain superflu. Cet homme n’a point le tact de son siècle, il tient
inviolablement à ce que le goût inspira en d’autres temps, et qu’il désavoue
aujourd’hui; il se trahit à chaque instant; il est réduit à manquer envers soi-
même de bonne foi et de vérité il ne transmet que l’à peu près de ce qui se
passe en lui, et fait intervenir l’autorite dans ce qui est exclusivement du
ressort de son sens intime et de l’urbanité contemporaine. Sans doute, il faut
savoir se composer un riche fonds, par la lecture variée et habituelle des
auteurs auxquels la langue est redevable de ses traits les plus
caractéristiques. Mais le modèle du style et du coloris ne se trouve que dans
nous-mêmes; c’est notre mesure d’intelligence, c’est notre tournure de
sentiment, c’est le mélange, l’action et la réaction de nos facultés sensitives.
Puisque la tournure d’une phrase influe si fort sur la valeur de l’expression,
ce ne peut être que dans notre plus intime conception que doit se trouver la
mesure de sa justesse et de son exacte fidélité.
C’est en imitant avec fidèlitè et, j’ose dire, avec intégritè, ce modèle
intérieur, que chacun s’élèvera au plus haut point qu’il soit donné
d’atteindre, de force et de coloris. De toute autre faœon, même en singeant
le plus beau texte du monde, l’écrivain restera toujours audessous de soi-
même; ce ne sera pas lui. Qu’on y fasse attention; ce système de gêne qu’on
veut introduire en Italie, cette superstition académique, ce principe
d’autorité, d’après lequel on ne veut reconnoître de bien dit que ce qui a été
dit, supposeroit qu’on ne peut tout au plus que se tourner et retourner dans
la sphère étroite et indigente des formules dont se compose ce repértoire
classique si verbeux, et, dans sa plus grande partie, si insipide. Voilà tout
notre fonds et notre patrimoine à jamais. Que les sciences fassent ensuite
tous les progrès imaginables; que l’homme se modifie en tout sens; que les
événemens les plus extraordinaires, les plus rapides, que les découvertes de
la plus haute importance, que tout enfin ce qui peut renouveler la face du
monde civilisé, concoure à opérer les plus prodigieuses variations, nous
n’aurons donc jamais pour les narrer, pour les peindre, et, qui plus est, pour
nous peindre nous-mêmes et les résultats des vicissitudes universelles sur
l’individu, que les modes, les proverbes, les idiotismes, les naïvetés, dont le
principal mérite un jour fut sans doute leur caractère récent et la hardiesse
de leur nouveauté. Qu’on observe enfin que le succès de la métaphore, dont
le rôle est principal dans toute langue, se fonde, en grande partie, sur des
usages et des moeurs qui, même dans le cours ordinaire des choses,
vieillissent à chaque cinquante ans. Bien dire, c’est, avant tout, dire tout ce
que l’on pense et tout ce que l’on sent, c’est ne point paralyser en vue d’une
convention oiseuse ses moyens intérieurs; et ne point obstruer, étouffer,
morceler en face des autres le langage qu’on se tient à soi-même.
On s’obstine à ne point tenir assez compte de l’analogie. C’est en elle
que consiste pourtant l’esprit de la langue et ce qui en constitue par
conséquent la science. Nos maîtres du 14.e siècle où puisoient-ils leurs
modèles, si ce n’est au fond d’eux-mêmes? Où prenoient-ils leurs règles
sinon dans celles de leur langue intellectuelle? Le fil historique peut bien
nous ramener au latin et aux débris de quelque autre langue méridionale;
mais comme ils s’exprimoient dans une langue qui vraiment n’existoit point
encore, qu’apprenoient-ils chez les Latins, sinon à se faire une méthode
d’analogie?
Cet esclavage auquel on prétend soumettre les meilleurs esprits, dans le
pays où la nature a tout fait pour que le langage devînt le plus puissant et le
plus riche moyen de l’homme, procède donc de ce que l’on n’y reconnoît
point assez combien la parole est dépendante de la tournure que prennent
les esprits, et de l’influence des moeurs sur le goût. Un exemple définitif
s’en présente parmi tant d’autres. On a publié à Vérone, dans ces dernières
années, des contes dans le genre des anciennes novelle, dont le fonds, les
traits et les phrases sont une servile et mécanique imitation du style qui
faisoit les délices des coteries italiennes aux 14.e et 15.e siècles. Mais, tant il
est vrai qu’une langue n’est rien par soi-même, précisément parce qu’elle
n’est autre chose que l’expression de l’homme social, cette superstition
envers les mots et le beau dire du vieil âge, a nécessairement dû borner
l’auteur dans la sphère des seules pensées, des sentimens et des mêurs
d’alors. Tout en ne voulant avoir l’air de s’attacher qu’aux anciens modes, il
a bonnement reproduit toutes les fades plaisanteries que trois ou quatre
siècles de raffinement, ou, si l’on veut, de modifications quelconques dans
les choses et dans les hommes, nous rendent insupportables. Il a dû se
convaincre par-là qu’on ne régente point le langage en le rendant
stationnaire; que les frizzi des temps passés ne sont aujourd’hui en Italie,
que des platitudes; parce qu’en Italie surtout, les plaisanteries de nos
classiques tenoient beaucoup moins à cette force comique de tous les temps
et de tous les pays, qu’à des allusions bourgeoises et casanières, et à des
comérages villageois que la civilisation subséquente et l’ennoblissement
social ne permettent plus de reconnoître. La question auroit été résolue en
faveur du système que nous combattons, dans le seul cas où le nouvelliste
eût réussi à faire valoir par ses vieilles formes les moeurs, le goût, l’esprit,
le ton comique, et surtout les sentimens dont il est, lui, le contemporain.
Le style est l’homme même, a dit Buffon; le style est tout l’homme. Cette
assertion qu’on n’a eu l’air de combattre avec succès qu’en lui prêtant un
sens illégitime, est placée aujourd’hui par des littérateurs philosophes au
nombre des vérités incontestables. Ils entendent par style cette fidelle
expression de soi-même, cette traduction du modèle intérieur, qui peut seule
constituer la respective habileté des écrivains en tout genre. La manière de
sentir les choses et de les présenter; la liberté et la licence ou l’ordre
méthodique et sévère qu’on emploie pour faire adopter sa pensée;
l’évidence ou le foible jour dont on la revêt; la franchise et l’indépendance
de l’esprit, ou bien les précautions et les ménagemens dont on use pour
l’annoncer, voilà bien ce qu’il y a de propre à l’homme, et au vrai, voilà le
style. Aujourd’hui que l’on voudroit réduire tout le style italien à des
espèces de formules et n’y reconnoître que des beautés de commande, il n’y
auroit plus d’écrivain à soi, parmi ceux qui céderoient à cette tyrannie; il
n’y auroit plus que la répétition d’un seul, jeté au moule; et comme tous les
agrémens, les qualités estimées du style seroient inviolablement fixés
d’avance, si on pouvoit encore se distinguer, ce ne seroit plus que par des
défauts et des insubordinations littéraires.
Oui, sans doute, les Franœois ont bien mieux exploité l’homme social par
le perfectionnement de leur langue; elle se prête aujourd’hui avec une
merveilleuse souplesse à plus de genres, et surtout à plus de détails que
toutes les autres. Cette langue que l’esprit de conversation a si bien fécondé
en France, universalisée ensuite par la mode et par les triomphes militaires,
a dû être adoptée partout avec plaisir; partout les formes de la pensée, les
moindres nuances du sentiment, les prétentions du tact le plus raffiné, y ont
puisé des expédiens à se bien exprimer, et des expressions toutes faites ont
donné aux esprits fins et aux gens cultivés des autres nations, la conscience
d’une infinité d’aperœus et de sentimens, dont leur propre langue ne leur
rendoit point assez fidellement compte. Or, plus une langue se répand, plus
elle doit tendre, en Europe surtout, à se répandre encore, et le besoin de
l’apprendre doit augmenter en raison directe du grand nombre de ceux qui
la parlent déjà.
Que l’étude et la philosophie puissent ou non subsister aujourd’hui et
grandir, en Italie, à l’aide du simple fonds national, c’est encore une de ces
questions qu’il appartient aux faits de décider en dépit des engagemens
contractés envers nous-mêmes et nos préjugés. Or voici des faits, je prie
mes lecteurs d’y accorder toute l’attention qu’ils méritent. Que signifie ce
scandale qu’on a si niaisement et méchamment joué à propos des conseils
de Madame de Staël et de quelques principes que nous soutenons nous
autres, qui ne nous sommes pas scandalisés de ces conseils? Elle nous
exhorte à traduire quelques bons livres étrangers: on lui répond que cela ne
doit pas être, ne sera pas: on prouve la première réponse Dieu sait comment,
et pour vérifier la seconde, voilà qu’aussitót et tout à la fois on nous donne
à Milan les traductions du Léon X, de Roscoe: de l’Histoire des républiques
italiennes, de M. Sismondi: l’Idéologie, de M. de Tracy: le Cours
dramatique, de M. W. Schlegel, et jusqu’à la traduction de la Littérature
italienne de Ginguené, dont, à la rigueur, nous pouvions peut-être nous
passer. — Nous disions et nous maintiendrons de plus en plus que toute
cette vieille et ignoble langue de nos idiots compilateurs de légendes; et des
anciens compilateurs de chroniques, n’est bientôt plus que de l’arabe pour
les dix-neuf vingtièmes des lecteurs: que cela répugne, que cela ennuie et
même ne se comprend décidément plus: ces propositions ont fait horreur;
mais tandis qu’elles faisoient horreur, l’Histoire de l’indépendance de
l’Amérique, de M. Botta, restoit encore en fonds de boutique en Italie, et on
y lisoit de préférence la Traduction franœoise, de M. de Sevelinges: le texte
original se débite enfin aujourd’hui, grâces à l’importance du sujet: on en
prépare même une première edition italienne; mais ce qui est bien digne de
remarque, c’est que l’editeur annonce qu’il placera quelques notes au bas
des pages pour traduire des termes, et aplanir le style; n’est-ce pas ce qu’on
pratique en France pour l’intelligence de Rabelais? — Nous soutenons que
ceux d’entre les Italiens dont la pensée et les connoissances sociales et
abstraites ont suivi la marche du siècle par le secours des écrivains
franœois, anglois, et allemands et de leurs moyens analytiques, se trouvent
au retour de ces excursions philosophiques, au dépourvu chez eux de
moyens équivalens pour communiquer ce qu’ils ont appris, et poursuivre
leur chemin. A cela on a répondu que nous n’étions vraiment que des
présomptueux: des présomptueux? Pourquoi donc M. Gherardini, pour
venir à bout de sa traduction de M. Schlegel, implore-t-il à genou, dans sa
préface, qu’on lui permettre d’emprunter de la langue franœoise tout plein
de mots? C’est qu’il les a cherchés en vain dans nos grimoires, et c’est que
nous n’en sommes pas encore aux idées dont ces mots sont les signes
expéditifs et indispensables. Qu’on en juge par l’échantillon que lui-même
en donne: Génie: développement: original: vue: influence: sentiment:
sensibilité: inconséquence: caractère: caraetériser: intérêt: décisif:
situation: exalter: etc., etc., c’est quelque chose dans une littérature et chez
une nation que ces mots-là, de plus ou de moins; ils ne forment rien moins
que la substance de tous les livres et de toutes les discussions doctrinales de
nos jours. En même temps M. Grassi, Piémontois, auquel nous sommes
redevables depuis peu d’un complet dictionnaire de termes militaires
italiens, et qui fait actuellement de profondes études sur l’économie
politique, se plaint à son tour de notre indigence sur cette matière. Pour
conserver tout leur poids à ces deux témoignages que je choisis entre tant
d’autres, il faut que je dise que ces deux écrivains les fournissent malgré
eux, et que la seule force irrésistible de la nécessité a pu l’emporter sur la
rigueur des principes qu’ils professent, et sur leur attachement à la
légitimité héréditaire des mots. Tous deux ne voudroient être redevables
qu’à nos expédiens indigènes, et jusque-là ils vont d’accord avec des autres
puristes, qui n’ont pas ensuite, comme eux, la bonne foi de reconnoître que
nous manquons d’un suffisant assortiment de moyens. C’est que la bonne
foi de MM. Gherardini et Grassi résulte de leur philosophie, et que la
philosophie devroit être la seule qui se mêlât de ces discussions. Tant qu’on
n’écrit que pour écrire, tant qu’on ne s’élève pas au-dessus des proses
descriptives et de la faconde académique, on n’est point reœu à prononcer
sur la richesse d’une langue; j’ai promis des faits et j’en ai fourni. Qu’on
réfuse ceux-là, j’en ai mille autres à leur substituer: je prouverai que depuis
Vico jusqu’à Beccaria et à Mario Pagano, aucun de nos penseurs n’a mérité
l’aveu de nos docteurs. Voici en attendant ma conclusion. Qu’on s’essaie
aujourd’hui a entamer en Italie des questions bien philosophiques, nourries
de pensées et fortes de déductions, aussitôt le dénuement de ressources ne
laissera plus de doute sur la stagnation qu’a soufferte notre langue: quand
nous avons osé le dire, c’est que déjà nous en avions fait, les premiers, plus
d’une expérience.

1. Questa nota D fu pubblicata dal Calcaterra nel volume, da lui curato, delle Polemiche di
Ludovico Di Breme (Torino, 1923), pp. 63-77. La nota che segue è tratta da quella edizione.
«Accosta queste pagine all’Ouvrage de grammaire dello Stendhal, posteriore d’un anno e intitolato
Dei pericoli della lingua italiana, ove parlasi pure dello “stile, figlio dell’anima”, della necessità di
“una grammatica filosofica”, la quale sia “la scienza generale delle espressioni, delle idee”, “l’arte di
ben esprimere le proprie idee in italiano”. — Nello scritto dello Stendhal parlasi pure della Proposta
del Monti, della lingua del Botta e di altri argomenti toccati dal Di Breme. Avverti però che tra il
pensiero del Di Breme e quello dello Stendhal, che considera la lingua come “una convenzione”, vi è
dissenso; cosî in questioni particolari. Vedi PIERRE MARTINO, L’“Ouvrage de Grammaire” de
Stendhal (1818) nel Giornale Storico della Lett. Ital., 1923, vol. LXXXII, pp. 113-156. Nello scritto
introduttivo del Martino leggonsi pure accenni al Londonio e al Pellico, al quale lo Stendhal fece
conoscere il suo tentativo».
2. È una pagina degli Essais de philosophie ou étude de l’esprit humain di PIERRE PRÉVOST
(Genève, Paschoud, a. XIII [1804], t. I, pp. 141-142).
OSSERVAZIONI SU «IL GIAURRO»

Il piccolo libro che diede argomento a questi due scritti è il seguente: Il


Giaurro | Frammento di novella turca, | scritto | da LORD BYRON | e recato
dall’inglese in versi italiani | da PELLEGRINO ROSSI. | Ginevra, | Per G.-J.
Paschoud, Stampatore-Librajo, | e si vende a Parigi, | per lo stesso, Via
Mazarino, n° 22 | 1818 |, pp. XXIV + 94. Nell’Introduzione, a p. VI, il Rossi
diceva di aver voluto dare un saggio del «genere romantico», poiché anche
in Italia era «scoppiata la guerra romantica», e a p. VIII-X soggiungeva:
«Questa mia traduzione, qual ch’ella siasi, varrà almeno a far comprendere
che esiste ne’ più secreti e profondi ripostigli del cuore umano una ricca
miniera d’alta ed efficace poesia. Altri poi vedrà se i tesori che se ne
traggono debbano foggiarsi alla tedesca o all’inglese, o se miglior partito
non fosse dar loro forme più regolari e più italiane, arricchendo così la
nostra scuola anziché aprirne una nuova. Così stando ancor fra i neutrali,
puossi forse desiderare un certo rinnovamento; se non vuoisi estirpare un
giardino del Le-Nôtre per piantarne uno all’inglese, sarà però conveniente
collocar nuove piante in luogo delle vizze e isterilite e rinfrescar la verdura
de’ praticelli con un profondo lavoro di solchi. Or le poesie del Byron
paionmi appunto un vivaio di piante rigogliose e novelle, ed egli un
ricercatore delle profonde viscere del terreno».
Su questo volumetto del Rossi scrisse pure FRANCESCO PEZZI, op. cit.,
Tomo I, pp. 123-125. Per la fortuna del Byron in Italia vedi GUIDO MUONI,
La leggenda del Byron in Italia, Milano, Soc. Ed. Libr., 1907; ID., La fama
del Byron e il Byronismo in Italia, Saggio, ivi, 1908; ANTONIO PORTA,
Byronismo italiano, Milano, Cogliati, 1923; ARTURO POMPEATI, Byron e
l’Italia, nel Marzocco del 16 settembre 1923; e sulla sua poesia vedi in
particular modo il bello e vigoroso saggio di A. FARINELLI), Lord Byron,
Milano, R. Caddeo, 1921.
Gli uomini e le cose e le idee che furono già fino a noi argomento di
poesia, formano oramai un portentoso universo, ben altrimenti sublime, e
ben più altamente animato che non è il reale e corpuscolare. Universo senza
confini, in cui gli oggetti del nostro mondo, angustissimo e per ogni suo
verso determinato, grandiosi son fatti e nuotano, per così dire, in un loro
elemento di luce e di armonia, oltre le misure e le sfere tutte del possibile.
Eppure quell’universo, e quelle sfere, e quella immensità, non soltanto si
contengono nell’ambito dell’umano concetto, ma se ben si considera,
sembrano tuttavia occuparne appena un punto in paragone della restante
vastissima capacità ond’è fornito.
Gran vigore di mente e indipendenza molto filosofica mostrò il Cartesio
quando ei fermossi in questo proposito di non voler più stare a nulla del
convenuto fino a lui, meravigliando come si fosse potuto per tanti secoli
fabbricare tutta la sapienza umana su delle parole di equivoco senso, e sopra
idee credute primigenie, che dal più al meno altro non erano poi tutte
fuorché concessioni gratuite, o venerate generazioni di dogmi1. Cartesio
non volendo argomentare dell’uomo che dall’uomo, torse gli occhi dalla
immensa farragine delle opinioni; si disimpacciò da quelle dottrine di che
già le scuole, l’educazione e la consuetudine lo avevano imbevuto, e ricco
in certo modo di quella studiosa ignoranza, pieno il petto di felici
presentimenti, ei si affacciò con sincerità a sé stesso: dubitante s’ei dovesse
mai nulla sapere: indifferente su di ciò ch’ei fosse per dover credere: certo
solo frattanto di esistere in un qualche determinato modo. — Sia o no
desiderabile una simile rivoluzione nella poetica, certo ella è fra noi poco
sperabile nei giorni che corrono. Altronde, ed in ogni tempo, uomo che
abbia l’immaginazione, gli affetti e le reminiscenze nudrite di maniere e di
modi tutti propri di un certo paese e di una certa civiltà, difficilmente
potrebbe costituirsi rispetto alla poesia nella stessa indifferenza in cui
Cartesio si costituì rispetto alla scienza; perché l’immaginazione, e la
memoria che somministra a quella le forme elementari de’ suoi
congegnamenti, non si possono spogliare delle fattezze onde furono
impressionate, con quella stessa franchezza con cui riesce alla Ragione di
mutar le sue norme, di migliorarle e d’imperar a sé stessa.
Ma se non ha da esistere un Cartesio poetico, fra gl’ingegni addottrinati
già nelle rubriche greco-latine, e ligi ai rituali di Aristotile, di Orazio, di
Quintiliano, di Ermogene2 e di tutti i Precettisti generati da quelli, non è
dimostrato che produrlo non si potesse, lasciando religiosamente ignorare a
un qualche Neofito che coloro abbiano esistito, e che ne esistano di simili.
A intraprendere cotesto esperimento, anziché un maestro, un liberale
condottiero chiegg’io, il quale in ciò rappresenti Cartesio, che non tenga per
impossibile l’oltrepassare, non che l’arrivare qualsivoglia nazione, scuola,
od età, sia nell’invenzione, o nell’imitazione, per mezzo della parola; sia
negli espedienti e nella economia che ha da renderle efficaci entrambe.
Dubitasse generosamente quest’uomo, di tutti quanti i canoni accademici, e
pendesse incerto fra il crederli inciampi o soccorsi alle umane forze.
Venisse affidato a costui la preparazione e la direzione d’un animo
completo, e dotato di felice attitudine all’armonia delle sue facoltà; la quale
attitudine cred’io riposta nella finezza dei sensi e in un cuore altamente
eccheggiante ai soli tocchi del Vero. Quest’animo ancora intemerato ei se lo
appartasse geloso, e lo guardasse dai meschini influssi dei correnti artifizi
urbani, e dalle medesime corruttele che fanno ingiuria alla nobiltà e allo
splendore dei costumi: corruttele soffocatoci delle più belle e dilicate
ispirazioni, e che sovvertono una gran parte fondamentale di facoltà
poetica; si ricordasse perciò l’uomo ch’io invoco, i primi poeti del mondo
essere stati le più generose anime, Gente Divina, Figli del Cielo, Spiriti
fatidici, Veggenti, Vati; i primi che ardirono far parola all’uomo di fortezza,
di gloriosa morte, di comun bene, di annegazione della volontà,
d’innalzamento sopra l’istinto. Né io parlo qua di santità dell’animo se non
psicologicamente, e come di cautela indispensabile alla poetica integrità;
rispetto a quella nobil arte soltanto, io ne parlo; ma lecito bensì mi sia di
esultare ad un tempo nella considerazione della dignità umana; mentre
movendo unicamente in cerca dei più alti piaceri conceduti alla nostra
natura, sulla traccia di quei piaceri condotto sono nel santuario stesso della
Virtù; ivi contemplo l’ascensione poetica della mente e del cuore stare a
paro di sublimità coll’ascensione eroica, e riconosco per una rozza e stupida
calunnia contra la Voluttà, l’averla i gretti cuori supremamente riposta negli
orgasmi sensuali. — Vorrei che dapprima e nel correre degli anni teneri,
anni destinati alle impressioni, quest’uomo venisse esponendo l’allievo suo
a molta e continua azione dell’onnigena Natura, mercè d’una avvertita
ammirazione di essa; e in essa del suo legislatore3. Il più ovvio effetto di
cotesta contemplazione sarebbe di destare in quel vergin cuore mille varj
parziali sensi d’amore, che tutti cospirerebbero poi in un solo immenso
amore di Lui, la cui divinità è tutta amore. S’io parlo di esporre l’animo
all’azione della Natura, intendo non meno i di lei quadri morali che i fisici,
ed ho l’uomo pel primo degli oggetti da contemplare, e la conoscenza dei
tempi e dei costumi per essenziale parte di questa Natura. — Intanto
spunterebbe il giorno in cui a questo incontaminato giovine ferverebbe in
seno la fatidica inspirazione, ed erompere, per così dire, si sentirebbe
l’animo, invaso da una piena d’affetti e d’immagini, che a gara
invocherebbero la divina arte degli effondimene poetici. Questo il giorno
sarebbe di aprirgli ad un tratto innanzi, tutto quanto l’arringo poetico
percorso finora da Mosè ed Omero fino a lord Byron: e il maestro (che ben
s’avrebbe meritato un tal nome) qual provetto compagno, e nulla più, gli
verrebbe a fianco per gli spazi di questo nuovo universo.
Orazio, gran padre di molti che si arrogano di giudicare di poesia,
abbiano, non abbiano dramma di elevatezza e d’armonia nell’animo, Orazio
avrebbe avuto men campo, che non abbiam noi, onde iniziare in que’ divini
misteri, nel modo sopra esposto, que’ suoi Illustrissimi di Casa Pompilio4;
siccome quegli che non conosceva verisimilmente altra ragion poetica
fuorché quella dei Greci; cortigiano poi ed Epicureo, com’egli era, il
proprio gusto suo non poteva guari estendersi oltre l’eleganza e la
elaboratezza dello stile: accessori necessari, ma pur sempre accessori, e nei
quali l’artifizio urbano e la raffinatezza di certi tempi suol introdurre di
leggieri del superfluo, e indurre raffreddamento. Che nulla si possa
comporre di durevole senza una qualche bravura di stile, è cosa troppo per
sé ovvia: ma che con dello stile accurato e forbito si possa fare a meno di
poesia viva e profonda, ah! questa è pur troppo la dottrina pratica che ci ha
spenti. L’estro di Orazio (quando avvien che n’abbia) sa pur molto di
imitazione, e perciò gli manca, cred’io, il gran pregio di potersi comunicare
altrui. O Contini miei, egli dice, Carmen reprehendite quod non multa dies
et multa litura coërcuit5, etc., va benissimo, ma doveva immantinenti
soggiungere che ciò non ostante, nella più imperfetta bozza di vera
ispirazione v’ha più poesia, e se n’ha da sperare più sicuro effetto, e più
intimo piacere, che non produrrà giammai il più lindo, lisciato ed
irreprensibile madrigale; e se avesse conosciuto la poesia Asiatica, avrebbe
dovuto confessare che non v’ha salmo di Davide, il quale non manifesti egli
solo mens divinior atque os magna sonaiurum etc.6 meglio di tutte le poesie
lambiccate e custodite i nove anni nello scrigno. Il maraviglioso effetto che
le poesie Ebraiche serbano tuttavia nella ingenua e sforbita Vulgata, fa
chiaro agl’intelligenti, più di tutti i precetti di Orazio, ciò che basti
all’essenziale dello stile. Orazio ci ha posto sulle labbra cento badiali
aforismi, sottintesi prima e dopo di lui, dal semplice buon senso. Non ego
paucis offendar maculis — Quaeque locum teneant — Est modus in rebus
— Scribendi recte, sapere est et principium etc7. Possibile ch’abbiamo da
arrivare alla fine del mondo con questo ricettario? e che sia lecito a
chicchessia d’inseguirci per tutta la vita a colpi di proverbi Venosini?
L’indole del commensale di Mecenate era, anziché no, stizzosa, com’egli
stesso lo vien ripetendo, beffarda, ironica: passioni fredde, e decisamente
anti-poetiche. Vedete com’egli si diffonde in motteggi contra quel
Democrito, ch’era pure più savio, giudice Ippocrate, di tutti gli Abderitani.
Ma perché il ridere di costui non era di quello d’Orazio, e si estendeva fin
sopra certi poeti che antepongono la elocuzione alle idee, Orazio non manca
di ricorrere all’arma dei leggieri spiriti, e ne fa con dieci versi una ridicola
caricatura: «Perché Democrito crede l’ingegno più fortunato che la
miserabil arte, ed esclude dall’Elicona i poeti sani di mente, buona parte di
essi non si cura di tagliarsi le unghie, non di radersi la barba; sen va in
luoghi appartati, schiva i bagni; poiché otterrà sibbene il pregio e il nome di
poeta, se non abbia mai dato da radere al barbiere Licinio quel suo capo
insanabile dalla pazzia, anche con tutto l’elleboro di tre Anticire. Oh me
stolto che mi purgo dalla bile presso al principio di primavera! Nessun altro
farebbe poemi migliori de’ miei»8 Ed ecco in che modo Orazio si è fatto
duce di tutti quelli, a cui mancando la spontanea intima inspirazione, e i
quali volendo pur a dispetto della loro inutilità letteraria figurare tra i
letterati, miglior mezzo non trovano che di deridere in altri cotesta
inspirazione, ben sapendo anch’essi ch’ella non si acquista negli esemplari
Greci, per far che si faccia, voltateli pur di giorno e di notte9. Cicerone ne
ha insegnato in che consistesse questa dottrina di Democrito, in paragone
della quale il ridere di Orazio riesce per verità un po’ frivoluccio. Negai,
dic’egli nel suo primo libro de Divinatione, sine furore, Democritus,
quemquam Poetam magnum esse posse10. E nel secondo de Oratore: sine
inflammatione animorum et sine quodam afflatu quasi furoris; quod et a
Platone scriptis relictum dicunt11. Dottrine irredarguibili: verità
incontrastabile, e idea di poesia quale se la forma un animo elevato che
abbia serbato tutta la sua integrità, e alimentato in sé quel fuoco che le
frascherie, le leggierezze urbane e gli artifizi, e i pregiudizi municipali e
scolastici cospirano insieme onde soffocare e spegnere. Democrito era un
uomo profondamente invaso dalla voce della Natura, e basterebbe sola
quella sua professione poetica a riconfermarmi in certa mia opinione, cioè
che nulla somigliasse più al gemere di Eraclito che il riso di Democrito.
Il mio lettore va errato s’ei crede ch’io condurlo il voglia ancora per le
lunghe. Il filosofo di Abdera è anzi cagione ch’io raggiunga
immediatamente il mio soggetto, e ch’io entri a parlare dapprima di quella
indole di poesia, in cui è gran maestro ai dì nostri l’illustre lord Byron, che
nella sua giovine età corse già una immortale carriera, e che la sua patria ed
il suo secolo annoverano, fuor d’ogni controversia, fra le glorie loro più
invidiabili. Verrò poscia analizzando il Giaurro di lord Byron, e la
traduzione italiana che il sig. avvocato Rossi ne ha testé pubblicato in
Ginevra12.
Il soggetto, la condotta, i costumi, le passioni, l’ideale di questa
composizione, la caratterizzano di quella specie appunto di poesia contra
cui si scagliano con caloroso risentimento e con freddi argomenti quelle
persone, le quali hanno le regole antiche per troppo più importanti che non
l’effetto presente; le quali chiaman regole la consuetudine; e che nelle stesse
consuetudini confondono tuttodì quelle della Natura con quelle degli artifizi
e delle scuole. Eppure la ragion poetica da essi ricusata, quella che inspirò il
Giaurro, non è altra che la enunciata da Democrito. Perché s’ha da sapere
che, sotto nome di furor poetico, sì egli che Platone e Cicerone stesso
mostrano d’intendere non già sempre quell’estremo grado di concitazione, a
cui assurse per modo d’esempio Eschilo nel suo Prometeo, ma bensì un
incessante, continuo calore di cuore e d’immaginazione, per cui se anche
non vi sia sempre luogo a un sublime ideale, non venga meno giammai la
profondità della passione, e non cessi il poeta di ricercarti le viscere del
sentimento. In tutti i tempi gli animi generosi e ardenti chiesero ed
invocarono nientemeno di ciò dalla poesia; ma non forse in tutti i tempi
seppero egualmente questo loro voto significare con modi e vocaboli che
circoscrivessero precisamente la loro idea. Longino13 è quegli, se non
isbaglio, che segnò più lucidamente i confini di questo vago furore, in cui
fecero gli antichi consistere l’efficacia poetica, riponendola desso in gran
parte nel patetico; e ciò non soltanto là dove stabilisce essere il patetico una
delle cinque fonti del sublime, ma piuttosto nel tratto in cui rimprovera
Cecilio retore siculo di aver trasandato quella fonte. Ora il patetico, non
volgarmente inteso, ma in quanto egli è espressione di ciò che v’ha di più
riposto e di più profondo (non già di più maninconiosó) nell’animo e nel
sentire umano, presenta veramente e costituisce uno dei caratteri più
costanti della poesia moderna. E ciò sia dichiarato per ossequio a quelli che
ci vanno chiedendo elenchi e tabelle poetiche, onde possano in buona
coscienza annoverare Byron, Krabe14, Schiller, Lamotte-Fouqué15 ecc. fra i
poeti.
Ma in questo patetico quanto non abbiamo ad essere, e non siamo di fatti
noi superiori a tutta l’antichità, e fra tutta l’antichità ai Greci specialmente
ed ai Latini! Prego non i Classicisti soltanto, ma finanche i Classicomani di
porre qualche avvertenza sulle seguenti idee16.
Non credo che la facoltà poetica possa mancare nell’uomo giammai; e se
si voglia attentamente distinguere due maniere d’immaginazioni, si vedrà
che l’una viene ampliandosi e affinando, a misura che l’altra si va, la Dio
mercè, svaporando e perdendosi. Il furor poetico fu già in massima parte un
legittimo e semplicissimo effetto dell’avita stupidità umana. Ignorantissimi
su di ogni cagione, e sui principi dei fenomeni; vittime, non conduttori delle
cose, gli uomini, d’ogni accidente fecero poesia. Quel mondo antico, che
noi veneriamo a traverso il prisma dei secoli, e che le cortine e l’oscurità
delle tradizioni ci hanno fatto parere così reverendo; quel mondo canuto
agli occhi della immaginazione, ma bambino a quelli della ragione, vedeva
dappertutto portenti e macchine soprannaturali; perché tutto è superiore ad
una natura ancora inesperta: colpito così da una balorda ammirazione, egli
si veniva ideando una infinita gerarchia di miracolose potestà. La somma di
queste fantasime somministrò le basi ed il materiale di questo arsenale
poetico nei secoli che seguirono, e se ne valsero, ognuno co’ suoi
avvedimenti, il Poeta, il Pittore, il Filosofo, il Prete, il Tiranno. Questa è
quella fonte, diciam noi, che non può più dissetare gl’ingegni e le fantasie
nel settantesimo secolo della mente umana. Oggi gli uomini hanno ereditato
di troppe riflessioni e di troppi convincimenti; intendono e scernono troppe
cose a quest’ora, perché nelle facoltà loro sieno compatibili insieme e
contemporanei questi due effetti, l’intuizione logica e il prestigio favoloso:
smagata è dunque di questa immaginazione la mente dell’uomo e infastidita
di questo balocco. Ma la immaginazione è una facoltà troppo essenziale per
credere che possa mai disperdersi, e cedere nulla di sue perenni ragioni: ella
è pur sempre quella facoltà che anela a essere invasa, rapita, innamorata,
atterrita, e perfin sedotta; né avverrà mai che non soggiaccia alle illusioni
delle forme armoniche, alle estasi della sublime contemplazione,
all’efficacia dei quadri ideali, purché non sieno più arbitrari del tutto, e del
tutto nudi di analogia con quel vero che ne circonda, o con quello ch’è in
noi, e che a ragione abbiamo intitolato, un Vero infinito: il lettore si avvede
che io tocco qui ad un altro fra i caratteri della moderna poesia, di cui ella è
gelosa, e altiera sen va come di una sua conquista nei campi della rigenerata
filosofia, dico la legge delle armonie della natura. Ecco pertanto una molto
vasta sfera d’immaginazioni. Le religioni nostre spirituali e ascetiche,
mercè di cui, laddove gli antichi rendevano miseri e terreni i loro Dei, noi
rendiamo celesti gli uomini. Il sublime amore, l’amore fonte così
inesauribile d’immagini e cagione di tante armonie e di tante vibrazioni
misteriose nell’animo. La donna… oh la donna ben altrimenti poetica per
noi, che noi fu per quei vegetanti bifolchi, cacciatori ed eroi: gli espedienti,
i coloriti che prestano alla poesia le usanze, i culti, i climi, i terreni, i vari
mondi, di cui fummo scopritori: la vicendevole fratellanza delle scienze e
delle arti, i miracoli dell’industria, ec. mi par davvero che l’inspirazine
s’abbia in queste idee e in questi sensi un corredo superiore d’assai
all’antica fantasmagoria, e che la ragion poetica nostra possa disgradare e i
cavalli del Sole e il litofago17 Saturno, e il goffo Vulcano, e il melenso
Giove ec. ec. Le allegorie dedotte da questi personaggi sono oramai
inefficaci, triviali e pedanti oltre ogni dire; e le metafore generate dal
parnaso classico sono per le stesse cagioni tali freddure, che oramai non
v’ha galantuomo che le voglia più adoperare. La mitologia è, al più, un
corredo di formole, una lingua tecnica, ecco tutto: ma non è più poesia. Noi
invece perché vorremmo che il ministero poetico ritornasse a profitto della
morale e del patriottismo: ch’egli fosse, come già ne’ tempi andati, un
espediente di religione, di consolazione e d’amore; che s’immedesimasse
con tutti gli affetti, con tutte le circostanze solenni della vita sociale: perché
appunto ne vorremmo usare, come gli antichi seppero fare ai dì loro, perciò
anteponiamo quella ragion poetica non anco esaurita da essi, e derivarla
speriamo dalla conformità naturale dell’ideale col vero, e in ispecie con
quel vero di cui siam noi i contemporanei. Il principio e la facoltà
dell’ispirazione sono perpetui ed invariabili in sé stessi; ma lo scopo loro, e
non soltanto lo scopo, anche la traccia onde arrivarlo, e le tinte, e insomma
gli amminicoli tutti conviene attingerli dall’uom naturale, dall’uom sociale,
dal proprio cuore, e oserei dire dalla coscienza.
Ma come sperar mai di farsi ben intendere da coloro che perciò incolpano
l’arte moderna, perché disdegnano di far precedere alle loro discussioni
letterarie quegli studi psicologici su di cui infin fine quell’arte riposa. Non
si adontino essi di questo mio rimprovero, cui non cessano di dar motivo
collo scambiar che fanno di continuo il senso e il valor delle parole le più
fondamentali in questa controversia. Non accusano essi tuttodì la poesia
romantica di nutrirsi esclusivamente d’idee melanconiche, perciò appunto
che non vogliono discernere fra il patetico ed il lugubre, ch’è soltanto uno
degl’innumerevoli accidenti del patetico? Il patetico ha questo di proprio e
di distintivo, che da una circostanza fisica qualunque egli prende occasione
di più e più indentrarsi in tutta la profondità di quel sentimento morale, che
armonizza meglio coll’originaria sensazione. La campana del luogo natio
che si fa sentir da lungi in sulla sera al Pellegrìn d’Amore18, appena è udita
da lui, che l’animo suo ratto s’immerge nelle più dolci reminiscenze, e via
d’una in altra, quella sensazione non serba già più nulla in lui di materiale.
Perciò il patetico non consiste necessariamente nel lugubre, ma sì nel
profondo e nella vastità del sentimento. Compatibile con tutti gli affetti e
con tutte le idee, egli vi si appiglia seriamente, e quindi avviene ch’egli sia
oltraveggente nelle cose; e s’egli mesce un qualche po’ di amaro nelle
sensazioni a prima vista piacevoli, di quante dolcezze non cosparge
parimenti gli oggetti per sé dolorosi o spaventevoli, come la propria morte,
o quella dei cari nostri, la lontananza di un’amante, i rigori tutti del destino
umano, l’ingiustizia degli uomini! Poco vi ha, cred’io, di più patetico in
qualsivoglia poesia del mondo, o, direm meglio, in qualsiasi situazione
della Natura, che la promessa di Ascanio «Per caput hoc turo, per quod
Pater ante solebat19. Nella esclamazione di Enea, O fortunati quorum jam
moenia surgunt20, il puro patetico supera il malinconico, e così in questo
invito di un giovine ad un vecchio pastore, in proposito del quale diceva
Fenélon: malheur a celui qui ne sentirait pas le charme de ces vers!21 O
fortunate Senex (e non è senza patetico quel fortunate), hic inter flumina
nota et fontes sacros frigus captabis opacum!22.
Ma se il patetico aspira principalmente a questo fine di toccare il fondo
dell’animo e di sviscerare i più intimi sentimenti, non è meraviglia che
abbiano in ciò il vanto sulle antiche le posteriori età. L’animo umano è
provetto, e le migliaia cose egli ha da raccontare alla immaginazione
ritornando sulle diverse sue epoche e svolgendo le diverse sue Epopeie
naturali, giudaiche, pagane, cristiane, selvagge, barbare, maomettane,
cavalleresche, filosofiche, ec. ec. Prima che la mente dell’uomo si fosse,
dirò così, ripiegata sul cuore, e notato ne avesse i lamenti, e ne avesse
ascoltato la lunga istoria, allora le pene morali duravano sul generale poco
più delle fisiche. Il mondo nella sua giovinezza era, come i fanciulli,
dissipato e facile a venir distratto. Aderisco volontieri alla sentenza di quei
critici filoioghi che hanno il lamento di Priamo ai piedi di Achille, onde
riscattare la morta salma del figlio, per una assai recente continuazione
dell’antico poema. Tutto quel dramma pare anche a me un vero
anacronismo nei sentimenti. La situazione la più patetica si è fuor di dubbio
quella di Adamo rispetto ad Eva, sacrificata ch’ebbero la innocenza loro;
ma l’espressione la più adeguata che se n’abbia, è un frutto poetico dell’età
nostra. Patetiche sommamente sono e la situazione e l’espressione del cieco
Ossian, figlio e padre egualmente amoroso di due eroi; amante già
passionato; adoratore della sua patria e invaso il cuore dalla più alta facoltà
poetica. Quanto mai le circostanze di quel Cantore esercitano di continuo
influsso sugli avvenimenti da lui celebrati, e sulla mistica indole di quelle
donzelle, di quei forti, di quei fantasmi, ch’ei mette in azione! Fingal, il
padre d’Ossian, l’uomo il più poetico che per avventura fosse mai celebrato,
commette al giovanetto Oscar, figlio di Ossian, di recar soccorso e conforto
ad Anniro re d’Inistona,
… altrui ti mostra
Tempesta in guerra e sol cadente in pace;
Tu d’Inistona al re di’ che Fingallo
La giovinezza sua ben si rammenta,
Quando si riscontrar le lance nostre
Ai dì di Aganadeca…23

ed Ossian si diffonde in filiale e paterna compiacenza nel tramandare ai


posteri suoi quei preziosi fasti. — Insomma il patetico è tale inflessione
dell’animo, che non ricusa di sposarsi perfino alle più volubili gioie: ne
abbiamo prove in alcuni versi di Orazio, in parecchi di Voltaire e di Parny24.
Di quell’epicureismo che sa di patetico, hanno pur molto gli amabili versi
del marchese di Tressan25 ai figli suoi: Enfants, guidez mes pas, ec. Solo il
patetico ci spiega il mistero che sta riposto nelle lagrime del piacere, e se
v’ha perfin una possibile voluttà nella morte, a quella sola espressione
appartiene di renderla credibile. Petrarca, a cui non conosco poeta che in
questo genere meriti di essere anteposto, sì argomentò d’interessarci con
sospiri tratti da una semplicissima e mera data di anno, mese e giorni, e vi
riuscì,
Dico alla mente mia tu se’ngannata.

Sai che in mille trecento quarantotto,


Il dì sesto d’april, nell’ora prima,
Del corpo uscìo quell’anima beata26.

So bene che l’accademia della Crusca per l’organo del suo abbominevole
Salviati27, rappresentante immortale della Pedanteria in persona e di chi
bestemmia ed insulta ciò che non intende; l’accademia della Crusca non
contenta di avere esaltato il Morgante sopra la Gerusalemme, si condusse a
tanto eccesso di attribuire all’Italia maggior gloria e vanto dall’aver
prodotto il Berni che non il Petrarca. So ch’ebbe a dire il Gravina, a coloro
che gli stessi affetti in sé non riconoscono, quelle del Petrarca sembrano
invenzioni più sottili che vere, ed esagerazioni pompose più che naturali, e
particolarmente ai fisici e democritici, onde per sua gloria questo secolo
felicemente abbonda28. So finalmente che in tutte le età molti Italiani si
mostrarono intensissimamente stizzosi, e collegaronsi contra tutto ciò che
nella poesia sa di nobilmente patetico, di mero ideale, e di quel voluttuoso
che non è pretta sensualità ma non perciò potrò credere giammai che i così
pensanti fossero già, né sieno i più, né il meglio degl’Italiani, e un
obbrobrio sarebbe il dar vinta la causa a questi animi svaporati, a questi
cuori irrigiditi, a questi fringuelli della letteratura.
No, non crederemo giammai, che ove mai venisse ad allignare in Italia
un’altra volta qualche buon tralcio di vigorosa poesia contemplativa e di
purissimo ideale, dovesse andar perduta ogni di lei propria gloria ed
infoscarsene gl’ingegni, e rattristarsene i cuori, e insomma spegnersene il
più alto suo pregio; quasi il pregio e la felicità dell’ingegno italiano
consistessero negli amori boccaccieschi e bernieschi; nell’atticismo dei
Florindi e dei Leli; in quella specie di giovialità e di galloria, a cui andiamo
debitori dei leggiadri canti Carnascialeschi, degli onesti Capitoli, delle
argute Cicalate, ec., ec. — Non t’è avvenuto mai, o lettore, di vedere in
paesi forestieri gli ospiti tuoi ora esaltarsi ed ora intenerirsi al nome solo
dell’Italia; invaghiti nella immaginazione, del suo bel sole, del fiorito suo
terreno, del genio pittorico e musicale che le si concede ancora, non meno
che dell’estro poetico, della vicendevole nostra benevolenza, e degli animi
gentili ed amorosi che figuravansi palpitassero qui tuttavia fra cotante
prerogative della natura? Non hai tu osservato come dalla scena
argomentano essi degli attori? Oh! tu allora sarai stato ridotto a dire fra te
stesso: «Noi invece deridiamo freddamente la patetica indole del forestiere,
che ne presta pure tanti pregi, e ci nobilita cotanto sopra ciò che in verità
noi siamo; insultiamo alla squisita sensibilità dei settentrionali, non volendo
riconoscere che il ghiaccio onde sono circondati, sta veramente in ragione
inversa degli animi loro, e che lo stesso si potrà oramai dire per avventura
del fervid’aere in cui respirano gli Italiani».
Milord Byron dà principio al suo Giaurro (a) così:
L’aer taceva, e il mar co’ venti in pace
Lambiva umile il pie del sacro avello
U’ del Grande d’Atene29 il cener giace.
Dalla rupe in che appar splendente e bello
Par ch’ei primo saluti il buon nocchiero
Che rivolge la nave al dolce ostello.

A questo incominciamento non tiene già dietro un continuo racconto,


come per consuetudine una simile andatura sembra annunziarlo.
Lord Byron contempla la voluttuosa Natura di quelle spiagge. Sotto quel
cielo le sorti civili e i fasti dell’uomo mandarono una famosa luce, e quei
tempi, e quegli uomini, e quella luce non vi sono più rappresentati che da
poche rovine e da sontuosi ruderi; l’ignoranza, lo squallore, il servaggio
colle mille altre miserevoli conseguenze della tirannide ingombrano la
regione. Ahi! lo scettro della tirannide è di massiccio piombo; e pare
somma clemenza se chi lo distende sulle suddite fronti, v’abbia intrecciato
d’intorno il sonnifero papavero! Il poeta raffronterà bentosto insieme le sì
opposte fortune della Grecia; intanto a questa meditazione ei fa precorrere,
co’ sei versi recati, alcuni tocchi che pongano l’animo del lettore nello stato
di sensibilità giudicato da lui il più analogo a quella piena di alto patetico
ch’egli vuol comunicarti: e ti parla perciò d’un’atmosfera pacata; ti affaccia
al mare; un avello ti addita lassù su di una vetta, nel quale si racchiude
Temistocle; poi un pacifico nocchiero, e l’idea del caro suo tetto domestico.
Ecco un fascio d’idee e d’immagini; l’essenziale era di farle insieme
armonizzare: ciò conseguito, la forma del loro collegamento sarà da
reputarsi ottima in grazia dell’effetto; mentre in sé stesse, e questa e
tutt’altra, non sono che inezie affatto indifferenti. Ora domanderò se una
tale previa elaborazione sull’anima del lettore, e di cui il lettore suole non
avvedersi, non sia l’unica e suprema regola psicologica, e se la poesia
moderna abbia o no ragione di non riconoscerne qui delle altre? Domanderò
se vi avrebbe senso comune d’uscire in una sparata d’idee ed immagini 1°.
inarmoniche fra sé 2°. non contrastanti né simpatizzanti colle seguenti; 3°.
così grandiose a una per una, così abbaglianti e solenni che tutto dovesse
sembrare dammeno, ciò che nel progresso dovrà pur formare il soggetto
della composizione? domanderò che razza di preludio e di preparazione
sarebbe mai quella? Ma quest’arte d’insignorirsi dell’animo e di maturare
gli effetti; il segreto di far che armonizzino oggetti per sé incoerenti, lo
conobb’egli l’immenso Pindaro? Certo sì, ove crediamo a
«Boileau correct auteur de quelques bons écrits»30,

il quale non si trattiene dall’esclamare in proposito del celebre


incominciamento della prima Olimpica: Que de grandes images! l’eau, l’or,
le feu le soleil. Non basta, maestro, non basta. Que de sublimes figures! la
métaphore, l’apostrophe, la métonymie! Ed io venero la metonimia, e piego
in terra la fronte al solo nome di quelle reverende figure, ma con tutto ciò e
a dispetto di quanto fu declamato onde dimostrare l’eccellenza di quella
fusione di cose in un solo miracolo, io in tutto quel pindarico fracasso, di
veramente poetico nulla ravviso fuorché l’intenzione del poeta, né sento
effetto nissuno da quella agréable circonduction de paroles, che il
persecutore di Quinault31, con vocabolo sino allora inudito nella lingua
francese, viene esaltando.
Alla vista di ciò che tien dietro a questa introduzione, taluno, che già sta
in agguato per fare il processo alla condotta di questa poesia, domanderà
ben tosto: ma chi e che sottenda quindi a parlare? è egli sempre Milordo? o
il nocchiero, o… Egli è nessuno. Egli è il pensiero, egli è il sentimento
umano, egli è la natura poetica in quell’ora, in quel luogo, e sotto l’influsso
di quelle circostanze.
Region della beltà! Mite e sereno
L’è sempre il cielo, e all’eternal sorriso
S’innamora la terra, e infiora il seno.
Per entro al core andar ti senti un riso
Poi ch’all’altura di Colone aggiunto32
Scopre il guardo quel dolce paradiso.

Byron ha contemperato in questa, non meno che in varie altre sue poesie,
i più efficaci prestigi orientali. Spira dal suo carme un voluttuoso e inebbri
ante olezzo, che invade, per così dire, la fantasia, e te la fa nuotare in quel
beato letargo nel quale immersi, quei molli turbantati aspettano
pazientemente di salire in grembo alle loro Houris33. Dalla Persia è venuta
un’amabile novella che racconta degli amori dell’usignuolo colla rosa.
Byron non se l’è lasciata fuggire.
Che là sul colle e in seno al praticello
Dell’usignuol discopri la signora34,
Quella per cui l’innamorato augello
Fa la sua risonar voce canora;
E del suo vago al canto un verginale
Rossor la donna de’ bei fior colora.
Lontana là dal verno occidentale,
Da freddi venti, da gelata brina,
E blandita da zefiro vitale
La dei giardin, dell’usignuol regina
Il profumo che a lei natura diede
Ne’ suoi calici accoglie, e sì lo affina,
Che in più soave incenso al ciel poi riede.
Oh quanta i suoi sospir spargon fragranza!

Questa fragranza attribuita al sospiro della rosa, è una pratica occasione


che qui mi si presenta onde dimostrare per un nuovo lato la vanità poetica
della mitologia, in confronto di quella che ho fin qui chiamato poesia
moderna. La natura è vita: vita modificata in migliaia di guise. Se dovunque
è vita siavi parimenti coscienza e sentimento di un sé stesso, ciò la poesia
tanto più ama di crederlo o di fingerlo, quanto meno è dimostrato dalla
ragione. L’attitudine poetica, ch’è nell’animo umano, si compiacque mai
sempre di questa fantasia, ma nelle mitologie la natura veniva piuttosto
convertita in individui, che immediatamente avvivata. Il primo concetto, da
qualunque avvedimento sia proceduto, ne fu, anzichenò, immaginoso; ma
nel tratto progressivo un siffatto sistema doveva sottrarre ogni dì più al
sentimento e snaturare a poco per volta tutti gli oggetti, e impoverirci il
cuore di elementi poetici: perocché infrapponendo sempre persone fra noi e
i fenomeni naturali, e fra noi e noi stessi, non solamente rendeva infine
troppo uniforme l’artifizio poetico, ma lo spogliava della più miracolosa fra
tutte le magie, quella cioè che attribuisce un senso ad ogni cosa, e riconosce
vita, sotto tutte le possibili forme, non esclusivamente sotto le umane. Ma il
più mortifero suo effetto era quello di tendere all’annientamento delle
uniche relazioni, che natura volle ch’esistessero immediatamente fra noi e
l’altre cose, e degli effetti di queste cose tutte su di noi. S’ha un bel
volersene dare ad intendere, oramai non è più possibile di considerare la
mitologia se non come un dramma invariabile, i cui personaggi investiti
d’una monotona lor parte, ripetono sempre le stesse scene, e danno
disperatamente luogo alle medesime peripezie. Era pur comoda, mi si dice,
quella ideale popolazione a congegnare poemi, poemetti, oduccie,
epitalami, ec. Oh sì comodissimo a congegnare anche allegorie pel buon
capo d’anno, e pei ventagli delle belle; ma dobbiamo a questa sgraziata
comodità l’estinzione presso che universale della efficace poesia nei paesi
nostri; e quella comodità ha dispensato più d’un bell’ingegno dall’ideare di
per sé. Colui che pretende gli sia apparso l’aurora dalle dita di rose; che si
prostra a Febo raggiante, veduto da lui in luogo del sole; che siegue
affannosamente per la campagna zefiro ali-dorato; ah! colui è forse un
sordo animo, che senza l’aiuto di quelle altrui immaginazioni non ti
saprebbe far derivare e scaturire l’uno dall’altro, una serie di pensieri
poeticamente analoghi, e condurre una specie di meandro d’idee che
mettessero poi tutte capo in un qualche tutto omogeneo; scopo ideale di
questa concitazione. Ora la poesia moderna, che altri chiama Romantica,
siegue con predilezione questo sistema vitale da me finor contrapposto al
mitologico; e perciò io parlai tantosto di idee poeticamente analoghe:
perché questa ragion poetica si compone di tutte sue analogie, che non sono
già quelle né della metafisica rigorosa, né della storia naturale, né delle
scienze matematiche. L’universo poetico è un tutto governato da queste
leggi di analogia: il capirle non è dato a chi non le sente: il sentirle
profondamente è proprio soltanto di quegli animi generosi e dilicati, che
diconsi, e sono poeti. Intanto chi non le sente le crede pazzia, e pensa
invece che tutta la poesia debba consistere in tutti i secoli avvenire nelle
personificazioni, per ciò che risguarda le funzioni della fantasia; e per gli
affetti, in ciò che chiaman essi passioni, e non s’estende guari oltre i sette
peccati capitali del catechismo. Aggiungerò ancora che questo mondo di
analogie concedute all’uomo di provare, non si potendo, per grazia di Dio,
registrare in tutti gli accidenti suoi, come i fisici fanno dei fenomeni
materiali, e come i precettisti han gusto che si faccia delle maniere poetiche,
così egli è per sé una cosa molto indefinita, vaga e sfuggevole, e chi piglia
errore e scambia le leggi vere di questa organizzazione ideale con altre
arbitrarie, e ti presenta false analogie, colui manca il suo effetto in te coi
suoi versi. Perciò la poesia moderna non è cosa da essere presa
leggiermente, e ci vuole a maneggiarla molta filosofia e sensibilità molto
avvertita. L’altra, in vece, con della memoria e dello studio sui modi
praticati, e sulla propria lingua, è fatica in cui non v’ha oramai ingegno un
po’ educato che non abbia da riuscire felicemente.
Torniamo a milord Byron e al suo traduttore. — Quella bellissima
Grecia, quella nobilissima terra
….. or tana del pirato,
Che la rapace sua barca imprigiona
Fra gli scogli sporgenti, e ponsi in guato
Fin che scenda la notte, e i molli arpeggi
Del gaio marinar gli abbian svelato
Ch’alcuna prua pacifica veleggi.
Co’ remi avviluppati onde sien muti
Allor, lieto il fellon che il mar nereggi
Per le sublimi roccie e sì l’aiuti,
Slancia alla preda i suoi ladroni, e in pianti
Volge il suon della gioia e de’ liuti.

* Tutte le note chiuse tra virgolette sono del Calcaterra e appartengono al volume L. DI BREME,
Polemiche, Torino, 1923.

a. Il testo inglese ha «The Giaour» e Giaour o Dgiaour è parola colla quale i Turchi denotano in
modo ingiurioso colui che non professa la religione di Maometto, e più specialmente un Cristiano.
[Nota del Trad.].

1. Sull’atteggiamento del Di Breme verso Cartesio cfr. Introduzione, passim.


2. Allude alla codificazione delle leggi poetiche e stilistiche dalla Poetica di Aristotele, dall’Ars
poëtica di Orazio, dalle Institutiones oratoriae di Quintiliano, ai trattati (Esercizi preparatori, Sulla
costituzione delle cause giudiziarie, Sulle qualità dello stile, Sull’invenzione, Sulle idee) di Ermogene
di Tarso, retore vissuto tra il II e il III sec, i cui precetti ricavati dalla prosa demostenica ebbero larga
accoglienza nelle scuole greche.
3. Questi concetti furono sviluppati ampiamente nel cap. X del Grand Commentaire.
4. I Pisoni, a cui è indirizzata l’Ars poëtica oraziana, appartenevano alla gens Calpurnia, che si
vantava di discendere da Calpus, figlio di Numa Pompilio: perciò sono detti da Orazio «Vos, o
Pompilius sanguis…» (vv. 291-292).
5. Ars poëtica, vv. 292-293.
6. ORAZIO, Sermones, lib. I, IV, vv. 43-44.
7. ORAZIO, Ars poëtica, vv. 351-352 («Verum, ubi plura nitent in carmine, non ego paucis |
Offendar maculis…»); Sermones, lib. I, I, v. 106; Ars poëtica, v. 304: «Scribendi recte sapere est et
principium et fons».
8. Ars poëtica, vv. 295-303: «Ingenium misera quia fortunatius arte | credit et excludit sanos
Helicone poetas | Democritus, bona pars non ungues ponere curat, | non barbam, secreta petit loca,
balnea vitat. | Nanciscetur enim pretium nomenque poetae, | si tribus Anticyris caput insanabile
numquam | tonsori Licino commiserit. O ego laevus, | qui purgor bilem sub verni temporis horam! |
Non alius faceret meliora poemata…».
tribus Anticyris: «Le Anticire erano due, una nella Locride Ozolia presso il golfo di Corinto, l’altra
nella Ftiotide sul golfo Maliaco. Cresceva in esse l’elleboro che si usava per curare la pazzia. Qui
Orazio dice sarcasticamente che non basterebbe l’elleboro di tre Anticire (non che di due) a guarire
quei poetastri, i quali, dandosi l’aria di ispirati con le apparenze esteriori e credendo che basti
l’ispirazione, trascurano le regole dell’arte».
9. «… Vos exemplaria Graeca | nocturna versate manu, versate diurna» (Ars poëtica, vv. 268-269).
10. De divinatione, I, 37, 80.
11. De oratore, II, XLVI, 194: «Saepe enim audivi poetam bonum neminem – id quod a Democrito
et Platone in scriptis relictum esse dicunt — sine inflammatione animorum existere posse et sine
quodam afflatu quasi furoris».
12. «È il celebre Pellegrino Rossi, economista e statista, che ebbe tanta parte nella storia politica
della prima metà del sec. XIX. Nato a Carrara nel 1787, fu segretario della Procura generale (1807) e
poi professore all’università di Bologna. Nel 1815 aderì al movimento murattiano e fu Commissario
civile per le Romagne. Andò quindi esule in Isvizzera e fu presso la Staël a Coppet. Nel 1818 a
Ginevra pubblicò la traduzione del Giaurro del Byron; ivi insegnò con efficacia (1819-1832) e
collaborò agli Annali di legislazione e di economia politica. Insegnò quindi economia politica a
Parigi e nel 1839 fu creato Pari di Francia dal re Luigi Filippo. Più tardi fu mandato a trattare con
Gregorio XVI sulla questione dei Gesuiti, indi fu nominato ambasciatore francese presso la Santa
Sede. Proclamata la repubblica di Francia (1848), egli, che aveva lealmente servito la monarchia,
rimase in Roma e in breve divenne consigliere e poi ministro di Pio IX (14 settembre 1848). Già
aveva avviato pratiche con le corti di Napoli, Firenze e Torino per gettare le basi di una
confederazione italiana, quando il 15 novembre, entrando nel palazzo della Cancelleria, ove aveva
sede la Camera dei Deputati, cadde sotto il pugnale di un tal Sante Costantini. Le sue opere principali
sono: Trattato di diritto penale (in francese, 1829); Corso di diritto costituzionale (1835-38); Corso
di economia politica (1840-44)».
13. Allude al trattatello Del Sublime Περὶ ὕψους, dello pseudo-Longino (la critica più recente ha
sostenuto l’impossibilità della identificazione dell’autore di quest’opera con Cassio Longino). Cecilio
di Calatte era il retore siciliano, vissuto a Roma ove tenne scuola, autore di un omonimo trattato, a
noi non pervenuto, contro cui polemizza lo pseudo-Longino. Era Cecilio, come ricorda Quintiliano
(Institutiones oratoriae, IX, I, 12), seguace dell’indirizzo apollodoreo — da Apollodoro di Pergamo
—, che riteneva l’eloquenza frutto di regole scientificamente classificabili; lo pseudo-Longino era fra
i Teodorei — seguaci di Teodoro di Gadara —, che ritenevano l’eloquenza non scienza ma arte e
quindi svalutavano ogni precettistica. Il Del Sublime che ci è pervenuto va ben oltre questa questione,
affrontando, e con molta finezza, il problema della letteratura e della poesia in genere e ricercandone
la genesi fuori dell’ambito retorico nell’ambito della vita morale e del pensiero. I passi, cui allude in
particolare il Di Breme, sono il cap. I, il XV, i paragrafi 1, 2 e 4 del cap. VIII. Con patetico il Di
Breme traduce la parola greca πάϑος: di qui la precisazione a non confonderlo con il malinconico.
14. «Giorgio Crabbe, celebre poeta inglese, n. il 1754, m. il 1832, detto dal Byron “il più rude, ma
il miglior poeta della natura”. Pubblicò Il candidato (1780), la Biblioteca, poema (1781), Il villaggio,
poema (1783), il Registro della parrocchia, poema (1807), Il borgo, poema (1810), Novelle in versi
(1812), ecc. Walter Scott lo disse il Giovenale inglese per la sua amarezza; e Sainte-Beuve scrisse di
lui: “Son penchant à retracer les difformités morales avec la fidélité d’un anatomiste donne à ses
compositions quelque chose d’amer et de sarcastique”. (Il Di Breme ne scriveva il nome sotto la
forma Krabe, perché probabilmente lo conosceva per via indiretta a traverso le conversazioni da lui
avute a Milano nell’autunno del 1816 con il Byron)».
15. Friedrich de La Motte Fouqué (Brandeburgo 1777 - Berlino 1843), autore di Undine, racconto
di ispirazione romantica pubblicato nel 1811, che ebbe largo successo in Europa.
16. «Le idee che seguono sono in gran parte un rimaneggiamento di quelle esposte dal Sismondi
innanzi all’opera De la littérature du midi de l’Europe».
17. Litofago ═ mangiatore di pietre. Allude alla pietra che Rea sostituì al figlio Zeus e che Cronos
divorò credendo di divorare il figlio.
18. «Veramente Dante (Purg., VIII, 1-6) non dice Pelle grin d’amore, qui il Di Breme ha frainteso;
il d’amore nella terzina dantesca è complemento del verbo punge, con cui incomincia il verso
seguente». Ma è assolutamente da escludere peregrin d’amore?
19. Aeneis, lib. IX, v. 300.
20. Aeneis, lib. I, v. 437.
21. Fénelon.
22. Bucolica, I, vv. 51-52.
23. Poesie di Ossian, tradotte da MELCHIORRE CESAROTTI, La guerra d’Inistona, vv. 65-70.
24. Évariste-Désiré De Forges, visconte di Parny (Bourbon 1753 - Parigi 1814) fu poeta di vena
sensuale e malinconica, cantò a preferenza temi galanti. Voltaire lo salutò come un nuovo Tibullo.
Fra le sue opere: Voyage de Bourgogne (1777), Poésies érotiques (1778, prima raccolta), La guerre
des Dieux (1799) poema libertino. La raccolta delle sue opere complete apparve a Parigi nel 1808, in
5 volumi.
25. Louis-Elisabeth De La Vergne, conte di Tressan (1705-1783): fu traduttore in francese di
poesie medievali, di romanzi, di poemi — tra cui quello dell’Ariosto.
26. PETRARCA, Canzoniere, CCCXXXVI, Tornami a mente, anzi v’è dentro, quella, vv. 11-14.
27. V. nota 1, p. 109.
28. Della Ragion poetica, lib. II, cap. XXVIII, Dell’amore razionale ovvero platonico.
29. Temistocle.
30. VOLTAIRE, Ép., XCV.
31. Boileau nelle Satires mise in rilievo con una certa asprezza i difetti delle tragedie di Philippe
Quinault (1635.1688), specialmente le sdolcinature. Ma, nonostante il tono liricheggiante e prezioso,
l’artificio, le trame intricate, sono stati riconosciuti anche notevoli pregi alle opere drammatiche del
Quinault.
32. Colonna: «il promontorio dell’Africa anticamente detto Sunium ed oggi Capo Colonna, a causa
di alcune colonne che avanzano del tempio di Minerva» (Pellegrino Rossi).
33. Uri: creature angeliche femminili, che allietano i beati nel paradiso maomettano
34. «La rosa, detta la sultana dell’usignuolo nel canto e nelle novelle dei poeti persiani, che
favoleggiarono dell’amore dell’usignuolo per la rosa».
ARTICOLO IIa

All’armi all’armi contra i propugnatori di quella poesia che non deriva la


ragion sua dalla inspirazione d’una sola età e dalla cosmogonia di un sol
popolo, ma che abbraccia tutti i tempi, tutti i costumi e quante sono le
immaginabili inflessioni dell’uman cuore. Animi liberali e puri, ingegni
acuti, uomini spassionati, le cui virtù sono già poste in tanta gloriosa
evidenza, collegatevi, stringetevi in falange e fate impeto contro a questa
nuova generazione di barbari; o pure a momenti ricoperta vedrete l’Europa
un’altra volta di lande, di boschi, di paludi… i baroni sempre in guerra fra
loro… la prova del fuoco e dell’acqua bollente… i campioni della croce
deturpare in Oriente con mille scelleraggini il nome cristianob. — E tu,
mostruoso genio romantico, genio d’ignoranza e di feudalismo, genio di
superstizione e di malinconia, genio cavalleresco e battagliere che ci guidi
di galoppo a queste vergogne, ti si trasformino contro in altrettante furie le
nove legittime Mnemosinie (ossia le castissime Pieridi, giacché veramente
finora non sappiamo per anco ben bene se Mnemosine le partoriva a Giove
tre e tre e tre volte, o Antiope a Pierio; e neppur sappiamo se amano essere
chiamate piuttosto Eliconiadi che Aganipidi, o Castalidi, o Aonidi, o
Lebetridi, o ec, sebbene nessuno c’impedisca di salutarle frattanto Germane
a Febo, a Febo Cintio, Peanio, Pitio, a Febo Nomio, Clario, Delfico, a Febo
insomma Cirreo, Sminteo, Patareo e Scaramoneo…), mentre noi Latini
rampolli di Saturno (che non tutti trangugiò i suoi figli), noi per amore della
morale pericolante, e per lo zelo della socievole perfettibilità, ritrocedendo
ogni dì più ne’ tempi della umana fanciullaggine, sublimeremo la mente
nostra nella perpetua contemplazione di quel sovrumano postribolo, di
quella celeste Suburra, di quelle interminabili gerarchie di libertini
immortali. Oh caste Muse! soccorreteci; che noi col vostro santo aiuto
possiamo sempre più innalzarci al sublime ideale dello stupro, dell’incesto,
della rapina, dei divini pettegolezzi, dell’empietà fra gli stessi Numi:
raffigurarci capovolta la natura; conculcate e poste in ludibrio le sue
armoniche leggi da quegli Enti medesimi dai quali ella ripete la sua origine
e invoca la sua conservazione. Fate, o Muse, che in quei limiti si contenga
mai sempre la concitazione dell’ingegno nostro, né assurga mai più nel
concepire la Divinità, oltre l’idea di forze atletiche, di stature da Patagoni,
di ambrosi femori perpetuamente giovanili. Contenti così dello spettacoloso
e del sensuale, invece del sublime e del poetico, avverrà che vagheggiando
noi il riverbero di queste dottrine celestiali nelle famiglie degli Atrei e dei
Tiesti, e circondando le nostre pareti domestiche di que’ simboli così
efficaci sulle giovani fantasie; e inaugurando sui nostri teatri
….. il nome di colei
Che s’imbestiò nelle imbestiate scheggie1;

e intessendo tutto il nostro fraseggiamento, e adornando i libri e gli


espedienti tutti di educazione, di Veneri, di Saturnali, di ratti, di brutali
metamorfosi, di Fedre, di Mirre, di Alcibiadi, di Antinoi, avremo finalmente
soddisfatto allora alle purissime intenzioni degli anti-romantici…
Che l’Autore dei Cenni critici sulla poesia romantica2 abbia simulato
così strane inquietudini e mostrato dei timori così fuor di luogo e di
stagione: ch’egli abbia dato agli oppugnatori del sistema mitologico una
così comoda opportunità di vittoriosa recriminazione, sì che ritorcendo essi
l’accusa, perfino i ragazzi dieno loro vinta la causa, ciò non può essere per
parte di quello scrittore che una semplice inavvedutezza e nulla più: non è
già credibile altronde ch’egli sia caduto in simile leggerezza pel piacere
d’insultare a chi che fosse, e di accomunarsi con certi lodatori del suo
scritto, le cui discussioni s’aggirano sempre fra le più plateali adulazioni, o
le contumelie e le odiose allusioni. Perciò io non mi farò lecito di abusare
della debole situazione in cui da sé stesso si è posto, e mi conterrò nel
seguente dilemma. — O l’arte poetica derivata dalla fonte mitologica ha
oramai perduto la sua efficacia, e le impressioni sue non serbano più
influsso veruno sopra gli animi; e allora dirò che di ciò appunto van
lamentandosi quelli che hanno la poesia mitologica per un inutile balocco, e
che vedono distrutto questo già splendido espediente di nobili piaceri e di
sociali sentimenti. O invece ella produce tuttavia delle forti commozioni e
atteggia tuttavia le nostre fantasie e riverbera sui nostri costumi; e in quel
caso decida l’uomo assennato quali sieno più da promuoversi, o invece da
temersi, se quegli influssi che tornano dai fasti cristiani e dagli espedienti
psicologici e naturali, ovvero quelli che emergeranno dagli esempi di Giove
con Ganimede, di Ercole colle Tespiadi, di Teseo in favore dell’amico
Piritoo… lo, frattanto che ricompariscano, onde risolvere questo dubbio, un
po’ di buona fede e di gusto spregiudicato sull’orizzonte nostro letterario,
proseguirò nell’intrapreso tenore delle mie osservazioni generali e
particolari, senza gran fatto badare all’autorità di quelle censure
galloitaliche, le quali ci vengono ripetute fastidiosamente da quegli stessi
che rimproverano a noi tuttodì una soverchia predilezione per la letteratura
dei Francesi. Non hanno ancora posto mente, costoro, al divario che passa
fra l’ammirazione per l’acutezza di quegl’ingegni e per la duttilità della loro
favella, oppure la servile adozione delle freddissime e infeconde loro norme
poetiche. E poiché ho di già toccato alla insufficienza e alla superficialità
della critica, a cui s’appoggia il sistema dei nostri avversari, m’estenderò un
pochino fin d’ora su di questo particolare, bramoso d’interrompere il meno
che potrò quind’in avanti l’esame che verrò proseguendo del Giaurro
italiano.
Nulla di più ingiusto, né che muova da una più confusa e più grossa
conoscenza dell’arte moderna, quanto la taccia che le si dà in Francia ed in
Italia di poesia esclusivamente ligia alle favole e alle storie settentrionali
de’ secoli oscuri. Si tratta di ben altra e di ben più vasta ascensione poetica,
di ben più varia ed intima ricerca dei sentimenti. Niuna poesia si
assomiglierebbe invece meglio all’antica e primitiva concitazione; niuna
produrrebbe effetti più analoghi a quelli, né tramanderebbe più sicuramente,
come già le antiche epopeie, i costumi, le passioni e le vicende nostre alla
più tarda posterità. M’innoltrerò fino ad asserire che gustata di bel nuovo la
poesia antica cogli affetti moderni, e coll’animo non romanzesco ma
romantico, ella si vestirebbe d’inusitata luce, e forse per la prima volta
risplenderebbe della pienissima sua magnificenza. Ricorderò qui una
seconda volta al mio lettore quanto mai di sentimento un Milton e un
Klopstock abbiano saputo derivare dai più remoti e più imperfetti abbozzi
storici e poetici. Lo studio dell’antica letteratura è poco men che da rifarsi
per intero, e l’arte di ravvivare, o di ringiovanire la poesia primitiva, invoca
anch’essa i suoi Barthelemy3, i suoi Winckelman4, Niebuhr5, Quatremère6,
Visconti7 ec. ec. Il magistrale lavoro di Willelmo Schlegel sopra l’Ippolito
d’Euripide, posto da lui in confronto colla Madame Phedre di Racine8 è pur
un bel saggio della suprema abilità criticoromantica di questa nuova scuola,
e ci mostra quanta efficacia ella promette restituire a qualsivoglia età
poetica. Primo frutto di questa scienza nuova sarà di abolire per sempre le
grette convenzioni sopra di cui riposa l’attuale pedagogia letteraria e le
attuali discipline poetiche, più Galliche per certo che Italiche, e meno
Greche d’assai ch’altri non s’avvede. Impareremo dai Greci, e da quanti
furon grandi nei secoli di poi, a non ricopiare mai più né Greci, né Latini,
ma bensì ad emularli, gareggiando con essi nello sviscerare la Natura
ideale, modificata secondo i vari tempi, e nello spaziare generosamente e
grandiosamente per la immensità del cuore umano. — Invaso dalla favola
Virgiliana del Laocoonte, Dante, onde ripeterne degnamente gli effetti, non
ritenne di essa che la pura drammatica situazione, il cui nerbo è tutto riposto
nella reciproca dolorosissima ripercussione degli affetti paterni e filiali9. A
riprodurre pertanto un simile quadro, s’avvide egli, quel miracoloso
ingegno, ch’era d’uopo raccomandar quella situazione a costumi,
avvenimenti ed accessori tutti analoghi ai suoi paesi ed a’ suoi giorni. Non
fu egli, no, di così corta veduta da confondere l’ideale d’una favola colle
forme, onde incarnarla nelle immaginazioni e negli affetti; perché a lui non
fuggiva che, se la maestà creatrice del poeta si manifesta nel ritrovamento
del concetto ideale, la bravura dell’artefice poetico consiste nell’attingerne
le forme dall’indole onde sono costumate e atteggiate le fantasie. Che la
Sapienza conceduta agli uomini sia figlia d’una Sapienza divina, ciò è bello
e grande, ed è perennemente poetico; ma sarà egli del pari sempre analogo
alla immaginazione umana il far uscir fuori questa Sapienza, in forma d’una
gran donna armata, dallo spaccato del cerebro di Giove? e diciamolo pure,
cotesta forma poetica non fu ella in ogni tempo molto balorda e d’un
fantastico troppo assurdo veramente? Oh! anche qua davvero era lecito dire,
sottement vous avez menti.
Ma a chi parlo io? e sotto qual cielo e in quali giorni?… Ci ha due specie
di critiche letterarie; l’una servile, sia per difetto di lumi e di sentimento, sia
per difetto di buona fede e per vile traffico di adulazione; siffatta critica
siccome sempre si oppose, così si opporrà mai sempre all’incremento delle
lettere, delle scienze e delle arti; il suo baluardo suol essere una certa
sognata perfezione di già conseguita, oltre la quale non sia più possibile di
muovere un passo. Per modo d’esempio, se ascoltate alcuni mortiferi
precettisti italiani del dì d’oggi, il sommo buon gusto non può risultare nei
nostri paesi che da una mistura della ragion poetica di Orazio dilungata da
Boileau e commentata di quando in quando dal Journal des débats10, colle
favole d’Ovidio e d’Igino11; il tutto fuso nella lingua di messer Giovanni12,
temperata bensì con quella di Anton Maria Salvini13. — Un’altra critica
invece grave, avvivatrice degl’ingegni, e molto filosofica, sa di non dover
prescriver leggi artificiali, né imporre gioghi alla facoltà inventrice, ma
camminare attenta sulle di lei orme e raccoglierne e tesoreggiarne sollecita i
ritrovamenti; quest’altra critica nobile, liberale e giovevolissima, ha la sua
vera sede oggidì in parecchie città della Germania Superiore ed in
Edimburgo nella Scozia. Il giornale critico letterario, che porta il nome di
Rivista di Edimburgo14, è un periodico documento di quella recente
filosofia analitica che non permette più di citare a confronto suo né le
poetiche e le retoriche di Aristotile e di Quintiliano, né tampoco quelle di
Rollin15 e di La Harpe16c. Mirabile a ivi leggersi lo svolgimento delle varie
ragioni poetiche, analoghe sempre alle varie ragioni dei tempi, dei costumi
e dei luoghi: e ciò appunto in proposito della poesia di lord Byron. Ivi, a
cagion d’esempio, parlandosi delle diverse fasi poetiche e dei tempi
grandiosi per vaste operazioni e modificazioni sociali, tempi fecondi di
presentimenti e di speranze, viene osservato che «la poesia suol aver parte
in quelle grandi trasformazioni; diventa più entusiastica, solenne,
appassionata; e sentendo la necessità di emozioni più forti di quelle provate
nella tranquilla e frivola età precedente, ella ritorna a quei temi e caratteri
che animarono già gli energici canti de’ suoi primi rozzi inventori. Qui a
nulla giovano i classici greci né romani: parte siccome appartenenti per lo
più ad un periodo di società, rispetto a noi troppo artificiale, ed avverso alla
libera rappresentazione delle passioni naturali… e parte perché ad ogni
modo lo studio di essi è associato al più freddo ed insipido periodo della
moderna letteratura, quando il gergo della mitologia formava il pregio di
composizioni, che oggi sono guardate col massimo scherno e disprezzo»,
(Edinburgh review, aprii 1814, art. IX - sopra la quinta edizione del
Corsaro, e la sesta della Sposa d’Abido, di lord Byron). — Diifatti nel
mentre che alcune esilissime voci consacrano ancora fra noi l’ultimo lor
fiato alla noiosa apologia del così detto sistema classico, ognuno può
facilmente avvedersi, siccome il giudizio è di già pronunziato in tutta
Europa contro a queste cadaveriche dottrine, sì che se v’ha in qualsivoglia
paese oggidì poesia che varchi i confini nazionali, ella è di quel genere
vitale, efficace ed universale, distinto finora col nome di genere romantico:
mentre le classiche cantilene non sono più da tanto in nessun luogo da trarre
i loro autori fuori della oscurità, e né tampoco forse di camparli
dall’opinione d’ingegni vanissimi.
Ma ci tocca oramai di ritornare là dove nella sua traduzione il sig. Rossi
trasporta in nove terzine poco men che bellissime, gli accenti onde lord
Byron contrappone alle benefiche intenzioni della natura in pro di quelle
contrade, la turpe opera dell’uomo in esse, il vii governo ch’ei ne fa, e i
miseri destini a cui sono ridotte: perocché questa è quella terra, di cui lo
stesso mirabile poeta cantò nella Sposa d’Abido:
«Conoscete voi una contrada ove il mirto ed il cipresso fedeli emblemi
sono delle vicende a cui ella serve di teatro? ove alternativamente susurra la
tortorella il suo lagno amoroso, e sbrama l’avoltoio la sanguinaria sete?
Conoscete una contrada ove serbano i fiori perenne frescura, e il soffio
mattutino, rallentato nel suo corso da un nembo di olezzi, appena fa
ondoleggiar negli orti le cime della rosa? Dove il cedro e l’ulivo regnano
sopra i frutti, e non vien meno la voce dell’usignuolo? Contrada in cui la
faccia della terra e l’azzurro del Cielo, varii di colore, gareggiano pure tra
loro di bellezza? Là il sole disvolve dall’Oriente più maestosa ch’altrove la
porpora sua, e tenere sono colà le vergini al par delle rose onde han treccia
fra i capelli. Dove tutto in somma, tutto è celeste fuor che l’animo
dell’uomo? Questa è la Regione d’Oriente, la terra del sole. Perché mai un
cielo cotanto delizioso sorridagli ancora alle turpi azioni di que’figli suoi! I
cuori di coloro e le cose che se ne raccontano più fosche sono dell’ultimo
vale dell’amore».
Qual se scappate dall’eterno fuoco
Desson le furie assalto ai Serafini,
E vincitrici nel terribil giuoco
Fugasser dell’Empirò i cittadini,
Sì che sdegnando l’infernal retaggio
Sedesser donne sui troni divini:
Così è celeste di beltade il raggio
Che risplende in quel suolo, e son d’abisso
Gli empi tiranni che gli fanno oltraggio.

A chi, a che mai paragonare un paese decaduto da ogni grandezza, una


gente a cui sia negato di esistere d’una propria civile sua esistenza? Misera
generazione d’uomini fatta scherno d’un mostruoso egoismo politico, e
sacrificata alla sicurtà d’uno scettro! E se a quelle contrade celebri già un
tempo e gloriose, la natura, che mai non pattuisce colle usurpazioni degli
uomini, ha tuttavia serbato ubertoso terreno, mite aere, luce adamantina, e
vezzi mille di morbidi colli, di eccheggianti vallee, di olezzanti crepuscoli,
di perpetui germogli, dove mai allora trovare un’immagine che uguagli
questa gemina contemperanza della vita colla morte?… appunto in siffatta
immagine, e non ricusando, questa maniera di analogia. Ciò ben sentì lord
Byron: quindi egli ravvisa nella Grecia attuale l’immagine di un bel corpo
umano, cui mancata fosse di fresco la vita.
Colui che, curvo sovra un morto, ha fisso
Lo sguardo in ello pria che scorra intero
Il primo dì da che il suo stame è scisso,
Del tenebroso nulla il dì primiero
E in un l’estremo d’ogni ria tristezza,
. . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . .
Pieno il trova d’angelica dolcezza
. . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . .
E tale or è di questa Grecia il volto.
Ahi! spenta Grecia. Ahi! languida beltate.
Tremo in vederla or che il suo spirto è sciolto.
Conservò quella fredda venustate
Che non parte al partir primo dell’alma,
E le belle sue membra ha colorate
Del funesto color ch’entro la calma
Pur n’accompagna del gelato avello,
E tenta d’abbellir la morta salma.
O della vita estremo raggio e bello!
Splendor che a sera rapido declina!
L’ultimo addio del sentimento è in elio.

Oh pur divino e squisitissimo blandimento dell’animo quella poesia che


si nudre di simili maniere, e dischiude sì soavi misteri! Poesia germana di
quell’altra tutta nostra.
Non come fiamma che per forza è spenta
Ma che per sé medesma si consume
Se n’andò in pace l’anima contenta;
A guisa d’un soave e chiaro lume,
Cui nutrimento a poco a poco manca,
Tenendo alfin il suo usato costume.
Pallida no, ma più che neve bianca
Che senza vento in un bel colle fiocchi,
Parea posar come persona stanca…17

Qual miracolo d’ineffabile sensibilità era mai quel Petrarca! e quanto


profana sarebbe quell’arte che pretendesse addottrinare altrui nella
imitazione di siffatte bellezze!
Abile tessitore di terzine è il sig. Rossi, e la candida venustà delle due
ultime fra l’altre, mi par che superi ogni elogio: l’idea del poeta inglese
ritorna vergine dalla sua dilicata traduzione. Non è possibile che uomo il
quale si manifesta in tutto il suo lavoro così finamente pratico nel genere
dei versi limpidi, molli e di leale tornitura, s’egli ci darà una ristampa di
questa sua studiosissima versione, non venga ritoccando qua e là alcuni
tratti che sanno ancora un po’ dell’aspro e dell’intralciato. Rari son troppo
perché m’abbia il dovere di fargliene un serio rimprovero; bensì oserò dirgli
che se l’intralciatura derivi talvolta dalla fedeltà ch’egli si è imposto verso il
poeta inglese, evvi ad un tempo un’altra fedeltà da osservare, non meno
importante, verso il lettore italiano. Per servire a questa egli era desiderabile
(a cagion d’esempio) che il traduttore avesse innestato meglio e fatto
correre più lindo il pensiero, per sé rilevante e poetico, racchiuso nella
parentesi a fol. 618. Ivi la sospensione fa danno alla legatura. La poesia
inglese, e vieppiù la moderna, si compiace assai di membri incidenti e di
pensieri episodici: la consuetudine di quegl’ingegni, e la loro attitudine al
meditare fanno sì ch’essi provino un gusto in alcuni modi che sono cagione
a noi di raffreddamento. Il sig. Rossi è tale scrittore che può aspirare a
tradurre l’indole inglese nell’indole italiana; egli perdoni ciò che
nell’espressione di questa mia fiducia veste per avventura l’aria d’un
consiglio; doni l’arditezza mia all’idea ch’io mi formai sempre di un
perfetto traduttore, e all’alto concetto ch’egli mi ha dato di sé.
Il poeta inglese, penetrato lungamente da quel generoso sdegno che
inspirano a lui i degeneri discendenti del Grande d’Atene, rivolge poscia
una vigorosa apostrofe a quel, com’ei lo chiama, dei possenti Santuario, e
qua il Traduttore muta per la prima volta le terzine in versi sciolti19, non
senza domandarne scusa ai lettori colla seguente nota, che tiene il mezzo fra
l’ironico ed il serio. «Potrei prendere a dimostrare con quanto senno e buon
gusto io abbia adoperato nell’usare diversi metri in questa mia traduzione,
e, siccome avviene, troverei dopo il fatto molte belle ragioni, onde provare
che così era da farsi. Ma il vero è che essendomi posto a questo lavoro per
mio diletto ne veniva traducendo ora un brano ora un altro, ora in uno ora in
altro metro, secondo me ne pigliava talento. È vero altresì che a ciò mi dava
animo la forma irregolare del poema, il quale par composto di frammenti, e
sparso di lacune».
Io non dissimulerò al sig. Rossi che quella nota mi pare superflua. Di
niuna giustificazione abbisognava egli quando la variazione del metro fosse
caduta acconcia a quella del soggetto, dei modi, e direm quasi del tuono
onde risultar debbono il totale effetto, la tessitura e i chiari-oscuri del
componimento. Il metro non è infine che uno stromento: quando il variar lo
stromento sia non che necessario, anche minimamente giovevole a
migliorare l’effetto dell’opera, da quel punto si ha una suprema ragione di
non vietarselo. Lingua, rime, ritmi, partizioni, ec. sono tutte bazzecole di
per sé, né bisogna attribuir loro punto più o punto meno d’importanza di
quanta s’appartiene all’effetto cui cospirano. Usciamo una volta da queste
dottrine meccaniche, e da queste rozze superstizioni. Che insipido buon
gusto è mai quello che s’assottiglia tutto nei nomi, nei modi e negli artifizi,
e fa loro star suddito l’essenziale? Il primo buon gusto deriva dall’aver
sortito l’animo altamente temprato, capace di robusti ascensi e suscettivo ad
un tempo di risentirsi alle più lievi sconvenienze naturali delle cose: a che
giova lardellare gl’ingegni di precetti, e di tali precetti che per lo più sono
divieti e inciampi? Un solo e unico divieto è da intimarsi a quegl’ingegni,
che natura non destinò a uscire dalla comune intelligenza e dal comun
sentire. Quanto più gli animi si vanno svaporando, e corrompendo, il codice
del così detto atticismo diventa ognora più un repertorio di categorie
negative, un vero codice di delitti e di pene. Oh! davvero, un gran buon
gusto è oramai il nostro, che non s’innalza punto più in su della mortifera
ironia! Dopo dette queste cose mi sento più franco nel muover dubbio al
valoroso traduttore, se qua venisse poi molto acconcia e fosse naturalmente
invocata dall’indole del discorso la mutazione del metro, e confesso che in
luogo suo non mi sarei punto avveduto d’una tale convenevolezza, ed avrei
quindi proseguito colle terzine. Confesserò di più che, non già per ossequio
ai giornalisti, ma trattandosi di trasportare un siffatto poema nella lingua di
quella nazione, che mostra di abborrire tuttavia più delle altre, da qualsiasi
innovazione nelle forme letterarie, avrei voluto che, per condiscendenza a
cotesta materna intolleranza, il poeta italiano avesse serbato, quanto
l’inglese almeno, l’uniformità del verso. L’essenziale, mi risponderà
fors’egli, consiste nella bellezza piuttosto che nella forma del metro; ed io
per verità trovo belli a sufficienza i seguenti versi:
….. T’appressa
Vile strisciante schiavo — e non son queste
Le Termopili, di’? quest’onde azzurre
In che ti lavi tu, tu dell’uom libero
Catenato nipote — or di’, qual mare,
Quale spiaggia è cotesta? il golfo, il sasso
Di Salamina! O santi luoghi! o gesta
De’ valorosi! A te pur le dipinge
La fida istoria — Or sorgi dunque, e i tuoi
Dritti ripiglia. Ripigliate il fuoco
Onde il cener de’ padri è caldo ancora.
Su, v’infiammate; e quei ch’entro la pugna
Cadrà primiero, ai nomi lor tremendo
Un nome aggiungerà, ch’alto spavento
Sonerà pe’ tiranni;…..

L’animo del poeta ondeggia fra lo sdegno e la pietà:


Vivi pur son nelle tue carte, o Grecia,
Dell’immensa tua gloria i lunghi giorni.
D’inonorata polve ricoperti
Giacciono i Re …..
. . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . .
….. Ah! no, rapirti
Mai non poteva lo stranier quel fuoco
Che te forte animò: tu l’hai, tu stessa
Negletto e sperso. L’invilirsi sveglia
La possa de’ tiranni, e i lacci intesse.
. . . . . . . . . . . .
Quei fieri cor, che in te crescean, que’ spirti
Che fer mastri d’eccelse opre i tuoi figli,
Dove son? Dalla cuna entro il sepolcro
Oggi il greco strascinasi, vil servo
Anzi schiavo d’un servo…..

Di Atene, dice lord Byron in una nota, è signore il Kislar Agà (schiavo
del serraglio e guardiano delle donne) il quale vi manda un Vaivoda. R…..
ed eunuco sono nomi indecenti, pure sono i titoli veri di colui che oggi
governa il governatore di Atene.
….. Lamentar non voglio
Con più carmi i lor guai: ma ben vogl’io
Tale un’istoria raccontar di pianto,
Che l’uditor dal suo fia che misuri
L’alto dolor di chi l’udìa primiero.

Qua nel poema è simulata una lacuna, e pare che i punti che stanno in
vece di parole, dicano: «Avrei ora da raccontarti ogni cosa da principio; ma
non trastullarti, commoverti voglio, e interessarti vivamente alle persone e
ai fatti poetici, cui diedero luogo i loro caratteri e le vicendevoli loro
relazioni: questi fatti sbrameranno di per sé, tanto della tua curiosità, quanto
basti all’effetto, e ciò basta a me». Questo è il tacito sì, ma pur veridico e
reale discorso di lord Byron. Che se vogliamo uscire dalla favola, allora le
lacune diventano arte, e allora quegli stessi punti dicono invece «Ecco i soli
frammenti salvati d’un racconto che fu già completo: se ne avessi di più, di
più te ne darei; leggili se vuoi quali avanzano, e fa prova intanto se forse ciò
che manca, e ti è forza in qualche modo supplire da per te, non accresce per
avventura un misterioso piacere a ciò che resta, e non cospira efficacemente
a scuoterti e ad invaderti».
I grandi ingegni concepiscono indipendentemente da chicchessia.
Vengono poi gli Aristoteli, vengono i Quintiliani, e vengono tutti i
pappagalli loro, i quali confondendo insieme ciò ch’è regola invariabile di
bello ed elemento semplicissimo di composizione, colle mille industrie
variabili e particolari presso un tale o un tal altro poeta, v’impongono di
attenervi sempre a quelle precise norme. Se questo espediente delle lacune
fosse stato artifizialmente adoperato da Omero, certo non vi sarebbe poema
epico al dì d’oggi in cui non si vedessero a luogo a luogo introdotte, e
udremmo bandire la più fiera crociata contra quei poemi romantici, che
mostrassero, per i primi, esempi di transizioni.
Un cristiano (il Giaurro) uomo di tempre straordinarie, e invaso da tali
appassionamenti che ci daranno or ora materia d’alcuni riflessi poetico-
morali, ha sedotto Leila nell’Harem di Hassan dopo averle ispirato un
amore eguale al suo per lei. Hassan ha fatto affogare Leila nelle acque. Il
Giaurro, sitibondo di vendetta, se la compiace nel sangue di Hassan. Il
cordoglio, la disperazione, i rimorsi della intera vita, lo in seguono in un
monastero: ei vi spira nell’amore di Leila, nello sdegno di sé stesso e nella
impenitenza. Ecco tutto il soggetto della novella; ora ne seguiremo a parte a
parte gli andamenti.
Arriva giù per la sponda il Giaurro su d’un velocissimo destriero morello,
e lunghesso il mar trascorre, e su e giù via per i seni praticabili del monte or
lo vedi, or lo senti, e poi ti ricomparisce ec.: non fuggirebbe altrimenti chi
avesse le furie coi flagelli in groppa, o forse un reo disperato, affetto di
sonnambulismo. Un marinaro turco è sul suo passaggio, e dice
Chi è colui che fulminando viene
Sovra negro corsiero, a tutta briglia,
E col tallone incitator? Al suono
Delle ferrate scalpitanti zampe
L’eco introna le grotte, e scoppio a scoppio
Della sferza fischiante, e salto a salto,
I spessi colpi ripetendo, oppone.
. . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . .
….. del nembo che discende
Forier di negro tempestoso die
Men tranquillo è il tuo cor, giovin Giaurro.
Te non conosco, e la tua razza abborro:
Ma un non so che nel tuo viso discopro,
Cui rinforzar, non cancellar, può il tempo.
Pallido e giovin sei, ma il terreo volto
Già ti sformar con lor tremenda lotta
I più feroci affetti. Al suolo inchini
Quel tuo sguardo, sinistro sì, ch’errante
Procelloso vapor sembri fuggendo.
Pur ti vegg’io… sei tal che d’ottomani
Dovrian cansarti o trucidarti i figli.
. . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . .
Volteggiando sparì, — ma prima un truce
Sguardo avventò — parea l’estremo — Il rapido
Destrier sostenne un sol momento — Cheti
Fur gli sproni un istante — e in sulle staffe
In quel punto rizzossi, un sol momento. —
Oh perché nel rizzarsi i lumi ei spinse
Di là dall’oliveto? — la crescente
Luna spunta dal monte e sull’eccelsa
Moschea le fiamme tremolanti io scorgo.
. . . . . . . . . . . .
….. in questa sera istessa
Corcato il sol del Ramazano — in questa —
Dato al Bairam20 principio — in questa sera —
Oh! Chi sei, e che se’ tu che straniero
Hai vestimento e spaventoso ciglio?
. . . . . . . . . . . .
….. Ei stette — al volto —
Affacciossi il terror, ma cesse il loco
Tosto alla rabbia…..
. . . . . . . . . . . .
Avea curva la fronte — e vitrei gli occhi:
Levò il suo braccio fieramente, e scosse
La mano in guisa che dubbiar parea
S’ei fuggisse o tornasse — Intollerante
Della frenata corsa il negro ardente
Destrier dié un gran nitrito — al Cavaliero
Calar la mano ed abbrancar l’acciaro
Fu un punto sol — quel suon dal suo lo scosse
Sognar vegliando…..
. . . . . . . . . . . .
Lo spron nei fianchi del cavallo ei ficca —
A slascio a slascio21 dalla morte ei fugge
Qual fischiante giarriddo22 rapidissimo
. . . . . . . . . . . .
Fu un sol momento — un sol — del velocissimo
Arabo corridor con tesa briglia
Frenar il corso, un attimo posarsi,
E a gran furia fuggir, quasi alle spalle
Morte il premesse. Ma nel breve istante
Parve che il cuor con agghiacciata mano
Gli stringesse memoria, e mille orrendi
Spettri inviasse ad infoscargli l’alma:
Sì ch’un’intera di misfatti etade
E una vita d’angosce in quel di tempo
Attimo si rinchiuse…..
….. Oh chi potrebbe
Di quella pausa in ch’ei sul proprio fato
Richiamava il pensier, la spaventosa
Lunghezza misurar? pel tempo un punto:
Per l’alma è un’alta eternità…..
. . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . .
L’ora è trascorsa, e l’infedel disparve,
Fugge, o cade egli sol? Infausto il giorno
In ch’ei venne o fuggì! Trascorse Hassano
A tal peccato che dal Ciel discesa
Sul capo suo maledizion tremenda
Il suo nobil palagio in cieca tomba
Volse.

La scena fin qua descritta ebbe luogo in quel giorno e in quei momenti
nei quali il giovine Giaurro tornava indietro dall’aver consumato un qualche
suo ben atroce, o per lo meno ben temerario delitto. Volontieri mi sono
diffuso nelle citazioni, e copiosi tratti ho recato sì per tributare al signor
Rossi il più imparziale e legittimo encomio a lui dovuto, facendo gustare al
lettore il suo verseggiare, e sì per dare al medesimo lettore una giusta idea
del carattere poetico, e dell’avviamento storico di questa composizione.
Ad un tratto il poeta inglese interrompe l’ordine e l’andatura naturale del
racconto, e riportandoti al tempo presente, vuole che, prima di conoscere gli
avvenimenti e di riprenderne il filo, tu conosca la traccia ch’essi hanno
lasciato di sé in quei paesi e l’attuale misera situazione della casa e della
famiglia di Hassano.
Di simili, non già licenze, ma bensì calcolate e risolute norme vuole
usare, e usa con successo, la poesia moderna. Osserviamo di volo s’ella sia
da tacciare, così facendo, di bizzarria e di sregolata innovazione La filosofia
teorica delle arti e delle lettere non si può attribuire altre parti fuorché di
rintracciare le cagioni per cui tali o tali altri effetti si producano
infallibilmente nell’animo. Ella è cosa riconosciuta che la poesia, così detta
romantica, a quelli è più gradita che cercano di essere più internamente
commossi nel pensiero e negli affetti, mentre invece alla così detta classica
sorridono di preferenza le persone (quelle soltanto intendo che vi si
attengono di buona fede, e non per plagiare altrui) che amano di ritrovare
negli scritti moderni le consuetudini onde furono imbevute. Entrambi questi
gusti hanno un qualche loro incontrastabile perché nella Natura; ma,
intendiamoci bene, nella natura più o meno viziata, o più o meno robusta. I
romantici, dicono quegli altri, non hanno sistema nessuno, e vanno e
vengono su e giù per li tempi capricciosamente, e chiamano libertà
l’anarchia. — Anzi, rispondono essi, così facciamo per seguir più
fedelmente una essenzialissima e vasta legge di natura, la quale, quando si
tratti di produrre dei grandi effetti per lo svolgimento delle passioni, vuole
che si stia attenti alla genesi loro progressiva, e alla serie loro crescente, non
alla serie fortuita e accidentale del tempo, né alla successione delle ore in
cui accadono le cose. I precettisti si sono arrogati di decidere che non si può
far poema storico, né trattar epopea se non di cose e persone lontane da noi
di tempo, o almeno lontanissime di luogo. E ti dicono, cavandosi la beretta:
Maior e longinquo reverentia. Precetto ridicolo e materiale finché non si
svolga nelle sue ragioni intime, e il quale non è vero che in certi casi, ed
anche in quei casi non è già vero in sé stesso, ma bensì come applicazione
d’un principio e d’un precetto più generale; ora il precetto generale è
cotesto: che vogliono essere fatti argomenti di poesia a preferenza d’altri,
quei soggetti che contrastino sensibilmente coi presenti affetti e colle cose,
e coi sentimenti de’ quali abbiamo già contratto abitudine; e perché l’una
delle gran suste onde si prevale la Natura a variare le cagioni degli affetti è
il tempo; perché il tempo è il gran ministro delle alterazioni e delle
variazioni umane, perciò il contrasto (in cui sta essenzialmente riposta la
legge poetica), nell’ordine consueto delle cose, è più sensibile, più forte, fra
le due estremità d’un lungo, che d’un breve intervallo di tempo; ed ecco
come anche in questo caso i signori precettisti, vuoti d’ogni filosofia, han
fatto divenir legge generale l’uno dei casi e degli accidenti in cui questa
legge si verifica. Diffatti se il tempo affretti talvolta la fuga sua, e acceleri il
ruotare e il succedersi delle cose (come avvenne a cagione d’esempio nella
rivoluzione francese), sì che in poco giro produca grandissime variazioni di
costumi umani, cresce a dismisura la convenienza di celebrarli
poeticamente, di che fece prova il nostro illustre Monti nella sua
Basvilliana; ed io m’immagino che nulla sarebbe mancato all’effetto di un
poema sopra il diluvio universale, se, dopo uscito dall’arca, Noè avesse
potuto raccontare a una numerosa recente generazione di ascoltatori le cose
che precedettero quella tremenda catastrofe, e i peccati umani, e gli sdegni
divini che ne furono cagioni. Non credo che avrebbe tampoco mancato a
quella augusta prosopopea né il venerando, né il misterioso che hanno per
noi le cose antiche, e che in fondo altro poi non è fuor che un effetto
inosservato del dubbio e dell’incertezza in cui sono più o meno ravvolti
ancora quei racconti. Byron ha dunque tutte le ragioni di far qui precedere
nell’ordine poetico ciò che materialmente siegue nell’ordine temporario;
giacché le variazioni prodotrate nel palagio di Hassan furono tali che un
forte contrasto d’affetti ne può risultare, e che per mezzo del contrasto di
sentimenti si rendono poetiche anche le cose contemporanee, e poetiche
divengono per mezzo di siffatte inversioni e anticipazioni le cose per sé
meramente storiche.
….. Nell’Harem il nido
Fabbrica il pipistrello; e il gufo usurpa
Nei castelli d’Hassan l’eccelsa torre
Dei segnali …..
. . . . . . . . . . . .
….. più voce umana
Là non s’udrà — di duol — d’ira — di gaudio —
Fumo fieri di donne urli funebri
L’estreme voci che rapinne il vento —
Poi orrendo un silenzio — il tutto è cheto
Fuor quando de’ veron le aperte imposte
Sbatte l’aria fischiante; e non fia ch’esca
Braccio a serrarle…..
. . . . . . . . . . . .
….. il poverello
Inosservato, e il non curante ricco
Trapassan, poi che con Hassan sul monte
Morir pietate e cortesia — Rifugio
Ogni uomo un tempo; or, nel suo tetto han tana
La rea Fame e lo Scempio.

Il barcaiuolo racconta che un Emir gli apparve alla testa d’un drappello:
veniano reggendo un peso di cui dimostravano pure gran cura: entrarono
nella di lui barca, gliela fecero scostare dal lido
Piombò con sordo tonfo e lentamente
Sommergendo abbassavasi; la cheta
Onda, turbata, diffilossi al lito
Con rocco mormorio.

Il barcaiuolo credette di scorgere un moto spontaneo in quel fardello


allora che andò sott’acqua….. fors’era un inganno prodotto dal tremolar del
raggio notturno nell’onda
….. alti segreti, aperti ai soli
Geni del mar profondo; e i geni stessi
Nelle tacite grotte del corallo
Ne treman di spavento, e bisbigliarne
Neppur con le dormenti onde son osi
. . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . .
Fugge Hassàn dall’Harèm, e triste i lumi
Pur non volge a un bel viso. In cacce ei spende
(Nuovo consiglio) i giorni, ma la gioia
Del cacciator nell’alma sua non brilla.
Già non fuggiva Hassano, allor ch’albergo
Dava il Serraglio a Leila. Or dunque lungi
Leila n’andò? Sol puote Hassan ridirne
L’istoria. Strano un bisbigliar si sparse
Nella città, del suo fuggir, di quella
Sera in cui fine al Ramazan il sole
Dié col tramonto, e mille lampe e mille
Raggianti sulle cupole sublimi
Delle Meschite all’Orïente immenso
Annunziamo il Bairam. Fu allor ch’al bagno
Ella finse recarsi; allor che gonfio
Di sdegno invan cercolla Hassano; allora
Del suo Signor cansò l’ira, fuggendo
In sembianza di paggio; ed onta amara
Fuor dell’impero di Macon possente
A fargli andò col perfido Giaurro.
E pur (dicean) ne suspicava Hassano;
Ma sì vezzosa e tenera parea
La schiava sua, che in lei fidò, cui porre
Per nera tradigion dovea sotterra.
E in quel dì stesso alla Meschita, e quindi
Recossi al lieto banchettar. Con questo
Racconto i Nubi negligenti servi
Scusan lor fallo. Ma l’istessa notte
Della pallida luna al raggio tremolo
Parve ad altri veder, che in sul corvino
Suo destriero il Giaurro, a furia e solo
Lungo il lido gli sproni insanguinasse,
Né donzella apparia, né paggio in groppa.
. . . . . . . . . . . .
Move a un viaggio il fiero Hassan, e armati
Di cavo ferro e di pugnal lo seguono
Venti vassalli…..
. . . . . . . . . . . .
Fama è ch’or mova a più fedel compagna
Hassan di quella che dal fianco a un tratto
Gli scomparve…..

Il drappello va in cerca delle strade le più deserte e disastrose, onde


campare dai malandrini avventurieri che infestano i passaggi…..
….. Han sovra il capo
Altissimo dirupo; ivi aguzzando
Stan gli avoltoi famelici i lor becchi,
E tal s’avranno in sulla notte un pasto,
Che fiano di calar desiderosi
Pria che risplenda del mattin la luce.

Ma l’antiveggente Giaurro s’appiatta già in quelle gole alla testa degli


avventurieri, e allor quando Hassan crede schivato ogni periglio, e
s’accinge a dar nei fianchi a’ destrieri giù per un vasto piano…
….. sovra il suo capo
Fischia una palla; ed il primier fra i tartari
Morde il terreno.

Il combattimento finisce colla morte di Hassan


….. in su l’estinto
Curvo è il Giaurro, e al par di quei ch’esangue
Giace a’ suoi piedi intenebrato ha il volto:

Egli impreca così


Sì nel sen delle oscure onde tu dormi
O Leila mia, ma di color più fosco
Sarà la tomba di costui — Lo spirto
Venne di Leila e dirizzò l’acciaro
Che a quel cuor scellerato alfin dovea
Apprendere a sentir. Il suo Profeta
Chiamò, ma invano; ei non frenò la destra
Vendicatrice del Giaurro. Invano
Chiamava Allà…..
. . . . . . . . . . . .
Odesi il tintinnio dei ruminanti
Cammelli — Il capo al suo balcone accosta
D’Hassàn la madre e il rugiadoso umore
Che i verdi irrora sottoposti prati
Scorge ed il vago scintillar degli astri
«Vien manco il giorno — omai vicin per certo
È il suo corteggio» — Dei giardin la cerchia
Impaziente lascia, a eccelsa torre
Vola, e dai vani del veron traguarda
«E non vien; perché mai? Son pur veloci
I suoi cavalli e la cocente estate
Infiacchirli non suol».

Nulla di più opportuno quanto il ricordare che fa qui il traduttore un


luogo della Sacra Scrittura, il quale risguarda la madre di Sisara. Per
fenestram respiciens, ululabat mater eius: et de coenaculo loquebatur: cur
moratur regredi currus eius? quare tardaverunt pedes quadrigarum illius?
23.
Un turbante in vii pietra effigiato
Sur un pilastro ornai sepolto, e cinto
D’erbe selvagge, ond’è quasi celato
Lo scritto in che il Koran piange l’estinto,
L’alpestre loco e solitario addita
Ove fu tronca al prode Hassan la vita.
Colà d’Osman riposa un figlio egregio
Che la Mecca il miglior mai non accolse;
Il vietato licor tenne in dispregio,
E al santuario nell’orar si volse;
E allor ch’udiva l’Alla = Hu24 solenne
Devoto sempre a nuove preci ei venne.
Pur giace e uno stranier l’ha tratto a morte,
Uno stranier, nel suolo ov’egli crebbe —
Cadde pugnando, è ver, cadde da forte,
Ma vendetta, di sangue almen, non ebbe —
Impazïenti con soave riso
Or lo chiaman le Houris in paradiso.

Ma che cosa mai avrà egli fin qua sentito e detto di quello sfrenato e
spaventoso Giaurro, il lettore? Non si può negare che molti fra i poeti
romantici, e lord Byron più costantemente, prendano di frequente a volerci
interessare per de’ tremendi scellerati; non già che la scelleraggine per sé
stessa, e poeticamente ve gli adeschi: ma vanno in cerca di occasioni onde
tratteggiare le profondità del cuore umano, né v’è giammai tanta
opportunità di misurarle come in quegli animi che si spalancarono già a
tutte le possibili sensazioni e presentano poi l’aspetto d’una devastata
regione, in cui ruggente s’aggira e cupo il rimorso. Però è dovere che si
distingua fra lo scellerato poetico ed il volgare. Dannosi di tali persone, la
cui reità è pur troppo irrecusabile, ma soltanto relativamente alle leggi e alle
condizioni sociali. Ci ha invece di molti animi, perversi essenzialmente, e
assolutamente tristi e maligni, i quali per lo più sanno mostrarsi
irreprensibili, e si contengono cauti e guardinghi sempre, nei termini delle
leggi e delle morali formalità. Ora i primi soltanto possono interessare
tuttavia nei loro eccessi, perché, a fianco delle stesse continue trasgressioni,
scorgete ogni tratto nella vita loro tali azioni e tali movimenti che
oltrepassano in generosità i comuni doveri e le vicendevoli obbligazioni.
Antipoetica bensì è quella scelleraggine che ha per solo scopo l’utile
personale e il profitto d’ogni momento nella vita: ella è bassa, triviale e più
vergognosa della stessa forca su cui è fatta espiare talvolta; ma che diremo
altresì di quella virtù sociale, che prende pure di mira il proprio benessere
quotidiano e una comoda vita, combinata colla più felice prospettiva
nell’avvenire? Diremo ch’ella è ragionevole, prudente e utile bensì alla
repubblica dei coesistenti; ma per verità niente più suscettiva di venir
celebrata ed innalzata agli onori della poesia. Chè se mi date o un uomo
spinto al grandioso ideale della virtù, al vagheggiamento d’essa in sé
medesima, e per esempio all’eroismo dei consigli evangelici; o un uomo
invece che aspiri al più forte, al più profondo, e al più arduo delle passioni,
non al più sicuro e comodo, esisterà nel primo caso un santo, nel secondo
un facinoroso, degni ed acconci argomenti entrambi di poetica concitazione.
E per verità quelli sono i soli animi che come Lucifero e come Paolo
apostolo vediamo alcuna volta trasformarsi dall’uno nell’altro, e mostrar
sempre del grandioso. I malvagi da lord Byron dipinti sono per lo più una
certa razza di Satani che serbano, come presso Milton, molte fattezze d’un
primo nobilissimo carattere, e nati si ravvisano a splendidi destini. Siffatti
animi prestano fra tutti la più poetica opportunità di svolgere, quant’ella è,
la tela della coscienza, e di sviluppare l’intricato avvolgimento degli affetti,
ond’uomo è suscettivo. Qua la poesia romantica si trova nella sua provincia
prediletta, e nissuno ci vorrà negare che non sia giunta quell’epoca, in cui
molto si sopravanza l’antichità in fatto di cognizioni del cuore umano.
Gli accidenti individuali, storici e locali che si osservano nel carattere del
Giaurro, altro non sono fuorché modificazioni legittime d’una tal indole,
quale potrebbe appartenere sostanzialmente a tutti i paesi e a tutti i tempi. I
Capanei25, i Don Giovanni26, i Falstaff27, i Lovelace28, i Clavijo29, i
Faust30, i Valmont31, rappresentano forse un solo e istesso concetto ideale,
ma variato e quale la poesia romantica vuole che si modifichi, secondo la
forza o la fiacchezza de’ tempi, a tenore dell’indole festiva o cupa; dei climi
sensuali o vigorosi e rigidi; delle diverse civilizzazioni elementari, medie, o
raffinate. Pare che la fantasia italiana non essendosi creato un prototipo
ideale di libertinaggio, adottasse fin qui di preferenza il Don Giovanni
Tenorio degli Spagnuoli, in quelle sceniche rappresentazioni suscettive,
oltre la tragedia, di esaltazione poetica; tali sono i drammi in musica,
giacché la commedia, come la vogliono intendere quelli che giurano nel
nome di Aristofane e di Plauto, e che mostrano di sentir poco Terenzio, non
è tanto robusta da comportar nulla d’ideale. Perciò dunque in Italia il Don
Giovanni è gradito sulle scene, perch’egli è molto conforme da un canto
all’umore degl’Italiani, e a certa indole nostra d’immaginazioni, e che,
d’altronde, nulla vi si conosce di più risplendente in fatto di scapestraggine.
I libertini del bel mondo pigliano, l’uno ad esempio dell’altro, le norme loro
dalla moda: la moda è una frivola inflessione dell’animo, un volgare
artifizio d’imitazione, non è mai cosa per sé poetica, e nulla v’ha di meno
efficace a esaltare l’immaginazione nei nostri paesi, che quei
volgarizzamenti pratici dei Lovelace e dei Valmont, e tutto quel lusso di
libidini forestiere. È osservabile davvero la mancanza di un siffatto ente
ideale in Italia, e non è lieve a spiegarsi, trattandosi di quella regione in cui
le passioni veggonsi spinte in tutti i secoli a quel grado di sfrenatezza e di
veemenza che disgrada gli eccessi antichi, e degli altri popoli, e
sposandovisi elleno, per colmo di elemento poetico, assai più naturalmente
o alla superstizione, o all’empietà e al sacrilegio, che non all’ateismo; il più
antipoetico fra tutti gli stati dell’animo.
Grande è veramente lord Byron nell’ideare individui di questa specie, e
mirabilmente egli ne congegna le situazonid. Forti oltremodo, spaventevoli,
eppure tenerissime di frequente sono, e pressoché sempre solenni e grandi
le impressioni di cui ti percuote. Egli è il gran pittore delle più riposte scene
dell’animo: ei ne sorprende sul fatto i più intimi arcani: egli rivela tutti i
misteri del dolore e della interna devastazione, tutti gli atteggiamenti del
rimorso, e le prove e riprove ch’esso fa indarno nell’animo prima di
confessarsi per quello ch’egli è, e prima di vociferare disperatamente io
sono il rimorso. Ma vedesti mai, più nobili talvolta, più disinteressati
appassionamenti, e più gentili, ad un tempo stesso che feroci? — Quel
Corrado32, quel fierissimo Corsaro «sulle cui labbra sdegnose stava il
sorriso di Satano, al cui sguardo irato ti svaniva dal cuore ogni speranza, e
un ultimo addio ti dava la pietà, quegli stesso nudriva in sé il più delicato, il
più costante, il più dolce dei sensi. Un tal senso che lo consolava delle vane
speranze, dei disegni andati a vuoto, e delle imprese mal riuscite, sol che
l’amata sua l’avesse raggiunto d’un semplice sorriso: un tal senso per cui
serbava nella collera stessa miti espressioni, e non lo smentì nella sua
malattia, né con una querela, né con un cenno sol di malcontento: tal senso
che primo e unico si mostrava in lui sì nella gioia del ritorno, e sì nella
calma dell’addio, perché troppo era il di lui timore, non il turbamento del
suo sguardo giugnesse fino al cuore di colei ch’egli amava: un tal senso in
fine, che nulla era capace di alterare mai… Quel Corrado trascinato in mille
delitti è venuto a disfida cogli uomini e con Dio, e che se lo spavento avesse
potuto colpirlo, provato lo avrebbe di sé stesso; quegli stesso, allorché
Gulnara, la sua liberatrice gli si mostra, leggiermente macchiata del sangue
del feroce Seydo, freme e s’arretra… Oh! Gulnara macchiata di sangue e di
delitto!… No, né la pugna, né la cattività, né le catene che tuttavia lo
stringono, e non gli stessi suoi rimorsi, e non le tempeste del suo cuore,
nulla gli aveva giammai fatto correre un simile brivido al cuore. Addio
bellezza di Gulnara; ei già non se ne avvede più…» — Altro grandioso ed
enimmatico ribelle al cielo e alla terra è pure un uomo per nome Lara33, di
cui non s’apprende né la patria, né l’origine, né quelle stesse peripezie le
quali dan pure argomento al poema che ne porta il nome. Ecco alcuni cenni
caratteristici di colui. «Tutta la sua giovinezza fu azione incessante e
somma vita: ardea di una gran sete dei piaceri, e anelava le pugne, le donne,
l’oceano, tutto ciò in somma che o compiacenza promette, o tomba
minaccia. Di tutto ei saggiò, e schivando sempre gl’insipidi frammezzi, ei
toccò la meta e il premio suo del pari nell’avversa che nella lieta fortuna,
fuggendo ognora dalla considerazione delle cose, e opponendo alla
riflessione la gagliardìa stessa delle impressioni. Nelle burrasche del cuor
suo ei guardava con disprezzo le altrui minori e volgari agitazioni: nei
rapimenti suoi felici, dubitava se il cielo ne potesse concedere di più
squisiti. Devoto già a tutti gli eccessi, e appassionato, un dì, senza confini,
ad un tratto erasi desto da quel sogno. Qual fu cagione del destarsi? Ei se ’l
tace; ma impreca al proprio cuore che non seppe frangersi allora… È una
bella pacatissima notte; tutta fiammelle in cielo e lene aere sulla terra e
sull’onda. Non farebbe paura fin anco l’apparizione d’un fantasma, perché
nulla può correre di nocivo per quella notte… notte fatta pei buoni. Sentillo
ben Lara, e silenzioso ritirossi e lento si chiuse nel suo castello. Dato non
gli è sostenere di tali impressioni. Ah! può la tempesta consumare tutte l’ire
sue su la di lui fronte: sprezzeralle quest’uomo; ma notte così benigna, così
queta e gentile; no, no l’animo suo non è abbastanza forte onde
sopportarla…» Ma del Manfredo34 recherò più abbondanti squarci trascelti
da due atti e tre scene. La traduzione letterale n’è del sig. Silvio Pellico35.

a. Quegli che armato alla leggiera, si sente poi disuguale alla causa ch’ei prese ad oppugnare, se
non è uomo provveduto di religiosa buona fede, suol ricorrere allo spediente di travisare la quistione
s’ei può: di farla essere tutt’altra, e s’industria di sostituire ad un periglioso ed arduo, un più comodo
e più sicuro cimento. A deludere questo vieto ripiego d’amor proprio, io dichiaro che nel valermi
dell’opportunità del Giaurro, onde pubblicare alcune mie osservazioni psicologico-critiche, non è
vero ch’io abbia inteso di proporre questa poesia di lord Byron, né come un assolutissimo tipo della
maniera così detta Romantica, né come un modello pratico irreprensibile di quelle dottrine che,
traendone quinci motivo ed occasione, io vengo svolgendo. Questa è composizione nella quale,
oserei dire, che l’illustre poeta usò forse fino alla licenza di qualsivoglia libertà nella condotta e nella
forma; però fossero pure attendibili alcune obbiezioni, niuna di esse verrà per ciò mai a ricadere sui
princìpi da noi esposti, né sarà da tanto di offendere e d’invalidare quella Ragion filosofica che presta
loro perpetua base.
b. Parole ricopiate dal libro d’un personaggio, assai commendevole d’altronde, a cui nell’ozio della
campagna, com’ei dice, è piaciuto far prova di sé in queste discussioni. Questo signore ravvisa poco
meno che una indispensabile affinità e una reciproca dipendenza fra gli argomenti Romantici, e il
ritorno di tutti quei tanti malanni sociali e politici onde sono caratterizzati i secoli delle Crociate,
della scolastica e dell’astrologia.
c. Mentre sto rivedendo le prove di questa stampa mi cadono sott’occhio le seguenti parole
dell’illustre DE SAY: «Les professeurs actuels d’Edimbourg, soutiennent l’éclat de cette fameuse
université. La philosophie, l’amour du pays, s’y mêlent avec le gout des lettres, et y donnent à la
littérature, qui sans cela n’est qu’une faconde puérile, de l’importance et de la solidité. L’Edinburgh
Review est peut être le meilleur journal littéraire du monde: il est lu de Philadelphie à Calcutta».
d. Ecco il giudizio che ne pronunziano i gravissimi critici dell’Edinburgh Review, e serva onde
dimostrare la falsità di alcune asserzioni tendenti ad ingannare gl’Italiani sul concetto che portano di
Lord Byron i dotti e i veggenti della sua nazione. «Lord Byron ha molti dritti alla lode per lo spirito e
la bellezza della sua dizione e versificazione, come per lo splendore di parecchie sue descrizioni; ma
alle sue pitture delle passioni forti ei deve la pienezza della sua fama. Egli ha delineato con egual
forza e fedeltà gli effetti di quelle profonde e potenti emozioni che alternamente incantano e
tormentano i cuori esposti ai loro assalti, ed ha rappresentato, con terribile energia, le lotte, i
patimenti e le esaltazioni, da cui l’anima è ad un tempo lacerata e trasportata, e i tratti di divina
ispirazione o d’invasamento demoniaco, che si trovano frammezzo alle dolci fattezze dell’umanità.
Con questa malia, crediamo noi, ha principalmente fissata l’ammirazione del pubblico, e mentre gli
altri poeti dilettano col loro brio o incantano colla loro dolcezza, egli solo è stato capace di
comandare la simpatia, anche del lettore repugnante, per la indole magica della sua morale sublimità,
e pei terrori e le attrazioni di quei prepotenti sentimenti, la profondità e l’altezza dei quali par ch’egli
abbia sì felicemente esplorati. Tutti i poeti ragguardevoli di questa età hanno, è vero, posseduto
questo dono in maggiore o minor grado, ma non v’è alcuno, da Shakespeare stesso in qua, in cui siasi
quello manifestato con più pienezza e splendore, che nel nobile autore di cui parliamo; e varie
considerazioni ci portano a credere che sia specialmente con tai mezzi ch’egli è giunto alla
supremazia, di cui sembra ora incontrastabilmente investito». (Edinburgh Review, aprii 1814).

1. Purgatorio, XXVI, 86-87. Pasifae entrò in una vacca di legno per soddisfare la sua bestiale
cupidigia.
2. Carlo Giuseppe Londonio.
3. «Jean-Jacques Barthélemy, erudito e numismatico francese, nato a Cassis nel 1716, morto a
Parigi nel 1795; autore del Voyage du jeune Anacharsis en Grèce (1788). Pubblicò inoltre utili lavori
sulla numismatica, sull’alfabeto fenicio ecc. Nel 1755 aveva accompagnato il Duca di Choiseul in
Italia».
4. «Giovanni Gioachino Winckelmann, celebre archeologo tedesco e critico d’arte, nato nel 1717,
morto nel 1768. Recatosi a Roma, vi abiurò il protestantesimo (1754) e attese alla sua grande opera
Storia dell’arte antica (1764). In viaggio per Vienna, fu assassinato in un albergo di Trieste da un suo
compagno di viaggio».
5. «Giorgio Niebuhr, archeologo e storico tedesco, nato a Copenaghen nel 1776, morto nel 1831.
Dal 1816 al 1824 fu ambasciatore di Prussia a Roma e fece importanti ricerche nel campo
dell’archeologia e della filologia. Sua opera principale è la Storia romana, che arriva fino alla
seconda guerra punica. Con Angelo Mai pubblicò la Repubblica di Cicerone, frammenti di Frontone
e di Dione Cassio ecc. Ammiratore di G. Leopardi, lo invitò in Germania, offrendogli una cattedra
universitaria, che il recanatese non accettò».
6. «Antonio Crisostomo Quatremère de Quincy, insigne archeologo francese, nato a Parigi nel
1755, morto nel 1849. Opere principali: L’architettura egizia paragonata all’architettura greca;
Considerazioni sull’arte del disegno; Il Giove Olimpico; Dizionario d’architettura; Storia della vita
e delle opere dei più celebri architetti; Storia della vita e delle opere di Michelangelo; — di
Raffaello; — di Canova; L’imitazione nelle belle arti, ecc.».
7. «G. R. Visconti, archeologo, padre di Ennio Quirino, visse dal 1722 al 1784; fu amico di
Winckelmann e gli successe nel 1763 nell’ufficio di prefetto e commissario delle antichità di Roma.
— Ennio Quirino Visconti, principe dell’archeologia italiana, nacque a Roma nel 1751, morì a Parigi
nel 1818. La sua gloria toccò l’apogeo quando pubblicò la Iconografia greca e romana (1808-1818).
Altre sue opere capitali sono il Museo Pio dementino (Roma, 1782-1798) e il Museo Chiaramonti,
che n’è la continuazione».
8. «Accenna al saggio critico che A. G. Schlegel pubblicò in francese a Parigi nel 1807 col titolo
Comparation entre la Phèdre de Racine et celle d’Euripide. Vedilo a pp. 333-405 del t. II delle
Oeuvres de M. Auguste-Guillaume De Schlegel écrites en francais et publiées par Edouard Bòcking,
Leipzig, 1846».
9. Lo stesso concetto esprimeva S. Pellico in una lettera al fratello Luigi, datata 11 dicembre 1815:
«Or mi par chiaro che il mondo non potendo più tornare indietro per seguire le traccie della
civilizzazione greca, e dovendo per necessità progredire nella moderna, tutte le idee che sono
modificate dietro questa sono più atte a colpir l’animo, ad influire sugli ingegni e sulle passioni che
non le altre. Dante che da filosofo imitava Virgilio e non da pedante, capì che riproducendo un
Laocoonte farebbe assai meno terrore e pietà, che non avea fatto agli antichi quel di Virgilio — agli
antichi che ancor credevano o si ricordavano d’aver creduto ai miracoli degli Dei. Che fece Dante?
L’Ugolino — tradito dall’arcivescovo Ruggieri, e morto di fame in una torre.
Non si fa guerra ai classici; si ammira il Laocoonte; ma l’Ugolino è più dei nostri tempi» (Lettere
milanesi, cit., p. 30).
10. Il Journal des Débats, fondato nel 1789 come resoconto dell’assemblea legislativa, assunse nel
1799 un carattere prevalentemente politico. Ma la diffusione europea del giornale fu dovuta anche al
«feuilleton» letterario che vi fu aggiunto. Subì varie vicende, riflettendo il corso della vita politica
francese: impero napoleonico, restaurazione, secondo impero, terza repubblica. La sua importanza è
venuta calando nel nostro secolo. Sul piano culturale e letterario nel periodo napoleonico assunse il
compito di collaborare alla rinascita del Classicismo e di frenare le tendenze innovatrici.
11. Allude alle 277 Fabulae, vero e proprio trattato di mitologia, attribuito a C. Giulio Igino,
liberto di Augusto, spagnolo o alessandrino. Qualcuno ha dubitato di questa attribuzione per ragioni
stilistiche e anche per l’esistenza di un altro scrittore omonimo fiorito sotto Traiano. Fu Igino
bibliotecario della Palatina, amico di Ovidio e di Clodio Licinio. Delle molte opere di erudizione da
lui composte (un commento al Propempticon Pollionis di Cinna, un commento all’Eneide; De viris
claris, De jamiliis Troianis, De origine et situ urbium Italicarum ecc.) non ci sono pervenuti che i
titoli e qualche frammento. Ci resta un trattato De astronomia di carattere scolastico, oltre alle
Fabulae.
12. Boccaccio.
13. Anton Maria Salvini (Firenze 1653-1729): a ventitré anni fu nominato pubblico professore di
greco nello studio fiorentino; tradusse moltissimo dalle lingue classiche, specie dal greco; in tali
traduzioni adoperò non pochi neologismi, che furono accolti dalla Crusca, ma che caddero poi
dall’uso. Annotò le Lezioni su Dante del Boccaccio, il Malmantile del Lippi, la Fiera e la Tancia di
Michelangelo Buonarroti il giovane, la Perfetta poesia del Muratori, la Grammatica italiana del
Buommattei, le poesie del Della Casa, di Giusto de’ Conti. Compose: Prose toscane, Prose sacre,
Discorsi accademici.
14. La «Edinburgh Review», fondata nel 1802, fu la famosa rivista di cultura e di politica ispirata
prevalentemente alle posizioni del partito whig (ma accolse anche scritti di conservatori, come per
esempio W. Scott). Fu a lungo diretta da Francis Jeffrey (1773-1850).
15. «Carlo Rollin, umanista e storico francese, visse dal 1661 al 1741 e scrisse il Traité des Etudes
(1746, 4 voli.), l’Histoire ancienne (1730 e seg.) e l’Histoire romaine. Fu perseguitato per il suo
giansenismo».
16. «Giovan Francesco La Harpe, verseggiatore e critico francese, visse dal 1739 al 1803. Fu da
prima legato in amicizia con gli enciclopedisti e professò i principii della rivoluzione; fu nondimeno
imprigionato come sospetto e, durante la prigionia, da libero pensatore divenne cattolico e da
repubblicano monarchico. Compose drammi mediocri, poesie, elogi e un voluminoso Corso di
letteratura francese, conosciuto col nome di Lycée».
17. Petrarca, Triumphus Mortis, vv. 160-168.
18. «Il Di Breme allude a queste terzine:
Colui che, curvo sovr’un morto, ha fisso
lo sguardo in ello pria che scorra intero
il primo dì da che il suo stame è scisso,
del tenebroso nulla il dì primiero,
e in un l’estremo d’ogni ria tristezza,
(allor che il Tempo col dito severo
le forme della languida bellezza
cancellate dal volto ancor non gli have)
pieno il trova d’angelica dolcezza».
19. «È la celebre apostrofe che incomincia:
Region d’eroi di eterna fama! un solo
angol non havvi del tuo suol, che albergo
di Libertà non fosse, o un monumento
non v’ergesse la Gloria! O de’ possenti
Santuario! ecc.»
20. «Ramadan, ramadhan o ramazan, nono mese dell’anno lunare musulmano, consacrato al
digiuno. Durante il ramadan i musulmani devono serbare la più rigida astinenza dal levar del sole al
tramonto. Esso termina con le feste dette Bairam».
21. Con impeto, furiosamente. Il Tommaseo reca alcuni esempi tratti da Livio volgarizzato da
Marcello Adriani: I Romani veniano a slascio in giù correndo, e percoteano a’ Galli.
22. «Jerrid o djerrid, giavellotto spuntato che i Turchi lanciano da cavallo con gran forza e
aggiustatezza».
23. Giudici, V, 28: Ma la madre di lui traguardando dalla finestra sclamava, e dalla sua stanza
diceva: Come mai tarda a giungere il suo cocchio? come mai son lenti i piedi de’ suoi quattro cavalli?
(traduz. di A. Martini).
24. «Alla-hù, voce con cui termina sempre il canto del muezzino, quando dall’alto del minareto
chiama i credenti alla preghiera. — Se il Muezzin ha una bella voce, quel suo grido religioso riesce
bello e solenne - Byron».
25. «Capaneo: vedi Dante, Inferno, vv. 43-72».
26. «Don Giovanni, il leggendario libertino e seduttore, messo in iscena dal Molière nel Don Juan
(1665), dal Glück (1761) e dal Mozart nel suo capolavoro su libretto di Lorenzo da Ponte (1787) e da
altri. Quando il Di Breme scriveva, il Byron non aveva ancora incominciato il suo poema su Don
Giovanni: lo incominciò nel 1818 e lo lasciò incompiuto».
27. «Falstaff, messo in scena da Shakespeare nell’Enrivo IV e nelle Allegre comari di Windsor. È
pure un tipo della sregolatezza, del cinismo e della sfrontatezza».
28. «Lovelace, uno dei principali personaggi di Clarissa Harlowe, celebre romanzo di Samuele
Richardson (1689-1761). Lovelace è pure un tipo di perfetto libertino e il suo nome è diventato
sinonimo di uomo dissoluto».
29. «Don José Clavijo y Fajardo, letterato e naturalista spagnuolo, nato alle Canarie verso il 1730,
morto il 1806. Il Beaumarchais, la cui sorella egli aveva rifiutato di sposare, ha bollato la sua
condotta indelicata nel suo dramma Eugénie (1767) e ne’ suoi celebri Mémoires, che hanno ispirato
al Goethe il dramma Clavijo».
30. «È il noto protagonista del grandioso e terribile dramma di Cristoforo Marlowe, La tragica
storia della vita e della morte del Dottor Faust (1604) e del capolavoro di Wolfango Goethe, Faust,
di cui pubblicò nel 1790 un “frammento” e nel 1807 la “prima parte”. Quando il Di Breme scriveva
non era ancora stata pubblicata la seconda, che fu finita nel 1831 e vide la luce l’anno dopo».
31. «Valmont, eroe delle Liaisons dangereuses di Choderlos de Laclos, apparse in 4 volumi nel
1782. Il De Laclos visse dal 1741 al 1803».
32. «Il Corsaro, novella in versi di Lord Byron».
33. «Lara, poemetto di Lord Byron».
34. «Manfredo, poema drammatico di Lord Byron».
35. S. Pellico, Francesca da Rimini, Milano, G. Pirotta, 1818. Precede una presentazione di L. Di
Breme. Alla tragedia segue la traduzione in prosa del Manfredo del Byron.
ATTO I.
SCENA PRIMA

MANFREDO E VOCI DI SPIRITI.

VOCE DE’ SETTE SPIRITI. — La terra, l’oceano, l’aria, la notte, le montagne, i


venti, la tua stella stanno a’ tuoi cenni, o figlio della creta! Dinanzi a te i
loro spiriti sono pronti a secondare i tuoi comandi. — Che vuoi da noi,
figlio de’ Mortali? Parla.
MANF. — Dimenticanza.
SPIR. — Di che — di chi — e perché?
MANF. — Di ciò ch’è in me; leggetelo qua. — Voi lo sapete, ed io non
posso pronunciarlo.
SPIR. — Noi non possiamo darti che ciò che possediamo. Chiedi a noi, tuoi
sudditi, sovranità, potere sovra la terra, o tutto o in parte, un segno che
governi gli elementi di cui siamo dominatori; ciascuna di queste cose, e
tutte insieme saranno tue.
MANF. — L’oblìo, l’oblìo di me stesso…
SPIR. — Non è nella nostra essenza, nella nostra facoltà ma — tu puoi
morire.
MANF. — Me lo procaccerà la morte quest’oblìo?
SPIR. — Noi siamo immortali, e non dimentichiamo…
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . .

SCENA SECONDA
MANFREDO E UN CACCIATORE SOPRA I DIRUPI DELLA JUNGFRAU
(Montagna della Vergine).

MANF. (non vedendo il Cacciatore) — Esser così! — incanutito


dall’angoscia, come quei disseccati pini rovinati da un sol inverno,
senza corteccia, senza rami, un putrido tronco sopra una radice
maledetta… così, eternamente nient’altro che così, essendo stato in altra
guisa! Solcato di rughe, scavate non dagli anni, ma dai momenti —
dalle ore — tutte secoli di tormenti… Ah crollanti cime di ghiaccio! Oh
valanghe che un respiro d’auretta trae giù… venite a schiacciarmi… ma
voi passate invece, e non cadete se non sovra cose che ancor vorrebbero
esistere…..
….. Addio spalancati Cieli! non guardatemi così iratamente
— voi non eravate creati per me — terra! ricevi questi atomi!
CACC. — Arresta, o folle — quantunque stanco della vita non macchiare le
nostre pure valli col tuo colpevole sangue. — Via con me…
MANF. — La grave mia malattia è nel cuore. — No, non afferrarmi — io
sono tutto debolezza — le montagne girano intorno a me — mi
s’offusca la vista. — Chi sei tu?
CACC. — Ti risponderò fra poco — via con me.
ATTO II.
SCENA PRIMA
Capanna nelle Alpi di Berna.
I MEDESIMI.

CACC. — … Gusta il mio vino; è d’un’antica vendemmia; molte fiate ha


disciolto il gelo delle mie vene in mezzo alle nostre ghiacciaie; or faccia
altrettanto a te. Vieni, rispondi al mio brindisi.
MANF. — Via, via. V’è del sangue sull’orlo! non cadrà dunque mai in terra?
CACC. — Che intendi dire? I tuoi sensi vaneggiano.
MANF. — Dico ch’è sangue — il mio sangue! La vera calda corrente che
fluttuava nelle vene di mio padre e nelle nostre, quando eravamo nella
nostra gioventù, ed avevamo un cuore, e ci amavamo l’un l’altro come
non avremmo dovuto amarci, e questo sangue fu versato — e ancora si
rialza colorando le nubi — che mi chiudono fuori del Cielo dove… tu
non sei — ed io non sarò mai.
CACC. — Uomo di strane parole, se hai qualche peccato che ti alteri la
mente, e ti faccia popolare il vuoto di spauracchi, qualunque sia il tuo
terrore e il tuo patimento, v’è conforto ancora — l’aiuto de’ santi
uomini e la celeste pazienza —
MANF. — Pazienza, pazienza! Lungi da me — questa parola fu fatta pei
bruti da soma, non per gli uccelli da preda; raccomandala ai mortali
d’una polvere simíle alla tua, — io non sono del tuo ordine.
CACC. — Grazie al Cielo! Io non vorrei essere del tuo per la libera fama di
Guglielmo Teli; ma qualunque sia il tuo male convien sopportarlo, e
questi selvaggi impeti sono inutili.
MANF. — Non lo sopporto? — Guardami — Io vivo.
CACC. — Questa è convulsione e non vita in salute.
MANF. — Ti dico, o uomo, ch’io ho vissuto molt’anni, molti lunghi anni,
ma essi non sono niente in paragone di quelli ch’io devo numerare;
secoli — secoli — spazio ed eternità — e coscienza di me stesso colla
fiera sete della morte — e non disfatto mai!
CACC. — Eppure sulla tua fronte il suggello della mezza età è appena
impresso; io sono molto più vecchio di te.
MANF. — Credi tu che l’esistenza dipenda dal tempo. Sia; ma le azioni sono
le nostre epoche; le mie hanno fatto i miei giorni e le mie notti d’una
durata infinita, immortale, e sempre simile come la sabbia sul lido,
innumerevoli atomi; deserto, sterile e freddo su cui le feroci onde si
rompono, ma nulla resta fuorché carcami e naufragi, sassi ed alghe salse
ed amare.
CACC. — Oimè! è fuor di senno — ma pur non devo abbandonarlo.
MANF. — Esserlo vorrei — perché allora le cose ch’io vedo non sarebbero
che un sogno agitato.
CACC. — Che vedi tu, e che pensi tu vedere?
MANF. — Me stesso e te — contadino delle alpi — le tue umili virtù,
l’ospitale tua casa, uno spirito paziente, pio, altero e libero; il rispetto di
te medesimo fondato sopra innocenti pensieri, i tuoi giorni di salute e le
tue notti tranquille; le tue pene nobilitate dal pericolo, quantunque
innocenti; la speranza di una lieta vecchiaia e d’un queto sepolcro con
una croce e una ghirlanda sulla sua verde zolla, e l’amore dei figli, de’
tuoi figli, per epitafio; questo io vedo — e allora guardo qui dentro — a
nulla giova — l’anima mia arde di già!
CACC. — E cangieresti la tua sorte per la mia?
MANF. — No, amico! Non vorrei nuocerti né cambiare la mia sorte con
alcun essere vivente: posso sopportarla — benché miserabilmente, pur è
ancora sopportabile, questa vita che gli altri inorridirebbero di sognare,
e morrebbero dormendo…

Bersaglio delle sue reminiscenze e della sua disperazione il Giaurro


fuggendo se stesso, corre a seppellirsi vivo in un monastero di Calojeri
Cristiani, là in quelle stesse regioni: vestito della cocolla monacale, e
L’ondeggiante sua veste raccogliendo
Tra colonna e colonna lentamente
Si strascica nel tempio: in lui con tema
S’affisan tutti..…
Ma allor che crolla al suon del salmo il coro
E s’atterrano i frati, ad altra parte
Ei muove; — il vacillante incerto lume
Di lontano torchietto ancor percuote
Là fra gli archi il suo volto. Ei là del rito
La fine aspetta — delle preci ascolta
Il suon colà — ma la sua lingua è muta.
Vedilo presso al mal chiarito muro,
Caccia indietro il cappuccio; il negro crine
Disciolto cade; e la pallida fronte
Di scompigliate anella orrendo ha un cerchio,
Come se in essa la più scura treccia
Degli angui che sul reo capo le guizzano
Locato avesse la Gorgone. I giuri
Schifa ei del chiostro, e alle profane ciocche
Crescer non vieta, ancor che l’altre ei siegua
Nostre foggie; e non pio, ma pien d’orgoglio,
In queste mura, che da lui di sacro
Né un voto mai né un solo accento udirno,
L’oro ei versò — Deh! vello, vello — All’alto
Armonico fragor degli inni santi —
Oh quai livide gote! oh l’indurito
Volto d’un disperato che a battaglia
Par che sfidi l’eterno! — Angioli santi!
Deh! lo togliete al santuario, o l’ira
Del Ciel, temer dovrem non si palesi
Con un segno feral — Se mai l’iniquo
Spirto vestì mortali forme, certo
Tali le prese; — per la speme il giuro
Ch’ho del perdon de’ falli miei — dal Cielo
Né dalla terra non escîr quei sguardi.

