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Paolo E.

Balboni B2-C2

Testi di approfondimento
Questi approfondimenti sono dedicati a chi, interessato o incuriosito, vuole sapere qualcosa di più sul
contesto storico, sui movimenti letterari, sui singoli autori della letteratura italiana.
Gli approfondimenti sono tutti presi da testi disponibili in internet, in gran parte pensati come riferimento
per studenti italiani: quindi coetanei degli studenti stranieri che usano questo manuale. In queste pagine,
però, i testi originali sono adattati: da un lato, siamo intervenuti semplificando la lingua, dall’altro, li
abbiamo tagliati per lasciare solo le informazioni principali. Il link al testo originale, tuttavia, permette a
chi lo desidera di andare alla fonte e di approfondire ulteriormente.

Collana cultura
italiana
Indice
Capitolo 1 | Duecento e Trecento Capitolo 5 | L’Ottocento verista,
1. Dal latino al volgare scapigliato, decadente
2. La poesia religiosa del Duecento 27. La Scapigliatura
3. Il dolce stil novo 28. Il Verismo
4. L’aspetto religioso e filosofico nella Divina Commedia 29. Decadentismo, Estetismo e Parnassianesimo
5. La concezione politica di Dante
6. Ideologia e poetica di Petrarca Capitolo 6 | Il primo Novecento
7. L’orizzonte culturale e la visione del mondo di 30. Le avanguardie in Italia ed Europa
Boccaccio 31. Il culto della bellezza nel XIX-XX secolo
32. Il superuomo dannunziano
Capitolo 2 | Quattrocento e Cinquecento 33. Luigi Pirandello, la vita reale e la “forma” in cui ci
8. La corte di Lorenzo il Magnifico appare
9. Alla ricerca dei classici 34. L’Ermetismo, tra analogia e sinestesia
10. Machiavelli e Guicciardini a confronto
11. Il poema cavalleresco Capitolo 7 | Il secondo Novecento
12. Il cortigiano secondo Castiglione 35. Il Neorealismo tra letteratura e cinema
13. La ‘questione della lingua’ nel Rinascimento 36. Moravia e il cinema
14. La cultura della Controriforma 37. Gadda, l’italiano e i dialetti
38. Il Gattopardo, da romanzo ‘di destra’ a film ‘di
Capitolo 3 | Seicento e Settecento sinistra’
15. Il mondo barocco 39. Scrittrici che hanno dato voce al mondo femminile
16. Il Vocabolario dell’Accademia della Crusca 40. Eduardo De Filippo, Napoli e la sua lingua
17. Le origini del melodramma 41. Le ‘sei lezioni’ di Calvino
18. Dei delitti e delle pene 42. Moravia su Pasolini
19. La riforma teatrale di Goldoni 43. Dario Fo, un insensato di genio
44. Alda Merini
Capitolo 4 | L’Ottocento Romantico 45. La nascita della canzone d’autore

20. Romanticismo e Risorgimento


Capitolo 8 | Tra Novecento e Duemila
21. Ugo Foscolo, tra Illuminismo e Romanticismo
22. Foscolo rivoluzionario 46. Il giallo all’italiana e la tradizione del melodramma
23. Leopardi politico 47. Una letteratura “millennial” per i “millennial”
24. Leopardi filosofo
25. Il pensiero di Manzoni sulla nazione italiana
26. Verdi e il Risorgimento
Capitolo 1

