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COLLEZIONE FONDATA DA
FERDINANDO NERI
DIRETTA DA
MARIO FUBINI
MANIFESTI ROMANTICI
E ALTRI SCRITTI
DELLA POLEMICA
CLASSICO-ROMANTICA
A CURA DI
CARLO CALCATERRA
MARIO SCOTTI
ISBN: 978-88-418-8935-0
Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questo volume può essere riprodotta, memorizzata o
trasmessa in alcuna forma e con alcun mezzo, elettronico, meccanico o in fotocopia, in disco o in
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La casa editrice resta a disposizione per ogni eventuale adempimento riguardante i diritti d’autore
degli apparati critici, introduzione e traduzione del testo qui riprodotto.
PREMESSA ALLA NUOVA EDIZIONE
Introduzione
Nota bibliografica
DAL «CONCILIATORE»
con una frase stupenda, che ha un particolare significato per l’autore del
Prometeo liberato e può avere altri sensi non meno profondi quando sia
riferita ad altri scrittori, i quali nel secolo XIX cercarono un’intima
liberazione, segnava la via maestra per intendere i modi e le forme del
romanticismo.
Lodovico Savioli vedeva l’ultima prova dell’arte nel poter dare alla
parola la trasparenza alabastrina delle immagini di Ovidio e Properzio. Il
D’Agincourt, uomo dottissimo e finissimo, che, come il Winckelmann e il
Mengs, aveva fatto di Roma la capitale del bello ideale e consumò decenni
nello scrivere la Storia dell’arte dalla decadenza del IV secolo al suo
rinascere nel secolo XVI, soleva dire che egli era lo storico del brutto,
perché, ad ammaestramento universale, ricercava come le arti figurative
dalla barbarie del Medioevo fossero risalite agli splendori del
Rinascimento.
Alle sentenze apodittiche di questa dottrina i romantici italiani opposero
il desiderio di intendere le forme più diverse dello spirito, da tempo a
tempo, da luogo a luogo, da anima ad anima.
Non solo vi era stata Atene, ma vi erano Firenze, Venezia, Palermo,
Milano, Parigi, Londra, Madrid ed altre città, cioè tanti centri di cultura
quanti i centri di vita.
Non solo vi era la Roma antica, ma la Roma del Medioevo; non solo la
Roma del Rinascimento, ma una Roma perenne, sempre la medesima e
sempre diversa, nella quale gl’Italiani, a dire del Denina, avrebbero potuto
ritrovare il centro spirituale di un nuovo risorgimento.
L’opposizione intima alle restrizioni, che vietavano di riconoscere come
arte le figurazioni che fossero fuori delle regole segnate dagli antichi,
incominciò nel Settecento stesso, per opera di coloro che, pur ammirando
come insuperata l’arte greca e latina, istintivamente non potevano non
gustare l’arte gotica, l’arte moresca, l’arte fiamminga, né volevano
precludersi di capire il Duomo di Milano pel Partenone, Dante per Virgilio,
Shakespeare per Sofocle, Ossian per Stazio, Michelangelo per Fidia e
Prassitele, Teniers per Raffaello. Questa comprensione, a giudizio dei
novatori, era un allargamento di orizzonti. Per essa da Roma, da Firenze, da
Bologna, da Milano, da Torino, da Napoli l’Italia rifaceva suo
spiritualmente il mondo, e in questo riponeva se stessa come spirito
perennemente vivo.
Così avvenne che tutte le forme d’arte e i poeti di tutte le letterature
ebbero diritto di cittadinanza nella nostra estetica; il Medioevo, che era
stato riguardato come la selva della nuova barbarie, apparve la fucina
spirituale della nuova civiltà e la fonte profonda delle nuove arti e della
nuova poesia; la Divina Commedia, che era stata paragonata per dispregio a
un tempio gotico, fu considerata il capolavoro dell’Italia risorgente dopo il
Mille; il precetto di Michelangelo che «chi siegue altri, non va mai avanti»,
ripudiato dal Milizia come un’eresia, fu inalberato come principio vitale che
veniva dalla nostra stessa storia; Shakespeare, il barbaro enorme, divenne
uno dei classici del romanticismo. Molti di coloro stessi che
dottrinariamente, per educazione stilistica, sul finir del Settecento e sul
principio dell’Otto cento, dichiaravano di non poter rinunciare alle regole
classicheggianti, non appena udivan nell’aria la nuova musica italiana,
piangevano e deliravano, come se uno spirito nuovo li rivelasse a se stessi.
La trasformazione in molte anime si svolgeva quasi inconsapevolmente:
ed era trasformazione tutta italiana, profondamente italiana, simile a quella
per cui già nel Settecento il classico Piranesi aveva rappresentato Roma
nelle sue acqueforti con un nuovo senso che al Bianconi pareva una «bella
infedeltà» ed era per contro la luce di una nuova visione interiore, un nuovo
modo di vedere l’antichità stessa.
Ma i più rigidi assertori del bello assoluto non intesero quella
trasformazione come un mutamento interiore, che in ultima analisi veniva
dalle profondità stesse dello spirito italiano. Come gente privilegiata che
aveva il monopolio del bello, videro nella trasformazione del gusto un
pervertimento, nell’ampliamento d’orizzonte una minaccia
d’imbarbarimento e sollevarono le più alte strida contro l’allargamento dei
confini dell’estetica col fremito di chi assiste a una profanazione. Esempio
tipico fu il Bettinelli, che, avendo intuito come per il venir meno della
dottrina del bello ideale, non solo sarebbe stata sovvertita l’arte, ma tutto un
modo di vedere, ideare, concepire, fin dal 1796, nei Dialoghi d’Amore,
quasi scolta avanzata, lanciò l’allarme contro il sopraggiungere del nemico:
«Salvate la vostra età, o italiani, dal precipizio imminente… Corri, o Nume
del Parnasso italiano, e salva l’Italia, che già sente il redivivo Seicento,
diviene inglese e tedesca…».
Se non che l’avanzamento, che al Bettinelli pareva minaccia di rovina,
per contro al Denina, al Di Breme, al Pellico, al Borsieri, al Berchet e a tutti
i novatori, fattisi ben presto legione, parve l’annunzio di una vita più nostra
e più libera. Essi sentirono che romanticismo non significava per gli italiani
andar contro Roma, non era negazione della latinità, ma anzi un
potenziamento dell’italianità, sempre aperta per virtù native a tutte le forme
di vita; perciò non accettarono l’identificazione di romanticismo e
imbarbarimento, e, levando l’annunzio inatteso: «Il mondo è ancor
giovine», vollero innanzi tutto dire: «Lo spirito nostro non conosce
vecchiezza».
Entro quest’atmosfera di libertà interiore, che diviene a se stessa impulso
creativo, dev’essere pertanto intesa la formulazione del pensiero teoretico
centrale nei tre manifesti romantici, raccolti in questo volume, i quali sono
diversi nello stile e per molti aspetti particolari sono variamente vincolati
alle discussioni speculative del Settecento, ma collimano nel voler
ricondurre l’arte e la letteratura alle sorgive della vita.
A quali intuizioni immediate condusse allora in letteratura il risalire alle
fonti della vita?
Dagl’intelletti più sottili e avveduti fu già allora nettamente definita una
volta per sempre la distinzione tra classico e classicheggiante, classico e
classicista, classico e classicomane (la parola è del Di Breme); cioè, tra
scrittore grande, originale, sostanzioso per se stesso, e scrittore derivato,
imitatore, pedantesco, che non vive di vita propria, ma a spese del classico;
fu allora fermata nella storia la contrapposizione tra lo scrittore romantico,
che sente tutte le esigenze dell’anima moderna, e lo scrittore
classicheggiante, scolastico e accademico, il quale non è affatto il classico,
ma il parassita del classico.
Il Di Breme, il Borsieri, il Pellico, il Berchet, il Manzoni, il giovine
Gioberti, il Rosmini, dichiararono a ragion veduta, non per convenienza o
compromesso, che ogni scrittore classico, greco o latino, vivendo per se
stesso, cioè per intima ricchezza, sarebbe stato assiduus, cioè ben radicato
nei domini dell’anima; riconobbero consapevolmente che negli scrittori
greci e latini anche la mitologia e le regole aristoteliche avevano un’intima
giustificazione, perché quei miti erano parte viva della loro vita ideale,
quelle regole erano norme interiori di una poetica in atto, cioè veri e propri
modi di concepire e creare. Ma non ammisero che quella mitologia, quelle
regole, quel modo di sentire, ideare e raffigurare potessero essere riprodotti
ab externo, cioè per imitazione, per mimetismo formale, per tradizione
accademica; come finirono col negare ogni mitologia nuova, creata in
contrapposizione a quella antica, a partire dagli aerei Silfi e dai terrestri
Gnomi, diffusi nella letteratura del Settecento, specialmente dal Riccio
rapito del Pope, a venire ai lèmuri e alle streghe dell’«audace scuola
boreal», che riempiva di raccapriccio il Monti. Era un’ingenuità il dire: «Io
ho bisogno di una mitologia per comporre». Il poeta per se stesso non ha
bisogno di puntelli e appoggi, ma trae dall’intimo con libera fantasia tutto il
suo mondo, sia che, come il Foscolo e il Leopardi, sulle soglie dell’infinito,
con un ardor che consuma, dica gli inni e i pianti delle «nate a vaneggiar
menti mortali», sia che, come Alessandro Manzoni, illumini di Dio ogni
dolore e ogni ascensione.
Questa fu in arte la posizione centrale del romanticismo italiano. Da essa,
non per dettami stranieri, ma direttamente, venne l’antitesi inalienabile che i
primi nostri romantici videro tra il mondo spirituale dei classici antichi,
quale era riprodotto ab extra dai classicheggianti, e il mondo spirituale dei
moderni, che vuole e ricerca per sé la sua forma originale; da essa la
contrapposizione, spesso feroce, a tutto ciò che si scriveva non più per
intima fede, ma per convenzione scolastica e vuoto accademismo, e
l’affermazione risoluta che per l’artista conta soltanto il genio. L’unica
conciliazione possibile era questa: Essere se stessi. Per questa via anche i
romantici non sarebbero stati inferiori ai classici antichi, purché avessero
saputo dare forma nuova a sostanza nuova.
Quali erano i classici moderni? È detto esplicitamente dal Di Breme, nel
Discorso intorno all’ingiustizia di alcuni giudizi letterari italiani, dove
congiunge poeti di tutti i tempi per genio originale e diverso: «La natura
mette in una stessa classe Omero, Dante, Shakespeare, Sofocle, Alfieri,
Schiller, Anacreonte, Petrarca, Virgilio, Tibullo, Racine, Voltaire, Terenzio,
Goethe, Lessing, Tasso, Milton, Ariosto, Parini, Parny… e sì fatti».
E sì fatti: cioè, tutti gli scrittori originali per intima potenza fantastica:
quali furono — possiamo aggiungere, riguardando la letteratura italiana
della prima metà dell’Ottocento, — Foscolo, Manzoni, Leopardi, cioè gli
scrittori «più abbienti» dell’età nuova. Per ciascuno di essi si può oggi
ripetere la frase che il Di Breme adoperava nel 1817 pel Manzoni e che il
giovine Gioberti ripeteva ricercando le fonti della nuova poesia: «La sua
poetica è nell’anima».
Giunto a questo punto, il lettore avrà già compreso di per sé quanto sia
errata l’asserzione, accolta in molte storie letterarie, che il romanticismo
italiano abbia avuto inizio con la Lettera semiseria di Grisostomo. Non
solo, a dir il vero, questa, considerata singolarmente, viene terza dopo il
Discorso del Di Breme intorno all’ingiustizia di alcuni giudizi letterari
italiani e dopo le Avventure letterarie di un giorno del Borsieri, ma in
complesso i tre manifesti romantici del 1816 furono ad un tempo il punto
d’arrivo di un profondo rivolgimento italiano, che aveva già avuto principio
nel Settecento, e il punto di partenza per altre battaglie ideali. In altre parole
il romanticismo italiano era già in atto prima che i proclami del Di Breme,
del Borsieri e del Berchet ne tentassero la sistemazione dottrinaria.
Teoreticamente esso era già implicito nella Scienza nuova di G. B. Vico,
che aveva affermato la piena libertà del sentimento e della fantasia di contro
alla ragione; era annunziato da tutte le pagine dei nostri scrittori, che in
pieno illuminismo affermavano essere «l’immaginazione la vera facoltà
creatrice, sia che inventi, da sé affatto, le parti di un tutto [da essa trovato],
sia che, adoperando cose che già esistono o disperse o informi, ne formi un
tutto nuovo» (Denina); era alle porte con l’incitamento di Tommaso
Valperga di Caluso, maestro della nuova generazione piemontese, che,
sebbene cresciuto tra il razionalismo cartesiano e l’empirismo baconiano,
nell’osservare i disdegni e gli entusiasmi dei giovani, pronti a sovvertire i
vecchi ordini mentali e desiderosi di aprire vie nuove, esclamava: «Non
pongo limiti al valore altrui».
Liricamente, cioè come ispirazione interiore, era in atto nelle tragedie
dell’Alfieri, che, multanime, dal Filippo alla Mirra e al Saul, anelava alla
liberazione dell’io; nei canti del «Solitario delle Alpi», che, insonne come
una scolta del sentimento, vedeva accavallarsi sul mondo pericolante
nuvole tempestose, foriere di angoscia e desolazione; nell’invocazione
ardente di Diodata Saluzzo, che è del 1793:
Dolci compagni dell’ore più liete,
prole dei forti, fratelli, sorgete.
annunciavasi l’Italia nuova come una certezza nelle parole semplici, con cui
Ludovico di Breme rispondeva a uno straniero irridente: «Amo la patria;
l’amo quanto la vita». Non sarebbero passati che pochi anni e il
romanticismo si sarebbe irradiato d’eterno nella voce rigeneratrice dell’inno
La Pentecoste:
Nova franchigia annunziano
i cieli, e genti nove;
Quale contenuto diedero gli autori dei tre proclami alla parola
«risorgimento»? Adoperarono essi questa parola, nel 1816, sopra tutto nel
significato di «risorgimento della cultura», come a tutta prima si potrebbe
dedurre dagli argomenti letterari, trattati nei tre opuscoli, o essi nel
pensiero, svolgendo quegli argomenti, segnavano a se stessi anche un’altra
mèta, di cui non facevano allora tema aperto, ma di cui vagheggiavano
l’immagine?
Nel Di Breme, nato a Torino e ivi formatosi sul finire del Settecento, la
parola «risorgimento» si riconnette manifestamente al significato con cui
l’avevano adoperata gli scrittori della Sampaolina e della Filopatria.
Laddove il Leopardi, come appare dalle pagine precedenti e da altre dello
Zibaldone, considera il risorgimento politico e militare premessa necessaria
al risorgimento delle lettere, della filosofia, delle scienze e di ogni altra
forma di cultura, perché la decadenza della letteratura, della filosofia e di
ogni altra attività italiana nell’Europa moderna era stata, a suo giudizio,
conseguenza del decadimento politico e militare, il Di Breme considera il
risorgimento delle lettere, della filosofia, delle scienze e delle altre attività
ideali premessa e concomitanza indispensabile al risorgimento politico e
militare della nazione, perché questo non può essere senza risorgimento
dell’animo.
Quando egli parla di «un risorgimento di idee», di «una più generosa
coltura degli spiriti», di «quella valorosa gioventù, che ora si sta raccolta
meditando e silenziosa, e adulta si fa ad un tempo con una più robusta e più
vasta filosofia», di «una splendida Era», che sta per sorgere, egli
chiaramente riecheggia le speranze dell’imminente risorgimento, quali
erano state enunciate dal conte Benvenuto di San Raffaele, amico di suo
padre e dell’Alfieri, e da altri scrittori subalpini, che egli aveva o letto o
conosciuto a Torino nella giovinezza. Basta riprendere in mano la lettera
che egli rivolse nel 1818 a Giuseppe Grassi, esortandolo a voler preparare
pel Conciliatore uno scritto in cui fosse illustrato quanto i piemontesi
avevano fatto per le lettere specialmente nella seconda metà del Settecento,
per capire subito che il Di Breme ha un legame inscindibile con la cultura
subalpina anteriore. Dice egli tra l’altro: «Che diamine d’osservatore era
egli quel Baretti dell’indole e delle doti d’una nazione, se proclamò
assolutamente come inetto agli studi poetici, morali e affettuosi, non che
alle arti quel Piemonte che si modificò del vivente ancora di Baretti, e
poscia in tante guise, negli Alfieri, ne’ Denina, nei due Napioni, nel Tana,
nel Federici, nel Passeroni, nel Bo-doni, nel Cigna, nel La-Grangia,
Berthollet, Saluzzo, S. Raffaele, Vernazza, Fea, Ghio, Regis, Vassalli,
Giobert, Botta, Caluso, De Rossi? E i Milanesi che ebbero mai prima
dell’unico loro Parini? E chi diede più uomini italici all’Italia se non è la
patria di Denina che primo ne scrisse le rivoluzioni; di Alfieri che ne fondò
il teatro e ne rinnovò lo spirito politico; di Baretti, solo fra gli italiani che
pigliasse a vendicarla in questo suo libro [Gl’Italiani o sia Relazione degli
usi e costumi d’Italia ] dalle calunnie d’un estero [il dott. Sharp ], e il solo,
che riunisse sin qui in sommo grado l’erudizione delle lingue estere a quella
della propria sua, e ad un brio d’ingegno tutto nuovo e non saputosi da
alcun altro italiano imitare poscia? Così avesse avuto filosofia, che non
avrebbe scusate tante melensaggini e superstizioni degl’italiani, e, superiore
a’ risentimenti, avrebbe detto che il Piemonte è il vero vivaio dello spirito
in Italia».
L’incremento, che all’Italia era venuto da quell’alacrità intensa e
multiforme, permaneva, a suo avviso, così vivo, che anche dopo la caduta
dell’impero napoleonico poteva indicare in qual modo dovesse essere
ripresa una vasta azione preparatrice. Per questo riconoscimento il Di
Breme si ricollega agli scrittori della sua terra.
Vi è una sola differenza, ma, in questo punto, capitale. Laddove il conte
di San Raffaele e gli annunziatori dell’«imminente risorgimento» avevano
specialmente parlato ai piemontesi, esortandoli a porsi con lo studio alla
testa dell’Italia per dar principio a un’era nuova, il Di Breme parla a tutti
gl’Italiani.
Valga un esempio.
Il conte Vincenzo Marenco di Castellamonte nella parte terza del libro Lo
spirito di patriotismo riguardo alle scienze ed alle lettere appresso le
nazioni, scritto nel 1776 e pubblicato nel 1783, aveva esortato i piemontesi
«a eccitare vieppiù lo spirito d’invenzione e di fantasia creatrice», fuor delle
«regole moltiplicate», che, come «altrettanti limiti ed impacci,
s’attraversano allo spirito». Egli aveva fatto viva lode di coloro che
procedono con metodo, ma aveva ritenuto «difficile che i metodici
pensatori possano giammai per via di metodo sollevarsi a segno di
collocarsi ad un tratto in quell’eminente punto di vista, che in un momento
schiera e presenta i differenti aspetti, sotto di cui può una data cosa
considerarsi, di ravvisarne ad un tratto tutti i rapporti, la distesa
abbracciarne, prevederne le conseguenze, e dominarne insomma tutta
l’idea». Aveva quindi detto contro l’accademismo e l’imitazione, che
gravavano le lettere italiane: «… è necessario primieramente d’inspirare
negli animi un certo ardir generoso, che delle difficoltà faccia caso, ma
s’avvezzi a mirarle con intrepido sguardo, e da esse arrestar non si lasci.
Quindi bisogna lasciare agli ingegni una certa libertà di propria condotta,
perché di troppo al giogo dell’esempio e dell’imitazione avvezzandosi, non
ne rimangano avviliti e non facciano come quel nuotatore, che, sempre
avvezzo ad avere al fianco l’assistenza dell’esperto maestro, non osa
giammai senza il fedele appoggio fidarsi all’onde, né dalla sua guida pur
d’un braccio staccarsi, non ostante la propria abilità per sostenersi a nuoto.
Né già dee questo chiamarsi uno sprezzare temerariamente l’autorità de’
venerabili antichi o de’ modelli, che ad imitar si propongono, né soverchia
affettazione del nuovo, ma è servirsi d’un dritto che ne compete, di ricorrere
al fonte originale e a tutti comune, cioè alla natura, mentre in tanto
pregiabili sono gli ottimi antichi, in quanto hanno questa ben imitato. Ora
follia sarebbe il darsi a credere che tutto il di lei Bello abbiano poi così
ricopiato, che nulla più da trarre a noi rimanga da questa perenne ed
illimitata sorgente, o che privilegiate così debbano riputarsi le loro
invenzioni, che di migliori o d’eguali non sieno da stimarsi i moderni
capaci; epperciò piucché gli antichi la loro maniera d’imitazione imitare
dobbiamo. Ogni altra imitazione servile diventa, e gli animi avvezza ad una
limitata foggia di pensare, ossia a sempre ripensare lo stesso, come sempre
lo stesso ragionerebbe colui ancora che i filosofi studiasse per ritrovare in
essi la verità, e non per avvezzarsi a cercarla». Da queste premesse aveva da
ultimo il Marenco derivato un’esortazione ai giovani: «S’avvezzino
adunque gli animi giovanili a sentire per tempo il pregio della propria
esistenza, cioè a riconoscere in se stessi la medesima capacità, ch’ebbero
quantunque altri Scrittori, e ’l dritto, che hanno di aspirare a non minore
eccellenza».
Le medesime idee ritornano negli scritti del Di Breme, specialmente nel
Discorso intorno all’ingiustizia di alcuni giudizi letterari italiani e nel
Grand Commentane, con orizzonte non più soltanto subalpino, ma italiano.
Alcuni fatti storici avevano ormai dimostrato che il risorgimento non
poteva essere addotto da un solo Stato, italiano o straniero, ma doveva
essere opera di tutti gl’Italiani: innanzi tutto la dolorosa esperienza fatta
durante la guerra delle Alpi, dal 1792 al 1796, allorché il Piemonte, sebbene
fossero stati rivolti appelli ai singoli governi d’Italia, era rimasto solo a
lottare contro l’invasore; quindi gli avvenimenti svoltisi nel periodo
napoleonico e specialmente le vicende del Regno Italico, che molti avevano
creduto poter essere per l’Italia preparazione a maggiori fortune. Il risultato
di queste esperienze è implicito nel carteggio e negli opuscoli del Di Breme,
come una dimostrazione storica, sulla quale non sia più necessario
nemmeno discutere.
«Veglino a vicenda le famiglie — dice egli nel Grand Commentaire —
sull’onore e sulla prosperità dell’una e dell’altra e una catena di braccia
fraterne allacci i nostri Lari, dalla cima delle Alpi alla tomba di Virgilio. La
politica rispetterà un giorno questa commovente unanimità dei cuori
italiani; giacché la politica non trae potenza che dalle condizioni sociali che
noi le presentiamo: essa calcola sui nostri vizi e sulle nostre debolezze, ma
si sottometterebbe alle nostre virtù o cesserebbe di essere una politica.
Concittadini! i destini nostri sono opera nostra… Prima d’essere costituiti
con legge, non dipenderebbe che da noi ricostituirci nello spirito».
Per questo spirito il Di Breme è ormai alieno da qualsiasi politica
regionalistica, e, allorché nel 1820 vede a Torino rattrappirsi la vita per
grettezza di calcoli o per animo reazionario di contro alle speranze dei
liberali, con i quali cospira per «fondar una prospettiva» (intendi: per
cercare su quali basi potesse essere fondato un disegno di risorgimento
politico), con parole roventi non esita a dichiarare di non voler più essere
piemontese. Scrive il 7 marzo 1820 a Federico Gonfalonieri, raffigurando
Torino come una città di falliti: «L’ignoranza, la spilorceria, la viltà, la
caparbietà, l’ozio, l’astio vicendevole, la presunzione e tutte le ridicolezze
portate in trionfo, mi circondano, mi stanno innanzi agli occhi e
m’inseguono da mattina a sera. Fo il sordo, il muto, il serio per poco
ancora, ma or ora ti so dire che schiatto in uno scoppio o di ridere o di
rabbia che lo sentirai da Milano. Appena è concepibile che si nasca oggidì
Piemontese: qual sì orrenda colpa si ha da aver commessa nel nulla per
esserne così barbaramente esiliato? Ma il ritornarvi, chi n’era uscito, e
ridivenire Piemontese, ciò non ha scusa; e per lodevoli che ne sieno le
intenzioni, un sì fatto partito è pur sempre vergognosissimo».
Se non che giudizi non meno violenti per ira e disdegno si leggono sulle
condizioni dell’Italia tutta e sul carattere degli italiani nelle sue lettere alla
contessa d’Albany e ad altri; e per esse si comprende che egli, proteso
com’era a cercar da ogni lato una rispondenza palese o segreta alla
«prospettiva», che aveva nella mente, vedendo la maggior parte dei Torinesi
e la maggior parte degl’Italiani così discordanti dal suo ideale, giungesse a
dire che non intravedeva possibilità di rigenerazione «prima della terza
generazione». In realtà egli sapeva che l’Italia non era morta e nell’intimo
confidava che ella potesse quanto prima balzare verso migliori forme di
vita, quantunque molti dicessero che a tre, a quattro, a cinque anni dal
crollo napoleonico fosse troppo presto tentar la sorte. Perciò nel 1820,
lodando il Gonfalonieri per l’azione benefica che svolgeva a Milano a
favore delle scuole di mutuo insegnamento, diceva: «L’albero che piantasti
coprirà d’una vasta ombra il terreno della tua patria. Le altre imprese cui
desti moto, o che, solo, conduci, sono pienamente armoniche colla prima e
collo scopo generale che ti proponesti. Se i destini d’Italia s’abbelliranno, se
batterà l’ora della nostra rigenerazione, quest’epoca invocata e sospirata
troverà il tuo paese assai più maturo».
Qui, come in altre lettere, la parola «rigenerazione» è sinonimo di
«risorgimento» non solo nella cultura, ma nella politica e in tutta la vita
sociale. Qual era la rigenerazione ideale, a cui egli mirava? È detto in
un’altra lettera, rivolta a Federico Gonfalonieri fin dal 16 maggio 1816,
nella quale parla del nuovo ordinamento dato all’Europa dai sovrani della
Santa Alleanza: «Lasciali fare, il genio dei tempi è più indomabile che tutte
le congiurate armi del mondo. Vedrai tu forse ancora, ma vedranno certo i
figli tuoi, cadere e rovinare tutto cotesto edifizio artifiziale, nato dal gran
contrasto di pochi lumi e di molta ignoranza ne’ secoli andati. Il giorno
d’oggi, che sembra essere l’epoca del rassodamento delle vecchie ragioni
monarchiche, è forse invece la vigilia d’una benigna generalissima
eruzione, non più giacobinesca né ladronesca, ma bensì prodotta dal forte
ed ognora crescente volere di tutti, e dalla ovunque diffusa luce del buon
senso e della ragione adulta. La nazion maestra [l’Inghilterra] agogna allo
scopo, direi quasi sovrumano, di ben tosto maturare e far toccare segno a
questo voto, cui partecipano oggimai persino l’artigiano e l’agricoltore. Ei
non son già chimere di ornati dicitori, né di atrabiliari filosofi; sono frutti di
esperienza, sono luminosi prodotti di quanto ha saputo combinare di più
savio e di più praticabile quel governo miracoloso, mente ed occhio
dell’incivilito mondo. L’Inghilterra doveva voler primamente la caduta del
mostruoso colosso, che torreggiava solo sul continente, ed a riuscirvi fece
cospirare con meravigliosa armonia tutti quei signori che ora parteggiano
fra loro l’Europa. Dopo terminata la essenziale e fondamentale impresa, è,
parmi, evidente che nulla di più grande, né più a lei vantaggioso resta da
operare, che costituire gli stati in maniera che la volontà generale, ossia
l’espressione del bisogno generale, divenga legge ovunque; perché tosto
vedrassi esser legge allora il commercio e tutto ciò che a facilitarlo tende;
legge quella libera circolazione di gente e di cose, che ha da mantenere e da
stabilire ognora più la preponderanza di quegl’isolani; legge insomma una
certa libertà individuale che senza nulla togliere al dominio della morale e
della religione, svincolerà i popoli da que’ ceppi, che rendono impossibile il
progressivo perfezionamento della specie umana».
Poche settimane dopo, in giugno, apparve il Discorso del Di Breme
intorno all’ingiustizia di alcuni giudizi letterari italiani. Questo è dunque
l’orizzonte politico entro cui il Di Breme diede principio alla battaglia
romantica.
Nella lettera al Confalonieri, or ora citata, il punto che rivela contro qual
nemico il Di Breme scende risolutamente in campo, è l’accenno alle
vecchie monarchie. Egli vuole che alle monarchie assolute siano sostituiti
governi costituzionali, in cui i rappresentanti del popolo abbiano parte nel
reggimento dello Stato con il libero esame dei principii statutari, dei fini e
dei metodi, con l’opera legislativa, col consiglio avveduto e lungimirante,
con assidue provvidenze sociali e politiche.
Vivissime erano state in Piemonte nella seconda metà del Settecento le
discussioni sull’utilità che potessero recare a uno Stato i governi
costituzionali o misti (così erano allora detti), e, come abbiamo narrato nel
volume Il nostro imminente risorgimento, non solo le opinioni erano state
divise, ma non erano anche mancate critiche sagaci alla costituzione
inglese, la quale già allora era da molti citata come modello. Il Di Breme,
persuaso che dopo le turbinose vicende politiche dell’ultimo
venticinquennio sia un formidabile errore il ritorno all’assolutismo, rivolge
di nuovo la mente alla costituzione inglese come a un esempio; ma, come
mostrano le sue lettere al Pellico e ad altri, non è restio dal prendere in
esame altre forme di costituzione, che si vengono ideando secondo le
condizioni e i bisogni di altri Stati.
Ciò che innanzi tutto gli importa è l’abbattimento dell’assolutismo:
perciò, nel 1820, a Torino, quantunque sia angosciato per la perdita tragica
del fratello Filippo ed egli stesso sia gravemente ammalato e già vicino alla
morte, cerca coloro che possono giovare alla nuova «prospettiva» politica,
alla quale egli intende cooperare, e parla e scrive per avviare il moto
costituzionale. L’impeto, con cui nelle sue lettere or bolla l’uno con
l’epiteto di vile («Grassi è un vile»), or loda un altro come un forte
(«perdiamo in Guasco un forte»), or esalta coloro che ardono per l’idea
(«Emanuele1 è sublime sempre»), viene da questa febbre di pensiero e
d’azione, che gli divora la vita. I vili sono coloro che, timorosi di esporre il
Regno di Sardegna a nuovo repentaglio dopo il pericolo mortale che aveva
corso durante la rivoluzione francese e durante l’impero napoleonico, si
assoggettano rassegnati all’assolutismo; i forti e i sublimi sono gli
ardimentosi, pronti a tutto rischiare pur di giungere a una forma di governo,
che, tutelando gl’interessi vitali dello Stato, sia garanzia delle libertà
individuali e consideri legge del vivere civile «la libera circolazione di
gente e di cose».
Queste erano le idee politiche, con cui egli due anni prima aveva a
Milano promosso e «stimolato» la pubblicazione del Conciliatore, quasi
come una scuola di mutuo insegnamento, portata in una sfera superiore,
quella delle idee, profittevole non solo ai lettori, ma ai collaboratori stessi.
Quel periodico, mentre col titolo e col programma si proponeva in realtà
la ricerca di una concordanza tra le antitesi, facendo opera di conciliazione
ideale e collaborazione sociale in tutti i campi, da quello letterario a quello
umanitario, in realtà era, politicamente, un foglio avverso alle forme di
governo assoluto prevalse dopo il crollo napoleonico, e i conciliatori erano
consapevoli che la circolazione di idee, nelle quali tutti potessero
consentire, avrebbe indebolito l’assolutismo, togliendogli appoggio
nell’opinione pubblica, e l’avrebbe fatto cadere. Diceva il Di Breme:
«Colleghiamoci innanzi tutto con l’intenzione di farci migliori… Al punto
in cui sono l’azione e la reazione delle cognizioni, non si giunge più a
edificare Stati solamente a braccia d’uomini né col suonare a stormo».
Questa direttiva fondamentale chiarisce pertanto sotto l’aspetto politico
anche le tendenze del Borsieri e del Berchet, che per necessità si mossero
per alcun tempo nell’ambito del governo austriaco, ma nell’animo erano da
esso staccati.
Il Borsieri, che aveva compiuto gli studi di diritto a Pavia, nel 1807,
ancora scolaro, era sorto a difendere Gian Domenico Romagnosi contro il
Guillon per il discorso, nel quale il maestro aveva ricercato Quale sia il
Governo più adatto a perfezionare la legislazione civile, designando quello
unitario, «diretto da uno solo, che non tolleri nello Stato classi privilegiate e
in faccia alla legge consideri ogni privato uguale a qualunque privato».
Questa massima romagnosiana era stata confermata nel Borsieri dagli
avvenimenti posteriori e in essa dev’essere cercato il caposaldo del pensiero
politico, a cui mentalmente si conciliano le idee esposte nelle Avventure
letterarie di un giorno.
Non romagnosiana, cioè non dottrinale, ma più propriamente emotiva,
letteraria e pratica, è la convinzione politica, che nell’intimo si inserta alla
trama della Lettera semiseria del Berchet, il quale non aveva compiuto
studi giuridici, ma nel periodo della maggior gloria napoleonica si era
contrapposto per senso di indipendenza alle lodi servili rivolte dal Monti al
despota nel Bardo della Selva Nera, aveva con intendimento non solo
letterario ma anche politico tradotto il Bardo di Tommaso Gray, in cui un
bardo non cortigiano maledice gli oppressori della sua terra ed esalta chi
opera per la libertà della patria, aveva in discussioni sulla musica dato
evidenza al modo di sentire italiano e considerato nell’arte principio vitale
la libera espressione dei sentimenti e degli affetti, non esclusa la «violenza
di emozioni», generata dalle passioni. Non solo per le idee sull’arte, ma
anche pel sentimento politico il Berchet non poteva non essere in definitiva
col Di Breme e con gli scrittori del Conciliatore. Il dolore appassionato e
travolgente, con cui poco più tardi inveì contro Carlo Alberto, che egli e
tutti i patrioti avevano riguardato come il principe che, dando uno Statuto,
avrebbe potuto condurre l’esercito piemontese a liberare la Lombardia e
costituire un regno veramente italiano, viene da questa profonda fede
politica, che era stata per lui «il raggio vermiglio d’italiana aurora».
Nel Conciliatore egli, nel medesimo tempo che insieme col Di Breme,
col Borsieri, col Romagnosi, col Pecchio, col Sismondi, col De Cristoforis,
con Ermes Visconti, col Ressi, col Serristori, col Confalonieri e con altri,
trattando degli argomenti più vari, cooperava a divulgar idee e a sommovere
la cultura comune, nell’intimo, come il suo Pellico, di cui più tardi diede
nella romanza Il romito del Cenisio un’immagine, che per l’affetto non
tramonta, era la poesia di una fede e insieme la fede nella poesia, perché in
questa aveva sempre veduto non soltanto una forma d’arte appartenente
all’estetica, ma una virtù lirica operante nella vita.
Che significato ha dunque il nome del Vico, che si legge nei tre manifesti
del 1816 e in altri scritti di quei romantici? Nel pronunziare quel nome,
volevano essi indicare genericamente soltanto un grande, che aveva
«pensato e scritto cose appartenenti all’estetica», o anche un grande che
nella storia del pensiero italiano aveva senso più vasto? Per quei romantici
egli era un pensatore dalle «mille ingegnose idee», formanti sistema; era un
veggente, che aveva letto nella «tela ideale su cui corrono i fatti», vale a
dire aveva disvelato il corso che segue la storia delle nazioni e il ritorno
delle medesime rivoluzioni, allorché le società distrutte risorgono dalle loro
rovine. In lui il Di Breme, il Borsieri, il Berchet trovavano la parola
«risorgimento» e con le speranze, per cui erano pronti a patire per la patria
decaduta e sventurata, la riempivano del loro animo. Questa è la risonanza
più vasta, che quel nome ha nel loro animo, anche quando lo citano soltanto
per un argomento che pare letterario (e spesso lo mettono primo innanzi a
tutti) o allorché lo intendono a mezzo o addirittura lo fraintendono.
Volevano che la Scienza nuova fosse letta, perché quella lettura conduceva a
capire che per i popoli prostrati può esservi risorgimento. Quel libro
moveva tutto lo spirito, portandolo a riflettere su tutti i suoi aspetti e sopra i
suoi sviluppi, dal senso al sentimento, dalla fantasia all’intelletto, dagli
istinti alla moralità, nella storia del genere umano. L’indagine del pensiero
vichiano, quand’anche non fosse accolta in tutto alla lettera o conducesse a
discussioni, dava lievito a nuove idee, vigore a nuovi pensieri.
In questo senso il Di Breme e gli altri romantici nella storia del
vichianismo italiano segnano un tramite fra le riflessioni particolari, che
dalla Scienza nuova avevano derivato i filopatridi, e la trasfigurazione
immaginosa, che del Vico fece il Gioberti, vedendo in lui il pensatore che
con volo metafisico aveva dato alla parola «risorgimento» un contenuto
vivificatore entro la trama ideale, su cui si sviluppa la storia delle nazioni
rispetto all’universale.
Si dica pure che quel vichianismo romantico finì col trasfigurare la
concezione dei corsi e ricorsi per motivi contingenti o empirici e che
soltanto per quella trasfigurazione «metafisica» il Gioberti nel Primato,
adducendo il pensiero vichiano nella formula protologica universale, potè
credere di integrare la Scienza nuova e di dimostrare che dal principio
universale dello scibile (Dio che si rivela) scende «la formula italica», cioè
quella del primato ideale italiano, perché l’Italia, «il Primo e l’Ultimo della
storia», per missione divina, s’immedesima con la formula protologica:
«L’Ente crea l’esistente». Questo contenuto religioso dato alla formula
italica, come a termine ideale nel quale si doveva credere per trovar la
pienezza del risorgimento, ha la sua giustificazione storica proprio nel fatto
che era romanticismo in atto, cioè opera di sentimento e fantasia più che di
argomentazione logica. In realtà quella trasfigurazione non fu tutta
empirismo, ma anche fede in quell’idea o in quel mito, che, prima del 1848,
agì in molte menti come un pensiero propulsivo, trasferendo la parola
«risorgimento» dalla sfera ideologica, in cui l’avevano adoperata e
divulgata gli scrittori piemontesi del Settecento e autori di altre regioni, a
una sfera italiana e universale, quasi sacra. Se è vero che la maggior opera
politica del Gioberti dev’essere intesa come il poema epico del primato
italiano, consono al travaglio potente di quell’ora, in cui la nazione voleva
mostrare al mondo l’alto suo diritto a risorgere, e che l’afflato religioso
conviene per natura all’epopea, è anche spiegabile che i romantici abbiano
ricevuto dalla Scienza nuova del Vico più un impulso creativo che uno
stimolo a mere indagini speculative.
La storia del vichianismo, riguardata nella sua duplice interpretazione,
trascendente e immanente, sia sotto l’aspetto della pura speculazione, sia
sotto quello delle deduzioni pratiche, non è senza un suo dramma
grandioso. Il Gioberti era così persuaso della trascendenza vichiana, che,
sebbene lodasse il Denina per aver nelle Rivoluzioni d’Italia, primissimo tra
i nostri storici (1769-1770), riguardato le regioni italiane singolarmente e
nel loro insieme, lamentava che avesse ignorato quella grande concezione,
la quale apriva la via a potenziare filosoficamente la storia della civiltà
italiana entro quella universale. In questa critica non solo dev’essere veduta
una contrapposizione metodologica di due modi di storiografia, quello che
mira a una narrazione coordinata e prospettica degli eventi e quello che
procede «a rigor di teorica», ma una delle antitesi più profonde tra
l’Ottocento romantico e il Settecento illuministico, giudicato utile, ma
insufficiente per le limitazioni del suo pensiero a condurre il popolo italiano
al risorgimento. Quest’antitesi, che il Di Breme, il Borsieri, il Berchet nel
1816 non riuscivano ancora a discriminare nel profondo, sebbene
proclamassero che i lumi della ragione non erano tutto l’uomo e che pel
risorgimento degl’italiani era necessario un nuovo impulso creativo,
dev’essere tenuta presente se si voglia comprendere come in Italia la
filosofia, la storiografia, la letteratura nella prima metà dell’Ottocento
cerchino manifestamente una loro originalità.
Il Borsieri afferrò più tardi in pieno l’antitesi delle due concezioni
proprio per opera della filosofia giobertiana, quantunque egli, che inclinava
alla filosofia scozzese e più propriamente a quella di Tommaso Reid,
rimanesse dubbioso innanzi al principio fondamentale della filosofia
giobertiana, «che tutta quant’è l’umana ragione non altro sia che una
rivelazione prima, fattasi nel linguaggio», e quindi esitasse ad accogliere
razionalmente le conclusioni estreme del Primato, che gli parevano
utopistiche. Sagace e arguta è sotto questo aspetto la lettera che egli il 17
novembre 1843, pel tramite di Federico Confalonieri, riuscì a trasmettere da
Milano al Gioberti, evitando la censura austriaca: «Gli Arconati sono testé
partiti per Genova, alla volta della Toscana e poscia per Napoli. Presso di
loro era un esemplare del Primato ch’io ho letto ed ammirato in infiniti
luoghi, insigni per verità, per bellezza, non di rado anche per sublimità di
concetto e per vastità di vedute. Non parlo dello stile, che è tutto un’aurea
dettatura. Ma colla schiettezza che io stimo mia quanto vostra, è mio debito
di non dissimularvi ch’io rimango grandemente sospeso infra due, circa la
verità dell’assunto fondamentale dell’opera. Comprendo benissimo ch’essa
in realtà, è, di prima intenzione, indirizzata ai Principi Italiani ed al Papa,
anziché al popolo; veggo che è la soluzione di un problema quasi disperato:
come migliorare la condizione dell’Italia, data la sua impotenza ad aiutarsi
da sé, e la nessuna fiducia che si deve porre nello straniero; e infine tengo
per molto che, se anche non riusciste nell’intento intrapreso, il vostro libro
diffonde tante verità preziose, atte a mettere radice nelle buone coscienze,
ed a far germogliare il primo germe di opinione nazionale, che è ben altra
cosa della così detta opinione del secolo od europea. Per altro rispetto, il
primato d’Italia, desunto dall’essere Roma il centro del Cattolicesimo, e la
felicità della penisola da acquistarsi mercé l’arbitrato del Papa sopra i suoi
Principi stretti in federazione, conseguono in buona parte da quella teoria
fondamentale, che tutta la ragione umana è rivelazione, e che il vero
religioso è principio e base di ogni vero filosofico. Io dunque riconosco che,
in forza della coscienza d’ogni scrittore il quale sia persuaso di aver
afferrato un vastissimo principio di verità, la vostra opinione sulle cose
d’Italia e sui destini di essa non doveva essere altra da quella che è. E se mi
è lecito accennare con uno scherzo ciò che sarebbe troppo lungo a spiegarvi
seriamente, dirò che sottoscriverei pienamente al vostro Primato, quando
fosse possibile per una volta, che Voi diventaste Papa, e che io fossi —
indegnamente — il vostro Segretario di Stato».
Il nodo del risorgimento, allorché si diffuse per tutta Italia il Primato,
stava adunque ancora, a giudizio del Borsieri, nel contrasto tra la ragione
teoretica e la ragione pratica, che da due generazioni invano si cercava di
sciogliere. Il Gioberti, in questa particolare questione, affidandosi al suo
principio che l’idea dell’essere è cognizione non di un principio astratto, ma
dello stesso essere reale, veduto nella sua attività creatrice, finiva col ridurre
la ragione sotto la categoria della fede e del sentimento, illudendosi di
restaurare l’unità dell’essere e del pensiero. Così aveva già fatto, con forze
speculative più limitate, il Di Breme, ogni volta che, nel veder l’incapacità
della ragione a passare per se stessa nelle questioni capitali a soluzioni in
atto, aveva sollevato il sentimento e la fede sulla ragione, e quindi l’attività
pratica su quella teoretica. Egli aveva imparato dalla filosofia di Tommaso
Valperga di Caluso esservi due modi di certezza: di ciò che è (l’Ente, Dio) e
delle cose che esistono (esistenti); ma non era giunto a superar
filosoficamente la dualità nell’idea protologica, che condusse il Gioberti a
concepir Il Primato come leva ideale del risorgimento. Egli si era ristretto a
parlare della necessità di una rigenerazione, ottenuta non solo per le vie del
pensiero, cioè per mezzo di più elevata e diffusa cultura, ma anche per
opera del sentimento religioso, della morale, della fede.
Alieno per natura dagli irrigidimenti dottrinali dei teologi, avverso a
molti mezzi e istituti, di cui temporalmente la Chiesa si era servita nella sua
storia (per es., all’Inquisizione, che in lui destava quasi orrore), propenso a
pensieri di riforma, che lo inducevano a sognar come mezzo di redenzione
civile e sociale un ritorno al cristianesimo primitivo, per cui la parola di
Cristo non fosse più strumento d’oppressione dei poveri per opera dei ricchi
e «un re onesto e credente capisse che un re cristiano non può essere
monarca», il Di Breme deplorava che il clero fosse rimasto testimone del
naufragio delle libertà. Ma teneva alla sua professione di fede, come alla
ragion prima che lo distingueva dalla gente senza principii. Scriveva a
Luisa Stolberg, contessa d’Albany, il 15 ottobre 1819: «Alla professione di
fede che faccio io stesso d’una religione, troppo poco filosofica a quel che
mi assicurano i savi dei giorni nostri [intendi: i filosofi, devo io il fatto di
non appartenere alla turba cinica che ammorba la nostra Italia. I teologi non
sono in vero dalla mia parte; i frammassoni nemmeno; ma la mia coscienza,
la mia coscienza, Signora, che nulla e nessuno giammai intimideranno, mi
consola degli anatemi degli uni e degli altri. Sì, io credo in Dio, nella sua
provvidenza, nella sua giustizia: questo mondo, i successi degli sciocchi e
dei cattivi, la mia propria esistenza votata da molto tempo a pene squisite e
profonde, tutto mi dà il diritto di far assegnamento sopra un’immortalità
futura. Il mistero delle mie afflizioni non può giustificarsi che con
isperanze; io ho ragione di non far più calcoli su compensi e risarcimenti
passeggeri. Io non mi accordo più che con destini superiori e con
consolazioni del più alto ordine».
Per consimili stati d’animo, com’è noto, passò anche il Gioberti e
anch’egli volse l’animo a una riforma della Chiesa. Ma il punto che
avvicina il Di Breme e il Gioberti non sta in condizioni d’animo fluttuanti
né in pensieri di riforma ecclesiastica, che in definitiva non potevano
collimare. Sta invece nell’intuito, che, come abbiamo messo in luce, essi
ebbero per la prassi ideale del risorgimento: nell’aver, cioè, creduto
religiosamente che l’uomo debba partecipare alla vita universale con spirito
creativo; sta nell’aver veduto la necessità vitale che la cultura non sia
soltanto di idee astratte, gelide e lontane, ma debba avere un carattere etico
e religioso, se in ogni tempo non voglia perdere la sua efficacia
rigeneratrice; sta nell’aver dato un impulso energetico, sia pure in misura
molto diversa, l’uno nel 1816, l’altro nel 1843, allo sviluppo creativo del
risorgimento.
Ludovico di Breme
Borsieri
LODOVICO GATTA, Pietro Borsieri, nel vol. «Milano e i nomi delle sue vie.
Personaggi illustri e benemeriti. Momenti storici», Milano, Fratelli
Bocca editori, 1897, pp. 499-500. Il volume contiene anche i profili
biografici del Berchet, del Pellico e di altri romantici.
FRANCESCO NOVATI, Stendhal e l’anima italiana, Milano, Cogliati, 1915,
con pagine e note importanti sul Borsieri e sul Di Breme (pp. 36-40; pp.
141-142).
PIERRE MARTINO, Notes stendhaliennes, in «Revue de littérature comparée»,
II, 1922.
BERNARDO SANVISENTI, Una lettera di Pietro Borsieri ed altra di Federico
Confalonieri, in «Archivio Storico Lombardo», A. LVIII, 1931.
TERESA GIRARDELLI, Pietro Borsieri patriota e letterato, Como, Emo
Cavalieri, 1934.
ANNIBALE ALBERTI, Inquisiti e condannati politici, in «Rass. stor. del
Risorg.», A. XXVI, n. VIII, 1939.
RENZO U. MONTINI, Lettere di Luigi Porro Lambertenghi a Pietro Borsieri,
ivi, XXXVII, 1950.
RENZO U. MONTINI, Vita americana di Pietro Borsieri, in «Rassegna storica
del Risorgimento», XLI, 1954, pp. 467-476.
EMILIO SIOLI LEGNANI, L’avvocato Carlo Guasco (il «jeune liberal» amico
di Stendhal) e Pietro Borsieri, in «Archivio storico lombardo», S. VIII,
vol. VI, 1956, pp. 331-335.
MARIA LUISA ORSINI LALLI, Pietro Borsieri tra martiri e letterati, Pescara,
ediz. Aternine, 1961.
GIUSEPPE ALIPRANDI, Pietro Borsieri giornalista, in «Atti e memorie
dell’Accademia patavina di scienze, lettere e arti», LXXIII, 1960-1961,
pp. 109-120; LXXIV, 1961-62, pp. 277-308.
GIUSEPPE STEFANI, I prigionieri dello Spielberg sulla via dell’esilio, Udine,
Del Bianco, 1963.
MARIO SCOTTI, Lettere inedite di Pietro Borsieri a Luigi e a Silvio Pellico,
in «Giornale storico della letter. ital.», CXLI, 1964, pp. 243-264.
PIETRO BORSIERI, Avventure letterarie di un giorno e altri scritti editi e
inediti, a cura di G. Alessandrini, prefaz. di C. Muscetta, Roma, ediz.
dell’Ateneo, 1967 (se ne vedano le recensioni di MARIO SCOTTI, in
«Giornale storico della letter. ital.», CXLV, 1968, pp. 137-142; di PIERO
CAMPORESI, in «Lettere italiane», XX, 1968, pp. 423-425).
MARIO SCOTTI, Pietro Borsieri, in Dizionario biografico degli Italiani, vol.
XIII, pp. 125-129, Roma, 1971.
WILLIAM SPAGGIARI, Giordani e Borsieri, in Pietro Giordani nel II
centenario della nascita, Piacenza, Cassa di Risparmio, 1974, pp. 73-
91.
Berchet
«Conciliatore»
a. Questo articolo è della celebre baronessa di Staël. La sua gentilezza si è compiaciuta di farne
dono ed onore alla Biblioteca Italiana: e noi nel dare la traduzione del nobile suo discorso
intendiamo di far cosa grata ad ogni lettore, e di render pubblica la nostra riconoscenza.
L’opuscolo, co’ tipi di Giovanni Pirotta, in-8 picc., di pag. 62, apparve
nella prima quindicina di giugno, 1816, a «Milano, presso Giovanni Pietro
Giegler, Libraio sulla Corsia de’ Servi, Num. 603».
Il Di Breme aveva da prima pensato di dedicare l’opuscolo a DIODATA
SALUZZO, come appare da una sua lettera da Milano del 27 maggio 1816,
pubblicata nel vol. Poesie postume di DIODATA SALUZZO CONTESSA ROERO
DI REVELLO, Aggiunte alcune lettere d’illustri scrittori a lei dirette, Torino,
Tip. Chirio e Mina, MDCCCXLIII, p. 569; ma, come deducesi da altra lettera
del Di Breme, ivi pubblicata a p. 573 (Milano, 12 giugno 1816), la Saluzzo,
pur ammirando la Staël, da cui era a sua volta «amata e stimata», e pur
consentendo alla ristampa dell’ode Le rovine, non accettò la dedica per
alcune «sue inquietudini» [intendi: per desiderio di non essere coinvolta in
polemiche letterarie], che il Di Breme stesso riconobbe «fondatissime».
L’opuscolo, come era prevedibile, aggiunse esca al fuoco, cioè alle
polemiche suscitate dall’articolo della Signora di Staël. La storia di quelle
controversie, come ho detto, può essere veduta nel libro di GUIDO MUONI,
Ludovico di Breme e le prime polemiche intorno a Madama di Staël ed al
romanticismo in Italia (1816).
A pag. 55-56 egli così riassume il suo pensiero: «Nelle Avventure
Letterarie il Borsieri diede un giudizio del Discorso del Di Breme, che pur
ritenendo d’amichevole simpatia può essere accettato anche da noi come
moderatissimo, giusto e rispondente a verità: — “Non poco rumore si
muove ancora contro l’autore di un Discorso sopra l’ingiustizia di alcuni
giudizi letterari italiani; ma quanto a me, credo che tutta la più severa
censura di quello scritto si possa ridurre a queste due cose: lo stile è bello
frequentemente, ma non però sempre eguale: e le opinioni dell’autore
essendo non comuni in Italia andavano preparate ed esposte con maggior
artificio”. — Questo appunto seppe poi fare il Berchet, incontrando miglior
fortuna e maggior plauso. Quanto a me, concludendo, poiché ad alcuno [G.
MAZZONI, Le origini del Romanticismo, in «Nuova Antologia», 1° ottobre
1893] piacque chiamare il Berchet, il Torti, l’Ermes Visconti ed il Manzoni
“gli Evangelisti del nostro Romanticismo”, continuando qual esso pur sia
codesto paragone, reclamo dalla giustizia della storia che a Ludovico di
Breme si conceda quell’appellativo che fu già del Battista, “il Precursore”;
che tale fu veramente, e non invano, con tutta la generosità disinteressata
del suo animo ardente».
È un’iperbole.
Basti qui riconoscere che fu primo in Italia nell’intendimento di definire
le tendenze e i fini della nuova letteratura, che si diceva romantica. Due
anni dopo la stampa del Discorso, nel 1818, il Di Breme, mentre già si
preparava la pubblicazione del Conciliatore, ringraziando Michele Leoni
per avergli mandato alcune sue traduzioni, così riguardava, nel complesso,
la questione:
«La Signoria Vostra ci dà di molti e gravi e belli suoi lavori, e non cessa
di arricchire la letteratura italiana colle più solenni traduzioni dall’inglese.
Che sia benedetta! L’orgoglio nazionale è un funesto affetto allorché si
propone di ignorare ciò che non si sa, e si sente, e si fa altrove. Noi (istrioni
di patriottismo e recitanti) la coscienza patriottica la serbammo tutta per le
cose in cui poco monta e poco influisce questo o quel sistema, e vogliamo
essere italiani nelle particelle, negli avverbi e negli arzigogoli. Nei costumi,
nella politica, nell’armi, nelle foggie non aspiriamo a nulla di veramente
nostro, e ci rassegnamo, con vergognosa prudenza e con vile disinvoltura, a
pazientare e a ricopiare l’altrui. Qual meraviglia poscia, se da tanta bassezza
emerga e provenga ignoranza e se da entrambe si diffonda così verde astio e
invidia così sfrontata contro i pochi, robusti ancora, e intemerati, e ingenui
nel loro fervore?
«Prima ch’io mi avventurassi in questa lizza sapevo bene con qual genia
mi era forza venire alle mani: nec spes me fefellit. Ma nei tempi corrotti è
dovere dei buoni lo stimare meno la propria e individuale dignità che l’utile
dei futuri: e ciò che sovratutto importa si è di non lasciar che il tempo e il
protratto silenzio prescrivano contro la verità. Bisogna mantener vivo il
grido della ragione e del cuore, onde non s’ammutoli l’una e l’altro per
disuso; e tramandarlo di bocca in bocca fino a quei nipoti, appo i quali è
destino che divenga poi voce universale e trionfante. Né io mi sarei pigliata
affatto siffatta briga letteratesca, se non credessi che all’unico vero sistema
letterario tien prossimamente dietro l’unico sistema intellettuale e morale
d’un popolo: e intanto mi appiglio alla sola opportunità che i tempi ne
acconsentono di combattere gli artifizi e il falso sapere.
«Se la Signoria Vostra Pregiatissima mi rende, come credo, leale
giustizia, le ha da essere dimostrato appieno ch’io non sono Romantico se
non in quanto la Romantica si trova legittimamente compresa nella vasta
sfera di quel dominio ch’è di tutta ragione della Poesia e delle Arti creatrici:
non già così ch’io riconosca non necessaria alternativa fra la Classica e la
Romantica: ché l’una e l’altra sono assurde denominazioni, e mal
costituirebbero per sé un genere e un sistema».
Il Di Breme con questa riflessione, a ragion veduta, modera l’impeto, con
cui in una nota del Discorso aveva detto «la Romantica un solenne genere
di letteratura», sebbene «si desiderasse tuttavia una più completa e meglio
definita Poetica di esso genere».
La polemica col Londonio, di cui ho parlato in altro libro, non era stata
inutile, quantunque il Di Breme, per risentimento, nella lettera al Leoni
giudicasse «melensa e sleale» l’Appendice ai «Cenni critici sulla poesia
romantica», che quel valentuomo (così noi oggi lo riteniamo) aveva poco
prima pubblicato (Milano, coi tipi di Giovanni Pirotta, 1818).
Con la riflessione centrale, che si legge nella lettera al Leoni, il Di Breme
si portava in una sfera superiore alle contese, sempre contingenti, e al
diverbio stesso col Londonio; nel medesimo tempo poneva nei giusti
termini la questione, riconoscendo che quel contrasto tra spirito classico e
spirito romantico aveva un particolare significato storico per le condizioni
nelle quali si trovavano allora la letteratura, la filosofia, la storiografia, la
politica per una trasformazione profonda degli animi e del modo di pensare.
Vedi la lettera del Di Breme a Michele Leoni nel saggio di PAOLO NEGRI,
Romanticismo piemontese, pubblicato nella rivista «La Cultura» del De
Lollis, cit.
Per la sdegnosa repulsa dell’umanesimo erudito e pedantesco, che il Di
Breme fa nel Discorso, cfr. AUGUST BUCK, Lodovico di Breme und die
literarische Tradition Italiens, «Romania», vol. I, Mainz, Florian
Kupferberg, 1948. Ma l’argomento deve essere considerato entro il
ripensamento critico che i nostri primi romantici fecero di tutta la nostra
letteratura e delle virtù libere e profonde dell’anima. Così la loro ostilità
all’Accademia della Crusca deve essere riguardata entro la loro concezione
linguistica.
Riguardo al nome proprio del polemista, che ora è «Lodovico», ora
«Ludovico», si avverta che da ultimo egli preferì la forma «Ludovico».
Breme è borgo della Lomellina, in provincia di Pavia, presso Sartirana,
dove gli Arborio Gattinara avevano i loro feudi. Perciò, in italiano, si deve
scrivere Breme e non Brême, alla francese. La storia dell’antica Abazia di
Breme è direttamente congiunta con quella della Novalesa.
Mio Padre1!
1. Diodata Saluzzo dei conti di Monesiglio nacque a Torino nel 1774, morì nel 1840; fu consorte
del conte Roero di Revello. Scrisse liriche, poemetti, novelle, tragedie (Erminia, Tullia), commedie,
ecc. Il suo maggior lavoro è Ipazia ovvero delle Filosofie, che ella disse poema e romanzo in versi,
apparso da prima nel 1827 e ripubblicato nel 1830. Ma oggi è sopra tutto ricordata per le liriche (vedi
le sue Poesie, apparse nel 1796, e in ristampa accresciuta nel 1802). Fu ammirata dal Cesarotti, dal
Parini, dal Monti, dal Denina, dal Foscolo, dal Lamartine, dal Manzoni, dai Balbo, dal Gioberti.
Scrisse di lei l’Alfieri: «Ha sempre molti tocchi d’affetto, ha sempre roba da dire e la dice con
eleganza di frase, proprietà di termini somma, e spesso anche originalità d’espressione: solamente,
sul totale, dovrebbe levar qualche volta, piuttosto che aggiungere, e farsi più breve». Di lei bene ha
detto Guido Mazzoni nell’Ottocento che nelle sue poesie «v’è quasi ogni sapore e colore dell’arte [a
lei] contemporanea» e che ella prenuncia qua e là, se non l’arte manzoniana, quella de’ nostri
romantici in genere, per ciò che ebbero di buono, specialmente quando piange il fratello Federigo,
mortole sotto Verona nel 1799, mentre combatteva tra la cavalleria piemontese unita a’ Francesi, e
nell’ode su Le rovine del castello di Saluzzo. Non fu però così «spiccatamente romantica» da non
poter essere anche «ammirata e attribuita a se stessi dai classicisti». In realtà ella erasi formata sopra
tutto su Dante e sul Tasso, e Ludovico di Breme, come ben osserva il Mazzoni, l’addusse a esempio
«per l’accordo felice tra il vecchio e il nuovo». Vedi la bibliografia che dà su di lei il Mazzoni, op.
cit., 1a ediz., 1913, pp. 1312-1313; e aggiungi lo studio di M. Simonis, apparso nella Rassegna
Nazion., 16 gennaio e 1° agosto 1909; L. Collino, Diodata Saluzzo Roero, Torino, Paravia, 1925; B.
Croce, La «Sibilla Alpina», in «Critica», A. XXV, 1927; G. Acutis, op. cit., pp. 49-82; Guido
Bustico, Glaucilla Eurotea e i Pastori della Dora, nella riv. «Torino», 1939, e in «Atti dell’Arcadia»,
1939-1940; Carmine Jannaco, Nuove lettere di Diodata Saluzzo e dei suoi, in «Convivium», 1940.
2. La Saluzzo poi corresse: «Ah! perché rapido Non diemmi il fato quella età la vita»?
3. Si avverta che il Medio Evo è detto «la Magna età».
4. La Saluzzo poi corresse: «Or soli a me».
5. Poi la poetessa a «vindici» sostituì «nobili».
6. Poi: scudiero.
7. Il verso fu poi dalla Saluzzo rifatto: «Fuggiam dalle fatali alte rovine».
8. L’omaggio resole, dal difensore della Staël, piacque alla Saluzzo, la quale nel settembre di
quell’anno stesso gli mandò una nuova edizione delle sue poesie con alcune varianti nel carme Le
rovine, quasi a mostrare il suo desiderio di togliere i «nèi», di cui egli aveva parlato. Il Di Breme vide
in queste correzioni una prova di «spirito» e di «gusto» e in una lettera del 24 settembre 1816, dopo
aver detto che ella poteva credere alla sua lode, poiché egli «più non sapeva che farsi di poesia
inefficace», così le dava notizia delle ire suscitate dal suo scritto polemico tra i pinzocheri della
mediocrità e del pedantismo. «La zuffa è finita per parte mia, dacché gli avversarli sono di quella
specie con cui non mi degnerò mai di scendere in lizza, e mi basta averli segnati con pochi tratti
d’inchiostro. Altronde l’abbaiar non è rispondere, non è distruggere le ragioni, non è giustificarsi. Le
semplicissime teoriche da me prodotte non sono che un commentario di quel tenore che siegue la
natura nell’ispirare gl’ingegni atti all’inspirazione; la cosa andò sempre così, e prima di combattere
con successo le pagine 37, 38, 39, 40, 41, 42 e 43 del mio scritto, credo che bisogna cancellarla dal
libro della natura. Là non si tratta né di Staël né di Goldoni, ma dell’eterno vero. Il libro di Borsieri,
Le avventure letterarie di un giorno, è un’altra dose di emetico, amministrata a questi stomachi pieni
di amara bile letteraria e vuoti di sugo nutritivo; vomitata che avranno tutta quella linfa amara, non
avranno più né fiato né voce; fra dieci anni sembrerà impossibile che una siffatta operetta non
riscuotesse universale applauso; intanto vi applaudiscono gli imparziali e i veggenti. Se uscisse una
discussione contraria alla dottrina che io tengo per sola genuina, ma una discussione sostanziosa e
forte per le cose, mi terrei onoratissimo di riprendere la penna; e vorrei quasi avermi da ricredere che
lo farei con leale pienezza di cuore, non fosse che per dare io il primo quest’esempio nella pettegola
repubblica letteraria italiana. Intanto mi vo immaginando che sia più conducente al successo delle
mie idee, il metterle in evidenza coi fatti, anziché con ulteriori discussioni. Nelle discussioni ci vuole
analisi, svolgimenti di cose astratte, deduzioni generali, in una parola ci vuole filosofia, e per la
filosofia non ci sono lettori nella miracolosa Italia… Ella mi perdoni queste chiacchiere; ella tanto
diversa dalle contemporanee ed uguali sue, è forza che mi perdoni; oppure con chi sfogherò l’animo
mio pieno di desiderii e di sincero amor d’Italia?». (Poesie post. della Saluzzo, cit., pp. 574-577)
DAL «GRAND COMMENTAIRE»
XIII.
Principes en discussion - Controverse - Tripots, etc. etc.
1. Sul Destutt de Tracy si veda la nota 6 a p. 107. L’opera del padre Francesco Soave che
confutava la dottrina del filosofo francese è la Memoria sopra il progetto di Elementi di Ideologia del
conte Destutt de Tracy («Atti dell’Istituto Nazionale Italiano», Bologna, 1809, tomo I, pp. 47-69).
Nel Discorso il Di Breme aveva dato ben altro giudizio del Soave: cfr. p. 109 e nota 2.
2. Natura naturans era il principio attivo, cui si contrapponeva la natura naturata, l’insieme degli
accadimenti, nella filosofia di Spinoza. Il Di Breme si serve di questi termini per contrapporre alla
dottrina estetica della imitazione della natura il concetto dell’arte come creazione dello spirito. Si
confronti quanto qui è detto con il passo del Discorso: «In vista dunque d’imitarla (la natura),
inalziamoci a gareggiar con le nella stessa creazione;…» (p. 132 del presente volume).
A questo punto il Di Breme aveva aggiunto la seguente nota: «J’ose croire de plus en plus qu’on a
tenu trop exclusivement à définir les beauxarts une science d’imitation. On a dès-lors implicitement
avancé que la musique est moins dans la nature, parce que le modèle n’en est nulle part et que la
facuité n’en existe que dans l’homme. Mais la nature a tout fait en nous douant de cette capacité
merveilleuse. Céleste et mystérieuse aptitude qui produit en nous un avant-goût d’une existence plus
épurée! source de jouissances aériennes qui dégagent l’ame de ses liens et la placent comme en
suspens entre le ciel et la terre, entre le temps et l’éternité! qui absorbent tous ses autres besoins: qui
enchantent jusqu’au sentiment de ses peines et rendent exquise la consciencemême de sa foiblesse…
sa destination est toute comprise dans le cercle de nos plus douces ou plus énergiques émotions. Elle
n’a point de modèle à imiter: l’homme lui seul en a recu le secret; seul il est envers soi-même le
dispensateur de cette insigne bienfait de la compatissante Divinité. Quelquefois la musique devient
une expression, un langage, en nous ramenant par l’imagination à de certaines situations, et en
reproduisant en nous quelques-uns de leurs effets: elle n’est imitative alors que par accident, et par la
grande loi de l’association des idées, elle nous rappelle, ou nous suggère des pensées, en produisant
des sensations. La qualité de langage n’est done tout au plus qu’un des moyens accessoires de cet art
divin. La nature de cet art est toute en nous».
3. «Le livre d’Helvétius est funeste parce qu’il travaille à devenir vrai de plus en plus. D’abord
cette doctrine persuade qu’il ne se fait pas de bien: en second lieu, elle persuade à celui qui le ferait,
que personne n’y croira plus. Il n’y a que le petit nombre de ceux qui forment réellement exception,
qui trouve en soi une force supérieure à ces découragemens. S’il y eut une histoire naturelle de ces
ames-là, comme les ames vulgaires ont leur histoire naturelle dans le livre d’Helvétius, leur livre à
elles auroit peu de gens qui le comprendroient. La morale crie sans cesse contre la plupart des choses
comme elles sont: or ce livre-là, qui n’est que l’exposé secret et honteux des choses comme elles
sont, ne peut rien contre la morale» (Nota del Di Breme). Il libro dell’Helvétius è De l’esprit, apparso
nel 1758. Sul filosofo francese si veda la nota 1 a p. 266.
4. «Le crime essentiellement anti-social c’est l’égoisme: per lui succombent les families et les
états. La prospérité et l’amélioration générale sont incompatibles avec ce vice; et tout homme qui en
est incorrigiblement atteint, diverge du but commun et devroit être inexorablement abandonné
derechef à la foiblesse et àl’indigence des moyens simplement individuels, puisqu’il refuse de se
coaliser d’intention avec ses semblables. La vertu, au contraire, ne se rencontre que sur le chemin de
ce renoncement à soi-même qui a pour objet l’utilité générale; enfin le véritable héroïsme ne peut
consister que dans le plus haut degré de ce mérite social. C’est done sur cette échelle qu’il faut
mesurer le grand homme. Tous ces héros militaires qu’on ne cesse de nous présenter comme les
merveilles de la nature humaine, ne sont que des insignes criminels, tant qu’ils n’ont eu que leurs
grands intérêts pour mobiles: tant qu’ils n’ont envisagé l’association des hommes que comme une
vaste réunion de moyens, d’instrumens, de spectateurs. Mais le premier tyran armé, nuisit beaucoup
moins à l’humanité, que ne le firent ses präneurs: ce furent ces lâches, qui achalandèrent, à l’envi et
de siècle en siècle, ce monstrueux genre de célébrité» (Nota del Di Breme).
5. Ralph Cudworth (1617-1688): filosofo e teologo anglicano, fu allievo e poi professore
nell’università di Cambridge. Tra le molte sue opere va ricordato il Sistema intellettuale dell’universo
contro gli atei, apparso nel 1678 a Londra, in inglese, e poi tradotto in latino nel 1733 da G.
Mosheim. Fu considerato il rappresentante della scuola platonica di Cambridge.
6. Pierre-Jean-Georges Cabanis (Cosnac 1757 - Rueil 1808) fu letterato, medico, filosofo. La sua
opera principale, Rapports du physique et du moral, apparve nelle «Memorie dell’Istituto di Francia»
nel 1798-99 (fu poi nel 1802 stampato a parte). Il Cabanis, pur sostenendo l’influenza della vita fisica
sulla psichica, non giunse a un determinismo materialistico. La postuma Lettera sullecause prime
(1824) mostra un orientamento in direzione metafisica.
7. Con il ginevrino Etienne Dumont (1759-1820) il Di Breme strinse amicizia a Coppet (cfr. L. DI
BREME, Lettere, cit., p. 354). Il Dumont fu segretario e collaboratore di Bentham, di cui curò
l’edizione delle opere.
8. Jean-Joseph Dessault (1769-1824) fu per trent’anni critico letterario del Journal des débats, ove
sostenne la posizione dei classici. I suoi articoli furono raccolti in 5 volumi: Annales litteraires, 1824.
9. Nell’Avvertissement alla Littérature du Midi de l’Europe, apparsa nel 1813, il Sismondi
dichiarava: ho tentato «d’apprécier le mérite réel de ces écrivains, de le faire goûter, en écartant les
préjugés nationaux qui pouvaient rendre insensibles aux charmes d’une poésie différente de la nôtre;
j’ai cherchè è remonter des règles conventionelles de chaque littérature aux règles fondamentales,
que lesentiment et le goût ont rendues communes è tous les hommes … j’ai surtout voulu montrer
partout la influence réciproque de l’histoire politique et religeusedes peuples sur leur littérature et de
leur littérature sur leur caractère: fairesentir le rapport des lois du juste et de l’honnête avec celle du
beau; la liaison enfin de la vertu et de la morale avec la sensibilité et l’imagination».