Siegue finalmente la manifestazione che il Giaurro fa di sé stesso al buon


vecchio Rettore di quella monastica famiglia; spaventoso quadro ei ci
dischiude nel cuor suo, e ferale luce è quella che serve a illuminarne le
latebre.
Padre, tu in pace i tuoi giorni traesti
Tra santi uffici e preci innumerevoli;
Tu cui delitto o duol non v’ha che infesti,
Fuor le tenui d’ogni uom cure fuggevoli,
La fresca e vecchia età spendesti in preghi
Onde a virtute il peccator si pieghi
. . . . . . . . . . . .
Breve fu la mia vita, e d’essa il manco
Vissi in gran gioia, e il duol ne rose il resto:
Pur sotto il carco mai non giacqui stanco,
Il destino avess’io mite o funesto:
Cinto d’amici o dai nemici stretto,
Giacermi in ozio vii ebbi a dispetto.
L’amor e l’odio or nel mio cuor stan cheti,
E lo sperar e il superbir son muti:
Ma in quel verme più reo ch’alle pareti
Pende di negra fossa io mi trasmuti,
Pria ch’una vita, meditando, io viva
Sempre torpida, egual, contemplativa.
. . . . . . . . . . . .
A una tomba or la mia mente rassembra
In che i dolci miei dì giaccionsi spenti;
Sol una ho speme — ch’anco queste membra
Trovin tosto una fossa — ah! pria che lenti
Trarre i dì nella noia e nel martire
Meglio assai ne’ diletti era il morire.
Pur contra il duol che le midolla e l’ossa
Mi trafiggea, lo spirto mio fu saldo;
Né mi dischiusi di mia man la fossa
Come nell’età nostra il vil ribaldo;
O nell’antica l’orgoglioso stolto;
E sì di Morte io non temeva il volto.
. . . . . . . . . . . .
Per disio d’alta fama altri s’infochi;
Valor dell’auro il lampo in altri infonda:
Fa che d’innanzi agli occhi miei tu lochi
Premio ch’ai caldi miei pensier risponda —
Donna ch’i’ adori — od uom ch’odii vi poni —
Sì che Rabbia od Amor m’inciti e sproni,
Allor seguir saprò del Fato i passi;
Allor dar mi vedrai morte o salute;
Allor gli alti sprezzar danni e fracassi
Di cento canne e cento spade acute;
Allor… ma è van di me farti ritratto;
Non mento, no; quel che farei, ho fatto.
. . . . . . . . . . . .
Frate, io l’amai, anzi adorai — ma è vano
Per me il sermon ch’il volgo usar pur suole —
Dell’immenso amor mio con questa mano
L’alta possa mostrai, non con parole —
Vedi tu ’l sangue in quest’acciar rappreso? —
Dolce color! ei fia pur sempre illeso.
. . . . . . . . . . . .

Ahi pur troppo è vero, l’amore il più esaltato e il più squisito cape
talvolta in certi animi ch’essere temprati non dovrebbero ch’ai soli odiosi
appassionamenti
Sì ch’io la amai: Amor pur là penètra
Dov’entrar non vorria lupo per fame:
E se tant’osa Amor, dritt’è se impetra
Ristoro e premio alle cocenti brame,
Come, dove, perché, ridirti è vano —
Mai non ho chiesto o sospirato invano. —
. . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . .
Gelato è il sangue sotto ciel gelato,
Né merta quivi Amor ch’Amor sia detto.
Igneo torrente ond’Etna ha il sen squarciato
Fu la piena d’Amor ch’arse il mio petto.
Il rigor dell’amata e i crudi rai
Lamentar non sepp’io con dolci lai.
. . . . . . . . . . . .

Un Giaurro ha pur da saper favellar d’amore come segue:


O d’incarnata luce egregia forma!
Da ch’io ti vidi, ognor quest’occhi miei
Tua purissima immago occupa e informa.
Poi che spuntasti a me, stata tu sei
Per l’alma mia la stella del mattino,
La stella duce in ogni mio cammino.
Sì, l’amore è, per Dio, lume superno;
Viva scintilla dell’immortal fuoco
Dei Serafini; è fiamma onde l’Eterno
Leva i nostri pensier di basso loco:
Anzi tanto fulgor sui nostri passi
Spande, che il ciel ver noi par che s’abbassi.
Egli è favilla dei divini affetti
Largita all’uomo, perché il suo pensiere
Spicchi dall’esca vil de’ rei diletti.
È raggio del Fattor di tutte spere;
È corona di luce eterna ed alma
Che del mortale abbella e cerchia l’alma.
Sì, l’amor mio — dritt’è ch’io tei consenta —
Manchevol era — l’uom cieco dispensa
Quel nome a torto: or come ti talenta,
Padre, dell’amor mio giudica e pensa.
Pago ne son; ma di’, dimmi soltanto:
— L’amor in lei fu immacolato e santo —
. . . . . . . . . . . .
Qual di bruno avvoltoio dispietato
Paionti gli atti miei feri e crudeli.
Sì, vecchio, il so: col tuo volto accigliato
Apertamente l’orror tuo mi sveli.
Tu pur m’abborri; or s’empie il destin mio;
Pur questo a sostener, lasso, nacqu’io!
. . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . .
Che più? già dissi — delle mie peccata,
E in parte ancor de’ miei mar tir sei dotrato.
L’ultim’ora mia fia tosto suonata;
Di penitenza or più deh! non far motto.
Tua santa istoria sia pur vera — a un tratto,
Dimmi, pretendi, o puoi disfar tu il fatto?
Sconoscente io non son; ma medicina
Voi sacerdotrai a questo mal non date.
In tuo cuor quel ch’e’sia, se il puoi, divina,
Ma taci, s’hai di me vera pietate —
Oh! fa che Leila nuova vita accolga;
Allor supplicherotti onde mi sciolga.
. . . . . . . . . . . .

Questo infelice ebbe un amico, e vana gli tornò pure una tanto rara
fortuna
Nel dolce Aprii della mia vita, allora
Che il cor ricerca un cuor con gran disio,
Là ’ve il mio suol natio vago s’infiora,
Un amico ebb’io pur — lasso! l’ho io? —
Deh! padre, tu gl’invia questo mio pegno —
Digli «è di fede giovenile un segno».
. . . . . . . . . . . .
Ei predisse il mio fato: io sorridea
(Allor potea nel cor spuntarmi il riso)
Quando Prudenza, col suo dir, porgea
Di tutto a me, che noi curava, avviso.
Or la memoria bisbigliarmi ascolto
Que’ detti a che il pensier pria non ho volto.
Digli ch’ei fu nel profetar verace:
Ahi! qual colpo n’avrà! qual van disio
D’esser ei stato un indovin mendace!
Digli ch’ancor che in un profondo oblìo
Sepolto avessi i primi aurei nostr’anni
Tra le cure, i tumulti, e i fieri affanni;
Pur quand’io giunsi della morte al letto
A lui volsi gli esìli e rotti accenti,
E sua dolce memoria benedetto
Avrei pria di spirar — ma se i nocenti
Di supplicar pe’ giusti abbiano ardire,
Movono il Cielo alle ripulse e all’ire.
Non chieggo che il mio nome ei non offenda;
Ha cor tropp’alto — e a me che cai di fama?
Né chieggo, il corso al lagrimar contenda;
Sì freddo prego è ingiuria a quei che t’ama.
Fors’ha il ferètro più bel fregio e vanto
Che dell’amico il generoso pianto?
. . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . .
D’una lacrima sola oh! quanta ho brama!
Qual per me caro dono e non usato!
La bramai — pur la bramo — indarno chiama
Su le sue ciglia il pianto un disperato.
Cessa l’orar —: disperazion feroce
Sperde cogli urli suoi la pia tua voce.
Io tra’ beati? Il pur potessi, a sdegno
Padre, l’avrei; di ferreo sonno eterno
È d’uopo a me, non di celeste regno.
Già il Ciel vid’io; miei occhi allor men ferno
Dono che in lei… qual dì, padre! qual ora!
Qual paradiso! — sì — viveva ancora.
Io l’ho veduta in bianco manto avvolta,
Nel funèbre suo manto — ella splendea,
Quale colà fra grigie nubi accolta
Splende la stella, che i nostri occhi bea
Col suo raggio — del guardo assai men vago
Onde bëommi l’adorata imago.
La tremula sua luce è nebulosa —
E dimane più fia la notte oscura —
Pria ch’ella splenda — quella morta cosa
Io sarò ch’empie i vivi di paura.
Ah! padre, l’alma già m’erra nel petto
Poi ch’all’estremo carcere m’affretto.
. . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . .
Ahi! qual fredda beltà! Ma quale or sei
Resta pur sempre — Leila mia, noi curo —
Pur ch’io sempre ti stringa — i desir miei
Sempre a ciò saran vòlti e sempre furo.
Ohimè! le braccia a un’ombra io posi intorno,
E vuote al mesto sen fanno ritorno.
Pur sempre — è là — sua vista a me non niega,
E tutta mesta e taciturna in modi
Supplici con le mani accenna e prega.
Sì, li negri occhi, sì… le anella e i nodi
De’ tuoi be’ crin con queste luci ho visti,
Tu morir non potei — tu non moristi.
. . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . .
Tale è il mio nome, e tal la storia mia;
Al tuo segreto orecchio, o confessore,
Fidai gli affanni ond’il mio duolo uscìa.
Abbiti grazie dal mio schietto cuore
Di quel tuo pianto generoso e vero;
Gli arsi occhi miei versar mai noi poterò!
Co’ più umili a giacer poi tu mi doni;
Né sul mio capo fia mestier di croce;
Né vo’ che marmo o scritta tu mi doni,
Emblema o segno che di me dia voce,
E van diletto al curïoso appresti,
O il pellegrino in suo vïaggio arresti.

Il lettore avrà senza dubbio dovuto osservare quanto a dismisura più da


lodare e da ammirare siavi ne’ versi del sig. Rossi che non da riprendere, e
darà forse con noi la preferenza alle terzine e ai versi sciolti sopra le sestine,
che abbondano pure anch’esse di molti e rari pregi. Ho voluto serbare in
ultimo il giudizio che di questo lavoro, come traduzione, mi ha comunicato
persona1 di molta e fina intelligenza nelle due lingue, e la di cui squisita
sensibilità in materia letteraria mi fa avere la critica sua per degnissima
dell’argomento e della persona a cui viene applicata.
«I. Biasimerei il traduttore di aver alterato i primi versi volgendo in
racconto di cosa passata ciò che l’autore dice come testimonio presente. I
tempi si possono sovente nel discorso confondere a volontà, ma se
l’espressione guadagna adoperando il presente per il passato, perde quasi
sempre facendo il contrario; e qui mi pare un errore positivo, 1.° perché fa
credere al lettore che incominci il benedetto racconto che poi non si
racconta mai; 2.° perché lascia una vera lacuna tra quelle tre terzine e le
altre, mentre nel testo, sebbene vi si supponga una interruzione, il legame
delle idee è sensibilissimo, non essendo il minimo passaggio da un luogo
all’altro come nella traduzione, dove l’autore parla prima per rimembranza,
e poi s’interrompe quasi a una digressione sopra oggetti presenti.
«II. Italianamente condanno quel Region della beltà, perché l’uso tiranno
fa che non si può udire quel region di due sillabe, senza preconcepire (e
siamo al principio del poema) un’idea di trascuratezza nel traduttore. Forse
clima non avrà quel non so che di poetico che si concede ad altri vocaboli,
ma per me avrei trovato ottima quest’apostrofe, ch’è la più breve e la più
semplice: Bel clima!
«III. Quelle tre terzine seguenti poi mi suonano lunghe e stemprate per
cinque corti ottonari dell’inglese; e non capisco come si sia preferita un po’
di lusinghiera ma vuota armonia alla precisione del concetto originale, il
quale non parla né d’eternal sorriso, né di terra che s’innamora, né di seno
infiorato, né esclama per meraviglia, né vola2. Quante idee sussidiarie per
rendere vagamente un piccolissimo numero d’idee nemmeno sempre
consimili. Perché dopo aver guardato quel sepolcro di Temistocle non
volgea gli occhi alle isole di quel mare, nominandole come una delle
particolarità che fan bella quella regione? In un salmo v’è laetentur insulae
multae, quanto è bello quel non confondere, colla terra in generale, quei
poveri campi eternamente assaliti dalle acque dell’oceano, e che si
consolano della solitudine in cui gli ha posti la natura vestendosi di fiori e
di frutti per invitare gli uomini e gli animali ad abitarvi!
IV. Che là — sul colle e in seno al praticello
Dell’usignuol discopri la Signora,
Quella per cui ec. (fol. 3).

«Non senza giusto motivo Byron dice la Rosa, prima di qualificarla per
Sultana dell’usignuolo. Questa favola non essendo nota al comune dei
lettori, è d’uopo che s’intenda subito chi è quella sultana, e il tacerne il
nome rende oscuro il passaggio, oltre che schiverei anche di dire al
praticello dell’usignuol, perché a prima vista par che piuttosto convenga
d’intendere al praticello dell’usignuolo che la signora dell’usignuolo,
equivoco però che cesserebbe se fosse antecedentemente nominata la rosa.
«V. Consonanti allo spirito del testo, e bellissime sono le terzine che
sieguono
Là molte grotte, ec. (fol. 4).

«VI. Meno ancora si staccano dalla precisione originale i versi sciolti,


sebbene alcune inesattezze vi potrebbero essere evitate ancora: è vero che
non bisogna essere traduttore servile, ma l’espressione del testo non va mai
alterata se non per surrogarla con una di egual valore. Per es. quando il
poeta dice allo schiavo greco:

……— or di’, qual mare


Quale spiaggia è cotesto? il golfo, il sasso
Di Salamina!

il testo prosiegue: Queste scene, la loro non incognita storia innalzano ed


attestano contro la tua.
E il traduttore cangia sì fatto pensiero, esclamando così:

O santi luoghi! o gesta


De’ valorosi! A te pur le dipinge
La fida istoria.

Che difficoltà c’era di essere fedele? e non s’è egli perduto assai non
essendolo? Queste storie antiche che sorgono come dai sepolcri ad attestare
la viltà de’ nipoti degli eroi non sono un quadro da gettarsi via senza
badarvi.
VII. Gli squarci che possono sostenere un confronto coll’originale sono i
seguenti, cominciando dal passaggio citato: (Pag. 9).

….. t’appressa
Vile strisciante schiavo, ec.

fino alla fine della pagina 12.


E poi le due sestine:
Dell’alte rocce, l’ombra lunga e scura
Tinge del mar l’azzurra onda remota, ec.

e sopra tutto i versi che sieguono, fino al paragone della farfalla d’Oriente.
Qui Rossi torna ad aver in mira principale di far della bella poesia sonora
italiana, ed allunga assai ciò che v’è in Byron.
«VIII. Lodevole pure è la traduzione del racconto da pag. 31 a tutta la
pagina 53.
«IX. Mi son posto a scrivere queste pedanterie di mano in mano ch’io
confrontava la traduzione coll’inglese; ma or con mia soddisfazione mi
accorgo che il traduttore, vacillante a principio nell’arte sua, acquista
bentosto franchezza e maestria sufficiente per rendere quasi sempre le
bellezze del testo, anche dov’egli adopra il metro difficile delle sestine. La
critica maggiore che si possa fare al Rossi, si è di aver allungato alcune
frasi, sebbene, per non eccedere nella mole, ne abbia poi ristrette alcune
altre: il numero dei versi viene così ad essere il medesimo incirca, se non
che Byron, tolto quattro versi lunghi, gli adopera sempre ottonari ed alcune
volte settenari, invece che Rossi gli ha endecasillabi, da pochi settenari
infuori».
Quelle persone a cui riuscì persuasiva la prima parte di queste mie
osservazioni, e le trovarono sinceramente discusse ed esposte chiaramente,
avranno, spero io, dovuto ravvisare vieppiù quelle stesse doti nella seconda
parte, e mi lusingo che a malgrado delle interruzioni nel discorso, emergenti
da questa forma di trattazioni, non sarà loro fuggito il vicendevole
collegamento delle cose, e l’ordine in cui le ho fatte succedersi. — Che in
materia di dottrine generiche e di svolgimenti filosofici si possa di leggieri
peccare d’oscurità, e in Italia più che altrove, sin che un linguaggio
analitico non vi sia maggiormente diffuso, ciò è pur troppo dimostrato per
frequenti esperienze; però se gli stessi uomini di sì fatte cose intelligenti,
rinfacciano talvolta d’oscuro lo stile di chi le tratta, con ben maggior
sicurezza, e perfino con aria di trionfo vengono ripetendo gli ignoranti la
medesima accusa. Questa razza, incomoda veramente, perché sappia di
nulla, non resta già di metter lingua in tutto, ed esulta oscenamente
nell’orgoglio suo quando vede di poter finalmente quella stessa ignoranza,
che la caratterizza, addurre in prova ed argomento contra gli studi e le
dotratrine che superano di tanto la veduta e l’altezza sua. Il sapere e
l’erudizione vera non si aggirano già così volgarmente pei vicoli e per le
piazze, né si giacciono tanto scioperati, che, per modo d’esempio, il gustare
e il comprendere l’arietta e la canzoncina di Metastasio sieno una stessa
cosa col saper dimostrare da quali principi psicologici derivi l’efficacia
comparativa di quella stessa poesia, in confronto di una canzone del
Petrarca o d’una oda del Savioli. Cessi dunque la meraviglia se chi vuoto si
sente d’ogni vera sostanza intellettuale, privo di forte capacità e d’ogni
pregio sì di erudito che di sincero scrittore, fondasi pur baldanzosamente
sulla oscurità inerente al soggetto per motteggiare quindi sì fatte discussioni
d’ideologismo, di sentimentalismo e di filosoferie inutili. Tutto che ha il
nobile ed il sublime per puro scopo, è inutile a coloro che vanno per ogni
via in traccia dell’utile palpabile e tascabile. Adunque persona non formata
e cresciuta alla meditazione, non esercitata nelle indagini analitiche, non
devota a quella letteratura, ch’è scienza o fiamma, ma invece a quella ch’è
mestiere, tal persona, se non è impudentissimamente sfacciata, non adduca
più l’oscurità relativa a lei, cioè quella delle proprie tenebre, come assoluto
ed intrinseco difetto sì della dottrina che dello scrittore. — L’amor proprio
umiliato di chi non se ne intende, ha gran parte in questa guerra accanita
che molti sostengono tuttavia contro ciò che sa di razionale e di generico,
cioè a dire di veramente scientifico, giacché togliete il razionale dalle
scienze, e non avrete più che meri empirismi. Di questo accanimento anti-
filosofico, niuno per avventura segnò e scoprì in quello stesso amor proprio
le varie cagioni, meglio dell’Autore des apperçus philosophiques (Turin,
1816-1817, 3 vol. in 8°), scrittore nobilissimo3, dignitoso e leggiadro, a cui
avrei caro di sentirmi ligio sempre nelle idee e nelle dottrine4, come ligio
me gli professo nei sensi di rispetto e di ammirazione pel corredo ch’è in lui
d’ogni più splendida e più amabile virtù. Egli dice «Quant à la foule de
ceux qui dénigrent les études philosophiques ou qui en méconnaissent le
prix, je pense que leur aveuglement qui doit paraître déplorable aux yeux du
métaphysicien, est tour-à-tour le produit de plusieurs causes différentes.
Une véritable ignorance qui confond l’abstrait avec le chimérique ou avec
l’incompréhensible: un certain éloignement pour ce qui n’est propre qu’à
éclairer et à fortifier la raison: un penchant irrésistible pour tout ce qui parle
aux sens et à l’imagination: une avidité insatiable de notions personnelles et
de faits qui amusent la curiosité, ou qui, en ornant la mémoire, l’aident à
remplacer un sens profond ou un esprit inventif; enfin une préférence bien
naturelle pour ce qui s’applique immédiatement aux besoins, aux
embellissemens et aux commodités de la vie; telles sont, à mon avis, les
principales causes de l’indifférence qui fait bailler bien des gens au seul
nom de métaphysique, de l’injuste courroux qu’il allume dans certaines
personnes, du mépris qu’il excite dans quelques autres individus et que
ceux-ci manifestent par un sourire aussi indécent que digne de pitié» (p.
134, 3me part.)… «Les beaux esprits, les gens du monde, les faiseurs
d’affaires qui se moquent de la métaphysique (et qui en font
continuellement, sans le savoir), ne songent pas que l’une de ses principales
fonctions consiste dans le véritable emploi de ce dont ils font eux-mêmes
souvent un assez mauvais usage. Mais pourquoi ces messieurs prendraient-
ils la peine de remonter si haut?» (pag. 154)5.

1. Silvio Pellico.
2. Allude alle terzine:
Ragion della beltà! Mite e sereno
l’è sempre il cielo, e all’eternal sorriso
s’innamora la terra e infiora il seno.
Per entro al core andar ti senti un riso
poi ch’all’altura di Colonna aggiunto
scopre il guardo quel dolce paradiso.
Esclami allor di maraviglia punto
«Vello, vello», e già voli, e già il diletto
di vagarvi solingo il cor t’ha giunto.
3. Il marchese Ottavio Alessandro Falletti di Barolo: su di lui si vedano le pp. 638-640 di questo
volume.
4. «È un’evidente allusione al diverso giudizio che il Falletti e il Di Breme facevano dell’idealismo
filosofico e del romanticismo».
5. «Nel medesimo capitolo il Falletti così dichiara che cosa egli intenda per metafisica (p. 136):
“Ce que l’on appelle proprement philosophie, embrasse la vaste connaissance de l’homme
intellectuel et moral, l’art de raisonner et la science des principes, c’est-à-dire de ce qu’il y a de plus
abstrait et de plus général dans toutes les sciences. La métaphysique qui se compose de l’idéologie,
de cette même science des principes et de ce même art de raisonner, constitue donc avec la morale
son alliée ce que nous appelons philosophie”».
PIETRO BORSIERI
AVVENTURE LETTERARIE DI UN GIORNO
O CONSIGLI DI UN GALANTUOMO A VARI SCRITTORI

… Seggendo in piuma
in fama non si vien, né sotto coltre.
DANTE, Inferno, XXIV.

L’opuscolo apparve il 19 settembre 1816, senza nome d’autore, col titolo


qui riprodotto: a «Milano, presso Gio. Pietro Giegler, Libraio sulla Corsia
de’ Servi n. 603».
L’autore Pietro Borsieri, nato di famiglia nobile a Milano nel 1788, era
entrato nella vita letteraria con versi classicheggianti e con l’opuscolo:
Lettera di P. Borsieri, studente nell’Università di Pavia a Monsieur Guill…,
sul suo articolo circa il discorso del prof. Romagnosi, Milano, presso
Pirotta e Maspero, 1807. Il Guillon aveva risposto con l’opuscolo: Uno
contro più, ovvero risposta del signor Guill… socio dell’Accademia di
Mantova ecc. ecc., ai libercoli successivamente pubblicati contro certi suoi
articoli inseriti nel Giornale Italiano, Milano, Tip. di Giovanni Silvestri,
1807. Il Borsieri aveva replicato con altro opuscolo: Lettera di P. Borsieri in
risposta all’Uno contro i più di Mr. Guill…, Milano, Pirotta e Maspero,
1807.
Conseguita la laurea in legge nel 1808 con un Discorso sulla vita e gli
scritti di Alessandro Turamini [giurista], era stato accolto nella segreteria
del Ministero di Giustizia del Regno d’Italia e non aveva trascurato le
lettere, pubblicando nel 1810 e nel 1811 critiche vivaci al verseggiare
dell’Arici e del Minzoni. In quel periodo aveva sentito potente l’influsso del
Foscolo, il quale aveva di lui concepito molta speranza e, avvicinandolo in
una lettera al coetaneo Luigi Pellico, il 5 maggio 1809 così lo ammoniva:
«Leggendo stampato, e giustamente, l’articolo [di Luigi Pellico, sui
Sepolcri ], ho emessi dal santuario dell’anima prosperi vaticinii com’io feci
alla lettura del Turamini. Voi fate dunque ch’io non esca profeta bugiardo, e
se studierete insieme e ciarlerete, e conviverete, uno ripulirà la rozzezza
dell’altro, ed aguzzandovi insieme, come due spade, riuscirete più taglienti,
più acuti, più luminosi. Questi consigli siano bevuti e digeriti più da te che
da Pellico: benché egli sorga albero lento e tortuoso, ha non pertanto radici
profonde e metterà fronde di bel verde cupo e rami succosi, e il vento e la
tempesta lo nutriranno quanto la rugiada e il sole. Tu se’ invece cresciuto e
spiri colore e calore, ed odore di primavera di maggio, ma temo che
l’impazienza e le passioncelle e gl’impeti, ti sieno grandine, sì che
l’autunno non goda delle tue frutta, esempio frequente tra milanesi».
Caduto il Regno Italico e rioccupata nel 1814 la Lombardia dagli
austriaci, il Borsieri era stato assunto nel 1816 come protocollista del
Tribunale d’Appello. Per il primo fascicolo della Biblioteca Italiana, a cui
era stato invitato a collaborare, aveva preparato un prospetto della nostra
letteratura, nel quale accennava alla decadenza letteraria dell’Italia ed
esortava a studiare non solo i classici nostri, ma anche le letterature
europee. L’articolo non era stato pubblicato. Per som-movere la letteratura
contemporanea, rendendola collaboratrice di civiltà, aveva allora ideato col
Di Breme e col Pellico un giornale drammatico morale, Il Bersagliere; ma il
disegno era rimasto in aria. In quell’accesa atmosfera, tra l’odor di polvere,
che veniva dalle polemiche suscitate dall’articolo della Staël Sulla maniera
e sulla utilità delle traduzioni, egli ideò e compose le Avventure letterarie di
un giorno, argute, sorridenti, caustiche.
Aveva quindi collaborato al Conciliatore, nel quale è sua l’Introduzione e
gli appartengono i seguenti articoli: Un vecchio giornalista al Conciliatore;
Gl’Italiani, Sugli usi e costumi d’Italia, opera del Baretti, tradotta
dall’inglese; Sullo spirito profetico dei poeti; Sulla storia delle Repubbliche
Italiane del medio evo di J. C. L. Sismondo Sismondi, tradotta; Sugli Idillj
di Gessner, tradotti da Andrea Maffei; Petrarca difeso da una critica di
Hume; Sulla noia; Il regalo; Intorno alla Vita e alle Opere di G. B.
Corniani, memorie di Camillo Ugoni; Lettere di un giovane spagnuolo
intorno ad un suo viaggio per Salamanca ed agli studi di quella università
La scuola della maldicenza, commedia di Riccardo Brinsley Sheridan,
tradotta da Michele Leoni; Alcune idee sulla volubilità e sulla costanza;
Storia di Lauretta; L’Asino d’oro d’Apuleio traslatato dal Firenzuola;
Notizie sullo storico Giovanni Müller; Riflessioni sulla felicità privata, di
Nicola Columella Onorati; Analisi del Pregiudizio secondo le idee del
Sismondi; Sermoni d’Ippolito Pindemonte; Prospetto generale della Storia
Politica d’Europa nel M. E. di G. Müller; I Rivali, commedia di Riccardo
Brinsley Sheridan, tradotta da M. Leoni; El sì de las Niñas, commedia di D.
L. Fernandez de Moratin; Cenni su vari storici; Equejade, Monumento
antico di bronzo del Museo Nazionale Ungherese, considerato ne’ suoi
rapporti colL’antichità figurata da Gaetano Cattaneo; Dissertazione
dell’avv. Serafino Grassi, indirizzata alla Reale Accademia torinese di
scienze e belle lettere, in lode di Vittorio Alfieri. Fu quello il periodo di più
intensa attività letteraria del Borsieri; ma gli articoli, che veniva
profondendo sui più vari argomenti, non eran l’opera, che tenesse la cima
de’ suoi pensieri. Era questa una tragedia, Tasso, che da alcuni anni veniva
ideando e preparando a sbalzi e che nel disegno definitivo aveva preso la
forma di una trilogia, sopra un vasto sfondo storico-fantastico. Se non che il
30 aprile 1822 il Borsieri fu arrestato dalla polizia austriaca, come sospetto
per azione politica liberale, e l’opera fu troncata. Condannato il 21 gennaio
1824 a vent’anni di carcere duro, fu mandato allo Spielberg. Ivi tentò di
continuare, a memoria, la tragedia Tasso e si affaticò a comporre e a ritener
con la mente una cantica in terza rima Il prigioniero; un carme su Le origini
dell’Umanità, ispirato alla idee di G. B. Vico sui primordi e sul corso della
vita civile delle nazioni; un romanzo poetico in versi sciolti, Palla
d’Altavilla. Pensiero e fantasia erano la sola libertà che la polizia non
potesse porre in catene; ma quel lavoro mentale, intrapreso nella più
opprimente solitudine, senza carta e senza libri, quando il corpo languiva
privo di sostentamento, a lungo andare accresceva l’estenuazione, senza
giungere a compimento, sebbene fosse il solo alto conforto che il
prigioniero potesse trovare in se stesso: e non rimase se non come ricordo
della compagnia, che il carcerato in sé cercava.
Pietro Borsieri
(Milano, Museo del Risorgimento).
Tredici anni passò così il misero; finché, scomparso l’implacabile
Francesco I d’Absburgo, il nuovo imperatore, Ferdinando I, dispose che i
condannati politici potessero scegliere o di finir la prigionia o di esser messi
al bando perpetuo. Il Borsieri partì per l’America nell’agosto del 1836 e
soggiornò in durissima povertà a New-York, a Princeton, a Filadelfia,
facendo il maestro ambulante di italiano. Ritornò in Europa nel 1838 e fu a
Parigi e a Bruxelles, dove strinse amicizia col Gioberti, che l’ebbe caro non
solo per i dolori sofferti, ma per la franchezza del carattere e per
l’intelligenza. Nel 1840 gli fu finalmente consentito di ripor piede a Milano;
ma la vita più non poteva ormai essere rifatta. Tradusse dall’inglese un
romanzo di G. P. R. James, Il Corso de Leon o il Masnadiere, e lo diede alle
stampe con una meditata prefazione, nella quale, come già nelle Avventure
letterarie d’un giorno, considera il romanzo, in genere, come opera più di
morale ed eloquenza che di poesia, e dichiara di aver voluto tradurre Il
Masnadiere, sebbene non sia il migliore romanzo dello James, per la fedeltà
storica dei fatti narrati, per l’ampio concepimento e per l’attrattiva che
aveva sul suo animo il veder la virtù travagliata ma finalmente felice. Il
pensiero più notevole di quell’introduzione è quello in cui, accennando alle
opere che traggono vigore da un’intensa vita morale e religiosa e a quelle
che, sotto specie elegante, diffondono corruzione, osserva: «Il vero, il bello
ed il buono sono nel mondo dell’intelligenza quello che nel mondo fisico le
tre dimensioni dei corpi: indistinguibili. Avviene forse per questa legge,
che, nel corrompersi de’ costumi e della vera grandezza di un popolo, le
lettere, che sono l’espressione della civiltà, scadano anch’esse, e il gusto
volga visibilmente prima al manierato, poi al barbaro».
Alacre era dunque ancora la sua intelligenza e avrebbe potuto, in
condizioni propizie, dare altri frutti; ma il meschinissimo compenso che gli
venne dalla traduzione, la vita piena di stenti che era costretto a condurre, le
difficoltà domestiche furono una remora al desiderio di scrivere, che pure di
tratto in tratto in lui si ridestava. Quello fu l’ultimo suo lavoro letterario.
Nel 1848, dopo la cacciata degli austriaci, salutò a nome di tutti Vincenzo
Gioberti al Circolo patriottico radunato in Santa Radegonda, e seguì
l’esercito piemontese combattente per la libertà d’Italia. Ma la battaglia di
Custoza travolse i primi prosperi eventi e le speranze ed egli riparò a
Torino, dove fu ospite di Giacinto Provana di Collegno; fu quindi per alcun
tempo a Bellagio nella villa degli Arconati, che da decenni erano i suoi più
larghi soccorritori, e poi in altri luoghi, come un nobile italiano ramingo,
che le sventure avevano ridotto all’ombra di se stesso; e morì, povero e
deserto, a Belgirate il 16 agosto 1852.
Aveva dunque avuto ragione il Foscolo, allorché aveva intraveduto che
l’autunno non avrebbe goduto dei frutti, che l’albero prometteva in
primavera? Soltanto in parte, perché il motivo non furono «l’impazienza e
le passioncelle e gl’impeti» furono le prove amarissime e sfibranti, alle
quali dovette sottostare nella prigionia e dopo la prigionia. Ma l’esempio
del patimento, fortemente da lui sostenuto, rimane vivo nella storia morale
dell’Italia.
Nel 1843 il Borsieri stesso così riassumeva la sua vita letteraria,
scrivendo al Gioberti: «Cominciai con scritti polemici, a cui tenne
dappresso un libretto sotto forma di romanzo, il cui soggetto era un misto di
storia letteraria contemporanea, e d’estetica applicata alle opinioni, e anche
agli errori, correnti allora in Italia. Non so se conosciate le mie Avventure
letterarie — tale era il titolo del libro — che piacquero in Italia e fuori, e mi
ottennero in iscritto il suffragio della Staël, ed a voce quello di Byron. Una
cinquantina d’articoli, la più gran parte dei quali nel Conciliatore, parvero
non contraddire a que’ miei principî; ma tutte queste sono cose da giovane,
più valutabili per le speranze dell’avvenire che per se stesse. Le mie
traduzioni dell’Antiquario di W. Scott [Milano, Vincenzo Ferrari, 1823-24]
e del romanzo che avete molto benignamente giudicato [Côrso de Leon o il
Masnadiere, di G. P. R. James, Milano, Borroni e Scotti, 1843], né
aggiungono né tolgono. Ma come scrittore d’opere proprie, vuoi di prosa
vuoi di verso,… io indulgo al mio amor proprio col considerarmi quasi un
albero fulminato in sul crescere, dal quale il cultore non ha cavato frutto, né
piacevole ombra la terra».
L’ultima triste riflessione non può essere da noi accolta così crudamente.
Nelle Avventure letterarie di un giorno e in alcuni articoli, apparsi nel
Conciliatore, rimangono quel «colore e calore ed odore di primavera di
maggio», che il Foscolo fin dal 1809 aveva in lui presentito.
DIALOGO CHE SERVE DI PREFAZIONE

Deh, sospendi il mio scorno! aprimi, leggi.


ALFIERI1.

UN LETTORE E IL GALANTUOMO

L. Ella dunque è il Galantuomo che dà consigli a vari Scrittori, e che


viene a dircelo in istampa?
G. Io per l’appunto, ne ha forse meraviglia? Un Galantuomo è persona
rara nel mondo, e mi pare che si possa annunziarlo al Pubblico come ogni
altra rarità.
L. Benissimo; ma perché mai intitola il suo libretto, Avventure Letterarie
d’un giorno?
G. Per due sane ragioni. La prima, perché riferisco in esso non solo i
nudi consigli, ma ben anche alcuni incontri letterarii che mi sono occorsi
nello stesso giorno; e m’hanno porta occasione di darli a diversi Sapienti
con barba e senza. La seconda, perché voglio che i Pedanti possano dirmi
trionfalmente che il titolo pecca di dubbio senso, significando del pari tanto
le Avventure di un sol giorno, quanto quelle avvenute in qualunque periodo
di tempo già trascorso. Avvertita che avranno una sì profonda avvertenzaa,
non sarà forse un bel vederli battersi la fronte, e sospirando e gemendo,
esclamare con voce moribonda che «la lingua non è più lingua, che la
grammatica è zero, che l’Italia s’innabissa, e la buona letteratura va in
perdizione»?
L. Se la cosa sta in questi termini, Ella intraprende a scrivere
espressamente per iscriver male, ed è un Galantuomo ben singolare. Ma
come staremo a giudizio, a urbanità? questa dote non dovrebbe mancarle.
G. E non mi manca, e possiedo un’urbanità che m’è tutta propria, e
consiste nel dire in modo schietto schiettissimo tutto il mio vero. Abbiamo
in questa nostra bella e coltissima Patria tre giornali letterarii2, che si
assalgono l’un l’altro per rapirsi il privilegio di distribuire, o di togliere la
fama a loro talento. Abbiamo ancora qualche recente Scrittore, che ha
notato l’ingiustizia di certi loro giudizii3. Che vuol ella? Mi è parso, che si
possa insegnare e ai Giornalisti e agli Scrittori a far meglio l’officio loro, e
vengo a pagare il mio obolo con questo scritto.
L. Sì, sì, l’intenzione è buona; ma i suoi consigli non avranno autorità.
Ella non mi sembra né un Accademico, né un Grecista, né un Poeta, né un
Letterato in somma.
G. Non fo la professione di letterato, ma e che per questo? La letteratura
non è altro che l’arte di parlare alla mente ed al cuore degli uomini
educati: basta sentire, per poterne giudicare.
L. Tutto bene, ma i letterati le opporranno l’eccezione d’«incompetenza
di giudizio», e la sua «Sentenza» si avrà come per non pronunziata.
G. Per carità lasciamo ai forensi le loro distinzioni e le loro eleganze; e
se a tutta forza ella vuole che per iscrivere il vero convenga essere
letterato, io da questo momento lo sono.
L. Come? io non l’intendo.
G. Non è cosa più facile di questa a’ nostri giorni. Conosce ella
Leandro? or bene, in quarant’anni di vita è riuscito a scrivere un articolo
di Giornale

Più breve d’un’epistola laconica;

eppure egli si chiama, ed è creduto letterato! Altri hanno stampato una


cinquantina di SCIOLTI, ovvero hanno studiato la grammatica greca, e
sono letterati! Altri persino hanno stampato il proprio nome in un biglietto
da visita, ma tanto e tanto hanno stampato, e sono letterati! Ella può
dunque intendere, che dal momento che ho disteso questo scrittarello e che
lo stampatore ne ha composto le sue tavolette, sono divenuto un letterato
ancor io.
L. In questo senso ella ha ragione. Ma vediamo or via questo suo
scrittarello; in quanti capitoli lo ha diviso?
G. In nove grandiosi capitoli, e sono - Io - La Compra d’un buon libro -
La Visita - Il Caffè - Il Passeggio - L’Incontro d’un poeta - Il Pranzo - Il
Teatro - e Alcune Riflessioni un po’ serie.
L. Come, come? questi sono capitoli di critica sui giornali e sulla
letteratura italiana? che razza d’intitolazioni!
G. Il nome, signor mio, non fa la sostanza delle cose; e se leggerà que’
capitoli da capo a fondo, troverà che formano un tutto.
L. Lo strano libro che vuol essere il suo! ne parlerò a’ miei amici; buono
o cattivo che sia, gliene farò vendere molti esemplari. Ma intanto come si fa
ad averne uno?
G. Si rivolga al Libraio.
L. Veramente, signor Galantuomo, ella è molto asciutta nelle sue
risposte!
G. Signore, io non iscrivo, come s’usa oggidì, per fare il mercante. La
riverisco.

a. Nota bel modo di lingua!

1. È un verso del sonetto, con cui l’Alfieri, innanzi alle Satire, si volse Al malevolo lettore.
2. La Biblioteca Italiana, lo Spettatore, il Corriere delle Dame.
3. Ludovico di Breme.
CAPITOLO PRIMO
IO
Dic, mihi, Musa, virum.
HORAT.
Canta, o Musa, l’Eroe.

Non debbo essere biasimato, se prima di pormi a piè pari nella materia
che ho assunto a trattare, credo sommamente opportuno di parlare di me
stesso. È sì dolce cosa il parlare di se stesso! Tutti gli Scrittori sogliono
farlo più o meno lungamente; né solo gli Scrittori e i Magistrati e i Guerrieri
e gli Artisti, ma ben anche l’immensa e piacevolissima schiera di tutti
coloro che altro non sanno che bere, dormire, e mangiare, e tornar a
mangiare, bere, e dormire. Io sono dunque un Eroe! Non già qual era
l’Ulisse d’Omero, insigne per avvedimenti inaspettati e per frodi ingegnose;
né quale l’Enea di Virgilio, eternamente memorabile per l’edificante
divozione verso i suoi lari; e per la fermezza d’animo, colla quale
abbandonava sul lido dell’Affrica, allora ospitale, una bella ed infelice
Regina, che lo aveva ristorato dei danni di tanti naufragi, e gli offeriva un
trono dopo avergli conceduto l’amore. Questo era l’eroismo d’altri secoli e
d’altri costumi. Ma grazie agli Alessandri ed ai Cesari, ed a que’ pochi
Grandi che con piante insanguinate hanno percorsa la terra, sagrificando al
simulacro della gloria fra il pianto e le strida delle nazioni, grazie, dissi, a
costoro il mondo è riuscito a formarsi una ben più nobile idea dell’eroismo.
Pure non concedendo il cielo a ciascuno di noi, come tutti sappiamo, di
divenire conquistatori; ed essendo io, come tutti non sanno, il più oscuro fra
gli oscuri mortali che calpestano il volto della madre terra, voglio che
s’intenda che nel chiamarmi un Eroe mi pongo in burla; e che dalla onesta
libertà colla quale rido di me stesso, gli altri si attendano di vedermi ridere
di loro. Fare pei nostri simili ciò che si fa per se medesimo, è precetto di
natura, ed io non voglio violarlo.
È dunque primamente da sapersi che l’indole mia nativa si compone di
un fondo di vanità da fare spavento, se la vanità potesse atterrire; ma che
per una strana mescolanza degli elementi del mio essere, sono ad un tempo
tanto ingenuo da far credere a molti ch’io pecchi d’innocenza. Con quanta
fiducia non mi sono messo in viaggio sull’angusto sentiero della vita! Ad
ogni passo che io moveva, qui mi pareva d’incontrare un tranquillo filosofo
che cercasse il vero pel vero, non per l’orgoglio di trovarlo: là, un uomo
tutto caldo di magnanimi sentimenti, ognor pronto al beneficio e a
moltiplicare gli ingrati: da quel lato, un poeta rapito dall’ammirazione della
bellezza, ardito, leale: da questo, un politico che libra severamente i diritti
dei pastori de’ popoli, risale alle fonti segrete de’ vizi sociali, consiglia il
meglio, e rafferma i nodi della concordia universale. Ora so dirvi che
procedendo di questo passo io ruinava. Sono caduto in tanti inganni, ho
scoperto tante volte l’errore ove credeva d’aver appresa la verità, che
finalmente mi è pur stato forza correggermi. Senza disperare affatto
dell’esistenza della virtù, ho imparato però a non lasciarmi illudere dalle
belle apparenze, ed ho detto fra me stesso: Questo mondo, ove tanti milioni
d’uomini corrono affannosamente dietro l’immagine della felicità che li
fugge, è simile ai palazzi incantati dell’Ariosto e del Tasso. Là ti aggiri per
gli atri e per le ampie sale; che bei cori di Ninfe incontri da per tutto!
Quanti amici t’offrono la mano, quante seduzioni ti preparano l’amore e le
grazie! Non fai che passare d’una meraviglia nell’altra. Statue e dipinti
d’artificio raro, colonnati di rubino, mura fiammanti d’oro massiccio. Ma
cerca le fondamenta, se puoi, e troverai che confinano coll’inferno. E se
anche non le cerchi, giunge il giorno pur troppo, in cui la ruvida realtà
accostandosi alle mura fatate, le tocca col suo scettro di purissimo elettro; il
palazzo va in fumo; ti vedi solo in mezzo ai precipizi, sotto montagne
coperte di neve, circondato da laghi di asfalto e di fiamme, mentre dall’alto
ti guardano e ridono la tua disperazione, i maghi le fate e i demoni che più ti
allettavano con vane sembianze.
Sì certo, signori miei, quando un amico v’abbraccia, ricordatevi ch’ei vi
porrà la mano sul cuore per esplorare come palpiti. E quando una «Bella» vi
sbalordisce in tre minuti con tutto il frasario del «sentimento», ricordatevi
ch’ella pensa a trasformarvi come Alcina ed Armida. E quando o forti
passioni o sincere opinioni vi fanno parlare, ricordatevi che le intenzioni più
pure saranno malignate, e che non manca una razza di farfarelli, i quali,
nulla operando o scrivendo di bene e parlando sempre come se vivessero la
vita di Catone o di Socrate, non hanno sulle labbra che «amore
dell’umanità», «progressi dell’incivilimento», «entusiasmo per la virtù»,
«nobile indignazione pel vizio»: belli e sonanti paroloni, che non si ponno
oramai più adoperare dagli uomini ingenui, perché adulterati da tante
bocche profane.
Io dunque, che ho fatto il mio corso d’esperienze morali, ho capito che in
tempi infelici e fecondi di colpe non avrei vissuto tranquillamente, se non
prendeva la forte risoluzione di alterare in me il carattere che m’aveva
improntato la natura, foggiandomene uno fatto a bella posta per la nostra
età. Quel mio gran fondo di vanità, che mi facea tener caro persino il saluto
di un onest’uomo, l’ho trasformato in un disprezzo estremamente filosofico
di tutto, e di tutti. Quella ingenuità, per cui la cantava a tutto il mondo
com’io me la sentiva, la ho chimicamente combinata coll’ottimo correttivo
di un gran fondo di malizia; talché non dico mai il mio parere senza
metterlo in compagnia di qualche epigramma che lo sostiene dove zoppica,
e gli fa trovar grazia anche presso i più svogliati. La natura (mi sono
dimenticato d’avvertirvene prima) m’aveva imprigionato nel petto un
mortale nemico della tranquillità della vita, e consisteva in una tendenza
fortissima e prepotente a sentir compassione de’ mali altrui. Ma studiando
per mia fortuna un libro che va nelle mani di tutti1, e che è pregno di
sapienza, vi ho imparato che la compassione è conseguenza di debolezza e
qualità da fanciulli e da donne; che è una virtù «interessata», come tutte le
altre umane virtù, perché soccorre agli altri per liberare noi stessi dalla vista
dolorosa dei loro dolori. Persuaso per tal guisa, sebbene a fatica, che
quando mi pensava d’operare secondo la virtù, non operava in effetto che
secondo l’egoismo, mi sono risparmiato l’incomodo di compatire e di
soccorrerea. Anzi notando minutamente le vere maniere del bel mondo, mi
sono presto avvisto che il non far bene a veruno è una dote comune ed
essenziale a tutti coloro i quali vogliono mostrarsi liberi da ogni
pregiudizio; ma che per ottenere l’intera gloria d’una perfetta purificazione
delle idee e dei costumi volgari, è di più necessario fare un tantino di male
agli altri omiciattoli di creta che ne circondano e ne impediscono per via.
Ond’io guardandomi intorno, e vedendo preoccupate dai più solenni maestri
dell’arte le migliori occasioni di segnalarsi in questa nuova maniera di
civilizzazione, e non volendo anche rinunciare affatto a quella mia nativa
umanità (poiché si può ben piegare la natura, ma non distruggerla), ho
scelto la classe dei letterati per esercitare sovr’essa, meno malignamente
che sia possibile, il mio flagello tormentatore. Inclinava ad appigliarmi alle
donne, ma in questa carriera i concorrenti sono infiniti, e la gloria
d’inquietarle è fuggitiva come la loro bellezza. I letterati all’opposto, o più
veramente quelli che si dicono tali, mi convengono a meraviglia. Io voglio
prima di tutto fare un male tenuissimo, e questo mi riuscirà col mortificare
un tal poco la loro burbanza; col farli pubblicamente arrossire delle ma-
riuolerie colle quali si scroccano o s’insidiano la fama; col-Paccennar loro
quello che dovrebbono fare per meritarla. Voglio in secondo luogo che il
male sia temperato da qualche bene, e ognun vede ch’io raggiungo l’effetto
disingannando il pubblico, onorando i buoni Scrittori colla censura de’
cattivi, e dando coraggio colPesempio ai giovani e timidi ingegni, che si
lasciano sconfortare dall’infinito ronzìo e dalle punture di questo vespaio.
Voglio finalmente divertirmi come se parlassi con donne, e questo mi vien
fatto per la grande somiglianza che i letterati hanno con esse. Un articolo di
giornale, a modo d’esempio, vai poco più delle dispute che si fanno per una
cuffia o per un nastro. Ora un articolo di giornale basta ad occupare la testa
de’ miei FLAGELLABILI per ventiquattr’ore in un giorno, appunto come una
nuova cuffia fa invanire una femmina per lo stesso spazio di tempo. Le
brutte donne, per dare un altro esempio di somiglianza, si credono belle, e
dicono bellissime le più brutte di loro; ed egualmente i miei FLAGELLABILI,
cioè i falsi letterati, contrastano o negano il vero valore de’ buoni Scrittori,
e danno corone e istituiscono altari e apoteosi ai cattivi; e per tal guisa i
generosi mortali strisciano nella polvere, e l’Olimpo si riempie di
ciurmadori. Non finirei così presto se volessi continuare il confronto. Vi
basti per ora sapere che volgendo nella mente queste idee e questi
proponimenti, sono sortito l’altr’ieri di casa mia per recarmi alla LIBERIA
DEL GENIO e comperarvi un eccellente libro italiano. Là m’avvenne, o come
direbbe un linguista, m’intervenne ciò che leggerete nel seguente capitolo,
se questo non vi ha troppo annoiatib.

a. Egoismo non è voce italiana, ma è voce del mondo, e denota un vizio di tutti i paesi e di tutte le
età, e più specialmente della nostra.
L’autore, che in fatto di lingua rispetta la Crusca e l’autorità quando consuonano colla ragione, si è
servito deliberatamente di questo vocabolo, e di alcuni altri che non «andranno a sangue» ai pedanti,
e a quegli uomini dabbene che ripetono senza accorgersi i giudizii dei pedanti. Nel progresso di
questo scritto, egli avrà forse occasione di esaminare più a lungo le loro belle opinioni sulla gran
quistione della lingua.
b. Celebrare degnamente le maraviglie della natura e dell’arte che noi possediamo, e i libri degli
ingegni sommi che hanno fiorito e fioriscono in Italia, questo è, secondo l’autore, amare con candore
la vera gloria della nostra nazione. Compiacersi d’ogni menoma coserella, o chiamar grandi alcuni
uomini che realmente noi sono, solo per accrescere il numero e perché nacquero in Italia, questo
pargli che sia misera vanità alla quale taluni si abbandonano per moda, altri per zelo mal inteso
dell’onore italiano. E la vanità che è tollerata negli individui, non può esserlo nelle nazioni; nelle
quali per altro giustamente si loda l’orgoglio di se medesime. Vogliano pertanto i Lettori, onde non
scorrere con animo infenso i successivi capitoli, aver presente questa schietta professione di fede
dello Scrittore; nella quale s’ei s’ingannasse, la colpa sarebbe tutta della sua mente, ma non mai del
suo cuore.

1. I Principles of Morals and Legislation di Geremia Bentham, che considerava l’utilità, propria e
comune, norma della moralità e dichiarava esser la benevolenza il modo più adeguato al principio
dell’utilità. È il fondatore dell’utilitarismo, che riguarda il principio dell’utilità come base di ogni
estimazione pratica, perché l’uomo non agisce se non per desiderio del piacere e per fuggire il dolore.
Da quell’opera, apparsa nel 1789, e dai manoscritti del Bentham, consenziente l’autore, Stefano
Dumont nel 1802 aveva estratto i Traités de Législation civile et pénale, in cui i Principes de
Législation formavano la prima parte. Questo era il volume, che, in francese, andava da circa
quattordici anni per le mani di tutti.
La dottrina utilitaristica del Bentham fu accolta da molti con pieno consenso, perché la via era
stata preparata dalle opere De l’esprit (1758) e De l’homme (1772) di Claudio Adriano Helvétius,
sensista e materialista, vissuto dal 1715 al 1771, il quale aveva considerato l’egoismo come centro da
cui provengono le azioni dell’uomo. Perciò nel 1817 il Di Breme nel Grand Commentaire sferrò un
attacco contro Helvétius, le cui opere erano le tavole degli utilitaristi, i quali sostenevano che tutto
ciò che viene riconosciuto come bene si fonda sull’interesse. (Si veda il vol. Polemiche del Di
Breme, cit., a p. XII e XIV). Era, al contrario, un fervido benthamiano Pellegrino Rossi; e il Di Breme,
in omaggio alla libera discussione e con pieno rispetto dell’amico, aveva fatto pervenire nel 1816 alla
Biblioteca Italiana uno studio del Rossi sulle dottrine del Bentham, il cui «spirito» egli voleva
direttamente rivelare all’Italia (cioè, non più soltanto per l’interposta opera del Dumont), mettendo in
evidenza «l’alta importanza in ispecie e la fecondità del principio dell’utilità posto dal Bentham per
base del criterio legislatore». (Vedi A. LUZIO, op. cit.).
A sua volta il Manzoni, alcuni decenni dopo, nel 1850, nel Dialogo dell’invenzione, diceva: «Una
tale dottrina, non nova, dicerto (ché senza andar più indietro, è d’Orazio quel verso: Atque ipsa
utilitas, justi prope mater et aequi, in Satire, lib. I, III, v. 98), era stata da poco tempo rimessa in luce
e in credito sotto una nova forma, e con novi argomenti, da un libro intitolato: Dello spirito; libro che
era un discendente naturale e immediato d’un altro, intitolato: Saggio sull’intelletto umano [del
Locke]». In altre parole, la nuova scienza di vita, la così detta «Aritmetica morale», veniva diritta
diritta dal sensismo; e perciò gli pareva fallace.
Il Bentham visse dal 1748 al 1832. Le sue opere principali, per l’argomento qui contemplato, sono:
Introduction to the Principles of Morals and Legislation, 1789, cit.; The table of Springs of action,
1817; The book of Fallacies, 1824; Deontology, apparsa postuma nel 1834. Contro di esse si volse il
Manzoni nelle pagine Del sistema che fonda la morale sull’utilità (1855), aggiunte come appendice
al cap. III delle Osservazioni sulla morale cattolica.
CAPITOLO SECONDO
LA COMPERA DI UN BUON LIBRO
o Censura della «Biblioteca Italiana».
Est ne quisquam in hoc numero qui didicit Aritmeticen: cui
tandem rei? Qui certum doceat quot convenerimus gramatici.
Havvi alcuno fra noi che sappia d’aritmetica? — E perché
questo? — Perché possa dirci quanta è la turba de’ Grammatici
qui radunati.
ERAS. nel coll.o Sinodo
de’ grammatici1.

Entrando dunque nella libreria del «Genio», non potei difendermi da una
specie d’invidia, che in quell’istante m’assalì, della felice condizione del
libraio. Arricchirsi coll’ingegno e colle vigilie degli scrittori, senza aver
debito di professar loro gratitudine; conoscere uno dopo l’altro un’infinità
d’Originali che vengono a gettare il loro denaro per comperarsi la fatica di
leggere; e, stando seduto a grand’agio nel proprio negozio, vedere una turba
d’uomini e di donne che si rompono le gambe nella strada, e vanno in volta
dì e notte per le loro faccende, ecco la felice condizione del libraio, ma più
che di tutt’altri, del «Libraio del Genio».
Su via spicciatevi garzoncelli (diceva egli quando entrai), portate a que’
tre giovani Signori che son venuti ier sera un esemplare della Letteratura
del mezzo giorno e della Storia delle Repubbliche Italiane del medio Evo
del Sig. Sismondi2, un altro esemplare della Vita e del Secolo di Papa
Leone X, e della Vita di Lorenzo il Magnifico, del Roscoe3, e i sei Volumi di
Ginguenè sulla Storia letteraria d’Italia4. Spicciatevi dico. A quel
Gentiluomo che compra tutti i libri di bella letteratura e di buona filosofia
che vengono alla luce, manderete l’Allemagna di Madama Staël5, ma una
copia francese, intendete bene; le copie della traduzione italiana6 le
imballeremo per la Repubblica di S. Marino, per Monza, e per la nuova
Città di Varese. E tu scrivi su quel piego della traduzione del Corso di
declamazione di Larive7 questo indirizzo: AL SIG. VESTRI IBI UBIa, perché
prima di stamparla voglio le sue osservazioni; e fatto questo, spedisci il
Corso di Letteratura Drammatica di Schlegel9 a quel Professore che mi ha
rimandato indietro il Quadrio e il Signorellib.
— Gran faccende diss’io, gran faccende! aspetto ch’ella abbia respirato
per commetterle un libro ancor io.
— Perdoni; i compratori si pentono tante volte delle commissioni che mi
danno, ch’io m’affretto ad eseguirle per non lasciar luogo al pentimento.
— Molto bene, ma non importa. M’è stato detto ch’ella abbia ristampato
la Scienza nuova del Vico; vediamo con che caratteri, con che carta.
— Eccole un esemplare ed il manifesto. Ella potrà chiarirsi di tutto.
— Io leggo il manifesto: «Lo scopo di quest’opera è di provare che gli
uomini sentono il necessario, poi l’utile, poi il comodo, poi il piacere, poi il
lusso, poi lo scialacquo, e quindi la loro natura è primamente cruda, poi
severa, poi benigna, poi dilicata, poi dissoluta…». Ah sciagurati, ah
guastamestieri, questa è la Scienza nuova?… Questa sarebbe una scienza
vecchissima. Sig. Libraio, bruciate il manifesto, e fatevi restituire i vostri
due scudi dall’imbrattacarta che lo ha disteso.
— Che strano furore è il suo, disse il libraio. Prosegua a leggere e vedrà
che così definì quest’opera l’illustre Autore dei Secoli della letteratura
italiana10.
— Non so se questo sia, né voglio ora cercare i volumi del Corniani, che
ho conosciuto negli estremi e freddi giorni della sua incontaminata
vecchiezza. Ma se voi affermate il vero, il Corniani ha dunque scambiato lo
scopo della Scienza Nuova con una sola fra le mille idee ingegnose del
Vico, le quali concorrono alla formazione del suo sistema. E se questo è,
non avrò io ragione di adirarmi con que’ tanti che si lagnano degli ingiusti
giudizi degli stranieri sulle opere nostre, quando non sappiamo noi stessi né
giudicarle, né farle conoscere come si conviene? Lo straniero interroga i
nostri annali letterari e i nostri Giornali, per formarsi un’idea degli autori
italiani che noi più vantiamo. Se i giudizi che ne raccoglie sono imperfetti
od anche falsi, di chi ne è la colpa? Questi Giornali, questi Giornali…
— Adagio, adagio, riprese il librajo; quando ella tocca il proposito del
merito dei libri e dei giornali italiani, io non me ne intrico. Eccole là in
quell’angolo chi, ascoltate le accuse di lei, potrà farle ragione.
Mi volsi in quel mentre, e vidi un tale che se ne stava leggendo. Sentendo
parlar di sé, si rizzò, e con molta gentilezza venendomi incontro: «Di che si
tratta», disse, «e che si vuole da me?». Allora io, povero galantuomo, mi
levai il mio tondo cappello, ed egli il suo angolare e piumato; e così ci
femmo l’un altro due sperticatissime riverenze, che meritavano di essere
incise a perpetua memoria, tanto strambamente io feci la mia, e tanto
garbatamente egli seppe farmi la sua! Indi lasciando il linguaggio d’azione,
«Mi spiace», dissi, «che il librajo l’abbia disturbata per causa mia: Ella
studiava, ed io cicalava al mio solito; e mi doleva che i nostri Giornali non
sieno distesi con quella perizia, che è necessaria a far ben conoscere e
valutare con aggiustatezza in Italia e fuori le produzioni dei nostri ingegni».
— Ella, prese a dire il letterato con una vocina lenta lenta, ella non ha
una ma cento mila ragioni. Che erano mai e i Poligrafi, e gli Antipoligrafi, e
gli Annali di scienze e lettere, e i Giornali d’Incoraggiamento, se non
compilazioni dirette dallo spirito di parte, in cui si lodava si biasimava a
capriccio, e senza aver di mira la comune utilità? È vero che la lode è
proprio il mele di noi altri letterati; che la censura e il biasimo sono le armi
colle quali facciamo e battaglie e conquiste. Ma ci vuol giudizio in tutto, ci
vuol economia, arte; ci vuole insomma tuttociò che quei signori non
possedevano.
— Mi pare, diss’io, ch’ella faccia d’ogni erba fascio; ma ad ogni modo
non prenderò a disputare con chi deve saperne più di me.
— Oh sì, ella mi creda, mi creda pienamente; io sono in istretta alleanza
con tutte le alte e basse potenze della letteratura, e «so quel che dico quando
dico torta».
— Buon proverbio, ripresi, quando si tratti di pasticcieri, ma non di
scrittori. Pure che vuol ella significare con questo?
— Voglio significare che viste, esplorate, notomizzate tante magagne, la
bisogna va ora assai meglio; e che abbiamo finalmente una Biblioteca
Italiana, destinata ad emulare la Britannica, la quale farà del bene,
infinitamente del bene alla letteratura ed alla filosofia, ponendo sovra
giustissime lance tutti i libri che compariranno in Italia dal piede dell’Alpi
sino al capo di Palinuro.
— Ah per carità non collochiamo le nostre speranze nella Biblioteca
Italiana. Me n’è stato detto e scritto tanto male!
— Gliene hanno scritto male? e chi ebbe mai tanto ardire? Sarà forse
qualche letterato non invitato dai Compilatori ad essere loro collaboratore.
Già l’ho sempre detto! non si può fare il bene senza incontrare molti
nemici.
— Qui poi ella sbaglia. Chi me ne scrive è un amico mio, il quale paga i
suoi ventiquattro franchi di associazione alla Biblioteca; studia molto e
senza vanità, e vive nella solitudine della campagna per essere più vicino al
vero ed alla schietta natura. Ho meco la sua lettera, e se vuol sentirla…
— Veramente oggi parte lo spaccio della posta, ed ho una corrispondenza
epistolare-letteraria così estesa, che non mi resta quasi un minuto da
perdere. Pure scriverò dieci lettere di meno, ed ascolterò quella ch’ella
m’offre di leggere.
— In questo caso abbia la pazienza di sedere, perché la lettera è lunghetta
e scritta con qualche ripetizione; come accade ai solitari che non vedono
che se stessi, e l’oggetto a cui pensano, e non curano di esprimersi con
quella sobrietà che tanto si studia da chi vive in società e con molte
faccende. Intanto m’ascolti.
Lettera di un Solitario al Galantuomo.

«Carissimo,
«Ti scrivo disteso sull’erta di questa collina che mi ha veduto nascere, e
all’ombra di queste piante antichissime, intorno alle quali deve ricordarti
che abbiamo condotto assai volte le danze e i tripudi innocenti della
fanciullezza. Ti scrivo dopo aver letti i vostri giornali politici e letterari, dai
quali il maggior frutto ch’io ne derivi è di convincermi sempre più della
vanità delle vostre passioncelle e dei vostri studi. Sai tu che questa mattina
era deliberato di farti un’intemerata, perché co’ tuoi consigli m’hai indotto
ad associarmi alla Biblioteca Italiana? Quante speranze, borbotto adesso
fra’ denti,
Quante speranze se ne porta il vento!12

Quando mi annunziavi che si volevano unire i migliori ingegni d’Italia; e


s’invitavano tutti con lettere zelantissime a comporre un foglio periodico
che riuscisse di comune utilità, io credeva che finalmente questi migliori
ingegni avrebbero mossa la guerra alle mille e una pedanterie, che o
spengono o corrompono il pensiero nella nostra patria. Credeva (non parlo
di scienze fisiche o matematiche alle quali sono straniero) che i compilatori
della parte letteraria avrebbero preso le mosse da una giusta idea della
letteratura per ben riconoscere in questo ed in quel poema, in questo ed in
quel libro di storia, d’erudizione o di scienze razionali e morali, se i vari
scrittori abbiano corrisposto all’ufficio, allo scopo, e alla vera indole della
letteratura medesima.
Considerandola come «l’espressione elegante del maggior grado di
civilizzazione di un popolo in un dato periodo di tempo» (e credo esser
questa la vera essenza di essa)c, m’immaginava io a gran torto, come ho poi
veduto, che nel giudicare per esempio un libro di poesia, un buon critico
che dettasse letteratura nella Biblioteca Italiana non avrebbe circoscritte le
sue osservazioni o al meccanismo del verso, o alla censura dello stile e della
lingua, o al riscontro di vari tratti del suo poeta con quelli di altri antichi o
recenti Scrittori: cose che son pure da avvertirsi, ma non le sole, né le
prime; e che non eccedono la capacità di ogni Quintilia-nuzzo da liceo.
Ma presa occasione dal poema che si annunzia, svolgere le universali
teoriche del «sublime», del «bello», del «semplice», che sono i tre grandi
caratteri di ogni eloquenza di prosa o di verso, e riscontrarli praticamente
nel poema che hai per le mani; entrar ben addentro nella ragione poetica ed
oratoria dei vari generi di poesia o di prosa: addurre i precetti degli antichi,
e rilevare in che convengano in che discordino dalle teoriche o vere o false
dei moderni: saper segnare i confini della giusta imitazione dei grandi
modelli dell’antichità, per non confonderli colla cieca pedanteria che nella
sua servile e stupida riproduzione del passato non consulta né le nuove
abitudini e classi sociali, né i differenti costumi ingenerati da differenti
religioni e leggi e governi, come se il tempo che doma e tramuta tutte le
cose mortali dovesse lasciare le lettere eternamente le stesse per rispettare i
pedanti: fissare le opinioni sulla lingua, non già appuntando questo e quel
vocabolo come ommesso nella Crusca, né colle regolette del Cinonio13, ma
con quelle di Condillac14 e di Dumarset15: scegliere un vero tesoro di modi,
e provvedere secondo le leggi del gusto e della logica ai bisogni della
fantasia nella creazione delle immagini, ed a quelli del giudizio
nell’enunciazione delle idee: accennare i difetti ed i vizi congeniti a tutte le
lingue, e quindi anche alla nostra, le quali son nate a caso e furono parlate
in origine da uomini rozzi, né potevano essere in tutto rettificate dai grandi
ingegni che hanno ardito i primi scostarsi dal latino e scrivere nella favella
allora detta volgare: e finalmente non darsi a credere che chi serra in grandi
casse di ferro un’immensa quantità di monete di rame, sia realmente più
ricco di colui che chiude il puro oro in brevissimo scrigno; questi sono, o
m’inganno, se non tutti, gran parte almeno degli offici del buon critico. Del
buon critico, che voglia giovare all’Italia coll’arte sua; la quale dimanda,
per essere bene esercitata, forza ed acutezza di mente, infinita lettura, e
cognizione più che comune del sistema intellettuale e morale dell’uomo.
Però che vuolsi ben conoscere con che procedimenti la nostra mente
percepisca il vero, e il nostro cuore senta le passioni, per insegnar l’arte di
persuadere l’uno, e di eccitare le altre. E ben disse Mendelsohn16 che
quando un critico spiega il perché una produzione letteraria sia bella, egli
allora fa una scoperta in psicologia.
Io credeva ancora (vedi innocente ch’io m’era!) che parlando d’opere
istoriche i Compilatori della Biblioteca Italiana le avrebbero esaminate
sotto i quattro punti di vista dai quali si deve giudicare il pregio della storia,
cioè sotto l’aspetto «critico» quanto alla credibilità dei fatti narrati: sotto
l’aspetto «filosofico» quanto alla aggiustatezza delle congetture e dei
giudizi dello storico circa le passioni, i costumi, le azioni degli individui da
lui tratteggiati; sotto all’aspetto «politico» quanto alla scienza di stato
spiegata dai governi, alle leggi sancite, alle istituzioni promosse o fondate
di pubblica utilità sotto l’aspetto «letterario» quanto alla coordinazione di
tante parti in un sol tutto, ed allo stile.
Se pertanto l’autore dei trenta articoli letterari che sono comparsi nel
primo semestre adempia l’ufficio suo, e come l’adempia, ognuno per se
stesso sei vede. Né tu devi oppormi, tentando di sdebitarlo, l’angustia del
tempo colla quale i giornalisti sogliono scrivere. Chi impone ad essi la
necessità di dettare in due giorni ciò che vuol essere maturato per dieci?
Lessing per certo, l’illustre autore del Laocoonte17, soddisfece in modo
mirabile a così gravi doveri nella sua Drammaturgia d’Amburgo, giornale
con cui analizzando profondamente le migliori composizioni drammatiche
inglesi, francesi, ed anche italiane, giunse a redimere la Germania dalla
servile imitazione del teatro francese18. Baretti19 e gli Autori del Caffè20,
pubblicavano i loro fogli di quindici in quindici giorni; Gaspare Gozzi
scriveva da solo ogni settimana un foglio di stampa dell’Osservatore
Veneto21, e tutti costoro, negli speciali argomenti da essi trattati, s’accostano
qual più qual meno all’idea di un perfetto critico da me divisata. Perché
dunque la Biblioteca Italiana, che comparisce soltanto di mese in mese,
potrà ella sottrarsi a simili uffici? Non fu essa primamente annunciata ai
dotti d’Italia, come destinata ad infondere un nuovo spirito di vita nella
nostra letteratura? E per raggiungere questo utilissimo intento, non si deve
forse cominciare dallo stabilire e svolgere ampiamente i canoni della
filosofia del gusto? Poiché non voglio tacere che dopo Gravina, Calsabigi,
Baretti e Cesarotti22, io non so qual altro scrittore fra i moderni si rivolga
per istituto a meritarsi la lode di valente critico. Parini, ch’era un
grand’uomo, parlava dalla cattedra di lettere e d’arti con eloquenza
meravigliosa, e con pari squisitezza e sagacità di giudizi; ma nelle opere
postume di lui non abbiamo che pochi cenni delle sue profonde
meditazioni23 L’abate Villa scrisse un trattato dell’Eloquenza con molta
eleganza, ma per giudizio dello stesso Parini, con poca filosofia24. A che
dunque si stanno que’ giornalisti che credono dover esser distinti dal volgo
de’ loro colleghi; a che non istudiano, per quanto è da loro, di supplire il
difetto?
Tu sai, mio carissimo, che un eccellente Giornale non è infine, o non
deve essere, che una lunga e bell’opera di critica e di storia letteraria e
scientifica, distribuita a varie riprese per non generare sazietà, e per seguire
davvicino i successivi progressi dello spirito umano. Ora, poiché questa
Biblioteca Italiana è mista di scientifico e di letterario, io dirò ch’ella non
risponde, non solo all’intento di un eccellente Giornale, ma né a quello pure
che gli autori di essa si proposero. Volendo abbracciare e scienze ed arti
meccaniche e arti belle e tutto in somma che suol essere materia degli studi,
intesero (mi ricordo bene le loro promesse) «di scrivere non solamente a
quelli che degli studi fanno professione, ma a quelli eziandio che dagli studi
senza molta fatica aman di prendere onesto piacere»d. La parte scientifica è
pei dotti; la letteraria per noi altri ignoranti, che «senza molta fatica»
vogliam divertirci. Ed essi, credimi pure, vogliono scrivere senza molta
fatica. Perché, per esser utili ai dotti, non basta far l’esordio d’un articolo
menzionando chi ha scritto prima in quella materia; indi accennare per
sommi capi l’oggetto e le cose principali del libro che si annunzia, e
chiudere poi colle solite lodi dell’autore, e con quelle amorevoli
congratulazioni verso l’Italia, perché abbia prodotto chi sostenga l’onor suo
in ogni maniera di scientifiche discipline25. Lo sappiamo da un pezzo che
l’Italia è madre beatissima di grandi ingegni; e a forza di ripeterlo ad ogni
venticinque righe di stampa, non vorrei che porgessimo occasione ai
maligni d’arguire che noi cominciamo a dubitarne.
Ma continuando, sostengo che un estratto d’opera di chimica o di storia
naturale o di fisica o di matematica allora sarà utile ai dotti quando sia fatto
in guisa da rendere quasi superflua la compera del libro; cioè quando ne
risulti il progressivo sviluppamento delle idee e delle esperienze dell’autore,
si discutano quelle che sono il fondamento di molte altre accessorie; e
provata la verità dei princìpi, si cimenti il rigore delle conseguenze, si
verifichi l’esistenza dei fatti, si accennino le quistioni più difficili, e se non
sono sciolte nell’opera, si sciolgano dallo scrittore dell’estratto. Così si
giova a chi professa le scienze, e non può provvedersi di tutti i libri che
vengono in luce. Ma per quelli poi che appena conoscono gli studi severi,
anzi che giovare si nuoce, e non poco si nuoce, trattando gli oggetti
scientifici come fa la Biblioteca colle imperfette nozioni di ch’io diceva più
sopra. Perché o vuoi parlare in un breve articolo a gente appena iniziata
degli arcani di una scienza, e per quanto studi esser chiaro non lo sei mai
abbastanza, mancando in chi legge le idee intermedie necessarie a capirti.
Quindi la falsa intelligenza e l’errore. O vuoi non altro che sfiorare la
materia per porti in proporzione col lettore, e allora il regali di un mezzo
sapere peggiore assai, come io penso, d’un’assoluta ignoranza. Taccio della
noia che guasta il tutto, quando gli scienziati non sanno coi fiori
dell’eleganza ricreare per un istante le menti non avvezze alla meditazione:
noia, ch’è potentissimo inciampo ai progressi degli studi, e per consolarsi
della quale il lettore ricorre alla bella letteratura. E qui ritornandomi al
pensiero la «parte letteraria» della Biblioteca, dimanderei volentieri al
compilatore di essa26, se creda d’averci dilettati senza nostra «fatica»
parlando sì a lungo in particolari articoli di Descrizioni di fabbriche e di
basiliche, e di Memorie storiche di cattedrali, e di Medaglie restituite ad
una città nuova in numismatica, e della Sandracca degli antichi, e della
Correzione di un luogo di Davila27. Non già di una correzione per qualche
fatto importante, ma per una parola della sua storia, se cioè debba leggersi
la «pertica» o la «pratica» o il «portico» de’ «Bertoni»; alla soluzione del
quale stupendissimo problema, s’aggiunge come per soprap-più la fede
battesimale della parola «cabinetto», usata per la prima volta dal Davila.
Vorrei egualmente sapere da lui28, ove non temessi di comparire
indiscreto, s’ei creda d’averci dilettati od annoiati colle lunghe chiacchiere
sulla gran scoperta se i Greci e i Romani conoscessero non solo il «tornio
semplice», ma anche il «figurato», o per dirla dottamente sulla «torreutica».
E colle chiacchiere sul gran dubbio, se un verso di Giovenale sia suo o non
suo, cosa ch’io credo non starà molto a cuore né a Giovenale né a noi: e con
quelle sovra i «cavalli di Venezia»; per correggere le quali vuotissime
chiacchiere, è stato necessario che il cavaliere Schlegel mandasse alla
Biblioteca una sua lettera, in cui insegna al Giornalista con quale
«erudizione» si debbano definire le quistioni d’«erudizione» da chi
possegga più in là che il frasario de’ filologi; ed avverte come si debbano
rilevare gli errori degli scrittori anche valenti qual è Cicognara29.
Che dirò poi quando il nostro Giornalista lasciando l’erudizione, di cui ha
fatto sì bella mostra, prende a darci un saggio della sua facoltà oratoria e
filosofica? Che eloquenti consigli non dà egli a Bettoni editore dei Ritratti
degli illustri Italiani viventi30 (andate ora a dire che in Italia non s’onorano i
grand’uomini), che eloquenti consigli non dà egli, perché accresca la sua
collezione con molti altri nomi e volti che non ci sono? Non ti senti tutto
impietrire di meraviglia, quand’ei prorompe in quelle belle sortite di gelato
e composto entusiasmo, e dice per esempio: «Botta31 per me (come ch’io
mi sia minima parte di vulgo) sarà sempre uno de’ più benemeriti ed illustri
Italiani: io se potessi vorrei andare a Parigi per vederlo: come quel Gaditano
venne dall’ultima Europa per vedere Livio, né altro volle in Roma vedere».
«Domando a voi, sig. Bettoni, se dobbiamo dubitare di porre tra gli
illustri viventi Angelo Mai32. So ch’egli poco fa era ignoto a Milano, e so
che oggimai sarà famoso in Europa; so che qualunque altra nazione anche
abbondante di grand’uomini si vanterebbe di Mai. Oh fate che si possa da
tutti vedere quel volto pieno di ardore e di pazienza, necessari e rarissimi
strumenti ad ogni rara impresa, e fate che a’ nostri e agli stranieri si
accresca la meraviglia considerando ch’egli tanto abbia saputo fare sì
giovane»e.
Non è ch’io voglia con invida mente menomar le lodi dovute al Botta ed
al Mai. Ma tacendo per ora del Botta, chi è mai che onorando davvero gli
altissimi ingegni che sorgono fra mille, chi è mai che possa tacersi alla vista
di questo volgarissimo abuso di lodi, che senza distinzione si profondono
dai nostri mercadanti di lettere?
Dunque perché il sig. Mai sa di latino e di greco, ed ha la fortuna di
frugare in una Biblioteca in cui tutti non frugano; perché ha la pazienza di
rilevare dai vecchi codici i caratteri mezzo cancellati o dalle barbarie dei
monaci o dalla mano del tempo33, sarà egli per questo un grand’uomo da far
trasecolare l’Europa e insuperbire l’Italia?34. Dovrà egli essere posto del
paro con que’ pochissimi, che pubblicando opere proprie e famose nelle
lettere e nelle scienze, o ci consolano coll’amabile canto delle Muse della
brevità di questa vita affannosa; o rivelano con utilissime scoperte parte dei
misteri della terra e del cielo? Sarà certo una rara felicità per le lettere, se
quel benemerito erudito troverà qualche utile documento o volume, che sia
sfuggito alle ricerche di tanti altri filologi che lo hanno preceduto. Ma se gli
avverrà un sì bel tratto di sorte35 non sarà per questo dappiù di altri Italiani
eruditi pieni «d’ardore e di pazienza», che svolgono assiduamente i papiri
carbonizzati di Pompeia e d’Ercolano, e comunicano a tutta Europa in
preziosi volumi quelle reliquie dell’antichità, involate con felice pertinacia
alla prepotenza degli elementi e della fortuna.
— Alto là, alto là, signor lettore di quella lunghissima lettera (così
m’interruppe il libraio dal fondo del suo negozio), sento che qui si parla
d’eruditi e di ritratti e di lodi. Fo una postilla a ciò ch’ella legge, e me ne
vado.
Sul proposito del Mai, bestemmiava ier sera un poetastro qui a questo
banco, e gridando, come un indemoniato, voleva assolutamente bruciare tre
fascicoli della Biblioteca Italiana. Io a frenarlo, a placarlo, a fargli render
ragione di questa licenza poetica, poiché sapeva bene che m’avrebbe
bruciata anche tutta un’«annata» senza pagarmela. Finalmente gli uscì dalla
chiostra de’ denti, che pei Frammenti Plautini e Terenziani e per le
Orazioni d’Iseo e di Temistio36 trovati recentemente e pubblicati dal Mai, il
compilatore della Biblioteca37 non si accontentò di un articolo, ma ne volle
far tre; e che da questi, levando quelle lodi che già si sanno, e quelle
erudizioncelle che già si sanno, si raccoglieva unicamente che il Mai di tanti
versi plautini ne potè leggere pochissimi; che dal Terenzio ne trasse alcune
brutte maschere; che l’orazione d’Iseo tratta d’una eredità della quale più
non esiste nemmeno la polvere; che quella di Temistio è una discolpa sulla
taccia datagli di aver voluto fare il filosofo e il magistrato ad un tempo; e
che in fine noi tutti, esclusi il Compilatore ed il Mai, non sappiamo né di
greco né di latino. Così disse il poeta, e volendo lasciarmi un pegno della
sua rabbia, prese il fascicolo che vedete, e vi scrisse sopra
Puro scrittor d’articoli
Fai giganti i mezzani, e grandi i piccoli,
E s’io chieggo: Tal fallo emenderai?
Tu mi torni a ripetere, Mai, Mai.

A questi versi il letterato si contorce, il libraio ci pianta soli, ed io per


buona creanza:
— Lasciamo, dico, ai poeti il privilegio di sfogarsi con freddure, e con
epigrammi; e continuiamo a leggere38.
Io veggo, o carissimo, io veggo da questa mia solitudine l’attentato che i
falsi letterati vanno consumando contro le vere lettere. Pongono in alto gli
studi che formano il lusso della coltura, e nei quali per riuscire basta
appunto la pazienza e la volontà. Ma dove è necessaria una volontà
fortemente commossa dall’amor del vero, dove è necessario per sorgere
aver sortito dalla natura il privilegio d’una mente capace di profonde
concezioni, e di un animo squisitamente sensibile a ciò che è bello, grande,
virtuoso; dove in fine si vogliono le doti che formano i grandi poeti, i grandi
filosofi morali, i grandi escopritori d’incognite verità, ivi pochi riescono; e
si tenta scemare l’immensa lode dovuta a que’ pochi, coll’accomunarla a
molt’altri i quali non sconfortino colle opere loro la vanità e l’audacia del
volgo degli scrittori.
È poi bello vederli spiegare magnanimità in cose da nulla, e predicare,
per esempio, con affettato amore di patria che tutti dobbiamo giovarci del
vincolo della comune lingua nazionale, e che chi stampa o legge la
collezione delle migliori poesie scritte in dialetto milanese fa un torto
all’Italia, e impedisce o ritarda la diffusione dei lumi nel popolof.
Tutti sappiamo per certo, che i dialetti non debbono venire a paragone
dell’universal lingua d’Italia; e che sarebbe stoltezza scrivere in quelli un
libro di lunga lena o destinato alla comune utilità. Ma dall’altro canto, chi
non sa che i nostri vernacoli sono per la più parte tanto corrotti e distanti dal
vero idioma, che il popolo ineducato nulla o presso che nulla intende nei
libri; e che appunto per diffondere più facilmente una certa coltura nel
volgo, è opportuno consiglio il giovarsi di quel dialetto ch’ei parla ed
intende? Aggiungerò di più che questa è l’unica via di correggere, di
nobilitare i dialetti medesimi, e di condurli a poco a poco (quando chi scrive
sappia proporsi questo fine) a un maggior grado di somiglianza colla pura
favella, ampiandone così col soccorso del tempo e l’intelligenza e l’impero.
Con questo avvedimento scrivono i presenti Greci il loro Greco volgare,
e danno a tutti noi un utilissimo esempio. Né voglio tacerti un’altra mia
considerazione, per la quale bramo che sia più o meno conservato quest’uso
de’ dialetti scritti.
I dialetti, del pari che le lingue, sono immagine fedelissima delle
abitudini, dei costumi, delle idee e delle passioni predominanti dei popoli
che li parlano. Poiché dunque in Italia v’è tanta dissomiglianza fra l’una e
l’altra gente, che il piemontese e il napoletano paiono due diverse
generazioni d’uomini; e giacciono fra questi due estremi molt’altri popoli
con infinite gradazioni di somiglianza e di differenza, io stimo che un acuto
osservatore potrebbe dai vari dialetti scritti d’Italia desumere una verissima
storia delle parziali costumanze ed indoli italiane; presentarci
comparativamente la somma totale delle idee, dei pregiudizi, e delle
passioni popolari; ed insegnarci a conoscere noi stessi più profondamente
ch’ora non ci conosciamo. Ma di questo, altra volta.
Per terminar dunque la mia censura sulla Biblioteca Italiana, non ti pare
egli strano che nel giro di sei mesi vi tengano il campo tanti articoli
d’erudizione senza sostanza, o di tale sostanza che potrebbe raccogliersi in
cinquanta righe; e che poi vi si annunzi un solo trattatello elementare di
lezioni di logica e di morale di un professore delle Marche?40.
Non si direbbe che noi lungi dal consultare lo spettacolo vivente di tante
opinioni e interessi cozzanti, di tanti avvenimenti solenni della nostra età,
non altro sappiamo che cercare medaglie, scoprire iscrizioni, e scendere ne’
sepolcri, per contrastare alla morte il suo diritto di coprire del velo della
dimenticanza i vuoti monumenti dell’orgoglio dell’uomo? So che il
Compilatore della Parte letteraria ha voluto scusarsi di questo, allegando
che l’Italia è «ora abbondante di inezie o peggio»g in letteratura; e che un
giornale non potendo estrarre il buono dal cattivo, deve piuttosto «insegnare
a far buoni libri ed a leggerli». Veramente è questa la prima volta che mi
tocca di sentire che i giornali, e massime quelli della tempra della
Biblioteca, abbiano il modesto assunto d’insegnare a far libri. Ma dove vive
egli questo universale Maestro, e come ignora ciò che avviene sotto gli
occhi di tutti? Non si ristampano ora a Milano le Opere del Soave41, le
quali, parte appartenendo a scienze morali e metafisiche, parte essendo
traduzioni o di poemi o di trattati di bella letteratura, avrebbero aperto al
Giornalista un larghissimo campo di mostrarci il profondo suo sapere, e
d’istruirci? Non si è ora ristampata a Milano la Scienza Nuova del Vico,
originalissimo libro ch’io ti prego di provvedermi; nel quale indagate
dapprima e ben riconosciute le congenite proprietà della natura umana, e
raccolti i vari soccorsi della storia, delle lingue antiche, e delle tradizioni, si
piantano le basi d’una storia ideale del vivere civile, degli uffici e della
riposta indole della poesia, e del perpetuo ed inviolabile corso delle
nazioni? Non si stampa ora a Milano il Prospetto dello stato attuale delle
scienze economiche di Melchiorre Gioia42, che è la più bella storia e la più
filosofica che si possa scrivere di una sì preziosa parte dell’umano sapere?
Poiché, senza entrare nel parziale giudizio di questo ardito lavoro, non si
può a meno di lodare il profondo concepimento di uno Scrittore che col
metodo severissimo dell’analisi desume dagli Economisti più famosi di
tutte le nazioni «le sole idee diverse» ch’essi abbiano; le coordina in guisa
che dal loro contrasto o dal loro ravvicinamento si vede emergere l’errore
od il vero; e dalla nuova unione degli infiniti rapporti di esse, ne fa scaturire
nuove conseguenze che non si potevano attingere nei libri in cui siffatte
idee erano sparse, come frutti di separate meditazioni. Di tutte queste opere
perché non una sola parola nella Biblioteca?h Non si legge ora a Milano la
Storia della Guerra della Indipendenza degli Stati Uniti d’America, scritta
da Carlo Botta; quello stesso per vedere il quale, come già dissi, il nostro
Giornalista farebbe un viaggetto sino a Parigi, e forse a piedi? Or bene sulla
storia del Botta io non trovo sinora in tutta la Biblioteca che questa breve
sentenza: «Botta nella sua storia Americana (lasciamo pure che altri faccia
ro-more per minuzie) ha egregiamente mostrate tutte le virtù di grande e
immortale Istorico»i. A me non piacciono questi giudizi a maniera
d’oracolo. Per lodare degnamente conviene, credo, additare la ragione della
lode; e per difendere efficacemente, convien ribattere la censura.
Ora io dico che, per essere «grande ed immortale» istorico) (due
bagattelle), bisogna come i Taciti, i Machiavelli, i Gibbon43, i Robertson44,
gli Hume45 avere tal filosofia nella mente, che superi quella de’ tempi di cui
s’imprende la storia; perché allora lo scrittore non s’arresta alla prima
fronte, ma va nel midollo delle cose; e padroneggia col suo giudizio gli
uomini, gli eventi, e le opinioni di cui serba memoria per lume de’
contemporanei o dei posteri, e per affrettare i progressi dell’umanità. Né
sarebbe, parmi, scarso lodatore del Botta, chi temperando questi
complimenti letterari che s’usano in Italia, e coi quali si danno passaporti
per l’immortalità a chiunque gli voglia; non sarebbe, dico, scarso lodatore
chi lo chiamasse un buon istorico, il quale se non supera i lumi del secolo
almeno se ne giova. E infatti egli sa trasfondere nell’opera sua, insieme alle
proprie, le infinite considerazioni che opportunamente ha raccolte e dalle
discussioni del Parlamento Inglese, e dagli scritti che comparvero sulle
ragioni della guerra tra la madre patria e le Colonie Americane, e dai
giornali e da altre storie di questo memorabile avvenimento che tutto alterò
il politico sistema dell’antico e del nuovo Mondoj.
Che se anche il presente periodo degli studi italiani non fosse «fecondo
che d’inezie o peggio», siccome dice la Biblioteca, chi impedisce il buon
Giornalista di analizzare qualche solenne opera che venga pubblicata in
altre lingue, e di far intendere così che i buoni libri non scarseggiano
dappertutto? Chi lo impedisce di volgere uno sguardo addietro, e di
richiamare l’attenzione degli Italiani sui buoni scritti comparsi già tempo
sia di letteratura sia di scienze morali, che sono colla letteratura
strettamente congiunte, e che sole possono conferirle e sostanza e vigore?
Perché non darci cinque o sei belli articoli sul Genovesi, sul Beccaria, sul
Filangieri47, opere tutte non anche degnamente esaminate in Italia? Perché
non darci dei commenti non grammaticali, ma filosofici e letterari, dei
poemi immortali, o se non de’ poemi, de’ più bei tratti di Tasso, d’Ariosto,
di Petrarca, di Dante, che non sono ben conosciuti, poiché non sono dai
viventi bene emulati o almeno imitati? Perché non riaccendere in tutti il
desiderio di alcune opere che si leggono da pochi; analizzando per esempio
l’Uomo morale di Longano, allievo del Genovesi ed autore d’una Logica
eccellente48; o i Saggi Politici di Mario Pagano49, che scrisse come un
pensatore, e morì come un martire; o il Platone in Italia di Vincenzo Cuoco,
libro che cede all’Anacarsi in erudizione, ma lo supera in forza di pensiero,
e nel quale l’antica filosofia italica viene alle prese colla filosofia greca?50.
Né mi si dica che seguendo questi consigli, un Giornale s’allontanerebbe
dal suo precipuo scopo d’annunziare le nuove opere che vengono alla luce
in Italia. Che importa a noi che si annunzi e si esamini noiosamente un
cattivo libro, per la sola ragione che un cattivo cervello ha voluto
comporlo? O chi mai si dorrà che si parla d’opere antiche, quando le idee
che racchiudono sono ancor nuove per la più parte de’ lettori? Poiché,
trattandosi d’idee, non si può dire che le sieno vecchie o recenti misurando
il tempo sul quadrante dell’orologio, come si fa per la storia; e per esse tutte
le leggi della cronologia si riducono ad una sola, «la loro maggiore o
minore diffusione nella moltitudine».
Da tutte queste ommissioni, amico mio caro, conchiudo che c’è poca
suppellettile di filosofia e di buon gusto nella testa dell’ordinario scrittore
degli articoli della Biblioteca51. Non parlerò poi dello stile di lui, che potrà
forse venir lodato da chi nello stile voglia soltanto considerare l’uso della
buona lingua, od una tale collocazione di vocaboli che ricordi quella dei
Classici del cinquecento. Ma la scelta di pure parole, e la giacitura armonica
di esse, non è che la parte meccanica e materiale dello stile. L’intrinseca,
che ne costituisce l’essenza, è la forza del concetto, la luce delle immagini,
il calore degli affetti che debbono esservi per entro diffusi con giusta
proporzione; e con tale accoppiamento di modi italiani, che distingua la
maniera di uno scrittore da quella di un altro. Mirando a questi veri caratteri
d’ogni bello stile, non ti farà maraviglia se gli aggiustati periodi di quel
Giornalista mi riescono una infilzatura di alcune minute gemme di lingua,
fatta colla manifesta prurigine di mostrarsi appunto un linguista. E che
linguista dico io! che scrive tante parole senza saperne indirizzare nessuna
alla mente ed al cuore, e che ti stempra una mezza idea in trenta righe.
Fingiti una vecchierella coperta di veli ingialliti dal tempo, che chiusa in un
enorme guardinfante si mova alta sul tacco a passi di minuetto; e
all’anticaglie, al volume, al vuoto che c’è dentro, dirai: ecco lo stile di quel
Giornalista che vuole insegnarci a far libri! Io non sosterrò che tutta la parte
letteraria della Biblioteca sia distesa con una sì spaventosa vacuità. V’è qua
e là qualche eccezione, e ne farò io stesso una onorevole per l’articolo sugli
uomini dotati di gran memoria, che è scritto con criterio e con sale52. A
questo aggiungi pure le Illustrazioni di un passo di Dante53 e i due Dialoghi
di Matteo Giornalista con Taddeo suo compare54. Nelle prime, si fa una
sposizione di Dante con quel corredo d’idee senza il quale non dovrebbe
omai esser permesso di esporre interpretazioni, e dispute grammaticali. Nei
due Dialoghi poi, l’autore è costretto di raddrizzare tutte le storture del
collega; e sa farlo con molta grazia.
Pure mi farò lecito d’avvertire, ch’egli rinuncia qualche volta alla sua
naturale festività per derivare dal nostro Teatro Comico antico alcuni modi
arguti o faceti che presentemente hanno quasi perduta ogni punta; poiché
niuna cosa è sì cangiabile quanto il ridicolo e le sue allusioni. Così il
«paternostro della Bertuccia», e «ringrazio Domineddio che quest’acqua
non bagna pelo», e «addio Giovanni addio Lucca», e «il diavolo che tosava
i porci», e «per omnia saecula saeculorum», e «amen», e «S. Verdiana che
dava a beccare alle serpi», e «mi parea d’udir frate Cipolla»55 ec. ec. sono
tutte allusioni a idee religiose od a Monaci sui quali tanto martellavano i
begli spiriti de’ buoni secoli. Però in questa nostra gentilezza ed esteriore
decenza de’ costumi e del favellare, ottimamente farebbe lo scrittore di cui
parlo, di non resuscitare simili modi coll’autorevole esempio suo.
E tu frattanto prenditi in pace tutte le ciance che t’ho scritte; e considera
che i solitarii parlano a lungo, appunto perché parlano di rado. Addio.
— Signor mio — dissi al letterato, piegata che m’ebbi la lettera
dell’amico — che ne dice ella?
— Io? dico che la lettera è d’uomo che non conosce il mondo; che tutte
queste e più altre cose le sappiamo ancor noi, ma non le diciamo per non
tradirci; e che a dispetto di tante sottigliezze, la Biblioteca Italiana è e sarà
sempre un eccellente giornale.
— Ma sa ella che mi nasce un sospetto?… Non vorrei esserle
dispiaciuto… foss’ella mai un Compilatore della Biblioteca?
— Ella batte nel vero, io lo sono.
— Oh oh quanto me ne duole! quanto sono confuso!… Davvero, mi
creda, se l’avessi saputo avrei bruciata la lettera piuttosto che leggerla.
— No no si risparmi pure questo inutile rossore. Se ci fossero capitati
vari articoli che aspettiamo, l’amico suo non avrebbe avuto bel giuoco. Ma
noi non possiamo supplire, e i Collaboratori sono così lenti!… Basta,
dicano i critici ciò che vogliono, noi siamo così sicuri dei nostri associati,
che qualunque censura non può recarne alcun danno. Anzi scriva, la prego,
al Solitario che mandi qualche suo ghiribizzo alla direzione del nostro
giornale. Noi lo stamperemo col correttivo di castigatissime note; ed egli
avrà o quaranta esemplari o quaranta franchi per ogni sedici faccie di
stampa.
— Che vuol dire — ripresi — che le Signorie loro pagano le idee un
tanto al centinaio, come gli stuzzicadenti! Ora lo so ancor io perché
gonfiano le pagine con tanti paroloni, che sembrano idee ma noi sono… Ehi
libraio, tenete il prezzo del Vico, e mandatemelo a casa… Signore, mi
perdoni di nuovo; io la lascio ai suoi studii.

a. Distintissimo Recitante italiano, che sarebbe ottimo se non avesse l’obbligo di piacere anche alla
moltitudine8.
b. Due scrittori sull’Arte e sulla Storia del Teatro che non si possono più leggere da chi sappia di
quell’arte, specialmente il Quadrio nella sua opprimente e voluminosa Ragione e Storia d’ogni
Poesia11.
c. Sarebbero necessarie molte pagine a ben sviluppare la definizione sovra enunciata. Questo non è
né il tempo né il luogo. Ma per chi non intendesse affatto, si avverte che la letteratura constando di
poemi e di romanzi d’ogni genere, di storie e d’erudizione d’ogni genere, e di opere morali e
speculative sulle passioni e sull’intelletto, e le quattro facoltà che devono insieme concorrere alla
creazione di simili opere, cioè la memoria, la fantasia, la sensibilità, e il ragionamento, essendo
potentemente modificate negli Scrittori viventi dallo «stato» della «Società» in cui sono collocati, ne
viene di conseguenza che la letteratura, presa in astratto, è l’«elegante espressione del maggior grado
di civilizzazione di un popolo» nell’epoca in cui fioriscono gli scrittori istessi.
d. Vedi il Proemio della Biblioteca Italiana.
e. V. fasc. II della Biblioteca pag. 166.
f. Vedi su questo argomento l’articolo della Biblioteca Italiana Fascicolo II, pag. 173, ove
lungamente si espongono le opinioni qui combattute39.
g. V. pag. 186, fasc. V.
h. L’autore è ora avvertito che si sta preparando l’estratto dell’opera di Gioia da un Collaboratore
della Biblioteca Italiana.
i. V. fasc. II, pag. 166.
j. Qui il Solitario, che scriveva questa lettera senza pensare a stamparla, diverge dal soggetto
principale della censura della Biblioteca Italiana; ed espone all’amico suo l’impressione che ha
raccolta dalla lettura della storia del Botta tanto rispetto all’orditura generale, quanto rispetto allo
stile ed alla lingua. Per conservare un po’ più l’unità del tutto, si è creduto opportuno di stralciare
questo tratto del contesto della lettera e di trascriverlo nella seguente forma.
«La libera e potentissima Inghilterra mal frenando l’ebbrezza di tante vittorie riportate sulla
Francia antica di lei emula, e spinta anche dal bisogno di ristorare le proprie finanze, rinunciò ad un
tratto al lungo amore con che aveva riguardate le sue Colonie d’America, e contro lo spirito delle
costituzioni tentò d’imporre ai Coloni alcune tasse. I Coloni usi da secoli ad un largo vivere e consci
delle proprie forze e dei propri diritti, rintuzzarono coraggiosamente con ogni modo di rimostranze
gli assoluti comandi del Governo Inglese; e tornando vane le rimostranze, si corse all’arme d’ambe le
parti. Durò la lotta sanguinosa per ben quindici anni, con tanta contenzione ed ardenza d’animi
quanta ne doveva far nascere un violentissimo amore di libertà, compresso da una tirannide irritata.
Per alcun tempo le potenze d’Europa si stettero spettatrici; ma alcune di esse veggendo già piegare la
bilancia in prò dell’America, e mal dissimulando la smania di veder abbassata la potenza Inglese,
congiunsero le loro armi a quelle de’ Coloni; e l’indipendenza degli Stati venne finalmente fondata.
«È questo l’interessantissimo suggetto che l’Autore abbracciò nei quattordici libri di cui consta la
sua storia. L’arte con cui egli fuse in un sol tutto luminoso ed armonico gli eventi di una guerra
guerreggiata nello stesso tempo in luoghi diversi; e strinse in un sol corpo le varie opinioni de’ tempi
in America, ed in Europa, e gli opposti interessi de’ due principali combattenti, e quelli altresì de’
Potentati d’Europa in quanto riflettevano la guerra americana; quest’arte, difficilissima a possedersi,
sarà sempre nel Botta altamente pregiata da ogni intelligente ed assennato lettore. Degna di egual
lode è l’imparzialità de’ giudizi colla quale questo Scrittore procede nel suo lavoro. Vi si espongono
senza menomarle le contrarie ragioni delle due parti; le cose e gli uomini compaiono
successivamente innanzi al lettore senza che la penna dello storico ponga in lume soverchio i pregi
degli uni, o lasci troppo velate da un’ombra protettrice le colpe degli altri. Con questo esempio di
candore, e collo sviluppamento dei sani principii di filosofia e di diritto politico, il Botta ha
singolarmente ben meritato della patria.
E per dire alcuna cosa dei caratteri, fra i tanti da lui tratteggiati, si fanno distinguere quelli di
Washington, invitto e magnanimo liberatore dell’America; di Franklin, il Socrate politico de’ suoi
tempi; d’Arnold, Pausania del nuovo Mondo, e traditore d’audacia degna di miglior causa; di
Guglielmo Pitt, acerrimo sostenitore della libertà americana nello stesso Parlamento inglese; di Lord
Nort, il primo fautore della guerra, ed il più risentito oppugnatore dei diritti dei Coloni; dell’umano e
prode Mongomerrì, e dello sfortunatissimo giovane André, vittima d’un’eroica amicizia. Né questi
caratteri emergono da un vano sfoggio di pompose parole; ma da que’ sentimenti sfuggevoli o da
que’ tratti fortemente scolpiti, che soli e più che le fredde considerazioni della filosofia rivelano
l’intimo petto dell’uomo.
«Quanto allo stile non vuoisi defraudare questo Scrittore delle lodi che gli sono dovute per la
profonda perizia ch’ei mostra della nostra favella; la quale piegò non di rado con felice maestria
all’espressione di idee e di fatti, che per essere il resultato dei progressi della marineria, dell’arte
della guerra e della filosofia politica de’ nostri tempi, dovevano riescire malagevoli a ben definirsi.
Né manca egli di forza e di rapidità di stile, né di venustà ove la severità del soggetto noi vieta; e la
patetica descrizione del miserando eccidio della fiorente Colonia di Viomino, e quella del famoso
assedio, assalto, e difesa di Gibilterra, e quella animatissima, sebbene non sobria abbastanza,
dell’orribile tempesta delle Antille nel 1780, possono addursi come prove di stile pittoresco. Se non
che è da dolersi che in quella parte dello stile che più propriamente riguarda la disposizione delle
parole e le locuzioni, trasparisca troppo visibilmente la servile imitazione dei chiamati Classici del
buon secolo, e specialmente del Varchi, e non di rado poi del Davanzati e del Guicciardini. Il
pensiero è talvolta inceppato o menomato o travvisato da un giro di parole indeterminate o superflue,
o dimenticate affatto, colle quali l’autore mira ad imprimere nella sentenza un movimento sonante e
classico, come dicono, anzi che ad esprimere evidentemente la sostanza del suo pensiero. Che dirò di
que’ pretti fiorentinismi dei quali va macchiata quasi ogni pagina della sua storia, e che tanto
sconciano la dignità dello stile e quella persino del soggetto? Le quali viziose maniere allora più
muovono dispetto quando l’autore, per accrescere diletto colla varietà, espone in modo drammatico
le opinioni dei più grandi uomini di Stato Inglesi ed Americani; introducendoli a sostenerle con
arringhe e concioni. Quest’artificio, lodato dai Retori, dovrebbe essere tanto più simile al vero, e
quindi tanto più bello nella storia del Botta, quanto che in realtà que’ Discorsi furono spesse volte
pronunciati in diverse occasioni dai personaggi che l’Autore fa parlare, parafrasando o traducendo le
originali memorie che se ne conservarono. Ma per colpa di questa mal consigliata imitazione de’
nostri storici, si distrugge tutto l’incanto di una sì bella illusione; ed i Pitt, ed i Grenville, e i
Vashington si trasformano in altrettanti Gonfalonieri di Firenze. Io so che il Botta non si lascerà così
facilmente persuadere d’aver errato in questo. Poiché come dichiara nell’avvertimento preposto alla
storia, ei crede che “le lingue sieno come le piante alle quali è dato un sol tempo per portare il fiore, e
che quindi si renda benemerito della bella letteratura chi si studia di ritirare la nostra favella verso i
suoi principii”. Io credo all’opposto, per continuare col suo paragone, che come una pianta non
fiorisce una sol volta insino che è viva, ma col rinnovarsi degli anni rinnova la pompa di cui si
ricopre; e trasportata in altro terreno e in altro clima, varia con alcuni accidenti le foglie ed i frutti che
produceva dapprima; così debba dirsi, che le infinite mutazioni recate dal tempo a tutte le umane
cose debbano anche impressionare le favelle; e che ricondurre strettamente a’ suoi principii una
lingua parlata dai presenti uomini dissomigliantissimi da quelli del trecento, non sia già un
correggerla, ma un soffocarla. Bisogna prendere una via di mezzo
Tra il parlar de’ moderni e il sermon prisco46
e consultate l’analogia, l’etimologia, e le affinità logiche tanto delle idee quanto dei vocaboli che
ne sono il segno rappresentativo, scostarsi del pari e dalla superstiziosa adorazione degli uni, e dalla
invereconda licenza degli altri in fatto di lingua. E l’Italiana può, senza temere d’essere contaminata,
prendere tutte le pieghe, e colorire le sfumature più lievi che tanto si vantano in altre lingue moderne.
Se il sig. Botta avesse mirato a questo utilissimo intento, niuno forse più di lui avrebbe potuto
giovare la nostra letteratura infelicissima in questo, e contristata dalla scolastica disciplina di tanti
pedanti. Né egli avrebbe, con sì grave macchia della sua storia, peccato contro le leggi della
verosimiglianza e del decoro dando il contegno l’aria la favella de’ Magistrati delle nostre
Repubbliche del Medio Evo, ad uomini distanti da loro di tre o quattro secoli, che parlarono lingue
ricche di modi e di colorito diversi affatto da quelli dell’antico italiano; e che sebbene collocati per
qualche rispetto in circostanze analoghe, avevano ed hanno costumi pensieri e caratteri in tutto
differenti. Non conosco il signor Botta, ma so che è travagliato dalla fortuna; e che il suo libro non
ebbe né in Italia né in Francia lo spaccio che meritava. Ma se osassi inviargli un consiglio, vorrei
pregarlo di togliere da tante belle pagine da lui scritte, “e i mai sì e i mai no e il far cerchiolini e
capanelle e all’avvenante” usato avverbialmente per significare a proporzione, e i “popoleschi” per
popolari, e le “parti direttane dell’Isola” per le estreme parti, e l’“imbeccherare”, e il “dar la
spogliazza” per predare e i “ghiribizzatori che vanno girandolando arzigogoli per trar la pecunia dalla
borsa del popolo”, e quell’eterna parola “pecunia” usata sempre in vece di moneta, e il “conficcare, e
ribadire” per dire ostinazione, e il “moiniere” per cortigiano, e l’“aver alle costole”, e que’ suoi
“tamburini” per denotare parlamentari od araldi, e le “petizioni infiammative” in luogo di scritti
sediziosi, e “il ben vogliente” per benevolo, e il “rinfuocolare” per inasprire, e “il confortarsi cogli
aglietti” per confortarsi con baie: e infiniti altri vocaboli, che non sono grazie ma orribili smorfie di
lingua, e che sarebbe opera disperata il tutti raccogliere. Vorrei pure pregarlo di togliere qua e là quei
soffocanti periodi di trenta righe, per la gran ragione che gli Italiani non hanno i polmoni tre volte più
capaci di quelli degli altri uomini; e fatte che avrà tutte queste emendazioni (che non sarà fatica di
lieve momento) oserei quasi assicurarlo che il suo libro verrà infinitamente più letto e stimato
dall’universale».

1. Erasmo di Rotterdam nei Colloquia.


2. Vedi p. 124, nota 1.
3. Ivi.
4. Ivi.
5. Madame de Staël aveva sperato di poter pubblicare in Francia nel 1810 L’Allemagne, già pronta,
in istampa; ma la polizia napoleonica aveva fatto sopprimere l’edizione, perché l’opera tutta spirava
sensi di libertà, ammirazione entusiastica per la Germania, ed era un’altra prova della fierezza e
indipendenza della scrittrice. L’Allemagne non poté apparire che nell’ottobre del 1813 a Londra ed
ebbe grande successo in Europa, innanzi tutto per le idee e l’ardore romantico, poi pel ricordo della
precedente soppressione e pel tracollo dell’impero napoleonico. L’opera ha quattro parti: nella prima
tratta della Germania e de’ suoi abitanti (la contrada, i costumi, il carattere della popolazione,
l’istruzione); nella seconda, della letteratura e delle arti; nella terza, della filosofia e della morale; da
ultimo, della religione e dell’entusiasmo. Fu subito ristampata e tradotta.
6. «L’Alemagna, opera della signora baronessa di Staël-Holstein, traduzione italiana fatta sulla 2a
edizione francese», Milano, Silvestri, 1814. Il cattivo traduttore era stato Davide Bertolotti, torinese,
che si serviva delle lettere per guadagno. Beneficato dal Di Breme, si comportò malissimo verso di
lui. Aveva fama di poca correttezza.
7. Giovanni Larive (1749-1827), attore tragico francese, che ebbe la palma prima del Talma e fu
poi maestro di declamazione. Pubblicò: Cours de déclamation divisé en douze séances, 1804; e
Cours de déclamation prononcé à l’Athénée de Paris, 1810, in due voll., che fu riveduto
letterariamente dal Ginguené ed ebbe molta diffusione. Il Borsieri allude a questo.
8. Luigi Vestri, di Firenze, celebre attore drammatico. Nato nel 1781, morì a Bologna nel 1841.
9. Augusto Guglielmo Schlegel aveva tenuto a Vienna nel 1808-1809 un corso di letteratura
drammatica e l’aveva pubblicato a Heidelberg dal 1809 al 1811 col titolo Vorlesungen über
dramatische Kunst und Literatur. L’opera ebbe vasta e profonda azione sul nostro romanticismo.
Scriveva Silvio Pellico al fratello Luigi l’II dicembre 1815: «Quando lessi la Letteratura del
mezzogiorno di Sismondi… e il Corso di letteratura drammatica dello Schlegel… mi riaccesi dello
stesso foco che Shakespeare e Schiller mi avevano messo nel cuore». Il modo nel quale il Pellico cita
quest’opera dello Schlegel dimostra che egli l’aveva letta nella traduzione francese dal titolo Cours
de littérature dramatique, intrapresa per desiderio dell’autore stesso da M.me Necker de Saussure, da
lui riveduta e rimaneggiata in alcune parti e pubblicata nel 1814. La prima traduzione italiana
apparve tre anni dopo, nel 1817, per opera di Giovanni Gherardini (Milano, Silvestri), di
sull’edizione francese.
10. L’opera maggiore di G. B. Corniani, I secoli della letteratura italiana, apparsa a Brescia dal
1804 al 1806, è una silloge di biografie, disposte cronologicamente, dalla fine del sec. XI alla metà
del sec. XVIII. Poverissime sono le pagine sul Vico; e in complesso tutta l’opera manca di spirito
critico. Con mente più forte e stile più incisivo la continuò Camillo Ugoni per la seconda metà del
Settecento. Dopo l’Ugoni continuò l’opera il Ticozzi, di nuovo scadendo; poi il Predari. Anche il
Foscolo e il Giordani giudicarono severamente i volumi del Corniani.
11. L’opera del Quadrio, in sette farraginosi volumi, apparsa a Bologna dal 1739 al 1752, è
compilazione prevalentemente erudita, in cui si ricercano le origini e la natura della lirica, della
drammatica, dell’epica in tutte le età e in tutte le terre e se ne delinea la storia. L’opera di Pietro
Napoli Signorelli, Storia critica dei teatri antichi e moderni, pubblicata la prima volta a Napoli nel
1777 in un solo volume, ampliata in successive edizioni, giunse da ultimo a dieci volumi (Napoli
1813). Il Signorelli riguarda la letteratura con metodo illuministico. Vedi per quel metodo la rassegna
pubblicata nel Giornale stor. della letteratura italiana, 1915, vol. 66, pp. 234-255.
12. È un verso del Petrarca, Rerum vulgarium fragmenta, CCCXXIX, son. «O giorno, o hora, o
ultimo momento».
13. Vedi p. 109, n. 1.
14. Vedi p. 107, n. 6.
15. Intendi: Cesare Chesneau Dumarsais. Vedi p. 107, n. 6.
16. Mosè Mendelssohn (1729-1786), autore delle Lettere sui sentimenti (1755). Le sue Opere
filosofiche erano state tradotte in italiano, Parma, 1800. Era un seguace di Baumgarten.
17. L’opera di G. Efraim Lessing, Laocoonte, ossia dei confini della Pittura e della Poesia,
apparsa la prima volta nel 1763, era nota ai primi nostri romantici nell’edizione Du Laocoon, ou des
limites respectives de la Poésie et de la Peinture, traduit de l’allemand de G. E. Lessing, par Charles
Vanderbourg, Paris, Chez Antoine-Augustin Renouard, 1802.
I nostri romantici avvertirono l’importanza grande di quell’opera, che riproponeva una questione
estetica fondamentale: quella del bello e della verità nell’espressione. A loro giudizio il Lessing,
mettendo a raffronto la statua di Laocoonte col Laocoonte virgiliano, sebbene avesse concepito la
trattazione nell’ambito dell’estetica del bello ideale e tentato di dimostrare che gli artisti greci,
ritenendo soltanto i corpi belli degni di imitazione, studiosamente cercavano di evitare ogni maniera
di rappresentazione turpe o brutta e rifuggivano dalle raffigurazioni che, sia pure per affetti commossi
o turbati, rendono il viso deforme e orrido l’aspetto, nondimeno aveva sommosso e rimesso in
discussione la critica fondata su quei principii, ai quali aveva dato evidenza il Winckelmann nella
Storia delle arti dell’antichità.
Per l’attenzione profonda, che tra noi in quegli anni richiamava l’opera del Lessing, si veda il
Prospetto generale della letteratura tedesca di Angelo Ridolfi, Padova, coi tipi di Valentino Crescini,
1818, pp. 275-303.
18. Nella Drammaturgia d’Amburgo, i nostri primi romantici considerarono essenziale
l’opposizione alle maniere e teoriche classicheggianti del teatro francese. Lo Schlegel nel Corso di
letteratura drammatica aveva così giudicato la Drammaturgia d’Amburgo: «Le relazioni con una
compagnia di commedianti a Lipsia e un giornale ebdomadario sull’arte drammatica, da lui
intrapreso nel 1767, porsero occasione al Lessing di occuparsi di critica teatrale, nella quale diede
saggio di molto spirito e di molta perspicacia. Egli impugnò, con vigore quasi temerario, diverse
opinioni accolte allora comunemente, e uscì vittorioso dalle battaglie che diede a quell’autorità del
gusto francese, a cui mal nostro grado altri ci aveva resi ligi. I buoni successi di Lessing furono tali,
che presto si videro sparire dai nostri teatri le traduzioni di tragedie francesi e le opere tedesche della
medesima fatta. Egli fu il primo che parlò di Shakespeare con ammirazione e ne preparò il trionfo
sulla nostra scena. Ciò nondimeno, Lessing credeva nell’infallibilità di Aristotele; e questa
superstizione, congiunta all’influsso che ebbero sull’animo suo le scritture di Diderot, introdusse un
singolare miscuglio nella sua teorica. Egli mal conobbe i diritti dell’imitazione poetica quando
sostenne che il dialogo, non meno che le altre parti della composizione drammatica, doveva essere
per appunto copiato dalla natura, come se un’esatta imitazione della realtà fosse da desiderare, non
che possibile, nelle belle arti. Egli aveva ragione di voler bandire gli alessandrini dalla tragedia
tedesca, ma aveva il torto di cercar d’escludere da essa qualsiasi verso…».
19. Il Baretti incominciò a pubblicare a Venezia la Frusta Letteraria di Aristarco Scannabue il 1°
ottobre 1763 e la fece apparire ogni quindici giorni, con la falsa data di Rovereto, fino al 15
settembre 1764. Si propose quindi di trasformare il periodico in mensile e pubblicò il XXV numero il
15 gennaio 1765; ma il governo veneto soppresse la Frusta col pretesto che aveva detto male di
Pietro Bembo, giudicandolo «uno de’ più magri poeti d’Italia». Il Baretti, rifugiatosi a Monte
Gardello presso Ancona, riprese il periodico, con la data di Trento, e ne fece apparire altri otto
numeri dal 1° aprile al 15 luglio 1765. Piacque ai romantici per lo spirito libero e spregiudicato della
sua critica.
20. Pietro e Alessandro Verri, istituita con amici desiderosi di modernità la Società dei Pugni,
stamparono a Brescia, dal 1° giugno 1764 al maggio del 1766, il Caffè, che fu il periodico dei
novatori lombardi, pieni la mente di Locke, Montesquieu, Condillac, D’Alembert, Diderot, cioè di
idee illuministiche ed enciclopediche. Pietro Verri, che era l’animatore del gruppo, pubblicò nel Caffè
trentotto articoli, trattando del commercio, del lusso, dell’economia privata, della coltivazione del
lino, dell’innesto del vaiuolo, dello spirito della nostra letteratura, delle maschere nella commedia
italiana, della musica, del ridicolo, del tu, del voi e del lei e di altri argomenti, morali e pratici. Tra i
collaboratori fu Cesare Beccaria, che vi scrisse sul giuoco del faraone, sui contrabbandi, sullo stile,
sui fogli periodici, sui piaceri dell’immaginazione e su altri argomenti. Uno dei collaboratori più
insigni fu anche Gian Rinaldo Carli di Capo-distria, che pubblicò, senza nome, nel Caffè il celebre
articolo Sulla patria degl’Italiani, il quale per lungo tempo fu dai nostri storici attribuito a Pietro
Verri. In esso il Carli dimostra che la patria non può essere disgiunta dal concetto di umanità:
«Diveniamo italiani per non cessare d’essere uomini».
Degli scritti di Pietro Verri fermarono l’attenzione dei primi nostri romantici in ispecial modo gli
studi morali: le Meditazioni sulla felicità (Livorno, 1763), nelle quali è detto che «la sola virtù può
farci godere quel poco di felicità di cui siamo capaci, e che la sola cultura della mente può farci
conoscere in ogni caso la strada della virtù» il Discorso sull’indole del piacere e del dolore (Livorno,
1773), ristampato a Milano nel 1781 col precedente Discorso sulla felicità, innanzi alle Meditazioni
sull’economia politica. Secondo i nostri romantici egli era stato uno dei più acuti teoreti del piacere e
del dolore. Lode non immeritata, giacché anche Emanuele Kant nell’Antropologia tenne conto della
sua conclusione: che il piacere è «la rapida successione del dolore».
Più torbida che non quella di Pietro Verri fu sui primi romantici l’influenza del fratello suo
Alessandro, che, come collaboratore del Caffè, aveva fatto rinuncia avanti notajo al vocabolario della
Crusca ed era tutto modernità enciclopedica; ma poi, recatosi a Roma, mentre per opera di Ennio
Quirino Visconti e di altri antiquari splendeva la dottrina del bello ideale, nella Lettera agli amatori
dell’italiana letteratura si dichiarò classicista, cioè sentì il fascino (diceva nelle Notti romane «la
fragranza divina») dello spirito antico. Nella seconda metà del Settecento A. Verri fu l’esempio più
avventuroso delle immaginazioni spurie prodotte dall’incontro del razionalismo illuministico col
preromanticismo, dal congiungimento della concezione classica winckelmanniana e viscontea con la
sensibilità settecentesca. Nelle Notti romane al sepolcro degli Scipioni, egli, evocando le ombre dei
romani illustri intorno ai sepolcri degli Scipioni (scoperti nel 1780 da E. Q. Visconti sulla Via Appia)
vide Roma al lume della luna e diede saggio di «eloquenza notturna preromantica» (non è il caso di
parlar di poesia). Negli altri suoi romanzi (Le avventure di Saffo poetessa di Mitilene; Vita di
Erostrato) fantasticò sul modo di sentire, pensare e agire delle persone antiche con la sensibilità del
tardo Settecento, il quale aveva letto Rousseau, Fontenelle, Young, Ossian, Shakespeare. Ne’ suoi
tentativi drammatici (Pantea, storia d’illustri ed infelici amanti e la Congiura di Milano), egli, che
aveva tradotto due tragedie di Shakespeare, Amleto e Otello, buttò all’aria le tre unità, guardò alla
natura e alla passione. A ragione quindi il Muoni nel saggio Poesia notturna preromantica (Milano,
Soc. Editr. Libr., 1908) lo dice per alcune tendenze e movenze un «precorritore». Nocque al Verri lo
stile artificioso, declamante, tutto impuro.
21. Gasparo Gozzi pubblicò l’Osservatore Veneto dal 4 febbraio del 1761 al 30 gennaio 1762:
centoquattro numeri. Il Gozzi fece del suo periodico, saporoso, arguto, sagace, scritto bene, un’opera
d’arte e ad un tempo un’opera morale, con pagine garbatissime di critica settecentesca.
I primi nostri romantici lo tennero in pregio pel suo desiderio di operar come scrittore sulla vita,
per certa introspezione nei caratteri, per la spigliatezza con cui si disnoda dallo stile castigato e per
quel chiarore di anima aperta al sentimento, non che alla ragione, che si alza da molte pagine delle
sue opere.
22. I quattro critici sono qui uniti, quantunque siano molto dissimili per gusto e per dottrina,
perché avevano col loro ingegno infuso «nuovo spirito di vita» alla letteratura.
Quanto conto il Di Breme facesse della Ragion Poetica del Gravina appare dal Discorso intorno
all’ingiustizia di alcuni giudizi letterari italiani, da lui stesso corredato di note graviniane.
Nel Calzabigi il Di Breme, alfieriano, aveva riguardato con simpatia specialmente l’animatore
critico del grande tragico italiano e il suo difensore contro i pigmei fastidiosi. La Lettera del
Calzabigi sulle prime quattro tragedie dell’Alfieri era stata giudicata dal poeta stesso «giudiziosa,
erudita, ragionata e cortese», nell’importante responsiva, in cui aveva preso in esame le critiche
mossegli dal valente letterato, conoscitore dell’arte drammatica. Il Calzabigi, come critico di teatro,
aveva acquistato fama con la Dissertazione del 1755 sul Metastasio, pubblicata nella prima edizione
parigina dei drammi dello stesso. Ma i primi nostri romantici conoscevano anche la Risposta, che egli
aveva dato nel 1790 all’Arteaga, con lo pseudonimo di Don Santigliano, progredendo nella critica
metastasiana. Laddove nella Dissertazione aveva riconnesso direttamente il Metastasio ai tragici
antichi, nella Risposta all’Arteaga lo ricongiungeva allo Zeno, riconoscendo che aveva più poesia,
colore, ardore, morbidezza, fluidità stilistica e armonia, non senza lambiccature leziose e
svenevolezze, che non il predecessore, ma fantasticamente aveva fatto «romanzi di pura
cicisbeatura», senza un vero e proprio studio di caratteri e di costumi.
Il Cesarotti qui è richiamato in particolar modo per il Saggio su la filosofia del gusto (1785), in cui
la «filosofia del gusto» è detta «il genio che presiede alle arti del bello, dirige il conoscitore che
giudica e l’ispirato che dètta», e si fa distinzione tra il genio e il gusto (per es., Dante ha genio; il
Petrarca ha gusto), tra «il gusto fattizio», che è della poesia artificiosa, e «quello della natura».
23. Intendi: il suo trattato De’ principii generali e fondamentali delle belle lettere applicati alle
belle arti, scritto prima del 1775 per la scuola e da lui non pubblicato, non rappresenta in tutto il
Parini critico e maestro, che superava nella parola viva la rigidità compassata degli schemi scolastici
e retorici.
I primi nostri romantici apertamente giudicavano quel trattato scolastico una compilazione
empirica, incompiuta e manchevole, perché non era lo specchio di tutta la sua mente, del più
profondo suo pensiero, del suo modo di gustare direttamente la poesia. Essi avevano cara l’immagine
alta e ardente, che del Parini aveva dato il Foscolo nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis; avevano cari i
ricordi vivi del suo modo di sentire e giudicare, che erano a loro giunti nelle testimonianze di coloro
che l’avevano conosciuto e ascoltato.
24. Le Lezioni di eloquenza di Angelo Teodoro Villa, professore nell’Università di Pavia, erano ivi
apparse nel 1780. Il Villa aveva anche raccolto le sue Orationes academicae, due delle quali
trattavano De origine, progressu et communione scientiarum atque artium e De nexu philosophiae
cum ceteris disciplinis.
25. Riecheggia con ironia lo stile convenzionalmente patetico-encomiastico, che in quel tempo era
consuetudinario ogni volta che si accennava all’onore che veniva all’Italia dai grandi ingegni. Il
proemio era stato scritto dal Giordani e sottoscritto anche dal Monti, dal Breislak e dall’Acerbi. Ed
eran del Giordani i saggi sui cavalli di Venezia, su Giovenale e altri molti.
26. Giuseppe Acerbi, che nel 1815 aveva accettato dal governatore austriaco di Milano, conte
Francesco Saurau, l’ufficio di fondare e dirigere la Biblioteca Italiana. L’Acerbi, che aveva idee
avverse al liberalismo, aveva accolto l’ufficio, che il Foscolo, dopo qualche esitazione, aveva con
risolutezza respinto, non appena aveva compreso l’insidia.
27. Erano argomenti di ristretta erudizione, che in una rivista di cultura viva, rivolta a tutti,
appesantivano la lettura e scemavano l’attenzione e l’interessamento dei lettori. Sulla Sandàraca
discussero nella B. I., t. II, pp. 171 e 174, D. Paoli e L. Bossi, lasciando controversa la questione. Il
Davila è il celebre e valente storico che nel Seicento scrisse l’Istoria delle guerre civili di Francia.
Lo scritto Correzione di un luogo del Davila (1816) era una lettera di Pietro Giordani ad Angelo
Pezzana, prefetto della Imperiale Libreria di Parma. Vedila in Opere del Giordani, Firenze, Le
Monnier, 1846, vol. I, pp. 299-302, con una nota del Giordani stesso, che annulla la correzione
proposta, la quale era stata accolta dai nuovi editori del Davila: nei «Classici Italiani» a Milano,
1825, e nella ristampa di Torino, Giuseppe Pomba, 1830, t. V, p. 242. La parola «cabinetto» era già
nel Botero.
28. Dall’Acerbi. Sulla toreutica, B. I., t. I, p. 31; su Giovenale, ivi, p. 334. La lettera di A. G.
Schlegel vedasi nel t. II a pp. 397-416.
29. Leopoldo Cicognara, autore della Storia della scoltura in Italia, che si era incominciata a
pubblicare nel 1813 e fu compiuta nel 1818.
30. L’autore di quella lettera al Bettoni era il Giordani. (T. I, p. 163). Niccolò Bettoni, di
Portogruaro, vissuto dal 1770 al 1842, fu a Milano uno degli editori più intelligenti e operosi di
quell’età. Pubblicò i Classici latini volgarizzati, la Biblioteca storica di tutti i tempi e di tutte le
nazioni, la Biblioteca portatile, la Biblioteca classica antica e moderna, la Biblioteca universale, la
Libreria economica, la Biblioteca enciclopedica italiana, il Teatro portatile economico, Ritratti degli
illustri italiani viventi e altre opere speciali. Su di lui scrisse un bel libro un altro editore, di Firenze,
Piero Barbèra, Niccolò Bettoni - Avventure di un editore, 1892.
31. Carlo Botta, autore di una Storia della guerra d’indipendenza degli Stati Uniti d’America, alla
quale aveva da prima pensato di dar forma di poema; ma specialmente noto per la Storia d’Italia dal
1789 al 1814, in ventisette libri, che è la migliore delle sue opere, le quali hanno più eloquenza che
spirito critico. Scrisse anche la Storia d’Italia continuata da quella del Guicciardini, a cui intendeva
ricollegarsi, sperando che la sua storia d’Italia potesse far corpo con quella del cinquecentista. Luigi
Ornato, valente letterato piemontese, diceva che il Botta aveva scritto le sue storie non per la
posterità, ma per gli antenati; e il motto fu ripetuto dal Gioberti e da Camillo Cavour.
32. Angelo Mai, allora bibliotecario all’Ambrosiana di Milano, aveva trentaquattro anni. Nato a
Schilpario presso Bergamo, nel 1782, dopo laboriosissimi studi aveva avuto l’ufficio di bibliotecario
all’Ambrosiana nel 1811 e in quegli anni aveva pubblicato tal numero di lavori, ardui per erudizione,
da suscitare ammirazione e stupore. Questo sia ricordato per ispiegare storicamente le lodi della
Biblioteca Italiana e la singolare controversia, che il Borsieri qui introduce.
Quell’anno stesso, 1816, il Leopardi, diciottenne, faceva a Recanati il volgarizzamento delle opere
di Frontone, dedicandolo al Mai e premettendovi un Discorso, in cui è detto: «Io era…
interessatissimo per Frontone, ed ammirava quasi perdutamente la sua eloquenza, che non conosceva.
Nel Decembre del 1815 io vidi annunziarsi nei pubblici fogli la sorprendente scoperta di molti e
molti suoi scritti ritrovati in un palimpsesto Ambrogiano, e dati in luce, con copiose illustrazioni, in
Milano dall’incomparabile scopritore dei nuovi frammenti di M. Tullio, il Dott. Angelo Mai. I
letterati, che si sono trovati in simili casi, sanno qual sia l’emozione, che si prova in quei momenti;
gli altri non potrebbono formarsene una giusta idea, tuttoché volessi descriverla. Dopo l’inquietudine,
lo stupore, la gioia; il primo moto che m’invase, fu l’impazienza. Io invidiava la sorte dei Milanesi,
che poteano all’istante appagare la loro curiosità e soddisfare al loro desiderio. Oltre Seneca, Plinio,
Quintiliano, diceva io frattanto, noi avremo un oratore della età di argento, che formerà le delizie
degli uomini di gusto, quell’oratore che gli antichi dicono essere stato il più grande del suo tempo e
che uno di essi [Eumenio] asserisce non cedere nella eloquenza nemmeno a Cicerone; noi sentiremo
il maestro del più filosofo tra i principi [M. Aurelio] parlare al suo immortale allievo, e questo
trattenersi a vicenda con lui… La scoperta di Frontone formerà un’epoca nella storia della
letteratura… Con questi pensieri io fomentava ed accresceva la mia curiosità. Giunsero finalmente i
volumi sospirati: io mi vi gettai sopra coll’avidità di un affamato, che si getta sopra il cibo: li scorsi,
li lessi rapidamente, e trovai che le speranze, che avea concepite sopra di essi, non erano vane». [M.
Cornelii Frontonis, opera inedita latina et graeca cum Epistolis item ineditis Antonini Pii, M.
Aurelii, L. Veri et Appiani, nec non aliorum veterum fragmentis, Mediolani, 1815, tomi II].
L’anno seguente, 1817, il Leopardi apprestò il Volgarizzamento dei frammenti di Dionigi
d’Alicarnasso (Delle Antichità romane), pubblicati dal Mai. [Dionysii Halicarnassei Antiquitatum
Romanarum pars hactenus desiderata, nunc denique ope Codicum Ambrosianorum ab A. Maio
Ambr. Collegii Doctore quantum licuit restituta, Mediolani, 1816].
Vario era dunque il giudizio sull’attività del Mai, come suole avvenire in tutte le cose umane,
secondo gl’ingegni, le tendenze dell’animo e della cultura. Nel 1819 egli fu chiamato da Pio VII alla
Biblioteca Vaticana. Nel 1838 fu eletto cardinale. Morì a Castelgandolfo nel 1851.
33. Filologo di rara dottrina e valentissimo paleografo, il Mai sapeva leggere nei palimpsesti, cioè
nelle vecchie pergamene, la cui scrittura originale era stata cancellata o raschiata per scrivervi
un’altra volta. Nel Medio Evo su pergamene abrase erano state spesso trascritte opere religiose.
34. Per gli studi del Mai risorse allora vivissima a Milano e in altre città d’Italia una discussione
generale, che si può dire si rinnovi in ogni età: qual valore possa avere per la vita l’erudizione. I
disputanti si divisero in due campi: coloro che riconoscevano un valore concreto all’erudizione per le
conoscenze che arreca e per l’incremento che dà agli studi del passato, si schierarono coi
classicheggianti, i quali, in questo caso, vedevano nelle opere del Mai un accrescimento delle
conoscenze sulla letteratura, sulla filosofia, sulla storia dei Greci e dei Romani; coloro che negavano
valore vitale all’erudizione, sopra tutto a quella che finiva con essere fine a se stessa, e la
consideravano un impaccio al libero moto dello spirito moderno, si schierarono coi romantici. Lo
scritto del Borsieri rappresenta al vivo questo contrasto. Nella polemica dei romantici contro i
classicheggianti il ridestamento di studi «antiquarii» e la grande risonanza, che avevano suscitato le
«scoperte» del Mai, parvero a molti un impedimento al rinnovamento della cultura. Consentiva
apertamente col Borsieri il Di Breme, il quale ancor quattro anni dopo, il 16 aprile 1820, scrivendo al
Confalonieri, si prendeva giuoco dell’ab. Amedeo Peyron (che pure era un discepolo del suo
Tommaso Valperga di Caluso), perché aveva assunto dal ministro Prospero Balbo, che, come è noto,
faceva gran conto degli studi storici, l’incarico di esaminare i palimpsesti dell’Abbazia di Bobbio e
poi sarebbe andato a Milano «onde confrontare questi avanzi dei sorci nostri con quelli dei sorci
ambrosiani, già stati odorati, lambiti, leccati e masticati dal miracoloso abate Mai. E se il secolo non
risorgerà per questa concorde opera degli abati, dei sorci e dei ministri, la colpa ne sarà tutta d’esso
secolo perverso, Lancasteriano Radicale», cioè seguace del metodo lancasteriano o del mutuo
insegnamento, de’ cui fini il governo sardo, come altri governi di quel tempo, diffidava. All’animo
del Di Breme, impaziente d’azione pel risorgimento immediato, quell’attardarsi in problemi di pura
erudizione sembrava un inciampo e una testimonianza di incomprensione dei problemi più urgenti;
anzi egli temeva che i ministri si servissero di quelle esumazioni per allontanare le menti degli
uomini di buona volontà dalle questioni scottanti.
35. Il «bel tratto di sorte» vi fu: la scoperta che nel 1819 il Mai fece nella Biblioteca Vaticana di
una parte dei libri del De republica di Cicerone, opera desideratissima, alla cui ricerca molti dotti, tra
i quali il Petrarca e il card. Bessarione, si erano invano adoperati. Fin allora non si conosceva di
quest’opera se non la fine del libro VI, conservatoci da Macrobio, col nome di Somnium Scipionis, e
qualche luogo citato da S. Agostino, da Lattanzio e dai grammatici; tutto quello che ora possediamo,
il libro I, quasi intero il II, e frammenti degli altri, fu scoperto dal Mai [M. Tullii Ciceronis, De Re
Publica quae supersunt, Edente A. Maio, Vaticanae Bibliothecae Praefecto, Romae, 1822].
La scoperta mise a rumore tutta l’Europa colta. Il Leopardi, nel gennaio del 1820, in dieci o dodici
giorni, «mentre ferveva la fama del magnifico ritrovato ciceroniano», compose la canzone Ad Angelo
Mai quand’ebbe trovato i libri di Cicerone «Della repubblica», che fu pubblicata l’8 luglio di
quell’anno stesso a Bologna pei tipi di Jacopo Marsigli. Si ricordino i primi versi:
Italo ardito, a che giammai non posi
di svegliar dalle tombe
i nostri padri? ed a parlar gli meni
a questo secol morto, al quale incombe
tanta nebbia di tedio? E come or vieni
sì forte a’ nostri orecchi e sì frequente,
voce antica de’ nostri,
muta sì lunga etade? e perché tanti
risorgimenti? In un balen feconde
venner le carte…
Nella canzone del Leopardi anche l’erudizione assumeva un aspetto romantico, non solo perché
alla sua immaginazione i manoscritti obliati diventavano d’un tratto fecondi, rivelando «i generosi e
santi detti degli avi», ma specialmente perché inducevano l’animo suo a dolore, disdegno, vergogna
per le condizioni miserrime d’Italia. Mestissima, anzi accorata, è la canzone del Leopardi. Diceva
egli nella lettera dedicatoria al conte Leonardo Trissino: «Ricordatevi che ai disgraziati si conviene il
vestire a lutto, ed è forza chi; le nostre canzoni rassomiglino ai versi funebri». La canzone finisce con
un incitamento magnanimo:
… O scopritor famoso,
segui, risveglia i morti,
poi che dormono i vivi; arma le spente
lingue de’ prischi eroi; tanto che in fine
questo secol di fango o vita agogni
e sorga ad atti illustri, o si vergogni.
36. Iseo, oratore greco, vissuto nel IV secolo a. C., che una tradizione, discussa, dice maestro di
Demostene. Ebbe speciale esperienza delle controversie forensi. Nel 1815 era apparsa: Isoei Oratio
de haereditate Cleonymi nunc primum duplo auctior, Inventore et interprete Angelo Maio,
Mediolani, 1815.
Temistio di Paflagonia, retore, panegirista, filosofo del IV secolo d. C., fiorì sotto gli imperatori
Costanzo e Giuliano. Ci sono giunti di lui trentaquattro discorsi nel testo greco e uno nella versione
latina. Fu in parte reso italiano da Melchiorre Cesarotti nell’opera: Gli oratori greci tradotti ed
illustrati.
37. Il compilatore del triplice saggio era il Giordani: t. I, 315; t. II, 145 e 307.
38. Un’eco di quelle controversie, nelle quali si domandava da molti se le scoperte del Mai
avessero veramente valore per la cultura o non fossero in gran parte costituite di inezie o
cianfrusaglie, che non mutavano il panorama delle lettere, appare anche nel Saggio di A[mbrogio] L[
evati] sulla storia della letteratura italiana nei primi venticinque anni del secolo XIX (Milano, A. F.
Stella, 1831): «Sì profonda è la cognizione del Mai nelle lingue della Grecia e del Lazio, sì vasta la
sua dottrina e così importanti sono le scoperte da lui fatte nei Palimsesti delle biblioteche
Ambrosiana e Vaticana, che si meritò ancor vivo un pomposissimo elogio. [Elogio di Mons. A. Mai,
letto dall’ab. PierAurelio Mutti, direttore dell’I. R. Liceo di Bergamo nella pubblica adunanza
dell’Ateneo di questa città il 13 gennaio 1825]. Non sarà certamente piaciuto alla sua modestia che il
panegirista lo levi a cielo in guisa che sembri aver lui diseppellito quasi tutto lo scibile dell’antichità.
“Cicerone, C. Gracco, Corneli Frontone, Antonino Pio, Marc’Aurelio, Lucio Vero, Appiano, Filone
Giudeo, Quinto Aurelio Simmaco, Plinio, Plauto, Terenzio, Iseo, Temistio, Porfirio, Dionigi
d’Alicarnasso, l’Autore dell’Itinerario di Alessandro scritto a Costanzo Augusto, Giulio Valerio,
l’Autore dei Libri Sibillini, Omero, Didimo Alessandrino, Ulfila, varii interpreti e commentatori delle
opere omeriche e virgiliane; una schiera in somma di autori, di epoca, di merito e qualità diversi,
rapidissimamente l’uno dopo l’altro gli smarriti frutti de’ loro dotti sudori chi più chi meno
ricuperarono, e delle cadute frondi si ricomposero alla fronte la scompigliata corona”. Si disse, e
forse a buon diritto, che, tranne il Frontone, il Dionigi d’Alicarnasso ed il Cicerone, ossia i suoi libri
De Republica, poco perderebbero le lettere se ripiombassero nelle tenebre tutti i frammenti degli altri
scrittori. Ma quelle tre opere sono di tanta importanza, che basteranno finché arderà in qualche petto
l’amore per la letteratura e tramanderanno alla più tarda posterità il nome di chi le ha scoperte».
39. L’articolo era di Pietro Giordani e avversava la Collezione delle migliori opere scritte in
dialetto milanese, che fu pubblicata a Milano nel 1816-1817, in XII volumi. Aveva sollevato tanta
tempesta, che il Monti nel Dialogo fra Matteo giornalista [l’Acerbi] e Taddeo suo compare [il Monti
stesso], pubblicato nel fascicolo del 1° giugno della Biblioteca Italiana, faceva alludere da Matteo in
persona alle ire, che gli si erano sollevate contro per alcune oneste considerazioni intorno alla mania
dei dialetti particolari. Le considerazioni erano certamente oneste, perché collimavano con le sue idee
sulla lingua; e quell’aggettivo «oneste», scritto dalla penna del Monti, significa che questi giudicava
esagerata la gazzarra che si era fatta; ma il Borsieri, entrando qui nella discusione, sebbene, come
vedremo, ritenesse il Dialogo del Monti uno dei buoni articoli apparsi nella Biblioteca Italiana,
vedeva, in complesso, la questione dei dialetti con più larga comprensione.
L’articolo del Giordani, Poesie in dialetto milanese, Opere di Domenico Balestrieri, fu ristampato
dal Giordani stesso nelle Opere da lui approvate, Firenze, Le Monnier, 1846, p. 303. Dal Dialogo di
Matteo e Taddeo risulta che era intendimento dell’Acerbi, del Giordani, del Monti, «di raccomandare
che innanzi a tutti si mettesse lo studio della comune lingua italiana».
40. Di Vincenzo Bini, B. I., t. I, pp. 305-314.
41. Col titolo Istituzioni di Logica Metafisica ed Etica apparvero in quattro tomi negli anni 1815-
1816 coi tipi di Ferdinando Baret, stampatore e libraio.
42. Nel 1815 e nei due anni seguenti coi tipi del Pirotta apparvero i sei volumi del Nuovo prospetto
delle scienze economiche, che, come è noto, fu severamente postillato dal Manzoni, il quale non
consentiva in questo giudizio del Borsieri. Vedi le postille del Manzoni nel vol. II delle Opere inedite
o rare di A. Manzoni, pubblicate da Ruggero Bonghi, Milano, Rechiedei, 1885, a pp. 125-143.
Per le opere del Gioia, del Romagnosi e di altri pensatori, italiani e francesi, dei quali si fa parola
nei tre manifesti romantici del 1816 e nel Conciliatore, si vedano i tre volumi di Gaetano Capone
Braga, La filosofia francese e italiana del Settecento, Padova, Cedam, 1942, accuratissimi.
43. Edoardo Gibbon, vissuto dal 1737 al 1794, autore di una celebre Storia della decadenza e della
caduta dell’Impero romano.
44. Guglielmo Robertson, vissuto dal 1721 al 1793, autore di una Storia di Scozia, di una Storia di
Carlo V, d’una Storia d’America.
45. Davide Hume, nato a Edimburgo nel 1711, ivi morto nel 1776, filosofo e storico. La principale
sua opera filosofica è il Trattato sulla natura umana, pubblicato nel 1739-1740, che più tardi
rielaborò nella Ricerca sull’intelletto umano (1748) e nella Ricerca sui principii della morale (1751).
A’ suoi studi filosofici deve essere anche connessa la sua Storia naturale della religione (1757).
Come storico è qui lodato per la Storia dell’Inghilterra.
46. Petrarca, Rerum vulgarium fragmenta, XL, 6:
Tra lo stil de’ moderni e ’l sermon prisco.
47. Antonio Genovesi, filosofo ed economista, nato il 1712, morto il 1769. Fu discepolo del Vico.
Nel 1754 gli fu affidata nell’Università di Napoli la cattedra di economia civile, la prima istituita in
Europa. Derivano da quest’insegnamento le Lezioni di commercio, ossia d’economia civile, da lui
pubblicate nel 1765. Con esse, a dire di Giuseppe Pecchio (che fu collaboratore del Conciliatore,
esule in Inghilterra, e autore di una Storia della economia pubblica in Italia, Lugano, 1829), il
Genovesi «fondò i principii generali di questa scienza in Italia». Scrisse inoltre un Discorso sul vero
fine delle lettere e delle scienze (1753), a confutazione del Rousseau; le Meditazioni filosofiche sulla
religione e sulla morale (Napoli, 1758), che il Baretti sentì essere opera di valore, quantunque
faticosa alla lettura per la lingua pedantesca e lo stile involuto; le Istituzioni di metafisica pe’
principianti (1766); la Logica pe’ giovanetti (1766); la Diceosina o filosofia dell’onesto e del giusto,
di cui la prima parte apparve nel 1766, la seconda nel 1777. Come filosofo tentò di conciliare le «idee
innate» di Cartesio col sensismo del Locke. In una lettera del 1767 così riassume il suo pensiero:
«Bisognerebbe rinunziare ad essere anche mediocremente filosofo per negare che il mondo non è per
noi che un ordine di fenomeni. Questo mondo comincia dalla coscienza di noi medesimi, ch’è un
fenomeno; quindi si spazia per la coscienza delle sensazioni, che ci vengono di fuori, che non sono
che fenomeni… Chi levò alto la gonna della Natura, per guardar quel che ὑπάρχει, subest, direbbe
Aristotele? Noi lavoriamo poi su questi fenomeni, e facciamo di quei mondi intellettuali, che si
chiamano scienze».
Secondo il Genovesi sono innate le idee che nascono da riflessione sulle nostre interne operazioni:
«Così noi conosciamo che ci siamo, che siamo soggetti a piacere e dolore ed a molte passioni, che
siam liberi, che pensiamo, appetiamo e abbiamo una forza attiva e sottomessa per la maggior parte
alla signoria dell’anima… Tutto questo ci viene ad esser noto per intimo senso e coscienza».
È il problema che, come abbiamo visto, si presentò anche al Di Breme, calusiano, e al
romagnosiano Borsieri.
Cesare Beccaria, nato a Milano nel 1738, ivi morto nel 1794, fu nel Settecento uno degl’italiani
più celebri in Europa per il trattato Dei delitti e delle pene, apparso nel 1764, nel quale si propugna
l’abolizione della tortura e della pena di morte. Il suo pensiero filosofico derivava dall’illuminismo
francese. Nel 1766 scriveva al suo traduttore Morellet: «Io debbo tutto ai libri francesi: essi hanno
svegliato nell’animo mio i sentimenti d’umanità, che erano stati soffocati da otto anni d’educazione
fanatica. Da soli cinque anni data la mia conversione alla filosofia, e ne sono debitore alle Lettere
persiane [del Montesquieu]. La seconda opera che compì la rivoluzione della mia mente, è quella di
Elvezio [De l’esprit, 1758]… Alla lettura dello Spirito delle leggi [del Montesquieu] debbo gran
parte delle mie idee… D’Alembert, Diderot, Elvezio, Buffon, Hume, nomi illustri che nessuno ode
senza sentirsi commuovere, le vostre opere immortali sono mia lettura continua, ed oggetto delle mie
occupazioni nel giorno e delle mie meditazioni nel silenzio della notte».
Nel 1768 fu istituita per lui a Milano la cattedra di economia pubblica, che veniva terza in Europa,
dopo quella di Napoli (istituita nel 1754) e dopo quella di Stoccolma (1758). Ma nel 1771 lasciò
l’insegnamento. Il suo corso, incompiuto, fu poi stampato nel 1804, col titolo Elementi di economia
pubblica, da Pietro Custodi, che raccolse in cinquanta volumi gli economisti italiani.
Nel 1770 aveva intanto pubblicato un’altra opera importante, che abbiamo già veduto essere lodata
dal Di Breme: le Ricerche su la natura dello stile, con le quali si riallacciava ai maestri
dell’illuminismo, Locke, Montesquieu, D’Alembert, Condillac, anche nell’estetica. Diceva di essi:
«… hanno cominciato a sottomettere al dominio della filosofia anche IL BUON GUSTO, che altro non è
che l’arte di regolare l’attenzione nostra intorno alle idee, come piacevoli o dispiacevoli, SE LA VERA
LOGICA non è altro che l’arte di regolarla intorno alle medesime, ma come simili o dissimili,
identiche o diverse».
Siamo in pieno razionalismo; e il De Sanctis, nel cap. XIII della sua autobiografia La giovinezza,
osservava giustamente che il Beccaria razionalisticamente riduce lo stile quasi a un meccanismo.
Come mai potè dunque esser caro ai primi nostri romantici? Per due motivi: perché, come abbiamo
detto nell’introduzione, essi non erano ancora del tutto svincolati dall’ideologia illuministica; e
perché il Beccaria già apriva la via a superare la meccanicità razionalistica dicendo che si devono
trarre le osservazioni e le norme dal cuore, non dai precedenti scrittori, eretti a maestri dell’arte: «Le
regole in addietro non erano che ridurre a cànoni generali le bellezze già combinate da’ maestri
dell’arte, quando più tosto dovevano essere osservazioni generali su la maniera con cui essi le
avevano combinate: e mentre si doveano cavare dal fondo del nostro cuore, ricercando a qual
combinazione d’idee, d’imagini, di sentimenti e di sensazioni egli si scota e s’irriti, e a quali resti
inerte, si sono volute rinvenire nel proporre solamente una parte di queste combinazioni già da’ gran
maestri esaurita, come modello di tutte le altre, senza ricercare e indicare ciò che tanto varie maniere
di dilettare, che l’esperienza ci additava, potessero aver di comune, per produrre su gli animi degli
spettatori quel medesimo fremito interno di piacere soavissimo e insaziabile. Ecco ciò che io ho
tentato fare intorno allo stile».
Stretti legami col razionalismo illuministico ebbe anche Gaetano Filangieri, napoletano (1752-
1788), che ideò in sette libri una vasta Scienza della legislazione, imputando ai vizi della legislazione
l’infelicità dei popoli e immaginando una legislazione perfetta, valida per tutti i popoli e tutti i tempi,
atta a condurre i popoli alla felicità. Con quest’opera si proponeva di «facilitare ai sovrani del suo
secolo l’intrapresa di una nuova legislazione». Caratteristico è il fatto che, pur ammirando il Vico, di
cui raccomandava la lettura, non fu vichiano, anzi fu agli antipodi dal suo pensiero. Egli credeva
possibile una legislazione perfetta, che tutta scaturisse dalla ragione e sostituisse le leggi storicamente
prodotte dai popoli: al contrario, il Vico aveva inteso le leggi come norme formatesi nella storia dei
vari popoli, rispecchianti con la loro varietà e col progresso storico, il diritto naturale eterno, innato
nello spirito umano.
Il contrasto tra la concezione razionalistica antistorica e la concezione storica vichiana in fondo,
come abbiamo visto, non fu superato dottrinalmente nemmeno dai primi nostri romantici; ma essi
avvertirono il problema; perciò raccomandavano che fossero esaminate «degnamente», cioè
filosoficamente, le opere del Genovesi, che era stato un analizzatore dell’intelligenza umana entro
ricerche storiche; del Beccaria, che aveva rivolto l’illuminismo razionalistico alla filosofia sociale,
filantropica, e a studi sullo stile, come congegno di idee; del Filangieri, che era stato un ideologo
della legislazione, antivichiano, nella terra stessa del Vico, sebbene vagheggiasse anch’egli
(riecheggiando la frase del Vico) una specie d’istoria ideale eterna del genere umano.
Il Filangieri morì giovine, a trentasei anni, senza aver potuto condurre a termine la sua opera:
giunse al V libro, che rimase frammentario.
48. Francesco Longano, autore delle opere Dell’uomo naturale, Napoli, 1764; Filosofia dell’uomo,
Napoli, 1783.
49. Mario Pagano, discepolo anch’egli del Genovesi, pubblicò nel 1783 la prima parte de’ Saggi
politici dei principii, progressi e decadenza della societa; la seconda nel 1785; e tutti raccolse nel
1791, insieme col Discorso su l’origine e natura della poesia. Nel trattare «del civile corso delle
nazioni» si ispira alla Scienza nuova di G. B. Vico, che egli considera e ammira come il «primo a
tentare tal nuovo e sconosciuto sentiero di ridurre a filosofia la storia», e da lui trae la visione dei
corsi e ricorsi, quella della prima società fondata sul diritto della forza, le idee sui caratteri poetici ed
eroici, sulla natura poetica della lingua primitiva, sul valore storico della mitologia, l’interpretazione
della storia e del diritto di Roma; ma deriva altre idee dal Montesquieu, dal Ferguson, dal Buffon, dal
Mably, dal Genovesi, dal Boulanger, dal Dupuis e dalla lettura di altri autori posteriori al Vico e non
nasconde di voler esser diverso dal Vico, che egli riguarda come un pensatore, il quale ha intuito
profonde verità, ma «come un baleno in una oscura notte» e ha scritto con un’«astrusa difficile
maniera di concepire e di esprimere». In ultima analisi anche il Pagano tenta di portare quel che
ritiene vitale della filosofia vichiana entro l’illuminismo e fa dipendere i progressi e i cangiamenti del
genere umano da cause esterne (natura) e da cause interne (spirito), da agenti fisici (terrestri e
cosmici) e da azioni dell’uomo stesso (guerre, conquiste, rivoluzioni, commerci, colonie). Nella sua
visione in particular modo le catastrofi fisiche (inondazioni del mare, diluvii, eruzioni dei vulcani,
terremoti) producono grandi cangiamenti nel corso naturale della storia e fanno ritornare la società
umana alla barbarie primitiva. Ma giustamente è stato notato che in quell’illuminismo venato di
vichianismo c’era anche una reminiscenza platonica, là dove descrive lo stato originario degli uomini
e le fasi delle loro vicende in dipendenza delle grandi catastrofi fisiche: Platone aveva parlato della
scomparsa dell’Atlantide nel Timeo.
Ideale del Pagano era l’unione del genere umano sul fondamento della giustizia. Per quest’idea
sofferse e morì. Per aver parlato in difesa de’ rei di Stato fu tre anni in carcere, dove per sollievo
della mente scrisse il saggio Del gusto e delle belle arti; poi, nel 1798, fu mandato in bando da
Napoli. Ritornatovi con la rivoluzione, quando, temporaneamente, ripresero il sopravvento i
borbonici, fu giustiziato il 29 ottobre 1799 col medico Cirillo.
I primi romantici lessero le sue Opere filosofiche, politiche ed estetiche nell’edizione di Milano del
1800.
50. Vincenzo Cuoco, molisano (1770-1823) è il vero platonico del vichianismo, tra i molti che
tentano un’ibrida conciliazione del vichianismo col razionalismo illuministico. Egli in un romanzo
filosofico, scritto nel 1806, immaginò un ritorno di Platone in Italia, ispirandosi al De antiquissima
sapientia del Vico e tentando di richiamare i principii dell’antica filosofia italiana, cioè della filosofia
pitagorica. Nel romanzo, come è logico, il Cuoco esprime il proprio pensiero politico e morale.
II Borsieri, guardando all’ideazione esterna del romanzo, imperniata in un viaggio descrittivo e
rievocatore, lo avvicina al Voyage du jeune Anacharsis dell’ab. Barthélemy, apparso nel 1788, che
ebbe un’immensa diffusione in tutta Europa. In esso il dotto abate francese aveva raccolto, come in
un’opera di volgarizzazione, tutta la civiltà greca, quale era stata rimessa in luce dalla filologia,
dall’archeologia, dalla storia, dalla filosofia del Settecento e aveva illustrato la vita pubblica e privata
dei greci, la loro religione e filosofia, la loro poesia e la loroarte, le regioni e i monumenti. Ma
l’opera del Barthélemy in complesso è una dilettevole e vivace enciclopedia illustrata della vita dei
greci. L’opera del Cuoco va oltre la fredda materia archeologica, che l’appesantisce: ha un
intendimento filosofico: richiamare gl’italiani a un loro pensiero filosofico originale.
Quanto profonda sia stata l’azione del pensiero vichiano sul Cuoco appare anche dal suo Saggio
storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, in cui dimostra come fosse impossibile attuare un
programma derivato dalla sola ragione in condizioni storiche non adatte a riceverlo. Quel saggio è
oggi un’altra prova che le idee della rivoluzione francese non bastavano a far risorgere l’Italia.
L’insegnamento storicistico del Vico divenne così, per opera del Cuoco, più fruttifero anche sotto
l’aspetto nazionale. Il saggio stampato a Milano nel 1801 fu molto meditato. Dal vichianismo del
Cuoco, e dal Vico stesso per opera sua, trassero idee feconde il Monti, il Foscolo, il Manzoni.
51. Colpisce il Giordani.
52. B. I., t. I, p. 298. Sul noto libro di Francesco Cancellieri, Roma, 1815.
53. Inferno, c. III, versi 40-42.
54. È il Dialogo di Vincenzo Monti (t. II, 340; t. III, 86 e 248) fra Matteo giornalista, Taddeo suo
compare, Pasquale servitore e ser Magrino pedante. Fupoi riprodotto col titolo Dialogo Critico-
Letterario del Monti, premessavi la vita dell’autore, scritta dal conte Francesco Cassi, a Milano, Co’
Tipi di Omobono Manini, 1838; ristampato nelle Prose varie di V. Monti, edite a Milano dal Resnati
nel 1841 e nei Dialoghi del Monti, Venezia, Girolamo Tasso, 1841. Ma il Dialogo non è finito,
perché, come è noto, il Monti insieme col Breislak e col Giordani si ritrasse dal novero dei
«Compilatori della Biblioteca Italiana».
Dei dialoghi del Monti questo ha una speciale importanza per le discussioni letterarie e linguistiche
del 1816. Contiene accenni agli Inni sacri del Manzoni, all’epistola del Berchet a Felice Bellotti in
morte del Bossi e alla risposta del Bellotti, e sulla fine un giudizio sagace sullo stile del Berchet e su
quello del Bellotti.
55. Quello del Decamerone, in cui il Boccaccio narra che «Frate Cipolla promette a certi contadini
di mostrare loro la penna dell’Agnolo Gabriello, in luogo della quale trovando carboni, quegli dice
esser di quegli che arrostirono san Lorenzo» (Novella X della Sesta Giornata).