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Dal latino al volgare

Testi di approfondimento
Dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente nel 476 d.C., l’antica unità linguistica dell’Europa scompare e il latino,
che fino a quel momento accomuna gran parte d’Europa, si divide in una quantità di lingue dette “volgari”, perché par-
late dal “volgo” (il popolo non istruito).
In realtà già ai tempi dell’Impero il latino parlato dalla popolazione aveva avuto un processo di regionalizzazione, dif-
ferenziandosi nella pronuncia e nella grammatica da zona a zona, e mano a mano che l’unità politica e amministrativa
rappresentata dall’Impero decade diventa naturale che le varie forme di latino “regionale” diventino sempre più diverse,
dando origine a delle lingue nettamente diverse.
Questi volgari sono oggi definiti “neolatini” o “romanzi”.
Le lingue romanze più importanti nel Medioevo sono
a. l’italiano, in realtà un insieme di molti ‘dialetti’, diversi da città a città,
b. la lingua d’oïl parlata nella Francia del Nord,
c. la lingua d’oc o provenzale parlata nella Francia del Sud,
d. il castigliano e il gallego-portoghese nella penisola iberica,
e. il rumeno.
Il latino non esiste più come lingua parlata da madrelingua, ma sopravvive come lingua scritta e nella letteratura latina
medievale, soprattutto nell’insieme di testi prodotti dalla Chiesa occidentale (quella Orientale usa il greco) e di argo-
mento prettamente religioso e filosofico. È una letteratura diversa da quella classica di Roma antica e prosegue almeno
fino al XV secolo, affiancandosi alla letteratura volgare che nasce già nel Duecento. La letteratura latina medievale ha
carattere europeo, perché accomuna gli autori di tutto il continente, quasi tutti membri della Chiesa, che sono in grado
di capirsi scrivendo e parlando in latino, mentre nella vita quotidiana e nella predicazione parlano normalmente il vol-
gare; diversamente dalle prime letterature volgari, la letteratura latina della Chiesa non è quindi legata a nessun popolo
in particolare, essendo in realtà la letteratura del “popolo di Dio”.

Adattato da Letteratura italiana,


<https://letteritaliana.weebly.com/le-origini.html>

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Capitolo 1

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La poesia religiosa del Duecento
La letteratura italiana nasce agli inizi del Duecento in un contesto politico e linguistico molto diviso, ma con una solida
base culturale che ha i suoi punti di riferimento nella tradizione classica, in quella latina medievale e nell’esperienza
letteraria che già si stava sviluppando in Francia, soprattutto con le chansons de geste (che raccontano le imprese dei
cavalieri di Re Artù o di Carlo Magno) e con la poesia provenzale, del sud della Francia.
Per questo motivo la letteratura italiana nasce con dei modelli culturali già stabiliti, ma con la consapevolezza che il
linguaggio usato è solo uno dei dialetti regionali presenti nella penisola. La lingua fiorentina diventerà lingua nazionale
solo dopo le esperienze letterarie di Dante, Petrarca e Boccaccio.
Per comprendere la letteratura italiana dei primi secoli è necessario partire dalla mentalità e dalla visione del mondo
dell’uomo medievale, centrate su Dio: tutti i settori del sapere sono subordinati alla teologia, il tema religioso è prima-
rio, anche se si parla di letteratura religiosa quando il fine religioso è esclusivo.
Questo accento sulla religiosità diminuisce l’interesse per la vita terrena, il mondo è quasi un ostacolo alla salvezza, e
si arriva ad un vero e proprio disprezzo della vita terrena.
Questo è un atteggiamento presente in molte opere religiose del Medioevo, tra cui le più conosciute sono il De contemptu
mundi (‘Sul disprezzo del mondo’) di papa Innocenzo III (fine del XII secolo) e l’opera letteraria di Iacopone da Todi,
seconda metà del Duecento.
All’interno del Medioevo nasce, comunque, anche un altro atteggiamento nei confronti del mondo: tutto ciò che è ter-
reno ci ricorda la potenza e la bontà di Dio come, ad esempio, in san Francesco e in Dante.
Un’altra conseguenza della mentalità medievale è la visione simbolica del reale: ogni cosa non ha solo valore in sé, ma
spinge il pensiero verso qualcosa di più alto, in un misterioso progetto che ha il suo fine in Dio.
Tutta la letteratura del Medioevo è caratterizzata da questa mentalità e da questa visione del mondo, che si può esprime-
re in maniera diversa ed in differenti forme letterarie, come ad esempio nei più significativi rappresentanti della poesia
religiosa del Duecento: san Francesco d’Assisi e Iacopone da Todi.

Adattato da La poesia religiosa del Duecento,


<http://www.unistrada.it/docenti/LinguaItaliana/14/MaterialeDidattico/7/Dispensa%20di%20Letteratura%20italiana.pdf>