10. Allude alle Vorlesungen uber dramatische Kunst, tradotte in italiano dal Gherardini nel 1817,
l’anno del Grand Commentane. Si vedano le lezioni IX riguardante il teatro italiano e XVI
riguardante il teatro spagnuolo. Circa quanto il Di Breme dice sul modo di considerare la poesia
come espressione dell’intimità spirituale si tenga presente questo passo della I lez.: «La poesia,
riguardata sotto il punto di vista più esteso, come la facoltà di concepir l’idea del bello e di renderlo
sensibile, è un dono compartito a tutta l’umanità intiera; e que’medesimi popoli che noi chiamiamo
barbari e selvaggi, non sono per questo rispetto privati dal cielo dei suoi favori. Tutto dipende dalla
grandezza delle facoltà morali. Dov’ella si manifesta, non bisogna fermarsi al di fuori, tutto
debb’essere ridotto a’ più intimi sentimenti della nostr’anima, e ciò che scaturisce da questo fuoco,
ha un valore incontrastabile; ma allorché non esiste un seme di vita nel centro dell’opere dell’uomo,
può ben esserne regolare la forma, ma non ci ha organizzazione reale, né vi si può osservare una
germinazione ardita e vigorosa».
11. Si veda la nota 2 a p. 103.
12. «Madame de Staël, seule dans son sexe, dit M. Lacretelle l’aîné, a su se former un talent à
part, des inspirations de l’ame, et des richesses de l’esprit observateur» (Nota del Di Breme). Pierre-
Louis de Lacretelle (1751-1824) fu giurista e scrittore; legato dapprima agli Enciclopedisti, fu
deputato all’assemblea legislativa (1791), membro del Corpo legislativo sotto il direttorio (1801);
sotto Luigi XVIII passò all’opposizione liberale. I Fragments politiques et littéraires, da cui è tratta
la citazione del Di Breme, furono pubblicati nel 1817.
13. Del Genovesi si ricordino le opere: Elementa Metaphysicae, 1743-’52; Meditazioni filosofiche
sulla religione e sulla morale, 1758; Logica per li giovanetti, 1766. Gli altri napoletani — da
intendersi in senso lato, come fioriti, operanti a Napoli — sono probabilmente quei pensatori che
segnarono il risorgimento culturale della città nella seconda metà del XVII secolo, quali Tommaso
Cornelio, Leonardo di Capua, Giuseppe Valletta. Ma quello del Di Breme è un riferimento
approssimativo.
14. Julien-Louis Geoffroy (Rennes 1743 - Parigi 1814, dopo avere studiato in collegio dai Gesuiti
fu precettore in una casa privata, poi professore di retorica al collegio di Navarra e di eloquenza al
Mazarino. Avversario degli Enciclopedisti, specie del Voltaire, dovette fuggire all’avvento della
Rivoluzione. Ritornò all’insegnamento e al giornalismo dopo il 18 brumaio. Collaborò nel 1789
all’Ami du Roi e dal 1800 al Journal des Débats, ove si occupò principalmente di critica teatrale. Nel
1808 pubblicò un Commento sopra Racine in 7 volumi, opera ricca di erudizione classica, notevole
anche per le traduzioni da poeti latini e greci. I suoi articoli furono raccolti in 6 volumi, sotto il titolo
Cours de la littérature dramatique ou Recueil des feuilletons (Parigi, 1819-20).
15. Giorgio Baffo (Venezia 1694 - ivi 1768) è il noto poeta pornografo, che Apollinaire avrebbe
giudicato «le plus grand poète priapique qui ait jamais existé et en même temps l’un des poètes le
plus lyriques du XVIIe siècle» (L’oeuvre libertine des conteurs italiens, I, Paris, 1910). La prima
raccolta delle poesie del Baffo uscì nel 1771; l’edizione completa nel 1789 a Venezia, con falsa
datazione, in 4 volumi. Per ulteriori notizie si vedano: G. NATALI, Il Settecento, Milano, 19646, I pp.
556 e 582, II p. 212; B. GAMBA, Serie degli scritti impressi in dialetto veneziano, II ed., a cura di N.
Vianello, Venezia-Roma 1959, passim.
16. Si tratta dell’articolo Della maniera e dell’utilità delle traduzioni: lo si veda in questo vol. a
pp. 83-92.
17. Confine ou l’Italie apparve nella primavera del 1807. Per indicazioni bibliografiche
rimandiamo alla bella voce di Giuseppe Gabetti (Staël) in Enciclopedia Italiana.
18. «Il y a trois degrés d’ambition dans les ames humaines, dit le Chancelier d’Angleterre. Au
dernier rang on peut mettre ceux qui ne sont jaloux que d’étendre leur propre nom dans leur patrie,
genre d’ambition qui a quelque chose d’ignoble et de bas. Un peu au-dessus sont ceux qui aspirent à
étendre l’empire et la puissance de leur patrie sur les autres nations; genre de pretention un peu plus
noble sans doute, sans en être moins ambitieux. Mais s’il se trouve un mortel qui n’ait d’autre
ambition que celle d’étendre l’empire et la puissance du genre humain tout entier, sur l’immensité
des choses, cette ambition (si toutefois on doit lui donner ce nom), on conviendra qu’elle est plus
pure, plus noble et plus auguste que toutes les autres; or l’empire de l’homme sur les choses n’a autre
base que les arts et les sciences, car on ne peut commander à la nature qu’en lui obéissant.
(Traduction d’Antoine Lasalle)». - Nota del Di Breme.
19. Lo si veda in questo volume, pp. 99-147.
20. L’atteggiamento del Di Breme nei confronti del Monti è, come quello di altri romantici italiani,
oscillante tra l’ammirazione e le riserve: sfogliando le sue lettere è possibile cogliere la storia di
questo atteggiamento.
21. Per il giudizio sul Torquato Tasso del Goldoni si veda la nota 1 a p. 122.
22. «Tout en remerciant les compilateurs du “Mercure de France” de m’avoir fait i’honneur
d’admettre dans leur journal un article apologétique de ma brochure, je ne dissimulerai pas qu’une
note entre autres qu’ils y ont appliquée, comme correctif, m’a paru là étrangement déplacée, et ne pas
ressortir simplement du genre de critique qui caractérise ce journal. La note vient à l’occasion de ce
que j’ai dit qu’il est ridicule et absurde de fonder un systèrne de superstition scolastique sur les
beautés d’Homère et de Sophocle. On me passe bien cela, mais on replique, encore moins sur les
défauts de Shakespeare et de Caldéron; comme si par opposition aux beautés d’Homère et de
Sophocle j’eusse recommandé un eulte exclusif, je ne dis pas envers les défauts, mais envers les
beautés aussi des tragiques anglois et espagnols, ou de qui que ce soit: comme si mon discours
insinuoit rien de ressemblant à cette espèce de fanatisme, et comme si j’y eusse même nommé une
seule fois Caldéron. Que mon correcteur me permette done de lui restituer ses conseils de tolerance
qui tombent ici à faux, et dont je crois que mon discours auroit pu lui prouver la superfluité: ce n’est
pas que je prétendisse à l’honneur d’être lu de lui: mais devoit-il faire à propos d’un passage
évidemment irrépréhensible, une note qui suppose d’ailleurs et m’impute des doctrines folles? Au
reste, je n’en veux à personne: les rédacteurs de ce journal ont acquis plus que le droit de se faire
pardonner quelque inexactitude» (Nota del Di Breme).
23. Si vedano in questo volume le pp. 350-351.
24. La «Gazzetta di Milano».
25. Francesco Pezzi (Venezia 1781 - Milano 1831) fu redattore della «Gazzetta di Milano» dal
1815 al 1831.
26. Veneziano era appunto il Pezzi.
27. Sulla «Gazzetta di Milano» del 23 settembre 1816 apparve una Varietà anonima — ne era
autore il Pezzi — contro le Avventure letterarie di un giorno del Borsieri. I versi sono di Trussardo
Caleppio: si intitolano Le fiere e il moscerino e apparvero sul «Corriere delle dame» del 21 settembre
1816. Entrambi gli scritti si vedano in Discussioni e polemiche sul Romanticismo, a cura di E.
Bellorini, Bari 1943, vol. I, pp. 179-184.
28. «Jamais au spectateur n’offrez rien d’incroyable: | Le vrai peut quelquefois n’être pas
vraisemblable. | Une merveille absurde est pour moi sans appas: | L’esprit n’est point ému de ce qu’il
ne croit pas». BOILEAU, Art poetique, III, vv. 47-50. Cfr. ORAZIO, Ars poëtica, v. 338. «Ficta
voluptatis causa sint proxima veris».
29. «Je demande pardon aux lecteurs, de les avoir arrêtés sur ces images et ces bouffonneries si
fort audessous de la dignité des lettres; mais on avoit tant compté sur ce moyen, qu’il étoit bon de le
signaler et de faire observer l’usage auquel ces messieurs l’ont employé» (Nota del Di Breme).
30. Allude alla Lettera semiseria.
31. Il marchese di Posa è il personaggio del Don Carlos di Federico Schiller, che incarna un alto
ideale politico-umanitario; l’incontro di Maria e di Elisabetta avviene nella scena IV dell’atto III
della Maria Stuarda; la morte di Maria è rappresentata nelle scene VIII-X della stessa tragedia.
32. Il dramma di G. E. Lessing.
33. Allude alla tragedia Eufemio. Di questo giudizio del Di Breme il Pellico dava notizia al fratello
Luigi in una lettera del 7 luglio 1817: «Lodovico giudica col massimo favore questa tragedia; non
gliel’ho ancora ritolta dalle mani, perch’egli ha promesso di farmene una critica accurata in iscritto,
promessa che non adempî subitamente per la premura che lo incalzava di finire il suo libro francese
(appunto il Grand Commentane)» (S. PELLICO, Lettere milanesi, cit., p. 94).
NOTE D1
1. Questa nota D fu pubblicata dal Calcaterra nel volume, da lui curato, delle Polemiche di
Ludovico Di Breme (Torino, 1923), pp. 63-77. La nota che segue è tratta da quella edizione.
«Accosta queste pagine all’Ouvrage de grammaire dello Stendhal, posteriore d’un anno e intitolato
Dei pericoli della lingua italiana, ove parlasi pure dello “stile, figlio dell’anima”, della necessità di
“una grammatica filosofica”, la quale sia “la scienza generale delle espressioni, delle idee”, “l’arte di
ben esprimere le proprie idee in italiano”. — Nello scritto dello Stendhal parlasi pure della Proposta
del Monti, della lingua del Botta e di altri argomenti toccati dal Di Breme. Avverti però che tra il
pensiero del Di Breme e quello dello Stendhal, che considera la lingua come “una convenzione”, vi è
dissenso; cosî in questioni particolari. Vedi PIERRE MARTINO, L’“Ouvrage de Grammaire” de
Stendhal (1818) nel Giornale Storico della Lett. Ital., 1923, vol. LXXXII, pp. 113-156. Nello scritto
introduttivo del Martino leggonsi pure accenni al Londonio e al Pellico, al quale lo Stendhal fece
conoscere il suo tentativo».
2. È una pagina degli Essais de philosophie ou étude de l’esprit humain di PIERRE PRÉVOST
(Genève, Paschoud, a. XIII [1804], t. I, pp. 141-142).
OSSERVAZIONI SU «IL GIAURRO»
So bene che l’accademia della Crusca per l’organo del suo abbominevole
Salviati27, rappresentante immortale della Pedanteria in persona e di chi
bestemmia ed insulta ciò che non intende; l’accademia della Crusca non
contenta di avere esaltato il Morgante sopra la Gerusalemme, si condusse a
tanto eccesso di attribuire all’Italia maggior gloria e vanto dall’aver
prodotto il Berni che non il Petrarca. So ch’ebbe a dire il Gravina, a coloro
che gli stessi affetti in sé non riconoscono, quelle del Petrarca sembrano
invenzioni più sottili che vere, ed esagerazioni pompose più che naturali, e
particolarmente ai fisici e democritici, onde per sua gloria questo secolo
felicemente abbonda28. So finalmente che in tutte le età molti Italiani si
mostrarono intensissimamente stizzosi, e collegaronsi contra tutto ciò che
nella poesia sa di nobilmente patetico, di mero ideale, e di quel voluttuoso
che non è pretta sensualità ma non perciò potrò credere giammai che i così
pensanti fossero già, né sieno i più, né il meglio degl’Italiani, e un
obbrobrio sarebbe il dar vinta la causa a questi animi svaporati, a questi
cuori irrigiditi, a questi fringuelli della letteratura.
No, non crederemo giammai, che ove mai venisse ad allignare in Italia
un’altra volta qualche buon tralcio di vigorosa poesia contemplativa e di
purissimo ideale, dovesse andar perduta ogni di lei propria gloria ed
infoscarsene gl’ingegni, e rattristarsene i cuori, e insomma spegnersene il
più alto suo pregio; quasi il pregio e la felicità dell’ingegno italiano
consistessero negli amori boccaccieschi e bernieschi; nell’atticismo dei
Florindi e dei Leli; in quella specie di giovialità e di galloria, a cui andiamo
debitori dei leggiadri canti Carnascialeschi, degli onesti Capitoli, delle
argute Cicalate, ec., ec. — Non t’è avvenuto mai, o lettore, di vedere in
paesi forestieri gli ospiti tuoi ora esaltarsi ed ora intenerirsi al nome solo
dell’Italia; invaghiti nella immaginazione, del suo bel sole, del fiorito suo
terreno, del genio pittorico e musicale che le si concede ancora, non meno
che dell’estro poetico, della vicendevole nostra benevolenza, e degli animi
gentili ed amorosi che figuravansi palpitassero qui tuttavia fra cotante
prerogative della natura? Non hai tu osservato come dalla scena
argomentano essi degli attori? Oh! tu allora sarai stato ridotto a dire fra te
stesso: «Noi invece deridiamo freddamente la patetica indole del forestiere,
che ne presta pure tanti pregi, e ci nobilita cotanto sopra ciò che in verità
noi siamo; insultiamo alla squisita sensibilità dei settentrionali, non volendo
riconoscere che il ghiaccio onde sono circondati, sta veramente in ragione
inversa degli animi loro, e che lo stesso si potrà oramai dire per avventura
del fervid’aere in cui respirano gli Italiani».
Milord Byron dà principio al suo Giaurro (a) così:
L’aer taceva, e il mar co’ venti in pace
Lambiva umile il pie del sacro avello
U’ del Grande d’Atene29 il cener giace.
Dalla rupe in che appar splendente e bello
Par ch’ei primo saluti il buon nocchiero
Che rivolge la nave al dolce ostello.
Byron ha contemperato in questa, non meno che in varie altre sue poesie,
i più efficaci prestigi orientali. Spira dal suo carme un voluttuoso e inebbri
ante olezzo, che invade, per così dire, la fantasia, e te la fa nuotare in quel
beato letargo nel quale immersi, quei molli turbantati aspettano
pazientemente di salire in grembo alle loro Houris33. Dalla Persia è venuta
un’amabile novella che racconta degli amori dell’usignuolo colla rosa.
Byron non se l’è lasciata fuggire.
Che là sul colle e in seno al praticello
Dell’usignuol discopri la signora34,
Quella per cui l’innamorato augello
Fa la sua risonar voce canora;
E del suo vago al canto un verginale
Rossor la donna de’ bei fior colora.
Lontana là dal verno occidentale,
Da freddi venti, da gelata brina,
E blandita da zefiro vitale
La dei giardin, dell’usignuol regina
Il profumo che a lei natura diede
Ne’ suoi calici accoglie, e sì lo affina,
Che in più soave incenso al ciel poi riede.
Oh quanta i suoi sospir spargon fragranza!
* Tutte le note chiuse tra virgolette sono del Calcaterra e appartengono al volume L. DI BREME,
Polemiche, Torino, 1923.
a. Il testo inglese ha «The Giaour» e Giaour o Dgiaour è parola colla quale i Turchi denotano in
modo ingiurioso colui che non professa la religione di Maometto, e più specialmente un Cristiano.
[Nota del Trad.].
Di Atene, dice lord Byron in una nota, è signore il Kislar Agà (schiavo
del serraglio e guardiano delle donne) il quale vi manda un Vaivoda. R…..
ed eunuco sono nomi indecenti, pure sono i titoli veri di colui che oggi
governa il governatore di Atene.
….. Lamentar non voglio
Con più carmi i lor guai: ma ben vogl’io
Tale un’istoria raccontar di pianto,
Che l’uditor dal suo fia che misuri
L’alto dolor di chi l’udìa primiero.
Qua nel poema è simulata una lacuna, e pare che i punti che stanno in
vece di parole, dicano: «Avrei ora da raccontarti ogni cosa da principio; ma
non trastullarti, commoverti voglio, e interessarti vivamente alle persone e
ai fatti poetici, cui diedero luogo i loro caratteri e le vicendevoli loro
relazioni: questi fatti sbrameranno di per sé, tanto della tua curiosità, quanto
basti all’effetto, e ciò basta a me». Questo è il tacito sì, ma pur veridico e
reale discorso di lord Byron. Che se vogliamo uscire dalla favola, allora le
lacune diventano arte, e allora quegli stessi punti dicono invece «Ecco i soli
frammenti salvati d’un racconto che fu già completo: se ne avessi di più, di
più te ne darei; leggili se vuoi quali avanzano, e fa prova intanto se forse ciò
che manca, e ti è forza in qualche modo supplire da per te, non accresce per
avventura un misterioso piacere a ciò che resta, e non cospira efficacemente
a scuoterti e ad invaderti».
I grandi ingegni concepiscono indipendentemente da chicchessia.
Vengono poi gli Aristoteli, vengono i Quintiliani, e vengono tutti i
pappagalli loro, i quali confondendo insieme ciò ch’è regola invariabile di
bello ed elemento semplicissimo di composizione, colle mille industrie
variabili e particolari presso un tale o un tal altro poeta, v’impongono di
attenervi sempre a quelle precise norme. Se questo espediente delle lacune
fosse stato artifizialmente adoperato da Omero, certo non vi sarebbe poema
epico al dì d’oggi in cui non si vedessero a luogo a luogo introdotte, e
udremmo bandire la più fiera crociata contra quei poemi romantici, che
mostrassero, per i primi, esempi di transizioni.
Un cristiano (il Giaurro) uomo di tempre straordinarie, e invaso da tali
appassionamenti che ci daranno or ora materia d’alcuni riflessi poetico-
morali, ha sedotto Leila nell’Harem di Hassan dopo averle ispirato un
amore eguale al suo per lei. Hassan ha fatto affogare Leila nelle acque. Il
Giaurro, sitibondo di vendetta, se la compiace nel sangue di Hassan. Il
cordoglio, la disperazione, i rimorsi della intera vita, lo in seguono in un
monastero: ei vi spira nell’amore di Leila, nello sdegno di sé stesso e nella
impenitenza. Ecco tutto il soggetto della novella; ora ne seguiremo a parte a
parte gli andamenti.
Arriva giù per la sponda il Giaurro su d’un velocissimo destriero morello,
e lunghesso il mar trascorre, e su e giù via per i seni praticabili del monte or
lo vedi, or lo senti, e poi ti ricomparisce ec.: non fuggirebbe altrimenti chi
avesse le furie coi flagelli in groppa, o forse un reo disperato, affetto di
sonnambulismo. Un marinaro turco è sul suo passaggio, e dice
Chi è colui che fulminando viene
Sovra negro corsiero, a tutta briglia,
E col tallone incitator? Al suono
Delle ferrate scalpitanti zampe
L’eco introna le grotte, e scoppio a scoppio
Della sferza fischiante, e salto a salto,
I spessi colpi ripetendo, oppone.
. . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . .
….. del nembo che discende
Forier di negro tempestoso die
Men tranquillo è il tuo cor, giovin Giaurro.
Te non conosco, e la tua razza abborro:
Ma un non so che nel tuo viso discopro,
Cui rinforzar, non cancellar, può il tempo.
Pallido e giovin sei, ma il terreo volto
Già ti sformar con lor tremenda lotta
I più feroci affetti. Al suolo inchini
Quel tuo sguardo, sinistro sì, ch’errante
Procelloso vapor sembri fuggendo.
Pur ti vegg’io… sei tal che d’ottomani
Dovrian cansarti o trucidarti i figli.
. . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . .
Volteggiando sparì, — ma prima un truce
Sguardo avventò — parea l’estremo — Il rapido
Destrier sostenne un sol momento — Cheti
Fur gli sproni un istante — e in sulle staffe
In quel punto rizzossi, un sol momento. —
Oh perché nel rizzarsi i lumi ei spinse
Di là dall’oliveto? — la crescente
Luna spunta dal monte e sull’eccelsa
Moschea le fiamme tremolanti io scorgo.
. . . . . . . . . . . .
….. in questa sera istessa
Corcato il sol del Ramazano — in questa —
Dato al Bairam20 principio — in questa sera —
Oh! Chi sei, e che se’ tu che straniero
Hai vestimento e spaventoso ciglio?
. . . . . . . . . . . .
….. Ei stette — al volto —
Affacciossi il terror, ma cesse il loco
Tosto alla rabbia…..
. . . . . . . . . . . .
Avea curva la fronte — e vitrei gli occhi:
Levò il suo braccio fieramente, e scosse
La mano in guisa che dubbiar parea
S’ei fuggisse o tornasse — Intollerante
Della frenata corsa il negro ardente
Destrier dié un gran nitrito — al Cavaliero
Calar la mano ed abbrancar l’acciaro
Fu un punto sol — quel suon dal suo lo scosse
Sognar vegliando…..
. . . . . . . . . . . .
Lo spron nei fianchi del cavallo ei ficca —
A slascio a slascio21 dalla morte ei fugge
Qual fischiante giarriddo22 rapidissimo
. . . . . . . . . . . .
Fu un sol momento — un sol — del velocissimo
Arabo corridor con tesa briglia
Frenar il corso, un attimo posarsi,
E a gran furia fuggir, quasi alle spalle
Morte il premesse. Ma nel breve istante
Parve che il cuor con agghiacciata mano
Gli stringesse memoria, e mille orrendi
Spettri inviasse ad infoscargli l’alma:
Sì ch’un’intera di misfatti etade
E una vita d’angosce in quel di tempo
Attimo si rinchiuse…..
….. Oh chi potrebbe
Di quella pausa in ch’ei sul proprio fato
Richiamava il pensier, la spaventosa
Lunghezza misurar? pel tempo un punto:
Per l’alma è un’alta eternità…..
. . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . .
L’ora è trascorsa, e l’infedel disparve,
Fugge, o cade egli sol? Infausto il giorno
In ch’ei venne o fuggì! Trascorse Hassano
A tal peccato che dal Ciel discesa
Sul capo suo maledizion tremenda
Il suo nobil palagio in cieca tomba
Volse.
La scena fin qua descritta ebbe luogo in quel giorno e in quei momenti
nei quali il giovine Giaurro tornava indietro dall’aver consumato un qualche
suo ben atroce, o per lo meno ben temerario delitto. Volontieri mi sono
diffuso nelle citazioni, e copiosi tratti ho recato sì per tributare al signor
Rossi il più imparziale e legittimo encomio a lui dovuto, facendo gustare al
lettore il suo verseggiare, e sì per dare al medesimo lettore una giusta idea
del carattere poetico, e dell’avviamento storico di questa composizione.
Ad un tratto il poeta inglese interrompe l’ordine e l’andatura naturale del
racconto, e riportandoti al tempo presente, vuole che, prima di conoscere gli
avvenimenti e di riprenderne il filo, tu conosca la traccia ch’essi hanno
lasciato di sé in quei paesi e l’attuale misera situazione della casa e della
famiglia di Hassano.
Di simili, non già licenze, ma bensì calcolate e risolute norme vuole
usare, e usa con successo, la poesia moderna. Osserviamo di volo s’ella sia
da tacciare, così facendo, di bizzarria e di sregolata innovazione La filosofia
teorica delle arti e delle lettere non si può attribuire altre parti fuorché di
rintracciare le cagioni per cui tali o tali altri effetti si producano
infallibilmente nell’animo. Ella è cosa riconosciuta che la poesia, così detta
romantica, a quelli è più gradita che cercano di essere più internamente
commossi nel pensiero e negli affetti, mentre invece alla così detta classica
sorridono di preferenza le persone (quelle soltanto intendo che vi si
attengono di buona fede, e non per plagiare altrui) che amano di ritrovare
negli scritti moderni le consuetudini onde furono imbevute. Entrambi questi
gusti hanno un qualche loro incontrastabile perché nella Natura; ma,
intendiamoci bene, nella natura più o meno viziata, o più o meno robusta. I
romantici, dicono quegli altri, non hanno sistema nessuno, e vanno e
vengono su e giù per li tempi capricciosamente, e chiamano libertà
l’anarchia. — Anzi, rispondono essi, così facciamo per seguir più
fedelmente una essenzialissima e vasta legge di natura, la quale, quando si
tratti di produrre dei grandi effetti per lo svolgimento delle passioni, vuole
che si stia attenti alla genesi loro progressiva, e alla serie loro crescente, non
alla serie fortuita e accidentale del tempo, né alla successione delle ore in
cui accadono le cose. I precettisti si sono arrogati di decidere che non si può
far poema storico, né trattar epopea se non di cose e persone lontane da noi
di tempo, o almeno lontanissime di luogo. E ti dicono, cavandosi la beretta:
Maior e longinquo reverentia. Precetto ridicolo e materiale finché non si
svolga nelle sue ragioni intime, e il quale non è vero che in certi casi, ed
anche in quei casi non è già vero in sé stesso, ma bensì come applicazione
d’un principio e d’un precetto più generale; ora il precetto generale è
cotesto: che vogliono essere fatti argomenti di poesia a preferenza d’altri,
quei soggetti che contrastino sensibilmente coi presenti affetti e colle cose,
e coi sentimenti de’ quali abbiamo già contratto abitudine; e perché l’una
delle gran suste onde si prevale la Natura a variare le cagioni degli affetti è
il tempo; perché il tempo è il gran ministro delle alterazioni e delle
variazioni umane, perciò il contrasto (in cui sta essenzialmente riposta la
legge poetica), nell’ordine consueto delle cose, è più sensibile, più forte, fra
le due estremità d’un lungo, che d’un breve intervallo di tempo; ed ecco
come anche in questo caso i signori precettisti, vuoti d’ogni filosofia, han
fatto divenir legge generale l’uno dei casi e degli accidenti in cui questa
legge si verifica. Diffatti se il tempo affretti talvolta la fuga sua, e acceleri il
ruotare e il succedersi delle cose (come avvenne a cagione d’esempio nella
rivoluzione francese), sì che in poco giro produca grandissime variazioni di
costumi umani, cresce a dismisura la convenienza di celebrarli
poeticamente, di che fece prova il nostro illustre Monti nella sua
Basvilliana; ed io m’immagino che nulla sarebbe mancato all’effetto di un
poema sopra il diluvio universale, se, dopo uscito dall’arca, Noè avesse
potuto raccontare a una numerosa recente generazione di ascoltatori le cose
che precedettero quella tremenda catastrofe, e i peccati umani, e gli sdegni
divini che ne furono cagioni. Non credo che avrebbe tampoco mancato a
quella augusta prosopopea né il venerando, né il misterioso che hanno per
noi le cose antiche, e che in fondo altro poi non è fuor che un effetto
inosservato del dubbio e dell’incertezza in cui sono più o meno ravvolti
ancora quei racconti. Byron ha dunque tutte le ragioni di far qui precedere
nell’ordine poetico ciò che materialmente siegue nell’ordine temporario;
giacché le variazioni prodotrate nel palagio di Hassan furono tali che un
forte contrasto d’affetti ne può risultare, e che per mezzo del contrasto di
sentimenti si rendono poetiche anche le cose contemporanee, e poetiche
divengono per mezzo di siffatte inversioni e anticipazioni le cose per sé
meramente storiche.
….. Nell’Harem il nido
Fabbrica il pipistrello; e il gufo usurpa
Nei castelli d’Hassan l’eccelsa torre
Dei segnali …..
. . . . . . . . . . . .
….. più voce umana
Là non s’udrà — di duol — d’ira — di gaudio —
Fumo fieri di donne urli funebri
L’estreme voci che rapinne il vento —
Poi orrendo un silenzio — il tutto è cheto
Fuor quando de’ veron le aperte imposte
Sbatte l’aria fischiante; e non fia ch’esca
Braccio a serrarle…..
. . . . . . . . . . . .
….. il poverello
Inosservato, e il non curante ricco
Trapassan, poi che con Hassan sul monte
Morir pietate e cortesia — Rifugio
Ogni uomo un tempo; or, nel suo tetto han tana
La rea Fame e lo Scempio.
Il barcaiuolo racconta che un Emir gli apparve alla testa d’un drappello:
veniano reggendo un peso di cui dimostravano pure gran cura: entrarono
nella di lui barca, gliela fecero scostare dal lido
Piombò con sordo tonfo e lentamente
Sommergendo abbassavasi; la cheta
Onda, turbata, diffilossi al lito
Con rocco mormorio.
Ma che cosa mai avrà egli fin qua sentito e detto di quello sfrenato e
spaventoso Giaurro, il lettore? Non si può negare che molti fra i poeti
romantici, e lord Byron più costantemente, prendano di frequente a volerci
interessare per de’ tremendi scellerati; non già che la scelleraggine per sé
stessa, e poeticamente ve gli adeschi: ma vanno in cerca di occasioni onde
tratteggiare le profondità del cuore umano, né v’è giammai tanta
opportunità di misurarle come in quegli animi che si spalancarono già a
tutte le possibili sensazioni e presentano poi l’aspetto d’una devastata
regione, in cui ruggente s’aggira e cupo il rimorso. Però è dovere che si
distingua fra lo scellerato poetico ed il volgare. Dannosi di tali persone, la
cui reità è pur troppo irrecusabile, ma soltanto relativamente alle leggi e alle
condizioni sociali. Ci ha invece di molti animi, perversi essenzialmente, e
assolutamente tristi e maligni, i quali per lo più sanno mostrarsi
irreprensibili, e si contengono cauti e guardinghi sempre, nei termini delle
leggi e delle morali formalità. Ora i primi soltanto possono interessare
tuttavia nei loro eccessi, perché, a fianco delle stesse continue trasgressioni,
scorgete ogni tratto nella vita loro tali azioni e tali movimenti che
oltrepassano in generosità i comuni doveri e le vicendevoli obbligazioni.
Antipoetica bensì è quella scelleraggine che ha per solo scopo l’utile
personale e il profitto d’ogni momento nella vita: ella è bassa, triviale e più
vergognosa della stessa forca su cui è fatta espiare talvolta; ma che diremo
altresì di quella virtù sociale, che prende pure di mira il proprio benessere
quotidiano e una comoda vita, combinata colla più felice prospettiva
nell’avvenire? Diremo ch’ella è ragionevole, prudente e utile bensì alla
repubblica dei coesistenti; ma per verità niente più suscettiva di venir
celebrata ed innalzata agli onori della poesia. Chè se mi date o un uomo
spinto al grandioso ideale della virtù, al vagheggiamento d’essa in sé
medesima, e per esempio all’eroismo dei consigli evangelici; o un uomo
invece che aspiri al più forte, al più profondo, e al più arduo delle passioni,
non al più sicuro e comodo, esisterà nel primo caso un santo, nel secondo
un facinoroso, degni ed acconci argomenti entrambi di poetica concitazione.
E per verità quelli sono i soli animi che come Lucifero e come Paolo
apostolo vediamo alcuna volta trasformarsi dall’uno nell’altro, e mostrar
sempre del grandioso. I malvagi da lord Byron dipinti sono per lo più una
certa razza di Satani che serbano, come presso Milton, molte fattezze d’un
primo nobilissimo carattere, e nati si ravvisano a splendidi destini. Siffatti
animi prestano fra tutti la più poetica opportunità di svolgere, quant’ella è,
la tela della coscienza, e di sviluppare l’intricato avvolgimento degli affetti,
ond’uomo è suscettivo. Qua la poesia romantica si trova nella sua provincia
prediletta, e nissuno ci vorrà negare che non sia giunta quell’epoca, in cui
molto si sopravanza l’antichità in fatto di cognizioni del cuore umano.
Gli accidenti individuali, storici e locali che si osservano nel carattere del
Giaurro, altro non sono fuorché modificazioni legittime d’una tal indole,
quale potrebbe appartenere sostanzialmente a tutti i paesi e a tutti i tempi. I
Capanei25, i Don Giovanni26, i Falstaff27, i Lovelace28, i Clavijo29, i
Faust30, i Valmont31, rappresentano forse un solo e istesso concetto ideale,
ma variato e quale la poesia romantica vuole che si modifichi, secondo la
forza o la fiacchezza de’ tempi, a tenore dell’indole festiva o cupa; dei climi
sensuali o vigorosi e rigidi; delle diverse civilizzazioni elementari, medie, o
raffinate. Pare che la fantasia italiana non essendosi creato un prototipo
ideale di libertinaggio, adottasse fin qui di preferenza il Don Giovanni
Tenorio degli Spagnuoli, in quelle sceniche rappresentazioni suscettive,
oltre la tragedia, di esaltazione poetica; tali sono i drammi in musica,
giacché la commedia, come la vogliono intendere quelli che giurano nel
nome di Aristofane e di Plauto, e che mostrano di sentir poco Terenzio, non
è tanto robusta da comportar nulla d’ideale. Perciò dunque in Italia il Don
Giovanni è gradito sulle scene, perch’egli è molto conforme da un canto
all’umore degl’Italiani, e a certa indole nostra d’immaginazioni, e che,
d’altronde, nulla vi si conosce di più risplendente in fatto di scapestraggine.
I libertini del bel mondo pigliano, l’uno ad esempio dell’altro, le norme loro
dalla moda: la moda è una frivola inflessione dell’animo, un volgare
artifizio d’imitazione, non è mai cosa per sé poetica, e nulla v’ha di meno
efficace a esaltare l’immaginazione nei nostri paesi, che quei
volgarizzamenti pratici dei Lovelace e dei Valmont, e tutto quel lusso di
libidini forestiere. È osservabile davvero la mancanza di un siffatto ente
ideale in Italia, e non è lieve a spiegarsi, trattandosi di quella regione in cui
le passioni veggonsi spinte in tutti i secoli a quel grado di sfrenatezza e di
veemenza che disgrada gli eccessi antichi, e degli altri popoli, e
sposandovisi elleno, per colmo di elemento poetico, assai più naturalmente
o alla superstizione, o all’empietà e al sacrilegio, che non all’ateismo; il più
antipoetico fra tutti gli stati dell’animo.
Grande è veramente lord Byron nell’ideare individui di questa specie, e
mirabilmente egli ne congegna le situazonid. Forti oltremodo, spaventevoli,
eppure tenerissime di frequente sono, e pressoché sempre solenni e grandi
le impressioni di cui ti percuote. Egli è il gran pittore delle più riposte scene
dell’animo: ei ne sorprende sul fatto i più intimi arcani: egli rivela tutti i
misteri del dolore e della interna devastazione, tutti gli atteggiamenti del
rimorso, e le prove e riprove ch’esso fa indarno nell’animo prima di
confessarsi per quello ch’egli è, e prima di vociferare disperatamente io
sono il rimorso. Ma vedesti mai, più nobili talvolta, più disinteressati
appassionamenti, e più gentili, ad un tempo stesso che feroci? — Quel
Corrado32, quel fierissimo Corsaro «sulle cui labbra sdegnose stava il
sorriso di Satano, al cui sguardo irato ti svaniva dal cuore ogni speranza, e
un ultimo addio ti dava la pietà, quegli stesso nudriva in sé il più delicato, il
più costante, il più dolce dei sensi. Un tal senso che lo consolava delle vane
speranze, dei disegni andati a vuoto, e delle imprese mal riuscite, sol che
l’amata sua l’avesse raggiunto d’un semplice sorriso: un tal senso per cui
serbava nella collera stessa miti espressioni, e non lo smentì nella sua
malattia, né con una querela, né con un cenno sol di malcontento: tal senso
che primo e unico si mostrava in lui sì nella gioia del ritorno, e sì nella
calma dell’addio, perché troppo era il di lui timore, non il turbamento del
suo sguardo giugnesse fino al cuore di colei ch’egli amava: un tal senso in
fine, che nulla era capace di alterare mai… Quel Corrado trascinato in mille
delitti è venuto a disfida cogli uomini e con Dio, e che se lo spavento avesse
potuto colpirlo, provato lo avrebbe di sé stesso; quegli stesso, allorché
Gulnara, la sua liberatrice gli si mostra, leggiermente macchiata del sangue
del feroce Seydo, freme e s’arretra… Oh! Gulnara macchiata di sangue e di
delitto!… No, né la pugna, né la cattività, né le catene che tuttavia lo
stringono, e non gli stessi suoi rimorsi, e non le tempeste del suo cuore,
nulla gli aveva giammai fatto correre un simile brivido al cuore. Addio
bellezza di Gulnara; ei già non se ne avvede più…» — Altro grandioso ed
enimmatico ribelle al cielo e alla terra è pure un uomo per nome Lara33, di
cui non s’apprende né la patria, né l’origine, né quelle stesse peripezie le
quali dan pure argomento al poema che ne porta il nome. Ecco alcuni cenni
caratteristici di colui. «Tutta la sua giovinezza fu azione incessante e
somma vita: ardea di una gran sete dei piaceri, e anelava le pugne, le donne,
l’oceano, tutto ciò in somma che o compiacenza promette, o tomba
minaccia. Di tutto ei saggiò, e schivando sempre gl’insipidi frammezzi, ei
toccò la meta e il premio suo del pari nell’avversa che nella lieta fortuna,
fuggendo ognora dalla considerazione delle cose, e opponendo alla
riflessione la gagliardìa stessa delle impressioni. Nelle burrasche del cuor
suo ei guardava con disprezzo le altrui minori e volgari agitazioni: nei
rapimenti suoi felici, dubitava se il cielo ne potesse concedere di più
squisiti. Devoto già a tutti gli eccessi, e appassionato, un dì, senza confini,
ad un tratto erasi desto da quel sogno. Qual fu cagione del destarsi? Ei se ’l
tace; ma impreca al proprio cuore che non seppe frangersi allora… È una
bella pacatissima notte; tutta fiammelle in cielo e lene aere sulla terra e
sull’onda. Non farebbe paura fin anco l’apparizione d’un fantasma, perché
nulla può correre di nocivo per quella notte… notte fatta pei buoni. Sentillo
ben Lara, e silenzioso ritirossi e lento si chiuse nel suo castello. Dato non
gli è sostenere di tali impressioni. Ah! può la tempesta consumare tutte l’ire
sue su la di lui fronte: sprezzeralle quest’uomo; ma notte così benigna, così
queta e gentile; no, no l’animo suo non è abbastanza forte onde
sopportarla…» Ma del Manfredo34 recherò più abbondanti squarci trascelti
da due atti e tre scene. La traduzione letterale n’è del sig. Silvio Pellico35.
a. Quegli che armato alla leggiera, si sente poi disuguale alla causa ch’ei prese ad oppugnare, se
non è uomo provveduto di religiosa buona fede, suol ricorrere allo spediente di travisare la quistione
s’ei può: di farla essere tutt’altra, e s’industria di sostituire ad un periglioso ed arduo, un più comodo
e più sicuro cimento. A deludere questo vieto ripiego d’amor proprio, io dichiaro che nel valermi
dell’opportunità del Giaurro, onde pubblicare alcune mie osservazioni psicologico-critiche, non è
vero ch’io abbia inteso di proporre questa poesia di lord Byron, né come un assolutissimo tipo della
maniera così detta Romantica, né come un modello pratico irreprensibile di quelle dottrine che,
traendone quinci motivo ed occasione, io vengo svolgendo. Questa è composizione nella quale,
oserei dire, che l’illustre poeta usò forse fino alla licenza di qualsivoglia libertà nella condotta e nella
forma; però fossero pure attendibili alcune obbiezioni, niuna di esse verrà per ciò mai a ricadere sui
princìpi da noi esposti, né sarà da tanto di offendere e d’invalidare quella Ragion filosofica che presta
loro perpetua base.
b. Parole ricopiate dal libro d’un personaggio, assai commendevole d’altronde, a cui nell’ozio della
campagna, com’ei dice, è piaciuto far prova di sé in queste discussioni. Questo signore ravvisa poco
meno che una indispensabile affinità e una reciproca dipendenza fra gli argomenti Romantici, e il
ritorno di tutti quei tanti malanni sociali e politici onde sono caratterizzati i secoli delle Crociate,
della scolastica e dell’astrologia.
c. Mentre sto rivedendo le prove di questa stampa mi cadono sott’occhio le seguenti parole
dell’illustre DE SAY: «Les professeurs actuels d’Edimbourg, soutiennent l’éclat de cette fameuse
université. La philosophie, l’amour du pays, s’y mêlent avec le gout des lettres, et y donnent à la
littérature, qui sans cela n’est qu’une faconde puérile, de l’importance et de la solidité. L’Edinburgh
Review est peut être le meilleur journal littéraire du monde: il est lu de Philadelphie à Calcutta».
d. Ecco il giudizio che ne pronunziano i gravissimi critici dell’Edinburgh Review, e serva onde
dimostrare la falsità di alcune asserzioni tendenti ad ingannare gl’Italiani sul concetto che portano di
Lord Byron i dotti e i veggenti della sua nazione. «Lord Byron ha molti dritti alla lode per lo spirito e
la bellezza della sua dizione e versificazione, come per lo splendore di parecchie sue descrizioni; ma
alle sue pitture delle passioni forti ei deve la pienezza della sua fama. Egli ha delineato con egual
forza e fedeltà gli effetti di quelle profonde e potenti emozioni che alternamente incantano e
tormentano i cuori esposti ai loro assalti, ed ha rappresentato, con terribile energia, le lotte, i
patimenti e le esaltazioni, da cui l’anima è ad un tempo lacerata e trasportata, e i tratti di divina
ispirazione o d’invasamento demoniaco, che si trovano frammezzo alle dolci fattezze dell’umanità.
Con questa malia, crediamo noi, ha principalmente fissata l’ammirazione del pubblico, e mentre gli
altri poeti dilettano col loro brio o incantano colla loro dolcezza, egli solo è stato capace di
comandare la simpatia, anche del lettore repugnante, per la indole magica della sua morale sublimità,
e pei terrori e le attrazioni di quei prepotenti sentimenti, la profondità e l’altezza dei quali par ch’egli
abbia sì felicemente esplorati. Tutti i poeti ragguardevoli di questa età hanno, è vero, posseduto
questo dono in maggiore o minor grado, ma non v’è alcuno, da Shakespeare stesso in qua, in cui siasi
quello manifestato con più pienezza e splendore, che nel nobile autore di cui parliamo; e varie
considerazioni ci portano a credere che sia specialmente con tai mezzi ch’egli è giunto alla
supremazia, di cui sembra ora incontrastabilmente investito». (Edinburgh Review, aprii 1814).
1. Purgatorio, XXVI, 86-87. Pasifae entrò in una vacca di legno per soddisfare la sua bestiale
cupidigia.
2. Carlo Giuseppe Londonio.
3. «Jean-Jacques Barthélemy, erudito e numismatico francese, nato a Cassis nel 1716, morto a
Parigi nel 1795; autore del Voyage du jeune Anacharsis en Grèce (1788). Pubblicò inoltre utili lavori
sulla numismatica, sull’alfabeto fenicio ecc. Nel 1755 aveva accompagnato il Duca di Choiseul in
Italia».
4. «Giovanni Gioachino Winckelmann, celebre archeologo tedesco e critico d’arte, nato nel 1717,
morto nel 1768. Recatosi a Roma, vi abiurò il protestantesimo (1754) e attese alla sua grande opera
Storia dell’arte antica (1764). In viaggio per Vienna, fu assassinato in un albergo di Trieste da un suo
compagno di viaggio».
5. «Giorgio Niebuhr, archeologo e storico tedesco, nato a Copenaghen nel 1776, morto nel 1831.
Dal 1816 al 1824 fu ambasciatore di Prussia a Roma e fece importanti ricerche nel campo
dell’archeologia e della filologia. Sua opera principale è la Storia romana, che arriva fino alla
seconda guerra punica. Con Angelo Mai pubblicò la Repubblica di Cicerone, frammenti di Frontone
e di Dione Cassio ecc. Ammiratore di G. Leopardi, lo invitò in Germania, offrendogli una cattedra
universitaria, che il recanatese non accettò».
6. «Antonio Crisostomo Quatremère de Quincy, insigne archeologo francese, nato a Parigi nel
1755, morto nel 1849. Opere principali: L’architettura egizia paragonata all’architettura greca;
Considerazioni sull’arte del disegno; Il Giove Olimpico; Dizionario d’architettura; Storia della vita
e delle opere dei più celebri architetti; Storia della vita e delle opere di Michelangelo; — di
Raffaello; — di Canova; L’imitazione nelle belle arti, ecc.».
7. «G. R. Visconti, archeologo, padre di Ennio Quirino, visse dal 1722 al 1784; fu amico di
Winckelmann e gli successe nel 1763 nell’ufficio di prefetto e commissario delle antichità di Roma.
— Ennio Quirino Visconti, principe dell’archeologia italiana, nacque a Roma nel 1751, morì a Parigi
nel 1818. La sua gloria toccò l’apogeo quando pubblicò la Iconografia greca e romana (1808-1818).
Altre sue opere capitali sono il Museo Pio dementino (Roma, 1782-1798) e il Museo Chiaramonti,
che n’è la continuazione».
8. «Accenna al saggio critico che A. G. Schlegel pubblicò in francese a Parigi nel 1807 col titolo
Comparation entre la Phèdre de Racine et celle d’Euripide. Vedilo a pp. 333-405 del t. II delle
Oeuvres de M. Auguste-Guillaume De Schlegel écrites en francais et publiées par Edouard Bòcking,
Leipzig, 1846».
9. Lo stesso concetto esprimeva S. Pellico in una lettera al fratello Luigi, datata 11 dicembre 1815:
«Or mi par chiaro che il mondo non potendo più tornare indietro per seguire le traccie della
civilizzazione greca, e dovendo per necessità progredire nella moderna, tutte le idee che sono
modificate dietro questa sono più atte a colpir l’animo, ad influire sugli ingegni e sulle passioni che
non le altre. Dante che da filosofo imitava Virgilio e non da pedante, capì che riproducendo un
Laocoonte farebbe assai meno terrore e pietà, che non avea fatto agli antichi quel di Virgilio — agli
antichi che ancor credevano o si ricordavano d’aver creduto ai miracoli degli Dei. Che fece Dante?
L’Ugolino — tradito dall’arcivescovo Ruggieri, e morto di fame in una torre.
Non si fa guerra ai classici; si ammira il Laocoonte; ma l’Ugolino è più dei nostri tempi» (Lettere
milanesi, cit., p. 30).
10. Il Journal des Débats, fondato nel 1789 come resoconto dell’assemblea legislativa, assunse nel
1799 un carattere prevalentemente politico. Ma la diffusione europea del giornale fu dovuta anche al
«feuilleton» letterario che vi fu aggiunto. Subì varie vicende, riflettendo il corso della vita politica
francese: impero napoleonico, restaurazione, secondo impero, terza repubblica. La sua importanza è
venuta calando nel nostro secolo. Sul piano culturale e letterario nel periodo napoleonico assunse il
compito di collaborare alla rinascita del Classicismo e di frenare le tendenze innovatrici.
11. Allude alle 277 Fabulae, vero e proprio trattato di mitologia, attribuito a C. Giulio Igino,
liberto di Augusto, spagnolo o alessandrino. Qualcuno ha dubitato di questa attribuzione per ragioni
stilistiche e anche per l’esistenza di un altro scrittore omonimo fiorito sotto Traiano. Fu Igino
bibliotecario della Palatina, amico di Ovidio e di Clodio Licinio. Delle molte opere di erudizione da
lui composte (un commento al Propempticon Pollionis di Cinna, un commento all’Eneide; De viris
claris, De jamiliis Troianis, De origine et situ urbium Italicarum ecc.) non ci sono pervenuti che i
titoli e qualche frammento. Ci resta un trattato De astronomia di carattere scolastico, oltre alle
Fabulae.
12. Boccaccio.
13. Anton Maria Salvini (Firenze 1653-1729): a ventitré anni fu nominato pubblico professore di
greco nello studio fiorentino; tradusse moltissimo dalle lingue classiche, specie dal greco; in tali
traduzioni adoperò non pochi neologismi, che furono accolti dalla Crusca, ma che caddero poi
dall’uso. Annotò le Lezioni su Dante del Boccaccio, il Malmantile del Lippi, la Fiera e la Tancia di
Michelangelo Buonarroti il giovane, la Perfetta poesia del Muratori, la Grammatica italiana del
Buommattei, le poesie del Della Casa, di Giusto de’ Conti. Compose: Prose toscane, Prose sacre,
Discorsi accademici.
14. La «Edinburgh Review», fondata nel 1802, fu la famosa rivista di cultura e di politica ispirata
prevalentemente alle posizioni del partito whig (ma accolse anche scritti di conservatori, come per
esempio W. Scott). Fu a lungo diretta da Francis Jeffrey (1773-1850).
15. «Carlo Rollin, umanista e storico francese, visse dal 1661 al 1741 e scrisse il Traité des Etudes
(1746, 4 voli.), l’Histoire ancienne (1730 e seg.) e l’Histoire romaine. Fu perseguitato per il suo
giansenismo».
16. «Giovan Francesco La Harpe, verseggiatore e critico francese, visse dal 1739 al 1803. Fu da
prima legato in amicizia con gli enciclopedisti e professò i principii della rivoluzione; fu nondimeno
imprigionato come sospetto e, durante la prigionia, da libero pensatore divenne cattolico e da
repubblicano monarchico. Compose drammi mediocri, poesie, elogi e un voluminoso Corso di
letteratura francese, conosciuto col nome di Lycée».
17. Petrarca, Triumphus Mortis, vv. 160-168.
18. «Il Di Breme allude a queste terzine:
Colui che, curvo sovr’un morto, ha fisso
lo sguardo in ello pria che scorra intero
il primo dì da che il suo stame è scisso,
del tenebroso nulla il dì primiero,
e in un l’estremo d’ogni ria tristezza,
(allor che il Tempo col dito severo
le forme della languida bellezza
cancellate dal volto ancor non gli have)
pieno il trova d’angelica dolcezza».
19. «È la celebre apostrofe che incomincia:
Region d’eroi di eterna fama! un solo
angol non havvi del tuo suol, che albergo
di Libertà non fosse, o un monumento
non v’ergesse la Gloria! O de’ possenti
Santuario! ecc.»
20. «Ramadan, ramadhan o ramazan, nono mese dell’anno lunare musulmano, consacrato al
digiuno. Durante il ramadan i musulmani devono serbare la più rigida astinenza dal levar del sole al
tramonto. Esso termina con le feste dette Bairam».
21. Con impeto, furiosamente. Il Tommaseo reca alcuni esempi tratti da Livio volgarizzato da
Marcello Adriani: I Romani veniano a slascio in giù correndo, e percoteano a’ Galli.
22. «Jerrid o djerrid, giavellotto spuntato che i Turchi lanciano da cavallo con gran forza e
aggiustatezza».
23. Giudici, V, 28: Ma la madre di lui traguardando dalla finestra sclamava, e dalla sua stanza
diceva: Come mai tarda a giungere il suo cocchio? come mai son lenti i piedi de’ suoi quattro cavalli?
(traduz. di A. Martini).
24. «Alla-hù, voce con cui termina sempre il canto del muezzino, quando dall’alto del minareto
chiama i credenti alla preghiera. — Se il Muezzin ha una bella voce, quel suo grido religioso riesce
bello e solenne - Byron».
25. «Capaneo: vedi Dante, Inferno, vv. 43-72».
26. «Don Giovanni, il leggendario libertino e seduttore, messo in iscena dal Molière nel Don Juan
(1665), dal Glück (1761) e dal Mozart nel suo capolavoro su libretto di Lorenzo da Ponte (1787) e da
altri. Quando il Di Breme scriveva, il Byron non aveva ancora incominciato il suo poema su Don
Giovanni: lo incominciò nel 1818 e lo lasciò incompiuto».
27. «Falstaff, messo in scena da Shakespeare nell’Enrivo IV e nelle Allegre comari di Windsor. È
pure un tipo della sregolatezza, del cinismo e della sfrontatezza».
28. «Lovelace, uno dei principali personaggi di Clarissa Harlowe, celebre romanzo di Samuele
Richardson (1689-1761). Lovelace è pure un tipo di perfetto libertino e il suo nome è diventato
sinonimo di uomo dissoluto».
29. «Don José Clavijo y Fajardo, letterato e naturalista spagnuolo, nato alle Canarie verso il 1730,
morto il 1806. Il Beaumarchais, la cui sorella egli aveva rifiutato di sposare, ha bollato la sua
condotta indelicata nel suo dramma Eugénie (1767) e ne’ suoi celebri Mémoires, che hanno ispirato
al Goethe il dramma Clavijo».
30. «È il noto protagonista del grandioso e terribile dramma di Cristoforo Marlowe, La tragica
storia della vita e della morte del Dottor Faust (1604) e del capolavoro di Wolfango Goethe, Faust,
di cui pubblicò nel 1790 un “frammento” e nel 1807 la “prima parte”. Quando il Di Breme scriveva
non era ancora stata pubblicata la seconda, che fu finita nel 1831 e vide la luce l’anno dopo».
31. «Valmont, eroe delle Liaisons dangereuses di Choderlos de Laclos, apparse in 4 volumi nel
1782. Il De Laclos visse dal 1741 al 1803».
32. «Il Corsaro, novella in versi di Lord Byron».
33. «Lara, poemetto di Lord Byron».
34. «Manfredo, poema drammatico di Lord Byron».
35. S. Pellico, Francesca da Rimini, Milano, G. Pirotta, 1818. Precede una presentazione di L. Di
Breme. Alla tragedia segue la traduzione in prosa del Manfredo del Byron.
ATTO I.
SCENA PRIMA
SCENA SECONDA
MANFREDO E UN CACCIATORE SOPRA I DIRUPI DELLA JUNGFRAU
(Montagna della Vergine).
Ahi pur troppo è vero, l’amore il più esaltato e il più squisito cape
talvolta in certi animi ch’essere temprati non dovrebbero ch’ai soli odiosi
appassionamenti
Sì ch’io la amai: Amor pur là penètra
Dov’entrar non vorria lupo per fame:
E se tant’osa Amor, dritt’è se impetra
Ristoro e premio alle cocenti brame,
Come, dove, perché, ridirti è vano —
Mai non ho chiesto o sospirato invano. —
. . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . .
Gelato è il sangue sotto ciel gelato,
Né merta quivi Amor ch’Amor sia detto.
Igneo torrente ond’Etna ha il sen squarciato
Fu la piena d’Amor ch’arse il mio petto.
Il rigor dell’amata e i crudi rai
Lamentar non sepp’io con dolci lai.
. . . . . . . . . . . .
Questo infelice ebbe un amico, e vana gli tornò pure una tanto rara
fortuna
Nel dolce Aprii della mia vita, allora
Che il cor ricerca un cuor con gran disio,
Là ’ve il mio suol natio vago s’infiora,
Un amico ebb’io pur — lasso! l’ho io? —
Deh! padre, tu gl’invia questo mio pegno —
Digli «è di fede giovenile un segno».
. . . . . . . . . . . .
Ei predisse il mio fato: io sorridea
(Allor potea nel cor spuntarmi il riso)
Quando Prudenza, col suo dir, porgea
Di tutto a me, che noi curava, avviso.
Or la memoria bisbigliarmi ascolto
Que’ detti a che il pensier pria non ho volto.
Digli ch’ei fu nel profetar verace:
Ahi! qual colpo n’avrà! qual van disio
D’esser ei stato un indovin mendace!
Digli ch’ancor che in un profondo oblìo
Sepolto avessi i primi aurei nostr’anni
Tra le cure, i tumulti, e i fieri affanni;
Pur quand’io giunsi della morte al letto
A lui volsi gli esìli e rotti accenti,
E sua dolce memoria benedetto
Avrei pria di spirar — ma se i nocenti
Di supplicar pe’ giusti abbiano ardire,
Movono il Cielo alle ripulse e all’ire.
Non chieggo che il mio nome ei non offenda;
Ha cor tropp’alto — e a me che cai di fama?
Né chieggo, il corso al lagrimar contenda;
Sì freddo prego è ingiuria a quei che t’ama.
Fors’ha il ferètro più bel fregio e vanto
Che dell’amico il generoso pianto?
. . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . .
D’una lacrima sola oh! quanta ho brama!
Qual per me caro dono e non usato!
La bramai — pur la bramo — indarno chiama
Su le sue ciglia il pianto un disperato.
Cessa l’orar —: disperazion feroce
Sperde cogli urli suoi la pia tua voce.
Io tra’ beati? Il pur potessi, a sdegno
Padre, l’avrei; di ferreo sonno eterno
È d’uopo a me, non di celeste regno.
Già il Ciel vid’io; miei occhi allor men ferno
Dono che in lei… qual dì, padre! qual ora!
Qual paradiso! — sì — viveva ancora.
Io l’ho veduta in bianco manto avvolta,
Nel funèbre suo manto — ella splendea,
Quale colà fra grigie nubi accolta
Splende la stella, che i nostri occhi bea
Col suo raggio — del guardo assai men vago
Onde bëommi l’adorata imago.
La tremula sua luce è nebulosa —
E dimane più fia la notte oscura —
Pria ch’ella splenda — quella morta cosa
Io sarò ch’empie i vivi di paura.
Ah! padre, l’alma già m’erra nel petto
Poi ch’all’estremo carcere m’affretto.
. . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . .
Ahi! qual fredda beltà! Ma quale or sei
Resta pur sempre — Leila mia, noi curo —
Pur ch’io sempre ti stringa — i desir miei
Sempre a ciò saran vòlti e sempre furo.
Ohimè! le braccia a un’ombra io posi intorno,
E vuote al mesto sen fanno ritorno.
Pur sempre — è là — sua vista a me non niega,
E tutta mesta e taciturna in modi
Supplici con le mani accenna e prega.
Sì, li negri occhi, sì… le anella e i nodi
De’ tuoi be’ crin con queste luci ho visti,
Tu morir non potei — tu non moristi.
. . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . .
Tale è il mio nome, e tal la storia mia;
Al tuo segreto orecchio, o confessore,
Fidai gli affanni ond’il mio duolo uscìa.
Abbiti grazie dal mio schietto cuore
Di quel tuo pianto generoso e vero;
Gli arsi occhi miei versar mai noi poterò!
Co’ più umili a giacer poi tu mi doni;
Né sul mio capo fia mestier di croce;
Né vo’ che marmo o scritta tu mi doni,
Emblema o segno che di me dia voce,
E van diletto al curïoso appresti,
O il pellegrino in suo vïaggio arresti.
«Non senza giusto motivo Byron dice la Rosa, prima di qualificarla per
Sultana dell’usignuolo. Questa favola non essendo nota al comune dei
lettori, è d’uopo che s’intenda subito chi è quella sultana, e il tacerne il
nome rende oscuro il passaggio, oltre che schiverei anche di dire al
praticello dell’usignuol, perché a prima vista par che piuttosto convenga
d’intendere al praticello dell’usignuolo che la signora dell’usignuolo,
equivoco però che cesserebbe se fosse antecedentemente nominata la rosa.
«V. Consonanti allo spirito del testo, e bellissime sono le terzine che
sieguono
Là molte grotte, ec. (fol. 4).
Che difficoltà c’era di essere fedele? e non s’è egli perduto assai non
essendolo? Queste storie antiche che sorgono come dai sepolcri ad attestare
la viltà de’ nipoti degli eroi non sono un quadro da gettarsi via senza
badarvi.
VII. Gli squarci che possono sostenere un confronto coll’originale sono i
seguenti, cominciando dal passaggio citato: (Pag. 9).
….. t’appressa
Vile strisciante schiavo, ec.
e sopra tutto i versi che sieguono, fino al paragone della farfalla d’Oriente.
Qui Rossi torna ad aver in mira principale di far della bella poesia sonora
italiana, ed allunga assai ciò che v’è in Byron.
«VIII. Lodevole pure è la traduzione del racconto da pag. 31 a tutta la
pagina 53.
«IX. Mi son posto a scrivere queste pedanterie di mano in mano ch’io
confrontava la traduzione coll’inglese; ma or con mia soddisfazione mi
accorgo che il traduttore, vacillante a principio nell’arte sua, acquista
bentosto franchezza e maestria sufficiente per rendere quasi sempre le
bellezze del testo, anche dov’egli adopra il metro difficile delle sestine. La
critica maggiore che si possa fare al Rossi, si è di aver allungato alcune
frasi, sebbene, per non eccedere nella mole, ne abbia poi ristrette alcune
altre: il numero dei versi viene così ad essere il medesimo incirca, se non
che Byron, tolto quattro versi lunghi, gli adopera sempre ottonari ed alcune
volte settenari, invece che Rossi gli ha endecasillabi, da pochi settenari
infuori».
Quelle persone a cui riuscì persuasiva la prima parte di queste mie
osservazioni, e le trovarono sinceramente discusse ed esposte chiaramente,
avranno, spero io, dovuto ravvisare vieppiù quelle stesse doti nella seconda
parte, e mi lusingo che a malgrado delle interruzioni nel discorso, emergenti
da questa forma di trattazioni, non sarà loro fuggito il vicendevole
collegamento delle cose, e l’ordine in cui le ho fatte succedersi. — Che in
materia di dottrine generiche e di svolgimenti filosofici si possa di leggieri
peccare d’oscurità, e in Italia più che altrove, sin che un linguaggio
analitico non vi sia maggiormente diffuso, ciò è pur troppo dimostrato per
frequenti esperienze; però se gli stessi uomini di sì fatte cose intelligenti,
rinfacciano talvolta d’oscuro lo stile di chi le tratta, con ben maggior
sicurezza, e perfino con aria di trionfo vengono ripetendo gli ignoranti la
medesima accusa. Questa razza, incomoda veramente, perché sappia di
nulla, non resta già di metter lingua in tutto, ed esulta oscenamente
nell’orgoglio suo quando vede di poter finalmente quella stessa ignoranza,
che la caratterizza, addurre in prova ed argomento contra gli studi e le
dotratrine che superano di tanto la veduta e l’altezza sua. Il sapere e
l’erudizione vera non si aggirano già così volgarmente pei vicoli e per le
piazze, né si giacciono tanto scioperati, che, per modo d’esempio, il gustare
e il comprendere l’arietta e la canzoncina di Metastasio sieno una stessa
cosa col saper dimostrare da quali principi psicologici derivi l’efficacia
comparativa di quella stessa poesia, in confronto di una canzone del
Petrarca o d’una oda del Savioli. Cessi dunque la meraviglia se chi vuoto si
sente d’ogni vera sostanza intellettuale, privo di forte capacità e d’ogni
pregio sì di erudito che di sincero scrittore, fondasi pur baldanzosamente
sulla oscurità inerente al soggetto per motteggiare quindi sì fatte discussioni
d’ideologismo, di sentimentalismo e di filosoferie inutili. Tutto che ha il
nobile ed il sublime per puro scopo, è inutile a coloro che vanno per ogni
via in traccia dell’utile palpabile e tascabile. Adunque persona non formata
e cresciuta alla meditazione, non esercitata nelle indagini analitiche, non
devota a quella letteratura, ch’è scienza o fiamma, ma invece a quella ch’è
mestiere, tal persona, se non è impudentissimamente sfacciata, non adduca
più l’oscurità relativa a lei, cioè quella delle proprie tenebre, come assoluto
ed intrinseco difetto sì della dottrina che dello scrittore. — L’amor proprio
umiliato di chi non se ne intende, ha gran parte in questa guerra accanita
che molti sostengono tuttavia contro ciò che sa di razionale e di generico,
cioè a dire di veramente scientifico, giacché togliete il razionale dalle
scienze, e non avrete più che meri empirismi. Di questo accanimento anti-
filosofico, niuno per avventura segnò e scoprì in quello stesso amor proprio
le varie cagioni, meglio dell’Autore des apperçus philosophiques (Turin,
1816-1817, 3 vol. in 8°), scrittore nobilissimo3, dignitoso e leggiadro, a cui
avrei caro di sentirmi ligio sempre nelle idee e nelle dottrine4, come ligio
me gli professo nei sensi di rispetto e di ammirazione pel corredo ch’è in lui
d’ogni più splendida e più amabile virtù. Egli dice «Quant à la foule de
ceux qui dénigrent les études philosophiques ou qui en méconnaissent le
prix, je pense que leur aveuglement qui doit paraître déplorable aux yeux du
métaphysicien, est tour-à-tour le produit de plusieurs causes différentes.
Une véritable ignorance qui confond l’abstrait avec le chimérique ou avec
l’incompréhensible: un certain éloignement pour ce qui n’est propre qu’à
éclairer et à fortifier la raison: un penchant irrésistible pour tout ce qui parle
aux sens et à l’imagination: une avidité insatiable de notions personnelles et
de faits qui amusent la curiosité, ou qui, en ornant la mémoire, l’aident à
remplacer un sens profond ou un esprit inventif; enfin une préférence bien
naturelle pour ce qui s’applique immédiatement aux besoins, aux
embellissemens et aux commodités de la vie; telles sont, à mon avis, les
principales causes de l’indifférence qui fait bailler bien des gens au seul
nom de métaphysique, de l’injuste courroux qu’il allume dans certaines
personnes, du mépris qu’il excite dans quelques autres individus et que
ceux-ci manifestent par un sourire aussi indécent que digne de pitié» (p.
134, 3me part.)… «Les beaux esprits, les gens du monde, les faiseurs
d’affaires qui se moquent de la métaphysique (et qui en font
continuellement, sans le savoir), ne songent pas que l’une de ses principales
fonctions consiste dans le véritable emploi de ce dont ils font eux-mêmes
souvent un assez mauvais usage. Mais pourquoi ces messieurs prendraient-
ils la peine de remonter si haut?» (pag. 154)5.
1. Silvio Pellico.
2. Allude alle terzine:
Ragion della beltà! Mite e sereno
l’è sempre il cielo, e all’eternal sorriso
s’innamora la terra e infiora il seno.
Per entro al core andar ti senti un riso
poi ch’all’altura di Colonna aggiunto
scopre il guardo quel dolce paradiso.
Esclami allor di maraviglia punto
«Vello, vello», e già voli, e già il diletto
di vagarvi solingo il cor t’ha giunto.
3. Il marchese Ottavio Alessandro Falletti di Barolo: su di lui si vedano le pp. 638-640 di questo
volume.
4. «È un’evidente allusione al diverso giudizio che il Falletti e il Di Breme facevano dell’idealismo
filosofico e del romanticismo».
5. «Nel medesimo capitolo il Falletti così dichiara che cosa egli intenda per metafisica (p. 136):
“Ce que l’on appelle proprement philosophie, embrasse la vaste connaissance de l’homme
intellectuel et moral, l’art de raisonner et la science des principes, c’est-à-dire de ce qu’il y a de plus
abstrait et de plus général dans toutes les sciences. La métaphysique qui se compose de l’idéologie,
de cette même science des principes et de ce même art de raisonner, constitue donc avec la morale
son alliée ce que nous appelons philosophie”».
PIETRO BORSIERI
AVVENTURE LETTERARIE DI UN GIORNO
O CONSIGLI DI UN GALANTUOMO A VARI SCRITTORI
… Seggendo in piuma
in fama non si vien, né sotto coltre.
DANTE, Inferno, XXIV.
UN LETTORE E IL GALANTUOMO
1. È un verso del sonetto, con cui l’Alfieri, innanzi alle Satire, si volse Al malevolo lettore.
2. La Biblioteca Italiana, lo Spettatore, il Corriere delle Dame.
3. Ludovico di Breme.
CAPITOLO PRIMO
IO
Dic, mihi, Musa, virum.
HORAT.
Canta, o Musa, l’Eroe.
Non debbo essere biasimato, se prima di pormi a piè pari nella materia
che ho assunto a trattare, credo sommamente opportuno di parlare di me
stesso. È sì dolce cosa il parlare di se stesso! Tutti gli Scrittori sogliono
farlo più o meno lungamente; né solo gli Scrittori e i Magistrati e i Guerrieri
e gli Artisti, ma ben anche l’immensa e piacevolissima schiera di tutti
coloro che altro non sanno che bere, dormire, e mangiare, e tornar a
mangiare, bere, e dormire. Io sono dunque un Eroe! Non già qual era
l’Ulisse d’Omero, insigne per avvedimenti inaspettati e per frodi ingegnose;
né quale l’Enea di Virgilio, eternamente memorabile per l’edificante
divozione verso i suoi lari; e per la fermezza d’animo, colla quale
abbandonava sul lido dell’Affrica, allora ospitale, una bella ed infelice
Regina, che lo aveva ristorato dei danni di tanti naufragi, e gli offeriva un
trono dopo avergli conceduto l’amore. Questo era l’eroismo d’altri secoli e
d’altri costumi. Ma grazie agli Alessandri ed ai Cesari, ed a que’ pochi
Grandi che con piante insanguinate hanno percorsa la terra, sagrificando al
simulacro della gloria fra il pianto e le strida delle nazioni, grazie, dissi, a
costoro il mondo è riuscito a formarsi una ben più nobile idea dell’eroismo.
Pure non concedendo il cielo a ciascuno di noi, come tutti sappiamo, di
divenire conquistatori; ed essendo io, come tutti non sanno, il più oscuro fra
gli oscuri mortali che calpestano il volto della madre terra, voglio che
s’intenda che nel chiamarmi un Eroe mi pongo in burla; e che dalla onesta
libertà colla quale rido di me stesso, gli altri si attendano di vedermi ridere
di loro. Fare pei nostri simili ciò che si fa per se medesimo, è precetto di
natura, ed io non voglio violarlo.
È dunque primamente da sapersi che l’indole mia nativa si compone di
un fondo di vanità da fare spavento, se la vanità potesse atterrire; ma che
per una strana mescolanza degli elementi del mio essere, sono ad un tempo
tanto ingenuo da far credere a molti ch’io pecchi d’innocenza. Con quanta
fiducia non mi sono messo in viaggio sull’angusto sentiero della vita! Ad
ogni passo che io moveva, qui mi pareva d’incontrare un tranquillo filosofo
che cercasse il vero pel vero, non per l’orgoglio di trovarlo: là, un uomo
tutto caldo di magnanimi sentimenti, ognor pronto al beneficio e a
moltiplicare gli ingrati: da quel lato, un poeta rapito dall’ammirazione della
bellezza, ardito, leale: da questo, un politico che libra severamente i diritti
dei pastori de’ popoli, risale alle fonti segrete de’ vizi sociali, consiglia il
meglio, e rafferma i nodi della concordia universale. Ora so dirvi che
procedendo di questo passo io ruinava. Sono caduto in tanti inganni, ho
scoperto tante volte l’errore ove credeva d’aver appresa la verità, che
finalmente mi è pur stato forza correggermi. Senza disperare affatto
dell’esistenza della virtù, ho imparato però a non lasciarmi illudere dalle
belle apparenze, ed ho detto fra me stesso: Questo mondo, ove tanti milioni
d’uomini corrono affannosamente dietro l’immagine della felicità che li
fugge, è simile ai palazzi incantati dell’Ariosto e del Tasso. Là ti aggiri per
gli atri e per le ampie sale; che bei cori di Ninfe incontri da per tutto!
Quanti amici t’offrono la mano, quante seduzioni ti preparano l’amore e le
grazie! Non fai che passare d’una meraviglia nell’altra. Statue e dipinti
d’artificio raro, colonnati di rubino, mura fiammanti d’oro massiccio. Ma
cerca le fondamenta, se puoi, e troverai che confinano coll’inferno. E se
anche non le cerchi, giunge il giorno pur troppo, in cui la ruvida realtà
accostandosi alle mura fatate, le tocca col suo scettro di purissimo elettro; il
palazzo va in fumo; ti vedi solo in mezzo ai precipizi, sotto montagne
coperte di neve, circondato da laghi di asfalto e di fiamme, mentre dall’alto
ti guardano e ridono la tua disperazione, i maghi le fate e i demoni che più ti
allettavano con vane sembianze.