Alla pagina 29 di questo Capitolo56 l’Autore ha espressamente dichiarato


che non intende di «menomare» le lodi meritate dal signor Angelo Mai
Dottore della Biblioteca Ambrosiana. Pure gli giova ora di ripetere, per
premunirsi sempre più contro le false interpretazioni, che se non sa piegarsi
ad ammirare la futile erudizione, tiene però nella debita stima quella che
procura l’universale utilità delle lettere; sia perché applicata a descrivere e
schiarire gli antichi monumenti delle belle arti, sia perché rivolta a
reintegrare la storia. Di questa specie d’utilità andrà certamente fornita la
greca edizione che il signor Mai è per pubblicare dei nove ultimi libri da lui
discoperti delle Antichità Romane di Dionigi Alicarnasseo. Pel quale
importantissimo rinvenimento la nostra patria non potrà lodarsi abbastanza
e della fortuna che ha soccorso il Mai nelle sue ricerche, e della diligenza e
del sapere con che ha recato il testo di Dionigi in purgato latino, e lo ha
corredato di belle note.
56. In questo volume si veda p. 286.
CAPITOLO TERZO.
LA VISITA
o rivista di due articoli così detti «Italiani» del signor T. C.a.
Oh amabil sesso che sull’alme regni Con sì possente incanto,
Qual alma generosa è che si sdegni Del novello tuo vanto?
PARINI1.

È un gran male lo star lontano lungo tempo della Patria. S’io fossi
sempre vissuto in Milano, diceva fra di me soffermandomi inanzi
all’artificiale montagna di sasso del nostro Duomo, s’io fossi sempre
vissuto in Milano avrei conosciuto quel sig. Letterato; e non mi sarebbe
occorsa la strana scappata a cui m’ha condotto la mia imprudenza. Questo
pensiero mi fece risovvenire che era qui tornata di fresco un’elegante
signora, alla quale aveva il debito di render visita. E non avendo altro a fare,
m’avviai alle marmoree soglie della Dea.
Entrando negli arcani penetrali, la trovai neglettamente distesa sovra un
mollissimo canapè.
L’aere era profumato di mille essenze, una ventilazione freschissima
temperava gli ardori della state; e penetrava appena nella cameretta
incantata un sottil raggio di luce, che né tutta vinceva né tutta rispettava
quell’oscurità la quale debb’essere conservata nei sacri recessi. Era seduto
di rincontro alla Dama un Leggiadrissimo, che diceva queste parole: «Io
sono pronto a morire per il bel sesso, andrò fra tigri e leoni, scenderò
armato della mia cetra sino nell’inferno, e rapirò all’Orco, se così
comandate, le anime di quegli amanti che avete perduti nelle battaglie. Ma
voi, elegantissima Dama, rimeritatemi col rispettare l’Italia; e non venite a
dirmi che non vi dà cuore di leggere un sol libro italiano, e che non
abbiamo ragione di dolerci di Madama di Staël». Così dicendo il mio
Leggiadrissimo si riadattava la cravatta sotto il mento, s’alzava, tornava a
sedere e ad alzarsi, e passeggiando faceva suonare sul pavimento un enorme
bambou, che nel Regno di Siam sarebbe adoperato per altri utilissimi usib.
La Dama prendeva fuoco ancor essa, e balzando in piedi prorompeva…
«Risparmiatemi queste galanterie mezzo moderne e mezzo mitologiche;
voi non conoscete più in là ed io non so che farne: e vorrei piuttosto che voi
altri tutti, i quali pretendete d’aver animo gentile, cominciaste a dar prova di
questa vostra gentilezza parlando con più rispetto di una donna che è
celebre in Europa e che onora il nostro sesso».
— La signora ha ragione — presi a dire io, ponendomi «terzo fra cotanto
senno» — e mi permetterà che invece d’interrompere la disputa con vani
complimenti, io le faccia la mia corte mettendomi dal suo canto, e
battendomi in qualità d’ausiliario contro di voi.
— No — diss’ella — io non so disputare a lungo. Non so altro se non che
mi ha più dilettato la Corinna di Madama Staël che i cento Sonetti a Nice
dedicatimi da questo Signorino nel Giornale delle Dame, e i suoi tanti
epigrammi e madrigali, che solo a rammentarli mi fanno sbadigliare. Ma
poiché ci siete vi batterete in vece mia, ed io starò spettatrice. Avanti,
Signorino; apra un po’ più le imposte di quella finestra, e legga a questo
buon galantuomo quei tratti dei due «articoli italiani» ch’ella m’ha tanto
vantati. Ma non dippiù, ch’io non voglio annoiarmi.
Un po’ mortificatello per queste rampogne, l’amante docilissimo obbedì
al comando, e lesse quanto seguec:
«Investigando io le cause morali, onde gli Italiani a differenza delle altre
nazioni facciano sì poco conto delle glorie loro per andar in cerca delle
straniere, altra non ne saprei trovare, se non se un’assoluta mancanza
d’amor nazionale».
— Oh diavolo! — diss’io. — Quando sentii quell’«investigando io le
cause morali», m’aspettava che uscisse fuori una qualche bella ragione non
veduta da nessuno. Invece questo signor T. C. viene a dirci che noi non ci
stimiamo né ci amiamo, perché non ci stimiamo né ci amiamo; e questa è
veramente una nuova e profonda maniera d’investigare le cause morali.
— Aggiungete — disse la bella — che ciò non è vero; perché sono dieci
anni che i Professori dei nostri Licei e delle nostre Università stampano per
istituto una volta all’anno qualche elogio dei grandi Italiani; e mi sono a
quest’ora stati regalati tanti Elogi, Vite, e Ritratti d’illustri Capitani,
d’illustri Politici, d’illustri Artisti, d’illustri Letterati, d’illustri Fisici,
d’illustri Musici, d’illustri Sonatori, d’illustri Italiani Morti e Viventi ch’io
non so come si possa dire che noi andiamo a rilento in lodarci!
— Ve la do vinta per questo — riprese il Leggiadrissimo, volendo fare il
disinvolto; — e salto di pianta al secondo articolo, poiché il rimanente del
primo non riguarda che la Biblioteca Italiana.
«Comincia essa (la Baronessa di Staël) dall’inculcare le traduzioni delle
opere più eccellenti dell’umano ingegno, perché, dic’ella, le opere perfette
sono sì poche e la invenzione in qualunque genere è tanto rara, che se
ciascuna delle nazioni moderne volesse appagarsi delle ricchezze sue
proprie sarebbe ognor povera. Ottimo è il consiglio, e noi entriamo nel
parere di Madama quando ne dica che ogni Nazione sarebbe sempre povera
accontentandosi delle ricchezze sue proprie. Ella avrebbe però dovuto
eccettuare l’Italia, come quella che possedendo a dovizia opere eccellenti
anche senza traduzioni rimarrà pur sempre ricchissima…».
— Tacete, fatemi grazia, tacete, o Signore; e voi, Madama, tiratevi
indietro, ch’io vedo qui sotto un abisso di presunzione che minaccia
d’inghiottirci tutti. La Staël parla della «rarità delle opere eccellenti, e
dell’invenzione» in qualunque genere; di quella rarità ch’è stabilita per
decreto della natura, la quale ha voluto che l’umano ingegno fosse stretto in
angusti confini, e che solo alcuni genii privilegiati potessero varcarli a
quando a quando. Ora il sig. T. C. vuole assolutamente che la natura abbia
infranta una sua legge universale unicamente a favore delle infinite teste
ch’ella fa nascere in Italia; e che se le altre nazioni hanno un’opera perfetta,
noi n’abbiamo cento!
Allegramente. Andando di questo passo posso aspettarmi ancor io
d’essere chiamato un grand’uomo; e può aspettarselo anche l’ignoto autore
dei due articoletti italiani!
— Ma, Signor Galantuomo, sia sincero in tutto. A buon conto tante
scoperte sono state fatte dagli Italiani.
— È vero: ma sono state fatte quando le altre Nazioni studiavano meno
di noi. Ora che noi studiamo meno di loro, esse o perfezionano le nostre
antiche scoperte, o ne fanno delle nuove.
— «Alto là che al suo dir qui pongo intoppo» — tornò a dire il
giovinotto. — Chi ha fatto una scoperta simile a quella di Volta?
— Volta — risposi — è uno di quei rari genii che compariscono, come
già dissi, di secolo in secolo e in Italia ed altrove. Ma basterà la sua sola
scoperta a formar la coltura d’una nazione in fatto di fisica? E che sarebbe
questa scienza, ora così fiorente, se fosse ridotta alle sole verità trovate da
noi? Chi è che abbia saputo fare qualche solenne applicazione di questa
grande scoperta sull’elettricità? Nessuno. È stato necessario che la pila di
Volta passasse nelle mani dell’immortale Chimico inglese Davy2, perché il
mondo vedesse uscirne nuovi ritrovati d’alta importanza; e riconoscesse
nella pila voltiana un potentissimo stromento d’analisi chimica. Ai Francesi
ed agl’Inglesi sono pure dovute le scoperte recenti sulla luce; e il trattato di
fisica del sig. Biot3 è un’opera dalla quale gl’Italiani possono imparare più
d’una cosa. Noi avremmo durato gran fatica ad uscire dalle teorie
flogistiche4, se Lavoisier5 non fondava la nuova chimica, e se Bertholet6,
Vauquelin7, Gay-Lussac8, Thenard9 e tanti altri non l’ampliavano con
infinite applicazioni utilissime alle arti10. E in mezzo all’uso giornaliero che
tutti facciamo delle invenzioni straniere, si osa scrivere che noi soli sulla
terra non abbiamo bisogno d’alcuno? Dividiamoci suvvia dalle altre colte
nazioni; e se le Alpi ed il mare non bastano a separarcene, alziamo un gran
muro come quello della Cina, non per opporlo al Tartaro devastatore, ma
per impedire che giunga sino a noi la luce tranquilla e fecondatrice della
coltura europea.
La Bella che stava ascoltando assentiva col capo, ed io proseguiva.
— Cessiamo, vi prego, dal leggere questi articoletti che non possiamo
coll’autore loro denominare «Italiani» poiché va oramai negato un sì bel
nome a tutto ciò che ha poco valore, o che gonfiandoci d’orgoglio tende a
contrastarci i frutti della comune civilizzazione. Che se mai noi siamo
assaliti, come alcuni pretendono, dalla malignità degli stranieri, i quali
vogliono manomettere la fama dei nostri maggiori e di noi; non bisogna
lanciare contro questi nemici armati di tutte le armi un dardo impotente
come quello del Priamo di Virgilio11; ma vuoisi alcun magnanimo
propugnatore della nostra causa, il quale sfavilli di propria gloria e di valore
e di forze. Né a far risorgere la nostra letteratura (che è il vero ed unico
oggetto della disputa) basta ricantarci, siccome adopera il sig. T. C, il
consiglio d’Orazio:

……Vos exemplaria Graeca


Nocturna versate manu, versate diurna12;

poiché l’esser nutrito d’antica letteratura è qualità necessaria in chi professa


gli studi, ma non basta ora «ella sola» ad infondere nelle opere degli
scrittori, non dico già la sostanza, ma né l’apparenza pure dell’originalità e
dell’invenzione. Grandissimi ingegni ci hanno preceduti nell’imitazione
greca e latina; essi, per dir così, hanno colto il fiore dell’antichità, a noi non
ne resta che il gambo. Io poi non veggio in quegli articoli né la greca
venustà, né la gravità latina, né l’italiana cortesia; sicché son quasi tentato
di rimandare al sig. T. C. il di lui consiglio per suo particolare profitto.
— Chi è mai — prese ad interrompermi la Dea del loco — chi è mai
questo signor T. C.?
— Non posso soddisfarvi perché non ho cercato di saperlo: ma certo è
persona nuova in letteratura. Immaginate che per combattere Madama Staël
(arrossisco nel dirlo) comincia «dal darsi a credere che non sia tampoco
iniziata nell’idioma latino». Vedi profonda e arcana scienza! Poi viene
adirci che la signora Baronessa «vuol dar di becco» ad Omero stesso;
perché affermò che se alla composizione omerica si toglie quella semplicità
di un mondo che incomincia, ella non è più singolare e diviene comune.
Certo che la composizione omerica era singolare e straordinaria quando i
Rapsodi l’andavano cantando per la Grecia. Ma dopo che Virgilio e il
Tasso, e i tanti imitatori di Virgilio e del Tasso, hanno ricalcato le orme
d’Omero sia nei caratteri sia nelle battaglie sia negl’incidenti e nel nodo
dell’epico poema, l’invenzione di lui ne fa minore impressione, quantunque
in se stessa mirabile; e il principale incanto de’ suoi poemi immortali si
riduce alla viva pittura delle prime memorie dell’umanità. Quindi i lettori
che sappiano di poesia, e che sappiano inoltre leggere e pensare, troveranno
tanto più bella una versione d’Omero quanto più vi si conserveranno
inviolate le antichissime tradizioni, la semplicità de’ costumi, e le allusioni
ai riti, e tutti gli altri caratteri di quella sacra gioventù del mondo primitivo;
quando però a così gran pregio si congiunga l’armonia, l’evidenza e
l’abbondanza dell’omerico stile. Ora chi s’aspetterebbe che a questo
proposito il sig. T. C. escisse fuori in quel suo bellissimo e novissimo
«risum teneatis»; motto che non fa più ridere nessuno, o fa ridere soltanto di
chi ha la bontà di citarlo per la milionesima volta?
— Basta di tanto — disse la Bella — e se voi, signorino, non avete che
gli articoli del sig. T. C., non venite a combattere d’ora in avanti la mia
predilezione per le opere di Madama Staël, come a dire per l’Allemagna, e
per la Letteratura considerata né suoi rapporti colle istituzioni sociali, e per
le Lettere sovra la vita e gli scritti di Gian Giacomo Rousseau, e pel
Trattato in cui combatte il suicidio, e per quello delle Passioni, e per la
Delfina; e finalmente per la mia cara Corinna, che vale un po’ più dei
freddissimi versi delle vostre Veroniche Gambara e Vittorie Colonna13. —
E così dicendo, dato di piglio al ventaglio, fe’ cenno al servente che voleva
uscire, e che recasse il parasole e lo sciallo. Ond’io congedandomi ebbi in
premio dalla Bella, per la mia disinteressata difesa di Madama Staël, un
dolcissimo sorriso, e due o tre lievi colpi di ventaglio sulla guancia sinistra,
che mi fecero pensare a molt’altre cose come sentireted.

a. Questi due articoli furono inseriti nei Numeri XX e XXII del Giornale delle Dame 2° Trimestre,
Anno 181614.
b. Nel Regno di Siam si puniscono i delinquenti a colpi di bambou.
c. Gli articoli del sig. T. C. hanno il doppio oggetto di censurare la Biblioteca Italiana, e di assalire
Madama Staël sotto l’usbergo dell’amore della patria. Quanto alla censura della Biblioteca, l’Autore
ha esaurita la questione in modi ben diversi da quello del sig. T. C.;quanto a Madama Staël, ei prende
ora ad esaminare le di lui opinioni.
d. Coloro che scrivono poco e male, o non iscrivono nulla, hanno due strade da prendere per far
parlare di sé. O lodare smaccatamente gli Scrittori che hanno fama, senza sapere perché li lodino; o
scagliarsi contro di loro, come un nuvolone di mosche, e tentare di tormentarli con milioni di
punture. Questo secondo partito vien ora scelto a preferenza; e per aver campo di spiegare molta
audacia e scarse forze, si sogna che gli stranieri offendono la nostra gloria e si combatte (cosa che in
seguito apparirà manifesta) contro un molino a vento come facea Don Chisciotte. Sappiano intanto
gli assalitori della Baronessa di Staël, che ad essi è lecito di farle villania co’ loro articoli di Giornale;
e vogliano generosamente compatirci, se abbiamo la stoltezza di tenere la loro opinione in istima un
po’ minore di quella in che teniamo il voto d’intiere Nazioni. Ci ricordiamo che gli Stati-Uniti hanno
dimandato solennemente il busto della Baronessa; ci ricordiamo che quando ella giunse a Londra per
la prima volta, i grandi, i dotti, e persino il popolo di quella gran capitale si precipitavano in folla alla
di lei casa, come alla reggia d’un monarca. Con simili rimembranze pel capo, supplichiamo di nuovo
che ci si perdoni la colpa di non essere tanto italiani come sono essi; e di ammirare quel chiarissimo
ingegno, che ha destato l’entusiasmo di due Nazioni distinte sulla terra per giudizio e per freddezzal.
1. Trussardo Caleppio cercò di vendicarsi del giudizio, dato dal Borsieri su di lui in questo
capitolo, pubblicando nel Corriere delle Dame del 21 settembre un’insulsa favola in versi, intitolata
Le fiere e il moscerino: un moscerino durante un’aspra battaglia, suscitata tra le belve da una
cornacchia, si nasconde sbigottito sotto una fronda; ma quando ha termine la rissa e ognuno si ritira
stanco, esce d’agguato e corre a punzecchiare gli altri animali, finché un orso, presolo con le zampe,
gli strappa le alucce. L’orso disdegnoso sarebbe stato lui, Trussardo; il moscerino, Borsieri.
Vedi Le fiere e il moscerino nel vol. I delle Discussioni e polemiche sul romanticismo a cura del
Bellorini, cit., a pp. 179-182; e vedi il dialogo, Matteo giornalista, Taddeo suo compare, Pasquale
servitore e ser Magrino pedante, in cui il Monti risponde alle ingiurie che T[russardo] C[aleppio]
aveva rivolto all’Acerbi e alla Biblioteca Italiana. Nell’edizione del 1838, Dialogo Critico-
Letterario, cit. a p. 172, sono riprodotte le iniziali T. C.; nelle Prose varie di V. Monti, Milano,
Resnati, 1841, e nei Dialoghi, Venezia, Tasso, 1841, a quelle iniziali sono sostituite le lettere N. N.

1. Nell’ode «Per la laurea di Maria Pellegrina Amoretti», vv. 131-134.


2. T. C. è il conte Trussardo Caleppio, che nel Corriere delle Dame del 19 maggio e del 1° giugno
con due scritti intitolati Articoli italiani aveva censurato le pagine di Mad. de Staël Sulla maniera e la
utilità delle traduzioni. Il Corriere delle Dame era compilato dalla proprietaria, tal Carolina Lattanzi;
vi si pubblicavano notizie di teatro, traduzioni in prosa e in versi di poesie specialmente tedesche,
lettere di abbonati, sciarade, aneddoti, descrizioni di abiti femminili, illustrate da figurini della moda
a colori. Era un giornale servile all’Austria e il primo semestre del 1816 era dedicato alla contessa
Antonia Saurau, nata contessa Lodrone, moglie al Governatore austriaco.
Trussardo Caleppio era un commissario di polizia, che voleva far il letterato. Pietro Giordani in
una lettera al Monti così ci informa dell’origine della sua polemica contro la Staël: «A proposito di
verità: il sig. contino T. C., che si chiama anche “alitilogo” [dicitor del vero] e scrive lettere dal
Tempio della Verità e tutto improvviso diventò letterato, e gran difensore della letteratura italiana, e
grande nemico di Madama di Staël e fierissimo nemico della Biblioteca Italiana, e fu il primo a farle
romor contro; ebbe a sì magnanime ire questa vera e sola cagione. Egli aveva tradotto il discorso di
Madama di Staël da inserirsi nella Biblioteca. Temettero i compilatori che quella traduzione del sig.
contino T. C. potesse parer ridicola; ed essendogli amici e volendogli evitare le pubbliche derisioni,
ordinarono un’altra traduzione, quindi tutti i furori del sig. contino T. C.: miserie, miserabilissime di
un povero amor proprio!».
Il contino due anni dopo fu redattore dell’Accattabrighe, «famigerato e bilioso foglietto, sorto
all’unico scopo di contrastare in ogni cosa, perfino nel titolo e nel colore della carta, il liberale e
romantico Conciliatore». (Vedi G. Muoni, Lud. di Br., cit., pp. 12-13). Il titolo era questo:
L’Accattabrighe, ossia Classicoromanticomachia, con un motto antifrastico a quello del
Conciliatore: «Rerum discordia concors»; la carta era rosata. L’Accattabrighe pubblicò tredici
numeri settimanali dal novembre del 1818 al marzo del 1819 e denunziò i romantici come nemici
dello Stato. Ma ottenne l’effetto opposto a quello che si proponeva e fu fatto cessare. Ci narra il
Pellico: «La polizia irritata dalla nullità dell’Accattabrighe negò i fondi, e quella sudiceria cessò. Lo
sdegno del pubblico contro quel foglio era all’estremo. Le provocazioni da noi sofferte, i ritardi posti
all’uscita del Conciliatore dalla doppia Censura, la voce continua che fossimo per essere soppressi,
apersero gli occhi anche ai più ciechi, e romantico fu riconosciuto per sinonimo di liberale, né più
osarono dirsi classicisti fuorché gli ultra e le spie».
I due articoli di Trussardo Caleppio, «così detti Italiani», possono ora essere letti nel vol. I delle
Discussioni e polemiche, a cura del Bellorini, cit., pp. 57-63.
3. Umfredo Davy, chimico inglese, vissuto dal 1778 al 1829, inventore della lampada di sicurezza
per minatori e di altri utili apparati.
4. G. B. Biot, fisico, chimico, matematico, astronomo francese, vissuto dal 1774 al 1862.
5. Gioachino Becher, chimico tedesco, aveva nel Seicento interpretato la combustione dei corpi
come esalazione di un loro principio pingue o combustibile. Sulla base di quell’idea lo Stahl aveva
sviluppato la sua celebre teoria del flogisto (dal greco fiamma), attribuendo tale nome all’ipotetico
principio della combustione. La teoria del flogisto dominò nella chimica circa un secolo e cadde
allorché Schede e Priestley, nel 1774, scopersero l’ossigeno.
6. Antonio Lorenzo Lavoisier fu nel Settecento il fondatore della chimica moderna. Scoperse
l’ossigeno e qual parte abbia nella respirazione e nella combustione; scoperse gli elementi che
compongono l’acqua; diede alla chimica un nuovo linguaggio col suo metodo di nomenclatura
chimica (1787). Morì sulla ghigliottina durante il regno del terrore, nel 1794.
7. Claudio Luigi Berthollet, celebre chimico savoiardo, vissuto dal 1748 al 1822. Scoperse l’azione
scolorante del cloro e l’uso di esso per l’imbiancamento delle tele; insegnò ad adoperar il carbone per
purificare l’acqua e fece altri utili ritrovamenti. Accompagnò Napoleone nella spedizione in Egitto.
8. Nicolò Luigi Vauquelin, chimico francese, autore di importanti studi sui corpi organici e sulla
cristallografia. Visse dal 1763 al 1829.
9. Luigi Gay-Lussac, grande chimico e fisico francese, vissuto dal 1778 al 1850. Inventò un nuovo
barometro, un alcoolometro, scoperse la legge di dilatazione dei gas, conosciuta in fisica col nome di
legge di Gay-Lussac.
10. Luigi Giacomo Thénard, altro valente chimico francese, vissuto dal 1777 al 1857.
11. Intendi: nelle applicazioni tecniche.
12.Eneide, II, 544: «telum imbelle sine ictu».
13. Notissimi versi dell’Arte poetica, che non recavano certo un consiglio peregrino, perché erano
il precetto, ripetuto a sazietà, da tutti i classicheggianti. Il Caleppio amava le frasi fatte, come dirà
poco innanzi il Borsieri per l’altra non mai udita sua citazione: Risum teneatis.
14. Celebrate poetesse del Cinquecento.
CAPITOLO QUARTO

IL CAFFÈ
ovvero disputa sull’Autenticità e originalità
dei «Dialoghi degli Antichi letterati nell’Eliso».
Ed io gliel dico, che il verbo vagire Non è di crusca: usò il
Salvin vagito; Ma a ogni modo vagir non si può dire.
ALF.1, nella Sat.a I Pedanti.

Un sorriso e un saluto col ventaglio, che piccola cosa è mai questa, e


quanto grandi conseguenze può avere! Ecco il pensiero che mi occupava la
mente appena rimasi solo. Per prima conseguenza posso innamorarmi; ed io
so quel che dico quando parlo del mio fragilissimo cuore. Per seconda
conseguenza, il servente leggiadro può cominciar ad odiarmi, quand’anche
io non m’innamori; e so egualmente quel che dico, quando parlo della
prontezza colla quale gli uomini colgono persino le menome occasioni di
odiarsi. E per terza conseguenza (daché chi vuol comparire ragionatore
deve da qualunque premessa derivarne almeno tre) avendo io cominciato a
sostenere che noi Italiani ci lagniamo a gran torto di Madama di Staël,
dovrò forse continuare a difendere lo stesso assunto contro l’opinione di
molti che non mi faranno buon viso. E così pensando, e andando a zonzo
sbadatamente nella più popolosa contrada di Milano, m’abbatto innanzi al
Caffè*** e m’accorgo d’una fragranza soave di caffè allora abbrustolato.
Entro dunque nella bottega risplendente d’ogni parte di dorature, di
specchi e di marmi; e non sapendo vincere la tentazione, ordino che mi si
porti in una tazza capace
La nettarea bevanda ove abbronzato
Fuma ed arde il legume a noi d’Aleppo
Giunto e da Moca, che di mille navi
Popolata mai sempre insuperbisce2.

Sedeva nel Caffè un crocchio di persone che si rubavano l’una coll’altra


la parola di bocca, tanto eran tutte fornite di lingue precipitose e infaticabili.
M’inchino, nessuno mi guarda. Mi pongo ad un tavoliere in disparte, e fra
varie Gazzette trovo alcuni numeri dei Dialoghi degli antichi letterati
nell’Eliso3, che m’accingo a leggere. Allora un tale, che io conosceva
appena di vista, mi addocchia; viene a salutarmi e mi domanda il mio parere
su quel nuovo Giornale. Ti giuro, o lettore, che prima di rispondergli mi
risovvenni dell’incontro di questa mattina nella libreria del Genio. Pure
riflettendo che è facile trovare gli scrittori nelle botteghe de’ librai, ma che
debb’essere difficile di ritrovarli alle tre dopo mezzodì in una bottega da
Caffè, risposi francamente a chi mi interrogava, che quel Giornale non mi
piaceva.
— Signore — prese a dirmi l’Interrogante con un sogghignetto asperso di
fiele — le parole «non mi piace» son presto pronunziate. «Ma tanto è il
sussurro levatosi in Lombardia per le critiche di questi Dialoghi degli
antichi letterati, che molti si mostrano fautori loro, e molti acerrimi nemici,
ed hanno già un gran moscherino al naso. Ma finalmente l’Italia vede
rinnovata una frusta atta a reprimere gli impeti della folta schiera de’ cattivi
scrittori; che essendo augelli palustri, tentano pure coll’ali tarpate d’ergersi
a volo, e che sciagurati van pure stuccando i colti Italiani»a.
— Oh che buona memoria ha Vossignoria — risposi io; — mi par proprio
di rileggere alcuni passi dei Dialoghi quando la sento parlare. Pure mi
creda, che tutto questo susurro sta solo negli orecchi dei Morti o dei Vivi
che scrivono quel giornale; e se ora se ne parla un po’ più, è tutto merito del
noto dialogo fra Taddeo Giornalista e Matteo suo compare4. E continuando
appunto sulle parole da lei riportate, le par egli che i Dialogisti dell’Eliso
dovessero dire che l’Italia «ha una folta schiera di cattivi scrittori», essi che
hanno eloquentemente sostenuto «essere durissimo a comportarsi che si
affermi con tanta sicurezza che gli stranieri siano feracissimi di scrittori più
che gli Italiani non sono in materia d’opere dotte; e che quindi si accresce
orgoglio agli stranieri i quali pongono in non cale il bel giardino di natura»?
b. Con sua licenza però, io non la credo vera una sì gran trascuranza degli

stranieri; ed ella mi permetterà anche di osservare che il bel «giardino di


natura» non c’entra per nulla nella quistione; e che quando si parla di libri
non si tratta di piante o di biade. Ella mi permetterà anche di dirle, ch’io
trovo tal fondo di pedanteria in quelle quattro paginette ebdomadali, da non
lasciarmi sperare che questa nuova frusta possa far «levar le berze» ai
cattivi scrittori; e giovare come l’antica al nostro gloriosissimo stivale. Chi
può leggere e non sorridere quando i Machiavelli, i Danti, i Petrarchi, i
Virgilii lodano un certo tale loro associato, di cui hanno inscritta una lunga
lettera nel loro Giornale; e lo lodano perché «ha mostrato di ben conoscere
la lingua latina, ed ha fatto delle giuste riflessioni sovra una traduzione»c?
Chi può leggere e non sorridere quando il nuovo Aristarco, rispondendo a
due lettere inedite di suoi privati corrispondenti, occupa il Pubblico d’una
lezioncina d’ortografia; e non arrossisce d’insegnarci che «buon Italiano»
va scritto senza apostrofe, e che non si può scrivere «anzietà» ma «ansietà»,
e che «legiadria» va con due g? Chi può leggere e non sorridere, quando i
candidi scrittori dell’Eliso per tacciare d’indigesta erudizione l’autore di un
Discorsof, in cui doveasi fare necessariamente un rapido cenno di diverse
specie di scrittori italiani e stranieri, raccolgono da sessantadue pagine i
nomi di tutti quegli autori, e ne formano una mostruosa congerie? O quando
per burlarsi dell’Arici e chiamarlo «Campione d’Amore», infilzano uno
dopo l’altro vari versi di lui in cui è nominato «l’Amore»; ma che erano nel
suo poema5 collocati ad opportune distanze? O quando, per rimandare il
ridicolo al Giornalista Matteo, trasportano la scena di quel Dialogo dalla
stanza del Giornalista al «Verzé» di Milano6, dove piantate quattro scranne,
lo fanno cianciare all’aria apertag?
Mentre io parlava queste cose, m’andava lentamente sorbendo il «nettare
nero»; e senza accorgermi alzava alquanto la voce.
Quand’ecco un altro del crocchio venire al mio tavoliere, e dirmi ad alta
voce ancor esso: — queste le son freddure, signor mio, che vanno perdonate
perché introdotte a bella posta onde imitar meglio la Frusta letteraria. Ma
chi potrà negare, per esempio, che il carattere d’Aristarco Scannabue non
sia ben sostenuto da capo a fondo?
— Oh — ripres’io — non tocchiamo questa corda; che a proposito di
quel povero galantuomo del Baretti quondam Aristarco Scannabue, ho fatto
stanotte un sogno, ma un sogno tale ch’io voleva stamparlo come una
visione; se non fosse ora inutile, dopo le mille visioni che abbiamo, lo
stamparne una dippiù.
— Ehi, amici, sentite — disse quel primo — il signore ha una visione
sovra il Baretti. Pregatelo ancor voi che voglia raccontarcela. Son curioso di
sapere cosa ha veduto di bello il nuovo Veggente. — E tutti quattro que’
signorini mi circondarono.
— Non vorrei che questa elettissima schiera s’immaginasse — soggiunsi
con voce ancor più sonora del solito — ch’io dormendo non pensi, in quella
guisa ch’altri non pensano nemmeno vegliando. Però se bramano
assolutamente ch’io narri il mio sogno, sono pronto a servirli.
SOGNO DEL GALANTUOMO

Sappiano le Signorie loro che questa notte mi è comparso il Baretti in


abito d’Aristarco; ma con faccia tutta infuocata e con quella sua ferita sul
labbro superiore che parea stillar sangue, e brandendo nell’aria la sua gran
sciabola damascena che spandeva intorno una luce di lampo. Non vedi
come son rosso? mi disse con un tuono di voce da far sentire il più sordo
dei sordi. Neghittoso! Tu lasci che altri si usurpi in terra il mio nome e mi
calunnii settimanalmente, stampando ch’io sono Presidente d’infiniti geni
maggiori di me, ai quali appena m’accosto con rispetto; e che tengo
sessioni, e che fo gride e decreti, e che converto in somma la letteratura in
altrettante citazioni e rabulismi forensih. Se tu avessi pubblicato un qualche
confronto fra la mia Frusta letteraria e i Dialoghi degli antichi letterati
nell’Eliso, non sarei stato costretto a saltare a cavallo d’un vento, e a
prendermi in corpo, ossia nell’anima, il più lungo di tutti i viaggi per venire
a protestare alla terra che quel leone d’Aristarco non si cura di voi; e che
non basta porsi intorno al collo una criniera rossiccia, e provarsi a ruggire,
per essere creduti leoni. Bell’invenzione veramente! far credere al mondo
ch’io, che ho composto un giornale originalissimo, volessi ricorrere alla
triviale idea di farne e di scriverne un nuovo con altrettanti Dialoghi de’
Morti. Come se dopo Luciano7, Fenelon8, Montesquieu10, Fontanelle11, e
l’aureo mio Gaspare Gozzi12, e le Lettere Virgiliane del Bettinelli13, e tutte
in corpo le Notti romane di quel nobilissimo ingegno del Verri14, fossero
cosa degna di me dei nuovi Dialoghi dei morti! E su che? Sui punti e sulle
virgole, e sulle costruzioni viziose dell’Arici, e sulle Cronache di Pindo15, e
sulle pessime traduzioni dal Greco di un certo Padovani, e su cento altre
cose che nemmeno voi altri viventi curate di leggere.
Almeno questi orgogliosi, che si sono accinti a far parlare
settimanalmente i più grand’uomini del mondo, avessero almeno saputo
colorire i caratteri ch’ebbero in vita; porli in contrasto fra loro; far nascere
in somma quell’interesse drammatico, senza il quale una continuata serie di
conversazioni sepolcrali debb’essere un Giornale così papaverico da far
morire per sonno il benigno lettore. Ma anzi che serbare costumi e caratteri,
Omero presso di loro la sa lunga quanto Machiavelli, e Machiavelli ha tutta
la semplicità dei tempi di Omero; e tutti quegli altri genii immortali non
sanno entrare in discorso se non s’interrogano per esempio così: «e che ne
dice il Tasso? e come la pensa Aristotile? e che te ne pare, Messer
Boccaccio?» e Tasso, Aristotile e Boccaccio ti so dir io che rispondono a
meraviglia. Peggio poi, mille volte peggio quando i Vivi-morti autori dei
Dialoghi pensano per raro accidente a far nascere l’illusione drammatica e
introducono per modo d’esempio Anacreonte a dire queste precise parole:
«Io era con Batillo: Tu Aristarco me ne allontanasti. Ma se ora mi conti
queste cacabaldole e nulla di più importante, puoi lasciarmi tornare a lui»i.
Che ve ne pare? Anacreonte con Batillo16! quando tutti sanno che per una
straordinaria giustizia di Giove i Batilli non arrivarono mai nell’Eliso? E
cacabaldole non è egli un gentil vocabolo che consola a sentirlo, e che
suona assai bene sulle labbra dell’elegante Cantore della voluttà17? Ma
queste sono bagattelle. Io sì (corpo del finimondo), io sì che ho ragione di
arrossire più di tutti, perché sono più di tutti strapazzato da chi ha preteso
sollevarmi al grado di presidente della Accademia Elisea. Signori
Giornalisti novelli, che razza d’amicizia è la vostra? farmi ripetere nei
vostri giornali senza veruna ragione questo e quel passo della mia Frusta,
come se credeste così di scolpir bene il mio carattere, e non aver poi alcun
rispetto alle mie opinioni ed a me? Chi si sarebbe mai aspettato che voi mi
chiamereste un «sanguinario», perché usando una metaforica frusta volli
darmi il cognome di Scannabue; e veniste ad insegnarmi che colla «frusta
non si può scannare?»j. Chi crederebbe che mi faceste dire il più solenne
sproposito che sia mai stato detto da che si è parlato dell’Eliso, cioè «che là
non v’è luce diurna, né ore che misurino il tempo»k: quando persino i
ragazzi sanno a mente questi bellissimi versi del geografo dell’Eliso, voglio
dire di Virgilio,
Devenere locos laetos et amoena vireta
Fortunatorum nemorum, sedesque beatas.
Largior hic campos aether et lumine vestii
Purpureo: solemque suum, sua sidera norunt.
Libro VI18.

Ciò fatto, a i luoghi di letizia pieni,


All’amene verdure, a le gioiose
Contrade de’ felici e de’ beati
Giunsero alfine. È questa una campagna
Con un aër più largo, e con la terra
Che di lume di porpora è vestita,
Ed ha il suo sole e le sue stelle anch’ella.
Traduz. del CARO19.
Considerate ora s’io poteva mai dire quella bestialità, e se voi dovevate
scriverla.
Non mi ricordo in qual sito, ma voi mi fate confessare ch’io sapeva poco
di latino quand’era vivo; e per render noti al vostro mondo i progressi, che
nell’idioma del Lazio abbiamo fatto nell’altro, io e i vari letterati italiani
sottoposti alle vostre magiche evocazioni, voi signori avete la bontà di
porne in bocca ad ogni tratto qualche elegantissimo testo, come a dire
«quandoque bonus dormitat Homerus»20 — «male si mandata loqueris aut
dormitabo aut ridebo»21 — «Quousque tandem abutere patientia nostra»22
— «viresque acquirit eundo»23 — «Ridendo dicere verum quid vetat»24 —
«laterem lavare»25 — «verba ligant homines taurorum cornua funes»26 —
«Verbum non amplius addam»27, e tanti altri aurei detti degni del famoso
maestro di grammatica Barbetta28; per la di cui morte piangono i supini, e
si disperano i gerundi insieme ai participii.
Se io, signori Dialogisti dell’Eliso dei due Muri29, fui costretto a
discendere a qualche minuzia grammaticale, ed a modi grossolani, questa
era piuttosto colpa degli scrittori coi quali aveva a fare, che colpa mia. La
più parte di loro ignoravano affatto la lingua; erano digiuni affatto di buon
criterio e di idee; e tali dovevano essere quei tanti pastorelli Arcadi da me
flagellati, e gli altri autoruzzi dei quali voleva purgare la patria in un secolo
che insaniva per Chiari e per Goldonil.
Affine di riuscire nell’impresa, posi nella mia Frusta la sostanza
d’infinite cognizioni che avea raccolte in Inghilterra ed in Francia, e nel mio
vario soggiorno in diversi paesi. Lodai ad ogni occasione i buoni filosofi
morali, e gli storici, e gli scrittori sommi in letteratura di quelle due grandi
nazioni: parlai delle vere ricchezze delle lingue, e dimostrai con sane
ragioni la gran borra che c’è nella nostra; e tutto questo, facendo suonare la
frusta sulle late spalle di quegli uomini grossi, i quali non si sarebbero
nemmeno accorti del tenue pungolo di una ironia delicata.
Or voi, signori Dialogisti, m’imitate assai male affaticandovi in lunghe
censure grammaticali, poiché i recenti scrittori pensano e scrivono assai
meglio di quelli de’ miei tempi, e non bisogna seccare il mondo per
minuzie, né rinnovare la tirannide della pedanteria, alla quale io feci
accanitissima guerra. Chiunque pertanto fra voi ha osato chiamarmi
farnetico per le cose che ho scritte sulla lingua italianam, chiunque, sotto il
mio nome stampa un giornale nel quale si vorrebbe impedire lo studio che
gli Italiani debbono fare de’ buoni scritti stranieri, quegli tenta distruggere
le fatiche che m’hanno abbreviata la vita, e sperderne il frutto; quegli è un
temerario che m’offende; ed io non so che mi tenga che con questa sciabola
di tempra immortale non faccia saltare quel capo vuoto…
Nel dire queste parole Aristarco cominciò a tagliar l’aria col ferro come
se volesse giunger qualcuno, e a muoversi intorno con tanta furia, ch’io
temendo non mi prendesse in isbaglio nell’impeto dell’ira, mi riscossi dal
sonno; e trovai che l’alba inviava già sul mio letto la sua placida luce.

Terminato così il racconto del sogno, voleva andarmene pe’ fatti miei; ma
uno del crocchio, il quale teneva un libro vecchio sotto il braccio destro, mi
trattenne per la falda dell’abito, e mi disse: — Non le negherò che i
Dialoghi dell’Eliso annoierebbero meno se fossero scritti drammaticamente
come vorrebbe il suo Aristarco. Ma ad ogni modo, chi mai potrebbe
dissimulare i pregi di lingua che in essi risplendono?
— Nessuno — risposi — ed io molto meno degli altri; poiché vedo in
quest’istante sotto il suo braccio la gran miniera dalla quale i Dialogisti
cavano i tanti tesori che poi profondono a man piene.
— Come? Ella conosce questo libro?
— Sì certo: I modi di dire toscani ricercati nella loro origine da
Sebastiano Pauli31. V’aggiunga un po’ di Crusca nei radi luoghi dove tace
il Pauli, e presto s’infiora di toscanesimi uno stile per nulla italiano, e si
scrive per ingiuriare un poeta che onora l’Italia32 questo intero periodo: «Ei
roda pure i chiavistelli, che i muccini hanno aperto gli occhi, e i cordovani
sono rimasi in Levante, anzi non è più tempo che Berta filava, e i paperi
menavan l’oche a bere»n. Io le giuro che se il gran Sancio Pancia, scudiere
del gran D. Chisciotte, fosse nato italiano e non spagnuolo, egli avrebbe
saputo scrivere nell’Eliso, e soddisfare ad un tempo la sua bella passione
per i proverbi.
— Mi pare — rispose l’uomo dal libro vecchio sotto il braccio — ch’ella
«monti sul quamquam, e attacchi ad un arpione i riguardi». Le duole
dunque che siasi strapazzato il poeta Monti? I Dialogisti sono imparziali,
signor mio, e non guardano più che tanto. Essi sanno lodare l’Autore delle
Cronache33 dimenticato da tutti, e biasimare il Traduttore dell’Iliade
ammirato da tutti. In letteratura non si deve sentire amicizia.
— Né inimicizia — ripresi. — Le par egli che Omero debba stringere le
labbra quando gli si parla di quella versioneo; e che debba dirsi un «ardito»
chi la chiamasse opera classicap, e che debba affermarsi che Monti
disprezza le Cronache perché non sono un «Centon di Lucanei concetti?»q.
Se si procede di questo passo fra noi, come osar poi di esigere che gli altri
ci rispettino? Qualunque nostro oscuro scrittore può avvilire, e
impunemente contaminare di fiele il nome di un Poeta celebre in Europa;
ma se uno straniero che abbia gran fama ancor esso, avventura in mezzo
alle lodi qualche giudizio un po’ severo sulle cose nostre, ecco meniamo un
rumore che pare che l’Italia si sobbissir; e citiam tosto, per provare le nostre
glorie recenti, i Visconti34, i Lagrangia, ecc., e quel Monti medesimo che
indegnamente e con manifesta contraddizione amerebbero alcuni di poter
calpestares!
— Non vorrei che le venisse la febbre, sig. Galantuomo; e badi bene che
il riscaldarsi per gli altri nuoce alla salute ed alla fortuna. Ma pur
concedendole che di Monti, poeta e letterato noto in Europa, si debba
parlare con più rispetto; non resterà provato per questo che la sua Iliade sia
il non plus ultra dell’ingegno umano; e che uno scrittore che ha tradotto
senza grammatica greca, abbia veramente tradotto. Io che sono amico dei
Dialogisti dell’Eliso, so che fra loro ve n’ha uno che sa di greco, quanto un
Lexicon37; e ch’egli farà conoscere molte false interpretazioni del Monti, e
che poi tradurrà da capo a fondo tutti i classici greci38.
— Questo sarà veramente — diss’io di rimando, — un impadronirsi della
Grecia a colpi di penna. Ma la prego di dire al suo Grecista-Poeta, che per
ora temperi alquanto la grande persuasione delle sue forze; poiché non si
può parlarne con tanta fidanza se non dopo averle mostrate. S’egli ha
ingegno, sarà meglio per noi e per lui stesso; purché sappia farne buon uso,
e impari un tantino a pensare. Intanto del suo Saggio sul Callimaco si può
dire con tutta verità, che la palma rimane ancora al faentino Dionigi
Strocchi39. Ma tornando all’Iliade di Monti le risponderò che sino da
quando comparve quella traduzione si agitò la gran disputa — «Se un Poeta
che non conosca il greco possa tradurre Omero». — Allora un illustre
Scrittore disse e stampò, che il Monti confermava coll’esempio suo la
sentenza di Socrate «essere l’intelletto altamente ispirato dalle Muse il
miglior interprete di Omero»t. Allora si addusse l’esempio di Pope40 che,
conoscendo pochissimo il greco, ma avendo anima poetica, diede ancor
esso all’Inghilterra la miglior versione della divina Iliade. Né questo farà
meraviglia se non a chi sia tanto nuovo da non sapere che dopo che esistono
lettere al mondo non si è fatto altro dai filologi e poeti e critici di tutti i
paesi che comentare, interpretare, notomizzare Omero; e non solo nei versi
e nelle parole, ma sto per dire nei punti e nelle virgole. Non si è fatto altro
che tradurlo in mille modi e fedelissimi e infedelissimi; in guisa tale che col
soccorso del latino, e con quello di altre lingue moderne e della erudizione,
il Monti ha potuto invasarsi del senso, della forza, dell’intenzione segreta,
d’ogni parola del gran Cantore Meonio. Né questo solo; ma più che tutto gli
giovò la profonda cognizione ch’egli ha di Virgilio, il quale dal canto suo ha
conosciuto ed emulato Omero più che qualunque altro poeta. Così l’autore
della Basvilliana, colui che ha restituito il culto di Dante in Italia, ed
emendata la famosa arroganza di que’ Novatori che volevano imporre un
secondo esigilo al sovrano Cantore dell’Inferno e del Cielo41, è riescito a
rendere nostro concittadino il primo e più glorioso alunno delle Muse42; e ci
ha fatto dono d’una versione che sta all’Iliade come quella del Caro
all’Eneide. E se queste ragioni che sono intrinseche non bastano, io gliene
addurrò alcune altre che fanno più effetto su certe teste. Abbiamo quattro o
cinque versioni pubblicate dai Grecisti Italiani, e nessuno può leggerle;
quella del Monti all’opposto è letta e studiata in tutta l’Italia; e si deve
rispettare il suffragio di una Nazione. Consentono nel nostro giudizio anche
gli stranieri più colti; testimonio il giudizio di Ginguené43, e si deve
rispettare l’universale consenso degli stranieriu. Monti ha sottoposto l’opera
sua alla recensione di Visconti44, di quel Visconti che tutti lodiamo come
profondissimo conoscitore dell’antichità, e come grecista che supera forse il
sapere del Lexicon dei Dialogisti. Egli dunque lodò altamente quel nobile
lavoro e notò con liberale esempio di amicizia letteraria i dubbi più lievi che
potessero insorgere, confrontando il testo greco alla versione italiana. Ora
Monti, con docilità non meno bella, ha talvolta rinunciato alla grazia e
all’armonia de’ suoi versi, per eseguire nella seconda edizione
fedelissimamente tutte le emendazioni proposte dal Grande Erudito Italiano
del nostro secolov.
Se dopo tutto questo le signorie loro non sono contente, e se trovano a
ridire sovra un vocabolo od una frase od un verso, in un’opera che consta
appunto di diciannove mila due cento quaranta quattro versi, da me contati
sulle punta delle dita per comodo di chiunque, si servano pure; io non verrò
a contrastar loro un sì bel privilegio. E uscendo finalmente da questo Caffè,
lascerò ai Vivi-morti autori dei dialoghi il buon giorno nel nostro mondo, e
la buona notte nel loro Eliso, «ove non è che luca».

a. Pagine 25 e 26 n. IV, e p. 18 n. III.


b. P. 14 n. II.
c. P. 28 n. IV.
d. Discorso sull’Ingiustizia di alcuni giudizi letterari italiani.
e. Vedi pp. 42, 43, 44 n. VI, e p. 53 n. VII.
f. Colle belle invenzioni di sessioni, di presidenze, di gride credono gli autori dei Dialoghi di
dilettare il pubblico9.
g. P. 174 n. III.
h. P. 3 n. I.
i. P. 9 n. II.
j. Si pretende che gli Eredi del Baretti abbiano finalmente ritrovato, fra alcuni manoscritti
dimenticati, la continuazione delle Censure di Aristarco Scannabue sovra gran parte del Teatro
Comico di Carlo Goldoni30.
k. P. 14 n. II.
l. P. 46 n. VI.
m. P. 24 n. III.
n. P. 46 n. VI.
o. P. 47 ivi35.
p. I giudizi di Madama Staël sulle cose italiane riportati nello Spettatore, non possono ora
giustamente esserle attribuiti, come viene da noi dimostrato nel Capitolo VIII36.
q. Nei Dialoghi dell’Eliso alludendosi, come tutti sanno, al Monti, Machiavelli lo chiama uomo di
«buon naso», affinché Aristarco gli possa rispondere: «Ebbene io m’inchino profondissimamente alla
nasevolissima nasagine del nasutissimo naso suo, perché sappia tanto ben fiutare» (p. 45 n. VI). Bello
spirito veramente e bella giustizia!
r. Vedi la prefazione di UGO FOSCOLO all’Esperimento di Traduzione dell’Iliade.
s. Vedi il Giornale che ha per titolo Mercure étranger.
t. Vedi la prefazione del Monti alla seconda edizione della sua Iliade45.

1. Alfieri. Sul Salvini, v. Carmelo Cordaro, Anton Maria Salvini, Piacenza, 1906.
2. G. Parini nel Mattino, vv. 140-143.
3. È il periodico, di cui parla il Giordani in una lettera all’Acerbi, del 6 giugno 1816: «Guardate un
poco cosa sia quel giornale in forma di dialoghi dei morti che doveva uscir ieri» (A. Luzio, Giuseppe
Acerbi e la Biblioteca Italiana, in «Nuova Antologia», 1896). Era un periodico classicheggiante,
ostile a Mad. de Staël e ai fautori delle letterature straniere. Fu pubblicato da Bernardo Bellini: dal 5
giugno 1816, n. I, al 23 ottobre 1816, n. XXI, col titolo: I Dialoghi, ossia la Conversazione degli
antichi letterati negli Elisi.
4. Apparso nella Biblioteca Italiana. Vedi p. 303. Erroneamente il Borsieri in verte qui i nomi.
Alla stessa guisa il Bettinelli, fin dal 1770, nelle Note all’Entusiasmo [nelle belle arti] aveva
disdegnato «lo stile delle Notti di Young, di Gessner e d’altri stranieri, venuto alla moda».
Vedi Il Parnaso in rivolta, Milano, Mondadori, 1940, pp. 259-280, e pp. 296-299.
5. La Pastorizia, Brescia, 1814. B. I., t. II, pp. 180 e 313; t. III, p. 58.
Cesare Arici di Brescia, verseggiatore ripulitissimo, scriveva più per istudio di eleganze,
vagheggiate e disposte alla maniera dei classici, che non per ispirazione. Nel 1815 aveva pure fatto
una raccolta di suoi Inni di Bachillide (sic), cioè di nove carmi in terza rima, «supposti tradotti da un
testo di Bachillide», che poco o nulla avevan di Bacchilide, ma riecheggiavano piuttosto la
traduzione di Callimaco in terza rima, che nel 1805 aveva stampato Dionigi Strocchi. L’inno a Venere
era stato da lui composto per le nozze del Perticari; e tutta la raccolta voleva essere un saggio di
poesia pronuba e amorosa. I romantici se ne presero giuoco e gli animi tanto si turbarono, che l’Arici
ebbe un orrendo pensiero: che i romantici avessero comprato molti esemplari del libro per
distruggerli.
Quei classicheggianti ammettevano che potesse esservi il poeta più d’arte che di genio. E i
romantici buttavano all’aria tutta la poesia d’arte erudita, perché per loro forma significava principio
formativo interiore, non fraseologia pseudopoetica.
Ma in questo caso anche «gli Elisei», capitanati da Bernardo Bellini, gli furono contro per interessi
polemici particolari e specialmente per ostilità alla Biblioteca Italiana, che tra il maggio e il luglio
del 1816 aveva pubblicato tre articoli del Giordani in lode dell’Arici. Dice il Monti nel Dialogo di
Matteo e Taddeo: «Il nuovo mandatario de’ morti mi ha dimostro che la Pastorizia dell’Arici è
meschino poema, e per lo contrario poema meraviglioso le Cronache di Pindo [dell’Anelli]».
Ribadisce il Giordani nella chiusa del terzo articolo, difendendosi dalla taccia di aver lodato La
Pastorizia dell’Arici per adulazione: «qualche scimunito vorrebbe in vece esaltare certe miserabili
buffonerie che in questi tempi uscirono col nome di Cronache di Pindo: le quali a me pare (e forse
altri dimostrerà) che siano l’estremo ludibrio e la più brutta prostituzione delle povere muse italiane».
Il Borsieri, come è evidente, in questo caso stette col Monti e col Giordani. Si possono rileggere gli
articoli del Giordani in Opere, Firenze, 1846, cit., I, pp. 390-431. Sull’Arici: Amalia Sannoner,
L’ultimo cultore del genere didascalico, in «Commentari dell’Ateneo di Brescia», 1931-32.
6. «Verzé in Milano il luogo principale dove stanno le trecche (mercatine) e dove per conseguenza
vive la purissima lingua di Meneghino». (Nota ai Dialoghi del Monti, Venezia, 1841, p. 148). La
trovata voleva essere una lepida risposta alla Biblioteca Italiana, ostile ai dialetti. Vedi p. 291.
7. Luciano scrisse i Dialoghi degli dei, i Dialoghi dei morti, i Dialoghi marini, e i Dialoghi delle
cortigiane, fra i quali i più famosi sono quelli dei morti, che ispirarono poi, tra gli altri, anche
Gasparo Gozzi, traduttore e imitatore.
8. Fénelon, Dialogues des Morts, celebri, scritti tra il 1700 e il 1718.
9. «Rabulismi»: è parola foggiata su rabula, dal latino ràbula, avvocato ciarlone, facile a
scalmanarsi.
10. Montesquieu, Dialogue de Sylla et d’Eucrate.
11. Fontenelle, Dialogues des Morts (1683). In italiano fu spesso usata nel Settecento e
nell’Ottocento la forma Fontanelle.
12. Il Gozzi tradusse e inserì nel Mondo morale pubblicato a puntate nel 1760, alcuni dialoghi di
Luciano, che furon riprodotti, insieme con le traduzioni di Spiridione Lusi, nell’edizione pubblicata a
Venezia, con la data di Londra, negli anni 1764-1767, Delle opere di Luciano filosofo tradotte dalla
greca in italiana favella.
13. Saverio Bettinelli, Lettere di Virgilio agli Arcadi, dai Campi Elisi.
14. Vedi pp. 278-280. Quei Dialoghi furono veramente inefficaci, non solo per l’abuso della
figurazione, ma anche per la pochezza del pensiero. È da ricordare che anche nel t. I del Caffè (1764-
1765) Giuseppe Colpani aveva introdotto otto Dialoghi dei morti. Su di essi vedi Maria Gallioli,
Alessandro Verri, Milano, Soc. dei Giovani Autori, 1921, p. 162. Il Dialogo IV, Platone e Diogene,
del Colpani, è stato riprodotto dal Piccioni nel vol. Giornalismo del Settecento, Torino, Utet, 1949,
vol. 68 di questa Collezione.
15. Vedi il capitolo seguente.
16. Batillo, poetastro dell’età di Augusto, contemporaneo di Virgilio. L’Eliso era, secondo gli
antichi, il soggiorno degli eroi, dei sapienti, dei poeti, dei virtuosi, non dei poetastri.
17. Anacreonte.
18. vv. 638-641.
19. vv. 950-956.
20. Orazio, Ars poëtica, v. 359.
21. Ivi, vv. 104-105.
22. Così comincia la prima delle Catilinarie di Cicerone e san la frase fin gli scolaretti.
23. Virgilio, Aeneis, IV, 175.
24. Leggi: «Ridentem dicere verum quid vetat?» (Chi impedisce di dire la verità anche col riso?).
Orazio, Sermones, lib. I, sat. I, 24-25.
25. Laterem lavare (later, lateris, mattone) equivale al nostro detto: «lavar la testa all’asino». È in
Terenzio.
26. Legan le parole gli uomini, le funi le corna dei tori.
27. Non aggiungerò più parola (Orazio).
28. Caratteristica figura di pedante nell’insegnar il latino.
29. Argutamente il Monti nel Dialogo di Matteo giornalista, cit., aveva già detto che «la gran
caravana» aveva «preso alloggio al vicolo dei due Muri nella stamperia Visaj e compagni, n. 1047».
30. Notizia scherzosa. Bastano quelle della Frusta, delle quali quelle su Pietro Chiari sono
fondatissime, perché era un arruffone di letteratura e un mestierante di romanzi e teatro; sono un
errore critico quelle sul Goldoni, perché il Baretti non comprese la forma d’arte del grande
commediografo.
31. Il p. Sebastiano Paoli, lucchese, orator sacro, amico dello Zeno, del Muratori, di Scipione
Maffei, nel 1740 aveva pubblicato a Venezia i Modi di dire toscani ricercati nella loro origine.
32. Vincenzo Monti.
33. Angelo Anelli.
34. G. B. Visconti ed Ennio Quirino Visconti, padre e figlio.
35. Intendi: perché sono troppo semplici, sobrie di parola e stile, laddove egli tende al concettismo
e alle gonfiezze di Lucano. Vedi per questa critica al Monti il cap. VI del Borsieri, a p. 343 di questo
volume.
36. Davide Bertolotti nel fase, di luglio-agosto dello Spettatore aveva pubblicato un nuovo
articolo, intitolato La gloria vendicata dalle imputazioni della signora di Staël-Holstein, in cui con
paroloni rinfacciava alla scrittrice di «aver bruttato di fango il peplo della veneranda Italia, e di aver
disfigurato con mano profana gli splendidi lavori dei suoi figli». Per provare l’accusa aveva spigolato
non pochi giudizi sfavorevoli, che la Staël aveva dato sull’Italia e sui costumi degli italiani nell’opera
De la littérature considérée dans ses rapports avec les institutions sociales (cap. X, De la littérature
Italienne et Espagnole), scritta nel 1798, cioè vent’anni prima, e pubblicata nel 1800. Anche il
Giordani, che pur non consentiva con le idee romantiche della Staël, pensava che quelle citazioni non
fossero più tempestive, perché la Staël aveva poi meglio giudicato l’Italia. Scriveva egli all’ab. G. B.
Canova il 19 agosto 1816: «Son veramente dette da lei [cioè, dalla Staël]tutte quelle cose
irragionevoli sopra l’Italia, e non è calunnia attribuirgliele. Ma molte furon dette in quel Saggio sopra
la letteratura, che stampò molto tempo prima di venire in Italia, e perché le furono rimproverate,
promise di ritrattarle e di fare un’opera che gliene desse occasione. Fece la Corinna; e molte cose
anche ivi fece dire a taluno contra gli Italiani, alle quali introdusse chi rispondesse e con molte lodi
dell’Italia. Però l’imputarle ciò che disse nella prima opera, e ciò che nella seconda è detto per modo
di obbiezione, e dissimularne le risposte, è un volere piuttosto vincere ad ogni maniera, che lealmente
combattere».
Era, cioè, un cambiar le carte in tavola e perciò qui il Borsieri preavverte che i giudizi dati dalla
Staël nell’opera stampata nel 1800 non possono essere argomento di polemica nel 1816, dato che la
scrittrice aveva scritto Corinne, in cui dell’Italia si parla con entusiasmo, amore e più viva
conoscenza.
Infatti molti giudizi da lei dati nell’opera De la littérature erano inaccettabili; per es., questo sul
carattere sonoro, tutto esteriore, della nostra lingua e sulla poca attitudine degli italiani alla
concisione del pensiero e alla poesia profonda: «Le bruit retentissant de l’Italien ne dispose ni
l’écrivain ni le lecteur à penser, la sensibilité même est distraite de l’émotion par des consonnances
trop éclatantes. L’Italien n’a pas assez de concision pour les idées; il n’a rien d’assez sombre pour la
mélancolie des sentiments… L’extrème facilité de la langue italienne est un de ses défauts et l’un des
obstacles qu’elle offre aux bons poètes pour élever très haut la perfection de leur style… L’Italien
cause souvent une sorte de lassitude de la pensée: il faut plus d’efforts pour le saisir à travers ces sons
voluptueux, que dans les idiomes distincts qui ne détournent point l’esprit d’une attention abstraite».
Nel romanzo Corinna ella aveva parlato dell’Italia con ben altra conoscenza; e nel 1816, scrivendo
ai «Compilatori della Biblioteca Italiana», aveva ragione di dire che in nessuna opera di là dai monti
l’Italia era stata fin allora più lodata che in quel romanzo: «i giornali francesi, inglesi, tedeschi,
rendendo conto di quest’opera – ella soggiungeva – hanno tutti notato che essa faceva vivamente
amare il paese di cui rappresentava l’immagine».
37. Quanto un vocabolario greco. È Bernardo Bellini.
38. Il Monti nel dialogo di Matteo giornalista, cit., aveva ricordato la traduzione, che il Bellini
aveva pubblicato dell’inno di Callimaco a Giove e aveva soggiunto: «con coraggio da Ercole ne
promette la traduzione di tutti i Classici greci».
Per quella «Erculea, o vogliam dire Atlantea» promessa vedi la lettera del Leopardi Ai compilatori
della «Biblioteca Italiana» (da Recanati, 7 maggio 1816) nel vol. II degli Scritti letterari di G.
Leopardi per cura di G. Mestica, Firenze, Le Monnier, 1899, pp. 81-88; e l’Epistolario del Leopardi a
cura di F. Moroncini, Firenze, Le Monnier, 1934, pp. 28-29. Ivi, a p. 32, con lettera del 17 novembre
1816 il Leopardi scrive all’Acerbi: «L’articolo sopra il Bellini fu scritto da me in tempo che non
sapea dell’autore di quelle Conversazioni d’Eliso che, come è conveniente trattandosi di morti,
puzzan tanto di sepolcro e d’obblio». Altre notizie sul Bellini si possono ivi leggere a p. 4T e a p. 79.
39. Inni di Callimaco di D. Stracchi, Milano, 1805; ristampati a Bologna e a Firenze nel 1816.
40. Alessandro Pope, vissuto dal 1688 al 1744, è noto specialmente pel poemetto riccio rapito; ma
compose anche Epistole, Satire, Saggi in versi (Saggio sulla critica; Saggio sull’uomo) e tradusse in
inglese l’Iliade.
41. Sono il Bettinelli, autore delle Lettere virgiliane, e i suoi seguaci, che ritenevano la Divina
Commedia opera di secolo barbaro, poema «gotico». Il Bettinelli nel 1796, nei Dialoghi d’amore,
accennando al giovine Monti, imitatore di Dante nella Basvilliana, lo aveva detto «Spartaco e
Masaniello in poesia» e, parlando delle imitazioni barbariche, che venivan di moda a dispetto della
radiosa dottrina artistica del bello assoluto, aveva esclamato: «Corri, o Nume del Parnasso italiano e
salva l’Italia, che già sente il redivivo seicento, diviene inglese e tedesca… Salvate la vostra età, o
italiani, dal precipizio imminente». Il Galeani Napioni, amico del Bettinelli, con lui del tutto
consenziente nell’estetica del bello ideale e nella critica a Dante, aveva poi indicato tra i nuovi
pervertitori della poesia gli autori di «romanzi pieni di lutto e di morte» [alludeva ai Dolori del
giovine Werther del Goethe e alle Ultime lettere di Jacopo Ortis del Foscolo; 17 luglio 1807]; i
seguaci dell’Alfieri, che senza avere la sua indole tragica, «congiungevano il genio sanguinario
straniero, cioè l’imitazione dello spaventoso Tragico inglese [Shakespeare], coll’antica ferocia
ghibellina di Dante» [alludeva specialmente al Monti, autore dell’Aristodemo, del Galeotto Manfredi
e del Caio Gracco]; gli ossianici, i quali volevano «far retrocedere la Poesia sino ai tempi dei canti
ferali dei Bardi» [così nella Vita del Bettinelli, da lui scritta al principio del 1809].
42. Dante nel Purgatorio, c. XXII, vv. 101-102, aveva detto Omero
quel greco
che le Muse lattar più ch’altro mai.
43. Vedi p. 124.
44. Ennio Quirino Visconti.
45. La prima edizione era apparsa nel 1810; la seconda, corretta di sui consigli dati al Monti da
Luigi Lamberti, Andrea Mustoxidi, Ennio Quirino Visconti, nel 1812. Altri emendamenti con
amorevole cura furono dal traduttore introdotti nell’edizione del 1820 e in quella definitiva del 1825.
CAPITOLO QUINTO

IL PASSEGGIO
Con quel che segue
O cenni sulle «Cronache di Pindo», e sull’Opera buffa.
C’è per tutti il suo tantino Ma conviene meritar.
Il Sedicente Filosofo,
opera buffa d’Incerto.

Avviandomi verso la Porta Orientale della nostra bella città, trovai gran
gente che s’accalcava intorno alla colonna del Leone. M’accosto, interrogo,
ed un garzoncello mal calzato e peggio vestito che mi stava alle spalle, «è
un malfattore», mi risponde, «che or ora hanno qui arrestato»; e ciò detto mi
dà un’occhiata, sorride, e canterellando quest’arietta
Offa che a far di tutto
Rendi la gente esperta,
Deh vieni, a bocca aperta
Noi t’invochiamo qua,

mi si dilegua dalla vista.


Guarda un po’, dissi tra me, come son belli e popolari questi versi;
persino i ragazzi se li ricordano e li cantano!
E in questa, frugandomi nelle tasche per cercare la tabacchiera, trovo che il
fazzoletto era sparito. Allora intesi meglio di prima l’occhiata, il sorriso, e
l’arietta; e così d’un’idea nell’altra, passeggiando sempre verso i Giardini,
mi risovvenni ch’essa formava parte di un coro d’un’opera-buffa, scritta
dall’autore stesso delle Cronache di Pindo1, tanto lodate nel giornale
dell’Eliso. Ma o fosse che mi dolesse d’essere stato gabbato coi versi di
quel Poeta, o fosse la noia sofferta prima in caffè, o qualunque altra causa,
questo so dirvi che io non mi sentiva troppo disposto all’indulgenza, e la
ragionava fra me stesso così:
Gran senno veramente e grande amore della gloria italiana hanno
mostrato gli Scrittori dei Dialoghi nell’Eliso calcando Monti e levando al
cielo il Cronista di Pindo, «per le allegorie e capricciose allusioni, per
l’abbondantissima erudizione, per l’ordine, la condotta, lo stile facile, i
motti, e più di tutto la purezza della buona lingua toscana con cui tesse una
storia letteraria cronologica della poesia»a. Queste son cose per le quali
hanno gran ragione di far dire all’Ariosto che il Cronista di Pindo ha
propriamente tutto il suo stile; né ciò bastando, di farlo compiangere da
quella santa anima del Tasso come poeta ora invidiato e perseguitato pel suo
gran meritob. Ma dove hanno la testa le signorie loro? Non si ricordano che
Traiano Boccalini ha scritti due bei tomi dei Ragguagli di Parnaso, in due o
tre dei quali, ad onta del secolo infelice in cui visse2, si trova più brio,
ingegno, forza d’invenzione e sano giudizio che in tutte le cinque Cronache
di Pindo sinora pubblicatec? Non si ricordano che il buon Tiraboschi3 ha
fornito al Cronista di Pindo l’abbondantissima erudizione, e tutti i giudizi
ch’ei pone in versi sul valore de’ vari nostri scrittori? Dove hanno la testa le
signorie loro! Non degnano di considerare che dopo che Alessandro Verri
ha scritto dell’Alfieri «ch’ei creò l’arte dal nulla e lasciolla compiuta»d;
dopo che un intiero popolo consente nell’ammirarlo, dopo che gli stranieri
non osano più negare un gran Tragico a questa gloriosa terra d’Italia, non
degnano, dissi, di considerare che lo scrivente di lui
Un certo Alfier testé là giunto a caso,

cioè, giunto in Pindo senza merito alcuno, è profanazione non perdonabile


mai da chi abbia pudore e riverenza verso i grandi ingegni, e rispetto verso
la patria che ne adora la ricordanzae?
Né giova il dire che il nostro poeta mira, tassando l’Alfieri, ad
allontanare i principianti da una sconsigliata imitazione del meccanismo del
verso alfierano. Perché sono molti anni che l’Alfieri confessò le mende
delle sue prime quattro tragedie, e verseggiò meglio le successive; e sono
molti anni, che se ne fecero dai Pedanti Italiani le risa grandissime e le
parodie; componendo persino un’intera tragedia intitolata il Socrate, i di cui
versi erano tutti congenati di Tu e di t’haitu e dei i’ lo tengh’io e di
monosillabi a bizzeffe, e d’altre tali freddure4. Che dirò poi delle fine
allusioni delle Cronache di Pindo, le quali secondo me sono veramente
cronache? Petrarca «in cappa da canonico, Shakespear col grembiale da
ciabattino», Dante con una «pelliccia or guasta dai tarli»… Povero Dante!
non l’avrei mai creduto che il tempo non rispettasse tutto ciò che
t’appartienef! E Alfieri, così mal concio dal Cronista, indovinate un po’ che
cosa è divenuto in Pindo? Il persecutore dei ribelli; il persecutore che fa
punire i congiurati contro la maestà del Duca Apollo. Va là, mio caro Duca
di Pindo, che puoi dormire tranquillo quando sei sotto la guardia di Vittorio
Alfierig!
Ma le allegorie, le allegorie sono qualche cosa di portentoso. Eccovene
una che vi darà gran dilettoh. Un principe vuol far rinascere il «Secol d’oro»
e per questo, bisogna dar pensioni e far tripudiare i letterati. Ma siccome
l’economia pubblica insegna che non si deve profondere il denaro, così
avviene che le pensioni sono rare; e che i letterati se le disputano con ogni
sorta di viltà e di persecuzioni. Ora per rivestire di simboli questa dolorosa
verità, state a vedere che ha immaginato il nostro poeta.
Quel principe si fa portare da un cortigiano un’asta lunga lunga da cui
pende un filo d’oro, e dal filo d’oro una focaccia; poi divertendosi intorno
ad un lago ove sono schierati molti poeti, fa saltellare sull’onde il «buon
boccone». E allora i letterati dentro nell’acqua, e si affannano e guazzano e
guizzano, e addentano come anime dannate quelli di loro che riescono a
staccare una briciola dalla larga «pagnotta». Veramente un pezzo di pasta
malcotta non mi pare che sia così ghiotto boccone da poter simboleggiare
con proprietà gli onori ed il lucro di cui sono avidi i letterati! Pure chi
crederebbe ch’una sì grottesca idea (e il grottesco è il genere meno
ingegnoso di tutti) sia fra quelle più predilette dal Cronista di Pindo? Grazie
al mio perduto fazzoletto, mi risovvengo benissimo che qualch’anno prima
che comparisse la Cronaca del «secol d’oro», lo stesso autore, ponendo in
iscena le Bestie in uomini, aveva nel secondo atto decorato il teatro con una
«immensa pagnotta» conficcata ad un’asta, intorno alla quale danzava una
danza rabbiosa l’innumerabile schiera dei bisognosi d’ogni sorta. Il petente
impiego, l’artigiano, il falso letterato, poco dissimile dall’artigiano, il
facchino, tutti coloro insomma che non ebbero, nascendo, dalla fortuna altro
patrimonio che l’ingegno, o la destrezza e la forza delle loro mani, erano
rappresentati da un coro che intuonava intorno all’asta lunga lunga i bei
versi
Offa che a far di tutto

con quel che segue. Della quale specie di crudele ridicolo, niuno che
l’intendesse poteva prenderne diletto; e nemmeno quei rarissimi che
vengono al teatro levandosi da una mensa incoronata di rose e di tazze
dorate. Poiché siamo tutti uomini; e la compassione che rimane muta nelle
circostanze della vita per la prepotenza dell’interesse personale, parla poi
eloquentemente in teatro ove nulla costa l’essere buoni o il comparirlo. La
natura vuole uno sfogo.
Io non so dunque perché il fecondissimo autore delle Cronache abbia
copiato se stesso in cosa tanto cattiva; né perché essendo dotato di buon
ingegno, non sappia derivarne miglior frutto. Non vuoisi negare, per
esempio, ch’egli abbia l’arte di ben tornire le ottave, e di scrivere in versi
con una certa naturalezza e facilità sebbene la facilità non sia dote gran fatto
ammirabile in un paese, che abbonda d’improvvisatori; e in una lingua tanto
ricca di consonanze com’è la nostra. Al che si aggiunge che non avendo
egli uno stile che si conservi sempre eguale; ma usando e frasi e idee che
ogni altro scrittore più sollecito della buona scelta rifiuterebbe, gli riesce
senza gran fatica di conciliare a’ suoi versi quell’apparenza di naturalezza
che non basta però a sedurre i buoni intelligenti. E chi ha famigliarità coi
poeti converrà meco, che dopo alcune stanze in cui si veggono ricopiati da
lui i modi e le frasi dell’Ariosto, altre ne saltano fuori che ricordano affatto
lo stile delle opere buffei.
Lo stesso dirò de’ bei motti e delle arguzie di lui che pur tanto si lodano
dai benevoli Dialogisti dell’Eliso. A conti fatti per ogni cinque delle sue
tante facezie, un paio sono insipide; altre due son vecchie o note come la
barba d’Aronne; il resto è passabile ma grossolano, poiché le fine saette non
sortirono mai dal suo turcassoj.
Questo non sarà forse difetto di naturale capacità nel poeta; ma avvezzo,
com’egli è, ad ottenere i facili applausi del pubblico, nelle opere buffe,
argomenta forse che la grossolana festività della quale si diletta la
moltitudine possa piacere anche in un poema. Ognun vede quanto ei
s’inganni; e ognuno vede altresì che poteva risparmiare nel testo e nelle
note delle Cronache le tante allusioni e dichiarazioni sulla incalcolabile
difficoltà di comporre ora un’opera buffa. Sì certo, i cantanti esigono molto;
e il pubblico vuole oltre le ariette, che bastavano un tempo, e duetti e
terzetti e quartetti e quintetti e cori e introduzioni e finali; vuole in somma
un’opera buffa. Ma questa finalmente non è la decimaterza fatica d’Ercole,
ove si consideri la facile contentatura del pubblico, che non bada al libretto
purché la musica sia buona. Se mi si domandasse però come debba
comporsi un’opera buffa per farla bene, risponderei: io voglio che l’azione
sia naturalmente aggruppata e naturalmente bene sciolta; voglio che il
ridicolo non si confonda colla scurrilità, e che sia uno spontaneo effetto dei
vari caratteri de’ personaggi ben disegnati e ben condotti; voglio che le
sentenze e le arguzie da Bertoldo5 sieno bandite dalla scena; e che il diletto
non risulti finalmente né da ariette equivoche, né da gesti poco misurati
degli attori. Chi adempisse tutte queste condizioni e scrivesse una
bell’opera buffa, meriterebbe assai lode. Ma chi scrive ora in tal guisa
un’opera buffa?…
Queste e altre cose ragionando
Che la commedia mia cantar non cura6,

m’accorsi d’esser giunto a pie’ delle scale per le quali dai Giardini si sale al
Bastione Orientale; e guardando in alto vidi un tale, ch’io conosco
perfettamente per uomo che ha fatto bene a molti e male a nessuno, il quale
passeggiava tutto solo e pensieroso. Montando dunque le scale, mi procurai
la buona avventura letteraria di cui vi renderò conto nel seguente capitolo.
Ecco la polvere del Pim-pirimpara
Che quanto più si guarda men s’impara?
E dopo sì belle eleganze, osa scrivere della Secchia rapita del Tassoni
L’acqua che versa a noi quella tua Secchia,
Checché ne dica un qualche Gemignano,
Talvolta al gusto mio sa di pantano.
[Stanza 45, Cron. 3a].
E spiega poi nelle note che oltre alcune cose sconce di quel poema, molti notarono pure in esso
«parecchi difetti di stile e di lingua». Modestissima spiegazione, per la quale altri potrebbe credere
che la Secchia rapita valga assai meno delle Cronache di Pindo!

a. P. 10 n. II dei Dialoghi.
b. Vedi p. 11 idem.
c. Nella Cronaca terza à menzionato il Boccalini con questi soli versi:
E ride il Boccalin di quella arena
Che in Adria un dì gli fracassò la schiena.
Il Poeta poteva farlo ridere anche delle Cronache di Pindo, come d’una cattiva imitazione in versi
de’ suoi Ragguagli.
d. Vedi la prefazione di Verri alla traduzione del Giacomelli dei Detti e Fatti Memorabili di
Socrate7.

e. Un certo Alfier testé là giunto a caso,


Tratto un aguzzo stil, i’, grida, i’ vegno ec…
[Stanza 18, Cronaca 1a].
Loda ognun quell’Alfier ch’è sì valente
Nel gran mestier di spaventar la gente…
[Stanza 21, Cron. 1a].
Quel fiero Alfier vie più di gloria caldo
[Stanza 23, idem ].
Grida tu chi se’ tu ma in tuono tale,
Che diresti, al sentirlo, è il temporale.
[Stanza 25, idem ].
……non ti naseondo
Che Mirra più di Fedra in ogni core
Affetti or desta affatto nuovi al mondo;
Quell’innocente incestuoso ardore,
Quel venereo furor sì vereeondo ec.
[Stanza 25, idem ].

Si noti che appena Mirra diviene rea della sola manifestazione del suo amore fatale, ella s’uccide;
e poi s’ammiri il bello spirito e la verità degli ultimi due versi succitati.
f. L’autore è troppo occupato per fare una rivista esatta di ciascuna delle cinque Cronache.
Accenna soltanto le cose che si ricorda d’aver notato leggendole.
g. Vedi la stanza 23, Cron. 1a.
h. Vedi la Cronaca terza, intitolata Il secol d’oro.
i. Adduciamo qualche esempio desunto dalla Cronaca del secol d’oro, e precisamente da quelle
ottave che comprendono la bella allegoria della focaccia.
Parlando del Principe che voleva far nascere il Secol d’oro, dice (stanza 52):
Si scorge una regal mensa imbandita
Cui vari duchi infra l’arrosto e il lesso
Sedean raccolti a singolar congresso.
I principi quando seggono a congresso non seggono a mensa; né è mensa regale quella coperta
d’alesso e d’arrosto.
Parlando d’alcuni letterati favoriti dai principi gli chiama (stanza 53):
….. Dotti parecchi,
Cui d’imporre ai Signor la grazia tocca,
Che a sé la pancia empiano, altrui gli orecchi,
Filosofia parlando a piena bocca.
A bocca piena non si può parlare di cosa veruna e molto meno di filosofia; quell’empirsi la pancia
è frase da trivio; ed essere un dotto cui tocca la grazia d’imporre ai Signori, non significa in italiano
«aver la fortuna di farsi stimare oltre i proprii meriti, o di darla ad intendere ai Signori», a guisa del
modo francese en imposer à quelqu’un, come ha creduto l’Autore. Ed egli, che è tanto lodato per la
«purità della lingua», dovea sapere che imporre, secondo la Crusca, vale soltanto comandare o
sovrapporre; e si usa anche in altri sensi che sono però sempre derivati da questi due primi.
Narrando poi la favoletta della risposta di Virgilio,
Cioè che Maro, autor di sì gran peso,
Disse Augusto esser figlio d’un fornajo,
E ciò per la ragion che quel Sovrano
Il fornia di pagnotte a larga mano.
[Stanza 63].
vengono i seguenti nobilissimi versi sulla pagnotta [Stanza 64]:
Questo scherzo capir della pagnotta
Fa il gran poter,
I miei grand’avi hanno promosso il gusto
Col dispensar pagnotte al par d’Augusto.
[Stanza 66].
Oggi però che in tanto golfo immersi
Stanno i poeti, e che l’odor del pane
Fa più che in altra età nascere i versi,
Olà grida, chiamando un de’ suoi ghiotti,
Recami quel cotal che adesca i dotti.
Per «quel cotal che adesca i dotti» s’intenda la pagnotta; ma qui veramente non c’è troppa purità
d’espressione!
E finalmente nella stanza 71:
Buffone adulator, brigante infame,
Dir senti ognun che la pagnotta pigli.
Se questo è lo stile dell’Ariosto, o noi non c’intendiamo nei termini, o l’Ariosto scrive assai male!
j. Eccone alcune che daranno idea di molte altre. Per porre in ridicolo il Giornale di Scienze e
Lettere ora cessato, il Poeta, dopo averlo personificato, lo fa arrivare in Pindo
Sopra una mula che rincula e spara.
[Stanza 74, Cron. 2a].
Per burlarsi dei cattivi poeti, dice che l’acqua d’Aganippe mette loro in corpo
Furor di versi e diarrea di sciolti.
[Stanza 17, Cron. 3a].
Parlando dei faziosi partigiani del Marini contro lo Stigliani, ei li dipinge in atto di batterlo
E senza ai Duchi alcun riguardo avere
Chi con pugni lo pesta infino all’osso,
E chi con calci gli sconcia il sedere.
[Stanza 94, Cron. 3a].
Per indicare la bassa origine del Ciampoli lo chiama
Il Ciampoli dal fango e dai pidocchi
Giunto agli onori.
[Stanza 21, Cron. 3a].
Per ischerzare sul poema dell’Asino del Dottori sorte fuori in quel novissimo equivoco
Ch’ogni buon Padovan pien di stupore
Vide un Asin dar fama ad un Dottore.
Per dipingere in due versi la Novità, dopo averla personificata, le fa dire (Stanza 34, Cron. 3a)
Non vi pare essa un cerettano [sic], che mostrando la magìa bianca esclami:
Apri omai gli occhi, e vedi a questa prova
Che chi mi cerca più, manco mi trova.

1. Angelo Anelli, di Desenzano sul Garda, dal 1799 al 1817 fu a Milano il più prolifico facitore di
libretti seri e giocosi per musica. Nel carnevale del 1815 aveva fatto rappresentare in un teatro di
Milano l’opera buffa Dalla beffa al disinganno, con musica del Pacini. In essa aveva introdotto la
caricatura del Monti e, secondo una tradizione, anche quella del Giordani e quella dell’Acerbi. Il
pubblico si era preso spasso della satira e il governo l’aveva proibita. Ma l’Anelli, che, per guadagnar
denaro, scombiccherava libretti a getto continuo, allestì altre opere del genere: Il matrimonio per
procura e Il Carnevale di Milano. Dal profluvio de’ suoi libretti basti ora trarre alcuni titoli: Il
disertore (a scherno di un rivale); I saccenti alla moda; Bestie in uomini; Il poeta negli Elisi; La
lanterna di Diogene; La secchia rapita; L’oro fa tutto; La Griselda (dalla novella del Boccaccio). Il
più ricordato è l’Italiana in Algeri (1813), per la musica del Rossini.
Tra il 1811 e il 1818 l’Anelli pubblicò a Milano in ottava rima anche Le Cronache di Pindo (che
nel titolo richiamano I ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini), con invenzioni giocose e
satiriche, con motteggi e sferzate, giudizi e ritratti. Nella prima di esse sono indicati gli argomenti
delle varie cronache, che egli si proponeva di far apparire periodicamente: La Congiura; La Frusta; il
Secol d’oro; L’Arcadia e il voto de’ pastor più degni; L’Oracolo; La Rupe; Il Concistoro ecc. Nella
Congiura si prende giuoco dell’Alfieri, del Cesarotti pel travestimento omerico e dei maggiori poeti
stranieri che i contemporanei ammiravano, quali il Klopstock e lo Schiller. Questo già dice che era
avverso ai romantici. Perciò il Borsieri gli risponde nelle Avventure, prendendolo pel bavero e
guardandolo in faccia. Ancor più reciso nel disdegnare l’Anelli fu il Giordani, che disse delle
Cronache di Pindo: «Queste miserabili buffonerie sono l’estremo ludibrio e la più brutta
prostituzione delle povere muse italiane». Il Tommaseo giudicò l’Anelli «facitore di libretti per
musica dei meno infelici, ed arguto, ma abietto».
In realtà quella testa balzana, tra tutte le sue trovate giocose e spavalde, dà l’impressione di un
ingegnacelo sprecato. Era nato nel 1761; morì nel 1820.
Su di lui: Guido Bustico: Un letterato del periodo napoleonico. Angelo Anelli, in «Rivista del
Garda», Salò, 1914. Di una delle «Cronache», La Rupe, che descrive una fiera libraria, indetta da
Apollo in Pindo, 1818, vedi un riassunto con alcune ottave nel vol. I delle Discussioni e polemiche a
cura del Bellorini, cit., p. 422. La Rupe è l’ultima delle Cronache dall’Anelli pubblicate; la settima.
2. Nel Seicento.
3. Con la storia della letteratura italiana.
4. Socrate di Vittorio Alfieri, Londra, per G. Hawkins, 1788. Parodia dello stil alfieriano,
compilata dall’improvvisatore Gaspare Mollo, Gasparo Sauli e Giorgio Viani. Vedi su di essa la
lettera dell’Alfieri a M. Bianchi e a T. Mocenni, del 7 ottobre 1788.
5. Allude alla celebre istoria villanesca di Giulio Cesare Croce: Le sottilissime astutie di Bertoldo,
Bologna e Modena, per G. M. Verdi, 1608; Le piacevoli et ridicolo se simplicità di Bertoldino, ivi,
1608.
6. «Che la mia comedìa cantar non cura». Dante, Inf., XXI, 2.
7. La prefazione è la lettera Agli amatori dell’italiana letteratura
CAPITOLO SESTO

L’INCONTRO D’UN POETA


o idee sovra Lucano, sovra l’imitazione dei grandi scrittori stranieri, e sul
discorso di Lodovico di Breme.

Vivit, et est vitae nescius ipse suae


OVID.
Vive, e di quanta vita egli nol sente!

— Che fate voi qui sulle mura — dissi al Poeta1 — fuggendo il consorzio
degli altri mortali? Meditate forse un nuovo Inno alla divina Pallade dalle
«glauche luci», per la quale intuonaste già questi bei versi:
Tremenda alta Reina,
Cui diletta per mezzo alle battaglie
Il nitrir de’ cavalli
Il picchiar degli scudi
Delle rote il fragor; che la grand’asta
Sull’egida battendo, empi di lampi
Di Maratona i campi
E le rupi Erettee; Tu che d’Atene
Vai per la notte oscura
Visitando le mura, e ti palesa
Il risonar dell’armi
E il sibilar delle gorgonie serpi
Sull’usbergo immortal… ec.2.

Adesso — proseguii — Pallade non si diletta più di visitare le mura né


d’Atene né d’altra città ma se avrete pazienza d’aspettar sino a sera,
incontrerete invece Venere protettrice, accompagnata dal solito corteggio di
Bacco Momo e Como; i quali tutti vengono sul fresco a godersi il vario
spettacolo delle pazzie di noi altri mortali.
— Tu vuoi — rispose il poeta — ridere de’ nostri costumi ed io te ne
lodo; purché ti guardi, o giovane, dall’amaro sogghigno del Cinico e sorrida
coll’austerità d’uno Spartano, che calca le rose e rispetta l’alloro ovunque
egli sorga.
— L’alloro — ripresi io — già da gran tempo verdeggia sulle vostre
chiome, e…
— No no — m’interruppe il poeta — io non sono da tanto. Onoro con la
fronte per terra i grandissimi ingegni che hanno in versi mirabili saputo
esprimere le bellezze della natura, e gl’intimi sentimenti dell’anima umana;
ma ne seguo le orme e non più.
— Lasciamo un po’ queste vane cerimonie. Voi siete illustre poeta, e tutta
l’Italia lo grida.
— Dalla bocca d’uomo che non suole mentir mai, ricevo questa lode con
onesta compiacenza. Pure non sarai così all’oscuro delle novelle letterarie
della nostra città, da non sapere che alcuni scrittori sostengono ch’io invece
di Virgilio e di Dante e degli altri pochi Sommi non istudio che i centoni di
lucanei concetti3;, e che voglio porre in voga Claudiano4 e Stazio5, e
convertire tutti i versi fatti e da farsi in tante gonfie vescichea.
— Bisogna lasciarli sfogare — diss’io — tutti coloro che sono poveri
d’immagini e di pensieri vorrebbero ridurre la poesia alla lunga lunga
semplicità e tenuità de’ modestissimi versi del Trissino; e a loro
giustamente par gonfio tutto ciò che è pieno. Ma voi avete una colpa, e ne
scontate debitamente la pena. Chi mai v’insegnò di scendere a misurarvi
con loro, o di volerne i suffragi, o di ribatterne le censure? Osate una volta
essere voi stesso, e taceranno. Sovvenitevi che l’Alfieri sprezzava altamente
gli ingiusti o maligni giudizi di chicchessia; e che fra le sue satire quella
contro i pedanti è forse la più bella. Sovvenitevi che Parini sotto queste
medesime piante che ci difendono ora dal sole, passeggiava sdegnoso e non
curante del volgo; e che qui forse concepì quel suo nobile proponimento:
Non moverò mai corda
Ove la turba di sue ciance assorda.

Meditate infine le belle parole del Tasso recentemente riportate da voi


stesso, «che il buon letterato si separerà dal volgo coll’altezza dell’animo e
degli scritti, ne’ quali ha poca forza la fortuna, e nessuna la potenza de’
grandi».
— Confesso l’errore — rispose il poeta — e ricevo il consiglio. Ma so
ben ancor io che i miei versi, come tutte le altre opere dell’umana
debolezza, hanno le loro mende e non poche; né si può cercare una virtù
dello stile senza incontrarvi a lato, come avvertirono Orazio e Longino6, il
suo contrario vizio cui sempre non si riesce a sfuggire.
— Bene sta — ripresi — che voi parliate in tal guisa: ma starebbe ancor
meglio che cessasse una volta quel volgarissimo abuso della critica italiana,
la quale per un’ombra, per un neo, per que’ difetti che sono fors’anche
indipendenti dall’ingegno dello scrittore e appartengono soltanto alla natura
dell’argomento assunto a trattare, condanna risolutamente al disprezzo le
opere d’uomini sommi; e s’affatica poi a far riconoscere col microscopio
ogni impercettibile bellezza degli scrittori mediocri. Chi può tollerare per
esempio, che si faccia ancora tra noi un così vile strapazzo della fama di
Lucano? Sventuratissimo poeta, al quale Nerone troncò la vita, non avrà
egli, dopo tanti secoli, ancor placata l’invidia dei falsi dittatori del gusto?
Ma scrivano essi a ventisette anni un poema come la Farsaglia; e ardiscano
esser pronti a morire, come fece quel magnanimo, ne’ bei giorni della gloria
e della gioventù, e allora si arroghino di giudicare o di avvilire Lucanob.
— Pareggiare Lucano all’Achilini7 — prese a dire il poeta — è mera
pazzia; né vuoisi contrastare a nessuno il diritto di sbizzarrirsi. Bensì mi
duole quasi di avere scritto di lui che la Farsaglia, perché mancante «del
maraviglioso», è riguardata dai critici come un’ampollosa storia in esametri.
Allora io seguiva la sentenza de’ nostri commentatori d’Aristotele, né volli
maturarla né ci pensai; ma certo è sentenza acerbissima. E veramente qual è
mai quel buon critico, che considerando l’altezza del soggetto trattato da
Lucano (le discordie civili del più gran popolo della terra e la rivalità di
Cesare e di Pompeo), possa negare alla Farsaglia il nome di poema, solo
perché manca del «meraviglioso» della favola? Ma lo splendore istorico di
grandissimi fatti e di grandissimi personaggi operanti in tutto il corso
dell’azione poeticamente concepita e dipinta dalla forte fantasia di Lucano,
non crea forse un «meraviglioso» bastante a rapire il lettore, e più bello,
perché più vero? Un maraviglioso più degno di poesia, perché non
sottoposto come quello della favola al variare delle opinioni e delle religioni
dei popoli; ed immortale, dirò così, quanto i nomi stessi di Cesare e di
Pompeo? E se anche lo stile del nipote di Seneca9 sentisse talora del tronfio,
convien considerare che molte volte grandeggia davvero, ch’egli compose il
suo libro nell’impeto della gioventù e in tempi in cui tutto volgendo alla
corruzione pareva ai buoni ingegni di non istudiar mai abbastanza, nella
vita loro e negli scritti, la grandezza e la nobiltà. Quindi facilmente l’abuso,
e talora anche la falsa apparenza del grande. Ma il genio, quantunque
traviato, rimane genio pur sempre; e la lindura e la correzione sono doti
comunemente più proprie a coloro che scrivono per arte e non per natura.
Al solo Virgilio fu conceduto d’essere in tutto eccellente.
— Or bene — diss’io — giacché senza pensarci siamo entrati in un
argomento di molte dispute d’oggidì, apritemi anche la vostra opinione
sovra il recente consiglio dato agl’Italiani dalla Baronessa Staèl di tradurre
le opere eccellenti degl’Inglesi e dei Tedeschi.
— Tradurre ed imitare non è copiare; conoscere le perfezioni d’un’altra
letteratura non è lo stesso che stendere un velo su quelle della nostra. Bensì
colui che a questa delicatissima opera s’accinge deve profondamente
conoscere e l’indole propria della nostra, e quella propria della letteratura
che prende ad imitare, onde non violare né l’una né l’altra o con licenza
sconsigliata o con servile fedeltà. Però darei quest’incarico a quei soli
scrittori che hanno già colle opere loro acquistata l’autorità di servire
d’esempio. Così s’arricchirebbe il tesoro de’ poetici modi, si offrirebbe ai
lettori il diletto di contemplare alcune forme del bello per anco ignote, e si
aprirebbero fonti ancora intatte d’invenzione alle fantasie de’ poeti, ornai
isterilite dalla uniforme imitazione dell’antichità. Né si deve credere che le
forze del proprio genio possano bastare a tuttoc. Chi ebbe mai più genio di
Dante? Eppure egli studiò per sino i Trovatori provenzali, e derivò molte
bellezze dalla loro poesia, e citò con riverenza i nomi di alcuni di loro nel
suo divino poema. Lo stesso possiam dire di Petrarca, lo stesso dell’Ariosto,
la cui fantasia non sarebbe divenuta sì grande e meravigliosa senza la
lettura de’ Romanzi di cavalleria. Ora dimando se Dante, Petrarca, Ariosto
vivessero ai nostri dì, trascurerebbero essi di meditare Shakespear, Schiller,
Calderone10, essi che non disprezzarono i Trovatori e i Romanzieri?
Non è dunque un’ingiuria il consigliare gli Italiani ad offerire ai genii
immortali d’altre Nazioni quel tributo ch’esse porgono ai nostri con loro
profitto. Io non ho ancora sentito che niuno a Londra abbia dato taccia di
cattivo inglese all’egregio T. J. Mathias, perché ristampò in eleganti volumi
i migliori classici italiani; ovvero perché compose egli stesso nobilissimi
versi e purgate prose nella nostra favella. Niuno lo fulminò d’anatema per
queste belle parole da lui scritte: «Vorrei che nelle nostre Università fosse
eretta, sotto la protezione reale, una cattedra espressamente per l’universale
letteratura italiana, per onorare discretamente i suoi più degni seguaci e
professori, per promovere le loro ragioni, ed acquistare tra noi alla toscana
favella uno stabile e permanente domicilio»d.
Niuno lo chiamò sleale a Shakespear, od infedele a Milton, perché cantò
del Petrarca, di Messer Lodovico, di Torquato, e del Guidi i versi che sono
per dirti:
Vedi, chi già con sì soave pianto
In altre valli, e presso ad altri fiumi,
Chiamò gli estinti lumi,
E ’l viso, e ’l guardo in lagrimoso canto,
All’ombra e al ventilar del dolce lauro
De’ suoi stanchi pensier almo ristauro.
Eccoti là sul ferrarese fiume,
Di color vari e vaghi asperso l’ale,
Divin labro sciogliendo in lieta rima,
E in maggior carme, il favoloso nume!
Senti come in favella aurea immortale
Misurata grandezza il Tasso esprima,
Lungo l’etereo clima
Gridando: salutiam l’augusta tomba!
Dal suo carro il Pavese alto e gagliardo
Volge a Dirce lo sguardo,
Emulo alzando la tebana tromba,
E regolando ai gran destrieri il volo
Pel deserto sentier balena solo.
............
O bei fiumi britanni,
O aure, o valli, o patrie selve, o campi,
La congiunta armonia, l’eletto suono
A voi divoto io dono;
(La santa fiamma al cor sempre m’avvampi!)
Udite, udite; né l’amata lingua
Di bocca in bocca mai fra voi s’estinguae.

— Parmi — soggiunsi — che le ragioni e gli esempi da voi addotti,


sciolgano il nodo della quistione; e piacemi di dire a voi stesso, a voi
studiosissimo di Virgilio e di Dante, che dai vostri scritti traspare la buona
amicizia che vi lega anche con Shakespear… A proposito, sapete voi che
alcuni nuovi critici fanno gran rumore, perché in certi versi avete collocato
il sole sul trono della luce?
— Ho capito — disse ridendo il poeta — essi confondono la ragione
astronomica colla poetica, e non immaginando nel sole che una gran massa
di fuoco o d’altra materia, trovano assurdo che si ponga un «globo a sedere
sul trono della luce». Ma Febo non siede egli sul «carro della luce», e non
flagella Eto e Piroo senza che i Critici se ne possano lagnare? E Ovidio non
diede egli al Sole un palagio reale ed un tronof? Perché dunque non poteva
io concedergli altrettanto?
— I vostri scomunicatissimi versi — ripresi — Claudianeschi,
achilineschi, marineschi, son quelli dove parlate della somiglianza che
corre fra il sistema celeste ed il sistema monarchico; e prendendo le
immagini dal Sole, simboleggiate i felici effetti di un tranquillo governo, e
le orribili conseguenze delle sovversioni politiche nel modo seguente:
Delle stelle monarca egli s’asside (il Sole)
Sul trono della luce, e con eterna
Unica legge il moto e i rai divide
Ai seguaci Pianeti, e li governa.
Per lui natura si feconda e ride,
Per lui la danza armonica s’alterna
Delle stagion, per lui nullo si spia
Grano di polve che vital non sia.
E cagion sola del mirando effetto
È la costante, eguale, unica legge,
Con che il raggiante imperador l’aspetto
Delle create cose alto corregge.
Togli questa unità, togli il perfetto
Tenor de’ vari moti onde si regge
L’armonia de’ frenati orbi diversi,
E tutti li vedrai confusi e spersi;
E l’un l’altro inghiottire, e furibondo
Il mar levarsi e divorar la terra,
E squarciarla i Vulcani, e nel secondo
Caos gittarla gli elementi in guerra12.

— Tu mi fai risovvenire che questa è una mia imitazione di Shakespear.


— Tanto meglio; per tal guisa si vedrà che si ponno imitare i
settentrionali anche parlando della luce; e il forte argomento, o piuttosto la
bella frase, che le nostre fantasie non «debbono prendere le immagini dai
ghiacci e dalle nebbie del nord», perderà gran parte del suo magico effettog.
Non poco romore, continuai, si muove ancora contro l’autore di un
Discorso intorno l’ingiustizia di alcuni giudizi letterari italiani; ma quanto
a me, credo che tutta la più severa censura di quello scritto si possa ridurre a
queste due cose: lo stile è bello frequentemente, ma non però sempre
eguale; e le opinioni dell’autore essendo non comuni in Italia andavano
preparate ed esposte con maggior artificio. Chi perdonerà per esempio al
signor di Breme d’aver chiamato Goldoni un «Paron Veneziano»13? È vero
ch’ei lo nomina a proposito del Torquato Tasso, commedia ove sono
travisate le passioni e il carattere del Cantore della Gerusalemme;
commedia ove l’ispirazione poetica si dipinge coi nobilissimi colori della
pazzia; commedia finalmente che il Goldoni non avrebbe mai scritto, se
avesse considerato che le passioni infelici non debbono essere un soggetto
di ridicolo, e molto meno le passioni di quel «grande discepolo della gloria
e della sventura». È vero ancora che la fama del Goldoni è cresciuta
rapidamente in un secolo in cui l’Italia non conosceva altre commedie che
quelle così dette «dell’arte», improvvisate a capriccio dai Comici; e che
quindi molta parte della presente nostra ammirazione è in certa guisa un
legato lasciatoci da que’ buoni uomini d’allorah. È vero che allora era
facilissimo sedurre il pubblico, e che Carlo Gozzi fece espressamente
l’esperimento delle sue Fiabe, coll’assurdità delle quali rovinava
intieramente il teatro di Goldoni. È vero che leggendo le Memorie del
Goldoni si vede chiaramente ch’ei non conosceva né gli uomini, né le cose,
né i buoni libri; e vi s’impara il perché egli sia così eccellente nella pittura
dei caratteri della plebe, e così mediocre in quella degli «uomini di mondo,
dei cavalieri di buon gusto, e delle donne spiritose». Tutte queste cose sono
vere, e molte altre che compariranno nell’Analisi critica del Baretti trovata
recentemente; ma queste cose o non si sanno o non si pensano da tutti. Anzi
non si teme di contrapporre Goldoni ad Alfieri, e di stimarli pari fra loro,
ciascuno nel suo genere, e di decretare ad entrambi gli stessi onori. Si dirà
che è meglio largheggiare con Goldoni, che aver la vergogna di confessare
che non abbiamo un eccellente autore di Commedie. Io non sono di questa
opinione; perché a forza di lodarlo se ne consiglia e se ne rende necessaria
l’imitazione, e s’impedisce che i nuovi scrittori intendano meglio l’arte, e
studino modelli migliori.
Il Poeta udiva e non confermava questa mia tiritera contro il Goldoni; ma
conveniva che non si debba chiamarlo un «Paron Veneziano», quand’anche
si voglia così significare che le sue commedie in dialetto veneto sono le più
belle e le più spiritose. Indi, venendo sul proposito di quel Discorso,
— Mi pare — disse — che nessuna risposta o decente o ragionata siasi
data fin qui allo scritto del signor di Bremei. Egli assunse a provare che la
Baronessa di Staël-Holstein ha lodati degnamente i più grand’uomini
italiani, e riporta per questo vari bei passi della Corinna, nei quali per verità
Dante, Petrarca, Tasso, Ariosto, Colombo, Michelangelo, Raffaello,
Pergolesi, Galileo hanno un solenne e pomposo elogio. Ha pure assunto a
provare che la letteratura così detta romantica non è frutto esclusivamente
proprio del Nord; poiché la Divina Commedia, il Canzoniere del Petrarca e
il Furioso appartengono a tal genere di poesia che non ha verun modello
nell’antichità greca e latina; e che essendo tutto animato dalle idee dello
spiritualismo, del cristianesimo, e del genio cavalleresco, racchiude appunto
in se stesso i tre principali elementi della Romantica. E volendo legittimare
coi precetti questa specie di letteratura, ha recate in mezzo le favorevoli
considerazioni del Gravina, che è l’unico profondo critico del nostro
Parnaso. Ha finalmente asserito che i presenti Italiani non emulano
abbastanza in fatto di lettere i grandissimi esempi dei loro maggiori; e in
conferma di questa asserzione, ha prodotte le autorità di Ba-retti, di
Calsabigi e d’Alfieri che hanno pronunciato lo stesso giudizio. Quando
dunque sarà provato che queste sue opinioni non sieno vere, e che
l’appagarsi della gloria degli avi sia lo stesso che possederne una propria,
allora soltanto potrà dirsi essere quel Discorso «una troppo tenera difesa di
alcuni illustri stranieri».
— Né stranieri — soggiunsi — devono essere mai chiamati gli scrittori
veramente grandi. Poiché le belle ed utili opere loro li rendono cittadini di
tutti que’ paesi in cui sono lette e studiate, e a cui per tal guisa viene
comunicato il frutto delle loro lunghe vigilie.
Mentre si parlavano fra noi queste cose, eravamo giunti al Teatro della
Scala, dove sentii le voci dei due miei amicissimi Silvio P.15 e Carlo G.16,
che mi chiamavano da lontano, invitandomi a desinare con loro dal Trattore
più famoso della città. L’invito mi fu carissimo; onde preso congedo
dall’ottimo Poeta, raggiunsi i due… Ma il resto lo scriverò poi.

a. Vedi Dialoghi nell’Eliso a p. 65 n. VIII.


b. Il Galantuomo si riscalda a favore di Lucano perché forse aveva presente che Nerone, il quale
pretendeva d’esser poeta, lo condannò a morire per lievi indizii di cospirazione; ma in realtà per la
gran invidia che gli portava. Tacito racconta che Lucano, segate già le vene, sentendosi mancare le
forze, si risovvenne di avere dipinta nella Farsaglia una simile immagine di morte; e recitando i
propri versi sovra un soldato ferito, con quelle ultime voci spirò8.
c. Duole all’autore di questo scritto di non poter consentire nell’opinione del Sig. L., il quale nella
sua Risposta ai due discorsi di Madama la Baronessa di Staël-Holstein, chiama tomba del genio
qualunque imitazione. E qui si ricorda il di lui opuscolo per onorare in lui un critico educato, ed un
uomo che coltiva generosamente le lettere per solo amore delle lettere11.
d. Canzoni e Prose Toscane di T. J. MATHIAS, vol. II, p. 52, Londra 1808.
e. Vedi nello stesso tono la Canzone A lord Mansel presentandogli i componimenti lirici scelti de’
più illustri poeti d’Italia, pp. 4-5.
f. Veggasi Ovidio nel principio del secondo libro delle Metamorfosi
Regia Solis erat sublimibus alta columnis:

e più sotto

… Purpurea velatus veste sedebat


In solio Phoebus, claris lucente smaragdis.

g. Il Galantuomo tradurrà fedelmente dal testo inglese i versi di Shakespear, imitati dal Monti,
perché apparisca con quanta scelta e con qual arte abbia egli saputo fondere insieme i colori della
poesia italiana e dell’inglese; e stringendo nel metro dell’ottava l’abbondanza di quel «primogenito
figlio della natura», liberarlo altresì dalle assurde idee dell’astrologia giudiziaria ch’era il comune
pregiudizio del suo secolo.
È Ulisse che parla nel consesso de’ Capitani greci: «Travisati gli ordini sociali, i più indegni
mortali assumono sotto la maschera una bella apparenza. I cieli stessi, i pianeti, e questa centrale
terra, osservano gradi, primato e sede propria: regolarità nel loro moto costante, proporzione,
stagioni, forme, ufficii, abitudini, tutto corre sulla linea precisa dell’ordine. Ond’è che il Sole,
glorioso pianeta, brilla regalmente dall’alto del suo trono fra le sfere che lo circondano; il suo
sguardo sanatore corregge i malefici aspetti degli avversi pianeti, e rapidamente trapassando invia
senza inciampo, come il comando di un Re, le propizie o le tristi fortune. Ma quando con funesta
confusione i pianeti vanno traviati sfrenatamente, allora che pestilenze! che prodigi spaventosi! che
ribellione! E il mare infuriato, e i venti scatenati, e la terra traballante, e i terrori e le rivoluzioni
rompono fragorosamente l’unità e la congiunta pace degli Stati, e gli spiantano dalla base del loro
riposo». Troilo e Cresside, Atto I, Scena IX.
h. Credo dimostrato che il giudizio di Voltaire non debba addursi in favore di Goldoni, essendo
provato che Voltaire conosceva pochissimo la nostra lingua, e che non poteva valutare ed intender
bene le opere che giudicava.
i. Questo s’intenda detto anche pel Dialogo intitolato La Romanticomania, che si legge nel primo
numero di un «Giornale di Letteratura e Belle Arti» comparso novellamente a Firenze. Il Dialogo è
fra Madonna (la baronessa di Staël), Messere (il Giornalista) e un Cavaliere (il Sig. Di Breme) che
difende la Letteratura romantica. Ci troviamo in debito di dire a quel Giornalista che un Messere che
fa lo spiritoso è una gran brutta cosa; e ch’egli non ha ancora capito ciò che significhi la parola
romantico. Lo preghiamo anche di riflettere che la letteratura dei presenti Inglesi e Tedeschi non va
confusa con quella «dei Traci, de’ Cartaginesi, de’ Persiani, degli Egizi, e de’ Galli chiomati, bracati
e togati». E per dargli un saggio della nostra benevolenza, lo consigliamo di prepararsi a combattere
in avvenire la «letteratura romantica», studiando ben bene gli ingegnosi articoli inseriti nel «Journal
des Débats» dal sig. Dussault; o l’operetta francese intitolata L’Antiromantique, la quale in fine non è
altro che una piacevole amplificazione delle cose dette da Dussault14.

1. Vincenzo Monti.
2. Teseo, Azione drammatica (3 giugno 1804), P. I, Sc. II.
3. Le metafore ingegnose e le sentenze declamate della Farsaglia di Lucano.
4. L’autore della Gigantomachia, del Raptus Proserpinae, del De bello Gildonico, del De bello
Getico.
5. L’autore della Tebaide, poema enfatico e sonante.
6. Longino, il retore ateniese, a cui fu attribuito il trattato Del sublime; ma non è suo. Il retore visse
nel terzo secolo d. C. e fu condannato a morte da Aureliano. Il trattato è del I secolo d. C. Perciò si
suol dire «pseudo Longino».
7. Claudio Achillini, poeta del Seicento, celebre pel sonetto a Luigi XIII, che incomincia: «Sudate,
o fuochi, a preparar metalli». Quanto variano i giudizi! Dante aveva posto Lucano nel Limbo con
Omero, Orazio, Ovidio, Virgilio (Inf., c. IV). Nel testo serbo la grafia del Borsieri.
8. La congiura a cui aveva presto parte, è quella di Pisone nel 65 d. C.
9. Lucano era nipote di L. Anneo Seneca, poeta e filosofo, che anche fu condannato a morire da
Nerone per sospetto che avesse preso parte alla congiura di Pisone, nel 65 d. C.
10. Pietro Calderón de la Barca, il più grande scrittore drammatico spagnuolo, nato a Madrid nel
1600, morto ivi nel 1681. Suoi capolavori: Il principe costante e La vita è un sogno.
11. Questa nota del Borsieri non piacque al Londonio, giacché nei Cenni critici sulla poesia
romantica (Milano, Pirotta, 1818) replicò all’osservazione fattagli non senza una punta ostile:
«L’Autore delle Avventure letterarie d’un giorno ha mostrato cortesemente dolersi di non poter
convenire nella mia opinione, perché nella Risposta ai due discorsi della baronessa de Staël, impressi
nella Biblioteca Italiana, dissi che l’imitazione è la tomba del genio. Siccome è da credere che, per
quanto dicessi su questo proposito, egli non s’indurrebbe a cangiar d’avviso, così avrò ricorso
all’oracolo infallibile di Madama; lusingandomi che ciò basterà a mia difesa e a sua persuasione: “Le
genie est essentiellement créateur, il porte le caractère de l’individu qui le possedè. La nature qui n’a
pas voulu que deux feuilles se ressemblassent, a mis encore plus de diversité dans les àmes, et
l’imitationestuneesp ècedemort, puisque elle dépouille chacun de son existence naturelle”. Corinne
ou l’Italie, Tom. I».
12. Nel c. VI del «Poema epico-lirico» Il Bardo della Selva Nera, 1806.
13. Vedi p. 121.
14. Il Giornale di Letteratura e Belle Arti era stato intrapreso nel 1816 a Firenze da Francesco
Benedetti, poeta drammatico, amico di G. B. Niccolini, patriota ardente, piena la mente di idee
classiche, di cultura umanistica, di Grecia e Roma e di antiromanticherie. Professioni esplicite di
classicismo si leggono nel suo Discorso intorno al Teatro Italiano (Firenze, 1816), nell’orazione
sull’eloquenza italiana, nelle lettere al Galeani Napione.
Nel fascicolo di settembre del Giornale pensò di poter dare un colpo formidabile al romanticismo,
ponendolo in ischerno, e pubblicò: La Romanticomania, Dialogo fra Madonna [Mad. di Staël],
Messer lo Giornalista [Benedetti] e il Cavaliere [Di Breme], che può servir d’antidoto alla Lettera
inserita nel n. 6 della «Biblioteca Italiana», p. 417, e al libro di Monsieur de Breme intitolato
«Discorso» ecc.. trovato dopo la morte di detto Messere fra gli altri suoi manoscritti. Immaginava
l’adunanza di un’Accademia Romantica, nel castello di Fanfaluconia, al lume di luna: e agli
accademici era fatto obbligo di leggere poeti tedeschi e inglesi, di sapere a mente Ossian, al quale era
innalzato — seduta stante — un monumento di ghiaccio, tenuto su a forza di sospiri.
A queste baie e irrisioni risponde per sommi capi il Borsieri nella nota, qui riprodotta.
Evidentemente egli aggiunse la nota sulle prove di stampa, giacché Le avventure letterarie di un
giorno apparvero poco dopo il 19 settembre.
Rispose sommariamente anche il Di Breme nel Grand Commentaire del 1817, dimostrando che
«les plaisanteries les plus stupides et quelques roturières injures» non costituivano affatto una
refutazione delle idee da lui svolte nel Discorso intorno all’ingiustizia di alcuni giudizi letterari
italiani.
Il Benedetti non era uno sciocco; ma in questo caso, come spesso avviene ai polemisti, sbagliò in
pieno, credendo di poter contrastare al fatale andare del romanticismo con ghiribizzi estrosi, col
gettar il ridicolo sulla Signora di Staèl e sul Di Breme, sugli ossianici, sull’esortazione a leggere gli
scrittori stranieri e a rinnovare modernamente la cultura.
Così irresistibili erano ormai le ragioni del romanticismo e tanto si mutavan i gusti, che il
Benedetti stesso, il quale aveva incominciato l’opera sua teatrale con tragedie classicheggianti,
venate di alfierismo e metastasianismo, e aveva rivolto il pensiero a tradurre Sofocle, Euripide ed
Eschilo, diede prova di aver letto Shakespeare e altri autori stranieri, ne sentì la potenza e in alcune
tragedie degli ultimi anni tentò di prendere una posizione intermedia tra le figurazioni
classicheggianti e quelle romantiche, quasi cercando (come, con più ingegno, fece anche il Niccolini)
una forma interposta e pur diversa. Ma non giunse a poesia, per mancanza di intima fantasia, cioè di
una forma sua.
Tra le tragedie degli ultimi suoi anni, ora esagitate ora accademiche e declamanti, vale a dire
disuguali nelle tendenze e nelle forme, ricordiamo: La congiura di Milano (quella contro Galeazzo
Maria Sforza, già sceneggiata da Alessandro Verri), scritta nel 1815 e posta in iscena nel 1819;
Gismonda, derivata dalla novella del Boccaccio (Giorn. IV, nov. 1); Tamerlano (scritto nel 1816,
rappresentato nel 1817), con cui si riallacciava sotto alcuni aspetti al teatro di Voltaire; Pelopea,
scritta nel 1817, posta in scena nel 1819; Timocare (1817); Riccardo III; Gli Eleusini (1819); Telefo
(1820); Cola di Rienzo, notevole per la concezione più libera.
Il Benedetti, nato a Cortona nel 1785, morì suicida a Pistoia, a trentasei anni, nel 1821, prostrato
dalla miseria, sospetto pel suo patriottismo alla polizia granducale, degno di miglior sorte per alcune
buone qualità, che, meglio guidate, avrebbero potuto sorreggerlo e condurlo anche in letteratura a
opere forse non dimenticabili.
15. Silvio Pellico.
16. Penso sia Carlo Gherardini, fratello di Giovanni, meno noto oggi di questo, ma allora
conosciutissimo nel mondo letterario milanese. Era uomo estroso, romantico e antiromantico, aperto
al nuovo e ad un tempo estimatore delle forme letterarie classiche, e partecipava con lepore e
bonomia ambrosiana alle dispute del tempo, sorridendo e scherzando su quel gran battagliare, che
pure afferrava anche lui. La sua posizione tra i contendenti è un po’ simile a quella del fratello
Giovanni, che aveva al principio del secolo collaborato al Parnasso democratico di Bologna, faceva
professione d’amore alla letteratura classica, eppure nel 1817 pubblicò la traduzione del Corso di
letteratura drammatica di A. G. Schlegel, volse in italiano quella parte dell’opera di G. C. Sismondi
De la littérature du Midi de l’Europe, che riguarda l’Italia (col titolo Della letteratura italiana dal
secolo XIV fino al principio del XIX, Milano, Silvestri, 1820); era autore degli Elementi di poesia
italiana, allora adottati nelle scuole lombarde e in molte altre scuole italiane, informati alla vecchia
retorica; critico e filologo nell’Appendice alle grammatiche italiane’, studioso della lingua nei testi e
nell’uso vivo (Voci italiane ammissibili, benché proscritte dall’a Elenco» del signor Bernardoni,
Milano, 1812); poeta melodrammatico giocoso nelle azioni: Naso in pericolo (tratta da un romanzo
di Voltaire), È fatto il becco all’oca (dal canto II del Mambriano di Francesco Cieco da Ferrara), Il
bacchettone (da una novella del Bandello), e commediografo ingegnoso in Ipocrisia e credulità,
derivata dalla Prude di Voltaire, ma con aspetti nuovi, «accomodando il tutto ai costumi nazionali»,
ed edita coi drammi giocosi nel volumetto Componimenti drammatici di Giovanni Gherardini,
Milano, 1818.
Carlo Gherardini oggi è ricordato specialmente per la Risposta de Madamm Bibin alle sestine El
romanticismo che Carlo Porta aveva rivolto sui primi del 1819 a una Madamm Bibin antiromantica.
Il Porta ricorda lepidamente il suo contraddittore in quel capolavoro La nomina del cappellan, ove la
marchesa Paola Travasa esamina a uno a uno i preti d’ogni stampo venuti a offrirsi per dir messa.
Costoro nell’anticamera

fan tutt’insemma on ghett, on sbragalismo [schiamazzo]


ch’el par che coppen el Romanticismo.

La scelta del cappellano finisce con esser fatta dalla cagnolina Lilla, che festeggia Don Ventura, il
quale ha in tasca

tre o quatter fett


de salamm de basletta [di basso prezzo] involtiaa dent
in la «Risposta de Madamm Bibin»
de quell’alter salamm d’on Gherardin.

La polemica, che riguardava gli spiriti vitali della letteratura, sollevava così anche risa cordiali e
schiette per i suoi aspetti giocosi.
Il significato, che Giovanni e Carlo Gherardini ebbero nella cultura di quel tempo, cercando una
posizione intermedia tra i classicheggianti, di cui capivano gl’intendimenti, e i romantici, dei quali
comprendevano le ragioni, non è ancora stato ben delineato nella storia delle nostre battaglie
romantiche e antiromantiche: e meriterebbe di essere chiarito.
Dopo questi richiami, credo non possa essere accolta la proposta di Teresa Girardelli (Pietro
Borsieri, cit.) che alla sigla Carlo G. nelle Avventure letterane di un giorno sia sostituita quella di
Carlo C. e che questa si possa intendere «Carlo Castillia» (l’indicazione è fatta in forma
interrogativa). Il Muoni a p. 21 del libro su Lud. di Br. ritiene la sigla Carlo G., che è del resto
confermata nel cap. VII; ma soggiunge: «non mi riesci indovinare chi sia».
CAPITOLO SETTIMO

IL PRANZO
Tu sapientium
Curas et arcanum jocoso
Consilium retegis Lyaeo.
HORAT., Ode 21, Libro 3.
Tu de’ saggi il consiglio profondo,
E gli affanni disveli del cor,
O di Bacco liquore giocondo.