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Capitolo 1

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Il dolce stil novo

Testi di approfondimento
Tendenza poetica diffusa in Toscana tra la seconda metà del 13° e l’inizio del 14° secolo, così chiamata dalla critica
moderna sulla base di versi di Dante (Purgatorio, XXIV, 49-62).
Il principale argomento poetico del Dolce Stil Novo è l’amore, sia come momento sentimentale, sia come meditazione
sulla sua natura filosofica e sui suoi effetti nell’anima, nel corpo e, soprattutto, sulle conseguenze morali.
Di fatto, la principale novità della nuova poesia è stilistica e consiste nella dolcezza, che per Dante è dolcezza di suono,
da ottenere con la scelta accurata delle parole, con la loro semplice collocazione, con il rifiuto di suoni duri, di forme
complicate, cioè il rifiuto dello stile di Guittone d’Arezzo che, maestro ammirato della precedente generazione, è il ber-
saglio degli stilnovisti.
Meno chiara è la novità contenutistica: si parla un amore diverso dal piacere sensuale, ma ciò non basta a distinguerli
dai predecessori, perché anche loro consideravano l’amore come segno di nobiltà spirituale e mezzo di ulteriore perfe-
zione.
Un altro tema centrale nel secondo Duecento e nel primo Trecento è la natura della ‘nobiltà’, che non dipende più dall’an-
tichità della famiglia ma deriva dalla nobiltà delle opere individuali: la canzone di Guinizzelli considerata il manifesto
della nuova scuola poetica mostra già nel suo primo verso, Al cor gentil rempaira [ritorna] sempre Amore, dove ‘gentile’
è sinonimo di ‘nobile’ nel nuovo significato – e l’amore è segno di nobiltà, della vera nobiltà: «Amore e ’l cor gentil sono
una cosa», ripete Dante in un suo sonetto: l’amore fa emergere la nobiltà che in un cuore gentile, cioè nobile, non manca
mai; in altri termini, l’amore è visto come il desiderio di migliorare.
La donna quindi è ‘angelicata’, è un angelo non nel senso generico della parola, ma nel senso tecnico della filosofia re-
ligiosa di San Tommaso, secondo la quale gli angeli uniscono Dio e l’uomo. In tal modo, nel clima bolognese fiorentino,
laico ma sempre preoccupato del problema religioso, si risolve il contrasto tra l’amore come segno di altezza spirituale
e l’amore condannato dalla religione come peccato: una moralità nata dall’amore è la guida più sicura per arrivare a Dio,
perché è Dio che l’ha voluta.

Adattato dalla voce Il dolce stil novo dell’Enciclopedia Treccani,


<http://www.treccani.it/enciclopedia/stil-novo/>

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Capitolo 1

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L’aspetto religioso e filosofico nella Divina Commedia
La Divina Commedia rappresenta da sempre un punto d’incontro altissimo tra fede e poesia. Ma la grandezza di Dante
come poeta, la sua capacità di disegnare un universo di sogno potente, dalle mille diverse caratteristiche, non si posso-
no comprendere se non si leggono avendo in mente la dottrina cattolica, cioè le verità in cui crede la Chiesa.
Dante riconosce la massima autorità filosofica ad Aristotele: per Dante, come per il filosofo greco, la filosofia nasce dalla
meraviglia che si prova di fronte alla realtà e si realizza nella ricerca delle cause di ciò che esiste nella realtà. Per Dante,
però, l’aspetto pratico ed etico-politico ha un’importanza molto forte, tanto che lui considera la morale (che indica bene
e male nelle azioni politiche e sociali) come la più alta delle scienze, prima della metafisica e della fisica.
La filosofia muove l’uomo verso la sapienza e deve poter essere compresa da tutti: questo scopo giustifica l’uso del
volgare nel suo poema.
Il campo di indagine di Dante è autonomo rispetto alla teologia, cioè allo studio di Dio: secondo lui, attraverso la filo-
sofia si può raggiungere la felicità razionale, che è una cosa diversa dalla felicità del contatto con Dio, anche se questa
è superiore. C’è una perfetta corrispondenza tra verità cristiana e visione poetica di Dante: la filosofia si indirizza al fine
naturale dell’uomo, la teologia al soprannaturale.
Nella poesia di Dante si fondono filosofia e teologia; prima ancora che poeta, Dante si dimostra uomo di fede profonda,
consapevole che la ricerca appassionata e sincera di Dio trova la sua realizzazione solo all’interno della Chiesa catto-
lica. Dante ha una forte conoscenza della filosofia scolastica (quella di Tommaso d’Aquino), ma anche una conoscenza
enciclopedica che va dai filosofi nord-europei ai filosofi arabi, dai neoplatonici alla ripresa di Aristotele da parte di San
Tommaso, e questo permette all’opera dantesca di riassumere la complessità filosofica del Medioevo, senza che Dante
possa essere collocato all’interno di una specifica scuola, di una specifica tendenza.
Ma allora, come interpretare i suoi attacchi feroci contro la Roma dei papi? Sono attacchi contro la Chiesa di Dio? In
quel tempo c’erano molte cose da rimproverare agli uomini di Chiesa, per cui un animo così religioso come quello di
Dante ne era disgustato. Ma in Dante non scompare mai il rispetto per la Chiesa e per il Papa in quanto ruolo di unione
tra l’umanità e Dio.