Sì certo, signori miei, quando un amico v’abbraccia, ricordatevi ch’ei vi
porrà la mano sul cuore per esplorare come palpiti. E quando una «Bella» vi
sbalordisce in tre minuti con tutto il frasario del «sentimento», ricordatevi
ch’ella pensa a trasformarvi come Alcina ed Armida. E quando o forti
passioni o sincere opinioni vi fanno parlare, ricordatevi che le intenzioni più
pure saranno malignate, e che non manca una razza di farfarelli, i quali,
nulla operando o scrivendo di bene e parlando sempre come se vivessero la
vita di Catone o di Socrate, non hanno sulle labbra che «amore
dell’umanità», «progressi dell’incivilimento», «entusiasmo per la virtù»,
«nobile indignazione pel vizio»: belli e sonanti paroloni, che non si ponno
oramai più adoperare dagli uomini ingenui, perché adulterati da tante
bocche profane.
Io dunque, che ho fatto il mio corso d’esperienze morali, ho capito che in
tempi infelici e fecondi di colpe non avrei vissuto tranquillamente, se non
prendeva la forte risoluzione di alterare in me il carattere che m’aveva
improntato la natura, foggiandomene uno fatto a bella posta per la nostra
età. Quel mio gran fondo di vanità, che mi facea tener caro persino il saluto
di un onest’uomo, l’ho trasformato in un disprezzo estremamente filosofico
di tutto, e di tutti. Quella ingenuità, per cui la cantava a tutto il mondo
com’io me la sentiva, la ho chimicamente combinata coll’ottimo correttivo
di un gran fondo di malizia; talché non dico mai il mio parere senza
metterlo in compagnia di qualche epigramma che lo sostiene dove zoppica,
e gli fa trovar grazia anche presso i più svogliati. La natura (mi sono
dimenticato d’avvertirvene prima) m’aveva imprigionato nel petto un
mortale nemico della tranquillità della vita, e consisteva in una tendenza
fortissima e prepotente a sentir compassione de’ mali altrui. Ma studiando
per mia fortuna un libro che va nelle mani di tutti1, e che è pregno di
sapienza, vi ho imparato che la compassione è conseguenza di debolezza e
qualità da fanciulli e da donne; che è una virtù «interessata», come tutte le
altre umane virtù, perché soccorre agli altri per liberare noi stessi dalla vista
dolorosa dei loro dolori. Persuaso per tal guisa, sebbene a fatica, che
quando mi pensava d’operare secondo la virtù, non operava in effetto che
secondo l’egoismo, mi sono risparmiato l’incomodo di compatire e di
soccorrerea. Anzi notando minutamente le vere maniere del bel mondo, mi
sono presto avvisto che il non far bene a veruno è una dote comune ed
essenziale a tutti coloro i quali vogliono mostrarsi liberi da ogni
pregiudizio; ma che per ottenere l’intera gloria d’una perfetta purificazione
delle idee e dei costumi volgari, è di più necessario fare un tantino di male
agli altri omiciattoli di creta che ne circondano e ne impediscono per via.
Ond’io guardandomi intorno, e vedendo preoccupate dai più solenni maestri
dell’arte le migliori occasioni di segnalarsi in questa nuova maniera di
civilizzazione, e non volendo anche rinunciare affatto a quella mia nativa
umanità (poiché si può ben piegare la natura, ma non distruggerla), ho
scelto la classe dei letterati per esercitare sovr’essa, meno malignamente
che sia possibile, il mio flagello tormentatore. Inclinava ad appigliarmi alle
donne, ma in questa carriera i concorrenti sono infiniti, e la gloria
d’inquietarle è fuggitiva come la loro bellezza. I letterati all’opposto, o più
veramente quelli che si dicono tali, mi convengono a meraviglia. Io voglio
prima di tutto fare un male tenuissimo, e questo mi riuscirà col mortificare
un tal poco la loro burbanza; col farli pubblicamente arrossire delle ma-
riuolerie colle quali si scroccano o s’insidiano la fama; col-Paccennar loro
quello che dovrebbono fare per meritarla. Voglio in secondo luogo che il
male sia temperato da qualche bene, e ognun vede ch’io raggiungo l’effetto
disingannando il pubblico, onorando i buoni Scrittori colla censura de’
cattivi, e dando coraggio colPesempio ai giovani e timidi ingegni, che si
lasciano sconfortare dall’infinito ronzìo e dalle punture di questo vespaio.
Voglio finalmente divertirmi come se parlassi con donne, e questo mi vien
fatto per la grande somiglianza che i letterati hanno con esse. Un articolo di
giornale, a modo d’esempio, vai poco più delle dispute che si fanno per una
cuffia o per un nastro. Ora un articolo di giornale basta ad occupare la testa
de’ miei FLAGELLABILI per ventiquattr’ore in un giorno, appunto come una
nuova cuffia fa invanire una femmina per lo stesso spazio di tempo. Le
brutte donne, per dare un altro esempio di somiglianza, si credono belle, e
dicono bellissime le più brutte di loro; ed egualmente i miei FLAGELLABILI,
cioè i falsi letterati, contrastano o negano il vero valore de’ buoni Scrittori,
e danno corone e istituiscono altari e apoteosi ai cattivi; e per tal guisa i
generosi mortali strisciano nella polvere, e l’Olimpo si riempie di
ciurmadori. Non finirei così presto se volessi continuare il confronto. Vi
basti per ora sapere che volgendo nella mente queste idee e questi
proponimenti, sono sortito l’altr’ieri di casa mia per recarmi alla LIBERIA
DEL GENIO e comperarvi un eccellente libro italiano. Là m’avvenne, o come
direbbe un linguista, m’intervenne ciò che leggerete nel seguente capitolo,
se questo non vi ha troppo annoiatib.
a. Egoismo non è voce italiana, ma è voce del mondo, e denota un vizio di tutti i paesi e di tutte le
età, e più specialmente della nostra.
L’autore, che in fatto di lingua rispetta la Crusca e l’autorità quando consuonano colla ragione, si è
servito deliberatamente di questo vocabolo, e di alcuni altri che non «andranno a sangue» ai pedanti,
e a quegli uomini dabbene che ripetono senza accorgersi i giudizii dei pedanti. Nel progresso di
questo scritto, egli avrà forse occasione di esaminare più a lungo le loro belle opinioni sulla gran
quistione della lingua.
b. Celebrare degnamente le maraviglie della natura e dell’arte che noi possediamo, e i libri degli
ingegni sommi che hanno fiorito e fioriscono in Italia, questo è, secondo l’autore, amare con candore
la vera gloria della nostra nazione. Compiacersi d’ogni menoma coserella, o chiamar grandi alcuni
uomini che realmente noi sono, solo per accrescere il numero e perché nacquero in Italia, questo
pargli che sia misera vanità alla quale taluni si abbandonano per moda, altri per zelo mal inteso
dell’onore italiano. E la vanità che è tollerata negli individui, non può esserlo nelle nazioni; nelle
quali per altro giustamente si loda l’orgoglio di se medesime. Vogliano pertanto i Lettori, onde non
scorrere con animo infenso i successivi capitoli, aver presente questa schietta professione di fede
dello Scrittore; nella quale s’ei s’ingannasse, la colpa sarebbe tutta della sua mente, ma non mai del
suo cuore.
1. I Principles of Morals and Legislation di Geremia Bentham, che considerava l’utilità, propria e
comune, norma della moralità e dichiarava esser la benevolenza il modo più adeguato al principio
dell’utilità. È il fondatore dell’utilitarismo, che riguarda il principio dell’utilità come base di ogni
estimazione pratica, perché l’uomo non agisce se non per desiderio del piacere e per fuggire il dolore.
Da quell’opera, apparsa nel 1789, e dai manoscritti del Bentham, consenziente l’autore, Stefano
Dumont nel 1802 aveva estratto i Traités de Législation civile et pénale, in cui i Principes de
Législation formavano la prima parte. Questo era il volume, che, in francese, andava da circa
quattordici anni per le mani di tutti.
La dottrina utilitaristica del Bentham fu accolta da molti con pieno consenso, perché la via era
stata preparata dalle opere De l’esprit (1758) e De l’homme (1772) di Claudio Adriano Helvétius,
sensista e materialista, vissuto dal 1715 al 1771, il quale aveva considerato l’egoismo come centro da
cui provengono le azioni dell’uomo. Perciò nel 1817 il Di Breme nel Grand Commentaire sferrò un
attacco contro Helvétius, le cui opere erano le tavole degli utilitaristi, i quali sostenevano che tutto
ciò che viene riconosciuto come bene si fonda sull’interesse. (Si veda il vol. Polemiche del Di
Breme, cit., a p. XII e XIV). Era, al contrario, un fervido benthamiano Pellegrino Rossi; e il Di Breme,
in omaggio alla libera discussione e con pieno rispetto dell’amico, aveva fatto pervenire nel 1816 alla
Biblioteca Italiana uno studio del Rossi sulle dottrine del Bentham, il cui «spirito» egli voleva
direttamente rivelare all’Italia (cioè, non più soltanto per l’interposta opera del Dumont), mettendo in
evidenza «l’alta importanza in ispecie e la fecondità del principio dell’utilità posto dal Bentham per
base del criterio legislatore». (Vedi A. LUZIO, op. cit.).
A sua volta il Manzoni, alcuni decenni dopo, nel 1850, nel Dialogo dell’invenzione, diceva: «Una
tale dottrina, non nova, dicerto (ché senza andar più indietro, è d’Orazio quel verso: Atque ipsa
utilitas, justi prope mater et aequi, in Satire, lib. I, III, v. 98), era stata da poco tempo rimessa in luce
e in credito sotto una nova forma, e con novi argomenti, da un libro intitolato: Dello spirito; libro che
era un discendente naturale e immediato d’un altro, intitolato: Saggio sull’intelletto umano [del
Locke]». In altre parole, la nuova scienza di vita, la così detta «Aritmetica morale», veniva diritta
diritta dal sensismo; e perciò gli pareva fallace.
Il Bentham visse dal 1748 al 1832. Le sue opere principali, per l’argomento qui contemplato, sono:
Introduction to the Principles of Morals and Legislation, 1789, cit.; The table of Springs of action,
1817; The book of Fallacies, 1824; Deontology, apparsa postuma nel 1834. Contro di esse si volse il
Manzoni nelle pagine Del sistema che fonda la morale sull’utilità (1855), aggiunte come appendice
al cap. III delle Osservazioni sulla morale cattolica.
CAPITOLO SECONDO
LA COMPERA DI UN BUON LIBRO
o Censura della «Biblioteca Italiana».
Est ne quisquam in hoc numero qui didicit Aritmeticen: cui
tandem rei? Qui certum doceat quot convenerimus gramatici.
Havvi alcuno fra noi che sappia d’aritmetica? — E perché
questo? — Perché possa dirci quanta è la turba de’ Grammatici
qui radunati.
ERAS. nel coll.o Sinodo
de’ grammatici1.
Entrando dunque nella libreria del «Genio», non potei difendermi da una
specie d’invidia, che in quell’istante m’assalì, della felice condizione del
libraio. Arricchirsi coll’ingegno e colle vigilie degli scrittori, senza aver
debito di professar loro gratitudine; conoscere uno dopo l’altro un’infinità
d’Originali che vengono a gettare il loro denaro per comperarsi la fatica di
leggere; e, stando seduto a grand’agio nel proprio negozio, vedere una turba
d’uomini e di donne che si rompono le gambe nella strada, e vanno in volta
dì e notte per le loro faccende, ecco la felice condizione del libraio, ma più
che di tutt’altri, del «Libraio del Genio».
Su via spicciatevi garzoncelli (diceva egli quando entrai), portate a que’
tre giovani Signori che son venuti ier sera un esemplare della Letteratura
del mezzo giorno e della Storia delle Repubbliche Italiane del medio Evo
del Sig. Sismondi2, un altro esemplare della Vita e del Secolo di Papa
Leone X, e della Vita di Lorenzo il Magnifico, del Roscoe3, e i sei Volumi di
Ginguenè sulla Storia letteraria d’Italia4. Spicciatevi dico. A quel
Gentiluomo che compra tutti i libri di bella letteratura e di buona filosofia
che vengono alla luce, manderete l’Allemagna di Madama Staël5, ma una
copia francese, intendete bene; le copie della traduzione italiana6 le
imballeremo per la Repubblica di S. Marino, per Monza, e per la nuova
Città di Varese. E tu scrivi su quel piego della traduzione del Corso di
declamazione di Larive7 questo indirizzo: AL SIG. VESTRI IBI UBIa, perché
prima di stamparla voglio le sue osservazioni; e fatto questo, spedisci il
Corso di Letteratura Drammatica di Schlegel9 a quel Professore che mi ha
rimandato indietro il Quadrio e il Signorellib.
— Gran faccende diss’io, gran faccende! aspetto ch’ella abbia respirato
per commetterle un libro ancor io.
— Perdoni; i compratori si pentono tante volte delle commissioni che mi
danno, ch’io m’affretto ad eseguirle per non lasciar luogo al pentimento.
— Molto bene, ma non importa. M’è stato detto ch’ella abbia ristampato
la Scienza nuova del Vico; vediamo con che caratteri, con che carta.
— Eccole un esemplare ed il manifesto. Ella potrà chiarirsi di tutto.
— Io leggo il manifesto: «Lo scopo di quest’opera è di provare che gli
uomini sentono il necessario, poi l’utile, poi il comodo, poi il piacere, poi il
lusso, poi lo scialacquo, e quindi la loro natura è primamente cruda, poi
severa, poi benigna, poi dilicata, poi dissoluta…». Ah sciagurati, ah
guastamestieri, questa è la Scienza nuova?… Questa sarebbe una scienza
vecchissima. Sig. Libraio, bruciate il manifesto, e fatevi restituire i vostri
due scudi dall’imbrattacarta che lo ha disteso.
— Che strano furore è il suo, disse il libraio. Prosegua a leggere e vedrà
che così definì quest’opera l’illustre Autore dei Secoli della letteratura
italiana10.
— Non so se questo sia, né voglio ora cercare i volumi del Corniani, che
ho conosciuto negli estremi e freddi giorni della sua incontaminata
vecchiezza. Ma se voi affermate il vero, il Corniani ha dunque scambiato lo
scopo della Scienza Nuova con una sola fra le mille idee ingegnose del
Vico, le quali concorrono alla formazione del suo sistema. E se questo è,
non avrò io ragione di adirarmi con que’ tanti che si lagnano degli ingiusti
giudizi degli stranieri sulle opere nostre, quando non sappiamo noi stessi né
giudicarle, né farle conoscere come si conviene? Lo straniero interroga i
nostri annali letterari e i nostri Giornali, per formarsi un’idea degli autori
italiani che noi più vantiamo. Se i giudizi che ne raccoglie sono imperfetti
od anche falsi, di chi ne è la colpa? Questi Giornali, questi Giornali…
— Adagio, adagio, riprese il librajo; quando ella tocca il proposito del
merito dei libri e dei giornali italiani, io non me ne intrico. Eccole là in
quell’angolo chi, ascoltate le accuse di lei, potrà farle ragione.
Mi volsi in quel mentre, e vidi un tale che se ne stava leggendo. Sentendo
parlar di sé, si rizzò, e con molta gentilezza venendomi incontro: «Di che si
tratta», disse, «e che si vuole da me?». Allora io, povero galantuomo, mi
levai il mio tondo cappello, ed egli il suo angolare e piumato; e così ci
femmo l’un altro due sperticatissime riverenze, che meritavano di essere
incise a perpetua memoria, tanto strambamente io feci la mia, e tanto
garbatamente egli seppe farmi la sua! Indi lasciando il linguaggio d’azione,
«Mi spiace», dissi, «che il librajo l’abbia disturbata per causa mia: Ella
studiava, ed io cicalava al mio solito; e mi doleva che i nostri Giornali non
sieno distesi con quella perizia, che è necessaria a far ben conoscere e
valutare con aggiustatezza in Italia e fuori le produzioni dei nostri ingegni».
— Ella, prese a dire il letterato con una vocina lenta lenta, ella non ha
una ma cento mila ragioni. Che erano mai e i Poligrafi, e gli Antipoligrafi, e
gli Annali di scienze e lettere, e i Giornali d’Incoraggiamento, se non
compilazioni dirette dallo spirito di parte, in cui si lodava si biasimava a
capriccio, e senza aver di mira la comune utilità? È vero che la lode è
proprio il mele di noi altri letterati; che la censura e il biasimo sono le armi
colle quali facciamo e battaglie e conquiste. Ma ci vuol giudizio in tutto, ci
vuol economia, arte; ci vuole insomma tuttociò che quei signori non
possedevano.
— Mi pare, diss’io, ch’ella faccia d’ogni erba fascio; ma ad ogni modo
non prenderò a disputare con chi deve saperne più di me.
— Oh sì, ella mi creda, mi creda pienamente; io sono in istretta alleanza
con tutte le alte e basse potenze della letteratura, e «so quel che dico quando
dico torta».
— Buon proverbio, ripresi, quando si tratti di pasticcieri, ma non di
scrittori. Pure che vuol ella significare con questo?
— Voglio significare che viste, esplorate, notomizzate tante magagne, la
bisogna va ora assai meglio; e che abbiamo finalmente una Biblioteca
Italiana, destinata ad emulare la Britannica, la quale farà del bene,
infinitamente del bene alla letteratura ed alla filosofia, ponendo sovra
giustissime lance tutti i libri che compariranno in Italia dal piede dell’Alpi
sino al capo di Palinuro.
— Ah per carità non collochiamo le nostre speranze nella Biblioteca
Italiana. Me n’è stato detto e scritto tanto male!
— Gliene hanno scritto male? e chi ebbe mai tanto ardire? Sarà forse
qualche letterato non invitato dai Compilatori ad essere loro collaboratore.
Già l’ho sempre detto! non si può fare il bene senza incontrare molti
nemici.
— Qui poi ella sbaglia. Chi me ne scrive è un amico mio, il quale paga i
suoi ventiquattro franchi di associazione alla Biblioteca; studia molto e
senza vanità, e vive nella solitudine della campagna per essere più vicino al
vero ed alla schietta natura. Ho meco la sua lettera, e se vuol sentirla…
— Veramente oggi parte lo spaccio della posta, ed ho una corrispondenza
epistolare-letteraria così estesa, che non mi resta quasi un minuto da
perdere. Pure scriverò dieci lettere di meno, ed ascolterò quella ch’ella
m’offre di leggere.
— In questo caso abbia la pazienza di sedere, perché la lettera è lunghetta
e scritta con qualche ripetizione; come accade ai solitari che non vedono
che se stessi, e l’oggetto a cui pensano, e non curano di esprimersi con
quella sobrietà che tanto si studia da chi vive in società e con molte
faccende. Intanto m’ascolti.
Lettera di un Solitario al Galantuomo.
«Carissimo,
«Ti scrivo disteso sull’erta di questa collina che mi ha veduto nascere, e
all’ombra di queste piante antichissime, intorno alle quali deve ricordarti
che abbiamo condotto assai volte le danze e i tripudi innocenti della
fanciullezza. Ti scrivo dopo aver letti i vostri giornali politici e letterari, dai
quali il maggior frutto ch’io ne derivi è di convincermi sempre più della
vanità delle vostre passioncelle e dei vostri studi. Sai tu che questa mattina
era deliberato di farti un’intemerata, perché co’ tuoi consigli m’hai indotto
ad associarmi alla Biblioteca Italiana? Quante speranze, borbotto adesso
fra’ denti,
Quante speranze se ne porta il vento!12
a. Distintissimo Recitante italiano, che sarebbe ottimo se non avesse l’obbligo di piacere anche alla
moltitudine8.
b. Due scrittori sull’Arte e sulla Storia del Teatro che non si possono più leggere da chi sappia di
quell’arte, specialmente il Quadrio nella sua opprimente e voluminosa Ragione e Storia d’ogni
Poesia11.
c. Sarebbero necessarie molte pagine a ben sviluppare la definizione sovra enunciata. Questo non è
né il tempo né il luogo. Ma per chi non intendesse affatto, si avverte che la letteratura constando di
poemi e di romanzi d’ogni genere, di storie e d’erudizione d’ogni genere, e di opere morali e
speculative sulle passioni e sull’intelletto, e le quattro facoltà che devono insieme concorrere alla
creazione di simili opere, cioè la memoria, la fantasia, la sensibilità, e il ragionamento, essendo
potentemente modificate negli Scrittori viventi dallo «stato» della «Società» in cui sono collocati, ne
viene di conseguenza che la letteratura, presa in astratto, è l’«elegante espressione del maggior grado
di civilizzazione di un popolo» nell’epoca in cui fioriscono gli scrittori istessi.
d. Vedi il Proemio della Biblioteca Italiana.
e. V. fasc. II della Biblioteca pag. 166.
f. Vedi su questo argomento l’articolo della Biblioteca Italiana Fascicolo II, pag. 173, ove
lungamente si espongono le opinioni qui combattute39.
g. V. pag. 186, fasc. V.
h. L’autore è ora avvertito che si sta preparando l’estratto dell’opera di Gioia da un Collaboratore
della Biblioteca Italiana.
i. V. fasc. II, pag. 166.
j. Qui il Solitario, che scriveva questa lettera senza pensare a stamparla, diverge dal soggetto
principale della censura della Biblioteca Italiana; ed espone all’amico suo l’impressione che ha
raccolta dalla lettura della storia del Botta tanto rispetto all’orditura generale, quanto rispetto allo
stile ed alla lingua. Per conservare un po’ più l’unità del tutto, si è creduto opportuno di stralciare
questo tratto del contesto della lettera e di trascriverlo nella seguente forma.
«La libera e potentissima Inghilterra mal frenando l’ebbrezza di tante vittorie riportate sulla
Francia antica di lei emula, e spinta anche dal bisogno di ristorare le proprie finanze, rinunciò ad un
tratto al lungo amore con che aveva riguardate le sue Colonie d’America, e contro lo spirito delle
costituzioni tentò d’imporre ai Coloni alcune tasse. I Coloni usi da secoli ad un largo vivere e consci
delle proprie forze e dei propri diritti, rintuzzarono coraggiosamente con ogni modo di rimostranze
gli assoluti comandi del Governo Inglese; e tornando vane le rimostranze, si corse all’arme d’ambe le
parti. Durò la lotta sanguinosa per ben quindici anni, con tanta contenzione ed ardenza d’animi
quanta ne doveva far nascere un violentissimo amore di libertà, compresso da una tirannide irritata.
Per alcun tempo le potenze d’Europa si stettero spettatrici; ma alcune di esse veggendo già piegare la
bilancia in prò dell’America, e mal dissimulando la smania di veder abbassata la potenza Inglese,
congiunsero le loro armi a quelle de’ Coloni; e l’indipendenza degli Stati venne finalmente fondata.
«È questo l’interessantissimo suggetto che l’Autore abbracciò nei quattordici libri di cui consta la
sua storia. L’arte con cui egli fuse in un sol tutto luminoso ed armonico gli eventi di una guerra
guerreggiata nello stesso tempo in luoghi diversi; e strinse in un sol corpo le varie opinioni de’ tempi
in America, ed in Europa, e gli opposti interessi de’ due principali combattenti, e quelli altresì de’
Potentati d’Europa in quanto riflettevano la guerra americana; quest’arte, difficilissima a possedersi,
sarà sempre nel Botta altamente pregiata da ogni intelligente ed assennato lettore. Degna di egual
lode è l’imparzialità de’ giudizi colla quale questo Scrittore procede nel suo lavoro. Vi si espongono
senza menomarle le contrarie ragioni delle due parti; le cose e gli uomini compaiono
successivamente innanzi al lettore senza che la penna dello storico ponga in lume soverchio i pregi
degli uni, o lasci troppo velate da un’ombra protettrice le colpe degli altri. Con questo esempio di
candore, e collo sviluppamento dei sani principii di filosofia e di diritto politico, il Botta ha
singolarmente ben meritato della patria.
E per dire alcuna cosa dei caratteri, fra i tanti da lui tratteggiati, si fanno distinguere quelli di
Washington, invitto e magnanimo liberatore dell’America; di Franklin, il Socrate politico de’ suoi
tempi; d’Arnold, Pausania del nuovo Mondo, e traditore d’audacia degna di miglior causa; di
Guglielmo Pitt, acerrimo sostenitore della libertà americana nello stesso Parlamento inglese; di Lord
Nort, il primo fautore della guerra, ed il più risentito oppugnatore dei diritti dei Coloni; dell’umano e
prode Mongomerrì, e dello sfortunatissimo giovane André, vittima d’un’eroica amicizia. Né questi
caratteri emergono da un vano sfoggio di pompose parole; ma da que’ sentimenti sfuggevoli o da
que’ tratti fortemente scolpiti, che soli e più che le fredde considerazioni della filosofia rivelano
l’intimo petto dell’uomo.
«Quanto allo stile non vuoisi defraudare questo Scrittore delle lodi che gli sono dovute per la
profonda perizia ch’ei mostra della nostra favella; la quale piegò non di rado con felice maestria
all’espressione di idee e di fatti, che per essere il resultato dei progressi della marineria, dell’arte
della guerra e della filosofia politica de’ nostri tempi, dovevano riescire malagevoli a ben definirsi.
Né manca egli di forza e di rapidità di stile, né di venustà ove la severità del soggetto noi vieta; e la
patetica descrizione del miserando eccidio della fiorente Colonia di Viomino, e quella del famoso
assedio, assalto, e difesa di Gibilterra, e quella animatissima, sebbene non sobria abbastanza,
dell’orribile tempesta delle Antille nel 1780, possono addursi come prove di stile pittoresco. Se non
che è da dolersi che in quella parte dello stile che più propriamente riguarda la disposizione delle
parole e le locuzioni, trasparisca troppo visibilmente la servile imitazione dei chiamati Classici del
buon secolo, e specialmente del Varchi, e non di rado poi del Davanzati e del Guicciardini. Il
pensiero è talvolta inceppato o menomato o travvisato da un giro di parole indeterminate o superflue,
o dimenticate affatto, colle quali l’autore mira ad imprimere nella sentenza un movimento sonante e
classico, come dicono, anzi che ad esprimere evidentemente la sostanza del suo pensiero. Che dirò di
que’ pretti fiorentinismi dei quali va macchiata quasi ogni pagina della sua storia, e che tanto
sconciano la dignità dello stile e quella persino del soggetto? Le quali viziose maniere allora più
muovono dispetto quando l’autore, per accrescere diletto colla varietà, espone in modo drammatico
le opinioni dei più grandi uomini di Stato Inglesi ed Americani; introducendoli a sostenerle con
arringhe e concioni. Quest’artificio, lodato dai Retori, dovrebbe essere tanto più simile al vero, e
quindi tanto più bello nella storia del Botta, quanto che in realtà que’ Discorsi furono spesse volte
pronunciati in diverse occasioni dai personaggi che l’Autore fa parlare, parafrasando o traducendo le
originali memorie che se ne conservarono. Ma per colpa di questa mal consigliata imitazione de’
nostri storici, si distrugge tutto l’incanto di una sì bella illusione; ed i Pitt, ed i Grenville, e i
Vashington si trasformano in altrettanti Gonfalonieri di Firenze. Io so che il Botta non si lascerà così
facilmente persuadere d’aver errato in questo. Poiché come dichiara nell’avvertimento preposto alla
storia, ei crede che “le lingue sieno come le piante alle quali è dato un sol tempo per portare il fiore, e
che quindi si renda benemerito della bella letteratura chi si studia di ritirare la nostra favella verso i
suoi principii”. Io credo all’opposto, per continuare col suo paragone, che come una pianta non
fiorisce una sol volta insino che è viva, ma col rinnovarsi degli anni rinnova la pompa di cui si
ricopre; e trasportata in altro terreno e in altro clima, varia con alcuni accidenti le foglie ed i frutti che
produceva dapprima; così debba dirsi, che le infinite mutazioni recate dal tempo a tutte le umane
cose debbano anche impressionare le favelle; e che ricondurre strettamente a’ suoi principii una
lingua parlata dai presenti uomini dissomigliantissimi da quelli del trecento, non sia già un
correggerla, ma un soffocarla. Bisogna prendere una via di mezzo
Tra il parlar de’ moderni e il sermon prisco46
e consultate l’analogia, l’etimologia, e le affinità logiche tanto delle idee quanto dei vocaboli che
ne sono il segno rappresentativo, scostarsi del pari e dalla superstiziosa adorazione degli uni, e dalla
invereconda licenza degli altri in fatto di lingua. E l’Italiana può, senza temere d’essere contaminata,
prendere tutte le pieghe, e colorire le sfumature più lievi che tanto si vantano in altre lingue moderne.
Se il sig. Botta avesse mirato a questo utilissimo intento, niuno forse più di lui avrebbe potuto
giovare la nostra letteratura infelicissima in questo, e contristata dalla scolastica disciplina di tanti
pedanti. Né egli avrebbe, con sì grave macchia della sua storia, peccato contro le leggi della
verosimiglianza e del decoro dando il contegno l’aria la favella de’ Magistrati delle nostre
Repubbliche del Medio Evo, ad uomini distanti da loro di tre o quattro secoli, che parlarono lingue
ricche di modi e di colorito diversi affatto da quelli dell’antico italiano; e che sebbene collocati per
qualche rispetto in circostanze analoghe, avevano ed hanno costumi pensieri e caratteri in tutto
differenti. Non conosco il signor Botta, ma so che è travagliato dalla fortuna; e che il suo libro non
ebbe né in Italia né in Francia lo spaccio che meritava. Ma se osassi inviargli un consiglio, vorrei
pregarlo di togliere da tante belle pagine da lui scritte, “e i mai sì e i mai no e il far cerchiolini e
capanelle e all’avvenante” usato avverbialmente per significare a proporzione, e i “popoleschi” per
popolari, e le “parti direttane dell’Isola” per le estreme parti, e l’“imbeccherare”, e il “dar la
spogliazza” per predare e i “ghiribizzatori che vanno girandolando arzigogoli per trar la pecunia dalla
borsa del popolo”, e quell’eterna parola “pecunia” usata sempre in vece di moneta, e il “conficcare, e
ribadire” per dire ostinazione, e il “moiniere” per cortigiano, e l’“aver alle costole”, e que’ suoi
“tamburini” per denotare parlamentari od araldi, e le “petizioni infiammative” in luogo di scritti
sediziosi, e “il ben vogliente” per benevolo, e il “rinfuocolare” per inasprire, e “il confortarsi cogli
aglietti” per confortarsi con baie: e infiniti altri vocaboli, che non sono grazie ma orribili smorfie di
lingua, e che sarebbe opera disperata il tutti raccogliere. Vorrei pure pregarlo di togliere qua e là quei
soffocanti periodi di trenta righe, per la gran ragione che gli Italiani non hanno i polmoni tre volte più
capaci di quelli degli altri uomini; e fatte che avrà tutte queste emendazioni (che non sarà fatica di
lieve momento) oserei quasi assicurarlo che il suo libro verrà infinitamente più letto e stimato
dall’universale».
È un gran male lo star lontano lungo tempo della Patria. S’io fossi
sempre vissuto in Milano, diceva fra di me soffermandomi inanzi
all’artificiale montagna di sasso del nostro Duomo, s’io fossi sempre
vissuto in Milano avrei conosciuto quel sig. Letterato; e non mi sarebbe
occorsa la strana scappata a cui m’ha condotto la mia imprudenza. Questo
pensiero mi fece risovvenire che era qui tornata di fresco un’elegante
signora, alla quale aveva il debito di render visita. E non avendo altro a fare,
m’avviai alle marmoree soglie della Dea.
Entrando negli arcani penetrali, la trovai neglettamente distesa sovra un
mollissimo canapè.
L’aere era profumato di mille essenze, una ventilazione freschissima
temperava gli ardori della state; e penetrava appena nella cameretta
incantata un sottil raggio di luce, che né tutta vinceva né tutta rispettava
quell’oscurità la quale debb’essere conservata nei sacri recessi. Era seduto
di rincontro alla Dama un Leggiadrissimo, che diceva queste parole: «Io
sono pronto a morire per il bel sesso, andrò fra tigri e leoni, scenderò
armato della mia cetra sino nell’inferno, e rapirò all’Orco, se così
comandate, le anime di quegli amanti che avete perduti nelle battaglie. Ma
voi, elegantissima Dama, rimeritatemi col rispettare l’Italia; e non venite a
dirmi che non vi dà cuore di leggere un sol libro italiano, e che non
abbiamo ragione di dolerci di Madama di Staël». Così dicendo il mio
Leggiadrissimo si riadattava la cravatta sotto il mento, s’alzava, tornava a
sedere e ad alzarsi, e passeggiando faceva suonare sul pavimento un enorme
bambou, che nel Regno di Siam sarebbe adoperato per altri utilissimi usib.
La Dama prendeva fuoco ancor essa, e balzando in piedi prorompeva…
«Risparmiatemi queste galanterie mezzo moderne e mezzo mitologiche;
voi non conoscete più in là ed io non so che farne: e vorrei piuttosto che voi
altri tutti, i quali pretendete d’aver animo gentile, cominciaste a dar prova di
questa vostra gentilezza parlando con più rispetto di una donna che è
celebre in Europa e che onora il nostro sesso».
— La signora ha ragione — presi a dire io, ponendomi «terzo fra cotanto
senno» — e mi permetterà che invece d’interrompere la disputa con vani
complimenti, io le faccia la mia corte mettendomi dal suo canto, e
battendomi in qualità d’ausiliario contro di voi.
— No — diss’ella — io non so disputare a lungo. Non so altro se non che
mi ha più dilettato la Corinna di Madama Staël che i cento Sonetti a Nice
dedicatimi da questo Signorino nel Giornale delle Dame, e i suoi tanti
epigrammi e madrigali, che solo a rammentarli mi fanno sbadigliare. Ma
poiché ci siete vi batterete in vece mia, ed io starò spettatrice. Avanti,
Signorino; apra un po’ più le imposte di quella finestra, e legga a questo
buon galantuomo quei tratti dei due «articoli italiani» ch’ella m’ha tanto
vantati. Ma non dippiù, ch’io non voglio annoiarmi.
Un po’ mortificatello per queste rampogne, l’amante docilissimo obbedì
al comando, e lesse quanto seguec:
«Investigando io le cause morali, onde gli Italiani a differenza delle altre
nazioni facciano sì poco conto delle glorie loro per andar in cerca delle
straniere, altra non ne saprei trovare, se non se un’assoluta mancanza
d’amor nazionale».
— Oh diavolo! — diss’io. — Quando sentii quell’«investigando io le
cause morali», m’aspettava che uscisse fuori una qualche bella ragione non
veduta da nessuno. Invece questo signor T. C. viene a dirci che noi non ci
stimiamo né ci amiamo, perché non ci stimiamo né ci amiamo; e questa è
veramente una nuova e profonda maniera d’investigare le cause morali.
— Aggiungete — disse la bella — che ciò non è vero; perché sono dieci
anni che i Professori dei nostri Licei e delle nostre Università stampano per
istituto una volta all’anno qualche elogio dei grandi Italiani; e mi sono a
quest’ora stati regalati tanti Elogi, Vite, e Ritratti d’illustri Capitani,
d’illustri Politici, d’illustri Artisti, d’illustri Letterati, d’illustri Fisici,
d’illustri Musici, d’illustri Sonatori, d’illustri Italiani Morti e Viventi ch’io
non so come si possa dire che noi andiamo a rilento in lodarci!
— Ve la do vinta per questo — riprese il Leggiadrissimo, volendo fare il
disinvolto; — e salto di pianta al secondo articolo, poiché il rimanente del
primo non riguarda che la Biblioteca Italiana.
«Comincia essa (la Baronessa di Staël) dall’inculcare le traduzioni delle
opere più eccellenti dell’umano ingegno, perché, dic’ella, le opere perfette
sono sì poche e la invenzione in qualunque genere è tanto rara, che se
ciascuna delle nazioni moderne volesse appagarsi delle ricchezze sue
proprie sarebbe ognor povera. Ottimo è il consiglio, e noi entriamo nel
parere di Madama quando ne dica che ogni Nazione sarebbe sempre povera
accontentandosi delle ricchezze sue proprie. Ella avrebbe però dovuto
eccettuare l’Italia, come quella che possedendo a dovizia opere eccellenti
anche senza traduzioni rimarrà pur sempre ricchissima…».
— Tacete, fatemi grazia, tacete, o Signore; e voi, Madama, tiratevi
indietro, ch’io vedo qui sotto un abisso di presunzione che minaccia
d’inghiottirci tutti. La Staël parla della «rarità delle opere eccellenti, e
dell’invenzione» in qualunque genere; di quella rarità ch’è stabilita per
decreto della natura, la quale ha voluto che l’umano ingegno fosse stretto in
angusti confini, e che solo alcuni genii privilegiati potessero varcarli a
quando a quando. Ora il sig. T. C. vuole assolutamente che la natura abbia
infranta una sua legge universale unicamente a favore delle infinite teste
ch’ella fa nascere in Italia; e che se le altre nazioni hanno un’opera perfetta,
noi n’abbiamo cento!
Allegramente. Andando di questo passo posso aspettarmi ancor io
d’essere chiamato un grand’uomo; e può aspettarselo anche l’ignoto autore
dei due articoletti italiani!
— Ma, Signor Galantuomo, sia sincero in tutto. A buon conto tante
scoperte sono state fatte dagli Italiani.
— È vero: ma sono state fatte quando le altre Nazioni studiavano meno
di noi. Ora che noi studiamo meno di loro, esse o perfezionano le nostre
antiche scoperte, o ne fanno delle nuove.
— «Alto là che al suo dir qui pongo intoppo» — tornò a dire il
giovinotto. — Chi ha fatto una scoperta simile a quella di Volta?
— Volta — risposi — è uno di quei rari genii che compariscono, come
già dissi, di secolo in secolo e in Italia ed altrove. Ma basterà la sua sola
scoperta a formar la coltura d’una nazione in fatto di fisica? E che sarebbe
questa scienza, ora così fiorente, se fosse ridotta alle sole verità trovate da
noi? Chi è che abbia saputo fare qualche solenne applicazione di questa
grande scoperta sull’elettricità? Nessuno. È stato necessario che la pila di
Volta passasse nelle mani dell’immortale Chimico inglese Davy2, perché il
mondo vedesse uscirne nuovi ritrovati d’alta importanza; e riconoscesse
nella pila voltiana un potentissimo stromento d’analisi chimica. Ai Francesi
ed agl’Inglesi sono pure dovute le scoperte recenti sulla luce; e il trattato di
fisica del sig. Biot3 è un’opera dalla quale gl’Italiani possono imparare più
d’una cosa. Noi avremmo durato gran fatica ad uscire dalle teorie
flogistiche4, se Lavoisier5 non fondava la nuova chimica, e se Bertholet6,
Vauquelin7, Gay-Lussac8, Thenard9 e tanti altri non l’ampliavano con
infinite applicazioni utilissime alle arti10. E in mezzo all’uso giornaliero che
tutti facciamo delle invenzioni straniere, si osa scrivere che noi soli sulla
terra non abbiamo bisogno d’alcuno? Dividiamoci suvvia dalle altre colte
nazioni; e se le Alpi ed il mare non bastano a separarcene, alziamo un gran
muro come quello della Cina, non per opporlo al Tartaro devastatore, ma
per impedire che giunga sino a noi la luce tranquilla e fecondatrice della
coltura europea.
La Bella che stava ascoltando assentiva col capo, ed io proseguiva.
— Cessiamo, vi prego, dal leggere questi articoletti che non possiamo
coll’autore loro denominare «Italiani» poiché va oramai negato un sì bel
nome a tutto ciò che ha poco valore, o che gonfiandoci d’orgoglio tende a
contrastarci i frutti della comune civilizzazione. Che se mai noi siamo
assaliti, come alcuni pretendono, dalla malignità degli stranieri, i quali
vogliono manomettere la fama dei nostri maggiori e di noi; non bisogna
lanciare contro questi nemici armati di tutte le armi un dardo impotente
come quello del Priamo di Virgilio11; ma vuoisi alcun magnanimo
propugnatore della nostra causa, il quale sfavilli di propria gloria e di valore
e di forze. Né a far risorgere la nostra letteratura (che è il vero ed unico
oggetto della disputa) basta ricantarci, siccome adopera il sig. T. C, il
consiglio d’Orazio:
a. Questi due articoli furono inseriti nei Numeri XX e XXII del Giornale delle Dame 2° Trimestre,
Anno 181614.
b. Nel Regno di Siam si puniscono i delinquenti a colpi di bambou.
c. Gli articoli del sig. T. C. hanno il doppio oggetto di censurare la Biblioteca Italiana, e di assalire
Madama Staël sotto l’usbergo dell’amore della patria. Quanto alla censura della Biblioteca, l’Autore
ha esaurita la questione in modi ben diversi da quello del sig. T. C.;quanto a Madama Staël, ei prende
ora ad esaminare le di lui opinioni.
d. Coloro che scrivono poco e male, o non iscrivono nulla, hanno due strade da prendere per far
parlare di sé. O lodare smaccatamente gli Scrittori che hanno fama, senza sapere perché li lodino; o
scagliarsi contro di loro, come un nuvolone di mosche, e tentare di tormentarli con milioni di
punture. Questo secondo partito vien ora scelto a preferenza; e per aver campo di spiegare molta
audacia e scarse forze, si sogna che gli stranieri offendono la nostra gloria e si combatte (cosa che in
seguito apparirà manifesta) contro un molino a vento come facea Don Chisciotte. Sappiano intanto
gli assalitori della Baronessa di Staël, che ad essi è lecito di farle villania co’ loro articoli di Giornale;
e vogliano generosamente compatirci, se abbiamo la stoltezza di tenere la loro opinione in istima un
po’ minore di quella in che teniamo il voto d’intiere Nazioni. Ci ricordiamo che gli Stati-Uniti hanno
dimandato solennemente il busto della Baronessa; ci ricordiamo che quando ella giunse a Londra per
la prima volta, i grandi, i dotti, e persino il popolo di quella gran capitale si precipitavano in folla alla
di lei casa, come alla reggia d’un monarca. Con simili rimembranze pel capo, supplichiamo di nuovo
che ci si perdoni la colpa di non essere tanto italiani come sono essi; e di ammirare quel chiarissimo
ingegno, che ha destato l’entusiasmo di due Nazioni distinte sulla terra per giudizio e per freddezzal.
1. Trussardo Caleppio cercò di vendicarsi del giudizio, dato dal Borsieri su di lui in questo
capitolo, pubblicando nel Corriere delle Dame del 21 settembre un’insulsa favola in versi, intitolata
Le fiere e il moscerino: un moscerino durante un’aspra battaglia, suscitata tra le belve da una
cornacchia, si nasconde sbigottito sotto una fronda; ma quando ha termine la rissa e ognuno si ritira
stanco, esce d’agguato e corre a punzecchiare gli altri animali, finché un orso, presolo con le zampe,
gli strappa le alucce. L’orso disdegnoso sarebbe stato lui, Trussardo; il moscerino, Borsieri.
Vedi Le fiere e il moscerino nel vol. I delle Discussioni e polemiche sul romanticismo a cura del
Bellorini, cit., a pp. 179-182; e vedi il dialogo, Matteo giornalista, Taddeo suo compare, Pasquale
servitore e ser Magrino pedante, in cui il Monti risponde alle ingiurie che T[russardo] C[aleppio]
aveva rivolto all’Acerbi e alla Biblioteca Italiana. Nell’edizione del 1838, Dialogo Critico-
Letterario, cit. a p. 172, sono riprodotte le iniziali T. C.; nelle Prose varie di V. Monti, Milano,
Resnati, 1841, e nei Dialoghi, Venezia, Tasso, 1841, a quelle iniziali sono sostituite le lettere N. N.
IL CAFFÈ
ovvero disputa sull’Autenticità e originalità
dei «Dialoghi degli Antichi letterati nell’Eliso».
Ed io gliel dico, che il verbo vagire Non è di crusca: usò il
Salvin vagito; Ma a ogni modo vagir non si può dire.
ALF.1, nella Sat.a I Pedanti.
Terminato così il racconto del sogno, voleva andarmene pe’ fatti miei; ma
uno del crocchio, il quale teneva un libro vecchio sotto il braccio destro, mi
trattenne per la falda dell’abito, e mi disse: — Non le negherò che i
Dialoghi dell’Eliso annoierebbero meno se fossero scritti drammaticamente
come vorrebbe il suo Aristarco. Ma ad ogni modo, chi mai potrebbe
dissimulare i pregi di lingua che in essi risplendono?
— Nessuno — risposi — ed io molto meno degli altri; poiché vedo in
quest’istante sotto il suo braccio la gran miniera dalla quale i Dialogisti
cavano i tanti tesori che poi profondono a man piene.
— Come? Ella conosce questo libro?
— Sì certo: I modi di dire toscani ricercati nella loro origine da
Sebastiano Pauli31. V’aggiunga un po’ di Crusca nei radi luoghi dove tace
il Pauli, e presto s’infiora di toscanesimi uno stile per nulla italiano, e si
scrive per ingiuriare un poeta che onora l’Italia32 questo intero periodo: «Ei
roda pure i chiavistelli, che i muccini hanno aperto gli occhi, e i cordovani
sono rimasi in Levante, anzi non è più tempo che Berta filava, e i paperi
menavan l’oche a bere»n. Io le giuro che se il gran Sancio Pancia, scudiere
del gran D. Chisciotte, fosse nato italiano e non spagnuolo, egli avrebbe
saputo scrivere nell’Eliso, e soddisfare ad un tempo la sua bella passione
per i proverbi.
— Mi pare — rispose l’uomo dal libro vecchio sotto il braccio — ch’ella
«monti sul quamquam, e attacchi ad un arpione i riguardi». Le duole
dunque che siasi strapazzato il poeta Monti? I Dialogisti sono imparziali,
signor mio, e non guardano più che tanto. Essi sanno lodare l’Autore delle
Cronache33 dimenticato da tutti, e biasimare il Traduttore dell’Iliade
ammirato da tutti. In letteratura non si deve sentire amicizia.
— Né inimicizia — ripresi. — Le par egli che Omero debba stringere le
labbra quando gli si parla di quella versioneo; e che debba dirsi un «ardito»
chi la chiamasse opera classicap, e che debba affermarsi che Monti
disprezza le Cronache perché non sono un «Centon di Lucanei concetti?»q.
Se si procede di questo passo fra noi, come osar poi di esigere che gli altri
ci rispettino? Qualunque nostro oscuro scrittore può avvilire, e
impunemente contaminare di fiele il nome di un Poeta celebre in Europa;
ma se uno straniero che abbia gran fama ancor esso, avventura in mezzo
alle lodi qualche giudizio un po’ severo sulle cose nostre, ecco meniamo un
rumore che pare che l’Italia si sobbissir; e citiam tosto, per provare le nostre
glorie recenti, i Visconti34, i Lagrangia, ecc., e quel Monti medesimo che
indegnamente e con manifesta contraddizione amerebbero alcuni di poter
calpestares!
— Non vorrei che le venisse la febbre, sig. Galantuomo; e badi bene che
il riscaldarsi per gli altri nuoce alla salute ed alla fortuna. Ma pur
concedendole che di Monti, poeta e letterato noto in Europa, si debba
parlare con più rispetto; non resterà provato per questo che la sua Iliade sia
il non plus ultra dell’ingegno umano; e che uno scrittore che ha tradotto
senza grammatica greca, abbia veramente tradotto. Io che sono amico dei
Dialogisti dell’Eliso, so che fra loro ve n’ha uno che sa di greco, quanto un
Lexicon37; e ch’egli farà conoscere molte false interpretazioni del Monti, e
che poi tradurrà da capo a fondo tutti i classici greci38.
— Questo sarà veramente — diss’io di rimando, — un impadronirsi della
Grecia a colpi di penna. Ma la prego di dire al suo Grecista-Poeta, che per
ora temperi alquanto la grande persuasione delle sue forze; poiché non si
può parlarne con tanta fidanza se non dopo averle mostrate. S’egli ha
ingegno, sarà meglio per noi e per lui stesso; purché sappia farne buon uso,
e impari un tantino a pensare. Intanto del suo Saggio sul Callimaco si può
dire con tutta verità, che la palma rimane ancora al faentino Dionigi
Strocchi39. Ma tornando all’Iliade di Monti le risponderò che sino da
quando comparve quella traduzione si agitò la gran disputa — «Se un Poeta
che non conosca il greco possa tradurre Omero». — Allora un illustre
Scrittore disse e stampò, che il Monti confermava coll’esempio suo la
sentenza di Socrate «essere l’intelletto altamente ispirato dalle Muse il
miglior interprete di Omero»t. Allora si addusse l’esempio di Pope40 che,
conoscendo pochissimo il greco, ma avendo anima poetica, diede ancor
esso all’Inghilterra la miglior versione della divina Iliade. Né questo farà
meraviglia se non a chi sia tanto nuovo da non sapere che dopo che esistono
lettere al mondo non si è fatto altro dai filologi e poeti e critici di tutti i
paesi che comentare, interpretare, notomizzare Omero; e non solo nei versi
e nelle parole, ma sto per dire nei punti e nelle virgole. Non si è fatto altro
che tradurlo in mille modi e fedelissimi e infedelissimi; in guisa tale che col
soccorso del latino, e con quello di altre lingue moderne e della erudizione,
il Monti ha potuto invasarsi del senso, della forza, dell’intenzione segreta,
d’ogni parola del gran Cantore Meonio. Né questo solo; ma più che tutto gli
giovò la profonda cognizione ch’egli ha di Virgilio, il quale dal canto suo ha
conosciuto ed emulato Omero più che qualunque altro poeta. Così l’autore
della Basvilliana, colui che ha restituito il culto di Dante in Italia, ed
emendata la famosa arroganza di que’ Novatori che volevano imporre un
secondo esigilo al sovrano Cantore dell’Inferno e del Cielo41, è riescito a
rendere nostro concittadino il primo e più glorioso alunno delle Muse42; e ci
ha fatto dono d’una versione che sta all’Iliade come quella del Caro
all’Eneide. E se queste ragioni che sono intrinseche non bastano, io gliene
addurrò alcune altre che fanno più effetto su certe teste. Abbiamo quattro o
cinque versioni pubblicate dai Grecisti Italiani, e nessuno può leggerle;
quella del Monti all’opposto è letta e studiata in tutta l’Italia; e si deve
rispettare il suffragio di una Nazione. Consentono nel nostro giudizio anche
gli stranieri più colti; testimonio il giudizio di Ginguené43, e si deve
rispettare l’universale consenso degli stranieriu. Monti ha sottoposto l’opera
sua alla recensione di Visconti44, di quel Visconti che tutti lodiamo come
profondissimo conoscitore dell’antichità, e come grecista che supera forse il
sapere del Lexicon dei Dialogisti. Egli dunque lodò altamente quel nobile
lavoro e notò con liberale esempio di amicizia letteraria i dubbi più lievi che
potessero insorgere, confrontando il testo greco alla versione italiana. Ora
Monti, con docilità non meno bella, ha talvolta rinunciato alla grazia e
all’armonia de’ suoi versi, per eseguire nella seconda edizione
fedelissimamente tutte le emendazioni proposte dal Grande Erudito Italiano
del nostro secolov.
Se dopo tutto questo le signorie loro non sono contente, e se trovano a
ridire sovra un vocabolo od una frase od un verso, in un’opera che consta
appunto di diciannove mila due cento quaranta quattro versi, da me contati
sulle punta delle dita per comodo di chiunque, si servano pure; io non verrò
a contrastar loro un sì bel privilegio. E uscendo finalmente da questo Caffè,
lascerò ai Vivi-morti autori dei dialoghi il buon giorno nel nostro mondo, e
la buona notte nel loro Eliso, «ove non è che luca».
1. Alfieri. Sul Salvini, v. Carmelo Cordaro, Anton Maria Salvini, Piacenza, 1906.
2. G. Parini nel Mattino, vv. 140-143.
3. È il periodico, di cui parla il Giordani in una lettera all’Acerbi, del 6 giugno 1816: «Guardate un
poco cosa sia quel giornale in forma di dialoghi dei morti che doveva uscir ieri» (A. Luzio, Giuseppe
Acerbi e la Biblioteca Italiana, in «Nuova Antologia», 1896). Era un periodico classicheggiante,
ostile a Mad. de Staël e ai fautori delle letterature straniere. Fu pubblicato da Bernardo Bellini: dal 5
giugno 1816, n. I, al 23 ottobre 1816, n. XXI, col titolo: I Dialoghi, ossia la Conversazione degli
antichi letterati negli Elisi.
4. Apparso nella Biblioteca Italiana. Vedi p. 303. Erroneamente il Borsieri in verte qui i nomi.
Alla stessa guisa il Bettinelli, fin dal 1770, nelle Note all’Entusiasmo [nelle belle arti] aveva
disdegnato «lo stile delle Notti di Young, di Gessner e d’altri stranieri, venuto alla moda».
Vedi Il Parnaso in rivolta, Milano, Mondadori, 1940, pp. 259-280, e pp. 296-299.
5. La Pastorizia, Brescia, 1814. B. I., t. II, pp. 180 e 313; t. III, p. 58.
Cesare Arici di Brescia, verseggiatore ripulitissimo, scriveva più per istudio di eleganze,
vagheggiate e disposte alla maniera dei classici, che non per ispirazione. Nel 1815 aveva pure fatto
una raccolta di suoi Inni di Bachillide (sic), cioè di nove carmi in terza rima, «supposti tradotti da un
testo di Bachillide», che poco o nulla avevan di Bacchilide, ma riecheggiavano piuttosto la
traduzione di Callimaco in terza rima, che nel 1805 aveva stampato Dionigi Strocchi. L’inno a Venere
era stato da lui composto per le nozze del Perticari; e tutta la raccolta voleva essere un saggio di
poesia pronuba e amorosa. I romantici se ne presero giuoco e gli animi tanto si turbarono, che l’Arici
ebbe un orrendo pensiero: che i romantici avessero comprato molti esemplari del libro per
distruggerli.
Quei classicheggianti ammettevano che potesse esservi il poeta più d’arte che di genio. E i
romantici buttavano all’aria tutta la poesia d’arte erudita, perché per loro forma significava principio
formativo interiore, non fraseologia pseudopoetica.
Ma in questo caso anche «gli Elisei», capitanati da Bernardo Bellini, gli furono contro per interessi
polemici particolari e specialmente per ostilità alla Biblioteca Italiana, che tra il maggio e il luglio
del 1816 aveva pubblicato tre articoli del Giordani in lode dell’Arici. Dice il Monti nel Dialogo di
Matteo e Taddeo: «Il nuovo mandatario de’ morti mi ha dimostro che la Pastorizia dell’Arici è
meschino poema, e per lo contrario poema meraviglioso le Cronache di Pindo [dell’Anelli]».
Ribadisce il Giordani nella chiusa del terzo articolo, difendendosi dalla taccia di aver lodato La
Pastorizia dell’Arici per adulazione: «qualche scimunito vorrebbe in vece esaltare certe miserabili
buffonerie che in questi tempi uscirono col nome di Cronache di Pindo: le quali a me pare (e forse
altri dimostrerà) che siano l’estremo ludibrio e la più brutta prostituzione delle povere muse italiane».
Il Borsieri, come è evidente, in questo caso stette col Monti e col Giordani. Si possono rileggere gli
articoli del Giordani in Opere, Firenze, 1846, cit., I, pp. 390-431. Sull’Arici: Amalia Sannoner,
L’ultimo cultore del genere didascalico, in «Commentari dell’Ateneo di Brescia», 1931-32.
6. «Verzé in Milano il luogo principale dove stanno le trecche (mercatine) e dove per conseguenza
vive la purissima lingua di Meneghino». (Nota ai Dialoghi del Monti, Venezia, 1841, p. 148). La
trovata voleva essere una lepida risposta alla Biblioteca Italiana, ostile ai dialetti. Vedi p. 291.
7. Luciano scrisse i Dialoghi degli dei, i Dialoghi dei morti, i Dialoghi marini, e i Dialoghi delle
cortigiane, fra i quali i più famosi sono quelli dei morti, che ispirarono poi, tra gli altri, anche
Gasparo Gozzi, traduttore e imitatore.
8. Fénelon, Dialogues des Morts, celebri, scritti tra il 1700 e il 1718.
9. «Rabulismi»: è parola foggiata su rabula, dal latino ràbula, avvocato ciarlone, facile a
scalmanarsi.
10. Montesquieu, Dialogue de Sylla et d’Eucrate.
11. Fontenelle, Dialogues des Morts (1683). In italiano fu spesso usata nel Settecento e
nell’Ottocento la forma Fontanelle.
12. Il Gozzi tradusse e inserì nel Mondo morale pubblicato a puntate nel 1760, alcuni dialoghi di
Luciano, che furon riprodotti, insieme con le traduzioni di Spiridione Lusi, nell’edizione pubblicata a
Venezia, con la data di Londra, negli anni 1764-1767, Delle opere di Luciano filosofo tradotte dalla
greca in italiana favella.
13. Saverio Bettinelli, Lettere di Virgilio agli Arcadi, dai Campi Elisi.
14. Vedi pp. 278-280. Quei Dialoghi furono veramente inefficaci, non solo per l’abuso della
figurazione, ma anche per la pochezza del pensiero. È da ricordare che anche nel t. I del Caffè (1764-
1765) Giuseppe Colpani aveva introdotto otto Dialoghi dei morti. Su di essi vedi Maria Gallioli,
Alessandro Verri, Milano, Soc. dei Giovani Autori, 1921, p. 162. Il Dialogo IV, Platone e Diogene,
del Colpani, è stato riprodotto dal Piccioni nel vol. Giornalismo del Settecento, Torino, Utet, 1949,
vol. 68 di questa Collezione.
15. Vedi il capitolo seguente.
16. Batillo, poetastro dell’età di Augusto, contemporaneo di Virgilio. L’Eliso era, secondo gli
antichi, il soggiorno degli eroi, dei sapienti, dei poeti, dei virtuosi, non dei poetastri.
17. Anacreonte.
18. vv. 638-641.
19. vv. 950-956.
20. Orazio, Ars poëtica, v. 359.
21. Ivi, vv. 104-105.
22. Così comincia la prima delle Catilinarie di Cicerone e san la frase fin gli scolaretti.
23. Virgilio, Aeneis, IV, 175.
24. Leggi: «Ridentem dicere verum quid vetat?» (Chi impedisce di dire la verità anche col riso?).
Orazio, Sermones, lib. I, sat. I, 24-25.
25. Laterem lavare (later, lateris, mattone) equivale al nostro detto: «lavar la testa all’asino». È in
Terenzio.
26. Legan le parole gli uomini, le funi le corna dei tori.
27. Non aggiungerò più parola (Orazio).
28. Caratteristica figura di pedante nell’insegnar il latino.
29. Argutamente il Monti nel Dialogo di Matteo giornalista, cit., aveva già detto che «la gran
caravana» aveva «preso alloggio al vicolo dei due Muri nella stamperia Visaj e compagni, n. 1047».
30. Notizia scherzosa. Bastano quelle della Frusta, delle quali quelle su Pietro Chiari sono
fondatissime, perché era un arruffone di letteratura e un mestierante di romanzi e teatro; sono un
errore critico quelle sul Goldoni, perché il Baretti non comprese la forma d’arte del grande
commediografo.
31. Il p. Sebastiano Paoli, lucchese, orator sacro, amico dello Zeno, del Muratori, di Scipione
Maffei, nel 1740 aveva pubblicato a Venezia i Modi di dire toscani ricercati nella loro origine.
32. Vincenzo Monti.
33. Angelo Anelli.
34. G. B. Visconti ed Ennio Quirino Visconti, padre e figlio.
35. Intendi: perché sono troppo semplici, sobrie di parola e stile, laddove egli tende al concettismo
e alle gonfiezze di Lucano. Vedi per questa critica al Monti il cap. VI del Borsieri, a p. 343 di questo
volume.
36. Davide Bertolotti nel fase, di luglio-agosto dello Spettatore aveva pubblicato un nuovo
articolo, intitolato La gloria vendicata dalle imputazioni della signora di Staël-Holstein, in cui con
paroloni rinfacciava alla scrittrice di «aver bruttato di fango il peplo della veneranda Italia, e di aver
disfigurato con mano profana gli splendidi lavori dei suoi figli». Per provare l’accusa aveva spigolato
non pochi giudizi sfavorevoli, che la Staël aveva dato sull’Italia e sui costumi degli italiani nell’opera
De la littérature considérée dans ses rapports avec les institutions sociales (cap. X, De la littérature
Italienne et Espagnole), scritta nel 1798, cioè vent’anni prima, e pubblicata nel 1800. Anche il
Giordani, che pur non consentiva con le idee romantiche della Staël, pensava che quelle citazioni non
fossero più tempestive, perché la Staël aveva poi meglio giudicato l’Italia. Scriveva egli all’ab. G. B.
Canova il 19 agosto 1816: «Son veramente dette da lei [cioè, dalla Staël]tutte quelle cose
irragionevoli sopra l’Italia, e non è calunnia attribuirgliele. Ma molte furon dette in quel Saggio sopra
la letteratura, che stampò molto tempo prima di venire in Italia, e perché le furono rimproverate,
promise di ritrattarle e di fare un’opera che gliene desse occasione. Fece la Corinna; e molte cose
anche ivi fece dire a taluno contra gli Italiani, alle quali introdusse chi rispondesse e con molte lodi
dell’Italia. Però l’imputarle ciò che disse nella prima opera, e ciò che nella seconda è detto per modo
di obbiezione, e dissimularne le risposte, è un volere piuttosto vincere ad ogni maniera, che lealmente
combattere».
Era, cioè, un cambiar le carte in tavola e perciò qui il Borsieri preavverte che i giudizi dati dalla
Staël nell’opera stampata nel 1800 non possono essere argomento di polemica nel 1816, dato che la
scrittrice aveva scritto Corinne, in cui dell’Italia si parla con entusiasmo, amore e più viva
conoscenza.
Infatti molti giudizi da lei dati nell’opera De la littérature erano inaccettabili; per es., questo sul
carattere sonoro, tutto esteriore, della nostra lingua e sulla poca attitudine degli italiani alla
concisione del pensiero e alla poesia profonda: «Le bruit retentissant de l’Italien ne dispose ni
l’écrivain ni le lecteur à penser, la sensibilité même est distraite de l’émotion par des consonnances
trop éclatantes. L’Italien n’a pas assez de concision pour les idées; il n’a rien d’assez sombre pour la
mélancolie des sentiments… L’extrème facilité de la langue italienne est un de ses défauts et l’un des
obstacles qu’elle offre aux bons poètes pour élever très haut la perfection de leur style… L’Italien
cause souvent une sorte de lassitude de la pensée: il faut plus d’efforts pour le saisir à travers ces sons
voluptueux, que dans les idiomes distincts qui ne détournent point l’esprit d’une attention abstraite».
Nel romanzo Corinna ella aveva parlato dell’Italia con ben altra conoscenza; e nel 1816, scrivendo
ai «Compilatori della Biblioteca Italiana», aveva ragione di dire che in nessuna opera di là dai monti
l’Italia era stata fin allora più lodata che in quel romanzo: «i giornali francesi, inglesi, tedeschi,
rendendo conto di quest’opera – ella soggiungeva – hanno tutti notato che essa faceva vivamente
amare il paese di cui rappresentava l’immagine».
37. Quanto un vocabolario greco. È Bernardo Bellini.
38. Il Monti nel dialogo di Matteo giornalista, cit., aveva ricordato la traduzione, che il Bellini
aveva pubblicato dell’inno di Callimaco a Giove e aveva soggiunto: «con coraggio da Ercole ne
promette la traduzione di tutti i Classici greci».
Per quella «Erculea, o vogliam dire Atlantea» promessa vedi la lettera del Leopardi Ai compilatori
della «Biblioteca Italiana» (da Recanati, 7 maggio 1816) nel vol. II degli Scritti letterari di G.
Leopardi per cura di G. Mestica, Firenze, Le Monnier, 1899, pp. 81-88; e l’Epistolario del Leopardi a
cura di F. Moroncini, Firenze, Le Monnier, 1934, pp. 28-29. Ivi, a p. 32, con lettera del 17 novembre
1816 il Leopardi scrive all’Acerbi: «L’articolo sopra il Bellini fu scritto da me in tempo che non
sapea dell’autore di quelle Conversazioni d’Eliso che, come è conveniente trattandosi di morti,
puzzan tanto di sepolcro e d’obblio». Altre notizie sul Bellini si possono ivi leggere a p. 4T e a p. 79.
39. Inni di Callimaco di D. Stracchi, Milano, 1805; ristampati a Bologna e a Firenze nel 1816.
40. Alessandro Pope, vissuto dal 1688 al 1744, è noto specialmente pel poemetto riccio rapito; ma
compose anche Epistole, Satire, Saggi in versi (Saggio sulla critica; Saggio sull’uomo) e tradusse in
inglese l’Iliade.
41. Sono il Bettinelli, autore delle Lettere virgiliane, e i suoi seguaci, che ritenevano la Divina
Commedia opera di secolo barbaro, poema «gotico». Il Bettinelli nel 1796, nei Dialoghi d’amore,
accennando al giovine Monti, imitatore di Dante nella Basvilliana, lo aveva detto «Spartaco e
Masaniello in poesia» e, parlando delle imitazioni barbariche, che venivan di moda a dispetto della
radiosa dottrina artistica del bello assoluto, aveva esclamato: «Corri, o Nume del Parnasso italiano e
salva l’Italia, che già sente il redivivo seicento, diviene inglese e tedesca… Salvate la vostra età, o
italiani, dal precipizio imminente». Il Galeani Napioni, amico del Bettinelli, con lui del tutto
consenziente nell’estetica del bello ideale e nella critica a Dante, aveva poi indicato tra i nuovi
pervertitori della poesia gli autori di «romanzi pieni di lutto e di morte» [alludeva ai Dolori del
giovine Werther del Goethe e alle Ultime lettere di Jacopo Ortis del Foscolo; 17 luglio 1807]; i
seguaci dell’Alfieri, che senza avere la sua indole tragica, «congiungevano il genio sanguinario
straniero, cioè l’imitazione dello spaventoso Tragico inglese [Shakespeare], coll’antica ferocia
ghibellina di Dante» [alludeva specialmente al Monti, autore dell’Aristodemo, del Galeotto Manfredi
e del Caio Gracco]; gli ossianici, i quali volevano «far retrocedere la Poesia sino ai tempi dei canti
ferali dei Bardi» [così nella Vita del Bettinelli, da lui scritta al principio del 1809].
42. Dante nel Purgatorio, c. XXII, vv. 101-102, aveva detto Omero
quel greco
che le Muse lattar più ch’altro mai.
43. Vedi p. 124.
44. Ennio Quirino Visconti.
45. La prima edizione era apparsa nel 1810; la seconda, corretta di sui consigli dati al Monti da
Luigi Lamberti, Andrea Mustoxidi, Ennio Quirino Visconti, nel 1812. Altri emendamenti con
amorevole cura furono dal traduttore introdotti nell’edizione del 1820 e in quella definitiva del 1825.
CAPITOLO QUINTO
IL PASSEGGIO
Con quel che segue
O cenni sulle «Cronache di Pindo», e sull’Opera buffa.
C’è per tutti il suo tantino Ma conviene meritar.
Il Sedicente Filosofo,
opera buffa d’Incerto.
Avviandomi verso la Porta Orientale della nostra bella città, trovai gran
gente che s’accalcava intorno alla colonna del Leone. M’accosto, interrogo,
ed un garzoncello mal calzato e peggio vestito che mi stava alle spalle, «è
un malfattore», mi risponde, «che or ora hanno qui arrestato»; e ciò detto mi
dà un’occhiata, sorride, e canterellando quest’arietta
Offa che a far di tutto
Rendi la gente esperta,
Deh vieni, a bocca aperta
Noi t’invochiamo qua,
con quel che segue. Della quale specie di crudele ridicolo, niuno che
l’intendesse poteva prenderne diletto; e nemmeno quei rarissimi che
vengono al teatro levandosi da una mensa incoronata di rose e di tazze
dorate. Poiché siamo tutti uomini; e la compassione che rimane muta nelle
circostanze della vita per la prepotenza dell’interesse personale, parla poi
eloquentemente in teatro ove nulla costa l’essere buoni o il comparirlo. La
natura vuole uno sfogo.
Io non so dunque perché il fecondissimo autore delle Cronache abbia
copiato se stesso in cosa tanto cattiva; né perché essendo dotato di buon
ingegno, non sappia derivarne miglior frutto. Non vuoisi negare, per
esempio, ch’egli abbia l’arte di ben tornire le ottave, e di scrivere in versi
con una certa naturalezza e facilità sebbene la facilità non sia dote gran fatto
ammirabile in un paese, che abbonda d’improvvisatori; e in una lingua tanto
ricca di consonanze com’è la nostra. Al che si aggiunge che non avendo
egli uno stile che si conservi sempre eguale; ma usando e frasi e idee che
ogni altro scrittore più sollecito della buona scelta rifiuterebbe, gli riesce
senza gran fatica di conciliare a’ suoi versi quell’apparenza di naturalezza
che non basta però a sedurre i buoni intelligenti. E chi ha famigliarità coi
poeti converrà meco, che dopo alcune stanze in cui si veggono ricopiati da
lui i modi e le frasi dell’Ariosto, altre ne saltano fuori che ricordano affatto
lo stile delle opere buffei.
Lo stesso dirò de’ bei motti e delle arguzie di lui che pur tanto si lodano
dai benevoli Dialogisti dell’Eliso. A conti fatti per ogni cinque delle sue
tante facezie, un paio sono insipide; altre due son vecchie o note come la
barba d’Aronne; il resto è passabile ma grossolano, poiché le fine saette non
sortirono mai dal suo turcassoj.
Questo non sarà forse difetto di naturale capacità nel poeta; ma avvezzo,
com’egli è, ad ottenere i facili applausi del pubblico, nelle opere buffe,
argomenta forse che la grossolana festività della quale si diletta la
moltitudine possa piacere anche in un poema. Ognun vede quanto ei
s’inganni; e ognuno vede altresì che poteva risparmiare nel testo e nelle
note delle Cronache le tante allusioni e dichiarazioni sulla incalcolabile
difficoltà di comporre ora un’opera buffa. Sì certo, i cantanti esigono molto;
e il pubblico vuole oltre le ariette, che bastavano un tempo, e duetti e
terzetti e quartetti e quintetti e cori e introduzioni e finali; vuole in somma
un’opera buffa. Ma questa finalmente non è la decimaterza fatica d’Ercole,
ove si consideri la facile contentatura del pubblico, che non bada al libretto
purché la musica sia buona. Se mi si domandasse però come debba
comporsi un’opera buffa per farla bene, risponderei: io voglio che l’azione
sia naturalmente aggruppata e naturalmente bene sciolta; voglio che il
ridicolo non si confonda colla scurrilità, e che sia uno spontaneo effetto dei
vari caratteri de’ personaggi ben disegnati e ben condotti; voglio che le
sentenze e le arguzie da Bertoldo5 sieno bandite dalla scena; e che il diletto
non risulti finalmente né da ariette equivoche, né da gesti poco misurati
degli attori. Chi adempisse tutte queste condizioni e scrivesse una
bell’opera buffa, meriterebbe assai lode. Ma chi scrive ora in tal guisa
un’opera buffa?…
Queste e altre cose ragionando
Che la commedia mia cantar non cura6,
m’accorsi d’esser giunto a pie’ delle scale per le quali dai Giardini si sale al
Bastione Orientale; e guardando in alto vidi un tale, ch’io conosco
perfettamente per uomo che ha fatto bene a molti e male a nessuno, il quale
passeggiava tutto solo e pensieroso. Montando dunque le scale, mi procurai
la buona avventura letteraria di cui vi renderò conto nel seguente capitolo.