Seduti ad una mensa né troppo scarsa né troppo delicata, si cominciò a


mangiare allegramente, io, il sig. P., l’amico G. ed un quarto buon
compagnone da noi ritrovato nel salire le scale, il quale, per dirvela alla
sfuggita, mangiò quanto noi tre tutti insieme. La porta della nostra stanza
era aperta, ed in quella vicina s’udiva un frastuono, uno scoppiar di voci
confuse e di risa sonore, che avrebbero messo per forza la gioia persino nel
cuore d’Eraclito1. Quando ad un tratto si fa gran silenzio; e un tale ritto in
piedi, battendo la mano sulla tavola,
— Sissignori — diceva — ora che finalmente tacete, io vi proverò come
due e due fan quattro, che se l’Italia non ha Romanzi, questo non le fa né
caldo né freddo…
— Come? L’Italia non ha Romanzi? bestemmie bestemmie; non abbiamo
forse il Jacopo Ortis?…
— Non mi interrompete, vi prego — proseguì l’Oratore — con quella
vostra profonda voce da Stentore2; una foglia non fa primavera, e poi non
mi fate dire…3. Continuando dunque il mio discorso principale, sostengo
che i Greci non ebbero Romanzi o non cominciarono ad averne, se non
quando già toccavano alla decadenza loro; sostengo che i Romanzi tengono
una via di mezzo «tra il vero e il verisimile», «fra la prosa e il verso», e
sono un genere anfibio senza utilità né diletto. Sono anzi nocivi con quelle
loro pitture delle passioni; e il cuore picchia anche troppo nel petto della
gioventù, senza fomentarne i moti. Ma noi ai freddi Romanzieri opponiamo
il Tasso e i nostri Storici, che sono più utili perché hanno lavorato i loro
scritti intieramente sul vero. Studiate i nostri Storici; e non datevi a credere
di conoscere l’Italia perché avete letto il bel Romanzo d’una Signora4 che in
pochi mesi correndo per le poste visitò tutta quanta questa classica terra, e
ne recò giudizioa.
Qui l’Oratore si arrestò per pigliar fiato, ed eccoti subito un altro che
grida:
— Finiscila una volta; ponti quel biscotto in bocca, e taci. Che importa a
me se i Greci non ebbero Romanzi? Noi non siamo i Greci e vogliamo
averne. E a chi osi tu dire che i Romanzi non dilettano? A noi altri tutti che
non facciamo che leggerne, e che ce ne dilettiamo non meno dei Tedeschi,
degli Inglesi e dei Francesi? Ma! è un genere anfibio. Bella parola! I libri,
mio caro, non hanno distinzioni né di sesso né di specie; e quando non
annoiano sono tutti d’un ottimo genere; sai bene che la sentenza è vecchia.
Ma! i Romanzieri sono freddi. Non devi dunque temere che riscaldino
troppo il cuore della gioventù. Ma! sono tra il verisimile ed il vero, tra la
prosa e il verso. Anche i poemi del Tasso sono tra il verisimile e il vero, al
quale il poeta «intesse fregi», come disse egli stesso. E non so poi se ti
basterà il cuore di provarmi che Rousseau5, Richardson6, Le-Sage7 e
Voltaire8 non abbiano scritto i loro Romanzi in buona e bella prosa. Ma! la
Corinna, la Baronessa di Staël…
A questi nomi si levò un tal susurro in quella stanza, ch’io per non essere
affatto sbalordito m’alzai da tavola e andai a chiudere la nostra porta.
Provveduto così alla tranquillità del nostro Simposio, il sig. P.9 m’interrogò
s’io conosceva qualcuno di quella lieta compagnia.
— Sì, ne conosco; e vi so dire che in mezzo a loro si passa bene il tempo.
— Veramente mi pare — proseguiva l’amico — che il primo Oratore
abbia dette alcune riflessioni ragionevoli. L’origine d’una cosa ne spiega
assai volte la natura, e l’esser nati i Romanzi presso i Greci in un tempo di
decadenza…
— È circostanza che non prova niente affatto contro i Romanzi de’
Moderni — disse allora il sig. G.10. — Ogni secolo ha i suoi costumi dai
quali è variamente inspirata l’immaginazione degli scrittori. Ai tempi di
Omero doveva nascere l’Iliade; a quelli di Longo11, di Senofonte Efesio12,
di Cantone Afrodiseo13 dovevano nascere invece i Pastorali, gli Efesiaci,
gli Amori di Cherea e di Calliroe, e via discorrendo. Credo bene che i
Romanzi sieno effetto della corruzione sociale; ma poiché la bella
innocenza antica non vuol più tornare indietro, bisogna combattere la
corruzione colle sue stesse armi, e servirsi della pittura dei nostri costumi
per insinuare negli animi svogliati qualche utile verità. L’origine dunque del
Romanzo presso i Greci non influisce per nulla sulla natura del Romanzo
presso i moderni; ed io sarei pronto a sostenere che fra la campana di vetro
di un chimico e quella di bronzo della mia Parrocchia, c’è più somiglianza
che non ve ne sia, per modo di dire, fra gli Efesiaci e la Clarissa14.
Noi eravamo alle frutta, e l’amico continuava. Per altre ragioni di questa
tempra io credo egualmente che i viventi prosatori italiani non possano
scolparsi di non iscrivere Romanzi, coll’addurre la grande nostra abondanza
di Poeti Epici, e di Novellieri. Prima di tutto, perché il Romanzo appartiene
al genere filosofico ed all’eloquenza propriamente detta, più che alla poesia;
e non si può quindi coi versi degli epici poemi supplire il difetto di prosa, di
cui ci accorgiamo pur tanto, né con quelle narrazioni d’imprese
cavalleresche svolgere filosoficamente le fila delle nostre presenti passioni
e de’ nostri costumi. E in secondo luogo, perché i Novellieri hanno scritto le
loro cento mila Novelle in tempi d’ignoranza e di funestissime discordie
civili; e non fanno che narrare o atroci ereditarie vendette, o assassini e
crudeli gelosie, o insulse facezie, o tali avventure d’amore che le donne
eleganti, e non avvezze ad abitare in Suburra, non ponno leggerle senza
vergognare. Se pertanto gli stranieri hanno sì false idee de’ costumi italiani,
vuolsi confessare che la colpa è in parte dei loro pregiudizi e in parte de’
nostri moderni scrittori; poiché i volumi de’ Novellieri sono i soli nella
nostra letteratura che serbino l’impronta italiana, e il carattere de’ secoli in
cui que’ racconti furono scritti. Ma il tempo e le istituzioni sociali avendo
mansuefatti i costumi e cangiata ogni cosa, dimando quale altra opera di
prosa abbiano i moderni letterati sostituita alle Novelle per dipingere
attualmente la loro età e la loro nazione? La vera grandezza in politica e in
filosofia di non pochi autori inglesi, o tedeschi, o francesi, diffonde su tutti
quei popoli una certa luce per la quale appariscono e più civili e più colti. A
noi è toccato in sorte il destino contrario. Moltissimi italiani sono più colti e
più pensanti che i nostri propri scrittori di letteratura e di filosofia; e
quest’Italia sì gloriosa da secoli, comunica loro la propria celebrità, non la
riceve.
— Tu che ne dici — soggiunsi io, rivolgendomi a quello di noi che aveva
mangiato più di tutti15.
— Io? non so altro se non che gli autori si preparano assai male
all’immortalità tra il fumo delle vivande, e le spume dello sciampagna.
Questi piaceri debbono essere riservati a me che non mi curo né di libri, né
di gloria. Ma un letterato sommo deve digiunare; e la sua celebrità crescerà
sempre in proporzione dei suoi digiuni.
— Lascia un po’ queste baie, — disse allora il sig. P.16 che s’era già
levato di tavola… — Io vado pur cercando fra me qualche ragione con cui
dimostrare che l’Italia non ha bisogno di Romanzi, e scusare così quei
letterati che non sanno scriverne. Ma non ne ritrovo veruna. Dire che vi
sono dei Romanzi cattivi e proscrivere anche i buoni, è un parlare
sragionando. L’abuso non è mai colpa delle cose ma degli uomini, e chi
bruciasse il castissimo Virgilio, o il Petrarca, o tutto il Tasso perché molte
volte la poesia fu contaminata di lascivie, sarebbe ragionatore da confutarsi
con un buon medico, e con un paio di catene alle mani ed ai piedi. Dire che
i buoni Romanzi non sieno utili, è un mentire per la gola; perché essendovi
trasfuse le alte verità della filosofia intorno alle nostre passioni, ai vizi, alle
virtù, e alla domestica felicità di ciascuno, in modo però chiarissimo,
animato e dilettevole, ne viene che tutti possono raccogliervi od utili esempi
o buoni consigli o se non altro l’amore della lettura, che risparmia tutte le
colpe commesse per ozio. Volere infine che i nostri storici bastino a tutto, è
lo stesso che mostrare poco discernimento. Poiché Machiavelli,
Guicciardini, Sarpi ec. ec. sono storici più o mento grandi, e in vita loro non
ebbero rivali presso le altre nazionib. Ma costoro giovano più ad istituire gli
uomini di Stato e i Capitani ed i Principi, che non l’umile ed oscuro
cittadino. E mi sovviene dippiù che l’immortale Bacone, ove parla delle
storie finte (o della poesia narrativa, com’ei la chiama, prescindendo dal
verso e mirando solo alla materia), afferma che la Storia vera narrando le
riuscite delle cose e degli eventi quali avvennero in fatto e senza riguardo
alcuno alla virtù od alla scelleratezza di chi operava, ha bisogno di essere
corretta colle invenzioni della finta; e ch’essa accortamente può presentare
ai lettori felici od avversi rivolgimenti di cose, secondo l’intrinseco valore
delle azioni, e i dettati d’una giustizia vendicatrice. Alla quale
considerazione aggiungesi altresì, che la storia avendo un aspetto uniforme
e generando sazietà, tanto più divengono necessarie queste inaspettate,
varie, e saggie creazioni dell’umana fantasia17; e che per tal guisa non si
provvede al diletto soltanto, ma ben anche alla grandezza dell’animo ed al
progresso de’ costumic. Dopo un tanto suffragio che è comune ai Romanzi
d’ogni specie, o sieno in verso o sieno in prosa, io sono persuaso che i
nostri scrittori non adempiono come dovrebbero l’ufficio loro; e che
mancando noi di romanzo, di teatro comico e di buoni giornali, manchiamo
di tre parti integranti d’ogni letteratura, e di quelle precisamente che sono
destinate ad educare e ingentilire la moltitudine.
Detto questo, il mio Silvio P. prendeva già il cappello per uscire, ma io
che mi sentiva una smania terribile di fare come gli altri il mio sermoneino
(vedi il capitolo lo),
— Aspetta, — dissi, — lasciami proseguire il discorso. — Tu sai che per
qualche libero consiglio dato ai nostri letterati dalla Baronessa di Staël (dico
ai letterati, nota bene, non ai matematici, fisici, medici ec. ec.) si strepita
assai assai. Ma invece di strepitare non farebbero molto meglio le signorie
loro, se componessero qualche libro atto a star a fronte alle varie opere di
quella illustre donna? Che bella risposta sarebbe mai questa! Invece di
tradur male l’Allemagna, perché non iscrivere una nuova opera sullo stesso
argomento, presentando sotto l’aspetto politico, filosofico, letterario e
religioso, le cause dello stato attuale di quella gran parte d’Europa? Io credo
che dopo il Commentario di Tacito sui Costumi de’ Germani, il libro della
Baronessa di Staël segni, come una colonna migliaria, vari grandi intervalli
dei progressi della coltura germanica. Ma di questa specie di soggetti i
nostri letterati non se ne immischiano; e trovano più bello comporre le
canzoncine, dedicare i sonettini, raccogliere una serie di testi di lingua ec.
ec. ec.
— Ma no: noi letterati italiani abbiamo gran fantasie, e scriviamo
mirabili poemi.
— Noi scrivevamo, dite piuttosto; e se volete venire al paragone con
Madama Staël in opere che domandano fantasia e ragionamento, l’arringo è
aperto, Signori; componete una nuova Corinna in versi od in prosa, ne
lascio la scelta a voi.
— Ma che è finalmente questa Corinna? Noi non vogliamo leggerla, e ci
basta di scorrere soltanto alcune pagine della Littérature di Madama Staël.
Così forse mi risponderanno i letterati; e se io dovessi combatterli in
questo, non avrei ad imitare il fallito artificio di coloro che dissimulano il
vero per far comparir buona una tristissima causa. Io all’opposto direi
palesemente, che è difficile anche ai rarissimi ingegni sottrarsi sempre
all’impero delle opinioni correnti nel secolo o nel paese in cui si vive; e che
una volta in sua vita Madama Staël pagò alla Francia il tributo di mal
giudicare l’Italia. Come quegli che da un’altis sima vetta delle Alpi, ove
tutto è splendore e serenità, vede addensarsi le nuvole sotto ai suoi piedi, e i
lampi solcarle; e paventa che giù nella valle sia già la tempesta, e la
desolazione, ma scendendo s’accorge che s’ingannava: non altrimenti la
Baronessa di Staël vedeva da lontano l’Italia tutta coperta di tenebre, e ne
temeva. Ma discese le Alpi, visitò quest’amabile terra, ci vide, ci conobbe, e
per poche righe di acerbi giudizi scritti dapprima nella sua opera della
Littérature, compose poscia in onore dell’Italia i tre tomi della Corinna, e
fece tal magnanima emenda della quale non v’ha esempio fra gli stranieri.
La Corinna o l’ltalia è distesa con quella eloquenza, con quell’abbondanza
di calore e di vita che distingue l’autrice; e il pensiero di lei d’intitolare
quell’opera agli Italiani, si fa manifesto dai bei versi del Petrarca che
servono d’epigrafe
……Udrallo il bel paese
Che Apennin parte, e il mar circonda e l’Alpe.

Nell’allegorico carattere di Corinna, bella, sensibile, virtuosa,


ragionatrice, ed oltre questo dotata dell’estemporanea ispirazione poetica,
sono adombrate le rare doti di corpo, di mente, e di cuore colle quali la
natura ha privilegiato il popolo italiano. La facoltà che ha Corinna
d’improvvisare con eccellenza, accenna mirabilmente la nostra grande
attitudine a tutte le arti letterarie ed armoniche. I vari aspetti del cielo, delle
pianure, del mare, delle colline che abbelliscono l’Italia, i grand’uomini che
l’onorarono e che l’onorano, ogni monumento, ogni sasso in certa guisa che
attesti qualche nostra gloriosa memoria del passato, ogni bella creazione
delle arti dal genio italiano rigenerate, ogni nome d’artista un po’ celebre, e
i pregi speciali dei vari Stati italiani e delle città più cospicue, e persino le
rare doti naturali delle infime classi del popolo, nulla sfugge allo sguardo
ammiratore dell’autrice; la quale per dar risalto e legame a questi
svariatissimi oggetti, ne forma altrettanti incidenti od episodi della patetica
Storia che vien narrando degli Amori di Corinna. Tutte le opinioni contrarie
all’Italia e i pregiudizi degli stranieri sono drammaticamente esposti nei due
personaggi dell’inglese Oswald, e del francese d’Erfeuil19. Le difese che
noi possiamo opporre, le vere cause della nostra passata grandezza o
decadenza, sono svolte mirabilmente da Corinna che è l’Eroina del
Romanzo, e talvolta anche dall’Autrice. Ed io so che tutti gli assennati e
gentili lettori italiani le professano gratitudine, perché ha nel suo libro
sostenuto altamente che l’Italia non va giudicata sottoponendola alle fredde
leggi del calcolo o alle viste imperfette d’una arrogante e precipitosa
leggerezza; ma che per imparare a conoscerci bisogna prima penetrarsi del
sentimento delle nostre antichissime sventure, e da ciò che fummo
argomentare quello che possiamo essered. Non dico, miei cari, ch’io
convenga assolutamente in tutte le osservazioni che sulle cose italiane sono
raccolte in quel libro. Bisogna esser nato e cresciuto fra noi per discernere
un’infinità di minime cause le quali o moltiplicano le false apparenze, o
modificano variamente la sostanza delle cose; né v’ha forza di meditazione
che possa supplire pienamente a tutti i lumi d’una esperienza giornaliera.
Ma in complesso sostengo che anche dopo lette le nostre Storie bisogna
leggere la Corinna per imparare a conoscere l’Italia; e che questo libro
desume appunto dai fatti delle Storie italiane la spiegazione di molti nostri
costumi, e delle varie vicende della nostra letteratura.
A questo passo cambiai tuono di voce per far capire che la mia
dissertazione era finita; e rivolgendomi a tutti tre i commensali,
— È ora tarda, — soggiunsi, — miei cari amici. Se volete assistere alla
prova di un gran ballo che si fa questa sera, io posso condurvi. Due passi e
siamo in teatro.
— Andiamo andiamo, — mi risposero a coro, e si uscì.

a. Questo è l’estratto fedelissimo dell’articolo sui Romanzi, scritto con molta eleganza e poca
verità nella Gazzetta Piemontese, e ristampato poscia nel Quaderno LII dello Spettatore.
b. Ora non si può affermare strettamente lo stesso; e per non far «pompa d’indigesta erudizione» ci
limitiamo a ciò che abbiamo già detto alle pp. 35 e 3618.
c. BAC, de Augum. Scient., lib. 2, p. 59, apud Kempfer, Francofurti ad Moenum.
d. Vedi Corintie, vol. I, pp. 43, 44.

1. Secondo la tradizione, Eraclito sempre piangeva sull’umana infelicità, al contrario di Democrito


che ne rideva.
2. Stentore è il guerriero greco dotato di voce così poderosa che con essa, all’assedio di Troia,
copriva la voce di cinquanta uomini insieme (Iliade, V, 578).
3. Intendi: che è derivazione dal Werther.
4. Corinna, della Signora di Staël.
5. Accenna alla Nouvelle Héloïse ou Lettres de deux amants.
6. Samuele Richardson è l’autore di Pamela, Clarissa Harlow, Sir Charles Grandison.
7. Alano Renato Le-Sage, autore del Gil Blas e del Diavolo zoppo.
8. Allude a Candide e all’lngénu.
9. Pellico.
10. Carlo Gherardini.
11. Longo, sofista, del secolo III d. C., celebre pel poemetto pastorale di Dafni e Cloe, noto in Italia
specialmente per le versioni del Caro e del Gozzi: uno dei migliori romanzi antichi.
12. Senofonte, efesio, l’autore del romanzo Gli amori di Abrocome e Anzia (gli Efe siaci).
13. Caritone, frigio, autore del racconto Di Cherea e Calliroe.
14. La Clarissa del Richardson.
15. Il quarto buon compagnone.
16. Il Pellico.
17. È questo il punto centrale per intendere il pensiero del Borsieri sul romanzo, considerato come
una forma di storia finta, «creazione dell’umana fantasia», che risponde a un’esigenza dell’anima,
alla quale non può rispondere in egual modo la storia vera. Questa forma d’arte può recar diletto e ad
un tempo utilità elevando l’animo del lettore e volgendolo a migliori sentimenti, a migliori pensieri, a
migliori costumi. La prima giustificazione del romanzo, considerato come forma d’arte, è dunque
estetica; la seconda è morale ed educativa.
18. Vedi p. 294 di questo volume.
19. Oswald, lord Nelvil, pair d’Ècosse, e le comte d’Erfeuil personaggi del romanzo Corinna. Vedi
Geneviève Gennari, Le premier voyage de Madame de Staël en Italie et la genèse de Corinne, Paris,
Boivin e C. ie, 1947.
CAPITOLO OTTAVO

IL TEATRO

Risi successu posse carere dolos.


OVID.
Fallir vidi la frode, e ne sorrisi.

— Siamo venuti troppo presto, — disse il sig. G.1 entrando a tentoni,


tanto era moribonda una lumiera posta nel mezzo del vasto proscenio. —
Ma come è intitolato il nuovo ballo di cui vedremo la prova?
— Runtzvanscad il Giovine, — rispos’io —; e un vecchio ballerino che si
regge appena in piedi, lo ha composto coll’aiuto di un poeta, nel solito
semplicissimo genere
Eroitragichepicoliricomicopantomimico2.

— Quand’è così, — disse il sig. P.3, — vedremo comparire come


principali attori i cavalli; ovvero vedremo qualche falso bardo che suoni
l’arpa, e che levandosi al solito la barba, si mostri d’improvviso un
guerriero; oppure una qualche città tutta in brage senza che caschi
nemmeno una pietra.
— Che vai tu bestemmiando, — proruppe il compagnone dal buon
appetito. — Il ballo non è uno spettacolo? dunque vi vuole spettacolo, non
altro che spettacolo, e quale più bello spettacolo che una città arroventata
come se fosse di ferro?
— Hai ragione anche tu, — dissi allora ridendo e sogguardando i due
miei amici —; ma qui non si veggono comparire né intelligenti, né
ballerine… ah le ballerine, le ballerine! Le son pure una curiosa specie di
leggiadre mortali, e un bell’argomento ad un tempo di meditazioni
filosofiche!
— Oh certo, — mi fu risposto, — tu sei né più né meno di Socrate, il
quale per ben penetrare l’arcana dottrina della voluttà e dell’amore non
faceva altro che ragionarne con Aspasia, con Diottima, e persino con
Teodota! ma qui bisogna aspettare almeno mezz’ora, e noi morremo di noia.
Andiamocene.
— No, fermatevi, — disse il sig. G. — Siete qui per vedere una prova?
Ebbene io ne farò una, sino a che restiamo soli. Osservate come si fa a
divertirvi.
Appena pronunciate queste parole l’amico sormontando
velocissimamente ogni riparo, si lancia dall’orchestra sul palco scenico;
indi trattosi di tasca uno scartafaccio, s’accosta al lume, e ne indirizza
dall’alto una apostrofe simile alla seguente.
— Nobilissima udienza di tre persone che onorate il Teatro della Scala, io
Poeta ed Attore ad un tempo m’accingo a «produrre su queste illustri
scene» una mia drammatica rappresentazione, l’argomento della quale sarà
un famoso articolo dello Spettatore, Giornale Italo-Straniero, in biasimo
della signora baronessa di Staël…
— Come, come? — disse il buon compagnone, — avete fatto un dramma
sentimentale sullo stesso soggetto di quell’articolo ch’è un capo d’opera? Ci
ho proprio gusto; sentendo il dramma capirò meglio l’articolo quando lo
leggerò.
— Caro amico, — disse il sig. G., — non s’interrompono gli autori
quando leggono. Questa spettacolosa rappresentazione porta dunque lo
stesso titolo dato dal Giornalista4 all’articolo, cioè:

LA GLORIA ITALIANA VENDICATA, EC.

— Oh bello, bello! — proruppe di nuovo l’anima buona del


Compagnone. — Questo pare il titolo d’un poema epico, come chi dicesse
l’Italia liberata del Trissino5, l’Etruria vendicata6, ec. ec.: bello, bello!
— Amico, se tu non taci, — continuò l’Attore-Poeta, — chiamo la
guardia e ti fo riporre in camerino. Non sai che ora si usano i titoloni grandi,
e le opere piccoline? lasciami dunque proseguire.

1. Carlo Gherardini.
2. Quel titolo Runtzvanscad il giovine è lieve variazione del nome Rutzvanscad,
«arcisopratragichissima tragedia» di Cattuffio Panchianio (Venezia, 1724), con cui Zaccaria
Valaresso, patrizio veneto, aveva fatto la parodia della tragedia Ulisse il giovane di Domenico
Lazzarini, regolata grecamente con le unità aristoteliche e piena di atrocità. Il Valaresso poneva
l’azione nella nuova Zembla, conquistata dal re della Cina, Rutzvanscad. Ecco il raffronto burlesco:

Sposò la madre, uccise il padre, Edippo;


fe’ il simil, ma co’ figli, il nuovo Ulisse:
e il nuovo Rutzvanscad svenò la prole;
e quel ch’è peggio, e da che mondo è mondo
non s’è udito mai più, sposò sua nonna.

La parodia ha in complesso versi cascanti; ma la fine della tragedia è tuttora ricordata come una
trovata argutissima. Esce il suggeritore e dice:

Uditori, m’accorgo che aspettate


che nuova della pugna alcun vi porti:
ma l’aspettate invan: son tutti morti!

La pantomima, escogitata come pretesto dal Borsieri, era dunque una lepida propaggine di quella
parodia. Le «tragedie per ridere» avevano generato un nuovo mostro: il ballo eroico-tragico-epico-
lirico-comico-pantomimico.
3. Il Pellico.
4. Davide Bertolotti. L’articolo, col gran titolo qui segnalato in lettere maiuscole, era apparso nello
Spettatore del luglio 1816. Vedilo ora in Discussioni e Polemiche, a cura del Bellorini, cit., I, pp. 75-
84. Il capitolo del Bor-sieri è risposta quasi immediata a quell’articolo.
5. L’Italia liberata dai Goti di Gian Giorgio Trissino (1548).
6. Il poemetto storico di Vittorio Alfieri in quattro canti, in ottava rima, in cui è esaltata l’uccisione
del duca Alessandro, tipo del tiranno efferato, per opera di Lorenzino de’ Medici, tipo del perfetto
eroe.

LA GLORIA ITALIANA VENDICATA DALLE IMPUTAZIONI


DELLA SIGNORA BARONESSA DI STAËL-HOLSTEIN

FARSA IN TRE SCENE

Personaggi:
L’ESTENSORE dello Spettatore1,
UN FRANCESE che parla italiano,
Io, che farò il Coro come nelle Tragedie Greche;
Altri personaggi non so quali, da crearsi all’opportunità come usano i
poeti.

Ora che conoscete i personaggi leggerò la Farsa.


SCENA PRIMA
La Scena rappresenta un magazzino di libri. L’Estensore siede allo scrittoio, ed ha intorno sparsi
per terra una trentina di giornali stranieri, parte chiusi parte aperti, ed altri libri confusi insieme.
(L’Estensore guarda un manoscritto, e parlando naturalmente fra sé, fa il seguente breve soliloquio
di quattro pagine).

«Finalmente anche il quaderno LVI del nostro giornale è terminato. Ha


un bel dire il proprietario dello Spettatore che bisogna far presto e che in
stamperia attendono dell’originalea. Quando ho tradotto quattr’ore, posso
dare dodici pagine d’originale alla mia maniera, e non mi par poco! E mi
pare anche che in questo mondo si debba lavorare per vivere e divertirsi, e
non per ammazzarsi. Ma passiamo un po’ in rassegna i materiali di questo
fascicolo. — PARTE STRANIERA — Art. 1° Viaggio in Norvegia — 2° Sulla
paura — 3° Dzjerbicka, aneddoto Polacco — 4° Le ventiquattrore del
giorno sul nostro Globo, secondo il meridiano di Londra, per dar idea della
grandezza della Terra — 5° Potenza che l’Inghilterra trae dalle sue
Colonie — PARTE ITALIANA — Art. 1°Il Campo-santo di Verona — 2°
Continuazione del saggio di traduzione dell’Odissea … buoni questi due
articoli! Dieci sole righette della mia prosa; e tutto il resto, versi ricopiati
per dieci pagine di stampa! Così si fa presto — Art. 3° Relazione intorno a
due quadri di Tiziano Vecellio … Anche questo mi costa poco, grazie alla
lunga lettera che ho inserita del signor Stefano Ticozzi2 — 4° La Gloria
Italiana vendicata, ec. ec.
«Ah sei qui sei qui, perla, tesoretto, prodigio del mio bell’ingegno?
Avanti signori letterati che state sepolti nelle vostre stanze a meditare come
tanti gufi in un campanile; voi non conoscete il mondo, e nessuno vi cura.
Ma io con questo solo articolo guadagno per lo meno cento associati.
Guardate un po’ s’io so calcolare? Gli Italiani vogliono dormire ed essere
lodati non meno dei loro maggiori, i quali faticavano notte e giorno; ed io li
lodo come i loro maggiori. Gl’Italiani inoperosi si lagnano d’essere
trascurati dagli stranieri; ed io fingo di non sapere che i pochi recenti grandi
uomini dell’Italia, o sono ricettati ospitalmente dagli stranieri, od onorati
dalla loro ammirazione; e biasimo gli stranieri perché non lodano come fo
io quei medesimi Italiani che non posso stimare. Volete ancor dippiù? Una
donna celebre in Europa viene per la terza volta a soggiornare in Italia,
come se ne fosse innamorata. Stampa nel 1809 un bel libro intitolato
Corinna colla manifesta intenzione di onorarci; ed io non curo l’intenzione
né il libro3, e franco franco vo a ripescare alcune righe in nostro biasimo
stampate da lei sino dall’anno 1799 prima di venire in Italia, e ne fo una
pomposa confutazione; come se l’autrice non avesse già confutato se stessa
coll’opera sua più recente. Indi esclamo nel mio bell’articolo: Oh Italia, a
quai ti mena infami strette il nessuno studio che hanno parecchi de’ tuoi
figli così della tua come della lor fama; e rendo odiosi ai nostri concittadini
colla taccia di cattivi Italiani, tutti coloro che compresi d’altissima stima per
questa donna immortale le sanno grado dell’aver ella cangiato le proprie
opinioni sulle cose nostre. E tutto questo, signori miei, non per altro che pel
culto che si deve alla verità, e dopo aver sospirato (ad arte) ai casi della
brillante ed infelice Corinna, e per meglio spegnere la guerra mossa dai
trivi contro di noi4 gloriosissimi traduttori dei Giornali stranieri. Già
s’intende da chi ben vede, che simili proteste sono falsissime. Ma basta
farle per illudere i meno esperti; e in questo consiste il massimo sapere di
un giornalista. Voi altri letterati di coscienza timorata direte, che
procedendo in tal guisa s’oltraggia il pubblico giudicandolo all’oscuro di
tutto, e così dolce di sale da potergliela dare ad intendere come ne pare e ne
piace. Ma siete in errore. E se taluno verrà a rimproverarmene, potrò
sempre rispondere che la Baronessa di Staël non ha dichiarato
solennemente di volersi ritrattare; e voi capite benissimo che per tutte le
persone educate e discrete, questa ragione basterà a difendermi. Sarete
capaci anche di sostenere che non dimenticando una colpa già cancellata
sulle pagine della giustizia, si viene a confermare gli stranieri nella falsa
idea che gli Italiani sieno minutamente vendicativi. Ma io servendomi del
frasario di moda, risponderò che l’essere vendicativo per la carità della
Patria è sempre virtù. Così pure, voi che perdete le notti studiando, e sapete
quanti uomini celebri contino nel presente periodo l’Istituto di Francia,
l’Accademia di Londra, le Università di Edimburgo, di Cambridge e
d’Oxford, le città di Weimar e di Berlino, e le Università di Gottinga e di
Jena con varie altre della Germania, non osereste sostenere che noi non la
cediamo a nessuno? Poveri innocenti! Io all’opposto provo che in questi bei
giorni in cui noi mangiamo e passeggiamo allegramente, le scienze tutte
fioriscono in Italia e cito i nomi del Vallisnieri5, dello Spalanzani6, del
Beccaria7, dello Stellini8, del Lagrange, del Metastasio, del Parini,
dell’Alfieri, che grazie al Cielo son tutti morti. E così con questa specie di
coscrizione fatta all’altro mondo, ho ingrossato una mia lista di cinque nomi
d’uomini grandi italiani ora viventi, ed ho potuto contrapporla alla schiera
assai più numerosa dei celebri stranieri che mi son ben guardato di
nominare… Ma dove mai mi trasporta la fantasia! io mi dimenticava che in
stamperia attendono l’originale. È pure la gran cosa l’esser poeti! si fanno
dei dialoghi fra sé che non finiscono mai».
— Questa è la prima scena. Amici dell’uditorio, state a sentire la seconda
— disse il signor G., e continuò a leggere ciò che segue:
L’Estensore s’avvia alla porta del magazzino, e mentre è per sortire
s’incontra nel Francese che parla italiano.

SCENA SECONDA

L’Estensore e il Francese9.

F. Mio signore, siete voi il Redattore dello Spettatore?


E. Io per servirla.
F. Incantato di vedervi e di conoscervi. Voi forse indovinate la causa per
cui ho l’onore di rendervi visita.
E. L’onore è il mio, s’immagini; ma la causa non saprei indovinarla.
F. Datevi la pena d’ascoltarmi e la saprete. Il vostro giornale è quasi tutto
una traduzione d’articoli stranieri. Questo è il meglio che possiate fare.
Sarete letto da molto mondo, farete circolare fra gli Italiani molte buone
idee, e nel tempo stesso onorerete la mia patria, e le altre nazioni colle
vostre traduzioni. Io vengo in nome di tutte a testimoniarvene la
riconoscenza.
E. So bene che mi burla Vossignoria! non conta ella per nulla
l’Appendice Italiana?
F. Sì sì, è qualche cosa. Ma voi vedete bene, i vostri articoli di Teatro
fanno pietà! Perdonate, Signore, non si può dissimularlo; noi eravamo
avvezzi a Geoffroi10. Quei lunghi tratti di poesia che riportate saranno
bellissimi, ma infine un giornale non deve essere la seconda edizione dei
libri che annunzia. Tutto il mondo poi dice che la Parte Straniera è la
migliore.
E. Oh non son io d’una tale opinione; e in questo fascicolo appunto c’è
un lungo articolo contra gli ammiratori degli stranieri, e contra Madama di
Staël.
F. La Baronessa di Staël, sapete voi, è una donna d’immenso credito e di
gran genio. Non vi consiglio d’immischiarvene. Ma se volete farlo, studiate
il Journal de l’Empire. Voi vi troverete un modello eccellente d’invettive
contro di lei ben false, e bene spiritose11. Ma alla fine questo in Francia fa
sorridere un momento e nulla dippiù.
E. Eh ci vuol altro che spirito e che sorrisi; io difendo generosamente la
gloria italiana.
F. Buon Dio! che dite voi? La Baronessa di Staël è censurata fra noi
perché ha lodato troppo gl’Italiani, e voi potete lagnarvene?
E. Sì certo: ella ha detto che noi siamo «vendicativi, immorali,
torpidi…».
F. Permettete, Signore, ch’io prenda da questo scaffale un volume della
Corinna? Io l’apro a caso, e vi rispondo colle stesse sue parole:
«Les Italiens ont de la sincérité, de la fidélité dans les relations privées.
L’intérêt, l’ambition, exercent un grand empire sur eux (come su tutti gli
uomini) mais non l’orgueil ou la vanitè: les distinctions de rang y font très-
peu d’impression; il n’y a point de société, point de salon, point de mode,
point de petits moyens journaliers de faire effet en détail. Ces sources
habituelles de dissimulation et d’envie n’existent point chez eux; quand’ils
trompent leurs ennemis et leurs concurrens, c’est parce qu’ils se considèrent
avec eux en état de guerre; mais en paix ils ont du naturel et de la vérité…».
Volto quattro pagine, signor mio, e leggo ancora: «…malgré tout ce qu’on a
dit de la perfidie des Italiens, je soutiens que c’est un des Pays du monde où
il y a le plus de bonhomieb. Cette bonhomie est telle dans tout ce qui tient à
la vanité, que, bien que ce pays soit celui, DONT LES ÉTRANGERS AYENT DIT LE
PLUS DE MAL, il n’en est point où il rencontrent un accueil aussi bienveillant.
On reproche aux Italiens trop de penchant à la flatterie: mais il faut aussi
convenir que la plus part du tems ce n’est point par calcul, mais seulement
par désir de plaire qu’ils prodiguent leurs douces expressions inspirées par
une obligeance véritable: ces expressions ne sont point démenties par la
conduite habituelle de la vie… les gens du peuple seuls ont encore conservé
la coutume des coups de poignard… et les étrangers reprochent avec
amertume à cette nation les torts des nations vaincues et déchirées»c.
E. Passiamola su questo: ma come scusare la Baronessa dell’asserzione
che non abbiamo romanzi perché i nostri costumi sono licenziosi, e i nostri
cuori non sentono? «Belle ed appassionate Italiane, a voi s’appartiene il
risponderle!». Non sono dunque romanzi «i ben cento volumi delle nostre
novelle»?
F. Amico mio, voi tutti vi lagnate del serventismo, cioè d’un secondo
matrimonio che corrompe il primo. Ma pure anche su questo leggo la
Corinna a pagina 269 del primo volume, e vi rispondo:
«Les vertus domestiques font en Angleterre la gloire et le bonheur des
femmes; mais s’il y a des pays où l’amour subsiste hors des liens sacrés du
mariage, parmi ces pays, celui de tous où le bonheur des femmes est le plus
ménagé, c’est l’Italie.
«Les hommes s’y sont fait une morale pour des rapports hors de la
morale; mais du moins ont-ils été justes et généreux dans le partage des
devoirs; ils se sont considérés euxmêmes comme plus coupables que les
femmes quand ils brisaient les liens de l’amour, parce que les femmes
avaient fait plus de sacrifices, et perdaient d’avantage; ils ont pensé que
devant le tribunal du coeur, les plus criminels sont ceux qui font le plus de
mal… C’est encore un des contrastes de leur caractère, que la paresse, unie
à l’activité la plus infatigable; ce sont en tout des hommes qu’il faut se
garder de juger au premier coup d’oeil; car les qualités comme les défauts
les plus opposés, se trouvent en eux; si vous les voyez prudents dans tel
instant, il se peut que, dans un autre, ils se montrent les plus audacieux des
hommes; s’ils sont indolents, c’est peut-être qu’ils se reposent d’avoir agi,
ou se préparent pour agir encore… ils ne craignent point la mort quand les
passions naturelles commandent de la braver… il y a des mystères dans le
caractère, et l’imagination des Italiens, et vous y rencontrez tour à tour des
traits inattendus de générosité et d’amitié, ou des preuves sombres et
redoutables de haine et de vengeance…d … donnez à ces hommes un but et
vous les verrez en six mois tout apprendre et concevoir… L’amour tel qu’il
existe en Italie, ne ressemble nullement à l’amour tel que nos Ecrivains le
peignente. Je ne connais qu’un roman, Fiammetta du Boccace, dans lequel
on puisse se faire une idée de cette passion décrite avec des couleurs
vraiment nationales»f.
Direte voi dunque che Madama di Staël neghi al petto italiano quella
intensità e forza di passioni che è egualmente necessaria alle grandi virtù e
ai grandi delitti? Direte che ella vi contrasti la facoltà di sentire l’amore? È
forse sua colpa se i vostri Novellieri non hanno saputo dipingere l’amore
che come il loro secolo lo presentavag?
E. (fra sé) Che seccatore è costui! mi va recitando tutti quei passi che
conosceva ancor io, ma potrebbe ben tacerli per farmi piacere. — Ad ogni
modo la prego, signor forestiere, di considerare che Madama esalta gli
storici inglesi e dice assai male di Sarpi e di Guicciardini, lodati in vece da
Montaigne12, da Popelinière, da Voltaire, da Roscoe, e da Mably13. E il
nostro Macchiavelli che fu il modello del Robertson?… In somma la
signora Baronessa parla sempre con grande animosità dell’Italia.
F. Ventre bleu! non ho mai sentito che sia un delitto di lesa nazione il
preferire, come dite aver fatto Madama di Staël, i grandi storici inglesi a
Guicciardini ed a Sarpi! Questo è soltanto un giudicio dell’intelletto, non
una malevolenza del cuore.
Ma quanto alla animosità, voi siete in grande errore; e stordisco che un
letterato par vostro non si ricordi d’aver letto nel recente Discorso intorno
all’ingiustizia de’ giudizi letterari italiani, le belle cose che la Baronessa ha
scritte sui vostri più grandi uomini. Ne volete delle altre? Eccovene:
«D’où vient donc que cette nation a été sous les Romains la plus militaire
de toutes, la plus jalouse de sa liberté dans les Républiques du moyen âge,
et dans le seizième siècle la plus illustre par les lettres, les sciences et les
arts? N’a-t-elle pas poursuivi la gloire sous toutes les formes»h?
E parlando di letteratura, «les étrangers ne connoissent pour la plus part
que nos poëtes du premier rang, le Dante, Pétrarque, l’Arioste, Guarini, le
Tasse, et Métastase; tandis que nous en avons plusieurs autres, tels que
Chiabrera, Guidi, Filicaja, Parini, etc., sans compter Sannazar, Politien, etc.,
qui ont écrit en latin avec génie et tous réunissent dans leurs vers le coloris
à l’harmonie, tous savent, avec plus ou moins de talent, faire entrer les
merveilles des beauxarts, et de la nature dans les tableaux représentés par la
parole»i. Volete un elogio di Macchiavelli? sentitelo:
«Machiavel cependant bien loin de rien cacher, a fait connaître tous les
secrets d’une politique criminelle; et l’on peut voir par lui de quelle terrible
connoissance du coeur humain les Italiens sont capables»j.
Ne volete pel teatro italiano?
«La Mérope de Maffei, le Saül d’Alfieri, l’Aristodème de Monti, et sur
tous le poëme de Dante, bien que cet auteur n’ait point composé de
tragédies, me semblent faits pour donner l’idée de ce que pourrait être l’art
dramatique en Italie… Alfieri qui, quand il le voulait, excellait dans tous les
genres, a fait dans son Saül un superbe usage de la poésie lirique… On
venait d’apprendre la mort d’Alfieri, et c’était un deuil général pour tous les
Italiens qui voulaient s’énorgueillir de leur patrie»k.
Sosterrete voi ch’ella non dia lode ai vostri prosatori?
«Vous oubliez — vi risponde Corinna — d’abord Machiavel et Boccace,
puis Gravina, Filangieri, et de nos jours encore Cesarotti, Verri, Bettinelli,
et tant d’autres enfin qui savent écrire et penser» etc.l.
Pretendete persino che vi si parli di opere recentissime? Posso
soddisfarvi anche in questo: «Giovanni Pindemonte14 a publié
nouvellement un Théâtre dont les sujets sont pris dans l’histoire italienne, et
c’est une entreprise trés-intéressante et très louable. Le nom de Pindemonte
est aussi illustré par Ippolito Pindemonte, l’un des poëtes actuels de l’Italie,
qui a le plus de charme et de douceur»m.
E per sommar tutto in poche parole, volete il più bell’elogio che si possa
dare al genio italiano? Io ve lo leggo.
«Italie, empire du soleil; Italie maîtresse du monde; Italie berceau des
lettres, je te salue! Combien de fois la race humaine te fut soumise!
tributaire de tes armes, de tes beauxarts et de ton ciel…
Rome conquit l’univers par son génie et fut reine par la liberié. Le
caractère romain s’imprima sur le monde, et l’invasion des barbares, en
détruisant l’Italie, obscurcit l’univers entier. L’Italie reparut avec les divins
trésors que les Grecs fugitifs rapportèrent dans son sein; le ciel lui révéla
ses lois; l’audace de ses enfants découvrit un nouvel hémisphère, elle fut
reine encore par le sceptre de la pensée, mais ce sceptre de lauriers ne fit
que des ingrats (Gli Stranieri!).
L’imagination lui rendit l’univers qu’elle avait perdu. Les peintres, les
poètes enfantèrent pour elle une terre, un Olimpe, des enfers, des cieux, et
le feu qui l’anime, mieux gardé par son génie que par les Dieux des païens,
ne trouva point dans l’Europe un Prométhée qui le ravit»n.
Se non siete un’anima incontentabile, io non so che possiate domandar di
più. Ma parliamoci in confidenza, avete forse qualche motivo di lagnarvi
personalmente della Baronessa?
E. Potrei averne per una certa mia traduzione della sua opera
dell’Allemagna16, della quale la signora si è mostrata assai malcontenta. Ma
per dirvela schietta, a me non importa più che tanto ch’ella mi lodi o mi
biasimi. Sapete bene ch’io non ho tempo da perdere per aspirare alla gloria,
e che compilando un giornale, miro soltanto alla riuscita di un minuto o di
un’ora. Mi è parso dunque che attaccando una riputazione così colossale,
sotto colore dell’amore di patria, avrei fatto nascere gran rumore, e credo di
non essermi ingannato. Sentite, per esempio, un passo del mio articolo in
cui mi servo di un’immagine sull’Italia, che s’incontra frequentemente nella
Corinna, e di un’altra immagine che tutti hanno letto nei versi di Monti
amico della Signora Baronessa: «Ella, per dimostrare che tra i ghiacci e le
caligini del Nord meglio amarono di errare le muse che non tra i boschetti
di aranci e le eterne fragranze del Mezzogiorno, osò bruttare di fango il
peplo della veneranda Italia, e gli splendidi lavori de’ suoi figli disfigurare
con mano profana». Che ve ne pare? questo è un colpo di cannone che
sbaraglia l’inimico.
F. Tre volte bravo, tre volte caro signor Redattore! Che importa il vero
quando è contrario all’intento? Voi amate il successo, ed avete ragione. Se
volete passar una giornata con me, faremo una partita di piacere alla
campagna?
E. La seguo con tutto il cuore.

SCENA TERZA

Il Coro, poi il Guardarobbiere del Teatro della Scala.

Coro. Oh bella città di Milano dalle ampie mura, quante glorie non chiudi
nel tuo nobile grembo! Ecco, i magnanimi propugnatori d’Italia sorgono a
mille, e la tua fama grandeggia. Ma chi è che viene con un lumicino in
mano ad interrompere i trasporti della mia ammirazione? chi seio?
Il Guard. Oh bella! io sono il Guardarobbiere del Teatro; dimanderò
piuttosto a voi chi siete, e che fate su questo palco?
Coro. Io sono il Coro della tragedia greca, che per diletto degli eruditi del
nostro secolo comincio ad introdurmi a cantare anche in una mezza farsa
italiana.
Guard. Quest’uomo è pazzo! s’ella sta qui ad aspettare, per vedere la
prova del Runtzvanscad, può tornarsene a casa. Stassera non si dà la prova.
A tutto il corpo di ballo è venuta la podagra, malattia che lo travaglia di
spesso. La prima ballerina ha male al core, e il primo ballerino serio è stato
assalito da convulsioni tali, che in vece di batter le ottave, o di piroettare
non fa che tirar calci alla luna.
Coro. Me ne dispiace. Ma dite, buon uomo, mi potreste voi rendere un
servigio?
Guard. Mi comandi.
Coro. Avreste in guardarobba una qualche statua rappresentante l’Italia?
se me la prestate pel macchinismo della mia farsa, vi farò passare con un
Inno all’immortalità; e dippiù vi darò con che bere una bottiglia.
Guard. La ringrazio. In guardarobba c’è di fatti una vecchia statua di
cartone rappresentante l’Italia, che ha fatto la sua comparsa nel ballo del
Costantino. Ma non è più servibile. Il manto è tutto stracciato, e la corona è
in mille pezzip.
Coro. Non importa, datemela pure. Io la mostrerò al lume di luna a gente
che abbia le traveggole, e vista da lontano, parrà sempre una veneranda
Italia col peplo tutto aspro di gemme.
Coro. Non importa, datemela pure. Io la mostrerò al lume di luna a gente
che abbia le traveggole, e vista da lontano, parrà sempre una veneranda
Italia col peplo tutto aspro di gemme.
Guard. Se così vuole vado a prenderla.
Partito il Guardarobbiere, l’amico G. recitò questi versi di Dante
O poca nostra nobiltà di sangue!
………………………………
Ben se’ tu manto, che tosto raccorce,
Sì che se non s’appon di die in die
Lo tempo va d’intorno con le force17.

E discendendo in platea, unitosi a noi tre, uscimmo tutti di teatro senza


aspettare il compiacente Guardarobbiere.

a. Parola tipografica, colla quale gli Stampatori denotano il manoscritto da stamparsi.


b. Tutti sanno che la bonhomie significa in francese bontà naturale: questa nota sarebbe inutile, se
la mala fede per trionfare nelle dispute non traesse profitto anche dagli equivoci di parole.
c. Corinna, vol. I, pp. 266, 270, 271, 245, 263.
d. Alfieri ha detto in qualche parte delle sue opere che «la pianta uomo nasce più robusta in Italia»
che in qualunque altra terra, e che «gli stessi atroci delitti che vi si commettono ne sono una prova»
*.
e. Queste parole sono in bocca di Corinna, la quale è italiana e parla precisamente de’ nostri
Scrittori.
f. V. Cor., vol. I, pp. 268, 269, 246, 272, 316. In generale leggasi il capitolo VI e VII del primo
volume della Corinna, e si troveranno discusse pro e contro molte quistioni circa i costumi e la
letteratura italiana.
g. Vedi su quest’oggetto quanto si è discorso nell’antecedente capitolo.
h. Corin., vol. I, p. 263.
i. Cor., vol. I, pp. 290, 291.
j. Idem, p. 304.
k. Vol. I, p. 320; vol. III, p. 325.
l. Vol. I, p. 294.
m. Vol. I, p. 39715.
n. Vol. I, p. 68.
o. Il manoscritto del Sig. G… terminava alla parola grandeggia. Il resto lo ha improvisato, essendo
realmente venuto con un lume il Guardarobbiere del Teatro; e lo ha scritto dopo.
p. Gli storici indicano il trasporto della sede dell’Impero dall’Occidente in Oriente, fatto da
Costantino, come una fra le principali cause della caduta dell’Impero Romano.

* Vedi Alfieri, Del Principe e delle Lettere, 1. III, cap. XI, Esortazione a liberar l’Italia dai
Barbari. È questa la citazione, che lo Stendhal nel vol. Rome, Naples et Florence en 1817 prese dal
Borsieri. Sulla citazione dal Borsieri cfr. F. Novati, Stendhal e l’anima italiana, pp. 37-39 e pp. 141-
142, note.

1. L’Estensore o redattore dello Spettatore è lo stesso Bertolotti, colui che aveva mal tradotto
L’Allemagne della Staël. Il Borsieri ha già accennato a questa traduzione al principio del cap. II.
2. Stefano Ticozzi, vissuto dal 1762 al 1836, traduttore e compilatore, scrisse prevalentemente di
letteratura e di storia dell’arte. Tra le molte opere da lui affastellate sono le Vite dei pittori Vecellii.
Vedi su di lui F. Predari nel supplemento al Corniani, cit., vol. VIII, pp. 42-44.
3. La prima edizione era del 1807.
4. Con la frase impudente «la guerra mossa dai trivi» il Bertolotti osava accennare al Discorso
intorno all’ingiustizia di alcuni giudizi letterari italiani di Ludovico Di Breme.
5. Antonio Vallisnieri (1661-1730), autore della Istoria della generazione dell’uomo e degli
animali (Venezia, 1721) e di altre opere insigni di anatomia, fisica, botanica, geologia.
6. Lazzaro Spallanzani (1729-1799), che con acutissime osservazioni sulla fisica animale, sulla
circolazione del sangue, sulla riproduzione ha dato principio alla biologia moderna.
7. Cesare Beccaria (1738-1794) era molto ricordato per i trattati Dei delitti e delle pene e per le
Ricerche intorno alla natura dello stile.
8. Jacopo Stellini, autore del trattato De ortu et progressu morum atque opinionum ad mores
pertinentium (1740).
9. Il Borsieri con viva e gustosa parodia mette sulle labbra del francese un italiano molto
gallicizzante, ma anche gli fa dire amare verità sullo Spettatore; e le fa dire in faccia allo stesso
redattore.
10. Geoffroy aveva pubblicato forti articoli neh" «Appendice» del Journal des Débats. Raccolse
poco più tardi i suoi saggi critici, nel 1819. Aveva combattuto i primi romantici, cioè coloro che
sull’esempio dello Shakespeare avevano cercato di portar la verità nel linguaggio drammatico. In
ispecial modo aveva avversato Nepomuceno Lemercier (1771-1840), autore di un Agamennone
(1797), della commedia storica Pinto (1800), e, più tardi, nel 1817, di un Corso di letteratura, nel
1819 di un’epopea simbolico-comico-satirica, Panhypocrisiade. Geoffroy aveva anche oppugnato
Sebastiano Mercier, che in un Saggio sull’arte drammatica aveva esposto teorie innovatrici, che
precorrevano quelle dello Schlegel.
11. Per il suo spirito antinapoleonico.
12. Sono qui riassunte due pagine dell’articolo di Davide Bertolotti. Vedi Discussioni e Polemiche,
cit., I, p. 78. Ma il Borsieri per brevità ha fatto la somma dei nomi, senza tener distinti i giudizi sui
due storici, vissuti in tempi diversi. Pel Guicciardini il Bertolotti aveva addotto i giudizi del
Montaigne [Essais, Livre II, chap. X, Des Livres ], del Popelinière, del Voltaire, del Bolingbroke e
del Roscoe; pel Sarpi i giudizi del Salmasio, del Voltaire e del Mably. Henri Lancelot-Voisin, sieur de
la Popelinière (nato verso il 1540, m. il 1608) scrisse delle guerre civili e religiose di Francia e
l’Histoire des histoires avec l’idée de l’histoire accomplie, Paris, 1599. Il Bolingbroke (1678-1751)
trattò di filosofia, politica, religione e scrisse le celebri Lettere sulla storia, tradotte in francese da
Barbeu-Dubourg, Parigi, 1752, in tre voll. Le sue Opere complete apparvero a Londra nel 1753 in
cinque voll. Claude de Saumaise, detto in Italia «il Salmasio» (1588-1653), erudito francese, scrisse
sulle controversie religiose del suo tempo e tra l’altro De la réunion des catholiques et des
protestants con spirito conciliativo.
13. Mably (1709-1785), autore dell’op. Le Droit public de l’Europe, 1748; degli Entretiens de
Phocion sur le rapport de la morale avec la politique, 1763; dei Doutes proposés aux philosophes
économistes, 1768; delle Observations sur le gouvernement et les Etats-Unis d’Amérique, 1784.
14. Giovanni Pindemonte, fratello di Ippolito, autore delle tragedie Mastino I dalla Scala, I coloni
di Candia, Orso Ipato, Elena e Gerardo, L. Quinzio Cincinnato e altre molte.
15. Ippolito Pindemonte, autore delle Poesie campestri, della tragedia Arminio, delle Epistole.
Quando apparvero i suoi Sermoni nell’edizione della Società Tipografica di Verona, nel 1819, il
Borsieri ne diede notizia nel n. 80 del Conciliatore.
16. Vedi p. 270.
17. Paradiso, c. XVI, v. 1 e vv. 7-9.
CAPITOLO NONO
RIFLESSIONI UN PO’ SERIE
Sic fatur… classique immittit habenas
VIRG.
Così parlando all’alto mar s’affida.

Ritornato a casa mia, e ripassando col pensiero tutto ciò che m’era
occorso nella giornata, deliberai di scriverne fedelmente la storia, non so se
per tuo diletto o per tua noia, o lettore. Ho adempiuto il mio proponimento,
e rileggendo queste pagine prima di commetterle alla stampa, ne concludo
ciò che sono per dirti.
Vi ha certamente fra noi alcuni modestissimi e dotti uomini, ma costoro
vivono in segreto e non tengono il campo nella letteraria Repubblica. Chi
vuol conoscere a fondo i grandi argomenti delle nostre dispute letterarie,
frequenti i teatri, i caffè, i gabinetti delle dame. Chi cerca quali sieno le cure
di que’ letterati che afferrano l’occasione per le chiome, e parlano altamente
di sé, e danno larghissime promesse, sappia ch’essi s’affaticano a compilare
giornali, senza produrne uno solo che equivalga o agli antichi nostri o a
quelli recenti degli Stranieri. Sappia egualmente che oltre i giornali
compongono mediocrissimi versi e mediocrissime prose, nelle quali non è
transfuso il carattere della nostra nazione, né lo spirito del nostro secolo.
Chi giudica la letteratura un vano suono di parole se devia dal suo scopo
d’illuminare il vero e giovare per la via del diletto alla coltura della
moltitudine, quegli sappia che ora invece è quasi sempre rivolta a tutt’altro
fine, col servire a viste di lucro, o di privato ossequio, o d’inimicizia, o al
vitupero indegnissimo di celebri scrittori stranieri ed italiani. E tutti coloro
finalmente, che riguardano le dispute de’ letterati come un risibile sfogo
della loro vanità, sappiano ch’io penso nella stessa guisa; ma che questo
scritto è disteso colla mira più utile e più universale di denotare almeno in
parte gli abusi che si vanno inavvertitamente insinuando nelle lettere
italiane.
Così adoperando, io so d’essermi avventurato ad un mare sparso di scogli
e fremente di tempeste. Ma se coloro che prenderanno a biasimarmi,
volessero oppormi ch’io non istimo abbastanza le ricchezze letterarie dei
nostri giorni, e non esalto, come fanno essi all’opportunità, i nomi di La-
grange, Visconti1, Volta, Canova, ec, ecco la mia risposta.
Credo che nel presente periodo l’Italia non possegga quelle ch’essi
chiamano letterarie ricchezze.
Non si può chiamar fiorente la coltura d’una nazione quando ella vanta
soltanto qualche grande Scrittore; ma bensì quando, oltre i rari ottimi, ella
ne possiede molti buoni, mediocri moltissimi, cattivi pochi, e v’aggiunge
infiniti lettori giudiziosi. Allora si forma, dirò così, un’invisibile catena
d’intelligenza e di idee tra il genio che crea e la moltitudine che impara; si
sente e s’indaga il bello con più profondità, i falsi giudizi sono più
facilmente combattuti, ai veri gran-d’uomini è concessa la gloria e agli
ingegni minori la fama.
Così, per modo d’esempio, quando fiorivano Michelangelo e Raffaello
coprivano essi col raggio della loro gloria il nome pur chiaro d’altri artisti
che in epoca di decadenza sarebbero riputati eccellenti, e che ora infatti
veneriamo come grandi maestri. Così quando l’Ariosto ed il Tasso
stampavano orme profonde di poesia, avevano intorno a loro una turba
d’altri poeti meno insigni, ma pure distinti in quella età.
Facile è l’applicazione di questo principio al presente periodo della
letteratura italiana, ed ognuno può farla per se stesso.
Ma riguardo a coloro che a proposito di bella letteratura e di scienze
morali ripetono continuamente i nomi di alcuni fisici, o matematici, od
artisti, od eruditi, soggiungo che noi esaltiamo i nostri grand’uomini dopo
che furono onorati dagli Stranieri; e che allora cominciamo ad incoraggiare
l’ingegno, quando ha già compiuto il suo corso senza l’aiuto della stima
comune, anzi vincendo la guerra che gli moviamo.
Sì certo, Lagrange è nato in Italia, e noi possediamo il liceo ov’egli
spandeva la prima luce di se stesso. Di lui dissero i dotti delle altre nazioni
ch’egli stava dappresso a Newton nell’ingegno, e lo sorpassava nel sapere.
Ma Newton dorme glorioso i suoi sonni nelle tombe dei Re d’Inghilterra,
mentre le ceneri di Lagrange giacciono in terra straniera! Né le ceneri solo;
ma tutta la miglior vita di lui trascorse lontana dalla patria la quale non
seppe onorarlo che troppo tardi; ed egli la rimeritò degnamente non
dettando mai veruna opera sua nella lingua nativa.
Volta2 è il Franklin dell’Europa. Penetrando con acutissime esperienze
nel magistero della creazione, egli comandò all’elettricità di trascorrere
sotto il freno di una stessa legge gli spazii dell’aria, le superficie de’ metalli,
e le fibre degli animali, e trovò così un filo segreto con che la materia
inanimata si congiunge alla natura vivente.
Ma dimanderò a tutti coloro che ne citano ora il nome con orgoglio, se
sappiano infatti venerare questo grand’uomo come gli Americani
veneravano il loro sommo fisico e legislatore3; dimanderò se la fama di lui
era tanto altamente predicata fra noi, prima che l’Istituto di Francia lo
chiamasse nel suo seno a presentare alla meditazione di que’ dotti, quasi in
una festiva solennità della sapienza, le sue mirabili esperienze4?
E passando alle arti e all’erudizione, noi celebriamo l’unico Canova5
perché non ci è permesso d’invidiarlo; celebriamo ad una voce l’Appiani,
dopo che il suo destino infelice lo lascia in vita, ma gli vieta per sempre
d’essere ancora un sovrano pittore6; celebriamo Visconti perché è lontano; e
perché la Francia, che ha dovuto rendere all’Italia i prodigi delle arti, non ha
poi voluto restituirle un grand’uomo7.
Chi considera pertanto queste verità, deve sdegnarsi delle infinite
lagnanze che si movono contro la supposta ingiustizia degli stranieri; e
compiangere piuttosto la nostra vanità che vorrebbe diffusa sovra tutti i
letterati italiani la luce dovuta esclusivamente ad alcuni pochi, i quali vanno
solitarii nelle vie del sapere o nei campi del bello, e sorgono come frutti
spontanei d’una natura migliore.
Ma s’io dimando chi scriva fra noi un corso di letteratura italiana, simile
a quello di Laharpe8 o di Marmontel9 per la francese; s’io dimando chi
commenti i classici come l’Heine10, o scriva ora la storia come Herder11,
Heeren12, Müller13 e Sismondi14, s’io domando quali sieno le nostre opere
filosofiche da contrapporsi a quelle di Tracy o di Prévost15, avrò
probabilmente il rammarico di rimanermi senza risposta. Nessuna nazione
può vantare come l’Italia un sì gran numero d’Accademie scientifiche e
letterarie. Ma qual è il volume, intendo almeno sovra soggetti morali e
speculativi, con che una sola fra tante famiglie letterarie siasi recentemente
procacciata somma autorità fra di noi, e celebrità fra gli stranieri? Quali
sono i problemi di filosofia, di storia, di critica, ch’esse propongano agli
scrittori per coronarne le fatiche? Si sforzano d’impedire che il sapere
retroceda, ed è molto; ma non lo soccorrono a progredire, e sarebbe
moltissimo. Abbiamo i primi disepellita e posta in onore l’erudizione, ma
ov’è un libro italiano che invogli ad amarla? Ov’è una storia della filosofia
che giunga sino ai tempi di Kant e di Condorcet16, e non sia declamatoria
siccome quella del Buonafede, uomo d’altronde di chiarissimo ingegno, e
per altri titoli meritamente lodato?
Risparmiandomi d’aggiungere altre domande egualmente dolorose per
noi, io concluderò che possediamo attualmente l’apparenza della coltura ma
non la sostanza; e che non ama veracemente la gloria italiana chi
dissimulando queste piaghe, non esorta caldamente gli ingegni a rivolgere
gli studi ad oggetti più utili.
Cessiamo una volta dal disperdere in commenti grammaticali, in
quistioncelle d’erudizione, in censure, in apologie ogni forza di pensiero e
d’immaginazione. Cessiamo dal furore di parte, che ne divide nel regno
della filosofia e delle muse; cessiamo dal far pompa di grandissime ire per
tenuissimi oggetti, consumando la vita nel ferirci l’un l’altro,
Vitamque in vulnere ponunt17.

O veramente, dacché è destino inevitabile che la generazione de’ Margiti


e de’ Pantili non si spenga giammai, s’imiti Omero ed Orazio18, i quali
rivolsero contro di loro l’arme terribile del ridicolo. E se è bello il ricordare
che noi abbiamo sortito dalla natura egregie doti di mente e di cuore, più
utile e più santo consiglio è forse il ripetere che non bastano queste doti
quando vadano scompagnate da uno studio indefesso. Né temerò possa
darmisi nota d’irriverente verso la patria, arditamente affermando, che il
tempo inaridisce gli allori dei nostri padri se non sappiamo rinverdirli; e che
ora, pur troppo, si scorgono anche da lontano i segni e le rovine della nostra
decadenza.

L’autore di questo scritto, conoscendo la tempra di certi critici, commette ad uno di loro di
esclamare che le Avventure letterarie di un giorno non sono opera da Galantuomo, e che offendono
molti. Egli avrà ragione; il vero offende molti. Un secondo, fregandosi gli occhi per sgombrarne la
caligine, troverà che l’autore ora dà in leggerezze ed ora in una metafisica oscura. Avrà ragione ancor
esso; tutto ciò che non si può toccare è una metafisica oscura. Un ter»zo lo censurerà per prudenza,
un quarto passerà in rivista tutti gli errori di stampa, un quinto… che dico un quinto? dieci o dodici
per lo meno non potendosi tenere a freno proromperanno in villanie. Si servano tutti liberamente; essi
non avranno alcuna risposta. Il Galantuomo è a quest’ora montato in una vettura, e tenendosi a lato
gli storici letterari e politici dell’Italia, va a fare un giro di cinque anni nella nostra penisola, tutto
intento a raccogliere con esatte osservazioni le CAUSE DELLA GRANDEZZA E DELLA DECADENZA DELLA
LETTERATURA ITALIANA. Sebbene egli confessa sin d’ora, che non potrà forse compire il suo disegno
se il cielo non vorrà concedergli tre ottime cose, che augura di cuore anche ai benevoli lettori, salute,
ozio, e denari19.

1. Ennio Quirino Visconti.


2. Alessandro Volta, che nel 1800 aveva inventato la pila elettrica.
3. Beniamino Franklin.
4. Nel 1801 il Volta aveva mostrato i prodigi delle sue scoperte sull’elettricità all’Istituto di
Francia.
5. Antonio Canova era allora il principe della scultura classica, ispirata al bello ideale. Queste lodi
dimostrano che, dove splendesse il genio, i romantici superavano i limiti delle loro teorie e
l’avversione al rigorismo dell’estetica, imperniata sul bello assoluto. Come in letteratura compresero
e ammirarono Vincenzo Monti, così nella scultura il Canova, il più grande dei neoclassici; nella
pittura l’Appiani, altro neoclassico; negli studi dell’arte antica Ennio Quirino Visconti.
Condannavano i classicheggianti, che, chiusi in gretti rimaneggiamenti pedanteschi, non avevano
nulla da dire.
6. Andrea Appiani morì l’anno dopo, nel 1817, e il Berchet, innanzi alla sua salma, nella chiesa
della Passione, pronunziò il seguente discorso, che spiega oggi le considerazioni particolari del
Borsieri, in questo punto, e mostra come essi in fondo non avessero prevenzioni verso gli artisti che
nell’arte neoclassica, a loro giudizio, avevano dato prova d’ingegno, perché avevano una loro
immaginazione: «Questo cadavere intorno a cui ci raduna l’onor nazionale e l’entusiasmo
dell’ammirazione, questo cadavere era Andrea Appiani pittore. Già da quattro anni un fiero colpo
d’apoplessia lo aveva rapito alle Arti e all’incremento della gloria Italiana; ma egli vivea pur tuttavia.
E la sua vita quantunque infelice era nondimeno un carissimo conforto alla famiglia, una speranza
pe’ suoi amici. Un secondo insulto dell’apoplessia ruppe tutte le nostre speranze, ed egli non è più.
La chiarezza dell’ingegno, la dolcezza de’ modi, le virtù famigliari e cittadine, l’arte squisita, tutto in
somma che più fa illustre su questa terra, tutto perdemmo in lui, e di lui non ci resta che questo
cadavere e la gloria del nome. La natura avea versato in lui tutti quei doni de’ quali era stata già
prodiga tanto verso Raffaello. Ella avea voluto che Appiani ne fosse l’emulo, e Appiani obbedì.
L’alacrità con cui egli si diede agli studi più profondi dell’arte, l’amore infinito, ardentissimo del
bello a cui educò la propria anima, il sentimento della delicatezza, ch’egli si procacciò col culto delle
maniere più gentili, svilupparono ed accrebbero i doni della natura. I tempi favorivano l’ingegno. Ed
Appiani può dirsi per eccellenza il Pittore del secolo.
Ogni lode verrebbe meno a voler dire delle maravigliose opere di lui. Ciascuno di noi sente nel
fondo dell’anima ciò, ch’egli fu, e la tristezza cambia l’inno di lode in un pianto. Ma questo pianto
che accompagna la sepoltura dell’uomo grande, questo pianto che fa onore a chi lo versa, chi sa
quando avrà fine? Chi sa quando vedremo sorgere un Artista a riparare il danno che la morte fece ora
alla Pittura? Ben è vero che di molte speranze abbonda la Patria; ma avremo noi un altro Appiani?
Ogni lusinga futura non basta a scemare l’amarezza del presente dolore. Troppo abbiamo perduto,
troppo! E per poter qui sostituire lunghe parole alle lagrime bisognerebbe non essere Italiani, non
sentire profondamente la nostra sventura» (Allocuzione di Giovanni Berchet nei funerali del pittore
Andrea Appiani, celebrati nella Chiesa della Passione il giorno 10 di novembre 1817, Milano, Dalla
Tip. del Dott. Giulio Ferrario, 1817).
7. Ennio Quirino Visconti, recatosi in Francia nel 1798, era stato nominato amministratore
sorvegliante al Museo di Belle Arti antiche e moderne del Louvre, e più tardi professore di
archeologia. In Francia illustrò i monumenti egiziani portati a Parigi dopo la spedizione di Napoleone
Bonaparte e pubblicò l’opera mirabile Iconografia greca e romana (1808-1818). Morì a Parigi il 7
febbraio 1818.
8. Allude al Corso di letteratura francese di Giov. Francesco Laharpe, poeta e critico, vissuto dal
1739 al 1803.
9. J.-F. Marmontel (1723-1799) fu il principale redattore degli articoli letterari dell’Enciclopedia.
La raccolta degli scritti che costituiscono i suoi Elementi di letteratura, ancora al principio del secolo
xix erano giudicati una delle testimonianze più caratteristiche del gusto mediano nella critica
letteraria del secolo XVIII.
10. Cristiano Heyne (1729-1812), professore di eloquenza a Gottinga, pubblicò eccellenti edizioni
di Tibullo, Virgilio, Omero, Pindaro e altri classici.
11. Accenna all’opera dello Herder, Idee sopra la filosofia della storia dell’umanità. Nel 1818 il
Ridolfi nel Prospetto generale della letteratura tedesca, cit., così ne parlava: «Si ammira in
quest’opera la forte e la vivace immaginazione dell’illustre autore, siccome diletta grandemente il
vedere adombrata a piccoli tratti sì, ma tali che ci arrestano, la storia delle nazioni antiche e moderne;
e tra le antiche quasi ci sembra di passeggiare tra i preziosi avanzi di Babilonia, di Palmira, di
Eckbatana, di Menfi e di Persepoli. Tra le moderne se ti rattrista qualche avanzo d’ignoranza e di
ferocia, ti rallegra il progresso delle lettere, delle scienze e delle arti. Spiace che l’Autore in
quest’opera si abbandoni talvolta ad espressioni troppo enfatiche ed allegoriche, le quali confinano
coll’oscurità, ciò che egli non fece nelle prime, nelle Selve critiche e laddove parla dell’Origine del
linguaggio, valendosi in queste bensì dello stile grave e ornato, ma piano, quale si conviene a simili
materie».
12. Arnoldo Heeren (1760-1842) è l’autore di un Manuale della storia antica; di un Manuale della
storia del sistema politico d’Europa e delle sue colonie dallo scoprimento delle due Indie sino
all’istituzione dell’Impero Francese; dell’op. Idee sopra la politica, il cambio e il commercio dei più
ragguardevoli popoli del mondo antico.
13. Giovanni Müller è qui ricordato per la Storia della Confederazione elvetica. Visse dal 1752 al
1809. Di lui il Borsieri scrisse poi nei numeri 70 e 73 del Conciliatore, Notizie sullo storico Giovanni
Müller, e riprodusse nei numeri 87, no, 118 il Prospetto generale della storia politica d’Europa nel
Medio Evo, che rispondeva all’intendimento dei romantici di rivalutare i tempi di mezzo. Diceva nel
num. 73 il Borsieri, annunziando la riproduzione del Prospetto, desunto dalla Storia della
Confederazione elvetica, e commentandolo vichianamente: «I secoli che il lettore vedrà schierarsi
dinanzi, sono come i tempi eroici della storia moderna, Dante è in qualche modo il loro Omero,
l’Italia la loro Grecia, e noi tutti potremmo intitolarci una seconda volta la discendenza degli eroi, il
popolo nobile dell’Europa». Pel Borsieri il Müller era «il più grande storico» del M. E. (n. 14 del
Conciliatore).
14. Il Sismondi è qui ricordato per la Storia delle repubbliche italiane nel Medio Evo, stampata dal
1807 al 1818. Quando il Ticozzi tradusse in italiano quest’opera, il Borsieri ne trattò nel num. 14 del
Conciliatore.
15. Vedi pp. 107-108.
16. Il Condorcet (1741-1794), filosofo e matematico, collaboratore dell’Enciclopedia, è qui
indicato come rappresentante dell’illuminismo francese; Emmanuele Kant come il creatore
dell’idealismo trascendentale.
17. Virgilio, Georgiche, IV, 238: «animasque in vulnere ponunt».
18. Margite, il babbeo, protagonista del poemetto satirico omonimo, attribuito a Omero; Pantilio, il
poetastro cimicione delle satire di Orazio (I, X, 78).
19. Il 23 settembre un velenoso e bieco recensore, con tutta probabilità Francesco Pezzi,
commissario di polizia, che era il redattore della Gazzetta di Milano, annunziava il libro del Borsieri,
cercando di stroncarlo d’un colpo. Spigoliamo alcuni cenni significativi: «Nel capitolo III si passano
in rivista due articoli pubblicati dal sig. T. C. [intendi, quel bel tomo di Trussardo Caleppio] e
pretende giustificare la Baronessa; ma le ragioni di T. C. saranno sempre ragioni, i qui pro quo della
baronessa qui pro quo, e le parole del galantuomo parole, parole e parole… La vera morale del sesto
capitolo tende ad abbattere la gloria del Padre della commedia Italiana che un altro scrittore ha
poc’anzi denominato “Paron Veneziano” e sa il cielo che cosa abbia inteso significare con ciò. Il
ragionamento di questo capitolo mi sembra il Trissotin delle Donne saccenti e la favola del cieco e
dei colori… Nel VII capitolo si va a pranzo in quattro, si discute sui romanzi, si difende un’altra volta
la baronessa, e chi guadagna in questa causa, trattata “inter pocula”, è l’oste e il cameriere. Nel
capitolo ottavo il galantuomo torna in campo colla baronessa, e tenendo Delfina e Corinna nella
destra e l’Alemagna nella sinistra, investe di fronte e di fianco chi scrive lo Spettatore [Davide
Bertolotti]. In 18 pagine di stampa è impossibile provar meglio le dottrine del vaniloquio».
Concludeva che giacché l’autore si proponeva di ricercar le cause della grandezza della letteratura
italiana, avrebbe potuto trovarle nella modestia dei sommi uomini, che dopo una lunga vita di studi
confessano di non saper nulla; e avrebbe potuto trovar quelle della decadenza nell’orgoglio cieco di
taluni, inferiori ai lattaiuoli e così vani da pretendere di tener lo scettro delle lettere e delle scienze.
Il Pezzi è colui che nel Conte di Carmagnola del Manzoni negava perfino la logica; colui che il
Porta nelle sestine El romanticismo designa con la frase «on Stentarell». Il Borsieri se l’era da alcuni
anni inimicato per un vivo scambio di parole sul Foscolo.
INTRODUZIONE ALLA «BIBLIOTECA ITALIANA»
In data 11 dicembre 1815 Silvio Pellico scriveva al fratello Luigi:
«Borsieri, Breme ed io siamo stretti dalla più intima amicizia. Tutti e tre
abbiamo avuto l’invito d’essere collaboratori d’un nuovo giornale letterario
intitolato Biblioteca Italiana, il quale comincierà a sortire al principio del
1816. Il Governo (per lo scopo politico certamente di avvincolarsi i
letterati) ha fomentato e protegge questo Giornale. I Proprietari ne sono
Monti, Breyslac, Acerbi, ed altri. Quest’ultimo n’è il Direttore. — Borsieri
è stato incaricato di scrivere per il primo numero un Prospetto della
Letteratura Italiana, che servirà d’introduzione. Ha eseguito con molta
maestria questo lavoro, non ripetendo le lodi già dateci tante volte da’ nostri
pedanti, e male, ma piuttosto mostrando quanta carriera ci rimanga ancora a
percorrere, e qual animo a ciò fare ci sarà dato dallo studio, non solo dei
Classici nostri, ma delle varie letterature d’Europa — pensiero anche
accennato ma in altro modo, e con meno corredo d’idee, da Me. de Staél in
un articolo ch’ella pure comunica al Giornale. — Ma che vuoi? Borsieri
mise in ischerno il Poligrafo e la fu Dittatura (senza però nominarla) di
Paradisi. Chi gli fece castrare un periodo, chi un altro, chi porre delle Note
che non ci volevano; se l’articolo si conserva pur bello sarà prova del gran
pregio intrinseco. Non si vorrebbe offendere questa setta né quella; un
milione di dotti già manda da tutte parti diluvi di soporiferi articoli; non si
oserà mortificare l’amor proprio di nessuno; tutti i fogli saranno zeppi
d’erudizione, e la Biblioteca Britannica riderà della sorella che gli è nata in
Italia. — Sbaglierò Dio lo voglia; non divolgare questa mia profezia, potrei
essere lapidato». (S. PELLICO, Lettere milanesi (1815-’21), a cura di M.
Scotti, Torino, Loescher, 1963, pp. 28-29).
L’idea di far comparire sul primo numero della «Biblioteca Italiana» un
articolo sulle condizioni della nostra letteratura, che servisse da programma
e da introduzione alla rivista, era dell’Acerbi, il quale aveva invitato in
precedenza il Monti e così gli aveva esposto il disegno dell’articolo
desiderato:
«… dovrebbe contenere un quadro della letteratura di questo secolo,
mostrare il carattere e lo spirito distintivo, tratteggiarne rapidamente un
parallelo con quella del secolo passato, mostrarne l’influenza che ha avuto
su questo secolo qualche grande scrittore come Parini, Alfieri, Cesarotti,
ecc., indicare se siamo nella cattiva o nella buona strada, contrapporre
l’oscura e fosca stringatezza giornaliera alla fiacca frondosità frugoniana
ecc. del passato secolo, in somma, dir quello che voi solo potrete dire con
chiarezza e con dignità e con cognizione di causa». (V. MONTI, Epistolario,
a cura di A. Bertoldi, Firenze, Le Monnier, 1929, vol. IV, p. 239: lettera del
19 agosto 1815).
Il Monti giudicava bella l’idea e si diceva disposto a sobbarcarsi
all’impresa; ma lo preoccupavano la sua incompetenza nelle materie
scientifiche e la necessità di parlare di sé e dei suoi meriti di restauratore del
culto di Dante e di elegante traduttore dell’Iliade, universalmente
riconosciutigli (lettera a G. Acerbi del 1° settembre 1815, in Epistolario,
cit., pp. 242-243). L’Acerbi tornava alla carica il 10 settembre, offrendosi di
colmare il vuoto che il Monti avrebbe lasciato, per modestia, intorno alla
propria opera; delle scienze naturali si sarebbe occupato il Breislak, di
giurisprudenza e politica il Mengotti, delle arti figurative il Bossi: «La
vostra prefazione non toccherebbe che le belle lettere e la poesia»
(Epistolario, cit., p. 244). L’insistenza non raggiunse lo scopo; e per
l’articolo di apertura della rivista si pensò al Borsieri, il quale assolse
l’incarico ma non vide pubblicato il suo scritto. Le ragioni che indussero
l’Acerbi e gli altri responsabili della Biblioteca Italiana al rifiuto o furono
solo quelle indicate dal Pellico o riguardavano anche la preoccupazione di
far presa più o meno efficacemente sul pubblico. Il Luzio afferma che fu
trovato «troppo prolisso e ampolloso»: ma sembra piuttosto una sua
opinione (A. LUZIO, Giuseppe Acerbi e la «Biblioteca Italiana», in «La
Nuova Antologia», vol. LXVI, serie IV, 16 agosto 1896, p. 590). Del resto
esso non fu scartato immediatamente, tanto che fu inviato in tipografia per
la composizione: nella Biblioteca Comunale di Mantova se ne conservano
le bozze fra le «Carte Acerbi». Certamente le perplessità dovettero essere
politiche più che letterarie; basti ricordare questo passo della lettera del 23
gennaio 1816 del governatore Saurau all’Acerbi (conservata in copia a
Mantova e citata in parte dal Luzio) per mostrare come la vigilanza
governativa incombesse sulla «Biblioteca Italiana»: «La scelta de’
materiali, la distribuzione de’ lavori mensili ai compilatori, lo spirito morale
e politico del Giornale medesimo dipenderà dal Direttore il quale riceverà
immediatamente gli ordini da me ed egli dovrà comunicargli ai compilatori
perché vi si uniformino». L’Introduzione del Borsieri era corsa da uno
spirito politico non proprio conformistico; in un certo senso appare più
impegnata del Programma del «Conciliatore». Mostra poi la priorità di
certe idee sostenute da altri polemisti del Romanticismo italiano. La tesi
centrale è la mancanza di una cultura moderna in Italia, una cultura che non
fosse sterile vanto delle glorie passate, ma riconoscimento dei difetti e
dell’angustia del municipalismo, dell’accademismo, della sterile lotta fra
diverse scuole. I sommi ingegni sono un fatto di natura; da soli non fanno la
cultura di un popolo, la quale ha bisogno di quella «quasi invisibile cattedra
d’intelligenza e di idee» che congiunge «la moltitudine che impara col
genio che crea».
Gli inizi dell’Ottocento, che vedono tutta l’Europa percorsa da un fervido
scambio di idee, trovano l’Italia esclusa da questo commercio. Da noi
mancano giornali adeguati, che proseguano l’opera svolta nel passato da
quelli dello Zeno, del Lami, del Baretti e dal Caffè; non vi sono buoni
commenti dei classici, né una storia della filosofia che non sia vuota
declamazione, né storiografia politica e letteraria, letteratura narrativa,
ricerche morali, che siano al livello della produzione degli altri popoli
europei. La lingua stessa è per i nostri scrittori un problema: essi sono divisi
fra l’ossequio ad una sola autorità e la licenza. La posizione che la nuova
rivista avrebbe dovuto assumere tra i lodatori del passato e gli esaltatori del
nuovo è di equilibrio: «Chi si attendesse di vederci sacrificare sugli altari
dell’antichità vivrebbe ingannato, e andrebbe errato ancor più chi per amore
di cose nuove ne tenesse dimentichi dell’eredità dei nostri maggiori».
L’Introduzione è stata pubblicata in P. BORSIERI, Avventure letterarie di
un giorno e altri scritti editi ed inediti, a cura di G. Alessandrini e con
prefazione di C. Muscetta, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1967, pp. 125-145.
Il testo che qui offriamo è stato tratto da fotocopie delle bozze
mantovane. Le note contrassegnate da lettere dell’alfabeto registrano le
lezioni delle bozze evidentemente scorrette da noi date in forma corretta nel
testo. Le note contrassegnate da asterisco sono del Borsieri.
Se alcuno scrittore dotato della severità e dell’ingegno di Tacito detterà le
istorie di questo secolo travaglioso, egli sebbene costretto a ravvolgersi fra
mille traviamenti di parte, e a rinvenirvi più assai l’esempio delle nostre
colpe che quello delle nostre virtù, avrà nondimeno a far soggetto de’ suoi
colori un nobile e grandioso spettacolo che salvi l’onore della umanità.
È questo l’ardore delle nazioni europee nei progressi delle scienze, nella
propagazione dell’incivilimento, nella sincera estimazione della dignità
dell’umana natura, di cui abbiamo recentissimo esempio l’abolizione della
schiavitù e del commercio de’ Negri1.
Non mai corrispose più esattamente col vero l’elegante simbolo di
Pallade armata. In mezzo a tante guerre che minacciavano la distruzione di
ogni virtù sociale, il Russo valoroso visitava con rispetto le antiche sedi
della civilizzazione; e contemplando in certa guisa le rovine delle nostre
istituzioni giungeva forse a disegnarne le belle forme del regime civile.
L’Alemanno e l’Inglese combattevano con una mano e recavano nell’altraa
nelle terre illustrate dai loro trionfi tante opere immortali che hanno ormaib
rese necessarie ad ogni uomo pensante le lingue del Settentrione. Il francese
medesimo battuto dalle tempeste civili, illuso dai fantasmi di una gloria che
ha scontata amaramente, e soggiogatoc dalla più sottile tirannide che non
potendo spegnere il pensiero ned corrompeva le fonti2, il francese non ha
perduta per questo la sua gloria letteraria; e a lode del vero grandissimi
ingegni risplendono ancora in mezzo a quel popolo tumultuoso. Insomma il
pregio del sapere si è confuso con quello della spada; i popoli misurandosi
colle armi, hanno imparato a giudicarsi negli scritti; hanno perduto nella
ricchezza ed acquistato nella coltura, e l’amore della giustizia universale ha
disciplinati gl’impeti della conquista. E non sarà ultimo frutto per noi di sì
generosa moderazione, se i prodigi della scultura e del pennelloe, che il
diritto d’infauste vittorie ne avea rapiti, ritornerannof nel loro clima nativo3;
e se le arti che hanno fra noi e scuole e precetti e petti che le sentono,
raccoglieranno ancora da que’ divini modelli le ispirazioni del bello.
Confessiamo senza arrossire una dolorosa verità. Spogliata quasi l’Italia
del patrimonio dell’Arti, non provò che i danni di guerre sì atroci; e non
derivò dalla mescolanza di tanti popoli, dalla rapida comunicazione che ne
venne di costumi e di idee, tutto il vantaggio che si poteva. Il fiore de’
giovani ingegni destinato a ricevere un giorno dagli illustri viventi il
deposito del patrio sapere, periva in terre lontane. L’impeto della forza e
l’esempio corruttore di una prepotenza felice confondeva le menti; e
insensibilmente s’insinuava negli uomini illusi od atterriti la coscienza degli
animi servili, quella che giudica dall’evento. Noi prendevamo parte con
sagrifici inauditi ai furiosi tentativi che hanno agitata l’Europa; ma i
resultati refluivano unicamente nello stato più popoloso di cui eravamo
ausiliari. Non vedevamo che di lontano il gran corso delle umane vicende, e
tante lezioni dell’esperienza, tranne quelle della sventura, erano perdute per
noi. Collocati come in disparte sulla scena del mondo, non giungevamog a
sentire che le estreme adulazioni dei grandi movimenti sociali.
Pure nel mentre queste cagioni impedivano i nostri progressi, eccitavano
ad un tempo la nostra curiosità. Tutto ciò che riguarda i costumi delle
nazioni, le loro forze, il loro commercio, i loro progressi nelle scienze o
nelle lettere si attrae universalmente l’attenzione del lettore italiano: e
questo bisogno indistinto di essere al fatto delle cose del mondo si
manifesta nei discorsi famigliari, nella ricerca dei giornali stranieri, nella
pronta traduzione delle opere migliori, che sovra siffatti oggetti
compariscano fra le altre nazioni. I fiori e le foglie perpetue, e le grotte
d’Arcadia ci sono venute a noia, dacché abbiamo conosciuto quanta
sapienza si asconda nell’arcana spelonca d’Egeria o nei penetrali d’Apollo
che Licurgo visitava per impararvi le leggi4.
Non v’è forse giorno in cui le colte persone non reclamino dai nostri
Scrittori qualche opera originalmente italiana, la quale si giovi di una tale
tendenza del pensiero e la secondi. Ché anzi uomini valenti anche fra noi
riconoscendo tanto più utili quegli scritti che più rapidamente e
universalmente diffondono le idee, hanno raccomandata la compilazione di
Giornali di scienze e di lettere, siccome un mezzo utilissimo. Altri si sono
accinti all’opera, e vari fogli periodici annunziati tutti col nobile intento di
propagare il sapere e le buone lettere, hanno circolato per l’Italia. Per quali
cause tanta buona volontà, tanta aspettazione non sieno riuscite
compiutamente a buon fine, non sapremmo per ora indagarlo. Ma ciò che
non sapremmo egualmente passare in silenzio è la confusione a cui siamo
ridotti quando lo straniero che viaggia l’Italia col desiderio di ben
conoscerci, ne dimanda un giornale che gli sia di sussidio, e che sia
succeduto a quello dello Zeno5 o del Lami6, o alla Frusta7 del Baretti o al
bel foglio del Caffè8. Allora noi siamo costretti a convenire che, sebbene
alcuni di simili scritti comparsi sin qui non sieno sprovvisti di molti pregi,
molti pregi però non bastano ora, che per vari esempi sappiamo non essere
difficile il tutti accoppiarli. Egli è massimo infatti che uno de’ nostri
giornali9, cessato non ha molto, seguiva assai da vicino e con singolare
acutezza di giudizi le scienze naturali e le mediche; ma qual prò ne veniva
all’accrescimento del vero sapere se l’intento segreto di quegli articoli, e
tutta l’anima della compilazione era pur sempre il proposito di preparare le
menti a ben ricevereh alcuni sistemi, alcune teoriche favorite? Tal altro de’
nostri fogli10 pareva aver occupato esclusivamente il florido campo delle
lettere e delle scienze morali. Ma tolta una certa perizia nelle cose antiche,
non si potea rinvenirvi egualmente nella estimazione delle moderne le
bellissime doti che il Giornalista, ossia lo storico delle idee, ha comuni
collo Storico de’ fatti. Vogliamo dire quella severità che fa tacere le
passioni e parlare il giudizio, quella filosofia della critica che si spinge nelle
viscere d’uno scrittore e degna d’un solo sguardo la veste esteriore. Una
dittatura intempestiva erasi allora stabilita11 la quale mirava a propagare un
gusto esclusivo, un culto intollerante e superstizioso di una sola forma del
bello. Guai all’ingegno che senza interrogarla si fosse arrogato di scrivere
un volume di prose o di versi, e non l’avesse prima presentato alle vocali
cortine ove quella suprema autorità esercitava il suo terribile diritto di vita e
di morte! Ma mille volte più infelice s’ei s’avvisava di rispondere a qualche
censura troppo assoluta, o di notarvi un dannoso compartimento di lodi o di
biasimo. La guerra s’accendeva e non finiva sì tosto. Si ponevano a ruba
tutti i tesori dell’erudizione per sostenere noiosamente coll’autorità ciò che
aveva bisogno di essere confermato col raziocinio. L’epigramma, che
tralignava in sarcasmo, era chiamato ausiliario in sì gran lite; e il pubblico
che dapprima sorrideva alla vivacità delle dispute, cercava in progresso di
esserne liberato, per sapere più presto ciò che avveniva di nuovo nel mondo
intellettuale. In fine in varie altre effemeridi letterarie, le quali avevano
anch’esse i loro lettori, generalmente si desiderava, o che non si limitassero
all’esame delle opere pubblicate nel breve circolo di un municipio o di una
provincia; o che mostrassero un po’ più d’invenzione cessando d’essere un
arido e tardo compendio degli altri giornali; o che invece di tradurre
materialmente da altre lingue una gran parte d’articoli, segnassero con
maggiore accuratezza l’alterna influenza esercitata sulla universale maniera
di sentire dalle cognizioni e daglii scritti che di popolo in popolo si vanno
esportando.
Noi non dobbiamo certamente attribuire a difetto d’ingegno o di reale
capacità le imperfezioni delle quali per amore del vero e dell’arte abbiamo
parlato sino ad ora. Ma chi non sa che per riparare efficacemente ad un
bisogno vuolsene prima indagare l’origine, l’indole, l’estensione? Non si
poteva, per quanto ne pare, infondere un nuovo spirito di vita nella nostra
letteratura, se non si scandagliavano con qualche profondità e senza
illusioni le vere cause del suo stato presente; se non si riconosceva qual sia
la specie di coltura meno doviziosa fra noi, e quale la strada a cui dobbiamo
indirizzarcij per accompagnare l’universale andamento dello spirito umano.
Sarebbe opera di molti volumi e degna d’un filosofo che amasse la patria il
discutere appieno questo argomento fecondo di tanti esempi di grandezza e
d’umiliazione. A noi basterà accennare quel tanto che provi la nostra
asserzione; e mostri altresì di che guisa abbiamo consultato i fatti e le cose
nel concepire il pensiero di scrivere un giornale sotto il nome di Biblioteca
Italiana che possa recare una comune utilità12. Nel quale intendimento
abbiamo mirato tanto a coloro che professano gli studi, quanto a quelli che
cercano nella coltura una più bella e più nobile specie di leggiadria, e la
dimenticanza ad un tratto di molte noie della vita.
Quando l’adulazione velava con isplendide parole tristissimi fatti, un
risibilek abuso di linguaggio, che più non s’avvertiva a causa dell’abitudine,
chiamava Italia unita l’Italia legata. Ma divisa in effetto in vari stati, ella
non aveva nel suo seno una sola città fra le principali che sovrastasse
assolutamente alle altre, e tutto in lei prendeva norma e movimento dallal
vera capitale da cui era stata staccata per centinaia di miglia. Né la
lontananza era quella che più indeboliva l’impulso, poiché gli agenti morali
sopravanzano il fulmine in rapidità, e non possono essere rallentati dallo
spazio. Bensì la nostra tempera non rispondeva a quella specie
d’eccitamento, dacché ogni istituzione, ogni incoraggiamento tendeva a
stabilire come principio motore delle nostre facoltà l’imitazione di un altro
popolo; l’imitazione che tutto dimezza, che tutto raffredda; l’imitazione che
cancella i caratteri segnati dalla natura sulla fronte dell’uomo per collocarvi
le apparenze congegnate dall’arte. Le lettere e le scienze, che un tempo,
come ne insegna la storia, erano accolte ospitalmente nelle varie Corti
d’Italia, aveano veduta sparire la più gran parte di quelle vere sedi di coltura
e di gentilezza e sentivano minorato d’assai l’antico beneficio. Soltanto la
memoria delle glorie passate diveniva ogni giorno maggiore; ma l’orgoglio
nazionale fatto in tal guisa orgoglio di provincia, invece di liberare come
altrove i voli dell’ingegno, lo incatenava nel breve ricinto ove per accidente
era comparso nascendo. E non altrimenti che la pittura erasi altra volta
divisa in iscuole, e la lombarda, la toscana, la veneta, la bolognese, la
romana predicavano ciascuna altamente il pregio dell’arte che più
possedevano, così può dirsi che anche le scienze e le lettere venissero quasi
relegate in altrettante scuole diverse ov’esse continuarono e continuano a
tenersi segregate dal comune commercio, quantunque abbiano perduta
l’antica protezione che in quella loro solitudine le alimentava. Firenze,
Roma, Venezia, Torino, Napoli, Milano ed altre città molto popolose, ma
non meno illustrate dai fasti delle loro storie, si stimano tutte pari fra di
loro; tengono a buon diritto in altissimo onore i grand’uomini che
produssero; e per un amore di patria, di cui non sempre vanno rispettati tutti
gli errori, sdegnano quasi di riconoscere ciò che di bello e di grande
posseggono le loro rivali. Chi raccoglie tutte le forze dello spirito disperse
in queste varie città, chi le guida a produrre un nobile e grande incremento
nella coltura nazionale, chi le corregge nelle loro discordie, le frena nei loro
errori? Nessuno. L’autorità della Crusca, nata fra le guerre della nostra
letteratura e non istituita in origine come una magistratura di pace ma come
la rappresentanza d’una sezione, si giace immobile coi testi degli Scrittori
che ha chiamati classici, e coi quali presumeva proscrivere dal numero degli
esemplari il divino poema della Gerusalemme13. Per essa non sappiamo
ancora se noi scriviamo una lingua toscana od italiana, e comincia oramai a
scorrere il settimo secolo da che possediamo una letteratura senza che la
gran quistione della lingua sia per anco ben definita*. Le idee si
moltiplicano; infinite cose ignote ai nostri maggiori hanno acquistato
esistenza nella mente, e vocabolo che gli rappresenta nel discorso. Che
giova? Gli autori del buon secolo14 non conobbero quel vocabolo, ed anzi
che servirtene per rendere la tua idea vivente ed intera tu devi ricorrere al
tristo compenso di una perifrasi languita, lunga, inesatta. Non devi già tu
ricercare studiosamente se le voci della nostra lingua furono tutte applicate
secondo le leggi della logica e dell’analogia; e se corra alcun divario fra
l’autorità della Divina Commedia e quella delleTrenta Stoltizie di Fra
Cavalca15. Quand’anche l’uso di tanti secoli possa avere con minime ma
innumerevoli modificazioni tramutato affatto il significato di una voce, tu
dovrai aggiugnerle eternamente l’idea che v’aggiungeva il volgo parlante o
scrivente, vi sono cinquecent’anni; e tu godrai le estreme delizie della
gloria, se mentre sei vivo il tuo libro verrà seppellito nella stessa polvere
che copre gli errori misti d’ignoranza di quelle età fortunate.
Tal altro non s’accostò mai ai veri Padri del nostro idioma. N[emico] di
romanzi, di dizionari, di prospetti scrive quella lingua che parla e non si
cura se tu l’app[rovi] confrontandolo cogli eccellenti prosatori. Ignudo
affatto di buona filosofia, irreconciliabile nemico d’ogni metafisica anche
nella lingua, egli s’arroga di mutare d’inventare di aggiugnere e s’usurpa
quel diritto che appartiene unicamente ad un intelletto cresciuto nella
meditazione. Ma così frivolom scrittore s’acquista l’alleanza dei frivoli
lettori che non sono né pochi né facili a ravvedersi, e può lodare sé stesso
della rara felicità per la quale le opere sue non somigliano veramente a
nessun’altra.
Erriamo pur troppo fra la superstizione e la licenza; o non conosciamo
che una sola autorità, o non ne conosciamo veruna. In tanta incertezza di
giudizi e di esempi in passi d’ogni uomo che intraprende a scrivere sono
mal sicuri. La critica maligna, non già la sana, trova armi per tutto da
bersagliare chi dà l’esempio del coraggio o di un ingegno distinto, e per tal
guisa l’inquietao mediocrità, e l’ignoranza orgogliosa si consolano delle
loro sconfitte.
Non sia però chi creda che una colpevole indifferenza per la gloria del
nome italiano od una soverchia ammirazione di ogni produzione straniera
reggano ora la nostra opinione e la trasformino in pregiudizio. Niuno forse
sente più caldamente di noi quanto sia bello l’appartenere ad un popolo che
è il primogenito nella civilizzazione moderna, e che sorse il primo dalla
notte della barbarie non solo perché possedeva le reliquie dell’antichità, ma
perché la sua attività e l’eccellenza dell’altre sue doti naturali lo
sospingevano a ricercarle con amore, ad illustrarle a riporle in onore nel
mondo.
Ma questo medesimo zelo questa tenera sollecitudine del nome italiano
ne comandano di non dissimulare le nostre piaghe affinché possano essere
saldate da una mano sanatrice. Perché ci illuderemo noi sempre, perché
grideremo con voce orgogliosa alle altre nazioni che le arti le lettere le
scienze fioriscono ora in Italia, mentre l’orme della nostra decadenza si
vedono anche da lontano e gli allori de’ nostri Padri sono inariditi dal
tempo*? Noi teniamo all’opposto che una magnanima confessione del vero
sia il primo passo verso l’emendazione; poiché all’ingegno italiano non
mancano già le forze ma l’arte e la volontà d’esercitarle, né queste si
acquistano se non cessando una volta di vivere nel passato e di arrogarci
come nostra la gloria dei nostri maggiori. Il secolo decimo terzo fu il secolo
di Dante e dell’invenzione. Il decimo quarto vide nascere lo studio delle
lingue e de’ Codici antichi e Petrarca e Boccaccio già benemeriti in questo
si segnalarono ancor più interpretando l’uno la gentilezza l’altro la
corruzione della loro età. Nel decimo quinto le splendide fantasie de’ nostri
poeti erudite dai modelli dell’antichità e dai progressi della filologia
adornarono del fiore d’ogni eleganza la nostra letteratura. I politici e i
filosofi naturali del decimo sesto se non salvarono il gusto dalp
pervertimento, ampliarono però le provincie del vero sapereq. Tra il decimo
settimo e lungo il corso del decimottavo le lettere si redensero affatto dalle
insanie dell’infamato seicento; la filosofia che nelle scienze fisiche si giovò
sìr bene delle esperienze e dei fatti disuse lo spirito d’analisi nelle leggi del
gusto sull’indole del bello su tutto l’uomo; quant’ès questo periodo è
sommamente commendevole per laute opere distinte ma quel che è più per i
progressi maravigliosi della Tragedia italiana. Giunge in fine il secolo
decimo nono e a noi resta il rammarico di non poterlo per ora
contrassegnare che col solo carattere di secolo lodatore. Tutto risuona di
elogi. Vite di illustri Capitani, Vite di illustri Politici, Vite di illustri artisti,
Vite d’uomini viventi ancora e che non hanno sperimentata la sentenza di
Solone niuno doversi prima della morte predicare e virtuoso e beato17. Si
rivendicano all’Italia le scoperte usurpate dagli stranieri a qualche preclarot
ingegno degli altri tempi; si ristampano con tutta la pompa della presente
tipografia le migliori opere antiche; ottime cose per certo, quando se ne
derivi più incitamento al ben fare che soddisfazione d’orgoglio. Ma sfrenati
e inverecondi, quanto all’età nostra, e misurando l’elogio più coll’utile che
ne speriamo che col pregio delle cose abbiamo inventato nella lusinga la
pessima specie di mercimonio. Il delitto e la virtù si godono egualmente il
loro panegirico ed una scheggia di sasso rizzatau in obelisco è magnificata
del pari che l’antica meraviglia delle piramidi egizie.
Vi ha fortunatamente alcuna eccezione onorevole a tanti esempi di
fastosa picciolezzav e noi avremo occasione di ricordare qualche opera sì
nelle scienze come nelle lettere che può venire al paragone delle più vantate
fra quelle delle altre nazioni. Ma qui si parla del carattere generale, di quel
volgarissimo abuso che confonde nello stesso grado di stima l’apparenza e
la realtà, e si appaga del cerimoniale della coltura come della sua essenza
medesima. Nessuna nazione per esempio può forse vantare, come l’Italia,
un sì gran numero d’accademie scientifiche e letterarie. Ma qual è il
volume, intendo almeno sovra soggetti morali e speculativi, con che una
sola fra tante famiglie letterarie siasi recentemente procacciata somma
autorità fra di noi e celebrità fra gli stranieri? Quali sono i problemi di
filosofia, di storia, di critica ch’esse propongono agli Scrittori per coronarne
le fatiche? Si sforzano d’impedire che il sapere retroceda ed è molto; ma
non lo soccorrono a progredire e sarebbe moltissimo. Noi cerchiamo invano
fra le molte opere che compaiono tutto giorno una serie di buoni libri
elementari compilati in Italia; un bel commento de’ nostri Classici istituito
colla perizia delle lingue antiche e moderne, che abbondi di confronti, che
applichi le universali teoriche del bello e del sublime ai sì numerosi e sì
mirabili esempi che ne forniscono i nostri poeti. Abbiamo i primi
dissepelliti i tesori dell’erudizione, ma ov’è un libro italiano che invogli ad
amarla? Ov’è una storia della filosofia che giunga sino ai tempi di Kant e di
Condorcetw, e non sia declamatoria siccome quella del Buonafede18, uomo
d’altronde d’altissimo ingegno e per altri titoli meritamente lodato*? Ov’è
una storia politica, una storia letteraria, in cui i fatti sieno collegati fra loro
secondo la connessione delle cagioni che gli produssero, e s’aggirino come
raggi d’uno stesso centro, intorno ad un solenne e fecondo principio o di
filosofia o di politica, del quale non sieno in effetto che particolari
applicazioni*? Ov’è un libro di ricerche morali in cui l’eloquenza pareggi il
raziocinio, in cui le opinioni e le esperienze del passato non si ricordino
soltanto per ripeterle, ma bensì per derivarne le lezioni utili all’avvenire?
Ove un’opera d’imaginazione, un romanzo, che sia in tutto italiano e che
colla sua morale e col suo stile infonda ad un tratto nell’anime nuove della
gioventù, l’amore della nostra lingua e quello della virtù? Quando ne
ricorrono al pensiero tutte queste dimande e molte altre che è facile
aggiungere, sentiamo se non con ingratitudine, con rammarico almeno di
quanto andiamo debitori a varie opere d’altre lingue, le quali essendo più o
meno elementari ma chiarissime sempre ed elegantemente distese, ne
rinfrancano negli studi e ne iniziano nei misteri di que’ profondi scrittori
che ad ora ad ora si mostrano e fra gli stranieri e fra noi. Chè per certo
sebbene non sia questo il nostro secolo d’oro, e minori di ciò che fummo
non possa ora dirsi come nei tempi migliori «la letteratura, l’arti belle, le
scienze hanno non pochi eccellenti, molti illustri, infiniti mezzani
coltivatori in Italia» pure abbracciando il periodo con che una generazione
si confonda nell’altra, non siamo in sì vergognosa povertà da non conferire
alcuna cosa del nostro nell’universale patrimonio del sapere. Non è gran
tempo che Beccaria comprese in poche pagine recate dall’italianox in tutte
le favelle viventi la sostanza ignorata di una scienza antichissima21; e
persuadendo all’umana giustizia l’economia della divina, convertì la stessa
condannazione alle pene in una specie di sacerdozio che aborre dal sangue*.
Chi vuol riconoscere se il freno degli antichi precetti nell’arte del teatro
possa ancora umiliarsi coll’abbondanza del vigore e dell’invenzione, deve
ricorrere ai volumi del nostro Tragico22, il quale cammina a gran passi sotto
il giogo più severo, e lo sostiene coll’agevolezza con che altri lo scuote. Sey
le ceneri di Lagrangia23z miste a quelle del suo concittadino Cassini24
dormono in terra straniera, noi possediamo la sua culla; noi possiamo
mostrare il liceo ove quel grande intelletto si educava alle matematiche e
spandeva la prima luce di se stesso.
Se il sommo fra gli eruditi Ennioa1 Quirino Visconti è lontano, noi
dobbiamo considerare ch’egli seguiva le fortune dei capi d’opera delle arti
che voleva illustrare. Ma qui ed a Palermo vegliano al telescopio due felici
contemplatori25, che colla forza del calcolo s’impadroniscono del cielo e
dicono le stelle sorgenti*. Qui vive il Franklin dell’Europa26 il quale con
acutissime esperienze penetrando nel magistero della creazione, comandò
all’elettricità di comparire sotto il regime di una sola legge negli spazi
dell’aria, nelle fibre degli animali e nel composto de’ corpi; e trovò così un
filo segreto con che la materia inanimata si congiunge alla natura vivente.
Qui scrive il Poeta27 che ha ricondotto Dante fra suoi concittadini dandogli
Omero compagno, ed emendando in tal guisa la famosa arroganza di que’
Novatori che volevano imporre un secondo esigilo al sovrano cantore
dell’inferno e del cielo. Taccio di Canova Scultore dei Re, e d’Appiani che
pur vive, ed ha placato l’invidia coll’infelicità del suo destino28, e di alcuni
altri che colla magia dei colori o con quella dell’armonia sostengono ancora
la dignità del nome italiano. Ma tutti costoro se ne vanno solitari nelle vie
del sapere o nei campi del bello, e sorgono come frutti spontanei di una
natura migliore

Quis arte benigna


Et meliore luto finxit praecordia Tytan29*.

Perché non gli circonda una turba d’ingegni minori che se non sortirono
la destinazione di trovare il vero, abbiano quella di diffonderloa2 con una
dolce gradazione di luce? Non è mai fiorente la coltura di un popolo se non
quando una quasi invisibile catena d’intelligenza e di idee congiunge la
moltitudine che impara col genio che crea. Gli anelli di una siffatta catena
sono preparati in Italia, ma nessuno si accinge ad intrecciarli fra loro. Non
appena risorse la buona filosofia, essaa3 s’affrettava ad operare il nostro
incivilimento, ma i falsi sospetti che desta sempre la novità l’arrestarono nel
suo corso, e i roghi e le mannaiea4 la desolarono. Non perseguitata, non
libera in tempi più miti, sentì mancarsi egualmente e le forzea5 che sono
suscitate dall’oppressione e quelle che sono esercitate dalla libertà. La
ricerca del vero cessò d’essere la fatica più importante della vita e divenne
un’oziosa contemplazione, che trasfusa poi lentamente dalle lettere e dalle
arti nelle creazioni della fantasia giovò non poco a ripulirsi e a temperare i
costumi. Così si succedettero vari secoli d’incivilimento, che passando
menaron con loro gli errori popolari e le superstizioni più materiali senza
indebolire il freno santissimo e salutare della religione. Così gli studi si
meritarono la protezione dei Governi, e non mancano università, non manca
una classe numerosa ed agiata di persone che possono consecrarvisi.
Pure è quasi un destino che l’uomo nascendo con sì rare doti d’ingegno
in questa beata penisola, si limiti a leggere le prime linee del vero nella
bella natura che lo circonda, e pago di conoscere prontamente ciò che è
necessario a ben condursi nella vita dispregi come per sazietà, ogni più
recondito sapere. Siamo incuriosi delle nostre ricchezze, siamo avvezzi a
lunghe discordie d’opinioni, né proviamo più quel desiderio del vero,
quell’ardente amore del bello, quella venerazione degli ingegni che sono le
cause meno comuni ma più efficaci di ogni progresso sociale. All’antica
celebrità negli studi s’aggiunse l’altra troppo gravosa delle sventure, e
cresciuta la nostra indifferenza per tutto che non sia reale acquisto di
sostanza o di potere, ben provi anco in fatto di lettere la sterilità che suole
essere compagna della negligenza. Insomma la coltura italiana somiglia un
albero robusto che avendo radici fortificate da secoli, resiste ai turbini e alle
tempeste; ma la di cui forza produttiva già indebolita dal tempo si disperde
in molti rami, e basta appena a vestire di foglie l’altissimo tronco.
Questa immagine del vero nea6 sconforterebbe troppo gravemente, se
come la vita materiale si inaridiscea7 e si estingue per vecchiezza, così
anche la vita intellettuale delle nazioni non potesse essere ringiovenita. Ma
a noi basta il volerlo, basta rivolgere gli studi e i metodi loro ad oggetti più
utili, e una siffatta rinnovazione di noi medesimi è ben tosto operata.
Agevolarne i princìpi è il nobile ma difficilissimo intento che abbiamo
ardito proporci nel compilare la Biblioteca Italiana. Divisiamo brevemente
le viste colle quali stimiamo debba condursi un’impresa che non avremmo
fiducia di ben consumare se non riponessimo la somma delle nostre
speranze nei soccorsi che ci attendiamo dai valenti Scrittori sparsi in Italia.
Noi consideriamo che lo scibile è un gran corpo di cui le lettere, le arti, le
scienze morali, le naturali, le esattea8, sono le membra. Una vita comune le
congiunge, lo stesso spirito deve circolare per esse e ciascuna deve
conferire ciò che le è proprio alla salute e alla prosperità del tutto.
Il nostro giornale pertanto non disgiungerà queste membra. Gli articoli
che si riferiscono ad arti, a scienze od a lettere, saranno trascelti in guisa da
conservare una giusta proporzione colla importanza di esse e coi nostri
bisogni: talché ove pare che più universalmente scarseggi la comune
coltura, ivi si soccorra con più largo nutrimento d’idee.
Le scienze morali e speculative, la letteratura propriamente detta, e le arti
liberali sono strette fra loro con più intimi legami, o debbono esserlo. Però
le collocheremo nella prima delle tre parti in che sarà diviso ogni fascicolo
della nostra Biblioteca.
Le barriere che separano il regno del pensiero da quello della poesia e
dell’eloquenza, devono finalmente sparire anche in Italia. È ormaia9 tempo
che la lingua sia governata più collea10 grammatiche di Condillac e di Du-
Marset che con quelle del Cinonio e del Priscianesea1130. La filologia
debb’essere un soccorso della storia a cui possono consacrarsi i dotti di
professione, ma il pubblico ha bisogno di oggetti immediatamente utili; e
noi non abuseremo del tempo e della stampa, due cose immensamente
preziose, coll’occuparlo o di una iscrizione sepolcrale, proprietà dell’altro
mondo più che di questo, o d’un accento, d’una consonante raddoppiata e di
simili altre quisquilie dei grammatici o degli eruditi. Bensì se l’archeologia
nea12 struirà qualche soggetto, argomento di bella ed utile erudizione, noi
collocheremo di buon grado nella nostra Biblioteca le sue antichità siccome
quelle che possono comunicare l’autorità degli anni a tutto ciò che le
circonda. Le ricerche filosofiche sull’uomo e su lenti fenomeni maravigliosi
dell’intelligenza e del sentimento, son quelle di cui meno abbondiamo e son
pure le sole da cui le buone lettere derivano sostentamento e vigore. Non
bastano le carte socratiche raccomandate da Orazio31. Col volgere de’ tempi
tutte le dottrine si sono agitate, provate fra loro, accresciute; sì che la
filosofia del buon figlio di Sofroniscoa13 va congiunta all’assidua lezione
d’infinite pagine di metafisici, di politici, di storici, di geografi, per trarne
quanto è necessario a ben educare l’oratore, il poeta e l’artista. Noi siamo
profondamente compresi dell’idea di questa necessità, e non ci scosteremo,
per quanto è da noi, dal faticoso sentiero ch’essa n’apre davanti.
La seconda parte della Biblioteca Italiana è destinata alle Scienze ed alle
Arti Meccaniche. Sia che quelle tendano immediatamente a conservare
l’uomo nello stato sociale come la Politica, l’Economia pubblica, la
Statistica, la Giurisprudenza teorica e pratica, sia che tendano, come le
scienze fisiche, matematiche e mediche, a scoprire, a calcolare, a riparare le
forze della natura fisica per rendere egualmente più florida la conservazione
dell’uomo nello stato sociale, esse portano pur tutto questo comune
carattere di prefiggersi per iscopo il vero congiunto coll’utile, che poi solo
predomina nell’arti meccaniche. Le nostre considerazioni pertanto
verseranno a preferenza su quelle opere che accoppiano il pregio d’una
reale importanza, alla novità e alla difficoltà superata; o veramente sieno
dotate della funesta prerogativa d’essere in sommo grado dannose, il che
speriamo non possa avvenirci pur mai.
Infine ci ha molti oggetti che non vanno dimenticati, poiché si attraggono
la curiosità delle colte persone, e tali sono gli aneddotia14 letterari, i giudizi
sugli spettacoli, i programmi delle accademie, gli annunzi di libri, di quadri
ecc. Ci ha del pari alcune sfuggevoli produzioni di ingegno che non sono
comprese, parlando con proprietà, in nessuna fra le classiche divisioni delle
lettere e delle scienze, ma colle quali è bene ricercare la severità degli studi.
A questa specie appartiene una verità comune della morale colorita in poche
linee col velo delle grazie e col sorriso malizioso della satira; un bel detto,
un bel fatto narrato con brevità, oggetti svariatissimi insomma che
troveranno la loro sede naturale in un’Appendice all’altre due parti.
Ed ecco l’area entro la quale cia15 proponiamo d’innalzare il nostro
edificio. Ma a fine di raccoglierne i materiali di sceglierne i più solidi, i più
nobili, conviene per usare la frase di Dante32, che l’Italia si guardi in seno e
misuri tutta sé stessa, conviene che gli Appenninia16 non rompano colla loro
catena la pacifica federazione degli ingegni italiani. Molti di loro che ci
erano già noti per fama, abbiamo noi caldamente esortati con inviti speciali
a questa santissima colleganza di studi verso lo scopo che ci siamo prefissi.
Ma qui rinnoviamo solennemente le nostre preghiere ai felici cultori delle
scienze, delle lettere e delle arti. Né tutti si ponno conoscere, né tutti si
tolsero alla modesta oscurità in cui amano di nascondere con trascuranza
non affatto lodevole il merito loro. Ma tutti egualmente acquisteranno la
nostra gratitudine, giovando l’impresa che assumiamo tutti parteciperanno
agli incoraggimenti ed ai riguardi di cui ci siamo addebitati verso i nostri
Corrispondenti. Cominciando a condurre il nostro lavoro, veggano quanti
argomenti si presentano degni della loro e della nostra considerazione!a17
Parecchie opere di non lieve momento sono comparse negli anni andati,
intorno alle quali il pubblico avrebbe desiderato un più imparziale giudizio
sì dal lato della lode, come del biasimo. Un rapido sguardo retrogrado le
riporrà, per quanto è possibile, in un più giusto punto di vista. E poiché le
scienze e le lettere percorrono la terra cercando le produzioni di tutti i climi,
noi saremo solleciti d’accompagnarle colla nostra attenzione in mezzo agli
stranieri o notandone l’andamento generale, o assoggettando ad esame tanto
le opere, che per l’eccellenza di cui sono fornite più non appartengono ad
una nazione ma sono proprietà dell’Europa, quanto quelle che
particolarmente contengono opinioni e giudizi sulle cose d’Italia.
È pare veramente che i nostri Scrittori abbiano sino ad ora ceduto agli
stranieri l’ufficio di conoscerci e di giudicarci. La Vita di Lorenzo de’
Medici, ed il Secolo di Papa Leone, la Storia delle Repubbliche del medio
evo, la Storia generale della nostra letteratura e la particolare del nostro
teatro33, da cui furono presentate in aspetto degno della luce de’ tempi se
non da alcuni egregi Stranieri che caldi di amorea18 generoso del sapere
pellegrinarono per l’Italia con lunghe e dispendiosea19 vigilie, e divennero
nostri concittadini più che noi stessi?* Risparmiamoci, almeno per
l’avvenire, il rimprovero di non curanza che ne vien fatto a sì gran ragione.
Forse la Biblioteca Italiana (così amiamo di persuaderci) avvicenderà di
paese in paese, con più rapidità che ora non fassi, una maggior somma
d’idee. L’istessa corrispondenza che abbiamo già stabilita sulle falde
dell’Alpi sino a quelle dell’Etna ci terrà prontamente sul fatto delle opere
degne di ricordanza che di mano in mano verranno alla luce, e noi potremo
scegliere fra tutte, quelle che denotando i progressi reali od apparenti di una
scienza o di un’arte sorgono come colonne miliarie fra i vari intervalli della
coltura. Che se simili opere sono rare in ogni secolo e in ogni paese, non
mancano altre che ad onta di qualche menda risplendono di molti pregi.
Cessi il cielo però che nell’esaminarle noi confondiamo la critica, o l’arte di
giudicare le produzioni dell’ingegno senza passione, coll’infelice sagacità
di coloro che scoprono i soli difetti tirando un velo sulle bellezze. Lungi da
noi il basso costume di menar su tutte la sferza, ma lungi l’altro più vile di
lodar tutto. Ogni dottrina purché vera, ogni produzione letteraria purché
bella, ogni invenzione meccanica purché utile, si meriteranno la nostra
collaudazione; la quale verrà declinando in censura a misura che gli oggetti
esaminati devieranno da queste uniche destinazioni degli studi. E
nell’istituire i nostri giudizi non chiameremo a consiglio né la primazia di
una scuola, né la fama di una città, né quella di un uomo; estimando ogni
ottima cosa autorevolissima per sé stessa, di qualunque parte in qualunque
tempo ne giunga. Chi si attendesse di vederci sagrificare sugli altari
dell’antichità vivrebbe ingannatoa20, e andrebbe errato ancor più chi per
amore di cose nuove ne tenesse dimentichi dell’eredità dei nostri maggiori.
Non mai imiteremo quei figli sconoscenti, pei quali il primo atto di
padronanza si è il distruggere le amicizie, il regime domestico, l’idea
persino delle virtù ond’era accurato il buon padre che gli ebbe un giorno
arricchiti.
Questi sono i proponimenti, questi gli oggetti ed il fine ai quali verrà
indirizzata la compilazione della Biblioteca Italiana. Ma un sì candido
amore de’ buoni studi sarebbe tornato vano se gli scrittori che si sono
accinti ad un’opera di fila sì lunghe e numerose, non avessero trovato
incoraggimenti e sostegno nel Governo liberale sotto cui vivono. Qui non
accenniamo che un fatto; né imprenderemmo un elogio ora che il sacro
linguaggio della lode ha perduto ogni autorità per tante profanazioni ancora
recenti34. Quante volte non ci è risuonato all’orecchio che tutto prendeva fra
noi perfezione, accrescimento, prosperità? Eppure chi ponendo una mano
sul petto vuol parlare il vero, confesserà che se le istituzioni legislative
davano agli studi l’esterna pompa di una felice fortuna, esse però covavano
in segreto un attivo principio del loro deperimento*. Per riconquistare il
retaggio delle lettere e delle arti, che è quello della nostra età, abbiamo
bisogno di riposo e di pace, ed è veramente somma ventura che la forza
immensa ad un tempo e moderata, la quale nea circonda possa e sappia
conservarla. Ella è pure la stessa che accompagnata da un sapiente consiglio
e con munificenza reale raccolse altra volta quanti uomini grandeggiavano
nelle scienze, in una nostra università che destò allora altissimo grido di sé
in tutta l’Europa. Ella è pure la stessa che operava questo amplissimo
beneficio col silenzio col quale lea più piccole cose si operano. Non va
dunque perduto in vane congetture chi spera veder rifiorite le dolci
solitudini delle Muse; e traendo esempio da quel silenzio argomenta che la
Potenza moderatrice dei nostri destini, imiti anche in questo il grande
ordine della natura, la quale mentre l’uomo consuma, prepara in segreto e
senza ch’ei se ne avvegga la riproduzione del tutto.
Giovanni Berchet
(Milano, Castello sforzesco, Raccolta della stampe).
* Non dobbiamo tacere, per conforto degli amatori della nostra lingua, che le loro speranze
troveranno un appoggio nello zelo vivis simo de’ buoni studi ond’è animato il Governo. Noi
dobbiamo a questo sentimento, che tanto onora la mente ed il cuore degli illuminati Ministri, l’ordine
che conferma nel Cesareo Regio Istituto l’in carico di porre opera sollecita alla riforma del
Vocabolario.
* Nel dire decadenza non intendiamo rinunciare ai titoli di gloria con che l’Italia può gareggiare
anche presentemente colle altre nazioni. Grazie alla liberalità della natura i nostri ingegni si
reggeranno sempre da se stessi; e sebbene la falsa coltura, la pedanteria, la non curanza possano
rallentarli per via, non gli arresteranno pur mai. Bensì parlando di decadenza intendiamo di quella
che è relativa a noi medesimi, che risulta dal confronto di ciò che fummo e di ciò che siamo, e
mostra che le arti e le scienze corrono anch’esse, come ogn’altra umana cosa, le vicende della
fortuna. David Humea23 notò che l’Italia, forse per l’abbondanza dei grand’uomini che produsse,
non onorò quanto lo meritavano alcuni sommi ingegni di cui fu madre16. Questo illustre storico non
scriverebbe ora lo stesso.
* La storia di una scienza fatta da un filosofo è forse la miglior parte della scienza medesima. Noi
consideriamo sotto questo aspetto l’opera che Melchiorre Gioja va ora pubblicando col titolo di
Prospetto dello stato attuale delle Scienze economiche19. Senza entrare nel parziale giudizio
dell’esecuzione di questo ardito lavoro, non possiamo a meno di lodare il concepimento d’uno
scrittore che col metodo severissimo dell’analisi desume dagli Economisti più famosi di tutte le
nazioni le sole idee diverse ch’essi abbiano, le coordina in guisa che dal loro contrasto o dal loro
ravvicinamento si vede emergerne l’errore od il vero, e scrive così gli annali più filosofici che si
possano mai fare d’una scienza tanto importante.
* Sappiamo che la Storia dell’indipendenza d’America, pubblicata non è molto in Parigi da Carlo
Botta20, gode di una grande considerazione. Ma noi cogliamo l’esempio di questo istorico per
confermare ciò che abbiamo già detto sugli svantaggi derivanti dallaa24 incertezza delle nostrea25
opinioni in fatto di lingua. Il giustissimo desiderio ch’eglia26 aveva d’essere collocato nel numero de’
purgati scrittori, lo ha tratto talvolta a rivestire il pensiero di pretti fiorentinismi o di vocaboli troppo
antiquati, ed a menomare così le non poche bellezze del suo stile.
* Montesquieu non toccò che di volo nello Spirito delle Leggi la filosofia della legislazione
criminale. Beccaria fu veramente il primo che la liberò dalle tenebre dell’empirismo. Cadde ancor
esso ne’ suoi errori che furono rilevati da vari illustri Pubblicisti di Francia, di Inghilterra, d’Italia;
ma non sarebbe difficile il dimostrare che nelle sue verità v’ha il germe di quanto si è poi detto di
buono sui delitti, sulle pene e sulle loro proporzioni.
* Describunt radio coelique meatus et surgentia sidera dicunta27.
* È cosa degna di considerazione che tutti i grand’uomini che vanta l’Italia aveano già formata una
riputazione vent’anni prima d’ora, o erano sino d’allora talmente istituiti da non doversi che mostrare
per ottenerla. Del resto noi qui non individueremo i vari Artisti che o col bulino o col pennello o
coll’arte de’ suoni onorano Firenze, Milano, Roma e Napoli patria dell’armonia. Ciascuno già gli
indovina per sà stesso, e premia colla sua gratitudine i loro sforzi felici.
* Veggansi le opere di Roscoea28, Sismondi, Ginguenéa29, Cooperea30.
* Niuno negherà che le ultime vicende de’ tempi abbiano condotto con loro varie pubbliche
istituzioni di una reale utilità, specialmente negli stabilimenti meccanici. E in generale tutte quelle
scienze che poteano conferire, come le matematiche, ai progressi dell’arte militare erano
sinceramente incoraggite. Non così le Scienze morali da cui s’imparano le giuste arti della pace. Il
quindici di novembre del 1808 sarà sempre un giorno d’infausta ricordanza nella repubblica letteraria
pel decreto che sotto colore di riforma pervertì i metodi e gli oggetti degli studi morali35. Per esso (V.
art. 465) l’Analisi delle idee, la Storia, e la Diplomazia, la Numismatica, le Lingue orientali e la
Greca letteratura vennero sbandite dalle Università che rimasero di nome ma non di fatto l’unione di
tutti gli studi. La cattedra dell’Eloquenza, che è la luce d’ogni sapere e l’interprete d’ogni nobile
sentimento, venne confinata nei Licei, ove invece d’esporre le Filippiche di Demostene o i versi
magnanimi di Dante, deve occuparsi di amplificazioni e di precetti. La Filosofia morale e il Diritto di
Natura, si trasformarono in Diritto naturale sociale denominazione che lascia dubbio se
l’insegnamento del Diritto di Natura dovesse ricevere i suoi confini dalle positive istituzioni sociali, o
se piuttosto l’arbitrio di queste dovesse essere circoscritto dai confini eterni di quello. Il Gius delle
genti non dettò più i primitivi doveri e diritti delle Nazioni, e la fede e la ragione dei Trattati; ma si
convertì nel Diritto pubblico interno del regno (V. art. 7). Infine tutte le dottrine vennero diffuse non
secondo i progressi della scienza, ma unicamente come commentari più materiali del dovere dei
princìpi sanzionati nelle leggi positive. Egli [è p]er tan [to] verissimo che l’essenza di tutte queste
discipline era stata alterata a bell’arte e sviata dalle sue naturali destinazioni.

a. dell’altra.
b. ommai.
c. soggiogate.
d. né.
e. penello.
f. ritorniamo.
g. giungevano.
h. ricavere.
i. degli.
j. indirizzarsi.
k. visibile.
l. della.
m. frivole.
n. a’.
o. inquitta.
p. del.
q. sapere: Tra.
r. si giovi si.
s. l’uomo quant’è;.
t. prularo.
u. rizzate.
v. piciolezza.
w. Condorcet.
x. italiano:
y. La.
z. Lagrangie.
a1. Enrico.
a2. difonderlo.
a3. esse.
a4. manaje.
a5. forse.
a6. né.
a7. inaridisse.
a8. esotte.
a9. ommai.
a10. alle.
a11. Prissianese.
a12. nè.
a13. Sofronisso.
a14. annedoti.
a15. ti.
a16. Appennini.
a17. considerazione?
a18. amare.
a19. dipendiose.
a20. ingannati.
a21. nè.
a22. quale, le.
a23. Aume.
a24. dtlla.
a25. nestre.
a26. eh egli.
a27. diunt.
a28. Roscae.
a29. Giug […].
a30. Coupner.

1. L’abolizione della schiavitù fu promulgata nel 1807 negli Stati Uniti, nel 1814 nell’Olanda, nel
1815 nella Francia e nella Svezia. Nel 1807 il Wilberforce presentò una legge in parlamento che
proibiva ai sudditi britannici e alle navi inglesi di prendere parte alla tratta degli schiavi. Si v.: R.
COUPLAND, The abolition of the Slave trade, in The Cambridge history of the British Empire,
Cambridge, 1961, vol. II, pp. 188-216; W. L. MATHIESON, The emancipation of the Slaves, 1807-
1838, in The Cambridge ecc., vol. II, pp. 308-334; A. ZILVERSMIT, The first emancipation The
abolition of slavery in the North, Chicago and London, University of Chicago Press, 1967.
2. La tirannide, cui qui si allude, è quella di Napoleone, verso il quale l’atteggiamento dei nostri
romantici in genere non fu più tenero di quello di M.me de Staël. Ecco, ad esempio, quanto
all’incirca nel periodo in cui il Borsieri esprimeva questi pensieri scriveva il suo amico Pellico:
«Chiamo Bonaparte tiranno… e scellerato perché ha scosso a terra i frutti della rivoluzione prima che
fossero maturi, e affinché nessuno potesse gustarli impunemente li ha avvelenati; non poteva
sradicare la pianta, ma l’ha curvata nel fango. … i libri che soli si lasciavano stampare sotto
Bonaparte ripetevano le vigliaccherie di Virgilio e d’Orazio: e mentivano! — I grandi uomini che lo
circondano (se tali) sono quattro, e misti ai primi moltissimi e ricchi scellerati» (S. PELLICO, Lettere
milanesi, cit., p. 14).
3. Sono ben noti i trafugamenti di opere d’arte compiuti in Italia, specie dai Francesi sotto
Napoleone; sconfitto il quale, gli Alleati pretesero la restituzione. I prìncipi ebbero la facoltà di
deputare specialisti, che si recassero a Parigi per provvedere alla identificazione e alla consegna. Tra
gli altri fu inviato in Francia da Pio VII il Canova. Gli interessi del Lombardo-Veneto furono tutelati
direttamente dagli Austriaci.
4. Egiria: errore di stampa per Egeria. Secondo un’antica leggenda la ninfa Egeria fu consigliera
di Numa Pompilio, che si recava a visitarla in una grotta (cfr. TITO LIVIO, I dec., lib. I). Per Licurgo,
che visitava il santuario di Apollo e ne interrogava l’oracolo per la sua opera di legislatore, si veda la
vita scrittane da Plutarco.
5. «Giornale dei Letterati d’Italia»: iniziò la pubblicazione nel febbraio 1710; fu diretto dallo Zeno
fino al 1718, da Pier Caterino fino al 1732, da altri fino al 1740. Di esso ebbe a scrivere il Foscolo:
«indeed, had all the articles been equal in merit to those on the subject of antiquities, it would have
merited a place in every public library» (Italian periodical literature, ora in Saggi di letteratura
italiana, p.te II, Firenze 1958, p. 336).
6. «Novelle Letterarie»: furono fondate da Giovanni Lami (Santa Croce in Valdarno 1697 - Firenze
1770), Giovanni Panfilo Gentili, Anton Francesco Gori, Giovanni Targioni. Dal 1743 il Lami restò
unico compilatore fino al 1769, anno in cui abbandonò la direzione del giornale, che fu affidata a
Marco Lastri fino a tutto il 1792. Il Baretti, che aveva detto positiva per le lettere fiorentine l’opera
del Lami, giudicò severamente il Lastri. Fu il Lami presidente della Biblioteca Riccardiana,
professore di storia ecclesiastica, teologo consultore del Granduca. Nei suoi scritti rivelò una
moderata simpatia per il giansenismo. Su di lui: F. FONTANI, Elogio del dott. G. L., Firenze 1789; A.
FABRONIO, Vitae, XVI, Pisa 1795, pp. 171 sgg.; L. PICCIONI, Il giornalismo letterario in Italia, Torino
1894, vol. I, pp. 128-138; N. RODOLICO, Gli amici e i tempi di Scipione dei Ricci Firenze 1920, pp.
21 sgg.
7. Si veda la nota 2 a p. 278.
8. Si veda la nota 3 a p. 278.
9. Allude probabilmente agli «Annali di Scienze e Lettere», diretti da Giovanni Rasori (Parma,
1766 - ivi, 1837) e da Michele Leoni (vedi nota 2 a p. 425). Il Rasori fu medico, letterato, uomo
politico. Nel 1796 era stato rettore del Collegio Ghisleri; successivamente fu segretario generale del
Ministero degli Interni della Cisalpina, rettore dell’Università di Pavia, protomedico dello Stato. Per
avere partecipato alla congiura militare dell’aprile 1814 fu imprigionato. Uscì dal carcere nel 1818.
Fu tra i collaboratori del «Conciliatore».
10. Allude probabilmente a «Il Poligrafo», il giornale del Monti, Lamberti, Francesco Pezzi,
Urbano Lampredi ecc., uscito dal 7 aprile 1811 al 27 marzo 1814.
11. Stando alla citata lettera del Pellico qui il Borsieri alluderebbe a Giovanni Paradisi (Reggio
Emilia, 1760 - ivi, 1826), figlio del poeta Agostino. Il Paradisi, professore di matematica nel liceo di
Modena nel 1790, occupò successivamente cariche amministrative e politiche nella Cispadana, nella
Cisalpina e nel Regno d’Italia. Dopo Marengo fu consultore di stato, direttore delle acque e strade,
senatore, presidente del senato. Illustra bene il suo gusto chiuso in un rigido classicismo e la
rilevanza del suo peso negli ambienti letterari questo passo di una lettera dell’8 aprile 1808 scritta dal
Di Breme al Caluso: «Il Sig. Consultore Senator Paradisi, Gran Dignitario della Corona di ferro,
direttore generale dell’acque e strade e sul procinto di salire a maggiori onoranze ancora, è persona di
merito distintissimo nella repubblica delle scienze e delle lettere. La sua Casa è il centro ove si
riuniscono a ricrearsi tutti i più colti e i più profondi ingegni che sono in Milano, dico i Monti, i
Foscolo, Valeriani, Lamberti, Brunacci, Rossi, Strocchi e simili. Figlio del già chiaro poeta Agostino
Paradisi, egli è sovra tutto passionato di quella letteratura italiana che più è condita dal gusto dei
classici greci e latini, e fra questi egli è principalmente superstizioso ammiratore del lirico venosino,
nello studio del quale ha impiegato i più verd’anni di sua vita» (L. DI BREME, Lettere, a cura di Piero
Camporesi, Torino 1966, p. 38)
12. Queste considerazioni le ritroveremo in più di un manifesto romantico. Il loro carattere non
poteva certo incontrare l’approvazione di un Acerbi o di un Saurau. La cultura qui è intesa come
specchio e impulso del moto storico, quindi come strumento politico. Si confronti questa pagina del
Borsieri con il programma della «Biblioteca Italiana» tracciato dal Saurau nella citata lettera
all’Acerbi del 23 gennaio 1816: «ommessa ogni tendenza politica, la Biblioteca Italiana si presenterà
come un punto d’unione tanto necessario, e finora mancante, che viene offerto a tutti letterati italiani,
onde communicarsi, nonché al pubblico, le loro idee e scoperte, ed impedire con ciò che a sommo
danno delle scienze le opere loro restino, ancorché classiche, per lungo tempo sconosciute nei Stati di
cui dessi non sono abitanti o indigeni» (da copia conservata nella Biblioteca di Mantova; il brano è
citato nell’articolo del Luzio, a cui abbiamo fatto cenno, alla p. 589). Come si vede la finalità
culturale qui non sommoveva e poneva in discussione il concetto di cultura accademico e
tradizionale: restava su un piano esteriore di disimpegnata informazione.
13. Il Vocabolario degli Accademici della Crusca apparve nel 1612 per i tipi di G. Alberti,
stampatore in Venezia: in esso era escluso il Tasso dal numero degli scrittori su cui erano stati fatti gli
spogli. L’opera mirava a conservare la lingua, rifacendosi all’uso trecentesco; gli Accademici
dichiaravano: «Nel compilare il presente Vocabolario (col parere dell’Illustrissimo Cardinal Bembo,
de’ Deputati alla correzion del Boccaccio dall’anno 1573 e ultimamente del Cavalier Lionardo
Salviati) abbiamo stimato necessario ricorrere all’autorità di quegli scrittori, che vissero, quando
questo idioma principalmente fiorì». Ma vi fu chi nel corso del secolo XVII protestò per la esclusione
del Tasso, le cui opere vennero poi citate nella seconda edizione del Vocabolario (1691). Sono
famose le polemiche tra il poeta e gli Accademici della Crusca, iniziate nel 1585. Su di esse e sulla
lingua del Tasso si vedano: U. COSMO, Le polemiche tassesche, la Crusca e Dante nello scorcio del
Cinque e il principio del Seicento, in «Giornale storico della letteratura italiana», XLII, 1903; R. M.
RUGGIERI, Aspetti linguistici nella polemica tassesca, in «Lingua nostra», VI, 1944-45; B. T. Sozzi,
Tasso contro Salviati con le postille inedite all’Infarinato, in Studi sul Tasso, Pisa 1954, pp. 217-257
(e le citazioni si potrebbero moltiplicare).
14. Cioè il Trecento.
15. Il Trattato delle trenta stoltizie di fra Domenico Cavalca fu pubblicato insieme con la
Disciplina degli spirituali, a cura di Monsignor Giovanni Bottari, a Roma nel 1756 (una successiva
edizione apparve a Milano nel 1838).
16. Il motivo diventerà comune presso i romantici. Anche in questa polemica contro il vanto della
tradizione il Borsieri precede cronologicamente il Di Breme, il Pellico, il Berchet e altri collaboratori
del «Conciliatore».
17. Fu la famosa risposta data da Solone a Creso. Si veda il racconto dell’incontro fra i due
personaggi in Erodoto (I, 28-33), che appunto riporta il detto: πρὶν δ’ἄν τελευτήση, ἐπισχεῖν μηδὲ
ϰαλέειν ϰω ὄλβιον, ἀλλ’εὐτυχέα.
18. APPIANO BUONAFEDE, Della Istoria e della Indole di ogni filosofia di Agatopisto Cromaziano,
Lucca 1766.
Il brano tutto da «Nessuna nazione per esempio può forse vantare, come l’Italia, un sì gran numero
d’accademie…» è passato ad litteram nel cap. IX delle Avventure letterarie di un giorno.
19. Buona parte di questa nota è passata nella «Lettera di un solitario a un cittadino» (Avventure
letterarie di un giorno, cap. II).
Per Gioia si veda la nota 1 a p. 293.
20. Per il Botta si confrontino queste considerazioni con il più ampio e circostanziato giudizio del
secondo capitolo delle Avventure ecc.
21. Si veda la nota 1 a p. 298. Per le edizioni e le traduzioni del trattato Dei delitti e delle pene si
vedano la Nota bibliografica e la Nota al testo in C. BECCARIA, Opere, a cura di S. Romagnoli,
Firenze 1958.
22. Vittorio Alfieri.
23. Su Giuseppe Luigi Lagrange (o Lagrangia) si veda la nota 1 a p. 138. Alle indicazioni
bibliografiche ivi date si aggiungano: Oeuvres de Lagrange, a cura di J. A. Serret, sotto gli auspici
del Ministro dell’Istruzione pubblica, Parigi 1867-1892; J. B. DELAMBRE, Notices sur la vie et les
ouvrages de M. le Comte L., in «Mem. classe se. Institut» (1812), Parigi 1816.
24. Gian Domenico Cassini (Perinaldo, Imperia, 1625--Parigi 1712): fu professore di astronomia
nelle Università di Genova e di Bologna. Fece rilevanti scoperte sui pianeti; collaborò alla
sistemazione delle acque nel Ferrarese. Chiamato da Luigi XIV a Parigi, vi diresse l’osservatorio
astronomico.
25. A Milano viveva Barnaba Oriani (Garegnano, Milano, 1752 - Milano 1832): dirigeva
l’osservatorio astronomico di Brera; a Palermo Giuseppe Piazzi (Ponte di Valtellina 1746 - Napoli
1826: si veda su di lui la nota 4 a pag. 138).
La citazione che si legge nella nota del Borsieri è tratta da VIRGILIO, Aen., VI, 849-850.
26. Alessandro Volta. Il passo su di lui è riprodotto nel cap. IX delle Avventure ecc.
27. Vincenzo Monti.
28. Dal 1813 Andrea Appiani viveva paralizzato in seguito ad un attacco apoplettico.
29. GIOVENALE, Satira XIV, vv. 34-35.
30. Per il Condillac e il Dumarsais si veda la nota 6 a p. 107; per il Cinonio, cioè Marcantonio
Mambelli, si veda la nota 1 a p. 109. Prisciano di Cesarea, della fine del V secolo, fu autore di una
Institutio de arte grammatica in 18 libri.
31. «Scribendi recte sapere est et principium et fons: | Rem tibi Socraticae poterunt ostendere
chartae, | Verbaque provisam rem non invita sequentur» (Ars poëtica, vv. 309-311).
32. Purgatorio, VI, 86.
33. L’opera The Life of Lorenzo de’ Medici called the Magnificent di William Roscoe (Liverpool
1753 - ivi 1831) apparve nel 1796 e fu tradotta in italiano da G. Mecherini (Pisa, 1799); l’altra opera
dello storico inglese History of the Life and Pontificate of Leo the Tenth è del 1805 (la traduzione
italiana Vita e pontificato di Leone X, con annotazioni e documenti di L. Bossi, apparve a Milano nel
1816-17). La Histoire des républiques italiennes du moyen âge del Sismondi era apparsa a Zurigo nel
1807-1808 (i primi quattro tomi); mentre scriveva il Borsieri era in corso l’edizione parigina (1809-
1818, in 16 tomi). L’Histoire littéraire d’Italie del Ginguené, iniziata nel 1808 e continuata sino al
1815 senza giungere a compimento, fu pubblicata tra il 1811 e il 1819 in nove volumi, di cui gli
ultimi tre postumi. La storia particolare del nostro teatro cui allude il Borsieri è quella di J. COOPER
WALKER, Historical memoir on Italian tragedy, London, 1799 (nel 1810 a Brescia ne fu pubblicata la
traduzione italiana)
34. Allude al periodo napoleonico.
35. Si tratta del «Decreto riguardante il piano d’istruzione generale»: lo si veda in Bollettino delle
leggi del Regno d’Italia dal 1805 al 1813, Milano, dalla Reale Stamperia, 1805-1813, pp. 922-926 (il
«Decreto» porta il numero 388). Con esso veniva confermata l’organizzazione dei licei; erano
prescritti termini all’ammissione degli studenti nelle Università abolite le cattedre universitarie di
storia, diplomatica, numismatica, lingue orientali; in Milano abolite le scuole speciali di economia
pubblica, di storia e di diplomazia; per contro erano istituite le scuole speciali di diritto pubblico, di
alta legislazione civile e criminale, di eloquenza pratica. I professori che rimanevano senza
insegnamento in forza del regolamento sarebbero stati proposti a preferenza per le cattedre vacanti.
Gli articoli 4 e 5 prescrivevano: «Saranno subito ammessi a seguire nelle università i corsi del
secondo anno quegli alunni che avranno adempiute le disposizioni prescritte dall’articolo precedente.
Tutte le cattedre quindi attualmente esistenti nelle università per l’insegnamento de’ corsi del primo
anno, sono e restano soppresse»; «Sono ugualmente soppresse nelle università le scuole de’ princìpi
di disegno, e le cattedre di storia e diplomazia, di numismatica, e di lingue orientali».
GIOVANNI BERCHET
SUL «CACCIATORE FEROCE» E SULLA «ELEONORA»
DI GOFFREDO AUGUSTO BÜRGER
LETTERA SEMISERIA DI GRISOSTOMO AL SUO FIGLIUOLO

La Lettera semiseria fu pubblicata nel dicembre del 1816 col nome di


Grisostomo, che significa Bocca d’oro. Il titolo completo suona: «Sul
Cacciatore feroce e sulla Eleonora di Goffredo Augusto Bürger. Lettera
semiseria di Grisostomo al suo figliuolo. Milano, 1816. Dai tipi di Gio.
Bernardoni, Corsia S. Marcellino, N° 1799».
Delle prose del Berchet è tutt’ora la più importante, quantunque possa
esser controverso il giudizio intorno alle idee, in essa esposte, e al suo stile.
Sotto tre aspetti può essere riguardata: artistico, critico, morale.
Stilisticamente è la negazione della prosa accademica, letteraria,
cruschevole, di cui il Berchet si prende giuoco nella chiusa della palinodia.
Il Berchet, entrando nella polemica romantica, volse la mente a una prosa
duttile, agile, snodata, che fosse tutt’uno col pensiero, sostanziosa e ad un
tempo quasi parlata. Egli sapeva che la lingua nostra, per opera di artefice
destro (la parola è sua) può fiorire in «una prosa robusta, elegante, snella,
tenera», prendere cioè tutte le forme dell’anima. A tale ideale intese
dall’intimo, sebbene dica al principio della lettera stessa di non poter essere
da tanto.
Non giunse a una vera e propria fusione stilistica, perché impulsi di vita
vissuta e soste riflessive, idee critiche e sentimento, serietà e ironia, ragione
e fantasia, in lui concomitanti nel momento della concezione, non trovarono
nella forma quella consonanza ritmica, che sola avrebbe potuto dare una
prosa artisticamente omogenea. Ma si deve riconoscere che egli fece un
tentativo originale.
Era difficile che egli pervenisse nello stile a una perfetta modulazione di
sentimento e pensiero, di immagine e idea, perché nell’animo recava modi e
accenti disuguali, e la parola, nel cercar la concatenazione logica o
fantastica, gli usciva di volta in volta quasi a riprese, con intermittenze,
talora senza morbidezza di passaggi. In fondo, le disuguaglianze stilistiche,
se attentamente si guardano, erano il riflesso di quelle interiori, come
appare anche dalle opere poetiche. Sentimento e parola, immagine e idea
urgevano in lui per diventare ritmo e musica e nella ricerca della
modulazione lasciavano trasparire l’assillo espressivo. Ma il tormento
stilistico è in questo caso indice di un tormento interiore, in quanto quel che
egli aveva da dire, era ancora in formazione. Nell’atto stesso che scriveva al
figliuolo immaginario, per introdurlo nello spirito nuovo, che in Europa e
specialmente in Germania avvivava la poesia, Grisostomo era uno che
cercava entro di sé una sintassi mentale e per sé chiariva un programma
d’arte.
Sotto l’aspetto critico il punto più debole della lettera sta nell’aver negato
che la forma costituisca l’essenza della poesia e nell’aver ritenuto che
questa «solo contribuisca occasionalmente a dare effetto alle di lei
intenzioni» (p. 121). Il non aver intuito che l’ispirazione è già per se stessa
principio formativo interiore, è la ragione principale delle incongruenze
logiche, che si avvertono nella trattazione. Da quell’errore deriva anche la
raccomandazione impropria, che si legge nella chiusa della parte seria della
lettera: «In quanto a te, se mai ti nascesse voglia di scrivere Romanzi in
Italia sul fare di questi, va cauto, e fa di non lasciarti traviare in soggetti non
verisimili, quando essi siano tolti di peso dalla fantasia tua. Che, se
l’argomento ti viene prestato da una storia scritta, o da una tradizione che
dica: il tal fatto è accaduto così, e tu senti che comunemente è creduto così,
allora non istare ad angariarti il cervello per timore d’inverosimiglianze,
dacché tu hai le spalle al muro. Però nella scelta siati raccomandato di
tenerti più volentieri ai soggetti ricavati dalla storia, che non agli ideali».
La raccomandazione poggia sopra un preconcetto: che gli argomenti
«prestati» dalla storia siano più facili a trattare che non quelli interamente
immaginari. La fantasia è, al contrario, autonoma e non può essere
vincolata a preferenze empiriche. Quasi inconsapevolmente, in questo
punto, Grisostomo fa precettistica al modo dei classicheggianti. Egli che
aveva poco prima gridato: «Che poetiche di Dio!» e aveva detto acutamente
esser la poesia «compagna volontaria del pensiero e figlia ardente delle
passioni», cade nell’incongruenza di voler tracciare una ristrettissima
poetica romantica, modellata sulle sue preferenze, fatta sull’immagine che
egli aveva dell’arte. Gli argomenti formatisi interamente nello spirito del
poeta o, com’egli diceva, «ideali», possono essere fonte di poesia non meno
di quelli storici, indipendentemente dalla questione del verisimile o
dell’inverisimile, purché trovino nello stile viva sintesi fantastica: e per
quanto riguarda la forma, gli argomenti «ricavati» dalla storia non sono
meno difficili di quelli generati dalla fantasia del poeta, perché la storia non
ispira poesia se non sia a sua volta trasfigurata dal sentimento e dalla
fantasia.
Come mai il Berchet non si è accorto che siffatti precetti particolari
contraddicevano a’ suoi stessi principii? Il motivo è del tutto contingente.
Egli voleva fermare se stesso in un’esigenza di vita e di verità di contro al
falso che vedeva prevalere nella letteratura dei classicheggianti. Quando
egli negava che la forma sia essenziale alla poesia, intendeva ridar pieno
valore all’accensione lirica dell’animo di contro ai formalismi pedanteschi
ed esteriori, fatti di imparaticci, che erano il peso di piombo nelle imitazioni
dei classici; quando egli raccomandava al figliuolo di ispirarsi alle leggende
e alle tradizioni vive del popolo, mirava a liberare definitivamente se stesso
da ogni erudizione morta, per ritrovare le fonti genuine della poesia nei
modi di sentire e immaginare della sua nazione; quando egli si diceva: «Sii
nella storia», voleva dire: «Procura di radicarti nella vita sentimentale e
fantastica della gente, a cui appartieni, e dell’evo, in cui sei nato».
Le sue romanze e le sue fantasie spiccarono il volo da quel modo di
sentire, vedere e immaginare. Egli non solo per istinto nativo, ma anche per
un approfondimento che la polemica affinava, ebbe consapevolezza che
soltanto valga la poesia, la quale sia intimamente «attiva» (la parola è sua).
Perciò argutamente il Manzoni due anni dopo, nel 1818, nell’Ira di
Apollo immaginò che il Nume delfico in persona infliggesse al giovine
poeta, ribelle alle vecchie figurazioni mitologiche, la più severa di tutte le
pene: quella di essere per sempre escluso dai luoghi abitati dalle antiche
Camene e di essere obbligato a scavarsi la poesia dal profondo del suo
cuore istesso:

Tutto ei deggia da l’intimo


suo petto trarre e dal pensier profondo.