Adattato da Quando la poesia diventa teologia: il Vangelo secondo Dante, di Giacomo Galeazzi,
<https://www.lastampa.it/2014/05/04/>

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Capitolo 1

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La concezione politica di Dante

Testi di approfondimento
Come il viaggio filosofico e religioso di Dante va dal basso verso l’alto, così anche la tematica politica va dal piccolo al
grande dall’Inferno fino ad arrivare al Paradiso.
La riflessione politica nell’Inferno riguarda la condizione di Firenze e l’interesse si focalizza su eventi e personaggi pre-
cisi, direttamente conosciuti da Dante, e spesso Dante è coinvolto nella polemica perché è coinvolto nella lotta civile.
Il quadro cambia notevolmente nel Purgatorio: l’invettiva contenuta nel sesto canto passa da Firenze all’intera Italia, si
colpiscono due istituzioni universali, Chiesa e Impero. Infine, in maniera coerente con l’ampio orizzonte del Paradiso,
Dante nel sesto canto delega all’imperatore Giustiniano l’esposizione della concezione storico-politica personale, che
ovviamente rappresenta l’opinione di Dante nei confronti di Firenze, dell’Italia e della storia universale.
Il pensiero di Dante si presenta quindi perfettamente coerente con il contesto letterario in cui è inserito.
Storicamente, Dante vive la crisi politica dell’Impero, che porta il Papato a sostenere i partiti ‘guelfi’ che in ogni Comu-
ne hanno posizioni contrarie a quelle degli imperatori tedeschi. Ai tempi di Dante quasi l’intera Italia è ormai guelfa,
ma all’interno del partito ci sono i Neri, molto legati alla Chiesa, e i Bianchi, rispettosi della Chiesa ma più autonomi.
La vicenda personale di Dante è in gran parte raccontata dal VI canto dell’Inferno. A Firenze, il 1° maggio 1300, i guelfi
Bianchi e i guelfi Neri si scontrano e ci sono vari feriti; per riportare la pace fra i due partiti si decide di mandare in
esilio i capi delle due parti, compreso Dante che ricopre allora la carica di ‘priore’, cioè è un importante funzionario e
politico del Comune. Deve abbandonare la moglie Gemma Donati, i tre figli e ogni cosa cara e incomincia il suo doloroso
vagabondaggio.
Nel racconto dell’imperatore Giustiniano, Dante spiega quello che per lui è il rapporto corretto tra l’autorità laica e quel-
la religiosa, secondo quanto ha già affermato in un testo di riflessione politica, De Monarchia: all’imperatore spetta il
compito di assicurare la felicità terrena, ed è quindi pienamente autonomo nell’amministrazione della giustizia; il Papa
è escluso dal potere temporale e si occupa invece della felicità spirituale dell’uomo. Ovviamente la felicità terrena non
è fine a se stessa, deve mirare a quella eterna e l’Imperatore, pur nell’autonomia, deve al Papa il rispetto che il figlio
deve al padre. È la cosiddetta teoria dei due soli, presentata già nel terzo libro del De Monarchia, che è scritto prima
della Commedia.
Ma c’è un’evoluzione della teoria politica di Dante. Se leggiamo le dichiarazioni messe in bocca a Giustiniano e l’esalta-
zione dell’alta missione storica dell’impero, vediamo chiaramente che anno dopo anno Dante sta abbandonando il partito
guelfo e si avvicina almeno in parte a quello ghibellino, cioè il partito filo-imperiale. Durante l’esilio Dante frequenta i
Comuni ghibellini dell’Italia settentrionale, in particolare Verona, e arriva a chiedere all’imperatore Arrigo VIII di com-
battere contro Firenze dominata dai ‘papisti’, i guelfi Neri. Ma quello di Dante non è un tradimento politico, è piuttosto
la prevalenza della posizione antipapale dopo che a Roma è stato eletto un papa legato al potere temporale, Bonifacio
VIII, che Dante mette all’inferno.