Ecco la polvere del Pim-pirimpara
Che quanto più si guarda men s’impara?
E dopo sì belle eleganze, osa scrivere della Secchia rapita del Tassoni
L’acqua che versa a noi quella tua Secchia,
Checché ne dica un qualche Gemignano,
Talvolta al gusto mio sa di pantano.
[Stanza 45, Cron. 3a].
E spiega poi nelle note che oltre alcune cose sconce di quel poema, molti notarono pure in esso
«parecchi difetti di stile e di lingua». Modestissima spiegazione, per la quale altri potrebbe credere
che la Secchia rapita valga assai meno delle Cronache di Pindo!
a. P. 10 n. II dei Dialoghi.
b. Vedi p. 11 idem.
c. Nella Cronaca terza à menzionato il Boccalini con questi soli versi:
E ride il Boccalin di quella arena
Che in Adria un dì gli fracassò la schiena.
Il Poeta poteva farlo ridere anche delle Cronache di Pindo, come d’una cattiva imitazione in versi
de’ suoi Ragguagli.
d. Vedi la prefazione di Verri alla traduzione del Giacomelli dei Detti e Fatti Memorabili di
Socrate7.
Si noti che appena Mirra diviene rea della sola manifestazione del suo amore fatale, ella s’uccide;
e poi s’ammiri il bello spirito e la verità degli ultimi due versi succitati.
f. L’autore è troppo occupato per fare una rivista esatta di ciascuna delle cinque Cronache.
Accenna soltanto le cose che si ricorda d’aver notato leggendole.
g. Vedi la stanza 23, Cron. 1a.
h. Vedi la Cronaca terza, intitolata Il secol d’oro.
i. Adduciamo qualche esempio desunto dalla Cronaca del secol d’oro, e precisamente da quelle
ottave che comprendono la bella allegoria della focaccia.
Parlando del Principe che voleva far nascere il Secol d’oro, dice (stanza 52):
Si scorge una regal mensa imbandita
Cui vari duchi infra l’arrosto e il lesso
Sedean raccolti a singolar congresso.
I principi quando seggono a congresso non seggono a mensa; né è mensa regale quella coperta
d’alesso e d’arrosto.
Parlando d’alcuni letterati favoriti dai principi gli chiama (stanza 53):
….. Dotti parecchi,
Cui d’imporre ai Signor la grazia tocca,
Che a sé la pancia empiano, altrui gli orecchi,
Filosofia parlando a piena bocca.
A bocca piena non si può parlare di cosa veruna e molto meno di filosofia; quell’empirsi la pancia
è frase da trivio; ed essere un dotto cui tocca la grazia d’imporre ai Signori, non significa in italiano
«aver la fortuna di farsi stimare oltre i proprii meriti, o di darla ad intendere ai Signori», a guisa del
modo francese en imposer à quelqu’un, come ha creduto l’Autore. Ed egli, che è tanto lodato per la
«purità della lingua», dovea sapere che imporre, secondo la Crusca, vale soltanto comandare o
sovrapporre; e si usa anche in altri sensi che sono però sempre derivati da questi due primi.
Narrando poi la favoletta della risposta di Virgilio,
Cioè che Maro, autor di sì gran peso,
Disse Augusto esser figlio d’un fornajo,
E ciò per la ragion che quel Sovrano
Il fornia di pagnotte a larga mano.
[Stanza 63].
vengono i seguenti nobilissimi versi sulla pagnotta [Stanza 64]:
Questo scherzo capir della pagnotta
Fa il gran poter,
I miei grand’avi hanno promosso il gusto
Col dispensar pagnotte al par d’Augusto.
[Stanza 66].
Oggi però che in tanto golfo immersi
Stanno i poeti, e che l’odor del pane
Fa più che in altra età nascere i versi,
Olà grida, chiamando un de’ suoi ghiotti,
Recami quel cotal che adesca i dotti.
Per «quel cotal che adesca i dotti» s’intenda la pagnotta; ma qui veramente non c’è troppa purità
d’espressione!
E finalmente nella stanza 71:
Buffone adulator, brigante infame,
Dir senti ognun che la pagnotta pigli.
Se questo è lo stile dell’Ariosto, o noi non c’intendiamo nei termini, o l’Ariosto scrive assai male!
j. Eccone alcune che daranno idea di molte altre. Per porre in ridicolo il Giornale di Scienze e
Lettere ora cessato, il Poeta, dopo averlo personificato, lo fa arrivare in Pindo
Sopra una mula che rincula e spara.
[Stanza 74, Cron. 2a].
Per burlarsi dei cattivi poeti, dice che l’acqua d’Aganippe mette loro in corpo
Furor di versi e diarrea di sciolti.
[Stanza 17, Cron. 3a].
Parlando dei faziosi partigiani del Marini contro lo Stigliani, ei li dipinge in atto di batterlo
E senza ai Duchi alcun riguardo avere
Chi con pugni lo pesta infino all’osso,
E chi con calci gli sconcia il sedere.
[Stanza 94, Cron. 3a].
Per indicare la bassa origine del Ciampoli lo chiama
Il Ciampoli dal fango e dai pidocchi
Giunto agli onori.
[Stanza 21, Cron. 3a].
Per ischerzare sul poema dell’Asino del Dottori sorte fuori in quel novissimo equivoco
Ch’ogni buon Padovan pien di stupore
Vide un Asin dar fama ad un Dottore.
Per dipingere in due versi la Novità, dopo averla personificata, le fa dire (Stanza 34, Cron. 3a)
Non vi pare essa un cerettano [sic], che mostrando la magìa bianca esclami:
Apri omai gli occhi, e vedi a questa prova
Che chi mi cerca più, manco mi trova.
1. Angelo Anelli, di Desenzano sul Garda, dal 1799 al 1817 fu a Milano il più prolifico facitore di
libretti seri e giocosi per musica. Nel carnevale del 1815 aveva fatto rappresentare in un teatro di
Milano l’opera buffa Dalla beffa al disinganno, con musica del Pacini. In essa aveva introdotto la
caricatura del Monti e, secondo una tradizione, anche quella del Giordani e quella dell’Acerbi. Il
pubblico si era preso spasso della satira e il governo l’aveva proibita. Ma l’Anelli, che, per guadagnar
denaro, scombiccherava libretti a getto continuo, allestì altre opere del genere: Il matrimonio per
procura e Il Carnevale di Milano. Dal profluvio de’ suoi libretti basti ora trarre alcuni titoli: Il
disertore (a scherno di un rivale); I saccenti alla moda; Bestie in uomini; Il poeta negli Elisi; La
lanterna di Diogene; La secchia rapita; L’oro fa tutto; La Griselda (dalla novella del Boccaccio). Il
più ricordato è l’Italiana in Algeri (1813), per la musica del Rossini.
Tra il 1811 e il 1818 l’Anelli pubblicò a Milano in ottava rima anche Le Cronache di Pindo (che
nel titolo richiamano I ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini), con invenzioni giocose e
satiriche, con motteggi e sferzate, giudizi e ritratti. Nella prima di esse sono indicati gli argomenti
delle varie cronache, che egli si proponeva di far apparire periodicamente: La Congiura; La Frusta; il
Secol d’oro; L’Arcadia e il voto de’ pastor più degni; L’Oracolo; La Rupe; Il Concistoro ecc. Nella
Congiura si prende giuoco dell’Alfieri, del Cesarotti pel travestimento omerico e dei maggiori poeti
stranieri che i contemporanei ammiravano, quali il Klopstock e lo Schiller. Questo già dice che era
avverso ai romantici. Perciò il Borsieri gli risponde nelle Avventure, prendendolo pel bavero e
guardandolo in faccia. Ancor più reciso nel disdegnare l’Anelli fu il Giordani, che disse delle
Cronache di Pindo: «Queste miserabili buffonerie sono l’estremo ludibrio e la più brutta
prostituzione delle povere muse italiane». Il Tommaseo giudicò l’Anelli «facitore di libretti per
musica dei meno infelici, ed arguto, ma abietto».
In realtà quella testa balzana, tra tutte le sue trovate giocose e spavalde, dà l’impressione di un
ingegnacelo sprecato. Era nato nel 1761; morì nel 1820.
Su di lui: Guido Bustico: Un letterato del periodo napoleonico. Angelo Anelli, in «Rivista del
Garda», Salò, 1914. Di una delle «Cronache», La Rupe, che descrive una fiera libraria, indetta da
Apollo in Pindo, 1818, vedi un riassunto con alcune ottave nel vol. I delle Discussioni e polemiche a
cura del Bellorini, cit., p. 422. La Rupe è l’ultima delle Cronache dall’Anelli pubblicate; la settima.
2. Nel Seicento.
3. Con la storia della letteratura italiana.
4. Socrate di Vittorio Alfieri, Londra, per G. Hawkins, 1788. Parodia dello stil alfieriano,
compilata dall’improvvisatore Gaspare Mollo, Gasparo Sauli e Giorgio Viani. Vedi su di essa la
lettera dell’Alfieri a M. Bianchi e a T. Mocenni, del 7 ottobre 1788.
5. Allude alla celebre istoria villanesca di Giulio Cesare Croce: Le sottilissime astutie di Bertoldo,
Bologna e Modena, per G. M. Verdi, 1608; Le piacevoli et ridicolo se simplicità di Bertoldino, ivi,
1608.
6. «Che la mia comedìa cantar non cura». Dante, Inf., XXI, 2.
7. La prefazione è la lettera Agli amatori dell’italiana letteratura
CAPITOLO SESTO
— Che fate voi qui sulle mura — dissi al Poeta1 — fuggendo il consorzio
degli altri mortali? Meditate forse un nuovo Inno alla divina Pallade dalle
«glauche luci», per la quale intuonaste già questi bei versi:
Tremenda alta Reina,
Cui diletta per mezzo alle battaglie
Il nitrir de’ cavalli
Il picchiar degli scudi
Delle rote il fragor; che la grand’asta
Sull’egida battendo, empi di lampi
Di Maratona i campi
E le rupi Erettee; Tu che d’Atene
Vai per la notte oscura
Visitando le mura, e ti palesa
Il risonar dell’armi
E il sibilar delle gorgonie serpi
Sull’usbergo immortal… ec.2.
e più sotto
g. Il Galantuomo tradurrà fedelmente dal testo inglese i versi di Shakespear, imitati dal Monti,
perché apparisca con quanta scelta e con qual arte abbia egli saputo fondere insieme i colori della
poesia italiana e dell’inglese; e stringendo nel metro dell’ottava l’abbondanza di quel «primogenito
figlio della natura», liberarlo altresì dalle assurde idee dell’astrologia giudiziaria ch’era il comune
pregiudizio del suo secolo.
È Ulisse che parla nel consesso de’ Capitani greci: «Travisati gli ordini sociali, i più indegni
mortali assumono sotto la maschera una bella apparenza. I cieli stessi, i pianeti, e questa centrale
terra, osservano gradi, primato e sede propria: regolarità nel loro moto costante, proporzione,
stagioni, forme, ufficii, abitudini, tutto corre sulla linea precisa dell’ordine. Ond’è che il Sole,
glorioso pianeta, brilla regalmente dall’alto del suo trono fra le sfere che lo circondano; il suo
sguardo sanatore corregge i malefici aspetti degli avversi pianeti, e rapidamente trapassando invia
senza inciampo, come il comando di un Re, le propizie o le tristi fortune. Ma quando con funesta
confusione i pianeti vanno traviati sfrenatamente, allora che pestilenze! che prodigi spaventosi! che
ribellione! E il mare infuriato, e i venti scatenati, e la terra traballante, e i terrori e le rivoluzioni
rompono fragorosamente l’unità e la congiunta pace degli Stati, e gli spiantano dalla base del loro
riposo». Troilo e Cresside, Atto I, Scena IX.
h. Credo dimostrato che il giudizio di Voltaire non debba addursi in favore di Goldoni, essendo
provato che Voltaire conosceva pochissimo la nostra lingua, e che non poteva valutare ed intender
bene le opere che giudicava.
i. Questo s’intenda detto anche pel Dialogo intitolato La Romanticomania, che si legge nel primo
numero di un «Giornale di Letteratura e Belle Arti» comparso novellamente a Firenze. Il Dialogo è
fra Madonna (la baronessa di Staël), Messere (il Giornalista) e un Cavaliere (il Sig. Di Breme) che
difende la Letteratura romantica. Ci troviamo in debito di dire a quel Giornalista che un Messere che
fa lo spiritoso è una gran brutta cosa; e ch’egli non ha ancora capito ciò che significhi la parola
romantico. Lo preghiamo anche di riflettere che la letteratura dei presenti Inglesi e Tedeschi non va
confusa con quella «dei Traci, de’ Cartaginesi, de’ Persiani, degli Egizi, e de’ Galli chiomati, bracati
e togati». E per dargli un saggio della nostra benevolenza, lo consigliamo di prepararsi a combattere
in avvenire la «letteratura romantica», studiando ben bene gli ingegnosi articoli inseriti nel «Journal
des Débats» dal sig. Dussault; o l’operetta francese intitolata L’Antiromantique, la quale in fine non è
altro che una piacevole amplificazione delle cose dette da Dussault14.
1. Vincenzo Monti.
2. Teseo, Azione drammatica (3 giugno 1804), P. I, Sc. II.
3. Le metafore ingegnose e le sentenze declamate della Farsaglia di Lucano.
4. L’autore della Gigantomachia, del Raptus Proserpinae, del De bello Gildonico, del De bello
Getico.
5. L’autore della Tebaide, poema enfatico e sonante.
6. Longino, il retore ateniese, a cui fu attribuito il trattato Del sublime; ma non è suo. Il retore visse
nel terzo secolo d. C. e fu condannato a morte da Aureliano. Il trattato è del I secolo d. C. Perciò si
suol dire «pseudo Longino».
7. Claudio Achillini, poeta del Seicento, celebre pel sonetto a Luigi XIII, che incomincia: «Sudate,
o fuochi, a preparar metalli». Quanto variano i giudizi! Dante aveva posto Lucano nel Limbo con
Omero, Orazio, Ovidio, Virgilio (Inf., c. IV). Nel testo serbo la grafia del Borsieri.
8. La congiura a cui aveva presto parte, è quella di Pisone nel 65 d. C.
9. Lucano era nipote di L. Anneo Seneca, poeta e filosofo, che anche fu condannato a morire da
Nerone per sospetto che avesse preso parte alla congiura di Pisone, nel 65 d. C.
10. Pietro Calderón de la Barca, il più grande scrittore drammatico spagnuolo, nato a Madrid nel
1600, morto ivi nel 1681. Suoi capolavori: Il principe costante e La vita è un sogno.
11. Questa nota del Borsieri non piacque al Londonio, giacché nei Cenni critici sulla poesia
romantica (Milano, Pirotta, 1818) replicò all’osservazione fattagli non senza una punta ostile:
«L’Autore delle Avventure letterarie d’un giorno ha mostrato cortesemente dolersi di non poter
convenire nella mia opinione, perché nella Risposta ai due discorsi della baronessa de Staël, impressi
nella Biblioteca Italiana, dissi che l’imitazione è la tomba del genio. Siccome è da credere che, per
quanto dicessi su questo proposito, egli non s’indurrebbe a cangiar d’avviso, così avrò ricorso
all’oracolo infallibile di Madama; lusingandomi che ciò basterà a mia difesa e a sua persuasione: “Le
genie est essentiellement créateur, il porte le caractère de l’individu qui le possedè. La nature qui n’a
pas voulu que deux feuilles se ressemblassent, a mis encore plus de diversité dans les àmes, et
l’imitationestuneesp ècedemort, puisque elle dépouille chacun de son existence naturelle”. Corinne
ou l’Italie, Tom. I».
12. Nel c. VI del «Poema epico-lirico» Il Bardo della Selva Nera, 1806.
13. Vedi p. 121.
14. Il Giornale di Letteratura e Belle Arti era stato intrapreso nel 1816 a Firenze da Francesco
Benedetti, poeta drammatico, amico di G. B. Niccolini, patriota ardente, piena la mente di idee
classiche, di cultura umanistica, di Grecia e Roma e di antiromanticherie. Professioni esplicite di
classicismo si leggono nel suo Discorso intorno al Teatro Italiano (Firenze, 1816), nell’orazione
sull’eloquenza italiana, nelle lettere al Galeani Napione.
Nel fascicolo di settembre del Giornale pensò di poter dare un colpo formidabile al romanticismo,
ponendolo in ischerno, e pubblicò: La Romanticomania, Dialogo fra Madonna [Mad. di Staël],
Messer lo Giornalista [Benedetti] e il Cavaliere [Di Breme], che può servir d’antidoto alla Lettera
inserita nel n. 6 della «Biblioteca Italiana», p. 417, e al libro di Monsieur de Breme intitolato
«Discorso» ecc.. trovato dopo la morte di detto Messere fra gli altri suoi manoscritti. Immaginava
l’adunanza di un’Accademia Romantica, nel castello di Fanfaluconia, al lume di luna: e agli
accademici era fatto obbligo di leggere poeti tedeschi e inglesi, di sapere a mente Ossian, al quale era
innalzato — seduta stante — un monumento di ghiaccio, tenuto su a forza di sospiri.
A queste baie e irrisioni risponde per sommi capi il Borsieri nella nota, qui riprodotta.
Evidentemente egli aggiunse la nota sulle prove di stampa, giacché Le avventure letterarie di un
giorno apparvero poco dopo il 19 settembre.
Rispose sommariamente anche il Di Breme nel Grand Commentaire del 1817, dimostrando che
«les plaisanteries les plus stupides et quelques roturières injures» non costituivano affatto una
refutazione delle idee da lui svolte nel Discorso intorno all’ingiustizia di alcuni giudizi letterari
italiani.
Il Benedetti non era uno sciocco; ma in questo caso, come spesso avviene ai polemisti, sbagliò in
pieno, credendo di poter contrastare al fatale andare del romanticismo con ghiribizzi estrosi, col
gettar il ridicolo sulla Signora di Staèl e sul Di Breme, sugli ossianici, sull’esortazione a leggere gli
scrittori stranieri e a rinnovare modernamente la cultura.
Così irresistibili erano ormai le ragioni del romanticismo e tanto si mutavan i gusti, che il
Benedetti stesso, il quale aveva incominciato l’opera sua teatrale con tragedie classicheggianti,
venate di alfierismo e metastasianismo, e aveva rivolto il pensiero a tradurre Sofocle, Euripide ed
Eschilo, diede prova di aver letto Shakespeare e altri autori stranieri, ne sentì la potenza e in alcune
tragedie degli ultimi anni tentò di prendere una posizione intermedia tra le figurazioni
classicheggianti e quelle romantiche, quasi cercando (come, con più ingegno, fece anche il Niccolini)
una forma interposta e pur diversa. Ma non giunse a poesia, per mancanza di intima fantasia, cioè di
una forma sua.
Tra le tragedie degli ultimi suoi anni, ora esagitate ora accademiche e declamanti, vale a dire
disuguali nelle tendenze e nelle forme, ricordiamo: La congiura di Milano (quella contro Galeazzo
Maria Sforza, già sceneggiata da Alessandro Verri), scritta nel 1815 e posta in iscena nel 1819;
Gismonda, derivata dalla novella del Boccaccio (Giorn. IV, nov. 1); Tamerlano (scritto nel 1816,
rappresentato nel 1817), con cui si riallacciava sotto alcuni aspetti al teatro di Voltaire; Pelopea,
scritta nel 1817, posta in scena nel 1819; Timocare (1817); Riccardo III; Gli Eleusini (1819); Telefo
(1820); Cola di Rienzo, notevole per la concezione più libera.
Il Benedetti, nato a Cortona nel 1785, morì suicida a Pistoia, a trentasei anni, nel 1821, prostrato
dalla miseria, sospetto pel suo patriottismo alla polizia granducale, degno di miglior sorte per alcune
buone qualità, che, meglio guidate, avrebbero potuto sorreggerlo e condurlo anche in letteratura a
opere forse non dimenticabili.
15. Silvio Pellico.
16. Penso sia Carlo Gherardini, fratello di Giovanni, meno noto oggi di questo, ma allora
conosciutissimo nel mondo letterario milanese. Era uomo estroso, romantico e antiromantico, aperto
al nuovo e ad un tempo estimatore delle forme letterarie classiche, e partecipava con lepore e
bonomia ambrosiana alle dispute del tempo, sorridendo e scherzando su quel gran battagliare, che
pure afferrava anche lui. La sua posizione tra i contendenti è un po’ simile a quella del fratello
Giovanni, che aveva al principio del secolo collaborato al Parnasso democratico di Bologna, faceva
professione d’amore alla letteratura classica, eppure nel 1817 pubblicò la traduzione del Corso di
letteratura drammatica di A. G. Schlegel, volse in italiano quella parte dell’opera di G. C. Sismondi
De la littérature du Midi de l’Europe, che riguarda l’Italia (col titolo Della letteratura italiana dal
secolo XIV fino al principio del XIX, Milano, Silvestri, 1820); era autore degli Elementi di poesia
italiana, allora adottati nelle scuole lombarde e in molte altre scuole italiane, informati alla vecchia
retorica; critico e filologo nell’Appendice alle grammatiche italiane’, studioso della lingua nei testi e
nell’uso vivo (Voci italiane ammissibili, benché proscritte dall’a Elenco» del signor Bernardoni,
Milano, 1812); poeta melodrammatico giocoso nelle azioni: Naso in pericolo (tratta da un romanzo
di Voltaire), È fatto il becco all’oca (dal canto II del Mambriano di Francesco Cieco da Ferrara), Il
bacchettone (da una novella del Bandello), e commediografo ingegnoso in Ipocrisia e credulità,
derivata dalla Prude di Voltaire, ma con aspetti nuovi, «accomodando il tutto ai costumi nazionali»,
ed edita coi drammi giocosi nel volumetto Componimenti drammatici di Giovanni Gherardini,
Milano, 1818.
Carlo Gherardini oggi è ricordato specialmente per la Risposta de Madamm Bibin alle sestine El
romanticismo che Carlo Porta aveva rivolto sui primi del 1819 a una Madamm Bibin antiromantica.
Il Porta ricorda lepidamente il suo contraddittore in quel capolavoro La nomina del cappellan, ove la
marchesa Paola Travasa esamina a uno a uno i preti d’ogni stampo venuti a offrirsi per dir messa.
Costoro nell’anticamera
La scelta del cappellano finisce con esser fatta dalla cagnolina Lilla, che festeggia Don Ventura, il
quale ha in tasca
La polemica, che riguardava gli spiriti vitali della letteratura, sollevava così anche risa cordiali e
schiette per i suoi aspetti giocosi.
Il significato, che Giovanni e Carlo Gherardini ebbero nella cultura di quel tempo, cercando una
posizione intermedia tra i classicheggianti, di cui capivano gl’intendimenti, e i romantici, dei quali
comprendevano le ragioni, non è ancora stato ben delineato nella storia delle nostre battaglie
romantiche e antiromantiche: e meriterebbe di essere chiarito.
Dopo questi richiami, credo non possa essere accolta la proposta di Teresa Girardelli (Pietro
Borsieri, cit.) che alla sigla Carlo G. nelle Avventure letterane di un giorno sia sostituita quella di
Carlo C. e che questa si possa intendere «Carlo Castillia» (l’indicazione è fatta in forma
interrogativa). Il Muoni a p. 21 del libro su Lud. di Br. ritiene la sigla Carlo G., che è del resto
confermata nel cap. VII; ma soggiunge: «non mi riesci indovinare chi sia».
CAPITOLO SETTIMO
IL PRANZO
Tu sapientium
Curas et arcanum jocoso
Consilium retegis Lyaeo.
HORAT., Ode 21, Libro 3.
Tu de’ saggi il consiglio profondo,
E gli affanni disveli del cor,
O di Bacco liquore giocondo.
a. Questo è l’estratto fedelissimo dell’articolo sui Romanzi, scritto con molta eleganza e poca
verità nella Gazzetta Piemontese, e ristampato poscia nel Quaderno LII dello Spettatore.
b. Ora non si può affermare strettamente lo stesso; e per non far «pompa d’indigesta erudizione» ci
limitiamo a ciò che abbiamo già detto alle pp. 35 e 3618.
c. BAC, de Augum. Scient., lib. 2, p. 59, apud Kempfer, Francofurti ad Moenum.
d. Vedi Corintie, vol. I, pp. 43, 44.
IL TEATRO
1. Carlo Gherardini.
2. Quel titolo Runtzvanscad il giovine è lieve variazione del nome Rutzvanscad,
«arcisopratragichissima tragedia» di Cattuffio Panchianio (Venezia, 1724), con cui Zaccaria
Valaresso, patrizio veneto, aveva fatto la parodia della tragedia Ulisse il giovane di Domenico
Lazzarini, regolata grecamente con le unità aristoteliche e piena di atrocità. Il Valaresso poneva
l’azione nella nuova Zembla, conquistata dal re della Cina, Rutzvanscad. Ecco il raffronto burlesco:
La parodia ha in complesso versi cascanti; ma la fine della tragedia è tuttora ricordata come una
trovata argutissima. Esce il suggeritore e dice:
La pantomima, escogitata come pretesto dal Borsieri, era dunque una lepida propaggine di quella
parodia. Le «tragedie per ridere» avevano generato un nuovo mostro: il ballo eroico-tragico-epico-
lirico-comico-pantomimico.
3. Il Pellico.
4. Davide Bertolotti. L’articolo, col gran titolo qui segnalato in lettere maiuscole, era apparso nello
Spettatore del luglio 1816. Vedilo ora in Discussioni e Polemiche, a cura del Bellorini, cit., I, pp. 75-
84. Il capitolo del Bor-sieri è risposta quasi immediata a quell’articolo.
5. L’Italia liberata dai Goti di Gian Giorgio Trissino (1548).
6. Il poemetto storico di Vittorio Alfieri in quattro canti, in ottava rima, in cui è esaltata l’uccisione
del duca Alessandro, tipo del tiranno efferato, per opera di Lorenzino de’ Medici, tipo del perfetto
eroe.
Personaggi:
L’ESTENSORE dello Spettatore1,
UN FRANCESE che parla italiano,
Io, che farò il Coro come nelle Tragedie Greche;
Altri personaggi non so quali, da crearsi all’opportunità come usano i
poeti.
SCENA SECONDA
L’Estensore e il Francese9.
SCENA TERZA
Coro. Oh bella città di Milano dalle ampie mura, quante glorie non chiudi
nel tuo nobile grembo! Ecco, i magnanimi propugnatori d’Italia sorgono a
mille, e la tua fama grandeggia. Ma chi è che viene con un lumicino in
mano ad interrompere i trasporti della mia ammirazione? chi seio?
Il Guard. Oh bella! io sono il Guardarobbiere del Teatro; dimanderò
piuttosto a voi chi siete, e che fate su questo palco?
Coro. Io sono il Coro della tragedia greca, che per diletto degli eruditi del
nostro secolo comincio ad introdurmi a cantare anche in una mezza farsa
italiana.
Guard. Quest’uomo è pazzo! s’ella sta qui ad aspettare, per vedere la
prova del Runtzvanscad, può tornarsene a casa. Stassera non si dà la prova.
A tutto il corpo di ballo è venuta la podagra, malattia che lo travaglia di
spesso. La prima ballerina ha male al core, e il primo ballerino serio è stato
assalito da convulsioni tali, che in vece di batter le ottave, o di piroettare
non fa che tirar calci alla luna.
Coro. Me ne dispiace. Ma dite, buon uomo, mi potreste voi rendere un
servigio?
Guard. Mi comandi.
Coro. Avreste in guardarobba una qualche statua rappresentante l’Italia?
se me la prestate pel macchinismo della mia farsa, vi farò passare con un
Inno all’immortalità; e dippiù vi darò con che bere una bottiglia.
Guard. La ringrazio. In guardarobba c’è di fatti una vecchia statua di
cartone rappresentante l’Italia, che ha fatto la sua comparsa nel ballo del
Costantino. Ma non è più servibile. Il manto è tutto stracciato, e la corona è
in mille pezzip.
Coro. Non importa, datemela pure. Io la mostrerò al lume di luna a gente
che abbia le traveggole, e vista da lontano, parrà sempre una veneranda
Italia col peplo tutto aspro di gemme.
Coro. Non importa, datemela pure. Io la mostrerò al lume di luna a gente
che abbia le traveggole, e vista da lontano, parrà sempre una veneranda
Italia col peplo tutto aspro di gemme.
Guard. Se così vuole vado a prenderla.
Partito il Guardarobbiere, l’amico G. recitò questi versi di Dante
O poca nostra nobiltà di sangue!
………………………………
Ben se’ tu manto, che tosto raccorce,
Sì che se non s’appon di die in die
Lo tempo va d’intorno con le force17.
* Vedi Alfieri, Del Principe e delle Lettere, 1. III, cap. XI, Esortazione a liberar l’Italia dai
Barbari. È questa la citazione, che lo Stendhal nel vol. Rome, Naples et Florence en 1817 prese dal
Borsieri. Sulla citazione dal Borsieri cfr. F. Novati, Stendhal e l’anima italiana, pp. 37-39 e pp. 141-
142, note.
1. L’Estensore o redattore dello Spettatore è lo stesso Bertolotti, colui che aveva mal tradotto
L’Allemagne della Staël. Il Borsieri ha già accennato a questa traduzione al principio del cap. II.
2. Stefano Ticozzi, vissuto dal 1762 al 1836, traduttore e compilatore, scrisse prevalentemente di
letteratura e di storia dell’arte. Tra le molte opere da lui affastellate sono le Vite dei pittori Vecellii.
Vedi su di lui F. Predari nel supplemento al Corniani, cit., vol. VIII, pp. 42-44.
3. La prima edizione era del 1807.
4. Con la frase impudente «la guerra mossa dai trivi» il Bertolotti osava accennare al Discorso
intorno all’ingiustizia di alcuni giudizi letterari italiani di Ludovico Di Breme.
5. Antonio Vallisnieri (1661-1730), autore della Istoria della generazione dell’uomo e degli
animali (Venezia, 1721) e di altre opere insigni di anatomia, fisica, botanica, geologia.
6. Lazzaro Spallanzani (1729-1799), che con acutissime osservazioni sulla fisica animale, sulla
circolazione del sangue, sulla riproduzione ha dato principio alla biologia moderna.
7. Cesare Beccaria (1738-1794) era molto ricordato per i trattati Dei delitti e delle pene e per le
Ricerche intorno alla natura dello stile.
8. Jacopo Stellini, autore del trattato De ortu et progressu morum atque opinionum ad mores
pertinentium (1740).
9. Il Borsieri con viva e gustosa parodia mette sulle labbra del francese un italiano molto
gallicizzante, ma anche gli fa dire amare verità sullo Spettatore; e le fa dire in faccia allo stesso
redattore.
10. Geoffroy aveva pubblicato forti articoli neh" «Appendice» del Journal des Débats. Raccolse
poco più tardi i suoi saggi critici, nel 1819. Aveva combattuto i primi romantici, cioè coloro che
sull’esempio dello Shakespeare avevano cercato di portar la verità nel linguaggio drammatico. In
ispecial modo aveva avversato Nepomuceno Lemercier (1771-1840), autore di un Agamennone
(1797), della commedia storica Pinto (1800), e, più tardi, nel 1817, di un Corso di letteratura, nel
1819 di un’epopea simbolico-comico-satirica, Panhypocrisiade. Geoffroy aveva anche oppugnato
Sebastiano Mercier, che in un Saggio sull’arte drammatica aveva esposto teorie innovatrici, che
precorrevano quelle dello Schlegel.
11. Per il suo spirito antinapoleonico.
12. Sono qui riassunte due pagine dell’articolo di Davide Bertolotti. Vedi Discussioni e Polemiche,
cit., I, p. 78. Ma il Borsieri per brevità ha fatto la somma dei nomi, senza tener distinti i giudizi sui
due storici, vissuti in tempi diversi. Pel Guicciardini il Bertolotti aveva addotto i giudizi del
Montaigne [Essais, Livre II, chap. X, Des Livres ], del Popelinière, del Voltaire, del Bolingbroke e
del Roscoe; pel Sarpi i giudizi del Salmasio, del Voltaire e del Mably. Henri Lancelot-Voisin, sieur de
la Popelinière (nato verso il 1540, m. il 1608) scrisse delle guerre civili e religiose di Francia e
l’Histoire des histoires avec l’idée de l’histoire accomplie, Paris, 1599. Il Bolingbroke (1678-1751)
trattò di filosofia, politica, religione e scrisse le celebri Lettere sulla storia, tradotte in francese da
Barbeu-Dubourg, Parigi, 1752, in tre voll. Le sue Opere complete apparvero a Londra nel 1753 in
cinque voll. Claude de Saumaise, detto in Italia «il Salmasio» (1588-1653), erudito francese, scrisse
sulle controversie religiose del suo tempo e tra l’altro De la réunion des catholiques et des
protestants con spirito conciliativo.
13. Mably (1709-1785), autore dell’op. Le Droit public de l’Europe, 1748; degli Entretiens de
Phocion sur le rapport de la morale avec la politique, 1763; dei Doutes proposés aux philosophes
économistes, 1768; delle Observations sur le gouvernement et les Etats-Unis d’Amérique, 1784.
14. Giovanni Pindemonte, fratello di Ippolito, autore delle tragedie Mastino I dalla Scala, I coloni
di Candia, Orso Ipato, Elena e Gerardo, L. Quinzio Cincinnato e altre molte.
15. Ippolito Pindemonte, autore delle Poesie campestri, della tragedia Arminio, delle Epistole.
Quando apparvero i suoi Sermoni nell’edizione della Società Tipografica di Verona, nel 1819, il
Borsieri ne diede notizia nel n. 80 del Conciliatore.
16. Vedi p. 270.
17. Paradiso, c. XVI, v. 1 e vv. 7-9.
CAPITOLO NONO
RIFLESSIONI UN PO’ SERIE
Sic fatur… classique immittit habenas
VIRG.
Così parlando all’alto mar s’affida.
Ritornato a casa mia, e ripassando col pensiero tutto ciò che m’era
occorso nella giornata, deliberai di scriverne fedelmente la storia, non so se
per tuo diletto o per tua noia, o lettore. Ho adempiuto il mio proponimento,
e rileggendo queste pagine prima di commetterle alla stampa, ne concludo
ciò che sono per dirti.
Vi ha certamente fra noi alcuni modestissimi e dotti uomini, ma costoro
vivono in segreto e non tengono il campo nella letteraria Repubblica. Chi
vuol conoscere a fondo i grandi argomenti delle nostre dispute letterarie,
frequenti i teatri, i caffè, i gabinetti delle dame. Chi cerca quali sieno le cure
di que’ letterati che afferrano l’occasione per le chiome, e parlano altamente
di sé, e danno larghissime promesse, sappia ch’essi s’affaticano a compilare
giornali, senza produrne uno solo che equivalga o agli antichi nostri o a
quelli recenti degli Stranieri. Sappia egualmente che oltre i giornali
compongono mediocrissimi versi e mediocrissime prose, nelle quali non è
transfuso il carattere della nostra nazione, né lo spirito del nostro secolo.
Chi giudica la letteratura un vano suono di parole se devia dal suo scopo
d’illuminare il vero e giovare per la via del diletto alla coltura della
moltitudine, quegli sappia che ora invece è quasi sempre rivolta a tutt’altro
fine, col servire a viste di lucro, o di privato ossequio, o d’inimicizia, o al
vitupero indegnissimo di celebri scrittori stranieri ed italiani. E tutti coloro
finalmente, che riguardano le dispute de’ letterati come un risibile sfogo
della loro vanità, sappiano ch’io penso nella stessa guisa; ma che questo
scritto è disteso colla mira più utile e più universale di denotare almeno in
parte gli abusi che si vanno inavvertitamente insinuando nelle lettere
italiane.
Così adoperando, io so d’essermi avventurato ad un mare sparso di scogli
e fremente di tempeste. Ma se coloro che prenderanno a biasimarmi,
volessero oppormi ch’io non istimo abbastanza le ricchezze letterarie dei
nostri giorni, e non esalto, come fanno essi all’opportunità, i nomi di La-
grange, Visconti1, Volta, Canova, ec, ecco la mia risposta.
Credo che nel presente periodo l’Italia non possegga quelle ch’essi
chiamano letterarie ricchezze.
Non si può chiamar fiorente la coltura d’una nazione quando ella vanta
soltanto qualche grande Scrittore; ma bensì quando, oltre i rari ottimi, ella
ne possiede molti buoni, mediocri moltissimi, cattivi pochi, e v’aggiunge
infiniti lettori giudiziosi. Allora si forma, dirò così, un’invisibile catena
d’intelligenza e di idee tra il genio che crea e la moltitudine che impara; si
sente e s’indaga il bello con più profondità, i falsi giudizi sono più
facilmente combattuti, ai veri gran-d’uomini è concessa la gloria e agli
ingegni minori la fama.
Così, per modo d’esempio, quando fiorivano Michelangelo e Raffaello
coprivano essi col raggio della loro gloria il nome pur chiaro d’altri artisti
che in epoca di decadenza sarebbero riputati eccellenti, e che ora infatti
veneriamo come grandi maestri. Così quando l’Ariosto ed il Tasso
stampavano orme profonde di poesia, avevano intorno a loro una turba
d’altri poeti meno insigni, ma pure distinti in quella età.
Facile è l’applicazione di questo principio al presente periodo della
letteratura italiana, ed ognuno può farla per se stesso.
Ma riguardo a coloro che a proposito di bella letteratura e di scienze
morali ripetono continuamente i nomi di alcuni fisici, o matematici, od
artisti, od eruditi, soggiungo che noi esaltiamo i nostri grand’uomini dopo
che furono onorati dagli Stranieri; e che allora cominciamo ad incoraggiare
l’ingegno, quando ha già compiuto il suo corso senza l’aiuto della stima
comune, anzi vincendo la guerra che gli moviamo.
Sì certo, Lagrange è nato in Italia, e noi possediamo il liceo ov’egli
spandeva la prima luce di se stesso. Di lui dissero i dotti delle altre nazioni
ch’egli stava dappresso a Newton nell’ingegno, e lo sorpassava nel sapere.
Ma Newton dorme glorioso i suoi sonni nelle tombe dei Re d’Inghilterra,
mentre le ceneri di Lagrange giacciono in terra straniera! Né le ceneri solo;
ma tutta la miglior vita di lui trascorse lontana dalla patria la quale non
seppe onorarlo che troppo tardi; ed egli la rimeritò degnamente non
dettando mai veruna opera sua nella lingua nativa.
Volta2 è il Franklin dell’Europa. Penetrando con acutissime esperienze
nel magistero della creazione, egli comandò all’elettricità di trascorrere
sotto il freno di una stessa legge gli spazii dell’aria, le superficie de’ metalli,
e le fibre degli animali, e trovò così un filo segreto con che la materia
inanimata si congiunge alla natura vivente.
Ma dimanderò a tutti coloro che ne citano ora il nome con orgoglio, se
sappiano infatti venerare questo grand’uomo come gli Americani
veneravano il loro sommo fisico e legislatore3; dimanderò se la fama di lui
era tanto altamente predicata fra noi, prima che l’Istituto di Francia lo
chiamasse nel suo seno a presentare alla meditazione di que’ dotti, quasi in
una festiva solennità della sapienza, le sue mirabili esperienze4?
E passando alle arti e all’erudizione, noi celebriamo l’unico Canova5
perché non ci è permesso d’invidiarlo; celebriamo ad una voce l’Appiani,
dopo che il suo destino infelice lo lascia in vita, ma gli vieta per sempre
d’essere ancora un sovrano pittore6; celebriamo Visconti perché è lontano; e
perché la Francia, che ha dovuto rendere all’Italia i prodigi delle arti, non ha
poi voluto restituirle un grand’uomo7.
Chi considera pertanto queste verità, deve sdegnarsi delle infinite
lagnanze che si movono contro la supposta ingiustizia degli stranieri; e
compiangere piuttosto la nostra vanità che vorrebbe diffusa sovra tutti i
letterati italiani la luce dovuta esclusivamente ad alcuni pochi, i quali vanno
solitarii nelle vie del sapere o nei campi del bello, e sorgono come frutti
spontanei d’una natura migliore.
Ma s’io dimando chi scriva fra noi un corso di letteratura italiana, simile
a quello di Laharpe8 o di Marmontel9 per la francese; s’io dimando chi
commenti i classici come l’Heine10, o scriva ora la storia come Herder11,
Heeren12, Müller13 e Sismondi14, s’io domando quali sieno le nostre opere
filosofiche da contrapporsi a quelle di Tracy o di Prévost15, avrò
probabilmente il rammarico di rimanermi senza risposta. Nessuna nazione
può vantare come l’Italia un sì gran numero d’Accademie scientifiche e
letterarie. Ma qual è il volume, intendo almeno sovra soggetti morali e
speculativi, con che una sola fra tante famiglie letterarie siasi recentemente
procacciata somma autorità fra di noi, e celebrità fra gli stranieri? Quali
sono i problemi di filosofia, di storia, di critica, ch’esse propongano agli
scrittori per coronarne le fatiche? Si sforzano d’impedire che il sapere
retroceda, ed è molto; ma non lo soccorrono a progredire, e sarebbe
moltissimo. Abbiamo i primi disepellita e posta in onore l’erudizione, ma
ov’è un libro italiano che invogli ad amarla? Ov’è una storia della filosofia
che giunga sino ai tempi di Kant e di Condorcet16, e non sia declamatoria
siccome quella del Buonafede, uomo d’altronde di chiarissimo ingegno, e
per altri titoli meritamente lodato?
Risparmiandomi d’aggiungere altre domande egualmente dolorose per
noi, io concluderò che possediamo attualmente l’apparenza della coltura ma
non la sostanza; e che non ama veracemente la gloria italiana chi
dissimulando queste piaghe, non esorta caldamente gli ingegni a rivolgere
gli studi ad oggetti più utili.
Cessiamo una volta dal disperdere in commenti grammaticali, in
quistioncelle d’erudizione, in censure, in apologie ogni forza di pensiero e
d’immaginazione. Cessiamo dal furore di parte, che ne divide nel regno
della filosofia e delle muse; cessiamo dal far pompa di grandissime ire per
tenuissimi oggetti, consumando la vita nel ferirci l’un l’altro,
Vitamque in vulnere ponunt17.
L’autore di questo scritto, conoscendo la tempra di certi critici, commette ad uno di loro di
esclamare che le Avventure letterarie di un giorno non sono opera da Galantuomo, e che offendono
molti. Egli avrà ragione; il vero offende molti. Un secondo, fregandosi gli occhi per sgombrarne la
caligine, troverà che l’autore ora dà in leggerezze ed ora in una metafisica oscura. Avrà ragione ancor
esso; tutto ciò che non si può toccare è una metafisica oscura. Un ter»zo lo censurerà per prudenza,
un quarto passerà in rivista tutti gli errori di stampa, un quinto… che dico un quinto? dieci o dodici
per lo meno non potendosi tenere a freno proromperanno in villanie. Si servano tutti liberamente; essi
non avranno alcuna risposta. Il Galantuomo è a quest’ora montato in una vettura, e tenendosi a lato
gli storici letterari e politici dell’Italia, va a fare un giro di cinque anni nella nostra penisola, tutto
intento a raccogliere con esatte osservazioni le CAUSE DELLA GRANDEZZA E DELLA DECADENZA DELLA
LETTERATURA ITALIANA. Sebbene egli confessa sin d’ora, che non potrà forse compire il suo disegno
se il cielo non vorrà concedergli tre ottime cose, che augura di cuore anche ai benevoli lettori, salute,
ozio, e denari19.
Perché non gli circonda una turba d’ingegni minori che se non sortirono
la destinazione di trovare il vero, abbiano quella di diffonderloa2 con una
dolce gradazione di luce? Non è mai fiorente la coltura di un popolo se non
quando una quasi invisibile catena d’intelligenza e di idee congiunge la
moltitudine che impara col genio che crea. Gli anelli di una siffatta catena
sono preparati in Italia, ma nessuno si accinge ad intrecciarli fra loro. Non
appena risorse la buona filosofia, essaa3 s’affrettava ad operare il nostro
incivilimento, ma i falsi sospetti che desta sempre la novità l’arrestarono nel
suo corso, e i roghi e le mannaiea4 la desolarono. Non perseguitata, non
libera in tempi più miti, sentì mancarsi egualmente e le forzea5 che sono
suscitate dall’oppressione e quelle che sono esercitate dalla libertà. La
ricerca del vero cessò d’essere la fatica più importante della vita e divenne
un’oziosa contemplazione, che trasfusa poi lentamente dalle lettere e dalle
arti nelle creazioni della fantasia giovò non poco a ripulirsi e a temperare i
costumi. Così si succedettero vari secoli d’incivilimento, che passando
menaron con loro gli errori popolari e le superstizioni più materiali senza
indebolire il freno santissimo e salutare della religione. Così gli studi si
meritarono la protezione dei Governi, e non mancano università, non manca
una classe numerosa ed agiata di persone che possono consecrarvisi.
Pure è quasi un destino che l’uomo nascendo con sì rare doti d’ingegno
in questa beata penisola, si limiti a leggere le prime linee del vero nella
bella natura che lo circonda, e pago di conoscere prontamente ciò che è
necessario a ben condursi nella vita dispregi come per sazietà, ogni più
recondito sapere. Siamo incuriosi delle nostre ricchezze, siamo avvezzi a
lunghe discordie d’opinioni, né proviamo più quel desiderio del vero,
quell’ardente amore del bello, quella venerazione degli ingegni che sono le
cause meno comuni ma più efficaci di ogni progresso sociale. All’antica
celebrità negli studi s’aggiunse l’altra troppo gravosa delle sventure, e
cresciuta la nostra indifferenza per tutto che non sia reale acquisto di
sostanza o di potere, ben provi anco in fatto di lettere la sterilità che suole
essere compagna della negligenza. Insomma la coltura italiana somiglia un
albero robusto che avendo radici fortificate da secoli, resiste ai turbini e alle
tempeste; ma la di cui forza produttiva già indebolita dal tempo si disperde
in molti rami, e basta appena a vestire di foglie l’altissimo tronco.
Questa immagine del vero nea6 sconforterebbe troppo gravemente, se
come la vita materiale si inaridiscea7 e si estingue per vecchiezza, così
anche la vita intellettuale delle nazioni non potesse essere ringiovenita. Ma
a noi basta il volerlo, basta rivolgere gli studi e i metodi loro ad oggetti più
utili, e una siffatta rinnovazione di noi medesimi è ben tosto operata.
Agevolarne i princìpi è il nobile ma difficilissimo intento che abbiamo
ardito proporci nel compilare la Biblioteca Italiana. Divisiamo brevemente
le viste colle quali stimiamo debba condursi un’impresa che non avremmo
fiducia di ben consumare se non riponessimo la somma delle nostre
speranze nei soccorsi che ci attendiamo dai valenti Scrittori sparsi in Italia.
Noi consideriamo che lo scibile è un gran corpo di cui le lettere, le arti, le
scienze morali, le naturali, le esattea8, sono le membra. Una vita comune le
congiunge, lo stesso spirito deve circolare per esse e ciascuna deve
conferire ciò che le è proprio alla salute e alla prosperità del tutto.
Il nostro giornale pertanto non disgiungerà queste membra. Gli articoli
che si riferiscono ad arti, a scienze od a lettere, saranno trascelti in guisa da
conservare una giusta proporzione colla importanza di esse e coi nostri
bisogni: talché ove pare che più universalmente scarseggi la comune
coltura, ivi si soccorra con più largo nutrimento d’idee.
Le scienze morali e speculative, la letteratura propriamente detta, e le arti
liberali sono strette fra loro con più intimi legami, o debbono esserlo. Però
le collocheremo nella prima delle tre parti in che sarà diviso ogni fascicolo
della nostra Biblioteca.
Le barriere che separano il regno del pensiero da quello della poesia e
dell’eloquenza, devono finalmente sparire anche in Italia. È ormaia9 tempo
che la lingua sia governata più collea10 grammatiche di Condillac e di Du-
Marset che con quelle del Cinonio e del Priscianesea1130. La filologia
debb’essere un soccorso della storia a cui possono consacrarsi i dotti di
professione, ma il pubblico ha bisogno di oggetti immediatamente utili; e
noi non abuseremo del tempo e della stampa, due cose immensamente
preziose, coll’occuparlo o di una iscrizione sepolcrale, proprietà dell’altro
mondo più che di questo, o d’un accento, d’una consonante raddoppiata e di
simili altre quisquilie dei grammatici o degli eruditi. Bensì se l’archeologia
nea12 struirà qualche soggetto, argomento di bella ed utile erudizione, noi
collocheremo di buon grado nella nostra Biblioteca le sue antichità siccome
quelle che possono comunicare l’autorità degli anni a tutto ciò che le
circonda. Le ricerche filosofiche sull’uomo e su lenti fenomeni maravigliosi
dell’intelligenza e del sentimento, son quelle di cui meno abbondiamo e son
pure le sole da cui le buone lettere derivano sostentamento e vigore. Non
bastano le carte socratiche raccomandate da Orazio31. Col volgere de’ tempi
tutte le dottrine si sono agitate, provate fra loro, accresciute; sì che la
filosofia del buon figlio di Sofroniscoa13 va congiunta all’assidua lezione
d’infinite pagine di metafisici, di politici, di storici, di geografi, per trarne
quanto è necessario a ben educare l’oratore, il poeta e l’artista. Noi siamo
profondamente compresi dell’idea di questa necessità, e non ci scosteremo,
per quanto è da noi, dal faticoso sentiero ch’essa n’apre davanti.
La seconda parte della Biblioteca Italiana è destinata alle Scienze ed alle
Arti Meccaniche. Sia che quelle tendano immediatamente a conservare
l’uomo nello stato sociale come la Politica, l’Economia pubblica, la
Statistica, la Giurisprudenza teorica e pratica, sia che tendano, come le
scienze fisiche, matematiche e mediche, a scoprire, a calcolare, a riparare le
forze della natura fisica per rendere egualmente più florida la conservazione
dell’uomo nello stato sociale, esse portano pur tutto questo comune
carattere di prefiggersi per iscopo il vero congiunto coll’utile, che poi solo
predomina nell’arti meccaniche. Le nostre considerazioni pertanto
verseranno a preferenza su quelle opere che accoppiano il pregio d’una
reale importanza, alla novità e alla difficoltà superata; o veramente sieno
dotate della funesta prerogativa d’essere in sommo grado dannose, il che
speriamo non possa avvenirci pur mai.
Infine ci ha molti oggetti che non vanno dimenticati, poiché si attraggono
la curiosità delle colte persone, e tali sono gli aneddotia14 letterari, i giudizi
sugli spettacoli, i programmi delle accademie, gli annunzi di libri, di quadri
ecc. Ci ha del pari alcune sfuggevoli produzioni di ingegno che non sono
comprese, parlando con proprietà, in nessuna fra le classiche divisioni delle
lettere e delle scienze, ma colle quali è bene ricercare la severità degli studi.
A questa specie appartiene una verità comune della morale colorita in poche
linee col velo delle grazie e col sorriso malizioso della satira; un bel detto,
un bel fatto narrato con brevità, oggetti svariatissimi insomma che
troveranno la loro sede naturale in un’Appendice all’altre due parti.
Ed ecco l’area entro la quale cia15 proponiamo d’innalzare il nostro
edificio. Ma a fine di raccoglierne i materiali di sceglierne i più solidi, i più
nobili, conviene per usare la frase di Dante32, che l’Italia si guardi in seno e
misuri tutta sé stessa, conviene che gli Appenninia16 non rompano colla loro
catena la pacifica federazione degli ingegni italiani. Molti di loro che ci
erano già noti per fama, abbiamo noi caldamente esortati con inviti speciali
a questa santissima colleganza di studi verso lo scopo che ci siamo prefissi.
Ma qui rinnoviamo solennemente le nostre preghiere ai felici cultori delle
scienze, delle lettere e delle arti. Né tutti si ponno conoscere, né tutti si
tolsero alla modesta oscurità in cui amano di nascondere con trascuranza
non affatto lodevole il merito loro. Ma tutti egualmente acquisteranno la
nostra gratitudine, giovando l’impresa che assumiamo tutti parteciperanno
agli incoraggimenti ed ai riguardi di cui ci siamo addebitati verso i nostri
Corrispondenti. Cominciando a condurre il nostro lavoro, veggano quanti
argomenti si presentano degni della loro e della nostra considerazione!a17
Parecchie opere di non lieve momento sono comparse negli anni andati,
intorno alle quali il pubblico avrebbe desiderato un più imparziale giudizio
sì dal lato della lode, come del biasimo. Un rapido sguardo retrogrado le
riporrà, per quanto è possibile, in un più giusto punto di vista. E poiché le
scienze e le lettere percorrono la terra cercando le produzioni di tutti i climi,
noi saremo solleciti d’accompagnarle colla nostra attenzione in mezzo agli
stranieri o notandone l’andamento generale, o assoggettando ad esame tanto
le opere, che per l’eccellenza di cui sono fornite più non appartengono ad
una nazione ma sono proprietà dell’Europa, quanto quelle che
particolarmente contengono opinioni e giudizi sulle cose d’Italia.
È pare veramente che i nostri Scrittori abbiano sino ad ora ceduto agli
stranieri l’ufficio di conoscerci e di giudicarci. La Vita di Lorenzo de’
Medici, ed il Secolo di Papa Leone, la Storia delle Repubbliche del medio
evo, la Storia generale della nostra letteratura e la particolare del nostro
teatro33, da cui furono presentate in aspetto degno della luce de’ tempi se
non da alcuni egregi Stranieri che caldi di amorea18 generoso del sapere
pellegrinarono per l’Italia con lunghe e dispendiosea19 vigilie, e divennero
nostri concittadini più che noi stessi?* Risparmiamoci, almeno per
l’avvenire, il rimprovero di non curanza che ne vien fatto a sì gran ragione.
Forse la Biblioteca Italiana (così amiamo di persuaderci) avvicenderà di
paese in paese, con più rapidità che ora non fassi, una maggior somma
d’idee. L’istessa corrispondenza che abbiamo già stabilita sulle falde
dell’Alpi sino a quelle dell’Etna ci terrà prontamente sul fatto delle opere
degne di ricordanza che di mano in mano verranno alla luce, e noi potremo
scegliere fra tutte, quelle che denotando i progressi reali od apparenti di una
scienza o di un’arte sorgono come colonne miliarie fra i vari intervalli della
coltura. Che se simili opere sono rare in ogni secolo e in ogni paese, non
mancano altre che ad onta di qualche menda risplendono di molti pregi.
Cessi il cielo però che nell’esaminarle noi confondiamo la critica, o l’arte di
giudicare le produzioni dell’ingegno senza passione, coll’infelice sagacità
di coloro che scoprono i soli difetti tirando un velo sulle bellezze. Lungi da
noi il basso costume di menar su tutte la sferza, ma lungi l’altro più vile di
lodar tutto. Ogni dottrina purché vera, ogni produzione letteraria purché
bella, ogni invenzione meccanica purché utile, si meriteranno la nostra
collaudazione; la quale verrà declinando in censura a misura che gli oggetti
esaminati devieranno da queste uniche destinazioni degli studi. E
nell’istituire i nostri giudizi non chiameremo a consiglio né la primazia di
una scuola, né la fama di una città, né quella di un uomo; estimando ogni
ottima cosa autorevolissima per sé stessa, di qualunque parte in qualunque
tempo ne giunga. Chi si attendesse di vederci sagrificare sugli altari
dell’antichità vivrebbe ingannatoa20, e andrebbe errato ancor più chi per
amore di cose nuove ne tenesse dimentichi dell’eredità dei nostri maggiori.
Non mai imiteremo quei figli sconoscenti, pei quali il primo atto di
padronanza si è il distruggere le amicizie, il regime domestico, l’idea
persino delle virtù ond’era accurato il buon padre che gli ebbe un giorno
arricchiti.
Questi sono i proponimenti, questi gli oggetti ed il fine ai quali verrà
indirizzata la compilazione della Biblioteca Italiana. Ma un sì candido
amore de’ buoni studi sarebbe tornato vano se gli scrittori che si sono
accinti ad un’opera di fila sì lunghe e numerose, non avessero trovato
incoraggimenti e sostegno nel Governo liberale sotto cui vivono. Qui non
accenniamo che un fatto; né imprenderemmo un elogio ora che il sacro
linguaggio della lode ha perduto ogni autorità per tante profanazioni ancora
recenti34. Quante volte non ci è risuonato all’orecchio che tutto prendeva fra
noi perfezione, accrescimento, prosperità? Eppure chi ponendo una mano
sul petto vuol parlare il vero, confesserà che se le istituzioni legislative
davano agli studi l’esterna pompa di una felice fortuna, esse però covavano
in segreto un attivo principio del loro deperimento*. Per riconquistare il
retaggio delle lettere e delle arti, che è quello della nostra età, abbiamo
bisogno di riposo e di pace, ed è veramente somma ventura che la forza
immensa ad un tempo e moderata, la quale nea circonda possa e sappia
conservarla. Ella è pure la stessa che accompagnata da un sapiente consiglio
e con munificenza reale raccolse altra volta quanti uomini grandeggiavano
nelle scienze, in una nostra università che destò allora altissimo grido di sé
in tutta l’Europa. Ella è pure la stessa che operava questo amplissimo
beneficio col silenzio col quale lea più piccole cose si operano. Non va
dunque perduto in vane congetture chi spera veder rifiorite le dolci
solitudini delle Muse; e traendo esempio da quel silenzio argomenta che la
Potenza moderatrice dei nostri destini, imiti anche in questo il grande
ordine della natura, la quale mentre l’uomo consuma, prepara in segreto e
senza ch’ei se ne avvegga la riproduzione del tutto.
Giovanni Berchet
(Milano, Castello sforzesco, Raccolta della stampe).
* Non dobbiamo tacere, per conforto degli amatori della nostra lingua, che le loro speranze
troveranno un appoggio nello zelo vivis simo de’ buoni studi ond’è animato il Governo. Noi
dobbiamo a questo sentimento, che tanto onora la mente ed il cuore degli illuminati Ministri, l’ordine
che conferma nel Cesareo Regio Istituto l’in carico di porre opera sollecita alla riforma del
Vocabolario.
* Nel dire decadenza non intendiamo rinunciare ai titoli di gloria con che l’Italia può gareggiare
anche presentemente colle altre nazioni. Grazie alla liberalità della natura i nostri ingegni si
reggeranno sempre da se stessi; e sebbene la falsa coltura, la pedanteria, la non curanza possano
rallentarli per via, non gli arresteranno pur mai. Bensì parlando di decadenza intendiamo di quella
che è relativa a noi medesimi, che risulta dal confronto di ciò che fummo e di ciò che siamo, e
mostra che le arti e le scienze corrono anch’esse, come ogn’altra umana cosa, le vicende della
fortuna. David Humea23 notò che l’Italia, forse per l’abbondanza dei grand’uomini che produsse,
non onorò quanto lo meritavano alcuni sommi ingegni di cui fu madre16. Questo illustre storico non
scriverebbe ora lo stesso.
* La storia di una scienza fatta da un filosofo è forse la miglior parte della scienza medesima. Noi
consideriamo sotto questo aspetto l’opera che Melchiorre Gioja va ora pubblicando col titolo di
Prospetto dello stato attuale delle Scienze economiche19. Senza entrare nel parziale giudizio
dell’esecuzione di questo ardito lavoro, non possiamo a meno di lodare il concepimento d’uno
scrittore che col metodo severissimo dell’analisi desume dagli Economisti più famosi di tutte le
nazioni le sole idee diverse ch’essi abbiano, le coordina in guisa che dal loro contrasto o dal loro
ravvicinamento si vede emergerne l’errore od il vero, e scrive così gli annali più filosofici che si
possano mai fare d’una scienza tanto importante.
* Sappiamo che la Storia dell’indipendenza d’America, pubblicata non è molto in Parigi da Carlo
Botta20, gode di una grande considerazione. Ma noi cogliamo l’esempio di questo istorico per
confermare ciò che abbiamo già detto sugli svantaggi derivanti dallaa24 incertezza delle nostrea25
opinioni in fatto di lingua. Il giustissimo desiderio ch’eglia26 aveva d’essere collocato nel numero de’
purgati scrittori, lo ha tratto talvolta a rivestire il pensiero di pretti fiorentinismi o di vocaboli troppo
antiquati, ed a menomare così le non poche bellezze del suo stile.
* Montesquieu non toccò che di volo nello Spirito delle Leggi la filosofia della legislazione
criminale. Beccaria fu veramente il primo che la liberò dalle tenebre dell’empirismo. Cadde ancor
esso ne’ suoi errori che furono rilevati da vari illustri Pubblicisti di Francia, di Inghilterra, d’Italia;
ma non sarebbe difficile il dimostrare che nelle sue verità v’ha il germe di quanto si è poi detto di
buono sui delitti, sulle pene e sulle loro proporzioni.
* Describunt radio coelique meatus et surgentia sidera dicunta27.
* È cosa degna di considerazione che tutti i grand’uomini che vanta l’Italia aveano già formata una
riputazione vent’anni prima d’ora, o erano sino d’allora talmente istituiti da non doversi che mostrare
per ottenerla. Del resto noi qui non individueremo i vari Artisti che o col bulino o col pennello o
coll’arte de’ suoni onorano Firenze, Milano, Roma e Napoli patria dell’armonia. Ciascuno già gli
indovina per sà stesso, e premia colla sua gratitudine i loro sforzi felici.
* Veggansi le opere di Roscoea28, Sismondi, Ginguenéa29, Cooperea30.
* Niuno negherà che le ultime vicende de’ tempi abbiano condotto con loro varie pubbliche
istituzioni di una reale utilità, specialmente negli stabilimenti meccanici. E in generale tutte quelle
scienze che poteano conferire, come le matematiche, ai progressi dell’arte militare erano
sinceramente incoraggite. Non così le Scienze morali da cui s’imparano le giuste arti della pace. Il
quindici di novembre del 1808 sarà sempre un giorno d’infausta ricordanza nella repubblica letteraria
pel decreto che sotto colore di riforma pervertì i metodi e gli oggetti degli studi morali35. Per esso (V.
art. 465) l’Analisi delle idee, la Storia, e la Diplomazia, la Numismatica, le Lingue orientali e la
Greca letteratura vennero sbandite dalle Università che rimasero di nome ma non di fatto l’unione di
tutti gli studi. La cattedra dell’Eloquenza, che è la luce d’ogni sapere e l’interprete d’ogni nobile
sentimento, venne confinata nei Licei, ove invece d’esporre le Filippiche di Demostene o i versi
magnanimi di Dante, deve occuparsi di amplificazioni e di precetti. La Filosofia morale e il Diritto di
Natura, si trasformarono in Diritto naturale sociale denominazione che lascia dubbio se
l’insegnamento del Diritto di Natura dovesse ricevere i suoi confini dalle positive istituzioni sociali, o
se piuttosto l’arbitrio di queste dovesse essere circoscritto dai confini eterni di quello. Il Gius delle
genti non dettò più i primitivi doveri e diritti delle Nazioni, e la fede e la ragione dei Trattati; ma si
convertì nel Diritto pubblico interno del regno (V. art. 7). Infine tutte le dottrine vennero diffuse non
secondo i progressi della scienza, ma unicamente come commentari più materiali del dovere dei
princìpi sanzionati nelle leggi positive. Egli [è p]er tan [to] verissimo che l’essenza di tutte queste
discipline era stata alterata a bell’arte e sviata dalle sue naturali destinazioni.
a. dell’altra.
b. ommai.
c. soggiogate.
d. né.
e. penello.
f. ritorniamo.
g. giungevano.
h. ricavere.
i. degli.
j. indirizzarsi.
k. visibile.
l. della.
m. frivole.
n. a’.
o. inquitta.
p. del.
q. sapere: Tra.
r. si giovi si.
s. l’uomo quant’è;.
t. prularo.
u. rizzate.
v. piciolezza.
w. Condorcet.
x. italiano:
y. La.
z. Lagrangie.
a1. Enrico.
a2. difonderlo.
a3. esse.
a4. manaje.
a5. forse.
a6. né.
a7. inaridisse.
a8. esotte.
a9. ommai.
a10. alle.
a11. Prissianese.
a12. nè.
a13. Sofronisso.
a14. annedoti.
a15. ti.
a16. Appennini.
a17. considerazione?
a18. amare.
a19. dipendiose.
a20. ingannati.
a21. nè.
a22. quale, le.
a23. Aume.
a24. dtlla.
a25. nestre.
a26. eh egli.
a27. diunt.
a28. Roscae.
a29. Giug […].
a30. Coupner.
1. L’abolizione della schiavitù fu promulgata nel 1807 negli Stati Uniti, nel 1814 nell’Olanda, nel
1815 nella Francia e nella Svezia. Nel 1807 il Wilberforce presentò una legge in parlamento che
proibiva ai sudditi britannici e alle navi inglesi di prendere parte alla tratta degli schiavi. Si v.: R.
COUPLAND, The abolition of the Slave trade, in The Cambridge history of the British Empire,
Cambridge, 1961, vol. II, pp. 188-216; W. L. MATHIESON, The emancipation of the Slaves, 1807-
1838, in The Cambridge ecc., vol. II, pp. 308-334; A. ZILVERSMIT, The first emancipation The
abolition of slavery in the North, Chicago and London, University of Chicago Press, 1967.
2. La tirannide, cui qui si allude, è quella di Napoleone, verso il quale l’atteggiamento dei nostri
romantici in genere non fu più tenero di quello di M.me de Staël. Ecco, ad esempio, quanto
all’incirca nel periodo in cui il Borsieri esprimeva questi pensieri scriveva il suo amico Pellico:
«Chiamo Bonaparte tiranno… e scellerato perché ha scosso a terra i frutti della rivoluzione prima che
fossero maturi, e affinché nessuno potesse gustarli impunemente li ha avvelenati; non poteva
sradicare la pianta, ma l’ha curvata nel fango. … i libri che soli si lasciavano stampare sotto
Bonaparte ripetevano le vigliaccherie di Virgilio e d’Orazio: e mentivano! — I grandi uomini che lo
circondano (se tali) sono quattro, e misti ai primi moltissimi e ricchi scellerati» (S. PELLICO, Lettere
milanesi, cit., p. 14).
3. Sono ben noti i trafugamenti di opere d’arte compiuti in Italia, specie dai Francesi sotto
Napoleone; sconfitto il quale, gli Alleati pretesero la restituzione. I prìncipi ebbero la facoltà di
deputare specialisti, che si recassero a Parigi per provvedere alla identificazione e alla consegna. Tra
gli altri fu inviato in Francia da Pio VII il Canova. Gli interessi del Lombardo-Veneto furono tutelati
direttamente dagli Austriaci.
4. Egiria: errore di stampa per Egeria. Secondo un’antica leggenda la ninfa Egeria fu consigliera
di Numa Pompilio, che si recava a visitarla in una grotta (cfr. TITO LIVIO, I dec., lib. I). Per Licurgo,
che visitava il santuario di Apollo e ne interrogava l’oracolo per la sua opera di legislatore, si veda la
vita scrittane da Plutarco.
5. «Giornale dei Letterati d’Italia»: iniziò la pubblicazione nel febbraio 1710; fu diretto dallo Zeno
fino al 1718, da Pier Caterino fino al 1732, da altri fino al 1740. Di esso ebbe a scrivere il Foscolo:
«indeed, had all the articles been equal in merit to those on the subject of antiquities, it would have
merited a place in every public library» (Italian periodical literature, ora in Saggi di letteratura
italiana, p.te II, Firenze 1958, p. 336).
6. «Novelle Letterarie»: furono fondate da Giovanni Lami (Santa Croce in Valdarno 1697 - Firenze
1770), Giovanni Panfilo Gentili, Anton Francesco Gori, Giovanni Targioni. Dal 1743 il Lami restò
unico compilatore fino al 1769, anno in cui abbandonò la direzione del giornale, che fu affidata a
Marco Lastri fino a tutto il 1792. Il Baretti, che aveva detto positiva per le lettere fiorentine l’opera
del Lami, giudicò severamente il Lastri. Fu il Lami presidente della Biblioteca Riccardiana,
professore di storia ecclesiastica, teologo consultore del Granduca. Nei suoi scritti rivelò una
moderata simpatia per il giansenismo. Su di lui: F. FONTANI, Elogio del dott. G. L., Firenze 1789; A.
FABRONIO, Vitae, XVI, Pisa 1795, pp. 171 sgg.; L. PICCIONI, Il giornalismo letterario in Italia, Torino
1894, vol. I, pp. 128-138; N. RODOLICO, Gli amici e i tempi di Scipione dei Ricci Firenze 1920, pp.
21 sgg.
7. Si veda la nota 2 a p. 278.
8. Si veda la nota 3 a p. 278.
9. Allude probabilmente agli «Annali di Scienze e Lettere», diretti da Giovanni Rasori (Parma,
1766 - ivi, 1837) e da Michele Leoni (vedi nota 2 a p. 425). Il Rasori fu medico, letterato, uomo
politico. Nel 1796 era stato rettore del Collegio Ghisleri; successivamente fu segretario generale del
Ministero degli Interni della Cisalpina, rettore dell’Università di Pavia, protomedico dello Stato. Per
avere partecipato alla congiura militare dell’aprile 1814 fu imprigionato. Uscì dal carcere nel 1818.
Fu tra i collaboratori del «Conciliatore».
10. Allude probabilmente a «Il Poligrafo», il giornale del Monti, Lamberti, Francesco Pezzi,
Urbano Lampredi ecc., uscito dal 7 aprile 1811 al 27 marzo 1814.
11. Stando alla citata lettera del Pellico qui il Borsieri alluderebbe a Giovanni Paradisi (Reggio
Emilia, 1760 - ivi, 1826), figlio del poeta Agostino. Il Paradisi, professore di matematica nel liceo di
Modena nel 1790, occupò successivamente cariche amministrative e politiche nella Cispadana, nella
Cisalpina e nel Regno d’Italia. Dopo Marengo fu consultore di stato, direttore delle acque e strade,
senatore, presidente del senato. Illustra bene il suo gusto chiuso in un rigido classicismo e la
rilevanza del suo peso negli ambienti letterari questo passo di una lettera dell’8 aprile 1808 scritta dal
Di Breme al Caluso: «Il Sig. Consultore Senator Paradisi, Gran Dignitario della Corona di ferro,
direttore generale dell’acque e strade e sul procinto di salire a maggiori onoranze ancora, è persona di
merito distintissimo nella repubblica delle scienze e delle lettere. La sua Casa è il centro ove si
riuniscono a ricrearsi tutti i più colti e i più profondi ingegni che sono in Milano, dico i Monti, i
Foscolo, Valeriani, Lamberti, Brunacci, Rossi, Strocchi e simili. Figlio del già chiaro poeta Agostino
Paradisi, egli è sovra tutto passionato di quella letteratura italiana che più è condita dal gusto dei
classici greci e latini, e fra questi egli è principalmente superstizioso ammiratore del lirico venosino,
nello studio del quale ha impiegato i più verd’anni di sua vita» (L. DI BREME, Lettere, a cura di Piero
Camporesi, Torino 1966, p. 38)
12. Queste considerazioni le ritroveremo in più di un manifesto romantico. Il loro carattere non
poteva certo incontrare l’approvazione di un Acerbi o di un Saurau. La cultura qui è intesa come
specchio e impulso del moto storico, quindi come strumento politico. Si confronti questa pagina del
Borsieri con il programma della «Biblioteca Italiana» tracciato dal Saurau nella citata lettera
all’Acerbi del 23 gennaio 1816: «ommessa ogni tendenza politica, la Biblioteca Italiana si presenterà
come un punto d’unione tanto necessario, e finora mancante, che viene offerto a tutti letterati italiani,
onde communicarsi, nonché al pubblico, le loro idee e scoperte, ed impedire con ciò che a sommo
danno delle scienze le opere loro restino, ancorché classiche, per lungo tempo sconosciute nei Stati di
cui dessi non sono abitanti o indigeni» (da copia conservata nella Biblioteca di Mantova; il brano è
citato nell’articolo del Luzio, a cui abbiamo fatto cenno, alla p. 589). Come si vede la finalità
culturale qui non sommoveva e poneva in discussione il concetto di cultura accademico e
tradizionale: restava su un piano esteriore di disimpegnata informazione.