I due versi, isolati come una sentenza che valichi i confini della Lettera
semiseria, sembrano oggi quasi segnare il destino del poeta moderno. Ma
nel contesto dell’ode, rivolti come sono al Berchet, significano sopra tutto
svincolamento da una letteratura obbligata e rivalutazione del mondo
interiore, in cui il poeta vive soltanto delle sue proprie fantasie.
Qui sta il punto di congiunzione tra la lettera di Grisostomo e le opere
poetiche originali del Berchet, che tutte si formarono dopo quell’intimo
esame di coscienza letteraria, che egli volle scrivere e pubblicare, affinché a
tutti servisse di chiarimento. A suo giudizio, non vi è poesia, che non si
alimenti nativamente di un’intensa vita affettiva e morale. Dove questa
manchi, la poesia vien meno.
Questo è il nucleo sostanziale della Lettera semiseria; e questo è l’attimo
di verità, per cui, nonostante le incongruenze, oggi è ancora meditata e nei
tempi venturi non sarà dimenticata.
Lo stesso pathos, che vibra nei punti salienti e si riflette fin anche sulla
palinodia finale, contrapposta per arte alle idee del romanticismo, per
meglio mostrare a quali ottusità e negazioni si riducesse la cultura dei
classicheggianti, ormai priva di buon sangue naturale, balza da quell’intensa
vita morale. Scegliesse il lettore tra i due modi di concepire la letteratura:
chiunque avesse schietta vita affettiva e morale, non poteva esitare nella
scelta.
Questo il significato della tanto discussa palinodia, che può oggi apparire
una giustapposizione non riuscita, perché non deriva da un logico sviluppo
stilistico della lettera stessa, ma nella mente del Berchet, in quell’ora di
battaglia, non era un’appendice inutile. Quella contrapposizione repentina
fu da lui voluta, affinché l’antitesi radicale e immediata delle due
concezioni meglio desse risalto alle ragioni dell’anima contro quelle della
lettera morta.
Di consimili antitesi integrali fu capace la vita interiore del Berchet anche
più tardi, non appena egli scelse la sua strada: che fu quella dell’intima
verità, della battaglia sostenuta per un ideale, del dolore sofferto per la
libertà, del sacrificio, che è per se stesso poesia dell’anima. Sulle vie
dell’esilio poesia e fortezza morale gli furono veramente compagne
volontarie del pensiero e figlie ardenti della passione.
Era nato a Milano nel 1783, morì a Torino, dopo i cimenti della prima
guerra per l’indipendenza, nel 1851. Tra le due date si alza come verità e
poesia la strofe:

Per entro i fitti popoli,


lungo i deserti calli,
sul monte aspro di geli,
nelle inverdite valli,
infra le nebbie assidue,
sotto gli azzurri cieli,
dove che venga, l’esule
sempre ha la patria in cor.

SUL CACCIATORE FEROCE E SULLA ELEONORA


DI GOFFREDO AUGUSTO BÜRGER

Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo

Figliuolo Carissimo,
M’ha fatto meraviglia davvero che tu, Convittore di un Collegio, ti dessi
a cercarmi con desiderio così vivo una traduzione italiana di due
componimenti poetici del Bürger1. Che posso io negare al figliuolo mio?
Povero vecchio inesercitato, ho penato assai a tradurli; ma pur finalmente
ne sono venuto a capo.
In tanta condiscendenza non altro mi stava a cuore che di farti conoscere
il Bürger; però non mi resse l’animo di alterare con colori troppo italiani i
lineamenti di quel Tedesco: e la traduzione è in prosa. Tu vedi che anche col
fatto io sto saldo alle opinioni mie; e la verità è che gli esempi altrui mi
ribadiscono ogni dì più questo chiodo. Non è, per altro, ch’io intenda dire
che tutto tuttoquanto di poetico manda una lingua ad un’altra, s’abbia da
questa a tradurre in prosa. Nemico giurato di qualunque sistema esclusivo,
riderei di chi proponesse una legge siffatta, come mi rido di Voltaire che
voleva che i versi fossero da tradursi sempre in versi2. Le ragioni che
devono muovere il traduttore ad appigliarsi più a l’uno che all’altro partito
stanno nel testo, e variano a seconda della diversa indole e della diversa
provenienza di quello.
Tutti i popoli che più o meno hanno lettere, hanno poesia. Ma non tutti i
popoli posseggono un linguaggio poetico separato dal linguaggio prosaico.
I termini convenzionali per l’espressione del bello non sono da per tutto i
medesimi. Come la squisitezza nel modo di sentire, così anche l’ardimento
nel modo di dichiarare poeticamente le sensazioni, è determinato presso di
ciaschedun popolo da accidenti dissimili. E quella spiegazione armoniosa di
un concetto poetico, che sarà sublime a Londra od a Berlino, riescirà non di
rado ridicola, se ricantata in Toscana.
Ché se tu mi lasci il concetto straniero, ma per servire alle inclinazioni
della poesia della tua patria me lo vesti di tutti panni italiani e troppo diversi
da’ suoi nativi, chi potrà in coscienza salutarti come autore, chi ringraziarti
come traduttore?
Colla prosa la faccenda è tutt’altra; da che allora il lettore non si
dimentica un momento mai che il libro ch’ei legge è una traduzione; e tutto
perdona in grazia del gusto ch’egli ha nel fare amicizia con genti ignote, e
nello squadrarle da capo a piedi tal quali sono. Il lettore, quand’ha per le
mani una traduzione in verso, non sempre può conseguire intera una tale
soddisfazione. La mente di lui, divisa in due, ora si rivolge a raffigurare
l’originalità del testo, ora a pesare quanta sia l’abilità poetica del traduttore.
Queste due attenzioni non tirano innanzi molto così insieme; e la seconda
per lo più vince; perché l’altra, come quella che è la meno direttamente
adescata e la meno contentata, illanguidisce. Ed è allora che chi legge si fa
schizzinoso di più; e come se esaminasse versi originali italiani, ti crivella
le frasi fino allo scrupolo.
Chi porrà mente alle circostanze differenti che rendono differente il modo
di concepire le idee e verrà investigando le origini delle varie lingue e
letterature, troverà che i popoli, anche per questo lato, hanno tra di loro de’
gradi maggiori o minori di parentela. Da ciò deriverà al traduttore tanto
lume che basti per metter lui sulla buona via, ov’egli abbia intenzione
conforme all’obbligo che gli corre: quella cioè di darci a conoscere il testo,
non di regalarcene egli uno del suo.
Il sig. Bellotti imprese a tradurre Sofocle3; e prima ancora che
comparisse in luce quell’esimio lavoro, chi sognò mai ch’egli si fosse
ingannato nella scelta del mezzo, per aver pigliato a condurre in versi la sua
traduzione?
Per lo contrario, vedi ora, figliuolo mio, se io ti abbia vaticinato il falso
quando ti parlai tempo fa d’una traduzione del Teatro di Shakespeare,
prossima allora ad uscire in Firenze. Il sig. Leoni4 ha ingegno, anima,
erudizione, acutezza di critica, disinvoltura di lingua italiana, cognizione
molto di lingua inglese, tutti, insomma, i requisiti per essere un valente
traduttore di Shakespeare. Ma il sig. Leoni l’ha sbagliata. I suoi versi sono
buoni versi italiani. Ma che vuoi? Shakespeare è svisato; e noi siamo
tuttavia costretti ad invidiare ai Francesi il loro Le Tourneur5. E sì che il sig.
Leoni bastava a smorzarcela affatto questa invidia!
Di quanti altri puntelli potrebbesi rinfiancare questo argomento lo sa Dio.
Ma perché sbracciarmi a dimostrare che il fuoco scotta? Chi s’ostina a
negarlo, buon pro per lui!
E non occorre dire che la lingua nostra non si pieghi ad una prosa
robusta, elegante, snella, tenera quanto la francese.
La lingua italiana non la sapremo maneggiare con bella maniera né io, né
tu; perché tu sei un ragazzotto, ed io un vecchio dabbene e nulla più; ma fa
ch’ella trovi un artefice destro ed è materia da cavarne ogni costrutto6. Ma
questa materia non istà tutta negli scaffali delle biblioteche. Ma non là
solamente la vanno spolverando quei pochi cervelli acuti che non aspirano
alla fama di messer lo Sonnifero.
In Italia qualunque libro non triviale esca in pubblico, incontra bensì qua
e là qualche drappelletto minuto di scrutinapensieri7, che pure non lo
spaventano mai con brutto viso, perché genti di lor natura savie e discrete.
Ma, poveretto! eccolo poi dar nel mezzo ad un esercito di scrutinaparole,
infinito, inevitabile, e sempre all’erta, e prodigo sempre d’anatemi. Però io,
non avuto riguardo per ora alla fatica che costano i bei versi a tesserli,
confesso che qui tra noi, per rispetto solamente alla lingua, chiunque si
sgomenta de’ latrati dei pedanti piglia impresa meno scabra d’assai se
scrive in versi e non in prosa. Confesso che, per rispetto solamente alla
lingua e non ad altro, tanto nel tradurre come nel comporre di getto
originale, il montar su’ trampoli e verseggiare costa meno pericoli.
Confesso che allo scrittore di prose bisogna studiare e libri e uomini e
usanze; perocché altro è lo stare ristretto a’ confini determinati di un
linguaggio poetico8, altro è lo spaziarsi per l’immenso mare di una lingua
tanto lussuriante ne’ modi, e viva e parlata ed alla quale non si può chiudere
il Vocabolario, se prima non le si fanno le esequie. Ma lo specifico vero per
salire in grido letterario è forse l’impigrire colle mani in mano, e l’inchiodar
sé stessi sul Vocabolario della Crusca, come il Giudeo inchioda sul
travicello i suoi paperi perché ingrassino9?
No no, figliuolo mio, la penuria che oggidì noi abbiamo di belle prose
non proviene, grazie a Dio, da questo che la lingua nostra non sia lingua che
da sonetti. Fa che il tuo padre spirituale ti legga la parabola dei talenti
nell’Evangelista; e la santa parola con quel «serve male et piger» ti
snebbierà questo fenomeno morale10.
Ora, per dire di ciò che importa a te, sappi, o carissimo, che i Lirici
Tedeschi più rinomati, parlo della scuola moderna, sono tre: il Goethe11, lo
Schiller12 e il Bürger. Quest’ultimo13, dotato di un sentire dilicato, ma d’una
immaginazione altresì arditissima, si piacque spesso di trattare il terribile.
Egli scrisse altre poesie sull’andare del Cacciatore Feroce14 e della
Eleonora15; ma queste due sono le più famose. Io credo di doverle chiamare
Romanzi16: e se il vocabolo spiacerà ai dotti d’Italia, non farò per questo a
scappellotti colle signorie loro.
Poesie di simil genere avevano i Provenzali; bellissime più di tutti e
molte ne hanno gli Inglesi; ne hanno gli Spagnuoli; altre e d’altri autori i
Tedeschi; i Francesi le coltivavano un tempo; gli Italiani, ch’io sappia, non
mai: se pure non si ha a tener conto di leggende in versi, congegnate, non
da’ poeti letterati, ma dal volgo, e cantate da lui; fra le quali quella della
Samaritana meriterebbe forse il primato per la fortuna di qualche strofetta17.
Non pretendo con ciò di menomare d’un pelo la reputazione di alcuni
Romanzi in dialetti municipali; perché, parlando di letteratura italiana, non
posso aver la mira che alla lingua universale d’Italiaa.
Il Bürger portava opinione che «la sola vera poesia fosse la popolare»18.
Quindi egli studiò di derivare i suoi poemi quasi sempre da fonti
conosciute, e di proporzionarli poi sempre con tutti i mezzi dell’arte alla
concezione del popolo. Anche delle composizioni che ti mando oggi
tradotte, l’argomento della prima è ricavato da una tradizione volgare;
quello della seconda è inventato, imitando le tradizioni comuni in
Germania; il che vedremo in seguito più distesamente. Anche in entrambi
questi componimenti v’ha una certa semplicità di narrazione che manifesta
nel poeta il proponimento di gradire alla moltitudine.
Forse il Bürger, com’è destino talvolta degli uomini d’alto ingegno,
trascorreva in quella sua teoria agli estremi. Ma perché i soli uomini d’alto
ingegno sanno poi di per sé stessi ritenersene giudiziosamente nella pratica,
noi, leggendo i versi del Bürger, confessiamo che neppure il dotto vi
scapita, né ha ragione di dolersi del poeta. L’opinione nondimeno che la
poesia debba essere popolare non albergò solamente presso del Bürger; ma
a lei s’accostarono pur molto anche gli altri poeti sommi d’una parte della
Germania19. Né io credo d’ingannarmi dicendo ch’ella pende assai nel vero.
E se, applicandola alla storia dell’arte e pigliandola per codice nel far
giudizio delle opere dei poeti che furono, ella può sembrare troppo
avventata — giacché al Petrarca, a modo d’esempio, ed al Parini, benché
rade volte popolari, bisogna pur fare di cappello — parmi che,
considerandola come consiglio a’ poeti che sono ed ammettendola con
discrezione, ella sia santissima. E dico così, non per riverenza servile a’
Tedeschi ed agli Inglesi, ma per libero amore dell’arte e per desiderio che
tu, nascente poeta d’Italia, non abbia a dare nelle solite secche che da
qualche tempo in qua impediscono il corso agli intelletti e trasmutano la
poesia in matrona degli sbadigli.
Questa è la precipua cagione per la quale ho determinato che tu smetta i
libri del Blair20, del Villa21 e de’ loro consorti, tosto che la barba sul mento
darà indizio di senno in te più maturo. Allora avrai da me danaro per
comperartene altri, come a dire del Vico, del Burke22, del Lessing, del
Bouterwek, dello Schiller23, del Beccaria, di Madama de Staël, dello
Schlegel24 e d’altri che fin qui hanno pensate e scritte cose appartenenti alla
Estetica25: né il Platone in Italia del Consigliere Cuoco26 sarà l’ultimo dei
doni ch’io ti farò. Ma per ora non dir nulla di questo co’ maestri tuoi, che
già non t’intenderebbono.
Tuttavolta, perché la massima della popolarità della poesia mi preme
troppo che la si faccia carne e sangue in te, contentati ch’io m’ingegni fin
d’ora di dimostrartene la convenienza così appena di volo, e come meglio
può un vecchiarello che non fu mai in vita sua né poeta né filologo né
filosofo.
Tutti gli uomini, da Adamo in giù fino al calzolaio che ci fa i begli
stivali, hanno nel fondo dell’anima una tendenza alla poesia. Questa
tendenza, che in pochissimi è attiva, negli altri non è che passiva; non è che
una corda che risponde con simpatiche oscillazioni al tocco della prima.
Frontespizio dell’edizione originale
della Lettera semiseria del Berchet (Milano, Bernardoni, 1816).
La natura, versando a piene mani i suoi doni nell’animo di que’ rari
individui ai quali ella concede la tendenza poetica attiva, pare che si
compiaccia di crearli differenti affatto dagli altri uomini in mezzo a cui li fa
nascere. Di qui le antiche favole sulla quasi divina origine de’ poeti, e gli
antichi pregiudizi sui miracoli loro, e l’«est Deus in nobis»27. Di qui il più
vero dettato di tutti i filosofi: che i Poeti fanno classe a parte, e non sono
cittadini di una sola società ma dell’intero universo. E per verità chi
misurasse la sapienza delle nazioni dalla eccellenza de’ loro poeti, parmi
che non iscandaglierebbe da savio. Né savio terrei chi nelle dispute
letterarie introducesse i rancori e le rivalità nazionali. Omero, Shakespeare,
il Calderon28, il Camoens29, il Racine, lo Schiller per me sono italiani di
patria tanto quanto Dante, l’Ariosto e l’Alfieri30. La repubblica delle lettere
non è che una, e i poeti ne sono concittadini tutti indistintamente. La
predilezione con cui ciascheduno di essi guarda quel tratto di terra ove
nacque, quella lingua che da fanciullo imparò, non nuoce mai, né alla
energia dell’amore che il vero poeta consacra per istinto dell’arte sua a tutta
insieme la umana razza, né alla intensa volontà, per la quale egli studia
colle opere sue di provvedere al diletto ed alla educazione di tutta insieme
l’umana razza. Però questo amore universale, che governa l’intenzione de’
poeti, mette universalmente nella coscienza degli uomini l’obbligo della
gratitudine e del rispetto; e nessuna occasione politica può sciogliere noi da
questo sacro dovere. Fin anche l’ira della guerra rispetta la tomba d’Omero
e la casa di Pindaro31.
Il poeta, dunque, sbalza fuori dalle mani della natura in ogni tempo, in
ogni luogo. Ma per quanto esimio egli sia, non arriverà mai a scuotere
fortemente l’animo de’ lettori suoi, né mai potrà ritrarne alto e sentito
applauso, se questi non sono ricchi anch’essi della tendenza poetica passiva.
Ora siffatta disposizione degli animi umani, quantunque universale, non è in
tutti gli uomini egualmente squisita.
Lo stupito Ottentoto, sdraiato sulla soglia della sua capanna, guarda i
campi di sabbia che la circondano, e s’addormenta. Esce de’ suoi sonni,
guarda in alto, vede un cielo uniforme stenderseli sopra del capo, e
s’addormenta. Avvolto perpetuamente tra il fumo del suo tugurio e il fetore
delle sue capre, egli non ha altri oggetti, dei quali domandare alla propria
memoria l’immagine, pe’ quali il cuore gli batta di desiderio. Però alla
inerzia della fantasia e del cuore in lui tiene dietro di necessità quella della
tendenza poetica.
Per lo contrario un Parigino agiato ed ingentilito da tutto il lusso di quella
gran capitale, onde pervenire a tanta civilizzazione, è passato attraverso una
folta immensa di oggetti, attraverso mille e mille combinazioni di accidenti.
Quindi la fantasia di lui è stracca, il cuore allentato per troppo esercizio. Le
apparenze esterne delle cose non lo lusingano (per così dire); gli effetti di
esse non lo commuovono più, perché ripetuti le tante volte. E per togliersi
di dosso la noia, bisogna a lui investigare le cagioni, giovandosi della
mente. Questa sua mente inquisitiva cresce di necessità in vigoria, da che
l’anima a pro di lei spende anche gran parte di quelle forze che in altri
destina alla fantasia ed al cuore, cresce in arguzie per gli sforzi frequenti a’
quali la meditazione la costringe. E il Parigino di cui io parlo, anche senza
avvedersene, viene assuefacendosi a perpetui raziocini, o per dirla a modo
del Vico, diventa filosofo32.
Se la stupidità dell’Ottentoto è nemica alla poesia, non è certo favorevole
molto a lei la somma civilizzazione del Parigino. Nel primo la tendenza
poetica è sopita; nel secondo è sciupata in gran parte. I canti del poeta non
penetrano nell’anima del primo, perché non trovano la via d’entrarvi.
Nell’anima del secondo appena appena discendono accompagnati da
paragoni e da raziocini: la fantasia ed il cuore non rispondono loro che
come a reminiscenze lontane. E siffatti canti, che sono l’espressione
arditissima di tutto ciò che v’ha di più fervido nell’umano pensiero,
potranno essi trovar fortuna fra tanto gelo? E che meraviglia se presso del
Parigino ingentilito quel poeta sarà più bene accolto che più penderà
all’epigrammatico?
Ma la stupidità dell’Ottentoto è separata dalla leziosaggine del Parigino
fin ora descritto per mezzo di gradi moltissimi di civilizzazione che più o
meno dispongono l’uomo alla poesia. E s’io dovessi indicare uomini che
più si trovino oggidì in questa disposizione poetica, parmi che andrei a
cercarli in una parte della Germania.
A consolazione, non pertanto, de’ poeti, in ogni terra, ovunque è coltura
intellettuale, vi hanno uomini capaci di sentire poesia. Ve n’ha bensì in
copia ora maggiore ora minore, ma tuttavia sufficiente sempre. Ma fa
d’uopo conoscerli e ravvisarli ben bene, e tenerne conto. Ma il poeta non si
accorgerà mai della loro esistenza, se per rinvenirli visita le ultime casipole
della plebe affamata, e di là salta a dirittura nelle botteghe da caffè, ne’
gabinetti delle Aspasie, nelle corti dei Principi, e nulla più. Ad ogni tratto
egli rischierà di cogliere in iscambio la sua patria, ora credendola il Capo di
Buona Speranza, ora il Cortile del Palais-Royal. E dell’indole dei suoi
concittadini egli non saprà mai un ette.
Che s’egli considera che la sua nazione non la compongono que’ dugento
che gli stanno intorno nelle veglie o ne’ conviti; se egli ha mente a questo,
che mille e mille famiglie pensano, leggono, scrivono, piangono, fremono, e
sentono le passioni tutte, senza pure avere un nome ne’ teatri, può essere
che a lui si schiarisca innanzi un altro orizzonte; può essere che egli venga
accostandosi ad altri pensieri dd a più vaste intenzioni.
L’annoverare qui gli accidenti fisici propizi o avversi alla tendenza
poetica; il dire minutamente come questa, del pari che la virtù morale, possa
essere aumentata o ristretta in una nazione dalla natura delle instituzioni
civili, delle leggi religiose e di altre circostanze politiche, non fa
all’intendimento mio. Te ne discorreranno, o carissimo, a tempo opportuno,
i libri ch’io ti presterò. Basti a te per ora il sapere che tutte le presenti
nazioni d’Europa (l’italiana anch’essa, né più né meno) sono formate da tre
classi d’individui: l’una di Ottentoti; l’una di Parigini; e l’una, per ultimo,
che comprende tutti gli altri individui leggenti ed ascoltanti, non eccettuati
quelli che, avendo anche studiato ed esperimentato quant’altri, pur tuttavia
ritengono attitudine alle emozioni. A questi tutti io do nome di popolo.
Della prima classe, che è quella dei balordi calzati e scalzi, non occorre
far parole. La seconda, che racchiude in sé quei pochi, i quali escono della
comune in modo da perdere ogni impronta nazionale, vuole bensì essere
rispettata dal poeta, ma non idolatrata, ma non temuta. Il giudizio che i
membri di questa classe fanno delle moderne opere poetiche, non suole
derivare dal suffragio immediato delle sensazioni, ma da’ confronti. Negli
anni del fervore eglino hanno trovato il bello presso tale e tal altro poeta; e
ciò che non somiglia al bello sentito un tempo, pare loro di doverlo ora
ricusare. Le opinioni scolastiche, i precetti bevuti pigramente un tempo
come infallibili, reggono tuttavia il loro intelletto, che non li mise mai ad
esame, perché d’altro curante. Però l’orgoglio umano, a cui è duro il dover
discendere a discredere ciò che per molti anni s’è creduto, il più delle volte
li fa tenaci delle massime inveterate. E il più delle volte eglino combattono
per esse come per l’antemurale della loro riputazione. Allora ogni arme,
ogni scudo giova. E perché una serie di secoli non si brigò più che tanto di
discutere l’importanza di quelle massime, eccoti in campo un
bell’argomento di difesa nel silenzio delle generazioni. Chi tace non parla,
diciamo noi. Ma chi tace approva, dicono essi; e il sopore dei secoli lo
vanno predicando come consenso assoluto di tutta quanta la ragione umana
alla necessità di certe regole chiamate, Dio sa perché, di buon gusto; e però
via via d’ugual passo sgozzano ad esse ogni tratto qualche vittima illustre.
La lode che al poeta viene da questa minima parte della sua nazione non
può davvero farlo andare superbo; quindi anche il biasimo ch’ella sentenzia,
non ha a mettergli grande spavento. La gente ch’egli cerca, i suoi veri lettori
stanno a milioni nella terza classe. E questa, cred’io, deve il poeta moderno
aver di mira, da questa deve farsi intendere, a questa deve studiar di piacere,
s’egli bada al proprio interesse ed all’interesse vero dell’arte. Ed ecco come
la sola vera poesia sia la popolare: salve le eccezioni sempre, come ho già
detto; e salva sempre la discrezione ragionevole con cui questa regola vuole
essere interpretata.
Se i poeti moderni d’una parte della Germania menano tanto romore di sé
in casa loro, e in tutte le contrade d’Europa, ciò è da ascriversi alla
popolarità della poesia loro. E questa salutare direzione ch’eglino diedero
all’arte fu suggerita loro dagli studi profondi fatti sul cuore umano, sullo
scopo dell’arte, sulla storia di lei e sulle opere ch’ella in ogni secolo
produsse: fu suggerita loro dalla divisione in classica e romantica ch’eglino
immaginarono nella poesia.
Però sappi, tra parentesi, che tale divisione non è un capriccio di bizzarri
intelletti, come piace di borbottare a certi giudici, che senza processare
sentenziano; non è un sotterfugio per sottrarsi alle regole che ad ogni genere
di poesia convengono; da che uno de’ poeti chiamati romantici è il Tasso. E
fra le accuse che si portano alla Gerusalemme, chi udì mai messa in campo
quella di trasgressione delle regole?
Qual altro poema più si conforma alle speculazioni algebrai-che degli
Aristotelici33?
Né ti dare a credere, figliuolo mio, che con quella divisione i Tedeschi, di
cui parlo, pretendessero che d’un’arte la quale è unica, indivisibile, si
avesse a farne due; perocché stolti non erano. Ma se le produzioni di
quest’arte, seguendo l’indole diversa dei secoli e delle civilizzazioni, hanno
assunte facce differenti, perché non potrò io distribuirle in tribù differenti?
E se quelle della seconda tribù hanno in sé qualche cosa che più
intimamente esprime l’indole della presente civilizzazione europea, dovrò
io rigettarle per questo solo, che non hanno volto simile al volto della prima
tribù?
Di mano in mano che le nazioni europee si riscuotevano dal sonno e
dall’avvilimento, di che le aveva tutte ingombrate la irruzione dei barbari
dopo la caduta dell’impero romano, poeti qua e là emergevano a
ringentilirle. Compagna volontaria del pensiero e figlia ardente delle
passioni, l’arte della poesia, come la fenice, era risuscitata di per sé in
Europa, e di per sé anche sarebbe giunta al colmo della perfezione. I
miracoli di Dio, le angosce e le fortune dell’amore, la gioia de’ conviti, le
acerbe ire, gli splendidi fatti de’ cavalieri muovevano la potenza poetica
nell’anima de’ Trovatori. E i Trovatori, né da Pindaro istruiti né da Orazio,
correndo all’arpa, prorompevano in cantici spontanei34, ed intimavano
all’anima del popolo il sentimento del bello, gran tempo ancora innanzi che
l’invenzione della stampa e i fuggitivi di Costantinopoli profondessero
dappertutto i poemi de’ Greci e de’ Latini. Avviata così nelle Nazioni
d’Europa la tendenza poetica, crebbe ne’ poeti il desiderio di lusingarla più
degnamente. Però industriaronsi per mille maniere di trovare soccorsi; e
giovandosi della occasione, si volsero anche allo studio delle poesie
antiche, in prima come ad un santuario misterioso, accessibile ad essi soli,
poi come ad una sorgente pubblica di fantasie, a cui tutti i lettori potevano
attingere. Ma, ad onta degli studi e della erudizione, i poeti che dal
risorgimento delle lettere giù fino a’ dì nostri illustrarono l’Europa, e che
portano il nome comune di moderni, tennero strade diverse. Alcuni,
sperando di riprodurre le bellezze ammirate ne’ Greci e ne’ Romani,
ripeterono, e più spesso imitarono modificandoli, i costumi, le opinioni, le
passioni, la mitologia de’ popoli antichi.
Altri interrogarono direttamente la natura: e la natura non dettò loro né
pensieri né affetti antichi, ma sentimenti e massime moderne. Interrogarono
la credenza del popolo, e n’ebbero in risposta i misteri della Religione
cristiana, la storia di un Dio rigeneratore, la certezza di una vita avvenire, il
timore di una eternità di pene. Interrogarono l’animo umano vivente: e
quello non disse loro che cose sentite da loro stessi e da’ loro
contemporanei; cose risultanti dalle usanze, ora cavalleresche, ora religiose,
ora feroci, ma, o praticate e presenti, o conosciute generalmente; cose
risultanti dal complesso della civilità del secolo in cui vivevano35.
La poesia de’ primi è classica, quella dei secondi è romantica36. Così le
chiamarono i dotti d’una parte della Germania, che dinanzi agli altri
riconobbero la diversità delle vie battute dai poeti moderni. Chi trovasse a
ridire a questi vocaboli, può cambiarli a posta sua. Però io stimo di poter
nominare con tutta ragione poesia de’ morti la prima, e poesia de’ vivi la
seconda. Né temo d’ingannarmi dicendo che Omero, Pindaro, Sofocle,
Euripide ec. ec, al tempo loro furono in certo modo romantici, perché non
cantarono le cose degli Egizi o de’ Caldei, ma quelle dei loro Greci;
siccome il Milton37 non cantò le superstizioni omeriche, ma le tradizioni
cristiane. Chi volesse poi soggiungere che anche fra i poeti moderni seguaci
del genere classico quelli sono i migliori che ritengono molta mescolanza
del romantico, e che giusto giusto allo spirito romantico essi devono saper
grado se le opere loro vanno salve da l’oblio, parmi che non meriterebbe lo
staffile. E la ragione non viene ella forse in sussidio di siffatte sentenze,
allorché gridando c’insegna che la poesia vuole essere specchio di ciò che
commuove maggiormente l’anima? Ora l’anima è commossa al vivo dalle
cose nostre che ci circondano tutto dì, non dalle antiche altrui, che a noi
sono notificate per mezzo soltanto de’ libri e della storia38.
Allorché tu vedrai addentro in queste dottrine, e ciò non sarà per via delle
gazzette, imparerai come i confini del bello poetico siano ampi del pari che
quelli della natura, e che la pietra di paragone, con cui giudicare di questo
bello, è la natura medesima e non un fascio di pergamene; imparerai come
va rispettata davvero la letteratura de’ Greci e de’ Latini; imparerai come
davvero giovartene. Ma sentirai altresì come la divisione proposta
contribuisca possentemente a sgabellarti dal predominio sempre nocivo
della autorità. Non giurerai più nella parola di nessuno, quando trattasi di
cose a cui basta il tuo intelletto. Farai della poesia tua una imitazione della
natura, non una imitazione39 di imitazione. A dispetto de’ tuoi maestri, la
tua coscienza ti libererà dall’obbligo di venerare ciecamente gli oracoli di
un codice vecchio e tarlato, per sottoporti a quello della ragione, perpetuo e
lucidissimo. E riderai de’ tuoi maestri che colle lenti sul naso continueranno
a frugare nel codice vecchio e tarlato, e vi leggeranno fin quello che non v’è
scritto.
Materia di lungo discorso sarebbe il voler parlare all’Italia della divisione
suaccennata; ed importerebbe una anatomia lunghissima delle qualità
costituenti il genere classico, e di quelle che determinano il romantico. A
me non concede la fortuna né tempo, né forze sufficienti per tentare una
siffatta dissertazione: perocché il ripetere quanto hanno detto su di ciò i
Tedeschi non basterebbe. Avvezzi a vedere ogni cosa complessivamente,
eglino non di rado trascurano di segnare i precisi confini de’ loro sistemi; e
la fiaccola, con cui illuminano i passi altrui, manda talvolta una luce
confusa.
Ma poiché in Italia, a giudicare da qualche cenno già apparso, non v’ha
difetto intero di buona filosofia, io prego che un libro sia composto
finalmente qui tra noi, il quale non tratti d’altro che di questo argomento, e
trovi modo di appianar tutto, di confermare nel proposito i già iniziati, di
rincorare i timidi, e di spuntare con cristiana carità le corna ai pedanti.
Ben è vero che a que’ pochi del mestiere, a’ quali può giovare per le
opere loro una idea distinta del genere romantico, questa, io spero, sarà già
entrata nel cervello loro, mercè l’acume della propria lor mente. Ma perché
voi altri giovinetti siete esposti alla furia di tante contrarie sentenze, e la
verità non siete in caso di snudarla da per voi, è bene che qualcuno metta in
mano vostra ed in mano del pubblico un libro che vi scampi dal peccato,
pur sì frequente in Italia, di bestemmiare ciò che si ignora.
Intanto che il voto mio va ricercando chi lo accolga e lo secondi; intanto
che, irritati dalla novità del vocabolo romantico, da Dan fino a Bersabea40 si
levano a fracasso i pedanti nostri, e fanno a rabbuffarsi l’un l’altro, e a
contumeliarsi, e a sagramentare, e a non intendersi tra di loro, come a
Babilonia41; intanto che la divisione, per cui si arrovellano, è per loro più
mistica della più mistica dottrina del Talmud42, vediamo, figliuolo mio,
quali effetti ottenessero i poeti che la immaginarono.
Posti frammezzo a un popolo non barbaro, non civilissimo43, se se ne
riguarda tutta la massa degli abitanti, e non la sola schiera degli studiosi, i
poeti recenti d’una parte della Germania dovevano superare in grido i loro
confratelli contemporanei sparsi nel restante d’Europa. Ma della fortuna
della poesia loro tutto il merito non è da darsi alla fortuna del loro
nascimento. L’essersi avveduti di questa propizia circostanza, e l’aver
saputo trarne partito, è merito personale. E a ciò contribuì, del pari che
l’arguzia dell’ingegno, la santità del cuore. Sentirono essi che la verissima
delle Muse è la Filantropia44 e che l’arte loro aveva un fine ben più sublime
che il diletto momentaneo di pochi oziosi. Però, avidi di richiamare l’arte a’
di lei princìpi, indirizzandola al perfezionamento morale del maggior
numero de’ loro compatrioti, eglino non gridarono, come Orazio: «Satis est
equi-tem nobis plaudere»45; non mirarono a piaggiare un Mecenate, a
gratificarsi un Augusto, a procurarsi un seggio al banchetto dei grandi; non
ambirono i soli battimani d’un branco di scioperati raccolti nell’anticamera
del Principe.
Oltrediché non è da tacersi come insieme a questo pio sentimento
congiurasse anche nelle anime di que’ poeti la sete della gloria,
ardentissima sempre ne’ sovrani ingegni, e sprone inevitabile al far bene.
Eglino avevano letto che in Grecia la corona del lauro non l’accordavano né
Principi, né Accademie, ma cento e cento mila persone convenute d’ogni
parte in Tebe e in Olimpia. Avevano letto che i canti di Omero, di Tirteo
non erano misteri di letterati, ma canzoni di popolo. Avevano letto che
Eschilo, Sofocle, Euripide, Aristofane non si facevano belli della lode de’
loro compagni di mestiere; ma anelavano al plauso di trentamila spettatori;
e l’ottenevano. Quindi, agitati da castissima invidia, vollero anch’essi quel
plauso e quella corona. Ma e in che modo conseguirla? Posero mente alle
opere che ci rimangono de’ poeti greci; e quantunque s’innamorassero sulle
prime della leggiadria di quei versi, dello splendore di quella elocuzione,
dell’artificio mirabile con cui le immagini erano accoppiate e spiegate, pure
non si diedero a credere che in ciò fosse riposto tutto il talismano. E come
crederlo, se in casa loro e fuori di casa vedevano condannati all’untume del
pizzicagnolo versi, a cui né sceltezza di frasi mancava, né armonia?
Lambiccarono allora essi con più fina critica quelle opere, onde scoprire
di che malìe profittavansi in Grecia i poeti per guadagnarsi tanto suffragio
dai loro contemporanei. Videro che queste malìe erano i loro Dei, la loro
religione, le loro superstizioni, le loro leggi, i loro riti, i loro costumi, la
storia loro, le loro tradizioni volgari, la geografia loro, le loro opinioni, i
loro pregiudizi, le foggie loro ec. ec. ec.
— E noi, dissero eglino, noi, abbiamo altro Dio, altro culto; abbiamo
anche noi le nostre superstizioni, abbiamo altre leggi, altri costumi, altre
inclinazioni più ossequiose e più cortesi verso la beltà femminina. Caviamo
di qui anche noi le malìe nostre, e il popolo c’intenderà. E i versi nostri non
saranno per lui reminiscenze d’una fredda erudizione scolastica, ma cose
proprie e interessanti e sentite nell’anima. —
A rinforzarli nella determinazione soccorse loro l’esempio altresì de’
poeti che dal risorgimento delle lettere in Europa fino a’ dì nostri sono i più
famosi. E chi negherà questi essere tanto più venerati e cari, quanto di
queste nuove malìe più sparsero ne’ loro versi?
Così i poeti d’una parte della Germania co’ medesimi auspici, con l’arte
medesima né più né meno, col medesimo intendimento de’ Greci scesero
nell’arringo, desiderarono la palma, e chiesero al popolo che la desse loro.
E il popolo, non obbliato, non vilipeso da’ suoi poeti; ma carezzato, ma
dilettato, ma istruito, non ricusò d’accordarla.
A che miri la parola mia, tu lo sai; però fanne senno, figliuolo mio, e non
permettere che la paterna carità si sfoghi al vento. So che agli uomini piace
talvolta di onestare la loro inerzia con bei paroloni. Ma io non darò retta
mai né a te, né a chiunque mi ritesserà le solite canzoni: e che l’Italia è un
armento di venti popoli divisi l’uno dall’altro, e ch’ella non ha una gran
città capitale dove ridursi a gareggiare gli ingegni, e che tutto vien meno
ove non è una patria. Lo sappiamo, lo sappiamo. Ma l’avevano questa unità
di patria e questo tumulto d’una capitale unica i poeti dei quali ho parlato?
E se noi non possediamo una comune patria politica, come neppure essi la
possedevano, chi ci vieta di crearci intanto, com’essi, a conforto delle
umane sciagure una patria letteraria comune46? Forse che Dante, il Petrarca,
l’Ariosto per fiorire aspettarono che l’Italia fosse una? Forse che la latina è
la più splendida delle letterature? E non di meno qual più vasta metropoli di
Roma sotto Ottaviano e sotto i Cesari?
«Voi (gridava l’altro dì nella voce dell’ira sua il Curato di Monte Atino47,
l’amico mio dall’anima ardente), voi, se siete caldi di vero amore per la
vostra bella Italia, levate l’orecchio, o generosi Italiani. Udite come tutta
quanta l’Europa ne rinfaccia d’ogni parte il presente decadimento delle
nostre lettere48. È egli da credersi che tanta universalità di disprezzo sia
tutta opera della malignità? Ponetevi, in nome di Dio! ponetevi una mano al
petto; interrogate la coscienza vostra. E non la sentite anch’essa tremar di
vergogna? Però perdonate gli insulti villani, con che ne strapazzano oggi
que’ popoli stessi che un tempo, o ne lodavano, o taciturni rodevansi
d’invidia pe’ nostri trionfi letterari. Alle calunnie, che calunnie pur anco
piovono addosso all’Italia, non istate ad opporre altro che la dignità del
silenzio; e cadranno di per sé. Ma de’ consigli giovatevi: e la gloria della
vostra terra ricuperatela col far voi, non col citare le opere degli avi nostri.
Gloria nostra sit testimonium conscientiae nostrae, diceva S. Paolo a que’
di Corinto. Vincete l’avversità collo studio; smettete una volta la boria di
reputarvi i soli europei che abbiano occhi in testa; smettete la petulanza, con
cui vi sputate l’un l’altro in viso e per inezie da fanciulli; unitevi l’un l’altro
coi vincoli di amorosa concordia fraterna, senza della quale voi sarete
sempre nulli in tutto e per tutto. E poiché perspicacia d’intelletto non ve ne
manca, solo che vogliate rifarvi delle male abitudini, lavorate, ve ne
scongiuro, e lavorate da senno. Ma prima di tutto spogliatevi della stolida
devozione per un solo idolo letterario. Leggete Omero, leggete Virgilio, che
Dio ve ne benedica. Ma tributate e vigilie e incenso anche a tutti gli altri
begli altari che i poeti in ogni tempo e in ogni luogo innalzarono alla natura.
E quantunque a rischio di lasciare qualche dì nella dimenticanza e i volumi
dell’antichità e i volumi de’ moderni, traetevi ad esaminare da vicino voi
stessi la natura, e lei imitate, lei solo davvero e niente altro49. Rendetevi
coevi al secolo vostro, e non ai secoli seppelliti: spacciatevi dalla nebbia
che oggidì invocate sulla vostra dizione; spacciatevi dagli arcani sibillini,
dalle vetuste liturgie, da tutte le Veneri e da tutte le loro turpitudini; cavoli
già putridi non rifriggeteli. Fate di piacere al popolo vostro; investigate
l’animo di lui; pascetelo di pensieri e non di vento. Credete voi forse che i
lettori italiani non gustino altro che il sapore dell’idioma e il lusso della
verbosità? Badate che leggono libri stranieri, che s’accostumano a pensare,
e che dalle fatuità vanno ogni dì più divezzandosi. Badate che i progressi
intellettuali d’una parte d’Europa finiranno col tirar dietro a sé anche il
restante. E voi con tutta la vostra albagìa rimarrete soli, a far voi da autori
insieme e da lettori. Insomma, siate uomini e non cicale; e i vostri paesani
vi benediranno; e lo straniero ripi-glierà modestia, e parlerà di voi
coll’antico rispetto». Nessuno de’ ricchi fra’ tuoi terrazzani venga a morte
fuori della tua giurisdizione parrocchiale, o buon Curato di Monte Atino, o
anima italiana davvero! Chi non ti perdonerebbe la declamazione in grazia
dello zelo e del patriottismo che spirano le tue ammonizioni?
Ora, figliuolo mio, ti sia palese che tutto il discorso fatto fin qui, sebbene
paresse sviarsi dal soggetto, pure era necessario. Così mi sono preparata la
via alla soluzione de’ due quesiti che tu mi hai fatti, ed ai quali posso ora
rispondere con maggiore brevità. Eccoli entrambi, e in termini più precisi
de’ tuoi:
1. La moderna Italia ammetterebbe ella poesia di questo genere (i
Romanzi)50?
2. Il Cacciatore feroce e l’Eleonora piaceranno in Italia?
Non fa mestieri, cred’io, di molte lucubrazioni per trovare che alla prima
interrogazione vuoisi rispondere con un «Sì» netto e stentoreo. Da quanto
ho detto sulla opportunità di indirizzare la poesia, non all’intelligenza di
pochi eruditi, ma a quella del popolo, affine di propiziarselo e di
guadagnarne l’attenzione, tu avrai di per te stesso inferita questa sentenza:
che i poeti italiani possono del pari che gli stranieri dedurre materia pe’ loro
canti dalle tradizioni e dalle opinioni volgari; e che anzi gioverebbe di
presente ch’eglino preferissero queste a tutto intero il libro di Natale de’
Conti51. Però non voglio sprecar tempo in dimostrarti che, per tale rispetto,
questo genere di Romanzi si conviene anche all’Italia; e per la verità non
farei che ridire le parole mie. Che poi questo modo di narrare liricamente
una avventura offenderà gli Italiani, non credob.
La poesia d’Italia non è arte diversa dalla poesia degli altri popoli. I
princìpi e lo scopo di lei sono perpetui ed universali. Ella, come vedemmo,
è diretta a migliorare i costumi degli uomini, a farne gentili gli animi, a
contentare i bisogni della fantasia e del cuore; poiché la tendenza alla
poesia, simigliante ad ogni altro desiderio, suscita in noi veri bisogni
morali. Per arrivare all’intento suo la poesia si vale di quattro forme
elementari: la lirica, la didascalica, l’epica e la drammatica. Ma perché ella
di sua natura abborre i sistemi costrettìvi52, e perché i bisogni che ella
prende ad appagare possono essere modificati in infinito, ha diritto anche
ella di adoperare mezzi modificati in infinito. Quindi a sua posta ella unisce
e confonde insieme in mille modi le quattro forme elementari, derivandone
mille temperamenti.
Se la poesia è l’espressione della natura viva, ella deve essere viva come
l’oggetto ch’ella esprime, libera come il pensiero che le dà moto, ardita
come lo scopo a cui è indirizzata. Le forme ch’ella assume, non
costituiscono la di lei essenza; ma solo contribuiscono occasionalmente a
dare effetto alle di lei intenzioni53. Però fino a tanto ch’ella non esce
dell’instituto suo, non v’ha muso d’uomo che di propria facoltà le abbia a
dettare restrizioni su questo punto del tramischiare le forme elementari.
Che i due Romanzi del Bürger spiaceranno agli Italiani per l’argomento
loro e per lo stile, forse sarà54. Ma che l’Italia non patirebbe che i suoi poeti
scrivessero Romanzi del genere di questi, perché, forse, schifa della
mescolanza dell’epico col lirico, non credo. Siffatte obbiezioni non
suggeriscono che al cervello de’ pedanti, i quali parlano della poesia senza
conoscerne le proprietà. Ma se il presagio non mi falla, la tirannide dei
pedanti sta per cadere in Italia. E il popolo e i poeti si consiglieranno a
vicenda, senza paura delle Signorie Loro, ed a vicenda si educheranno; e
non andrà molto, spero.
La meditazione della filosofia riuscirà bensì a determinare, a un di
presso, di quali materiali debbano i poeti giovarsi nell’esercizio dell’arte, di
quali no; e fin dove possano estendere l’ardimento della imitazione. E
l’esperienza dimostra che in questo l’arte della poesia soffre confini come
tutte le di lei sorelle. Ma quale filosofia potrà dire in coscienza al poeta: le
modificazioni delle forme sono queste, non altre?
So che i pedanti si stilleranno l’intelletto per rinvenire, a modo
d’esempio, la bandiera sotto cui far trottare le terzine del sig. Torti sulla
Passione del Salvatore55. So che nel repertorio de’ titoli disceso loro da
padre in figlio, non ne troveranno forse uno che torni a capello per quelle
terzine: Carme no. Ode no, Idillio no, Eroide forse?…
Ma intanto quella squisita poesia, con buona pace delle Signorie Loro, è
già per le bocche di tutti. E l’Italia, non badando a’ frontispizi, scongiura il
Sig. Torti a non lasciarla lungamente desiderosa d’altri regali consimili. Lo
stesso avverrà d’ogni altra poesia futura, quando le modificazioni delle
forme siano corrispondenti all’argomento ed alla intenzione del poeta; e
quando siffatta intenzione sia conforme allo scopo dell’arte, ed a’ bisogni
dell’uomo.
Il sentimento della convenienza che induce il poeta alla scelta di un
metro piuttosto che di un altro, è contemporaneo nella mente di lui alla
concezione delle idee ch’egli ha in animo di spiegare nel suo
componimento, ed al disegno che lo muove a poetare56. Le regole generali
degli scrittori di Poetiche non montano gran fatto, da che ogni caso
vorrebbe regola a parte. Laonde è opinione mia che un uomo dell’arte possa
bensì assisterti ogni volta con un buon consiglio; ma che se tu aspetti che te
lo diano i trattatisti, non ne faremo nulla, figliuolo mio. E a questo
proposito mi piace di rallegrarti con un’altra scappata declamatoria, in cui
diede, non ha guari, il buon Curato di Monte Atino, l’amico mio dall’anima
ardente.
Una persona che aveva aria d’uomo non dozzinale e non l’era davvero57,
parlava della poesia romantica con Sua Reverenza. E Sua Reverenza l’udiva
con volto pacato e con segni d’approvazione; perché erano lodi alla poesia
romantica, la prediletta dell’anima sua. Quando tutt’ad un tratto il
panegirista uscì fuori con un voto perché alcuno in Italia pigliasse a scrivere
una Poetica romantica58. «Che Poetiche di Dio!» gridò allora il buon Curato
di Monte Arino, dimenandosi sul suo seggiolone, come un energumeno.
«Che Poetiche di Dio! Se ai giorni nostri vivesse Omero, vivesse Pindaro,
vivesse Sofocle, dovrebbono essi cambiare arte forse? No, in nome del
Cielo, no. Ma la differenza dei secoli renderebbe differenti le cose che quei
poeti imprenderebbono ora a trattare. E la differenza delle cose indurrebbe
di necessità differenza nella mescolanza delle forme e nell’accoppiamento
delle immagini. E Omero, Pindaro, Sofocle sarebbero poeti romantici,
volere o non volere. Ma l’arte loro sarebbe tuttavia quella stessa de’ classici
antichi. Che importa a me se il Cellini oggi mi cesella un vezzo per madama
d’Etampes, e domani un calice pel Santo Padre59? Egli è pur sempre
Benvenuto, l’orefice Fiorentino. Ma questo Proteo irrequieto come l’amore,
quest’arte della poesia, questa perpetua inventrice del bello, chi l’insegna?
Le Poetiche forse? Sono forse le Poetiche che hanno sviluppate le menti a
quei tre miracoli della Grecia? Sono forse le Poetiche che dissero come
tener la penna in mano a Dante, all’Ariosto, a Shakespeare? Al diavolo con
queste corbellerie! Mostratemi una Poetica anteriore alla esistenza di un
poeta. Mostratemi un vero poeta educato e formato dalle Poetiche. Dov’è,
dov’è? Io, io vi mostrerò de’ poeti che colle opere loro hanno prestata
materia di che rimpinzare di regoluzze un libruzzo a trenta maestruzzi. Io,
io vi mostrerò trentamila pedanti, e tutti figli delle Poetiche, e tutti
misuratori di sillabe, e tutti sputasentenze, e tutti teste di legno. Al diavolo
colle Poetiche! Perché non t’incarni un’altra volta, o bella anima di Omar60,
tanto appena che ti basti tempo per discendere in Italia a metter fuoco a
tutte le Poetiche, da quella di Aristotile fino a quella del Menzini61!».
E qui Sua Reverenza mandò un lungo sospiro di desiderio. Poi tosto
ammutì, guardò in alto per un poco, e si fece tutto rosso in viso,
vergognando, cred’io, d’avere unito il nome d’Aristotile a quello di un
guastamestiere62. Poi, ripreso fiato, stese la mano all’ospite, e col sorriso
della cortesia lo pregò perché proseguisse il panegirico, che tanto gli andava
a sangue.
Terminato di dire, l’ospite pigliò licenza. Il povero curato lo accompagnò
fino all’uscio; e lasciata scappare una lagrima, gli strinse la mano, e gli
disse: «Domando mille scuse; ho gridato fuori d’ogni creanza; ma sappia
Vossignoria ch’io non l’aveva con lei. A lei io ho data la mia stima.
Capperi! Vossignoria ha detto pel primo63 in Italia cose che non tutti sanno
dire; o che tutti qui s’ostinano a non voler dire. Da bravo! Stia fermo, e non
si lasci atterrire da chi senza entrare in ragionamenti le abbaia dietro de’
mali motteggi, e delle insipide satire; siamo cristiani e sacerdoti64 entrambi;
perdoniamo dunque di buona volontà agli insolenti. Dio n’abbia anch’egli
misericordia! Sono montato in furia contro le Poetiche65; perché la sento
così, e perché questo mio male detto naturale è tutta stizza, e non lo so mai
frenare. Ma i filosofi estetici io non li confondo cogli scrittori di Poetiche.
No, no, quelli li rispetto, e glielo giuro sull’onor mio. E Le giuro che
qualche volta leggo con vera avidità le cose del Burke e del Lessing66,
come se fossero squarci della Città di Dio del mio Sant’Agostino. Ma ella
compatisca, se in questo punto delle Poetiche io sono di parere contrario a
quello manifestato da lei: compatisca e mi voglia bene».
Interrogazione seconda: Il cacciatore feroce e l’Eleonora piaceranno in
Italia?
Questo è quesito di non così facile scioglimento come il primo. Madama
de Staël nell’ingegnosa ed arguta sua opera sull’Alemagna ha analizzati
entrambi questi Romanzi. E come è solito de’ fervidi ed alti intelletti che
hanno sortita fantasia vasta l’aggiungere, senza avvedersene, qualche cosa
sempre del loro alle opere altrui, delle quali s’innamorano, ella vi trovò
bellezze forse più che non hanno, e gli ammirò forse troppo. Nondimeno
ella è di parere che difficile e quasi impossibile sarebbe il far gustare que’
Romanzi in Francia; e che ciò provenga dalla difficoltà del tradurli in versi,
e da questo che in Francia rien de bizarre n’est naturel. In quanto alla
bizzarria ed alla difficoltà di tradurre in versi, sta a’ Francesi ed a madama
de Staël il decidere. In quanto al poterne tentare una versione in prosa
francese, io credo di non errare pensando che, se madama de Staël avesse
voluto piegarsi ella stessa all’ufficio di traduttore, i Francesi avrebbero
accolta come eccellente la traduzione di lei. E se mai il giudizio che ella
portò sulla incompatibilità del gusto francese colla bizzarria de’ pensieri
fosse meno esatto, la tanta poesia che vive in tutte le prose di madama si
sarebbe trasfusa di certo anche in questa, per modo che la mancanza del
metro non sarebbe stata sciagura deplorabile. L’armonia non è di così
essenziale importanza da dover dipendere totalmente da essa la fortuna di
un componimento.
Per riguardo all’Italia, io non saprei temere di un ostacolo dal semplice
lato della bizzarria, da che l’Ariosto è l’idolo delle fantasie italiane. Però,
lasciato stare il danno che a questi Romanzi può venire dall’andar vestiti di
una poco bella traduzione per le contrade d’Italia, dico che a me sembra di
ravvisare in essi una cagione più intrinseca, per la quale non saranno forse
comunemente gustati tra di noi.
Entrambi questi Romanzi sono fondati sul maraviglioso e sul terribile,
due potentissime occasioni di movimento per l’animo umano. Ma l’uomo,
che, per uscire dal letargo che gli è incomportabile, invoca anche scosse
violenti67 all’anima sua e anela sempre di afferrare sì fatte occasioni, pure
non se ne lascia vincere mai, se non per via della credenza. E il terribile e il
maraviglioso, quando non sono creduti, riescono inoperosi e ridicoli, come
la verga di Mosè in mano a un misero Levita.
L’effetto dunque che produrranno i due Romanzi del Bürger sarà
proporzionato sempre alla fede che il lettore presterà agli argomenti di
maraviglia e di terrore, de’ quali essi riboccano. Ora, dipendendo da ciò
principalmente l’esito della loro emigrazione presso gli Italiani, a me non
dà il cuore di prognosticarla fortunata.
Cominciamo dal primo: ecco la traduzione del Cacciatore feroce.
IL CACCIATORE FEROCE.

Il Conte di Rheingrafensteinc diede fiato alla cornetta: «Olà, olà, su su, in


piedi e in sella!».
Il suo cavallo mise nitriti, e via d’un salto si slanciò innanzi. E dietro a lui
precipitosa a fracasso tutta la salmeria; e un correre, uno squittire di cani
sguinzagliati su e giù per mezzo a biade e prunaie, per mezzo a ginestreti ed
a stoppie.
Illuminata dal raggio mattutino della Domenica, biancheggiava da alto la
cupola del Duomo. Con tocchi distinti, con un rombar grave le campane
festive chiamavano il popolo alla messa cantata. Di lontano risonavano i
cantici della turba divota de’ Cristiani.
E via, via, via, attraverso bivi e quadrivi veniva impetuosa la caccia: e da
per tutto erano gridi, «to to to, ciuée, ciuée».
Ed ecco a destra, ecco a sinistra uscire un cavaliero di qui, un cavaliero di
là. Il corridore del cavaliero a destra era nitido come argento; del color del
fuoco era quello che portava il cavaliero a sinistra.
Chi era mai il cavaliero a destra, chi mai il cavaliero a sinistra? Ben me
lo presagisce il cuore, ma chi sieno, non so.
Il cavaliero a destra comparve in candido vestimento, e con volto soave,
come la primavera. Il cavaliero a sinistra, orrendo e vestito di un fosco
giallo, vibrava folgori dall’occhio, come la tempesta.
— «In tempo, in tempo giungeste! Ben venga ognuno di voi alla nobile
caccia! Né qui in terra, né su in cielo vi ha spasso più caro di questo!».
Egli così esclamò; e lieto fe’ scoppiar la palma sull’anca; e toltosi di testa
il cappello, l’agitò su per l’aria.
— «Mal si accorda il suono della tua cornetta alla squilla festiva ed a’
cantici del coro (disse con placido animo il cavaliero a destra). Torna, torna
indietro: la tua caccia è mal augurata quest’oggi. Cedi al consiglio
dell’angelo buono, e non ti lasciar traviare dal cattivo».
— «Innanzi, innanzi, séguita su, séguita la tua caccia, o mio nobil
Signore! (interruppe violento il cavaliero a sinistra). Che ronzo di squilla?
Che clamore di coro? Ben più vi farà allegri la gioia della caccia. Io, io
v’insegnerò quali trastulli si convengano a’ principi. Non istate a dar, no,
retta al costui spauracchio».
— «Ah sì, ben parli, o cavaliero a sinistra! Tu sei un eroe secondo il cuor
mio. Chi rifugge l’uscire a caccia, vada in malora a snocciolar Paternostri.
A tuo dispetto, bacchettone scimunito, a tuo dispetto voglio cavarmi la mia
brama».
E via via via, fuor d’un campo, dentro un altro, su pel poggio, giù per la
china, sempre gli venivano cavalcando stretti a’ fianchi il cavaliero a destra,
e il cavaliero a sinistra. Quand’ecco a un tratto smacchiar di lontano un
bianco cervo con corna di sedici palchi.
Il conte raddoppiò il fiato alla cornetta; e più veloci accorsero d’ogni
parte cavalieri e pedoni. Ed ecco or di dietro, or dinanzi, or l’uno or l’altro
de’ seguaci stramazzare tramortito sul terreno per la gran furia.
— «Stramazza pure, stramazza al diavolo! Non per questo deve andar
guasto lo spasso de’ principi».
La belva si accascia in un campo di spighe, e vi spera rifugio. Ecco un
povero contadino trarre innanzi umilmente, e metter gemiti e lagrime:
— «Pietà, Signor mio, pietà! Abbiate riguardo agli stenti, al sudore del
poverello!».
Il cavaliero a destra galoppa avanti, e con dolcezza e bontà ammonisce il
conte. Ma il cavaliero a sinistra lo infervora, lo instiga all’oltraggio
maligno. Il conte schernisce le ammonizioni del cavaliero a destra, e si
lascia traviare dal cavaliero a sinistra.
— «Via di qua, miserabile! (grida sbuffando terribile il conte al povero
aratore) o ch’io, per Satanasso! su te, su te dirizzo la caccia. — Olà,
compagni! addosso, addosso! dàlli dàlli! In segno che ho giurato il vero,
fategli fischiar le fruste sugli orecchi».
Detto fatto, il conte si scagliò furibondo al disopra la siepe; e dietro a lui
un bisbiglio, un rimbombo, e tutto quanto il traino con cani e cavalli e
pedoni. E cani e pedoni e cavalli pestavano i fusti del grano, sicché la
campagna tutta era un polverìo.
All’avvicinarsi di quello schiamazzo, spaventata, la belva, via via, fuor
d’un campo, dentro un altro, su pel poggio, giù per la china, messa in fuga,
inseguita, ma non arrivata, guadagna i piani del pascolo comunale; e astuta
si frammette alle mansuete mandre onde salvarsi.
Ma di qua, di là, per campagne e per boschi; di su, di giù, per boschi e
per campagne, i veltri la perseguitano, e n’hanno tosto fiutata la traccia.
Il mandrianod, pieno d’angoscia pel suo armento, si butta a’ piedi del
conte.
— «Pietà, Signore, pietà! Fate di lasciare in pace queste mie povere
bestie mansuete. Ponete mente, Signor mio, che qui pascolano le vacche di
tante povere vedove, che non hanno altra sostanza. Abbiate pietà de’ poveri.
Misericordia, Signor mio, misericordia!».
Il cavaliero a destra galoppa innanzi, e con dolcezza e bontà ammonisce
il conte. Ma il cavaliero a sinistra lo infervora, lo instiga all’oltraggio
maligno. Il conte schernisce le ammonizioni del cavaliero a destra, e si
lascia traviare dal cavaliero a sinistra.
— «Ribaldo, temerario che a me contrasti! Ah! perché non sei tu
incarnato tu stesso nella migliore delle tue vacche, e in lei non è incarnata
altresì ognuna di quelle sgualdrine? Che gioia sarebbe allora pel cuor mio lo
incalzarvi tutti insieme a dirittura fino all’altro mondo!
— «Olà, compagni! addosso addosso, dàlli dàlli! To to, qui qui, ciuée
ciuée ciuée!».
E ciascuno dei cani s’avventò, aizzato, sul primo oggetto che gli si parò
innanzi. Insanguinato cadde a terra il mandriano, insanguinate caddero
l’una dopo l’altra le vacche.
A stento la belva si sottrae a quel macello con sempre minor lena di
corso. Spruzzata di sangue, intrisa di bava, eccola prendere il cupo della
foresta, e ripararvisi. Addentro addentro ella s’inselva, e viene a trovar
nascondiglio nella cappelletta di un Eremita.
Via via, senza posa mai, «to to, ciuée ciuée, to to to!». Allo scoppiar delle
fruste, all’abbaiare de’ veltri, allo squillare dei corni la schiera feroce anche
colà si precipita.
Il santo Eremita uscì dalla cappelletta, e si fece incontro con mite
scongiuro.
— «Rimanti, rimanti, abbandona la traccia. Non profanare l’asilo di Dio.
La creatura manda gemiti al cielo, e implora da Dio il castigo tuo.
Làsciati per l’ultima volta ammonire, o la tua empietà ti trarrà in
perdizione».
Sollecito il cavaliero a destra galoppa innanzi, e con dolcezza e bontà
ammonisce il conte. Ma il cavaliero a sinistra lo infervora, lo instiga
all’oltraggio maligno. E, oh Dio! ad onta delle ammonizioni del cavaliero a
destra, egli si lascia traviare dal cavaliero a sinistra.
— «Che empietà? che perdizione parli tu mai? Forse, grida egli, forse
che la mi spaventa gran fatto? Questa mia caccia, dovessi io anche vederla
spinta fino al terzo cielo, che rileva, che monta a me? Sì, per Dio! vo’
proseguirla; voglio sbramarmi. E sia pure a dispetto di te, o scimunito, e a
dispetto di Dio».
Egli mena vibrata la frusta, dà fiato alla cornetta. «Olà, compagni,
addosso addosso! dàlli dàlli!».
Oh Dio! ecco, in un tratto spariscono innanzi a lui ed Eremita e
cappelletta; spariscono dietro a lui e cavalli e pedoni. E in un batter
d’occhio, e fracassi e suoni ed urli di caccia, tutto tutto ingoia un silenzio di
morte.
Atterrito il conte gira lo sguardo; dà fiato alla cornetta, e la cornetta non
rende suono; mette un grido, e non ha più sentore della propria voce; vibra
la frusta, e la frusta non fischia; sprona l’un fianco e l’altro al destriero, né
può cavalcare innanzi o retrocedere.
E subito intorno a lui un buio, e più e più sempre un buio, come di
sepolcro; ed un mugghiare, come di marina lontana. Su alto per l’aria al
disopra del suo capo una voce di tuono grida tremenda con furor di burrasca
questa sentenza:
— «O tiranno, o indole d’inferno, che insolentisci contro di Dio, contro
gli uomini, contro ogni cosa! Il singulto, il gemito della creatura, e la tua
iniquità ti hanno citato a gran voce innanzi al tribunale, là su dove arde la
fiaccola della vendetta.
Fuggi, empio, fuggi. E sia tu da qui innanzi per tutta l’eternità
perseguitato tu stesso in caccia dall’inferno e dal demonio. E sia spavento,
questo, de’ principi d’ogni secolo che, a saziare le loro voglie scellerate,
non perdonano né a Creatore né a creatura».
A queste parole un bagliore giallo come zolfo guizza intorno alle frondi
della foresta. Via via per l’ossa e per le midolle discorre al conte l’angoscia.
Una vampa gli opprime il respiro. Stordisce, e non ode più nulla. Innanzi,
tutto gli soffia sul viso gelo e terrore; e alla nuca lo insiegue il fischio della
bufera.
Cresce il soffio del terrore, cresce il fischio della bufera; e su dalla terra,
oh spavento! ecco un pugno negro emergere, giganteggiare. Apresi, stringe
gli artigli; ahi ahi! già lo abbranca pel ciuffo; ahi ahi! travolta in un attimo
la faccia del conte sovrasta alle spalle di lui.
Intorno intorno a lui un corruscar di faville e di fiamme verdi, brune e
sanguigne. Un mar di fuoco presso presso gli ondeggia d’ogni lato; e dentro
vi brulica la ciurma infernale. In un subito mille veltri infernali prorompono
aizzati a fracasso su dalla voragine.
Via precipitoso egli si scaglia attraverso i boschi, attraverso la campagna;
e fugge, mettendo lai e ululati. «Ahi me misero! misero!».
Ma per tutto l’ampio mondo lo perseguita il latrar dell’inferno, di giorno
giù per le caverne della terra, a mezzanotte su in alto per l’aria.
La faccia di lui sovrasta perpetuamente alle spalle; ond’egli abbia
perpetuamente la veduta de’ mostri che lo inseguono. E per quanto rapida la
fuga lo trascini innanzi, incitato dagli urli dello spirito cattivo, gli bisogna
mirare perpetuamente il digrignar dei denti, e lo spalancarsi delle fauci
ringhiose che gli stanno sopra per azzannarlo.
Tale è la caccia della ciurma feroce; e dura, e durerà fino al dì del
giudizio. Spesso nella notte ella passa innanzi al vagabondo a spaventarlo e
inorridirlo. E testimonianza ne potrebbe far tuttavia la lingua d’assai
cacciatori, se per altre ragioni non convenisse a loro il silenzioe.

La favola di questo Romanzo è tratta da una tradizione popolare in


Germania68, però è un soggetto bello ed opportuno per un poeta tedesco. Ivi
il popolo la crede vera: e da questa opinione acquistandosi fede il poeta, ha
potuto a suo talento far piangere e tremar di terrore i suoi lettori. I costumi
ch’egli ha dipinti sono, o costumi de’ suoi tempi, o costumi moderni e
notissimi al popolo: quindi sempre maggiore l’interesse, e sempre più
aumentata la fede.
Ma noi, lettori italiani, non abbiamo come i tedeschi quella tradizione. E
a voler reputar vera o verisimile la catastrofe del Cacciatore Feroce, ci
bisognerebbe uno sforzo d’immaginosa superstizione. Ora, che che ne
dicano gli stranieri, siamo noi Italiani dotati di tanta superstizione? La
religione nostra ben ci farebbe tenere come racconto verisimile che Dio
avesse castigata severamente la ferocia del Cacciatore. Ma il castigo strano
ed incessante su questa terra piuttosto che nell’inferno, noi non lo
crederemmo, perché non abbiamo esempi consimili da paragonargli. Ben è
vero che nella novella 8a della Giornata V del Decamerone noi leggiamo di
una pena sull’andare di questa, benché per colpa tutt’altra69. Ma quella
storia non è creduta più in Italia70: e forse non era tradizione indigena qui
neppure a’ tempi del Boccaccio, che probabilmente la tolse ad imprestito
dal monaco francese Elinando71, scrittore del 1200; e di suo capriccio la
traspiantò nella pineta di Ravenna.
Oltrediché noi non viviamo sulla sponda del Reno. La ingiustizia feudale
e l’insultante privilegio delle cacce riservate ai nobili sono mali che noi ora
non proviamo. La narrazione di sciagure contemporanee, alle quali noi non
partecipiamo, non sarà davvero udita con indifferenza; ma non ci
commuoverà tanto, quanto i Tedeschi. L’uomo non può pensare all’uomo
lontano e posto in circostanze diverse dalle sue, con quell’interesse
medesimo, con cui egli pensa a sé stesso ed a’ vicini. Le lagrime del povero
contadino, l’angoscia del mandriano, la pace dell’eremita profanata ci
faranno pietà. Ma questa pietà, paragonata con quella de’ Tedeschi, sarà
minore d’assai; come il batticuore di noi Europei mediterranei è minore di
quello degli onesti fra gli abitanti delle colonie al rammentare la
compassionevole Tratta dei Negri72. Discendendo giù per questa scala di
compassioni decrescenti, si giunge fino a quel grado di affanno leggero
leggero, con cui noi, viventi del secolo decimonono, ascoltiamo le sventure
degli Atridi, de’ Tiestei e de’ Priamidi.
Cessate anche in Germania parte delle prepotenze feudali, variate anche
alcune costumanze, mille memorie nondimeno di luogo e di nomi, mille
affinità di patria e di famiglie richiameranno la storia di quelle alla mente
de’ Tedeschi e per lunghissimi secoli. Così, e per le stesse ragioni, le
sciagure che afflissero anticamente i padri nostri in Italia, quantunque non
più le medesime che proviamo noi, pure percuoteranno l’animo nostro con
bastante vigore, ricordandole poeticamente. E come le iniquità, a modo
d’esempio, de’ nostri Visconti non sarebbero mai sentite tanto fortemente
da’ lettori tedeschi, quanto dagli italiani73, così la storia del Cacciatore
feroce non lo sarà, temo, da noi, quanto da loro.
Non so indurmi a dar l’ultimo addio al Cacciatore feroce, se prima non fo
qualche cosa a onore e gloria de’ Commentatori e della consuetudine loro.
Sappi dunque, o figliuolo, d’un pezzo di poesia italiana che ha qualche sorta
di cognazione con questa del Bürger.
Erasmo di Valvasone74, verso la fine del Canto III del suo Poema La
Caccia, raccomanda a’ cacciatori di non uscire mai alla campagna
sprovveduti di una Messa sentita, e dell’aiuto invocato di tutti i Santi. E per
ispaventare gli scapestrati, reca in mezzo la mala ventura di un certo
Terone, ch’egli stesso, il poeta, dice d’aver conosciuto. Terone, mentre
viveva giovinetto lungo la riva del nativo Tagliamento, era gran cacciatore e
persona divota: e Dio l’aveva scampato sempre d’ogni pericolo. Fatto
adulto, viaggiò tutta la Germania, e v’imparò altri costumi. Tornò a casa, e
non usò più né a Messe, né a chiese. Un cignale orribile metteva a guasto ed
a spavento la campagna d’Aquilea; però una caccia generale fu bandita per
tal Domenica. Infinite genti v’intervennero, e Terone anch’egli, come il
feritore più certo. La comitiva si recò sull’alba al tempio, e non n’uscì che
benedetta dal sacerdote. Terone solo si rimase, schernendo il rito. La caccia
ha principio; la belva si appiatta in un pantano; è scoperta; i cacciatori le
sono addosso. Ma impaurito si arretra ognuno. Solo a Terone il cuore non
batte di paura. Egli bestemmia la viltà de’ compagni, bestemmia la lor
devozione, bestemmia Dio; e si avventa alla fiera. Quella, come mossa dalla
divina vendetta, sdegna ogni altro nemico, e si scaglia su Terone; né lo
lascia che dopo di avergli tolto e ardimento e vita. Dismessa poi la ferocia,
anch’essa la fiera viene ad offrirsi da sé a’ colpi de’ cacciatori; e cade
morta. E il poeta, che sente oramai stracco il suo colascione, dà fine al canto
con un paio di versi, tutti novità di pensiero, tutti eleganza di modi:

Imparate giustizia, o genti umane,


E non spregiar le Deità sovrane.

Virgilio glieli perdoni. E tu perdona a me, se ti ho fatto ingozzare tutto


questo episodio. Quel poema della Caccia so che non lo hai letto mai, né lo
leggerai, forse, benché stampato fra i Classici Italiani; del che non vorrò
biasimarti. Ma a’ discendenti di quegli eruditi che, zelanti della loro Italia,
seppero trovare l’origine italiana del Paradiso Perduto del Milton75, io
regalo questo bel pezzo del Museo Valvasoni, insieme alla novella 8a della
Giornata V del Decamerone76, affinché ne compongano un solo
manicaretto, e ne estraggano la quintessenza, e se la bevano; poi, con una
predica scritta sugosamente, sul fare, per esempio, delle Orazioni di
Monsignore della Casa77, escano a ridomandare le sostanze che sono di
nostro diritto, mostrando come in Italia v’abbia la semenza di tutto, e come
in fine del conto gli stranieri non si facciano pavoni che con le penne
nostre78.
Quella novella, per altro, del Boccaccio, a dirla tra di noi, è una grande
infamia. Volere che la giustizia di Dio punisca di ripetute morti acerbissime
una donna, perché costantemente ricusò di amare! E che diritto aveva
Guido degli Anastagi, che diritto hanno gli uomini qualunque sul cuore
femminino? È forse uno de’ Comandamenti per la femmina il cedere alle
voglie di chi la prega d’amore? Se Guido degli Anastagi s’era ammazzato,
peggio per lui! L’amore è una passione spontanea che vive di libertà. E la
donna che si ostina a dirmi di no, mi farà infelice, ma della mia infelicità
ella non può essere né accusata, né condannata da legge veruna. La
massima che le donne sieno in obbligo di riamare chi le ama, è uno dei
sofismi usati da’ seduttori. Limitandola anche al caso di amore onesto, cioè
accompagnato dell’intenzione di strigner nozze, è una massima che fa a
pugni colla dottrina de’ Cristiani; attesoché ella reputa stato di perfezione la
castità del celibato. E per chi scriveva egli il Boccaccio, se non per gente
cattolica?
Pedanti e non pedanti79 hanno biasimato il Sannazzaro80,perché, non
contento egli di avere già sparso bastantemente di erudizioni mitologiche
antiche tuttoquanto il suo Poema sulla nascita di Gesù Cristo,De partu
Virginis, abbia poi voluto introdurvi anche, come enti contemporanei ed
operanti, le Naiadi e le Driadi. Ma l’errore del Sannazzaro non è egli forse
meno grave di cotesto del Boccaccio? Non è egli peggio forse il falsare la
morale della religione che uno introduce nel suo componimento, di quello
non sia l’unirvi alcune invenzioni eterogenee, col solo, innocente e
manifesto proposito di sbizzarrirsi in fantasie poetiche?
Basterebbe che questa infame novella della Pineta di Ravenna venisse
creduta vera a’ dì nostri e lodata in Italia, perché fosse data vinta la causa a
quegli stranieri che ci mandano titolo di vendicativi, di feroci, di
superstiziosi, e di poco religiosi nel cuore. Ma, come è vero che noi non
siamo così tristi, nessuno in Italia vorrebbe oggi avere scritto egli quel
vituperio della Pineta. E Dio lo tolga dalla memoria fino de’ Bibliotecari!
Leggi ora, figliuolo mio, la traduzione della Eleonora.
ELEONORA.

Sul far del mattino Eleonora sbalzò su agitata da sogni affannosi: «Sei tu
infedele, o Guglielmo, o sei tu morto? E fino a quando indugerai?».
Egli era uscito coll’esercito del Re Federigo alla battaglia di Praga; e non
aveva scritto mai se ne fosse scampato.
Stanchi delle lunghe ire, il Re e l’Imperatrice ammollirono le feroci
anime, e finalmente fecero pace. Ed ogni schiera, preceduta da inni, da
cantici, dal fragore de’ timpani, da suoni e da sinfonie, adornata di verdi
rami, si riduceva alle proprie case.
E da per tutto, da per tutto, sulle strade, sui sentieri, giovani e vecchi
traevano incontro ai viva d’allegrezza de’ vegnenti. «Sia lode al cielo!»
esclamavano fanciulli e mogli. «Ben venga!» esclamavano assai spose
contente. Ma, oh Dio! per Eleonora non v’era né saluto, né bacio.
Ella di qua di là cercò tutto l’esercito, dimandò tutti i nomi. Ma fra tanti
reduci non uno v’era che le desse ragguaglio. Oltrepassate che furono da
ultimo tutte quante le schiere, ella si stracciò la nera chiomaf, e furibonda si
buttò sul terreno.
Accorse precipitosa la madre. «O Dio, misericordia! Che hai, che
t’avvenne, figlia mia cara?». E se la serrò fra le braccia.
— «O madre, madre! è perduto, è morto. Or vada in rovina il mondo, e
tutto vada in rovina! Non ha misericordia Iddio. Ahi me misera! misera!».
— «O Dio, ne assisti! Misericordia, o Signore! Di’, figlia mia, di’ un
Paternostro. Quello che è fatto da Dio è ben fatto. Egli sì, Iddio, è pietoso di
noi».
— «O madre, madre! Tutte illusioni! Nulla di bene ha fatto per me il
Signore! nulla. Che giovarono, che giovarono le mie orazioni? Oramai non
n’è più bisogno».
— «O Dio, ne assisti! Chi in Dio riconosce il nostro padre, sa ch’egli
soccorre a’ figliuoli. Il santissimo Sacramento metterà calma al tuo
affanno».
— «O madre, madre! Questo incendio che m’arde, non v’ha Sacramento
che me lo calmi. Non v’ha Sacramento che restituisca a’ morti la vita».
«Ascoltami, o cara; e se quell’uom falso, là lontano, nell’Ungheria,
avesse rinnegata la fede per isposarsi ad altra donna? No, cara, non pensar
più a quel suo cuore. E neppure egli se ne troverà contento! Quando un
giorno l’anima verrà a separarsi dal corpo, lui trarrà nelle fiamme il suo
spergiuro».
— «O madre, madre! Non è più, non è più: egli è perduto, perduto per
sempre. La morte, altro non mi resta che la morte! Oh non fossi io nata mai!
Spegniti, luce mia, spegniti in perpetuo. Muori, muori sepolta nella notte e
nell’orrore! No, non ha misericordia Iddio. Ahi me misera! misera!» —
— «O Dio, ne assisti! Non voler no entrare, o Dio, in giudizio contro la
povera tua creatura. Ella non sa quel che la sua lingua si dica: non tener
conto dei peccati di lei.— Dimentica, figliuola mia, dimentica la tua
afflizione terrena; pensa al Signore, pensa alla beatitudine eterna; e
t’assicura che non verrà meno lo sposo all’anima tua».
— «E che è mai, o madre, la beatitudine eterna? Che mai, o madre, è
l’Inferno? Con lui, con lui è beatitudine eterna; e senza di Guglielmo non
v’ha che inferno. Spegniti, luce mia, spegniti in perpetuo: muori, muori
sepolta nella notte e nell’orrore! Senza di lui, né sulla terra, né fuori della
terra posso aver pace io mai».
Così a lei nella mente e nelle vene infuriava la disperazione. Più e più
continuò temeraria ad accusare la Provvidenza di Dio; si percosse il seno; si
storse le mani, fino al tramonto del sole, fino all’apparire delle stelle auree
per la volta del cielo.
Quand’ecco, trap trap trap, un calpestìo al di fuori come di zampa di
destriero; e strepitante nell’armatura smontare agli scalini del verone un
cavaliero. E tin tin tin, ecco sfrenarsi pian piano la campanella dell’uscio; e
da traverso l’uscio venire queste distinte parole:
—«Su su! Apri, o mia cara, apri. Dormi tu, amor mio, o sei desta? Che
intenzioni sono ancora le tue verso di me? Piangi, o sei lieta?».
— «Oh cielo! Tu, Guglielmo? Tu… di notte… così tardi…? Ho pianto,
ho vegliato. Ahi misera! un grande affanno ho sostenuto… E donde vieni tu
così a cavallo?».
— «Noi non mettiamo sella che a mezzanotte. Lungo viaggio cavalcai a
questa volta, fino dalla Boemia. Tardi ho preso il cammino, tardi: e voglio
condurti meco».
— «Ah Guglielmo! Entra prima qua dentro un istante. Su presto! Il vento
fischia ne’ roveti. Entra, vieni, cuor mio carissimo, a riscaldarti fra le mie
braccia».
— «Lascia pure che il vento fischi fra i roveti: lascialo fischiare, anima
mia, lascialo fischiare. Il mio cavallo morello raspa; il mio sprone suona. In
questo luogo non m’è concesso alloggiare. Vieni, succingiti, spicca un salto,
e gettati in groppa al mio morello. Ben cento miglia mi restano a correre
teco quest’oggi per arrivare al letto nuziale».
— «Oh cielo! E tu vorresti in questo sol giorno trasportarmi per cento
miglia fino al letto nuziale? Odi come romba tuttavia la campana: le undici
sono già battute».
— «Gira, gira lo sguardo. Vedi, fa un bel chiaro di luna. Noi e i morti
cavalchiamo in furia. Oggi, sì quest’oggi, scommetto ch’io ti porto nel letto
nuziale».
— «E dov’è, dimmi, dov’è la cameretta? E dove, e che letticciuolo
nuziale è il tuo?».
— «Lontano, lontano di qui…, in mezzo al silenzio…, alla frescura…,
angusto… Sei assi… e due assicelle…».
— «V’ha spazio per me?».
— «Per te e per me. Vieni, succingiti, spicca un salto, e gettati in groppa.
I convitati alle nozze aspettano; la camera è già schiusa per noi».
La vezzosa donzelletta innamorata si succinse, spiccò un salto, snella si
gittò in groppa al cavallo, e con le candide mani tutta si ristrinse all’amato
cavaliere. E arri arri arri! salta salta salta; e l’aria sibilava rotta dal gran
galoppare. Sbuffavano cavallo e cavaliere; e sparpagliavansi intorno sabbia
e scintille.
A destra e a sinistra, deh! come fuggivano loro innanzi allo sguardo e
pascoli e lande e paesi! Come sotto la pesta rintronavano i ponti! — «E tu
hai paura, o mia cara? Vedi bel chiaro di luna! Arri arri! I morti cavalcano
in furia. E tu, mia cara, hai paura de’ morti?».
— «Ah no! Ma lasciali in pace i morti!».
Da colaggiù qual canto, qual suono mai rimbombò? Che svolazzare fu
quello de’ corvi? Odi suono di squille, odi canto di morte! «Seppelliamo il
cadavere».
Ed ecco avvicinarsi una comitiva funebre, e recar la cassa e la bara de’
morti. E l’inno somigliava al gracidar dei rospi negli stagni.
— «Passata la mezzanotte, seppellirete il cadavere con suoni e cantici e
compianti. Ora io accompagno a casa la giovinetta mia sposa. Entrate meco,
entrate al convito nuziale. Vieni, o sagrestano; vieni col coro, e precedimi
intuonando il cantico delle nozze. Vieni, o sacerdote; vieni a darci la
benedizione prima che ci mettiamo a giacere».
Tace il suono, tace il canto; la bara sparì. E obbedienti alla chiamata
quelli correvano veloci, arri arri arri! lì lì sulle peste del morello. E va e va
e va; salta salta salta; e l’aria sibilava rotta dal gran galoppare. Sbuffavano
cavallo e cavaliere; e sparpagliavansi intorno sabbia e scintille.
Deh come fuggivano a destra, come a sinistra fuggivano e montagne e
piante e siepi! Come fuggivano a sinistra, a destra, e ville e città e borghi!
— «E tu hai paura, o mia cara? Vedi bel chiaro di luna! Arri arri arri! I
morti cavalcano in furia. E tu, mia cara, hai paura dei morti?».
— «Ahi misera! Lasciali in pace i morti».
Ecco, ecco; là sul patibolo, al lume incerto della luna, una ciurma di larve
balla intorno al perno della ruotag!
— «Qua qua, o larve. Venite, seguitemi. Ballateci la giga degli sposi,
quando saliremo in letto».
E via via via, le larve gli stormivano dietro a’ passi, come turbine che in
una selvetta di noccioli stride fra mezzo all’arida frasca. E va e va e va;
salta salta salta; e l’aria sibilava rotta dal gran galoppare. Sbuffavano
cavallo e cavaliere; e sparpagliavansi intorno sabbia e scintille.
Ogni cosa che la luna illuminava d’intorno, deh come ratto fuggiva, come
fuggiva alla lontana! Come fuggivano e cieli e stelle al disopra di lui!
— «E tu hai paura, mia cara? Vedi bel chiaro di luna? Arri arri arri! I
morti cavalcano in furia. Ed hai tuttavia paura dei morti, o mia cara?».
— «Ahi me misera! Lasciali in pace i morti».
— «Su su, o morello! Parmi che il gallo già canti. Fra poco il sabbione
sarà ornai tutto trascorso. Su, morello, morello! Al fiuto sento già l’aria del
mattino. Di qua, o mo rello, caracolla di qua. Finito, finito abbiamo di
correre. Eccolo che s’apre il letto nuziale. I morti cavalcano in furia.
Eccola, eccola la meta».
Impetuoso s’avventò a briglia sciolta contra un cancello di ferro. Ad uno
sferzar di scudiscio toppa e chiavistello gli si spezzarono innanzi; e le ferree
imposte cigolando si spalancarono. Il destriero drizzò la foga su per le
sepolture. E al chiaror della luna tutto tutto biancheggiava di monumenti.
Ed ecco, ecco in un subito, portento, ahi, spaventoso! Di dosso al
cavaliere ecco, a brandelli a brandelli cascar l’armatura, com’esca logorata
dagli anni! In teschio senza ciocche e senza ciuffo, in teschio ignudo ignudo
gli si convertì il capo; e la persona in ischeletro armato di ronca e d’oriuolo.
Alto s’impennò e inferocì sbuffando il morello, e schizzò scintille di
fuoco. E via, eccolo sparito e sprofondato disotto alla fanciulla; e strida e
strida su per l’aere; e venir dal fondo della fossa un ululato!… A gran
palpiti tremava il cuore d’Eleonora, e combatteva tra la morte e la vita.
Allora sì, allora sotto il raggio della luna danzarono a tondo a tondo le
larve; ed intrecciando il ballo della catena, con feroci urli ripetevano questa
nenia: — «Abbi pazienza, pazienza; s’anche il cuore ti scoppia. Con Dio
no, con Dio non venire a contesa. Eccoti sciolta dal corpo. Iddio usi
all’anima misericordia!».
A differenza della prima, la favola di questo secondo Romanzo, a quel
ch’io sappia, è tutta invenzione del poeta81. Parrebbe dunque che, non
sostenuta da una tradizione, l’Eleonora non dovesse trovare né fede, né
applausi neppure in Germania.
E nondimeno è noto come ella sia colà la lodatissima delle poesie del
Bürger. A che ascriveremo noi questo?
I popoli colti d’una parte della Germania, pe’ quali il Burger cantava,
sono inclinati all’entusiasmo82. Avidi essi di emozioni, non aspettano che
quelle vengano di per sé; ma per ottenerne, si aiutano fin anche del
meditare. Il bisogno fortissimo di emozioni nasce in loro, se mal non veggo,
per la mancanza di una continua varietà d’oggetti esteriori che possa
occuparli e muoverne gli animi piacevolmente. E questa mancanza è
prodotta dalle circostanze politiche, da quelle del clima, della geografia loro
e della loro vita sociale. Ma le circostanze medesime, se per un riguardo gli
offendono, servono per un altro a rinforzare notabilmente la loro riflessione,
allorché la noia gli obbliga a concentrarsi in sé stessi, a ripiegarsi
nell’animo proprio, onde provarne il moto che li faccia accorti
dell’esistenza. Educati così alla meditazione, non di rado giungono essi a
scoprire qualche lato importante e patetico nelle cose, in cui lo sguardo
superficiale noi vede. Tosto che l’hanno adocchiato, eglino vi si affezionano
e s’infervorano: e l’amore di una parte tira seco l’amore del tutto.
Con ciò viene a spiegarsi per noi da che provenga l’affettazione di certo
sentimentalismo che governa spesso il discorso de’ Romanzieri del Nord83,
e che male è imitato da’ Romanzieri di Francia, e mal sarebbe da que’
d’Italia; perché posa su pensieri ed affetti che non sono sentiti in Francia e
in Italia, né da chi scrive, né da chi legge. Quante volte l’uomo del Nord,
viaggiando in Italia, non fa egli strabiliare gli ospiti suoi, parlando ogni
tratto di sensazioni domestiche, di piaceri secreti dell’animo, di simpatie
recondite, di compassioni prodigalizzate a un fiorellino del campo, di
lagrime sparse per pietà di un asinelio defunto, di memorie lugubri suscitate
in lui dalla menoma novità di nugoloni colorati! Pare a noi che egli allora
monti sull’ippogrifo. Eppure chi sa che per lunga assuefazione egli non
abbia il cuore, troppo più che noi non ci figuriamo, pronto a palpitare per
tante fantasie?
A quelle docili immaginazioni bastò quindi pensare che la finzione
dell’Eleonora era omogenea ed analoga alle tradizioni popolari, perché a lei
anche estendessero il vero di opinione che quelle hanno. La stravaganza del
tutto non nocque allora più all’effetto delle parti. E siccome le parti sono
bellissime, l’approvazione e l’ammirazione vennero di per sé.
Noi popoli più meridionali, circondati dalla pompa della natura e dalla
perpetua successione delle sue infinite lusinghe, non abbiamo mestieri di
andare in traccia di emozioni per sentire la vita. Noi aspettiamo che quelle
ci riscuotano come a viva forza; ma non ci curiamo di promuoverle noi col
nostro entusiasmo. Di qui, più che lettori appassionati, noi riusciamo critici
freddi. E prima di dare una lagrima alla sventura di Eleonora, noi
metteremo sul bilancino i gradi di verisimiglianza che ha la storia della
fanciulla; e non li pagheremo della nostra credenza che grano per grano.
Forse, e bada bene che tiro a indovinare e non altro, forse gli abitanti
d’una parte della Germania, de’ quali ho parlato fin qui, hanno, o nel fondo
del cuore o dentro la mente, più religione che noi non abbiamoh.
Forse, avvezzati essi dalle sette, e dalla necessità delle controversie a
meditare i dogmi della religione, come noi a prestarle fede senza
meditazioni, hanno talmente inclinati i pensieri a lei, che tuttoquanto
partecipa dello spirito del Cristianesimo, essi lo sentono di primo tratto,
qualunque sia l’oggetto che gli occupi, qualunque sia lo stato dell’animo
loro.
Quindi è forse che il Tedesco, leggendo il Romanzo dell’Eleonora, lascia
bensì che il cuore di lui pieghi a compassione delle sventure della fanciulla;
ma immediatamente corre colla idea all’enormità del peccato commesso da
lei nel rinnegare la provvidenza di Dio. Associata a quella idea, eccoti
subito l’altra, che ogni vendetta di Dio, per quanto fiera ella sembri a
umano intendimento, non può mai aggiungere a tanto da pareggiare
l’immensità del delitto, di cui si fa reo chi offende Dio di qualsivoglia
maniera. Mesci ora insieme il sussidio delle idee religiose alla somiglianza
che la favola della Eleonora dicemmo avere colle tradizioni popolari in
Germania, e vedi come il Tedesco s’induca ad esser liberale di credenza
verso la catastrofe del Romanzo. Nell’animo di lui direi quasi che il
sentimento massimo sarà quello dell’enormità del peccato, e della maestà di
Dio irritata; e che la compassione per gli affanni amorosi della fanciulla non
sarà che un sentimento concomitante.
Se l’Italia leggente fosse composta di uomini tutti profondamente
studiosi della loro religione, forse l’Eleonora, scendendo tra noi, non
verrebbe a capitare in terra straniera affatto. Ma, quantunque in Italia
v’abbiano teologi eruditissimi, io temo che il più degli Italiani, ancorché
cattolici di buona fede, non si siano addimesticati tanto coi dogmi della loro
religione, da salvare per questi una costante reminiscenza in tutte le loro
sensazioni. Il lettore teologo, anche in mezzo alle seduzioni della poesia,
anche sbattuto dai palpiti ch’ella produce, starà fermo alle dottrine da lui
conosciute e professate, e stabilirà tosto relazioni tra quelle e ciò ch’ei
legge. Un lato della sua mente egli lo tiene vergine sempre di tutt’altri
pensieri, salvo i religiosi. Però egli sentirà il maraviglioso e il terribile del
Romanzo dell’Eeonora: e l’idea della Divinità oltraggiata e della severità
onnipossente che procede dalla giustizia di Dio gli ingombrerà tanto
l’anima, da lasciargliene una parte ben poca in preda ad altre riflessioni e ad
altri affetti. Pieno di spavento, egli chinerà il capo innanzi a Dio; ripeterà
anch’egli la nenia delle larve, e finirà esclamando: «Salvami, o Signore,
salvami dall’offenderti».
Ma avremo noi84 lettori teologi molti? O io m’inganno, o tra di noi sarà
maggiore il numero di quelli che, facili a scusare negli altri le passioni,
perché le vorrebbono scusate a sé medesimi, si lasceranno andare alla pietà,
come al sentimento più repentino per essi. Cedendo all’impeto delle prime
impressioni cagionate dalle miserie d’Eleonora, e non interrogando gran
fatto il sentimento religioso, che in essi, a differenza de’ Tedeschi, riescirà il
meno forte, eglino, parmi, diranno così: «Una povera vergine innamorata,
disperante della vita del suo sposo futuro, inasprita dal peso della disgrazia
e dalla importunità dei consigli di una vecchia assiderata, perché
nell’impeto del dolore (e che dolore!) si lasciò fuggire di bocca la
rinnegazione della Provvidenza, meritava ella di essere sepolta viva?
Meritava che il ministro dell’ira di Dio fosse quello stesso amante, per cui
ella aveva spasimato tanto? Meritava che questi alla indifferenza dovesse
anche aggiungere la crudeltà della ironia, e continuarla fino all’ultimo della
vita? Se dopo lunghe macchinazioni, ella, fredda fredda, avesse per avarizia
piantato un coltello nel petto al padre, strozzata la madre, le starebbe bene
questo ed ogni altro rigore di pena. Ma nel delirio dell’amore… per una
parola inconsiderata… tanto supplizio! No, non può essere. Il Dio nostro è
il Dio della misericordia. Tratto a doverci visitare nell’ira sua, egli guarda
pur sempre all’intenzione del peccatore; e distingue il delirio d’una
passione innocente dalla gelida ostinata empietà. Eleonora ha peccato. Ma
qual proporzione qui tra ’l peccato e la pena? No no, la storia d’Eleonora
non è credibile. È una invenzione nera nera che mette ribrezzo; è una favola
da nutrici che non è raccomandata da verisimiglianza veruna, e che non
merita neppure una sola della nostre lagrime».
Davvero, io non torrei a difendere innanzi al Santo Offizio l’ortodossia di
chi ragionasse così. Davvero sono persuaso che qualunque persona
trascorresse a discorsi siffatti, dopo più mature considerazioni se ne
disdirebbe. Ma, fattili una volta, e rovinato con ciò l’effetto primo di questa
poesia, come trovarla bella dappoi? Come gradir bene dappoi ciò che sulle
prime n’è venuto in fastidio? — E che a molti si aggireranno pel capo
pensieri simili a questi ch’io portai qui sopra, oserei scommetterlo. — Non
mi dorrebbe di rimanere perdente; anzi ’l desidero.
Ad ogni modo in entrambi questi Romanzi, e più nel secondo, v’ha
qualche cosa di magico che non si lascia definire. Ed io conosco uomini in
Italia che, capaci quant’altri di esercitare la critica, pure fu loro necessità
metterla in silenzio, perché sentivansi l’anima strascinata dalla prepotenza
del terribile, intenerita dal patetico che regna in questi componimenti. E la
monotonia stessa che qua e là il poeta vi sparse, rendeva più profonda e più
perseverante la commozione.
Dopo un esperimento siffatto, io credo di potere rispondere a te che in
Italia altri rideranno freddamente di questi due romanzi, altri diranno essere
un peccato l’avere arricchito di tanta poesia argomenti da non trattarsi, ed
altri si trasporteranno alle circostanze del popolo, per cui furono scritti, ed
assumendone le opinioni e l’entusiasmo, divideranno con lui la pietà, la
maraviglia e il terrore. Parmi che gli ultimi, comeché pochi forse,
mostreranno indole più poetica.
In quanto a te, se mai ti nascesse voglia di scrivere Romanzi in Italia sul
fare di questi, va cauto, e fa di non lasciarti traviare in soggetti non
verisimili, quando essi siano tolti di peso dalla fantasia tua. Che, se
l’argomento ti viene prestato da una storia scritta o da una tradizione che
dica: il tal fatto è accaduto così, e tu senti che comunemente è creduto così,
allora non istare ad angariarti il cervello per timore d’inverosimiglianze,
dacché tu hai le spalle al muro. Però nella scelta siati raccomandato di
tenerti più volontieri ai soggetti ricavati dalla storia, che non agli ideali85.
Né ti fidare molto a quelle tradizioni che non escirono mai dal ricinto d’un
sol municipio, perché la fama tua non sarebbe che municipale86: del che
non ti vorrei contento.
Finalmente, se i due componimenti del Bürger che ti stanno ora innanzi, e
che furono immaginati per la Germania e proporzionati a que’ lettori, non
piaceranno universalmente in Italia, bada bene a non inferire da questo che
la letteratura tedesca sia tutta incompatibile col gusto nostro. Vi hanno in
Germania componimenti moltissimi fondati su maniere e su geni comuni a’
Tedeschi, a noi, ed al resto dell’Europa colta. E il dire che un po’ più un po’
meno di lucidezza di sole, renda affatto affatto opposte tra di loro le menti
umane, ed inaccordabili onninamente le operazioni intellettuali di chi vive
tre mesi fra le nebbie con quelle di chi ne vive sei, è puerilità tanto più
ripetuta, quanto ella è più facile a dar vita ad un meschino epigramma. Se
ne’ Greci e ne’ Latini troviamo cose ripugnanti al genio della poesia
italiana, e lo confessiamo, perché infastidirci se ne’ Francesi, negli
Spagnuoli, negli Inglesi e ne’ Tedeschi ne scopriamo parimenti, che
vogliono da noi rifiutarsi? O leggere nulla, o legger tutto fa d’uopo. Però io,
portando opinione che il secondo partito sia da scegliersi, credo che anche
lo studio del Cacciatore feroce e della Eleonora sarà utile in Italia; perché
mostra da quali fonti i valenti poeti d’una parte della Germania derivino la
poesia plaudita nel loro paese. Cercarono essi con somma cura di prevalersi
di tutte le passioni, di tutte le opinioni, di tutti i sentimenti de’ loro
compatriotti; e trovarono così argomenti che vincono l’animo
universalmente.
Facciamo lo stesso anche noi. E la poesia italiana si arricchirà di nuove
bellezze, talvolta originali molto, e sempre caratteristiche del secolo in cui
viviamo. Così vedremo moltiplicarsi i soggetti moderni, e riescir belli e
graditi quanto il Filippo87, il Mattino, la Basvilliana e l’Ortis. E forse anche
noi conseguiremo scrittori di Romanzi in prosa, tanto quanto i Francesi, gli
Inglesi, e i Tedeschi.

Figliuolo carissimo, se tu hai ingegno, com’io spero, ti sarai pure accorto


che fin qui la lettera mia non fu che uno scherzo88. La gravità, con cui in
questa tiritera di commento ho affastellate tante stramberie, è una gravità
tolta a nolo: e la costanza della ironia sbalza agli occhi di per sé. Ho voluto
spassarmi a spese de’ novatori. Ma con te, figliuolo, con te coscienza di
padre mi grida ch’io lasci le baie, e mi metta finalmente sul serio.
Sappi dunque che fuori d’Italia gli uomini vanno car pone in materia di
letteratura. Sappi che se tu, tralignando da’ maestri tuoi, metterai naso ne’
libri oltramontani, finirai anche tu col muso al pavimento. Questo voler
dividere i lavori della poesia in due battaglioni, classico e romantico, sa
dell’eretico; ed è appunto un trovato d’eretici; e non è, e non può esser, cosa
buona; da che la Crusca non ne fa menzione, e neppure registra il vocabolo
«Romantico».
Tutti sanno che in Inghilterra e in Germania non si coltiva da letterato
veruno né la lingua greca né la latina89, e che non si ha contezza ivi degli
scrittori di Atene e di Roma, se non per mezzo di traduzioni italiane.
Separati così quasi affatto dalla conoscenza de’ capi d’opera dell’antichità,
come potevano quegli infelici far poesie, e non dare in ciampanelle? Poi
vollero giustificare i loro strafalcioni; e congiurarono co’ loro fratelli
filosofi, e tentarono la metafisica e la logica, e dettarono sistemi90. Ma tutti
insieme i congiurati diedero in nuove ciampanelle, perché la metafisica e la
logica sono piante che non allignano che in Italia.
Figurati che arrivarono fino a dire, quasi, che la Religione Cristiana ha
resa più malinconica e più meditativa la mente dell’uomo; ch’ella gli ha
insegnato delle speranze e de’ timori ignoti in prima; che le passioni de’
Cristiani, quantunque rivolte a oggetti esteriori, hanno pure una perpetua
mischianza con qualche cosa di più intimo che non avevano quelle de’
Pagani; che in noi è frequente il contrasto tra ’l desiderio e ’l dovere, tra
l’intolleranza delle sventure e la sommessione ai decreti del cielo; che i
poeti nostri, per non riescire plagiari gelati, bisogna che pongano mente a
queste tinte, e dipingano oggi le passioni con tratti diversi dagli antichi; e
che, e che, e cento altri che di tal fatta, e miserabilissimi tutti. E davvero a
volere stramazzare quegli atleti basterebbe, a modo d’esempio, instituire,
come noi lo possiamo far bene e non essi, un paragone analitico tra
Anacreonte e Tibullo da una parte, e ’l Petrarca dall’altra; e dimostrare
come i patimenti dei due primi innamorati siano gli stessi stessissimi
patimenti che travagliavano l’animo al Petrarca. E chi non sente, infatti, che
que’ tre amori, per somiglianza tra di loro, sono proprio tre gocciole
d’acqua?
Alcuni cervellini d’Italia, che non sanno né di latino né di greco, lingue
per essi troppo ardue, vorrebbero menar superbia dell’avere imparate le
lingue del Nord, che ognuno impara in due settimane, tanto sono facili. Però
fanno eco a tutte queste fandonie estetiche, che in fine in fine non valgono
né le pianelle pure di Longino, non che il suo libro Del Sublime, che è la
maraviglia dell’umano sapere. Il quale umano sapere non è mica
progressivo e perfettibile, come i fatti pertinacemente attestano; ma è
sempre stato immobile, e non può di sua natura patire incremento mai, per
la gran ragione che nil sub sole novum91.
E questi cervellini battono poi le mani ad ogni frascheria che viene di
lontano e corrono dietro a Shakespeare ed allo Schiller, come i bamboli alle
prime farfalle in cui si abbattono, perché non sanno che ve n’ha di più
occhiute e di più vaghe.
Ma viva Dio! quello Shakespeare è un matto senza freno; traduce sul
teatro gli uomini tal quali sono; la vita umana tal quale è; lascia ch’entri in
dialogo l’eroe col becchino, il principe col sicario; cose che non sono
permesse che agli eroi da vero e non da scena. E invece di mandarti a
fiamme l’anima con belle dissertazioni politiche, con argomenti pro e
contra a modo de’ nostri avvocati, egli ti pone sott’occhio le virtù ed i vizi
in azione: il che ti scema l’interesse, e ti fa tepido. Quello Schiller poi, se ’l
paragoni, non dico con altri, ma col solo Seneca, ti spira miseria.
A buon conto gli stessi novatori, mentre si aguzzano alla disperata onde
predicarne le lodi, sono costretti dal coltello alla gola a confessare che le
opere di Shakespeare e dello Schiller, quantunque, come essi dicono,
maravigliose in totale, non vanno scevre di magagne, se si guarda
separatamente alle parti. E s’ha a dire bel libro di poesia, e degno di lettura
quello che non può vantarsi incontaminato d’ogni menomo peccato veniale?
I grandi poeti dell’antichità sono invece fiocchi sempre sempre di tutta neve
immacolata.
Ed è poco misfatto rispettare l’unità d’azione, che è la meno importante,
per dare un calcio poi alle unità di tempo e di luogo, che formano il cardine
della nostra fede drammatica92, fuori della quale non v’ha salute? E noi
dovremmo sorgere ammiratori di ribaldi tanto sfrontati, noi pronipoti
d’Orazio, del Vida93 e del Menzini?
Era aforismo che nel giro di ventiquattro ore e nulla più dovesse andare
ristretta l’azione di un dramma. I meno puristi hanno spinta ora la tolleranza
fino a concederne altre dodici, purché ciò non passasse in esempio di nuove
larghezze; e basta così.
L’uomo per virtù della illusione teatrale può arrivare a tanto ch’egli
persuada a sé stesso d’essere vissuto trentasei ore, quando non ne ha vissute
che le poche tre, per le quali dura lo spettacolo. Ma a un minuto di più la
povera mente umana non regge colla sua immaginativa. L’esattezza del
computo non è da porsi in dubbio, poiché il Buon Gusto egli medesimo,
armato di gesso94, sedeva alla lavagna disegnando, 36 = 3.
E la illusione teatrale noi sappiamo essere la illusione di tutte le illusioni,
la magia per eccellenza; da che, come due e due fanno quattro, così anche,
ad onta della verità, è provato che dallo alzarsi fino al calar del sipario lo
spettatore si dimentica affatto di ogni sua occorrenza domestica, non sa più
d’esser in teatro, giura ch’egli manda occhiate proprio nel Ceramico e nel
Partenone, e crede vere proprio le coltellate che si dànno gli eroi sul palco,
e vero sangue quello che gronda dalle ferite.
Quanta sia poi l’importanza della unità di luogo è da vedersi in quelle
tante pagine che in favore di lei avrebbe dovuto scrivere Aristotile. E il
ribellarsi ad Aristotile, parlante o tacente ch’egli sia, sarebbe infamia.
Per decreto de’ Romantici la mitologia antica vada tutta in perdizione.
Ma, pe’ gorghi Strimoni95! questo ostracismo lascia egli sperare briciolo di
ragionevolezza in chi l’invoca? Perché rapirci ciò che ne tocca più da
vicino? E come prestar venustà alla Lirica, come vestire di verità i concetti,
di splendore le immagini, senza Minerve, senza Giunoni, senza Mercuri,
che pur sentiamo apparire ogni notte, in ogni sogno, ad ogni fedel cristiano?
Come parlar di guerre, senza far sedere Bellona a cassetta d’un qualche
coupé96, senza metterle in mano la briglia d’un paio di morellotti
d’Andalusia? E non è noto forse, per deposizione di tutti i soldati reduci,
com’anche a Waterloo quella dea sia stata veduta correre su e giù pel
campo, vestita di velluto nero, con due pistole nere in cintura, e con in testa
un cappelletto nero all’inglese97?
Ut pictura poësis98. E ciò che concedete alla pittura, lo avete a concedere
anche alla poesia, a dispetto della persuasione e delle dimostrazioni
irrefragabili del Lessing. E sapete perché? Perché lo ha detto chi poteva
dirlo, chi poteva con piena potestà comandarlo, chi aveva rubata al Papa
l’infallibilità, prima che il Papa nascesse, Orazio insomma99. E zitti per
carità.
Non è meraviglia poi se genti farnetiche, le quali mischiano psicologia
fino nel parlar di canzoni, vestono oggi il sacco del missionario, ed
esclamano: «Voi, Italiani, avete un bel suolo, un bel cielo, una bella lingua;
ma dei tesori intellettuali, di cui va ricca oggimai tutta insieme l’Europa,
voi non ne possedete quanto certi altri popoli. Voi ci foste maestri un tempo;
adesso non più. Alcuni tra voi coltivano bene le scienze fisiche e
matematiche; ma di buone lettere e di scienze morali voi di presente patite
penuria, avendo troppo poche persone eccellenti in questi generi».
Noi dunque penuriamo? Bravi davvero! Lasciamo stare che tutto quel
poco che si sa fuori d’Italia è tutto dono nostro. Lasciamo stare che noi
potremmo comperare mezzo il Mogol, se voi, stranieri, ci pagaste
solamente un baiocco per ogni sonetto stampato da venti anni in qua in
Italia, e che noi per un baiocco l’uno acconsentiremmo di vendervi.
Lasciamo stare che da venti anni in qua noi abbiamo immaginati libri tali di
letteratura, da potere squadernarli sul viso a qualunque detrattore, allorché
ci risolveremo a comporli ed a svergognare il resto d’Europa. Lasciamo
stare che in Firenze e fuori di Firenze100 vi hanno giornali che vegliano dì e
notte alla vendetta, e che con brevi ma calzanti argomenti rovinano i
paralogismi101, e mandano scornata l’arroganza di chi ne minaccia assalto;
e, quel che è proprio edificante, usando sempre rispetto verso le persone,
decenza nei modi, e galanteria fiorita coi rivali di sesso gentile102: arti tutte
non praticate che in Italia, perché il Galateo è nato qui. Lasciamo stare che
le ingiurie de’ nostri nimici, non appena scorsi diciannove anni da che sono
stampate, così calde calde noi le confutiamo: tanto è vero che in Italia non
si dorme103! Lasciamo stare che da qui ad altri diciannove anni saremo
pronti a ripetere le osservazioni in lode dell’Italia che trovansi stampate ne’
libri di quegli stessi nemici, e non leggonsi ne’ libri nostri. Lasciamo stare,
dico, tutto questo. Sia pur vero l’ozio letterario, di che ne si vuole
rimproverare. Ma che potete voi dire di più lusinghiero per noi? Questo
nostro far nulla per le lettere non è egli il documento più autentico della
ricchezza che n’abbiamo? Chi non ha rinomanza, stenti la sua vita per
guadagnarsela. Chi non ereditò patrimonio, sudi la vita sua a ragunarne uno.
La letteratura d’Italia è un pingue fedecommesso. Bella e fatta l’hanno
trasmessa a noi i padri nostri. Né ci stringe altro obbligo che di gridare ogni
dì trenta volte i nomi e la memoria de’ fondatori del fedecommesso, e di
tramandarlo poi tal quale a’ figli nostri, perché ne godano l’usufrutto e il
titolo in santa pace.
Però non ti dia scandalo, figliuolo mio, se certi lilliputi nostrali104, non
trovando altro modo a scuotersi giù dalle spalle l’oscurità, si dànno a
parteggiare nel seno della cara patria, e ripetono per le contrade della cara
patria la sentenza universale d’Europa contro la cara patria nostra.
Oltrediché questi degeneri figli dell’Italia oseranno anche sussurrarti altre
bestemmie all’orecchio; come a dire, che la confessione de’ propri difetti è
indizio di generosità d’animo; che il nasconderli quando sono già palesi a
tutti, è viltà ridicola; che il primo passo al far bene è il conoscere di aver
fatto male; che questa conoscenza valse a’ Francesi il secolo di Luigi
decimoquarto, alla Germania il secolo diciottesimo; e che infine poi anche
Dante, anche il Petrarca e l’Ariosto e ’l Machiavello e l’Alfieri stimarono
lecito lo scagliare invettive amare contro l’Italia. — Oibò! non è vero. Que’
brutti passii furono malignamente inseriti nelle opere loro dagli editori
oltramontani: e la trufferia è manifesta. È egli credibile che gente italiana
per la vita cadesse in tanta empietà? Chiunque ama davvero la patria sua,
non cerca di migliorarne la condizione. Chi tasta nel polso al fratello suo la
febbre mortale, se ama lui davvero, gliela tace; non gli consiglia farmaco
mai né letto; e lo lascia andar diritto al Creatore.
E tu, allorché uscirai di collegio, preparati a dichiararti nemico d’ogni
novità; o il mio viso non lo vedrai sereno unquanco105. Unquanco dico, e
questo solo avverbio ti faccia fede che il Vocabolario della Crusca io lo
rispetto; comeché io, conciossiaché di piccola levatura uomo io mi sia, a
otta a otta mal mio grado pe’ triboli fuorviato avere, e per tal convenente io
lui, avegna Dio che niente ne fosse, in non calere mettere parere
disconsentire non ardisca106.
Per l’onor tuo intanto, e pel mio e per quello della patria nostra, ti
scongiuro ad usar bene del tempo. Però bell’e finito mandami presto
quell’Idillio, in cui introduci Menalca e Melibeo a cantare tuttaquanta, alla
distesa, la genealogia di Agamennone Miceneo. La via della gloria ti sta
aperta. Addio.
Il tuo GRISOSTOMO.

a. Il Bouterwek nella sua Estetica, riconoscendo tuttavia l’eccellenza di questi due Romanzi, ne
censura l’autore per questo solo, che dava ad essi titolo di Poesie epico-liriche: censura che in un
filosofo mette stupore; da che l’epiteto di «epico-lirici» caratterizza ottimamente sì fatti
componimenti. Tutti sanno che la poesia epica, definendone il senso più generico e più filosofico e
prescindendo dalle distinzioni de’ Retori, significa poesia narrativa: e i due poemetti, di cui trattasi,
sono narrazioni. E la forma epica è poi mescolata in essi colla forma lirica, attesa la qualità del metro,
che è di versetti lirici rimati e scompartiti in tante strofe. Nell’edizione, per altro, che ho sott’occhio i
due Romanzi, stampati in un fascio con altri, non portano titolo che di Poesie semplicemente:
Gedichte. Volendo servire ad una scrupolosa esattezza nel classificare i lavori de’ poeti, parmi che
alcune Odi di Orazio ed alcune Odi e Canzoni nostre meriterebbero anch’esse il nome di Romanzi,
consistendo appunto in narrazioni: come, a modo d’esempio, la Canzone del Guidi sulla Fortuna. E
che altro è, infatti, quella Canzone, se non un racconto di una apparizione immaginaria della Dea
Fortuna, di un dialogo seco lei, e d’una vendetta che ella consuma? Ma ho detto che poesie del
genere di codeste del Bürger non furono forse mai scritte da’ letterati in Italia, per la somma
differenza che codeste hanno per cento lati coll’ode del Guidi, e con altre che si potrebbero citare2.
2. L’Estetica di Federico Bouterwek (1806) e la sua Storia della poesia e dell’eloquenza (1801-
1819) furono tra le opere tedesche che ebbero più viva azione sul Berchet, il quale due anni dopo, nei
numeri 9, 13 e 21 del Conciliatore, pubblicò tre articoli sulla Storia della poesia e dell’eloquenza,
incominciando dalla fine del secolo decimoterzo. Vedi B. Croce, Estetica, Bari, Laterza, 19093, p.
407; Problemi di Estetica, ivi, 1910, p. 425.
b. Vedi la nota prima [a p. 430 di questo volume].
c. Il testo ha «der Wild-und Rheingraf». Certa famiglia di Conti del Reno discendente da
Rheingrafenstein porta il nome di Wild-und Rheingraf.-Adelung, Gran. Dizion.o (Art. Rheingraf.).
d. I comuni in Germania pagano un mandriano. Questi ha l’obbligo di menare al pascolo
comunale, e di guardare tutte insieme le bestie che i contadini gli arridano; e ciò perché la povera
gente abbia tempo di badare alle proprie faccende domestiche e rurali, e i ragazzi non siano tolti alla
scuola per mandarli a condurre vacche e asinelli.
e. Le ragioni sono, che a nessuno il quale abbia veduto il portento è lecito rivelarne le particolarità.
Così comandando, la tradizione superstiziosa ha provveduto ella stessa alla propria durata.
f. Il testo ha «Rabenhaar», vocabolo composto da corvi e da chioma, «chioma corvina». In italiano,
per la sola necessità dei due vocaboli separati, l’idea perderebbe rapidità, e parrebbe affettazione.
g. Terminato il supplizio de’ rotati, è uso in Germania di piantare in mezzo del palco un palo alto,
in cima a cui è ficcata orizzontalmente la ruota fatale. Su di questa buttansi i cadaveri de’ giustiziati.
E vi stanno a spavento dei tristi e ad orrore de’ viandanti, finché il tempo ve li lascia stare.
h. Per rispetto a’ Tedeschi protestanti è evidente che per religione intendo quella religiosità che è
sentimento umano, e non dono della grazia1
1. Vi è qui un’eco delle vivacissime discussioni che facevano i nostri primi romantici sulla
religione, sul significato e valore della riforma protestante, sullo spirito della controriforma. Il
Berchet riecheggia qui le riflessioni, che il Sismondi aveva fatto nella Storia delle repubbliche
italiane sullo scarso sentimento religioso degli italiani, e quelle che sul libero esame, introdotto dalla
riforma nella religione, aveva fatto la Staël nell’Allemagne, IV P., c. II, Del protestantesimo.
i. Dante:
Non donna di provincie, ma bordello.
(l’Italia) Purg., Canto VI.
Petrarca:
Italia, che suoi guai non par che senta,
Vecchia oziosa e lenta
Dormirà sempre…?
Canz. XI, «Spirto gentil».

Ariosto:
… l’accecata Italia, d’error piena.
Orl. Fur., Canto XXXIV.
E altrove:
O d’ogni vizio fetida sentina,
Dormi, Italia imbriaca …
Machiavello:
Non si può sperare nulla di bene nelle provincie che in questi tempi si veggono corrotte, com’è
l’Italia sopra tutte le altre; e ancora la Francia e la Spagna di tale corruzione ritengono parte, ecc.
Discorsi sop. T. L.j Lib. I, cap. 55
e passim passim passim su questo gusto.
Alfieri:
Nell’ozio e ne’ piacer noiosa immersa (l’Italia).
Sonetto 143.
Dunque l’Italia è bagascia, vecchia, bevona, oziosa, senza occhi, senza bontà, corrotta e fetente. Se
tutte queste contumelie fossero farina proprio del sacco degli autori a cui sono attribuite, e non
tradimenti stranieri, bella e bizzarra materia di discorso avrebbe chi pigliasse a dimostrare che le vere
glorie d’Italia derivano da chi la sgrida e ch’ella tanto più onora i suoi, quanto più liberamente le
rinfacciano le vergogne di lei.
Nota di GIACOMO fratello di GRISOSTOMO.
j. Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio.