Adattato da <http://spazioinwind.libero.it/terzotriennio/dante/politica.htm>

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Capitolo 1

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Ideologia e poetica di Petrarca
Petrarca non è legato a una corte o una città particolare, quindi abbandona la mentalità locale dei Comuni, la politica
vista come scontro tra partiti interni a una città.
Nato in esilio, vissuto all’estero (Avignone, in Francia, dove si è spostata per 70 anni la sede del papato), ospite di
signori e città diverse senza mettere radici da nessuna parte, libero da preoccupazioni economiche, Petrarca fa politica
senza lasciarsi coinvolgere personalmente negli avvenimenti (anche se è coinvolto emotivamente): compone opere con
cui mostra a città e signori i pericoli delle loro azioni, fa da mediatore in una guerra tra Genova e Venezia, scrive lettere
di consiglio a papi, imperatori, ai dogi veneziani...
Per i suoi contemporanei Petrarca è un uomo colto, saggio, capace di coordinare una vasta rete di letterati e scrittori
italiani e stranieri. Le sue lettere (veri e propri saggi critici) vengono copiate e studiate, e il pubblico al quale si rivolge
è fatto da intellettuali, non dal popolo: le uniche due opere in volgare che scrive sono il Canzoniere e i Trionfi, men-
tre tutte le altre sono scritte in latino ed è solo per queste opere che diventa famoso. A differenza degli scrittori del
‘200, legati all’esperienza comunale, e quindi alle esigenze dei nuovi ceti borghesi di conoscere e di educarsi usando il
volgare, Petrarca vuole parlare a una classe internazionale di intellettuali, politici, funzionari, cioè alla forza dirigente
dell’Impero, della Curia avignonese, delle Signorie che stanno nascendo nei Comuni italiani.
Petrarca considera l’Impero adatto al mondo germanico, ancora primitivo e barbarico, ma non all’Italia: nella canzone
Italia mia esorta i principi e signori italiani a mandare via dall’Italia i soldati tedeschi. Desidera il ritorno della Chiesa
alla purezza evangelica, condannando il potere temporale dei papi, pur essendo favorevole al ritorno della sede papale
a Roma.
In Petrarca è forte anche l’insoddisfazione artistica: ha una tendenza alla perfezione, un animo sensibile e inquieto, e
quindi rivede di continuo le sue opere, a volte per tutta la vita. Questa insoddisfazione si trova, a livello psicologico,
nella sua opera autobiografica più significativa: Secretum. Nel 1336, salendo sul Monte Ventoso in Provenza, ha una
specie di crisi mistica: capisce che l’amore per le cose terrene, per Laura, e l’ambizione artistica, il desiderio di gloria,
lo allontanano dalle cose essenziali, profonde, religiose. Nel libro immagina di parlare con Sant’Agostino, ammettendo la
propria colpa: sente di avere poco entusiasmo nella ricerca del bene e, insieme, di non avere la forza per cambiare vita.
Laura, che in tutti i primi anni della sua attività poetica è il simbolo dell’amore terreno, diventa dopo il 1336 un ele-
mento di tentazione. Petrarca promette a se stesso di dedicarsi a scrivere di Dio, ma cerca inutilmente nella religione
la risposta sia all’insoddisfazione per la sua vita individualistica, da intellettuale borghese e ricco, sia al desiderio di
perfezione morale, di giustizia e di pace, desiderio che sente con intensità e sensibilità.

Adattato da Francesco Petrarca, <http://www.homolaicus.com/letteratura/petrarca.htm>