13. Il Vocabolario degli Accademici della Crusca apparve nel 1612 per i tipi di G. Alberti,
stampatore in Venezia: in esso era escluso il Tasso dal numero degli scrittori su cui erano stati fatti gli
spogli. L’opera mirava a conservare la lingua, rifacendosi all’uso trecentesco; gli Accademici
dichiaravano: «Nel compilare il presente Vocabolario (col parere dell’Illustrissimo Cardinal Bembo,
de’ Deputati alla correzion del Boccaccio dall’anno 1573 e ultimamente del Cavalier Lionardo
Salviati) abbiamo stimato necessario ricorrere all’autorità di quegli scrittori, che vissero, quando
questo idioma principalmente fiorì». Ma vi fu chi nel corso del secolo XVII protestò per la esclusione
del Tasso, le cui opere vennero poi citate nella seconda edizione del Vocabolario (1691). Sono
famose le polemiche tra il poeta e gli Accademici della Crusca, iniziate nel 1585. Su di esse e sulla
lingua del Tasso si vedano: U. COSMO, Le polemiche tassesche, la Crusca e Dante nello scorcio del
Cinque e il principio del Seicento, in «Giornale storico della letteratura italiana», XLII, 1903; R. M.
RUGGIERI, Aspetti linguistici nella polemica tassesca, in «Lingua nostra», VI, 1944-45; B. T. Sozzi,
Tasso contro Salviati con le postille inedite all’Infarinato, in Studi sul Tasso, Pisa 1954, pp. 217-257
(e le citazioni si potrebbero moltiplicare).
14. Cioè il Trecento.
15. Il Trattato delle trenta stoltizie di fra Domenico Cavalca fu pubblicato insieme con la
Disciplina degli spirituali, a cura di Monsignor Giovanni Bottari, a Roma nel 1756 (una successiva
edizione apparve a Milano nel 1838).
16. Il motivo diventerà comune presso i romantici. Anche in questa polemica contro il vanto della
tradizione il Borsieri precede cronologicamente il Di Breme, il Pellico, il Berchet e altri collaboratori
del «Conciliatore».
17. Fu la famosa risposta data da Solone a Creso. Si veda il racconto dell’incontro fra i due
personaggi in Erodoto (I, 28-33), che appunto riporta il detto: πρὶν δ’ἄν τελευτήση, ἐπισχεῖν μηδὲ
ϰαλέειν ϰω ὄλβιον, ἀλλ’εὐτυχέα.
18. APPIANO BUONAFEDE, Della Istoria e della Indole di ogni filosofia di Agatopisto Cromaziano,
Lucca 1766.
Il brano tutto da «Nessuna nazione per esempio può forse vantare, come l’Italia, un sì gran numero
d’accademie…» è passato ad litteram nel cap. IX delle Avventure letterarie di un giorno.
19. Buona parte di questa nota è passata nella «Lettera di un solitario a un cittadino» (Avventure
letterarie di un giorno, cap. II).
Per Gioia si veda la nota 1 a p. 293.
20. Per il Botta si confrontino queste considerazioni con il più ampio e circostanziato giudizio del
secondo capitolo delle Avventure ecc.
21. Si veda la nota 1 a p. 298. Per le edizioni e le traduzioni del trattato Dei delitti e delle pene si
vedano la Nota bibliografica e la Nota al testo in C. BECCARIA, Opere, a cura di S. Romagnoli,
Firenze 1958.
22. Vittorio Alfieri.
23. Su Giuseppe Luigi Lagrange (o Lagrangia) si veda la nota 1 a p. 138. Alle indicazioni
bibliografiche ivi date si aggiungano: Oeuvres de Lagrange, a cura di J. A. Serret, sotto gli auspici
del Ministro dell’Istruzione pubblica, Parigi 1867-1892; J. B. DELAMBRE, Notices sur la vie et les
ouvrages de M. le Comte L., in «Mem. classe se. Institut» (1812), Parigi 1816.
24. Gian Domenico Cassini (Perinaldo, Imperia, 1625--Parigi 1712): fu professore di astronomia
nelle Università di Genova e di Bologna. Fece rilevanti scoperte sui pianeti; collaborò alla
sistemazione delle acque nel Ferrarese. Chiamato da Luigi XIV a Parigi, vi diresse l’osservatorio
astronomico.
25. A Milano viveva Barnaba Oriani (Garegnano, Milano, 1752 - Milano 1832): dirigeva
l’osservatorio astronomico di Brera; a Palermo Giuseppe Piazzi (Ponte di Valtellina 1746 - Napoli
1826: si veda su di lui la nota 4 a pag. 138).
La citazione che si legge nella nota del Borsieri è tratta da VIRGILIO, Aen., VI, 849-850.
26. Alessandro Volta. Il passo su di lui è riprodotto nel cap. IX delle Avventure ecc.
27. Vincenzo Monti.
28. Dal 1813 Andrea Appiani viveva paralizzato in seguito ad un attacco apoplettico.
29. GIOVENALE, Satira XIV, vv. 34-35.
30. Per il Condillac e il Dumarsais si veda la nota 6 a p. 107; per il Cinonio, cioè Marcantonio
Mambelli, si veda la nota 1 a p. 109. Prisciano di Cesarea, della fine del V secolo, fu autore di una
Institutio de arte grammatica in 18 libri.
31. «Scribendi recte sapere est et principium et fons: | Rem tibi Socraticae poterunt ostendere
chartae, | Verbaque provisam rem non invita sequentur» (Ars poëtica, vv. 309-311).
32. Purgatorio, VI, 86.
33. L’opera The Life of Lorenzo de’ Medici called the Magnificent di William Roscoe (Liverpool
1753 - ivi 1831) apparve nel 1796 e fu tradotta in italiano da G. Mecherini (Pisa, 1799); l’altra opera
dello storico inglese History of the Life and Pontificate of Leo the Tenth è del 1805 (la traduzione
italiana Vita e pontificato di Leone X, con annotazioni e documenti di L. Bossi, apparve a Milano nel
1816-17). La Histoire des républiques italiennes du moyen âge del Sismondi era apparsa a Zurigo nel
1807-1808 (i primi quattro tomi); mentre scriveva il Borsieri era in corso l’edizione parigina (1809-
1818, in 16 tomi). L’Histoire littéraire d’Italie del Ginguené, iniziata nel 1808 e continuata sino al
1815 senza giungere a compimento, fu pubblicata tra il 1811 e il 1819 in nove volumi, di cui gli
ultimi tre postumi. La storia particolare del nostro teatro cui allude il Borsieri è quella di J. COOPER
WALKER, Historical memoir on Italian tragedy, London, 1799 (nel 1810 a Brescia ne fu pubblicata la
traduzione italiana)
34. Allude al periodo napoleonico.
35. Si tratta del «Decreto riguardante il piano d’istruzione generale»: lo si veda in Bollettino delle
leggi del Regno d’Italia dal 1805 al 1813, Milano, dalla Reale Stamperia, 1805-1813, pp. 922-926 (il
«Decreto» porta il numero 388). Con esso veniva confermata l’organizzazione dei licei; erano
prescritti termini all’ammissione degli studenti nelle Università abolite le cattedre universitarie di
storia, diplomatica, numismatica, lingue orientali; in Milano abolite le scuole speciali di economia
pubblica, di storia e di diplomazia; per contro erano istituite le scuole speciali di diritto pubblico, di
alta legislazione civile e criminale, di eloquenza pratica. I professori che rimanevano senza
insegnamento in forza del regolamento sarebbero stati proposti a preferenza per le cattedre vacanti.
Gli articoli 4 e 5 prescrivevano: «Saranno subito ammessi a seguire nelle università i corsi del
secondo anno quegli alunni che avranno adempiute le disposizioni prescritte dall’articolo precedente.
Tutte le cattedre quindi attualmente esistenti nelle università per l’insegnamento de’ corsi del primo
anno, sono e restano soppresse»; «Sono ugualmente soppresse nelle università le scuole de’ princìpi
di disegno, e le cattedre di storia e diplomazia, di numismatica, e di lingue orientali».
GIOVANNI BERCHET
SUL «CACCIATORE FEROCE» E SULLA «ELEONORA»
DI GOFFREDO AUGUSTO BÜRGER
LETTERA SEMISERIA DI GRISOSTOMO AL SUO FIGLIUOLO
I due versi, isolati come una sentenza che valichi i confini della Lettera
semiseria, sembrano oggi quasi segnare il destino del poeta moderno. Ma
nel contesto dell’ode, rivolti come sono al Berchet, significano sopra tutto
svincolamento da una letteratura obbligata e rivalutazione del mondo
interiore, in cui il poeta vive soltanto delle sue proprie fantasie.
Qui sta il punto di congiunzione tra la lettera di Grisostomo e le opere
poetiche originali del Berchet, che tutte si formarono dopo quell’intimo
esame di coscienza letteraria, che egli volle scrivere e pubblicare, affinché a
tutti servisse di chiarimento. A suo giudizio, non vi è poesia, che non si
alimenti nativamente di un’intensa vita affettiva e morale. Dove questa
manchi, la poesia vien meno.
Questo è il nucleo sostanziale della Lettera semiseria; e questo è l’attimo
di verità, per cui, nonostante le incongruenze, oggi è ancora meditata e nei
tempi venturi non sarà dimenticata.
Lo stesso pathos, che vibra nei punti salienti e si riflette fin anche sulla
palinodia finale, contrapposta per arte alle idee del romanticismo, per
meglio mostrare a quali ottusità e negazioni si riducesse la cultura dei
classicheggianti, ormai priva di buon sangue naturale, balza da quell’intensa
vita morale. Scegliesse il lettore tra i due modi di concepire la letteratura:
chiunque avesse schietta vita affettiva e morale, non poteva esitare nella
scelta.
Questo il significato della tanto discussa palinodia, che può oggi apparire
una giustapposizione non riuscita, perché non deriva da un logico sviluppo
stilistico della lettera stessa, ma nella mente del Berchet, in quell’ora di
battaglia, non era un’appendice inutile. Quella contrapposizione repentina
fu da lui voluta, affinché l’antitesi radicale e immediata delle due
concezioni meglio desse risalto alle ragioni dell’anima contro quelle della
lettera morta.
Di consimili antitesi integrali fu capace la vita interiore del Berchet anche
più tardi, non appena egli scelse la sua strada: che fu quella dell’intima
verità, della battaglia sostenuta per un ideale, del dolore sofferto per la
libertà, del sacrificio, che è per se stesso poesia dell’anima. Sulle vie
dell’esilio poesia e fortezza morale gli furono veramente compagne
volontarie del pensiero e figlie ardenti della passione.
Era nato a Milano nel 1783, morì a Torino, dopo i cimenti della prima
guerra per l’indipendenza, nel 1851. Tra le due date si alza come verità e
poesia la strofe:
Figliuolo Carissimo,
M’ha fatto meraviglia davvero che tu, Convittore di un Collegio, ti dessi
a cercarmi con desiderio così vivo una traduzione italiana di due
componimenti poetici del Bürger1. Che posso io negare al figliuolo mio?
Povero vecchio inesercitato, ho penato assai a tradurli; ma pur finalmente
ne sono venuto a capo.
In tanta condiscendenza non altro mi stava a cuore che di farti conoscere
il Bürger; però non mi resse l’animo di alterare con colori troppo italiani i
lineamenti di quel Tedesco: e la traduzione è in prosa. Tu vedi che anche col
fatto io sto saldo alle opinioni mie; e la verità è che gli esempi altrui mi
ribadiscono ogni dì più questo chiodo. Non è, per altro, ch’io intenda dire
che tutto tuttoquanto di poetico manda una lingua ad un’altra, s’abbia da
questa a tradurre in prosa. Nemico giurato di qualunque sistema esclusivo,
riderei di chi proponesse una legge siffatta, come mi rido di Voltaire che
voleva che i versi fossero da tradursi sempre in versi2. Le ragioni che
devono muovere il traduttore ad appigliarsi più a l’uno che all’altro partito
stanno nel testo, e variano a seconda della diversa indole e della diversa
provenienza di quello.
Tutti i popoli che più o meno hanno lettere, hanno poesia. Ma non tutti i
popoli posseggono un linguaggio poetico separato dal linguaggio prosaico.
I termini convenzionali per l’espressione del bello non sono da per tutto i
medesimi. Come la squisitezza nel modo di sentire, così anche l’ardimento
nel modo di dichiarare poeticamente le sensazioni, è determinato presso di
ciaschedun popolo da accidenti dissimili. E quella spiegazione armoniosa di
un concetto poetico, che sarà sublime a Londra od a Berlino, riescirà non di
rado ridicola, se ricantata in Toscana.
Ché se tu mi lasci il concetto straniero, ma per servire alle inclinazioni
della poesia della tua patria me lo vesti di tutti panni italiani e troppo diversi
da’ suoi nativi, chi potrà in coscienza salutarti come autore, chi ringraziarti
come traduttore?
Colla prosa la faccenda è tutt’altra; da che allora il lettore non si
dimentica un momento mai che il libro ch’ei legge è una traduzione; e tutto
perdona in grazia del gusto ch’egli ha nel fare amicizia con genti ignote, e
nello squadrarle da capo a piedi tal quali sono. Il lettore, quand’ha per le
mani una traduzione in verso, non sempre può conseguire intera una tale
soddisfazione. La mente di lui, divisa in due, ora si rivolge a raffigurare
l’originalità del testo, ora a pesare quanta sia l’abilità poetica del traduttore.
Queste due attenzioni non tirano innanzi molto così insieme; e la seconda
per lo più vince; perché l’altra, come quella che è la meno direttamente
adescata e la meno contentata, illanguidisce. Ed è allora che chi legge si fa
schizzinoso di più; e come se esaminasse versi originali italiani, ti crivella
le frasi fino allo scrupolo.
Chi porrà mente alle circostanze differenti che rendono differente il modo
di concepire le idee e verrà investigando le origini delle varie lingue e
letterature, troverà che i popoli, anche per questo lato, hanno tra di loro de’
gradi maggiori o minori di parentela. Da ciò deriverà al traduttore tanto
lume che basti per metter lui sulla buona via, ov’egli abbia intenzione
conforme all’obbligo che gli corre: quella cioè di darci a conoscere il testo,
non di regalarcene egli uno del suo.
Il sig. Bellotti imprese a tradurre Sofocle3; e prima ancora che
comparisse in luce quell’esimio lavoro, chi sognò mai ch’egli si fosse
ingannato nella scelta del mezzo, per aver pigliato a condurre in versi la sua
traduzione?
Per lo contrario, vedi ora, figliuolo mio, se io ti abbia vaticinato il falso
quando ti parlai tempo fa d’una traduzione del Teatro di Shakespeare,
prossima allora ad uscire in Firenze. Il sig. Leoni4 ha ingegno, anima,
erudizione, acutezza di critica, disinvoltura di lingua italiana, cognizione
molto di lingua inglese, tutti, insomma, i requisiti per essere un valente
traduttore di Shakespeare. Ma il sig. Leoni l’ha sbagliata. I suoi versi sono
buoni versi italiani. Ma che vuoi? Shakespeare è svisato; e noi siamo
tuttavia costretti ad invidiare ai Francesi il loro Le Tourneur5. E sì che il sig.
Leoni bastava a smorzarcela affatto questa invidia!
Di quanti altri puntelli potrebbesi rinfiancare questo argomento lo sa Dio.
Ma perché sbracciarmi a dimostrare che il fuoco scotta? Chi s’ostina a
negarlo, buon pro per lui!
E non occorre dire che la lingua nostra non si pieghi ad una prosa
robusta, elegante, snella, tenera quanto la francese.
La lingua italiana non la sapremo maneggiare con bella maniera né io, né
tu; perché tu sei un ragazzotto, ed io un vecchio dabbene e nulla più; ma fa
ch’ella trovi un artefice destro ed è materia da cavarne ogni costrutto6. Ma
questa materia non istà tutta negli scaffali delle biblioteche. Ma non là
solamente la vanno spolverando quei pochi cervelli acuti che non aspirano
alla fama di messer lo Sonnifero.
In Italia qualunque libro non triviale esca in pubblico, incontra bensì qua
e là qualche drappelletto minuto di scrutinapensieri7, che pure non lo
spaventano mai con brutto viso, perché genti di lor natura savie e discrete.
Ma, poveretto! eccolo poi dar nel mezzo ad un esercito di scrutinaparole,
infinito, inevitabile, e sempre all’erta, e prodigo sempre d’anatemi. Però io,
non avuto riguardo per ora alla fatica che costano i bei versi a tesserli,
confesso che qui tra noi, per rispetto solamente alla lingua, chiunque si
sgomenta de’ latrati dei pedanti piglia impresa meno scabra d’assai se
scrive in versi e non in prosa. Confesso che, per rispetto solamente alla
lingua e non ad altro, tanto nel tradurre come nel comporre di getto
originale, il montar su’ trampoli e verseggiare costa meno pericoli.
Confesso che allo scrittore di prose bisogna studiare e libri e uomini e
usanze; perocché altro è lo stare ristretto a’ confini determinati di un
linguaggio poetico8, altro è lo spaziarsi per l’immenso mare di una lingua
tanto lussuriante ne’ modi, e viva e parlata ed alla quale non si può chiudere
il Vocabolario, se prima non le si fanno le esequie. Ma lo specifico vero per
salire in grido letterario è forse l’impigrire colle mani in mano, e l’inchiodar
sé stessi sul Vocabolario della Crusca, come il Giudeo inchioda sul
travicello i suoi paperi perché ingrassino9?
No no, figliuolo mio, la penuria che oggidì noi abbiamo di belle prose
non proviene, grazie a Dio, da questo che la lingua nostra non sia lingua che
da sonetti. Fa che il tuo padre spirituale ti legga la parabola dei talenti
nell’Evangelista; e la santa parola con quel «serve male et piger» ti
snebbierà questo fenomeno morale10.
Ora, per dire di ciò che importa a te, sappi, o carissimo, che i Lirici
Tedeschi più rinomati, parlo della scuola moderna, sono tre: il Goethe11, lo
Schiller12 e il Bürger. Quest’ultimo13, dotato di un sentire dilicato, ma d’una
immaginazione altresì arditissima, si piacque spesso di trattare il terribile.
Egli scrisse altre poesie sull’andare del Cacciatore Feroce14 e della
Eleonora15; ma queste due sono le più famose. Io credo di doverle chiamare
Romanzi16: e se il vocabolo spiacerà ai dotti d’Italia, non farò per questo a
scappellotti colle signorie loro.
Poesie di simil genere avevano i Provenzali; bellissime più di tutti e
molte ne hanno gli Inglesi; ne hanno gli Spagnuoli; altre e d’altri autori i
Tedeschi; i Francesi le coltivavano un tempo; gli Italiani, ch’io sappia, non
mai: se pure non si ha a tener conto di leggende in versi, congegnate, non
da’ poeti letterati, ma dal volgo, e cantate da lui; fra le quali quella della
Samaritana meriterebbe forse il primato per la fortuna di qualche strofetta17.
Non pretendo con ciò di menomare d’un pelo la reputazione di alcuni
Romanzi in dialetti municipali; perché, parlando di letteratura italiana, non
posso aver la mira che alla lingua universale d’Italiaa.
Il Bürger portava opinione che «la sola vera poesia fosse la popolare»18.
Quindi egli studiò di derivare i suoi poemi quasi sempre da fonti
conosciute, e di proporzionarli poi sempre con tutti i mezzi dell’arte alla
concezione del popolo. Anche delle composizioni che ti mando oggi
tradotte, l’argomento della prima è ricavato da una tradizione volgare;
quello della seconda è inventato, imitando le tradizioni comuni in
Germania; il che vedremo in seguito più distesamente. Anche in entrambi
questi componimenti v’ha una certa semplicità di narrazione che manifesta
nel poeta il proponimento di gradire alla moltitudine.
Forse il Bürger, com’è destino talvolta degli uomini d’alto ingegno,
trascorreva in quella sua teoria agli estremi. Ma perché i soli uomini d’alto
ingegno sanno poi di per sé stessi ritenersene giudiziosamente nella pratica,
noi, leggendo i versi del Bürger, confessiamo che neppure il dotto vi
scapita, né ha ragione di dolersi del poeta. L’opinione nondimeno che la
poesia debba essere popolare non albergò solamente presso del Bürger; ma
a lei s’accostarono pur molto anche gli altri poeti sommi d’una parte della
Germania19. Né io credo d’ingannarmi dicendo ch’ella pende assai nel vero.
E se, applicandola alla storia dell’arte e pigliandola per codice nel far
giudizio delle opere dei poeti che furono, ella può sembrare troppo
avventata — giacché al Petrarca, a modo d’esempio, ed al Parini, benché
rade volte popolari, bisogna pur fare di cappello — parmi che,
considerandola come consiglio a’ poeti che sono ed ammettendola con
discrezione, ella sia santissima. E dico così, non per riverenza servile a’
Tedeschi ed agli Inglesi, ma per libero amore dell’arte e per desiderio che
tu, nascente poeta d’Italia, non abbia a dare nelle solite secche che da
qualche tempo in qua impediscono il corso agli intelletti e trasmutano la
poesia in matrona degli sbadigli.
Questa è la precipua cagione per la quale ho determinato che tu smetta i
libri del Blair20, del Villa21 e de’ loro consorti, tosto che la barba sul mento
darà indizio di senno in te più maturo. Allora avrai da me danaro per
comperartene altri, come a dire del Vico, del Burke22, del Lessing, del
Bouterwek, dello Schiller23, del Beccaria, di Madama de Staël, dello
Schlegel24 e d’altri che fin qui hanno pensate e scritte cose appartenenti alla
Estetica25: né il Platone in Italia del Consigliere Cuoco26 sarà l’ultimo dei
doni ch’io ti farò. Ma per ora non dir nulla di questo co’ maestri tuoi, che
già non t’intenderebbono.
Tuttavolta, perché la massima della popolarità della poesia mi preme
troppo che la si faccia carne e sangue in te, contentati ch’io m’ingegni fin
d’ora di dimostrartene la convenienza così appena di volo, e come meglio
può un vecchiarello che non fu mai in vita sua né poeta né filologo né
filosofo.
Tutti gli uomini, da Adamo in giù fino al calzolaio che ci fa i begli
stivali, hanno nel fondo dell’anima una tendenza alla poesia. Questa
tendenza, che in pochissimi è attiva, negli altri non è che passiva; non è che
una corda che risponde con simpatiche oscillazioni al tocco della prima.
Frontespizio dell’edizione originale
della Lettera semiseria del Berchet (Milano, Bernardoni, 1816).
La natura, versando a piene mani i suoi doni nell’animo di que’ rari
individui ai quali ella concede la tendenza poetica attiva, pare che si
compiaccia di crearli differenti affatto dagli altri uomini in mezzo a cui li fa
nascere. Di qui le antiche favole sulla quasi divina origine de’ poeti, e gli
antichi pregiudizi sui miracoli loro, e l’«est Deus in nobis»27. Di qui il più
vero dettato di tutti i filosofi: che i Poeti fanno classe a parte, e non sono
cittadini di una sola società ma dell’intero universo. E per verità chi
misurasse la sapienza delle nazioni dalla eccellenza de’ loro poeti, parmi
che non iscandaglierebbe da savio. Né savio terrei chi nelle dispute
letterarie introducesse i rancori e le rivalità nazionali. Omero, Shakespeare,
il Calderon28, il Camoens29, il Racine, lo Schiller per me sono italiani di
patria tanto quanto Dante, l’Ariosto e l’Alfieri30. La repubblica delle lettere
non è che una, e i poeti ne sono concittadini tutti indistintamente. La
predilezione con cui ciascheduno di essi guarda quel tratto di terra ove
nacque, quella lingua che da fanciullo imparò, non nuoce mai, né alla
energia dell’amore che il vero poeta consacra per istinto dell’arte sua a tutta
insieme la umana razza, né alla intensa volontà, per la quale egli studia
colle opere sue di provvedere al diletto ed alla educazione di tutta insieme
l’umana razza. Però questo amore universale, che governa l’intenzione de’
poeti, mette universalmente nella coscienza degli uomini l’obbligo della
gratitudine e del rispetto; e nessuna occasione politica può sciogliere noi da
questo sacro dovere. Fin anche l’ira della guerra rispetta la tomba d’Omero
e la casa di Pindaro31.
Il poeta, dunque, sbalza fuori dalle mani della natura in ogni tempo, in
ogni luogo. Ma per quanto esimio egli sia, non arriverà mai a scuotere
fortemente l’animo de’ lettori suoi, né mai potrà ritrarne alto e sentito
applauso, se questi non sono ricchi anch’essi della tendenza poetica passiva.
Ora siffatta disposizione degli animi umani, quantunque universale, non è in
tutti gli uomini egualmente squisita.
Lo stupito Ottentoto, sdraiato sulla soglia della sua capanna, guarda i
campi di sabbia che la circondano, e s’addormenta. Esce de’ suoi sonni,
guarda in alto, vede un cielo uniforme stenderseli sopra del capo, e
s’addormenta. Avvolto perpetuamente tra il fumo del suo tugurio e il fetore
delle sue capre, egli non ha altri oggetti, dei quali domandare alla propria
memoria l’immagine, pe’ quali il cuore gli batta di desiderio. Però alla
inerzia della fantasia e del cuore in lui tiene dietro di necessità quella della
tendenza poetica.
Per lo contrario un Parigino agiato ed ingentilito da tutto il lusso di quella
gran capitale, onde pervenire a tanta civilizzazione, è passato attraverso una
folta immensa di oggetti, attraverso mille e mille combinazioni di accidenti.
Quindi la fantasia di lui è stracca, il cuore allentato per troppo esercizio. Le
apparenze esterne delle cose non lo lusingano (per così dire); gli effetti di
esse non lo commuovono più, perché ripetuti le tante volte. E per togliersi
di dosso la noia, bisogna a lui investigare le cagioni, giovandosi della
mente. Questa sua mente inquisitiva cresce di necessità in vigoria, da che
l’anima a pro di lei spende anche gran parte di quelle forze che in altri
destina alla fantasia ed al cuore, cresce in arguzie per gli sforzi frequenti a’
quali la meditazione la costringe. E il Parigino di cui io parlo, anche senza
avvedersene, viene assuefacendosi a perpetui raziocini, o per dirla a modo
del Vico, diventa filosofo32.
Se la stupidità dell’Ottentoto è nemica alla poesia, non è certo favorevole
molto a lei la somma civilizzazione del Parigino. Nel primo la tendenza
poetica è sopita; nel secondo è sciupata in gran parte. I canti del poeta non
penetrano nell’anima del primo, perché non trovano la via d’entrarvi.
Nell’anima del secondo appena appena discendono accompagnati da
paragoni e da raziocini: la fantasia ed il cuore non rispondono loro che
come a reminiscenze lontane. E siffatti canti, che sono l’espressione
arditissima di tutto ciò che v’ha di più fervido nell’umano pensiero,
potranno essi trovar fortuna fra tanto gelo? E che meraviglia se presso del
Parigino ingentilito quel poeta sarà più bene accolto che più penderà
all’epigrammatico?
Ma la stupidità dell’Ottentoto è separata dalla leziosaggine del Parigino
fin ora descritto per mezzo di gradi moltissimi di civilizzazione che più o
meno dispongono l’uomo alla poesia. E s’io dovessi indicare uomini che
più si trovino oggidì in questa disposizione poetica, parmi che andrei a
cercarli in una parte della Germania.
A consolazione, non pertanto, de’ poeti, in ogni terra, ovunque è coltura
intellettuale, vi hanno uomini capaci di sentire poesia. Ve n’ha bensì in
copia ora maggiore ora minore, ma tuttavia sufficiente sempre. Ma fa
d’uopo conoscerli e ravvisarli ben bene, e tenerne conto. Ma il poeta non si
accorgerà mai della loro esistenza, se per rinvenirli visita le ultime casipole
della plebe affamata, e di là salta a dirittura nelle botteghe da caffè, ne’
gabinetti delle Aspasie, nelle corti dei Principi, e nulla più. Ad ogni tratto
egli rischierà di cogliere in iscambio la sua patria, ora credendola il Capo di
Buona Speranza, ora il Cortile del Palais-Royal. E dell’indole dei suoi
concittadini egli non saprà mai un ette.
Che s’egli considera che la sua nazione non la compongono que’ dugento
che gli stanno intorno nelle veglie o ne’ conviti; se egli ha mente a questo,
che mille e mille famiglie pensano, leggono, scrivono, piangono, fremono, e
sentono le passioni tutte, senza pure avere un nome ne’ teatri, può essere
che a lui si schiarisca innanzi un altro orizzonte; può essere che egli venga
accostandosi ad altri pensieri dd a più vaste intenzioni.
L’annoverare qui gli accidenti fisici propizi o avversi alla tendenza
poetica; il dire minutamente come questa, del pari che la virtù morale, possa
essere aumentata o ristretta in una nazione dalla natura delle instituzioni
civili, delle leggi religiose e di altre circostanze politiche, non fa
all’intendimento mio. Te ne discorreranno, o carissimo, a tempo opportuno,
i libri ch’io ti presterò. Basti a te per ora il sapere che tutte le presenti
nazioni d’Europa (l’italiana anch’essa, né più né meno) sono formate da tre
classi d’individui: l’una di Ottentoti; l’una di Parigini; e l’una, per ultimo,
che comprende tutti gli altri individui leggenti ed ascoltanti, non eccettuati
quelli che, avendo anche studiato ed esperimentato quant’altri, pur tuttavia
ritengono attitudine alle emozioni. A questi tutti io do nome di popolo.
Della prima classe, che è quella dei balordi calzati e scalzi, non occorre
far parole. La seconda, che racchiude in sé quei pochi, i quali escono della
comune in modo da perdere ogni impronta nazionale, vuole bensì essere
rispettata dal poeta, ma non idolatrata, ma non temuta. Il giudizio che i
membri di questa classe fanno delle moderne opere poetiche, non suole
derivare dal suffragio immediato delle sensazioni, ma da’ confronti. Negli
anni del fervore eglino hanno trovato il bello presso tale e tal altro poeta; e
ciò che non somiglia al bello sentito un tempo, pare loro di doverlo ora
ricusare. Le opinioni scolastiche, i precetti bevuti pigramente un tempo
come infallibili, reggono tuttavia il loro intelletto, che non li mise mai ad
esame, perché d’altro curante. Però l’orgoglio umano, a cui è duro il dover
discendere a discredere ciò che per molti anni s’è creduto, il più delle volte
li fa tenaci delle massime inveterate. E il più delle volte eglino combattono
per esse come per l’antemurale della loro riputazione. Allora ogni arme,
ogni scudo giova. E perché una serie di secoli non si brigò più che tanto di
discutere l’importanza di quelle massime, eccoti in campo un
bell’argomento di difesa nel silenzio delle generazioni. Chi tace non parla,
diciamo noi. Ma chi tace approva, dicono essi; e il sopore dei secoli lo
vanno predicando come consenso assoluto di tutta quanta la ragione umana
alla necessità di certe regole chiamate, Dio sa perché, di buon gusto; e però
via via d’ugual passo sgozzano ad esse ogni tratto qualche vittima illustre.
La lode che al poeta viene da questa minima parte della sua nazione non
può davvero farlo andare superbo; quindi anche il biasimo ch’ella sentenzia,
non ha a mettergli grande spavento. La gente ch’egli cerca, i suoi veri lettori
stanno a milioni nella terza classe. E questa, cred’io, deve il poeta moderno
aver di mira, da questa deve farsi intendere, a questa deve studiar di piacere,
s’egli bada al proprio interesse ed all’interesse vero dell’arte. Ed ecco come
la sola vera poesia sia la popolare: salve le eccezioni sempre, come ho già
detto; e salva sempre la discrezione ragionevole con cui questa regola vuole
essere interpretata.
Se i poeti moderni d’una parte della Germania menano tanto romore di sé
in casa loro, e in tutte le contrade d’Europa, ciò è da ascriversi alla
popolarità della poesia loro. E questa salutare direzione ch’eglino diedero
all’arte fu suggerita loro dagli studi profondi fatti sul cuore umano, sullo
scopo dell’arte, sulla storia di lei e sulle opere ch’ella in ogni secolo
produsse: fu suggerita loro dalla divisione in classica e romantica ch’eglino
immaginarono nella poesia.
Però sappi, tra parentesi, che tale divisione non è un capriccio di bizzarri
intelletti, come piace di borbottare a certi giudici, che senza processare
sentenziano; non è un sotterfugio per sottrarsi alle regole che ad ogni genere
di poesia convengono; da che uno de’ poeti chiamati romantici è il Tasso. E
fra le accuse che si portano alla Gerusalemme, chi udì mai messa in campo
quella di trasgressione delle regole?
Qual altro poema più si conforma alle speculazioni algebrai-che degli
Aristotelici33?
Né ti dare a credere, figliuolo mio, che con quella divisione i Tedeschi, di
cui parlo, pretendessero che d’un’arte la quale è unica, indivisibile, si
avesse a farne due; perocché stolti non erano. Ma se le produzioni di
quest’arte, seguendo l’indole diversa dei secoli e delle civilizzazioni, hanno
assunte facce differenti, perché non potrò io distribuirle in tribù differenti?
E se quelle della seconda tribù hanno in sé qualche cosa che più
intimamente esprime l’indole della presente civilizzazione europea, dovrò
io rigettarle per questo solo, che non hanno volto simile al volto della prima
tribù?
Di mano in mano che le nazioni europee si riscuotevano dal sonno e
dall’avvilimento, di che le aveva tutte ingombrate la irruzione dei barbari
dopo la caduta dell’impero romano, poeti qua e là emergevano a
ringentilirle. Compagna volontaria del pensiero e figlia ardente delle
passioni, l’arte della poesia, come la fenice, era risuscitata di per sé in
Europa, e di per sé anche sarebbe giunta al colmo della perfezione. I
miracoli di Dio, le angosce e le fortune dell’amore, la gioia de’ conviti, le
acerbe ire, gli splendidi fatti de’ cavalieri muovevano la potenza poetica
nell’anima de’ Trovatori. E i Trovatori, né da Pindaro istruiti né da Orazio,
correndo all’arpa, prorompevano in cantici spontanei34, ed intimavano
all’anima del popolo il sentimento del bello, gran tempo ancora innanzi che
l’invenzione della stampa e i fuggitivi di Costantinopoli profondessero
dappertutto i poemi de’ Greci e de’ Latini. Avviata così nelle Nazioni
d’Europa la tendenza poetica, crebbe ne’ poeti il desiderio di lusingarla più
degnamente. Però industriaronsi per mille maniere di trovare soccorsi; e
giovandosi della occasione, si volsero anche allo studio delle poesie
antiche, in prima come ad un santuario misterioso, accessibile ad essi soli,
poi come ad una sorgente pubblica di fantasie, a cui tutti i lettori potevano
attingere. Ma, ad onta degli studi e della erudizione, i poeti che dal
risorgimento delle lettere giù fino a’ dì nostri illustrarono l’Europa, e che
portano il nome comune di moderni, tennero strade diverse. Alcuni,
sperando di riprodurre le bellezze ammirate ne’ Greci e ne’ Romani,
ripeterono, e più spesso imitarono modificandoli, i costumi, le opinioni, le
passioni, la mitologia de’ popoli antichi.
Altri interrogarono direttamente la natura: e la natura non dettò loro né
pensieri né affetti antichi, ma sentimenti e massime moderne. Interrogarono
la credenza del popolo, e n’ebbero in risposta i misteri della Religione
cristiana, la storia di un Dio rigeneratore, la certezza di una vita avvenire, il
timore di una eternità di pene. Interrogarono l’animo umano vivente: e
quello non disse loro che cose sentite da loro stessi e da’ loro
contemporanei; cose risultanti dalle usanze, ora cavalleresche, ora religiose,
ora feroci, ma, o praticate e presenti, o conosciute generalmente; cose
risultanti dal complesso della civilità del secolo in cui vivevano35.
La poesia de’ primi è classica, quella dei secondi è romantica36. Così le
chiamarono i dotti d’una parte della Germania, che dinanzi agli altri
riconobbero la diversità delle vie battute dai poeti moderni. Chi trovasse a
ridire a questi vocaboli, può cambiarli a posta sua. Però io stimo di poter
nominare con tutta ragione poesia de’ morti la prima, e poesia de’ vivi la
seconda. Né temo d’ingannarmi dicendo che Omero, Pindaro, Sofocle,
Euripide ec. ec, al tempo loro furono in certo modo romantici, perché non
cantarono le cose degli Egizi o de’ Caldei, ma quelle dei loro Greci;
siccome il Milton37 non cantò le superstizioni omeriche, ma le tradizioni
cristiane. Chi volesse poi soggiungere che anche fra i poeti moderni seguaci
del genere classico quelli sono i migliori che ritengono molta mescolanza
del romantico, e che giusto giusto allo spirito romantico essi devono saper
grado se le opere loro vanno salve da l’oblio, parmi che non meriterebbe lo
staffile. E la ragione non viene ella forse in sussidio di siffatte sentenze,
allorché gridando c’insegna che la poesia vuole essere specchio di ciò che
commuove maggiormente l’anima? Ora l’anima è commossa al vivo dalle
cose nostre che ci circondano tutto dì, non dalle antiche altrui, che a noi
sono notificate per mezzo soltanto de’ libri e della storia38.
Allorché tu vedrai addentro in queste dottrine, e ciò non sarà per via delle
gazzette, imparerai come i confini del bello poetico siano ampi del pari che
quelli della natura, e che la pietra di paragone, con cui giudicare di questo
bello, è la natura medesima e non un fascio di pergamene; imparerai come
va rispettata davvero la letteratura de’ Greci e de’ Latini; imparerai come
davvero giovartene. Ma sentirai altresì come la divisione proposta
contribuisca possentemente a sgabellarti dal predominio sempre nocivo
della autorità. Non giurerai più nella parola di nessuno, quando trattasi di
cose a cui basta il tuo intelletto. Farai della poesia tua una imitazione della
natura, non una imitazione39 di imitazione. A dispetto de’ tuoi maestri, la
tua coscienza ti libererà dall’obbligo di venerare ciecamente gli oracoli di
un codice vecchio e tarlato, per sottoporti a quello della ragione, perpetuo e
lucidissimo. E riderai de’ tuoi maestri che colle lenti sul naso continueranno
a frugare nel codice vecchio e tarlato, e vi leggeranno fin quello che non v’è
scritto.
Materia di lungo discorso sarebbe il voler parlare all’Italia della divisione
suaccennata; ed importerebbe una anatomia lunghissima delle qualità
costituenti il genere classico, e di quelle che determinano il romantico. A
me non concede la fortuna né tempo, né forze sufficienti per tentare una
siffatta dissertazione: perocché il ripetere quanto hanno detto su di ciò i
Tedeschi non basterebbe. Avvezzi a vedere ogni cosa complessivamente,
eglino non di rado trascurano di segnare i precisi confini de’ loro sistemi; e
la fiaccola, con cui illuminano i passi altrui, manda talvolta una luce
confusa.
Ma poiché in Italia, a giudicare da qualche cenno già apparso, non v’ha
difetto intero di buona filosofia, io prego che un libro sia composto
finalmente qui tra noi, il quale non tratti d’altro che di questo argomento, e
trovi modo di appianar tutto, di confermare nel proposito i già iniziati, di
rincorare i timidi, e di spuntare con cristiana carità le corna ai pedanti.
Ben è vero che a que’ pochi del mestiere, a’ quali può giovare per le
opere loro una idea distinta del genere romantico, questa, io spero, sarà già
entrata nel cervello loro, mercè l’acume della propria lor mente. Ma perché
voi altri giovinetti siete esposti alla furia di tante contrarie sentenze, e la
verità non siete in caso di snudarla da per voi, è bene che qualcuno metta in
mano vostra ed in mano del pubblico un libro che vi scampi dal peccato,
pur sì frequente in Italia, di bestemmiare ciò che si ignora.
Intanto che il voto mio va ricercando chi lo accolga e lo secondi; intanto
che, irritati dalla novità del vocabolo romantico, da Dan fino a Bersabea40 si
levano a fracasso i pedanti nostri, e fanno a rabbuffarsi l’un l’altro, e a
contumeliarsi, e a sagramentare, e a non intendersi tra di loro, come a
Babilonia41; intanto che la divisione, per cui si arrovellano, è per loro più
mistica della più mistica dottrina del Talmud42, vediamo, figliuolo mio,
quali effetti ottenessero i poeti che la immaginarono.
Posti frammezzo a un popolo non barbaro, non civilissimo43, se se ne
riguarda tutta la massa degli abitanti, e non la sola schiera degli studiosi, i
poeti recenti d’una parte della Germania dovevano superare in grido i loro
confratelli contemporanei sparsi nel restante d’Europa. Ma della fortuna
della poesia loro tutto il merito non è da darsi alla fortuna del loro
nascimento. L’essersi avveduti di questa propizia circostanza, e l’aver
saputo trarne partito, è merito personale. E a ciò contribuì, del pari che
l’arguzia dell’ingegno, la santità del cuore. Sentirono essi che la verissima
delle Muse è la Filantropia44 e che l’arte loro aveva un fine ben più sublime
che il diletto momentaneo di pochi oziosi. Però, avidi di richiamare l’arte a’
di lei princìpi, indirizzandola al perfezionamento morale del maggior
numero de’ loro compatrioti, eglino non gridarono, come Orazio: «Satis est
equi-tem nobis plaudere»45; non mirarono a piaggiare un Mecenate, a
gratificarsi un Augusto, a procurarsi un seggio al banchetto dei grandi; non
ambirono i soli battimani d’un branco di scioperati raccolti nell’anticamera
del Principe.
Oltrediché non è da tacersi come insieme a questo pio sentimento
congiurasse anche nelle anime di que’ poeti la sete della gloria,
ardentissima sempre ne’ sovrani ingegni, e sprone inevitabile al far bene.
Eglino avevano letto che in Grecia la corona del lauro non l’accordavano né
Principi, né Accademie, ma cento e cento mila persone convenute d’ogni
parte in Tebe e in Olimpia. Avevano letto che i canti di Omero, di Tirteo
non erano misteri di letterati, ma canzoni di popolo. Avevano letto che
Eschilo, Sofocle, Euripide, Aristofane non si facevano belli della lode de’
loro compagni di mestiere; ma anelavano al plauso di trentamila spettatori;
e l’ottenevano. Quindi, agitati da castissima invidia, vollero anch’essi quel
plauso e quella corona. Ma e in che modo conseguirla? Posero mente alle
opere che ci rimangono de’ poeti greci; e quantunque s’innamorassero sulle
prime della leggiadria di quei versi, dello splendore di quella elocuzione,
dell’artificio mirabile con cui le immagini erano accoppiate e spiegate, pure
non si diedero a credere che in ciò fosse riposto tutto il talismano. E come
crederlo, se in casa loro e fuori di casa vedevano condannati all’untume del
pizzicagnolo versi, a cui né sceltezza di frasi mancava, né armonia?
Lambiccarono allora essi con più fina critica quelle opere, onde scoprire
di che malìe profittavansi in Grecia i poeti per guadagnarsi tanto suffragio
dai loro contemporanei. Videro che queste malìe erano i loro Dei, la loro
religione, le loro superstizioni, le loro leggi, i loro riti, i loro costumi, la
storia loro, le loro tradizioni volgari, la geografia loro, le loro opinioni, i
loro pregiudizi, le foggie loro ec. ec. ec.
— E noi, dissero eglino, noi, abbiamo altro Dio, altro culto; abbiamo
anche noi le nostre superstizioni, abbiamo altre leggi, altri costumi, altre
inclinazioni più ossequiose e più cortesi verso la beltà femminina. Caviamo
di qui anche noi le malìe nostre, e il popolo c’intenderà. E i versi nostri non
saranno per lui reminiscenze d’una fredda erudizione scolastica, ma cose
proprie e interessanti e sentite nell’anima. —
A rinforzarli nella determinazione soccorse loro l’esempio altresì de’
poeti che dal risorgimento delle lettere in Europa fino a’ dì nostri sono i più
famosi. E chi negherà questi essere tanto più venerati e cari, quanto di
queste nuove malìe più sparsero ne’ loro versi?
Così i poeti d’una parte della Germania co’ medesimi auspici, con l’arte
medesima né più né meno, col medesimo intendimento de’ Greci scesero
nell’arringo, desiderarono la palma, e chiesero al popolo che la desse loro.
E il popolo, non obbliato, non vilipeso da’ suoi poeti; ma carezzato, ma
dilettato, ma istruito, non ricusò d’accordarla.
A che miri la parola mia, tu lo sai; però fanne senno, figliuolo mio, e non
permettere che la paterna carità si sfoghi al vento. So che agli uomini piace
talvolta di onestare la loro inerzia con bei paroloni. Ma io non darò retta
mai né a te, né a chiunque mi ritesserà le solite canzoni: e che l’Italia è un
armento di venti popoli divisi l’uno dall’altro, e ch’ella non ha una gran
città capitale dove ridursi a gareggiare gli ingegni, e che tutto vien meno
ove non è una patria. Lo sappiamo, lo sappiamo. Ma l’avevano questa unità
di patria e questo tumulto d’una capitale unica i poeti dei quali ho parlato?
E se noi non possediamo una comune patria politica, come neppure essi la
possedevano, chi ci vieta di crearci intanto, com’essi, a conforto delle
umane sciagure una patria letteraria comune46? Forse che Dante, il Petrarca,
l’Ariosto per fiorire aspettarono che l’Italia fosse una? Forse che la latina è
la più splendida delle letterature? E non di meno qual più vasta metropoli di
Roma sotto Ottaviano e sotto i Cesari?
«Voi (gridava l’altro dì nella voce dell’ira sua il Curato di Monte Atino47,
l’amico mio dall’anima ardente), voi, se siete caldi di vero amore per la
vostra bella Italia, levate l’orecchio, o generosi Italiani. Udite come tutta
quanta l’Europa ne rinfaccia d’ogni parte il presente decadimento delle
nostre lettere48. È egli da credersi che tanta universalità di disprezzo sia
tutta opera della malignità? Ponetevi, in nome di Dio! ponetevi una mano al
petto; interrogate la coscienza vostra. E non la sentite anch’essa tremar di
vergogna? Però perdonate gli insulti villani, con che ne strapazzano oggi
que’ popoli stessi che un tempo, o ne lodavano, o taciturni rodevansi
d’invidia pe’ nostri trionfi letterari. Alle calunnie, che calunnie pur anco
piovono addosso all’Italia, non istate ad opporre altro che la dignità del
silenzio; e cadranno di per sé. Ma de’ consigli giovatevi: e la gloria della
vostra terra ricuperatela col far voi, non col citare le opere degli avi nostri.
Gloria nostra sit testimonium conscientiae nostrae, diceva S. Paolo a que’
di Corinto. Vincete l’avversità collo studio; smettete una volta la boria di
reputarvi i soli europei che abbiano occhi in testa; smettete la petulanza, con
cui vi sputate l’un l’altro in viso e per inezie da fanciulli; unitevi l’un l’altro
coi vincoli di amorosa concordia fraterna, senza della quale voi sarete
sempre nulli in tutto e per tutto. E poiché perspicacia d’intelletto non ve ne
manca, solo che vogliate rifarvi delle male abitudini, lavorate, ve ne
scongiuro, e lavorate da senno. Ma prima di tutto spogliatevi della stolida
devozione per un solo idolo letterario. Leggete Omero, leggete Virgilio, che
Dio ve ne benedica. Ma tributate e vigilie e incenso anche a tutti gli altri
begli altari che i poeti in ogni tempo e in ogni luogo innalzarono alla natura.
E quantunque a rischio di lasciare qualche dì nella dimenticanza e i volumi
dell’antichità e i volumi de’ moderni, traetevi ad esaminare da vicino voi
stessi la natura, e lei imitate, lei solo davvero e niente altro49. Rendetevi
coevi al secolo vostro, e non ai secoli seppelliti: spacciatevi dalla nebbia
che oggidì invocate sulla vostra dizione; spacciatevi dagli arcani sibillini,
dalle vetuste liturgie, da tutte le Veneri e da tutte le loro turpitudini; cavoli
già putridi non rifriggeteli. Fate di piacere al popolo vostro; investigate
l’animo di lui; pascetelo di pensieri e non di vento. Credete voi forse che i
lettori italiani non gustino altro che il sapore dell’idioma e il lusso della
verbosità? Badate che leggono libri stranieri, che s’accostumano a pensare,
e che dalle fatuità vanno ogni dì più divezzandosi. Badate che i progressi
intellettuali d’una parte d’Europa finiranno col tirar dietro a sé anche il
restante. E voi con tutta la vostra albagìa rimarrete soli, a far voi da autori
insieme e da lettori. Insomma, siate uomini e non cicale; e i vostri paesani
vi benediranno; e lo straniero ripi-glierà modestia, e parlerà di voi
coll’antico rispetto». Nessuno de’ ricchi fra’ tuoi terrazzani venga a morte
fuori della tua giurisdizione parrocchiale, o buon Curato di Monte Atino, o
anima italiana davvero! Chi non ti perdonerebbe la declamazione in grazia
dello zelo e del patriottismo che spirano le tue ammonizioni?
Ora, figliuolo mio, ti sia palese che tutto il discorso fatto fin qui, sebbene
paresse sviarsi dal soggetto, pure era necessario. Così mi sono preparata la
via alla soluzione de’ due quesiti che tu mi hai fatti, ed ai quali posso ora
rispondere con maggiore brevità. Eccoli entrambi, e in termini più precisi
de’ tuoi:
1. La moderna Italia ammetterebbe ella poesia di questo genere (i
Romanzi)50?
2. Il Cacciatore feroce e l’Eleonora piaceranno in Italia?
Non fa mestieri, cred’io, di molte lucubrazioni per trovare che alla prima
interrogazione vuoisi rispondere con un «Sì» netto e stentoreo. Da quanto
ho detto sulla opportunità di indirizzare la poesia, non all’intelligenza di
pochi eruditi, ma a quella del popolo, affine di propiziarselo e di
guadagnarne l’attenzione, tu avrai di per te stesso inferita questa sentenza:
che i poeti italiani possono del pari che gli stranieri dedurre materia pe’ loro
canti dalle tradizioni e dalle opinioni volgari; e che anzi gioverebbe di
presente ch’eglino preferissero queste a tutto intero il libro di Natale de’
Conti51. Però non voglio sprecar tempo in dimostrarti che, per tale rispetto,
questo genere di Romanzi si conviene anche all’Italia; e per la verità non
farei che ridire le parole mie. Che poi questo modo di narrare liricamente
una avventura offenderà gli Italiani, non credob.
La poesia d’Italia non è arte diversa dalla poesia degli altri popoli. I
princìpi e lo scopo di lei sono perpetui ed universali. Ella, come vedemmo,
è diretta a migliorare i costumi degli uomini, a farne gentili gli animi, a
contentare i bisogni della fantasia e del cuore; poiché la tendenza alla
poesia, simigliante ad ogni altro desiderio, suscita in noi veri bisogni
morali. Per arrivare all’intento suo la poesia si vale di quattro forme
elementari: la lirica, la didascalica, l’epica e la drammatica. Ma perché ella
di sua natura abborre i sistemi costrettìvi52, e perché i bisogni che ella
prende ad appagare possono essere modificati in infinito, ha diritto anche
ella di adoperare mezzi modificati in infinito. Quindi a sua posta ella unisce
e confonde insieme in mille modi le quattro forme elementari, derivandone
mille temperamenti.
Se la poesia è l’espressione della natura viva, ella deve essere viva come
l’oggetto ch’ella esprime, libera come il pensiero che le dà moto, ardita
come lo scopo a cui è indirizzata. Le forme ch’ella assume, non
costituiscono la di lei essenza; ma solo contribuiscono occasionalmente a
dare effetto alle di lei intenzioni53. Però fino a tanto ch’ella non esce
dell’instituto suo, non v’ha muso d’uomo che di propria facoltà le abbia a
dettare restrizioni su questo punto del tramischiare le forme elementari.
Che i due Romanzi del Bürger spiaceranno agli Italiani per l’argomento
loro e per lo stile, forse sarà54. Ma che l’Italia non patirebbe che i suoi poeti
scrivessero Romanzi del genere di questi, perché, forse, schifa della
mescolanza dell’epico col lirico, non credo. Siffatte obbiezioni non
suggeriscono che al cervello de’ pedanti, i quali parlano della poesia senza
conoscerne le proprietà. Ma se il presagio non mi falla, la tirannide dei
pedanti sta per cadere in Italia. E il popolo e i poeti si consiglieranno a
vicenda, senza paura delle Signorie Loro, ed a vicenda si educheranno; e
non andrà molto, spero.
La meditazione della filosofia riuscirà bensì a determinare, a un di
presso, di quali materiali debbano i poeti giovarsi nell’esercizio dell’arte, di
quali no; e fin dove possano estendere l’ardimento della imitazione. E
l’esperienza dimostra che in questo l’arte della poesia soffre confini come
tutte le di lei sorelle. Ma quale filosofia potrà dire in coscienza al poeta: le
modificazioni delle forme sono queste, non altre?
So che i pedanti si stilleranno l’intelletto per rinvenire, a modo
d’esempio, la bandiera sotto cui far trottare le terzine del sig. Torti sulla
Passione del Salvatore55. So che nel repertorio de’ titoli disceso loro da
padre in figlio, non ne troveranno forse uno che torni a capello per quelle
terzine: Carme no. Ode no, Idillio no, Eroide forse?…
Ma intanto quella squisita poesia, con buona pace delle Signorie Loro, è
già per le bocche di tutti. E l’Italia, non badando a’ frontispizi, scongiura il
Sig. Torti a non lasciarla lungamente desiderosa d’altri regali consimili. Lo
stesso avverrà d’ogni altra poesia futura, quando le modificazioni delle
forme siano corrispondenti all’argomento ed alla intenzione del poeta; e
quando siffatta intenzione sia conforme allo scopo dell’arte, ed a’ bisogni
dell’uomo.
Il sentimento della convenienza che induce il poeta alla scelta di un
metro piuttosto che di un altro, è contemporaneo nella mente di lui alla
concezione delle idee ch’egli ha in animo di spiegare nel suo
componimento, ed al disegno che lo muove a poetare56. Le regole generali
degli scrittori di Poetiche non montano gran fatto, da che ogni caso
vorrebbe regola a parte. Laonde è opinione mia che un uomo dell’arte possa
bensì assisterti ogni volta con un buon consiglio; ma che se tu aspetti che te
lo diano i trattatisti, non ne faremo nulla, figliuolo mio. E a questo
proposito mi piace di rallegrarti con un’altra scappata declamatoria, in cui
diede, non ha guari, il buon Curato di Monte Atino, l’amico mio dall’anima
ardente.
Una persona che aveva aria d’uomo non dozzinale e non l’era davvero57,
parlava della poesia romantica con Sua Reverenza. E Sua Reverenza l’udiva
con volto pacato e con segni d’approvazione; perché erano lodi alla poesia
romantica, la prediletta dell’anima sua. Quando tutt’ad un tratto il
panegirista uscì fuori con un voto perché alcuno in Italia pigliasse a scrivere
una Poetica romantica58. «Che Poetiche di Dio!» gridò allora il buon Curato
di Monte Arino, dimenandosi sul suo seggiolone, come un energumeno.
«Che Poetiche di Dio! Se ai giorni nostri vivesse Omero, vivesse Pindaro,
vivesse Sofocle, dovrebbono essi cambiare arte forse? No, in nome del
Cielo, no. Ma la differenza dei secoli renderebbe differenti le cose che quei
poeti imprenderebbono ora a trattare. E la differenza delle cose indurrebbe
di necessità differenza nella mescolanza delle forme e nell’accoppiamento
delle immagini. E Omero, Pindaro, Sofocle sarebbero poeti romantici,
volere o non volere. Ma l’arte loro sarebbe tuttavia quella stessa de’ classici
antichi. Che importa a me se il Cellini oggi mi cesella un vezzo per madama
d’Etampes, e domani un calice pel Santo Padre59? Egli è pur sempre
Benvenuto, l’orefice Fiorentino. Ma questo Proteo irrequieto come l’amore,
quest’arte della poesia, questa perpetua inventrice del bello, chi l’insegna?
Le Poetiche forse? Sono forse le Poetiche che hanno sviluppate le menti a
quei tre miracoli della Grecia? Sono forse le Poetiche che dissero come
tener la penna in mano a Dante, all’Ariosto, a Shakespeare? Al diavolo con
queste corbellerie! Mostratemi una Poetica anteriore alla esistenza di un
poeta. Mostratemi un vero poeta educato e formato dalle Poetiche. Dov’è,
dov’è? Io, io vi mostrerò de’ poeti che colle opere loro hanno prestata
materia di che rimpinzare di regoluzze un libruzzo a trenta maestruzzi. Io,
io vi mostrerò trentamila pedanti, e tutti figli delle Poetiche, e tutti
misuratori di sillabe, e tutti sputasentenze, e tutti teste di legno. Al diavolo
colle Poetiche! Perché non t’incarni un’altra volta, o bella anima di Omar60,
tanto appena che ti basti tempo per discendere in Italia a metter fuoco a
tutte le Poetiche, da quella di Aristotile fino a quella del Menzini61!».
E qui Sua Reverenza mandò un lungo sospiro di desiderio. Poi tosto
ammutì, guardò in alto per un poco, e si fece tutto rosso in viso,
vergognando, cred’io, d’avere unito il nome d’Aristotile a quello di un
guastamestiere62. Poi, ripreso fiato, stese la mano all’ospite, e col sorriso
della cortesia lo pregò perché proseguisse il panegirico, che tanto gli andava
a sangue.
Terminato di dire, l’ospite pigliò licenza. Il povero curato lo accompagnò
fino all’uscio; e lasciata scappare una lagrima, gli strinse la mano, e gli
disse: «Domando mille scuse; ho gridato fuori d’ogni creanza; ma sappia
Vossignoria ch’io non l’aveva con lei. A lei io ho data la mia stima.
Capperi! Vossignoria ha detto pel primo63 in Italia cose che non tutti sanno
dire; o che tutti qui s’ostinano a non voler dire. Da bravo! Stia fermo, e non
si lasci atterrire da chi senza entrare in ragionamenti le abbaia dietro de’
mali motteggi, e delle insipide satire; siamo cristiani e sacerdoti64 entrambi;
perdoniamo dunque di buona volontà agli insolenti. Dio n’abbia anch’egli
misericordia! Sono montato in furia contro le Poetiche65; perché la sento
così, e perché questo mio male detto naturale è tutta stizza, e non lo so mai
frenare. Ma i filosofi estetici io non li confondo cogli scrittori di Poetiche.
No, no, quelli li rispetto, e glielo giuro sull’onor mio. E Le giuro che
qualche volta leggo con vera avidità le cose del Burke e del Lessing66,
come se fossero squarci della Città di Dio del mio Sant’Agostino. Ma ella
compatisca, se in questo punto delle Poetiche io sono di parere contrario a
quello manifestato da lei: compatisca e mi voglia bene».
Interrogazione seconda: Il cacciatore feroce e l’Eleonora piaceranno in
Italia?
Questo è quesito di non così facile scioglimento come il primo. Madama
de Staël nell’ingegnosa ed arguta sua opera sull’Alemagna ha analizzati
entrambi questi Romanzi. E come è solito de’ fervidi ed alti intelletti che
hanno sortita fantasia vasta l’aggiungere, senza avvedersene, qualche cosa
sempre del loro alle opere altrui, delle quali s’innamorano, ella vi trovò
bellezze forse più che non hanno, e gli ammirò forse troppo. Nondimeno
ella è di parere che difficile e quasi impossibile sarebbe il far gustare que’
Romanzi in Francia; e che ciò provenga dalla difficoltà del tradurli in versi,
e da questo che in Francia rien de bizarre n’est naturel. In quanto alla
bizzarria ed alla difficoltà di tradurre in versi, sta a’ Francesi ed a madama
de Staël il decidere. In quanto al poterne tentare una versione in prosa
francese, io credo di non errare pensando che, se madama de Staël avesse
voluto piegarsi ella stessa all’ufficio di traduttore, i Francesi avrebbero
accolta come eccellente la traduzione di lei. E se mai il giudizio che ella
portò sulla incompatibilità del gusto francese colla bizzarria de’ pensieri
fosse meno esatto, la tanta poesia che vive in tutte le prose di madama si
sarebbe trasfusa di certo anche in questa, per modo che la mancanza del
metro non sarebbe stata sciagura deplorabile. L’armonia non è di così
essenziale importanza da dover dipendere totalmente da essa la fortuna di
un componimento.
Per riguardo all’Italia, io non saprei temere di un ostacolo dal semplice
lato della bizzarria, da che l’Ariosto è l’idolo delle fantasie italiane. Però,
lasciato stare il danno che a questi Romanzi può venire dall’andar vestiti di
una poco bella traduzione per le contrade d’Italia, dico che a me sembra di
ravvisare in essi una cagione più intrinseca, per la quale non saranno forse
comunemente gustati tra di noi.
Entrambi questi Romanzi sono fondati sul maraviglioso e sul terribile,
due potentissime occasioni di movimento per l’animo umano. Ma l’uomo,
che, per uscire dal letargo che gli è incomportabile, invoca anche scosse
violenti67 all’anima sua e anela sempre di afferrare sì fatte occasioni, pure
non se ne lascia vincere mai, se non per via della credenza. E il terribile e il
maraviglioso, quando non sono creduti, riescono inoperosi e ridicoli, come
la verga di Mosè in mano a un misero Levita.
L’effetto dunque che produrranno i due Romanzi del Bürger sarà
proporzionato sempre alla fede che il lettore presterà agli argomenti di
maraviglia e di terrore, de’ quali essi riboccano. Ora, dipendendo da ciò
principalmente l’esito della loro emigrazione presso gli Italiani, a me non
dà il cuore di prognosticarla fortunata.
Cominciamo dal primo: ecco la traduzione del Cacciatore feroce.
IL CACCIATORE FEROCE.
Sul far del mattino Eleonora sbalzò su agitata da sogni affannosi: «Sei tu
infedele, o Guglielmo, o sei tu morto? E fino a quando indugerai?».
Egli era uscito coll’esercito del Re Federigo alla battaglia di Praga; e non
aveva scritto mai se ne fosse scampato.
Stanchi delle lunghe ire, il Re e l’Imperatrice ammollirono le feroci
anime, e finalmente fecero pace. Ed ogni schiera, preceduta da inni, da
cantici, dal fragore de’ timpani, da suoni e da sinfonie, adornata di verdi
rami, si riduceva alle proprie case.
E da per tutto, da per tutto, sulle strade, sui sentieri, giovani e vecchi
traevano incontro ai viva d’allegrezza de’ vegnenti. «Sia lode al cielo!»
esclamavano fanciulli e mogli. «Ben venga!» esclamavano assai spose
contente. Ma, oh Dio! per Eleonora non v’era né saluto, né bacio.
Ella di qua di là cercò tutto l’esercito, dimandò tutti i nomi. Ma fra tanti
reduci non uno v’era che le desse ragguaglio. Oltrepassate che furono da
ultimo tutte quante le schiere, ella si stracciò la nera chiomaf, e furibonda si
buttò sul terreno.
Accorse precipitosa la madre. «O Dio, misericordia! Che hai, che
t’avvenne, figlia mia cara?». E se la serrò fra le braccia.
— «O madre, madre! è perduto, è morto. Or vada in rovina il mondo, e
tutto vada in rovina! Non ha misericordia Iddio. Ahi me misera! misera!».
— «O Dio, ne assisti! Misericordia, o Signore! Di’, figlia mia, di’ un
Paternostro. Quello che è fatto da Dio è ben fatto. Egli sì, Iddio, è pietoso di
noi».
— «O madre, madre! Tutte illusioni! Nulla di bene ha fatto per me il
Signore! nulla. Che giovarono, che giovarono le mie orazioni? Oramai non
n’è più bisogno».
— «O Dio, ne assisti! Chi in Dio riconosce il nostro padre, sa ch’egli
soccorre a’ figliuoli. Il santissimo Sacramento metterà calma al tuo
affanno».
— «O madre, madre! Questo incendio che m’arde, non v’ha Sacramento
che me lo calmi. Non v’ha Sacramento che restituisca a’ morti la vita».
«Ascoltami, o cara; e se quell’uom falso, là lontano, nell’Ungheria,
avesse rinnegata la fede per isposarsi ad altra donna? No, cara, non pensar
più a quel suo cuore. E neppure egli se ne troverà contento! Quando un
giorno l’anima verrà a separarsi dal corpo, lui trarrà nelle fiamme il suo
spergiuro».
— «O madre, madre! Non è più, non è più: egli è perduto, perduto per
sempre. La morte, altro non mi resta che la morte! Oh non fossi io nata mai!
Spegniti, luce mia, spegniti in perpetuo. Muori, muori sepolta nella notte e
nell’orrore! No, non ha misericordia Iddio. Ahi me misera! misera!» —
— «O Dio, ne assisti! Non voler no entrare, o Dio, in giudizio contro la
povera tua creatura. Ella non sa quel che la sua lingua si dica: non tener
conto dei peccati di lei.— Dimentica, figliuola mia, dimentica la tua
afflizione terrena; pensa al Signore, pensa alla beatitudine eterna; e
t’assicura che non verrà meno lo sposo all’anima tua».
— «E che è mai, o madre, la beatitudine eterna? Che mai, o madre, è
l’Inferno? Con lui, con lui è beatitudine eterna; e senza di Guglielmo non
v’ha che inferno. Spegniti, luce mia, spegniti in perpetuo: muori, muori
sepolta nella notte e nell’orrore! Senza di lui, né sulla terra, né fuori della
terra posso aver pace io mai».
Così a lei nella mente e nelle vene infuriava la disperazione. Più e più
continuò temeraria ad accusare la Provvidenza di Dio; si percosse il seno; si
storse le mani, fino al tramonto del sole, fino all’apparire delle stelle auree
per la volta del cielo.
Quand’ecco, trap trap trap, un calpestìo al di fuori come di zampa di
destriero; e strepitante nell’armatura smontare agli scalini del verone un
cavaliero. E tin tin tin, ecco sfrenarsi pian piano la campanella dell’uscio; e
da traverso l’uscio venire queste distinte parole:
—«Su su! Apri, o mia cara, apri. Dormi tu, amor mio, o sei desta? Che
intenzioni sono ancora le tue verso di me? Piangi, o sei lieta?».
— «Oh cielo! Tu, Guglielmo? Tu… di notte… così tardi…? Ho pianto,
ho vegliato. Ahi misera! un grande affanno ho sostenuto… E donde vieni tu
così a cavallo?».
— «Noi non mettiamo sella che a mezzanotte. Lungo viaggio cavalcai a
questa volta, fino dalla Boemia. Tardi ho preso il cammino, tardi: e voglio
condurti meco».
— «Ah Guglielmo! Entra prima qua dentro un istante. Su presto! Il vento
fischia ne’ roveti. Entra, vieni, cuor mio carissimo, a riscaldarti fra le mie
braccia».
— «Lascia pure che il vento fischi fra i roveti: lascialo fischiare, anima
mia, lascialo fischiare. Il mio cavallo morello raspa; il mio sprone suona. In
questo luogo non m’è concesso alloggiare. Vieni, succingiti, spicca un salto,
e gettati in groppa al mio morello. Ben cento miglia mi restano a correre
teco quest’oggi per arrivare al letto nuziale».
— «Oh cielo! E tu vorresti in questo sol giorno trasportarmi per cento
miglia fino al letto nuziale? Odi come romba tuttavia la campana: le undici
sono già battute».
— «Gira, gira lo sguardo. Vedi, fa un bel chiaro di luna. Noi e i morti
cavalchiamo in furia. Oggi, sì quest’oggi, scommetto ch’io ti porto nel letto
nuziale».
— «E dov’è, dimmi, dov’è la cameretta? E dove, e che letticciuolo
nuziale è il tuo?».
— «Lontano, lontano di qui…, in mezzo al silenzio…, alla frescura…,
angusto… Sei assi… e due assicelle…».
— «V’ha spazio per me?».
— «Per te e per me. Vieni, succingiti, spicca un salto, e gettati in groppa.
I convitati alle nozze aspettano; la camera è già schiusa per noi».
La vezzosa donzelletta innamorata si succinse, spiccò un salto, snella si
gittò in groppa al cavallo, e con le candide mani tutta si ristrinse all’amato
cavaliere. E arri arri arri! salta salta salta; e l’aria sibilava rotta dal gran
galoppare. Sbuffavano cavallo e cavaliere; e sparpagliavansi intorno sabbia
e scintille.
A destra e a sinistra, deh! come fuggivano loro innanzi allo sguardo e
pascoli e lande e paesi! Come sotto la pesta rintronavano i ponti! — «E tu
hai paura, o mia cara? Vedi bel chiaro di luna! Arri arri! I morti cavalcano
in furia. E tu, mia cara, hai paura de’ morti?».
— «Ah no! Ma lasciali in pace i morti!».
Da colaggiù qual canto, qual suono mai rimbombò? Che svolazzare fu
quello de’ corvi? Odi suono di squille, odi canto di morte! «Seppelliamo il
cadavere».
Ed ecco avvicinarsi una comitiva funebre, e recar la cassa e la bara de’
morti. E l’inno somigliava al gracidar dei rospi negli stagni.
— «Passata la mezzanotte, seppellirete il cadavere con suoni e cantici e
compianti. Ora io accompagno a casa la giovinetta mia sposa. Entrate meco,
entrate al convito nuziale. Vieni, o sagrestano; vieni col coro, e precedimi
intuonando il cantico delle nozze. Vieni, o sacerdote; vieni a darci la
benedizione prima che ci mettiamo a giacere».
Tace il suono, tace il canto; la bara sparì. E obbedienti alla chiamata
quelli correvano veloci, arri arri arri! lì lì sulle peste del morello. E va e va
e va; salta salta salta; e l’aria sibilava rotta dal gran galoppare. Sbuffavano
cavallo e cavaliere; e sparpagliavansi intorno sabbia e scintille.
Deh come fuggivano a destra, come a sinistra fuggivano e montagne e
piante e siepi! Come fuggivano a sinistra, a destra, e ville e città e borghi!
— «E tu hai paura, o mia cara? Vedi bel chiaro di luna! Arri arri arri! I
morti cavalcano in furia. E tu, mia cara, hai paura dei morti?».
— «Ahi misera! Lasciali in pace i morti».
Ecco, ecco; là sul patibolo, al lume incerto della luna, una ciurma di larve
balla intorno al perno della ruotag!
— «Qua qua, o larve. Venite, seguitemi. Ballateci la giga degli sposi,
quando saliremo in letto».
E via via via, le larve gli stormivano dietro a’ passi, come turbine che in
una selvetta di noccioli stride fra mezzo all’arida frasca. E va e va e va;
salta salta salta; e l’aria sibilava rotta dal gran galoppare. Sbuffavano
cavallo e cavaliere; e sparpagliavansi intorno sabbia e scintille.
Ogni cosa che la luna illuminava d’intorno, deh come ratto fuggiva, come
fuggiva alla lontana! Come fuggivano e cieli e stelle al disopra di lui!
— «E tu hai paura, mia cara? Vedi bel chiaro di luna? Arri arri arri! I
morti cavalcano in furia. Ed hai tuttavia paura dei morti, o mia cara?».
— «Ahi me misera! Lasciali in pace i morti».
— «Su su, o morello! Parmi che il gallo già canti. Fra poco il sabbione
sarà ornai tutto trascorso. Su, morello, morello! Al fiuto sento già l’aria del
mattino. Di qua, o mo rello, caracolla di qua. Finito, finito abbiamo di
correre. Eccolo che s’apre il letto nuziale. I morti cavalcano in furia.