1. Goffredo Augusto Bürger visse dal 1747 al 1794 e fu tra gli autori più popolari di ballate
romantiche o, come dice il Berchet traducendo direttamente la parola tedesca, di romanzi. Questa
parola, proposta dal Berchet, non è prevalsa presso di noi, giacché era già adoperata per indicar
«narrazioni atte a trattenere piacevolmente in prosa o in versi con fatti e soggetti d’invenzione o misti
di storia e d’invenzione». Nel 1856 Casimiro Varese di Vicenza pubblicò la traduzione dei canti
burgheriani col titolo Ballate.
Per il fatto che il Berchet nella Lettera semiseria ha fatto leva sul Bürger, non si deve credere che
in Germania il romanticismo poggiasse fondamentalmente su quella «maniera». È noto il severo
giudizio che dell’arte burgheriana diede Federico Schiller, il quale, pur tenendo conto della popolarità
di quei canti e riconoscendo al Bürger vigore e incisività, stimava non puro il suo gusto e disuguale la
sua forma.
2. Ecco la frase del Voltaire: «… il est certain qu’on ne devrait traduire les poètes qu’en vers»
(Oeuvres, Paris, 1877, t. IX, p. 169).
3. Felice Bellotti, nato a Milano nel 1786, morto nel 1858, tradusse Eschilo, Sofocle, Euripide.
Pubblicò Sofocle nel 1813, e a questa traduzione si riferisce qui il Berchet; Eschilo nel 1821; delle
tragedie di Euripide diede una parte nel 1829 e la traduzione quasi intera dal 1844 al 1851.
Ripubblicò la versione di Sofocle, riveduta e spesso rifatta, nel 1855. Tradusse inoltre, in versi sciolti,
l’Argonautica di Apollonio Rodio, e, in ottave, I Lusiadi del Camoens. Nel secolo XIX fu il
traduttore che più largamente fece conoscere i tragici greci in Italia. Ora son mutati i modi del
tradurre, perché anche questa difficile forma d’arte si rinnova si può dire di età in età
linguisticamente, ritmicamente, esteticamente; ma nella storia dei volgarizzamenti egli è tuttora
giustamente pregiato per la temperanza ed eleganza classica dello stile.
4. Michele Leoni, di Borgo S. Donnino (oggi Fidenza), visse dal 1776 al 1858. Fece un profluvio
di traduzioni, dalle lingue antiche e da quelle straniere; troppe, da Omero a Virgilio, da Ossian allo
Smith, dal Campbell allo Sheridan, dal Pope allo Shakespeare, dallo Schiller al Byron, dal Corneille
al Cuvier; e non si possono tutte enumerare. Bene lo ha definito Paolo Negri, nel saggio
Romanticismo piemontese, lo scapigliato dei traduttori e divulgatori, che tutto cercava di dare in
pasto al pubblico in quel «fermentare e ribollire di nuovi spiriti». Il Di Breme, Madame de Staël, il
Giordani, il Tommaseo lo lodarono; ma il Foscolo disse argutamente che egli traduceva un poeta in
meno tempo che l’autore non ispendesse a correggere il suo manoscritto (Epistolario, Ediz. Naz.,
Firenze, Le Monnier, 1966, vol. VI, p. 314; lettera del 12 marzo 1816). Ad ogni modo i primi nostri
romantici, come appare anche da questa pagina critica del Berchet, ne ebbero stima, e pur avendo
spesso a ridire sopra i suoi modi di tradurre, riconobbero l’onestà de’ suoi intendimenti divulgativi.
Riferirò qui il giudizio dato dalla Staël nella Lettera ai compilatori della Biblioteca Italiana,
perché è stato scritto in quel 1816 tumultuoso e battagliero, al quale ci riconducono gli scritti
principali raccolti in questo volume: «Il sig. Di Breme osserva giustamente nella sua lettera or or
pubblicata quanto sia bizzarro citare i grand’uomini che hanno esistito in Italia per giustificarla di
non più riprodurne al presente [allude al Discorso, vedi pp. 106-107]. Tutta l’Europa sa a mente gli
autori celebri de’ secoli passati, ma ella si affligge ancora della segnalata pigrizia che pesa sulla
letteratura attuale. Almeno si facesse qualche plauso a coloro che studiano di sottrarsene! Un letterato
a Firenze, il signor Leoni, ha fatto studi profondi sulla letteratura inglese, ed ha intrapresa una
traduzione di tutto Shakespeare, poiché, cosa da non credere!, non esiste ancora una traduzione
italiana di questo grand’uomo. Egli traduce di nuovo Milton, ed ha fra i poeti inglesi fatta una scelta
delle più belle odi per naturalizzarle nella lingua de’ suoi concittadini; ma ottiene egli per questo
l’incoraggiamento e la stima che meritano le sue fatiche?».
Le lodi, rivolte al Leoni, abborracciatore di traduzioni, erano dunque dovute all’intenzione di
incoraggiare la sua opera divulgatrice; e purché avvenisse la divulgazione, molti erano disposti a non
guardar pel sottile. Ma in questo caso aveva ragione il Berchet: una traduzione è opera d’arte e deve
avere accento poetico.
Pel giudizio dato dal Borsieri sul Leoni vedi l’articolo che egli nel n. 96 del Conciliatore dedicò
alla commedia I rivali di Riccardo Brinsley Sheridan, tradotta dal Leoni (Firenze, 1819). Le
traduzioni del Leoni dallo Shakespeare, intraprese col Giulio Cesare nel 1811 e pubblicate di volta in
volta presso vari editori in città diverse, furono poi raccolte a Verona nel 1819 e spesso ristampate a
Torino e altrove.
5. La versione dello Shakespeare di Letourneur era apparsa dal 1776 al 1782, in venti volumi. Il
Voltaire e il Laharpe ne dissero male; ma essa ebbe gran diffusione in tutta Europa, perché offerse la
prima volta alle persone colte d’Europa tutto il grande tragico in una lingua più nota di quella inglese.
6. Il Berchet acutamente qui considera la prosa come forma d’arte, ma nega che questa possa
essere trovata nelle biblioteche o foggiata sui vocabolari.
7. Argutissima la distinzione dei critici «scrutinapensieri» e dei critici «scrutinaparole». Prevaleva
ancora in quel tempo nelle trattazioni accademiche, scolastiche, letterarie e spesso giornalistiche una
critica grettamente lessicale e grammaticale, quella del «non si può», informata cioè a un pedantesco
dommatismo linguistico, che aveva il suo codice negli esempi e negli autori citati dal Vocabolario
della Crusca. Il Berchet con queste sue pagine mira a un tempo a un rinnovamento dall’intimo del
linguaggio d’arte e a un rinnovamento della critica, togliendola al dommatismo cruschevole.
8. Il Berchet intende qui dire che il linguaggio della poesia, per la sua stessa intima elevazione e
pel suo accento ritmico, ha una forma più nitida e quasi per natura una parola più scelta che non la
prosa, che ha compagine più distesa e sintassi più sciolta; ma ad un tempo subito riconferma che
anche la prosa dev’essere curata come forma d’arte.
9. È vero: non si potrà chiudere il vocabolario alla lingua italiana, se non quando questa sarà
morta. Ma il pregio dello scrittore non sta nell’irrigidirsi sul vocabolario della Crusca.
10. La lingua italiana è atta a ottime prose; ma è necessario che chi scrive metta a frutto quel che
ha ricevuto, come insegna la parabola dei talenti, narrata nel Vangelo di S. Matteo (XXV, 14-30). Un
padrone, dovendo recarsi in terra lontana, affidò i suoi beni ai servi. A uno diede cinque talenti, a un
altro due, a un altro uno, secondo la capacità che essi avevano. Quel che aveva ricevuto cinque
talenti, con l’opera li portò a dieci; quel che ne aveva ricevuto due, ne guadagnò altri due; ma colui
che ne aveva ricevuto uno, fece un buco in terra e nascose la moneta. Ritornato il padrone, domandò
che cosa avessero fatto. Disse uno dei servi: Signore, mi hai affidato cinque talenti, eccotene altri
cinque che ho guadagnato. E il Signore, lodandolo, lo premiò. (Ait illi dominus eius: Euge, serve
bone et fidelis, quia super pauca fuisti fidelis, super multa te constituam: intra in gaudium domini
tui). Lo stesso fece col servo che, ricevuti due talenti, ne aveva lucrati altri due. Ma quando l’altro
servo gli disse: «… timens abii et abscondi talentum tuum in terra: ecce habes quod tuum est», il
Signore gli rispose: «O servo cattivo e pigro, tu sapevi che io mieto dove non semino e raccolgo dove
non ho sparso… Togliete a lui il talento e datelo a chi ne ha dieci…». E l’inutile servo fu cacciato
fuori nelle tenebre.
Così accade negli studi, nella letteratura, nell’arte.
11. Giovanni Volfango Goethe, il più gran poeta tedesco (17491832), è qui citato specialmente per
le sue ballate. Il Goethe aveva da giovine conosciuto Giov. Goffredo Herder, raccoglitore dei canti di
popolo (Volkslieder); aveva cercato per lui poesie popolari; e su quei modi d’arte aveva egli stesso
scritto liriche sue, originali, potenti. Si avverta che il Berchet qui pone primo il Goethe come poeta;
ma poi sceglie esempi del Bürger per suggestione del Bouterwek.
12. Federico Schiller eccelse specialmente per le tragedie (I masnadieri, 1781; La congiura del
Fiesco, 1783; Cabala e Amore, 1784; Don Carlos, 1787: la trilogia del Wallenstein, 1800; La Vergine
d’Orléans, 1801; La sposa di Messina, 1803; Guglielmo Tell, 1804); ma è poeta anche nelle liriche e
nelle ballate romantiche. Scrisse anche due romanzi: Il Visionario e L’albergatore; opere di estetica:
Della poesia ingenua e sentimentale; Intorno al sublime; Lettere sull’educazione estetica dell’uomo;
opere di storia: la Storia dell’insurrezione dei Paesi Bassi e la Storia della Guerra dei Trent’anni.
Visse dal 1759 al 1805.
13. Il Bürger come poeta è di gran lunga inferiore non solo al Goethe, ma anche allo Schiller. Ad
ogni modo non è un arbitrio del Berchet l’unire il suo nome a quello del Goethe e dello Schiller;
allora quell’avvicinamento, per le liriche, era frequente. Anche il Ridolfi nel Prospetto generale della
letteratura tedesca, Padova, 1818, dice: «Bürger, Goethe, Schiller, Stolberg ed altri ebbero in alcuni
canti lo scopo lodevole di riaccendere l’amore della patria nel petto dei loro nazionali. Da questi
autori si hanno parecchie storielle di ombre al chiaro della luna e simili giocose follie che allettano ed
anco talvolta istruiscono e che potrebbonsi anche considerare come altrettanti apologhi di conio
affatto nuovo».
Il Bürger dovette la fama specialmente alle ballate, ispirate alle immaginazioni delle leggende
popolari; ma in complesso non ebbe altezza lirica superiore, nitore di forma, quella sintesi fantastica,
che fa, per es., di alcuni canti del Goethe, ispirati da leggende, veri capolavori (per es., Il re di Tule).
Così dicasi di un altro libro di liriche del Bürger, che anche allo Schiller nel 1791 parve manchevole
per l’arte.
Il Bürger aveva ricevuto vivo impulso a comporre le sue romanze da una celebre raccolta di
antiche ballate inglesi e scozzesi, che molto piacque anche a Giovanni Goffredo Herder: Reliques of
Ancient English Poetry, apparsa a Londra in tre volumi nel 1765. La raccolta era stata fatta da
Thomas Percy.
14. Der wilde Jäger, pubblicata nel 1786.
15. Lenore, pubblicata nel 1774.
16. La parola «romanzi», nel senso di racconti lirici, di vario metro, su argomenti leggendari e
fantastici, non ebbe fortuna in Italia, dove già era preferita a designare le narrazioni immaginose, in
prosa, di vicende e fatti d’invenzione o di storia insieme e d’invenzione, quali I dolori del giovine
Werther, Le ultime lettere di Jacopo Ortis, i romanzi di Walter Scott. Quei componimenti lirici di
tono popolare in forma narrativa furono detti «ballate romantiche» o «ballate romanze» o, senz’altro,
«romanze»: e quegli aggettivi «romantiche», «romanze», uniti al sostantivo, valsero a distinguere le
nuove ballate da quelle antiche, cioè dalle canzoni a ballo, che si svolgevano con schema metrico
caratteristico: ripresa, fronte e volta. Vedi Sergio Baldi, Sull’origine del significato romantico di
«ballata», negli «Annali della R. Scuola Normale Superiore di Pisa», S. II, vol. X, 1941.
17. La leggenda della Samaritana piacque al Goethe, che l’aveva udita cantare per le vie di Roma.
Egli la giudicò consona allo spirito del nostro popolo e ai principii fondamentali della religione
cattolica.
18. Il Bürger aveva esposto le sue idee su quest’argomento nello scritto Uno sfogo dell’animo sulla
poesia popolare (1776), nelle prefazioni alle due edizioni delle sue poesie (1778 e 1789) e in altri
scritti, polemici ed epistolari. Ma come critico valeva meno che come poeta; ripeteva sempre che la
popolarità si identifica con la nazionalità e che quindi la Musa tedesca dovrebbe trovare il suo ideale
nella poesia del popolo, la quale sentimentalmente e fantasticamente emana dall’intimo del genio
nazionale germanico.
19. Allude al Goethe e allo Schiller, da lui già citati.
20. Le Lezioni di eloquenza, di Ugo Blair, tradotte dal Soave per le scuole. Vedi p. 109. Fu adottato
come testo anche dopo il 1816. Per i giudizi sul Blair vedi C. Calcaterra, Alma Mater Studiorum,
Bologna, Zanichelli, 1949, pp. 280-282.
21. Le Lezioni di eloquenza di A. T. Villa. Vedi p. 281.
22. Edmondo Burke, autore dell’opera Ricerche sull’origine delle nostre idee del sublime e del
bello (1756), della quale era stata pubblicata anonima una traduzione a Milano nel 1804 col titolo:
Ricerche sulla origine delle nostre idee del sublime e del bello con un discorso sopra il gusto e
diverse altre aggiunte.
23. Allude specialmente alle Lettere sull’educazione estetica dell’uomo (1795) e al saggio Sulla
poesia ingenua e sentimentale (1795-96).
24. È Augusto Guglielmo Schlegel, autore del Corso di letteratura drammatica.
25. Il Berchet in quegli anni volgeva con insistenza la mente al problema dell’essenza dell’arte e,
come è noto, nel num. 10 del Conciliatore trattò del significato della parola «estetica» (4 ottobre
1818).
26. Vedi p. 301.
27. Est Deus in nobis, agitante calescimus illo: è un verso di Ovidio, nei Fasti (1. VI, v. 5), e si
suol citare per indicare quel che di arcano e quasi divino ha l’ispirazione poetica.
28. Vedi p. 347.
29. Luigi Camoens, il maggior poeta del Portogallo, autore del poema I Lusiadi (1572), tradotto in
italiano da Felice Bellotti e poi da A. Nervi.
30. Pensiero consimile aveva espresso il Di Breme nel Discorso: «…la natura mette in una sola
classe Omero, Dante, Shakespeare, Sofocle».
31. Secondo una leggenda Omero sarebbe morto nell’isola di Io (Cicladi) e la sua tomba, in una
grotta, era sacra. Di Pindaro narra Arriano in ’Aνάβασις ’Aλεξάνδρoυ (1, 9) che Alessandro Magno
nella distruzione di Tebe volle che fosse risparmiata la casa, che era detta essere stata quella del
poeta.
32. Si richiama al pensiero del Vico che il raziocinare astratto dell’uomo incivilito dissecca la fonte
del sentimento e la fantasia e ottunde il senso della poesia. Ma il Parigino qui descritto non risponde
bene al gran concetto vichiano.
33. L’argomento qui addotto è scelto male. Il Berchet passa sotto silenzio le accese polemiche
svoltesi sul finir del Cinquecento sulla regolarità o irregolarità della Gerusalemme Liberata rispetto
ai grandi esemplari del poema eroico e ai precetti della poetica aristotelica. È però vero che il Tasso
fu uno dei poeti più cari ai romantici. Vedi il saggio di Umberto Bosco, L’uomo-poeta dei romantici,
nel libro Aspetti del romanticismo italiano, Roma, Ediz. Cremonese, 1942.
34. A dir vero, non erano canti spontanei, ma, come oggi tutti sanno, poesia d’arte. Il Berchet,
come altri del suo tempo, accoglieva un giudizio convenzionale. Ma è vero che la poesia dei trovatori
fu una gran fioritura dello spirito lirico romanzo.
35. Avverti in questo punto la consonanza del pensiero del Berchet con quello che aveva esposto il
Di Breme nel suo Discorso, a p. 132, contro le «classificazioni di secoli inarrivabili». Ma il Di Breme
andava romanticamente fino all’esortazione: «inalziamoci a gareggiare con la natura nella stessa
creazione… lanciamoci in quell’immensità, tentiamo animosi le regioni dell’infinito».
36. È la distinzione che aveva fatto A. G. Schlegel nella prima lezione del Corso di letteratura
drammatica, dimostrando che il principio della poesia classica è radicato nel complesso della cultura
morale dei Pagani; il principio della poesia romantica è connaturato alle belle arti dopo l’introduzione
del Cristianesimo. La Staël ripeteva queste idee nell’Allemagne.
37. Nel Paradiso perduto.
38. Con quel «soltanto» il Berchet intende escludere dalla poesia il verseggiare erudito su
argomenti desunti senza impulso di fantasia dai libri antichi e dalla storia lontana; ma implicitamente
riconosce che quando un nome, una memoria del passato rivivono dentro di noi, sono presenti come
cosa nostra, possono ispirar poesia. Infatti anch’egli dirà che le tradizioni, le leggende, la storia
possono essere fonte di poesia. Il poema stesso del Tasso, lodato or ora, riguarda la prima crociata per
la liberazione del santo sepolcro; ed è pieno di poesia, che viene da viva immaginazione.
39. Meglio e più profondamente aveva detto il Di Breme: «… nella natura, in ogni età e per prima
cosa, rispetto all’uomo, v’ha l’uomo… anche tu sei la natura; e sei per di più il suo interprete, il suo
rivale nell’ordine morale, sensitivo, immaginoso; e ciò in tutti i tempi del mondo; e se non vorrai
cantare mai sempre se non gli armenti della Sicilia e lo stretto d’Abido e gli occhi cervieri e Progne e
Filomela e i polmoni di Stentore e le stalle di Augia, invece di dipingere con efficacia, nudi e vivaci
quei fenomeni che si producono in te dagli oggetti di che ella ti ha circondato, e l’armonia loro, non
potrai già dire che tu la imiti, e molto meno potrai dire che tu imiti, che tu traduca te stesso nelle
opere tue. In vista dunque d’imitarla [intendi: allo scopo di imitarla], inalziamoci a gareggiar con lei
nella stessa creazione… Così intende natura di essere imitata». Il Di Breme aveva il concetto della
poesia come creazione. A suo avviso, la natura non poteva essere imitata dall’artista che creando
nell’infinito.
40. Modo di dire, che significa da per tutto, foggiato sulla Bibbia, dove, al cap. 19 del Libro di
Giosuè, si enumerano città e possessi nella terra d’Israele, da Bersabea, che era al sud, a Dan, che era
al nord.
41. Per la confusione delle lingue.
42. «Talmúd» significa lo studio, la dottrina ed è parola adoperata per indicare due diverse
raccolte di testi ebraici: il Talmúd Palestinese o di Gerusalemme, e il Talmúd Babilonese.
Il Talmúd Palestinese è compilazione costituita di due parti: una detta Mishna, del II sec. d. C.,
raccoglie le tradizioni dei più importanti maestri ebrei intorno alla legge mosaica; l’altra, detta
Ghemara (cioè compimento), raccoglie i trattati dottrinali composti dai maestri ebrei dal secolo III d.
C. al VI.
Il Talmúd Babilonese, molto più voluminoso del primo, da esso indipendente, risale alle scuole
giudaiche di Babilonia, le prime delle quali sorsero al principio del III secolo d. C. La redazione del
Talmúd Babilones, incominciata nel secolo IV d. C., fu ultimata nel sec. VI dai Saborei o spiegatori.
43. Diceva la Staël nell’op. La Germania che l’entusiasmo per le arti e la poesia era talora unito in
quella regione a consuetudini volgari nella vita sociale (P. I, cap. 2).
44. È pensiero espresso anche dal Di Breme nel Discorso, nel Grand Commentaire, nelle
Osservazioni al Giaurro tradotto. Confluivano nell’umanitarismo dei nostri primi romantici le idee
filantropiche francesi del Settecento e quelle della filosofia tedesca, quali si erano genericamente
diffuse in quel fermento di spiriti nuovi.
Il nome dello Herder, che si trova negli scritti del Borsieri e del Berchet, attesta che non erano
ignote le sue Idee per una filosofia della storia dell’Umanità ma anche in questo caso i primi nostri
romantici credevano di poter conciliare l’ideologia del Settecento col romanticismo.
45. Nella Satira X del libro I. Ma Orazio voleva dire che nell’arte desiderava il plauso degli
intenditori di buon gusto e non del volgo profano. I romantici, come dimostra anche il Discorso del
Di Breme, avversarono il culto di Orazio, maestro di poetica ai classicheggianti.
46. Qui è il fulcro del pensiero letterario nazionale dei primi romantici: dare all’Italia una nuova
letteratura, che fosse originale e ad un tempo consona a tutte le esigenze dello spirito nel mondo.
47. Il Curato di Monte Atino è figura immaginaria, a cui il Berchet si compiace di attribuire le sue
idee, quelle che più ardono e scottano nell’animo. È una trasfigurazione ideale dell’intimo Berchet
più infocato; e nelle sue parole risuona l’eco di alcune conversazioni con un altro animo non meno
ardente, col Di Breme, di cui aveva ammirato come un atto di coraggio il Discorso intorno
all’ingiustizia di alcuni giudizi letterari italiani.
48. In alcuni punti, il Berchet pare qui riecheggiare le pagine impetuose di Ludovico di Breme
sulla decadenza filosofica e letteraria dell’Italia:
«Siamo accusati di non contribuire per nulla al progresso attuale della filosofia razionale e
morale… Siamo pregati di restringere in numero le nostre cantilene e di estendere invece la poetica
nostra, di ringiovanire un po’ l’estro italiano, di essere noi gli Aristoteli dei tempi nostri… Ci si
rimprovera di non avere peranco adottata la grammatica intellettuale d’Europa… Ci si chiede conto
della direzione utile od inutile o perniciosa che per noi si è data nelle diverse età alla cultura e alla
disciplina delle menti nostre. Inerti siam noi, molli nel culto del vero e del sublime; svogliata è
attualmente l’anima italiana; il tormentoso amor proprio soltanto è desto più che mai. Perciò invece
di drizzare ad alte mire le nostre intenzioni, più comodo ci sembra di magnificare le frivolezze
intorno a cui spendiamo la vita nostra letteraria…». E vedi il resto a pp. 107-112.
La rispondenza del Discorso del Di Breme e di queste pagine della Lettera semiseria è dovuta a
consonanza d’idee sull’argomento qui trattato.
49. Anche nel num. 99 del Conciliatore (12 agosto 1819) il Berchet, parlando della poesia
castigliana da’ primordi di essa fino agli ultimi anni del secolo XIV, dirà: «Col raccomandare la
lettura di poesie comunque straniere non intendiamo mai di suggerire ai poeti d’Italia l’imitazione.
Vogliamo bensì ch’elle servano a dilatare i confini della loro critica».
50. Intendi: le ballate romantiche.
51. Natalis Comes o Natale de’ Conti aveva pubblicato in latino nel Cinquecento Dieci libri di
Mitologia o di esplicazioni delle favole (Mythologiae sive explicationum fabularum libri decem), nei
quali mirava a dare una spiegazione morale degli antichi miti. L’opera aveva fatto testo in Europa
come un’enciclopedia mitologica e ragionata. Il Berchet consiglia di lasciare quel peso di piombo
della letteratura classicistica per accogliere le ispirazioni, che possono venire dalle tradizioni e dalle
opinioni del popolo vivo.
52. Coercitivi.
53. Questo, sotto l’aspetto critico, è il punto più debole della lettera. La forma non è affatto nella
poesia elemento occasionale e secondario, ma è la sua essenza. Come abbiamo detto nelle pagine
introduttive, l’ispirazione poetica è già per se stessa principio formativo interiore. Senza forma non
può esservi poesia.
54. In ultima istanza, svanito il fervore di quelle polemiche e allontanatosi il motivo contingente
per cui il Berchet credette utile richiamarsi all’esempio del Bürger, fu così. Le due ballate
romantiche, Il cacciatore feroce ed Eleonora, non furono sentite come poesie dagli italiani,
specialmente per la forma artistica, alla quale non mancarono critiche vivaci anche in Germania. Il Di
Breme nel Grand Commentane avrebbe preferito che il Berchet avesse dato come esempio «qualche
sublime scena dello Schiller».
55. Giovanni Torti, allievo del Parini, dalla poesia del «Parnasso democratico» e da quella
napoleonica, in cui aveva inneggiato alla libertà e all’Ente supremo, era passato al romanticismo e fu
carissimo ai romantici, che molto lo lodarono, non escluso il Manzoni; ma oggi si può dire con tutta
schiettezza che non fu poeta, sebbene abbia tutta la vita inseguito la poesia. Come romantico, vide
una gran fonte d’ispirazione negli argomenti cristiani; e nell’insistere su questo pensiero, ubbidiva a
un’intima tendenza e persuasione, giacché nell’epistola a G. B. De Cristoforis, Sui Sepolcri di U.
Foscolo e di I. Pindemonte fin dal 1808 aveva detto all’amico zacintio che l’escludere la consolatrice
idea di una vita avvenire rendeva disperata la condizione dei mortali. Il carme, a cui qui accenna il
Berchet, Sulla passione di Cristo, è una libera parafrasi degli esametri sulla Passione, attribuiti a
Lattanzio Firmiano, ma composti da un umanista nel secolo XV. Quando il Berchet scriveva, le
terzine del Torti erano state appena pubblicate; la designazione pertanto, che ne è fatta a questo punto
della Lettera semiseria e che oggi sembra impari al valore poetico del carme, non vuol essere che un
esempio tolto dalla letteratura di quel tempo, anzi dallo stesso 1816.
A giustificare in modo contingente il giudizio qui dato dal Berchet, si ricordi che anche il Monti e
altri lodarono molto quel carme. Il quale fu anche ricordato come «splendido» nel n. 6 del
Conciliatore da G. B. De Cristoforis, allorché recensì il sermone dell’amico Sulla poesia, apparso a
Milano nel 1818.
56. Il metro, cioè la forma del verso, è il ritmo interiore dell’animo del poeta nel momento stesso
della creazione. Anche il ritmo, come la lingua, è anima.
57. L’interlocutore è Ludovico di Breme.
58. Aveva detto il Di Breme nel Discorso: «…che la romantica sia per sé un solenne genere di
letteratura, non è più da porsi in dubbio; resta da desiderarsi tuttavia una più completa e meglio
definita Poetica di esso genere. Io credo che questa sia opera da tentarsi con maggior successo in
Italia che altrove, come lo farò ben tosto sentire». A quest’intendimento, di aggiungere alle poetiche
già esistenti una poetica romantica, si oppone qui recisamente il Berchet. Le ragioni addotte
dall’amico erano così valide, che l’opera non fu scritta. Il Di Breme stesso pensava che la poetica sia
nell’anima, soltanto nell’anima. La miglior poetica era dunque lasciare i poeti liberi da precettistiche.
Per questo pensiero critico il Di Breme rinunciò anche a credere il romanticismo un genere di
letteratura, come appare dalla XXII postilla al Londonio (Polemiche, cit., p. 201) e dalla lettera al
Leoni, pubblicata da Paolo Negri.
Ma il fatto stupefacente è che il Berchet nella lettera stessa di Grisostomo si dimenticò del suo
grido: «Alla malora tutte le poetiche», e verso la fine della lettera, prima della palinodia,
ricapitolando il pensiero in una raccomandazione pratica al figliuolo, finì col tracciare una poetica
romantica per suo uso e consumo. Vedi pag. 477. A questo punto il Di Breme, che amava veder
l’animo del poeta spaziar nell’infinito, avrebbe a sua volta avuto ragione di replicare: «Al diavolo
con le poetiche!».
59. Gli episodi sono narrati dal Cellini stesso nella Vita.
60. A Omàr, secondo califfo dei Musulmani dal 634 al 644, è attribuito l’incendio della grande
biblioteca di Alessandria, perché quei libri erano inutili se non andavano contro la dottrina del
Corano, erano dannosi se contrari.
61. Vedi p. 107.
62. Anche il Baretti aveva detto l’Arte poetica del Menzini un’ampollosa pedanteria.
63. Nel Discorso intorno all’ingiustizia di alcuni giudizi letterari italiani.
64. Ludovico Arborio Gattinara portava il titolo di «Abate di Breme» ed era sacerdote.
65. Questa sfuriata contro le Poetiche è il punto contro cui si volse poi nel 1819 Trussardo
Caleppio nell’Accattabrighe, deridendo la cicala, che «poneva la barba di stoppa ad Aristotele», e
dando evidenza alle parole impure.
66. Vedi pp. 432 e 277.
67. Scosse violenti: dal singolare violente, che spesso si trova nei testi antichi: medicina violente;
veleno violente; smargiasso violente; flutto violente; violente scorre; non vi ha più violente forza di
quella dell’amore. Così si dice: sonnolento e sonnolente; frodolente e frodolento; macilente e
macilento; turbolente e turbolento ecc.
68. La leggenda riguardava certo Hans Von Hackelberg, maestro di caccia del Brunswig, morto nel
1587; ma si colora di tutte le precedenti fantasie demoniache, di cui avevano favoleggiato le credenze
popolari e non popolari.
69. «Nastagio degli Onesti amando una de’ Traversari spende le sue ricchezze senza essere amato.
Vassene pregato da’ suoi a Chiassi: quivi vede cacciare ad un cavaliere una giovane et ucciderla e
divorarla da due cani. Invita i parenti suoi e quella donna amata da lui ad un desinare, la qual vede
questa medesima giovane sbranare, e temendo di simile avvenimento prende per marito Nastagio».
70. Ed era piaciuta meno di altre novelle del Boccaccio. Il Ruscelli l’aveva giudicata «del tutto
impropria e malamente posta» nel Decamerone, perché «esce dal verisimile, ed è del tutto favolosa; e
le novelle in ogni parte vogliono essere tanto simili al vero, che gli ascoltanti come vera istoria la
ricevano negli animi loro». Ciò nondimeno, quella «storia» fu messa in terza rima nel secolo XIX da
due letterati di Romagna, da Paolo Costa di Ravenna e dal faentino Dionigi Strocchi.
71. La Commissione dei Deputati alla correzione del Decamerone nel 1574 aveva detto essere il
fatto di Nastagio tolto dai Flores di Elinando, monaco francese, scrittore assai stimato nel MCC.
Benvenuto da Imola, seguito da molti, l’aveva invece riguardato come realmente avvenuto a
Ravenna. Altri, tra le due opinioni, erano «inclinati a credere che il fatto fosse veramente preso,
quanto alle persone, da Ravenna e il mirabile degli spiriti e de’ cani dal buon monaco Elinando
mentovato dai Deputati». Oggi alle fonti si sogliono aggiungere un esempio dello Specchio di vera
penitenza del Passavanti, una leggenda orientale narrata da Pietro d’Alfonso nella Disciplina
clericalis e, per la scena dei cani nella selva, il c. XIII dell’Inferno.
Ma il Berchet qui considera la storia nel suo complesso per l’argomento e accenna ai Flores di
Elinando soltanto come a un’argomentazione marginale, che meglio confermerebbe essere quella
storia estranea al nostro gusto. In realtà, se ben si guarda, non si tratta in questo caso dell’argomento,
ma della forma; in altre parole la questione può essere fatta soltanto sotto l’aspetto estetico. L’Inferno
di Dante è tutta una visione demoniaca, eppure fantasticamente è un capolavoro, perché il poeta
raggiunge la pienezza della forma. Anche per la novella del Boccaccio e per la ballata del Cacciatore
feroce criticamente si può fare una sola domanda: se nelle due singole opere o episodi la fantasia
raggiunga la pienezza della forma poetica.
72. L’osservazione non è del tutto giusta, giacché, pochi decenni dopo, il romanzo della scrittrice
americana Enrichetta Becher-Stowe, La capanna dello Zio Tom, che fu tradotto in tutte le lingue,
ebbe gran diffusione anche in Italia, proprio per la pietà umana, che era suscitata dalla tratta dei
negri.
73. Nel 1815 il Berchet aveva composto un carme in versi sciolti, I Visconti, con risonanze
foscoliane e cesarottiane; ma non l’aveva pubblicato, perché retorico e mal connesso. Era però vivo
nella sua mente l’argomento.
74. Erasmo da Valvasone, letterato del Cinquecento, traduttore della Tebaide di Stazio in ottave,
autore dei poemi sacri Le lagrime di Maria Maddalena e L’Angeleida, di un altro cavalleresco su
Lancillotto, rimasto incompiuto, e del poema didascalico La Caccia, fu verseggiatore di povera
fantasia. Vedi C. Calcaterra, Il barocco in Arcadia, Bologna, Zanichelli, 1950.
75. Il Rondinetti e il Tiraboschi indicarono come fonte il dramma sacro Adamo di G. B. Andreini
(Milano, 1613) e la critica odierna ha confermato la designazione, sebbene Il Paradiso perduto del
Milton sia artisticamente superiore all’Adamo. Furono inoltre indicate altre opere italiane:
L’Angeleida di Erasmo di Valvasone (in cui è rievocata la caduta di Lucifero); le Sette giornate del
mondo creato di Torquato Tasso; la Strage degli innocenti del Marino; e in tempi più recenti (1845)
fu rintracciato anche un poema del tutto dimenticato di Serafino della Salandra di Cosenza, Adamo
caduto.
76. La novella del Decamerone è qui messa in mala compagnia, perché, in ultima analisi, come
opera d’arte, vale assai più dell’episodio valvasoniano e ha una sua sintesi fantastica.
77. Mons. della Casa era un’altra bestia nera dei romantici. Le orazioni togate, a cui allude il
Berchet, sono quella a Carlo V, quelle per la lega contro Carlo V e quella in lode della Repubblica di
Venezia.
78. Di questa presunzione ridicola parla anche il Di Breme nel Discorso. Vedi p. III.
79. Allude specialmente al Quadrio; ma anche la critica moderna ha riconfermato che le finzioni
mitologiche stridono poste insieme col racconto cristiano. Il poemetto è però in complesso opera di
squisita fattura e anche oggi è tenuto in pregio.
80. Jacopo Sannazaro (1458-1530), autore del racconto pastorale l’Arcadia, in cui si alternano
prose e poesie; delle Eclogae piscatoraie; di Elegie ed Epigrammi in latino; e del poema De partu
Virginis in tre libri, il quale apparve nel 1526, dopo che egli vi aveva lavorato circa vent’anni.
81. Non era tutta invenzione del Bürger, il quale stesso in una lettera del 1773 diceva di aver tratto
ispirazione da un racconto popolare. La leggenda ha avuto molte forme presso popoli diversi.
82. Il Berchet trae questa argomentazione dalla Germania della Staël, la quale in quell’opera aveva
riassunto e lodato le due romanze (II, cap. XIII).
83. Intendi qui romanzieri nel senso di autori di ballate romantiche.
84. La domanda era criticamente impropria e fuorviata, perché in ultima analisi non era questione
di sensibilità religiosa, né di teologia, ma di forma d’arte. Infatti il Monti nel Sermone sulla
Mitologia (1825) designò la romanza Eleonora, tradotta dal Berchet, e in genere «i romantici
spettri», come inconciliabili col nostro senso lirico e artistico, col nostro gusto. La questione
dev’essere riguardata soltanto sotto l’aspetto estetico. Se il Monti, nel frastuono di tante polemiche,
finì col considerare come regno del bello poetico solamente il mondo classico, dopo che nel Bardo
della Selva Nera e in altri canti già si era dimostrato non insensibile alle «nordiche nenie», e quindi
anche in questo campo potè essergli rimproverato un ondeggiamento, che la sua mancata
collaborazione al Conciliatore aveva confermato, d’altra parte è certo che il Berchet, né con gli
esempi proposti né con le considerazioni critiche, di cui li fece argomento, aveva posto nei giusti
termini la questione; e quindi molti ebbero allora ragione di domandarsi se le ballate del Bürger
fossero riuscite come opere d’arte. Alcuni avrebbero preferito esempi dello Schiller; e anche oggi
v’ha chi dice che sarebbero stati più appropriati esempi del Goethe, di cui la ballata Il re di Tule è un
capolavoro. Ma, ciò nonostante, il Berchet ebbe ragione nel sostenere che l’arte, diversa da quella
classica tradizionale, non doveva essere condannata e respinta a priori.
Si ricordi che nel medesimo anno, in cui il Bürger aveva pubblicato la ballata Lenore (1774), il
Goethe compose la ballata Der untreue Knabe (Il garzone infedele), in cui anche si raffigura una
«corsa sfrenata, furiosa, tra gli elementi irati, quasi riecheggianti il tumulto che si agita nell’intimo
del protagonista». Nel mettere a raffronto le due ballate, nelle quali il mondo dei viventi e quello dei
morti vengono in contatto, ben dice G. A. Alfero, pur riconoscendo che nella ballata del Bürger è
punita una bestemmia contro Iddio e in quella del Goethe una colpa tutta umana, la mancata fede a
una fanciulla: «Più fine la ballata goethiana: quella del Bürger ha qualcosa di grottesco e di pauroso:
l’espressione vi è rude e violenta di contrasti, le linee vi sono fortemente marcate, le tinte cupe, il
sapore acre. Tutto è invece più leggero e sfumato nel Goethe… Diversa natura e maggiore
squisitezza lirica nel Goethe» (GOETHE, Le ballate, Torino, Editrice Libraria Italiana, 1939, p. 12). La
questione era dunque di forma; era di arte e non di religione.
85. Su questa erronea raccomandazione, del tutto empirica, vedi quel che è detto nelle pagine
introduttive.
86. Anche in questo punto la considerazione del Berchet è manchevole, perché egli non esamina il
problema estetico della fantasia, la quale, quando raggiunga in un poeta la pienezza della forma, non
ha affatto valore municipale, ma universale
87. Il Filippo dell’Alfieri.
88. Qui il Berchet all’improvviso cambia tono all’epistola. Ma il passaggio è troppo repentino e
perciò dà al lettore l’impressione di uno sbalzo. Il Berchet ad arte capovolge il discorso, per dar con
l’antitesi evidenza alla sensatezza delle idee vive, che ha prima esposte, e al convenzionalismo ottuso
delle opinioni letterarie, di cui si facevano belli i classicheggianti. Quando sia intesa così, la palinodia
di Grisostomo, che vuol essere il rovescio della medaglia, non è senza efficacia. In ultima analisi, il
Berchet scrive al figliuolo: Vedi che cosa i classicheggianti giudicano stramberie. Di’ tu se oggi si
possa ancora ragionare a modo loro; di’ tu dove stiano le ragioni della vita, i diritti della poesia.
89. Era tutto il contrario. Queste ultime pagine sono tutte tessute con tagliente ironia. Crisostomo
si prende spasso dell’albagia e dell’insensibilità dei più ottusi classicheggianti.
90. Accenna al grande rinnovamento filosofico della Germania.
91. Nihil sub sole novum,
nec valet quisquam dicere: Ecce hoc recens est; iam
enim praecessit in saeculis quae fuerunt ante nos.
Ecclesiastes, I, 10.
92. Così dice per irridere i sostenitori irreducibili delle tre unità drammatiche, i quali ritenevano
che l’unità di azione fosse implicita nelle unità di tempo e di luogo ed esse fossero inscindibili.
93. Allude ai Poëticorum libri tres, in cui Gerolamo Vida nel Cinquecento aveva parlato del modo
migliore di educare i giovani agli studi della poesia, della disposizione da dare alla materia epica nei
poemi, sulla scelta delle parole e delle immagini, e aveva dato altre regole.
94. L’ironia qui raggiunge il sarcasmo. Così in alcuni altri punti delle pagine che seguono.
95. Lo Strìmone è il fiume della Tracia, lungo le cui rive Orfeo andava piangendo la perduta
Euridice (VIRGILIO, Georgiche, 1. IV, v. 508).
96. Coupé, carrozza signorile, chiusa e comoda, a quattro ruote, allora molto usata.
97. Il ricordo della battaglia di Waterloo, in cui Napoleone era stato vinto da Wellington e Blücher,
era recentissimo: 18 giugno 1815.
98. È un emistichio dell’Arte poetica di Orazio (v. 361), diventato quasi proverbiale; ed è stato
assunto a significare un’affinità tra la natura della poesia e quella della pittura, che non è affatto
indicata dal contesto. Orazio si era servito della frase per dire che come le opere pittoriche sono
diverse per carattere e valore, così quelle poetiche. Ma l’asserzione, staccata dal contesto, per
significare «la poesia è come la pittura», divenne nella mente di molti giudizio così assoluto, che il
Lessing, nell’opera Laocoonte ossia dei confini della Pittura e della Poesia, credette necessario
dimostrare che tra le due arti vi è una differenza essenziale, perché il pittore coglie un momento della
realtà e lo ferma nella raffigurazione, laddove il poeta rappresenta con più libertà e larghezza la vita
ne’ suoi movimenti, nell’azione, nel suo divenire. Uno dei più insigni assertori che la pittura sia come
una poesia muta era stato nel Settecento il Winckelmann.
99. Ma in questo caso l’errore era degli interpreti, non di Orazio.
100. I giornali di Firenze, ai quali allude, sono le Novelle Letterarie, le quali, prime tra tutti,
avevan assalito la Signora di Staël, e il Giornale di Letteratura e Belle Arti, che contro la Staël e il Di
Breme, suo difensore, aveva stampato la Romanticomania.
I giornali «fuori di Firenze» sono il Corriere delle Dame, lo Spettatore, la Biblioteca Italiana, la
Gazzetta di Milano, che avevano invelenito la polemica.
101. Buttano all’aria i sillogismi sbagliati dei romantici.
102. Accenna alle ingiurie, alle quali era stata fatta segno la signora di Staël.
103. Si ricordi che Davide Bertolotti nell’articolo La gloria italiana vendicata dalle imputazioni
della signora baronessa di Staël-Holstein, pubblicato nello Spettatore di luglio-agosto di quell’anno,
aveva preso a impugnare citazioni tratte dall’opera De la littérature considérée dans ses rapports
avec les institutions sociales, scritta nel 1798 e pubblicata nel 1800, sebbene la scrittrice stessa
avesse detto che il suo animo verso l’Italia e il suo pensiero sugli italiani non erano più quelli che
apparivano in quell’opera, ma quelli espressi nel romanzo Corinna (1807), in cui erano lodi altissime
della patria nostra.
104. Il Di Breme, il Borsieri, ai quali si aggiungeva ora il Berchet, per quel che aveva fatto dire al
curato di Monte Atino (Lilliputi: gli abitanti di Lilliput, che nel romanzo satirico di Gionata Swift, I
viaggi di Gulliver, hanno soltanto sei pollici d’altezza, cioè 30 cm.).
105. Unquanco: mai.
106. Intendi: «sebbene io non ardisca negare (disconsentire: non consentire) di avere, essendo
uomo di piccola levatura, fuorviato di quando in quando, mal mio grado, fra i triboli [dell’ignorante
di lingua], e di sembrar per tal fatto mettere in non cale lui [il Vocabolario della Crusca], benché
nulla di questo fosse».
Grisostomo mette in caricatura il linguaggio degli ultracruscanti, aggrovigliando le congiunzioni
comeché, conciossiaché, avegnadioché, giustapponendo diabolicamente quattro infiniti (calère,
mettere, parere, disconsentire), esumando locuzioni morte (a otta a otta, a ora a ora; tal convenente:
le condizioni che convengono in un fatto e costituiscono il fatto stesso), e invertendo nel modo più
ispido la sintassi. In ispecial modo era preso di mira il Cesari, che dal 1806 aveva veramente messo
maestri, scolari e letterati «pei triboli», anzi in uno spineto, col Vocabolario degli Accademici della
Crusca, cresciuto di assai migliaia di voci (Verona, 1806-1811) e con le Voci, maniere di dire ed
osservazioni di toscani scrittori, e per la maggior parte del Redi (ivi, 1806). A quelle polemiche si
riannodano il celebre dialogo del Monti, Il Capro, il Frullone della Crusca e Giambattista Getti,
apparso nel Poligrafo il 13 giugno 1813 (A. III, n. 34) con note del Lamberti, che provocarono le ire
del Cesari, e i dialoghi successivi, ancora più spassosi, a loro volta, del Monti, Il Trentuno, il
Trentasei, il Quarantasei (ivi, 12 settembre 1813), Il Dottor Quaranzei e il Compare Trenta-prusor-
uno (ivi, 13 febbraio 1814, A. IV, n. 7). Diceva quindi il Monti in una relazione del 15 marzo 1816:
«Il Cesari insozzando di tante voci del tutto morte il vivo fior della lingua sembra non aver avuto
altro divisamento che di ricondurre l’Italia all’infanzia della favella». (Vedi N. ZINGARELLI, V. Monti,
l’Istituto Lombardo e la lingua italiana, in Scritti di varia letteratura, Milano, Hoepli, 1935, p. 510).
Il giudizio tagliente precede di pochi mesi la Lettera semiseria. L’anno dopo il Monti intraprendeva
la pubblicazione della Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca
(Milano, R. Stamperia, 1817-1826), aiutato dal Perticari, da G. Gherardini, dal Peyron, dal Grossi e
da altri.
CARLO GIUSEPPE LONDONIO
Carlo Giuseppe Londonio, nato a Milano nel 1780 da ricca famiglia, fu
letterato di vasta e copiosa cultura, in lui avvivata dai viaggi e dalle assidue
letture, e cittadino di varia, onesta e alacre operosità. Fu detto dal Monti
nella Feroniade (I, vv. 130 e sgg.) «re dell’onore e senno antico». Nel 1804
pubblicò le Succinte osservazioni di un cittadino milanese sui pubblici
spettacoli teatrali della sua patria, nell’occasione dell’apertura del Teatro
Carcano. Con particolare cura si dedicò quindi allo studio dell’economia
politica, e non si restrinse agli autori italiani, ma lesse nella loro lingua le
opere dei principali economisti inglesi e tedeschi. Da questi studi trasse
argomento e materia per il Discorso dei danni derivanti dalle ricchezze, che
apparve nel 1809. Inoltre, di alcuni aspri giudizi dati da A. Guillon nel
Giornale Italiano, scrisse due confutazioni intitolate Osservazioni critiche
sulla Virginia di Vittorio Alfieri e Ricerche intorno alla natura dello stile di
Cesare Beccaria; e nel 1810 pubblicò i Pensieri di un uomo di senso
comune, Osservazioni morali costituite di sentenze derivate e imitate da
quelle del La Rochefoucauld. Si volse pure a opere di storia e, prima che il
Botta pubblicasse la Storia della guerra dell’indipendenza degli Stati Uniti
di America (1809), egli già attendeva alla Storia delle colonie inglesi in
America dalla loro fondazione fino allo stabilimento della loro
indipendenza. La pubblicazione dell’opera del Botta non gli fece dimettere
il disegno di questo lavoro, perché in esso l’argomento non solo era
considerato sotto aspetto più vasto, ma anche era corroborato da notizie e
considerazioni economiche e la trattazione era cronologicamente più
ordinata e più precisa nei fatti. Essa apparve a Milano negli anni 1812-1813
in tre volumi. Alcuni anni dopo, nel 1816, entrò nella battaglia tra
classicheggianti e romantici e pubblicò in opuscolo, pure a Milano, la
Risposta di un Italiano ai due discorsi di Madama di Staël inseriti nella
“Bibl. Ital”.(Milano, Pirotta, 1816) in cui aveva incominciato col
domandarsi se fosse vero che la letteratura italiana fosse sterile; e aveva
risposto che tutta la tradizione stava a dimostrare non la sterilità, ma la
fertilità di essa. Riconosceva che le lettere italiane stavano attraversando un
periodo di stasi; ma molti nomi dimostravano che esse non erano morte in
Italia. Il Londonio passava quindi a esaminare il pensiero della Staël
sull’utilità delle traduzioni e osservava che ogni popolo ha un suo carattere
originale unico e inconfondibile e quindi non può arricchire la sua
letteratura con opere prese in prestito a popoli diversi per carattere,
tradizioni, condizioni di vita, ecc. «Per poter innestare — egli diceva — in
una nazione la letteratura di un’altra, bisognerebbe poterle imprimere lo
stesso carattere e gli stessi costumi, bisognerebbe cangiare il suo cielo, farle
dimenticare il suo clima; e mentre tutto spira intorno a lei brio, letizia,
amore, stampare nella sua mente quei pensieri e quelle immagini, che la
natura ci ispira e ci presenta nell’imponente maestà di sua tristezza».
Soggiungeva poi che le lingue straniere non erano ignote in Italia, come si
asseriva, e che molti erano in grado di conoscere direttamente nella lingua
originale le opere dei grandi scrittori stranieri. Questa era ottima cosa,
giacché Madama stessa ammetteva che «la comunicazione dei pensieri per
mezzo di una traduzione è sempre incompleta» ma osservava che, se la
conoscenza dei capolavori stranieri è utile a tutte le persone colte, sarebbe
dannosissimo che essi venissero imitati, e aggiungeva: «…io non vorrei
neppure che si imitassero, come si fa servilmente da tanti, i nostri classici,
mentre l’imitazione è la tomba del genio». Madama di Staël, la quale
asseriva di volere soltanto che noi conoscessimo autori stranieri, in realtà
voleva che li imitassimo, giacché consigliava di rappresentare i capolavori
francesi. Quest’importazione di opere straniere nei nostri teatri, a giudizio
del Londonio, sarebbe stata dannosissima, poiché «il teatro per essere utile
deve assolutamente essere nazionale, e per nazionale intendo (diceva)
conforme al gusto e ai costumi della propria nazione», e diretto ad
emendare quei difetti e quei vizi che in essa predominano.
Il Londonio criticava quindi le tragedie di Racine, osservando che in esse
vi è sempre qualche cosa che contrasta con i personaggi classici, da esse
evocati, e che fa intuire attraverso le parole degli antichi greci e romani
un’anima schiettamente francese e moderna. Veniva poi a criticare la
tragedia senza unità e con «fusione di generi». Difendeva gli italiani
accusati di cattivo gusto letterario e osservava che essi andavano a teatro
per ascoltare la musica e per parlare di politica negli intervalli. Si dichiarava
però concorde con Madama di Staël nel dare ad altre nazioni il primato
della letteratura filosofica, come era detto nella Risposta ai Compilatori
della «Biblioteca Italiana» e come era comprovato nell’Allemagne. L’anno
seguente il Londonio stampò un opuscolo ancor più ragguardevole e più
ampio, i Cenni critici sulla Poesia romantica. In questi il Londonio, pur
difendendo i classici e la mitologia e le unità drammatiche e avversando
l’accoppiamento del tragico col comico, dimostrava larghezza di mente,
moderazione di giudizio e tendenze conciliative, poiché concludeva voler
esser romantici anche gli Italiani, figli primogeniti della moderna civiltà,
ma romantici avversi ai pregiudizi e alla superstizione, e fedeli all’esempio
e ai precetti dei classici nell’applicazione delle forme dell’arte. Ma alcune
considerazioni del Londonio spiacquero al Di Breme, il quale, come
abbiamo visto, nelle Osservazioni al Giaurro del Byron (pp. 106 e 108)
aveva oppugnato focosamente alcune idee dei Cenni critici sulla Poesia
romantica. Il Londonio non stette cheto e rispose con un’Appendice ai
Cenni critici sulla Poesia romantica. Allora il Di Breme ritorse le critiche,
pubblicando le Postille sull’Appendice ai Cenni critici sulla Poesia
romantica, che qui si ristampano; e ad esse il Londonio replicò con una
Poscritta, nella quale dichiarò esser suo intendimento di non protrarre più
oltre la polemica.
Intanto il Londonio aveva pure atteso a pubblici uffici con molta lode. Fu
membro del Consiglio dei Savi (amministrazione municipale); nel 1816
condusse a buon fine una missione diplomatica per dirimere alcune
controversie tra il ducato di Lucca e la principessa Elisa Bonaparte; nel
medesimo anno e nel 1817 ebbe l’incarico di vegliare alla salute pubblica
durante l’epidemia del tifo petecchiale e tanto bene provvide, che fu
nominato membro per più anni della Commissione centrale di beneficenza.
Ebbe la stima di molti valenti nello stesso campo dei romantici, per es. del
Borsieri e del Berchet, al quale egli, come direttore dei ginnasi, affidò la
traduzione di libri scolastici. Gli furono amici Vincenzo Monti, Giuseppe
Bossi, Felice Bellotti; scrisse di lui lo Stendhal. Morì nel 1845. Vedi F.
AMBROSOLI, Della vita e degli scritti di C. G. Londonio, discorso, 4
dicembre 1845, in Giorn. e Bibliot. dell’Istituto Lombardo, vol. XII, pp. 337
e sgg.; A. MAURI, Notizie su la vita e gli scritti di C. G. Londonio, Milano,
V. Guglielmini, 1845, ripubblicate in Scritti biografici, Firenze, 1894, I, 161
e sgg.; MAZZONI, L’Ottocento, cit., p. 1325, n., e passim.
CENNI CRITICI SULLA POESIA ROMANTICA

PREFAZIONE.

Tutto il giorno si disputa intorno alla poesia romantica; e le opinioni,


invece di avvicinarsi, si fanno sempre più discordi. Letterati e non letterati,
poeti e non poeti, tutti sputano sentenze; e dopo essersi sfiatati e aver
perduta la voce, finiscono a confermarsi sempre più nella propria opinione:
chi prende a vituperare l’Italia, e la chiama barbara e ignorante perché,
fedele all’esempio de’ suoi classici, ricusa di adottare le dottrine della
nuova scuola; e chi invece taccia di prosaica la moderna civilizzazione, e
non trova altra sorgente di poetica ispirazione fuorché nelle vecchie favole
della greca mitologia. In mezzo all’urto di sentimenti tanto discordi,
opportuno divisamento sarebbe quello di analizzare il carattere, gli
elementi, le forme della poesia romantica in confronto della classica, e
fissare per tal guisa il giudizio dell’opinion pubblica in Italia sul merito
d’un genere di poesia che venne finora esaltato e depresso con eguale
parzialità.
I presenti Cenni critici, tuttoché indirizzati a tale scopo, non sono che un
abbozzo ancora informe, e appena indicato, ch’io stesi nell’ozio della
campagna, e che ora abbandono al severo giudizio del pubblico, non avendo
né tempo né coraggio di dargli quello sviluppo che l’importanza del
soggetto richiederebbe; impresa ardua, laboriosa e riservata a chi abbia un
capitale di cognizioni e d’ingegno assai maggiore di quel che ho io; io che
non sono poeta, e che non aspiro tampoco al nome di letterato.
Qualunque però siasi questo mio lavoro, egli non sarà affatto inutile, se
aprendo la via ad un esame più esteso e più profondo dei due generi e dei
due sistemi, contribuirà a preservarci dal cattivo gusto che tenta di innovare
le forme ed alterare lo spirito della nostra letteratura.

CENNI CRITICI SULLA POESIA ROMANTICA


Una nuova dottrina letteraria che tende a rovesciare il sistema finora
seguito in Italia, e consacrato dall’esempio e dalla gloria dei nostri più
insigni poeti; una dottrina che sollecita la nostra approvazione cogli
speciosi titoli di una più fedele imitazione della natura, e d’una stretta
consonanza colle nostre opinioni e coi nostri costumi, merita senza dubbio
di essere accuratamente esaminata, onde abbracciarla se buona, o
proscriverla se fallace. Trattasi di decidere se all’esempio degli antichi
classici debba preferirsi quello di Milton, di Klopstock, di Shakespear, di
Calderon, di Schiller, ecc. e all’autorità di Aristotele, di Longino e d’Orazio
quella del signor Schlegel, di Lessing o di madama De Staël. Nella
soluzione d’un tal quesito, ben lontano dal volermi appoggiare all’autorità
dei classici e delle loro poetiche, io ricorrerò piuttosto talvolta all’esempio e
all’opinione di quegli scrittori stranieri, a cui, per procacciare maggior
riverenza al nuovo sistema, si attribuisce oggidì con esclusiva predilezione
il nome di romantici.
Cosa intendesi per poesia romantica? Questa è la prima domanda che si
affaccia, giacché finora il nome è più conosciuto dell’idea che vi si attacca.
La natura del genere romantico, nel senso che gli si attribuisce oggidì, è
tanto vaga ed incerta, che non è possibile di darne in poche parole una
chiara ed esatta definizione. Se dunque non arriverò a farmi ben
comprendere, potrà valere in mia discolpa l’esempio dei più celebri critici
romantici, i quali, mentre ad una voce ne lodano a cielo l’eccellenza, non
vanno poi d’accordo nel fissarne le precise caratteristiche; e ciò che lascian
desiderare maggiormente nei loro scritti, è una esatta definizione del genere
di poesia che raccomandano alla nostra ammirazione.
È noto come, dopo le replicate irruzioni dei barbari e la caduta
dell’impero d’occidente, la lingua latina, adulterata dall’innesto di nuove
voci e d’una nuova sintassi, diede origine a varie altre lingue, che, sebbene
diversamente modificate, tanto però ritennero della comune origine, che con
comune vocabolo furono chiamate lingue romane. Pare a prima vista che la
stessa linea di demarcazione che segna la divisione tra l’antica
civilizzazione e la moderna, tra la lingua latina e quelle da lei derivate,
dovrebbe egualmente separare in due classi tutta la letteratura, e quindi,
adottando la moderna denominazione, dovrebbe dirsi classica quella dei
Greci e dei Latini, e romantica quella delle nazioni moderne. Ma tale è la
superiorità del genio degli antichi, tale l’attitudine poetica della loro
mitologia, che molti fra i moderni si limitarono a riprodurre con leggiere
modificazioni l’ideale di que’ primi tempi; altri, sebbene abbiano preso per
soggetto delle loro poetiche composizioni l’ideale della nuova
civilizzazione, si attennero però fedelmente alle regole e all’esempio degli
antichi; i tragici francesi e italiani, e alcuni di altre nazioni, benché non
abbiano impresso alle loro tragedie né la forma, né il carattere greco,
tuttavia, come osservatori delle regole sanzionate dall’autorità d’Aristotele,
possono comprendersi nella categoria classica. Seguendo questa
classificazione che, sebbene soggetta a qualche eccezione, è però la più
chiara ed esatta, per romantica vuolsi intendere al dì d’oggi quella poesia
che nell’argomento, nei pensieri, nella forma si scosta affatto
dall’imitazione degli antichi, e si attiene esclusivamente all’ideale dei tempi
moderni. Siccome però questa definizione è insufficiente a far conoscere
l’intima natura della poesia romantica e le caratteristiche essenziali che la
distinguono dalla classica, così gioverà indagarle nella fonte stessa della
ispirazione poetica.
La mitologia greca è, se mi è lecito il dirlo, l’espressione figurata delle
forze fisiche e morali della natura. Posti sotto un cielo ridente, dotati d’una
fervida immaginazione, vivaci e voluttuosi i Greci impressero alla loro
religione il proprio carattere nazionale; essa divenne l’interprete di tutte le
passioni, la sorgente inesausta d’una folla d’idee ingegnose, l’apoteosi degli
eroi, l’espressione allegorica degli arcani dogmi della filosofia. Questa
religione che aveva ispirato il genio degli antichi, perì colla civilizzazione
da lei fondata; e una poesia che s’appoggiava interamente ai dogmi
proscritti del gentilesimo, dovette necessariamente essere avvolta nella
persecuzione de’ suoi sacerdoti e nella distruzione de’ suoi altari. Dopo
essere stata immersa per molti secoli nell’ignoranza e nella barbarie,
l’Europa vide risorgere poco a poco una nuova civilizzazione, e con essa un
nuovo genere di poesia. Ma la religione che regnava vittoriosa sulle rovine
del paganesimo, mal poteva associarsi, nella sua austera purità, a soggetti
amorosi e profani, né fornire ai novelli poeti quella vaghezza di pensieri e
d’immagini che i Greci derivavano dalla loro mitologia. Il soprannaturale
rimase dunque quasi affatto escluso dalla nuova poesia. I trovatori, non
potendo attingere, o per ignoranza o per superstiziosi riguardi, alla copiosa
fonte della greca mitologia, e incapaci d’altronde di crearsene una da sé,
non poterono mai sollevarsi da quelle monotone ripetizioni di sentimenti e
di idee che rende insipide le loro poesie. Il gusto della poesia s’era
propagato dal mezzodì al settentrione dell’Europa; non v’era principe né
cavaliero distinto che non avesse i suoi cantori; non si dava torneo né
banchetto in cui non si facesse sentire la cetra e la voce del trovatore, e
nondimeno in tanta copia di poeti non ne sorse un solo che abbia
tramandato alla posterità una composizione che meriti veramente la nostra
ammirazione.
Noi Italiani avremmo forse nulla da mettere a fronte delle sublimi
produzioni degli antichi, se uomini d’un genio singolare non avessero col
loro esempio fatto rivivere lo studio e il gusto dell’antichità, e arricchendo
la nuova poesia delle idee e delle allegorie della greca mitologia, innestate
in essa con felice ardimento le bizzarre chimere che la frequente
comunicazione coi popoli orientali aveva introdotto nella superstizione
popolare. L’amore, la religione, lo spirito cavalleresco formavano l’ideale
della nuova poesia: essa non aveva in questa parte più nulla di comune
coll’antica; ma il tempo che aveva fatto sorgere una nuova civilizzazione e
creata una nuova sorgente d’entusiasmo, non aveva potuto alterare né
distruggere le leggi invariabili del vero e del bello su cui è basata la poetica
degli antichi. Per tal guisa la nostra poesia, essenzialmente diversa da quella
dei Greci e dei Latini, perché diversa la religione, i costumi, gli avvenimenti
che le fornivano l’argomento, gli affetti, i caratteri, non conservò di comune
con essa che l’uso di alcune immagini, di alcune espressioni figurate, ma,
ciò che più importa, l’osservanza delle regole fondamentali della
composizione.
Se la denominazione romantica dovesse applicarsi indistintamente, come
sembrerebbe naturale, a quella poesia che ci presenta avvenimenti, costumi,
caratteri moderni, non è dubbio che una gran parte della poesia italiana,
epica, lirica e drammatica dovrebbe dirsi romantica. Ma, secondo
l’intendono gli odierni fautori del genere romantico, ben altre sono le
caratteristiche di questa poesia. Uno de’ primi canoni della nuova scuola è
la total proscrizione d’ogni soggetto, d’ogni idea, d’ogni similitudine
derivata dalla greca mitologia. Si rigetta come arbitraria e pedantesca la
legge delle tre unità drammatiche; e purché venga mantenuta l’unità
d’interesse, si lascia il poeta pienamente in balìa di estendere i confini
dell’azione fin dove gli aggrada; finalmente, dove il brio e la voluttà
formano la caratteristica della poesia lirica greca e latina, la romantica è
essenzialmente melanconica e lamentevole; e mentre quella sembra
agognare d’innalzarsi al linguaggio degli dèi, questa, per rendersi popolare
e mettersi a portata dell’intelligenza di tutti, non ischifa di abbassarsi alle
idee del volgo, ai suoi pregiudizi, alla sua superstizione.
Tale è in breve l’essenza del sistema romantico, i di cui odierni fautori,
affine di conciliare maggior riverenza alle proprie dottrine, cercano farsi
forti coll’esempio e coll’autorità di parecchie nazioni, mettendo tutta intera
sotto il vessillo romantico la letteratura spagnuola, inglese e tedesca. Ma
chiunque conosca un tantino la lingua e la letteratura di que’ paesi, sa che
anche l’opposto sistema, quello che distinguesi oggigiorno col nome di
classico, vi ebbe numerosi ed illustri seguaci, e che se una tal contesa
letteraria dovesse decidersi a pluralità di voti, non è ben certo se dappertutto
resterebbe la vittoria ai romantici.
Prescindendo però dall’entrare in questa indagine che mi condurrebbe
troppo lungi, io comincerò dall’esaminare se la proscrizione d’ogni idea,
d’ogni allegoria, d’ogni similitudine desunta dalla greca mitologia sia in se
stessa giusta e ragionevole, e giustificata in fine dall’esempio di quei sommi
poeti su cui si fonda la principal gloria del sistema romantico.
Chiunque abbia una benché leggiera cognizione della letteratura italiana,
non ignora come di frequente i nostri più celebrati poeti siansi fatto lecito di
far uso d’immagini e di espressioni desunte dalla greca mitologia, e certo
sarebbe un’offesa per un lettore italiano il citargli in prova la Divina
Commedia, la Gerusalemme liberata, e quello stesso Orlando furioso che i
più ardenti seguaci del sistema romantico non isdegnano di onorare del loro
particolar favore. Ma per coloro che si appagan meglio degli esempi
stranieri che de’ nostrali, ed onde si conosca non i soli Italiani essersi
arrogato un arbitrio contro cui oggidì si mena tanto romore, gioverà
ricorrere all’esempio di qualche poeta, la di cui autorità non possa essere
contrastata dai romantici. Ecco dunque come Milton dipinge l’imprudente
Eva, quando, sorda ai prieghi e ai consigli del marito, si espone da sola ad
affrontare le insidie del comune nemico:
Thus saying from her husband’s hand her hand
Soft she withdrew, and like a wood Nimph light
Oread or Dryad, or of Delia’s train,
Betook her to the groves, but Delia’s self
In gait surpassed and goddess like deport.
Though not as she with bow and quiver armd
But with such gardning tools as art yet rude,
Guiltless of fire had formd, or Angels brought.
To Pales or Pomona thus adorn’d
Likest she seemd, Pomona when she fled
Vertumnus, or to Ceres in her prime,
Yet Virgin of Proserpina from Jove*.

Ora vediamo come Shakespear non isdegnasse, anche nella semplicità


del dialogo familiare delle sue commedie, di prendere talvolta a prestito
dalla greca mitologia i pensieri e le similitudini. Valgami d’esempio la
prima scena dell’atto quinto del Mercante di Venezia:

LORENZO.
The moon shines bright… In such a night as this,
When the sweet wind did gently kiss the trees
And they did make no noise; in such a night,
Troilus methinks mounted the Trojan walls
And sighd his soul toward the Grecian tents,
Where Cressid lay that night.

JESSICA.
In such a night
Did Thisbe fearfully o’ertrip the dew,
And saw the lion’s shadow ere himself,
And ran dismayd away.

LORENZO.
In such a night
Stood Dido with a willow in her hand
Upon the wild sea-banks, and waved her love
To come again to Carthage.

JESSICA.
In such a night,
Medea gather’d the enchanted herbs
That did renew old Aeson*.

Anche in Schiller scontransi di quando in quando delle similitudini


derivate dalla greca mitologia, come per esempio: — Plötzlich trat eine
Jungfrau wie eine Kriegs Göttin — sie schöpft ins Fass der Danaiden — die
wuth schnaubende Megäre!** Ma più di tutto si notino i seguenti quattro
versi, in cui lo stesso autore espresse probabilmente la propria opinione su
questo proposito:
Die alte Fabelwesen sind nicht mehr,
Das reizende Geschlecht ist ausgewandert.
Doch eine Sprache braucht das Herz, es bringt
Der alte Trieb die alte Namen wieder***.

Io credo che questi pochi esempi possano bastare a provar che quegli
stessi poeti su cui si fonda la principal gloria della scuola romantica, furono
ben lontani dal professare quell’assoluta esclusione di qualunque immagine
od espressione desunta dalla greca mitologia, che oggidì si vorrebbe erigere
in positivo canone del nuovo sistema. Il dilemma è netto netto: o si concede
che si possano introdurre anche nella poesia romantica delle idee, delle
similitudini derivate dall’antica mitologia; o Milton, Shakespear, Schiller,
ecc. non militano sotto la stessa bandiera dei romantici de’ nostri giorni. Ma
anche senza ricorrere all’autorità di questi grand’uomini, è evidente che tale
esclusione è quasi impossibile, mentre molte e molte espressioni
allegoriche, o figurate, desunte dall’antica mitologia, sono talmente
sanzionate dall’uso generale, che per escluderle bisognerebbe mandar
sossopra il nostro vocabolario, e mettere in loro luogo delle lunghe e
snervate parafrasi che non arriverebbero mai a esprimere l’idea coll’egual
forza e precisione.
Se io volessi limitarmi ad appoggiare la mia opinione all’autorità de’ più
celebri poeti romantici, anche in ciò che riguarda la proscrizione di
qualunque argomento desunto dalla storia antica o dalla mitologia, mi
sarebbe egualmente facile di confutare, con un mezzo così comodo e così
pronto, i seguaci della nuova scuola, e tosto mi ricorrerebbero alla mente
Giulio Cesare, Antonio e Cleopatra, Troilo e Cressida di Shakespeare; le
Armi della bellezza ossia il Coriolano di Calderon, l’Ifigenia di Göthe, la
Semele di Schiller, ecc. Ma gioverà meglio combattere le nuove dottrine
colle ragioni che cogli esempi e colle autorità.
Romantico è quel soggetto che si aggira intorno alla storia, alla religione,
ai costumi dei popoli moderni, e certamente non può negarsi che tutto ciò
che si riferisce alle nostre opinioni, agli usi nostri, ad avvenimenti che
hanno avuto o possono avere una diretta influenza sulla nostra patria, deve
interessarci assai più di cose che si riferiscono a’ tempi da noi rimoti, e ad
una religione che è scomparsa dal mondo insieme coi popoli che la
professavano. Ma dal possedere un minor grado d’interesse al non
possederne nessuno v’è una grandissima differenza. Io sono anzi d’avviso
che la preferenza giustamente dovuta alla storia moderna a fronte
dell’anrica debba limitarsi alla storia patria. Storiche, dice il signor
Schlegel, possono chiamarsi, rigorosamente parlando, soltanto quelle
tragedie che si aggirano intorno a’ fatti patri. Difatti se l’interesse vuole
dedursi unicamente dalla relazione in cui trovasi il lettore o lo spettatore col
soggetto della tragedia o dell’epopea, esso non può verificarsi se non per
quegli avvenimenti che concernono direttamente la nostra patria, salvo quei
pochi che hanno un’influenza generale sulla sorte di tutte le nazioni, come
le crociate, la scoperta dell’America e simili. Ammesso questo principio,
che sembrami incontrastabile, è evidente che, fuori di questa duplice ma
troppo ristretta classe, a cui può giustamente accordarsi la preferenza,
diviene del tutto indifferente da qual fonte il poeta derivi il soggetto della
sua composizione, cioè se dalla storia particolare degli altri popoli, o
piuttosto dalla storia greca e romana. Anzi, ove ben si consideri la cosa, si
troverà che, malgrado i secoli e le rivoluzioni che ci separano da un’epoca
tanto rimota e da nazioni che più non esistono, la loro storia presenta un tal
carattere di grandezza, e il loro innalzamento e la loro decadenza ebbero
una influenza così decisiva sulla sorte del mondo, che non possono a meno
di eccitare anche di presente il più vivo interesse. Un celebre poeta
romantico ha riprodotto in una sua tragedia il parricidio di Virginio,
trasformando il decemviro Appio in un piccolo principe di Guastalla, e
Virginia in una timida donzella de’ nostri tempi*. Supposto che il fatto fosse
vero, quell a tragedia avrebbe forse un interesse particolare pei Guastallesi,
rna non in Germania dove appena è nato il nome di quella piccola e oscura
città. Si dirà forse che non è illuogo dell’azione, ma l’azione stessa che deve
interessare e servir d’esempio; sì, ma l’interesse non è egli forse tanto più
vivo, e tanto più utile l’esempio, quanto più grandi ed illustri so no e gli
attori e il luogo dell’azione? L’educazione che abbiamo ricevuto, e non
parlo già soltanto di noi Italiani, rna sibbene di tutti i popoli dell’Europa
civilizzata, ci ha reso familiare la storia dei Greci e dei Romani quanto la
nostra e forse più. È nella prosperità, nella decadenza, nelle sciagure di
queste due famose nazioni dell’antichità, nelle gesta dei grandi uomini
ch’esse hanno prodotto, che noi possiamo attingere utilissime lezioni di
pubblica e privata condotta. E che? si attacca tanta importanza alle
inanimate rovine che ci rimangono delle loro città; dall’ultimo Settentrione
vengono a torme gli stranieri a visitare con sentimento di ammirazione e di
riverenza i miserabili avanzi del Foro e del Campidoglio, e si potrà nello
stesso tempo sostenere che i soggetti desunti dalla storia di que’ popoli
debbano abbandonarsi come non atti a commoverci, ad istruirci, e che più
di Coriolano, di Cesare, di Camillo, di Temistocle, d’Epaminonda, di
Pericle, debbano interessarci le sventure o i delitti di Riccardo III, d’Enrico
VI, di Egmont, di Wallenstein?
Ma la vera caratteristica del genere romantico sta essa unicamente
nell’ideale de’ tempi moderni, o eziandio nell’applicazione di nuove forme
e di nuove regole alla poesia? Rigorosamente parlando, io crederei soltanto
in quella; ma l’opinion comune inclina ad estenderla anche a queste, e
quindi, per esempio, si ascrivono al genere classico l’Atalia, l’Alzira, il
Tancredi, la Congiura dei Pazzi, la Rosmunda, ecc.1, e invece si
comprendono indistintamente nella categoria romantica anche quelle fra le
tragedie di Shakespear, di Calderon, ecc., il di cui soggetto è tratto dalla
storia greca e romana. Adottando per ora questa classificazione, e
prendendo quindi ad esaminare la differenza dei due diversi generi sotto
questo punto di vista, sono necessariamente condotto a dover parlare della
famosa legge delle tre unità, la di cui osservanza o la trascuranza forma la
caratteristica più apparente dei due opposti sistemi*.
Quando si cerca quali sieno le regole fondamentali della tragedia
romantica, si resta maravigliati nel vedere quanto vaghi ed incerti siano i
confini che in essa si prescrivono all’arbitrio del poeta. Le quattro parti del
mondo e l’infinito spazio del tempo sono del pari a sua disposizione, purché
dall’esposizione di quella storia o di quel romanzo dialogato, ch’egli mette
sulla scena, ne derivi un qualche effetto drammatico. La sola delle tre unità
a cui i romantici consentono di assoggettarsi è quella dell’azione; ma il
senso in cui la prendono è tanto lato, che anche in questa parte si arrogano
la stessa licenza come nel resto. Non v’è avvenimento od impresa, per
quanto sia esteso lo spazio di tempo e di luogo da lei abbracciato, che,
considerata nel suo complesso, non abbia la sua unità ma l’unità della
tragedia è ben diversa da quella d’una storia o d’un poema epico. L’epopea,
la storia, il romanzo si limitano a narrarci gli avvenimenti, mentre invece la
tragedia ce li pone sott’occhio, e in virtù dell’illusione ci trasporta sul luogo
dell’azione. Ora dunque, perché questa rappresentazione sia verisimile,
perché lo spettatore possa credersi presente agli avvenimenti che succedono
sulla scena, bisogna che l’azione non esca da quei limiti di tempo e di luogo
in cui è necessariamente ristretta la di lei rappresentazione; bisogna che,
una volta che la mia immaginazione mi ha trasportato sul luogo dell’azione,
la misura del tempo e della distanza rientrino nelle ordinarie leggi della
natura. Si dirà che la legge delle tre unità impedisce al poeta di dare un
esteso sviluppo all’azione e di mettere sulla scena degli avvenimenti che
non possono assoggettarsi a tali restrizioni. Ma perché pretendere di
racchiudere in una tragedia ciò che può formare argomento d’un poema
epico? La difficoltà dell’arte e l’abilità del poeta consistono appunto nel
saper cogliere il vero punto dell’azione in modo, che, senza estendere i
confini della tragedia oltre il verisimile, lo sviluppo finale della catastrofe
metta in evidenza le cause che l’hanno preparata. Alfieri, in uno spazio di
tempo che non oltrepassa ventiquattro ore, e senza ch’io mi scosti dalla
tenda di Saulle, mi fa conoscere l’origine, il mezzo e il fine della luttuosa
catastrofe di quell’infelice regnante, la proscrizione e il ritorno di David, le
affettuose cure di Gionata e di Micol, i raggiri dell’invidioso Abnero,
l’eccidio dei Leviti, la rotta degli Israeliti, e finalmente la disperata morte di
Saulle, che, percosso dall’ira di Dio, non sa sopravvivere alla vergogna
d’una disfatta ed alla perdita de’ figli. Ciò che Alfieri seppe racchiudere in
un quadro così ristretto, un poeta romantico l’avrebbe stemperato in una
storia dialogata, nella quale, seguendo passo passo la serie cronologica
degli avvenimenti, e facendoci passeggiare dall’una all’altra estremità della
terra di Canaan, avrebbe di tanto illanguidito l’effetto dell’azione, quanto
più ne avesse estesi i confini*.
I romantici che si curano sì poco della verisimiglianza nel fissare i limiti
di tempo e di luogo in cui deve racchiudersi l’azione, pretendono di meglio
avvicinarsi nel resto alla verità dell’imitazione, trasportando sul teatro con
una fedeltà scrupolosa le più piccole, come le più sconvenienti circostanze,
dipingendo le passioni e i vizi con una verità che offende talvolta i costumi,
e mettendo bene spesso un buffone accanto a un eroe, ed un becchino in
compagnia d’un re. Da questo mostruoso accoppiamento deve
necessariamente risultare una dissonanza corrispondente nello stile, nei
sentimenti, nel carattere stesso della composizione; e così quella
mescolanza di patetico e di comico, di sublime e di triviale, di poetico e di
prosaico, che a vicenda si succedono nella tragedia romantica. Tutto questo
viene facilmente giustificato col dire che tale appunto si presenta la natura:
ma la natura vuol essere scelta e saviamente imitata, non copiata
servilmente. L’azione che si rappresenta dovendo essere una ed uno
l’interesse che si vuole eccitare, conviene escludere tutto ciò che non tende
a questo unico fine: la moltiplicità dei personaggi ritarda l’andamento
dell’azione, nuoce alla sua semplicità, e fa sì che l’interesse che dovrebbe
concentrarsi tutto nella catastrofe principale, si volga spesso sopra degli
avvenimenti secondari che hanno poco o nessun rapporto con esso. Io non
so cosa ne diranno i romantici; ma pure io non saprei con che meglio
paragonare la tragedia romantica, quanto coi nostri balli
eroicopantomimici: in questi come in quella si riempie la scena di
personaggi estranei al nodo dell’azione, si prodigano gli spettacoli d’ogni
sorta, i combattimenti, i banchetti, le pompe militari e religiose; e quasi che
la natura fosse obbediente all’arbitrio del compositore come i macchinismi
del teatro, non si crede pretender troppo dalla compiacente illusione degli
spettatori, se in men d’un’ora si fa loro passar sotto gli occhi l’intera vita
d’un eroe, e mezza la storia d’un impero.
Tuttavia sarebbe un mentire alla verità e al proprio sentimento, il negare
che parecchie tragedie romantiche posseggano delle bellezze in un grado
eminente, e gareggino talvolta colle più insigni tra le classiche nell’effetto
drammatico. Non per questo però se ne può dedurre un argomento decisivo
in favore del sistema romantico. Diffatti la questione che ora si agita, non è
già se una tragedia, modellata e condotta secondo le arbitrarie norme di
questo sistema, possa avere dell’interesse e produrre effetto, ma bensì se la
legislazione del teatro romantico meriti la preferenza sulla classica.
Qualunque siasi storia o romanzo può interessare e commuovere: a maggior
diritto dunque deve riescir facile di ottenere questo scopo, quando
all’intrinseco interesse del soggetto si aggiunga la magìa teatrale e il rilievo
dell’esposizione drammatica. La licenza introdotta dai romantici rispetto
alle unità di tempo e di luogo, offende la verisimiglianza e distrugge in gran
parte l’illusione; ma né questo né gli altri inconvenienti e difetti che ho
notati nel loro sistema, pregiudicano punto alle bellezze particolari che
possono vantare parecchie di tali tragedie: la poesia dello stile, la verità dei
caratteri, il contrasto delle passioni, la naturalezza dell’intreccio e dello
sviluppo dell’azione possono riscuotere e meritare gli applausi del pubblico,
senza che perciò vengano a togliersi e diminuirsi i difetti radicali del
sistema. Non è dunque dall’esame delle parti prese isolatamente, ma dal
confronto dei due sistemi considerati nel loro complesso, che deve risultare
la preferenza da darsi all’uno o all’altro di essi. Al qual proposito potrebbe
forse tornare opportuno di confrontare il successo rispettivamente ottenuto
dai tragici delle due diverse scuole trattando lo stesso soggetto. Nella
scarsezza degli esempi che se ne presentano, e nella difficoltà di poter
raccogliere il voto della generalità in mezzo alle prevenzioni dettate dallo
spirito di parte e dall’orgoglio nazionale, mi limiterò a citare il Don Filippo
d’Alfieri e il Don Carlos di Federico Schiller, tragedie entrambe
celebratissime, ma in cui si va d’accordo generalmente nell’aggiudicare la
palma al tragico italiano. Su di che piacemi riportare il giudizio d’un
insigne critico, il sig. Sismondo Sismondi, la di cui autorità acquista in
questa parte tanto maggior peso, in quanto che la manifesta sua propensione
al sistema romantico esclude ogni sospetto di parzialità a favore d’Alfieri.
Tel est le Philippe d’Alfieri, qui peint avec une si effrayante vérité la
profonde simulation du monarque espagnol, qui jette un voile lugubre sur
ses conseils et sa politique, et qui le conduit jusqu’à la fin de la pièce sans
lui avoir fait révéler à personne sa secrète pensée. Si nous traitons un jour
de la même manière du théâtre allemand, nous pourrons comparer avec
cette pièce terrible le Don Carlos de Schiller. Le poète allemand a bien
mieux représenté les moeurs de la nations, le temps, les circonstances; MAIS
IL EST RESTÉ FORTAU DESSOUS D’ALFIERI DANS LE CARACTÈRE MÊME DE
PHILIPPE: il l’a dépouillé de toute cette terreur qui tient au sombre et
impénétrable silence dont ce tyran s’enuironnait. C’est un coup de maître
d’Alfieri que d’avoir donné un confident à Philippe auquel il ne dit rien
même au moment où il l’introduit dans ses secrets. Le concert muet de
Gomez, de Léonard et du roi pour le crime excite la plus profonde terreur,
tandis que Schiller a donné à son Philippe de l’ouverture de coeur, qu’il lui
en a donné même pour le marquis de Posa, dont le caractère tout allemand
ne pouvoit jamais s’accorder avec celui du roi*.
Fin qui non ho considerato che una sola delle fonti da cui la poesia
romantica deriva il soggetto e il principio della propria ispirazione, voglio
dire la storia moderna, e questa specialmente in relazione alla tragedia. Mi
resta ora a parlare di un’altra sorgente a cui sogliono frequentemente
attingere i poeti della scuola romantica, e questa è la religione. È la
religione presa nell’augusta sua verità che ha fornito a Klop-stock il
soggetto della Messiade, al Varano l’argomento delle sue Visioni2; ed è la
religione deturpata dalle chimere della superstizione popolare che ispirò la
fervida immaginazione del Calderon e del Bürger.
Quanto alla prima, non è dubbio che essa possa animare mirabilmente
l’estro del poeta. Ma una religione tutta mistica e che parla così poco ai
sensi, una religione che ci richiama continuamente alla mente l’utile
pensiero della nostra fralezza e della vanità delle cose terrene, non può in
verun caso permettere al poeta di oltrepassare i confini che gli sono imposti
da un soggetto così augusto e venerabile. Di là di tali confini la religione
non si presta a fornire né idee né argomento alla profana fantasia del poeta.
Ogni volta ch’ei li voglia varcare è costretto a ricorrere alle chimere della
superstizione. Io non negherò che un meraviglioso di questa specie non sia
un mezzo potentissimo di animare l’immaginazione, sempre che esso trovi
fede presso il popolo, mentre diversamente egli perde ogni efficacia. Fra noi
però dove, grazie a Dio, tali superstiziose chimere hanno perduto ogni
credito fin presso le ultime classi del popolo, qualunque tentativo per farle
rivivere sarebbe altamente da condannarsi. E noi certamente faremmo torto
alla natura che ci ha prodigato i suoi più bei favori, alla natura che ci ha
fatto dono d’un clima così dolce, d’un cielo così ridente, se andassimo a
prendere in prestito dalle altre nazioni un meraviglioso che ripugna
egualmente alla ragione e alla religione, e quel tono lugubre e lamentevole
onde risuona continuamente la cetra dei loro poeti. Ella è una verità
confermata da una costante esperienza, e di cui si trova la spiegazione
negl’intimi rapporti del fisico col morale dell’uomo, che il carattere delle
nazioni dipende in gran parte dal clima che abitano. Coloro che stanno
sepolti due terzi dell’anno nella neve e nel ghiaccio, coloro a cui il sole non
si mostra mai in tutto il fulgore della sua bellezza, sono naturalmente portati
a considerare sotto un aspetto melanconico tutto ciò che li circonda. Gli
abitanti della fredda Caledonia erano, venti secoli sono, dello stesso umore
cupo e melanconico come li vediamo oggidì: le parole escono a stento dalla
semichiusa loro bocca; e se non fossero i generosi vini di Porto e di
Bordeaux, il loro cuore non si aprirebbe alla gioja nemmeno in mezzo alla
festosa esultanza dei conviti. La loro mente si compiace delle idee più
lugubri, perché la morte non è un oggetto di terrore a coloro cui la vita è un
peso. Per introdurre fra noi il gusto di queste romantiche melanconie
bisognerebbe cangiare il nostro carattere, il nostro clima. L’italiano, vivace,
caldo, spiritoso, canta la natura bella e ridente come la vede intorno a sé;
nato sotto un clima che produce la vite, gli aranci, gli ulivi, egli lascia ai
tristi abitatori della fredda Caledonia e delle gelate sponde del Baltico il
cantare i nembi e le procelle, e compiacersi nelle immagini del dolore e nel
pensiero della morte.
L’eloquente autore del Corso di letteratura drammatica paragonò la
poesia romantica all’architettura gotica3, né si saprebbe per avventura
trovare un paragone più giusto e più ingegnoso, poiché entrambe
egualmente ci richiamano quel primo albore della moderna civilizzazione in
cui il genio dell’uomo, privo di norma e di direzione, cercando innalzarsi al
grandioso, al sublime, esciva dai confini del vero e del bello, tanto nelle arti
come nella letteratura. Non si può negare che l’architettura gotica non abbia
un non so che di elegante insieme e di maestoso; ma si dirà perciò che
l’abbazia di Westminster o la chiesa di S. Stefano a Vienna sieno da
preferirsi al Partenone e al Pantheon? No certamente. Dacché cominciò a
diffondersi nelle regioni settentrionali la conoscenza della greca
architettura, andarono dovunque in bando le capricciose proporzioni e i
prodigati ornamenti dell’architettura gotica, per far luogo alle sode ed
eleganti modanature doriche e corintie. Abbia pure dunque le sue particolari
bellezze anche la poesia romantica, non per questo si dovrà rinunziare ad un
sistema più perfetto, più ragionato, più essenzialmente bello, come è il
classico. E se per comune consenso si riconosce l’inarrivabile perfezione
dei capi d’opera lasciatici dai Greci in ogni specie di poesia, si cessi una
volta di andare in cerca di nuove forme, e non si abbandoni il sicuro
esempio di quei primi maestri del mondo, per le incerte e confuse norme dei
moderni legislatori di letteratura.
Che se si prende imparzialmente a indagare come in questi ultimi tempi
siensi levati in tanto grido i poeti di Germania, si troverà che ciò non dèe
attribuirsi, come alcuni pretendono, ad esclusivo merito del sistema
romantico, ma piuttosto alla robusta energia del loro stile, alla leggiadria
delle immagini, alla verità dei caratteri, e più di tutto a quel caldo
sentimento d’amor patrio e di virtù cittadina da cui erano animati. Lunghe e
ingiuriose sciagure avevano ivi fatto risorgere più energico ed animoso il
carattere nazionale, e il popolo si era tanto più fortemente affezionato alle
antiche sue leggi e alle sue opinioni, quanto più le scorgeva in opposizione
con quelle del nemico. Un sentimento generoso e patriotico animò l’estro
dei poeti; e mentre alcuni ebbero ricorso alla possente molla delle opinioni
religiose, altri rizzarono lo stendardo contro il dispotismo e contro gli abusi
del sistema feudale. Per tal guisa il popolo e i poeti cessarono di essere
stranieri vicendevolmente, e la poesia poté arricchirsi dei sentimenti e delle
passioni della moltitudine. Ma mentre è giusto di applaudire a quel nobile
entusiasmo, prima sorgente della loro ispirazione, non si può a meno di
deplorare come uomini di principi tanto generosi e dotati di tanta facoltà
poetica siensi lasciati troppo facilmente trasportare dall’ambizione di vani
applausi a lusingare i pregiudizi e le superstizioni popolari, e che nella
forma e nella tessitura de’ loro componimenti abbiano sagrificato all’incolto
gusto della moltitudine l’osservanza di quelle norme uniche ed invariabili di
cui i Greci ci lasciarono l’esempio nei loro inarrivabili modelli.
E a gran partito s’ingannano coloro che pretendono il poeta debba servire
al gusto e ai pregiudizi della moltitudine, poiché in fatto di arti e di lettere il
popolo non è giudice competente; e in quella guisa che non è atto a
distinguere le bellezze o i difetti d’un quadro o d’una statua, così
egualmente non può giudicare del merito d’una tragedia o d’un poema.
L’uomo volgare che non ha occhio né orecchio esercitato, che non ha
formato il suo gusto sullo studio della natura né sui capi d’opera dell’arte,
non è in grado di distinguere né l’armonia de’ colori, né quella dei versi, né
la bellezza delle forme, né l’espressione di affetti superiori all’ottusa sua
facoltà di sentire. Se dunque, da quanto ho detto più sopra, risulta
necessario che il poeta consulti nella scelta dell’ideale la religione, i
costumi, il carattere del popolo, dèe d’altronde, per le ragioni or ora
addotte, prender norma nel resto dai princìpi dell’arte e dal modo di pensare
della parte migliore e men numerosa della nazione. Il fare altrimenti è lo
stesso che invertere l’ordine naturale delle cose, sottomettere l’opinione dei
savi a quella degl’ignoranti, e fare che la poesia, invece d’essere un mezzo
d’istruzione, promova e diffonda i pregiudizi, l’ignoranza e la
superstizione*.
La più frequente come le più ostinate questioni nascono dalla inesatta
definizione del punto intorno a cui si contende. La voce di alcuni entusiasti
ammiratori della letteratura straniera ci introna continuamente l’orecchio
colla terribile sentenza, essere perduta per l’Italia ogni speranza di gloria
s’ella non si risolve a lanciarsi nella carriera romantica. Che se per poesia
romantica quella si dèe intendere che deriva il soggetto dalla moderna
civilizzazione, che si veste di affetti e di opinioni moderne, che mette in
iscena i costumi, i caratteri, le passioni de’ nostri tempi, noi siam ben lungi
dal volerla escludere dall’Italia, e ci facciam anzi gloria di averla professata
prima che gli stranieri venissero ad apprendercela; la Divina Commedia, la
Gerusalemme Liberata, l’Orlando Furioso e tutti i poemi modellati sullo
stesso genere, le canzoni del Petrarca, gl’inni e molte altre poesie del
magnifico Lorenzo, le odi del Filicaja, e, scendendo fino alla nostra età, i
poemetti del Parini, le cantiche del Monti, parecchie tragedie d’Alfieri, ecc.
attestano in modo solenne che il genere romantico non è nuovo in Italia, e
che anzi non avvi forse paese in cui egli abbia avuto più insigni e fortunati
cultori. Ma se, per conformarsi alle dottrine della nuova scuola romantica, è
d’uopo rinunziare alla facoltà di attingere alla fonte inesauribile della storia
e della mitologia antica, ed abjurare quelle regole e quelle forme di cui gli
antichi ci hanno lasciato l’esempio nei loro inarrivabili capi d’opera; se è
d’uopo vestire la poesia d’immagini e di idee melanconiche e far uso d’un
meraviglioso basato sovra la più screditata superstizione; se è d’uopo
finalmente rinunziare allo studio di quei classici che, attraverso tanti secoli
e tanti rivolgimenti, ci hanno tramandato colle lettere la cognizione dei
princìpi generosi dell’antica civilizzazione, meglio sta all’Italia di
abbandonare tutta intera alle altre nazioni la palma del sistema romantico,
piuttosto che strascinarsi servilmente sulle loro traccie in onta al proprio
carattere, al proprio gusto, e all’esempio in fine di quei grand’uomini che
colle loro opere hanno fissata per sempre la superiorità della poesia italiana
su quella delle altre nazioni*.
Dopo avere esaminata la dottrina della nuova scuola romantica sotto
l’aspetto letterario, mi resta a dire qualche cosa della influenza morale e
dello scopo ch’ella può avere. Trattasi niente meno che di correggere il
mondo e di far rivivere, se fosse possibile, la beata ignoranza e la feroce
anarchia dei tempi della cavalleria. Davvero l’impresa è grande, e degna di
lode, se non altro, la buona intenzione degli odierni riformatori delle lettere
e dei costumi. Ma, sia detto con loro buona pace, Dio ci preservi dal veder
realizzate le loro speranze. Che i nostri costumi abbisognino di emenda, lo
accordo; ma che dobbiamo farci specchio di quei tempi, questo è quello che
non posso concedere. Non v’è volta ch’io miri sulla vetta dei monti i solitari
avanzi di qualche diroccato castello, ch’io non mi senta stringere il cuore e
correre per l’ossa un brivido d’orrore. Quei merli, quelle torri mi
richiamano alla mente quei tempi di barbarie, d’ignoranza, di depravazione
che ora da taluni, nell’esaltazione della poetica loro immaginazione, ci si
dipingono come l’età dell’oro. Bello è il leggere nelle antiche cronache e
nei poemi dei nostri epici le magnanime imprese dei cavalieri erranti; ma
quale barbarie, quale anarchia non suppone necessariamente quello stato di
società in cui la virtù e l’innocenza, mal difese dalle leggi, erano costrette a
porsi sotto la protezione d’un privato! Rimontiamo a quell’epoca sfortunata,
e vedremo l’Europa coperta di lande, di boschi, di paludi; le provincie, le
città, le famiglie stesse divise da odi eterni lacerarsi, distruggersi a vicenda;
nessun commercio, nessuna comunicazione da nazione a nazione; le scienze
e le arti neglette, la giustizia conculcata dalla violenza, la religione
deturpata dalla superstizione; i sovrani mancanti di forza per farsi ubbidire
dai propri vassalli e per proteggere il popolo contro la loro prepotenza; i
baroni sempre in guerra fra loro, e concordi solo nell’opporsi alla volontà
del sovrano e al bene dello stato; il popolo miserabile, avvilito e valutato
quanto le bestie da soma; vedremo l’onore, la vita, le sostanze abbandonate
alla fortuita decisione del duello e della prova del fuoco e dell’acqua
bollente; vedremo l’Europa intiera armarsi più e più volte per togliere dalle
mani degli infedeli i luoghi consacrati dalle più venerande memorie della
nostra religione; e quei campioni della croce, quei modelli di religione, di
virtù, d’onore, deturpare con mille scelleraggini il nome cristiano e perir
vittime della discordia, della slealtà, della dissolutezza. Se tali sono, come
lo sono pur troppo, quei tempi eroici che dalla moderna civilizzazione si
propongono alla nostra ammirazione, ben possiamo felicitarci di vivere in
questo secolo prosaico e in mezzo all’attuale depravazione. Ci rassicuri
però il pensiero che a tanto non potrà mai giungere l’influenza delle nuove
dottrine letterarie da farci retrogradare verso lo stato di barbarie e
d’ignoranza dei bei tempi della cavalleria. Romantici vogliamo esserlo
anche noi italiani, noi figli primogeniti della moderna civilizzazione, noi da
cui ebbe forma e splendore l’ancor rozza poesia de’ trovatori; romantici sì,
ma avversi ai pregiudizi, alla malinconia, alla superstizione; romantici nelle
idee, nelle opinioni, negli affetti, ma fedeli all’esempio e ai precetti dei
classici nell’applicazione delle forme e nelle regole dell’arte.

*
MILTON’S, Paradise lost, Book IX.
Per intelligenza di coloro che non conoscono la lingua inglese, e che non hanno alle mani alcuna
delle traduzioni di questo sommo poeta, mi sono ingegnato di recare questi bei versi in prosa italiana,
e lo stesso ho fatto per gli altri passi di autori inglesi e tedeschi sparsi in questo opuscolo: «Così
dicendo, essa ritira dolcemente la sua mano dalla mano del marito, e simile a una leggiera abitatrice
dei boschi, Oreade o Driade, o ad una delle seguaci di Diana, s’incammina verso i boschetti. All’aria,
al portamento da dea essa avrebbe eclissato la stessa Diana. Arco non aveva con essa, né faretra, ma
uno stromento campestre fabbricato dall’arte ancor rozza e ignara del foco, o che gli angeli stessi le
avevan recato. In tale arnese l’avresti presa per Pale o Pomona, Pomona quando fuggiva innanzi a
Vertunno, o Cerere nella sua giovinezza, prima che amata da Giove divenisse madre di Proserpina».

*
LORENZO. - Chiara splende la luna… In una notte come questa, mentre l’auretta leggera lambisce
dolcemente gli alberi, e non osa susurrar tra le fronde; in una notte come questa, io credo, saliva
Troilo sulle mura di Troia, e l’innamorata anima sospirava verso le tende de’ Greci dove Cressida
giaceva imprigionata.
JESSICA. - In una notte come questa, Tisbe premeva col timoroso piede la rugiadosa erbetta,
quando, vista l’ombra del lione, innanzi a lui fuggì atterrita.
LORENZO. - In una notte come questa, stava l’infelice Didone seduta sulla selvaggia riva del mare,
e con un ramo di salcio avvicinando a sé le onde, sembrava richiamare a Cartagine lo spergiuro
amante.
JESSICA. - In una notte come questa, coglieva Medea le erbe incantate per ringiovanire il vecchio
Esone.
**
Improvvisamente sopravvenne una donzella simile alla dea della guerra — essa attinge acqua
nel secchio delle Danaidi. — Oh Megera sitibonda di vendetta! — Vedasi Die Jungfrau von Orleans,
eine romantische Tragödie von Fried. von Schiller.
***
Gli antichi enti favolosi non son più, la leggiadra loro famiglia è scomparsa; ma il cuore ha
d’uopo d’un linguaggio, e l’antico istinto riconduce gli antichi nomi.
Wallenstein, Ein dramatischer Gedicht von Fried. Schiller. Erst. Theil III Anfzug. IV Auftritt.
*
Emilia Gallotti. Ein Trauerspiel von Gotthold Ephraim Lessing.
*
Il signor Schlegel fa consistere la caratteristica essenziale della tragedia greca nella lotta della
libertà dell’uomo colla forza irresistibile del destino: ma questa caratteristica non può applicarsi alla
tragedia moderna del genere classico, nel confrontarla colla tragedia romantica; confronto che si ha
esclusivamente in vista in questi brevi Cenni.
*
«Der drammatische Dichter ist kein Geschichts Schreiber… die storische Wahrheit ist nicht sein
Zweck, sondern nur das Mittel zu seinem Zwecke; er will uns tauschen und durch die Tauschung
rühren». — LESSING, Hamb. Dramaturgie.
«Il poeta drammatico non è uno storico… la verità storico non è il suo scopo, ma soltanto il mezzo
per arrivarvi: egli vuole illuderci, e coll’illusione farsi strada al nostro cuore»
*
De la littérature du midi de l’Europe, par M. Sismonde Sismondi, Tom. II.
*
«Der gute Schriftsteller, er sei von welcher Gattung er wolle, wenn er nicht bloss schreibt seinen
Witz, seine Gelehrsamkeit zu zeigen, hat immer die Erleuchtesten und Besten seiner Zeit und seines
Landes in Augen, und nur was diese gefallen, was diese ruhren kann, würdiget er zu schreiben. Selbst
der drammatische, wen er sich zu dem Pöbel herablässt, lässt sich nur darum zu ihm herab um ihn zu
erleuchten und zu bessern; nicht aber ihn in seinen Vorurtheilen, ihn in seiner unedeln Denkungsart
zu bestärken». LESSING, Hamb. Dramaturgie.
«Un buono scrittore, di qualunque genere egli siasi, quando non scriva unicamente per far pompa
del suo spirito e del suo sapere, ha sempre in vista la miglior parte e la più illuminata del suo secolo e
del suo paese, e non scrive se non ciò che può piacere a questa e interessarla. Il poeta drammatico
anch’egli, quando si abbassa fino al popolo, lo fa solo affine d’illuminarlo e di renderlo migliore, non
mai per confermarlo ne’ suoi pregiudizi e nel basso suo modo di pensare».
*
L’autore delle Avventure letterarie d’un giorno ha mostrato cortesemente dolersi (p. 90) di non
poter convenire nella mia opinione, perché nella Risposta ai due discorsi della baronessa de Staël,
impressi nella Biblioteca Italiana, dissi che «l’imitazione è la tomba del genio». Siccome è da
credere che, per quanto dicessi su questo proposito, egli non s’indurrebbe a cangiar d’avviso, così
avrò ricorso all’oracolo infallibile di Madama, lusingandomi che ciò basterà a mia difesa e a sua
persuasione: «Le génie est essentiellement créateur, il porte le caractere de l’individu qui le possède.
La nature qui n’a pas voulu que deux feuilles se ressemblassent, a mis encore plus de diversité dans
les âmes, et l’IMITATION EST UNE ESPÈCE DE MORT, puisque elle dépouille chacun de son existence
naturelle». Corinne ou l’Italie, tom. I.

1. Athalie: tragedia di Racine, rappresentata nel 1691; trae l’argomento dalla Bibbia, precisamente
dal Libro dei Re.
Alzire ou les Américains: tragedia di Voltaire, rappresentata nel 1736; è ambientata a Lima al
tempo della prima dominazione spagnola.
Tancrède: tragedia di Voltaire, rappresentata nel 1760; è ambientata a Siracusa nell’undicesimo
secolo.
La congiura de’ Pazzi: tragedia di Alfieri, ideata nel 1777 e pubblicata nel 1789. Si ispira
all’avvenimento storico della Firenze medicea narrato dal Poliziano.
Rosmunda: tragedia di Alfieri, ideata nel 1779 e pubblicata nel 1783. Trae spunto dal famoso
racconto di Paolo Diacono — Rosmunda moglie di Alboino, re dei Longobardi, uccide il marito per
vendicarsi di essere stata costretta a bere nel teschio del padre —. Prima e dopo l’Alfieri altri poeti
europei si ispirarono a questo tema.
2. La Messiade (Messias) è il poema in venti canti in esametri di Friedrich Gottlieb Klopstock, che
ha per argomento la redenzione dell’uomo dal peccato mercé l’incarnazione di Cristo: si apre con gli
avvenimenti della sera successiva all’ingresso di Gesù a Gerusalemme. I primi tre canti apparvero nel
1748 nei «Bremer Beiträge» fu portato a termine nel 1777; nel 1781 apparve l’edizione definitiva.
Le Visioni sacre e morali di Alfonso Varano furono composte fra il 1749 e il 1766. Costituiscono il
II vol. delle Opere poetiche (Parma, Stamperia Reale, 1789). Sono 12 cantiche in terzine, che
rievocano la morte di personaggi illustri — Enrichetta di Borbone, Felicita d’Este, Monsignor
Bonaventura Barberini ecc. — o grandi calamità, quali la peste messinese e il terremoto di Lisbona,
che mostrano i segni della potenza e dell’ira di Dio.
3. «Hemsterhuys fece sulle arti del disegno un’osservazione molto ingegnosa, quando disse che gli
scultori moderni erano troppo pittori, laddove, secondo tutte le apparenze, i pittori antichi erano stati
troppo scultori. Ciò spetta al vero nodo della quistione; poiché, siccome spero di far meglio
comprendere nel progresso, si vedeva appresso degli Antichi il Genio della Scultura presedere a tutte
le arti, doveché quello che inspira i Moderni, è il Genio pittoresco.
Noi cercheremo di rendere questa opposizione più sensibile per mezzo d’un esempio tratto da
un’arte differente. Un genere particolare d’architettura, quello eh’è chiamato (non importa se a buon
diritto) il genere gotico, dominò nel medio evo, e fu portato negli ultimi secoli di quell’epoca al suo
più alto grado di perfezione. Allorché si andò suscitando lo zelo per lo studio dell’Antichità classica,
fu visto divulgarsi il gusto dell’architettura greca; da per tutto si cercò d’imitarla, spesso ancora male
a proposito, e senza aver riguardo alla differenza del clima, delle costumanze e della destinazione
degli edifici: i partigiani di questo genere chiamato a nuova vita rigettavano con disprezzo
l’architettura gotica; la trovavano tetra, barbara, contraria a tutte le regole del gusto. Questa maniera
di vedere potevasi perdonare agl’Italiani; la preferenza per l’architettura antica è ereditaria presso un
popolo il qual vive sotto il medesimo cielo che i Greci ed i Romani, e il quale si gloria di possedere le
ruine de’ loro monumenti; ma gli abitatori delle regioni settentrionali non permetteranno che si tenti
d’indebolire con vane parole la profonda e solenne impressione che sentono entrando sotto le alte
volte d’un tempio gotico, piuttosto si studieranno di spiegare una tale impressione, e di giustificarla.
Di fatto il più piccolo esame dimostra che il merito dell’architettura gotica non consiste solamente
nella meccanica abilità che esige l’esecuzione delle sue parti, ma ch’ella fa testimonio
d’un’immaginazione maravigliosamente robusta e sensitiva ne’ popoli che ne concepirono l’idea; più
la consideri, più ti capaciti del senso religioso e profondo ch’essa racchiude, e più ti vai convincendo
ch’essa forma, in se stessa, un sistema così regolare e così compiuto, come quello dell’architettura
greca.
Veniamo all’applicazione. Il Partenone non è più differente dall’Abbadia di Westminster, o dalla
chiesa di S. Stefano a Vienna, che non sia l’orditura d’una tragedia di Sofocle da quella d’una
composizione di Shakespear» (A. G. SCHLEGEL, Corso di letteratura drammatica, trad. da G.
Gherardini, Napoli, 1859, p. 13).
APPENDICE
AI «CENNI CRITICI SULLA POESIA ROMANTICA»

AVVERTENZA

Poiché piace alla moda, che stende il suo impero sovra ogni cosa, di
dividere tutta la massa dei letterati in due parti, distinte col nome di classica
e di romantica, senza farsi carico delle gradazioni infinite dall’una all’altra
delle due estreme opinioni, rendesi necessario che io indichi quali siano
quei romantici di cui è sì frequente menzione tanto in questo come nel
precedente opuscolo. Coloro che condannano la servile imitazione degli
antichi, ed hanno a nausea l’incessante monotona applicazione delle
allegorie mitologiche ad ogni soggetto e ad ogni pensiero; coloro che
preferiscono gli argomenti analoghi alla nostra civilizzazione, senza però
proscrivere quelli che ci vengono offerti dalla storia e dalla religione degli
antichi; coloro finalmente che desiderano una interpretazione meno rigorosa
delle regole drammatiche, amino o non amino dirsi romantici, io non li
considero miei avversari, ed anzi mi unisco di buon grado a loro per
invocare una più liberale legislazione poetica contro l’arrogante pedanteria.
Io condanno unicamente le opinioni passionate di coloro che giudicano un
inutile balocco la mitologia, trattano da pedanti e da balordi Orazio,
Aristotele, Quintiliano, e credono tanto efficace la naturale ispirazione, da
poter supplire alla mancanza assoluta di norme e di precetti.

APPENDICE
AI «CENNI CRITICI SULLA POESIA ROMANTICA»

Prima d’entrare in materia devo congratularmi coll’illustre autore delle


Osservazioni sul «Giaurro» di lord Byron per la maniera piena di garbo e di
dignità con cui gli piacque di impor silenzio a quelle esilissime voci che
consacrano l’ultimo lor fiato alla nojosa apologia delle cadaveriche
classiche dottrine, e di condannare al meritato ludibrio quegli animi liberali
e puri, quegli ingegni acuti, quegli uomini spassionati, le cui virtù sono
poste già in tanto gloriosa evidenza, dacché non sanno trovare abbastanza
chiare e persuasive le dottrine romantiche da lui spacciate con un’aria così
imponente di magistrale autorità; uomini che si compiacciono
nell’ammirazione delle balorde e nefande fole mitologiche, nella perpetua
contemplazione di quel sovrumano postribolo, di quella celeste suburra, di
quelle interminabili gerarchie di libertini immortali*. Grazie dunque siano
rese al sig. cavaliere che, rivendicando i diritti della morale oltraggiata da
così infami sozzure, si prende tanto pensiero della nostra spirituale
salvezza! Grazie siano rese a lui che ci è maestro ad un tempo di ragion
poetica e di critica spassionata e gentile!
Ognun vede che uno scrittore il quale prende a difendere la propria causa
con tali sussidiari mezzi di persuasione, invita a rispondergli sull’egual tono
e coll’egual misura di moderazione, e a convertire così una disputa
letteraria in un assalto di contumelie. Libero però da ogni rancore e da ogni
spirito di parte, io non terrò conto di queste e di altre espressioni sfuggite
alla sua riflessione in una momentanea irritazione d’amor proprio; e
abbandonando a lui il vantaggio di quest’armi, continuerò ad occuparmi
degli argomenti e non delle persone che vengono in campo a difesa delle
nuove dottrine letterarie. Ché se queste mi risulteranno, come in passato,
vaghe, contraddittorie, assurde, inintelligibili, non sarà però mai ch’io cessi,
per un giusto dovere di reciprocità, di trovar commendevolissimo sotto ogni
altro aspetto questo illustre avversario, che, nel fervore del suo proselitismo,
fu liberale di così spiritose apostrofi a coloro che hanno la disgrazia di non
convenire nelle sue opinioni.
Che il romanticismo, quale almeno ci vien predicato da alcuni suoi
ardenti proseliti in Italia, abbia una tendenza antiliberale e antifilosofica, è
una verità così manifesta, che non ha d’uopo di molte dimostrazioni: basta
dare un’occhiata alle odi del Bürger, di cui, non ha guari, fu fatto dono
all’Italia1, e alla massima parte delle tragedie di Calderon e di Lopez de
Vega, per averne una prova incontrastabile. Quelli che col prestigio della
poesia cercano di rimettere in onore i pregiudizi e la superstizione, non
possono certamente vantarsi di promuovere la civilizzazione e il
perfezionamento dell’umano intelletto. Lungi però da noi il timore che il
romanticismo possa ricondurci la barbarie e l’ignoranza del medio evo: le
sane idee liberali sono tanto diffuse e fortemente radicate, che qualunque
sforzo per estirparle tornerebbe vano e vergognoso a chi lo tentasse. Se il
mio avversario non avesse omesso di riportare le parole del mio opuscolo,
che sieguono immediatamente a quelle da lui citate* ognuno avrebbe veduto
che gratuitamente da lui mi si attribuiscono delle inquietudini che non mi
sono mai sognato di mostrare sull’influenza della poesia romantica. Ma egli
ha trovato più confacente a’ suoi disegni di dare una ridicola applicazione
alle mie espressioni, e di crearsi così la comoda opportunità di quella
vittoriosa recriminazione, in virtù di cui persino i ragazzi devono dar vinta
a lui la causa contro di me.
Prima di proceder oltre, gioverà rintuzzare il rimprovero dato dal sig.
cavaliere ai suoi avversari, di accusare tuttodì la poesia romantica di
nutrirsi esclusivamente di idee melanconiche, perciò appunto che non
vogliono discernere fra il patetico e il lugubre, che è soltanto uno degli
innumerevoli accidenti del patetico. E donde mai arguisce il sig. cavaliere,
che da’ suoi avversari si confonda il patetico col malinconico? Ho detto, e
torno a dire, e dirò sempre, che la poesia romantica si compiace a
preferenza dei soggetti melanconici, e di ciò ne adduco in prova quello
stesso Giaurro in cui egli ravvisa tutti i caratteri di un tal genere di poesia*.
Di fatti vediamo un poco qual sia il soggetto di questo tanto decantato
poema di lord Byron. Un cristiano seduce la donna d’un turco, e il turco la
fa affogare in mare; il cristiano, sottrattosi colla fuga al meritato castigo, si
pone alla testa di alcuni masnadieri per vendicare la morte dell’amata
donna; e colto all’improvviso il nemico in loco solitario ed angusto, gli dà
addosso e l’uccide; il rimorso lo fa ricoverare in un convento di caloceri,
dove, dopo sei anni d’una vita angosciosa, lacerato dal cordoglio e dalla
disperazione, spira nell’impenitenza e nella bestemmia fra le braccia del
confessore. Da questa breve esposizione ognuno potrà riconoscere, se a
ragione o a torto si rimproveri alla poesia romantica di compiacersi nei
soggetti atroci e melanconici: seduzione, affogamento, assassinio, morte
disperata e impenitente, ecco gli elementi morali, edificanti, filosofici di
questo poemetto romantico per eccellenza. Ma per chi non si appagasse di
questo esempio e mettesse in dubbio l’autorità di chi ce lo propone per
modello di poesia romantica, gioverà riferire in prova del mio assunto
l’opinione irrecusabile del più eloquente e del più ingegnoso tra gli apostoli
di questa nuova dottrina letteraria, che quasi nuova torre di Babilonia va
generando la confusione delle idee, peggiore assai della confusione delle
lingue. «Quelques philosophes qui s’accordent d’ailleurs avec nous dans
notre manière d’envisager le génie particulier des modernes, ont cru que le
caractère distinctif de la poésie du Nord étoit la mélancolie; cette opinion, à
la bien entendre, ne s’écarte point de la nôtre…… Lorsque, semblable aux
Hébreux captifs qui couchés sous les saules de Babylone faisoient retentir
de leurs chants plaintifs les rives étrangères, notre âme exilée sur la terre
soupire après sa patrie, quels peuvent être ses accents si ce n’est ceux de la
mélancolie? C’est ainsi que la poésie des anciens était celle de la
jouissance, et que la notre est celle du désir; l’une s’établissoit dans le
présent, l’autre se balance entre les souvenirs du passé et le pressentiment
de l’avenir».*
Ora domanderò io, facendo parentesi, a qualunque imparziale persona,
quale analogia havvi mai tra il carattere della poesia romantica definito dal
sig. Schlegel, e quello del Giaurro di lord Byron, da cui, come dice il sig. di
Breme, spira un voluttuoso e inebbriante olezzo che invade, per così dire,
la fantasia, e te la fa nuotare in quel beato letargo, nel quale immersi quei
molti turbantati aspettano pazientemente di salire in grembo alle loro
houris? Che diremo poi delle romanticissime Fiabe del Gozzi? E non si
avrà a dire che le dottrine romantiche sono una vera torre di Babilonia?**
Vendicato così colle stesse armi dei romantici il rimprovero del sig.
cavaliere relativamente al carattere melanconico della poesia romantica,
passiamo ora ad esaminare, con quella brevità che si conviene, il nuovo
sistema d’educazion poetica da lui proposto, sistema facile, economico e
comodissimo, perché, senza alcun soccorso di libri né di precetti, insegna
tutta la divina arte degli effondimenti poetici. È antichissima questione, se,
a formare un eccellente scrittore, sia egli oratore o poeta, giovi più l’arte o
la natura2: e a parer mio egualmente s’inganna chiunque all’una piuttosto
che all’altra esclusivamente ne attribuisce l’effetto. La natura dà all’uomo il
genio e l’attitudine poetica; ma ove questa non sia soccorsa dall’arte, egli
non potrà mai, nello stato attuale di civilizzazione, venire a capo di nulla di
buono. Diasi un allievo, come lo vuole il sig. di Breme, dotato d’animo
completo e di felice attitudine all’armonia delle sue facoltà lui educhi il suo
condottiero nell’ignoranza di tutti i canoni accademici, e di null’altro si
curi che di esporlo a molta e continua azione dell’onnigena natura, mercé
d’una avvertita ammirazione di essa, e in essa del suo legislatore. Potrà egli
ciò bastare a sviluppare completamente la sua fatidica ispirazione, a
renderlo poeta? Io tengo per fermo di no. La poesia si compone
necessariamente di tre primari elementi: l’invenzione, lo stile e la forma, o,
direm meglio, l’economia della composizione: il primo elemento è il solo
che, fino ad un certo punto, può dirsi dono della natura, giacché dipende in
gran parte da quella ingenita facoltà che dicesi ispirazion poetica; gli altri
due non possono ottenersi se non mediante un lungo e filosofico studio
della propria lingua, e con una continua e ragionata applicazione delle leggi
invariabili del buon senso e della verisimiglianza. La poesia lirica, che si
limita ad esprimere in brevi componimenti l’ispirazione momentanea
dell’entusiasmo, abbisogna meno d’ogni altra del soccorso dell’arte e può
spaziare ardita e corretta da nessun freno nei vastissimi campi
dell’immaginazione: lo stesso non può dirsi né dell’epica, né della
drammatica, né della didattica, nelle quali sorta di componimenti il poeta
deve sempre sottoporre ad una fredda e posata riflessione l’intemperante
effervescenza della propria immaginazione. E in vero, né una tragedia né un
poema epico non s’improvvisano come un sonetto o una canzone; e chi non
vi ha premessi i necessari studi, ed ha per sola scorta la propria fantasia,
avess’egli più attitudine poetica di Omero e di Sofocle, non arriverà certo a
dare una forma tollerabile e capace d’effetto ai suoi pensieri. Oh! la sarebbe
pure la bella cosa il poter fare a meno di studi e di precetti, e il diventare
eccellente scrittore senza fatica e dandosi bel tempo! Ma la cosa procede
ben altrimenti. La natura dà all’uomo l’attitudine e l’ispirazione, e senza di
questa la poesia non riesce che un accozzamento di parole senza calore e
senza vita; ma la naturale disposizione vuol essere sviluppata, soccorsa,
corretta, e l’uomo che la possiede, ha d’uopo d’imparare l’arte di ordinare e
armonizzare i propri pensieri, di scegliere e adattare alle idee le espressioni
più convenienti ed efficaci, l’arte in fine di spiegare e di far sentire agli altri
ciò ch’egli sente entro se stesso; e tutto questo non lo dà già la natura, ma lo
studio diretto da norme sicure e invariabili, poiché, per servirmi delle parole
di Beccaria, «evvi lo stesso artificio a scriver bene come possa esservi a
fare qualunque altra cosa ove si ricerchino i necessari materiali, e meglio
questi si sappiano disporre»*. Che talvolta i grandi ingegni concepiscano
indipendentemente da chicchessia, lo accordo; ma ciò non si verifica se non
in quei tempi che noi chiamiamo eroici, quando l’immaginazione e
l’ingegno conservano tutta l’originaria loro gagliardia. Omero, Ossian e
Mosè appartenevano appunto a questo stato semi-barbaro di società3, e
quindi chi si vale del loro esempio per provare che non v’ha bisogno di
norme e di precetti, non mette a calcolo la cosa più importante e decisiva,
cioè la differenza dei tempi e delle circostanze.
A coloro che giudicano potersi, anche nel presente stato di civilizzazione,
diventar poeta senza norma e senza precetti, e col solo soccorso della
naturale ispirazione, io consiglio di rammentarsi l’esempio del grande
Alfieri, che, già innoltrato in età e pervaso l’animo di vivissimo estro
poetico, pure non arrossì di piegare umilmente il capo davanti alla propria
ignoranza, e mettendosi sotto il pedagogo a studiare e postillare Orazio e i
classici greci e latini, giudicando che quella fosse la sola via di arrivare alla
proposta mèta4. La lettura dell’ingenua vita d’Alfieri potrebbe riuscire di
salutare antidoto a quelle dottrine con cui si va oggidì predicando il
disprezzo delle antiche classiche discipline e una temeraria confidenza nella
efficacia della naturale ispirazione.
Né l’Alfieri solo, ma nessun altro tra i moderni innalzossi a un grado
eminente in nessun genere di poesia, il quale educato non fosse alla scuola
dei classici greci e latini. Fra quanti poeti vantar possa la moderna
letteratura, niuno certamente può agguagliarsi al Dante nel sublime e nella
originalità: e tuttavia non alla spontanea virtù del proprio estro, ma allo
studio di Virgilio egli non esitò di attribuire, se potè giungere tant’alto in
poesia; onde ebbe poi a cantare di lui:

O degli altri poeti onore e lume,


Vagliami il lungo studio e ’l grande amore,
Che m’han fatto cercar lo tuo volume.
Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore,
Tu se’ solo colui da cui io tolsi
Lo bello stile che m’ha fatto onore*.

Ora che direbbe il Dante, quel Dante del cui nome pur vorrebbero i
novelli riformatori del buon gusto illustrare i propri vessilli, che direbbe
egli sentendosi associato a gente che, nell’irritazione del modesto suo amor
proprio, tratta da pedanti Orazio, Aristotele, Quintiliano, e non riconosce
altra norma che la propria fantasia?
— E che, vanno esclamando i romantici, dovrà dunque il mondo stare
eternamente sotto la sferza degli scrittori di poetiche? E chi sono costoro
che vogliono far da maestri a tutto il genere umano? Non sarà mai permesso
di appellarsi dalle badiali sentenze dello stizzoso e beffardo commensale di
Mecenate, di quel cortigiano ed epicureo Orazio, il di cui buon gusto non
poteva guari estendersi oltre l’eleganza e l’elaboratezza dello stile?5 No,
signori miei, no. Questi precetti e queste poetiche, contro cui vi andate
scagliando, non sono un ricettario di aforismi dettati dal capriccio e da una
magistrale pedanteria. Datevi la fatica di confrontarle coi capi d’opera
dell’antichità, e vedrete che esse altro non sono se non la teoria dei princìpi
messi in pratica in quelle da voi chiamate spontanee produzioni del genio;
princìpi appoggiati alle leggi invariabili del buon senso e della
verisimiglianza; princìpi consacrati dal suffragio concorde di tutte le più
colte nazioni, dai bei tempi della Grecia fino ai nostri dì.
Le modificazioni che ha subìto l’umana civilizzazione e l’influenza loro
sul carattere della moderna letteratura non sono tali da cangiare i rapporti
delle cose e le leggi del nostro intimo senno. Le «regole d’Aristotele», è il
romantico Lessing che lo dice, «sono tutte calcolate sul massimo effetto
della tragedia».* Dai tempi d’Aristotele in poi, il cuore umano non ha
cangiato natura, per quanto io sappia: ciò ch’era conforme al buon senso e
alla verisimiglianza a quei dì, lo è ancora adesso; e quei mezzi che
risultarono allora i più opportuni ad ottenere l’illusione e a spingere al più
alto grado l’emozione degli spettatori, non potranno perdere nulla della loro
efficacia, finché il cuore e l’intelletto degli uomini non cangeranno di natura
e di leggi.
— Ma la mitologia, la mitologia poi, gridano i romantici, non è più da
tollerarsi per nessun conto. Che l’antico mondo, fanciullo ancora com’era e
balordo, potesse deliziarsi di questo balocco e trovare in lui una perenne
fonte di immagini e di pensieri, ciò non dèe recar meraviglia; ma noi, noi
abbiamo ereditate di troppe riflessioni e di troppi convincimenti:
intendiamo e scerniamo troppe cose a quest’ora, perché nelle nostre facoltà
siano compatibili insieme e contemporanei questi due effetti, l’intuizione
logica e il prestigio favoloso6. Con questo raziocinio sembra che il sig.
cavaliere, non avvertendo in quel punto che all’intuizione logica ripugnano
egualmente le invenzioni della mitologia come le superstiziose fole dei
tempi moderni, abbia voluto toglier di mezzo ogni dubbio sull’efficacia
poetica della mitologia; ma sia che una più posata riflessione gli abbia
destato qualche rimorso in questa sentenza capitale da lui pronunziata nel
primo articolo, sia che, troppo sollecito di accumulare argomenti sovra
argomenti, egli non siasi poi curato di riflettere che la contradizione in cui
questi cadevano fra di loro, ne distruggeva a vicenda la forza, egli salta in
campo, nel suo secondo articolo, col seguente dilemma: O l’arte poetica
derivata dalla fonte mitologica ha ormai perduto la sua efficacia, e le
impressioni sue non serbano più influsso veruno sopra gli animi; e allora
dirò che di ciò appunto van lamentandosi quelli che hanno la poesia
mitologica per un inutile balocco e che vedono distrutto questo già
splendido espediente di nobili piaceri e di sociali sentimenti; o invece ella
produce tuttavia delle forti commozioni, e atteggia tuttavia le nostre
fantasie, e riverbera sui nostri costumi; e in quel caso decida l’uomo
assennato quali siano più da promuoversi o invece da temersi, se quegli
influssi che tornano dai fasti cristiani e dagli espedienti psicologici e
naturali, ovvero quelli che emergeranno dagli esempi di Giove con
Ganimede, di Ercole colle Tespiadi, di Teseo in favore dell’amico Piritoo7.
Alla prima parte di questo fulminante dilemma credo aver già
preventivamente risposto nell’antecedente mio opuscolo, ove provai che a
questa fonte non isdegnarono di attingere anche i pretesi fondatori della
poesia romantica, Milton, Shakespear, Calderon, Schiller, ecc.*, e ciò basta
per dimostrare; che quell’espediente poetico che poté infiammare que’
nobili ingegni, e che infiamma tuttora la fervida mente del primo tra i poeti
viventi, Vincenzo Monti, di Foscolo, di pindemonte, d’Arici8, ecc., non può
tacciarsi di aver perduta la sua efficacia. Quanto poi alla seconda parte del
dilemma, sta pure scritto, ne’ miei Cenni critici9, che gli argomenti derivati
dalla storia patria o dalla religione presa nella sua augusta verità meritano la
preferenza sui mitologici; non per questo però doversi escludere gli ultimi,
tanto più che gli argomenti desunti dalla religione è mestieri usarli con
parsimonia e circospezione, né mescerli inconsideratamente a soggetti
frivoli, profani, amorosi. Affatto poi fuor di luogo va intessendo il sig.
cavaliere una pomposa enumerazione delle oscenità della greca mitologia,
giacché chi fosse vago di andare in traccia di simili turpitudini, potrebbe
trovarne dappertutto in abbondanza. Fortunatamente però si può far uso
della mitologia senza ricorrere a ciò che vi si trova di immorale e di
impudico, senza innalzarsi al sublime ideale dello stupro, dell’incesto, della
rapina, dell’empietà fra gli stessi numi10. Benché l’educazione poetica sia
stata finora fondata principalmente sulle dottrine mitologiche, non ne è però
derivato quel contagio di immoralità e di libertinaggio che si teme dal sig.
cavaliere. Si tranquillizzi egli dunque, che, senza gettare al fuoco i classici
greci e latini, e senza cancellare dalle tele e dalle pareti i dipinti di Tiziano,
di Correggio, de’ Caracci, ecc., il mondo non diverrà per ciò una nuova
Sodoma né una nuova Gomorra.
Il sistema che dai romantici si contrappone al mitologico, quello cioè di
dar senso ad ogni cosa, e di riconoscer vita sotto tutte le forme possibili, per
due motivi specialmente risulta assai meno conveniente e meno
immaginoso: primo perché la mitologia non solamente dà vita ai corpi
inanimati, ma personifica eziandio le qualità e le forze morali della natura,
ciò che quello non fa; in secondo luogo perché assai più efficace riesce
l’appropriare agli esseri inanimati le forme e le facoltà dell’uomo, di quel
che il conceder loro una vita ed un senso che contrasta colla inerte e muta
loro configurazione. Uno de’ più belli episodi della Lusiade, l’apparizione
del Capo delle tempeste a Vasco di Gama sotto la sembianza d’un immenso
gigante che, sollevandosi dal mare, tocca le nubi colla sua testa11, non
sarebbe stato combinabile col sistema romantico; ed un masso informe e
senza moto, benché dotato di vita e di senso, non avrebbe presentato al
Camoens né l’occasione d’un pensiero così poetico, né i colori d’una
immagine tanto espressiva.
Ma per venire alla conclusione, ben a torto si lagnano taluni che la
questione non sia stata svolta finora in un modo veramente luminoso. Come
mai di fatti ridurre ad una tesi semplice e chiara un sistema che non ha una
base positiva e determinata? Si facciano innanzi i signori romantici, e
comincino dal darci una definizione chiara e precisa del loro sistema, poi
passo passo ce ne additino i princìpi, le leggi, i confini: allora si potrà far
prova di ragioni, e il pubblico imparziale deciderà se le nuove dottrine siano
frutto della perfettibilità dell’umano ingegno, o piuttosto di quella irrequieta
smania di emergere dall’oscurità, che fa tentare una nuova e più comoda via
a coloro che disperano di farsi avanti sulle difficili e faticose tracce degli
antichi. Finché dunque i signori romantici non sapranno opporre alle
interrogazioni dei loro avversari se non risposte vaghe, contraddittorie,
astruse, indeterminate, incomprensibili, sarà permesso di ritenere che il
vantato loro sistema si risolve in una indefinita licenza, tanto
nell’invenzione come nella condotta, e che null’altro ha di positivo se non
che di escludere la greca mitologia per poi abbracciare qualunque più
assurda chimera desunta dalle favolose religioni del Nord e dell’Oriente.
Chi bramasse un saggio dell’evidenza delle dottrine romantiche, legga e
mediti il seguente passo, cavato dalle «Osservazioni sul Giaurro di lord
Byron»: Ora la poesia moderna, che altri chiama romantica, siegue con
predilezione questo sistema vitale (quello, intende l’autore, che attribuisce
senso ad ogni cosa e riconosce vita sotto tutte le forme possibili) da me
finor contrapposto al mitologico, e perciò io parlai tantosto di idee
poeticamente analoghe, perché questa ragion poetica si compone di tutte
sue analogie, che non son già quelle né della metafisica rigorosa, né della
storia naturale, né delle scienze matematiche. L’universo poetico è un tutto
governato da queste leggi di analogia: il capirle non è dato a chi non le
sente, il sentirle profondamente è proprio soltanto di quegli animi generosi
e delicati che diconsi e sono poeti. Intanto chi non le sente, le crede pazzia
… Aggiungerò ancora, che questo mondo di analogie concedute all’uomo
di provare, non si potendo, per grazia di Dio, registrare in tutti gli accidenti
suoi come i fisici fanno dei fenomeni materiali, e come i precettisti han
gusto che si faccia delle maniere poetiche, così egli è per sé una cosa molto
indefinita, vaga e sfuggevole; e chi piglia errore e scambia le leggi vere di
questa organizzazione ideale con altre arbitrarie, e ti presenta false
analogie, colui manca il suo effetto in té coi suoi versi*.
Ora intenda chi può «questo mondo di analogie concedute all’uomo di
provare che, per grazia di Dio, non si lascia registrare in tutti gli accidenti
suoi», ed è, anche a giudizio dell’autore, «una cosa molto indefinita, vaga e
sfuggevole». Quanto a me, confesso, senza arrossire, di essere nella classe
innumerevole di coloro che non intendono niente affatto di tutto ciò. E
siccome porto opinione che non si possa ragionevolmente disputare intorno
alle parole, se prima non si è d’accordo nel fissarne il significato; così credo
che di questa ragion poetica del signor cavaliere sarà meglio aspettare a
discorrerne estesamente fino a che piaccia al cielo di dare a lui il dono di
spiegarsi più chiaro, o a noi balordi quello di poterlo intendere.
[Nell’esemplare della Biblioteca di Brera, che contiene, rilegati in un solo volume, i tre opuscoli: i
Cenni critici e l’Appendice del Londonio e le Postille sull’Appendice del Di Breme, tutti stampati dal
Pirotta nel 1817 e 18, colla stessa carta e nello stesso formato in-8°, si trova, in fine al volume, un
foglio della stessa carta e formato colla seguente: ]

POSCRITTA ALL’APPENDICE AI CENNI CRITICI


SULLA POESIA ROMANTICA.

L’autore dichiara di rinunziare a qualunque diritto di recriminazione


contro le Postille fatte dal sig. cavaliere Lodovico di Breme alla presente
Appendice, perché tali da meritare sotto nessun aspetto l’onore di una
risposta.
C. G. LONDONIO.

Milano, 15 marzo 1818.


* Le parole in corsivo sono tutte ricopiate dalle Osservazioni sul «Giaurro» di lord Byron, inserite
nei quaderni XI e XII dello «Spettatore Italiano».
* «Ci rassecuri però il pensiero che a tanto non potrà mai giungere l’influenza delle nuove dottrine
letterarie da farci retrogradare verso lo stato di barbarie e d’ignoranza dei bei tempi della cavalleria».
Cenni critici sulla poesia romantica, p. 61 [p. 514 della presente edizione].
* «Il soggetto, la condotta, i costumi, le passioni, l’ideale di questa composizione la caratterizzano
di quella specie appunto di poesia contra cui si scagliano con caloroso risentimento e con freddi
argomenti quelle persone le quali hanno le regole antiche per troppo più importanti che non Yeffetto
presente, le quali chiaman regole la consuetudine, e che nelle stesse consuetudini confondono tuttodì
quelle della natura con quelle degli artifizi e delle scuole». Osservazioni sul «Giaurro» di lord Byron,
«Spettatore», n. XI, p. 50 [p. 193 della presente edizione].
Come poi questo si possa combinare con quello che dice il sig. cavaliere nella nota posta al
principio del secondo articolo sullo stesso poema («Spettatore» n. XII, p. 113) [p. 207 della presente
edizione], cioè di non aver inteso di proporlo a modello di poesia romantica, io noi so, e prego
qualcuno a chiarirmelo.
* Cours de littérature dramat., par A. W. Schlegel, tom. I.
** Alcuni pretendono segnare una esatta linea di demarcazione tra i due generi di poesia, col dire
che la classica mira a dilettare l’immaginazione, e la romantica a toccare il cuore. Questa definizione
non regge. E difatti la poesia classica non si limita ad un sol genere di argomenti e di espressione:
essa veste tutti i caratteri e prende tutti i toni; e, secondo il soggetto che tratta, è ora seria, ora
giocosa, ora voluttuosa e vivace, ora patetica e grave, ora dolente e melanconica. Se dunque la poesia
romantica tende costantemente al patetico,
o piuttosto al melanconico, ciò è quanto dire che essa si limita a considerar la natura sotto un solo
aspetto, come quei pittori che non ti sanno dipingere il mare se non in burrasca, né il cielo se non
carico di nubi e strisciato da fulmini: non si può quindi giustamente fissare per distintivo esclusivo
della poesia romantica un carattere che essa ha bene spesso comune colla classica, sebbene questa
abbracci tutti i generi e consideri la natura sotto tutti gli aspetti possibili. La conseguenza di tutto ciò
si è che la vera differenza fra la poesia classica e la romantica sta nella forma, giacché un romantico
ed un classico possono bene combinarsi nello scegliere lo stesso argomento, ma nella condotta e nella
economia della composizione non mai.
* Ricerche sulla natura dello stile.
* Divina Commedia, Inferno, canto I.
* LESSING, Hamburg. Dramaturgie.
* Schiller non limitossi a giovarsi della mitologia in qualche sua composizione drammatica, ma
prese da essa l’argomento d’una gran parte della sua poesia lirica. Del resto non è fuor di luogo
l’osservare di passaggio, che parecchi di quelli che ora van gridando all’anatema contro chi si fa
lecito di ricorrere alla fonte mitologica, invocavano, non ha guari, devotamente nei loro versi Apollo,
le Muse, Amore, Venere, Minerva, e tutte quante le divinità dell’Olimpo.
* «Spettatore Italiano», n. XI, p. 58 [p. 206 della presente edizione].

1. Allude alla traduzione in prosa del Cacciatore feroce e della Eleonora che accompagnavano la
Lettera semiseria del Berchet (Milano, Bernardoni, 1816).
2. Per es., Orazio poneva l’interrogativo e lo risolveva in un atteggiamento di equilibrata
composizione del dilemma: «Natura fieret laudabile carmen an arte / quaesitum est: ego nec studium
sine divite vena / nec rude quid prosit video ingenium; alterius sic / altera poscit opem res et coniurat
amice» (Ars poetica, vv. 408-411). Per i dibattiti suscitati da questo e da simili problemi si veda
l’agile profilo di V. Florescu, La retorica nel suo sviluppo storico (trad. it., Bologna, 1971).
3. Il Londonio distingueva una poesia primitiva, eroica, da una poesia delle età colte; egli inoltre
credeva alla originalità e all’antichità dei poemi ossianici, che la critica avrebbe poi mostrato essere
un libero rifacimento dovuto al Macpherson (1736-1796) di tradizionali canti gaelici.
4. Lo racconta lo stesso Alfieri nella Vita (Epoca IV, cap. II).
5. Sono considerazioni che si leggono nell’articolo del Di Breme sul Giaurro.
6. DI BREME, Il Giaurro.
7. DI BREME, Il Giaurro.
8. Cesare Arici (Brescia 1782-1836) fu poeta in fondo eclettico. Nella controversia fra i classici e i
romantici si schierò con i primi. I suoi poemi didascalici, La coltivazione degli ulivi, La Pastorizia, si
ispirano a Virgilio. Nel 1815 apparvero gli Inni di Bacchilide, presentati come tradotti dal greco. In
altre composizioni indulse a una sensibilità romantica. Le sue Opere complete apparvero a Padova
nel 1856-58 in 4 volumi.
9. Vedi p. 501.
10. DI BREME, Il Giaurro, articolo secondo.
11. Nel canto V del poema.
POSTILLE DI LODOVICO DI BREME
SULL’APPENDICE
AI «CENNI CRITICI SULLA POESIA ROMANTICA»
DEL SIGNOR G. C. LONDONIO.
Vous avez fait croire aux gens sensés qu’on pouvait ne pas
bien juger du livre, quand on jugeait si mal de l’auteur.
J.-J. ROUSSEAU, Lett. à M. de Beaumont

AVVERTENZA

Il sig. Londonio nell’ Appendice ai suoi Cenni critici sulla poesia


romantica si fa lecito un continuo travisamento delle mie Osservazioni
intorno al Giaurro di Milord Byron: presume di leggere nelle mie intenzioni,
ed, invocata per Musa l’acrimoniosa Ironia, amaramente corrisponde al
circospetto tenore da me serbato nel rilevare le prette e gratuite sue
provocazioni.Eppure io non aveva omesso di attentamente distinguere e
isolare l’autore dei Cenni critici, da quanti prima e dopo la pubblicazione
di quello scritto suo cran venuti meco a tenzone aperta o tenebrosa, diretta
od allusiva, letteraria o personale; ma il sig. Londonio non ha curato
questa mia precauzione e si accomuna con essi, e tutto ciò ch’io dico di
generico1 egli se lo attribuisce e si viene aggiustando così nelcospetto
altrui un pretesto di reazione. Guai se quest’uomo fosse capace di rancore,
invece ch’ei n’è libero!
A me tocca ora di provare, e onoratamente proverò con una serie di
postille, che in tutti quei luoghi dell’Appendice, dove il signor Londonio si
argomentò di confutarmi, egli non mi ha inteso, sia che non volesse
intendermi, ovvero che una qualche nuvoletta di sua, o di ausiliare passione
altrui offuscasse a lui la vista. Che ove lo scrittor dell’ Appendice tentò di
purgare se stesso dalla taccia di provocatore, egli non giunse al suo scopo
che col soccorso di arti sleali, volgari e non degne di un uomo qual io mi
figurava (e non cesserò peranco di credere che sia) l’ Avversario mio,
giacch’egli per avversario mi si dichiara. — Almeno sia ringraziato Iddio
(o Giove, se meglio piace al signor Londonio) che tale mi sia toccato, col
quale non è disonore il combattere.
Giudici del vicendevole nostro procedere chiamo i lettori spassionati, se
ci ha di quelli, intelligenti e più amici della equità che dell’avversario mio,
o di me. — Il signor Londonio promette fin dalla pagina 9 di mostrarsi
libero da rancore: io farò più che prometterlo: sono e mi serberò tale.

1. Cioè per tutti i classicheggianti ad oltranza.


POSTILLA I.

Il signor Londonio asserisce ch’io abbia trattato da pedanti e da balordi


Orazio, Aristotele, Quintiliano. Asserisce ch’io creda tanto efficace la
naturale ispirazione da poter supplire alla mancanza assoluta di norme e di
precetti.(Append., fol. 5). L’una e l’altra asserzione sono due sonore falsità.
Ho chiamato Orazio «Gran Padre di molti che si arrogano di giudicare di
poesia, abbiano, non abbiano dramma di elevatezza e d’armonia
nell’animo» (Osserv., art. 1). — In quella guisa stessa che non c’è poetuzzo
e poetastro a cui non sia Gran Padre Apollo; e in quella guisa che fu padre
de’ più stolidi Scolastici dei bassi tempi l’acutissimo Aristotele; ma pedanti
è vero ho chiamato quei miseri le cui idee e il cui senno retorico non
consistono che nelle parole di Orazio. — Ho chiamato Orazio cortigiano ed
epicureo, e si provi il signor Londonio a persuadere altrui, ch’egli non era
né l’uno né l’altro. Orazio ha detto e mostrato in più luoghi dei carmi suoi,
ch’egli era frequentator di mense, scioperato, fuggiasco in guerra, stizzoso e
beffardo: e, a conoscenza mia, il signor Londonio è il primo che faccia su di
ciò le meraviglie. — Infine ho detto che l’estro di Orazio sa pur molto
d’imitazione, e qui dovrò dunque soggiungere che converrebbe essere del
tutto estraneo alla poesia dei Greci, e alla storia letteraria, per sentire
altrimenti. Così non avessimo perduto il meglio e il più di Alceo, di Saffo e
sopra tutto di Simonide, che perfino il signor Londonio ne rimarrebbe
convinto. Il di più che risguarda Orazio nel mio scritto, o è ad onor di quel
bell’ingegno, o serve di prova alle altre mie asserzioni. Ma dove e quando
ho io dato mai ad Orazio quei titoli che spettano unicamente a tanti
cachettici seguaci suoi? — Di Aristotele e di Quintiliano non c’è negli
scritti miei una sola parola che li qualifichi, ma tutto vi cospira mai sempre
a inculcare che coll’estendersi i dominî della poesia e della filosofia, più
insufficienti ognora riescono i libri loro, e ch’essere dobbiamo noi gli
Aristoteli e i Quintiliani dei giorni nostri, giacché Aristotele pigliava le sue
citazioni dalla Natura e da Omero: e gli Omeri sono tuttavia Natura.
Ma quel balordo non mi venne adunque mai sotto la penna? Ah non forse
abbastanza, ma ne ho pur fatt’uso, è vero. Ho detto balorda
l’immaginazione umana in quella età in cui l’immaginazione usurpava a sé
sola ancora tutti i diritti della ragione. Ho detto che tale fu la prima età
mitologica, e il sig. Londonio, che anche quella età tiene forse per classica,
come se gli uomini d’allora non fossero stati i bambini della Sapienza, ed
egli invece non ne fosse un figlio ben adulto e un provetto allievo, il sig.
Londonio si pronuncia dunque per ciò mio avversario? Balorda parimenti
ho creduto che fosse certa favola di Minerva partorita, il cimiero sul capo,
dal cerebro di Giove, coll’aiuto ostetricio dell’ascia di Vulcano o di
Prometeo, e più balorda veramente mi si palesa tuttora, allorché mi ricordo
che antichissimamente pure fu parlato con ben altri e più alti sensi, ma non
mitologici, di questa Diva: Unus est altissimus Creator omnipotens, et Rex
potens et metuendus nimis, sedens super thro-num illius et dominans Deus1.
— Ipse creavit ILLAM2, et vidit et dinumeravit, et mensus est. — Et effudit
ILLAM super omnia opera sua et super omnem carnem secundum datum
suum3. — Vapor est enim virtutis Dei et emanatio quaedam est claritatis
omnipotentis Dei sincera; candor est lucis aeternae, et speculum sine
macula Dei majestatis et imago bonitatis illius4. E dice che nel cospetto di
questa Sapienza tan-quam momentum staterae, sic est ante te orbis
terrarum, et tanquam gutta roris antelucani, quae descendit super terram5.
— Ma forse in tutto questo non c’è stile, e allora ha da prevalere cento volte
in confronto una chanson pour boire del Venosino. Eh! che ha pur potuto
chiamarla balorda quell’antichità Cicerone stesso ai dì suoi più d’una volta:
ha pur potuto dire errabat multis in locis antiquitas: quam vel usu jam, vel
doctrina, vel vetustate immutatam videmus; ha pur potuto dire Orazio (e il
sig. Londonio non crederà già che fosse un balordo):
At nostri (sic) proavi Plautinos, et numeros, et
Laudavere sales, nimium patienter utrumque
Ne dicam STULTE, mirati…..?6

Gran detto! E noi non potremo seguitare su quel tenore, noi venuti al
mondo dopo Tullio ed Orazio e Bacone e Locke e Rousseau? venuti dopo
Dante, che si professava cittadino dell’Universo; dopo Shakespeare, Alfieri,
Schiller? E nol potremo, perché v’ha puranco chi vuol dire e tornare a
ripetere, e stampa e mantiene cose che avrebbero saputo di muffa allo stesso
Cicerone?
Egli è dunque intanto ben falso ch’io imputassi balordaggine ad Orazio,
ad Aristotele e a Quintiliano. La seconda asserzione del sig. Londonio, non
meno calunniosa della prima, la serbo per la postilla X.

1. Ecclesiasticus, I, 8.
2. Aggiungi: in Spiritu sancto.
3. Ivi, 9 e 10.
4. Liber Sapientiae, VII, 25 e 26.
5. Ivi, XI, 23.a
6. Ad Pisones (Ars poëtica), vv. 270-272.

POSTILLA II.

La prima discussione del signor Londonio, procedeva pure alla buona;


egli non usciva ne’ suoi Cenni critici dalla sfera letteraria, sino alla pagina
57, ed io del suo scritto sino alla pag. 57 fatto non avea parola, né in male,
né in bene. Non in biasimo, perché ad uno scrittore che mi sembrava
ripetere cose a sufficienza ripetute e spesso confutate in Europa, dacché
ferve questa controversia, non occorrea direttamente rispondere; non in
bene, perché anche quei principî da lui proposti e presentati come una
maniera di mediazione fra i dissidenti, mi sembravano tuttavia timidi troppo
e infecondi. Giunto alla pagina 57, il sig. Londonio uscì dal suo pacifico ed
onesto arringo, e mutate sembianze, da quell’innocuo scrittore ch’ei s’era
fin lì mostrato in quel suo ozio della campagna, ei divenne ad un tratto
assalitore e non più critico di dottrine, ma denunziatore di persone. Però
scendendo sin nelle intenzioni altrui, egli trascorse a scrivere queste parole
schizzinose ed insultanti: Trattasi niente meno che di correggere il mondo e
di far rivivere, se fosse possibile, la beata ignoranza e la FEROCE ANARCHIA
dei tempi della cavalleria. Davvero l’impresa è grande, e degna di lode, se
non altro, la buona intenzione degli odierni riformatori delle lettere e dei
costumi. (Cenni critici, pp. 57, 58). — Siffatta accusazione mosse le risa di
molti. Niuno forse più di me aveva il diritto di farle una consimile
accoglienza, giacch’è pur vero ch’io manifestai abbastanza finora il mio
sentire e le mie dottrine in materia di ambizioni o di persecuzioni religiose,
di feudalismo, di prerogative arbitrarie, ec. Ma ogni dì più mi si vuol
convincere che delitto mio imperdonabile si fu appunto l’aver pur fatto ciò
che altri non ebbe il coraggio mai di tentare, né vuole aver tuttavia la lealtà
di apertamente riconoscere. — Intanto il signor Londonio, che si compiace
un po’ nelle amplificazioni, veniva rivelando tutte le infelicità e le brutture
dei secoli d’ignoranza, apponendole tutte a carico dei così detti Romantici,
nei quali si compiaceva egli di ravvisare altrettanti novelli Omar, e Pieri
eremiti. Più di uno s’avvide allora che il signor Londonio si era posto nella
più debole situazione; mi guardai dall’abusarne, bensì ne usai; ma restrinsi
tutto il mio rispondere ad una indispensabile recriminazione. Se tutto ciò,
diceva io, che può servire di colorito alla poesia, è infallibilmente efficace
sopra i costumi, la scelta è dunque posta fra le prove dell’acqua bollente e
del fuoco, e le guerre dei Baroni, o pure gli incesti, gli stupri, la pederastia
degli immortali, o almeno un qualche influsso di cotesti esemplarissimi
prototipi Eh! grida ora il sig. Londonio, ci venite a far da predicatori? —
Oibò, sig. Londonio, applichiamo il vostro principio per farvene toccare con
mano la… — ma io, rispond’egli, non temo già per le dottrine liberali; le
dottrine liberali siamo qui noi a difenderle, ed hanno messo radici troppo
profonde nel nostro senno; ma dico, e pronunzio, e voglio che si creda che
queste sono le vostre mire. — E neppur io, signor Londonio, crederò, se nol
volete, che le lubricità mitologiche possano impressionare la
immaginazione di chicchessia; affermo soltanto anch’io che se dal tenor
d’una poesia s’avesse ad argomentare dei fini morali di chi lo propugna,
tanto egli è vero che voi promovete, o scusate almeno l’influsso di questi
esempi e di queste immagini, quanto egli è vero che noi aneliamo alla prova
dell’acqua bollente e alle guerre dei Baroni. L’accusa fu vostra, e l’accusa,
perdonatemi, è vanissima; non per questo il ritorcimento è illegittimo e
forzato.
Ora giudichi il lettore se le mie parole in proposito del sig. Londonio
meritavano che l’appendice sua venisse dettata in quel tenore e di quel
tuono su di cui n’è temprato lo stile. Il grido di all’armi mandato ai liberali
onde si collegassero contro di noi illiberali, era motivato sul timore di
vedere l’Europa ricoperta un’altra volta di lande, di boschi, di paludi, ec.
ec, e tutte insomma le miserie di que’ tempi; «parole ricopiate, diceva io in
una nota, dal libro di un personaggio assai commendevole d’altronde, a cui
nell’ozio della campagna, com’ei dice, è piaciuto far prova di sé in queste
discussioni. Questo signore ravvisa poco meno che una indispensabile
affinità e una reciproca dipendenza fra gli argomenti romantici e il ritorno
di tutti quei tanti malanni sociali e politici onde sono caratterizzati i secoli
delle crociate, della scolastica e dell’astrologia» (Nota 2 alla p. 106,
Osservazioni sul Giaurro). — Era piaciuto ad un panegirista del sig.
Londonio di lodare a cielo questo di lui passo così poco ponderato, e forte
sempre più costui di sì valido appoggio, spinse la cosa a tale di aggiungere
che la favola della volpe e dell’uva potrebbe a risguardo dei Romantici
ricevere una facile applicazione (Spettatore italiano, nn. XI e XCI, p. 46). E
così si rendea giustizia alla discrezione e alla pietà ch’altri ebbe pure di non
applicare questa favola in nessun tempo, ad alcuni cui avrebbe sì bene
calzato negli anni in cui la terra riposò alfine all’ombra d’un sistema legale
e stabilmente socievole, dagli eccessi rivoluzionari e dalle saturnali
demagogiche! «Che l’autore dei Cenni critici sulla poesia romantica,
soggiungeva io dunque, abbia simulato così strane inquietudini e mostrato
dei timori così fuor di luogo e di stagione: ch’egli abbia dato agli
oppugnatori del sistema mitologico una così comoda opportunità di
vittoriosa recriminazione, sì che ritorcendo essi l’accusa, perfino i ragazzi
dieno loro vinta la causa, ciò non può essere per parte di quello scrittore che
una semplice inavvedutezza e nulla più: non è già credibile altronde ch’egli
sia caduto in simile leggerezza pel piacere d’insultare a chi che fosse, e di
accomunarsi con certi lodatori del suo scritto, le cui discussioni s’aggirano
sempre fra le più plateali adulazioni, o le contumelie e le odiose allusioni.
Perciò io non mi farò lecito di abusare della debole situazione in cui da se
stesso si è posto, e mi conterrò nel seguente dilemma» (Osservazioni sopra
il Giaurro, p. 108).
Ciò è tutto che spettava al sig. Londonio sì nelle osservazioni critiche e sì
nelle mie intenzioni; ma s’ha un bell’andar guardingo; il sig. Londonio si
reca in mano il Gonfalone dei classicisti, e chi tocca ad Orazio, offende
immediatamente il sig. Londonio, e avrà da fare i conti con lui.

POSTILLA III.

Le dottrine romantiche da lui spacciate con un’ aria così imponente di


magistrale autorità. (Append, ai Cenni critici, fol. 8).
Che le mie discussioni non appaghino l’avversario loro, ciò può provare
al più ch’elleno sono di un tenore e d’una filosofia inferiori alla veduta sua:
in quel caso è gran modestia di lui lo sbocconcellarle, com’egli fa, eluderne
o mutilarne i passi più robusti, e travisarne il tuttinsieme. Più lieve impresa
sarebbe stato trionfarne di fronte. Ma che sieno cose spacciate con aria di
autorità, questa è una spacciata asserzione. Gli scritti miei portano il
carattere di quella risoluta franchezza che nasce da un forte senso delle
cose; ma è lealtà pura, giammai temerità dommatica.
J’appelle un chat un chat, et Rollet un fripon1.

1. BOILEAU, Satira I.
POSTILLA IV.

Grazie dunque siano rese al sig. cavaliere che rivendicando i diritti della
morale oltraggiata da così infami sozzure, si prende tanto pensiero della
nostra spirituale salvezza! (Append., fol. 9).
Il signor Londonio è anche ameno, ed ha in copia sali da ricreare la sua
brigata; ma il fatto sta ch’io contrapponeva influsso poetico ad altro influsso
poetico, e scandalo a scandalo, provocato a farlo da certi ingenui timori del
sig. Londonio per la periclitante liberalità. La salvezza spirituale di
chicchessia non fu mai cosa ch’io amassi di intarsiare nelle nostre dispute
letteratesche, le quali per verità poco stanno a degenerare in pettegolezzi
nauseosi. E neppure sulla salvezza temporale e mondana non ho consigli da
dare a’ miei avversari; ché molti invece ne riceverei da essi s’io fossi uomo
correggibile su questo punto; e seguendone l’esempio col blandire i
pregiudizi e le abitudini della generazione, e accarezzando le venerande
barbe de’ dottori, e pugnando sotto le insegne di un’astratta liberalità e
d’una reale tirannide scolastica, non solo sarebbe posta in sicuro la mia
salvezza, ma avrei parte anch’io in quel giornaliero contraccambio di
sperticati elogi e di ripercosse adulazioni che tanto giovano all’incremento
dei buoni studi, all’affinamento degl’ingegni, al trionfo della verità, alla
buona morale.

POSTILLA V.

Invita… a convertire così una disputa letteraria in un assalto di


contumelie. (Append., fol. 9).
Niuno invitava il signor Londonio ad attribuirsi, come dette a lui, quelle
tante cose che nel mio scritto percuotono le varie, ineguali e dissimili classi
di avversari della odierna dottrina e di chi ama professarla.

POSTILLA VI.

Che il romanticismo, quale almeno ci vien predicato da alcuni suoi


ardenti proseliti in Italia, abbia una tendenza antiliberale e antifilosofica, è
una verità così manifesta, che non è d’uopo di molte dimostrazioni: basta
dare un’ occhiata alle odi del Bürger, di cui, non ha guari, fu fatto dono
all’Italia1, e alla massima parte delle tragedie di Calderon e di Lope de
Vega, per averne una prova incontrastabile.(Append., foli. 10 e 11).
Che illazione, che licenzioso ragionamento! Pure io mi affretto di
ricopiarlo. — Che il classicismo abbia una tendenza ateistica, scurrilissima
e sguaiatamente libertina, è una verità così manifesta, che non ha d’uopo di
dimostrazione: basta dare un’occhiata agli scritti d’Aristofane, di Lucrezio,
di Petronio, di Marziale, di cui più volte fu fatto dono alle favelle vive
oggidì in Europa, per averne una prova incontrastabile. E vi si aggiunga poi
quel torrente di libri posteriori, derivati da sì fatte classiche fonti.

1. Allude alle traduzioni delle ballate romantiche il Cacciatore feroce ed Eleonora, date dal
Berchet nella Lettera semiseria di Grisostomo a suo figlio, Milano, Bernardoni, 1816.

POSTILLA VII.