Eccola, eccola la meta».
Impetuoso s’avventò a briglia sciolta contra un cancello di ferro. Ad uno
sferzar di scudiscio toppa e chiavistello gli si spezzarono innanzi; e le ferree
imposte cigolando si spalancarono. Il destriero drizzò la foga su per le
sepolture. E al chiaror della luna tutto tutto biancheggiava di monumenti.
Ed ecco, ecco in un subito, portento, ahi, spaventoso! Di dosso al
cavaliere ecco, a brandelli a brandelli cascar l’armatura, com’esca logorata
dagli anni! In teschio senza ciocche e senza ciuffo, in teschio ignudo ignudo
gli si convertì il capo; e la persona in ischeletro armato di ronca e d’oriuolo.
Alto s’impennò e inferocì sbuffando il morello, e schizzò scintille di
fuoco. E via, eccolo sparito e sprofondato disotto alla fanciulla; e strida e
strida su per l’aere; e venir dal fondo della fossa un ululato!… A gran
palpiti tremava il cuore d’Eleonora, e combatteva tra la morte e la vita.
Allora sì, allora sotto il raggio della luna danzarono a tondo a tondo le
larve; ed intrecciando il ballo della catena, con feroci urli ripetevano questa
nenia: — «Abbi pazienza, pazienza; s’anche il cuore ti scoppia. Con Dio
no, con Dio non venire a contesa. Eccoti sciolta dal corpo. Iddio usi
all’anima misericordia!».
A differenza della prima, la favola di questo secondo Romanzo, a quel
ch’io sappia, è tutta invenzione del poeta81. Parrebbe dunque che, non
sostenuta da una tradizione, l’Eleonora non dovesse trovare né fede, né
applausi neppure in Germania.
E nondimeno è noto come ella sia colà la lodatissima delle poesie del
Bürger. A che ascriveremo noi questo?
I popoli colti d’una parte della Germania, pe’ quali il Burger cantava,
sono inclinati all’entusiasmo82. Avidi essi di emozioni, non aspettano che
quelle vengano di per sé; ma per ottenerne, si aiutano fin anche del
meditare. Il bisogno fortissimo di emozioni nasce in loro, se mal non veggo,
per la mancanza di una continua varietà d’oggetti esteriori che possa
occuparli e muoverne gli animi piacevolmente. E questa mancanza è
prodotta dalle circostanze politiche, da quelle del clima, della geografia loro
e della loro vita sociale. Ma le circostanze medesime, se per un riguardo gli
offendono, servono per un altro a rinforzare notabilmente la loro riflessione,
allorché la noia gli obbliga a concentrarsi in sé stessi, a ripiegarsi
nell’animo proprio, onde provarne il moto che li faccia accorti
dell’esistenza. Educati così alla meditazione, non di rado giungono essi a
scoprire qualche lato importante e patetico nelle cose, in cui lo sguardo
superficiale noi vede. Tosto che l’hanno adocchiato, eglino vi si affezionano
e s’infervorano: e l’amore di una parte tira seco l’amore del tutto.
Con ciò viene a spiegarsi per noi da che provenga l’affettazione di certo
sentimentalismo che governa spesso il discorso de’ Romanzieri del Nord83,
e che male è imitato da’ Romanzieri di Francia, e mal sarebbe da que’
d’Italia; perché posa su pensieri ed affetti che non sono sentiti in Francia e
in Italia, né da chi scrive, né da chi legge. Quante volte l’uomo del Nord,
viaggiando in Italia, non fa egli strabiliare gli ospiti suoi, parlando ogni
tratto di sensazioni domestiche, di piaceri secreti dell’animo, di simpatie
recondite, di compassioni prodigalizzate a un fiorellino del campo, di
lagrime sparse per pietà di un asinelio defunto, di memorie lugubri suscitate
in lui dalla menoma novità di nugoloni colorati! Pare a noi che egli allora
monti sull’ippogrifo. Eppure chi sa che per lunga assuefazione egli non
abbia il cuore, troppo più che noi non ci figuriamo, pronto a palpitare per
tante fantasie?
A quelle docili immaginazioni bastò quindi pensare che la finzione
dell’Eleonora era omogenea ed analoga alle tradizioni popolari, perché a lei
anche estendessero il vero di opinione che quelle hanno. La stravaganza del
tutto non nocque allora più all’effetto delle parti. E siccome le parti sono
bellissime, l’approvazione e l’ammirazione vennero di per sé.
Noi popoli più meridionali, circondati dalla pompa della natura e dalla
perpetua successione delle sue infinite lusinghe, non abbiamo mestieri di
andare in traccia di emozioni per sentire la vita. Noi aspettiamo che quelle
ci riscuotano come a viva forza; ma non ci curiamo di promuoverle noi col
nostro entusiasmo. Di qui, più che lettori appassionati, noi riusciamo critici
freddi. E prima di dare una lagrima alla sventura di Eleonora, noi
metteremo sul bilancino i gradi di verisimiglianza che ha la storia della
fanciulla; e non li pagheremo della nostra credenza che grano per grano.
Forse, e bada bene che tiro a indovinare e non altro, forse gli abitanti
d’una parte della Germania, de’ quali ho parlato fin qui, hanno, o nel fondo
del cuore o dentro la mente, più religione che noi non abbiamoh.
Forse, avvezzati essi dalle sette, e dalla necessità delle controversie a
meditare i dogmi della religione, come noi a prestarle fede senza
meditazioni, hanno talmente inclinati i pensieri a lei, che tuttoquanto
partecipa dello spirito del Cristianesimo, essi lo sentono di primo tratto,
qualunque sia l’oggetto che gli occupi, qualunque sia lo stato dell’animo
loro.
Quindi è forse che il Tedesco, leggendo il Romanzo dell’Eleonora, lascia
bensì che il cuore di lui pieghi a compassione delle sventure della fanciulla;
ma immediatamente corre colla idea all’enormità del peccato commesso da
lei nel rinnegare la provvidenza di Dio. Associata a quella idea, eccoti
subito l’altra, che ogni vendetta di Dio, per quanto fiera ella sembri a
umano intendimento, non può mai aggiungere a tanto da pareggiare
l’immensità del delitto, di cui si fa reo chi offende Dio di qualsivoglia
maniera. Mesci ora insieme il sussidio delle idee religiose alla somiglianza
che la favola della Eleonora dicemmo avere colle tradizioni popolari in
Germania, e vedi come il Tedesco s’induca ad esser liberale di credenza
verso la catastrofe del Romanzo. Nell’animo di lui direi quasi che il
sentimento massimo sarà quello dell’enormità del peccato, e della maestà di
Dio irritata; e che la compassione per gli affanni amorosi della fanciulla non
sarà che un sentimento concomitante.
Se l’Italia leggente fosse composta di uomini tutti profondamente
studiosi della loro religione, forse l’Eleonora, scendendo tra noi, non
verrebbe a capitare in terra straniera affatto. Ma, quantunque in Italia
v’abbiano teologi eruditissimi, io temo che il più degli Italiani, ancorché
cattolici di buona fede, non si siano addimesticati tanto coi dogmi della loro
religione, da salvare per questi una costante reminiscenza in tutte le loro
sensazioni. Il lettore teologo, anche in mezzo alle seduzioni della poesia,
anche sbattuto dai palpiti ch’ella produce, starà fermo alle dottrine da lui
conosciute e professate, e stabilirà tosto relazioni tra quelle e ciò ch’ei
legge. Un lato della sua mente egli lo tiene vergine sempre di tutt’altri
pensieri, salvo i religiosi. Però egli sentirà il maraviglioso e il terribile del
Romanzo dell’Eeonora: e l’idea della Divinità oltraggiata e della severità
onnipossente che procede dalla giustizia di Dio gli ingombrerà tanto
l’anima, da lasciargliene una parte ben poca in preda ad altre riflessioni e ad
altri affetti. Pieno di spavento, egli chinerà il capo innanzi a Dio; ripeterà
anch’egli la nenia delle larve, e finirà esclamando: «Salvami, o Signore,
salvami dall’offenderti».
Ma avremo noi84 lettori teologi molti? O io m’inganno, o tra di noi sarà
maggiore il numero di quelli che, facili a scusare negli altri le passioni,
perché le vorrebbono scusate a sé medesimi, si lasceranno andare alla pietà,
come al sentimento più repentino per essi. Cedendo all’impeto delle prime
impressioni cagionate dalle miserie d’Eleonora, e non interrogando gran
fatto il sentimento religioso, che in essi, a differenza de’ Tedeschi, riescirà il
meno forte, eglino, parmi, diranno così: «Una povera vergine innamorata,
disperante della vita del suo sposo futuro, inasprita dal peso della disgrazia
e dalla importunità dei consigli di una vecchia assiderata, perché
nell’impeto del dolore (e che dolore!) si lasciò fuggire di bocca la
rinnegazione della Provvidenza, meritava ella di essere sepolta viva?
Meritava che il ministro dell’ira di Dio fosse quello stesso amante, per cui
ella aveva spasimato tanto? Meritava che questi alla indifferenza dovesse
anche aggiungere la crudeltà della ironia, e continuarla fino all’ultimo della
vita? Se dopo lunghe macchinazioni, ella, fredda fredda, avesse per avarizia
piantato un coltello nel petto al padre, strozzata la madre, le starebbe bene
questo ed ogni altro rigore di pena. Ma nel delirio dell’amore… per una
parola inconsiderata… tanto supplizio! No, non può essere. Il Dio nostro è
il Dio della misericordia. Tratto a doverci visitare nell’ira sua, egli guarda
pur sempre all’intenzione del peccatore; e distingue il delirio d’una
passione innocente dalla gelida ostinata empietà. Eleonora ha peccato. Ma
qual proporzione qui tra ’l peccato e la pena? No no, la storia d’Eleonora
non è credibile. È una invenzione nera nera che mette ribrezzo; è una favola
da nutrici che non è raccomandata da verisimiglianza veruna, e che non
merita neppure una sola della nostre lagrime».
Davvero, io non torrei a difendere innanzi al Santo Offizio l’ortodossia di
chi ragionasse così. Davvero sono persuaso che qualunque persona
trascorresse a discorsi siffatti, dopo più mature considerazioni se ne
disdirebbe. Ma, fattili una volta, e rovinato con ciò l’effetto primo di questa
poesia, come trovarla bella dappoi? Come gradir bene dappoi ciò che sulle
prime n’è venuto in fastidio? — E che a molti si aggireranno pel capo
pensieri simili a questi ch’io portai qui sopra, oserei scommetterlo. — Non
mi dorrebbe di rimanere perdente; anzi ’l desidero.
Ad ogni modo in entrambi questi Romanzi, e più nel secondo, v’ha
qualche cosa di magico che non si lascia definire. Ed io conosco uomini in
Italia che, capaci quant’altri di esercitare la critica, pure fu loro necessità
metterla in silenzio, perché sentivansi l’anima strascinata dalla prepotenza
del terribile, intenerita dal patetico che regna in questi componimenti. E la
monotonia stessa che qua e là il poeta vi sparse, rendeva più profonda e più
perseverante la commozione.
Dopo un esperimento siffatto, io credo di potere rispondere a te che in
Italia altri rideranno freddamente di questi due romanzi, altri diranno essere
un peccato l’avere arricchito di tanta poesia argomenti da non trattarsi, ed
altri si trasporteranno alle circostanze del popolo, per cui furono scritti, ed
assumendone le opinioni e l’entusiasmo, divideranno con lui la pietà, la
maraviglia e il terrore. Parmi che gli ultimi, comeché pochi forse,
mostreranno indole più poetica.
In quanto a te, se mai ti nascesse voglia di scrivere Romanzi in Italia sul
fare di questi, va cauto, e fa di non lasciarti traviare in soggetti non
verisimili, quando essi siano tolti di peso dalla fantasia tua. Che, se
l’argomento ti viene prestato da una storia scritta o da una tradizione che
dica: il tal fatto è accaduto così, e tu senti che comunemente è creduto così,
allora non istare ad angariarti il cervello per timore d’inverosimiglianze,
dacché tu hai le spalle al muro. Però nella scelta siati raccomandato di
tenerti più volontieri ai soggetti ricavati dalla storia, che non agli ideali85.
Né ti fidare molto a quelle tradizioni che non escirono mai dal ricinto d’un
sol municipio, perché la fama tua non sarebbe che municipale86: del che
non ti vorrei contento.
Finalmente, se i due componimenti del Bürger che ti stanno ora innanzi, e
che furono immaginati per la Germania e proporzionati a que’ lettori, non
piaceranno universalmente in Italia, bada bene a non inferire da questo che
la letteratura tedesca sia tutta incompatibile col gusto nostro. Vi hanno in
Germania componimenti moltissimi fondati su maniere e su geni comuni a’
Tedeschi, a noi, ed al resto dell’Europa colta. E il dire che un po’ più un po’
meno di lucidezza di sole, renda affatto affatto opposte tra di loro le menti
umane, ed inaccordabili onninamente le operazioni intellettuali di chi vive
tre mesi fra le nebbie con quelle di chi ne vive sei, è puerilità tanto più
ripetuta, quanto ella è più facile a dar vita ad un meschino epigramma. Se
ne’ Greci e ne’ Latini troviamo cose ripugnanti al genio della poesia
italiana, e lo confessiamo, perché infastidirci se ne’ Francesi, negli
Spagnuoli, negli Inglesi e ne’ Tedeschi ne scopriamo parimenti, che
vogliono da noi rifiutarsi? O leggere nulla, o legger tutto fa d’uopo. Però io,
portando opinione che il secondo partito sia da scegliersi, credo che anche
lo studio del Cacciatore feroce e della Eleonora sarà utile in Italia; perché
mostra da quali fonti i valenti poeti d’una parte della Germania derivino la
poesia plaudita nel loro paese. Cercarono essi con somma cura di prevalersi
di tutte le passioni, di tutte le opinioni, di tutti i sentimenti de’ loro
compatriotti; e trovarono così argomenti che vincono l’animo
universalmente.
Facciamo lo stesso anche noi. E la poesia italiana si arricchirà di nuove
bellezze, talvolta originali molto, e sempre caratteristiche del secolo in cui
viviamo. Così vedremo moltiplicarsi i soggetti moderni, e riescir belli e
graditi quanto il Filippo87, il Mattino, la Basvilliana e l’Ortis. E forse anche
noi conseguiremo scrittori di Romanzi in prosa, tanto quanto i Francesi, gli
Inglesi, e i Tedeschi.
a. Il Bouterwek nella sua Estetica, riconoscendo tuttavia l’eccellenza di questi due Romanzi, ne
censura l’autore per questo solo, che dava ad essi titolo di Poesie epico-liriche: censura che in un
filosofo mette stupore; da che l’epiteto di «epico-lirici» caratterizza ottimamente sì fatti
componimenti. Tutti sanno che la poesia epica, definendone il senso più generico e più filosofico e
prescindendo dalle distinzioni de’ Retori, significa poesia narrativa: e i due poemetti, di cui trattasi,
sono narrazioni. E la forma epica è poi mescolata in essi colla forma lirica, attesa la qualità del metro,
che è di versetti lirici rimati e scompartiti in tante strofe. Nell’edizione, per altro, che ho sott’occhio i
due Romanzi, stampati in un fascio con altri, non portano titolo che di Poesie semplicemente:
Gedichte. Volendo servire ad una scrupolosa esattezza nel classificare i lavori de’ poeti, parmi che
alcune Odi di Orazio ed alcune Odi e Canzoni nostre meriterebbero anch’esse il nome di Romanzi,
consistendo appunto in narrazioni: come, a modo d’esempio, la Canzone del Guidi sulla Fortuna. E
che altro è, infatti, quella Canzone, se non un racconto di una apparizione immaginaria della Dea
Fortuna, di un dialogo seco lei, e d’una vendetta che ella consuma? Ma ho detto che poesie del
genere di codeste del Bürger non furono forse mai scritte da’ letterati in Italia, per la somma
differenza che codeste hanno per cento lati coll’ode del Guidi, e con altre che si potrebbero citare2.
2. L’Estetica di Federico Bouterwek (1806) e la sua Storia della poesia e dell’eloquenza (1801-
1819) furono tra le opere tedesche che ebbero più viva azione sul Berchet, il quale due anni dopo, nei
numeri 9, 13 e 21 del Conciliatore, pubblicò tre articoli sulla Storia della poesia e dell’eloquenza,
incominciando dalla fine del secolo decimoterzo. Vedi B. Croce, Estetica, Bari, Laterza, 19093, p.
407; Problemi di Estetica, ivi, 1910, p. 425.
b. Vedi la nota prima [a p. 430 di questo volume].
c. Il testo ha «der Wild-und Rheingraf». Certa famiglia di Conti del Reno discendente da
Rheingrafenstein porta il nome di Wild-und Rheingraf.-Adelung, Gran. Dizion.o (Art. Rheingraf.).
d. I comuni in Germania pagano un mandriano. Questi ha l’obbligo di menare al pascolo
comunale, e di guardare tutte insieme le bestie che i contadini gli arridano; e ciò perché la povera
gente abbia tempo di badare alle proprie faccende domestiche e rurali, e i ragazzi non siano tolti alla
scuola per mandarli a condurre vacche e asinelli.
e. Le ragioni sono, che a nessuno il quale abbia veduto il portento è lecito rivelarne le particolarità.
Così comandando, la tradizione superstiziosa ha provveduto ella stessa alla propria durata.
f. Il testo ha «Rabenhaar», vocabolo composto da corvi e da chioma, «chioma corvina». In italiano,
per la sola necessità dei due vocaboli separati, l’idea perderebbe rapidità, e parrebbe affettazione.
g. Terminato il supplizio de’ rotati, è uso in Germania di piantare in mezzo del palco un palo alto,
in cima a cui è ficcata orizzontalmente la ruota fatale. Su di questa buttansi i cadaveri de’ giustiziati.
E vi stanno a spavento dei tristi e ad orrore de’ viandanti, finché il tempo ve li lascia stare.
h. Per rispetto a’ Tedeschi protestanti è evidente che per religione intendo quella religiosità che è
sentimento umano, e non dono della grazia1
1. Vi è qui un’eco delle vivacissime discussioni che facevano i nostri primi romantici sulla
religione, sul significato e valore della riforma protestante, sullo spirito della controriforma. Il
Berchet riecheggia qui le riflessioni, che il Sismondi aveva fatto nella Storia delle repubbliche
italiane sullo scarso sentimento religioso degli italiani, e quelle che sul libero esame, introdotto dalla
riforma nella religione, aveva fatto la Staël nell’Allemagne, IV P., c. II, Del protestantesimo.
i. Dante:
Non donna di provincie, ma bordello.
(l’Italia) Purg., Canto VI.
Petrarca:
Italia, che suoi guai non par che senta,
Vecchia oziosa e lenta
Dormirà sempre…?
Canz. XI, «Spirto gentil».
Ariosto:
… l’accecata Italia, d’error piena.
Orl. Fur., Canto XXXIV.
E altrove:
O d’ogni vizio fetida sentina,
Dormi, Italia imbriaca …
Machiavello:
Non si può sperare nulla di bene nelle provincie che in questi tempi si veggono corrotte, com’è
l’Italia sopra tutte le altre; e ancora la Francia e la Spagna di tale corruzione ritengono parte, ecc.
Discorsi sop. T. L.j Lib. I, cap. 55
e passim passim passim su questo gusto.
Alfieri:
Nell’ozio e ne’ piacer noiosa immersa (l’Italia).
Sonetto 143.
Dunque l’Italia è bagascia, vecchia, bevona, oziosa, senza occhi, senza bontà, corrotta e fetente. Se
tutte queste contumelie fossero farina proprio del sacco degli autori a cui sono attribuite, e non
tradimenti stranieri, bella e bizzarra materia di discorso avrebbe chi pigliasse a dimostrare che le vere
glorie d’Italia derivano da chi la sgrida e ch’ella tanto più onora i suoi, quanto più liberamente le
rinfacciano le vergogne di lei.
Nota di GIACOMO fratello di GRISOSTOMO.
j. Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio.
1. Goffredo Augusto Bürger visse dal 1747 al 1794 e fu tra gli autori più popolari di ballate
romantiche o, come dice il Berchet traducendo direttamente la parola tedesca, di romanzi. Questa
parola, proposta dal Berchet, non è prevalsa presso di noi, giacché era già adoperata per indicar
«narrazioni atte a trattenere piacevolmente in prosa o in versi con fatti e soggetti d’invenzione o misti
di storia e d’invenzione». Nel 1856 Casimiro Varese di Vicenza pubblicò la traduzione dei canti
burgheriani col titolo Ballate.
Per il fatto che il Berchet nella Lettera semiseria ha fatto leva sul Bürger, non si deve credere che
in Germania il romanticismo poggiasse fondamentalmente su quella «maniera». È noto il severo
giudizio che dell’arte burgheriana diede Federico Schiller, il quale, pur tenendo conto della popolarità
di quei canti e riconoscendo al Bürger vigore e incisività, stimava non puro il suo gusto e disuguale la
sua forma.
2. Ecco la frase del Voltaire: «… il est certain qu’on ne devrait traduire les poètes qu’en vers»
(Oeuvres, Paris, 1877, t. IX, p. 169).
3. Felice Bellotti, nato a Milano nel 1786, morto nel 1858, tradusse Eschilo, Sofocle, Euripide.
Pubblicò Sofocle nel 1813, e a questa traduzione si riferisce qui il Berchet; Eschilo nel 1821; delle
tragedie di Euripide diede una parte nel 1829 e la traduzione quasi intera dal 1844 al 1851.
Ripubblicò la versione di Sofocle, riveduta e spesso rifatta, nel 1855. Tradusse inoltre, in versi sciolti,
l’Argonautica di Apollonio Rodio, e, in ottave, I Lusiadi del Camoens. Nel secolo XIX fu il
traduttore che più largamente fece conoscere i tragici greci in Italia. Ora son mutati i modi del
tradurre, perché anche questa difficile forma d’arte si rinnova si può dire di età in età
linguisticamente, ritmicamente, esteticamente; ma nella storia dei volgarizzamenti egli è tuttora
giustamente pregiato per la temperanza ed eleganza classica dello stile.
4. Michele Leoni, di Borgo S. Donnino (oggi Fidenza), visse dal 1776 al 1858. Fece un profluvio
di traduzioni, dalle lingue antiche e da quelle straniere; troppe, da Omero a Virgilio, da Ossian allo
Smith, dal Campbell allo Sheridan, dal Pope allo Shakespeare, dallo Schiller al Byron, dal Corneille
al Cuvier; e non si possono tutte enumerare. Bene lo ha definito Paolo Negri, nel saggio
Romanticismo piemontese, lo scapigliato dei traduttori e divulgatori, che tutto cercava di dare in
pasto al pubblico in quel «fermentare e ribollire di nuovi spiriti». Il Di Breme, Madame de Staël, il
Giordani, il Tommaseo lo lodarono; ma il Foscolo disse argutamente che egli traduceva un poeta in
meno tempo che l’autore non ispendesse a correggere il suo manoscritto (Epistolario, Ediz. Naz.,
Firenze, Le Monnier, 1966, vol. VI, p. 314; lettera del 12 marzo 1816). Ad ogni modo i primi nostri
romantici, come appare anche da questa pagina critica del Berchet, ne ebbero stima, e pur avendo
spesso a ridire sopra i suoi modi di tradurre, riconobbero l’onestà de’ suoi intendimenti divulgativi.
Riferirò qui il giudizio dato dalla Staël nella Lettera ai compilatori della Biblioteca Italiana,
perché è stato scritto in quel 1816 tumultuoso e battagliero, al quale ci riconducono gli scritti
principali raccolti in questo volume: «Il sig. Di Breme osserva giustamente nella sua lettera or or
pubblicata quanto sia bizzarro citare i grand’uomini che hanno esistito in Italia per giustificarla di
non più riprodurne al presente [allude al Discorso, vedi pp. 106-107]. Tutta l’Europa sa a mente gli
autori celebri de’ secoli passati, ma ella si affligge ancora della segnalata pigrizia che pesa sulla
letteratura attuale. Almeno si facesse qualche plauso a coloro che studiano di sottrarsene! Un letterato
a Firenze, il signor Leoni, ha fatto studi profondi sulla letteratura inglese, ed ha intrapresa una
traduzione di tutto Shakespeare, poiché, cosa da non credere!, non esiste ancora una traduzione
italiana di questo grand’uomo. Egli traduce di nuovo Milton, ed ha fra i poeti inglesi fatta una scelta
delle più belle odi per naturalizzarle nella lingua de’ suoi concittadini; ma ottiene egli per questo
l’incoraggiamento e la stima che meritano le sue fatiche?».
Le lodi, rivolte al Leoni, abborracciatore di traduzioni, erano dunque dovute all’intenzione di
incoraggiare la sua opera divulgatrice; e purché avvenisse la divulgazione, molti erano disposti a non
guardar pel sottile. Ma in questo caso aveva ragione il Berchet: una traduzione è opera d’arte e deve
avere accento poetico.
Pel giudizio dato dal Borsieri sul Leoni vedi l’articolo che egli nel n. 96 del Conciliatore dedicò
alla commedia I rivali di Riccardo Brinsley Sheridan, tradotta dal Leoni (Firenze, 1819). Le
traduzioni del Leoni dallo Shakespeare, intraprese col Giulio Cesare nel 1811 e pubblicate di volta in
volta presso vari editori in città diverse, furono poi raccolte a Verona nel 1819 e spesso ristampate a
Torino e altrove.
5. La versione dello Shakespeare di Letourneur era apparsa dal 1776 al 1782, in venti volumi. Il
Voltaire e il Laharpe ne dissero male; ma essa ebbe gran diffusione in tutta Europa, perché offerse la
prima volta alle persone colte d’Europa tutto il grande tragico in una lingua più nota di quella inglese.
6. Il Berchet acutamente qui considera la prosa come forma d’arte, ma nega che questa possa
essere trovata nelle biblioteche o foggiata sui vocabolari.
7. Argutissima la distinzione dei critici «scrutinapensieri» e dei critici «scrutinaparole». Prevaleva
ancora in quel tempo nelle trattazioni accademiche, scolastiche, letterarie e spesso giornalistiche una
critica grettamente lessicale e grammaticale, quella del «non si può», informata cioè a un pedantesco
dommatismo linguistico, che aveva il suo codice negli esempi e negli autori citati dal Vocabolario
della Crusca. Il Berchet con queste sue pagine mira a un tempo a un rinnovamento dall’intimo del
linguaggio d’arte e a un rinnovamento della critica, togliendola al dommatismo cruschevole.
8. Il Berchet intende qui dire che il linguaggio della poesia, per la sua stessa intima elevazione e
pel suo accento ritmico, ha una forma più nitida e quasi per natura una parola più scelta che non la
prosa, che ha compagine più distesa e sintassi più sciolta; ma ad un tempo subito riconferma che
anche la prosa dev’essere curata come forma d’arte.
9. È vero: non si potrà chiudere il vocabolario alla lingua italiana, se non quando questa sarà
morta. Ma il pregio dello scrittore non sta nell’irrigidirsi sul vocabolario della Crusca.
10. La lingua italiana è atta a ottime prose; ma è necessario che chi scrive metta a frutto quel che
ha ricevuto, come insegna la parabola dei talenti, narrata nel Vangelo di S. Matteo (XXV, 14-30). Un
padrone, dovendo recarsi in terra lontana, affidò i suoi beni ai servi. A uno diede cinque talenti, a un
altro due, a un altro uno, secondo la capacità che essi avevano. Quel che aveva ricevuto cinque
talenti, con l’opera li portò a dieci; quel che ne aveva ricevuto due, ne guadagnò altri due; ma colui
che ne aveva ricevuto uno, fece un buco in terra e nascose la moneta. Ritornato il padrone, domandò
che cosa avessero fatto. Disse uno dei servi: Signore, mi hai affidato cinque talenti, eccotene altri
cinque che ho guadagnato. E il Signore, lodandolo, lo premiò. (Ait illi dominus eius: Euge, serve
bone et fidelis, quia super pauca fuisti fidelis, super multa te constituam: intra in gaudium domini
tui). Lo stesso fece col servo che, ricevuti due talenti, ne aveva lucrati altri due. Ma quando l’altro
servo gli disse: «… timens abii et abscondi talentum tuum in terra: ecce habes quod tuum est», il
Signore gli rispose: «O servo cattivo e pigro, tu sapevi che io mieto dove non semino e raccolgo dove
non ho sparso… Togliete a lui il talento e datelo a chi ne ha dieci…». E l’inutile servo fu cacciato
fuori nelle tenebre.
Così accade negli studi, nella letteratura, nell’arte.
11. Giovanni Volfango Goethe, il più gran poeta tedesco (17491832), è qui citato specialmente per
le sue ballate. Il Goethe aveva da giovine conosciuto Giov. Goffredo Herder, raccoglitore dei canti di
popolo (Volkslieder); aveva cercato per lui poesie popolari; e su quei modi d’arte aveva egli stesso
scritto liriche sue, originali, potenti. Si avverta che il Berchet qui pone primo il Goethe come poeta;
ma poi sceglie esempi del Bürger per suggestione del Bouterwek.
12. Federico Schiller eccelse specialmente per le tragedie (I masnadieri, 1781; La congiura del
Fiesco, 1783; Cabala e Amore, 1784; Don Carlos, 1787: la trilogia del Wallenstein, 1800; La Vergine
d’Orléans, 1801; La sposa di Messina, 1803; Guglielmo Tell, 1804); ma è poeta anche nelle liriche e
nelle ballate romantiche. Scrisse anche due romanzi: Il Visionario e L’albergatore; opere di estetica:
Della poesia ingenua e sentimentale; Intorno al sublime; Lettere sull’educazione estetica dell’uomo;
opere di storia: la Storia dell’insurrezione dei Paesi Bassi e la Storia della Guerra dei Trent’anni.
Visse dal 1759 al 1805.
13. Il Bürger come poeta è di gran lunga inferiore non solo al Goethe, ma anche allo Schiller. Ad
ogni modo non è un arbitrio del Berchet l’unire il suo nome a quello del Goethe e dello Schiller;
allora quell’avvicinamento, per le liriche, era frequente. Anche il Ridolfi nel Prospetto generale della
letteratura tedesca, Padova, 1818, dice: «Bürger, Goethe, Schiller, Stolberg ed altri ebbero in alcuni
canti lo scopo lodevole di riaccendere l’amore della patria nel petto dei loro nazionali. Da questi
autori si hanno parecchie storielle di ombre al chiaro della luna e simili giocose follie che allettano ed
anco talvolta istruiscono e che potrebbonsi anche considerare come altrettanti apologhi di conio
affatto nuovo».
Il Bürger dovette la fama specialmente alle ballate, ispirate alle immaginazioni delle leggende
popolari; ma in complesso non ebbe altezza lirica superiore, nitore di forma, quella sintesi fantastica,
che fa, per es., di alcuni canti del Goethe, ispirati da leggende, veri capolavori (per es., Il re di Tule).
Così dicasi di un altro libro di liriche del Bürger, che anche allo Schiller nel 1791 parve manchevole
per l’arte.
Il Bürger aveva ricevuto vivo impulso a comporre le sue romanze da una celebre raccolta di
antiche ballate inglesi e scozzesi, che molto piacque anche a Giovanni Goffredo Herder: Reliques of
Ancient English Poetry, apparsa a Londra in tre volumi nel 1765. La raccolta era stata fatta da
Thomas Percy.
14. Der wilde Jäger, pubblicata nel 1786.
15. Lenore, pubblicata nel 1774.
16. La parola «romanzi», nel senso di racconti lirici, di vario metro, su argomenti leggendari e
fantastici, non ebbe fortuna in Italia, dove già era preferita a designare le narrazioni immaginose, in
prosa, di vicende e fatti d’invenzione o di storia insieme e d’invenzione, quali I dolori del giovine
Werther, Le ultime lettere di Jacopo Ortis, i romanzi di Walter Scott. Quei componimenti lirici di
tono popolare in forma narrativa furono detti «ballate romantiche» o «ballate romanze» o, senz’altro,
«romanze»: e quegli aggettivi «romantiche», «romanze», uniti al sostantivo, valsero a distinguere le
nuove ballate da quelle antiche, cioè dalle canzoni a ballo, che si svolgevano con schema metrico
caratteristico: ripresa, fronte e volta. Vedi Sergio Baldi, Sull’origine del significato romantico di
«ballata», negli «Annali della R. Scuola Normale Superiore di Pisa», S. II, vol. X, 1941.
17. La leggenda della Samaritana piacque al Goethe, che l’aveva udita cantare per le vie di Roma.
Egli la giudicò consona allo spirito del nostro popolo e ai principii fondamentali della religione
cattolica.
18. Il Bürger aveva esposto le sue idee su quest’argomento nello scritto Uno sfogo dell’animo sulla
poesia popolare (1776), nelle prefazioni alle due edizioni delle sue poesie (1778 e 1789) e in altri
scritti, polemici ed epistolari. Ma come critico valeva meno che come poeta; ripeteva sempre che la
popolarità si identifica con la nazionalità e che quindi la Musa tedesca dovrebbe trovare il suo ideale
nella poesia del popolo, la quale sentimentalmente e fantasticamente emana dall’intimo del genio
nazionale germanico.
19. Allude al Goethe e allo Schiller, da lui già citati.
20. Le Lezioni di eloquenza, di Ugo Blair, tradotte dal Soave per le scuole. Vedi p. 109. Fu adottato
come testo anche dopo il 1816. Per i giudizi sul Blair vedi C. Calcaterra, Alma Mater Studiorum,
Bologna, Zanichelli, 1949, pp. 280-282.
21. Le Lezioni di eloquenza di A. T. Villa. Vedi p. 281.
22. Edmondo Burke, autore dell’opera Ricerche sull’origine delle nostre idee del sublime e del
bello (1756), della quale era stata pubblicata anonima una traduzione a Milano nel 1804 col titolo:
Ricerche sulla origine delle nostre idee del sublime e del bello con un discorso sopra il gusto e
diverse altre aggiunte.
23. Allude specialmente alle Lettere sull’educazione estetica dell’uomo (1795) e al saggio Sulla
poesia ingenua e sentimentale (1795-96).
24. È Augusto Guglielmo Schlegel, autore del Corso di letteratura drammatica.
25. Il Berchet in quegli anni volgeva con insistenza la mente al problema dell’essenza dell’arte e,
come è noto, nel num. 10 del Conciliatore trattò del significato della parola «estetica» (4 ottobre
1818).
26. Vedi p. 301.
27. Est Deus in nobis, agitante calescimus illo: è un verso di Ovidio, nei Fasti (1. VI, v. 5), e si
suol citare per indicare quel che di arcano e quasi divino ha l’ispirazione poetica.
28. Vedi p. 347.
29. Luigi Camoens, il maggior poeta del Portogallo, autore del poema I Lusiadi (1572), tradotto in
italiano da Felice Bellotti e poi da A. Nervi.
30. Pensiero consimile aveva espresso il Di Breme nel Discorso: «…la natura mette in una sola
classe Omero, Dante, Shakespeare, Sofocle».
31. Secondo una leggenda Omero sarebbe morto nell’isola di Io (Cicladi) e la sua tomba, in una
grotta, era sacra. Di Pindaro narra Arriano in ’Aνάβασις ’Aλεξάνδρoυ (1, 9) che Alessandro Magno
nella distruzione di Tebe volle che fosse risparmiata la casa, che era detta essere stata quella del
poeta.
32. Si richiama al pensiero del Vico che il raziocinare astratto dell’uomo incivilito dissecca la fonte
del sentimento e la fantasia e ottunde il senso della poesia. Ma il Parigino qui descritto non risponde
bene al gran concetto vichiano.
33. L’argomento qui addotto è scelto male. Il Berchet passa sotto silenzio le accese polemiche
svoltesi sul finir del Cinquecento sulla regolarità o irregolarità della Gerusalemme Liberata rispetto
ai grandi esemplari del poema eroico e ai precetti della poetica aristotelica. È però vero che il Tasso
fu uno dei poeti più cari ai romantici. Vedi il saggio di Umberto Bosco, L’uomo-poeta dei romantici,
nel libro Aspetti del romanticismo italiano, Roma, Ediz. Cremonese, 1942.
34. A dir vero, non erano canti spontanei, ma, come oggi tutti sanno, poesia d’arte. Il Berchet,
come altri del suo tempo, accoglieva un giudizio convenzionale. Ma è vero che la poesia dei trovatori
fu una gran fioritura dello spirito lirico romanzo.
35. Avverti in questo punto la consonanza del pensiero del Berchet con quello che aveva esposto il
Di Breme nel suo Discorso, a p. 132, contro le «classificazioni di secoli inarrivabili». Ma il Di Breme
andava romanticamente fino all’esortazione: «inalziamoci a gareggiare con la natura nella stessa
creazione… lanciamoci in quell’immensità, tentiamo animosi le regioni dell’infinito».
36. È la distinzione che aveva fatto A. G. Schlegel nella prima lezione del Corso di letteratura
drammatica, dimostrando che il principio della poesia classica è radicato nel complesso della cultura
morale dei Pagani; il principio della poesia romantica è connaturato alle belle arti dopo l’introduzione
del Cristianesimo. La Staël ripeteva queste idee nell’Allemagne.
37. Nel Paradiso perduto.
38. Con quel «soltanto» il Berchet intende escludere dalla poesia il verseggiare erudito su
argomenti desunti senza impulso di fantasia dai libri antichi e dalla storia lontana; ma implicitamente
riconosce che quando un nome, una memoria del passato rivivono dentro di noi, sono presenti come
cosa nostra, possono ispirar poesia. Infatti anch’egli dirà che le tradizioni, le leggende, la storia
possono essere fonte di poesia. Il poema stesso del Tasso, lodato or ora, riguarda la prima crociata per
la liberazione del santo sepolcro; ed è pieno di poesia, che viene da viva immaginazione.
39. Meglio e più profondamente aveva detto il Di Breme: «… nella natura, in ogni età e per prima
cosa, rispetto all’uomo, v’ha l’uomo… anche tu sei la natura; e sei per di più il suo interprete, il suo
rivale nell’ordine morale, sensitivo, immaginoso; e ciò in tutti i tempi del mondo; e se non vorrai
cantare mai sempre se non gli armenti della Sicilia e lo stretto d’Abido e gli occhi cervieri e Progne e
Filomela e i polmoni di Stentore e le stalle di Augia, invece di dipingere con efficacia, nudi e vivaci
quei fenomeni che si producono in te dagli oggetti di che ella ti ha circondato, e l’armonia loro, non
potrai già dire che tu la imiti, e molto meno potrai dire che tu imiti, che tu traduca te stesso nelle
opere tue. In vista dunque d’imitarla [intendi: allo scopo di imitarla], inalziamoci a gareggiar con lei
nella stessa creazione… Così intende natura di essere imitata». Il Di Breme aveva il concetto della
poesia come creazione. A suo avviso, la natura non poteva essere imitata dall’artista che creando
nell’infinito.
40. Modo di dire, che significa da per tutto, foggiato sulla Bibbia, dove, al cap. 19 del Libro di
Giosuè, si enumerano città e possessi nella terra d’Israele, da Bersabea, che era al sud, a Dan, che era
al nord.
41. Per la confusione delle lingue.
42. «Talmúd» significa lo studio, la dottrina ed è parola adoperata per indicare due diverse
raccolte di testi ebraici: il Talmúd Palestinese o di Gerusalemme, e il Talmúd Babilonese.
Il Talmúd Palestinese è compilazione costituita di due parti: una detta Mishna, del II sec. d. C.,
raccoglie le tradizioni dei più importanti maestri ebrei intorno alla legge mosaica; l’altra, detta
Ghemara (cioè compimento), raccoglie i trattati dottrinali composti dai maestri ebrei dal secolo III d.
C. al VI.
Il Talmúd Babilonese, molto più voluminoso del primo, da esso indipendente, risale alle scuole
giudaiche di Babilonia, le prime delle quali sorsero al principio del III secolo d. C. La redazione del
Talmúd Babilones, incominciata nel secolo IV d. C., fu ultimata nel sec. VI dai Saborei o spiegatori.
43. Diceva la Staël nell’op. La Germania che l’entusiasmo per le arti e la poesia era talora unito in
quella regione a consuetudini volgari nella vita sociale (P. I, cap. 2).
44. È pensiero espresso anche dal Di Breme nel Discorso, nel Grand Commentaire, nelle
Osservazioni al Giaurro tradotto. Confluivano nell’umanitarismo dei nostri primi romantici le idee
filantropiche francesi del Settecento e quelle della filosofia tedesca, quali si erano genericamente
diffuse in quel fermento di spiriti nuovi.
Il nome dello Herder, che si trova negli scritti del Borsieri e del Berchet, attesta che non erano
ignote le sue Idee per una filosofia della storia dell’Umanità ma anche in questo caso i primi nostri
romantici credevano di poter conciliare l’ideologia del Settecento col romanticismo.
45. Nella Satira X del libro I. Ma Orazio voleva dire che nell’arte desiderava il plauso degli
intenditori di buon gusto e non del volgo profano. I romantici, come dimostra anche il Discorso del
Di Breme, avversarono il culto di Orazio, maestro di poetica ai classicheggianti.
46. Qui è il fulcro del pensiero letterario nazionale dei primi romantici: dare all’Italia una nuova
letteratura, che fosse originale e ad un tempo consona a tutte le esigenze dello spirito nel mondo.
47. Il Curato di Monte Atino è figura immaginaria, a cui il Berchet si compiace di attribuire le sue
idee, quelle che più ardono e scottano nell’animo. È una trasfigurazione ideale dell’intimo Berchet
più infocato; e nelle sue parole risuona l’eco di alcune conversazioni con un altro animo non meno
ardente, col Di Breme, di cui aveva ammirato come un atto di coraggio il Discorso intorno
all’ingiustizia di alcuni giudizi letterari italiani.
48. In alcuni punti, il Berchet pare qui riecheggiare le pagine impetuose di Ludovico di Breme
sulla decadenza filosofica e letteraria dell’Italia:
«Siamo accusati di non contribuire per nulla al progresso attuale della filosofia razionale e
morale… Siamo pregati di restringere in numero le nostre cantilene e di estendere invece la poetica
nostra, di ringiovanire un po’ l’estro italiano, di essere noi gli Aristoteli dei tempi nostri… Ci si
rimprovera di non avere peranco adottata la grammatica intellettuale d’Europa… Ci si chiede conto
della direzione utile od inutile o perniciosa che per noi si è data nelle diverse età alla cultura e alla
disciplina delle menti nostre. Inerti siam noi, molli nel culto del vero e del sublime; svogliata è
attualmente l’anima italiana; il tormentoso amor proprio soltanto è desto più che mai. Perciò invece
di drizzare ad alte mire le nostre intenzioni, più comodo ci sembra di magnificare le frivolezze
intorno a cui spendiamo la vita nostra letteraria…». E vedi il resto a pp. 107-112.
La rispondenza del Discorso del Di Breme e di queste pagine della Lettera semiseria è dovuta a
consonanza d’idee sull’argomento qui trattato.
49. Anche nel num. 99 del Conciliatore (12 agosto 1819) il Berchet, parlando della poesia
castigliana da’ primordi di essa fino agli ultimi anni del secolo XIV, dirà: «Col raccomandare la
lettura di poesie comunque straniere non intendiamo mai di suggerire ai poeti d’Italia l’imitazione.
Vogliamo bensì ch’elle servano a dilatare i confini della loro critica».
50. Intendi: le ballate romantiche.
51. Natalis Comes o Natale de’ Conti aveva pubblicato in latino nel Cinquecento Dieci libri di
Mitologia o di esplicazioni delle favole (Mythologiae sive explicationum fabularum libri decem), nei
quali mirava a dare una spiegazione morale degli antichi miti. L’opera aveva fatto testo in Europa
come un’enciclopedia mitologica e ragionata. Il Berchet consiglia di lasciare quel peso di piombo
della letteratura classicistica per accogliere le ispirazioni, che possono venire dalle tradizioni e dalle
opinioni del popolo vivo.
52. Coercitivi.
53. Questo, sotto l’aspetto critico, è il punto più debole della lettera. La forma non è affatto nella
poesia elemento occasionale e secondario, ma è la sua essenza. Come abbiamo detto nelle pagine
introduttive, l’ispirazione poetica è già per se stessa principio formativo interiore. Senza forma non
può esservi poesia.
54. In ultima istanza, svanito il fervore di quelle polemiche e allontanatosi il motivo contingente
per cui il Berchet credette utile richiamarsi all’esempio del Bürger, fu così. Le due ballate
romantiche, Il cacciatore feroce ed Eleonora, non furono sentite come poesie dagli italiani,
specialmente per la forma artistica, alla quale non mancarono critiche vivaci anche in Germania. Il Di
Breme nel Grand Commentane avrebbe preferito che il Berchet avesse dato come esempio «qualche
sublime scena dello Schiller».
55. Giovanni Torti, allievo del Parini, dalla poesia del «Parnasso democratico» e da quella
napoleonica, in cui aveva inneggiato alla libertà e all’Ente supremo, era passato al romanticismo e fu
carissimo ai romantici, che molto lo lodarono, non escluso il Manzoni; ma oggi si può dire con tutta
schiettezza che non fu poeta, sebbene abbia tutta la vita inseguito la poesia. Come romantico, vide
una gran fonte d’ispirazione negli argomenti cristiani; e nell’insistere su questo pensiero, ubbidiva a
un’intima tendenza e persuasione, giacché nell’epistola a G. B. De Cristoforis, Sui Sepolcri di U.
Foscolo e di I. Pindemonte fin dal 1808 aveva detto all’amico zacintio che l’escludere la consolatrice
idea di una vita avvenire rendeva disperata la condizione dei mortali. Il carme, a cui qui accenna il
Berchet, Sulla passione di Cristo, è una libera parafrasi degli esametri sulla Passione, attribuiti a
Lattanzio Firmiano, ma composti da un umanista nel secolo XV. Quando il Berchet scriveva, le
terzine del Torti erano state appena pubblicate; la designazione pertanto, che ne è fatta a questo punto
della Lettera semiseria e che oggi sembra impari al valore poetico del carme, non vuol essere che un
esempio tolto dalla letteratura di quel tempo, anzi dallo stesso 1816.
A giustificare in modo contingente il giudizio qui dato dal Berchet, si ricordi che anche il Monti e
altri lodarono molto quel carme. Il quale fu anche ricordato come «splendido» nel n. 6 del
Conciliatore da G. B. De Cristoforis, allorché recensì il sermone dell’amico Sulla poesia, apparso a
Milano nel 1818.
56. Il metro, cioè la forma del verso, è il ritmo interiore dell’animo del poeta nel momento stesso
della creazione. Anche il ritmo, come la lingua, è anima.
57. L’interlocutore è Ludovico di Breme.
58. Aveva detto il Di Breme nel Discorso: «…che la romantica sia per sé un solenne genere di
letteratura, non è più da porsi in dubbio; resta da desiderarsi tuttavia una più completa e meglio
definita Poetica di esso genere. Io credo che questa sia opera da tentarsi con maggior successo in
Italia che altrove, come lo farò ben tosto sentire». A quest’intendimento, di aggiungere alle poetiche
già esistenti una poetica romantica, si oppone qui recisamente il Berchet. Le ragioni addotte
dall’amico erano così valide, che l’opera non fu scritta. Il Di Breme stesso pensava che la poetica sia
nell’anima, soltanto nell’anima. La miglior poetica era dunque lasciare i poeti liberi da precettistiche.
Per questo pensiero critico il Di Breme rinunciò anche a credere il romanticismo un genere di
letteratura, come appare dalla XXII postilla al Londonio (Polemiche, cit., p. 201) e dalla lettera al
Leoni, pubblicata da Paolo Negri.
Ma il fatto stupefacente è che il Berchet nella lettera stessa di Grisostomo si dimenticò del suo
grido: «Alla malora tutte le poetiche», e verso la fine della lettera, prima della palinodia,
ricapitolando il pensiero in una raccomandazione pratica al figliuolo, finì col tracciare una poetica
romantica per suo uso e consumo. Vedi pag. 477. A questo punto il Di Breme, che amava veder
l’animo del poeta spaziar nell’infinito, avrebbe a sua volta avuto ragione di replicare: «Al diavolo
con le poetiche!».
59. Gli episodi sono narrati dal Cellini stesso nella Vita.
60. A Omàr, secondo califfo dei Musulmani dal 634 al 644, è attribuito l’incendio della grande
biblioteca di Alessandria, perché quei libri erano inutili se non andavano contro la dottrina del
Corano, erano dannosi se contrari.
61. Vedi p. 107.
62. Anche il Baretti aveva detto l’Arte poetica del Menzini un’ampollosa pedanteria.
63. Nel Discorso intorno all’ingiustizia di alcuni giudizi letterari italiani.
64. Ludovico Arborio Gattinara portava il titolo di «Abate di Breme» ed era sacerdote.
65. Questa sfuriata contro le Poetiche è il punto contro cui si volse poi nel 1819 Trussardo
Caleppio nell’Accattabrighe, deridendo la cicala, che «poneva la barba di stoppa ad Aristotele», e
dando evidenza alle parole impure.
66. Vedi pp. 432 e 277.
67. Scosse violenti: dal singolare violente, che spesso si trova nei testi antichi: medicina violente;
veleno violente; smargiasso violente; flutto violente; violente scorre; non vi ha più violente forza di
quella dell’amore. Così si dice: sonnolento e sonnolente; frodolente e frodolento; macilente e
macilento; turbolente e turbolento ecc.
68. La leggenda riguardava certo Hans Von Hackelberg, maestro di caccia del Brunswig, morto nel
1587; ma si colora di tutte le precedenti fantasie demoniache, di cui avevano favoleggiato le credenze
popolari e non popolari.
69. «Nastagio degli Onesti amando una de’ Traversari spende le sue ricchezze senza essere amato.
Vassene pregato da’ suoi a Chiassi: quivi vede cacciare ad un cavaliere una giovane et ucciderla e
divorarla da due cani. Invita i parenti suoi e quella donna amata da lui ad un desinare, la qual vede
questa medesima giovane sbranare, e temendo di simile avvenimento prende per marito Nastagio».
70. Ed era piaciuta meno di altre novelle del Boccaccio. Il Ruscelli l’aveva giudicata «del tutto
impropria e malamente posta» nel Decamerone, perché «esce dal verisimile, ed è del tutto favolosa; e
le novelle in ogni parte vogliono essere tanto simili al vero, che gli ascoltanti come vera istoria la
ricevano negli animi loro». Ciò nondimeno, quella «storia» fu messa in terza rima nel secolo XIX da
due letterati di Romagna, da Paolo Costa di Ravenna e dal faentino Dionigi Strocchi.
71. La Commissione dei Deputati alla correzione del Decamerone nel 1574 aveva detto essere il
fatto di Nastagio tolto dai Flores di Elinando, monaco francese, scrittore assai stimato nel MCC.
Benvenuto da Imola, seguito da molti, l’aveva invece riguardato come realmente avvenuto a
Ravenna. Altri, tra le due opinioni, erano «inclinati a credere che il fatto fosse veramente preso,
quanto alle persone, da Ravenna e il mirabile degli spiriti e de’ cani dal buon monaco Elinando
mentovato dai Deputati». Oggi alle fonti si sogliono aggiungere un esempio dello Specchio di vera
penitenza del Passavanti, una leggenda orientale narrata da Pietro d’Alfonso nella Disciplina
clericalis e, per la scena dei cani nella selva, il c. XIII dell’Inferno.
Ma il Berchet qui considera la storia nel suo complesso per l’argomento e accenna ai Flores di
Elinando soltanto come a un’argomentazione marginale, che meglio confermerebbe essere quella
storia estranea al nostro gusto. In realtà, se ben si guarda, non si tratta in questo caso dell’argomento,
ma della forma; in altre parole la questione può essere fatta soltanto sotto l’aspetto estetico. L’Inferno
di Dante è tutta una visione demoniaca, eppure fantasticamente è un capolavoro, perché il poeta
raggiunge la pienezza della forma. Anche per la novella del Boccaccio e per la ballata del Cacciatore
feroce criticamente si può fare una sola domanda: se nelle due singole opere o episodi la fantasia
raggiunga la pienezza della forma poetica.
72. L’osservazione non è del tutto giusta, giacché, pochi decenni dopo, il romanzo della scrittrice
americana Enrichetta Becher-Stowe, La capanna dello Zio Tom, che fu tradotto in tutte le lingue,
ebbe gran diffusione anche in Italia, proprio per la pietà umana, che era suscitata dalla tratta dei
negri.
73. Nel 1815 il Berchet aveva composto un carme in versi sciolti, I Visconti, con risonanze
foscoliane e cesarottiane; ma non l’aveva pubblicato, perché retorico e mal connesso. Era però vivo
nella sua mente l’argomento.
74. Erasmo da Valvasone, letterato del Cinquecento, traduttore della Tebaide di Stazio in ottave,
autore dei poemi sacri Le lagrime di Maria Maddalena e L’Angeleida, di un altro cavalleresco su
Lancillotto, rimasto incompiuto, e del poema didascalico La Caccia, fu verseggiatore di povera
fantasia. Vedi C. Calcaterra, Il barocco in Arcadia, Bologna, Zanichelli, 1950.
75. Il Rondinetti e il Tiraboschi indicarono come fonte il dramma sacro Adamo di G. B. Andreini
(Milano, 1613) e la critica odierna ha confermato la designazione, sebbene Il Paradiso perduto del
Milton sia artisticamente superiore all’Adamo. Furono inoltre indicate altre opere italiane:
L’Angeleida di Erasmo di Valvasone (in cui è rievocata la caduta di Lucifero); le Sette giornate del
mondo creato di Torquato Tasso; la Strage degli innocenti del Marino; e in tempi più recenti (1845)
fu rintracciato anche un poema del tutto dimenticato di Serafino della Salandra di Cosenza, Adamo
caduto.
76. La novella del Decamerone è qui messa in mala compagnia, perché, in ultima analisi, come
opera d’arte, vale assai più dell’episodio valvasoniano e ha una sua sintesi fantastica.
77. Mons. della Casa era un’altra bestia nera dei romantici. Le orazioni togate, a cui allude il
Berchet, sono quella a Carlo V, quelle per la lega contro Carlo V e quella in lode della Repubblica di
Venezia.
78. Di questa presunzione ridicola parla anche il Di Breme nel Discorso. Vedi p. III.
79. Allude specialmente al Quadrio; ma anche la critica moderna ha riconfermato che le finzioni
mitologiche stridono poste insieme col racconto cristiano. Il poemetto è però in complesso opera di
squisita fattura e anche oggi è tenuto in pregio.
80. Jacopo Sannazaro (1458-1530), autore del racconto pastorale l’Arcadia, in cui si alternano
prose e poesie; delle Eclogae piscatoraie; di Elegie ed Epigrammi in latino; e del poema De partu
Virginis in tre libri, il quale apparve nel 1526, dopo che egli vi aveva lavorato circa vent’anni.
81. Non era tutta invenzione del Bürger, il quale stesso in una lettera del 1773 diceva di aver tratto
ispirazione da un racconto popolare. La leggenda ha avuto molte forme presso popoli diversi.
82. Il Berchet trae questa argomentazione dalla Germania della Staël, la quale in quell’opera aveva
riassunto e lodato le due romanze (II, cap. XIII).
83. Intendi qui romanzieri nel senso di autori di ballate romantiche.
84. La domanda era criticamente impropria e fuorviata, perché in ultima analisi non era questione
di sensibilità religiosa, né di teologia, ma di forma d’arte. Infatti il Monti nel Sermone sulla
Mitologia (1825) designò la romanza Eleonora, tradotta dal Berchet, e in genere «i romantici
spettri», come inconciliabili col nostro senso lirico e artistico, col nostro gusto. La questione
dev’essere riguardata soltanto sotto l’aspetto estetico. Se il Monti, nel frastuono di tante polemiche,
finì col considerare come regno del bello poetico solamente il mondo classico, dopo che nel Bardo
della Selva Nera e in altri canti già si era dimostrato non insensibile alle «nordiche nenie», e quindi
anche in questo campo potè essergli rimproverato un ondeggiamento, che la sua mancata
collaborazione al Conciliatore aveva confermato, d’altra parte è certo che il Berchet, né con gli
esempi proposti né con le considerazioni critiche, di cui li fece argomento, aveva posto nei giusti
termini la questione; e quindi molti ebbero allora ragione di domandarsi se le ballate del Bürger
fossero riuscite come opere d’arte. Alcuni avrebbero preferito esempi dello Schiller; e anche oggi
v’ha chi dice che sarebbero stati più appropriati esempi del Goethe, di cui la ballata Il re di Tule è un
capolavoro. Ma, ciò nonostante, il Berchet ebbe ragione nel sostenere che l’arte, diversa da quella
classica tradizionale, non doveva essere condannata e respinta a priori.
Si ricordi che nel medesimo anno, in cui il Bürger aveva pubblicato la ballata Lenore (1774), il
Goethe compose la ballata Der untreue Knabe (Il garzone infedele), in cui anche si raffigura una
«corsa sfrenata, furiosa, tra gli elementi irati, quasi riecheggianti il tumulto che si agita nell’intimo
del protagonista». Nel mettere a raffronto le due ballate, nelle quali il mondo dei viventi e quello dei
morti vengono in contatto, ben dice G. A. Alfero, pur riconoscendo che nella ballata del Bürger è
punita una bestemmia contro Iddio e in quella del Goethe una colpa tutta umana, la mancata fede a
una fanciulla: «Più fine la ballata goethiana: quella del Bürger ha qualcosa di grottesco e di pauroso:
l’espressione vi è rude e violenta di contrasti, le linee vi sono fortemente marcate, le tinte cupe, il
sapore acre. Tutto è invece più leggero e sfumato nel Goethe… Diversa natura e maggiore
squisitezza lirica nel Goethe» (GOETHE, Le ballate, Torino, Editrice Libraria Italiana, 1939, p. 12). La
questione era dunque di forma; era di arte e non di religione.
85. Su questa erronea raccomandazione, del tutto empirica, vedi quel che è detto nelle pagine
introduttive.
86. Anche in questo punto la considerazione del Berchet è manchevole, perché egli non esamina il
problema estetico della fantasia, la quale, quando raggiunga in un poeta la pienezza della forma, non
ha affatto valore municipale, ma universale
87. Il Filippo dell’Alfieri.
88. Qui il Berchet all’improvviso cambia tono all’epistola. Ma il passaggio è troppo repentino e
perciò dà al lettore l’impressione di uno sbalzo. Il Berchet ad arte capovolge il discorso, per dar con
l’antitesi evidenza alla sensatezza delle idee vive, che ha prima esposte, e al convenzionalismo ottuso
delle opinioni letterarie, di cui si facevano belli i classicheggianti. Quando sia intesa così, la palinodia
di Grisostomo, che vuol essere il rovescio della medaglia, non è senza efficacia. In ultima analisi, il
Berchet scrive al figliuolo: Vedi che cosa i classicheggianti giudicano stramberie. Di’ tu se oggi si
possa ancora ragionare a modo loro; di’ tu dove stiano le ragioni della vita, i diritti della poesia.
89. Era tutto il contrario. Queste ultime pagine sono tutte tessute con tagliente ironia. Crisostomo
si prende spasso dell’albagia e dell’insensibilità dei più ottusi classicheggianti.
90. Accenna al grande rinnovamento filosofico della Germania.
91. Nihil sub sole novum,
nec valet quisquam dicere: Ecce hoc recens est; iam
enim praecessit in saeculis quae fuerunt ante nos.
Ecclesiastes, I, 10.
92. Così dice per irridere i sostenitori irreducibili delle tre unità drammatiche, i quali ritenevano
che l’unità di azione fosse implicita nelle unità di tempo e di luogo ed esse fossero inscindibili.
93. Allude ai Poëticorum libri tres, in cui Gerolamo Vida nel Cinquecento aveva parlato del modo
migliore di educare i giovani agli studi della poesia, della disposizione da dare alla materia epica nei
poemi, sulla scelta delle parole e delle immagini, e aveva dato altre regole.
94. L’ironia qui raggiunge il sarcasmo. Così in alcuni altri punti delle pagine che seguono.
95. Lo Strìmone è il fiume della Tracia, lungo le cui rive Orfeo andava piangendo la perduta
Euridice (VIRGILIO, Georgiche, 1. IV, v. 508).
96. Coupé, carrozza signorile, chiusa e comoda, a quattro ruote, allora molto usata.
97. Il ricordo della battaglia di Waterloo, in cui Napoleone era stato vinto da Wellington e Blücher,
era recentissimo: 18 giugno 1815.
98. È un emistichio dell’Arte poetica di Orazio (v. 361), diventato quasi proverbiale; ed è stato
assunto a significare un’affinità tra la natura della poesia e quella della pittura, che non è affatto
indicata dal contesto. Orazio si era servito della frase per dire che come le opere pittoriche sono
diverse per carattere e valore, così quelle poetiche. Ma l’asserzione, staccata dal contesto, per
significare «la poesia è come la pittura», divenne nella mente di molti giudizio così assoluto, che il
Lessing, nell’opera Laocoonte ossia dei confini della Pittura e della Poesia, credette necessario
dimostrare che tra le due arti vi è una differenza essenziale, perché il pittore coglie un momento della
realtà e lo ferma nella raffigurazione, laddove il poeta rappresenta con più libertà e larghezza la vita
ne’ suoi movimenti, nell’azione, nel suo divenire. Uno dei più insigni assertori che la pittura sia come
una poesia muta era stato nel Settecento il Winckelmann.
99. Ma in questo caso l’errore era degli interpreti, non di Orazio.
100. I giornali di Firenze, ai quali allude, sono le Novelle Letterarie, le quali, prime tra tutti,
avevan assalito la Signora di Staël, e il Giornale di Letteratura e Belle Arti, che contro la Staël e il Di
Breme, suo difensore, aveva stampato la Romanticomania.
I giornali «fuori di Firenze» sono il Corriere delle Dame, lo Spettatore, la Biblioteca Italiana, la
Gazzetta di Milano, che avevano invelenito la polemica.
101. Buttano all’aria i sillogismi sbagliati dei romantici.
102. Accenna alle ingiurie, alle quali era stata fatta segno la signora di Staël.
103. Si ricordi che Davide Bertolotti nell’articolo La gloria italiana vendicata dalle imputazioni
della signora baronessa di Staël-Holstein, pubblicato nello Spettatore di luglio-agosto di quell’anno,
aveva preso a impugnare citazioni tratte dall’opera De la littérature considérée dans ses rapports
avec les institutions sociales, scritta nel 1798 e pubblicata nel 1800, sebbene la scrittrice stessa
avesse detto che il suo animo verso l’Italia e il suo pensiero sugli italiani non erano più quelli che
apparivano in quell’opera, ma quelli espressi nel romanzo Corinna (1807), in cui erano lodi altissime
della patria nostra.
104. Il Di Breme, il Borsieri, ai quali si aggiungeva ora il Berchet, per quel che aveva fatto dire al
curato di Monte Atino (Lilliputi: gli abitanti di Lilliput, che nel romanzo satirico di Gionata Swift, I
viaggi di Gulliver, hanno soltanto sei pollici d’altezza, cioè 30 cm.).
105. Unquanco: mai.
106. Intendi: «sebbene io non ardisca negare (disconsentire: non consentire) di avere, essendo
uomo di piccola levatura, fuorviato di quando in quando, mal mio grado, fra i triboli [dell’ignorante
di lingua], e di sembrar per tal fatto mettere in non cale lui [il Vocabolario della Crusca], benché
nulla di questo fosse».
Grisostomo mette in caricatura il linguaggio degli ultracruscanti, aggrovigliando le congiunzioni
comeché, conciossiaché, avegnadioché, giustapponendo diabolicamente quattro infiniti (calère,
mettere, parere, disconsentire), esumando locuzioni morte (a otta a otta, a ora a ora; tal convenente:
le condizioni che convengono in un fatto e costituiscono il fatto stesso), e invertendo nel modo più
ispido la sintassi. In ispecial modo era preso di mira il Cesari, che dal 1806 aveva veramente messo
maestri, scolari e letterati «pei triboli», anzi in uno spineto, col Vocabolario degli Accademici della
Crusca, cresciuto di assai migliaia di voci (Verona, 1806-1811) e con le Voci, maniere di dire ed
osservazioni di toscani scrittori, e per la maggior parte del Redi (ivi, 1806). A quelle polemiche si
riannodano il celebre dialogo del Monti, Il Capro, il Frullone della Crusca e Giambattista Getti,
apparso nel Poligrafo il 13 giugno 1813 (A. III, n. 34) con note del Lamberti, che provocarono le ire
del Cesari, e i dialoghi successivi, ancora più spassosi, a loro volta, del Monti, Il Trentuno, il
Trentasei, il Quarantasei (ivi, 12 settembre 1813), Il Dottor Quaranzei e il Compare Trenta-prusor-
uno (ivi, 13 febbraio 1814, A. IV, n. 7). Diceva quindi il Monti in una relazione del 15 marzo 1816:
«Il Cesari insozzando di tante voci del tutto morte il vivo fior della lingua sembra non aver avuto
altro divisamento che di ricondurre l’Italia all’infanzia della favella». (Vedi N. ZINGARELLI, V. Monti,
l’Istituto Lombardo e la lingua italiana, in Scritti di varia letteratura, Milano, Hoepli, 1935, p. 510).
Il giudizio tagliente precede di pochi mesi la Lettera semiseria. L’anno dopo il Monti intraprendeva
la pubblicazione della Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca
(Milano, R. Stamperia, 1817-1826), aiutato dal Perticari, da G. Gherardini, dal Peyron, dal Grossi e
da altri.
CARLO GIUSEPPE LONDONIO
Carlo Giuseppe Londonio, nato a Milano nel 1780 da ricca famiglia, fu
letterato di vasta e copiosa cultura, in lui avvivata dai viaggi e dalle assidue
letture, e cittadino di varia, onesta e alacre operosità. Fu detto dal Monti
nella Feroniade (I, vv. 130 e sgg.) «re dell’onore e senno antico». Nel 1804
pubblicò le Succinte osservazioni di un cittadino milanese sui pubblici
spettacoli teatrali della sua patria, nell’occasione dell’apertura del Teatro
Carcano. Con particolare cura si dedicò quindi allo studio dell’economia
politica, e non si restrinse agli autori italiani, ma lesse nella loro lingua le
opere dei principali economisti inglesi e tedeschi. Da questi studi trasse
argomento e materia per il Discorso dei danni derivanti dalle ricchezze, che
apparve nel 1809. Inoltre, di alcuni aspri giudizi dati da A. Guillon nel
Giornale Italiano, scrisse due confutazioni intitolate Osservazioni critiche
sulla Virginia di Vittorio Alfieri e Ricerche intorno alla natura dello stile di
Cesare Beccaria; e nel 1810 pubblicò i Pensieri di un uomo di senso
comune, Osservazioni morali costituite di sentenze derivate e imitate da
quelle del La Rochefoucauld. Si volse pure a opere di storia e, prima che il
Botta pubblicasse la Storia della guerra dell’indipendenza degli Stati Uniti
di America (1809), egli già attendeva alla Storia delle colonie inglesi in
America dalla loro fondazione fino allo stabilimento della loro
indipendenza. La pubblicazione dell’opera del Botta non gli fece dimettere
il disegno di questo lavoro, perché in esso l’argomento non solo era
considerato sotto aspetto più vasto, ma anche era corroborato da notizie e
considerazioni economiche e la trattazione era cronologicamente più
ordinata e più precisa nei fatti. Essa apparve a Milano negli anni 1812-1813
in tre volumi. Alcuni anni dopo, nel 1816, entrò nella battaglia tra
classicheggianti e romantici e pubblicò in opuscolo, pure a Milano, la
Risposta di un Italiano ai due discorsi di Madama di Staël inseriti nella
“Bibl. Ital”.(Milano, Pirotta, 1816) in cui aveva incominciato col
domandarsi se fosse vero che la letteratura italiana fosse sterile; e aveva
risposto che tutta la tradizione stava a dimostrare non la sterilità, ma la
fertilità di essa. Riconosceva che le lettere italiane stavano attraversando un
periodo di stasi; ma molti nomi dimostravano che esse non erano morte in
Italia. Il Londonio passava quindi a esaminare il pensiero della Staël
sull’utilità delle traduzioni e osservava che ogni popolo ha un suo carattere
originale unico e inconfondibile e quindi non può arricchire la sua
letteratura con opere prese in prestito a popoli diversi per carattere,
tradizioni, condizioni di vita, ecc. «Per poter innestare — egli diceva — in
una nazione la letteratura di un’altra, bisognerebbe poterle imprimere lo
stesso carattere e gli stessi costumi, bisognerebbe cangiare il suo cielo, farle
dimenticare il suo clima; e mentre tutto spira intorno a lei brio, letizia,
amore, stampare nella sua mente quei pensieri e quelle immagini, che la
natura ci ispira e ci presenta nell’imponente maestà di sua tristezza».
Soggiungeva poi che le lingue straniere non erano ignote in Italia, come si
asseriva, e che molti erano in grado di conoscere direttamente nella lingua
originale le opere dei grandi scrittori stranieri. Questa era ottima cosa,
giacché Madama stessa ammetteva che «la comunicazione dei pensieri per
mezzo di una traduzione è sempre incompleta» ma osservava che, se la
conoscenza dei capolavori stranieri è utile a tutte le persone colte, sarebbe
dannosissimo che essi venissero imitati, e aggiungeva: «…io non vorrei
neppure che si imitassero, come si fa servilmente da tanti, i nostri classici,
mentre l’imitazione è la tomba del genio». Madama di Staël, la quale
asseriva di volere soltanto che noi conoscessimo autori stranieri, in realtà
voleva che li imitassimo, giacché consigliava di rappresentare i capolavori
francesi. Quest’importazione di opere straniere nei nostri teatri, a giudizio
del Londonio, sarebbe stata dannosissima, poiché «il teatro per essere utile
deve assolutamente essere nazionale, e per nazionale intendo (diceva)
conforme al gusto e ai costumi della propria nazione», e diretto ad
emendare quei difetti e quei vizi che in essa predominano.
Il Londonio criticava quindi le tragedie di Racine, osservando che in esse
vi è sempre qualche cosa che contrasta con i personaggi classici, da esse
evocati, e che fa intuire attraverso le parole degli antichi greci e romani
un’anima schiettamente francese e moderna. Veniva poi a criticare la
tragedia senza unità e con «fusione di generi». Difendeva gli italiani
accusati di cattivo gusto letterario e osservava che essi andavano a teatro
per ascoltare la musica e per parlare di politica negli intervalli. Si dichiarava
però concorde con Madama di Staël nel dare ad altre nazioni il primato
della letteratura filosofica, come era detto nella Risposta ai Compilatori
della «Biblioteca Italiana» e come era comprovato nell’Allemagne. L’anno
seguente il Londonio stampò un opuscolo ancor più ragguardevole e più
ampio, i Cenni critici sulla Poesia romantica. In questi il Londonio, pur
difendendo i classici e la mitologia e le unità drammatiche e avversando
l’accoppiamento del tragico col comico, dimostrava larghezza di mente,
moderazione di giudizio e tendenze conciliative, poiché concludeva voler
esser romantici anche gli Italiani, figli primogeniti della moderna civiltà,
ma romantici avversi ai pregiudizi e alla superstizione, e fedeli all’esempio
e ai precetti dei classici nell’applicazione delle forme dell’arte. Ma alcune
considerazioni del Londonio spiacquero al Di Breme, il quale, come
abbiamo visto, nelle Osservazioni al Giaurro del Byron (pp. 106 e 108)
aveva oppugnato focosamente alcune idee dei Cenni critici sulla Poesia
romantica. Il Londonio non stette cheto e rispose con un’Appendice ai
Cenni critici sulla Poesia romantica. Allora il Di Breme ritorse le critiche,
pubblicando le Postille sull’Appendice ai Cenni critici sulla Poesia
romantica, che qui si ristampano; e ad esse il Londonio replicò con una
Poscritta, nella quale dichiarò esser suo intendimento di non protrarre più
oltre la polemica.
Intanto il Londonio aveva pure atteso a pubblici uffici con molta lode. Fu
membro del Consiglio dei Savi (amministrazione municipale); nel 1816
condusse a buon fine una missione diplomatica per dirimere alcune
controversie tra il ducato di Lucca e la principessa Elisa Bonaparte; nel
medesimo anno e nel 1817 ebbe l’incarico di vegliare alla salute pubblica
durante l’epidemia del tifo petecchiale e tanto bene provvide, che fu
nominato membro per più anni della Commissione centrale di beneficenza.
Ebbe la stima di molti valenti nello stesso campo dei romantici, per es. del
Borsieri e del Berchet, al quale egli, come direttore dei ginnasi, affidò la
traduzione di libri scolastici. Gli furono amici Vincenzo Monti, Giuseppe
Bossi, Felice Bellotti; scrisse di lui lo Stendhal. Morì nel 1845. Vedi F.
AMBROSOLI, Della vita e degli scritti di C. G. Londonio, discorso, 4
dicembre 1845, in Giorn. e Bibliot. dell’Istituto Lombardo, vol. XII, pp. 337
e sgg.; A. MAURI, Notizie su la vita e gli scritti di C. G. Londonio, Milano,
V. Guglielmini, 1845, ripubblicate in Scritti biografici, Firenze, 1894, I, 161
e sgg.; MAZZONI, L’Ottocento, cit., p. 1325, n., e passim.
CENNI CRITICI SULLA POESIA ROMANTICA
PREFAZIONE.
LORENZO.
The moon shines bright… In such a night as this,
When the sweet wind did gently kiss the trees
And they did make no noise; in such a night,
Troilus methinks mounted the Trojan walls
And sighd his soul toward the Grecian tents,
Where Cressid lay that night.
JESSICA.
In such a night
Did Thisbe fearfully o’ertrip the dew,
And saw the lion’s shadow ere himself,
And ran dismayd away.
LORENZO.
In such a night
Stood Dido with a willow in her hand
Upon the wild sea-banks, and waved her love
To come again to Carthage.
JESSICA.
In such a night,
Medea gather’d the enchanted herbs
That did renew old Aeson*.
Io credo che questi pochi esempi possano bastare a provar che quegli
stessi poeti su cui si fonda la principal gloria della scuola romantica, furono
ben lontani dal professare quell’assoluta esclusione di qualunque immagine
od espressione desunta dalla greca mitologia, che oggidì si vorrebbe erigere
in positivo canone del nuovo sistema. Il dilemma è netto netto: o si concede
che si possano introdurre anche nella poesia romantica delle idee, delle
similitudini derivate dall’antica mitologia; o Milton, Shakespear, Schiller,
ecc. non militano sotto la stessa bandiera dei romantici de’ nostri giorni. Ma
anche senza ricorrere all’autorità di questi grand’uomini, è evidente che tale
esclusione è quasi impossibile, mentre molte e molte espressioni
allegoriche, o figurate, desunte dall’antica mitologia, sono talmente
sanzionate dall’uso generale, che per escluderle bisognerebbe mandar
sossopra il nostro vocabolario, e mettere in loro luogo delle lunghe e
snervate parafrasi che non arriverebbero mai a esprimere l’idea coll’egual
forza e precisione.
Se io volessi limitarmi ad appoggiare la mia opinione all’autorità de’ più
celebri poeti romantici, anche in ciò che riguarda la proscrizione di
qualunque argomento desunto dalla storia antica o dalla mitologia, mi
sarebbe egualmente facile di confutare, con un mezzo così comodo e così
pronto, i seguaci della nuova scuola, e tosto mi ricorrerebbero alla mente
Giulio Cesare, Antonio e Cleopatra, Troilo e Cressida di Shakespeare; le
Armi della bellezza ossia il Coriolano di Calderon, l’Ifigenia di Göthe, la
Semele di Schiller, ecc. Ma gioverà meglio combattere le nuove dottrine
colle ragioni che cogli esempi e colle autorità.
Romantico è quel soggetto che si aggira intorno alla storia, alla religione,
ai costumi dei popoli moderni, e certamente non può negarsi che tutto ciò
che si riferisce alle nostre opinioni, agli usi nostri, ad avvenimenti che
hanno avuto o possono avere una diretta influenza sulla nostra patria, deve
interessarci assai più di cose che si riferiscono a’ tempi da noi rimoti, e ad
una religione che è scomparsa dal mondo insieme coi popoli che la
professavano. Ma dal possedere un minor grado d’interesse al non
possederne nessuno v’è una grandissima differenza. Io sono anzi d’avviso
che la preferenza giustamente dovuta alla storia moderna a fronte
dell’anrica debba limitarsi alla storia patria. Storiche, dice il signor
Schlegel, possono chiamarsi, rigorosamente parlando, soltanto quelle
tragedie che si aggirano intorno a’ fatti patri. Difatti se l’interesse vuole
dedursi unicamente dalla relazione in cui trovasi il lettore o lo spettatore col
soggetto della tragedia o dell’epopea, esso non può verificarsi se non per
quegli avvenimenti che concernono direttamente la nostra patria, salvo quei
pochi che hanno un’influenza generale sulla sorte di tutte le nazioni, come
le crociate, la scoperta dell’America e simili. Ammesso questo principio,
che sembrami incontrastabile, è evidente che, fuori di questa duplice ma
troppo ristretta classe, a cui può giustamente accordarsi la preferenza,
diviene del tutto indifferente da qual fonte il poeta derivi il soggetto della
sua composizione, cioè se dalla storia particolare degli altri popoli, o
piuttosto dalla storia greca e romana. Anzi, ove ben si consideri la cosa, si
troverà che, malgrado i secoli e le rivoluzioni che ci separano da un’epoca
tanto rimota e da nazioni che più non esistono, la loro storia presenta un tal
carattere di grandezza, e il loro innalzamento e la loro decadenza ebbero
una influenza così decisiva sulla sorte del mondo, che non possono a meno
di eccitare anche di presente il più vivo interesse. Un celebre poeta
romantico ha riprodotto in una sua tragedia il parricidio di Virginio,
trasformando il decemviro Appio in un piccolo principe di Guastalla, e
Virginia in una timida donzella de’ nostri tempi*. Supposto che il fatto fosse
vero, quell a tragedia avrebbe forse un interesse particolare pei Guastallesi,
rna non in Germania dove appena è nato il nome di quella piccola e oscura
città. Si dirà forse che non è illuogo dell’azione, ma l’azione stessa che deve
interessare e servir d’esempio; sì, ma l’interesse non è egli forse tanto più
vivo, e tanto più utile l’esempio, quanto più grandi ed illustri so no e gli
attori e il luogo dell’azione? L’educazione che abbiamo ricevuto, e non
parlo già soltanto di noi Italiani, rna sibbene di tutti i popoli dell’Europa
civilizzata, ci ha reso familiare la storia dei Greci e dei Romani quanto la
nostra e forse più. È nella prosperità, nella decadenza, nelle sciagure di
queste due famose nazioni dell’antichità, nelle gesta dei grandi uomini
ch’esse hanno prodotto, che noi possiamo attingere utilissime lezioni di
pubblica e privata condotta. E che? si attacca tanta importanza alle
inanimate rovine che ci rimangono delle loro città; dall’ultimo Settentrione
vengono a torme gli stranieri a visitare con sentimento di ammirazione e di
riverenza i miserabili avanzi del Foro e del Campidoglio, e si potrà nello
stesso tempo sostenere che i soggetti desunti dalla storia di que’ popoli
debbano abbandonarsi come non atti a commoverci, ad istruirci, e che più
di Coriolano, di Cesare, di Camillo, di Temistocle, d’Epaminonda, di
Pericle, debbano interessarci le sventure o i delitti di Riccardo III, d’Enrico
VI, di Egmont, di Wallenstein?
Ma la vera caratteristica del genere romantico sta essa unicamente
nell’ideale de’ tempi moderni, o eziandio nell’applicazione di nuove forme
e di nuove regole alla poesia? Rigorosamente parlando, io crederei soltanto
in quella; ma l’opinion comune inclina ad estenderla anche a queste, e
quindi, per esempio, si ascrivono al genere classico l’Atalia, l’Alzira, il
Tancredi, la Congiura dei Pazzi, la Rosmunda, ecc.1, e invece si
comprendono indistintamente nella categoria romantica anche quelle fra le
tragedie di Shakespear, di Calderon, ecc., il di cui soggetto è tratto dalla
storia greca e romana. Adottando per ora questa classificazione, e
prendendo quindi ad esaminare la differenza dei due diversi generi sotto
questo punto di vista, sono necessariamente condotto a dover parlare della
famosa legge delle tre unità, la di cui osservanza o la trascuranza forma la
caratteristica più apparente dei due opposti sistemi*.
Quando si cerca quali sieno le regole fondamentali della tragedia
romantica, si resta maravigliati nel vedere quanto vaghi ed incerti siano i
confini che in essa si prescrivono all’arbitrio del poeta. Le quattro parti del
mondo e l’infinito spazio del tempo sono del pari a sua disposizione, purché
dall’esposizione di quella storia o di quel romanzo dialogato, ch’egli mette
sulla scena, ne derivi un qualche effetto drammatico. La sola delle tre unità
a cui i romantici consentono di assoggettarsi è quella dell’azione; ma il
senso in cui la prendono è tanto lato, che anche in questa parte si arrogano
la stessa licenza come nel resto. Non v’è avvenimento od impresa, per
quanto sia esteso lo spazio di tempo e di luogo da lei abbracciato, che,
considerata nel suo complesso, non abbia la sua unità ma l’unità della
tragedia è ben diversa da quella d’una storia o d’un poema epico. L’epopea,
la storia, il romanzo si limitano a narrarci gli avvenimenti, mentre invece la
tragedia ce li pone sott’occhio, e in virtù dell’illusione ci trasporta sul luogo
dell’azione. Ora dunque, perché questa rappresentazione sia verisimile,
perché lo spettatore possa credersi presente agli avvenimenti che succedono
sulla scena, bisogna che l’azione non esca da quei limiti di tempo e di luogo
in cui è necessariamente ristretta la di lei rappresentazione; bisogna che,
una volta che la mia immaginazione mi ha trasportato sul luogo dell’azione,
la misura del tempo e della distanza rientrino nelle ordinarie leggi della
natura. Si dirà che la legge delle tre unità impedisce al poeta di dare un
esteso sviluppo all’azione e di mettere sulla scena degli avvenimenti che
non possono assoggettarsi a tali restrizioni. Ma perché pretendere di
racchiudere in una tragedia ciò che può formare argomento d’un poema
epico? La difficoltà dell’arte e l’abilità del poeta consistono appunto nel
saper cogliere il vero punto dell’azione in modo, che, senza estendere i
confini della tragedia oltre il verisimile, lo sviluppo finale della catastrofe
metta in evidenza le cause che l’hanno preparata. Alfieri, in uno spazio di
tempo che non oltrepassa ventiquattro ore, e senza ch’io mi scosti dalla
tenda di Saulle, mi fa conoscere l’origine, il mezzo e il fine della luttuosa
catastrofe di quell’infelice regnante, la proscrizione e il ritorno di David, le
affettuose cure di Gionata e di Micol, i raggiri dell’invidioso Abnero,
l’eccidio dei Leviti, la rotta degli Israeliti, e finalmente la disperata morte di
Saulle, che, percosso dall’ira di Dio, non sa sopravvivere alla vergogna
d’una disfatta ed alla perdita de’ figli. Ciò che Alfieri seppe racchiudere in
un quadro così ristretto, un poeta romantico l’avrebbe stemperato in una
storia dialogata, nella quale, seguendo passo passo la serie cronologica
degli avvenimenti, e facendoci passeggiare dall’una all’altra estremità della
terra di Canaan, avrebbe di tanto illanguidito l’effetto dell’azione, quanto
più ne avesse estesi i confini*.
I romantici che si curano sì poco della verisimiglianza nel fissare i limiti
di tempo e di luogo in cui deve racchiudersi l’azione, pretendono di meglio
avvicinarsi nel resto alla verità dell’imitazione, trasportando sul teatro con
una fedeltà scrupolosa le più piccole, come le più sconvenienti circostanze,
dipingendo le passioni e i vizi con una verità che offende talvolta i costumi,
e mettendo bene spesso un buffone accanto a un eroe, ed un becchino in
compagnia d’un re. Da questo mostruoso accoppiamento deve
necessariamente risultare una dissonanza corrispondente nello stile, nei
sentimenti, nel carattere stesso della composizione; e così quella
mescolanza di patetico e di comico, di sublime e di triviale, di poetico e di
prosaico, che a vicenda si succedono nella tragedia romantica. Tutto questo
viene facilmente giustificato col dire che tale appunto si presenta la natura:
ma la natura vuol essere scelta e saviamente imitata, non copiata
servilmente. L’azione che si rappresenta dovendo essere una ed uno
l’interesse che si vuole eccitare, conviene escludere tutto ciò che non tende
a questo unico fine: la moltiplicità dei personaggi ritarda l’andamento
dell’azione, nuoce alla sua semplicità, e fa sì che l’interesse che dovrebbe
concentrarsi tutto nella catastrofe principale, si volga spesso sopra degli
avvenimenti secondari che hanno poco o nessun rapporto con esso. Io non
so cosa ne diranno i romantici; ma pure io non saprei con che meglio
paragonare la tragedia romantica, quanto coi nostri balli
eroicopantomimici: in questi come in quella si riempie la scena di
personaggi estranei al nodo dell’azione, si prodigano gli spettacoli d’ogni
sorta, i combattimenti, i banchetti, le pompe militari e religiose; e quasi che
la natura fosse obbediente all’arbitrio del compositore come i macchinismi
del teatro, non si crede pretender troppo dalla compiacente illusione degli
spettatori, se in men d’un’ora si fa loro passar sotto gli occhi l’intera vita
d’un eroe, e mezza la storia d’un impero.
Tuttavia sarebbe un mentire alla verità e al proprio sentimento, il negare
che parecchie tragedie romantiche posseggano delle bellezze in un grado
eminente, e gareggino talvolta colle più insigni tra le classiche nell’effetto
drammatico. Non per questo però se ne può dedurre un argomento decisivo
in favore del sistema romantico. Diffatti la questione che ora si agita, non è
già se una tragedia, modellata e condotta secondo le arbitrarie norme di
questo sistema, possa avere dell’interesse e produrre effetto, ma bensì se la
legislazione del teatro romantico meriti la preferenza sulla classica.
Qualunque siasi storia o romanzo può interessare e commuovere: a maggior
diritto dunque deve riescir facile di ottenere questo scopo, quando
all’intrinseco interesse del soggetto si aggiunga la magìa teatrale e il rilievo
dell’esposizione drammatica. La licenza introdotta dai romantici rispetto
alle unità di tempo e di luogo, offende la verisimiglianza e distrugge in gran
parte l’illusione; ma né questo né gli altri inconvenienti e difetti che ho
notati nel loro sistema, pregiudicano punto alle bellezze particolari che
possono vantare parecchie di tali tragedie: la poesia dello stile, la verità dei
caratteri, il contrasto delle passioni, la naturalezza dell’intreccio e dello
sviluppo dell’azione possono riscuotere e meritare gli applausi del pubblico,
senza che perciò vengano a togliersi e diminuirsi i difetti radicali del
sistema. Non è dunque dall’esame delle parti prese isolatamente, ma dal
confronto dei due sistemi considerati nel loro complesso, che deve risultare
la preferenza da darsi all’uno o all’altro di essi. Al qual proposito potrebbe
forse tornare opportuno di confrontare il successo rispettivamente ottenuto
dai tragici delle due diverse scuole trattando lo stesso soggetto. Nella
scarsezza degli esempi che se ne presentano, e nella difficoltà di poter
raccogliere il voto della generalità in mezzo alle prevenzioni dettate dallo
spirito di parte e dall’orgoglio nazionale, mi limiterò a citare il Don Filippo
d’Alfieri e il Don Carlos di Federico Schiller, tragedie entrambe
celebratissime, ma in cui si va d’accordo generalmente nell’aggiudicare la
palma al tragico italiano. Su di che piacemi riportare il giudizio d’un
insigne critico, il sig. Sismondo Sismondi, la di cui autorità acquista in
questa parte tanto maggior peso, in quanto che la manifesta sua propensione
al sistema romantico esclude ogni sospetto di parzialità a favore d’Alfieri.
Tel est le Philippe d’Alfieri, qui peint avec une si effrayante vérité la
profonde simulation du monarque espagnol, qui jette un voile lugubre sur
ses conseils et sa politique, et qui le conduit jusqu’à la fin de la pièce sans
lui avoir fait révéler à personne sa secrète pensée. Si nous traitons un jour
de la même manière du théâtre allemand, nous pourrons comparer avec
cette pièce terrible le Don Carlos de Schiller. Le poète allemand a bien
mieux représenté les moeurs de la nations, le temps, les circonstances; MAIS
IL EST RESTÉ FORTAU DESSOUS D’ALFIERI DANS LE CARACTÈRE MÊME DE
PHILIPPE: il l’a dépouillé de toute cette terreur qui tient au sombre et
impénétrable silence dont ce tyran s’enuironnait. C’est un coup de maître
d’Alfieri que d’avoir donné un confident à Philippe auquel il ne dit rien
même au moment où il l’introduit dans ses secrets. Le concert muet de
Gomez, de Léonard et du roi pour le crime excite la plus profonde terreur,
tandis que Schiller a donné à son Philippe de l’ouverture de coeur, qu’il lui
en a donné même pour le marquis de Posa, dont le caractère tout allemand
ne pouvoit jamais s’accorder avec celui du roi*.
Fin qui non ho considerato che una sola delle fonti da cui la poesia
romantica deriva il soggetto e il principio della propria ispirazione, voglio
dire la storia moderna, e questa specialmente in relazione alla tragedia. Mi
resta ora a parlare di un’altra sorgente a cui sogliono frequentemente
attingere i poeti della scuola romantica, e questa è la religione. È la
religione presa nell’augusta sua verità che ha fornito a Klop-stock il
soggetto della Messiade, al Varano l’argomento delle sue Visioni2; ed è la
religione deturpata dalle chimere della superstizione popolare che ispirò la
fervida immaginazione del Calderon e del Bürger.
Quanto alla prima, non è dubbio che essa possa animare mirabilmente
l’estro del poeta. Ma una religione tutta mistica e che parla così poco ai
sensi, una religione che ci richiama continuamente alla mente l’utile
pensiero della nostra fralezza e della vanità delle cose terrene, non può in
verun caso permettere al poeta di oltrepassare i confini che gli sono imposti
da un soggetto così augusto e venerabile. Di là di tali confini la religione
non si presta a fornire né idee né argomento alla profana fantasia del poeta.
Ogni volta ch’ei li voglia varcare è costretto a ricorrere alle chimere della
superstizione. Io non negherò che un meraviglioso di questa specie non sia
un mezzo potentissimo di animare l’immaginazione, sempre che esso trovi
fede presso il popolo, mentre diversamente egli perde ogni efficacia. Fra noi
però dove, grazie a Dio, tali superstiziose chimere hanno perduto ogni
credito fin presso le ultime classi del popolo, qualunque tentativo per farle
rivivere sarebbe altamente da condannarsi. E noi certamente faremmo torto
alla natura che ci ha prodigato i suoi più bei favori, alla natura che ci ha
fatto dono d’un clima così dolce, d’un cielo così ridente, se andassimo a
prendere in prestito dalle altre nazioni un meraviglioso che ripugna
egualmente alla ragione e alla religione, e quel tono lugubre e lamentevole
onde risuona continuamente la cetra dei loro poeti. Ella è una verità
confermata da una costante esperienza, e di cui si trova la spiegazione
negl’intimi rapporti del fisico col morale dell’uomo, che il carattere delle
nazioni dipende in gran parte dal clima che abitano. Coloro che stanno
sepolti due terzi dell’anno nella neve e nel ghiaccio, coloro a cui il sole non
si mostra mai in tutto il fulgore della sua bellezza, sono naturalmente portati
a considerare sotto un aspetto melanconico tutto ciò che li circonda. Gli
abitanti della fredda Caledonia erano, venti secoli sono, dello stesso umore
cupo e melanconico come li vediamo oggidì: le parole escono a stento dalla
semichiusa loro bocca; e se non fossero i generosi vini di Porto e di
Bordeaux, il loro cuore non si aprirebbe alla gioja nemmeno in mezzo alla
festosa esultanza dei conviti. La loro mente si compiace delle idee più
lugubri, perché la morte non è un oggetto di terrore a coloro cui la vita è un
peso. Per introdurre fra noi il gusto di queste romantiche melanconie
bisognerebbe cangiare il nostro carattere, il nostro clima. L’italiano, vivace,
caldo, spiritoso, canta la natura bella e ridente come la vede intorno a sé;
nato sotto un clima che produce la vite, gli aranci, gli ulivi, egli lascia ai
tristi abitatori della fredda Caledonia e delle gelate sponde del Baltico il
cantare i nembi e le procelle, e compiacersi nelle immagini del dolore e nel
pensiero della morte.
L’eloquente autore del Corso di letteratura drammatica paragonò la
poesia romantica all’architettura gotica3, né si saprebbe per avventura
trovare un paragone più giusto e più ingegnoso, poiché entrambe
egualmente ci richiamano quel primo albore della moderna civilizzazione in
cui il genio dell’uomo, privo di norma e di direzione, cercando innalzarsi al
grandioso, al sublime, esciva dai confini del vero e del bello, tanto nelle arti
come nella letteratura. Non si può negare che l’architettura gotica non abbia
un non so che di elegante insieme e di maestoso; ma si dirà perciò che
l’abbazia di Westminster o la chiesa di S. Stefano a Vienna sieno da
preferirsi al Partenone e al Pantheon? No certamente. Dacché cominciò a
diffondersi nelle regioni settentrionali la conoscenza della greca
architettura, andarono dovunque in bando le capricciose proporzioni e i
prodigati ornamenti dell’architettura gotica, per far luogo alle sode ed
eleganti modanature doriche e corintie. Abbia pure dunque le sue particolari
bellezze anche la poesia romantica, non per questo si dovrà rinunziare ad un
sistema più perfetto, più ragionato, più essenzialmente bello, come è il
classico. E se per comune consenso si riconosce l’inarrivabile perfezione
dei capi d’opera lasciatici dai Greci in ogni specie di poesia, si cessi una
volta di andare in cerca di nuove forme, e non si abbandoni il sicuro
esempio di quei primi maestri del mondo, per le incerte e confuse norme dei
moderni legislatori di letteratura.
Che se si prende imparzialmente a indagare come in questi ultimi tempi
siensi levati in tanto grido i poeti di Germania, si troverà che ciò non dèe
attribuirsi, come alcuni pretendono, ad esclusivo merito del sistema
romantico, ma piuttosto alla robusta energia del loro stile, alla leggiadria
delle immagini, alla verità dei caratteri, e più di tutto a quel caldo
sentimento d’amor patrio e di virtù cittadina da cui erano animati. Lunghe e
ingiuriose sciagure avevano ivi fatto risorgere più energico ed animoso il
carattere nazionale, e il popolo si era tanto più fortemente affezionato alle
antiche sue leggi e alle sue opinioni, quanto più le scorgeva in opposizione
con quelle del nemico. Un sentimento generoso e patriotico animò l’estro
dei poeti; e mentre alcuni ebbero ricorso alla possente molla delle opinioni
religiose, altri rizzarono lo stendardo contro il dispotismo e contro gli abusi
del sistema feudale. Per tal guisa il popolo e i poeti cessarono di essere
stranieri vicendevolmente, e la poesia poté arricchirsi dei sentimenti e delle
passioni della moltitudine. Ma mentre è giusto di applaudire a quel nobile
entusiasmo, prima sorgente della loro ispirazione, non si può a meno di
deplorare come uomini di principi tanto generosi e dotati di tanta facoltà
poetica siensi lasciati troppo facilmente trasportare dall’ambizione di vani
applausi a lusingare i pregiudizi e le superstizioni popolari, e che nella
forma e nella tessitura de’ loro componimenti abbiano sagrificato all’incolto
gusto della moltitudine l’osservanza di quelle norme uniche ed invariabili di
cui i Greci ci lasciarono l’esempio nei loro inarrivabili modelli.
E a gran partito s’ingannano coloro che pretendono il poeta debba servire
al gusto e ai pregiudizi della moltitudine, poiché in fatto di arti e di lettere il
popolo non è giudice competente; e in quella guisa che non è atto a
distinguere le bellezze o i difetti d’un quadro o d’una statua, così
egualmente non può giudicare del merito d’una tragedia o d’un poema.
L’uomo volgare che non ha occhio né orecchio esercitato, che non ha
formato il suo gusto sullo studio della natura né sui capi d’opera dell’arte,
non è in grado di distinguere né l’armonia de’ colori, né quella dei versi, né
la bellezza delle forme, né l’espressione di affetti superiori all’ottusa sua
facoltà di sentire. Se dunque, da quanto ho detto più sopra, risulta
necessario che il poeta consulti nella scelta dell’ideale la religione, i
costumi, il carattere del popolo, dèe d’altronde, per le ragioni or ora
addotte, prender norma nel resto dai princìpi dell’arte e dal modo di pensare
della parte migliore e men numerosa della nazione. Il fare altrimenti è lo
stesso che invertere l’ordine naturale delle cose, sottomettere l’opinione dei
savi a quella degl’ignoranti, e fare che la poesia, invece d’essere un mezzo
d’istruzione, promova e diffonda i pregiudizi, l’ignoranza e la
superstizione*.
La più frequente come le più ostinate questioni nascono dalla inesatta
definizione del punto intorno a cui si contende. La voce di alcuni entusiasti
ammiratori della letteratura straniera ci introna continuamente l’orecchio
colla terribile sentenza, essere perduta per l’Italia ogni speranza di gloria
s’ella non si risolve a lanciarsi nella carriera romantica. Che se per poesia
romantica quella si dèe intendere che deriva il soggetto dalla moderna
civilizzazione, che si veste di affetti e di opinioni moderne, che mette in
iscena i costumi, i caratteri, le passioni de’ nostri tempi, noi siam ben lungi
dal volerla escludere dall’Italia, e ci facciam anzi gloria di averla professata
prima che gli stranieri venissero ad apprendercela; la Divina Commedia, la
Gerusalemme Liberata, l’Orlando Furioso e tutti i poemi modellati sullo
stesso genere, le canzoni del Petrarca, gl’inni e molte altre poesie del
magnifico Lorenzo, le odi del Filicaja, e, scendendo fino alla nostra età, i
poemetti del Parini, le cantiche del Monti, parecchie tragedie d’Alfieri, ecc.
attestano in modo solenne che il genere romantico non è nuovo in Italia, e
che anzi non avvi forse paese in cui egli abbia avuto più insigni e fortunati
cultori. Ma se, per conformarsi alle dottrine della nuova scuola romantica, è
d’uopo rinunziare alla facoltà di attingere alla fonte inesauribile della storia
e della mitologia antica, ed abjurare quelle regole e quelle forme di cui gli
antichi ci hanno lasciato l’esempio nei loro inarrivabili capi d’opera; se è
d’uopo vestire la poesia d’immagini e di idee melanconiche e far uso d’un
meraviglioso basato sovra la più screditata superstizione; se è d’uopo
finalmente rinunziare allo studio di quei classici che, attraverso tanti secoli
e tanti rivolgimenti, ci hanno tramandato colle lettere la cognizione dei
princìpi generosi dell’antica civilizzazione, meglio sta all’Italia di
abbandonare tutta intera alle altre nazioni la palma del sistema romantico,
piuttosto che strascinarsi servilmente sulle loro traccie in onta al proprio
carattere, al proprio gusto, e all’esempio in fine di quei grand’uomini che
colle loro opere hanno fissata per sempre la superiorità della poesia italiana
su quella delle altre nazioni*.
Dopo avere esaminata la dottrina della nuova scuola romantica sotto
l’aspetto letterario, mi resta a dire qualche cosa della influenza morale e
dello scopo ch’ella può avere. Trattasi niente meno che di correggere il
mondo e di far rivivere, se fosse possibile, la beata ignoranza e la feroce
anarchia dei tempi della cavalleria. Davvero l’impresa è grande, e degna di
lode, se non altro, la buona intenzione degli odierni riformatori delle lettere
e dei costumi. Ma, sia detto con loro buona pace, Dio ci preservi dal veder
realizzate le loro speranze. Che i nostri costumi abbisognino di emenda, lo
accordo; ma che dobbiamo farci specchio di quei tempi, questo è quello che
non posso concedere. Non v’è volta ch’io miri sulla vetta dei monti i solitari
avanzi di qualche diroccato castello, ch’io non mi senta stringere il cuore e
correre per l’ossa un brivido d’orrore. Quei merli, quelle torri mi
richiamano alla mente quei tempi di barbarie, d’ignoranza, di depravazione
che ora da taluni, nell’esaltazione della poetica loro immaginazione, ci si
dipingono come l’età dell’oro. Bello è il leggere nelle antiche cronache e
nei poemi dei nostri epici le magnanime imprese dei cavalieri erranti; ma
quale barbarie, quale anarchia non suppone necessariamente quello stato di
società in cui la virtù e l’innocenza, mal difese dalle leggi, erano costrette a
porsi sotto la protezione d’un privato! Rimontiamo a quell’epoca sfortunata,
e vedremo l’Europa coperta di lande, di boschi, di paludi; le provincie, le
città, le famiglie stesse divise da odi eterni lacerarsi, distruggersi a vicenda;
nessun commercio, nessuna comunicazione da nazione a nazione; le scienze
e le arti neglette, la giustizia conculcata dalla violenza, la religione
deturpata dalla superstizione; i sovrani mancanti di forza per farsi ubbidire
dai propri vassalli e per proteggere il popolo contro la loro prepotenza; i
baroni sempre in guerra fra loro, e concordi solo nell’opporsi alla volontà
del sovrano e al bene dello stato; il popolo miserabile, avvilito e valutato
quanto le bestie da soma; vedremo l’onore, la vita, le sostanze abbandonate
alla fortuita decisione del duello e della prova del fuoco e dell’acqua
bollente; vedremo l’Europa intiera armarsi più e più volte per togliere dalle
mani degli infedeli i luoghi consacrati dalle più venerande memorie della
nostra religione; e quei campioni della croce, quei modelli di religione, di
virtù, d’onore, deturpare con mille scelleraggini il nome cristiano e perir
vittime della discordia, della slealtà, della dissolutezza. Se tali sono, come
lo sono pur troppo, quei tempi eroici che dalla moderna civilizzazione si
propongono alla nostra ammirazione, ben possiamo felicitarci di vivere in
questo secolo prosaico e in mezzo all’attuale depravazione. Ci rassicuri
però il pensiero che a tanto non potrà mai giungere l’influenza delle nuove
dottrine letterarie da farci retrogradare verso lo stato di barbarie e
d’ignoranza dei bei tempi della cavalleria. Romantici vogliamo esserlo
anche noi italiani, noi figli primogeniti della moderna civilizzazione, noi da
cui ebbe forma e splendore l’ancor rozza poesia de’ trovatori; romantici sì,
ma avversi ai pregiudizi, alla malinconia, alla superstizione; romantici nelle
idee, nelle opinioni, negli affetti, ma fedeli all’esempio e ai precetti dei
classici nell’applicazione delle forme e nelle regole dell’arte.
*
MILTON’S, Paradise lost, Book IX.
Per intelligenza di coloro che non conoscono la lingua inglese, e che non hanno alle mani alcuna
delle traduzioni di questo sommo poeta, mi sono ingegnato di recare questi bei versi in prosa italiana,
e lo stesso ho fatto per gli altri passi di autori inglesi e tedeschi sparsi in questo opuscolo: «Così
dicendo, essa ritira dolcemente la sua mano dalla mano del marito, e simile a una leggiera abitatrice
dei boschi, Oreade o Driade, o ad una delle seguaci di Diana, s’incammina verso i boschetti. All’aria,
al portamento da dea essa avrebbe eclissato la stessa Diana. Arco non aveva con essa, né faretra, ma
uno stromento campestre fabbricato dall’arte ancor rozza e ignara del foco, o che gli angeli stessi le
avevan recato. In tale arnese l’avresti presa per Pale o Pomona, Pomona quando fuggiva innanzi a
Vertunno, o Cerere nella sua giovinezza, prima che amata da Giove divenisse madre di Proserpina».
*
LORENZO. - Chiara splende la luna… In una notte come questa, mentre l’auretta leggera lambisce
dolcemente gli alberi, e non osa susurrar tra le fronde; in una notte come questa, io credo, saliva
Troilo sulle mura di Troia, e l’innamorata anima sospirava verso le tende de’ Greci dove Cressida
giaceva imprigionata.
JESSICA. - In una notte come questa, Tisbe premeva col timoroso piede la rugiadosa erbetta,
quando, vista l’ombra del lione, innanzi a lui fuggì atterrita.
LORENZO. - In una notte come questa, stava l’infelice Didone seduta sulla selvaggia riva del mare,
e con un ramo di salcio avvicinando a sé le onde, sembrava richiamare a Cartagine lo spergiuro
amante.
JESSICA. - In una notte come questa, coglieva Medea le erbe incantate per ringiovanire il vecchio
Esone.
**
Improvvisamente sopravvenne una donzella simile alla dea della guerra — essa attinge acqua
nel secchio delle Danaidi. — Oh Megera sitibonda di vendetta! — Vedasi Die Jungfrau von Orleans,
eine romantische Tragödie von Fried. von Schiller.
***
Gli antichi enti favolosi non son più, la leggiadra loro famiglia è scomparsa; ma il cuore ha
d’uopo d’un linguaggio, e l’antico istinto riconduce gli antichi nomi.
Wallenstein, Ein dramatischer Gedicht von Fried. Schiller. Erst. Theil III Anfzug. IV Auftritt.
*
Emilia Gallotti. Ein Trauerspiel von Gotthold Ephraim Lessing.
*
Il signor Schlegel fa consistere la caratteristica essenziale della tragedia greca nella lotta della
libertà dell’uomo colla forza irresistibile del destino: ma questa caratteristica non può applicarsi alla
tragedia moderna del genere classico, nel confrontarla colla tragedia romantica; confronto che si ha
esclusivamente in vista in questi brevi Cenni.
*
«Der drammatische Dichter ist kein Geschichts Schreiber… die storische Wahrheit ist nicht sein
Zweck, sondern nur das Mittel zu seinem Zwecke; er will uns tauschen und durch die Tauschung
rühren». — LESSING, Hamb. Dramaturgie.
«Il poeta drammatico non è uno storico… la verità storico non è il suo scopo, ma soltanto il mezzo
per arrivarvi: egli vuole illuderci, e coll’illusione farsi strada al nostro cuore»
*
De la littérature du midi de l’Europe, par M. Sismonde Sismondi, Tom. II.
*
«Der gute Schriftsteller, er sei von welcher Gattung er wolle, wenn er nicht bloss schreibt seinen
Witz, seine Gelehrsamkeit zu zeigen, hat immer die Erleuchtesten und Besten seiner Zeit und seines
Landes in Augen, und nur was diese gefallen, was diese ruhren kann, würdiget er zu schreiben. Selbst
der drammatische, wen er sich zu dem Pöbel herablässt, lässt sich nur darum zu ihm herab um ihn zu
erleuchten und zu bessern; nicht aber ihn in seinen Vorurtheilen, ihn in seiner unedeln Denkungsart
zu bestärken». LESSING, Hamb. Dramaturgie.
«Un buono scrittore, di qualunque genere egli siasi, quando non scriva unicamente per far pompa
del suo spirito e del suo sapere, ha sempre in vista la miglior parte e la più illuminata del suo secolo e
del suo paese, e non scrive se non ciò che può piacere a questa e interessarla. Il poeta drammatico
anch’egli, quando si abbassa fino al popolo, lo fa solo affine d’illuminarlo e di renderlo migliore, non
mai per confermarlo ne’ suoi pregiudizi e nel basso suo modo di pensare».
*
L’autore delle Avventure letterarie d’un giorno ha mostrato cortesemente dolersi (p. 90) di non
poter convenire nella mia opinione, perché nella Risposta ai due discorsi della baronessa de Staël,
impressi nella Biblioteca Italiana, dissi che «l’imitazione è la tomba del genio». Siccome è da
credere che, per quanto dicessi su questo proposito, egli non s’indurrebbe a cangiar d’avviso, così
avrò ricorso all’oracolo infallibile di Madama, lusingandomi che ciò basterà a mia difesa e a sua
persuasione: «Le génie est essentiellement créateur, il porte le caractere de l’individu qui le possède.
La nature qui n’a pas voulu que deux feuilles se ressemblassent, a mis encore plus de diversité dans
les âmes, et l’IMITATION EST UNE ESPÈCE DE MORT, puisque elle dépouille chacun de son existence
naturelle». Corinne ou l’Italie, tom. I.
1. Athalie: tragedia di Racine, rappresentata nel 1691; trae l’argomento dalla Bibbia, precisamente
dal Libro dei Re.
Alzire ou les Américains: tragedia di Voltaire, rappresentata nel 1736; è ambientata a Lima al
tempo della prima dominazione spagnola.
Tancrède: tragedia di Voltaire, rappresentata nel 1760; è ambientata a Siracusa nell’undicesimo
secolo.
La congiura de’ Pazzi: tragedia di Alfieri, ideata nel 1777 e pubblicata nel 1789. Si ispira
all’avvenimento storico della Firenze medicea narrato dal Poliziano.
Rosmunda: tragedia di Alfieri, ideata nel 1779 e pubblicata nel 1783. Trae spunto dal famoso
racconto di Paolo Diacono — Rosmunda moglie di Alboino, re dei Longobardi, uccide il marito per
vendicarsi di essere stata costretta a bere nel teschio del padre —. Prima e dopo l’Alfieri altri poeti
europei si ispirarono a questo tema.
2. La Messiade (Messias) è il poema in venti canti in esametri di Friedrich Gottlieb Klopstock, che
ha per argomento la redenzione dell’uomo dal peccato mercé l’incarnazione di Cristo: si apre con gli
avvenimenti della sera successiva all’ingresso di Gesù a Gerusalemme. I primi tre canti apparvero nel
1748 nei «Bremer Beiträge» fu portato a termine nel 1777; nel 1781 apparve l’edizione definitiva.
Le Visioni sacre e morali di Alfonso Varano furono composte fra il 1749 e il 1766. Costituiscono il
II vol. delle Opere poetiche (Parma, Stamperia Reale, 1789). Sono 12 cantiche in terzine, che
rievocano la morte di personaggi illustri — Enrichetta di Borbone, Felicita d’Este, Monsignor
Bonaventura Barberini ecc. — o grandi calamità, quali la peste messinese e il terremoto di Lisbona,
che mostrano i segni della potenza e dell’ira di Dio.
3. «Hemsterhuys fece sulle arti del disegno un’osservazione molto ingegnosa, quando disse che gli
scultori moderni erano troppo pittori, laddove, secondo tutte le apparenze, i pittori antichi erano stati
troppo scultori. Ciò spetta al vero nodo della quistione; poiché, siccome spero di far meglio
comprendere nel progresso, si vedeva appresso degli Antichi il Genio della Scultura presedere a tutte
le arti, doveché quello che inspira i Moderni, è il Genio pittoresco.
Noi cercheremo di rendere questa opposizione più sensibile per mezzo d’un esempio tratto da
un’arte differente. Un genere particolare d’architettura, quello eh’è chiamato (non importa se a buon
diritto) il genere gotico, dominò nel medio evo, e fu portato negli ultimi secoli di quell’epoca al suo
più alto grado di perfezione. Allorché si andò suscitando lo zelo per lo studio dell’Antichità classica,
fu visto divulgarsi il gusto dell’architettura greca; da per tutto si cercò d’imitarla, spesso ancora male
a proposito, e senza aver riguardo alla differenza del clima, delle costumanze e della destinazione
degli edifici: i partigiani di questo genere chiamato a nuova vita rigettavano con disprezzo
l’architettura gotica; la trovavano tetra, barbara, contraria a tutte le regole del gusto. Questa maniera
di vedere potevasi perdonare agl’Italiani; la preferenza per l’architettura antica è ereditaria presso un
popolo il qual vive sotto il medesimo cielo che i Greci ed i Romani, e il quale si gloria di possedere le
ruine de’ loro monumenti; ma gli abitatori delle regioni settentrionali non permetteranno che si tenti
d’indebolire con vane parole la profonda e solenne impressione che sentono entrando sotto le alte
volte d’un tempio gotico, piuttosto si studieranno di spiegare una tale impressione, e di giustificarla.
Di fatto il più piccolo esame dimostra che il merito dell’architettura gotica non consiste solamente
nella meccanica abilità che esige l’esecuzione delle sue parti, ma ch’ella fa testimonio
d’un’immaginazione maravigliosamente robusta e sensitiva ne’ popoli che ne concepirono l’idea; più
la consideri, più ti capaciti del senso religioso e profondo ch’essa racchiude, e più ti vai convincendo
ch’essa forma, in se stessa, un sistema così regolare e così compiuto, come quello dell’architettura
greca.
Veniamo all’applicazione. Il Partenone non è più differente dall’Abbadia di Westminster, o dalla
chiesa di S. Stefano a Vienna, che non sia l’orditura d’una tragedia di Sofocle da quella d’una
composizione di Shakespear» (A. G. SCHLEGEL, Corso di letteratura drammatica, trad. da G.
Gherardini, Napoli, 1859, p. 13).
APPENDICE
AI «CENNI CRITICI SULLA POESIA ROMANTICA»
AVVERTENZA
Poiché piace alla moda, che stende il suo impero sovra ogni cosa, di
dividere tutta la massa dei letterati in due parti, distinte col nome di classica
e di romantica, senza farsi carico delle gradazioni infinite dall’una all’altra
delle due estreme opinioni, rendesi necessario che io indichi quali siano
quei romantici di cui è sì frequente menzione tanto in questo come nel
precedente opuscolo. Coloro che condannano la servile imitazione degli
antichi, ed hanno a nausea l’incessante monotona applicazione delle
allegorie mitologiche ad ogni soggetto e ad ogni pensiero; coloro che
preferiscono gli argomenti analoghi alla nostra civilizzazione, senza però
proscrivere quelli che ci vengono offerti dalla storia e dalla religione degli
antichi; coloro finalmente che desiderano una interpretazione meno rigorosa
delle regole drammatiche, amino o non amino dirsi romantici, io non li
considero miei avversari, ed anzi mi unisco di buon grado a loro per
invocare una più liberale legislazione poetica contro l’arrogante pedanteria.
Io condanno unicamente le opinioni passionate di coloro che giudicano un
inutile balocco la mitologia, trattano da pedanti e da balordi Orazio,
Aristotele, Quintiliano, e credono tanto efficace la naturale ispirazione, da
poter supplire alla mancanza assoluta di norme e di precetti.
APPENDICE
AI «CENNI CRITICI SULLA POESIA ROMANTICA»
Ora che direbbe il Dante, quel Dante del cui nome pur vorrebbero i
novelli riformatori del buon gusto illustrare i propri vessilli, che direbbe
egli sentendosi associato a gente che, nell’irritazione del modesto suo amor
proprio, tratta da pedanti Orazio, Aristotele, Quintiliano, e non riconosce
altra norma che la propria fantasia?
— E che, vanno esclamando i romantici, dovrà dunque il mondo stare
eternamente sotto la sferza degli scrittori di poetiche? E chi sono costoro
che vogliono far da maestri a tutto il genere umano? Non sarà mai permesso
di appellarsi dalle badiali sentenze dello stizzoso e beffardo commensale di
Mecenate, di quel cortigiano ed epicureo Orazio, il di cui buon gusto non
poteva guari estendersi oltre l’eleganza e l’elaboratezza dello stile?5 No,
signori miei, no. Questi precetti e queste poetiche, contro cui vi andate
scagliando, non sono un ricettario di aforismi dettati dal capriccio e da una
magistrale pedanteria. Datevi la fatica di confrontarle coi capi d’opera
dell’antichità, e vedrete che esse altro non sono se non la teoria dei princìpi
messi in pratica in quelle da voi chiamate spontanee produzioni del genio;
princìpi appoggiati alle leggi invariabili del buon senso e della
verisimiglianza; princìpi consacrati dal suffragio concorde di tutte le più
colte nazioni, dai bei tempi della Grecia fino ai nostri dì.
Le modificazioni che ha subìto l’umana civilizzazione e l’influenza loro
sul carattere della moderna letteratura non sono tali da cangiare i rapporti
delle cose e le leggi del nostro intimo senno. Le «regole d’Aristotele», è il
romantico Lessing che lo dice, «sono tutte calcolate sul massimo effetto
della tragedia».* Dai tempi d’Aristotele in poi, il cuore umano non ha
cangiato natura, per quanto io sappia: ciò ch’era conforme al buon senso e
alla verisimiglianza a quei dì, lo è ancora adesso; e quei mezzi che
risultarono allora i più opportuni ad ottenere l’illusione e a spingere al più
alto grado l’emozione degli spettatori, non potranno perdere nulla della loro
efficacia, finché il cuore e l’intelletto degli uomini non cangeranno di natura
e di leggi.
— Ma la mitologia, la mitologia poi, gridano i romantici, non è più da
tollerarsi per nessun conto. Che l’antico mondo, fanciullo ancora com’era e
balordo, potesse deliziarsi di questo balocco e trovare in lui una perenne
fonte di immagini e di pensieri, ciò non dèe recar meraviglia; ma noi, noi
abbiamo ereditate di troppe riflessioni e di troppi convincimenti:
intendiamo e scerniamo troppe cose a quest’ora, perché nelle nostre facoltà
siano compatibili insieme e contemporanei questi due effetti, l’intuizione
logica e il prestigio favoloso6. Con questo raziocinio sembra che il sig.
cavaliere, non avvertendo in quel punto che all’intuizione logica ripugnano
egualmente le invenzioni della mitologia come le superstiziose fole dei
tempi moderni, abbia voluto toglier di mezzo ogni dubbio sull’efficacia
poetica della mitologia; ma sia che una più posata riflessione gli abbia
destato qualche rimorso in questa sentenza capitale da lui pronunziata nel
primo articolo, sia che, troppo sollecito di accumulare argomenti sovra
argomenti, egli non siasi poi curato di riflettere che la contradizione in cui
questi cadevano fra di loro, ne distruggeva a vicenda la forza, egli salta in
campo, nel suo secondo articolo, col seguente dilemma: O l’arte poetica
derivata dalla fonte mitologica ha ormai perduto la sua efficacia, e le
impressioni sue non serbano più influsso veruno sopra gli animi; e allora
dirò che di ciò appunto van lamentandosi quelli che hanno la poesia
mitologica per un inutile balocco e che vedono distrutto questo già
splendido espediente di nobili piaceri e di sociali sentimenti; o invece ella
produce tuttavia delle forti commozioni, e atteggia tuttavia le nostre
fantasie, e riverbera sui nostri costumi; e in quel caso decida l’uomo
assennato quali siano più da promuoversi o invece da temersi, se quegli
influssi che tornano dai fasti cristiani e dagli espedienti psicologici e
naturali, ovvero quelli che emergeranno dagli esempi di Giove con
Ganimede, di Ercole colle Tespiadi, di Teseo in favore dell’amico Piritoo7.
Alla prima parte di questo fulminante dilemma credo aver già
preventivamente risposto nell’antecedente mio opuscolo, ove provai che a
questa fonte non isdegnarono di attingere anche i pretesi fondatori della
poesia romantica, Milton, Shakespear, Calderon, Schiller, ecc.*, e ciò basta
per dimostrare; che quell’espediente poetico che poté infiammare que’
nobili ingegni, e che infiamma tuttora la fervida mente del primo tra i poeti
viventi, Vincenzo Monti, di Foscolo, di pindemonte, d’Arici8, ecc., non può
tacciarsi di aver perduta la sua efficacia. Quanto poi alla seconda parte del
dilemma, sta pure scritto, ne’ miei Cenni critici9, che gli argomenti derivati
dalla storia patria o dalla religione presa nella sua augusta verità meritano la
preferenza sui mitologici; non per questo però doversi escludere gli ultimi,
tanto più che gli argomenti desunti dalla religione è mestieri usarli con
parsimonia e circospezione, né mescerli inconsideratamente a soggetti
frivoli, profani, amorosi. Affatto poi fuor di luogo va intessendo il sig.
cavaliere una pomposa enumerazione delle oscenità della greca mitologia,
giacché chi fosse vago di andare in traccia di simili turpitudini, potrebbe
trovarne dappertutto in abbondanza. Fortunatamente però si può far uso
della mitologia senza ricorrere a ciò che vi si trova di immorale e di
impudico, senza innalzarsi al sublime ideale dello stupro, dell’incesto, della
rapina, dell’empietà fra gli stessi numi10. Benché l’educazione poetica sia
stata finora fondata principalmente sulle dottrine mitologiche, non ne è però
derivato quel contagio di immoralità e di libertinaggio che si teme dal sig.
cavaliere. Si tranquillizzi egli dunque, che, senza gettare al fuoco i classici
greci e latini, e senza cancellare dalle tele e dalle pareti i dipinti di Tiziano,
di Correggio, de’ Caracci, ecc., il mondo non diverrà per ciò una nuova
Sodoma né una nuova Gomorra.
Il sistema che dai romantici si contrappone al mitologico, quello cioè di
dar senso ad ogni cosa, e di riconoscer vita sotto tutte le forme possibili, per
due motivi specialmente risulta assai meno conveniente e meno
immaginoso: primo perché la mitologia non solamente dà vita ai corpi
inanimati, ma personifica eziandio le qualità e le forze morali della natura,
ciò che quello non fa; in secondo luogo perché assai più efficace riesce
l’appropriare agli esseri inanimati le forme e le facoltà dell’uomo, di quel
che il conceder loro una vita ed un senso che contrasta colla inerte e muta
loro configurazione. Uno de’ più belli episodi della Lusiade, l’apparizione
del Capo delle tempeste a Vasco di Gama sotto la sembianza d’un immenso
gigante che, sollevandosi dal mare, tocca le nubi colla sua testa11, non
sarebbe stato combinabile col sistema romantico; ed un masso informe e
senza moto, benché dotato di vita e di senso, non avrebbe presentato al
Camoens né l’occasione d’un pensiero così poetico, né i colori d’una
immagine tanto espressiva.
Ma per venire alla conclusione, ben a torto si lagnano taluni che la
questione non sia stata svolta finora in un modo veramente luminoso. Come
mai di fatti ridurre ad una tesi semplice e chiara un sistema che non ha una
base positiva e determinata? Si facciano innanzi i signori romantici, e
comincino dal darci una definizione chiara e precisa del loro sistema, poi
passo passo ce ne additino i princìpi, le leggi, i confini: allora si potrà far
prova di ragioni, e il pubblico imparziale deciderà se le nuove dottrine siano
frutto della perfettibilità dell’umano ingegno, o piuttosto di quella irrequieta
smania di emergere dall’oscurità, che fa tentare una nuova e più comoda via
a coloro che disperano di farsi avanti sulle difficili e faticose tracce degli
antichi. Finché dunque i signori romantici non sapranno opporre alle
interrogazioni dei loro avversari se non risposte vaghe, contraddittorie,
astruse, indeterminate, incomprensibili, sarà permesso di ritenere che il
vantato loro sistema si risolve in una indefinita licenza, tanto
nell’invenzione come nella condotta, e che null’altro ha di positivo se non
che di escludere la greca mitologia per poi abbracciare qualunque più
assurda chimera desunta dalle favolose religioni del Nord e dell’Oriente.
Chi bramasse un saggio dell’evidenza delle dottrine romantiche, legga e
mediti il seguente passo, cavato dalle «Osservazioni sul Giaurro di lord
Byron»: Ora la poesia moderna, che altri chiama romantica, siegue con
predilezione questo sistema vitale (quello, intende l’autore, che attribuisce
senso ad ogni cosa e riconosce vita sotto tutte le forme possibili) da me
finor contrapposto al mitologico, e perciò io parlai tantosto di idee
poeticamente analoghe, perché questa ragion poetica si compone di tutte
sue analogie, che non son già quelle né della metafisica rigorosa, né della
storia naturale, né delle scienze matematiche. L’universo poetico è un tutto
governato da queste leggi di analogia: il capirle non è dato a chi non le
sente, il sentirle profondamente è proprio soltanto di quegli animi generosi
e delicati che diconsi e sono poeti. Intanto chi non le sente, le crede pazzia
… Aggiungerò ancora, che questo mondo di analogie concedute all’uomo
di provare, non si potendo, per grazia di Dio, registrare in tutti gli accidenti
suoi come i fisici fanno dei fenomeni materiali, e come i precettisti han
gusto che si faccia delle maniere poetiche, così egli è per sé una cosa molto
indefinita, vaga e sfuggevole; e chi piglia errore e scambia le leggi vere di
questa organizzazione ideale con altre arbitrarie, e ti presenta false
analogie, colui manca il suo effetto in té coi suoi versi*.
Ora intenda chi può «questo mondo di analogie concedute all’uomo di
provare che, per grazia di Dio, non si lascia registrare in tutti gli accidenti
suoi», ed è, anche a giudizio dell’autore, «una cosa molto indefinita, vaga e
sfuggevole». Quanto a me, confesso, senza arrossire, di essere nella classe
innumerevole di coloro che non intendono niente affatto di tutto ciò. E
siccome porto opinione che non si possa ragionevolmente disputare intorno
alle parole, se prima non si è d’accordo nel fissarne il significato; così credo
che di questa ragion poetica del signor cavaliere sarà meglio aspettare a
discorrerne estesamente fino a che piaccia al cielo di dare a lui il dono di
spiegarsi più chiaro, o a noi balordi quello di poterlo intendere.
[Nell’esemplare della Biblioteca di Brera, che contiene, rilegati in un solo volume, i tre opuscoli: i
Cenni critici e l’Appendice del Londonio e le Postille sull’Appendice del Di Breme, tutti stampati dal
Pirotta nel 1817 e 18, colla stessa carta e nello stesso formato in-8°, si trova, in fine al volume, un
foglio della stessa carta e formato colla seguente: ]
1. Allude alla traduzione in prosa del Cacciatore feroce e della Eleonora che accompagnavano la
Lettera semiseria del Berchet (Milano, Bernardoni, 1816).
2. Per es., Orazio poneva l’interrogativo e lo risolveva in un atteggiamento di equilibrata
composizione del dilemma: «Natura fieret laudabile carmen an arte / quaesitum est: ego nec studium
sine divite vena / nec rude quid prosit video ingenium; alterius sic / altera poscit opem res et coniurat
amice» (Ars poetica, vv. 408-411). Per i dibattiti suscitati da questo e da simili problemi si veda
l’agile profilo di V. Florescu, La retorica nel suo sviluppo storico (trad. it., Bologna, 1971).
3. Il Londonio distingueva una poesia primitiva, eroica, da una poesia delle età colte; egli inoltre
credeva alla originalità e all’antichità dei poemi ossianici, che la critica avrebbe poi mostrato essere
un libero rifacimento dovuto al Macpherson (1736-1796) di tradizionali canti gaelici.
4. Lo racconta lo stesso Alfieri nella Vita (Epoca IV, cap. II).
5. Sono considerazioni che si leggono nell’articolo del Di Breme sul Giaurro.
6. DI BREME, Il Giaurro.
7. DI BREME, Il Giaurro.
8. Cesare Arici (Brescia 1782-1836) fu poeta in fondo eclettico. Nella controversia fra i classici e i
romantici si schierò con i primi. I suoi poemi didascalici, La coltivazione degli ulivi, La Pastorizia, si
ispirano a Virgilio. Nel 1815 apparvero gli Inni di Bacchilide, presentati come tradotti dal greco. In
altre composizioni indulse a una sensibilità romantica. Le sue Opere complete apparvero a Padova
nel 1856-58 in 4 volumi.
9. Vedi p. 501.
10. DI BREME, Il Giaurro, articolo secondo.
11. Nel canto V del poema.
POSTILLE DI LODOVICO DI BREME
SULL’APPENDICE
AI «CENNI CRITICI SULLA POESIA ROMANTICA»
DEL SIGNOR G. C. LONDONIO.
Vous avez fait croire aux gens sensés qu’on pouvait ne pas
bien juger du livre, quand on jugeait si mal de l’auteur.
J.-J. ROUSSEAU, Lett. à M. de Beaumont
AVVERTENZA
Gran detto! E noi non potremo seguitare su quel tenore, noi venuti al
mondo dopo Tullio ed Orazio e Bacone e Locke e Rousseau? venuti dopo
Dante, che si professava cittadino dell’Universo; dopo Shakespeare, Alfieri,
Schiller? E nol potremo, perché v’ha puranco chi vuol dire e tornare a
ripetere, e stampa e mantiene cose che avrebbero saputo di muffa allo stesso
Cicerone?
Egli è dunque intanto ben falso ch’io imputassi balordaggine ad Orazio,
ad Aristotele e a Quintiliano. La seconda asserzione del sig. Londonio, non
meno calunniosa della prima, la serbo per la postilla X.
1. Ecclesiasticus, I, 8.
2. Aggiungi: in Spiritu sancto.
3. Ivi, 9 e 10.
4. Liber Sapientiae, VII, 25 e 26.
5. Ivi, XI, 23.a
6. Ad Pisones (Ars poëtica), vv. 270-272.
POSTILLA II.
POSTILLA III.
1. BOILEAU, Satira I.
POSTILLA IV.
Grazie dunque siano rese al sig. cavaliere che rivendicando i diritti della
morale oltraggiata da così infami sozzure, si prende tanto pensiero della
nostra spirituale salvezza! (Append., fol. 9).
Il signor Londonio è anche ameno, ed ha in copia sali da ricreare la sua
brigata; ma il fatto sta ch’io contrapponeva influsso poetico ad altro influsso
poetico, e scandalo a scandalo, provocato a farlo da certi ingenui timori del
sig. Londonio per la periclitante liberalità. La salvezza spirituale di
chicchessia non fu mai cosa ch’io amassi di intarsiare nelle nostre dispute
letteratesche, le quali per verità poco stanno a degenerare in pettegolezzi
nauseosi. E neppure sulla salvezza temporale e mondana non ho consigli da
dare a’ miei avversari; ché molti invece ne riceverei da essi s’io fossi uomo
correggibile su questo punto; e seguendone l’esempio col blandire i
pregiudizi e le abitudini della generazione, e accarezzando le venerande
barbe de’ dottori, e pugnando sotto le insegne di un’astratta liberalità e
d’una reale tirannide scolastica, non solo sarebbe posta in sicuro la mia
salvezza, ma avrei parte anch’io in quel giornaliero contraccambio di
sperticati elogi e di ripercosse adulazioni che tanto giovano all’incremento
dei buoni studi, all’affinamento degl’ingegni, al trionfo della verità, alla
buona morale.
POSTILLA V.
POSTILLA VI.
1. Allude alle traduzioni delle ballate romantiche il Cacciatore feroce ed Eleonora, date dal
Berchet nella Lettera semiseria di Grisostomo a suo figlio, Milano, Bernardoni, 1816.
POSTILLA VII.
POSTILLA VIII.
E d’onde mai arguisce che dai suoi avversari si confonda il patetico col
malinconico? (Append., fol. 13).
Prevedo che dovrò ripetere le centinaia di volte che gli avversari della
romantica non sono tutti incarnati nel sig. Londonio (ch’egli chiuderebbe in
sé un più brutto demonio che quello ond’era già ossessa la donna del
Vangelo, il quale si chiamava Legione), ed è una specie di briga da
Donchisciotte quel suo voler sempre rispondere per tutti, e farsi avanti, e
riconoscere sé solo in tutti quelli che ho designati nel mio scritto da Mosè
fino a lui. Davvero mi spunta un primo dubbio, ch’egli patisca d’irritazione
nel suo modesto amor proprio.
POSTILLA IX.
1. Vedi la n. 1 a p. 109. Ricorda il volumetto Degli Accademici della Crusca | Difesa dell’Orlando
Furioso dell’Ariosto | contra ’l Dialogo dell’Epica poesia di Cammillo Pellegrino | Stacciata prima |
In Firenze, Per Domenico Manzani, Stampator della Crusca, 1584, | contenente la Risposta dello
Infarinato Accademico della Crusca all’Apologia di Torquato Tasso; e vedi Lo ’nfarinato | secondo |
ovvero dello ’nfarinato accademico della Crusca, | Risposta al libro intitolato | Replica di Camillo
Pellegrino ec. | Nella qual risposta sono | incorporate tutte le scritture, passate tra detto | Pellegrino,
e detti Accademici intorno | all’Ariosto, e al Tasso, in forma, | e ordine di Dialogo. | Con molte
difficili, curiose, e | gravi, e nuove questioni di Poesia, e loro discioglimenti, e con la Tavola
copiosissima | In Firenze, Per Anton Padovani, MDLXXXVIII.
2. Allude alle Considerazioni al poema del Tasso, scritte dal Galilei a Pisa circa il 1590 (1a ediz.,
Roma, Pagliarini, 1793).
POSTILLA X.
POSTILLA XI.
Quale analogia avvi mai tra il carattere della poesia romantica definito
dal sig. Schlegel, e quello del Giaurro diLord Byron, da cui come dice il
sig. di Breme, spira un voluttuoso e inebriante olezzo… Alto lì, sig.
Londonio, che voi mi fate una nuova gherminella, e mi farete uscire del
secolo, se l’esempio di chi n’è tuttora fuori non mi rinfrancasse nello
stabilirmi ognora più in esso… E tu, lettore, un po’ di rettitudine, e
pronunzia fra il sig. Londonio e me. Lord Byron, innamorato della
voluttuosa natura di quelle spiagge, osserva col cuore addolorato la misera
condizione a cui ne sono ridotti gli abitanti. «Sotto quel cielo le sorti civili e
i fasti dell’uomo mandarono una famosa luce, e quei tempi, e quegli
uomini, e quella luce non vi sono più rappresentati che da sontuose rovine e
da pochi ruderi: l’ignoranza, lo squallore; il servaggio colle mille altre
miserevoli conseguenze della tirannide ingombrano la regione. Ahi! lo
scettro della tirannide è di massiccio piombo; e pare somma clemenza, se
chi 10 distende sulle suddite fronti, v’abbia intrecciato d’intorno il
sonnifero papavero!» (Osserv. sopra il Giaurro, art. 1). Ora leggi come
suona nei versi del sig. Pellegrino Rossi la descrizione che Lord Byron fa di
quelle scene e di quelle contrade.
Hai per soprappiù da sapere, signor lettore, che non contento io di queste
pennellate, aggiunsi nel secondo articolo: «Perocché questa è quella terra di
cui lo stesso mirabile poeta cantò nella Sposa d’Abido. “Conoscete voi una
contrada ove il mirto ed il cipresso fedeli emblemi sono delle vicende a cui
ella serve di teatro? ove alternativamente susurra la tortorella il suo lagno
amoroso, e sbrama l’avvoltoio la sanguinaria sete? Conoscete una contrada
ove serbano i fiori perenne frescura, e il soffio mattutino, rallentato nel suo
corso da un nembo di olezzi, appena fa ondoleggiar negli orti le cime della
rosa? dove il cedro e l’ulivo regnano sopra i frutti, e non vien meno la voce
dell’usignuolo? Contrada in cui la faccia della terra e l’azzurro del cielo,
varii di colore, gareggiano pure tra loro di bellezza? Là il sole disvolve
dall’Oriente più maestosa ch’altrove la porpora sua, e tenere sono colà le
vergini al par delle rose onde han treccia fra i capelli. Dove tutto in somma,
tutto è celeste fuor che l’animo dell’uomo? Questa è la regione d’Oriente, la
terra del sole. Perché mai un cielo cotanto delizioso sorridagli ancora alle
turpi azioni di que’ figli suoi? i cuori di coloro e le cose che se ne
raccontano più fosche sono dell’ultimo vale dell’amore”». Ora
considerando questi passi, questi tratti e queste tinte che occupano un tanto
spazio del poemetto, aveva io, sì o no, tutte le ragioni di scrivere: «Byron ha
contemperato in questa, non meno che in varie altre sue poesie, i più
efficaci prestigi orientali. Spira dal suo carme un voluttuoso e inebriante
olezzo, che invade, per così dire, la fantasia e te la fa nuotare in quel beato
letargo nel quale immersi quei molli turbantati, aspettano pazientemente di
salire in grembo alle loro Houris». (Osserv. sul Giaurro, art. 1). E il sig.
Londonio può egli a coscienza tranquilla darti ad intendere ch’io parlo così
di tutto il Giaurro di Lord Byron? E poi che nuova maniera di dialettica è
ella mai questa? Perché il sig. Schlegel, uomo del Settentrione, acconsente
con quei filosofi, qui ont cru que le caractere distinctif de la poesie du Nord
était la mélancolie, io non potrò più rendere a Lord Byron la giustizia
dovuta intorno al modo col quale egli seppe tener conto dell’indole di quei
paesi e di quella gente meridionali? O pure Lord Byron essendo in ciò
riuscito, cesserà di essere poeta romantico agli occhi nostri, mentre noi
intendiamo che la poesia romantica non s’abbia a definire per i gradi di
latitudine né di longitudine d’un paese, ma credemmo soltanto ognora
ch’ella significhi una maniera di poesia viva sempre, perenne ed efficace, a
differenza di quella i cui soggetti, le cui norme e i cui espedienti non sono
più al dì d’oggi che un sistema di convenzione, una lingua tecnica ed una
scolastica imitazione dell’antico estro spontaneo? Niuno ci costringe
altronde a giurare nel nome del sig. Schlegel niente più che in quello di
Aristotele: né il sig. Schlegel medesimo lo pretende. Ti par egli, lettore
imparziale, che siavi luogo di obiettare le caractere distinctif de la poésie
du Nord, a me che scrissi testé in quelle medesime osservazioni: «Nulla di
più ingiusto né che muova da una più confusa e più grossa conoscenza
dell’arte moderna, quanto la taccia che le si dà in Francia ed in Italia di
poesia esclusivamente ligia alle favole e alle storie settentrionali de’ secoli
oscuri. Si tratta di ben altra e di ben più vasta ascensione poetica, di ben più
varia ed intima ricerca dei sentimenti. Niuna poesia si assomiglierebbe
invece meglio all’antica e primitiva concitazione; niuna produrrebbe effetti
più analoghi a quelli, né tramanderebbe più sicuramente, come già le
antiche epopeie, i costumi, le passioni e le vicende nostre alla più tarda
posterità. M’inoltrerò sino ad asserire che gustata di bel nuovo la poesia
antica cogli affetti moderni e coll’animo non romanzesco, ma romantico,
ella si vestirebbe d’inusitata luce, e forse per la prima volta risplenderebbe
della pienissima sua magnificenza» (Osservaz. sul Giaurro, art. II).
Né io d’altronde volli giammai contrastare col signor Londonio
sull’indole melanconica del Giaurro, e sul suo tragico scioglimento; ma
chiamerà egli melanconici e lugubri per mo’ d’esempio, il don Giovanni
Tenorio o il Prometeo di Viganò2, il quale ha violato la legge dell’unità
verticale, se non la orizzontale, quanto era possibile di oltrepassarla colla
sua vasta immaginazione? o melanconici e lugubri dirà chesiano i concetti
romantici di Caliban e di Ariele presso Shakespeare?3
1. Vedi la n. 3 a p. 204.
2. Salvatore Vigano, famoso coreografo, nato a Napoli nel 1769, morto a Milano nel 1821. Si
propose di sollevare la coreografia al livello dell’arte drammatica. Da prima era stato egli stesso un
acclamatissimo ballerino; poi come ordinatore di balli pantomimici suscitò entusiasmo per tutta
Europa e dal 1812 in poi trionfò alla Scala. Adattò quasi sempre alla mimica e alla danza opere altrui.
Da principio «predilesse le macchine mitologiche e di storia classica» (e fu celebre il suo Prometeo),
poi «le moderne e le romantiche». Dice di lui il Mazzoni nell’Ottocento (p. 205): «Senza
paragonarlo, come altri fece, al Canova; senza concedergli, come fece il Compagnoni [nel libro Arte
della parola, Milano, 1827, pp. 371 e sgg.], parlando da critico di lui morto, l’onore d’essere stato
poeta inventore quanto il Milton, disegnatore e pittore coll’ingegno riunito di Raffaello, di
Michelangelo e dell’Albano, filosofo sublimemente profondo, e gran musicista; e senza dire con D.
Sacchi [Intorno all’indole della letteratura italiana nel secolo XIX] che, se avesse scritto in versi,
non si potrebbe collocarlo che fra Calderon e Shakespeare; sarebbe ingiusto negargli ogni merito,
dopo l’ammirazione che suscitò non pur ne’ pubblici, ma in giudici sottili, come, tra gli altri, lo
Stendhal» [in Rome, Naples et Florence, Parigi, 1826, II, pp. 186 e sgg.]. Anche Ermes Visconti lo
lodò moltissimo nell’Art. 6° delle Idee elementari sulla poesia romantica, intitolato Sul classicismo
nella pittura e scultura e nei Balli Pantomimici (Conciliatore, n. 28, pp. in e sgg.) e lo introdusse
quindi come interlocutore col Lamberti, col Paisiello e col Romagnosi nel Dialogo sulle unità
drammatiche di luogo e di tempo (Conciliatore, n. 42, pp. 165-168; n. 43, pp. 169-170).
3. Nella Tempesta.
POSTILLA XII.
Che diremo poi delle romanticissime fiabe del Gozzi? (Append., fol. 17).
Ditene sempre ciò che a voi ne pare, Sig. mio, e faccia così ognuno: che i
Romantici, o a dir meglio, gl’ingegni ragionevolmente e sinceramente
svincolati, perciò amano la tolleranza intellettuale, ch’essi non danno poi in
fondo l’esclusione a nissun genere e a nissuna maniera; e quando vedono
accolto con generale soddisfazione un prodotto poetico, di qualunque arte
sia frutto, due cose fanno: la prima di dedurre dalla somma di questa
accoglienza la parte che ne spetta all’abitudine, e di questa fanno poco
conto, è vero, e rivolgono anzi da quel lato i loro studi e i loro sforzi di
miglioramento e di estensione dell’arte; l’altra riflessione loro si dirige a
rintracciare le cause naturali, o sia psicologiche, di quel riuscimento, e
quelle riconoscono e definiscono leggi invariabilmente ammissibili e canoni
di poetica perpetua. Delle fiabe dunque del Gozzi si dirà al sig. Londonio,
che piacciono tuttavia a molti, e credo ch’egli lo abbia a comportare ed a
rassegnarvisi con liberale filosofia, come anch’io mi vi rassegno, che non
venni mai a capo di poterne leggere più d’una intera; e sì che a dirla schietta
(sebbene con un po’ di rossore), avrei provato un vero gusto nell’esaltare,
coll’approvazione di me stesso, l’antagonista di Goldoni1.
1. Si ricordi che il Di Breme giudicò aspramente il Goldoni. Vedi pp. 121-122.
POSTILLA XIII.
1. G. A. Llorente, segretario generale dell’Inquisizione di Spagna e storico di essa, visse dal 1756
al 1823. Scrisse la Storia critica dell’Inquisizione di Spagna e i Ritratti politici dei Papi, che la
Chiesa mise all’Indice. Accolse molte idee degli enciclopedisti francesi. Nel n. 3 del Conciliatore (10
settembre 1818), nel n. 4 (13 settembre 1818), nel n. 11 (8 ottobre 1818), e nel n. 47 (11 febbraio
1819) vedi gli articoli dedicati dal Di Breme alla Storia critica della inquisizione di Spagna,
dall’epoca della sua istituzione per opera di Ferdinando V sino al regno di Ferdinando VII; tratta
dai documenti originali sì degli archivi del Consiglio della Suprema, che dei tribunali subalterni del
Santo Uffizio, Per D. Giannantonio Llorente, già segretario della inquisizione della corte, ecc. ecc.