Quelli che col prestigio della poesia cercano di rimettere in onore i


pregiudizi e le superstizioni, non possono certamente vantarsi di
promuovere la civilizzazione e il perfezionamento dell’umano intelletto
(Append., fol. 11).
No, ma quelli «che vorrebbero che il ministero poetico ritornasse a
profitto della morale e del patriottismo; ch’egli fosse, come già ne’ tempi
andati, un espediente di religione, di consolazione e di amore; che
s’immedesimasse con tutti gli affetti, con tutte le circostanze solenni della
vita sociale: quelli che appunto ne vorrebbero usare come gli antichi
seppero fare ai dì loro, e perciò antepongono una ragion poetica non anco
esaurita da essi, e sperano derivarla dalla conformità naturale dell’ideale col
vero, e in ispecie con quel vero di cui siamo noi i contemporanei» (Osserv.
sul Giaurro, art. 1). Quelli non avevano forse mestieri dell’appendice del
sig. Londonio onde distinguere il romantico superstizioso dal romantico
filosofico.

POSTILLA VIII.
E d’onde mai arguisce che dai suoi avversari si confonda il patetico col
malinconico? (Append., fol. 13).
Prevedo che dovrò ripetere le centinaia di volte che gli avversari della
romantica non sono tutti incarnati nel sig. Londonio (ch’egli chiuderebbe in
sé un più brutto demonio che quello ond’era già ossessa la donna del
Vangelo, il quale si chiamava Legione), ed è una specie di briga da
Donchisciotte quel suo voler sempre rispondere per tutti, e farsi avanti, e
riconoscere sé solo in tutti quelli che ho designati nel mio scritto da Mosè
fino a lui. Davvero mi spunta un primo dubbio, ch’egli patisca d’irritazione
nel suo modesto amor proprio.

POSTILLA IX.

«Il soggetto, la condotta, i costumi, le passioni, l’ideale di questa


composizione» ho detto io (Osservazioni sul Giaurro, art.1) «la
caratterizzano di quella specie appunto di poesia contro a cui si scagliano
con caloroso risentimento e con freddi argomenti quelle persone le quali
hanno le regole antiche per troppo più importanti che non l’effetto presente,
le quali chiamano regole le consuetudini», ec. ec. ec. Come ognun vede, io
non parlo quivi del riuscimento di lord Byron, né della economia da lui
serbata nella tessitura degli elementi poetici che aveva per le mani: perciò si
poteva benissimo combinare, e si combina di fatto insieme, a parer mio, che
l’esecuzione di questo poemetto d’indole romantica non sia però riuscita
eccellente ed esemplare sì nel tutto e sì nelle sue parti. Tutto ciò non mi
pare che sia un’apocalisse.
Bensì il signor Londonio è tanto ingenuo fino a gloriarsi di non sapere
ciò comprendere, e prega qualcuno a chiarirglielo. (App., fol. 14). S’egli
non disdegna che il rischiaramento gli venga dal suo avversario, eccomi
pronto a servirlo.
Se Lionardo Salviati1, di fastidiosa e pedantesca memoria,se il Galileo2,
avessero detto, per caso mai, che la Gerusalemme liberata era un poema
della specie epica e del genere eroico, ma che non per questo essi
acconsentivano nel proporla come un modello pratico irreprensibile, né
come un tipo assolutissimo di quella maniera, un siffatto discorso nella
bocca loro non sarebbe egli sembrato molto coerente alle note loro dottrine
ed ovvio a chiunque? E nel definire i generi e le specie di siffatte
composizioni dell’arte, non s’ha egli da pigliar le norme dai caratteri che in
esse prevalgono, piuttosto che dai difetti e dalle imperfezioni onde sono per
avventura macchiate? E se alcuno dicesse mai, i Cenni critici del sig.
Londonio sulla poesia romantica sono di quella specie di scritti che
chiamansi un mezzo termine fra due dissidenti dottrine, ma che in fondo non
tendono che a mascherare la prepotenza dell’una e a dissimulare la ragion
filosofica dell’altra, cotesta asserzione non potrebb’ella per avventura
essere dimostrata e purgata da qualunque sospetto di contraddizione?

1. Vedi la n. 1 a p. 109. Ricorda il volumetto Degli Accademici della Crusca | Difesa dell’Orlando
Furioso dell’Ariosto | contra ’l Dialogo dell’Epica poesia di Cammillo Pellegrino | Stacciata prima |
In Firenze, Per Domenico Manzani, Stampator della Crusca, 1584, | contenente la Risposta dello
Infarinato Accademico della Crusca all’Apologia di Torquato Tasso; e vedi Lo ’nfarinato | secondo |
ovvero dello ’nfarinato accademico della Crusca, | Risposta al libro intitolato | Replica di Camillo
Pellegrino ec. | Nella qual risposta sono | incorporate tutte le scritture, passate tra detto | Pellegrino,
e detti Accademici intorno | all’Ariosto, e al Tasso, in forma, | e ordine di Dialogo. | Con molte
difficili, curiose, e | gravi, e nuove questioni di Poesia, e loro discioglimenti, e con la Tavola
copiosissima | In Firenze, Per Anton Padovani, MDLXXXVIII.
2. Allude alle Considerazioni al poema del Tasso, scritte dal Galilei a Pisa circa il 1590 (1a ediz.,
Roma, Pagliarini, 1793).

POSTILLA X.

Seduzione, affogamento, assassinio, morte disperata e impenitente: ecco


gli elementi morali, edificanti, filosofici di questo poemetto (Append., fol.
15).
E quando ciò fosse? Il morale e il filosofico intendimento d’un poema
non consistono ne’ suoi elementi. Il Paradiso Perduto non è già di tutti i
poemi il più sacrilego, perché vi si tratti nulla meno che delle empietà
commesse negli stessi padiglioni della Divinità, e perché i diavoli, l’inferno
e la seduzione della intera umana schiatta ne prestino gli elementi. Neppur
questa volta il signor Londonio non è classico nella sua logica; o neppure è
leale nella sua liberalità, se finge d’ignorare che gli elementi poetici hanno
per oggetto loro proprio l’effetto immediato e organico del poema, non
l’effetto ultimo e morale. Ratto, adulterio, vigliaccheria del rapitore;
Divinità avverse fra di loro, e Divinità adultere non meno di Elena, Divinità
seduttrici, sedotte, ferite e percosse dai Gradassi: banchetti, risa e sternuti
nell’Olimpo: vendette da assassini, dissensioni da sinagoga in terra, e
macchine soprannaturali che fanno nei due campi nemici le veci di bravura
umana: onte ed oltraggi contro il cadavere del più prode, del più esemplare
fra i guerrieri… Ecco, dirò io, se mi lascerò convertire alla logica o alla
buona fede del sig. Londonio, ecco gli elementi morali, edificanti, filosofici
del divinissimo fra tutti i poemi. E qui spero bene che a malgrado di tutti gli
arzigogoli degli allegoristi mi si concederà dal signor Londonio che nel
poema attribuito ad Omero gli elementi poetici usurpano la ragione dello
scopo morale; il che è vizio capitale nella poesia grave, perché, se non
foss’altro, la snobilita non poco e le dà giusta taccia di gran vanità al
tribunale della critica moderna e dei Quintiliani Romantici. Non è dubbio
che sieno doviziose di molta sapienza e l’Iliade e l’Odissea, considerata
ciascuna a parte a parte, ed avuto risguardo alla bambolaggine di que’
tempi; ma l’unità dello scopo, quella unità morale e filosofica a cui la
maniera romantica ama di sacrificar tutte l’altre, quella o è nulla in molti
poemi antichi, o riesce dubbia ed equivoca agli occhi nostri, o per lo meno
frivolissimo affatto n’è il risultamento in paragone della grandiosità e della
vastità dei mezzi e dei rumorosi espedienti che vi cospirano.
Il sig. Londonio, con quella tutta sua inarrivabile ironia, mi rinfaccia qui
di bel nuovo questo poemetto romantico per eccellenza (Append., ivi). Ma,
oh candore ed equità ed onoratezza delle nove Muse e di Febo Patareo!
Dissi e stampai anch’io coi tipi del Pirotta, che il Giaurro è poemetto
romantico, ma non romantico per eccellenza. Il sig. Londonio mi combatte
sul terreno dov’io non sono.

POSTILLA XI.

Quale analogia avvi mai tra il carattere della poesia romantica definito
dal sig. Schlegel, e quello del Giaurro diLord Byron, da cui come dice il
sig. di Breme, spira un voluttuoso e inebriante olezzo… Alto lì, sig.
Londonio, che voi mi fate una nuova gherminella, e mi farete uscire del
secolo, se l’esempio di chi n’è tuttora fuori non mi rinfrancasse nello
stabilirmi ognora più in esso… E tu, lettore, un po’ di rettitudine, e
pronunzia fra il sig. Londonio e me. Lord Byron, innamorato della
voluttuosa natura di quelle spiagge, osserva col cuore addolorato la misera
condizione a cui ne sono ridotti gli abitanti. «Sotto quel cielo le sorti civili e
i fasti dell’uomo mandarono una famosa luce, e quei tempi, e quegli
uomini, e quella luce non vi sono più rappresentati che da sontuose rovine e
da pochi ruderi: l’ignoranza, lo squallore; il servaggio colle mille altre
miserevoli conseguenze della tirannide ingombrano la regione. Ahi! lo
scettro della tirannide è di massiccio piombo; e pare somma clemenza, se
chi 10 distende sulle suddite fronti, v’abbia intrecciato d’intorno il
sonnifero papavero!» (Osserv. sopra il Giaurro, art. 1). Ora leggi come
suona nei versi del sig. Pellegrino Rossi la descrizione che Lord Byron fa di
quelle scene e di quelle contrade.

Region della beltà! Mite e sereno


l’è sempre il Cielo, e all’eternal sorriso
s’innamora la terra e infiora il seno.
Per entro al cor andar ti senti un riso
poi ch’all’altura di Colone aggiunto
scopre il guardo quel dolce paradiso.
Esclami allor di maraviglia punto
«Vello, vello» e già voli, e già il diletto
di vagarvi solingo il cor t’ha giunto.
D’alma soavità pieno è l’aspetto
dell’Oceàn, che il manto varïato
prende in se stesso, come speglio netto,
de’ colli ond’è quel lido incoronato;
quel lido cui li flutti orïentali,
van festosi a baciar, lido beato.
E se un’auretta con lievissim’ali
increspi l’onde, e gli esquisiti odori,
che volando rapì, d’intorno esali,
oh con qual festa, e quai lieti clamori
ogni uom saluta il grato venticello,
che gli arreca il tesor d’eletti fiori!
Ché là sul colle e in seno al praticello
dell’usignol discopri la Signora1,
quella per cui l’innamorato augello
fa la sua risonar voce canora;
e del suo vago al canto un verginale
rossor la donna de’ bei fior colora.
Lontana là dal verno occidentale,
da freddi venti, da gelata brina,
e blandita da zefiro vitale,
la dei giardin, dell’usignol regina
il profumo ch’a lei natura diede
ne’ suoi calici accoglie, e sì lo affina,
Che in più soave incenso al ciel poi riede.
Oh quanta i suoi sospir spargon fragranza!
Oh i bei color che all’occhio uman concede
. . . . . . . . . . . . . . . .

Hai per soprappiù da sapere, signor lettore, che non contento io di queste
pennellate, aggiunsi nel secondo articolo: «Perocché questa è quella terra di
cui lo stesso mirabile poeta cantò nella Sposa d’Abido. “Conoscete voi una
contrada ove il mirto ed il cipresso fedeli emblemi sono delle vicende a cui
ella serve di teatro? ove alternativamente susurra la tortorella il suo lagno
amoroso, e sbrama l’avvoltoio la sanguinaria sete? Conoscete una contrada
ove serbano i fiori perenne frescura, e il soffio mattutino, rallentato nel suo
corso da un nembo di olezzi, appena fa ondoleggiar negli orti le cime della
rosa? dove il cedro e l’ulivo regnano sopra i frutti, e non vien meno la voce
dell’usignuolo? Contrada in cui la faccia della terra e l’azzurro del cielo,
varii di colore, gareggiano pure tra loro di bellezza? Là il sole disvolve
dall’Oriente più maestosa ch’altrove la porpora sua, e tenere sono colà le
vergini al par delle rose onde han treccia fra i capelli. Dove tutto in somma,
tutto è celeste fuor che l’animo dell’uomo? Questa è la regione d’Oriente, la
terra del sole. Perché mai un cielo cotanto delizioso sorridagli ancora alle
turpi azioni di que’ figli suoi? i cuori di coloro e le cose che se ne
raccontano più fosche sono dell’ultimo vale dell’amore”». Ora
considerando questi passi, questi tratti e queste tinte che occupano un tanto
spazio del poemetto, aveva io, sì o no, tutte le ragioni di scrivere: «Byron ha
contemperato in questa, non meno che in varie altre sue poesie, i più
efficaci prestigi orientali. Spira dal suo carme un voluttuoso e inebriante
olezzo, che invade, per così dire, la fantasia e te la fa nuotare in quel beato
letargo nel quale immersi quei molli turbantati, aspettano pazientemente di
salire in grembo alle loro Houris». (Osserv. sul Giaurro, art. 1). E il sig.
Londonio può egli a coscienza tranquilla darti ad intendere ch’io parlo così
di tutto il Giaurro di Lord Byron? E poi che nuova maniera di dialettica è
ella mai questa? Perché il sig. Schlegel, uomo del Settentrione, acconsente
con quei filosofi, qui ont cru que le caractere distinctif de la poesie du Nord
était la mélancolie, io non potrò più rendere a Lord Byron la giustizia
dovuta intorno al modo col quale egli seppe tener conto dell’indole di quei
paesi e di quella gente meridionali? O pure Lord Byron essendo in ciò
riuscito, cesserà di essere poeta romantico agli occhi nostri, mentre noi
intendiamo che la poesia romantica non s’abbia a definire per i gradi di
latitudine né di longitudine d’un paese, ma credemmo soltanto ognora
ch’ella significhi una maniera di poesia viva sempre, perenne ed efficace, a
differenza di quella i cui soggetti, le cui norme e i cui espedienti non sono
più al dì d’oggi che un sistema di convenzione, una lingua tecnica ed una
scolastica imitazione dell’antico estro spontaneo? Niuno ci costringe
altronde a giurare nel nome del sig. Schlegel niente più che in quello di
Aristotele: né il sig. Schlegel medesimo lo pretende. Ti par egli, lettore
imparziale, che siavi luogo di obiettare le caractere distinctif de la poésie
du Nord, a me che scrissi testé in quelle medesime osservazioni: «Nulla di
più ingiusto né che muova da una più confusa e più grossa conoscenza
dell’arte moderna, quanto la taccia che le si dà in Francia ed in Italia di
poesia esclusivamente ligia alle favole e alle storie settentrionali de’ secoli
oscuri. Si tratta di ben altra e di ben più vasta ascensione poetica, di ben più
varia ed intima ricerca dei sentimenti. Niuna poesia si assomiglierebbe
invece meglio all’antica e primitiva concitazione; niuna produrrebbe effetti
più analoghi a quelli, né tramanderebbe più sicuramente, come già le
antiche epopeie, i costumi, le passioni e le vicende nostre alla più tarda
posterità. M’inoltrerò sino ad asserire che gustata di bel nuovo la poesia
antica cogli affetti moderni e coll’animo non romanzesco, ma romantico,
ella si vestirebbe d’inusitata luce, e forse per la prima volta risplenderebbe
della pienissima sua magnificenza» (Osservaz. sul Giaurro, art. II).
Né io d’altronde volli giammai contrastare col signor Londonio
sull’indole melanconica del Giaurro, e sul suo tragico scioglimento; ma
chiamerà egli melanconici e lugubri per mo’ d’esempio, il don Giovanni
Tenorio o il Prometeo di Viganò2, il quale ha violato la legge dell’unità
verticale, se non la orizzontale, quanto era possibile di oltrepassarla colla
sua vasta immaginazione? o melanconici e lugubri dirà chesiano i concetti
romantici di Caliban e di Ariele presso Shakespeare?3

1. Vedi la n. 3 a p. 204.
2. Salvatore Vigano, famoso coreografo, nato a Napoli nel 1769, morto a Milano nel 1821. Si
propose di sollevare la coreografia al livello dell’arte drammatica. Da prima era stato egli stesso un
acclamatissimo ballerino; poi come ordinatore di balli pantomimici suscitò entusiasmo per tutta
Europa e dal 1812 in poi trionfò alla Scala. Adattò quasi sempre alla mimica e alla danza opere altrui.
Da principio «predilesse le macchine mitologiche e di storia classica» (e fu celebre il suo Prometeo),
poi «le moderne e le romantiche». Dice di lui il Mazzoni nell’Ottocento (p. 205): «Senza
paragonarlo, come altri fece, al Canova; senza concedergli, come fece il Compagnoni [nel libro Arte
della parola, Milano, 1827, pp. 371 e sgg.], parlando da critico di lui morto, l’onore d’essere stato
poeta inventore quanto il Milton, disegnatore e pittore coll’ingegno riunito di Raffaello, di
Michelangelo e dell’Albano, filosofo sublimemente profondo, e gran musicista; e senza dire con D.
Sacchi [Intorno all’indole della letteratura italiana nel secolo XIX] che, se avesse scritto in versi,
non si potrebbe collocarlo che fra Calderon e Shakespeare; sarebbe ingiusto negargli ogni merito,
dopo l’ammirazione che suscitò non pur ne’ pubblici, ma in giudici sottili, come, tra gli altri, lo
Stendhal» [in Rome, Naples et Florence, Parigi, 1826, II, pp. 186 e sgg.]. Anche Ermes Visconti lo
lodò moltissimo nell’Art. 6° delle Idee elementari sulla poesia romantica, intitolato Sul classicismo
nella pittura e scultura e nei Balli Pantomimici (Conciliatore, n. 28, pp. in e sgg.) e lo introdusse
quindi come interlocutore col Lamberti, col Paisiello e col Romagnosi nel Dialogo sulle unità
drammatiche di luogo e di tempo (Conciliatore, n. 42, pp. 165-168; n. 43, pp. 169-170).
3. Nella Tempesta.

POSTILLA XII.

Che diremo poi delle romanticissime fiabe del Gozzi? (Append., fol. 17).
Ditene sempre ciò che a voi ne pare, Sig. mio, e faccia così ognuno: che i
Romantici, o a dir meglio, gl’ingegni ragionevolmente e sinceramente
svincolati, perciò amano la tolleranza intellettuale, ch’essi non danno poi in
fondo l’esclusione a nissun genere e a nissuna maniera; e quando vedono
accolto con generale soddisfazione un prodotto poetico, di qualunque arte
sia frutto, due cose fanno: la prima di dedurre dalla somma di questa
accoglienza la parte che ne spetta all’abitudine, e di questa fanno poco
conto, è vero, e rivolgono anzi da quel lato i loro studi e i loro sforzi di
miglioramento e di estensione dell’arte; l’altra riflessione loro si dirige a
rintracciare le cause naturali, o sia psicologiche, di quel riuscimento, e
quelle riconoscono e definiscono leggi invariabilmente ammissibili e canoni
di poetica perpetua. Delle fiabe dunque del Gozzi si dirà al sig. Londonio,
che piacciono tuttavia a molti, e credo ch’egli lo abbia a comportare ed a
rassegnarvisi con liberale filosofia, come anch’io mi vi rassegno, che non
venni mai a capo di poterne leggere più d’una intera; e sì che a dirla schietta
(sebbene con un po’ di rossore), avrei provato un vero gusto nell’esaltare,
coll’approvazione di me stesso, l’antagonista di Goldoni1.
1. Si ricordi che il Di Breme giudicò aspramente il Goldoni. Vedi pp. 121-122.

POSTILLA XIII.

Passiamo ora ad esaminare, con quella brevità che si conviene, il nuovo


sistema d’educazione poetica da lui proposto; sistema facile, economico, e
comodissimo; perché senza alcun soccorso di libri né di precetti insegna
tutta la divina arte degli effondimenti poetici. (Append., fol. 19).
Signor Londonio! io stava leggendo la gravissima, degna d’ogni fede,
spassionata storia della spaventevolissima, esecranda, atroce, sacrilega
inquisizione di Spagna, di D. Giovanni Antonio Llorente1, nome ben degno
che l’umanità lo benedica in tutto l’avvenire, quando mi piovve addosso la
vostra appendice inquisitoria. Soffrite ch’io vel dica, non è senza qualche
analogia il tenore e la fede della processura vostra con quella dei
Torquemada e dei Cisneros; perciò quando dite passiamo ad esaminare, mi
sento come scrosciare le braccia dalla paura, e mi vedo già nello strettoio,
finch’io non avrò convenuto di tutti quei malefizi poetici che vi piace
imputarmi. Se non che, debole assai nelle ossa, tutta la mia robustezza,
signor Londonio, la porto nel sentimento e nella coscienza della mia
ragionevolezza ed equità. Fondato su quella, domando a voi, Signore, come
potete mai tacciare di aver suggerito un sistema di educazione poetica che
fa senza di libri lui che disse: «Intanto spunterebbe il giorno in cui a questo
incontaminato giovine ferverebbe in seno la fatidica inspirazione, ed
erompere, per così dire, si sentirebbe l’animo, invaso da una piena d’affetti
e di immagini che a gara invocherebbero la divina arte degli effondimenti
poetici. Questo il giorno sarebbe di aprirgli ad un tratto innanzi, tutto
l’ARRINGO POETICO PERCORSO FINORA DA MOSÈ ED OMERO FINO A LORD
BYRON» (Osservazioni sopra il Giaurro, art. 1). E qualialtri poeti avete voi
letti, sig. Londonio (dico con sentita e meditata lettura), oltre quelli noti al
mondo da Mosè fino a lord Byron? E questa brigata vi par poco? Altro
sarebbe il dire ch’è superfluo lavoro lo scrivere dei Cenni critici, col
soccorso di libri e di precetti altrui (il che pur non ho detto), altro avere
ardito di pensare che ad un ingegno e ad un cuore fecondati da prima nella
contemplazione del gran libro della Natura, potesse per avventura bastare
all’intero sviluppamento della facoltà poetica in lui, la conoscenza
immediata di tutti quanti i poemi eccellenti ch’esistono al mondo.
No, il sig. Londonio non è gran fatto classico in materia di sincerità: egli
non dissimula già soltanto l’obbligo che ho imposto al giovine d’animo
completo di conoscere tutta la generazione poetica che corse dal fiat lux
fino a noi; ma nel citare le mie parole colle quali propongo che «venga
esposto quel giovine alla continua azione dell’onnigena Natura, mercé di
un’avvertita ammirazione di essa, e in essa del suo legislatore» egli tronca
slealmente la citazione, e non dice ch’io per Natura intendo «non meno i di
lei quadri morali che fisici, ed ho l’uomo pel primo degli oggetti da
contemplare e la CONOSCENZA DEI TEMPI E DE’ COSTUMI, per essenziale parte
di questa Natura». Ora eccoti, o lettore, oltre a tutta la sequela dei poeti,
tutta quella dei filosofi-psicologi, degli storici, dei viaggiatori, ec. ec, e sarò
io quello a cui potrà onestamente il sig. Londonio imputare d’aver dato lo
sfratto a ogni soccorso di libri e di studi? e ha da essere permesso di
criticare impunemente in questa guisa? E non ebbi io tutte le ragioni di far
voti nel mio secondo articolo onde ricompariscano finalmente un po’ di
buona fede e di gusto spregiudicato sull’orizzonte nostro letterario?… E il
sig. Londonio ha potuto scorgere in altrui un soverchio amor proprio, e
chiamar se stesso libero di rancore? Ed è ben provato altronde che studio
filosofico, studio spregiudicato e sostanzioso, sia una stessa cosa collo
studio a cui c’invita il mio avversario?

1. G. A. Llorente, segretario generale dell’Inquisizione di Spagna e storico di essa, visse dal 1756
al 1823. Scrisse la Storia critica dell’Inquisizione di Spagna e i Ritratti politici dei Papi, che la
Chiesa mise all’Indice. Accolse molte idee degli enciclopedisti francesi. Nel n. 3 del Conciliatore (10
settembre 1818), nel n. 4 (13 settembre 1818), nel n. 11 (8 ottobre 1818), e nel n. 47 (11 febbraio
1819) vedi gli articoli dedicati dal Di Breme alla Storia critica della inquisizione di Spagna,
dall’epoca della sua istituzione per opera di Ferdinando V sino al regno di Ferdinando VII; tratta
dai documenti originali sì degli archivi del Consiglio della Suprema, che dei tribunali subalterni del
Santo Uffizio, Per D. Giannantonio Llorente, già segretario della inquisizione della corte, ecc. ecc.
Tradotta (in lingua francese) sul manoscritto spagnuolo sotto gli occhi dell’Autore da Alessio Pellier
(3 tomi, in-80, pp. 493, 553, 497, Parigi, Plaussan. 1817-18).

POSTILLA XIV.

È antichissima questione, se a formare un eccellente scrittore, sia egli


oratore o poeta, giovi più l’arte o la natura; e a parer mio egualmente
s’inganna chiunque all’una piuttosto che all’altra esclusivamente ne
attribuisce l’effetto (Append., fol. 19).
Via, siamo di buon conto, e non pigliamo un’aria di gente che abbia letto
per la prima volta negli arcani della luna: questo non è parere del sig.
Londonio; è parere di tutti quanti al mondo, e perfino di chi non ha parere
suo, e per non isbagliarla, dice che mancomale ci vuole un poco dell’uno e
un poco dell’altro. Ma son io che m’inganno; l’autore dell’appendice
intesse qui leggiadramente il senno d’Orazio col suo; qui si allude
misticamente all’elegantissimo alterius sic altera poscit opem res, et
coniurat amice1. Anch’io poveretto aveva pure scritto: «che nulla si possa
comporre di durevole senza una qualche bravura di stile, è cosa troppo per
sé ovvia: ma che con dello stile accurato e forbito si possa fare a meno di
poesia viva e profonda, ah! questa è pur troppo la dottrina pratica che ci ha
spenti» (Osservazioni sopra il Giaurro, art. 1). Ma fosse anche verità una
tal sentenza, ed equivalesse al parere dei signori Orazio e Londonio, non
porta il bollo, non sarà ricevuta al banco.

1. Ars poëtica, vv. 410-411.

POSTILLA XV.

Le pagine 20, 21, 22 e 23 sono una comoda diceria sul proposito di


sentenze e di dottrine ch’io non mi sono giammai sognato di avanzare;
perché altro si è il professare, come fo io, che la sola indole poetica meriti
di venir coltivata alla poesia, e che s’abbia da anteporre in questa cultura la
ragion filosofica e naturale alla ragion dell’abitudine e delle scuole, altro è
dire ciò che mi s’impresta dal sig. Londonio, l’indole sola insegna l’arte. In
quanto poi alle leggi del buon senso e della verisimiglianza, di ch’ei pure va
parlando, è vero che non saremo così presto d’accordo insieme, perché
temo forte che il sig. Londonio ci voglia intimare per buon senso esclusivo
sì il senso suo, e sì quello nato dalla consuetudine, e che, a cagion
d’esempio, nelle sue dottrine drammatiche egli attribuisca autorità d’unico
buon senso a quel tanto che s’è fin qua praticato. Così facendo, ei
sottrarrebbe forse dai dominî legittimi dell’ispirazione gran parte di quelli
della verisimiglianza. — Animo, signor Londonio, provateci almeno: 1) che
i Greci praticavano le tre unità in quel modo che le intendete; 2) che in
quello stesso modo le intenda e ne tratti Aristotele, mentre io per agevolarvi
questa dimostrazione vi concederò, Signor mio, che sia opera sua la poetica
che gli viene attribuita; 3) che Aristotele abbia fedelmente e con tutta
integrità derivato le sue teoriche, dal teatro greco; 4) che i Greci non
essendosi mantenuti ligi a quel tenore di unità, non i Tedeschi, non gli
Spagnuoli, non gl’Inglesi, e incominciando a mostrarsene infastiditi gli
stessi Francesi, mostrateci perché mai s’abbia da vietare agl’Italiani di
scuotere a poco a poco anch’essi l’assurdo e tirannico giogo di questa mera
consuetudine, onde si apra ai fervidissimi loro ingegni un più vasto campo
di azione e una più copiosa sorgente di affetti.

POSTILLA XVI.

Oh la sarebbe pur la bella cosa il poter fare a meno di studi e di precetti,


e il diventar eccellente scrittore senza fatica e dandosi bel tempo! (Append.,
fol. 22).
Bada, lettore, che questo epifonema salta in capo al sig. Londonio in
proposito di quelle osservazioni sul Giaurro nelle quali si legge (Art. II): «Il
sapere e l’erudizione vera non si aggirano già così volgarmente pei vicoli e
per le piazze, né si giacciono tanto scioperati, che, per modo d’esempio, il
gustare e il comprendere la canzoncina di Metastasio sieno una stessa cosa
col saper dimostrare da quali principî psicologici derivi l’efficacia
comparativa di quella stessa poesia, in confronto di una canzone del
Petrarca o d’una oda del Savioli»1.
Signor Londonio, voi fate pur la ridicola accusa ai critici moderni! e
perché, come i fisici moderni, essi vogliono richiamare gl’ingegni allo
studio della natura, e semplificare queste dottrine, come già si sono
semplificate tutte l’altre, voi andate dicendo ch’essi li vogliono
rimbarbarire. Io a tutt’altro rimprovero m’aspettava dopo aver scritto: «Lo
studio dell’antica letteratura è poco men che da rifarsi per intiero, e l’arte di
ravvivare o di ringiovanire la poesia primitiva invoca anch’essa i suoi
Barthélemy, i suoi Winckelmann, Niebuhr, Quatremère, Visconti, ec. ec. Il
magistrale lavoro di Willelmo Schlegel sopra l’lppolito d’Euripide, posto da
lui in confronto colla madame Phèdre di Racine, è pure un bel saggio della
suprema abilità critico-romantica di questa nuova scuola, e ci mostra quanta
efficacia ella promette restituire a qualsivoglia età poetica»2. Oh studi
dunque, sì signore, e studi sinceri, e studi sodi una buona volta, ma studi
liberali e proporzionati a tutte le forze dell’ingegno e del sentimento, e che
abbraccino nella loro completa federazione, tutta quant’ella è, l’armonia
della natura. Anche a noi viene talvolta la tentazione di pronunziare che
digiuni sono di vero sapere gli avversari nostri, e che le idee loro altro non
ci sembrano che una timida generazione di quei precetti che toccò loro a
sorte di ricevere nell’età giovanile. — Di grazia, sig. Londonio, convenite
meco nelle seguenti considerazioni. La filosofia letteraria ha li suoi pseudo-
liberali come gli ha la politica; il secolo é liberale, non essi, se anche
parlino collo stile del secolo. Nella materia politica io vedo per lo più diviso
il mondo in due classi d’illiberali. Questi, che per salire metterebbero a
soqquadro e a rischio qualsiasi ordine di cose, e per rattopparsi i buchi della
calzetta romperebbero quell’unico filo da cui pendesse il mondo; quelli, che
per non discendere dalla loro fortuita altezza, e non far copia dei loro diritti
e delle loro esuberanti dovizie ai pari loro, si armerebbero dei fulmini di
Dio, e santificherebbero tutte le tirannidi; ma intanto e questi e quelli si
vociferano per avventura liberali fra quattro mura, e dettano costituzioni, e
cinguettano di libertà di stampa, di sincera rappresentanza nazionale, di
scuole alla Lancaster3, di tolleranza, di economia politica, e in somma di
quelle tante luminose conquiste che il secolo nostro ha di già fatto
sull’avvenire. Fin qui non distinguo un liberale europeo da un Bonzo del
Giappone, né da un fanatico dei secoli bassi. La liberalità ha da essere
carattere intimo dell’individuo; carattere alto ed inflessibile: e siffatto
carattere ha da manifestarsi in tutto, e non meno nella filosofia letteraria,
che nello studio delle verità morali. Perché se vedrò che l’uomo sedicente
liberale nelle dottrine politiche (in questi tempi per sé libéralissimi), sia
d’altronde ligio alle armate potenze letterarie, e ne palpi le venerande barbe,
e si colleghi coi molti contra i pochi animosi e franchi, e guardi di non porre
mai il piede se non colla licenza di chi tiene in mano o i diplomi accademici
e lo staffile della scuola, e faccia il piagnone contra i novatori, e non onori
altri libri ed altri studi, che quei libri e quegli studi ond’è composta la
biblioteca del santo uffizio, e vada ognora contemperando l’ambizione di
figurare ai dì suoi, colla cautela di non compromettersi mai in faccia alle
suddette venerande barbe; io quello, mei perdoni esso, nella bilancia del
secolo e dei paesi nostri, lo trovo tuttavia del giusto peso d’un Bonzo del
Giappone, di un Qualificatore della inquisizione, di un ricopiator di
leggende, d’un ammiratore di Scoto e di Pietro Lombardo in altri tempi, in
altre circostanze e in altri paesi. E come no, s’io non ravviso in costui né
tratto caratteristico, né vigoria e robustezza di animo, né lo vedo camminare
con altro passo che quello dell’opinione generale? — Blandire alla forza
imperante (per lodevole e prudente cosa ella sia), e poi blandire in segreto
alla tacita forza dell’opinion sociale, e poi blandire ancora in pubblico alle
imperanti forze scolastico-letterarie, potrebb’essere, in alcuni, nient’altro
che una triplice servitù.

1. Lodovico Vittore Savioli, poeta e storico bolognese, visse dal 1729 al 1804. Più che agli Annali
bolognesi deve la sua fama alle graziose sue canzonette, intitolate Amori (1758), nelle quali, come
ben disse Vittorio Rossi, «fuse con bel garbo in un’unica visione l’Olimpo pagano,
settecentescamente ingraziosito, e la moderna galanteria».
2. Osservazioni sopra il Giaurro, art. II, pp. 110-111, [pp. 211-212 della presente edizione].

3. Giuseppe Lancaster, pedagogista inglese, nato a Londra nel 1771, morto a New-York nel 1838.
Diffuse con gran successo il mutuo insegnamento. Vedi nel n. 18 del Conciliatore (1° novembre
1818) l’art. di G. PECCHIO, Della necessità d’introdurre nelle scuole primarie toscane il metodo di
Bell e Lancaster, Memorie dei signori F. Nesti, L. Serristori, F. Tartini-Salvatici e C. Ridolfi, soci di
varie accademie (Pistoia, presso i Manfredini, 1818) e nel n. 77 (27 maggio 1819) l’art. di Giuseppe
Nicolini, Scuola alla Lancaster in Brescia, e nel n. 85 l’art. di G. Pecchio, Scuola alla Lancaster in
Milano.

POSTILLA XVII.

A coloro che giudicano potersi, anche nel presente stato di civilizzazione,


diventar poeta senza norma e senza precetti, e col solo soccorso della
naturale ispirazione, io consiglio di rammentarsi l’esempio del grande
Alfieri, che, già inoltrato in età e invaso l’animo di vivissimo estro poetico,
pure non arrossì di piegare umilmente il capo davanti alla propria
ignoranza, e mettersi sotto il pedagogo a studiare e postillare Orazio e i
classici greci e latini. (Append., fol. 24).
Ciò di che andiamo debitori all’inspirazione e al genio proprio d’Alfieri,
è noto a tutti. Ciò che si debba agli studi suoi sulla grammatica greca e sul
Pindaro del Calliergi1, nol so io, e forse nol sa neppure il sig. Londonio; ma
il venerando immortale abate di Caluso temeva intanto non s’avesse da
ripetere in gran parte da quei forzosi studi intrapresi in età matura troppo, e
dopo già stabilita e consolidata la gran fama di Vittorio, l’affrettato suo fatai
momento. — Si studino i sommi poeti d’ogni età, e si consideri insieme ben
bene la storia di quelle loro età; allora da siffatti studi emergerà una
filosofia del gusto e un’analisi teorica degna del presente stato di
civilizzazione. Diversamente
c’est prendre l’horizon pour les bornes du monde2.

1. Zaccaria Calliergi, filologo vissuto negli ultimi decenni del secolo XV e nei primi del XVI,
nativo dell’isola di Candia. È sua la composizione e la prima edizione dell’Etymologicon magnum
(Dizionario etimologico della lingua greca). Pubblicò inoltre Pindaro, Teocrito e altri autori.
2. Lemierre in L’utilité des découvertes:
Croire tout découvert est une erreur profonde,
C’est prendre l’horizon pour les bornes du monde.

POSTILLA XVIII.

Fra quanti poeti vantar possa la moderna letteratura, niuno certamente


può agguagliarsi al Dante nel sublime e nella originalità; e tuttavia non
alla spontanea virtù del proprio estro, ma allo studio di Virgilio egli non
esitò di attribuire se potè giungere tant’alto in poesia. (Append., fol 25).
E perché da questa così detta imitazione di Virgilio uscirono le cantiche
dell’Inferno, del Purgatorio e del Paradiso, che nulla hanno di comune
colla Eneide, permetterà il sig. Londonio al gregge degli imitatori di
ostentar quell’esempio, e che insuperbiscano nelle loro dottrine? Egli è un
farsi beffa delle parole, delle idee e dello stesso passo di Dante recato dal
sig. Londonio, l’attribuire la Divina Commedia allo studio di Dante sopra
Virgilio, piuttosto che alla virtù del proprio estro. Dante è quel sovrano
ingegno che noi recammo sempre a perfetto prototipo di poeta
essenzialmente italiano. Dicemmo già, che fu tempo in cui si «poteva
prevedere entro quali spaziosi e liberali confini avrebbe allignato in Italia
l’arte dell’imitazione; perché il sommo italiano ne l’aveva egli insegnata, e
collo scarso sussidio di una lingua ancor fanciulla sollevato aveva l’Ugolino
a paro del Laocoonte virgiliano; e chi sa fin dove saremmo progrediti su le
venerande poste di quel piede! Ma quei benedetti fuorusciti (Bizantini) si
diedero tosto a organare a furia officine di ricopiature, a ridurre tutta quanta
la ragion letteraria e filosofica a meccanismo e ad allacciare gl’ingegni con
dei rituali poetici, piuttosto che armarli di nuove penne e additar loro più
ardite mete. Quindi, quindi fu fattibile ed ovvio ad ogni miseruzzo ingegno
d’intromettersi in quel santuario!» (Discorso intorno all’ingiustizia di
alcuni giudizi letterari). Ed ora dicemmo «che invaso dalla favola virgiliana
del Laocoonte, Dante, onde ripeterne degnamente gli effetti, non ritenne di
essa che la pura drammatica situazione, il cui nerbo è tutto riposto nella
reciproca dolorosissima ripercussione degli affetti paterni e filiali. A
riprodurre pertanto un simile quadro, s’avvide egli, quel miracoloso
ingegno, ch’era d’uopo raccomandar quella situazione a’ costumi,
avvenimenti ed accessori tutti analoghi ai suoi paesi ed a’ suoi giorni. Non
fu egli, no, di così corta veduta da confondere l’ideale d’una favola colle
forme, onde incarnarla nelle immaginazioni e negli affetti, perché a lui non
fuggiva che se la maestà creatrice del poeta si manifesta nel ritrovamento
del concetto ideale, la bravura dell’artefice poetico consiste nell’attingerne
le forme dall’indole onde sono costumate e atteggiate le fantasie». (Osserv.
sopra il Giaurro, art. II).

POSTILLA XIX.

Dai tempi di Aristotele in poi il cuore umano non ha cangiato natura per
quanto io sappia. (Append., fol. 28).
No, ma il cuore umano è più esercitato, più esperimentato nel
sessantesimo che nel trentesimo secolo della società e gli Aristoteli non
meno che gli Archimedi posteriori hanno lasciato gran lunga indietro i
primi.
«L’animo umano è provetto, e le migliaia cose egli ha da raccontare alla
immaginazione ritornando sulle diverse sue epoche, e svolgendo le diverse
sue epopeie naturali, giudaiche, pagane, cristiane, selvagge, barbare,
maomettane, cavalleresche, filosofiche, ec.». (Osserv. sopra il Giaurro, art.
II).

POSTILLA XX.

Sembra che il sig. cavaliere non avvertendo che alla intuizione logica
ripugnano egualmente le invenzioni della mitologia, come le superstiziose
fole dei tempi moderni, abbia voluto togliere di mezzo ogni dubbio sulla
efficacia poetica della mitologia. (Append., fol. 29).
Il signor Londonio vorrà senza dubbio tener conto di quelle persone la
cui intuizione logica ripugna alle fole mitologiche, senza ripugnare agli
espedienti che la religione cattolica, o almeno la cristiana, come la
intendono i non cattolici, somministra alla poesia. E, a cagion d’esempio,
quella stessa intuizione logica che ricusa di fissarsi nella immagine d’un
postribolo immortale, adotterà volontieri, anche come pura finzione, i cori
angelici, i lieti riposi della virtù in seno alla Divinità, un compiuto perenne
compiacimento della creatura in Dio e della facoltà sua di amare.
Torno qui a ripetere ch’io abiurai fin da principio quella dottrina
romantica esclusiva d’un genere o d’un altro, e ch’io non sono intollerante
che della sola intolleranza. Dunque anche la mitologia si mantenga in
onore, s’è vero ch’ella possa tuttavia serbar qualche efficacia. Bensì per
quella libertà cui ognuno ha diritto, dissi, e credo averlo discusso con sode
ragioni, e qui torno a ripetere ch’io tengo ora mai la mitologia per un inutile
balocco, e credo che sia battuta l’ora di lasciarla nei musei, e di valersene al
più come linguaggio di convenzione, tecnico e comodo. Il fatto proverà alla
lunga s’io abbia avuto o no un giusto presentimento di ciò che stanno per
tentare i futuri sommi ingegni. Intanto fo sapere al sig. Londonio, ch’io non
aspettai da lui l’esempio, onde onorare quei poeti che ancora si sono giovati
con successo dei fasti mitologici e greci, e dissi e proclamai in una lingua,
ch’è più generalmente intesa che non l’Italiana. «En Italie, de nos jours
même (justice soit rendue à quelques heureux esprits et à notre immortel
Monti surtout), le talent de rafraîchir ces mêmes images n’est pas perdu.
J’en appelle aussi à ceux qui ont connaissance de Yhymne d’Alcée, de M.
Foscolo: ils conviendront que la nature mythologique et héroïque occupait
une région fort inférieure à celle où son génie parvient à l’élever»1

1. Grand Commentaire sur un petit article, ediz. cit., p. 204. Vedi anche l’alto elogio al Monti con
cui si chiudono i versi sciolti al Caluso, del 1810.

POSTILLA XXI

La mitologia non solamente dà vita ai corpi inanimati, ma personifica


eziandio le forze morali della natura, ciò che quello (il sistema romantico)
non fa. (Append., fol. 34).
Non crederei, neppur dopo tutte le altre obiezioni del sig. Londonio,
ch’egli avesse potuto lasciarsi fuggire questa dalla penna, s’io non l’avessi
riletta più volte onde assicurarmene.
La poesia romantica non è che un continuo mettere in scena sotto tutte le
forme possibili le forze morali della natura. La cosa è tanto assolutamente
vera e sfavillante, che non aggiungerò neppure una parola onde dimostrarla,
né un solo esempio fra le migliaia che ognuno può da se stesso
procurarsene. Bensì aggiungerò che il concetto poetico che presta una
specie di vita ai fiori, alle aure, alle nubi, al raggio notturno, alla voce de’
venti, al susurro delle acque, non esclude altronde l’espediente d’altre
personificazioni, come appunto quella del gigante di Camoens1.
L’essenziale consiste nel comunicare l’estro fantastico al lettore, e nel
rendere le immagini a lui simpatiche: ora, la trita mitologia, che può tuttavia
lasciar luogo a bellezze e lascivie di stile, non la crediamo decisamente più
suscettiva d’un estro comunicabile, e perciò non più poesia viva ed efficace.

1. Il gigante Adamastor, che nel poema Os Lusiadas personifica il «Cabo Tormentorio» o Capo
delle Tempeste (canto V):
Quel Capo io son che per terror da voi
Tormento è detto…
e di cui saggio alcuno o prima o poi
né seppe il nome, né conobbe il fato:
Affrica chiudo e da’ confini suoi
con alto promontorio anco intentato
all’Antartico vo, né guardo inulto
questi mari ove rechi il primo insulto.
Me fier di nome e forze Adamastoro
espose alle mortali aure la Terra,
e il primier fui del numer di coloro
che i Numi stessi minacciar di guerra.

Il Di Breme conosceva / Lusiadi del Camoens nella traduzione del genovese Antonio Nervi, la
quale aveva veduto la luce nel 1814. Il Nervi visse dal 1760 al 1836. Il Conciliatore pubblicò poi nel
n. 1 (3 settembre 1818) l’art, di S. Sismondi, Os Lusiadas, Poema epico de Luis de Camoens, nova
edição, correcta e dada á luz por Dom Joze Maria de Souza-Botelho (Parigi, Firmin Didot, 1817).

POSTILLA XXII.

Si facciano innanzi i signori romantici e comincino dal darci una


definizione chiara e precisa del loro sistema, poi passo passo ce ne additino
i principî, le leggi, i confini. (Append., fol. 35).
Il signor Berchet1 non vuole che si facciano poetiche, e grida, che
poetiche di Dio! E il signor Berchet ha per sé molte valide ragioni, giacché
la storia letteraria gl’insegna che le poetiche hanno spesso affogato la
poesia. Ma propongo anch’io un mezzo-termine al sig. Londonio, e dico in
vece: «Non si facciano più innanzi i signori classici colle loro definizioni;
riconoscano l’imbecillità dei tanti loro principî, la stitichezza di tante loro
leggi, l’angustia dei loro confini; e noi da quel momento avremo cessato di
far distinzione fra poesia classica e romantica, e tutto ciò che raggiungerà lo
scopo a cui può solo arrivare la efficace poesia, avremo per legittimamente
poetico; e se così teneri sono essi del titolo classico, classica intitoleremo
anche noi quella poesia allora».

1. Nella Lettera semiseria di Grisostomo [cfr. pp. 450-452 della presente edizione].

POSTILLA XXIII.

Chi bramasse un saggio dell’evidenza delle dottrine romantiche, legga e


mediti il seguente passo, cavato dalle Osservazioni sul Giaurro di Lord
Byron («Spett. Ital.», n. XI, p. 58). Quanto a me, confesso, senza arrossire,
di essere nella classe innumerevole di coloro che non intendono niente
affatto di tutto ciò. (Append., foli. 37-39).
Siccome il passo in cui vengo tacciato d’oscurità dal sig. Londonio, si
aggira tutto su le analogie della Natura (che altri chiama Armonie morali e
fisiche della natura), così l’error mio può essere semplicemente di aver
presentato una serie d’idee derivate dal senso e dal valore che si attribuisce
oggidì nella filosofia dell’arti e delle lettere, e nelle discussioni sul gusto, a
questa parola, analogia. Forse il sig. Londonio non ha ancora determinato
seco stesso in qual senso egli adotterà e impiegherà questo vocabolo, e
allora non è meraviglia s’egli dice di non v’intendere niente.

POSTILLA XXIV.

Sarà meglio aspettare a discorrerne estesamente fino a che piaccia al


cielo di dare a lui il dono di spiegarsi più chiaro. (Append., fol. 39).
Basta per ora la postilla precedente.
o a noi balordi quello di poterlo intendere (ivi). E così sia.
***
Ma non più scherzi e non più litigi col sig. Londonio in avvenire. —
S’egli, a malgrado di quanto gli ho dichiarato nelle mie postille, persistesse
nel credere ch’io volessi alludere a lui e ai suoi Cenni critici, oltre ciò che
nelle mie osservazioni vi avea di chiaramente ed apertamente a lui diretto,
io da quel punto mi recherei ancora una volta a dovere di protestargli
nell’accomiatarmi da lui, che ben lungi dall’aver mai compiaciuto a tale
intenzione, non la nudrii pure un istante: mi ascriverei a colpa l’equivoco
stile che lo avesse tratto in questo inganno, e bramerei ch’egli desse alle
attuali mie parole forza e virtù d’un compiuto risarcimento.
Il sig. Londonio avrebbe acquistato diritto sulla mia gratitudine, s’egli
non avesse creduto così leggermente ch’io fossi capace di giammai
confondere lui e i pari suoi con quelli che, lungi dall’invocare (com’egli fa),
paventano in vece e impediscono una liberale legislazione poetica contra
l’ARROGANTE PEDANTERIA: e molto meno poi con una certa razza, che
allorquando non ha più interesse di lambire le calcagna altrui, le molesta e
rode1.

1. Vedi nello Spettatore italiano, cit., t. X, pp. 236-240, la recensione all’Appendice cit. del
Londonio e la Protesta del medesimo contro le Postille del Di Breme da lui giudicate non degne di
risposta. Nel medesimo volume vedi una lunga recensione ai Cenni critici sulla Poesia romantica del
Londonio (pp. 32-46) e leggi a pp. 196-204 un altro articolo Sopra alcuni errori occorsi nell’articolo
contenuto nel fase. XCI dello «Spettatore» intorno ai Cenni critici sulla poesia romantica del
Londonio. Nel medesimo volume vedi le recensioni al Manfredo del Byron tradotto dal Pellico (pp.
276-286) e alla Francesca da Rimini (pp. 297-311).
La prima pagina del primo numero del «Conciliatore» (3 settembre 1818).
DAL «CONCILIATORE»
Il «Conciliatore», foglio scientifico-letterario, fu pubblicato due volte la
settimana, per cento diciotto numeri, dal 3 settembre 1818 al 17 ottobre
1819, col motto Rerum concordia discors.
È innegabile che per molte idee queir animoso periodico si riconnette ai
tre manifesti romantici del 1816; ma nel tono e nel colore esso rispecchia
condizioni spirituali già diverse da quelle in cui con aperto impeto d’assalto
erano apparsi gli scritti polemici di Ludovico di Breme, di Pietro Borsieri e
di Giovanni Berchet.
La rivista, che nel 1816 il Di Breme insieme col Borsieri e col Pellico
aveva ideato come foglio d’avanguardia, era Il Bersagliere, giornale
drammatico, morale, a cui avevano promesso la collaborazione Ugo
Foscolo, la Signora di Staël, A. G. Schlegel, il Sismondi e Pietro Luigi
Ginguené. Ma il disegno era svanito tra difficoltà pratiche; e, allorché nel
1817, in casa del conte Luigi Porro Lambertenghi, presso cui abitava il
Pellico, fu rivolto dal Di Breme e dagli altri frequentatori il pensiero a un
periodico morale e letterario (a una specie di Spettatore), che rinnovasse
l’aria malsana e cooperasse a un risveglio di tutte le attività, da quelle ideali
a quelle pratiche, il disegno non poteva essere che diverso.
Le polemiche del 1816 non erano passate inutilmente e il Di Breme
stesso, che era il più veemente e avventuroso, era venuto rendendosi
ragione che, per isvolgere azione proficua, era necessario un piano di lavoro
più vasto e più particolarmente definito di quello che aveva indicato nel
Discorso intorno all’ingiustizia di alcuni giudizi letterari italiani.
L’esigenza di un programma lungimirante, meditato nelle parti e ben
coordinato, è anche evidente nella proposta che egli, impaziente che troppo
si tardasse a far il giornale dei novatori, rivolse in principio del 1818 a
Pellegrino Rossi: di pubblicare a Milano o a Ginevra un Messaggero delle
Alpi, del quale per la parte italiana fosse direttore lui, Di Breme, e per la
parte straniera il Rossi stesso. Se quel disegno si fosse potuto attuare,
l’Italia per opera sua avrebbe allora avuto un periodico d’avanguardia di
significato internazionale, con la collaborazione, già promessa, di Silvio
Pellico, Pietro Borsieri, Vincenzo Monti, Giovanni Berchet e di altri
scrittori, che sarebbero stato scelti.
Ma in questo caso il volo sarebbe stato ancor più arduo di quello che si
poteva tentare con una nuova specie di Spettatore; e, poiché non si fanno
che le cose fattibili, il Di Breme, lasciata l’idea del Messaggero delle Alpi,
in quei mesi stessi, non appena il disegno ventilato nella casa del conte
Porro poté prendere consistenza, fu tra i più assidui a preparare Il
Conciliatore, a cercar collaboratori che ne consolidassero e ampliassero il
programma, a predisporre gli animi dei conoscenti alla sua apparizione e a
suscitarne l’attesa.
Scriveva egli a Michele Leoni poche settimane avanti che fosse dato alla
luce il primo numero: «Le ho indirizzato una lettera ex officio come a una
persona su di cui i fondatori del Conciliatore riposano le più sicure loro
speranze costì [a Firenze ]. La prudenza e le mille precauzioni che
precedettero alla pubblicazione del programma distinguono questa impresa
da tutte le consimili. Essa è ben legata, ben munita; s’attiene a vaste
relazioni; alto disprezzo dei malevoli e delle persecuzioni politiche e
letterarie; universalità di studi e profondezza di ragione temprata colla più
omogenea festività disinteresse e anche sacrifizi pecuniari ove occorra: ecco
i principali caratteri dello spirito che ci anima. Ella si unisca a noi che le
siamo tutti amicissimi».
Quest’invito dimostra con quanta ponderazione siano stati scelti i
collaboratori e vagliati gl’intendimenti del programma, che con provvido
criterio dalla letteratura fu esteso alla filosofia, alla religione, alle scienze,
all’economia, alla giurisprudenza, all’agricoltura, alla sociologia e anche
alla politica. Il motto Rerum concordia discors non era una frase retorica,
ma l’indice veridico delle condizioni in cui vennero a trovarsi quelle menti
disparate, consenzienti nel voler operare per un ideale. Perciò, in questo
caso, esso fu accolto all’unanimità dai collaboratori, sebbene fosse una
frase del poeta più bersagliato dai romantici: di Orazio.
In un saggio su La nascita del «Conciliatore» il Li Gotti, che è autore di
un bel libro sul Berchet, ha sostenuto che il titolo «Conciliatore» nella
prima origine voglia significare sopra tutto la conciliazione di due gruppi
letterari: di quello dibremiano (Di Breme, Pellico, Borsieri) e di quello
manzoniano (Ermes Visconti, Torti, De Cristoforis, Berchet); e ha aggiunto
che, sebbene l’iniziativa del Conciliatore sia partita dal gruppo dibremiano,
in realtà il Di Breme sia giunto «buon ultimo ad accettare quelle idee che
già da un pezzo erano proprie del Berchet e del gruppo manzoniano».
Esaminiamo la questione, perché giova a spiegare il titolo del periodico e
l’azione varia dei collaboratori. Essa ha due aspetti: uno cronistorico e uno
ideale.
Per quanto riguarda la cronistoria, il documento, su cui il Li Gotti fa
pernio, è una lettera che il Pellico scrisse al fratello Luigi il 28 giugno 1817,
allorché il Di Breme, il Pellico, il Borsieri studiavano di fondare «una
specie di Spettatore», da contrapporre alla Biblioteca Italiana. È detto nella
lettera: «Il nostro giornale tanto meditato unirebbe la società di Berchet e la
nostra, ma le volontà non sono ancora sufficientemente concordi; a chi
manca il tempo, a chi la fiducia nell’impresa, a chi la tolleranza per le
opinioni dei soci, e tutto è sospeso». Ma questo documento comprova in
sostanza che il concetto attivo della conciliazione, per cui il giornale da
«Spettatore» divenne più tardi «Il Conciliatore», partì proprio dal gruppo
dibremiano; quindi in definitiva riconferma la notizia tradizionale: che i
mediatori della conciliazione furono i novatori che avevano convegno nella
casa del Conte Porro.
Il concetto ideale della conciliazione trionfò non appena questi, che
acconsentiva col Di Breme, col Pellico, col Borsieri e col Berchet stesso
nella dottrina della perfettibilità sociale e dell’universalità degli studi, estese
il programma dalle lettere alle scienze, all’economia, all’agraria, alle
manifatture, alla sociologia e, d’accordo con Federico Gonfalonieri, rese
attuabile il disegno in un vasto e magnifico campo d’azione, quello
dell’utilità generale, in cui assenso e lavoro diventavano quasi per tutti un
dovere. Questo fatto non solo dimostra come in definitiva il concetto ideale
del Conciliatore trascenda di gran lunga i primi approcci dei due gruppi
letterari, indicati dal Pellico, ma anche spiega perché alcuni di quei letterati,
affascinati dalla dottrina della perfettibilità sociale e dell’interdipendenza o
correlazione che hanno in questa gli studi, non abbiano nel periodico
trattato esclusivamente di lettere, lingua e poesia, ma abbiano preso a
esaminare, in connessione al programma informatore, questioni morali,
problemi religiosi, temi economici, metodi pedagogici, disegni caritativi e
filantropici, saggi di filosofia delle scienze e gravissimi argomenti storici,
che richiedevano di volta in volta una laboriosa preparazione e una definita
posizione di pensiero, la quale, come abbiamo visto, ondeggiava in generale
tra l’illuminismo razionalistico e un idealismo, che mirava a colmarne le
lacune e a toglierne le manchevolezze in una rinnovata visione della vita.
Per mostrare che il titolo Il Conciliatore significa sopra tutto
conciliazione di persone e di gruppi, si suole citare un’altra lettera del
Pellico, del 1818, in cui egli dice al fratello Luigi: «L’ingiuriarsi è dannoso,
come accade se non v’è una società nella quale concorrano i diversi
opinanti; ma quando si porgono la mano per discutere ciascuno il suo
pensiero nello stesso, ecco la vera conciliazione. Confalonieri e Porro, come
nobili, erano senza contatto con certi ultra-liberali. Si sono avvicinati, e
ogni disarmonia è sparita. Romagnosi teneva ad un crocchio di gente che
guardava in cagnesco il crocchio di Rasori. Si sono avvicinati e ogni
disarmonia è sparita. Berchet, De Cristoforis, Ermes Visconti, Torti,
formavano un’altra brigata che guardava in cagnesco Borsieri e me. Ci
siamo riconosciuti, giustificati e stimati. Ci apponevamo orgoglio,
pedanteria ec…, apponevano a Breme malignità, invidia, religionismo ec…
Ci siamo trovati tutti quasi della stessa natura e della stessa credenza».
Ma questa lettera in ultima analisi non vuol mostrare se non gli effetti
benefici che lo spirito conciliativo, fin dalle prime settimane del periodico,
aveva avuto sull’attività dei collaboratori, e quindi è un’altra testimonianza
che l’avvicinamento avvenne per opera del sentimento, delle idee e di un
comune desiderio di vero e di bene. Essa non fa che convalidare ciò che il
Pellico scriveva al Foscolo il 17 ottobre 1818: «Noi ci proponiamo di
conciliare e conciliamo infatti, non i leali coi falsi, ma tutti i sinceri amatori
del vero». Questa frase incisiva porta senz’altro l’interpretazione ideale del
titolo Il Conciliatore sopra le persone singole, le quali, nel tempo stesso che
rimanevano libere nell’ingegno e nel pensiero, facevano proprio, come
diceva nell’introduzione il Borsieri, il proponimento di «diffondere nel
pubblico la sociale filosofia dei costumi e gli studi generosi del bello».
Ma, quand’anche tra i vari gruppi di studiosi, riunitisi a preparare il
periodico secondo le direttive del Porro e del Confalonieri, si voglia
riguardare in modo particolare la schiera dei letterati, che fu certamente la
più forte, converrà andar molto cauti prima di asserire che l’idea della
conciliazione fu in essa portata dal «gruppo manzoniano» e che il Di Breme
e i suoi amici vi si adattarono. Innanzi tutto, letterariamente, è noto che il Di
Breme già nel 1815, nei Cenni storici degli studi e delle virtù di Tommaso
Valperga di Caluso, aveva accolto la previsione fatta dal suo maestro che
«la gran controversia» di quei giorni, superando gli «inevitabili
andirivieni», i quali mai non mancano nei movimenti di pensiero, sarebbe
giunta in Italia per dialettica interiore e con vantaggio della letteratura e
della cultura al «punto della conciliazione» è noto che egli già nel 1816,
scrivendo a Diodata Saluzzo, pochi giorni prima che fosse pubblicato il
Discorso per la Staël, aveva detto: «Ove sia stabilita una ragione poetica
moderna, un sistema d’arti ideali oltre il greco ed il romano, entriamo noi
[italiani] necessariamente a figurarvi in prima linea, e noi, maestri già
nell’imitazione di quegli antichi imitatori della natura, e precettori
all’Europa in quell’arte subalterna, faremo poi la prima comparsa
campeggiando da assoluti originali ed esemplari in fatto di poesia cristiano-
europea».
In secondo luogo non si deve dimenticare che la possibilità di una
cooperazione ideale tra novatori, conciliantisi su punti fondamentali,
palesemente si era già delineata fin da quando il Borsieri e il Berchet, l’uno
indipendentemente dall’altro, nel 1816 avevano dato il loro assenso al
pensiero centrale di quel Discorso, che aveva detto chiaro doversi rinnovare
dal profondo lo spirito letterario italiano, se si voleva portarlo all’altezza di
quello europeo e renderlo ancora efficace nella civiltà moderna. Quell’anno
anzi, come abbiamo dimostrato nel commento alla Lettera semiseria, il Di
Breme aveva proprio rinunziato a scrivere una «Poetica romantica», perché
aveva riconosciuto giusta un’osservazione critica del Berchet: che, per
lasciar piena libertà alla poesia, era meglio non scrivere nessuna nuova arte
poetica, perché sarebbe andata a far mucchio con tutte le altre anteriori, cioè
sarebbe stata inutile. Quali migliori prove potrebbero essere date a mostrare
che il pensiero critico del Di Breme e quello del Berchet agivano, già prima
del Conciliatore, reciprocamente, l’uno sull’altro?
Si aggiunga che si ha un’altra testimonianza di vicinanza ideale nella
promessa fatta dal Berchet al Di Breme di collaborare al Messaggero delle
Alpi, del quale abbiamo fatto cenno; e per questo secondo punto non sarà
necessario spendere altra parola.
In terzo luogo converrà fare un’osservazione finora sfuggita a tutti. Il
Pellico nella lettera or ora citata accenna ad avversioni che «la brigata del
Berchet», «la società del Berchet» aveva per lui, Pellico, e pel Borsieri; ma
non dice affatto che quella brigata «guardasse in cagnesco» anche il Di
Breme, giacché egli sapeva che questi, sebbene fosse tra i conoscenti
oggetto di molte critiche, era in buone relazioni con Grisostomo, con Ermes
Visconti, col De Cristoforis, col Torti. Anche questa singolare distinzione,
fatta dal Pellico, conferma dunque che il Di Breme non giungeva «buon
ultimo» alla conciliazione.
Di più: quelle frasi «brigata di Berchet», «società di Berchet», su cui il
Pellico insiste, devono rendere prudenti a non fare troppo spesso, per questo
particolare argomento, il nome del Manzoni, il quale, come è noto, sebbene
abbia avuto vive simpatie pel Conciliatore, non volle ad esso collaborare.
Gli studiosi, per una loro prospettiva storica, hanno raccolto intorno a lui
come in un bel quadro le immagini delle persone che lo frequentavano; ma
una società non è mai rigida sulle sedie né prende sempre l’imbeccata per
ogni pensiero e per ogni atto da chi sta al centro del quadro. Il Berchet non
meno che il Manzoni aveva amici e alcuni di quelli stessi che frequentavano
la casa del Manzoni amavano discutere con lui idee e opinioni, esaminare
proposte e disegni. Ora, per quel che riguarda il Conciliatore, converrà che
ci limitiamo a parlare — come fa il Pellico — della «brigata del Berchet»,
senza dire continuamente che la società del Berchet si identificava con
quella del Manzoni. La limitazione è tanto più necessaria, se si considera
che Grisostomo non in tutto consentiva col Manzoni; anzi pel pensiero
religioso e specialmente per l’animo con cui riguardava la riforma
protestante, era più vicino al Di Breme che non al Manzoni.
Quest’avvertenza non diminuisce affatto il significato delle
testimonianze, che si hanno intorno alla simpatia del Manzoni per l’azione
rinnovatrice del Conciliatore; anzi l’accresce, perché dà più profonda
evidenza alla serenità di quell’uomo.
Sebbene quel periodico esprimesse talora opinioni particolari che non
potevano conciliarsi con le sue idee, nondimeno egli comprese che esso
aveva intrapreso un’opera propulsiva vitale per l’Italia. Questo giudizio può
essere anche oggi accolto, sebbene, come è naturale, molte posizioni del
Conciliatore possano apparir del tutto oltrepassate.

Dalla raccolta del Conciliatore scelgo per questo volume alcuni saggi,
che hanno più diretta attinenza con gli argomenti trattati nei tre manifesti
del 1816.
Per le discussioni sull’idea conciliativa si veda il mio saggio Il
romanticismo italiano in un libro di Paul Van Tieghem, nella rivista «La
Cultura» di Cesare De Lollis, Roma, Olschki, 1924, vol. III, p. 165. Per le
questioni religiose si veda il saggio Di alcune tendenze non cattoliche del
primo nostro romanticismo, ivi, p. 385.
GIAN DOMENICO ROMAGNOSI
DELLA POESIA CONSIDERATA RISPETTO ALLE DIVERSE ETÀ
DELLE NAZIONI1

— Sei tu romantico? — Signor no. — Sei tu classico? — Signor no. —


Che cosa dunque sei? — Sono ilichiastico, se vuoi che te io dica in greco,
cioè adattato alle età2. — Misericordia! che strana parola! spiegatemela
ancor meglio, e ditemi perché ne facciate uso, e quale sia la vostra
pretensione.
La parola che vi ferisce l’orecchio è tratta dal greco, e corrisponde al
latino aevum, aevitas, e per sincope aetas, la quale indica un certo periodo
di tempo, e in un più largo senso il corso del tempo. Col denominarmi
pertanto ilichiastico, io intendo tanto di riconoscere in fatto una letteratura
relativa alle diverse età, nelle quali si sono ritrovati e si troveranno i popoli
colti, quanto di professare princìpi, i quali sieno indipendenti da fattizie
instituzioni per non rispettare altre leggi, che quelle del gusto, della ragione
e della morale3
Io assumo poi questa parola per ciò solo che si vuole un termine tecnico,
del quale per altro si può far senza. Del resto gli uomini hanno sempre
servito alle denominazioni, specialmente quando hanno voluto segnare la
professione di qualche opinione.
Ma la divisione di romantico e classico (voi mi direte) non è dessa forse
più speciale? Eccovi le mie risposte: O voi volete far uso di queste parole
per indicare nudamente il tempo, o volete usarne per contrassegnare il
carattere della letteratura delle diverse età. Se il primo, io vi dico essere
strano il denominare classica l’antica, e romantica la media e moderna
letteratura. I tre periodi della storia antica, media e moderna sono fra loro
distinti non da una divisione artificiale e di convenzione, ma da effettive
rivoluzioni.
Se poi volete adoperare le parole di classico e di romantico per
contrassegnare il carattere dell’europea letteratura nelle diverse età, a me
pare che usiate di una denominazione impropria.
Il senso comune insegna sempre di classificare ogni cosa non secondo
l’origine, ma secondo le forme proprie esistenti nel dato soggetto. Voi vi
riferite all’origine dei Trobadori invece di valervi dei caratteri propri delle
cose e dell’età. Dunque la divisione di classico e di romantico è impropria.
Ed affinché non nasca dubbio essere stata la divisione di classico e di
romantico dedotta non dal carattere proprio della poesia, ma dalla
mentovata discendenza dei tempi barbari, eccovi un passo decisivo: «Le
nom de romantique a été introduit nouvellement en Allemagne pour
désigner la poésie dont les chants des troubadours ont été l’origine, celle
qui est née de la chevalerie et du christianisme. Si l’on n’admet pas que le
paganisme et le christianisme, le nord et le midi, l’antiquité et le moyen
âge, la chevalerie et les institutions grecques et romaines, se sont partagé
l’empire de la littérature, l’on ne parviendra jamais a juger sous un point de
vue philosophique le goût antique et le goût moderne.
On prend quelquefois le mot classique comme synonyme de perfection.
Je m’en sers ici dans une autre acception, en considérant la poésie classique
comme celle des anciens, et la poésie romantique comme celle qui tient de
quelque maniére aux traditions chevaleresques. Cette division se rapporte
également aux deux ères du monde: celle qui a précédé l’établissement du
christianisme, et celle qui l’a suivi»a.
Quando piacesse di contrassegnare la poesia coi caratteri delle diverse
età, parmi che dividere si potrebbe in teocratica, eroica e civile4. Questi
caratteri hanno successivamente dominato tanto nella prima coltura che fu
sommersa dalle nordiche invasioni, quanto nella seconda coltura che fu
ravvivata e proseguita fin qui. Questi caratteri non esistettero mai puri, ma
sempre mescolati. Dall’essere l’uno o l’altro predominante si determina il
genere, al quale appartiene l’una o l’altra produzione poetica.
Vengo ora alla domanda che mi faceste, se io sia classico o romantico; e
ponendo mente soltanto allo spirito di essa, torno a rispondervi che io non
sono né voglio essere né romantico, né classico, ma adattato ai tempi ed ai
bisogni della ragione, del gusto e della morale. Ditemi in primo luogo: Se io
fossi nobile ricco, mi condannereste voi perché io non voglia professarmi o
popolano grasso, o nobile pitocco? Alla peggio, potreste tacciarmi di
orgoglio, ma non di stravaganza. Ecco il caso di un buon italiano in fatto di
letteratura. Volere che un italiano sia tutto classico, egli è lo stesso che
volere taluno occupato esclusivamente a copiare diplomi, a tessere alberi
genealogici, a vestire all’antica, a descrivere o ad imitare gli avanzi di
medaglie, di vasi, d’intagli e di armature, e di altre anticaglie, trascurando la
coltura attuale delle sue terre, l’abbellimento moderno della sua casa,
l’educazione odierna della sua figliolanza. Volere poi che egli sia affatto
romantico, è volere ch’egli abiuri la propria origine, ripudi l’eredità de’ suoi
maggiori per attenersi soltanto a nuove rimembranze specialmente
germaniche.
Voi mi domanderete se possa esistere questo terzo genere, il quale non sia
né classico né romantico? Domandarmi se possa esistere è domandarmi se
possa esistere una maniera di vestire, di fabbricare, di conversare, di
scrivere, che non sia né antica, né media, né moderna. La risposta è fatta
dalla semplice posizione della quistione.
Ma questo terzo genere sarà desso preferibile ai conosciuti fra noi? Per
soddisfarvi anche su tale domanda osserverò primamente che qui non si
tratta più di qualità, ma bensì di bellezza o di convenienza. In secondo
luogo, che questa quistione non può essere decisa che coll’opera della
filosofia del gusto, e soprattutto colla cognizione tanto dell’influenza
dell’incivilimento sulla letteratura, quanto degli uffizi della letteratura a pro
dell’incivilimento.
Non è mia intenzione di tentare questo pelago. Osserverò soltanto che
questo terzo genere non può essere indefinito; ma dovrà essere
necessariamente un frutto naturale dell’età, nella quale noi ci troviamo, e si
troveranno pure i nostri posteri. Noi dunque non dobbiamo sull’ali della
metafisica errare senza posa nel caos dell’idealismo, per cogliere qua e là le
idee archetipe5 di questo genere; ma dobbiamo invece seguire la catena
degli avvenimenti, dai quali nelle diverse età essendo stata introdotta una
data maniera di sentire, di produrre, e quindi di gustare e di propagare il
bello letterario, ne nacque un dato genere, il quale si poté dire perciò un
frutto di stagione di quella età. Per quanto vogliamo sottrarci dalla corrente,
per quanto tentiamo di sollevarci al di sopra della ignoranza e del mal gusto
comune, noi saremo eternamente figli del tempo e del luogo in cui viviamo.
Il secolo posteriore riceverà per una necessaria figliazione la sua impronta
dal secolo anteriore. E tutto ciò derivando primariamente dall’impero della
natura che opera nel tempo e nel luogo, ne verrà che il carattere poetico o
letterario, comunque indipendente dalle vecchie regole dell’arte, perché
flessibile, progressivo, innovato dalla forza stessa della natura, sarà
necessariamente determinato, come è determinato il carattere degli animali
e delle piante, che dallo stato selvaggio vengono trasportate allo stato
domestico.
Posto tutto ciò, l’arbitrario nel carattere della letteratura cessa di per sé.
Si potrà allora disputare bensì se il bello ideale coincide o no col bello
volgare; se il gusto corrente possa essere più elevato, più puro, più esteso;
ma non si potrà più disputare se le sorgenti di questo bello debbano essere
la mitologia pagana piuttosto che i fantasmi cristiani, i costumi
cavallereschi piuttosto che gli eroici, le querce, i monti o i castelli gotici,
piuttosto che gli archi trionfali, le are e i templi greci e romani. Il carattere
attuale sarà determinato dall’età o dalla località: vale a dire dal genio
nazionale eccitato e modificato dalle attuali circostanze, il complesso delle
quali forma parte di quella suprema economia, colla quale la natura governa
le nazioni della terra.
Passando poi agli uffici della letteratura, io loderò bensì che il germanico
pascoli l’orgoglio suo nazionale ed illustri i primordi della sua moderna
civiltà coi boschi tetri e silenziosi, coi turriti ed aguzzi castelli, colle corone
di ghiande, coi costumi cavallereschi, col meraviglioso magico, ma nello
stesso tempo io mi prenderò la libertà di illustrare per un egual diritto i
primordi dell’italiana civiltà, coi tempi, colle are e colle piazze latine, coi
costumi politici, e col maraviglioso mitologicob. Come havvi una
diplomazia politica, havvi pure una diplomazia letteraria; la parità e la
reciprocazione ne forma la regola fondamentale. Questa osservazione
riguarda specialmente l’epopea.
I più grandi panegiristi della germanica letteratura non hanno mai spinto
le loro pretese fino alla monarchia universale. Essi si sono contentati della
dominazione nazionale. Si può dunque negoziare colle nazioni di una più
antica coltura la ricognizione di questo nuovo dominio, ma non armare
pretensioni di conquista. «En fait de poëme épique (dice la sig. Staël) il me
semble qu’il est permis d’exiger une certaine aristocratie littéraire. La
dignité des personnages et des souvenirs historiques qui s’y rattachent
peuvent seuls élever l’imagination à la hauteur de ce genre d’ouvrage.
Un poëme épique n’est presque jamais l’ouvrage d’un homme, et les
siècles même, pour ainsi dire, y travaillent: le patriotisme, la religion, enfin
la totalité de l’existance d’un peuple, ne peut être mise en action que par
quelques uns de ces événements immenses que le poëte ne crée pas, mais
qui lui apparoissent agrandis par la nuit des temps: les personnages du
poëme épique doivent représenter le caractère primitif de la nation. Il faut
trouver en eux le moule indestructible dont est sortie toute l’histoire»c.
Questa regola si applica fino ad un certo segno anche alla tragedia. Il
campo di essa sta, per dir così, fra quello dell’epopea e della commedia. La
commedia vuol essere contemporanea. Come non si tollererebbe la
rappresentazione delle commedie di Plauto e di Terenzio, così pure si
rigetterebbe quella delle commedie di Macchiavelli e del Bibiena6. Ciò
serva d’avviso all’industria de’ letterati, per non lasciare incolto un terreno
sempre mai fecondo, presentato loro dalle vicende dei secoli. Quanto ai
personaggi della tragedia pare che loro non si possa accordare l’onor del
teatro prima che il secolo loro sia passato, e spente nel popolo tutte le
memorie dell’età loro, per non vivere che nella storia.
Agli altri componimenti è accordata una piena libertà, ricordando
solamente al poeta ch’egli deve ai suoi concittadini un utile tributo de’ suoi
talenti. Ecco gli articoli fondamentali, su i quali gli uomini giudiziosi di tutti
i partiti sono perfettamente d’accordo.
Finisco quest’articolo col pregare i miei concittadini a non voler imitare
le femminette di provincia in fatto di mode, e ad informarsi ben bene degli
usi della capitale. Leggano gli scritti teoretici, e soprattutto le produzioni
della letteratura settentrionale, e di leggieri si accorgeranno che se havvi in
essa qualche pezzo di romantica poesia, niuno si è mai avvisato né per
teoria né per pratica di essere né esclusivamente romantico né
esclusivamente classico nel senso che si dà ora abusivamente a queste
denominazioni. Troveranno anzi essersi trattati argomenti, e fatto uso di
similitudini e di allusioni mitologiche anche in un modo, che niun latino si
sarebbe permesso. Il solo libro dell’Alemagna della signora di Staël ne offre
parecchi esempi.
Il pretendere poi presso di noi il dominio esclusivo classico, egli è lo
stesso che volere una poesia italiana morta, come una lingua italiana morta.
Quando il tribunale del tempo avrà decretata questa pretensione, io parlerò
con coloro che la promossero.

a. De l’Allemagne par madame la Baronne de Staël-Holstein, Tom. I, pp. 271-272.


b. L’autore di questo articolo non ci negherà che dopo la mescolanza dei popoli del nord co’
tralignati figli de’ Romani si è cominciata una nuova generazione d’Italiani, dalla quale noi
deriviamo in retta linea; e che non può considerarsi, esattamente parlando, come una nazione
d’origine latina7.
c. De l’Allemagne par madame la baronne de Staël-Holstein. Tom. I, pp. 306 e 307.
1. Gian Domenico Romagnosi (nato a Salsomaggiore nel 1761, morto a Corfù nel 1835) in
filosofia seguì il razionalismo di F. Crist. Wolf, che, partendo dal Leibnitz, applicava in tutti i campi
il principio della ragion sufficiente e riteneva che l’illuminazione intellettuale sia il più alto ufficio
morale. Reagì pertanto al sensismo, in cui la conoscenza rimane passiva; e fu suo pensiero
fondamentale che la conoscenza implichi il concorso (o, com’egli diceva, la compotenza) dei sensi e
dell’intelletto, il quale applica agli elementi forniti dai sensi le proprie suità psicologiche, che
mettono ordine nei dati sensibili. Questa attività formativa dello spirito nella riflessione, o «senso
logico», fa che le conoscenze siano fatture mentali; ma la mente nostra non può fingerle a suo
piacimento, perché è vincolata dai diversi modi in cui agiscono su di essa gl’impulsi che riceve dalle
cose. Così le conoscenze sono segni a cui corrispondono in natura modi d’essere reali. Ammise
pertanto l’oggettività del reale e si oppose fermamente all’idealismo trascendentale, nel tempo stesso
che comprendeva il significato della soggettività kantiana.
Ritenne inoltre che la formazione dello spirito non si possa intendere se non attraverso la storia
dell’«incivilimento», in cui individuo e società sono strettamente collegati. Il progresso umano è
connesso, a suo giudizio, con lo sviluppo delle idee: l’esperienza si sviluppa sotto la luce di una
ragione di ijo universale; e lo spirito trova la sua libertà nell’equilibrio, nel perfezionamento delle
proprie energie, nella scelta dei valori umani. Libertà nell’equilibrio, perfezione delle proprie energie,
coscienza dei valori umani costituiscono, secondo il Romagnosi, la mente sana. In questo modo egli,
ammettendo la soggettività nella vita dello spirito e ad un tempo ritenendo che la mente umana nel
conoscere e nell’agire poggi sopra la realtà, pensava di poter evitare il kantismo e la dottrina
«ultrametafisica» di Hegel.
Il Romagnosi, filosoficamente, nella storia di quel periodo, ha dunque un duplice significato: da un
lato impersona risolutamente una delle forme più meditate di reazione critica e romantica al sensismo
francese, che, nella seconda metà del Settecento, si era organato nella dottrina superficiale del
Condillac; dall’altro rappresenta la tendenza di salvare l’oggettività della conoscenza di contro al
soggettivismo.
Sue opere principali: Genesi del diritto penale (1791), in cui combatte la dottrina di uno stato di
natura anteriore allo stato sociale (è l’opera giovanile, che gli diede la fama e fu tradotta in varie
lingue; Introduzione allo studio del diritto pubblico universale; Della costituzione di una monarchia
nazionale rappresentativa; Che cosa e la mente sana (1827); Suprema economia dell’umano sapere
(1828); Dell’indole e dei fattori dell’incivilimento, con esempio del suo risorgimento in Italia (1832).
In questa egli, ammiratore di G. B. Vico, si riconnette, come già in altre opere, alla Scienza nuova;
per la concezione nazionale della civiltà si richiama al Machiavelli.
Sia filosoficamente sia politicamente è dunque logica la collaborazione del Romagnosi al
Conciliatore. Nel 1821 fu imprigionato dall’Austria; lasciato libero, ebbe divieto di insegnare. Ma
rimangono nella memoria di tutti i versi dell’ode La terra dei morti (1841) di Giuseppe Giusti:
Cos’era Romagnosi?
Un’ombra che pensava,
e i vivi sgomentava
dagli eterni riposi.
L’articolo qui riprodotto apparve nel n. 3 del Conciliatore (10 settembre 1818).
2. Il Romagnosi, tra i collaboratori del Conciliatore, tentò di eliminare la contrapposizione di
classico e romantico come impropria nel senso e nei termini e credette di dare soluzione alla «gran
controversia» entro una concezione ilichiastica della letteratura, per cui storicamente riguardava nel
passato le opere vitali di ogni scrittore come adatte all’età e al genio di ogni popolo, e pel nuovo
secolo raccomandava agli italiani la composizione di opere rispondenti al pensiero moderno e al
genio nazionale. (La parola ilichiastico deriva dal greco ἡλιϰία, età).
Come è evidente, l’ilichiasticismo del Romagnosi è connesso con la concezione che egli aveva
della formazione dello spirito e dell’indole e dei fattori della civiltà.
Ma la parola ilichiastico non riuscì a sostituire l’aggettivo romantico, perché il Romagnosi finiva
col dare alla questione una soluzione generica, che non eliminava le ragioni dell’antitesi particolare,
che agitava allora le menti.
Perciò il Berchet dissentì apertamente dal Romagnosi, protestò «di essere irremovibilmente
romantico» e insistette nel distinguere la poesia in romantica e classica perché essa gli parve
«utilissima alla teorica e alla pratica». Egli rispose al Romagnosi nello scritto Del criterio dei
discorsi, pubblicato come articolo di fondo nel n. 4 del Conciliatore (13 settembre 1818). Il
Romagnosi ribadì le sue idee nell’articolo Delle fonti della coltura italiana, pubblicato nel n. 12 (11
ottobre 1818).
3. Questo è il pensiero fondamentale dello scritto ilichiastico del Romagnosi.
4. Il criterio di distinzione è derivato manifestamente dal Vico, che aveva distinto l’età degli dei,
l’età degli eroi e l’età degli uomini.
5. Trae la parola da Platone, che aveva adoperato quel termine come sinonimo di idea, per
significare il modello primo delle cose contingenti, il tipo originario delle cose, ideato dal demiurgo o
creatore.
6. La Mandragola e la Clizia del Machiavelli; la Calandria di Bernardo Dovizi da Bibbiena.
7. L’osservazione critica, dovuta probabilmente al Berchet, è importantissima, perché nega una
diretta discendenza degli italiani dai romani e li mette del tutto nel novero delle altre popolazioni
romanze d’Europa.
ERMES VISCONTI
IDEE ELEMENTARI SULLA POESIA ROMANTICA1
Ci fu trasmesso un manoscritto col titolo Idee elementari sulla Poesia
romantica. È diviso in sei articoli, e gli articoli in paragrafi, forma esotica ai
fogli periodici. Lo pubblicheremo in vari numeri consecutivi e senza
interruzione, onde agevolare ai lettori la serie delle idee. Frattanto abbiamo
il vantaggio di dire all’estensore: Voi siete un ignorante degli usi del
mondo, ed avete scritto cose non adattate a un giornale chiamato a bella
posta scientifico-letterario, per indicare che deve essere pieno di barzellette
e di aneddoti.
E. V.

1. Ermes Visconti nacque a Milano nel 1784, morì nel 1841. Lettore appassionato di poeti e
filosofi, fu allora tenuto in molta stima dai collaboratori del Conciliatore per la sua cultura, che
prendeva nelle conversazioni aspetti filosofeggianti; ma nello scritto Idee elementari sulla poesia
romantica, che voleva avere intendimenti divulgativi, non fece trattazione organica, né sistematica. È
un errore il credere che questo scritto sia fondamentale per capire il romanticismo italiano, anzi
rappresenti il caposaldo della prima nostra critica dottrinaria romantica. Sia per le idee sia per lo stile
è inferiore ai tre proclami del 1816. Il Pellico stesso, che era amico al Visconti, giudicava questo
saggio non più che «un trattatello soddisfacente, scritto senza pretenzione, forse un po’ trascurato»; e
sapeva che non a tutti poteva sembrar chiarissimo per le idee, se egli, dopo aver fatto quelle
limitazioni, domandava l’assenso per fargli questa lode: «… ma chiarissimo per le idee, non ti
pare?».
In realtà il trattatello aveva la chiarezza di un’esteriore superficialità, ottenuta con annotazioni o
considerazioni distribuite a paragrafi; ma l’espositore non penetrava a fondo nella «controversia»;
faceva quasi soltanto questione di contenuto, cioè di argomenti; trascurava del tutto la questione dello
stile e si riduceva ad ammettere con una distinzione contraddittoria che la scultura, la pittura e i balli
pantomimici possano servirsi della mitologia, in quanto la loro ragion d’essere è il bello sensibile, la
bellezza visibile, e la poesia moderna non possa servirsene perché la sua ragion d’essere è un bello
intellettuale.
Non solo come trattazione teorica, ma anche come saggio empirico, questo scritto di Ermes
Visconti non ha vigore logico. Meglio condotto, perché meglio delimitato nell’impostazione
particolare, è il Dialogo sulle unita drammatiche di luogo e di tempo, nel quale il Visconti introdusse
come interlocutori un grecista, Luigi Lamberti, un applauditissimo compositore di balli, Salvatore
Vigano, un musicista, Giovanni Paisiello e un filosofo giurista: Gian Domenico Romagnosi.
Il Manzoni nelle Lettre à Monsieur Chauvet sur l’unité de temps et de lieu dans la tragédie, che è
dell’anno dopo (1820) addusse una pagina di questo dialogo, lodando l’amico, «che in alcuni saggi di
critica letteraria aveva già dato prova di un’alta capacità e prometteva di illustrare l’Italia coi lavori
filosofici, ai quali s’era dato in modo particolare». Lo Stendhal richiamò il medesimo dialogo nel
libro Racine et Shakespeare, che segna una data (1823) nella questione romantica del nuovo dramma,
quale fu dibattuta in Francia. Claudio Fauriel tradusse il dialogo in francese e lo pubblicò quell’anno
nel volume in cui diede la versione delle due tragedie del Manzoni, Il Conte dì Carmagnola e
l’Adelchi (Parigi, 1823). Questo dialogo ha dunque una sua storia nelle discussioni europee sulla
tragedia romantica.
I Saggi filosofici di Ermes Visconti, ai quali accenna il Manzoni, apparvero poi nel 1829. Da prima
indifferente sotto l’aspetto religioso, dal 1827 egli si volse alla fede e visse con austerità monacale,
generoso nel beneficare. L’efficacia che la fede ebbe sul suo pensiero appare anche ne’ suoi Saggi
intorno ad alcuni quesiti concernenti il bello (Milano, Crespi, 1833).
Gli articoli qui riprodotti apparvero nei numeri 23, 24, 25, 26, 27, 28 del Conciliatore, dal 19
novembre al 6 dicembre 1818. Furono anche raccolti in opuscolo dal Ferrario, tipografo del
Conciliatore. Paride Zaiotti se ne prese giuoco nella Biblioteca Italiana, avversa ai romantici.
Vedansi: G. GALLAVRESI, Intorno ad A. Manzoni (lettere di Ermes Visconti, di G. B. Somis e
Cabanis al Fauriel), nella riv. «Il libro e la stampa», III, 1909; PAUL HAZARD, Les plagiats de
Stendhal, d’après de récents publications, in «Revue de deux mondes», 15 settembre 1921; P. P.
TROMPEO, Nell’Italia romantica sulle orme di Stendhal, Roma, 1924; TERESA BENEDETTO, Ermes
Visconti e Stendhal, Contributo alla storia della critica romantica, Arezzo, 1921; MATILDE
BARAVELLI, La vita e il pensiero di Ermes Visconti, con prefazione di G. Capone Braga, Firenze, Le
Monnier, 1943.
ARTICOLO PRIMO
NOZIONI GENERALI

I.

Se le discussioni pro e contro il romanticismo non fossero di moda che


qui a Milano, gioverebbe forse lasciare che passi la moda. Ma anche al di là
delle Alpi si parla del nuovo sistema letterario, e si proseguirà a parlarne
perché serve a combattere molti errori inveterati, e presta occasione a
moltissime osservazioni importanti sì alla teoria che alla pratica.
È bensì vero che la sua utilità viene in parte scemata dalla discordia di
varie nozioni annesse alla frase poesia romantica da vari scrittori tedeschi;
ma questo è un inconveniente che può togliersi.
La frase Poesia Romantica fu inventata in Germania per distinguere i
caratteri propri dell’arte de’ poeti moderni dalle qualità esclusivamente
spettanti ai classici antichi, affine di rivendicare le lodi dovute alle
produzioni originali de’ primi contro ai pedanti ammiratori de’ copisti
dell’antichità; ecco il punto di vista che dobbiamo fissare. Or dunque,
giacché trattasi di analizzare l’originalità degli scrittori moderni di Europa,
bisognerà enumerare tutte le cose dalle quali essa risulta; giacché trattasi di
esaminare il genio nativo e le successive modificazioni naturali alla nostra
letteratura poetica dal risorgimento della coltura fino al secolo decimonono,
è d’uopo intraprendere un’investigazione compendiata sì, ma completa di
tutto ciò che vi fu derivato in varie epoche del cristianesimo, dai progressi
della civilizzazione, e dai resti della vigorosa barbarie; contrapponendovi le
ispirazioni spontanee, suggerite ai Greci e ai Romani dalla mitologia
omerica e dai costumi loro propri. Senza ricorrere a sottigliezze
metafisiche, che sogliono dar luogo a controversie ed a dubbi, basterà
attenerci ad una verità famigliare, cioè: che l’influenza delle opinioni ed
eventi sociali sulle lettere non può consistere in altro che nel fornire
soggetti da trattarsi, passioni e costumi da esprimersi, un dato ideale da
imitarsi, una data specie di religione, superstizione o prodigi; o finalmente
nel determinare gl’ingegni a dare piuttosto una forma esteriore, che un’altra
ai componimentia. Paragoniamo le due civilizzazioni seguendo questa
traccia, e scopriremo con tutta chiarezza che cosa debba intendersi per
poesia romantica e classica, segregando il classicismo degli antichi,
originale ed ammirabile, dal classicismo de’ moderni, che è un metodo
scolastico da abbandonarsi quind’innanzi. Risulterà inoltre, che moltissimi
pensieri ed oggetti appartengono del pari ai due generi, e sono quindi
materiali di poesia promiscua all’uno ed all’altro; e che viceversa molte
fantasie ed invenzioni essendo estranee tanto al modo di pensare de’ Greci e
Romani, quanto al modo di pensare degli Europei richiamati agli studi dopo
l’epoca degl’invasori settentrionali, costituiscono un genere a parte,
totalmente diverso, un genere che sarebbe assurdità e stravaganza, chi
volesse coltivarlo fra di noi. Sarà chiarito per ultimo, che una medesima
composizione può essere in parte romantica, in parte classica; e che il
classicismo va concesso ai pittori, agli scultori ed ai compositori di balli.
Tutte le suddivisioni ora accennate formano una teoria non identica
precisamente con veruna di quelle proposte dai critici oltramontani, ma tale
però che può servire di centro alle varie definizioni ideate da loro,
sempreché quelle definizioni si riguardino come osservazioni speciali
indicanti diversi pregi e difetti, diverse modificazioni rispettivamente
caratteristiche a ciascuna delle due letterature. Riguardo poi ai consigli
pratici che abbiamo enunciati, e che svilupperemo in seguito nell’atto stesso
che si verranno spiegando le distinzioni teoriche, essi non sono altro che
applicazioni rigorose di questa massima: i poeti devono essere uomini,
cittadini e filantropi, non meri dotti, né retori; l’impulso poetico deve
nascere dalle sensazioni della vita, e non dalle abitudini della scuola.
Ma prima di tutto sarà bene accennare l’etimologia del nuovo vocabolo,
che ha eccitato tanta collera in Italia ed in Francia. Fu suggerito ai Tedeschi
da gentilezza e sincerità verso la patria nostra e verso le altre nazioni latine.
La poesia romantica è uno dei più splendidi ornamenti della presente
coltura, e la coltura cominciò a svilupparsi nelle provincie ove sorsero le
così dette lingue romanze, o romane formate dal miscuglio del latino
cogl’idiomi del Nord2: fra le quali appunto l’Italiano, la Provenzale, e
l’antico francese al di là della Loira. A ciò vollero alludere gl’inventori del
nuovo vocabolo; chi ne è malcontento si lagna d’un atto cortese.
a Non ho fatto menzione de’ rapporti dello stato sociale coll’arte dello stile, cioè colla maniera di
esporre le idee, specialmente in ciò che dipende dall’indole o perfezione della lingua, perché non
credo che sianvi stili essenzialmente romantici o essenzialmente classici1

1. Il Borgese nella Storia della critica romantica in Italia, cit., ha osservato che con questa nota il
Visconti «ammazzava» senz’altro «la poesia romantica, poiché se non le riconosceva una forma sua
propria, le negava ogni esistenza artistica». Ma il Visconti negava ad un tempo che vi siano stili
essenzialmente classici; e si potrebbe quindi dire che ammazzava anche la poesia classica.
Giustamente il Li Gotti nel volume cit. sul Berchet ha osservato che il Visconti, con linguaggio
improprio, voleva dire «che la differenza tra soggetti classici e romantici non è così egualmente e
nettamente posta anche nel campo della tecnica e della lingua così da esservi uno stile essenzialmente
classico e uno essenzialmente romantico. Cioè la distinzione tra i contenuti non si può stabilire in
egual modo anche tra gli stili: lo stile s’atteggia diversamente secondo la diversità dei soggetti». Bene
il Li Gotti, per chiarire questa considerazione, rimanda al Memoriale di Ermes Visconti sul
romanticismo, pubblicato dal Gallavresi nel «Giornale storico della letteratura ital.», vol. LXXVI,
1920, pp. 386-392.
2. Sulle origini delle lingue romanze si avevano allora idee errate. È merito degli studi filologici
posteriori aver dimostrato che esse sono trasformazione viva del latino parlato dal popolo. Così le
parlate varie dell’Italia (tra le quali prevalse come lingua la parlata fiorentina) «sono — diceva bene
Pio Rajna — la perpetuazione, variamente alteratasi nel tempo e nello spazio, del linguaggio parlato
di Roma».

II.

Basta che si stampino de’ bei versi, poco importa se sono romantici o
classici; i sistemi esclusivi sono sempre dannosi. Questo è un sapientissimo
parere ripetuto da molti con aria di trionfo, e riguardato da moltissimi come
la decisione inappellabile degli uomini spassionati e di garbo. Eppure
somiglia proprio come due gocciole di acqua ad un altro sapientissimo
parere, che potrebbe venire in capo ad un agente di campagna nemico di
sistemi esclusivi in agricoltura, il quale mandasse al conte Dandolo1 la
seguente lettera:

Illustrissimo Sig. Conte,


Sappia V. S. che agli uomini di senno non importa niente affatto che il
vino si fabbrichi coi vecchi metodi de’ fattori, oppure con quelli indicati
nell’Enologia pubblicata da lei. Quello che preme, si è di bere del buon
vino.
Però in luogo di stampare libri per escludere un metodo e sostituirvene
un altro, parmi che V. S. dovrebbe occuparsi d’empire le sue botti di vino
eccellente; e lasciare che gli altri facciano altrettanto, seguendo ciascuno
quella maniera che più gli va a genio. Sono con profondo rispetto, ec.

Risposta del Conte Dandolo.


Ho pubblicato l’Enologia appunto per moltiplicare in paese le brente di
buon vino tanto giustamente desiderato da lei. — E sappia che non è
indifferente l’appigliarsi ai metodi antichi o a quelli scoperti da
un’illuminata esperienza, e dalla chimicaa. Nel fare il mio vino io seguo le
regole che mi sono industriato d’insegnare agli altri, e posso accertarla che
riesce migliore di quando le medesime vigne appartenevano ad altri
coltivatori. Siccome poi io non sono padrone di tutta l’uva d’Italia, ho
stimato opportuno presentare ai proprietari ed agli agenti una guida per
ottenere i risultati ottenuti da me. Se non mi danno retta non è colpa mia.
Ho il vantaggio, ec.
Suppongasi che Dandolo non avesse viti, il suo libro sarebbe perciò
meno utile? E se uno è incapace di comporre egli stesso de’ versi perché
non ha sortito l’invidiabile prerogativa dell’estro, sarà giusto impedirgli di
fare quel poco che può procurando di sradicare pregiudizii e confutare
sofismi?

a. Non per capriccio s’insiste sulla esclusione del classicismo, ma per convinzione che bisogna
abbandonarlo, chi voglia trattare di cose interessanti i lettori.

1. Vincenzo Dandolo, di Venezia (1758-1819), chimico ed enologo, aveva pubblicato nel 1812 in
collaborazione col Foscarini un trattato di Enologia; nel 1815 un altro trattato, sull’Arte di governare
i bachi da seta. Aveva fondato la colonia agricola «L’Annunziata» di Varese, celebre in Lombardia.
Ecco il motivo per cui il suo nome è qui citato come quello di persona assai nota.
ARTICOLO SECONDO
DEFINIZIONE DEL CLASSICISMO,
DELLA POESIA PROMISCUA AL GENERE ROMANTICO
ED AL GENERE CLASSICO, E DI QUELLA
CHE È ESTRANEA ALL’UNO ED ALL’ALTRO

I.
Mitologia e storia antica.

Lo sanno anche i fanciulli che la mitologia di Omero e d’Ovidio è propria


esclusivamente del genere classico; ma il sapere che allorquando ci viene
regalata di nuovo dai nostri contemporanei solitamente ci annoia, deve
essere uno sforzo d’ingegno; il ricordarsi che ci ha annoiati più e più volte,
deve essere uno sforzo di memoria, giacché tanti si ostinano a consigliare di
riprodurla. Se nell’Iliade, nell’Eneide, in Sofocle e in Eschilo le azioni di
Giove e i miracoli di Pallade si ascoltano con tutto diletto, ciò nasce da
questo, che leggendo gli scritti d’un antico ci trasportiamo senza
avvedercene verso i tempi antichi, partecipiamo in qualche grado alle
disposizioni della gente per cui quell’antico scriveva.
Ciò che un uomo ha detto perché lo sentiva, perché corrispondeva alle
idee, osservazioni e passioni della sua vita reale, desta infallibilmente la
simpatia; lo spettacolo della natura umana è sempre interessante. Non così i
classicisti del mille ottocento diciotto, essi non possono aver sentito quelle
cose che si sforzano d’esprimere, si vede il letterato e non l’uomo.
Cessiamo adunque dall’impinguare il catalogo de’ poemi e dei drammi
fondati sui miracoli de’ numi Pagani, come la Semele di Schiller1, e
l’Urania di Manzoni2; nelle invenzioni storiche non introduciamo più gli
Dei aboliti a regolare gli eventi, come nel Camillo del nostro esimio storico
Botta3, di cui è lecito notare un errore quando si soggiunge che il suo nome
è giustamente celebrato in Europa ed in America4. Non si ricamino più le
canzonette e le odi di narrazioni, similitudini e immagini cavate dalla favola
sul gusto del Savioli e del Chiabreraa. Se parlasi poi di certe allusioni
momentanee, poco più che frasi, queste non valgono la pena di
occuparsene, cesseranno forse da sé, e se non cesseranno non importa un
centesimo. Ed i vocaboli venustà, marziale, grazia, prodotti vulcanici,
prezzi mercuriali5? Per questi non v’è la menoma difficoltà: chi li
pronuncia non disotterra idoli; si serve del linguaggio volgare.
Bisognerebbe essere pazzi per volere che si aboliscano, per volere
un’innovazione tanto frivola e inutile: le persone cui parve di vederla
consigliata da romantici non ebbero torto di chiamarli pazzi su un falso
supposto.
Nemmeno è vietato d’esporre sulle scene e di raccontare le cerimonie
degl’idolatri; sono verità di fatto, sono storia, e niuno ha mai sognato di
proscrivere la storia di qualsivoglia epoca, comunque remotissima: non
esclusa l’eroica purché ne vengano separati i prodigi, il miracolo d’Aulide6
dalla spedizione a Troia, la discesa all’erebo dalle azioni di Teseo7. Gli
avvenimenti della Grecia e di Roma sono patrimonio anche nostro,
occasioni anche per noi di riflettere, occupazioni dell’immaginazione e del
cuore. Che importa se un fatto accadde ieri o trenta secoli fa? Appena è
passato esso fa parte dell’esperienza sociale, può essere germe e motivo
d’entusiasmo a tutti i posteri finché ne duri memoria. Ben inteso sempre che
i casi più recenti ci commuovono più al vivo, e che quindi i nostri teatri ed i
nostri libri devono offrirci per lo più vicende moderne, che sono ben
altrimenti connesse coi beni e coi mali delle istituzioni vigenti, cogli attuali
desideri e speranze delle nazioni.
Ma se la scuola romantica non vieta di ricorrere alle rimembranze
dell’antichità, ingiunge però di rispettare il sapere politico de’ nostri
coetanei. Per quella gran ragione, che l’uomo è perfettibile, e che le scienze
progrediscono, è naturale che noi ammaestrati da Montesquieu e da Smith,
da Necker e da Malthus,9 testimoni delle rivoluzioni d’America e di
Francia, della recente potenza francese, della resistenza spagnuola e della
lega tedesca siamo in grado di giudicare gli stati, e le leggi con più
perspicacia e prudenza che non sapessero farlo i concittadini d’Alessandro e
di Pericle, di Traiano e d’Augusto. Per esempio, in Grecia ed in Roma
l’odio al nome regio fu passione dominante: Bruto e Cassio dovevano
essere e furono nominati benefattori della patria e modelli d’eroismo. E noi
non dubitiamo di considerarli come due ultra, perché distrussero un
governo già organizzato a fine di farne risorgere un altro non conforme ai
bisogni del popolo romano; noi sappiamo che la forma repubblicana o
monarchica deve essere mezzo e non fine de’ legislatori, mezzo cioè di
provvedere al ben pubblico secondo le circostanze. Ciò premesso: se uno
adesso trascorresse a lodare l’uccisione di Cesare sulla traccia del Bruto
secondo d’Alfieri, meriterebbe certamente assai biasimo, e scriverebbe da
classicista perché opinerebbe sul merito di quella congiura colle idee
antiquate de’ popoli spenti. All’opposto, prevalendosi delle nozioni
moderne per disapprovare l’imprudenza di quell’impresa, e compiangere il
cieco zelo de’ due assassini di buona fede, sarebbe romantico10. Se
finalmente l’autore si limita al fatto ed agli errori sociali contemporanei al
fatto senza adottarli né opporvisi, il suo componimento non appartiene
esclusivamente né all’uno, né all’altro de’ due generi opposti, è comune ad
entrambi, poesia promiscua.

a. Non si confondano le puerilità de’ copisti col trovato di Milton, ove enumera gl’idoli del
gentilesimo nel descrivere la rassegna de’ compagni di Satana, concetto strettamente romantico,
perché appoggiato al cenno della Scrittura, che i falsi Dei erano demoni. «Primi in possanza
sovrastavano quelli che osarono, gran tempo dopo, fissare le loro sedi presso la terra di Dio, e
profanarono de’ loro incensi lo stesso santuario; Moloc intriso del sangue d’umani sacrifici e bagnato
del pianto delle madri, egli che mutò il cuore di Salomone, e udì preghiere sacrileghe nella valle di
Geenna emblema dell’inferno; e Chemos osceno spavento de’ figli di Moab; e quegli che i Fenici
chiamarono Astarte regina del cielo; e chi sedusse le verginelle di Siria a piangere il fato di Adone
con amorose elegie, il racconto corruppe le donne di Sion con passione superstiziosa. Poi una turba di
mostri, ed Iside, ed Osiride, ed Oro, che ingannarono il fanatico Egitto ed i peregrini di Giuda quando
dei loro tesori formarono il giovenco ne’ deserti. Seguitavano, inferiori di grado, benché la fama

1. La Semele dello Schiller è poema lirico-mitologico in due scene.


2. L’Urania, carme classicheggiante, pubblicato dal Manzoni nel 1809 a Milano, è documento
dell’incertezza che tra il 1807 e il 1809 tenne il Manzoni sull’orientamento letterario da prendere. In
esso il giovine Manzoni si propone di cantare i beneficii delle Muse e delle Grazie, quali Urania li
aveva celebrati a Pindaro. Il Manzoni stesso fu scontento di questo carme, che, dopo il Carme in
morte di Carlo Imbonati (Parigi, 1806), non segnava un progresso; ed ebbe a dire che avrebbe forse
fatto versi peggiori, ma in quel modo classicheggiante non più.
3. Il poema di Carlo Botta, Camillo o Veio conquistato, in dodici canti, era stato pubblicato a Parigi
nel 1815. Per destare il sentimento nazionale, aveva creduto giovasse cantare una guerra in cui
avevano combattuto i due maggiori popoli dell’Italia antica: i Romani e gli Etruschi; e aveva
immaginato che Giunone, irata contro Roma pel ratto delle Sabine, avesse mandato Morfeo, sotto
l’aspetto di Porsenna, re di Chiusi, a Volumnio, re di Veio, per indurlo a guerra contro i Romani. Il
poema, intorno a cui il Botta aveva lavorato più che cinque anni, era rimasto una fatica sprecata.
4. Per la Storia della guerra dell’indipendenza degli Stati Uniti d’America, pubblicata a Parigi nel
1809. La Storia d’Italia dal 1789 al 1814 uscì a Parigi più tardi, nel 1824.
ne suoni tanto lontana, gli Dei dell’Ionia, Titano primogenito del Cielo, e Saturno che lo espulse,
per essere cacciato da Giove suo figliuolo nato da Rea: e quelli che fuggendo coll’antico Saturno ai
campi dell’Esperia vagarono per le selve de’ Celti fino all’isole lontane. Altre volte fa menzione di
favole, richiamandole espressamente come tradizioni passeggere ed illusioni cessate; partito
lodevole, perché è un ritrarre istoricamente rivoluzioni religiose: purché si faccia di rado, ché
altrimenti il poeta si cambierebbe in un antiquario.
Finalmente la mitologia può venire a taglio in un poema ironico, ove occorra di sojare8 fingendo di
stare sul maestoso e sulle cerimonie, come nel giorno del nostro Parini; diventa una parodia. So che
Parini non se ne valse coll’intenzione di parodiare; ma l’effetto che dico, i suoi versi lo sortirono
sovente come s’egli l’avesse previsto: è proprio degli ingegni cospicuamente fantastici il creare
5. Anche il Manzoni nella Lettera a Cesare d’Azeglio sul romanticismo (1823) accenna a siffatti
modi di dire: «una forza erculea», «un aspetto marziale», «auguri sinceri», entrati nel linguaggio
vivo.
6. Accenna al sacrificio di Ifigenia o al drago impietrato (Iliade, II).
7. Teseo scese all’Erebo per rapire Proserpina (Dante, Inf., IX, 54).
8. Sojare o dar la soja: adulare o lodare smoderatamente, con ironia: per es., nel Giorno del Parini,
ove il poeta, «precettor d’amabil rito», loda i nobili come «celeste prole», «concilio di Semidei
terreni», dice il giovin Signore «il mio divino Achille, il mio Rinaldo».
bellezze senza volerlo e senza saperlo, e senza conoscerle dopo averle prodotte.
9. Giacomo Necker di Ginevra, finanziere ed economista, padre della Signora di Staël. —
Tommaso Roberto Malthus, economista inglese, autore del celebre Saggio sul principio della
popolazione in quanto influisce sui progressi della società (1798).
10. Questa pagina è stata interpretata dal Borgese, dal Menzio e da altri come testimonianza che a
loro volta gli scrittori del Conciliatore non erano alieni in politica da spirito inquisitore, ossequente
alla tirannide, e che in ultima analisi non aderivano a opinioni estreme. Ma la prima parte
dell’illazione è del tutto errata. Per ispiegare le considerazioni del Visconti bisogna innanzi tutto
ricordare che era stato pensiero degli illuministi italiani nel Settecento che in politica assai più che le
congiure, le cospirazioni, i tradimenti giovi la lotta aperta, in nome della ragione. In secondo luogo,
per quanto riguarda la società del Conciliatore, si deve tener presente la lettera che il Pellico scriveva
al Di Breme il 18 agosto 1818, dopo le prime adunanze: «… è passata a pieni voti la storia (si può
dire) che hai fatto con mirabile pazienza ed ingegno sovra l’Inquisizione… Si voleva discutere sopra
qualche taglio da farsi, ma io, per risparmiarti il pericolo di una più dolorosa operazione chirurgica,
mi son fatto dare l’autorità di fare quegli accorciamenti che crederò. Ciò che da me si esige, e che
non può gran fatto dispiacerti, giacché Borsieri dice che quasi tu medesimo lo consigliavi, si è di
togliere quel passo di Cremuzio Cordo [condannato a morte da Tiberio, per aver lodato nelle sue
opere Bruto e Cassio, si uccise ], che, se anche fosse passato dalla censura, sarebbe poi meditato e
considerato come una nostra professione d’odio ai tiranni; professione che è meglio lasciar arguire in
cose di più rilievo». Evidentemente l’argomento, a cui accenna il Visconti, era stato discusso nelle
adunanze preparatorie, allorché era stato letto il saggio del Di Breme sulla Storia critica della
Inquisizione di Spagna del Llorente. Quegli scrittori non volevano insospettire il governo austriaco
sui fini della loro azione politica, dichiarandosi subito dalla parte di Bruto

II.
Imitazione delle usanze domestiche.

Quanto irragionevole sarebbe l’esclusione dei temi desunti da pubbliche


imprese, altrettanto noioso e ridicolo è il riprodurre in opere d’invenzione le
usanze domestiche dell’antichità. Il peggiore fra tutti gli stravolgimenti di
gusto imputabili al classicismo fu senza dubbio la mania di rifare sui nostri
teatri le cortigiane, i servi, o altri costumi di Terenzio o di Plauto.
Per buona ventura certe commedie italiane di bella lingua non si leggono
più, non v’è timore che rinasca la moda di farne delle altre che vi
rassomiglino; e qualora rinascesse troverebbe un rimedio prontissimo nelle
fischiate della platea.

III.

Non contenti di quella specie di servilità che va accattando soggetti e


pensieri inopportuni allo stato presente dell’animo umano, i classicisti ne
commendarono anche un’altra relativa alle forme esteriori de’
componimenti. Emersero da esse varie inezie di prammatica letteraria,
accettate o da molti o da pochi; compilarne un elenco sarebbe troppo
fastidio: ne citerò alcune a seconda della materia.
È una gran bella cosa, pensarono alcuni verseggiatori italiani, è una gran
bella cosa il terminare le odi con una digressione a norma de’ modelli
d’Orazio dittatore d’ogni perfezione, non dimentichiamoci d’un artificio sì
miracoloso: ed ubbidirono infatti al loro convincimento pedantesco con una
buona fede che fa ridere, e con una monotonia che fa sbadigliare. Quasi che
Orazio fosse andato anch’egli a cercare colla lanterna la duplicità di
pensiero, invece di abbandonarsi ai risultati spontanei dello spirito
inventivo: quasi che il merito di quel lirico insigne non dipendesse da
tutt’altro che dall’avere finito con una digressione quando voleva.
Nel poema regolare e veramente degno del titolo di epico, statuirono
molti altri, tutta la favola va perpetuamente riferita al protagonista, il quale
deve primeggiare sempre direttamente o indirettamente: Enea è sempre il
personaggio principale in Virgilio. Verissimo l’esempio di Virgilio, ma ne
viene la conseguenza che giovi far lo stesso in tutte le circostanze possibili?
Epico vuol dire narrativo, e la storia somministra avvenimenti gravissimi e
commoventissimi in cui diverse persone figurano successivamente al primo
posto. Suppongasi che un valentuomo pigli a verseggiare la prima crociata,
e non appagandosi d’un’epoca congegnata sempre coll’occhio alle massime
dei dotti voglia adornarla di tutte quelle bellezze di cui è suscettibile
l’esposizione d’un sì grandioso fenomeno politico. Dovrebbe egli rinunciare
ad esprimere le azioni di Pietro Eremita, uno de’ più singolari avventurieri
di cui si abbia memoria, il quale, senza ricchezze né potenza, colla sola
autorità del suo carattere eccitò popolazioni e regni alla guerra santa, la
preparò e secondò con una vita tra il paladino e il capo popolo, il fanatico
ed il filantropoa? O sarebbe forse partito lodevole il rilegare le imprese di
codesto promotore di rapine e di stragi, disinteressato egli e dotato di un
cuore sdegnoso dell’ingiustizia, rilegarle in un episodio narrato a mezzo
dell’opera, defraudando così i lettori di tutte quelle emozioni gradate ed
eminentemente dilettevoli, le quali risultano dal seguire passo passo le
origini, i primordi, le cagioni prossime, e poscia lo sviluppo ed il
compimento d’una serie di fatti giustamente riguardata per uno de’ più
importanti prodigi del mondo morale? E tutto questo, per non avere due
protagonisti, prima l’ammirabile Piero, poscia Goffredo? Chi senza badare
a prescrizioni sentenziate a testa fredda trasfondesse ne’ suoi canti tutto ciò
che egli sente di veramente serio e sublime, meriterebbe forse di essere
chiamato autore irregolare e mancante di perfezione artistica? Pedanterie.
Un altro capriccio de’ retori non meno frivolo de’ precedenti, ma
divenuto di maggiore momento atteso il numero de’ suoi partigiani,
l’ostinazione con cui viene sostenuto, ed i danni che ha recato all’arte
drammatica si è la celebre dottrina sull’unità di tempo e di luogo1. Venne
promulgata come legge assoluta in Italia ed in Francia, perché l’unità di
tempo e di luogo fu erroneamente creduta necessaria all’illusione teatrale,
perché si è creduto di leggerne il precetto in Aristotile, e trovarne l’esempio
in Euripide e in Sofocle. Eppure era facile vedere che Aristotile non la
comanda, che i Greci non se ne fecero mai una regola; e se non si estesero a
tutta quella varietà di tempo e di luoghi di cui seppero giovarsi lo
Shakespear, lo Schiller e il Goethe, ne fu causa la costruzione e decorazione
de’ loro teatri differentissimi dai nostri, la semplicità degli argomenti che
potevano svolgersi, acconciamente limitando l’azione alla durata di poche
ore. Gl’Inglesi ed i Tedeschi hanno dimostrato colle ragioni e coi fatti che la
legge a cui ebbero la degnazione di sottoporsi il Racine, il Voltaire, e
l’Alfieri, è pregiudicevole e sofistica: laonde è sperabile che in breve sarà
abolita dappertutto, e riconosciuta per falsa da tutti quelli che non chiudono
gli occhi per paura di mirare la verità.

a. Nella Gerusalemme liberata questo Piero è divenuto una specie di cappellano dell’esercito, un
consigliere pacatissimo, un amico intrinseco d’un professore di magia naturale, un contemplativo
profeta di vaticini talora superflui, ed una volta (che è ben peggio) adulatorii al duca di Ferrara. — Il
Tasso per altro non fu uno di quelli che credevano alla necessità di un solo protagonista: almeno
quando ideò il suo poema.

1. Collega questa pagina col Dialogo sulle unità drammatiche di luogo e di tempo.
IV.
Poesia promiscua al genere romantico
ed al genere classico.

Oltre la storia antica, sono comuni ad entrambe le scuole le passioni


primitive dell’animo, quelle che generalmente parlando si manifestano in
qualsivoglia condizione dell’umanità. — In ogni luogo si piange di
compassione, si freme d’ira e d’invidia, le madri amano i loro bambini, si
ammira la beneficenza, si detesta il tradimento e la viltà. Il lutto
d’Andromaca1, la gelosia di Turno2 sono affezioni universali e perpetue.
Similmente la descrizione del mondo inanimato è fondo promiscuo agli
scrittori d’ogni tempo; non dico le Naiadi e le Oreadi e il freddo talamo di
Titone, dico i fiumi, le montagne e l’aurora percepite dai sensi. Va
eccettuato l’aspetto delle regioni occulte all’antichità, massimamente
l’America feconda d’animali e di vegetali sconosciuti al vecchio emisfero:
cose senza dubbio romantiche, anche per la circostanza che qualunque
sensazione nuova ed insolita contribuisce a modificare lo spirito. Thomson3
non è romantico per le pitture che egli fa generalmente della pioggia o de’
fiori; lo è per le sue descrizioni del Rio della Piata e del fiume delle
Amazoni, per vari episodi, e per le idee sentimentali, morali e politiche, le
quali predominano nelle sue contemplazioni4.

1. Iliade, XXII.
2. Eneide, VII.
3. Giacomo Thomson, poeta inglese (1700-1748), autore del poema didascalico Le Stagioni.
4. Qui è una delle prove più evidenti che il Visconti fondava prevalentemente la sua critica
romantica sul contenuto delle opere d’arte.

V.
Poesιe né romantiche, né classiche, né promiscue.

Chi riferisse come vera religione il culto del Sole adorato dai Peruviani,
in quale famiglia di poeti dovrebbe essere collocato? Non fra i romantici,
perché i Cristiani non credono alle superstizioni del Perù non fra i
classicisti, perché la notizia di tali errori non ci è venuta dalla Grecia e da
Roma. Vi sono adunque molte opere estranee assolutamente all’uno ed
all’altro sistema: fra le quali si annoverano i poemi attribuiti ad Ossian, la
Sakontala dramma indiano1, quella parte dei poemi dell’Edda che tratta di
mitologie settentrionali, ec. ec.
Tale sarebbe qualunque invenzione ove si celebrassero seriamente
gl’idoli dell’Africa o le menzogne de’ Bonzi. Cose tutto affatto straniere a
noi pel loro carattere ed origine; chi volesse proporsele per guida si
accuserebbe di poco cervello.
Non hanno grazia se non quando vengono dal paese loro natìo, ma allora
chi le sprezza ha torto davvero, palesa un ingegno municipale, un gusto
ligio dell’abitudine.

1. Grisostomo pubblicò poi, nel num. 53 del Conciliatore (4 marzo 1819) un articolo Sulla
Sacontala ossia l’«Anello fatale», dramma indiano di Calidasa.

VI.
Conclusione.

La poesia classica veniva ispirata agli antichi da entusiasmo originale;


può chiamarsi classicismo originale: ne’ moderni è un artificio scolastico e
si potrebbe distinguerlo col nome di classicismo irragionevole. Anzi per
fissare ancor più la differenza serberemo il titolo di classici a’ Greci e
Romani, e qualificheremo i moderni con quello di classicisti.
Una poesia è classica (originale o irragionevole) quando l’Autore si vale
della mitologia nei modi già spiegati; quando in opere d’invenzione
introduce le usanze domestiche di Grecia o di Roma; quando osserva e
giudica la storia con pregiudizi propri de’ Romani o de’ Greci.
La semplice rappresentazione della storia antica, la descrizione del
mondo fisico (salvo che si tratti di paesi occulti all’antichità), la pittura
delle primitive passioni dell’uomo non ispettano esclusivamente né ai
romantici, né ai classici, né ai classicisti; sono comuni a tutti, poesia
promiscua.
Introducendosi ne’ temi storici idee e pareri di data moderna, si dà luogo
a componimenti romantici.
Le superstizioni di Ossian, degl’Indiani, ec., rappresentandole come
verità producono poesie locali estranee a tutti i generi finora enumerati.
Riguardo alla tessitura de’ componimenti, il classicismo originale non ne
ha alcuna esclusivamente propria a lui, eccetto quella del dramma greco,
ove i cori venivano calcolati sulle abitudini repubblicane dell’uditorio. Fu
imitata, ma non parmi che si possa rinnovellarne l’intero carattere, l’ideale e
la naturalezza.
Le unità di tempo e di luogo non erano riguardate come regola dai
classici, il far voto di osservarle è classicismo irragionevole e nascente in
origine da un falso supposto. Lo è pure la imitazione servile di altre forme
estrinseche, usate liberamente dagli antichi secondo l’opportunità.
ARTICOLO TERZO
DEFINIZIONE DELLA POESIA ROMANTICA

I.

Medio Evo e storia moderna.

Le memorie de’ popoli antichi possono servire di tema anche oggidì,


perché fanno parte dell’esperienza del passato: il medio evo e la storia
moderna appartengono a noi soli, ed a quelli tra i nostri predecessori che ne
ebbero notizia. Saranno dunque argomenti romantici il feudalismo, le
avventure cavalleresche de’ Normanni e d’altri popoli, le crociate, e
generalmente le guerre di religione, gli atroci supplizi del santo uffizio; il
passaggio del Capo, e le guerre de’ Portoghesi, Olandesi ed Inglesi nelle
Indie orientali, la conquista dell’America, le navigazioni intorno al globo, la
vita de’ selvaggi, la schiavitù dei Negri nelle colonie, e degli Europei sulle
coste della Barbaria; i governi ecclesiastici di Roma e del Paraguai1, la
teocrazia di Maometto, e la passeggiera civilizzazione di tante provincie
sotto ai Califfi, le conquiste de’ Turchi; l’eroismo e l’accortezza mercantile
delle città libere d’Italia, il contegno d’esse verso gl’imperatori di
Germania, l’origine, floridezza e decadenza di varie repubbliche grandi; la
resistenza degli Svizzeri, le innovazioni di Pietro il grande, l’insurrezione
delle colonie d’America, ec. ec, senza contare la rivoluzione di Francia, le
susseguenti conquiste, l’opposizione magnanima degli Spagnuoli,
l’imprudenza e sciagure delle Coortes2, i sistemi liberali, e ciò che si sta
maturando in America. Argomenti che prestano tinte variatissime alle
combinazioni dell’immaginativa, virtù e vizi, insipienza ed errori e scoperte
senza numero; e mostrano i progressivi sviluppamenti sì dell’intelletto
umano, come dell’ordine prescritto dalla natura alle società. Si ha innanzi lo
spettacolo di tutti i climi della terra, i progressi civili del feudalesimo
militare e teocratico fino alle costituzioni recenti, le forme di governo
cominciando dalle democrazie prette, cioè senza schiavi, fino al dispotismo
assoluto, le arti politiche, dall’esistenza isolata delle tribù selvagge fino alla
lega sacra. Paragonare questa immensa suppellettile di fatti con quella di
cui avrebbero potuto valersi Lucano e Virgilio è un mettere in confronto
l’oceano atlantico col lago di Como.
1. Nel Paraguay, dal 1610 al 1767, avevano compiuto vasta opera religiosa, civile e politica, le
missioni dei Gesuiti, dette Riduzioni, costituendo uno stato teocratico indipendente. Erano stati
cacciati nel 1768.
2. In Ispagna, durante l’invasione napoleonica, dal 1810 al 1814 le Coortes avevano avuto sede a
Cadice e avevano tenuto fedeltà a Ferdinando VII, il quale era stato imprigionato da Napoleone nel
1808 e relegato a Valençay in Francia. Caduto Napoleone, quando Ferdinando VII ritornò sul trono,
le Coortes furono sciolte.

II.
Religione cristiana, superstizioni popolari,
Fate e Geni dell’Asia.

La fede cristiana rivela un concetto della divinità sublime, magnifico, e


santo; la teocrazia degli Ebrei ci dipinge l’Ente Creatore in relazione intima
con tutte le norme esteriori d’uno stato: la Redenzione svela un tipo di
perfezione celeste e di misteriosa giustizia.
I dogmi d’un avvenire eterno ed inevitabile, o immensamente felice, o
immensamente tormentoso s’impadroniscono de’ due gran moventi
dell’uomo, la speranza e il timore: la rivelazione del purgatorio perpetua
oltre il sepolcro le rimembranze del sangue, dell’amicizia, e della carità
universale non solo rinforzando l’affetto, ma eziandio portandolo all’attività
delle preci e della compassione divota.
Ma i popoli idioti aggiunsero sempre alle dottrine religiose qualche
superstiziosa credenza desumendola da inganni triviali e da grossolane
apparenze. Però le antiche favole settentrionali sulle Streghe, terribili
messaggere e strumenti di tristissime deità, non cessarono coll’idolatria,
subirono soltanto una metamorfosi per adattarsi all’insieme del nuovo culto.
In progresso i crociati reduci dalla Palestina diffusero nelle loro patrie le
bizzarre invenzioni degli orientali, cioè i Geni e le Fate che creano in un
attimo palagi rilucenti di gemme e giardini ridenti d’ogni delizia; voluttà
che gli Spagnuoli appresero d’altronde, mediante gli Arabi loro
conquistatori, e furono quindi propagate più e più sul continente d’Europa.
Così si ebbe un maraviglioso di doppia origine e doppio carattere, in parte
creato dalla mollezza degli Asiatici commercianti e ricchissimi, in parte
dalla rozzezza, austerità, ed audacia de’ robusti abitatori di foreste in
regioni povere ed agghiacciate: così si ebbero i magnifici incantesimi
dell’Ariosto, e le Streghe di Macbeth.
Fra le superstizioni del volgo ve n’è una forse universale e perpetua,
modificata bensì ed alterata in mille maniere; ed è l’opinione toccante
l’apparizione degli spettri de’ morti, la quale domina tuttavia nelle nostre
campagne, né è pienamente rigettata dalla plebe della nostra città: e pur
troppo viene qualche volta istillata persino ai fanciulli delle classi più
agiate.

III.
Eroismo cavalleresco.

Se i più vaghi capricci sulla potenza delle Fate seducenti e benevole si


devono riguardare come cose imparate dall’Asia, l’eroismo cavalleresco fu
all’incontro un ideale di natura umana concepito dagli Europei del medio
evo, ed ispirato dalla condizione politica, dalle tendenze religiose e dagli
avvenimenti nazionali. In vari antichi romanzi che lodano i campioni
d’Artù, lo spirito cavalleresco è ruvido ancora; valore e forza, amori anche,
ma poca delicatezza di sentimenti. Probabilmente fu suggerito ai Normanni
dalle imprese de’ loro connazionali, maravigliose per ardimento e per
successi quasi incredibili: è un ideale nascente in gran parte da una pretta
ammirazione della potenza, da un egoismo che riconosce perfezione
individuale soltanto nelle cose atte a procacciare vantaggi positivi
all’individuo. Uno degli eroi commendati nel romanzo di Lancillotto1
rassomiglia a Diomede ed Ulisse; la perfidia per lui non è un vizio turpe ed
infame2. Vennero in seguito la storia d’Amadigi e le tante imitazioni di essa
arricchite dalla vivacità degli Spagnuoli3; le peregrinazioni ed avventure
molteplici degl’immaginati paladini di Carlo Magno: due classi di novelle
brillanti, cui si allude per l’ordinario quando si fa menzione dell’eroismo
de’ cavalieri. Ivi si vede spiegato quell’ideale di natura umana che
germogliò dalle circostanze e dai bisogni dominanti per vari secoli precorsi
alla splendida civiltà moderna. Poiché in mezzo alla confusione feudale né
magistrati né leggi assicuravano gl’individui come adesso, i forti, i perfetti
desiderati dagl’individui d’allora furono eroi volontariamente consacrati
alla difesa de’ deboli, ed alla salvezza degli oppressi. Né l’impulso ad agire
poteva collocarsi in un patriottismo liberale, o nel rispetto alle leggi tanto
arbitrarie, inefficaci o parziali; fu derivato dall’onore; dal puntiglio a cui
non isdegnano ubbidire né i baroni, né i re. Ma il puntiglio d’onore, per non
essere in contraddizione coll’opinione e con se stesso, forza era che
comandasse le virtù più lodate dal mondo coetaneo, reali o apparenti; però
fra i doveri dell’eroe, oltre la magnanimità e il coraggio nell’affrontare i
pericoli affine di sottrarre le donne e gl’inermi alla violenza degli uomini
ingiusti, si contava lo zelo per la religione, ed il fanatismo attivo nel
vendicarne gli oltraggi e propagarne l’impero colla forza. E siccome
l’amore è una passione che si frammischia a tutta la vita, fu nobilitato anche
l’amore: concorrendovi il carattere de’ settentrionali rispettosi verso il sesso
femminile, le bollenti passioni del mezzodì, il misticismo e forse la
sensibilità degli Arabi; dai quali elementi provenne un composto di brame
ardenti e di modestia, di trasporti e di estasi spirituali, un culto della
bellezza.
Del resto è qualità eterna de’ popoli incolti lo stimare eccessivamente la
robustezza del corpo: ecco l’origine delle forze prodigiose attribuite
dall’Ariosto a Rodomonte e ad Orlando sull’esempio de’ romanzieri
anteriori.
Il cervello de’ primitivi romanzieri era pieno delle fanfaluche della
magia, si credeva agli amuleti ed alle virtù insite nelle reliquie de’ santi; i
miracoli inventati, i benefici delle fate cortesi, l’astio delle malefiche
avvezzavano le menti a figurarsi mille punti di contatto fra gli uomini e gli
enti invisibili: ecco l’occasione di fantasticare armi incantate e corpi
invulnerabili. È principalmente per le cose assolutamente necessarie, e per
quelle sommamente pregiate che i superstiziosi invocano e suppongono
assistenze soprannaturali: così i contadini si fingono tanto facilmente
miracoli di pioggia o sereno, le donnicciuole della città si persuadono che le
anime del purgatorio discendano ne’ sogni a predire i terni del lotto.

1. Lancillotto del Lago, uno dei dodici cavalieri della Tavola Rotonda, eroe di romanzi assai letti
negli ultimi secoli del Medio Evo, amò Ginevra, donna del re Artù. Il romanzo Lancelot è ricordato
da Dante nel c. V dell’Inferno, vv. 127-138, e nel c. XVI del Paradiso, vv. 13-15; Lancillotto e
Ginevra sono addotti dal Petrarca nel Trionfo d’Amore, III, v. 80 e v. 82.
2. Il cavaliere sleale e frodolento è Meleaganz.
3. Amadigi di Gaula, il Cavaliere del Leone, eroe d’un romanzo cavalleresco Amadis de Gaula di
Garcí-Ordoñez de Montalvo, stampato nel secolo XV, raffigurava il prode per ogni riguardo perfetto
nel dare la forza del braccio a nobili imprese. Amore suo non era quello adultero dei romanzi bretoni,
ma quello benedetto dal matrimonio. L’argomento fu rimaneggiato in Italia con nuovi intrecci ed
episodi e complicate azioni da Bernardo Tasso, padre di Torquato, nel poema Amadigi di Gaula, in
cento canti.
IV.
Quegli stessi motivi, che proscrivono la mitologia, comandano pure
d’astenersi dal ridire avventure immaginarie di Paladini, Fate, e
Negromanti, isole e palagi incantati. Sono follie già anch’esse antiquate, e
l’ideale cavalleresco non è più quello a cui si volge la brama de’ nostri
illuminati pensieri. Bensì è vero che, avendo influito sulle virtù e sui
traviamenti, che parvero virtù a lunghissime generazioni, né essendo men
vero che qualche vestigio se ne è serbato fino ai nostri giorni, si potrà
ritoccarne qualche tratto poetando di Goffredo, o del Cid, o anche di
Francesco I, del conte d’Egmont1 e del cavaliere di Bayard, e di somiglianti
personaggi sì del medio evo come de’ tempi moderni. E finalmente il brio
cavalleresco risplenderebbe d’una grazia assolutamente nuova ne’ volontari
Francesi al campo di Washington portativi dall’amore d’idee liberali2. Ma
Orlando e Ruggiero, Sacripante ed Astolfo, contentiamoci di contemplarli
nelle invenzioni che uscirono spontanee in un’età che le voleva, perché era
proporzionata o desiderosa per abitudine di una tale specie di Belloa.
Riguardo alle apparizioni de’ morti ed altre illusioni terribili, non può
negarsi che molte vengano consacrate da credenze locali: la fandonia del
Cacciatore feroce è un articolo di fede per migliaia di contadini ed artigiani
tedeschi. Potrà adunque un poeta valersene? Non sarebbero certamente da
trascurarsi se si dovesse avere principalmente di mira gli applausi; il
Cacciatore feroce del Bürger fu lodatissimo (se non altrove) per tutta la
Germania. Ma il poeta è tenuto di rinunciare a tutto ciò che avvilisce l’arte
piegandola ad adulare e perpetuare l’insipienza3. Lo scopo estetico dei versi
conviene

a. Età desiderosa per abitudine di una tale specie di bello fu quella dell’Ariosto; per altro si era già
cominciato a riderne, e l’Ariosto da pari suo seppe secondare ambedue le disposizioni contrarie,
passando con impareggiabile felicità dal commovente all’ironia ed alla parodia. Quando egli mandò
Orlando a cercare Angelica senza sapere in quale parte del mondo sia ita, si avvide e profittò del
ridicolo. Descrisse con solennità ed effetto semiburlesco la dea Cerere che ascese un cocchio tirato da
draghi per rintracciare Proserpina, portando due pini accesi affine di scoprire gli oggetti da lungi; poi
avvisando che anche il Conte avrebbe fatto altrettanto se ne avesse avuto la facoltà si riduce a
concludere4:
Ma poi che il carro e i draghi non avea
La già cercando al meglio che potea.
Qualche volta l’Orlando Furioso è un precursore del Don Quichotte. subordinarlo allo scopo
eminente di tutti gli studi, il perfezionamento dell’umanità, il ben pubblico ed il bene privato.
1. Il Conte di Egmont, generale di Carlo V e di Filippo II, governatore delle Fiandre, accusato di
aver congiurato contro Filippo II, fu imprigionato e decapitato per ordine del duca d’Alba a Gand nel
1568. Celebre la tragedia Egmont del Goethe (1787).
2. Il marchese di Lafayette e i volontari francesi combatterono valorosamente agli ordini di
Washington per l’indipendenza degli Stati Uniti.
3. Il Berchet, come abbiamo veduto, giudicava diversamente la ballata del Cacciatore feroce e in
complesso la poesia ispirata da leggende popolari.
4. Canto XII, st. 3.

V.
Amore Romantico.

Da’ Provenzali fino a noi il sentimento dell’amore si è sviluppato con più


efficacia, che non in Grecia e in Roma; si è ingentilito e pervertito anche
con indefinibili modificazioni di corruttela e gradi di vizio. La condizione
delle donne nella società moderna è ben diversa dallo starsene chiuse nel
gineceo; l’abolizione della schiavitù ha rese le femmine più riguardate nelle
famiglie, per analogia di ragione civile. Che se la sorte loro influisce
essenzialmente su tutta la cultura, molto più dovrà influire su di una
passione di cui esse stesse sono l’oggetto, che le fa arbitre delle
conversazioni e non di rado potenti nelle corti dei principi.
La venerazione tributata alle donne da popoli settentrionali, il misticismo
degli Asiatici ec. crearono il culto della bellezza, le prodigiose costanze, ed
i sacrifici veri o finti.
Esaltazioni a cui contribuì persino il genio contemplativo del
Cristianesimo, nel tempo stesso che la religione metteva in cuore il
turbamento e i rimorsi.
Incessanti vicende di trasporti e di pentimento, d’abbandono e di
resistenza costituiscono uno dei pregi più caratteristici del nostro Petrarca.
I trovatori soliti a disputare nelle corti d’amore1, sulla felicità e i guai, gli
obblighi e la gloria degli amanti, quasi come gli scolastici discussero sui
libri d’Aristotele, avvezzarono gl’intelletti ad analizzare la tenerezza, la
costanza, il disinteresse, le speranze; e quando l’ideologia ebbe fatti quei
progressi che ognuno sa circa ai tempi di Cartesio e dopo di lui, i poeti
studiarono con acume più squisito infinite emozioni sfuggevoli, infinite
relazioni e varietà. Difatti nei nostri costumi lussureggianti e gentili,
l’amore si era trasformato e continuava a trasformarsi in mille guise, se non
sempre nella realtà dell’affetto, almeno nell’immaginazione e nelle finzioni:
è uno stato che ci occupa quasi tutti, e per anni.
Quindi il sentimentalismo, la galanteria, l’amor coniugale combinato con
l’eguaglianza quasi perfetta dei coniugi, le esagerazioni e le verità profonde
dei romanzi recenti; insomma il bene ed il male di questa passione
immensa, e fra i vizi anche quelli che sembrano procedere da princìpi
virtuosi nell’atto stesso che offendono la moralità.
Chi ama ardentemente reputa beatitudine il venir riamato, idolatrando le
donne si concepisce una stima eccessiva dei loro pregi: ma gli encomi oltre
misura fanno risaltare i difetti all’occhio de’ disingannati e de’ malcontenti,
però da molti si corre all’estremo contrario, fabbricano proverbi per
deprimere il sesso gentile, continuando per altro a recarsi ad onore il
piacergli. Così la gloria d’amante irreprensibile si trasmuta nella vanità di
riuscire un vagheggiatore fortunato; ed il vanto donnesco d’inspirare e
sentire un affetto esclusivo degenera nella brama di vedersi predilette da
molti e saper far senza di ciascuno. Era impossibile che gli antichi
descrivessero uno in cento de’ tanti accidenti descritti dalla poesia lirica,
epica e drammatica dei romantici. La Delfina di Madame de Staël sarebbe
parsa un libro d’enimmi, le Liaisons dangereuses2 una satira capricciosa di
vizi forse impossibili.

1. È noto che le Corti d’Amore sono immaginazioni letterarie.


2. Choderlos de Laclos, scrittore francese del Settecento, vissuto dal 1741 al 1803, pubblicò Les
liaisons dangereuses nel 1782.

VI.
Contrasti della passione col dovere. Rimorsi.

Tutte le passioni vennero divinizzate dai Greci, il cristianesimo le


raffrena: per conseguenza il caso di contrasti fra la volontà e la coscienza è
ben più frequente nella nostra vita che non fosse ad essi nella loro. Quando
gli antichi ideavano una situazione in cui l’affetto si opponesse ai doveri
esponevano il combattimento interiore dell’animo più succintamente e più
superficialmente dei moderni; era uno stato a cui erano meno abituati di
noi; avendone minore esperienza lo conoscevano meno. Si confronti la
Fedra di Euripide con quella di Racine, Didone e Medea con Zaira e
Delfina.
Noi non ammettiamo il fato de’ Greci, né che un uomo possa essere
punito dal cielo per falli involontari, come Edipo. Prescindendo dal dogma
del peccato originale che è un mistero, la nostra fede non riconosce colpa
senza volontà, ma fra le colpe annovera il menomo desiderio immorale
acconsentito anche per un momento. Da un canto ci si prescrive una
perfezione più sublime della comandata ai Gentili, dall’altro le consolazioni
della probità sono dichiarate in nostro potere, perdendosi l’innocenza
solamente quando si vuol perderla. Però il senso de’ rimorsi è divenuto più
pretto, perché coincide sempre col principio inestinguibile della moralità, il
quale presuppone intenzione e scelta: è divenuto più potente, perché
l’orrore d’un delitto commesso cresce a misura che ci stimiamo obbligati ad
una condotta più innocente e più pura. — In tutta l’antichità non si trova
una scena paragonabile a quella di Lady Macbeth sonnambula1.
Sarebbe facile soggiungere l’analisi di moltissimi altri somiglianti
fenomeni.

1. È la scena Ia dell’atto V.