Tradotta (in lingua francese) sul manoscritto spagnuolo sotto gli occhi dell’Autore da Alessio Pellier
(3 tomi, in-80, pp. 493, 553, 497, Parigi, Plaussan. 1817-18).
POSTILLA XIV.
POSTILLA XV.
POSTILLA XVI.
1. Lodovico Vittore Savioli, poeta e storico bolognese, visse dal 1729 al 1804. Più che agli Annali
bolognesi deve la sua fama alle graziose sue canzonette, intitolate Amori (1758), nelle quali, come
ben disse Vittorio Rossi, «fuse con bel garbo in un’unica visione l’Olimpo pagano,
settecentescamente ingraziosito, e la moderna galanteria».
2. Osservazioni sopra il Giaurro, art. II, pp. 110-111, [pp. 211-212 della presente edizione].
3. Giuseppe Lancaster, pedagogista inglese, nato a Londra nel 1771, morto a New-York nel 1838.
Diffuse con gran successo il mutuo insegnamento. Vedi nel n. 18 del Conciliatore (1° novembre
1818) l’art. di G. PECCHIO, Della necessità d’introdurre nelle scuole primarie toscane il metodo di
Bell e Lancaster, Memorie dei signori F. Nesti, L. Serristori, F. Tartini-Salvatici e C. Ridolfi, soci di
varie accademie (Pistoia, presso i Manfredini, 1818) e nel n. 77 (27 maggio 1819) l’art. di Giuseppe
Nicolini, Scuola alla Lancaster in Brescia, e nel n. 85 l’art. di G. Pecchio, Scuola alla Lancaster in
Milano.
POSTILLA XVII.
1. Zaccaria Calliergi, filologo vissuto negli ultimi decenni del secolo XV e nei primi del XVI,
nativo dell’isola di Candia. È sua la composizione e la prima edizione dell’Etymologicon magnum
(Dizionario etimologico della lingua greca). Pubblicò inoltre Pindaro, Teocrito e altri autori.
2. Lemierre in L’utilité des découvertes:
Croire tout découvert est une erreur profonde,
C’est prendre l’horizon pour les bornes du monde.
POSTILLA XVIII.
POSTILLA XIX.
Dai tempi di Aristotele in poi il cuore umano non ha cangiato natura per
quanto io sappia. (Append., fol. 28).
No, ma il cuore umano è più esercitato, più esperimentato nel
sessantesimo che nel trentesimo secolo della società e gli Aristoteli non
meno che gli Archimedi posteriori hanno lasciato gran lunga indietro i
primi.
«L’animo umano è provetto, e le migliaia cose egli ha da raccontare alla
immaginazione ritornando sulle diverse sue epoche, e svolgendo le diverse
sue epopeie naturali, giudaiche, pagane, cristiane, selvagge, barbare,
maomettane, cavalleresche, filosofiche, ec.». (Osserv. sopra il Giaurro, art.
II).
POSTILLA XX.
Sembra che il sig. cavaliere non avvertendo che alla intuizione logica
ripugnano egualmente le invenzioni della mitologia, come le superstiziose
fole dei tempi moderni, abbia voluto togliere di mezzo ogni dubbio sulla
efficacia poetica della mitologia. (Append., fol. 29).
Il signor Londonio vorrà senza dubbio tener conto di quelle persone la
cui intuizione logica ripugna alle fole mitologiche, senza ripugnare agli
espedienti che la religione cattolica, o almeno la cristiana, come la
intendono i non cattolici, somministra alla poesia. E, a cagion d’esempio,
quella stessa intuizione logica che ricusa di fissarsi nella immagine d’un
postribolo immortale, adotterà volontieri, anche come pura finzione, i cori
angelici, i lieti riposi della virtù in seno alla Divinità, un compiuto perenne
compiacimento della creatura in Dio e della facoltà sua di amare.
Torno qui a ripetere ch’io abiurai fin da principio quella dottrina
romantica esclusiva d’un genere o d’un altro, e ch’io non sono intollerante
che della sola intolleranza. Dunque anche la mitologia si mantenga in
onore, s’è vero ch’ella possa tuttavia serbar qualche efficacia. Bensì per
quella libertà cui ognuno ha diritto, dissi, e credo averlo discusso con sode
ragioni, e qui torno a ripetere ch’io tengo ora mai la mitologia per un inutile
balocco, e credo che sia battuta l’ora di lasciarla nei musei, e di valersene al
più come linguaggio di convenzione, tecnico e comodo. Il fatto proverà alla
lunga s’io abbia avuto o no un giusto presentimento di ciò che stanno per
tentare i futuri sommi ingegni. Intanto fo sapere al sig. Londonio, ch’io non
aspettai da lui l’esempio, onde onorare quei poeti che ancora si sono giovati
con successo dei fasti mitologici e greci, e dissi e proclamai in una lingua,
ch’è più generalmente intesa che non l’Italiana. «En Italie, de nos jours
même (justice soit rendue à quelques heureux esprits et à notre immortel
Monti surtout), le talent de rafraîchir ces mêmes images n’est pas perdu.
J’en appelle aussi à ceux qui ont connaissance de Yhymne d’Alcée, de M.
Foscolo: ils conviendront que la nature mythologique et héroïque occupait
une région fort inférieure à celle où son génie parvient à l’élever»1
1. Grand Commentaire sur un petit article, ediz. cit., p. 204. Vedi anche l’alto elogio al Monti con
cui si chiudono i versi sciolti al Caluso, del 1810.
POSTILLA XXI
1. Il gigante Adamastor, che nel poema Os Lusiadas personifica il «Cabo Tormentorio» o Capo
delle Tempeste (canto V):
Quel Capo io son che per terror da voi
Tormento è detto…
e di cui saggio alcuno o prima o poi
né seppe il nome, né conobbe il fato:
Affrica chiudo e da’ confini suoi
con alto promontorio anco intentato
all’Antartico vo, né guardo inulto
questi mari ove rechi il primo insulto.
Me fier di nome e forze Adamastoro
espose alle mortali aure la Terra,
e il primier fui del numer di coloro
che i Numi stessi minacciar di guerra.
Il Di Breme conosceva / Lusiadi del Camoens nella traduzione del genovese Antonio Nervi, la
quale aveva veduto la luce nel 1814. Il Nervi visse dal 1760 al 1836. Il Conciliatore pubblicò poi nel
n. 1 (3 settembre 1818) l’art, di S. Sismondi, Os Lusiadas, Poema epico de Luis de Camoens, nova
edição, correcta e dada á luz por Dom Joze Maria de Souza-Botelho (Parigi, Firmin Didot, 1817).
POSTILLA XXII.
1. Nella Lettera semiseria di Grisostomo [cfr. pp. 450-452 della presente edizione].
POSTILLA XXIII.
POSTILLA XXIV.
1. Vedi nello Spettatore italiano, cit., t. X, pp. 236-240, la recensione all’Appendice cit. del
Londonio e la Protesta del medesimo contro le Postille del Di Breme da lui giudicate non degne di
risposta. Nel medesimo volume vedi una lunga recensione ai Cenni critici sulla Poesia romantica del
Londonio (pp. 32-46) e leggi a pp. 196-204 un altro articolo Sopra alcuni errori occorsi nell’articolo
contenuto nel fase. XCI dello «Spettatore» intorno ai Cenni critici sulla poesia romantica del
Londonio. Nel medesimo volume vedi le recensioni al Manfredo del Byron tradotto dal Pellico (pp.
276-286) e alla Francesca da Rimini (pp. 297-311).
La prima pagina del primo numero del «Conciliatore» (3 settembre 1818).
DAL «CONCILIATORE»
Il «Conciliatore», foglio scientifico-letterario, fu pubblicato due volte la
settimana, per cento diciotto numeri, dal 3 settembre 1818 al 17 ottobre
1819, col motto Rerum concordia discors.
È innegabile che per molte idee queir animoso periodico si riconnette ai
tre manifesti romantici del 1816; ma nel tono e nel colore esso rispecchia
condizioni spirituali già diverse da quelle in cui con aperto impeto d’assalto
erano apparsi gli scritti polemici di Ludovico di Breme, di Pietro Borsieri e
di Giovanni Berchet.
La rivista, che nel 1816 il Di Breme insieme col Borsieri e col Pellico
aveva ideato come foglio d’avanguardia, era Il Bersagliere, giornale
drammatico, morale, a cui avevano promesso la collaborazione Ugo
Foscolo, la Signora di Staël, A. G. Schlegel, il Sismondi e Pietro Luigi
Ginguené. Ma il disegno era svanito tra difficoltà pratiche; e, allorché nel
1817, in casa del conte Luigi Porro Lambertenghi, presso cui abitava il
Pellico, fu rivolto dal Di Breme e dagli altri frequentatori il pensiero a un
periodico morale e letterario (a una specie di Spettatore), che rinnovasse
l’aria malsana e cooperasse a un risveglio di tutte le attività, da quelle ideali
a quelle pratiche, il disegno non poteva essere che diverso.
Le polemiche del 1816 non erano passate inutilmente e il Di Breme
stesso, che era il più veemente e avventuroso, era venuto rendendosi
ragione che, per isvolgere azione proficua, era necessario un piano di lavoro
più vasto e più particolarmente definito di quello che aveva indicato nel
Discorso intorno all’ingiustizia di alcuni giudizi letterari italiani.
L’esigenza di un programma lungimirante, meditato nelle parti e ben
coordinato, è anche evidente nella proposta che egli, impaziente che troppo
si tardasse a far il giornale dei novatori, rivolse in principio del 1818 a
Pellegrino Rossi: di pubblicare a Milano o a Ginevra un Messaggero delle
Alpi, del quale per la parte italiana fosse direttore lui, Di Breme, e per la
parte straniera il Rossi stesso. Se quel disegno si fosse potuto attuare,
l’Italia per opera sua avrebbe allora avuto un periodico d’avanguardia di
significato internazionale, con la collaborazione, già promessa, di Silvio
Pellico, Pietro Borsieri, Vincenzo Monti, Giovanni Berchet e di altri
scrittori, che sarebbero stato scelti.
Ma in questo caso il volo sarebbe stato ancor più arduo di quello che si
poteva tentare con una nuova specie di Spettatore; e, poiché non si fanno
che le cose fattibili, il Di Breme, lasciata l’idea del Messaggero delle Alpi,
in quei mesi stessi, non appena il disegno ventilato nella casa del conte
Porro poté prendere consistenza, fu tra i più assidui a preparare Il
Conciliatore, a cercar collaboratori che ne consolidassero e ampliassero il
programma, a predisporre gli animi dei conoscenti alla sua apparizione e a
suscitarne l’attesa.
Scriveva egli a Michele Leoni poche settimane avanti che fosse dato alla
luce il primo numero: «Le ho indirizzato una lettera ex officio come a una
persona su di cui i fondatori del Conciliatore riposano le più sicure loro
speranze costì [a Firenze ]. La prudenza e le mille precauzioni che
precedettero alla pubblicazione del programma distinguono questa impresa
da tutte le consimili. Essa è ben legata, ben munita; s’attiene a vaste
relazioni; alto disprezzo dei malevoli e delle persecuzioni politiche e
letterarie; universalità di studi e profondezza di ragione temprata colla più
omogenea festività disinteresse e anche sacrifizi pecuniari ove occorra: ecco
i principali caratteri dello spirito che ci anima. Ella si unisca a noi che le
siamo tutti amicissimi».
Quest’invito dimostra con quanta ponderazione siano stati scelti i
collaboratori e vagliati gl’intendimenti del programma, che con provvido
criterio dalla letteratura fu esteso alla filosofia, alla religione, alle scienze,
all’economia, alla giurisprudenza, all’agricoltura, alla sociologia e anche
alla politica. Il motto Rerum concordia discors non era una frase retorica,
ma l’indice veridico delle condizioni in cui vennero a trovarsi quelle menti
disparate, consenzienti nel voler operare per un ideale. Perciò, in questo
caso, esso fu accolto all’unanimità dai collaboratori, sebbene fosse una
frase del poeta più bersagliato dai romantici: di Orazio.
In un saggio su La nascita del «Conciliatore» il Li Gotti, che è autore di
un bel libro sul Berchet, ha sostenuto che il titolo «Conciliatore» nella
prima origine voglia significare sopra tutto la conciliazione di due gruppi
letterari: di quello dibremiano (Di Breme, Pellico, Borsieri) e di quello
manzoniano (Ermes Visconti, Torti, De Cristoforis, Berchet); e ha aggiunto
che, sebbene l’iniziativa del Conciliatore sia partita dal gruppo dibremiano,
in realtà il Di Breme sia giunto «buon ultimo ad accettare quelle idee che
già da un pezzo erano proprie del Berchet e del gruppo manzoniano».
Esaminiamo la questione, perché giova a spiegare il titolo del periodico e
l’azione varia dei collaboratori. Essa ha due aspetti: uno cronistorico e uno
ideale.
Per quanto riguarda la cronistoria, il documento, su cui il Li Gotti fa
pernio, è una lettera che il Pellico scrisse al fratello Luigi il 28 giugno 1817,
allorché il Di Breme, il Pellico, il Borsieri studiavano di fondare «una
specie di Spettatore», da contrapporre alla Biblioteca Italiana. È detto nella
lettera: «Il nostro giornale tanto meditato unirebbe la società di Berchet e la
nostra, ma le volontà non sono ancora sufficientemente concordi; a chi
manca il tempo, a chi la fiducia nell’impresa, a chi la tolleranza per le
opinioni dei soci, e tutto è sospeso». Ma questo documento comprova in
sostanza che il concetto attivo della conciliazione, per cui il giornale da
«Spettatore» divenne più tardi «Il Conciliatore», partì proprio dal gruppo
dibremiano; quindi in definitiva riconferma la notizia tradizionale: che i
mediatori della conciliazione furono i novatori che avevano convegno nella
casa del Conte Porro.
Il concetto ideale della conciliazione trionfò non appena questi, che
acconsentiva col Di Breme, col Pellico, col Borsieri e col Berchet stesso
nella dottrina della perfettibilità sociale e dell’universalità degli studi, estese
il programma dalle lettere alle scienze, all’economia, all’agraria, alle
manifatture, alla sociologia e, d’accordo con Federico Gonfalonieri, rese
attuabile il disegno in un vasto e magnifico campo d’azione, quello
dell’utilità generale, in cui assenso e lavoro diventavano quasi per tutti un
dovere. Questo fatto non solo dimostra come in definitiva il concetto ideale
del Conciliatore trascenda di gran lunga i primi approcci dei due gruppi
letterari, indicati dal Pellico, ma anche spiega perché alcuni di quei letterati,
affascinati dalla dottrina della perfettibilità sociale e dell’interdipendenza o
correlazione che hanno in questa gli studi, non abbiano nel periodico
trattato esclusivamente di lettere, lingua e poesia, ma abbiano preso a
esaminare, in connessione al programma informatore, questioni morali,
problemi religiosi, temi economici, metodi pedagogici, disegni caritativi e
filantropici, saggi di filosofia delle scienze e gravissimi argomenti storici,
che richiedevano di volta in volta una laboriosa preparazione e una definita
posizione di pensiero, la quale, come abbiamo visto, ondeggiava in generale
tra l’illuminismo razionalistico e un idealismo, che mirava a colmarne le
lacune e a toglierne le manchevolezze in una rinnovata visione della vita.
Per mostrare che il titolo Il Conciliatore significa sopra tutto
conciliazione di persone e di gruppi, si suole citare un’altra lettera del
Pellico, del 1818, in cui egli dice al fratello Luigi: «L’ingiuriarsi è dannoso,
come accade se non v’è una società nella quale concorrano i diversi
opinanti; ma quando si porgono la mano per discutere ciascuno il suo
pensiero nello stesso, ecco la vera conciliazione. Confalonieri e Porro, come
nobili, erano senza contatto con certi ultra-liberali. Si sono avvicinati, e
ogni disarmonia è sparita. Romagnosi teneva ad un crocchio di gente che
guardava in cagnesco il crocchio di Rasori. Si sono avvicinati e ogni
disarmonia è sparita. Berchet, De Cristoforis, Ermes Visconti, Torti,
formavano un’altra brigata che guardava in cagnesco Borsieri e me. Ci
siamo riconosciuti, giustificati e stimati. Ci apponevamo orgoglio,
pedanteria ec…, apponevano a Breme malignità, invidia, religionismo ec…
Ci siamo trovati tutti quasi della stessa natura e della stessa credenza».
Ma questa lettera in ultima analisi non vuol mostrare se non gli effetti
benefici che lo spirito conciliativo, fin dalle prime settimane del periodico,
aveva avuto sull’attività dei collaboratori, e quindi è un’altra testimonianza
che l’avvicinamento avvenne per opera del sentimento, delle idee e di un
comune desiderio di vero e di bene. Essa non fa che convalidare ciò che il
Pellico scriveva al Foscolo il 17 ottobre 1818: «Noi ci proponiamo di
conciliare e conciliamo infatti, non i leali coi falsi, ma tutti i sinceri amatori
del vero». Questa frase incisiva porta senz’altro l’interpretazione ideale del
titolo Il Conciliatore sopra le persone singole, le quali, nel tempo stesso che
rimanevano libere nell’ingegno e nel pensiero, facevano proprio, come
diceva nell’introduzione il Borsieri, il proponimento di «diffondere nel
pubblico la sociale filosofia dei costumi e gli studi generosi del bello».
Ma, quand’anche tra i vari gruppi di studiosi, riunitisi a preparare il
periodico secondo le direttive del Porro e del Confalonieri, si voglia
riguardare in modo particolare la schiera dei letterati, che fu certamente la
più forte, converrà andar molto cauti prima di asserire che l’idea della
conciliazione fu in essa portata dal «gruppo manzoniano» e che il Di Breme
e i suoi amici vi si adattarono. Innanzi tutto, letterariamente, è noto che il Di
Breme già nel 1815, nei Cenni storici degli studi e delle virtù di Tommaso
Valperga di Caluso, aveva accolto la previsione fatta dal suo maestro che
«la gran controversia» di quei giorni, superando gli «inevitabili
andirivieni», i quali mai non mancano nei movimenti di pensiero, sarebbe
giunta in Italia per dialettica interiore e con vantaggio della letteratura e
della cultura al «punto della conciliazione» è noto che egli già nel 1816,
scrivendo a Diodata Saluzzo, pochi giorni prima che fosse pubblicato il
Discorso per la Staël, aveva detto: «Ove sia stabilita una ragione poetica
moderna, un sistema d’arti ideali oltre il greco ed il romano, entriamo noi
[italiani] necessariamente a figurarvi in prima linea, e noi, maestri già
nell’imitazione di quegli antichi imitatori della natura, e precettori
all’Europa in quell’arte subalterna, faremo poi la prima comparsa
campeggiando da assoluti originali ed esemplari in fatto di poesia cristiano-
europea».
In secondo luogo non si deve dimenticare che la possibilità di una
cooperazione ideale tra novatori, conciliantisi su punti fondamentali,
palesemente si era già delineata fin da quando il Borsieri e il Berchet, l’uno
indipendentemente dall’altro, nel 1816 avevano dato il loro assenso al
pensiero centrale di quel Discorso, che aveva detto chiaro doversi rinnovare
dal profondo lo spirito letterario italiano, se si voleva portarlo all’altezza di
quello europeo e renderlo ancora efficace nella civiltà moderna. Quell’anno
anzi, come abbiamo dimostrato nel commento alla Lettera semiseria, il Di
Breme aveva proprio rinunziato a scrivere una «Poetica romantica», perché
aveva riconosciuto giusta un’osservazione critica del Berchet: che, per
lasciar piena libertà alla poesia, era meglio non scrivere nessuna nuova arte
poetica, perché sarebbe andata a far mucchio con tutte le altre anteriori, cioè
sarebbe stata inutile. Quali migliori prove potrebbero essere date a mostrare
che il pensiero critico del Di Breme e quello del Berchet agivano, già prima
del Conciliatore, reciprocamente, l’uno sull’altro?
Si aggiunga che si ha un’altra testimonianza di vicinanza ideale nella
promessa fatta dal Berchet al Di Breme di collaborare al Messaggero delle
Alpi, del quale abbiamo fatto cenno; e per questo secondo punto non sarà
necessario spendere altra parola.
In terzo luogo converrà fare un’osservazione finora sfuggita a tutti. Il
Pellico nella lettera or ora citata accenna ad avversioni che «la brigata del
Berchet», «la società del Berchet» aveva per lui, Pellico, e pel Borsieri; ma
non dice affatto che quella brigata «guardasse in cagnesco» anche il Di
Breme, giacché egli sapeva che questi, sebbene fosse tra i conoscenti
oggetto di molte critiche, era in buone relazioni con Grisostomo, con Ermes
Visconti, col De Cristoforis, col Torti. Anche questa singolare distinzione,
fatta dal Pellico, conferma dunque che il Di Breme non giungeva «buon
ultimo» alla conciliazione.
Di più: quelle frasi «brigata di Berchet», «società di Berchet», su cui il
Pellico insiste, devono rendere prudenti a non fare troppo spesso, per questo
particolare argomento, il nome del Manzoni, il quale, come è noto, sebbene
abbia avuto vive simpatie pel Conciliatore, non volle ad esso collaborare.
Gli studiosi, per una loro prospettiva storica, hanno raccolto intorno a lui
come in un bel quadro le immagini delle persone che lo frequentavano; ma
una società non è mai rigida sulle sedie né prende sempre l’imbeccata per
ogni pensiero e per ogni atto da chi sta al centro del quadro. Il Berchet non
meno che il Manzoni aveva amici e alcuni di quelli stessi che frequentavano
la casa del Manzoni amavano discutere con lui idee e opinioni, esaminare
proposte e disegni. Ora, per quel che riguarda il Conciliatore, converrà che
ci limitiamo a parlare — come fa il Pellico — della «brigata del Berchet»,
senza dire continuamente che la società del Berchet si identificava con
quella del Manzoni. La limitazione è tanto più necessaria, se si considera
che Grisostomo non in tutto consentiva col Manzoni; anzi pel pensiero
religioso e specialmente per l’animo con cui riguardava la riforma
protestante, era più vicino al Di Breme che non al Manzoni.
Quest’avvertenza non diminuisce affatto il significato delle
testimonianze, che si hanno intorno alla simpatia del Manzoni per l’azione
rinnovatrice del Conciliatore; anzi l’accresce, perché dà più profonda
evidenza alla serenità di quell’uomo.
Sebbene quel periodico esprimesse talora opinioni particolari che non
potevano conciliarsi con le sue idee, nondimeno egli comprese che esso
aveva intrapreso un’opera propulsiva vitale per l’Italia. Questo giudizio può
essere anche oggi accolto, sebbene, come è naturale, molte posizioni del
Conciliatore possano apparir del tutto oltrepassate.
Dalla raccolta del Conciliatore scelgo per questo volume alcuni saggi,
che hanno più diretta attinenza con gli argomenti trattati nei tre manifesti
del 1816.
Per le discussioni sull’idea conciliativa si veda il mio saggio Il
romanticismo italiano in un libro di Paul Van Tieghem, nella rivista «La
Cultura» di Cesare De Lollis, Roma, Olschki, 1924, vol. III, p. 165. Per le
questioni religiose si veda il saggio Di alcune tendenze non cattoliche del
primo nostro romanticismo, ivi, p. 385.
GIAN DOMENICO ROMAGNOSI
DELLA POESIA CONSIDERATA RISPETTO ALLE DIVERSE ETÀ
DELLE NAZIONI1
1. Ermes Visconti nacque a Milano nel 1784, morì nel 1841. Lettore appassionato di poeti e
filosofi, fu allora tenuto in molta stima dai collaboratori del Conciliatore per la sua cultura, che
prendeva nelle conversazioni aspetti filosofeggianti; ma nello scritto Idee elementari sulla poesia
romantica, che voleva avere intendimenti divulgativi, non fece trattazione organica, né sistematica. È
un errore il credere che questo scritto sia fondamentale per capire il romanticismo italiano, anzi
rappresenti il caposaldo della prima nostra critica dottrinaria romantica. Sia per le idee sia per lo stile
è inferiore ai tre proclami del 1816. Il Pellico stesso, che era amico al Visconti, giudicava questo
saggio non più che «un trattatello soddisfacente, scritto senza pretenzione, forse un po’ trascurato»; e
sapeva che non a tutti poteva sembrar chiarissimo per le idee, se egli, dopo aver fatto quelle
limitazioni, domandava l’assenso per fargli questa lode: «… ma chiarissimo per le idee, non ti
pare?».
In realtà il trattatello aveva la chiarezza di un’esteriore superficialità, ottenuta con annotazioni o
considerazioni distribuite a paragrafi; ma l’espositore non penetrava a fondo nella «controversia»;
faceva quasi soltanto questione di contenuto, cioè di argomenti; trascurava del tutto la questione dello
stile e si riduceva ad ammettere con una distinzione contraddittoria che la scultura, la pittura e i balli
pantomimici possano servirsi della mitologia, in quanto la loro ragion d’essere è il bello sensibile, la
bellezza visibile, e la poesia moderna non possa servirsene perché la sua ragion d’essere è un bello
intellettuale.
Non solo come trattazione teorica, ma anche come saggio empirico, questo scritto di Ermes
Visconti non ha vigore logico. Meglio condotto, perché meglio delimitato nell’impostazione
particolare, è il Dialogo sulle unita drammatiche di luogo e di tempo, nel quale il Visconti introdusse
come interlocutori un grecista, Luigi Lamberti, un applauditissimo compositore di balli, Salvatore
Vigano, un musicista, Giovanni Paisiello e un filosofo giurista: Gian Domenico Romagnosi.
Il Manzoni nelle Lettre à Monsieur Chauvet sur l’unité de temps et de lieu dans la tragédie, che è
dell’anno dopo (1820) addusse una pagina di questo dialogo, lodando l’amico, «che in alcuni saggi di
critica letteraria aveva già dato prova di un’alta capacità e prometteva di illustrare l’Italia coi lavori
filosofici, ai quali s’era dato in modo particolare». Lo Stendhal richiamò il medesimo dialogo nel
libro Racine et Shakespeare, che segna una data (1823) nella questione romantica del nuovo dramma,
quale fu dibattuta in Francia. Claudio Fauriel tradusse il dialogo in francese e lo pubblicò quell’anno
nel volume in cui diede la versione delle due tragedie del Manzoni, Il Conte dì Carmagnola e
l’Adelchi (Parigi, 1823). Questo dialogo ha dunque una sua storia nelle discussioni europee sulla
tragedia romantica.
I Saggi filosofici di Ermes Visconti, ai quali accenna il Manzoni, apparvero poi nel 1829. Da prima
indifferente sotto l’aspetto religioso, dal 1827 egli si volse alla fede e visse con austerità monacale,
generoso nel beneficare. L’efficacia che la fede ebbe sul suo pensiero appare anche ne’ suoi Saggi
intorno ad alcuni quesiti concernenti il bello (Milano, Crespi, 1833).
Gli articoli qui riprodotti apparvero nei numeri 23, 24, 25, 26, 27, 28 del Conciliatore, dal 19
novembre al 6 dicembre 1818. Furono anche raccolti in opuscolo dal Ferrario, tipografo del
Conciliatore. Paride Zaiotti se ne prese giuoco nella Biblioteca Italiana, avversa ai romantici.
Vedansi: G. GALLAVRESI, Intorno ad A. Manzoni (lettere di Ermes Visconti, di G. B. Somis e
Cabanis al Fauriel), nella riv. «Il libro e la stampa», III, 1909; PAUL HAZARD, Les plagiats de
Stendhal, d’après de récents publications, in «Revue de deux mondes», 15 settembre 1921; P. P.
TROMPEO, Nell’Italia romantica sulle orme di Stendhal, Roma, 1924; TERESA BENEDETTO, Ermes
Visconti e Stendhal, Contributo alla storia della critica romantica, Arezzo, 1921; MATILDE
BARAVELLI, La vita e il pensiero di Ermes Visconti, con prefazione di G. Capone Braga, Firenze, Le
Monnier, 1943.
ARTICOLO PRIMO
NOZIONI GENERALI
I.
1. Il Borgese nella Storia della critica romantica in Italia, cit., ha osservato che con questa nota il
Visconti «ammazzava» senz’altro «la poesia romantica, poiché se non le riconosceva una forma sua
propria, le negava ogni esistenza artistica». Ma il Visconti negava ad un tempo che vi siano stili
essenzialmente classici; e si potrebbe quindi dire che ammazzava anche la poesia classica.
Giustamente il Li Gotti nel volume cit. sul Berchet ha osservato che il Visconti, con linguaggio
improprio, voleva dire «che la differenza tra soggetti classici e romantici non è così egualmente e
nettamente posta anche nel campo della tecnica e della lingua così da esservi uno stile essenzialmente
classico e uno essenzialmente romantico. Cioè la distinzione tra i contenuti non si può stabilire in
egual modo anche tra gli stili: lo stile s’atteggia diversamente secondo la diversità dei soggetti». Bene
il Li Gotti, per chiarire questa considerazione, rimanda al Memoriale di Ermes Visconti sul
romanticismo, pubblicato dal Gallavresi nel «Giornale storico della letteratura ital.», vol. LXXVI,
1920, pp. 386-392.
2. Sulle origini delle lingue romanze si avevano allora idee errate. È merito degli studi filologici
posteriori aver dimostrato che esse sono trasformazione viva del latino parlato dal popolo. Così le
parlate varie dell’Italia (tra le quali prevalse come lingua la parlata fiorentina) «sono — diceva bene
Pio Rajna — la perpetuazione, variamente alteratasi nel tempo e nello spazio, del linguaggio parlato
di Roma».
II.
Basta che si stampino de’ bei versi, poco importa se sono romantici o
classici; i sistemi esclusivi sono sempre dannosi. Questo è un sapientissimo
parere ripetuto da molti con aria di trionfo, e riguardato da moltissimi come
la decisione inappellabile degli uomini spassionati e di garbo. Eppure
somiglia proprio come due gocciole di acqua ad un altro sapientissimo
parere, che potrebbe venire in capo ad un agente di campagna nemico di
sistemi esclusivi in agricoltura, il quale mandasse al conte Dandolo1 la
seguente lettera:
a. Non per capriccio s’insiste sulla esclusione del classicismo, ma per convinzione che bisogna
abbandonarlo, chi voglia trattare di cose interessanti i lettori.
1. Vincenzo Dandolo, di Venezia (1758-1819), chimico ed enologo, aveva pubblicato nel 1812 in
collaborazione col Foscarini un trattato di Enologia; nel 1815 un altro trattato, sull’Arte di governare
i bachi da seta. Aveva fondato la colonia agricola «L’Annunziata» di Varese, celebre in Lombardia.
Ecco il motivo per cui il suo nome è qui citato come quello di persona assai nota.
ARTICOLO SECONDO
DEFINIZIONE DEL CLASSICISMO,
DELLA POESIA PROMISCUA AL GENERE ROMANTICO
ED AL GENERE CLASSICO, E DI QUELLA
CHE È ESTRANEA ALL’UNO ED ALL’ALTRO
I.
Mitologia e storia antica.
a. Non si confondano le puerilità de’ copisti col trovato di Milton, ove enumera gl’idoli del
gentilesimo nel descrivere la rassegna de’ compagni di Satana, concetto strettamente romantico,
perché appoggiato al cenno della Scrittura, che i falsi Dei erano demoni. «Primi in possanza
sovrastavano quelli che osarono, gran tempo dopo, fissare le loro sedi presso la terra di Dio, e
profanarono de’ loro incensi lo stesso santuario; Moloc intriso del sangue d’umani sacrifici e bagnato
del pianto delle madri, egli che mutò il cuore di Salomone, e udì preghiere sacrileghe nella valle di
Geenna emblema dell’inferno; e Chemos osceno spavento de’ figli di Moab; e quegli che i Fenici
chiamarono Astarte regina del cielo; e chi sedusse le verginelle di Siria a piangere il fato di Adone
con amorose elegie, il racconto corruppe le donne di Sion con passione superstiziosa. Poi una turba di
mostri, ed Iside, ed Osiride, ed Oro, che ingannarono il fanatico Egitto ed i peregrini di Giuda quando
dei loro tesori formarono il giovenco ne’ deserti. Seguitavano, inferiori di grado, benché la fama
II.
Imitazione delle usanze domestiche.
III.
a. Nella Gerusalemme liberata questo Piero è divenuto una specie di cappellano dell’esercito, un
consigliere pacatissimo, un amico intrinseco d’un professore di magia naturale, un contemplativo
profeta di vaticini talora superflui, ed una volta (che è ben peggio) adulatorii al duca di Ferrara. — Il
Tasso per altro non fu uno di quelli che credevano alla necessità di un solo protagonista: almeno
quando ideò il suo poema.
1. Collega questa pagina col Dialogo sulle unità drammatiche di luogo e di tempo.
IV.
Poesia promiscua al genere romantico
ed al genere classico.
1. Iliade, XXII.
2. Eneide, VII.
3. Giacomo Thomson, poeta inglese (1700-1748), autore del poema didascalico Le Stagioni.
4. Qui è una delle prove più evidenti che il Visconti fondava prevalentemente la sua critica
romantica sul contenuto delle opere d’arte.
V.
Poesιe né romantiche, né classiche, né promiscue.
Chi riferisse come vera religione il culto del Sole adorato dai Peruviani,
in quale famiglia di poeti dovrebbe essere collocato? Non fra i romantici,
perché i Cristiani non credono alle superstizioni del Perù non fra i
classicisti, perché la notizia di tali errori non ci è venuta dalla Grecia e da
Roma. Vi sono adunque molte opere estranee assolutamente all’uno ed
all’altro sistema: fra le quali si annoverano i poemi attribuiti ad Ossian, la
Sakontala dramma indiano1, quella parte dei poemi dell’Edda che tratta di
mitologie settentrionali, ec. ec.
Tale sarebbe qualunque invenzione ove si celebrassero seriamente
gl’idoli dell’Africa o le menzogne de’ Bonzi. Cose tutto affatto straniere a
noi pel loro carattere ed origine; chi volesse proporsele per guida si
accuserebbe di poco cervello.
Non hanno grazia se non quando vengono dal paese loro natìo, ma allora
chi le sprezza ha torto davvero, palesa un ingegno municipale, un gusto
ligio dell’abitudine.
1. Grisostomo pubblicò poi, nel num. 53 del Conciliatore (4 marzo 1819) un articolo Sulla
Sacontala ossia l’«Anello fatale», dramma indiano di Calidasa.
VI.
Conclusione.
I.
II.
Religione cristiana, superstizioni popolari,
Fate e Geni dell’Asia.
III.
Eroismo cavalleresco.
1. Lancillotto del Lago, uno dei dodici cavalieri della Tavola Rotonda, eroe di romanzi assai letti
negli ultimi secoli del Medio Evo, amò Ginevra, donna del re Artù. Il romanzo Lancelot è ricordato
da Dante nel c. V dell’Inferno, vv. 127-138, e nel c. XVI del Paradiso, vv. 13-15; Lancillotto e
Ginevra sono addotti dal Petrarca nel Trionfo d’Amore, III, v. 80 e v. 82.
2. Il cavaliere sleale e frodolento è Meleaganz.
3. Amadigi di Gaula, il Cavaliere del Leone, eroe d’un romanzo cavalleresco Amadis de Gaula di
Garcí-Ordoñez de Montalvo, stampato nel secolo XV, raffigurava il prode per ogni riguardo perfetto
nel dare la forza del braccio a nobili imprese. Amore suo non era quello adultero dei romanzi bretoni,
ma quello benedetto dal matrimonio. L’argomento fu rimaneggiato in Italia con nuovi intrecci ed
episodi e complicate azioni da Bernardo Tasso, padre di Torquato, nel poema Amadigi di Gaula, in
cento canti.
IV.
Quegli stessi motivi, che proscrivono la mitologia, comandano pure
d’astenersi dal ridire avventure immaginarie di Paladini, Fate, e
Negromanti, isole e palagi incantati. Sono follie già anch’esse antiquate, e
l’ideale cavalleresco non è più quello a cui si volge la brama de’ nostri
illuminati pensieri. Bensì è vero che, avendo influito sulle virtù e sui
traviamenti, che parvero virtù a lunghissime generazioni, né essendo men
vero che qualche vestigio se ne è serbato fino ai nostri giorni, si potrà
ritoccarne qualche tratto poetando di Goffredo, o del Cid, o anche di
Francesco I, del conte d’Egmont1 e del cavaliere di Bayard, e di somiglianti
personaggi sì del medio evo come de’ tempi moderni. E finalmente il brio
cavalleresco risplenderebbe d’una grazia assolutamente nuova ne’ volontari
Francesi al campo di Washington portativi dall’amore d’idee liberali2. Ma
Orlando e Ruggiero, Sacripante ed Astolfo, contentiamoci di contemplarli
nelle invenzioni che uscirono spontanee in un’età che le voleva, perché era
proporzionata o desiderosa per abitudine di una tale specie di Belloa.
Riguardo alle apparizioni de’ morti ed altre illusioni terribili, non può
negarsi che molte vengano consacrate da credenze locali: la fandonia del
Cacciatore feroce è un articolo di fede per migliaia di contadini ed artigiani
tedeschi. Potrà adunque un poeta valersene? Non sarebbero certamente da
trascurarsi se si dovesse avere principalmente di mira gli applausi; il
Cacciatore feroce del Bürger fu lodatissimo (se non altrove) per tutta la
Germania. Ma il poeta è tenuto di rinunciare a tutto ciò che avvilisce l’arte
piegandola ad adulare e perpetuare l’insipienza3. Lo scopo estetico dei versi
conviene
a. Età desiderosa per abitudine di una tale specie di bello fu quella dell’Ariosto; per altro si era già
cominciato a riderne, e l’Ariosto da pari suo seppe secondare ambedue le disposizioni contrarie,
passando con impareggiabile felicità dal commovente all’ironia ed alla parodia. Quando egli mandò
Orlando a cercare Angelica senza sapere in quale parte del mondo sia ita, si avvide e profittò del
ridicolo. Descrisse con solennità ed effetto semiburlesco la dea Cerere che ascese un cocchio tirato da
draghi per rintracciare Proserpina, portando due pini accesi affine di scoprire gli oggetti da lungi; poi
avvisando che anche il Conte avrebbe fatto altrettanto se ne avesse avuto la facoltà si riduce a
concludere4:
Ma poi che il carro e i draghi non avea
La già cercando al meglio che potea.
Qualche volta l’Orlando Furioso è un precursore del Don Quichotte. subordinarlo allo scopo
eminente di tutti gli studi, il perfezionamento dell’umanità, il ben pubblico ed il bene privato.
1. Il Conte di Egmont, generale di Carlo V e di Filippo II, governatore delle Fiandre, accusato di
aver congiurato contro Filippo II, fu imprigionato e decapitato per ordine del duca d’Alba a Gand nel
1568. Celebre la tragedia Egmont del Goethe (1787).
2. Il marchese di Lafayette e i volontari francesi combatterono valorosamente agli ordini di
Washington per l’indipendenza degli Stati Uniti.
3. Il Berchet, come abbiamo veduto, giudicava diversamente la ballata del Cacciatore feroce e in
complesso la poesia ispirata da leggende popolari.
4. Canto XII, st. 3.
V.
Amore Romantico.
VI.
Contrasti della passione col dovere. Rimorsi.
1. È la scena Ia dell’atto V.
VII.
Due tendenze primitive dell’animo.
1. Odissea, 1. XI.
VIII.
Conclusione.
I.
1. Del Voltaire l’Alzira, la Zaira, il Tancredi; del Racine l’Atalia; dell’Alfieri il Saul e il Filippo.
2. Ermes Visconti riguardava gli Amori di Ludovico Savioli come arte ibrida pel prevalere della
mitologia pagana sull’amore di galanteria. Improprio è quindi l’accostamento, che egli fa dell’arte
savioliana con quella di Dante, che nella Divina Commedia, cristianamente, raffigurò Caronte,
Plutone, le Furie come potenze demoniache.
II.
Negli Autori adunque e nelle opere che si sogliono citare in esempio
delle due scuole si avviserà sovente qualche elemento eterogeneo. Ma nel
denominare gli uni e le altre conviene badare alla massa e non alle minuzie
accessorie.
Dante, l’Ariosto e lo Shakespear sono romantici; l’Edippo di Voltaire, e
l’Antigone d’Alfieri sono componimenti da classicista; il Saulle e la Zaira
sono misti, perché tutto il soggetto è romantico, e tutta la tessitura è
classicistica; dicasi lo stesso ogniqualvolta l’influenza de’ due metodi si
trova equilibrata.
ARTICOLO QUINTO
RETTIFICAZIONE DI ALCUNI FALSI SUPPOSTI
I.
a. Attribuire al genere romantico una tendenza perniciosa imputabile soltanto ad alcune particolari
invenzioni, è un equivoco, in cui poterono cadere anche uomini d’ingegno, indottivi da un complesso
di circostanze atte a far confondere gli abusi con i vantaggi della nuova scuola. Il disapprovare poi
una tal supposta tendenza fu prova di mente avvezza ad idee serie e lodevoli.
1. Si ricordi che tra quei novatori molti videro nel Monti, dalla Bassvilliana al Bardo della Selva
Nera e più oltre, un fondo romantico. Il Sermone sulla Mitologia è del 1825. Anche Giuseppe
Nicolini giudicava la Bassvilliana ispirata da Musa romantica.
2. Allude al Prato fiorito di varii esempi di P. Valerio Veneziano, Venezia, 1723, in due tomi.
3. Il Brunet, attore famoso, era valente tanto nelle «féeries» (spettacoli meravigliosi, in cui
intervengono le fate), quanto nei «vaudevilles» e nelle commedie propriamente dette. Nel 1815 era
stato primo attore nella «féerie» Le bücheron de salerne di Desaugiers et Gentil, rappresentata «aux
Variétés». Nel recitare collaborava con spirito arguto alla formazione e al successo delle opere e si
pubblicò persino un «choix de ses bons mots», col titolo Brunetiana.
Giuseppe Palomba era autore di più che trecento libretti per opere buffe. Vedi Michele Scherillo,
L’Opera buffa napoletana, Palermo, Sandron, 1916, p. 451.
4. Desdemona nell’Otello; Miranda nella Tempesta.
5. Molti allora ponevano genericamente l’Oceania nell’Oriente asiatico. Perciò dice quattro le parti
del mondo.
II.
1. Nell’ode A Silvia o sul vestire alla ghigliottina (1795) il Parini con profondo sentimento umano
lamenta che un «misfatto enorme», la «scellerata scure» della rivoluzione francese avesse dato
«nome e forme» a quella moda femminile.
2. Manuel José Quintana, uno dei maggiori poeti spagnuoli del secolo XIX, visse dal 1772 al 1857.
Durante l’occupazione napoleonica tanto infiammò l’odio contro l’invasore, che fu detto il Tirteo
della Spagna. La sua Oda a los marinos Españoles en el Combate del 21 de octubre 1805 fu in parte
tradotta nel num. 114 del Conciliatore. Nella battaglia di Trafalgar (promontorio della Spagna,
sull’Atlantico, tra Cadice e Gibilterra) le navi franco-spagnuole erano state sconfitte da quelle inglesi,
comandate da Nelson, che vi perdette la vita.
ARTICOLO SESTO
SUL CLASSICISMO NELLA PITTURA E SCULTURA,
E NEI BALLI PANTOMIMICI
I.
1. Già nel Palazzo Verospi a Roma; dal 1771 nel Museo Vaticano.
2. Giuseppe Bossi, pittore e critico d’arte, vissuto dal 1777 al 1815, che può dirsi il fondatore della
Pinacoteca di Brera. Come artista fu accademico e classicheggiante.
II.
Canova scolpì un’Ebe ed un Perseo colla stessa mira, con cui fece un
Pugillatore ed una Maddalena1, per rappresentarli indipendentemente da
qualunque destinazione allegorica: all’opposto quando si collocherà in
Brera la statua di Minerva altre volte progettata sarà una decorazione
allusiva allo stabilimento. L’uso della Mitologia per ornamenti emblematici
mi pare meno felice dell’altro; gli emblemi d’origine antica applicati ad una
cosa moderna non vi stanno in perfetta armonia, hanno sempre un’indole
esotica, un’aria di ricercatezza erudita. Non asserisco per questo, che
debbansi escludere del tutto. Gli artisti c’insegnano che non sempre può
trovarsi un’allegoria moderna, la quale dal lato della bellezza esteriore
regga al confronto di quelle che è dato desumere dal Paganesimo.
Stando adunque a questa decisione de’ giudici competenti, non è dubbio
che sarebbe stoltezza sacrificare lo scopo essenziale, cioè il bello sensibile,
ad un’ambiziosa esattezza nella corrispondenza cronologica.
1. Quattro volte effigiò Ebe il Canova: nel 1800; nel 1801; nel 1814; nel 1816. Scolpì Perseo nel
1801; due volte il Pugilatore, nel 1802; e Maddalena il medesimo anno.
III.
Balli Pantomimici.
1. Salvatore Viganò, nato a Napoli nel 1769, morto a Milano nel 1821, fu acclamatissimo e
desideratissimo ordinatore di balli in tutta Europa e dal 1812 in particolar modo alla Scala. Per
l’ideazione, preparazione e inscenatura dei balli pantomimici parve allora un genio. Questo è il
motivo della vivissima attenzione che a lui rivolge il Visconti. Per i suoi spettacoli il Viganò ora
trasse ispirazione dalla mitologia e dalla storia antica (Mirra; Didone abbandonata; Le Sabine in
Roma; Numa Pompilio ecc.); ora da fiabe e leggende, argomenti romanzeschi, fatti medievali o
moderni, storici o immaginosi (Il noce di Benevento; Le tre melarance; Riccardo Cuor di Leone;
Giovanna d’Arco; Otello, ecc.). Fra i suoi ammiratori fu lo Stendhal.
2. Le danze parlanti delle Arti erano nel quadro primo; il volo di Prometeo sul cocchio di Minerva
avveniva nel secondo. Il Prometeo era stato rappresentato alla Scala nel 1813.
3. Mirra ossia la Vendetta di Venere era stata rappresentata nel 1815.
IV.
Discorso dì un Classicista con un Romantico.
INTERLOCUTORI:
POSCRITTA DELL’ESTENSORE.
a. Le idee che si fingono esposte da Romagnosi sono dell’estensore: ricavate per la massima parte
da teorie conosciute. Se Romagnosi volesse occuparsi delle unità drammatiche ne tratterebbe in una
maniera degna dell’Autore della Genesi del Diritto Penale e dell’Introduzione allo studio del Diritto
Pubblico; nel presente Dialogo non si è preteso né si poteva pretendere di emulare l’acume filosofico
di quegli scritti. Gl’interlocutori de’ dialoghi scientifici sogliono riguardarsi quasi come enti
immaginari, anche quando portano il nome di persone reali: servono ad esprimere le opinioni di chi
scrive, e le opinioni contrarie di cui vuoisi mostrare l’imperfezione o la fallacia.
b. È noto che la musica vocale deve imitare la declamazione: ma alcuni letterati dicendo che il
Maestro deve servire al Poeta intendono un’altra cosa: intendono cioè che in un’opera in musica
dovrebbe primeggiare l’effetto poetico de’ versi, e non l’effetto della melodia e dell’armonia. Questo
è l’errore disapprovato da Paesiello e da Romagnosi.
1. Vedi p. 464.
2. Ignazio Venini, gesuita, fu celebre nel Settecento come orator sacro. Visse dal 1711 al 1778.
Resse il Collegio di Brera a Milano. Parlava con lingua scelta in stile compassato e studiato.
«NARCISA». ROMANZO IN QUATTRO CANTI
DI CARLO TEDALDI-FORES1
1. L’articolo esaminava l’opera del barone di Vastry, Riflessioni Politiche sovra alcune Opere e
Giornali francesi riguardanti Haytì, apparsa nel 1817, e finiva con queste parole: «Si ardisca ora di
dire che uomini i quali hanno fatto tali progressi durante una guerra spaventevole, non sono degni
della libertà». La chiusa suscitava subito nella mente del lettore il pensiero che, come era degno della
libertà «il popolo haytiano», a maggior ragione ne era degno il popolo italiano, che tanto aveva dato
alla civiltà.
ADEODATO RESSI
LETTERA DI UN ITALIANO AL CONCILIATORE1
Signor Conciliatore,
1. Il conte Adeodato Ressi, nato a Cervia (Ravenna) nel 1768, insegnò economia politica
nell’Università di Pavia; arrestato il 29 giugno 1821 per non aver denunciato l’amico suo Laderchi,
carbonaro, morì in carcere a Venezia il 18 gennaio 1822. Ha detto di lui Renato Sòriga: «…
riformatore politico di avanguardia, pure partendo dalle superate premesse settecentesche del
dispotismo illuminato, già vagheggiava una riforma organica della intera società mediante lo
sfruttamento razionale delle forze umane associate, da cui implicitamente sarebbe derivata la
redenzione politica della sua stirpe».
2. Così nelle bozze, riprodotte nell’edizione del Comune di Milano.
3. Durante l’istruttoria del processo, il Ressi, interrogato di quale Ateneo intendesse parlare in
quest’articolo, rispose che era un istituto che si doveva erigere in Milano sotto questo titolo, nel quale
si sarebbero introdotte cattedre di chimica, matematica ed altre scienze, che applicate alle arti
avrebbero dovuto agevolare la cognizione dei metodi più vantaggiosi al bene della società sotto il
rapporto delle manifatture e delle arti. Bene ha quindi detto il Sòriga che egli con questo disegno
precorreva «il milanese Politecnico nel campo fecondo dell’industria chimica, meccanica e
manifatturiera».
4. Il testo ha Vi piace; ma evidentemente è un errore di composizione, rimasto nelle bozze
dell’articolo non stampato.
5. Questa pagina in cui una nuova grandezza letteraria, artistica, scientifica ecc. è designata come
unica gloria che rimanga agli italiani da conseguire, richiama alla memoria un pensiero del Leopardi.
Aveva questi detto sul finire del 1818, dedicando al Monti le due canzoni All’Italia e Sopra il
monumento di Dante: «… oggidì chiunque deplora o esorta la patria nostra, non può fare che non si
ricordi con infinita consolazione di Voi che insieme con quegli altri pochissimi, i quali tacendo non
vengo a dinotare niente meno di quello che farei nominando, sostenete l’ultima gloria nostra, io dico
quella che deriva dagli studi e singolarmente dalle lettere e arti belle; tanto che per anche non si può
dire che l’Italia sia morta». E nella redazione successiva ancor più vibratamente: «Consacro a voi…
queste canzoni perché quelli che oggi compiangono o esortano la patria nostra, non possono fare di
non consolarsi pensando che voi con quegli altri pochissimi (i nomi de’ quali si dichiarano per se
medesimi, quando anche si tacciano) sostenete l’ultima gloria degl’Italiani; dico quella che deriva
loro dagli studi e singolarmente dalle lettere e dalle arti belle; tanto che per anche non si potrà dire
che l’Italia sia morta».
L’economista in questo caso fu dunque vicino al Leopardi nel valutare le condizioni dolorosissime,
nelle quali era ridotta l’Italia dopo il Congresso di Vienna. Ma, se ben si riguarda, si vede che,
sebbene i due pensieri siano affini, lo stato d’animo dei due scrittori è profondamente diverso. Le
parole del Leopardi sono come pervase da una tragica angoscia, perché egli non vede più sussistere
se non la vita degli studi e quest’ultima gloria nostra a sua volta ristretta, anzi ridotta ormai a
pochissimi. Nella chiusa infatti della prima Dedicatoria conferma che un «numero presso che
impercettibile d’Italiani sopravvive» e nella seconda così incide la medesima riflessione con quella
mirabile sobrietà, nella quale pare trabocchi l’ansia di chi cerchi un sollievo, come sentendosi
mancare il respiro: «Facendo professione d’amare più che si possa la nostra povera patria, mi tengo
per obbligato d’affetto e riverenza particolare ai pochissimi italiani che sopravvivono». Al contrario
le pagine del Ressi hanno un’intonazione meno scorata e sono come illuminate dall’attesa di tempi
migliori, perché già si avvertono i segni di un operoso avvenire.
Invece che dell’ultima gloria degl’Italiani egli parla di quell’unica gloria che loro rimane, quasi
sottintendendo «per il momento» e pensando che essa possa esser incitamento e preparazione a nuova
vita. Inoltre all’indicazione della gloria, che, a dire del Leopardi, deriva «dagli studi e singolarmente
dalle lettere e dalle arti belle», egli aggiunge quella che dànno «le strade, i canali, i ponti, gli archi,
gli anfiteatri, gli edifici d’ogni maniera», i quali, a suo avviso, «attestano la grandezza e lo slancio del
genio della presente generazione» (cioè della sua) e fanno vivamente sperare che l’alacrità
dell’ingegno italiano possa con egual profitto far rifiorire le scienze, le manifatture, i commerci, vale
a dire possa l’Italia dagli studi «teoretici» passare a una più intensa e proficua attività pratica,
«pubblica e privata», e gareggiar quindi con «le altre nazioni» d’Europa «e particolarmente con
l’Inghilterra».
Sotto questo aspetto lo scritto del Ressi era l’espressione di un’indistruttibile fiducia nelle forze
sempre rinnovantisi dell’Italia serva e divisa, e recava seco la provvida intuizione che da un
rifiorimento di tutte le sue attività l’Italia avrebbe potuto trarre altri vantaggi, anche politici, perché
dalla vita nasce la vita.
INDICE
INDICE DEI NOMI
Acerbi G.
Achillini C.
Acutis G.
Adriani M.
Adriano IV, papa.
Agincourt (d’), v. Séroux.
Agostino (S.).
Aguzzi Barbagli D.
Albani F.
Albany (d’), contessa, v. Stolberg.
Alberti A.
Alboino, re dei Longobardi.
Alembert (Le Rond d’) J.-B.
Alessandro Magno.
Alessandrini G.
Alfero G. A.
Algarotti F.
Aliprandi G.
Allevi F.
Allodoli E.
Alvarez E.
Alfieri V.
Alighieri D., v. Dante.
Amaduzzi G. C.
Ambrosini L.
Ambrosoli F.
Amoretti G.
Anacreonte.
Ancillon F.
André J.
Andreini G. B.
Anelli A.
Antona-Traversi C.
Antonino Pio, imperatore romano.
Anzilotti R.
Apollinaire G.
Apollonio C.
Apollonio Rodio.
Appiani A.
Appiano.
Appio.
Arborio Gattinara Di Breme L.G.
Arborio Gattinara Di Breme L., v. Di Breme L.
Archimede.
Arconati C.
Arici C.
Arici Z.
Ariosto L.
Aristofane.
Aristotele.
Arnaldo da Brescia.
Arnold B.
Arriano.
Arteaga S.
Artom E.
Augusto, imperatore romano.
Aureliano, imperatore romano.
Aurigemma M.
Aurispa G.
Avitabile G.
Azara (d’).
Azzolina L.
Bacchilide.
Bacone F.
Baffo G.
Balbo C.
Balbo P.
Baldacci L.
Baldi S.
Balduino A.
Bandello M.
Baravelli M.
Barbera P.
Barberini B.
Barbeu-Dubourg.
Barbi M.
Baret F.
Baretti G.
Barlaam.
Barthélemy J. J.
Batillo.
Battaglia S.
Batteux C.
Baumgarten A. G.
Bava di S. Paolo E.
Beauharnais E.
Beaumarchais (Caron de) P. A.
Beccaria C.
Becher-Stowe E.
Bellegarde (von) H. N.
Belli P. (Blanes P.).
Bellini B.
Bellorini E.
Bellotti F.
Bembo P.
Benedetti F.
Benedetto L. F.
Benedetto T.
Bentham J.
Benvenuto da Imola.
Berchet G.
Bernardoni G.
Berni F.
Bertacchini R.
Bertelli I.
Bertoldi A.
Berthollet C. L.
Bertolotti D.
Bertoni G.
Bessarione G.
Bettinelli S.
Bettoni N.
Bezzola G.
Bianchi M.
Bianchini D.
Bianchini F.
Bianconi L.
Bibbiena (Dovizi B.).
Bini V.
Binni W.
Biot G. B.
Blair U.
Blanes P., v. Belli P.
Blücher G. L.
Boccaccio G.
Boccalini T.
Bodoni G. B.
Boileau N.
Boito A.
Bolingbroke (H. St. John di).
Bonaparte E.
Bonghi R.
Bonnet C.
Bonora E.
Borgese G. A.
Borgia S.
Borsieri P.
Bosco U.
Bossi G.
Bossi L.
Botero G.
Botta C.
Bottacchiari R.
Bottari G. G.
Boulanger N. A.
Bouterweck F.
Braga G.
Branca V.
Breislak S.
Breme (di) L.
Broome W.
Breyslac, v. Breislak.
Brumoy P.
Brunacci V.
Brunet.
Bruno G.
Bruto.
Buck A.
Buffon G. L.
Buommattei B.
Buonafede A.
Buonarroti M., v. Michelangelo.
Bürger G. A.
Burke E.
Burzio F.
Bustelli G.
Bustico G.
Byron G.
Cabanis P.-J.-G.
Cavalca D.
Caccia N.
Calcaterra C.
Cajumi A.
Calderón de la Barca P.
Caleppio T.
Callimaco.
Calliergi Z.
Calzabigi (de’) R.
Camerana G.
Camillo.
Camoens (de) L. V.
Campbell T.
Camporesi P.
Canova A.
Canova G. B.
Cantú C.
Capone Braga G.
Caporali A.
Capponi G.
Cappuccio C.
Caracci (famiglia di pittori).
Cardano G.
Carducci G.
Caritone Afrodiseo.
Carli G. R.
Carlo Magno.
Carlo V, re di Spagna, imperatore di Germania.
Carlo Alberto, re di Sardegna.
Caro A.
Cartesio R.
Carutti D.
Cassio.
Cassini D.
Castelli B.
Castelvetro L.
Casti G. B.
Castiglione B.
Caterino P.
Catone M. P.
Cattaneo G.
Cattaffio Pianchiano, v. Valeresso.
Catullo.
Cavalca D.
Cavalieri B.
Cavour C.
Cecchi E.
Cecilio da Calatte.
Cellini B.
Cento A.
Cesalpini A.
Cesare, Caio Giulio.
Cesari A.
Cesarotti M.
Cessi C.
Chalmers.
Chapman G.
Chiabrera G.
Chiari P.
Ciavi V.
Ciavarella A.
Cicerone M. T.
Cicognara L.
Cieco da Ferrara.
Cigna F.
Cimabue.
Cinna.
Cinonio, v. Mambelli M.
Citanna G.
Clerici E.
Codignola A.
Codignola E.
Colajacomo C.
Collino L.
Colombo C.
Colonia (de) D.
Colonna V.
Colpan G.
Columella.
Comes N., v. Conti (de’) N.
Compagni D.
Compagnoni.
Cordaro C.
Condillac (Bonnot de) E.
Condorcet (Caritat de) M.-J.-A.-N.
Confalonieri F.
Congreve W.
Consoli D.
Constant B.
Conti (de’) G.
Conti (de’) N.
Cooper W. J.
Copernico N.
Cordié C.
Cordo C.
Corelli A.
Corneille P.
Cornelio T.
Corniani G. B.
Correggio (Allegri A., detto il).
Corticelli S.
Cosmo U.
Costa P.
Costantino, imperatore romano.
Costanzo, imperatore romano.
Costantini S.
Coupland R.
Courten (de) C.
Crescimbeni G. M.
Crescini V.
Crisolora M.
Croce B.
Croce G. C.
Cudworth R.
Cunich R.
Cuoco V.
Custodi P.
Cuvier G.
Dandolo V.
Daniello B.
Dante.
Da Ponte L.
Da Prati P.
Davanzati B.
Davila C.
Davy U.
Debyser F.
De Castro G.
De Cristoforis G. B.
Degerando G.
Delambre J. B.
Delille J.
Della Casa G.
Dell’Aquila M.
Della Salandra Serafino.
De Lollis C.
De Marchi F.
De Marini G.
De’ Medici C. il Vecchio.
De’ Medici L.
Democrito.
Demostene.
Denina C.
Derla L.
De Robertis G.
De Rossi B.
De Rossi G. B.
De Rossi G. G.
De Sanctis F.
Desaugiers M. A.
De Say G. B.
Descartes R., v. Cartesio.
Desmarais F. S.
Destutt de Tracy A.
Diacono P.
Diderot D.
Didimo Alessandrino.
Dione C.
Dionigi d’Alicarnasso.
Di Pino G.
Di Rocca J.
Domenichi L.
Dominis (De) M. A.
Don Santigliano, pseudonimo di L. Di Breme.
Dovizi B., v. Bibbiena.
Dryden J.
Dumarsais (Chesneau) (Du Marsais, Du Marset) C.
Dumont E.
Dupuis C. F.
Dussault J. J.
Fabronio A.
Falletti G. O.
Falletti O. A.
Farinelli A.
Fattorello F.
Fauriel C.
Fea C.
Federici C.
Felicita d’Este.
Fellemberg F. E.
Fenélon F.
Fenton E.
Ferdinando I d’Asburgo.
Ferdinando VII, re di Spagna.
Ferguson A.
Fermi S.
Ferrario V.
Festino N.
Fichte J. G.
Ficino M.
Fidia.
Filangieri G.
Filelfo F.
Filicaia (da) V.
Filippo II, re di Spagna.
Filippo II, governatore delle Fiandre.
Filone Giudeo.
Fingal.
Firenzuola A.
Firmiano L.
Flora F.
Florescu V.
Fogliani Sforza C.
Fontani F.
Fontenelle (Le Bouvier de) B.
Fornari S.
Forti F.
Foscarini.
Foscolo U.
Fracastoro G.
Francesco I, imperatore.
Franchi Di Pont G.
Franklin B.
Frontone C.
Frye N.
Frugoni C. I.
Fubini M.
Gabetti G.
Gajetti V.
Galilei G.
Gallavresi G.
Galletti A.
Gallioli M.
Gama (da) V.
Gamba B.
Gambara V.
Gambaro A.
Garcí-Ordoñez de Montalvo.
Gasparetti A.
Gatta L.
Gay-Lussac L.
Gellio A.
Gennari G.
Gentil de (Chavagnac de) M. G.
Gentile G.
Gentili P. G.
Genovesi A.
Geoffroy J. L.
Gessner S.
Gesualdo G. A.
Gherardini C.
Gherardini G.
Ghio G. B.
Giacomelli M. A.
Giamboni Bono.
Gambullari P. F.
Giannessi F.
Gibbon E.
Ginguené P. L.
Gioberti V.
Gioia M.
Giordani P.
Giordano da Rivalto.
Giorgio da Trebisonda.
Giovanni Fiorentino.
Giotto.
Giovanni Paleologo, imperatore.
Giovanni (de).
Giovenale.
Girardelli T.
Giuliano, imperatore romano.
Giulio Valerio.
Giusti G.
Giustiniano, imperatore romano.
Gluck C. W.
Gobetti P.
Goethe W.
Goldoni C.
Gori A. F.
Gozzano G.
Gozzi C.
Gozzi G.
Gracco, Caio.
Graf A.
Grassi G.
Grassi S.
Gray T.
Gravina V.
Gregorio XVI, papa.
Grossi T.
Guarini B.
Guasco di Castelletto.
Guastalla, principe di.
Guicciardini F.
Guidi A.
Guido degli Anastagi.
Guillon A.
Guittone d’Arezzo.
Gustarelli A.
Hackelberg (von) H.
Haym R.
Hazard P.
Heeren A.
Hegel G. W. F.
Helvétius C. A.
Hemsterhuys F.
Herczeg G.
Herder G. G.
Heyne C. G.
Hume D.
Igino C. G.
Imbriani V.
Innamorati G.
Ippocrate.
Irving D.
Isella D.
Iseo.
Jacobi F. E.
Jacopone da Todi.
James G. P. R.
Janin A.
Jannaco C.
Jeffrey F.
Jenni A.
Jovine F.
Kant I.
Kardos T.
Kauchtschischwili Melzi d’Eril F.
Klopstock F. G.
Krabe (Crabbe) G.
Krömer W.
Napione G.
Napoleone I Bonaparte.
Napoli Signorelli P.
Natali G.
Nava G.
Negri P.
Necker (de Saussure) G.
Nelson H.
Nelvil O.
Neri F.
Nerone, imperatore romano.
Nervi A.
Nesti F.
Newton I.
Niccolini G. B.
Nicolini G.
Niebuhr B. G.
North F.
Novati F.
Numa Pompilio.
Omar, califfo.
Omero.
Onorati Columella N.
Orazio.
Oreglia d’Isola A.
Oriani B.
Orioli G.
Ornato L.
Orosio P.
Orsini Lalli M. L.
Ortolani G.
Ossian.
Ottaviano, v. Augusto.
Ovidio.
Pacini G.
Pagano M.
Paisiello G.
Paladino V.
Paleario A.
Palladio A.
Palomba G.
Paoli D.
Paoli S.
Paolo (S.).
Paolo V, papa.
Paradisi A.
Parini G.
Parny E.
Pascal R.
Paschoud J.-J.
Pascucci I.
Passanisi M.
Passavanti J.
Passeroni G. C.
Pecchio G.
Pecoraro M.
Pellandi Fiorilli A.
Pellegrini C.
Pellico L.
Pellico S.
Pellier A.
Pepoli C.
Perale G.
Pergolesi G. B.
Pericle.
Perticari G.
Pesenti A.
Petrarca F.
Petrini E.
Petrocchi G.
Petronio G.
Peyron A.
Pezzana A.
Pezzi F.
Piazzi G.
Piccioni L.
Piemontese F.
Piergili G.
Pietro I il grande, zar di Russia.
Pietro d’Alfonso.
Pietro Eremita.
Pinchetti G.
Pindaro.
Pindemonte G.
Pindemonte I.
Pio VII, papa.
Pio IX, papa.
Pirandello L.
Piranesi G. B.
Pirotta.
Pisani V.
Pisone.
Pitt W.
Platone.
Plauto.
Pletone G. G.
Plinio.
Plotino.
Plutarco.
Poerio.
Poliziano A.
Pomba G.
Pompeati A.
Pompeo Gneo.
Pomponazzi P.
Pontano G.
Pontieri E.
Ponziglione A.
Pope A.
Popelinière.
Porfirio.
Porro Lambertenghi L.
Porta A.
Porta C.
Porsenna.
Portinari F.
Praga E.
Prassitele.
Prati G.
Predari F.
Prévost P.
Priestley J.
Prina G.
Prisciano di Cesarea.
Profeti M. G.
Properzio.
Provana di Collegno G.
Pulci L.
Puppo M.
Quadrio F. S.
Quatremère de Quincy A.-C.
Quinault P.
Quintana M. J.
Quintiliano.
Rabelais F.
Racine J.
Raffaello.
Ragonese G.
Rajna P.
Ramat R.
Rasori G.
Regis P.
Reid T.
Renier R.
Ressi A.
Rezzonico (C. Castone della Torre di).
Riccardo III, re d’Inghilterra.
Richardson S.
Ridolfi A.
Ridolfi C.
Robbio di San Raffaele B.
Roberti M.
Robertson J. G.
Robertson W.
Rodolico N.
Roero di Revello, conte.
Rolla A.
Rolli P.
Rollin C.
Romagnosi G. D.
Rondinetti L.
Roscoe W.
Rosmini A.
Rossi P.
Rossi T.
Rossi di Vandorno (o Vandormo) F.
Rossini G.
Rota E.
Rousseau J. J.
Rovani G.
Ruggieri R. M.
Ruscelli.
Russo.
Rutzvanscad.
Sacchi D.
Saffo.
Saint-Chamans A.
Saint-Réal, v. Vichard.
Sainte-Beuve C.-A.
Salfi F.
Salmasio.
Saluzzo (di) D.
Salviati L.
Salvini A. M.
Sannazzaro J.
Sannoner A.
Sansone M.
Santarosa (di) S.
Sanvisenti B.
Sapegno N.
Sardagna G.
Sarpi P.
Sauli G.
Saurau F.
Saurau (Lodrone) A.
Saussure (de), v. Necker.
Savioli L.
Scarpa A.
Schanzer A.
Scheele C. W.
Sheridan B. R.
Scherillo M.
Schiller F.
Schlegel A. W.
Schlegel F.
Scoto Duns.
Scott W.
Scotti M.
Seneca L. A.
Senofonte.
Seroni A.
Séroux d’Agincourt G.
Serret J. A.
Serristori L.
Sévigné (De) M.me.
Sevelinges (De) M.me.
Sforza G. M.
Shakespeare W.
Sheridan B. R.
Simmaco A. Q.
Simonide.
Simonis M.
Sioli Legnani E.
Sismondi S.
Smith A.
Smith J.
Soave F.
Socrate.
Sofronisco.
Sofocle.
Solone.
Somis G. B.
Sòriga R.
Sozzi B. T.
Spallanzani L.
Speroni S.
Spinoza B.
Staël (De) M.me.
Stahl G. E.
Stay B.
Stazio.
Stefani G.
Stefano (S.).
Stellini J.
Stendhal (Beyle H.).
Stewart D.
Stigliani T.
Stolberg F. L.
Stolberg K.
Stolberg L., contessa d’Albany.
Strassoldo, conte.
Strich F.
Strocchi D.
Strozzi ab.
Sulzer G. G.
Svevo I.
Swift J.
Tacito.
Talma F. G.
Tana A.
Tarchetti I. U.
Targioni G.
Tartini-Salvatici F.
Tasso B.
Tasso T.
Tedaldi-Fores C.
Telesio B.
Temistio.
Temistocle.
Teniers D.
Teocrito.
Teodoro di Gadara.
Terenzio.
Thenard L. G.
Thomson G.
Tibullo.
Ticozzi S.
Tieghem (van) P.
Timpanaro S.
Tiraboschi G.
Tirteo.
Tiziano.
Tolomeo.
Tolstoj L.
Tommaseo N.
Torraca F.
Torricelli E.
Torti G.
Toscanella O.
Traiano, imperatore romano.
Trissino L.
Trissino G. G.
Trompeo P. P.
Turamini A.
Ugoni C.
Ulfila.
Valeresso Z.
Valeriani L. D.
Valerio Giulio.
Valletta G.
Vallisnieri A.
Vallone A.
Valmont.
Valperga di Caluso T.
Van Nuffel R. O. J.
Varano A.
Varchi B.
Varese C.
Vassalli Eandi A. M.
Vastry (barone di).
Vauban S.
Vauquelin N. L.
Vega (de) L.
Vegezio.
Veillard.
Vellutello A.
Veneziano P. V.
Venini I.
Verdi G.
Verga E.
Vernazza G.
Verona A.
Verri A.
Verri C.
Verri P.
Vestri L.
Vianello N.
Viani G.
Vichard C., ab. di Saint-Réal.
Vico G. B.
Vida G.
Vidari G.
Viganò S.
Villa A. T.
Villevieille (di) L.
Vincent E. R.
Vinciguerra M.
Virgilio.
Visconti E.
Visconti E. Q.
Visconti G. B.
Volta A.
Voltaire (Arouet F.-M.).
Voss J. H.
Wallenstein (von) A. W. E.
Washington G.
Webb D.
Wellington (Wellesley A., ducadi).
Wieland C. M.
Wilberforce W.
Winckelmann J. J.
Wolf F. A.
Wolff F. C.
Yalden T.
Young E.
Zaiotti P.
Zambaldi A.
Zazo A.
Zeno A.
Zilversmit A.
Zingarelli N.
INDICE DELLE TAVOLE
Ludovico Di Breme
Pietro Borsieri
Giovanni Berchet
Lettera circolare del «Conciliatore» con firme autografe del Di Breme, del
Berchet e del Pellico
Adeodato Ressi