VII.
Due tendenze primitive dell’animo.

L’animo umano ubbidisce a due opposte tendenze. Una lo costringe a


rientrare in se stesso, a meditare sulla propria origine e sulle cause prime
del mondo, a figurarsi situazioni e cose essenzialmente differenti da tutto
quello che la esperienza presenta; potrebbe nominarsi la tendenza
contemplativa: l’altra lo sospinge a gustare passivamente le sensazioni
grate, a giovarsi delle cose esteriori sia per possederle, sia per modificarle
coll’ingegno meccanico; potrebbe nominarsi la tendenza sensuale, la
tendenza pratica. Dalla prima sono emanate le scienze trascendenti, cioè le
controversie filosofiche sull’immortalità dell’anima, la vita avvenire, gli
enti invisibili, la virtù perfetta, il sommo bene; arcani a cui pensano qualche
volta anche quelli che non vi credono.
La seconda ha prodotto la fisica sperimentale, la medicina, i mestieri e i
raffinamenti del lusso.
La poesia poi, siccome arte che ha per iscopo tutto l’uomo, rappresenta
passioni e soggetti analoghi ora alla prima ed ora alla seconda tendenza. La
riprovevole felicità d’Anacreonte, certe opinioni dominanti in Omero
intorno ai beni ed ai mali della vita, corrispondono alla seconda; eccone un
esempio fra molti. Ulisse favellando coll’ombra di Achille gli attesta che il
suo nome viveva nella memoria de’ Greci, ed Achille risponde: Vorrei
piuttosto essere un contadino, e guadagnarmi il vitto a’ servigi d’un altro
povero, che non regnare su tutti i morti giù nell’Erebo1
Sfoghi della prima tendenza sono le estasi e i terrori del Petrarca,
l’entusiasmo di Klopstock, l’idea dell’uomo innocente concepita da Milton,
gli amori e le amicizie eroiche dell’Ariosto.
Esaminando la letteratura romantica e la classica, risulta che i lavori della
prima furono ispirati dalla tendenza contemplativa, più efficacemente e più
spesso che non quelli dell’altra: e così doveva accadere, specialmente fra i
popoli del Nord. I popoli del Nord, quando non sono stupidi, riescono
necessariamente inclinati alla vita interiore delle riflessioni. Costretti dal
freddo a star rinchiusi, passano molto tempo senza percorrere oggetti
variati, e senza la dilettevole alacrità del convivere a cielo scoperto;
diventano malinconici ed inclinati alla meditazione; riescono scrutatori
pazienti ed entusiasti di tutto ciò che non cade sotto ai sensi. All’uomo non
stupido è necessaria la ginnastica del corpo o quella dell’animo. I Greci
passavano la vita in un felicissimo clima; dimoravano all’aria aperta tutto
l’anno, erano più atleti e quindi più contenti della loro sorte. — Ciò spiega
per incidenza un fenomeno curioso. La tendenza contemplativa
ricomparisce nelle poesie indiane; fra le altre nel famoso dramma la
Sakontala s’incontrano molte delicatezze che sembrano ideate da un
ingegno tedesco. Ora il caldo eccessivo deve sortire effetti fino ad un certo
punto consimili a quelli del freddo eccessivo: in Germania ci vogliono le
stufe, la birra e le bevande calide; in riva al Gange l’ombra degli alberi, i
bagni e le frutta: ma in ambedue i paesi si è obbligati lungo tempo a vita
sedentaria.

1. Odissea, 1. XI.
VIII.
Conclusione.

Alla poesia romantica appartengono tutti i soggetti ricavati dalla storia


moderna o dal medio evo: le immagini, riflessioni e racconti desunti dal
cristianesimo, dalle superstizioni delle plebi cristiane o de’ monaci o
dall’ignoranza, dalle favole delle fate e geni degli Asiatici introdotte nei
romanzi e naturalizzate in Europa; l’ideale cavalleresco; e generalmente
tutte quelle opinioni, e tutti quei gradi e tinte di passioni che non si
svilupparono negli animi de’ Greci e Romani.
Non tutto ciò che è romantico può essere convenientemente ricantato al
presente; il poeta stia a livello de’ suoi coetanei. Washington e i membri
delle Coortes sono gli eroi che fanno al caso nostro, non più Sacripante o
Amadigi: la religione può prestarci occasioni di sfoggiare nel maraviglioso;
ma essa sola, non il mago Atlante o l’incantatore Merlino.
È maniera romantica l’emanciparsi, ogniqualvolta l’azione il richieda,
dalle unità drammatiche di tempo e di luogo, e sprezzare insomma
qualunque prescrizione arbitraria dei retori sulle forme de’ componimenti;
in opposizione ai classici, i quali ne venerano alcune come Alcorano1, ed
altre ne stimano come specifici contro il supposto contagio del gusto
licenzioso e corrotto. Per ultimo, non può dubitarsi che la qualità de’
soggetti e la natura degli animi moderni non abbiano (generalmente
parlando) introdotto ne’ lavori, specialmente ne’ drammatici, una varietà
d’incidenti ed una complicatezza d’insieme non praticata dagli antichi;
senza però chiudere al romantismo la via d’una semplicità somma,
ogniqualvolta l’argomento il richieda e comporti; basti in prova la Luigia di
Voss2.

1. Come i musulmani venerano il Corano; cioè, come testo sacro.


2. La Luigia di Giovanni Enrico Voss, poeta e critico tedesco, vissuto dal 1751 al 1826, è un
poemetto idillico in tre canti, da cui il Goethe trasse ispirazione per l’Arminio e Dorotea. Il Visconti
preferì citare il poemetto del Voss anziché l’Arminio e Dorotea, perché questo idillio, fattogli leggere
dal Manzoni, non gli era piaciuto.
ARTICOLO QUARTO
UNA COMPOSIZIONE PUÒ ESSERE IN PARTE ROMANTICA,
ED IN PARTE CLASSICISTICA

I.

L’Alzira, la Zaira e il Tancredi, l’Atalia, il Saulle e il Filippo1, cioè le


migliori tragedie di Alfieri, di Racine, e di Voltaire sono romantiche per la
qualità degli argomenti e di pensieri, e classicistiche per la sola forma
esteriore. Oltre a questa maniera di combinare elementi spettanti ai due
opposti sistemi ve ne sono delle altre.
In primo luogo, quando in un’invenzione di sostanza moderna vengono
frammischiate le favole de’ Gentili, come nel componimento di Dante, ove
figurano Caronte, Plutone e le Furie; come nelle canzonette del Savioli,
zeppe di frascherie omeriche intrecciate all’esposizione dell’amore di
galanteria praticato nelle nostre città2. In secondo luogo, quando vi è
anacronismo nell’espressione di sentimenti morali. Nella Fedra di Racine i
contrasti dell’onestà contro al desiderio, la dichiarazione d’amore, le smanie
della gelosia, sono scritte con una potenza di riflessione patetica, che si è
sviluppata soltanto dopo il cristianesimo. In terzo luogo, può darsi
anacronismo nelle costumanze esteriori. A cagione di esempio, se uno
combinasse un poema sul soggetto dell’Iliade, mettendovi le gare de’ numi
e i passatempi dell’Olimpo, e facendo combattere Achille ed Aiace colle
armi de’ Paladini, li trasformasse in baroni feudali. Questa supposizione
non è stranissima; lo Schlegel racconta di aver veduto un manoscritto sulla
guerra di Troia, in cui eravi una miniatura rappresentante i funerali di
Ettore; il catafalco dell’Eroe era decorato di emblemi blasonici, e collocato
in una chiesa gotica.

1. Del Voltaire l’Alzira, la Zaira, il Tancredi; del Racine l’Atalia; dell’Alfieri il Saul e il Filippo.
2. Ermes Visconti riguardava gli Amori di Ludovico Savioli come arte ibrida pel prevalere della
mitologia pagana sull’amore di galanteria. Improprio è quindi l’accostamento, che egli fa dell’arte
savioliana con quella di Dante, che nella Divina Commedia, cristianamente, raffigurò Caronte,
Plutone, le Furie come potenze demoniache.
II.
Negli Autori adunque e nelle opere che si sogliono citare in esempio
delle due scuole si avviserà sovente qualche elemento eterogeneo. Ma nel
denominare gli uni e le altre conviene badare alla massa e non alle minuzie
accessorie.
Dante, l’Ariosto e lo Shakespear sono romantici; l’Edippo di Voltaire, e
l’Antigone d’Alfieri sono componimenti da classicista; il Saulle e la Zaira
sono misti, perché tutto il soggetto è romantico, e tutta la tessitura è
classicistica; dicasi lo stesso ogniqualvolta l’influenza de’ due metodi si
trova equilibrata.
ARTICOLO QUINTO
RETTIFICAZIONE DI ALCUNI FALSI SUPPOSTI

I.

Le opinioni degli estetici tedeschi, e più ancora quelle enunciate da


alcuni fra gli studiosi nostri concittadini, coincidono per moltissimi lati
colle idee esposte ne’ precedenti articoli.
Il romanticismo adunque non consiste nel favoleggiare continuamente di
streghe o folletti e miracoli degni del Prato fiorito1, o nel gemere e
raccapricciarsi ne’ cimiteri. A questo modo, si potrebbe dire con parità di
ragione che tutta la poesia degli antichi è ristretta alle metamorfosi
d’Ovidio; d’altronde si è già accennato che le fole plebee vanno tralasciate.
Un poema, una canzone, ed un dramma possono essere romantici senza il
menomo intervento di maraviglioso cristiano. Non lo sono forse persino
Brunet e Palomba autore di opere buffe in dialetto di Napoli2?
Il romanticismo non consiste nel lugubre e nel malinconico. Shakespear
espose sulle scene la morte di Desdemona, ma verseggiò anche i felici
amori di Miranda3: similmente Omero cantò l’inestinguibile riso degli Dei e
le sciagure di Priamo, i giuochi dello stadio e lo strazio di Ettore.
Il genere romantico non tende ad esaltare ciecamente i tempi feudali, né
ad invidiarli con desiderio insensato. Altro è encomiare le virtù
caratteristiche de’ crociati, ed altra cosa è lodarne i vizi, far desiderare
l’anarchia ed il fanatismo. Si loda pure il patriottismo di Leonida senza che
venga in capo di bramare la schiavitù degl’Iloti; si legge l’Odissea in tutte
le quattro parti del mondo4, e niuna principessa si è mai invogliata di fare la
lavandaia. Che se qualche autore ha confuso il bene col male, ed ha tessuto
senza accorgersene un panegirico alla barbarie, condannate lui solo: ma
anche Orazio celebrò le ingiuste guerre de’ Romani, e forse per questo
l’essenza della poesia latina sta nell’approvare la prepotenza di quelle
conquistea?
Le teorie de’ così detti novatori non sono un mezzo termine per sottrarsi
alle regole; dispensano soltanto dagl’impicci della pedanteria. Non
insegnano a saltare di palo in frasca senza ordine o scelta: la Basvilliana,
eccellente poema romantico5, è disegnata con metodo e con proporzioni
pensate.
Non si confonda il romantico recentemente ideato dai Tedeschi colla
vecchia parola inglese romantick, la quale corrisponde a romanzesco:
sarebbe un confondere le tre Grazie colle grazie che fanno i sovrani quando
assolvono un reo.

a. Attribuire al genere romantico una tendenza perniciosa imputabile soltanto ad alcune particolari
invenzioni, è un equivoco, in cui poterono cadere anche uomini d’ingegno, indottivi da un complesso
di circostanze atte a far confondere gli abusi con i vantaggi della nuova scuola. Il disapprovare poi
una tal supposta tendenza fu prova di mente avvezza ad idee serie e lodevoli.

1. Si ricordi che tra quei novatori molti videro nel Monti, dalla Bassvilliana al Bardo della Selva
Nera e più oltre, un fondo romantico. Il Sermone sulla Mitologia è del 1825. Anche Giuseppe
Nicolini giudicava la Bassvilliana ispirata da Musa romantica.
2. Allude al Prato fiorito di varii esempi di P. Valerio Veneziano, Venezia, 1723, in due tomi.
3. Il Brunet, attore famoso, era valente tanto nelle «féeries» (spettacoli meravigliosi, in cui
intervengono le fate), quanto nei «vaudevilles» e nelle commedie propriamente dette. Nel 1815 era
stato primo attore nella «féerie» Le bücheron de salerne di Desaugiers et Gentil, rappresentata «aux
Variétés». Nel recitare collaborava con spirito arguto alla formazione e al successo delle opere e si
pubblicò persino un «choix de ses bons mots», col titolo Brunetiana.
Giuseppe Palomba era autore di più che trecento libretti per opere buffe. Vedi Michele Scherillo,
L’Opera buffa napoletana, Palermo, Sandron, 1916, p. 451.
4. Desdemona nell’Otello; Miranda nella Tempesta.
5. Molti allora ponevano genericamente l’Oceania nell’Oriente asiatico. Perciò dice quattro le parti
del mondo.

II.

Si cessi dal calunniare gli esimi stranieri, chiamandoli disprezzatori e


invidiosi de’ classici greci e romani: essi li ammirano anzi con un
sentimento più profondo e più vero, che non gli stessi retori, perché vi
scoprono bellezze sublimi a cui non arriva lo sguardo de’ retori. Il
classicismo in Omero ed in Sofocle corrisponde al romanticismo in Schiller
ed in Milton: l’uno e l’altro sono effetti di un’identica causa, cioè
dell’entusiasmo spontaneo voluto ed alimentato dal complesso della
civilizzazione rispettiva. È il solo classicismo de’ moderni che merita
biasmo, perché è un’imitazione inopportuna non della natura, ma di
preesistenti opere d’arte; è un poetare spurio tanto lungi dal vero buon
gusto, quanto le inezie claustrali degli scolastici erano lungi dalla vera
filosofia.
Che siasi formata una setta di studiosi, i quali posposte le cose natie
consacrarono il loro estro a superstizioni e costumi, di cui non resta quasi
altro fuorché la tradizione letteraria de’ monumenti e de’ codici, è un
fenomeno tanto estraneo alla natura dell’ispirazione poetica, che bisogna
cercarne la spiegazione in circostanze accidentali. È noto lo zelo del
Petrarca e del Boccaccio nel diffondere fra noi la cognizione dei vecchi
libri, ed è noto che essa venne crescendo nelle età susseguenti. In tali
epoche di rivoluzione letteraria gli scienziati, gli antiquari, gli artisti
contribuivano a diradare l’ignoranza rinnovando la memoria di una coltura
lungo tempo obliata: applicarsi a conoscerla, mostrarsi zelante nel
propagarla fu gentilezza non solamente erudita, ma anche sociale: essendo
gentilezza sociale l’istruirsi delle cose che si vanno scoprendo alla giornata.
E siccome la politica moderna era appena abbozzata, né si sospettavano le
vere vie del sapere segnate in progresso di tempo da Bacone, Galileo e
Cartesio, così Platone, Aristotile, e la raccolta di Giustiniano parevano
oracoli. Sotto l’influenza di tanti esempi era troppo difficile che i soli poeti
s’appartassero dalle altre persone dotte, ed il classicismo trionfò: tanto più
che la mitologia, la quale trasforma ogni oggetto intellettuale o fisico in
novelle graziose, aveva in allora un pregio di novità: i compositori potevano
esservi allettati da entusiasmo in parte sincero; se non si può giustificarli,
almeno sono degni di scusa. Noi bensì manchiamo di qualunque difesa
ostinandoci ad insistere sulle panzane dell’Olimpo, di cui abbiamo già piene
le orecchie, di cui è scemato il gusto e scemerà sempre più.
I classicisti del cinquecento rassomigliano ai giovani educati in mezzo al
lusso di una capitale, i quali hanno passioni vivaci e facilmente irritabili; ma
per l’ordinario superficiali, perché istillate dagli esempi e dalla moda; quelli
del secolo presente mi fanno risovvenire i desideratori di altre peggiori
anticaglie fuori d’uso.
L’arte de’ poeti d’adesso deve imitare le inclinazioni dell’uomo maturo,
che non cura bazzecole e cerca l’utile solido. Si è dall’importanza delle
intenzioni e degli argomenti che è dato sperare la maggiore simpatia e
l’applauso; noi richiediamo che si trasfondano ne’ versi i risultati ottimi
della morale e della politica, gli aforismi amati dal cuore, dappoiché la
ragione li ha scoperti e riconosciuti. Non solo si preferiscano solitamente
soggetti storici sì pel teatro che per i poemi, ma si trattino seguendo la storia
e profittandone più che non abbiano fatto i nostri predecessori; perché la
riproduzione del passato, l’intuizione di uomini e di casi che produssero
effetti reali nel mondo è uno spettacolo più serio che non i fatti chimerici
assortiti dalla fantasia d’un individuo; già s’intendono eccettuate le
commedie ed i romanzi cittadineschi. I lirici scelgano sovente dei temi
simili all’ode di Parini pel vestito alla guillotine1, o all’ode di Quintana per
la battaglia di Trafalgar2, nella quale l’idea dominante si è che la nazione
spagnuola deve armarsi di costanza contro le oppressioni nemiche, e che chi
è costante risorge da ogni sciagura.
E l’età senile, corrisponde anch’essa a qualche razza di poeti? La farei
corrispondere piuttosto a due sorta di critici. Vi sono due qualità di vecchi.
Alcuni pieni di buon senso ed ispirati da lunga esperienza; se agiscono poco
per cagione delle infermità e della pacata lentezza dei loro nervi, danno utili
consigli, e chi non è stolido va volentieri a consigliarsi da loro. Questi sono
i filosofi estetici, ne’ quali la severità degli studi produsse effetti consimili a
quelli della canizie; conoscono il meglio e l’ottimo, discernono il cattivo dal
mediocre e dal buono, sanno assegnare le cagioni intime del piacere
ignorate sovente dagli stessi inventori. Altri vecchi sono caparbi ed invidi
della gioventù, dormono già da anni ai progressi della società, sdegnosi
d’ogni cosa nuova la condannano senza pigliarsi la briga di esaminarla:
fratelli carnali de’ critici pedanti.

1. Nell’ode A Silvia o sul vestire alla ghigliottina (1795) il Parini con profondo sentimento umano
lamenta che un «misfatto enorme», la «scellerata scure» della rivoluzione francese avesse dato
«nome e forme» a quella moda femminile.
2. Manuel José Quintana, uno dei maggiori poeti spagnuoli del secolo XIX, visse dal 1772 al 1857.
Durante l’occupazione napoleonica tanto infiammò l’odio contro l’invasore, che fu detto il Tirteo
della Spagna. La sua Oda a los marinos Españoles en el Combate del 21 de octubre 1805 fu in parte
tradotta nel num. 114 del Conciliatore. Nella battaglia di Trafalgar (promontorio della Spagna,
sull’Atlantico, tra Cadice e Gibilterra) le navi franco-spagnuole erano state sconfitte da quelle inglesi,
comandate da Nelson, che vi perdette la vita.
ARTICOLO SESTO
SUL CLASSICISMO NELLA PITTURA E SCULTURA,
E NEI BALLI PANTOMIMICI

I.

Lo scopo primario della pittura e della scultura si è di rappresentare la


bellezza visibile nascente dalle dimensioni, dalle forme, dalle proporzioni,
dagli atteggiamenti, dai colori, dall’espressione degli affetti e delle
permanenti qualità morali delle persone. Per conseguire interamente questo
fine non basta che gli artisti ritraggano semplicemente dal vero; è d’uopo
che inventino bellezze possibili, e ciò chiamasi l’ideale nelle opere di
disegno. L’ideale è diverso secondo i soggetti: la maestà d’un Giove non è
conveniente ad un Mercurio, né quella di Giunone alla dea Iride; adattare ai
soggetti l’espressione e le forme loro proprie chiamasi carattere.
Ora il carattere che gli Artisti sanno dare ai Numi dell’olimpo non è
quello che sta bene alle immagini del paradiso cristiano. I Giovi e i Saturni
diversificano di molto dal Padre Eterno della Sistina, la Vergine non può
avere l’aspetto d’una Diana, o d’una Pallade, o d’una Giunone, o d’una
Venere: essa deve esprimere una santità, dolcezza, umiltà e modestia ignote
a Prassitele ed a Fidia. Similmente ci correrà sempre divario tra le figure di
Mosè e d’Abramo e quelle di Prometeo; fra gli Apostoli ed i Profeti, e Lino
e Deucalione.
Né credasi che il carattere de’ Numi possa darsi tal e quale ai personaggi
della storia greca, sia del tempo certo, sia del tempo eroico: di Marte farne
un Aiace o un Leonida, di Cerere un’Andromaca, o di Cibele un’Olimpia
madre d’Alessandro. Quando si riesce a segnare davvero in una pittura o in
una statua l’ideale d’una divinità, l’osservatore s’avvede che non si tratta
d’un uomo. L’Apollo di Belvedere non sarebbe egualmente bello se fosse
stato fatto per un Achille o per un Filottete ancor giovane. E la Minerva di
Velletri non avrebbe più la sua verità meravigliosa, se non rappresentasse la
Dea del sapere e dell’armi: né il Giove di Verospi1, se non fosse simulacro
del re degli uomini e del cielo.
Dunque rinunciando alla Mitologia, si rinuncerebbe ad un genere
cospicuo di bellezze visibili, e con ciò ad una parte importantissima
dell’arte del disegno. Ma se un Ultraromantico proponesse il mezzo
termine: Che necessità di formare de’ Giovi e delle Palladi? scolpite e
disegnate le forme che dareste a tali enti chimerici, e contentatevi di dire: È
un bell’uomo, e una bella donna; non è vero che la bellezza visibile sarebbe
uguale ed egualmente conservata?
No: una parte del bello visibile sta nel carattere, ed una gran parte del
piacere datoci dal carattere sta nelle idee di relazione ch’esso suggerisce.
Quando mi mostrate una bella donna armata, di forme robuste e severe, di
tutta infine quella dignità che si conviene ad una Pallade, e dite che è
Pallade, il mio pensiero ragguaglia l’oggetto fisico colla cosa significata, e
la riflessione ripete: È la regina del valore e della scienza. Dicendomi è una
donna, svanisce l’associazione al conosciuto complesso morale, il diletto è
minore.
In somma il caso è assolutamente diverso da quello della poesia. Nel
rimirare il Parnasso di Bossi2, il piacere dominante e primario è della vista,
le nozioni rammemoranti la leggiadra finzione delle Muse e dell’Ippocrene
sono accessori; le gustiamo perciò che sono accessori, i quali cospirano a
spiegarci la bellezza degli oggetti principali, cioè delle figure presenti ai
sensi. Ma ne’ versi, le nozioni relative ai capricci dell’idolatria restano lì
isolate; da sole non hanno forza di commuovere bastantemente, annoiano;
non sono legate ad un altro bello più efficace, quando mai non si volesse
attribuire allo stile la principale virtù de’ versi, sproposito che fu ripetuto
più d’una volta. Ecco la ragione per cui si concede al disegno ciò che si
nega alla parola. Appiani non errò progettando di far Giove incoronato dalle
Ore, né Canova componendo il suo Ercole e Lica: un’ode o un episodio
epico, scommetto che riuscirebbero una seccatura.

1. Già nel Palazzo Verospi a Roma; dal 1771 nel Museo Vaticano.
2. Giuseppe Bossi, pittore e critico d’arte, vissuto dal 1777 al 1815, che può dirsi il fondatore della
Pinacoteca di Brera. Come artista fu accademico e classicheggiante.

II.
Canova scolpì un’Ebe ed un Perseo colla stessa mira, con cui fece un
Pugillatore ed una Maddalena1, per rappresentarli indipendentemente da
qualunque destinazione allegorica: all’opposto quando si collocherà in
Brera la statua di Minerva altre volte progettata sarà una decorazione
allusiva allo stabilimento. L’uso della Mitologia per ornamenti emblematici
mi pare meno felice dell’altro; gli emblemi d’origine antica applicati ad una
cosa moderna non vi stanno in perfetta armonia, hanno sempre un’indole
esotica, un’aria di ricercatezza erudita. Non asserisco per questo, che
debbansi escludere del tutto. Gli artisti c’insegnano che non sempre può
trovarsi un’allegoria moderna, la quale dal lato della bellezza esteriore
regga al confronto di quelle che è dato desumere dal Paganesimo.
Stando adunque a questa decisione de’ giudici competenti, non è dubbio
che sarebbe stoltezza sacrificare lo scopo essenziale, cioè il bello sensibile,
ad un’ambiziosa esattezza nella corrispondenza cronologica.

1. Quattro volte effigiò Ebe il Canova: nel 1800; nel 1801; nel 1814; nel 1816. Scolpì Perseo nel
1801; due volte il Pugilatore, nel 1802; e Maddalena il medesimo anno.

III.
Balli Pantomimici.

Il ballo pantomimico partecipa della poesia e della pittura. Paragonato


alla prima ha l’inconveniente d’una lingua di gesti povera, indeterminata e
monotona; ma in compenso la lingua dei gesti sa esprimere le emozioni con
una rapidità, di cui la declamazione non è suscettibile, vi unisce una nobiltà
e una grazia di portamento e di passi molto affine alla magìa della danza; ed
è soccorsa dalla musica, la più veemente fra tutte le artia. Chi ha veduto la
fisonomia ed i movimenti di Mirra, di Desdemona e della Vestale, secondati
da modulazioni espressive nei balli di Viganò1 sarà persuaso che è
impossibile commuovere più al vivo con una bella imitazione.
Confrontando una pittura ed un ballo, questo ha lo svantaggio di non offrire
forme ideali, giacché si è costretti a servirsi di ballerini tali quali sono, ed
ha il vantaggio di delineare azioni successive con figure semoventi.
Poiché il compositore di balli non ha modo di crearci dinanzi agli occhi
l’ideale caratteristico degli Dei della Grecia, ne viene di conseguenza che
l’arte sua non ha bisogno delle favole, cessa la ragione per cui sono
necessarie non di rado ai pittori ed agli scultori. Ma il non essere necessaria
una cosa non basta per escluderla; ci vogliono delle ragioni positive, e
ragioni positive non ve ne trovo. Quali sono infatti i pregi sommi ed
essenziali di un’azione mimica? La leggiadria o la sublimità pittoresca delle
attitudini e de’ gruppi, interesse pittorico, e le emozioni meramente
patetiche, interesse patetico.
Per l’interesse pittorico abbiamo veduto i gruppi di selvaggi e le danze
parlanti delle Arti nel Prometeo, ed anche il volo di Prometeo sul cocchio di
Minerva2, che fu un quadro grazioso da non confondersi colla lanterna
magica dell’Atto seguente destinata ad affollare di curiosi il teatro e ad
attirare forastieri a Milano. Che se le Veneri ed altre belle creature celesti
spesse volte riescono insipide nel palco è colpa de’ compositori, i quali non
possono aver sempre ai loro comandi l’estro pittorico.
Circa all’interesse meramente patetico, la Mirra di Viganò3 è
un’esperienza che non ammette replica. Si avverta però che i casi sono rari,
in cui la Mitologia presti materia di commovente spettacolo.
a. Ho confrontato la lingua de’ gesti nelle azioni mimiche con la poesia declamata, tralasciando le
opere in musica per non complicare troppo le idee a rischio di confonderle.

1. Salvatore Viganò, nato a Napoli nel 1769, morto a Milano nel 1821, fu acclamatissimo e
desideratissimo ordinatore di balli in tutta Europa e dal 1812 in particolar modo alla Scala. Per
l’ideazione, preparazione e inscenatura dei balli pantomimici parve allora un genio. Questo è il
motivo della vivissima attenzione che a lui rivolge il Visconti. Per i suoi spettacoli il Viganò ora
trasse ispirazione dalla mitologia e dalla storia antica (Mirra; Didone abbandonata; Le Sabine in
Roma; Numa Pompilio ecc.); ora da fiabe e leggende, argomenti romanzeschi, fatti medievali o
moderni, storici o immaginosi (Il noce di Benevento; Le tre melarance; Riccardo Cuor di Leone;
Giovanna d’Arco; Otello, ecc.). Fra i suoi ammiratori fu lo Stendhal.
2. Le danze parlanti delle Arti erano nel quadro primo; il volo di Prometeo sul cocchio di Minerva
avveniva nel secondo. Il Prometeo era stato rappresentato alla Scala nel 1813.
3. Mirra ossia la Vendetta di Venere era stata rappresentata nel 1815.

IV.
Discorso dì un Classicista con un Romantico.

C. O contraddirvi da voi stesso, o rinunciare ai vostri princìpi.


R. Ma perché?
C. Potete negare che anche la Mirra di Alfieri non abbia fatto piangere?
O questo non basta per giustificare Vigano, o deve bastare anche per le
tragedie; addio le vostre scomuniche contro la mitologia.
R. Oh! se non è che per questo vi servo subito. Ho veduto molti drammi
sentimentali che fanno venir le lagrime agli occhi e non valgono un corno.
C. E così?
R. E così, la semplice commozione patetica non basta alla bellezza d’una
poesia. Vi prego di riflettere che la bellezza principale ed essenziale ne’
balli consiste nel pittoresco e nel commuovere. Vigano l’ha fatto, e non
potete cercargli di più, perché da un’arte non si può cercare se non quello
che può dare. Pretendereste da Veillard1 che vi guarisse della terzana?
C. Che bel paragone a proposito! Sentite, se fossi uno di quelli che
sapete, vi direi che è romantico.
R. Ed io se fossi un altro vi replicherei che rispondete da classicista,
decidete senza aver prima inteso tutto. Favoritemi. Se uno andasse da
Veillard e gli facesse questa invettiva: Monsieur Veillard, voi fate malissimo
a non provvedere che polli, verdure, tartuffi… cose che non guariscono
dalla febbre né dal mal di capo, Veillard risponderebbe: Monsieur, je ne suis
pas apothicaire, e chiamerebbe qualche garzone per paura che questo matto
gli facesse del male. E Vigano non potrebbe dire anch’egli: Quando in un
ballo si son fatti dei bei gruppi e si sono eccitate delle emozioni forti siamo
giunti al sublime dell’arte: se vi sono giunto nella Mirra, potete criticarmi
di aver scelto un soggetto mitologico?
C. Fin qui avete ragione, ma…
R. Scusatemi se v’interrompo. Ma se Alfieri credesse di chiudere
anch’egli la bocca a tutti dicendo: — Quando un soggetto commuove ha
tutti i requisiti necessari per una tragedia — avrebbe egli ragione?
C. Qui sta il punto, e mi pare di sì.
R. Ed a me, se permettete, pare di no. Se un argomento non fa altro di
bene che commuovere, e tutto il resto lo fa male, è un argomento cattivo, ne
vedete la ragione.
C. Anzi non vi capisco. Altra romanticheria, oscurità e arzigogoli.
R. Altra classicisticheria, se permettete: appena si va ad internarsi ne’
princìpi dell’arte, perder la testa. Non dico per voi che mi capirete in un
minuto.
C. Già già, non siamo villani: so che non parlate per offendermi.
R. Ecco. Una tragedia non deve soltanto far piangere; deve mostrare il
complesso de’ pensieri e delle circostanze di tutte le persone in azione, le
intenzioni loro, l’influenza che esercitano le passioni accessorie de’
personaggi secondari, le modificazioni delle passioni principali e
secondarie. E tutte queste cose devono essere interessanti: se lo sono,
accrescono l’importanza della passione principale, le danno un carattere
proprio, di cui ci occupiamo con trasporto indipendentemente dalla nuda
commozione patetica; oltre al piangere, contempliamo e pensiamo e
sentiamo in cento maniere. Osservate il Filippo d’Alfieri. Non m’interesso
soltanto per Isabella e l’Infante perché si amano, prorompono in lamenti, e
resistono alla loro passione; m’interesso anche ad osservare la fredda
gelosia di Filippo Secondo, i maneggi di Gomez; mi fa venir freddo l’idea
che il secreto de’ due poveri giovani è già mezzo scoperto ed
infallibilmente va a scoprirsi, perché essi non possono consultarsi fra loro
all’opportunità, sono sinceri e agitati, ed hanno a che fare con volpi vecchie
e con lupi e con un re che ha una testa calcolatrice e sicura. Si aggiunge la
compassione di Carlo pei Fiamminghi che lo compromette e lega col resto.
Questo è il bell’insieme del Filippo e lo sarebbe ancor più se la corte di
Filippo fosse stata rappresentata più fedelmente, se la regina comparisse
sorvegliata dall’etichetta delle sue dame come fece Schiller2, se vi fosse il
duca d’Alba ed altri cortigiani ricopiati individualmente dalla storia.
C. Già me lo figurava che non avreste finito senza fare un complimento
ai vostri Tedeschi.
R. No. Colla stessa sincerità vi dico che in Schiller non mi piace la scena
stranissima di Posa col Re. Un Filippo Secondo invece di farlo primo
ministro lo avrebbe fatto mettere in prigione, o bruciare dal Sant’Ufficio.
C. Per bacco se è grossa! Che diamine! Pare impossibile che si travisi la
storia a tal segno. Ed anche Alfieri, ne convengo con voi, avrebbe fatto
meglio a rispettarla di più, ed a prevalersene di più.
R. Dunque andremo presto d’accordo. — Figuratevi che Alfieri quando si
pose a scrivere la Mirra, avesse preso in mano il Filippo e riflettuto così:
Qui nel Filippo ho insistito molto sul carattere dei re di Spagna e sugli
imbrogli di una corte moderna, sulla perfidia e viltà di ministri d’un tiranno
spagnuolo: ho fatto allusione all’oppressione dei Fiamminghi; ciò ha
procurato molte lodi alla mia tragedia, sono riuscito ad individuare le
circostanze che diversificano la sciagura amorosa d’Isabella e di Carlo da
tutte le altre sciagure amorose: ho dato ai loro spaventi, trasporti e sospetti
un carattere proprio e locale: avrei fatto anche meglio se avessi consultata
di più la storia. Adesso nella Mirra non mi dimenticherò di questi princìpi.
Se non seguirò Ovidio3 che fa commettere un incesto, è soltanto perché ciò
sarebbe un’indecenza. Ma mi servirò di tutto quello che può nascere dalla
circostanza, che la passione di Mirra è un effetto dell’ira di Venere. Mirra
non deve palesarsi se non quando s’uccide: in questo punto sto fermo. Ma
la madre può sospettare che la malinconia e le stravaganze della figlia siano
un castigo celeste, sa di avere fatto a Venere un’ingiuria pericolosa: può
dirlo a Ciniro; ecco una miniera di pensieri caratteristici ed esclusivamente
adattati al soggetto.
Cecri e Ciniro tremeranno continuamente al pensiero della vendetta della
Dea; la costernazione religiosa dei loro cuori si spargerà su tutto il dialogo,
faranno preci e sacrifici in segreto; e Mirra, che sa pur troppo il suo affetto
colpevole, non potrà a meno di pensare che è uno dei tanti casi in cui gli
Dei trascinano gli uomini al delitto: oltre le smanie, le riflessioni morali…
esternerà quello stato confuso di religione e di rabbia contro al destino che
nasce dal vedersi pervertita dallo stesso cielo. In somma tutte le emozioni, i
pensieri e le azioni saranno alternativamente religiose e naturali, e
formeranno un solo complesso. — Che ne dite?
C. Alfieri avrebbe fatto malissimo. La parte mitologica, ha avuto
giudizio, l’ha passata con pochi cenni.
R. Ma perché avrebbe fatto malissimo?
C. Perché la commozione sarebbe svanita. Abbiamo bisogno di
dimenticarci del miracolo per occuparci dell’affetto.
R. Vedete dunque che Alfieri ha dovuto fare come i giuocatori di
bussolotti? Vedete che le circostanze della Mirra non erano interessanti?
Ecco spiegato quali siano i soggetti brutti non ostante che commuovano, e
quali siano i belli: la Mirra e il Filippo.
C. Davvero, che non so darvi il torto, e sono mezzo convertito.
R. Dovete esserlo in tutto e per tutto. Ne’ soggetti mitologici vedete che il
poeta, se vuole commuovere, è costretto a lasciar fuori quasi tutto ciò che è
caratteristico della cosa: per commuovere, è costretto astenersi da tutte
quelle cose che nei temi non favolosi secondano la commozione, e formano
la sublimità de’ veri capi d’opera. Potrete lodare le scene patetiche della
Mirra, ma non lodate la scelta d’un tema che escludeva quell’insieme di
bellezze che un poeta deve cercare. Al compositore di balli concedete la
mitologia, perché essa non impedisce i pregi sommi d’un ballo; anzi alle
volte presta un bello pittoresco seducentissimo. E se la mitologia non va
bene nei poeti nemmeno quando possono commuovere, molto meno ne’
casi infinitamente più frequenti in cui riuscirebbero freddi e insulsi.
C. E poi, lo vedo anch’io, non bisogna confondere o balli con le tragedie.
Quando si tratta d’uomini che camminano in cadenza e gestiscono invece di
parlare, si è portati in un altro mondo: si è disposti a secondare tutto quello
che viene inventato; non vi si riflette più che tanto.
R. Sicuro, quanto più un’arte si serve di mezzi lontani dalia verità precisa
delle cose, tanto più l’immaginazione si presta a qualunque finzione.
C. Insomma sono convertito, e corro a casa a bruciare il Dizionario delle
Favole.
R. Ohibò! non vi compromettete. Io non ho più nulla da perdere; ma voi
perché mettervi a rischio di vedere dei brutti visi?
C. Ebbene, seguiterò a fare il classicista; anzi dirò quello che gli altri non
diranno più; negherò la verità conosciuta. Dirò che voi altri sprezzate
Omero, sebbene lo lodiate, e tutti i Greci, sebbene ne siate ammiratori: che
volete streghe e folletti, sebbene vi prema che si mettano anch’essi in
archivio: che volete una poesia fondata su Ossian, sebbene Ossian non sia
romantico4.
R. Bravissimo. Sappiate per altro che il bisogno di dissimulare non durerà
un pezzo. Fra pochi anni saremo tutti d’accordo. Il Classicismo è vecchio e
finirà come la Repubblica Veneta.

1. Veillard, francese, aveva una rinomatissima trattoria a Milano.


2. Nella tragedia Don Carlos, del 1787.
3. Nel libro X delle Metamorfosi (298-502) Ovidio narra come Mirra, innamorata del padre,
Cinira, dopo essere più notti giaciuta con lui, ignaro che la giovine donna fosse la sua figliuola, sia
stata mutata nell’albero dal nome mirra.
4. Questo capovolgimento finale, fatto ad arte, richiama quello con cui si chiude la Lettera
semiseria di Grisostomo del Berchet. Gran poeta era dai romantici considerato Ossian. Il Di Breme,
in quell’anno stesso, pubblicando nello Spettatore italiano (Milano, Stella, 1818) le sue Osservazioni
al Giaurro del Byron, recato in versi italiani da Pellegrino Rossi (Ginevra, 1818), aveva indicato
Fingal e Ossian tra le figure più poetiche della mente umana. Diceva: «Se il patetico aspira
principalmente a questo fine di toccare il fondo dell’animo e di sviscerare i più intimi sentimenti, non
è meraviglia che abbiano in ciò il vanto sulle antiche le posteriori età» (Polemiche, cit., pp. 95-97).
Ma su questo punto si veda, criticamente, il Leopardi, nel Discorso di un italiano intorno alla poesia
romantica (Opere, Milano, Rizzoli, 1937, vol. II, p. 540).
DIALOGO SULLE UNITÀ DRAMMATICHE
DI LUOGO E DI TEMPO1

INTERLOCUTORI:

Il professore Lamberti2 - Viganò compositore di Balli -


Il maestro Paesiello - Romagnosia.

VIGANÒ. In somma, il Ballo di Prometeo, secondo voi, non è regolare?


LAMBERTI. Perdonatemi, non dico questo: se fosse una tragedia,
converrete con me che la mancanza d’unità di luogo e di tempo sarebbe una
mostruosità. Ma un Ballo non va giudicato così severamente. Non per
adularvi, ma il vostro Prometeo mi pare una cosa bellissima.
VIGANÒ. Bontà vostra.
ROMAGNOSI. Sentite, Viganò: se io fossi in voi, non sarei persuaso di
quello che ha detto il professore qui. O l’unità di tempo e di luogo è una
legge anche per i Balli, o non lo è nemmeno per le tragedie.
LAMBERTI. Come? Credete che le regole tragiche si applichino anche ai
Balli? Perdonatemi, voi volete divertirvi.
ROMAGNOSI. Lasciatemi spiegare le mie idee. Vi sono delle regole
indispensabili tanto ad una Tragedia, quanto ad un Ballo; ve ne sono di
quelle che si adattano alla Tragedia e non al Ballo, e ve ne sono delle altre
che si adattano al Ballo, e non alla Tragedia. — Se io dicessi che un
calzolaio per fare bene un paio di scarpe deve prendere la misura del piede;
e che un sarto per far bene un gilè deve prendere anch’egli la misura d’un
piede, io sarei pazzo. Ma se dicessi che tanto il calzolaio, quanto il sarto
debbono fare le scarpe ed il gilè né troppo larghi, né troppo stretti, sarebbe
una verità nota anche ai fanciulli. Ebbene, o l’unità di tempo e di luogo è
una regola falsa, o è come il largo o lo stretto delle scarpe e del gilè: si
applica a tutti i componimenti drammatici. E ciò non toglie che vi siano
delle altre regole speciali ai componimenti cantati, delle regole speciali ai
componimenti gestiti.
PAESIELLO. Verissimo! Quando scriveva, lo so io, che rabbia mi sono
mangiato per que’ maledetti poeti che mi facevano delle scene poco
musicabili.
VIGANÒ. E l’altro ieri l’impresario della Scala mi domandò se la tua opera
della Mulinara3 sarebbe riuscita bene in un secondo Ballo. Io gli dissi
subito: che la Mulinara è bellissima in opera, ma in secondo Ballo sarebbe
fischiata. Ho preso invece i Zingari in Fiera4, e spero d’incontrare.
PAESIELLO. Ma come va dunque, caro Romagnosi, che voi altri letterati ci
predicate che il maestro deve servire al poeta? A me pare che non c’entri né
servitore, né padrone. Devono aiutarsi l’uno coll’altro per fare una bella
cosa. Questa storia del servitore e del padrone me la diceva sempre anche
Calsabigi, m’imbrogliava; ma persuadermi poi, no.
ROMAGNOSI. Sapete perché non vi persuadevano i discorsi di Calsabigi?
Perché voi siete un uomo grande, e Calsabigi era tutt’altro che un uomo
grande. Perché voi avevate ragione ed egli aveva tortob. Ma lasciatemi
seguitare col professore.
LAMBERTI. Sì, sì, io capisco sempre più che burlate. Adesso avete detto
un’altra eresia, di cui non siete persuaso.
ROMAGNOSI. Un altro momento, quando vorrete che discorriamo di
quest’eresia, vi dirò le mie idee ed avrò piacere d’udire le vostre. Ora ho
voglia di ciarlare sull’unità: permettete — Le Tragedie, le Commedie, i
Drammi seri, buffi, semiseri, i balli eroici, i secondi balli sono tutti
egualmente rappresentazioni d’un avvenimento. Un avvenimento può
cominciare e finire in un luogo solo, oppure ora in un luogo, ora in un altro;
può durare un’ora, un giorno, trentasei ore, un anno, un secolo, dieci secoli.
PAESIELLO. Oh diavolo! Gli uomini non campano dieci secoli.
ROMAGNOSI. Io non ho detto che un avvenimento operato da un uomo
possa durare dieci secoli, ho detto un avvenimento: la fondazione,
l’ingrandimento, la decadenza e distruzione della Repubblica Veneta è un
avvenimento. Se ne potrebbe fare un poema che avrebbe la sua unità bell’e
buona.
LAMBERTI. Ma ne fareste anche una Tragedia?
ROMAGNOSI. No, ma se non è un avvenimento buono per tragedia, non
sarà buono nemmeno per un ballo. Ed ecco il perché. Che cosa fa un Autore
tragico? Fa venire sulla scena de’ personaggi a parlare e ad agire. Che cosa
fa un compositore di Balli? Fa venire sulla scena de’ personaggi a parlare
co’ gesti, e ad agire. Che si parli con parole, e che si parli con gesti, questo
non ha niente che fare colla durata che è concesso di fingere, né colla verità
di luoghi a cui è permesso o non è permesso di trasportare la scena. Dunque
se la Tragedia non deve oltrepassare ventiquattr’ore, o trentasei ore,
nemmeno dovrà oltrepassarle l’Autore d’un ballo; e non dovrà trasportare
nemmeno egli l’azione salvo che a piccole distanze: i vari appartamenti
d’un palazzo, i vari quartieri d’una città.
LAMBERTI. Io per me non ho pensato molto alle regole de’ Pantomimi; e
se ho a dirla mi piacerebbe di vedervi introdotta la severità delle regole
drammatiche. — Tocca a Viganò a difendersi.
ROMAGNOSI. Ma io non ho ancora detto che le Tragedie ed i Balli siano
obbligati all’unità di tempo e di luogo. Credo tutt’all’opposto che non lo
siano. Non è vero, Lamberti, che ho detto un’eresia peggiore della prima?
LAMBERTI. Ora vedo: anche voi siete persuaso del nuovo sistema
drammatico predicato da Schlegel e da altri romantici.
ROMAGNOSI. Cioè delle vecchie leggi drammatiche praticate nel
risorgimento dalla barbarie, quando si facevano le poesie secondo
l’ispirazione naturale ai poeti, e non secondo le forme prescritte
freddamente dai dotti; quelle leggi che valsero agli Spagnuoli il loro secol
d’Oro, e che permisero a Skakespear (sic) di comporre le più gran cose che
mai si siano vedute sui teatri; seguite forse da tutti i popoli d’Europa;
principalmente dagli Indiani che hanno un teatro antichissimo; predicate e
seguite dai Tedeschi moderni, che hanno fatto i maggiori studi sulla
Filosofia del Teatro, e sui Greci latini e moderni, ed hanno studiato
profondamente le poetiche antiche e moderne. — Ma che servono le
autorità? Ragioniamo da noi, e decidiamoci secondo che ci persuaderemo o
voi me, o io voi. Mi dispensate da una legge del galateo? Permettetemi di
farvi molte interrogazioni: — Ditemi: per qual ragione volete voi che
l’azione rappresentata in una Tragedia non duri più di ventiquattro o al più
trentasei ore, e che la scena non muti luogo se non a piccole distanze?
LAMBERTI. Perché non è verisimile che un’azione recitata in tre o quattro
ore comprenda la durata d’una settimana o d’un mese, né che nello spazio
di poche ore gli attori vadano da Napoli a Parigi, da Milano a Firenze.
ROMAGNOSI. Non solamente è inverisimile, è impossibile; ma è
impossibile anche che l’azione comprenda ventiquattro, o trentasei ore.
LAMBERTI. Non si può pretendere che la durata fittizia dell’azione
corrisponda esattamente col tempo materiale della recita. Allora sì, che le
regole sarebbero un vero inciampo a far bene. Nelle arti d’imitazione
bisogna essere severi, ma non rigoristi. Lo spettatore può figurarsi che nei
riposi degli atti trascorrano delle ore; tanto più che è distratto dalla musica:
lo spettatore non istà coll’orologio alla mano a contare i minuti.
ROMAGNOSI. Benone, professore caro, così siamo già a mezza strada. Voi
dunque convenite che lo spettatore può figurarsi che passi un tempo
maggiore di quello in cui sta seduto in teatro. Ma ditemi: potrà figurarsi che
passi un tempo doppio, triplo, centuplo, maggiore mille volte, diecimila
volte? Dove ci fermeremo?
LAMBERTI. Scusatemi, ma alle volte voi altri filosofi siete curiosi.
Biasimate le poetiche, perché, dite voi, inceppano il genio, ed ora vorreste
che la regola dell’unità (per essere buona) potesse determinarsi con
esattezza matematica. Non vi basta che sia inverisimile, cioè che lo
spettatore non possa figurarsi che passi un anno, un mese, o anche una
settimana?
ROMAGNOSI. E chi vi ha detto che uno spettatore non possa figurarselo?
LAMBERTI. Oh caspita! La ragione.
ROMAGNOSI. Vi domando perdono, la ragione non può averlo detto. Come
sapreste voi che lo spettatore può figurarsi che sia passato un giorno, mentre
è stato seduto tre ore, se non ve l’insegnasse l’esperienza? Come sapreste
che ad un annoiato le ore paiono lunghe, e quando si diverte paiono brevi?
Dall’esperienza. Insomma questa è una quistione che va decisa colla
pratica. Vi pare, o non vi pare?
LAMBERTI. Senza dubbio, colla pratica.
ROMAGNOSI. Ebbene: la pratica ha già deciso contro di voi. In Inghilterra
da secoli, in Germania da anni si recitano tragedie che durano de’ mesi e
de’ mesi: e l’immaginazione degli spettatori vi si adatta, come noi ci
adattiamo alle nostre.
LAMBERTI. Oh! non mi darete ad intendere che agli Inglesi ed ai Tedeschi
sembri che passino degli anni, mentre stanno in teatro.
ROMAGNOSI. E voi non darete ad intendere a me che agli Italiani sembri
che passino ventiquattr’ore mentre ne stanno seduti tre o quattro.
PAESIELLO. Oh questa me la godo! Altro che essere già a mezza strada:
non avete ancora attaccato i cavalli per mettervi in viaggio.
ROMAGNOSI. Tutto dipende dall’intendersi ne’ termini. Quando si dice che
l’immaginazione dello spettatore si figura che passi il tempo necessario agli
avvenimenti finti sul palco, non s’intende che lo spettatore sia illuso durante
la scena a segno di credere passato realmente tutto quel tempo. Se si
esigesse questa specie d’illusione bisognerebbe portar via l’orologio dalla
facciata del palco scenico nel Teatro della Scala. S’intende che lo spettatore
seconda colla sua immaginazione il supposto del poeta, salta via gli
intervalli di tempo che il poeta sottintende, e si occupa dello sviluppo de’
fatti. E questo accade ugualmente udendo Skakespear e udendo Alfieri.
LAMBERTI. Vale a dire, secondo voi, che l’illusione teatrale è uguale per
tutti e due.
ROMAGNOSI. Anche qui bisogna intendersi: in che fate voi consistere
l’illusione teatrale?
PAESIELLO. Professore, fammi una grazia, di’ a Romagnosi che si risponda
da sé, e cominci dallo spiegare egli che cosa è l’illusione teatrale. Faremo
più presto.
ROMAGNOSI. Illusione significa ingannarsi, credere quello che non è,
come ne’ sogni. Per conseguenza illusione teatrale sarà quando uno crede
vero ciò che si finge sul palco, crede che vi sia lì Bruto o Cesare in persona,
che si ammazzi davvero; quando non si ricorda più d’essere in teatro,
d’essere in Milano, e prende le scene di tela per Roma o l’America, non
vede più gli altri astanti, l’orchestra, l’illuminazione del proscenio.
LAMBERTI. E poi non vorrete che si dica che burlate?
ROMAGNOSI. Che serve? Voi dunque convenite con me che l’illusione
teatrale non è un’illusione perfetta; che gli spettatori sanno di essere in
teatro e di assistere ad un componimento d’arte, e non ad un fatto davvero.
LAMBERTI. V’è dubbio?
ROMAGNOSI. Dunque sarà un’illusione imperfetta. Ma credete che almeno
qualche momento di quando in quando si giunga a prender l’illusione per
realtà: mi spiego; una o due volte per atto, durante tre o quattro battute di
polso?
LAMBERTI. Non saprei; ed inclino a credere di no. Ma l’arte poi non
pretende tanto.
VIGANÒ. Lo pretenda o non lo pretenda, è certo che non succede.
ROMAGNOSI. Lo credo anch’io: ma se mai succedesse, succederebbe
egualmente nelle tragedie colle unità e in quelle senza. L’illusione perfetta
non potrebbe nascere né da una mutazione di scena, né quando lo spettatore
deve accorgersi che si fingono passati vari giorni, e nemmeno potrebbe
succedere quando in una tragedia d’Alfieri lo spettatore è informato d’un
fatto anteriore, e s’avvede che il racconto è fatto per informarlo, né quando
deve accorgersi che si fingono passate varie ore in pochi minuti. In somma
non può succedere fuorché nel calore d’una scena interessantissima, e di
natura a strascinare più facilmente la fantasia del lettore: non quando
s’ammazza, o s’imprigiona, o si sposa, o si sacrifica, cose tutte che non si
possono credere vere, né si credono. Le scene interessanti vi possono essere
tanto in un dramma di Skakespear, quanto in un dramma dell’Alfieri: che ne
dite?
LAMBERTI. A dirvi il vero, ho quasi paura a dir di sì, ma non so come
contraddirvi di buona fede.
ROMAGNOSI. Andiamo avanti. Voi, Paesiello, quando scrivete al cembalo
un duetto, non credete d’essere i due innamorati che lo canteranno. Eppure
vi sentite come immedesimato nella loro passione, avete gioia, tristezza,
terrori, speranze. Questo stato dell’animo vostro non lo chiamate estro,
entusiasmo, illusione?
PAESIELLO. Sì: ebbene?
ROMAGNOSI. Abbiate pazienza. E voi, Viganò, sarete stato tante volte a
passeggiare meditando un ballo che dovevate mettere in scena. Non
credevate d’essere Prometeo, né Orfeo, né una compagnia di streghe;
eppure vi appropriaste i loro sentimenti; avrete fatto senza pensarci de’
movimenti, delle attitudini, avrete parlato da voi solo. Non è vero che anche
questa era un’illusione?
VIGANÒ. Ebbene?
ROMAGNOSI. Ebbene? Ditemi un poco: quando si è in teatro occupati della
scena, non ci troviamo in uno stato consimile? Sarebbe mai questo stato
dell’animo l’illusione teatrale?
VIGANÒ. Ma non c’è una gran differenza fra questi due stati? Quando io
compongo, la mia testa è tutta occupata nell’inventare de’ gruppi e delle
attitudini, scelgo, rifiuto, torno a scegliere. Quando sto in platea e mi
abbandono all’illusione dello spettacolo non succede nulla di tutto ciò.
ROMAGNOSI. V’è dubbio che fra i due stati che ho detto vi è una gran
differenza? Ma sono consimili in questo, che ambidue ci trasportano a
trascurare gli oggetti reali intorno a noi, ad occuparci di cose finte, sebbene
per altro non le crediamo pienamente vere.
VIGANÒ. Avete ragione: mi avete spiegata una cosa che mi persuade
perfettamente.
ROMAGNOSI. Tanto meglio: ditemi adesso, Lamberti, la durata di molti
giorni invece di uno, il trasportare gli attori in luoghi distanti potrà impedire
questa specie di estro, d’illusione imperfetta?
LAMBERTI. Ma, mi pare di sì. Mi pare che il doversi immaginare di essere
un momento a Napoli, un altro momento a Parigi; doversi figurare che
passino mesi in pochi minuti, distragga lo spettatore ben più che non a tener
dietro a’ personaggi che vanno da un luogo ad un altro in una medesima
città, che non a figurarsi passate due o tre ore durante il riposo d’un atto.
ROMAGNOSI. Se fosse vero quello che dite; sarebbe impossibile produrre
l’imperfetta illusione teatrale di cui siamo convenuti, anche osservando
l’unità di tempo e di luogo.
PAESIELLO. Professore, si torna da capo a parlare da burla?
LAMBERTI. Ma se lo dico…
ROMAGNOSI. Ma no. Datemi il tempo di spiegarla tutta la mia idea. Un
teatro sarà sempre un teatro, vi saranno i palchi, le panche, l’orchestra, le
scene di tela; gli attori conosciuti, che è Marini5 e non Carlo infante di
Spagna, Blanes6 e non Saulle, la Pelandi7 e non Antigone. Se tutto questo
complesso d’oggetti sensibili continuamente presenti non bastano a
disturbare la fantasia, come volete che basti un grado di più di differenza fra
il tempo finto ed il reale; fra la distanza del luogo finto in una scena, e
quello di un’altra?
LAMBERTI. Convengo con voi che la distrazione sarà leggera, ma è sempre
distrazione; e tanto basta per giustificare le regole.
ROMAGNOSI. Forse no. Avete mai veduta l’immensa botte di monte
Cassino? Supponetela piena di vino di Cipro, e che uno vi mescolasse un
bicchiere d’acqua. Il vino di Cipro non avrebbe mutato sapore: un altro vi
mette un altro bicchiere, ed il sapore resta come prima. — Bene: tutto
quello che posso concedervi si è, che la durata di mesi è di due bicchieri, e
la durata d’un giorno è un bicchiere solo.
LAMBERTI. Voi dunque volete per forza, che le unità di tempo e di luogo
siano inutili?
ROMAGNOSI. Qualche cosa di peggio che inutili; sono dannose all’arte, e
più di quello che si crede.
LAMBERTI. Ma perché?
ROMAGNOSI. Perché moltiplicano le difficoltà senza vantaggio. Il piacere
della difficoltà superata è il minimo de’ piaceri della poesia, perché
l’ammirazione è il più freddo de’ sentimenti, dopo la curiosità. E poi v’è di
peggio. Le due unità fanno ai pugni colla prima regola di tutte le arti.
VIGANÒ. Oh! questa poi stento a crederla.
ROMAGNOSI. Vi pare impossibile? Ditemi quale è la prima regola delle
arti?
VIGANÒ. Sarà quella che predicate tutti voi altri: l’imitazione della natura.
LAMBERTI. Cioè della bella natura8: mi figuro che v’intendete così.
VIGANÒ. Già, la bella natura.
ROMAGNOSI. Benissimo, avete proferita la vostra condanna. — È chiaro
che per imitare la bella natura bisogna scegliere il meglio, e lasciarne i
difetti. Ma se uno si obbligasse a lasciar fuori non solo i difetti, ma una gran
parte del meglio; questi non imiterebbe certo la bella natura. La sua
imitazione sarebbe parziale, frammentale. Se ai pittori venisse in capo di
non fare mai altro che maschi, e dicessero che è una regola della pittura il
non dipingere mai le donne, li chiamereste imitatori di tutta la bella natura
che possono imitare?
VIGANÒ. Oh no! ma poi?
ROMAGNOSI. L’applicazione è facilissima: se mi permettete di ciarlare un
altro momento sulla pittura. Se una regola pittorica prescrivesse di non
rappresentare mai su un quadro che lo spazio di quattro o sei braccia, in cui
non possono stare che pochissime persone, questa regola non si opporrebbe
all’imitazione della bella natura? Addio la Trasfigurazione di Raffaello, il
Giudizio di Michelangelo.
LAMBERTI. Tutto va bene: ma l’applicazione?
ROMAGNOSI. Se l’imitazione del bello pittorico richiede che nessuna
regola arbitraria fissi a capriccio i limiti dello spazio da rappresentarsi,
l’imitazione del bello drammatico richiede lo stesso riguardo al tempo.
L’imitazione delle cose coesistenti nello spazio è l’oggetto della pittura;
l’oggetto principale della poesia è l’imitazione delle cose che succedono nel
tempo.
PAESIELLO. O Romagnosi mio, quanto mi piace questa distinzione. — Ed i
balli?
VIGANÒ. I balli tengono della poesia e della pittura.
ROMAGNOSI. Verissimo. Un ballo è una serie di quadri; ogni quadro imita
la bellezza delle cose nello spazio, e la serie de’ quadri sempre in
movimento rappresenta un fatto che succede nel tempo. — Ma vi prego non
trasportatemi fuori di strada. — Se una provincia del bello pittorico consiste
nel combinare molte attitudini di molte persone, una provincia del bello
poetico consiste nel rappresentare molti fatti accaduti a notabili intervalli di
tempo e componenti un avvenimento solo. Le passioni poi dell’uomo non
nascono tutte e si sviluppano in poche ore: un giorno solo non basta; e voi
non negherete che la pittura d’una passione incominciando da’ suoi primi
momenti e mostrandola in azione quando si accresce e giunge al suo
compimento non sia un bellissimo soggetto di poesia drammatica.
Supponete che un tragico rappresentasse Nerone che diventa tiranno, che si
abitua a poco a poco a sprezzare la probità e la giustizia, e finalmente si
lascia trasportare da gelosia d’amore o di regno ad ammazzare suo fratello
Britannico: non sarebbe una tragedia bellissima? Ma se la fate durare
ventiquattr’ore, bisognerà che lasciate fuori il più essenziale, la pittura
dell’animo di Nerone che si pervertisce per gradi, o bisognerà che storpiate
la pittura, come ha fatto Racine. Il Nerone di Racine in un giorno solo vede
l’innamorata di Britannico, se ne invaghisce, pensa a trucidare il fratello, e
lo ammazza. Ed in quello stesso giorno il poeta gli fa perdonare ad un
intrigante che si poteva punire con tutta giustizia, gli fa esprimere la sua
intima compiacenza pensando che ha sempre governato da buon principe, e
gli fa dire che è risoluto di continuare così.
PAESIELLO. Questo Nerone dev’essere un gran pasticcio.
ROMAGNOSI. Sentite un poco il piano d’un’altra tragedia.
PAESIELLO. Di Racine anche questa?
ROMAGNOSI. No, è il Macbeth di Skakespear. Si tratta di mettere in azione
un generale vittorioso, che sperando di farsi acclamare re egli stesso,
ammazza secretamente il suo re. Usurpa il trono; ma come accade sempre,
nascono dei torbidi. Si viene a guerra civile, e l’usurpatore è superato. Si
tratta di descrivere quest’uomo prima accecato dall’ambizione, poi straziato
dai rimorsi e dal timore de’ mali che s’è tirato addosso. Skakespear non ha
fatto violenza al corso naturale dell’azione. Ha rappresentato Macbeth in
mezzo agli applausi della recente vittoria, complimentato da’ messi del re,
adorato da soldati; inebbriato insomma dal favore della fortuna. Ha fatto
vedere le ragioni per cui doveva tenersi certo di venire acclamato egli
stesso, se riusciva a far morire il re secretamente. E l’ambizione cominciava
a fargli considerare da lungi il delitto. Va al suo castello ove il re doveva
albergare una notte, suo ospite. Ecco l’occasione propizia. La moglie più
ambiziosa, più risoluta, più cattiva di lui lo istiga e persuade: uccidono il
povero re. Usurpano il trono, ma contemporaneamente alcuni s’accorgono
del misfatto, negano obbedienza, si armano in una provincia. Macbeth si è
impadronito del supremo potere; cessato per conseguenza il primo
guazzabuglio di speranze e timori che tiene l’anima tutta rivolta all’oggetto
da conseguirsi e la sforza, quasi, a non considerare i mezzi di giungervi che
come mezzi di giungervi, l’uomo si volta indietro e pensa a sangue freddo a
quello che ha commesso. Ecco il tempo de’ rimorsi che s’impossessano
sempre più del cuore del colpevole. L’usurpatore s’accorge troppo tardi che
sarà difficile sostenersi, che vi sono molti pericoli da correre, ed i rimorsi
crescono sempre più, perché il delitto è fatto, ed il frutto ne diventa incerto.
La regina d’animo più profondamente scelerato si sforza a calmare lo
spirito del marito, al di fuori si mostra tranquilla. Ma il continuo
combattimento interno, l’incessante sforzo di simulazione alla fine vogliono
uno sfogo; il morale agisce sul fisico. È presa da una specie d’infermità,
diventa sonnambula. E la vedi venire sulla scena, addormentata, a rifare in
sogno l’assassinio, a ripetere le parole dette al marito per deridere i rimorsi,
nel mentre che il suo stato mostra il più profondo rimorso; la più terribile
vendetta de’ rimorsi. La scena di Lady Macbeth sonnambula è una delle
cose più sublimi che si siano mai scritte.
LAMBERTI. Ne convengo. Il genio dello Skakespear in quella scena è
veramente ammirabile.
PAESIELLO. E tutta la tragedia mi pare una cosa divina.
ROMAGNOSI. Ma come si faceva a trattare quest’argomento colle due unità
di tempo e di luogo? Convenite, Lamberti, era impossibile.
LAMBERTI. Ma: bisognava scegliere il momento più importante, e
supporre il resto come avvenuto prima.
ROMAGNOSI. Sceglierete la catastrofe: rappresenterete Macbeth lacerato
da’ rimorsi del passato e da paura dell’avvenire: lo zelo de’ difensori della
causa giusta: farete raccontare i misfatti antecedenti: dipingerete Lady
Macbeth che finge tranquillità e sicurezza, e scopre il secreto della sua
coscienza quando è sonnambula. Ma con ciò avrete poi fatto la storia della
passione di Macbeth e di Lady Macbeth; avrete rappresentato come fa un
uomo ad indursi a commettere un delitto; avrete dipinto l’esultante e allo
stesso tempo maliconica ferocia dell’ambizione quando supera il
sentimento della giustizia? È vero che avrete scelto il momento più bello,
cioè l’ultimo stadio de’ rimorsi; ma una gran parte di bellezza l’avrete
perduta; perché la bellezza di quest’ultimo stadio dipende in gran parte dal
venir dopo gli altri; dipende dalla legge di continuità de’ sentimenti
dell’animo umano. E per informare lo spettatore dell’accaduto non sarete
obbligato di ricorrere ai mezzi termini di narrazioni, soliloqui fatti apposta
per informarlo? In Shakespear tutto è azione, azione naturalissima9. —
Siate sincero, amico mio, convenite con me che l’unità di tempo e di luogo
è un pregiudizio. Già quello che si è detto del tempo conclude anche pel
luogo. In somma convenite che se un avvenimento è naturale che succeda in
ventiquattr’ore, la tragedia dev’essere di ventiquattr’ore come il Filottete10,
se non è naturale che succeda in ventiquattr’ore, la tragedia sia di molti
giorni, di tutto quel tempo che bisogna. Se è naturale che succeda in un
luogo solo, benissimo; se no, fatela in molti.
LAMBERTI. Permettetemi almeno un’obbiezione che mi pare concludente.
— Gli autori drammatici devono contribuire per quanto è in loro ad educare
al buon gusto anche il popolo. Osservate la storia del teatro. Quando
eravamo nell’ignoranza non si rispettavano le unità di tempo e di luogo, ma
le rispettarono le due più colte nazioni dell’antichità, i Romani ed i Greci. E
noi moderni ammaestrati dai modelli e dalle regole di quei grandi uomini, li
abbiamo imitati. Vorreste che si tornasse ai primi modi irregolari, che non
possono essere accetti che ad un pubblico incolto ed ignaro del meglio?
ROMAGNOSI. Per altro i teatri di Londra e di Germania non sono palchi di
burattini. Per altro i Romani e i Greci non si fecero mai una legge
d’osservare quelle due unità. Ma lasciamo. — Il gusto teatrale de’ popoli ha
quattro epoche. La prima epoca è quella della curiosità. Rappresentate ai
selvaggi d’America un fatto qualunque, e come volete; staranno a bocca
aperta come i fanciulli che in teatro non fanno quasi altro che stupirsi.
Quando l’arte è nuova, la novità tiene luogo di bellezza, di verisimiglianza,
di commozione. La seconda epoca è quella dell’interesse: e fu in Europa
l’epoca de’ drammi romanzeschi, e di altre composizioni calcolate sulle
idee abituali degli spettatori. A poco a poco si raffina, si confronta, i dotti si
fanno innanzi e dicono: questo non va bene, andrebbe meglio così:
s’incomincia a fischiare, si applaudisce meno; ecco la terza epoca, quella
della civilizzazione teatrale.
LAMBERTI. Questa è l’epoca della perfezione del buon gusto: la quarta
sarà la decadenza. — Scusate se vi ho interrotto.
ROMAGNOSI. Alla perfezione del buon gusto non ci siamo ancora giunti: la
decadenza poi farebbe una quinta epoca: non ci aveva pensato. — L’epoca
della perfezione si verifica, quando il pubblico ha imparato a conoscere fino
a qual grado può andare la bellezza d’una tragedia, commedia o altro; ed
esige dai poeti che vadano fino a quel grado, compatibilmente
coll’argomento che trattano. Avete nulla in contrario?
LAMBERTI. Davvero, no.
ROMAGNOSI. Ebbene? Avete veduto che una gran parte di avvenimenti
belli per tragedia non possono trattarsi fingendo ventiquattr’ore: l’assassinio
di Britannico e il Macbeth non sono i soli esempi; ve n’è centinaia,
principalmente volendo pigliarli dalla storia moderna, che è la più
interessante per noi. Dunque il prescindere da quell’unità sarà il solo modo
d’avvezzare le nostre platee a conoscere e ad esigere la bellezza teatrale in
tutti i suoi aspetti, in tutti i suoi gradi, in tutte le sue modificazioni. — Non
basta. Il buon gusto non consiste solamente nel disapprovare i difetti;
consiste anche nell’essere sensibile ad ogni bellezza, e volerne. Se abituate
il pubblico a non vedere mai certa specie di bellezza che è incompatibile
coll’unità di tempo e di luogo, applaudirà quando vedrà rappresentare
mediocremente quelle cose che col sistema di Skakespear si possono
rappresentare egregiamente. Si abituerà a contentarsi del mediocre, e tutto
in grazia di un’apparente e prosaica regolarità. Per fortuna che non gli
entrerà mai in capo a segno di volere che nessuno la trasgredisca. Vedete in
fatti che il popolo s’interessa a’ componimenti che non ne hanno nemmeno
l’ombra, le opere, i balli e tante tragicommedie, ove alle volte non c’è altro
di buono che l’esserne emancipate. — Non basta ancora. La regola delle
due unità diffonde delle massime erronee sulla imitazione teatrale, perché è
nata da massime erronee. Già i Greci non si obbligarono mai all’unità di
tempo, né a quella di luogo; d’altronde i loro teatri ed i loro soggetti erano
differentissimi dai nostri. Quelle due unità sono un pregiudizio moderno, ed
i moderni devono avere ragionato così: Noi dobbiamo rappresentare sul
palco un avvenimento, la rappresentazione dev’essere naturale: perciò
bisogna combinarlo di maniera che potrebbe succedere davvero se gli
attori invece d’essere attori fossero i personaggi. Dunque non si deve
fingere un avvenimento che occupi più tempo di quello che duri la recita:
giacché se fossero i personaggi veri non potrebbero eseguire in tre ore
quello a che è necessario molto più tempo. Nemmeno si potrà trasportare la
scena a grandi distanze, perché i personaggi veri non potrebbero far tanto
viaggio. Vedendo poi gli imbarazzi che nascono dallo stare rigorosamente a
questi princìpi, concessero la durata d’un giorno, o d’un giorno e mezzo.
LAMBERTI. Sentiamo perché questi precetti siano erronei. In quanto a me
li trovo molto ragionevoli.
ROMAGNOSI. Ditemi un poco: come fanno i pittori a rappresentare gli
oggetti? Compongono degli oggetti uguali alla realtà, o dipingono sulla tela
delle prospettive simili all’apparenza delle cose al nostro occhio? È chiaro
che la loro arte consiste appunto in ciò che imitano le apparenze degli
oggetti. E tutte le arti più o meno fanno lo stesso. — L’arte drammatica non
imita un pezzo di storia rifacendo ad una ad una tutte le cose che debbono
aver fatto gli uomini, in cui si verificò quel pezzo di storia. Imita quelle
cose che un uomo leggendo un pezzo di storia si compiace di più di
osservare, quelle che gli servono a formarsi l’idea del complesso d’un
avvenimento, quelle che scuotono la sua curiosità, che gli preme di
ricordarsi, che gli destano più passioni e più importanti passioni; che
vorrebbe poter vedere co’ propri occhi; che va riandando colla memoria
quando ricompone da sé l’avvenimento per contemplarlo a suo comodo.
Questo complesso di cose, che in fine costituiscono una cosa sola, può
essersi sviluppato per intervalli in una durata notabile: per lo più accade
così. E il dramma che deve fare? Deve sottintendere gli intervalli e mettere
il resto in azione e in iscena. Vi sono adunque, in ogni dramma,
essenzialmente due tempi: quello in cui si sarebbe sviluppato l’avvenimento
se fosse un avvenimento reale: la durata ne dipende dalla qualità del fatto: è
la durata sottintesa. L’altro tempo è il materiale della recita, e dev’essere
proporzionato all’attenzione che lo spettatore può dare senza stancarsi. In
questa durata reale sono distribuite le scene, e si deve fare in modo che tutto
quello che non si sottintende, ma si espone, occupi un tempo presso a poco
uguale a quello in cui si potrebbe eseguire la cosa in realtà. — Tutto il male
è venuto dal non avere distìnto queste due specie di tempi, dal non avere
stabilito che la sola unità necessaria è quella d’azione, e dal non aver capito
che l’unità dell’azione drammatica può trovarsi benissimo in un complesso
d’avvenimenti, che comprendono la durata di mesi e di anni, e seguono in
molti luoghi diversi e distanti l’uno dall’altro.

POSCRITTA DELL’ESTENSORE.

Dimostrato che le regole prescritte dai Classicisti per l’unità di tempo e


di luogo sono erronee e dannose, potrebbe domandarsi: fino a qual termine
è concesso ai poeti d’estendere la durata fittizia dell’azione; fino a quali
distanze è lecito trasportare i personaggi; fino a qual segno uno può valersi
de’ cambiamenti di scena senza offendere e disgustare la fantasia degli
spettatori? Assegnare un maximum da non oltrepassarsi è un’impresa
impossibile alla critica teorica: non si potrebbero suggerire che alcune
norme di dettaglio, per esempio, che un personaggio non venga sulla scena
fanciullo all’atto primo, ed adulto all’atto quinto, o simili altre avvertenze.
Ma nel resto tocca ai poeti a regolarsi col loro discernimento e col loro
buon gusto: all’ingegno de’ poeti si lasciano necessariamente tante altre
cose più difficili, che si può lasciare anche questa senza timore. Un tragico
o un comico che nello stato presente del teatro non sa fissare
opportunamente la durata ed i luoghi adattandoli al complesso
dell’argomento ch’ei tratta, molto meno sarà in caso, generalmente
parlando, d’inventare passioni e caratteri e tante altre bellezze
indispensabili.
Se si riuscisse a trovare un limite indicato dalla ragione e dall’esperienza
converrebbe certamente fissarlo; ma siccome ciò non è possibile, bisogna
almeno guardarsi dallo stabilirlo a capriccio. Una regola arbitraria non solo
non giova, ma nuoce; non solo non soccorre gl’ingegni mediocri o inesperti,
ma fa traviare anche i valentuomini. Le regole classicistiche traviarono il
Racine nella tragedia di Britannico; alla paura Hi eccedere nel tempo si
devono gli affastellati avvenimenti del Cid di Corneille: nomino a bella
posta un capo d’opera insigne, non ostante i suoi difetti, per risparmiare la
citazione di molte altre tragedie che potrei allegare in appoggio del mio
assunto.

a. Le idee che si fingono esposte da Romagnosi sono dell’estensore: ricavate per la massima parte
da teorie conosciute. Se Romagnosi volesse occuparsi delle unità drammatiche ne tratterebbe in una
maniera degna dell’Autore della Genesi del Diritto Penale e dell’Introduzione allo studio del Diritto
Pubblico; nel presente Dialogo non si è preteso né si poteva pretendere di emulare l’acume filosofico
di quegli scritti. Gl’interlocutori de’ dialoghi scientifici sogliono riguardarsi quasi come enti
immaginari, anche quando portano il nome di persone reali: servono ad esprimere le opinioni di chi
scrive, e le opinioni contrarie di cui vuoisi mostrare l’imperfezione o la fallacia.
b. È noto che la musica vocale deve imitare la declamazione: ma alcuni letterati dicendo che il
Maestro deve servire al Poeta intendono un’altra cosa: intendono cioè che in un’opera in musica
dovrebbe primeggiare l’effetto poetico de’ versi, e non l’effetto della melodia e dell’armonia. Questo
è l’errore disapprovato da Paesiello e da Romagnosi.

1. Apparve nei numeri 42 e 43 del Conciliatore (24 e 28 gennaio 1819).


2. Luigi Lamberti, di Reggio Emilia, ellenista, aveva tenuto a Milano la cattedra di Brera, già
occupata dal Parini ed era stato notissimo come classicheggiante. Questo è il motivo per cui il
Visconti lo sceglie come interlocutore. Nel 1803 una sua azione scenica, Alessandro in Armozia, pel
ritorno dell’esercito italiano dalla guerra di Germania, era stata rappresentata alla Scala. Aiutò il
Monti nella traduzione dell’Iliade. Dispiacque al Foscolo. Visse dal 1759 al 1813. — Pel Viganò vedi
p. 613. — Paisiello è il celebre musico, nato a Taranto nel 1741, morto a Napoli nel 1816, autore
della Nina pazza per amore. — Pel Romagnosi vedi p. 569.
3. La Bella Molinara, su libretto di Palomba, del 1788.
4. Gli Zingari in fiera del 1789; musica di Paisiello.
5. Giuseppe De Marini, attore allora famoso. Visse dal 1772 al 1829.
6. Pellegrino Blanes o Paolo Belli, primeggiava nell’impersonare Saul.
7. Anna Fiorilli-Pellandi, attrice valentissima, eccelleva nelle parti di Antigone e Mirra. Nella
compagnia drammatica, formata col Blanes e col De Marini, ella era la prima attrice; Blanes il primo
attore per le tragedie; De Marini il primo attore per le commedie.
8. Il Lamberti seguiva l’estetica del bello ideale, della pulchri species perfecti, battuta in breccia
dai romantici.
9. Nella Lettre à M. Chauvet sur l’unité de temps et de lieu dans la tragédie sono dal Manzoni
addotte queste considerazioni che Ermes Visconti pone sulle labbra al Romagnosi.
10. Di Sofocle.
GIOVANNI BERCHET
DELLA ROMANTICOMACHIA
Della Romanticomachia libri quattro, era intitolato un libro anonimo, apparso a Torino nel 1818
co’ tipi di Domenico Pane. Era di Ottavio A. Falletti di Barolo, che nel 1809 aveva stampato a
Torino, nella medesima tipografia, il Pedanteòfilo, Notizia storica d’incerto autore diligentemente
riscontrata col testo e corredata di varie Annotazioni per maggior rischiarimento de’ passi più
oscuri e difficili.
Figliuolo di Giuseppe Ottavio Falletti, che aveva fatto parte della Sampaolina a Torino nel
Settecento e aveva collaborato alla raccolta di elogi dei Piemontesi illustri con le pagine sul Saint-
Réal, egli, già amico dell’Alfieri, ne aveva disromanzato la Vita nelle Quattro lettere al Signor
Prospero Balbo rettore dell’Accademia di Torino intorno ad alcune opere postume di Vittorio Alfieri
ultimamente stampate (Torino, Vincenzo Bianco, 1809). Questa è oggi l’opera sua più citata: e per
mostrar quanto diverso fosse l’animo dell’Alfieri verso di lui e verso il padre si suol ricordare la
lettera che il poeta gli aveva rivolto il 23 novembre 1792. Ma padre e figlio meriterebbero per la crisi
che impersonano più vasta indagine.
Ottavio Alessandro era un ideologo retrivo. Il Di Breme lo conosceva di persona e nella chiusa
delle Osservazioni sul Giaurro aveva citato una sua pagina in difesa della filosofia, tolta dagli
Apperçus philosophiques (Torino, 1816-17), dicendolo: «scrittore nobilissimo, dignitoso e leggiadro,
a cui avrei caro di sentirmi ligio sempre nelle idee e nelle dottrine, come ligio me gli professo nei
sensi di rispetto e di ammirazione pel corredo ch’è in lui d’ogni più splendida e più amabile virtù».
Ma la dichiarazione significava che dissentivano «nelle idee e nelle dottrine». Specialmente per quel
che riguardava i nuovi spiriti romantici, il dissidio era stridente; e il Falletti di Barolo, vecchio
risentito, credette di smorzare la baldanza filosofica, letteraria e politica dei giovani con i quattro libri
Della Romanticomachia, in cui con pretensioni artistiche e stile paludato si prendeva giuoco della
«sovvertitrice Democrazia», della «delirante Metafisica», dello «sfrenato Romanticismo», del
Giaurro e del Manfredo del Byron, del «farneticante cervello di Schiller», degl’«inromantescati
Eroi», dei «figurini trascendentali», dei «Promotori della nuova Romanticità» e di altro ancora. Il
tono del libro era questo:
«Trovò il Romanticismo nelle molteplici scuole Trascendentali grande efficacia di Metafisici aiuti.
Tuttoché in varii punti tra loro dissenzienti, in un centro medesimo cospiravano esser pur tutte, cioè
in un sistema intellettuale fantastico. In non dissimile guisa di sottilissimi raggi divergenti tra sé e
convergenti nel loro complesso, formasi quel luminoso fascio di conica figura che rende un oggetto
qualunque visibile agli occhi nostri. Dal felice connubio della Trascendente colla Romantica potenza
nacque doppio effetto. La filosofia già vagante ed incerta, vieppiù fattizia divenne e più folte nebbie
si addensarono intorno al vaporoso Parnaso Germanico. Or chi potrebbe collo sguardo abbracciare
quella immensa mole di Lirici componimenti, così spesso turgidi e canori, esternamente densi ed
internamente vuoti? A chi basterebbe l’animo di contemplare gli ardimentosi voli Drammatici e le
maestrevoli discese nel basso-comico? I veri grandi Klopstok, Wieland, Lessing, ed altri anche più
zelanti ed ossequiosi all’antichità ed a’ suoi legittimi successori, contradicono aspramente e fanno
gagliarda opposizione; ma finalmente l’impetuosa piena spezza ogni argine. La guerra si mantiene
bensì, ma le difese riescono tarde ed insufficienti; si reggono in piedi li Classeggianti, ma
guerreggiano debolmente; abbondano le reciproche invettive, e frattanto insuperbiti signoreggiano i
Romantici.
«Per le molteplici trafile e reti Drammaturgiche insinuandosi, penetrò il Romanticismo a poco a
poco nelle rinomate contrade dell’antica Ausonia. Ma non aveva forza per anco di radicarvisi, né di
adoperar in suo vantaggio la nuova smania di filosofeggiar poeticamente, quando colà giunse illustre
Donna [la Signora di Staël ], che per le rare doti dell’ingegno, pari nel suo sesso non ebbe forse
giammai. Inclinata costei a proteggerlo, seco lo trasse lungo le Italiche Contrade, ed avrebbe voluto
con esso lui esternamente dividere que’ plausi e festeggiamenti che a lei sola erano dedicati. Ahi!
brevi e pur troppo fugaci onori! Come a moribonda face che scintillando s’estingue, così avvenne ad
essa che ormai poco lontana dal termine della vita, se ne giva ancora spargendo vivi chiarori. [La
Staël era morta nel 1817]. Ma bastarono pure quelle estreme faville a destar vero incendio. Italia già
un tempo di opere egregie inventrice e maestra, poscia delle ree non men che delle buone tarda
imitatrice, in due parti si divise; l’una ai nuovi Idoli svisceratamente affetta, l’altra serbante agli
antichi inviolabil fede. Oh! veramente classica terra, a te non mancarono in tal conflitto prodi ed
incorrotti difensori [nella “Biblioteca Italiana”, nello “Spettatore” e altrove]».
Qui e in altre pagine del libro l’allusione al Di Breme, al Borsieri, al Berchet, al Pellico è
manifesta. Il vecchio ideologo, incapace di capire il romanticismo, prendeva posizione con i loro
nemici. Rispose il Berchet nel num. 17 del Conciliatore (29 ottobre 1818) con la seguente
recensione, pubblicata come articolo di fondo.

Questo libretto uscito di fresco agli sguardi dei Torinesi è anonimo.


L’editore, per altro, delle 179 preziose pagine che lo compongono ci fa
avvertiti com’esso sia «un nuovo parto di quella medesima penna a cui
siamo già debitori dell’erudito Pedanteofilo», che è quanto dire, crediamo
noi, di quella penna che scrisse altresì quattro infelici Lettere contro Alfieri.
Anche senza il sussidio dell’editore, sarebbe forse venuto fatto di
raffigurare all’abito bianco il mugnaio; s’è pur vero che in questa nuova
«dotta elucubrazione» sieno rinfrescati «a maniera di allusione», come a
taluno è sembrato, alcuni tratti in dispregio del Tragico italiano; ciò che
deve far parimente rivivere l’indegnazione de’ classicisti non meno che de’
romantici.
L’intenzione attuale dell’anonimo torinese è di metter pace appunto tra’
romantici ed i classicisti. Però fa d’uopo saper grazie a lui di così onesta
intenzione.
Finora s’era creduto da noi e dai fatui pari nostri che, a volere con
qualche speranza di buon successo intromettersi tra due litiganti, onde
temperarne l’ire e ridurli ad un accordo, fossero indispensabili nel mezzano
della pace tre condizioni: 1° godere la confidenza d’entrambe le parti
litiganti; 2° conoscere lo stato della quistione; 3° avere qualche pratica delle
materie alle quali essa si riferisce.
Ma il Sapiente anonimo ci mostra ch’egli è di tutt’altro parere; e
smentisce col proprio fatto la necessità di quelle tre condizioni da noi
temerariamente venerate. Noi pensiamo ch’ei sia uomo probo e leale; però,
non essendoci in tal caso da sospettare peccati d’impostura per parte di lui,
noi stiamo zitti.
Lettera circolare del «Conciliatore» con firme autografe del Di Breme,
del Berchet e del Pellico (30 settembre 1819).
I quattro libri della Romanticomachia sono destinati dall’autore ad essere
una storia delle guerre tra i classicisti ed i romantici. Ma, siccome per entro
a que’ libri non appare orma di verità istorica, così crediamo che l’Autore
preferisse a bella posta il genere romanzesco. La Romanticomachia ci par
dunque dovere essere considerata come un romanzo. È un romanzo
allegorico da cima a fondo, perché l’Autore, amando di far ridere, ha scelto
l’allegoria perpetua. E tutti sanno che l’allegoria perpetua, massime quando
l’allegorista non ne dà la chiave che a pochi suoi famigliari, anziché
persuadere gli sbadigli, è la più efficace promotrice del riso universale.
Terminati i quattro libri, l’Autore nell’appendice spiega con severità
filosofica tutta la pompa delle proprie teorie letterarie, mettendole
modestamente in bocca d’Urania. Molte sono le stupende novità teoriche
che noi impariamo da siffatta appendice, e tutte opportune a’ casi concreti;
come a dire questa, che nell’umana natura stanno i princìpi fondamentali
d’ogni arte, princìpi che sono indeclinabili; e quest’altra, che per saper
discernere il bello dal brutto bisogna aver sottile criterio; e quest’altra a un
di presso, che per poter fare bei versi bisogna saperli far bene, ec. ec. ec.
Tutto poi questo romanzo, o lodo o arbitrato che lo si voglia chiamare, è
scritto in lingua purgata, ma di quella veramente legittima. Né mancano qua
e là alcuni lievi solecismi, ad imitazione della franca trascuratezza degli
scrittori nostri più antichi.
Lo stile adoperato dal Torinese è lodevole oltre ogni dire. Sta di mezzo
con bella proporzione tra quello dell’Arcadia di Iacopo Sannazaro1 e quello
delle prediche di don Ignazio Venini2. L’amplificazione è la figura rettorica
che il nostro Autore maneggia con padronanza assoluta e con più frequente
predilezione.
Del buon gusto di lui sia prova il seguente passo, tolto alla ventura dalla
pagina 14. È una invocazione, perché senza invocazioni non si può far nulla
di buono:
«O immenso e non sempre lucido specchio della storia, da cui tutte, bene
o male, si riflettono le accolte immagini dei grandi e piccoli eventi, concedi
per poco che, nell’ampio e disuguale tuo seno fissando gli occhi, io giunga
a scoprire del fatale romanticismo l’annebbiata sorgente ed i tortuosi
meandri. Così forse mi succederà di potere dal vero genere romantico
discernere il falso sistema, che ne usurpa, in un col nome, la gloria».
E qui sappia tra parentesi il lettore che l’anonimo fa una distinzione tra il
vero genere romantico ed il romanticismo; distinzione che deve essere una
bellissima cosa, dacché noi non sappiamo intenderla.
Per tenere il nostro articolo in giusta armonia col libro di cui si tratta, noi
non entriamo in materia e stiamo superficiali, superficialissimi. Questo
astenerci dalle soperchierie ci è suggerito dalla buona creanza. Grati noi per
altro al paciere torinese pel lodo od arbitrato con cui trasse a fine le
discordie letterarie, lo preghiamo di accettare, secondo che si usa in tali
casi, come pagamento della sentenza, o, se più gli piace, come regalo senza
obbligo di sborsare mancia veruna allo staffiere che glielo presenta in nome
nostro, le quattro seguenti notizie letterarie, delle quali, quantunque
vecchiette, abbiamo veduto nella Romanticomachia essere egli ignaro
affatto. Il sapiente torinese mostra d’aver dato retta a tutte le accuse gratuite
che i classicisti fecero a’ romantici, e d’essere stato contento a quelle, senza
degnarsi di dare uno sguardo agli scritti di questi.
I. — I romantici stimano molte parti delle poesie attribuite ad Ossian, ma
non ne hanno mai consigliata l’imitazione.
II — I romantici non vogliono nelle poesie dei moderni gli dèi d’Omero,
ma proscrissero sempre altresì quelli dell’Edda. E se amano di vedere
nell’Ariosto ed in Shakespear le maghe e le streghe, non suggerirono mai a’
poeti viventi di ammetterle ne’ loro canti, quando non sieno più vive nella
credenza del popolo.
III. — I romantici non ricusarono mai di sottostare alle regole stabilite
dalla natura e dalla ragione. E però eglino professarono sempre di star
volentieri sottoposti a quel codice poetico a cui obbedirono Dante, il
Petrarca, l’Ariosto, Shakespear ed altri siffatti galantuomini.
IV. — I romantici non dissero mai che le poesie de’ moderni debbano
esclusivamente trattare delle cose cavalleresche e del medio evo. Né,
deducendo pei loro canti argomenti e memorie storiche dal medio evo,
intesero mai di voler persuadere gli uomini a darsi all’antica barbarie; come
neppure i classicisti, ricantando la guerra troiana, hanno in animo di
suscitare tutti i mariti moderni a pigliar vendetta della infedeltà delle lor
mogli colla strage di centomila persone.
Speriamo che anche la parte contraria vorrà premiare con qualche
regaietto del suo l’ingenua mediazione del sapiente anonimo.

1. Vedi p. 464.
2. Ignazio Venini, gesuita, fu celebre nel Settecento come orator sacro. Visse dal 1711 al 1778.
Resse il Collegio di Brera a Milano. Parlava con lingua scelta in stile compassato e studiato.
«NARCISA». ROMANZO IN QUATTRO CANTI
DI CARLO TEDALDI-FORES1

Molte idee false intorno al romanticismo si fanno diffondere


maliziosamente in Italia da chi ha interesse a screditarlo. La più ricantata
ne’ crocchi, tanto dai furbi quanto dalla buona gente che si lascia
abbindolare da chi ha più voce in capitolo, è che le dottrine romantiche
sieno la teoria dell’assoluta mestizia e dell’orrore, e che nessun
componimento poetico possa essere lodevolmente romantico se non è una
vera galleria di tutte immagini lugubri, di atrocità, di spaventi, ec. ec.
Dopo la lunga professione di fede pubblicata da’ romantici in sei numeri
consecutivi del Conciliatore, sarebbe un perder tempo e un far torto alla
sagacità de’ nostri lettori il suggerir loro le ragioni colle quali confutare
codesta accusa scipita. Per quanto certi faccendieri dell’opinione pubblica,
servendo al loro instituto, s’industrino di ripeterla ad ogni momento, essa
nondimeno è tale che non può trovare ricapito che presso il volgo.
Intendiamo per «volgo» i poveri d’intelletto, i poveri di buona fede, non i
poveri di borsa. E di siffatto volgo a’ romantici non cale più che tanto.
Leggendo per altro il nuovo poemetto del signor Tedaldi-Fores, si
potrebbe sospettare a prima giunta che anche questo ingegno non volgare
abbia voluto spassarsi a spese del vero e farsi beffa del romanticismo, e che
se ne sia finto seguace a bella posta per metterlo in caricatura e confermare
così nella plebe la falsa opinione della tendenza di esso a tutto ciò che è
orribile e ributtante. Nella Narcisa, che è un romanzo o poemetto di soli
quattro brevissimi canti in terza rima, veggonsi infatti affastellate tante
immagini di color nero che può parere un mortorio perpetuo.
L’argomento del romanzo è la storia della morte di Narcisa e della
sepoltura negatale a Montpellier; storia che tutti i nostri lettori avranno letta
nella terza delle Notti di Odoardo Young. Ma il dolor vero per la perdita
vera della figliuola della propria moglie non destò nella fantasia, per altro
copiosa e lugubre-monotona, del poeta inglese tante immagini di squallore,
tante reminiscenze orribili, quante col suo dolore artificiale ne descrisse nel
suo poemetto il signor Te-daldi-Fores. Una vergine malata e che poi muore
«sul nudo suolo»; un giovane amante della fanciulla, che recide le chiome
al cadavere e nel buio della notte tenta con esse di farsi un capestro al collo
e strozzarsi; un padre che per la morte della figliuola dà nelle bestemmie e
si morde l’«un de’ bracci» un demonio, che ulula intorno a quel padre e lo
lorda di «fuliggine e di sanguigna bava» un cimiterio, sparso di «insepolto
ossame bianco»; un Andrea

che a nutricar [se stesso] si die’ di carni umane,


e di uman sangue il mento e il sen si tinse;

un padre, che porta sulle spalle il cadavere della propria figliuola a


seppellire; una fossa scavata; un gemito che manda la terra; un cielo che
piove «rossa linfa» un cadavere smosso dalla sua sepoltura dall’acquazzone
e lasciato a fior di terra «involuto di fetente limo»; un giovane soldato che
corre, e sbadatamente viene ad urtare in quel cadavere, e s’accorge che
preme co’ suoi ginocchi il «fral meschino» della sua donna amata, in cui

di sanie infetto e nel luto2 prostrato,


passeggia il verme reo, la schifa eruca3
e la striscia del serpe attossicato;

un pugnale; un assassinio; uno che muore (è l’amante) e, morendo, cade sul


cadavere dell’amata e le afferra il «volto casto»

coi denti delle rabide mascelle;

uno spettro; un feretro; un rogo; e un fantasma in carne ed ossa, che, dopo


d’aver narrati tutti codesti malanni al poeta, che sta attento ad udirlo, lascia
cadere «le polpe al suolo e l’osse», e, «fatto nudo spirto», esclama — Sono
Odoardo (il padre di Narcisa) — e sparisce: queste ed altre più minute
galanterie di tal fatta, raccolte insieme l’una sovra l’altra in poco spazio,
formano un tutto che può davvero sembrare, come dicemmo, la caricatura
poetica dell’orrore.
Ma perché attribuiremo noi a mala fede ciò che probabilmente è stato
fatto con ingenuissima intenzione? D’altronde il romanzo del signor
Tedaldi-Fores quantunque, secondo la umile nostra opinione, infelice pel
concetto generale, per gli accidenti storici e per la condotta, ha nondimeno
alcuni accessori lavorati con potenza poetica non comune, ha diverse
terzine lodevolissime per evidenza di stile e per verità di sentimenti; sicché
sarebbe quasi temerità il voler credere che una persona, capace di giovar
molto alla propria fama ed alla patria, voglia ora sprecar tempo e carta e
inchiostro in servizio della malignità antiromantica. No, non li si dee
credere. Il signor Tedaldi-Fores s’è ingannato, ma non ha voluto ingannare.
Noi ci appigliamo volentieri a quest’ultima credenza. E siccome in fatto
di libri è uso nostro di manifestare senza velo la nostra opinione, qualunque
sia, massimamente se crediamo di parlare a scrittori d’ingegno, il di cui
amor proprio non confonda i consigli della critica co’ morsi dell’invidia,
così diciamo con onesta sincerità all’autore della Narcisa che l’insieme del
suo romanzo non ci contenta.
Congratulandoci per altro con lui della sua deserzione dalle favole
greche, lo preghiamo di voler perseverare in essa, di affratellarsi cogli
argomenti desunti dalle storie nostre e dai nostri costumi, e di
somministrarci presto qualche altro componimento di tema meno esagerato
nella tristezza, meno affettatamente orribile, e più conveniente a’ bisogni
dell’Italia, affinché possiamo dire di lui quelle piene lodi ch’egli dà indizio
di dovere un dì meritare, se pure le nostre lodi sono premio a cui egli si
degni di por mente.
Né si creda che in noi sia avversione agli argomenti malinconici, alle
occasioni di piangere. Sì, vogliamo tremare e lagrimare e gemere, perché
tra i tanti diletti poetici sappiamo anche noi che è soavissimo quello della
malinconia e del pianto. Ma le lagrime non sono mai figlie dell’orrore e del
ribrezzo. Vogliamo anche noi essere percossi dal terrore. Ma una serie
d’idee eccessivamente luttuose e tutte temprate al monocordo, ancorché non
uscissero fuor de’ confini del terribile, finirebbe coll’essere orribile, o per
lo meno noiosa a’ lettori. Or che sarà poi quando le immagini pendono più
all’orribile che ad altro?
Bisogna però dire, a onor del vero, che nei primi esperimenti, in un
genere poetico qualunque, la parsimonia non può quasi mai essere la qualità
regolatrice della immaginazione del poeta. È una qualità, una abilità,
questa, che non s’acquista che col tempo. E però la presente mancanza di
essa non ci è argomento per doverla temere ripetuta ne’ futuri lavori del
signor Tedaldi-Fores. Progredendo egli sempre più nello studio dell’arte e
del cuore umano, e nobilitando sempre più i propri pensieri, la
verseggiatura e lo stile, è da credersi ch’egli salirà a quell’altezza di
perfezione poetica verso la quale ha voluto fare un passo colla sua Narcisa.
1. Il poemetto, in terza rima, era apparso a Milano nel 1818. Il Tedaldi Fores, di Cremona, nato nel
1793, aveva fatto le prime prove nell’arte sull’orme dei classici e aveva destato certa aspettativa
specialmente per un Inno all’Aurora, che il Monti aveva lodato nel 1817, sebbene gli paresse che
avesse abusato della mitologia ornamentale. Il Pindemonte gli aveva consigliato di essere poeta del
suo tempo piuttosto che delle età antiche. Il poemetto romantico Narcisa, derivato dalle Notti di
Young, fu dunque segno di un rivolgimento interiore. Ma, tutto intinto nella tetraggine, ondeggiante
tra l’arte di Byron, quella dello pseudo Ossian e del Young, e le maniere stilistiche delle Visioni del
Varano, del Laviosa, e del Monti, riuscì tra le opere più torbide e grevi del romanticismo lugubre.
Miglior prova diede il Tedaldi Fores in alcune parti dei Romanzi poetici (1820), sebbene non
manchino in essi strampalate fantasmagorie; nelle Meditazioni poetiche sulla Mitologia, che
attrassero l’attenzione del Goethe; nel capitolo I Poeti, in cui dice superflua la distinzione tra
classicisti e romantici; nel frammento Firenze, del 1827, in cui si sente che egli ha letto e gustato il
Leopardi; e specialmente nelle tragedie.
Nel teatro avrebbe forse trovato la forma del suo ingegno, se non fosse morto a trentasei anni nel
1829. Ha scritto di lui Alfredo Galletti: Carlo Tedaldi Fores. Un poeta romantico, Cremona, 1899.
Lo scritto del Berchet, intorno al nuovo poemetto di C. Tedaldi Fores, fu pubblicato nel n. 46 del
Conciliatore con la data del 7 febbraio 1819.
2. Il «fetente limo», di cui ha fatto parola.
3. Bruco; nel latino eruca.
DAGLI SCRITTI PROIBITI
DEL «CONCILIATORE»
Del modo, nel quale Il Conciliatore dovette interrompere le
pubblicazioni, dà notizia fedele una lettera che Silvio Pellico scrisse al
fratello Luigi il 29 ottobre 1819: «Lunedì ricevei un gentile invito del conte
Villata, impiegato alla Polizia, che mi pregava di andargli a parlare il giorno
dopo. Martedì mattina vi andai. Fui accolto con tutto garbo, ma mi si disse
che si doveva comunicarmi una cosa molto spiacevole: Io non sono che
l’organo del Governo, disse Villata, e per non porre neanco una sillaba del
mio le leggerò la carta stessa che mi ha mandato il signor conte Strassoldo.
La carta diceva in termini consimili: “Il conte Strassoldo ec. ec. si lagna
altamente dell’audacia con cui il signor Silvio Pellico scrive nel
Conciliatore. Questo scrittore tende a spargere i princìpi più sovvertitori
d’ogni giusto e moderatamente liberale governo, e siccome v’è una Censura
che lo frena, egli gode almeno nel mandare sempre ad essa Censura degli
scritti temerari, onde far sapere le sue ardite opinioni. D’ora innanzi gli è
vietato di mandare alla Censura scritti che vertano sulla politica. S’egli
contravverrà, verrà dato ordine al Conciliatore di non accettar più articoli
del signor Pellico, e si prenderanno sopra il colpevole le misure opportune,
non escluso il proibirgli, come forestiere, il soggiorno in questi stati”… La
nostra società, udito ciò che m’era accaduto, convenne nel riconoscere che
questo era un avviso del Governo, onde ci aspettassimo a tutte le
persecuzioni, se non volevamo darci la morte spontaneamente; e ce la
siamo data… Forse il Governo andrà adagio a farci del male, egli
susciterebbe l’ira del paese. Comunque sia, è bene non perire fuori di
tempo, e concentrarsi nel più perfetto silenzio. L’Italia non sarà forse
immemore un giorno dei pochi suoi cittadini che tentarono di conservare
viva per 13 mesi la scintilla del patriottismo e della verità».
Due erano gli articoli che dal Pellico erano stati allora sottoposti alla
censura austriaca e che avrebbero dovuto formare i numeri 119 e 120 del
Conciliatore: un’ampia trattazione di Simondo de’ Sismondi su Hayti e sul
popolo haytiano; e il secondo articolo di Ludovico di Breme sull’opera di
Edoardo Lémontey: Essai sur l’établissement monarchique de Louis XIV…
Morceau servant d’introduction à une histoire critique de la France depuis
la mort de Louis XIV (il primo articolo era apparso nel num. 114). Questi
scritti, audacissimi, ci sono oggi noti per la bella edizione che ne ha fatto il
Comune di Milano nel 1930 col titolo Pagine inedite del «Conciliatore», a
cura di Antonio Monti.
Pensiero centrale dell’articolo del Sismondi erano le tristissime
condizioni politiche dell’Italia e la sua libertà, sebbene il popolo italiano
non vi fosse mai nominato1 fine dichiarato del saggio del Di Breme
«spaventare salutarmente i contemporanei sul ritorno di certe massime e
dottrine» dispotiche. Non mai come in quegli articoli era stato palese che
sotto l’aspetto politico, nel pensiero degli scrittori del Conciliatore,
conciliazione significava per gl’italiani «Nazione», costituzione, unione,
indipendenza con giustizia, con dignità, con onore. La proibizione del
periodico avvenne dunque sul nome Italia, che aleggiava in silenzio su tutte
le colonne delle prove di stampa.
Quel nome sempre ricorrente nel pensiero fu anche il motivo, per cui
quattro articoli di Adeodato Ressi, non pubblicati, furono poi collocati dalla
polizia austriaca tra i documenti d’accusa, allorché quel maestro intemerato
dell’Ateneo pavese fu imprigionato. Nell’appendice al Conciliatore,
apprestata nel 1930 dal Comune di Milano, la stampa di quegli articoli del
Ressi fu curata da Renato Sòriga.
Due di essi riproduciamo in connessione al disegno di questo volume.
Nel primo il nome Italia risuona apertamente.
Sul significato e sul valore di tutti e sette gli articoli si può vedere la
rassegna, che ho pubblicato nel Giornale storico della letteratura italiana,
vol. XCVIII, 1931, pp. 171-177. Ma avverto che la recensione del
Romagnosi al Saggio filosofico e critico del col. Delmotte sopra la vita e le
opere di G. B. Vanhelmont di Brusselles, riprodotta dal Sòriga come inedita,
era apparsa nel n. 33 del Conciliatore. Vedi ediz. curata dal Branca, vol. I,
pag. LX.

1. L’articolo esaminava l’opera del barone di Vastry, Riflessioni Politiche sovra alcune Opere e
Giornali francesi riguardanti Haytì, apparsa nel 1817, e finiva con queste parole: «Si ardisca ora di
dire che uomini i quali hanno fatto tali progressi durante una guerra spaventevole, non sono degni
della libertà». La chiusa suscitava subito nella mente del lettore il pensiero che, come era degno della
libertà «il popolo haytiano», a maggior ragione ne era degno il popolo italiano, che tanto aveva dato
alla civiltà.
ADEODATO RESSI
LETTERA DI UN ITALIANO AL CONCILIATORE1

Signor Conciliatore,

Fra le mie campestri occupazioni volgo talvolta qualche pensiero al mio


paese e vedo con dolore che sempre vive nel cuore degli Italiani quello
spirito di discordia dal quale ce ne venne2 tanto male. Sorgono nuovi
Paladini non già di quelli che per cercar ventura scorrevano l’Europa, ma
Paladini di letteratura i quali si propongono di muover guerra ad ogni
modesto scrittore. È antica sentenza che la guerra letteraria è utilissima alle
lettere e un tal genere di battagliare considerato sotto questo punto di vista è
onorevolissimo. Ma veduta la cosa nel senso e nello spirito di codesti
guerrieri, parmi di ravvisare che i loro colpi sieno fomite di divisione, la
quale facilmente dalle opinioni letterarie passa alle opinioni politiche, con
detrimento di quella armonia che unir deve con vincoli di fratellanza ogni
onesto cittadino.
Il vostro Conciliatore è preso egualmente di mira da codesti Eroi, ma
sembra che essi non abbiano conosciuto abbastanza il vero scopo del
medesimo, che è quello di richiamare il genio degli Italiani alla conquista
delle scienze ed alla gloria letteraria e non già quello di una vana
ostentazione e molto meno quello di una libraria speculazione.
Laonde io credo che la critica non siasi fermata se non che al colore della
carta senza penetrare nel fondo della cosa, altrimenti unirebbero essi pure i
loro sforzi e i loro talenti a promuovere con altrettanto zelo ed amore un
così filantropico progetto, della qual cosa m’inspira fidanza la loro onestà.
E poi che le idee si congiungono insieme passai a considerare che l’Italia
è un tal paese dove il genio spunta quasi dal suo suolo e vive come il raggio
immortale del sole e se imperiose combinazioni lo respingono da un lato,
egli non cessa perciò e giganteggia da un altro.
Cessò il calore della libertà e delle armi e venne il secolo delle arti e delle
lettere, ritornarono i tempi della militare gloria e i soldati italiani e i loro
condottieri ottennero i primi onori e l’ammirazione d’Europa. E ricomparsi
poi i giorni della filosofia e dei liberali pensamenti quale altra nazione ha
percorso in pochi anni più luminosa carriera dell’Italia nel fare ordinamenti
civili, nel fondare grandi e benefiche istituzioni, nell’erigere monumenti
arditi ed opere di grandissima utilità? Ne fanno prova Napoli, Roma,
Venezia, Firenze, Milano ed ogni angolo in fine di questa nostra penisola.
Si meraviglia lo straniero nel vedere le Alpi, aperte da vie più che
consolari e superati gli Appennini per dare al commercio la comunicazione
dei due mari.
Egli ammira strade, canali, ponti, archi, anfiteatri, edifici d’ogni maniera
che attestano la grandezza e lo slancio del genio della presente generazione.
Ed ora che una benefica politica va preparando ai popoli migliori destini nel
riposo del paese, non per ciò gli Italiani si intrattengono nell’indolenza e
nell’ozio, ma con l’alacrità del loro ingegno si volgono a percorrere la
strada onorevolissima delle scienze e delle arti.
Questo amore delle lettere fermenta in tutti i cuori, della qual cosa fa
luminosa testimonianza il patrio progetto di fondare un Ateneo nella vostra
Capitale3, di cui farà parte per quanto mi è noto la benemerita Società
d’incoraggiamento ed al quale concorrono con nobile entusiasmo e con
generose contribuzioni i vostri Patrizi e scienziati ed ogni altro genere di
persone. Questo grande e sì onorevole stabilimento sarà un centro di lumi e
di altissime speranze per l’umano incivilimento.
Ora chi non vede che per gl’Italiani la gloria è un bisogno nazionale?
Mi si permetta frattanto di continuare le mie osservazioni.
In mezzo ai lodevoli sforzi di cotesti generosi cittadini, diretti
specialmente all’incremento ed alla preparazione delle scienze fisiche e
naturali, non vedo che siasi pensato ad un progetto tendente a far rivivere le
arti ed il commercio coll’aiuto e l’applicazione delle medesime.
Imperciocché è forza confessare che in quanto all’applicare la chimica e
la meccanica alle manifatture siamo ben lontani ancora da quanto fecero le
altre nazioni e particolarmente l’Inghilterra.
Per la qual cosa [se] la coltivazione di questa scienza si limitasse ad una
scuola puramente teoretica non si raccoglierebbe tutto quel frutto che vi è
cagione di sperare e non avremmo il vero scopo della medesima, l’utilità
pubblica e privata.
Vi piaccia4, Sig. Conciliatore, di aggradire questi miei pensieri comunque
rozzi e male assieme, che ho creduto di affidare a voi, siccome conosco che
lo spirito del vostro giornale è quello di scuotere gl’ingegni italiani al
conseguimento di quell’unica gloria che loro rimane e che loro è promessa
dalle vicende dei tempi e dal destino delle nazioni5.
Adeodato Ressi
(Milano, Castello Sforzesco, Raccolta delle Stampe).
DELL’EQUILIBRIO

Ho inteso dire che l’equilibrio è la prima ed unica legge dell’Universo e


non solo preso nel senso fisico ma preso pur anco nel senso morale e nel
senso politico.
E veramente dicono i fisici che i Pianeti si reggono in aria per un
contrasto di forza che essi chiamano legge di equilibrio universale. Pare a
me che cotesto equilibrio piuttosto che una legge sia effetto di una ragione
primiera che è la gravità reciproca.
E se il Sole sta fermo ciò non viene per una legge sua propria di equibrio,
ma o per la reazione dei pianeti come se partissero da essi altrettante catene
che lo imbrigliano, o per una attrazione con altro Sole che pure fu centro a
un diverso sistema planetario, e così di mano in mano per una infinita
catena di mondi.
Preso poi nel senso morale si dice che nelle azioni umane vi è un bene
misto col male da cui viene l’equilibrio sociale.
Si dice che l’uomo è combattuto da due principî, il genio buono e il genio
tristo. Così le leggi civili tengono in equilibrio i diritti individuali; la
sanzione della pena è freno al delitto. La religione e la filosofia soffermano
le conquiste dell’ignoranza e dell’impostura. La virtù reagisce contro il
vizio. Il lusso dà vita alle arti e al commercio; l’avarizia prepara i materiali
alla prodigalità. L’invidia presuppone il merito, che è scopo dei suoi strali;
la vanità crea la moda e la moda genera una varietà di beni infiniti che
rendono più dolce il soggiorno della terra ai mortali. Ecco dunque come
tutto si sostiene per un contrasto di forze morali dal quale risulta l’armonia
sociale cioè quella legge che piacque ai filosofi di chiamare equilibrio.
Ma qualunque siasi il sistema sociale esso prenderà sempre la sua forma
e le sue attitudini dalla libertà dell’uomo; è dunque questa libertà la legge
fondamentale dei corpi morali e l’equilibrio in cui si pongono altro non è
che un effetto di questa. E questo preteso equilibrio è tanto incerto quanto è
variabile la libertà stessa, e la libertà si determina secondo il complesso
delle nostre sensazioni dalle quali imparato abbiamo a forza d’esperienza
ciò che più o meno convenga al nostro bene. La libertà determinata dalle
sensazioni genera una serie di modi che tutti insieme costituiscono quello
che meglio di equilibrio vien detto stato morale di una nazione.
Quello però che più importa si è il vedere come questa parola sia entrata
nel linguaggio politico e diplomatico e in modo tale che l’equilibrio è
divenuto il principio dominante delle operazioni dei Gabinetti. L’equilibrio
delle Potenze, espressione resa famigliare presso ogni ordine di persone,
pare a noi affatto vuoto di senso e che poi nella pratica non si verifica né
punto né poco.
Intendono per equilibrio delle Potenze quel comporre in modo le masse
delle loro forze che ciascuna sia contenuta nei propri confini.
Questa dottrina suppone primieramente alcuni principî discordanti nelle
stesse Nazioni e che ad oggetto di far argine ai medesimi siasi pensato
all’espediente dell’equilibrio. Perché dunque la politica non si è prima volta
a rimediare al difetto radicale della cosa?
Secondariamente per aversi equilibrio tutte le Nazioni devono entrare nel
sistema dividendo le loro masse parte da un lato e parte dall’altro; ora un
equilibrio composto dall’aggregato di più Nazioni sarà sempre precario in
ragione degli elementi di ambizione, di seduzione, di speranza o d’interesse
che s’introducono in esse; per le quali cause se una si distacca dal suo
centro per gettarsi al centro opposto non esiste più equilibrio e si finisce
nella guerra e nella miseria dei popoli.
In terzo luogo se si pretendesse che l’equilibrio consistesse nella unione
delle Potenze grandi o così dette di primo ordine, questo non si
chiamerebbe equilibrio ma una forza preponderante e comprimente tutte le
altre.
Per queste ragioni adunque non si dà equilibrio politico, o sotto questa
frase si vuol far valere, come dicono, il diritto del più forte.
E se poi vogliamo riportarci all’esperienza vedremo che a fronte dei
meglio calcolati equilibri le guerre vi furono sempre; si macchinarono con
più sicurezza i progetti d’ambizione e le nazioni servirono d’istrumento ai
medesimi e la terra e il mare si tinsero di umano sangue. Ma si domanderà:
cosa si potrebbe fare di meglio per evitare questi mali e disordini? È questo
un argomento diverso da quello che ora trattiamo, né io sono politico da
dare una adeguata risposta; né questo sarebbe il luogo opportuno.
Diremo solo che l’infelicità dei popoli proviene in gran parte perché
manca quella morale politica che è il primo fondamento di ogni pubblica
amministrazione. E diremo in secondo luogo che alle cose devono darsi i
nomi e le parole che loro convengono, ed è tristo indizio quello di coprire le
nostre azioni con titoli imponenti che la moltitudine non conosce ed ai quali
piega le ginocchia per ignoranza e per antica venerazione.

1. Il conte Adeodato Ressi, nato a Cervia (Ravenna) nel 1768, insegnò economia politica
nell’Università di Pavia; arrestato il 29 giugno 1821 per non aver denunciato l’amico suo Laderchi,
carbonaro, morì in carcere a Venezia il 18 gennaio 1822. Ha detto di lui Renato Sòriga: «…
riformatore politico di avanguardia, pure partendo dalle superate premesse settecentesche del
dispotismo illuminato, già vagheggiava una riforma organica della intera società mediante lo
sfruttamento razionale delle forze umane associate, da cui implicitamente sarebbe derivata la
redenzione politica della sua stirpe».
2. Così nelle bozze, riprodotte nell’edizione del Comune di Milano.
3. Durante l’istruttoria del processo, il Ressi, interrogato di quale Ateneo intendesse parlare in
quest’articolo, rispose che era un istituto che si doveva erigere in Milano sotto questo titolo, nel quale
si sarebbero introdotte cattedre di chimica, matematica ed altre scienze, che applicate alle arti
avrebbero dovuto agevolare la cognizione dei metodi più vantaggiosi al bene della società sotto il
rapporto delle manifatture e delle arti. Bene ha quindi detto il Sòriga che egli con questo disegno
precorreva «il milanese Politecnico nel campo fecondo dell’industria chimica, meccanica e
manifatturiera».
4. Il testo ha Vi piace; ma evidentemente è un errore di composizione, rimasto nelle bozze
dell’articolo non stampato.
5. Questa pagina in cui una nuova grandezza letteraria, artistica, scientifica ecc. è designata come
unica gloria che rimanga agli italiani da conseguire, richiama alla memoria un pensiero del Leopardi.
Aveva questi detto sul finire del 1818, dedicando al Monti le due canzoni All’Italia e Sopra il
monumento di Dante: «… oggidì chiunque deplora o esorta la patria nostra, non può fare che non si
ricordi con infinita consolazione di Voi che insieme con quegli altri pochissimi, i quali tacendo non
vengo a dinotare niente meno di quello che farei nominando, sostenete l’ultima gloria nostra, io dico
quella che deriva dagli studi e singolarmente dalle lettere e arti belle; tanto che per anche non si può
dire che l’Italia sia morta». E nella redazione successiva ancor più vibratamente: «Consacro a voi…
queste canzoni perché quelli che oggi compiangono o esortano la patria nostra, non possono fare di
non consolarsi pensando che voi con quegli altri pochissimi (i nomi de’ quali si dichiarano per se
medesimi, quando anche si tacciano) sostenete l’ultima gloria degl’Italiani; dico quella che deriva
loro dagli studi e singolarmente dalle lettere e dalle arti belle; tanto che per anche non si potrà dire
che l’Italia sia morta».
L’economista in questo caso fu dunque vicino al Leopardi nel valutare le condizioni dolorosissime,
nelle quali era ridotta l’Italia dopo il Congresso di Vienna. Ma, se ben si riguarda, si vede che,
sebbene i due pensieri siano affini, lo stato d’animo dei due scrittori è profondamente diverso. Le
parole del Leopardi sono come pervase da una tragica angoscia, perché egli non vede più sussistere
se non la vita degli studi e quest’ultima gloria nostra a sua volta ristretta, anzi ridotta ormai a
pochissimi. Nella chiusa infatti della prima Dedicatoria conferma che un «numero presso che
impercettibile d’Italiani sopravvive» e nella seconda così incide la medesima riflessione con quella
mirabile sobrietà, nella quale pare trabocchi l’ansia di chi cerchi un sollievo, come sentendosi
mancare il respiro: «Facendo professione d’amare più che si possa la nostra povera patria, mi tengo
per obbligato d’affetto e riverenza particolare ai pochissimi italiani che sopravvivono». Al contrario
le pagine del Ressi hanno un’intonazione meno scorata e sono come illuminate dall’attesa di tempi
migliori, perché già si avvertono i segni di un operoso avvenire.
Invece che dell’ultima gloria degl’Italiani egli parla di quell’unica gloria che loro rimane, quasi
sottintendendo «per il momento» e pensando che essa possa esser incitamento e preparazione a nuova
vita. Inoltre all’indicazione della gloria, che, a dire del Leopardi, deriva «dagli studi e singolarmente
dalle lettere e dalle arti belle», egli aggiunge quella che dànno «le strade, i canali, i ponti, gli archi,
gli anfiteatri, gli edifici d’ogni maniera», i quali, a suo avviso, «attestano la grandezza e lo slancio del
genio della presente generazione» (cioè della sua) e fanno vivamente sperare che l’alacrità
dell’ingegno italiano possa con egual profitto far rifiorire le scienze, le manifatture, i commerci, vale
a dire possa l’Italia dagli studi «teoretici» passare a una più intensa e proficua attività pratica,
«pubblica e privata», e gareggiar quindi con «le altre nazioni» d’Europa «e particolarmente con
l’Inghilterra».
Sotto questo aspetto lo scritto del Ressi era l’espressione di un’indistruttibile fiducia nelle forze
sempre rinnovantisi dell’Italia serva e divisa, e recava seco la provvida intuizione che da un
rifiorimento di tutte le sue attività l’Italia avrebbe potuto trarre altri vantaggi, anche politici, perché
dalla vita nasce la vita.
INDICE
INDICE DEI NOMI

Acerbi G.
Achillini C.
Acutis G.
Adriani M.
Adriano IV, papa.
Agincourt (d’), v. Séroux.
Agostino (S.).
Aguzzi Barbagli D.
Albani F.
Albany (d’), contessa, v. Stolberg.
Alberti A.
Alboino, re dei Longobardi.
Alembert (Le Rond d’) J.-B.
Alessandro Magno.
Alessandrini G.
Alfero G. A.
Algarotti F.
Aliprandi G.
Allevi F.
Allodoli E.
Alvarez E.
Alfieri V.
Alighieri D., v. Dante.
Amaduzzi G. C.
Ambrosini L.
Ambrosoli F.
Amoretti G.
Anacreonte.
Ancillon F.
André J.
Andreini G. B.
Anelli A.
Antona-Traversi C.
Antonino Pio, imperatore romano.
Anzilotti R.
Apollinaire G.
Apollonio C.
Apollonio Rodio.
Appiani A.
Appiano.
Appio.
Arborio Gattinara Di Breme L.G.
Arborio Gattinara Di Breme L., v. Di Breme L.
Archimede.
Arconati C.
Arici C.
Arici Z.
Ariosto L.
Aristofane.
Aristotele.
Arnaldo da Brescia.
Arnold B.
Arriano.
Arteaga S.
Artom E.
Augusto, imperatore romano.
Aureliano, imperatore romano.
Aurigemma M.
Aurispa G.
Avitabile G.
Azara (d’).
Azzolina L.

Bacchilide.
Bacone F.
Baffo G.
Balbo C.
Balbo P.
Baldacci L.
Baldi S.
Balduino A.
Bandello M.
Baravelli M.
Barbera P.
Barberini B.
Barbeu-Dubourg.
Barbi M.
Baret F.
Baretti G.
Barlaam.
Barthélemy J. J.
Batillo.
Battaglia S.
Batteux C.
Baumgarten A. G.
Bava di S. Paolo E.
Beauharnais E.
Beaumarchais (Caron de) P. A.
Beccaria C.
Becher-Stowe E.
Bellegarde (von) H. N.
Belli P. (Blanes P.).
Bellini B.
Bellorini E.
Bellotti F.
Bembo P.
Benedetti F.
Benedetto L. F.
Benedetto T.
Bentham J.
Benvenuto da Imola.
Berchet G.
Bernardoni G.
Berni F.
Bertacchini R.
Bertelli I.
Bertoldi A.
Berthollet C. L.
Bertolotti D.
Bertoni G.
Bessarione G.
Bettinelli S.
Bettoni N.
Bezzola G.
Bianchi M.
Bianchini D.
Bianchini F.
Bianconi L.
Bibbiena (Dovizi B.).
Bini V.
Binni W.
Biot G. B.
Blair U.
Blanes P., v. Belli P.
Blücher G. L.
Boccaccio G.
Boccalini T.
Bodoni G. B.
Boileau N.
Boito A.
Bolingbroke (H. St. John di).
Bonaparte E.
Bonghi R.
Bonnet C.
Bonora E.
Borgese G. A.
Borgia S.
Borsieri P.
Bosco U.
Bossi G.
Bossi L.
Botero G.
Botta C.
Bottacchiari R.
Bottari G. G.
Boulanger N. A.
Bouterweck F.
Braga G.
Branca V.
Breislak S.
Breme (di) L.
Broome W.
Breyslac, v. Breislak.
Brumoy P.
Brunacci V.
Brunet.
Bruno G.
Bruto.
Buck A.
Buffon G. L.
Buommattei B.
Buonafede A.
Buonarroti M., v. Michelangelo.
Bürger G. A.
Burke E.
Burzio F.
Bustelli G.
Bustico G.
Byron G.

Cabanis P.-J.-G.
Cavalca D.
Caccia N.
Calcaterra C.
Cajumi A.
Calderón de la Barca P.
Caleppio T.
Callimaco.
Calliergi Z.
Calzabigi (de’) R.
Camerana G.
Camillo.
Camoens (de) L. V.
Campbell T.
Camporesi P.
Canova A.
Canova G. B.
Cantú C.
Capone Braga G.
Caporali A.
Capponi G.
Cappuccio C.
Caracci (famiglia di pittori).
Cardano G.
Carducci G.
Caritone Afrodiseo.
Carli G. R.
Carlo Magno.
Carlo V, re di Spagna, imperatore di Germania.
Carlo Alberto, re di Sardegna.
Caro A.
Cartesio R.
Carutti D.
Cassio.
Cassini D.
Castelli B.
Castelvetro L.
Casti G. B.
Castiglione B.
Caterino P.
Catone M. P.
Cattaneo G.
Cattaffio Pianchiano, v. Valeresso.
Catullo.
Cavalca D.
Cavalieri B.
Cavour C.
Cecchi E.
Cecilio da Calatte.
Cellini B.
Cento A.
Cesalpini A.
Cesare, Caio Giulio.
Cesari A.
Cesarotti M.
Cessi C.
Chalmers.
Chapman G.
Chiabrera G.
Chiari P.
Ciavi V.
Ciavarella A.
Cicerone M. T.
Cicognara L.
Cieco da Ferrara.
Cigna F.
Cimabue.
Cinna.
Cinonio, v. Mambelli M.
Citanna G.
Clerici E.
Codignola A.
Codignola E.
Colajacomo C.
Collino L.
Colombo C.
Colonia (de) D.
Colonna V.
Colpan G.
Columella.
Comes N., v. Conti (de’) N.
Compagni D.
Compagnoni.
Cordaro C.
Condillac (Bonnot de) E.
Condorcet (Caritat de) M.-J.-A.-N.
Confalonieri F.
Congreve W.
Consoli D.
Constant B.
Conti (de’) G.
Conti (de’) N.
Cooper W. J.
Copernico N.
Cordié C.
Cordo C.
Corelli A.
Corneille P.
Cornelio T.
Corniani G. B.
Correggio (Allegri A., detto il).
Corticelli S.
Cosmo U.
Costa P.
Costantino, imperatore romano.
Costanzo, imperatore romano.
Costantini S.
Coupland R.
Courten (de) C.
Crescimbeni G. M.
Crescini V.
Crisolora M.
Croce B.
Croce G. C.
Cudworth R.
Cunich R.
Cuoco V.
Custodi P.
Cuvier G.

Dandolo V.
Daniello B.
Dante.
Da Ponte L.
Da Prati P.
Davanzati B.
Davila C.
Davy U.
Debyser F.
De Castro G.
De Cristoforis G. B.
Degerando G.
Delambre J. B.
Delille J.
Della Casa G.
Dell’Aquila M.
Della Salandra Serafino.
De Lollis C.
De Marchi F.
De Marini G.
De’ Medici C. il Vecchio.
De’ Medici L.
Democrito.
Demostene.
Denina C.
Derla L.
De Robertis G.
De Rossi B.
De Rossi G. B.
De Rossi G. G.
De Sanctis F.
Desaugiers M. A.
De Say G. B.
Descartes R., v. Cartesio.
Desmarais F. S.
Destutt de Tracy A.
Diacono P.
Diderot D.
Didimo Alessandrino.
Dione C.
Dionigi d’Alicarnasso.
Di Pino G.
Di Rocca J.
Domenichi L.
Dominis (De) M. A.
Don Santigliano, pseudonimo di L. Di Breme.
Dovizi B., v. Bibbiena.
Dryden J.
Dumarsais (Chesneau) (Du Marsais, Du Marset) C.
Dumont E.
Dupuis C. F.
Dussault J. J.

Egmont (Lamoral, conte di).


Elinando.
Elvezio, v. Helvétius.
Enrichetta di Borbone.
Enrico VI, re d’Inghilterra.
Epaminonda.
Eraclito.
Erasmo da Rotterdam.
Ermogene di Tarso.
Erodoto.
Eschilo.
Euripide.

Fabronio A.
Falletti G. O.
Falletti O. A.
Farinelli A.
Fattorello F.
Fauriel C.
Fea C.
Federici C.
Felicita d’Este.
Fellemberg F. E.
Fenélon F.
Fenton E.
Ferdinando I d’Asburgo.
Ferdinando VII, re di Spagna.
Ferguson A.
Fermi S.
Ferrario V.
Festino N.
Fichte J. G.
Ficino M.
Fidia.
Filangieri G.
Filelfo F.
Filicaia (da) V.
Filippo II, re di Spagna.
Filippo II, governatore delle Fiandre.
Filone Giudeo.
Fingal.
Firenzuola A.
Firmiano L.
Flora F.
Florescu V.
Fogliani Sforza C.
Fontani F.
Fontenelle (Le Bouvier de) B.
Fornari S.
Forti F.
Foscarini.
Foscolo U.
Fracastoro G.
Francesco I, imperatore.
Franchi Di Pont G.
Franklin B.
Frontone C.
Frye N.
Frugoni C. I.
Fubini M.

Gabetti G.
Gajetti V.
Galilei G.
Gallavresi G.
Galletti A.
Gallioli M.
Gama (da) V.
Gamba B.
Gambara V.
Gambaro A.
Garcí-Ordoñez de Montalvo.
Gasparetti A.
Gatta L.
Gay-Lussac L.
Gellio A.
Gennari G.
Gentil de (Chavagnac de) M. G.
Gentile G.
Gentili P. G.
Genovesi A.
Geoffroy J. L.
Gessner S.
Gesualdo G. A.
Gherardini C.
Gherardini G.
Ghio G. B.
Giacomelli M. A.
Giamboni Bono.
Gambullari P. F.
Giannessi F.
Gibbon E.
Ginguené P. L.
Gioberti V.
Gioia M.
Giordani P.
Giordano da Rivalto.
Giorgio da Trebisonda.
Giovanni Fiorentino.
Giotto.
Giovanni Paleologo, imperatore.
Giovanni (de).
Giovenale.
Girardelli T.
Giuliano, imperatore romano.
Giulio Valerio.
Giusti G.
Giustiniano, imperatore romano.
Gluck C. W.
Gobetti P.
Goethe W.
Goldoni C.
Gori A. F.
Gozzano G.
Gozzi C.
Gozzi G.
Gracco, Caio.
Graf A.
Grassi G.
Grassi S.
Gray T.
Gravina V.
Gregorio XVI, papa.
Grossi T.
Guarini B.
Guasco di Castelletto.
Guastalla, principe di.
Guicciardini F.
Guidi A.
Guido degli Anastagi.
Guillon A.
Guittone d’Arezzo.
Gustarelli A.

Hackelberg (von) H.
Haym R.
Hazard P.
Heeren A.
Hegel G. W. F.
Helvétius C. A.
Hemsterhuys F.
Herczeg G.
Herder G. G.
Heyne C. G.
Hume D.

Igino C. G.
Imbriani V.
Innamorati G.
Ippocrate.
Irving D.
Isella D.
Iseo.

Jacobi F. E.
Jacopone da Todi.
James G. P. R.
Janin A.
Jannaco C.
Jeffrey F.
Jenni A.
Jovine F.

Kant I.
Kardos T.
Kauchtschischwili Melzi d’Eril F.
Klopstock F. G.
Krabe (Crabbe) G.
Krömer W.

Laclos (Choderlos de) P.-A.-F.


Lacretelle (De) P. L.
Laderchi C.
Lafayette (De).
Lagrange (La Grangia) G. L.
Laini G.
La Harpe G. F.
Lamartine A.
Lamberti L.
Lami G.
La Motte Fouqué (de) F.
Lampredi U.
Lancaster G.
Lancelot-Voisin H.
Landino C.
Larive G.
La Rochefoucauld (de) F.
Lasalle A.
Lastri M.
Latini B.
Lattanzi C.
Lattanzio.
Laugier M. A.
Laurent M. H.
La Vergne (De) L. E.
Laviosa B.
Lavoisier A. L.
Lazzarini D.
Lazzeri G.
Leibniz G. W.
Lemercier N.
Lemierre.
Lémontey E.
Leonardo Da Vinci.
Leonardo di Capua.
Leone X, papa.
Leoni M.
Leopardi G.
Lepre A.
Le-Sage R.
Lessing G. E.
Letourneur P.
Levati A.
Licinio C.
Licurgo.
Li Gotti E.
Llorente G. A.
Lippi L.
Litto (Del) V.
Livio.
Locke J.
Lombardo P.
Londonio C. G.
Longano F.
Longino C.
Longo Sofista.
Lopriore I. G.
Lorenzo (S.).
Lozito V.
Lucano.
Luchaire J.
Luciano.
Lucio Vero, imperatore romano.
Lucrezio.
Luigi XIII, re di Francia.
Luigi XIV, re di Francia.
Luigi XVIII, re di Francia.
Luigi Filippo, re di Francia.
Lusi S.
Luzio A.

Mably (Bonnot de) G.


Macchioni Jodi R.
Macpherson J.
Machiavelli N.
Macrobio.
Maffei A.
Maffei S.
Maggi G.
Magnocavalli F. O.
Mai A.
Mainenti P.
Malebranche N.
Malespini R.
Malthus T. R.
Mambelli M. (detto Cinonio).
Mameli G.
Manacorda G.
Mangione A.
Mannucci F. L.
Manzoni A.
Maometto.
Marc’Aurelio, imperatore romano.
Marcazzan M.
Marchetti L.
Marenco V.
Marino G. B.
Marlowe C.
Marmontel J. F.
Marsigli J.
Martegiani G.
Martini A.
Martino P.
Marziale.
Marx J.
Marzot G.
Mascagni P.
Mascheroni L.
Massano R.
Mathias T. J.
Mathieson W. L.
Matteo (S.).
Mauri A.
Mazarino G. R.
Mazzini G.
Mazzoni G.
Mazzali E.
Mecherini G.
Melegari D.
Ménage G.
Mendelsshon M.
Mengotti F.
Mengs R.
Menzini B.
Menzio P. A.
Mercier S.
Mérian G. B.
Mestica G.
Metastasio P.
Michelangelo.
Michaud.
Milano E.
Milizia F.
Milton J.
Minturno A. S.
Minzoni O.
Mittner L.
Mocenni T.
Molière (Poquelin), J.-B.
Mollo G.
Momigliano A.
Monroe P.
Montaigne M.
Montesquieu C. L.
Montgomery R.
Monti A.
Monti V.
Montini R. U.
Monzini V.
Moratin (de) F.
Morellet A.
Moroncini F.
Mosé.
Mosheim G.
Mozart W. A.
Müller J.
Muomi G.
Muratori L. A.
Muscetta C.
Mustoxidi A.
Mutterle A. M.
Mutti P. A.

Napione G.
Napoleone I Bonaparte.
Napoli Signorelli P.
Natali G.
Nava G.
Negri P.
Necker (de Saussure) G.
Nelson H.
Nelvil O.
Neri F.
Nerone, imperatore romano.
Nervi A.
Nesti F.
Newton I.
Niccolini G. B.
Nicolini G.
Niebuhr B. G.
North F.
Novati F.
Numa Pompilio.
Omar, califfo.
Omero.
Onorati Columella N.
Orazio.
Oreglia d’Isola A.
Oriani B.
Orioli G.
Ornato L.
Orosio P.
Orsini Lalli M. L.
Ortolani G.
Ossian.
Ottaviano, v. Augusto.
Ovidio.

Pacini G.
Pagano M.
Paisiello G.
Paladino V.
Paleario A.
Palladio A.
Palomba G.
Paoli D.
Paoli S.
Paolo (S.).
Paolo V, papa.
Paradisi A.
Parini G.
Parny E.
Pascal R.
Paschoud J.-J.
Pascucci I.
Passanisi M.
Passavanti J.
Passeroni G. C.
Pecchio G.
Pecoraro M.
Pellandi Fiorilli A.
Pellegrini C.
Pellico L.
Pellico S.
Pellier A.
Pepoli C.
Perale G.
Pergolesi G. B.
Pericle.
Perticari G.
Pesenti A.
Petrarca F.
Petrini E.
Petrocchi G.
Petronio G.
Peyron A.
Pezzana A.
Pezzi F.
Piazzi G.
Piccioni L.
Piemontese F.
Piergili G.
Pietro I il grande, zar di Russia.
Pietro d’Alfonso.
Pietro Eremita.
Pinchetti G.
Pindaro.
Pindemonte G.
Pindemonte I.
Pio VII, papa.
Pio IX, papa.
Pirandello L.
Piranesi G. B.
Pirotta.
Pisani V.
Pisone.
Pitt W.
Platone.
Plauto.
Pletone G. G.
Plinio.
Plotino.
Plutarco.
Poerio.
Poliziano A.
Pomba G.
Pompeati A.
Pompeo Gneo.
Pomponazzi P.
Pontano G.
Pontieri E.
Ponziglione A.
Pope A.
Popelinière.
Porfirio.
Porro Lambertenghi L.
Porta A.
Porta C.
Porsenna.
Portinari F.
Praga E.
Prassitele.
Prati G.
Predari F.
Prévost P.
Priestley J.
Prina G.
Prisciano di Cesarea.
Profeti M. G.
Properzio.
Provana di Collegno G.
Pulci L.
Puppo M.

Quadrio F. S.
Quatremère de Quincy A.-C.
Quinault P.
Quintana M. J.
Quintiliano.

Rabelais F.
Racine J.
Raffaello.
Ragonese G.
Rajna P.
Ramat R.
Rasori G.
Regis P.
Reid T.
Renier R.
Ressi A.
Rezzonico (C. Castone della Torre di).
Riccardo III, re d’Inghilterra.
Richardson S.
Ridolfi A.
Ridolfi C.
Robbio di San Raffaele B.
Roberti M.
Robertson J. G.
Robertson W.
Rodolico N.
Roero di Revello, conte.
Rolla A.
Rolli P.
Rollin C.
Romagnosi G. D.
Rondinetti L.
Roscoe W.
Rosmini A.
Rossi P.
Rossi T.
Rossi di Vandorno (o Vandormo) F.
Rossini G.
Rota E.
Rousseau J. J.
Rovani G.
Ruggieri R. M.
Ruscelli.
Russo.
Rutzvanscad.

Sacchi D.
Saffo.
Saint-Chamans A.
Saint-Réal, v. Vichard.
Sainte-Beuve C.-A.
Salfi F.
Salmasio.
Saluzzo (di) D.
Salviati L.
Salvini A. M.
Sannazzaro J.
Sannoner A.
Sansone M.
Santarosa (di) S.
Sanvisenti B.
Sapegno N.
Sardagna G.
Sarpi P.
Sauli G.
Saurau F.
Saurau (Lodrone) A.
Saussure (de), v. Necker.
Savioli L.
Scarpa A.
Schanzer A.
Scheele C. W.
Sheridan B. R.
Scherillo M.
Schiller F.
Schlegel A. W.
Schlegel F.
Scoto Duns.
Scott W.
Scotti M.
Seneca L. A.
Senofonte.
Seroni A.
Séroux d’Agincourt G.
Serret J. A.
Serristori L.
Sévigné (De) M.me.
Sevelinges (De) M.me.
Sforza G. M.
Shakespeare W.
Sheridan B. R.
Simmaco A. Q.
Simonide.
Simonis M.
Sioli Legnani E.
Sismondi S.
Smith A.
Smith J.
Soave F.
Socrate.
Sofronisco.
Sofocle.
Solone.
Somis G. B.
Sòriga R.
Sozzi B. T.
Spallanzani L.
Speroni S.
Spinoza B.
Staël (De) M.me.
Stahl G. E.
Stay B.
Stazio.
Stefani G.
Stefano (S.).
Stellini J.
Stendhal (Beyle H.).
Stewart D.
Stigliani T.
Stolberg F. L.
Stolberg K.
Stolberg L., contessa d’Albany.
Strassoldo, conte.
Strich F.
Strocchi D.
Strozzi ab.
Sulzer G. G.
Svevo I.
Swift J.

Tacito.
Talma F. G.
Tana A.
Tarchetti I. U.
Targioni G.
Tartini-Salvatici F.
Tasso B.
Tasso T.
Tedaldi-Fores C.
Telesio B.
Temistio.
Temistocle.
Teniers D.
Teocrito.
Teodoro di Gadara.
Terenzio.
Thenard L. G.
Thomson G.
Tibullo.
Ticozzi S.
Tieghem (van) P.
Timpanaro S.
Tiraboschi G.
Tirteo.
Tiziano.
Tolomeo.
Tolstoj L.
Tommaseo N.
Torraca F.
Torricelli E.
Torti G.
Toscanella O.
Traiano, imperatore romano.
Trissino L.
Trissino G. G.
Trompeo P. P.
Turamini A.

Ugoni C.
Ulfila.

Valeresso Z.
Valeriani L. D.
Valerio Giulio.
Valletta G.
Vallisnieri A.
Vallone A.
Valmont.
Valperga di Caluso T.
Van Nuffel R. O. J.
Varano A.
Varchi B.
Varese C.
Vassalli Eandi A. M.
Vastry (barone di).
Vauban S.
Vauquelin N. L.
Vega (de) L.
Vegezio.
Veillard.
Vellutello A.
Veneziano P. V.
Venini I.
Verdi G.
Verga E.
Vernazza G.
Verona A.
Verri A.
Verri C.
Verri P.
Vestri L.
Vianello N.
Viani G.
Vichard C., ab. di Saint-Réal.
Vico G. B.
Vida G.
Vidari G.
Viganò S.
Villa A. T.
Villevieille (di) L.
Vincent E. R.
Vinciguerra M.
Virgilio.
Visconti E.
Visconti E. Q.
Visconti G. B.
Volta A.
Voltaire (Arouet F.-M.).
Voss J. H.

Wallenstein (von) A. W. E.
Washington G.
Webb D.
Wellington (Wellesley A., ducadi).
Wieland C. M.
Wilberforce W.
Winckelmann J. J.
Wolf F. A.
Wolff F. C.

Yalden T.
Young E.

Zaiotti P.
Zambaldi A.
Zazo A.
Zeno A.
Zilversmit A.
Zingarelli N.
INDICE DELLE TAVOLE

Ludovico Di Breme

Frontespizio dell’edizione originale del Discorso di Ludovico Di Breme

Chiusa d’una lettera di Ludovico Di Breme a Giuseppe Grassi

Pietro Borsieri

Giovanni Berchet

Frontespizio dell’edizione originale della Lettera semiseria del Berchet

La prima pagina del primo numero del «Conciliatore»

Lettera circolare del «Conciliatore» con firme autografe del Di Breme, del
Berchet e del Pellico

Adeodato Ressi

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