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Capitolo 1

7
L’orizzonte culturale e la visione del mondo di Boccaccio

Testi di approfondimento
Boccaccio è uomo del Trecento e in quanto tale condivide ancora la mentalità del mondo medievale, anche se in lui
si vedono già i segnali di quella svolta umanistica che maturerà nel secolo: significativo da questo punto di vista è il
rapporto di Boccaccio con la cultura classica, basato sulla sua forte conoscenza del latino e sulla piena comprensione
del significato delle opere scritte prima del cristianesimo, senza accettare la lettura in chiave cristiana che invece è
comune fino al Duecento.
Originale anche la visione che Boccaccio ha della società contemporanea, di cui coglie la trasformazione in senso “bor-
ghese”: apprezza la figura del mercante, che precedentemente veniva condannato dalla morale della Chiesa (in questo
senso il mondo mercantile è ancora criticato nella Commedia), lo vede come attore positivo nella società, come produt-
tore di ricchezza e degno perciò di ampia considerazione.
Boccaccio supera anche la morale tradizionale, esalta il mercante anche quando mente o inganna e questo pensiero
‘laico’ di Boccaccio è uno degli elementi innovatori della sua letteratura, insieme all’esaltazione dell’arte della parola, il
saper parlare efficacemente, anche quando serve per inganni e scherzi.
Nuova e moderna è poi la visione che Boccaccio ha dell’amore e dei suoi aspetti sensuali: se da un lato le sue prime
opere ricordano molto la tradizione cortese e stilnovistica, dall’altro esse esprimono una chiara rivalutazione dell’eros
e dell’amore fisico, non più condannato moralmente, anzi, visto come qualcosa di assolutamente naturale e impossibile
da combattere, anche per gli uomini di Chiesa.
Legata in parte a questo aspetto è anche la polemica anti-ecclesiastica di Boccaccio, che riguarda specialmente la cor-
ruzione della corte papale, anche se il tema è meno frequente rispetto a Petrarca. Nella crisi religiosa degli ultimi anni
di vita, Boccaccio si avvicinerà all’atteggiamento tormentato e pieno di dubbi proprio di Petrarca.
Boccaccio è innovatore anche nel rapporto con la tradizione letteraria: da un lato, si dedica alla prosa e alla narrativa,
ed è il primo autore volgare di una certa importanza che si occupa prevalentemente di questo genere; dall’altro, contri-
buisce a creare nuovi generi poetici, come ad esempio la raccolta di novelle inserite in una cornice narrativa.
L’ispirazione della sua opera viene soprattutto dai testi della letteratura latina più vicini ai suoi interessi, ma la trama di
alcune novelle rimanda a testi di derivazione araba, e questo lo porta spesso ad una visione positiva dell’Islam, segno
della modernità dell’autore.

Adattato da Letteratura italiana, <https://letteritaliana.weebly.com/giovanni-boccaccio.html>

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Capitolo 2

8
La corte di Lorenzo il Magnifico
Nel 1469 Lorenzo de’ Medici, detto il Magnifico, succede al padre Piero nell’amministrazione di Firenze, che ha un ruolo
centrale nella vita politica e culturale nella seconda metà del Quattrocento. A Firenze vengono artisti, letterati e uma-
nisti impegnati nello studio della cultura classica, viene inoltre fondata una scuola filosofica che riprende il pensiero di
Platone e il platonismo del mondo classico e che ha in Marsilio Ficino il suo animatore. Lorenzo però sostiene anche la
tradizione comunale e la letteratura in italiano.
Lorenzo de’ Medici si interessa personalmente di letteratura da quando aveva 20 anni, prima di ereditare il potere dal
padre; per quanto gli è possibile, anche durante l’amministrazione della città, per tutta la sua vita si dedica a comporre
poesia. Lorenzo non si limita quindi a proteggere artisti e letterati: è un letterato lui stesso.
La sua produzione letteraria è varia e dimostra grande capacità di spaziare tra diversi stili e generi: Lorenzo scrive poesia
ispirata al Petrarca, ma anche poesia comica e satira. Verso la fine della sua vita, ha delle inquietudini religiose e si
dedica quindi ad alcune opere di letteratura religiosa popolare, componendo alcune laude, cioè poesie religiose.
Lorenzo de’ Medici raccoglie attorno a sé un gruppo di poeti e umanisti: molti di questi si dedicano alla letteratura in
volgare, come ad esempio il principale poeta ‘tradizionale’ del secolo, Poliziano, e il principale poeta giocoso, comico,
satirico, Pulci: entrambi sono suoi amici intimi. E suoi amici sono anche alcuni filosofi, da Pico della Mirandola, noto
per la sua sconfinata conoscenza del mondo classico, a Marsilio Ficino, un filosofo che riprende Platone ed ha molta
influenza sulla vita e sulla politica di Lorenzo.
Lorenzo ama anche le arti visive: chiama alla sua corte, quando sono ancora adolescenti, Leonardo e Michelangelo, due
di una grande quantità di artisti che frequentano la corte e per i quali Lorenzo non solo fornisce il denaro necessario
alla vita quotidiana, ma paga anche i blocchi di marmo da scolpire, i colori per dipingere e le lezioni dei grandi maestri
fiorentini.
Palazzo Medici, ma anche tutta Firenze, ha in questi venti anni una concentrazione di lavoro intellettuale e artistico
come poche volte si è visto nella storia dell’umanità.

Adattato da Storia della letteratura italiana,


<https://it.wikibooks.org/wiki/Storia_della_letteratura_italiana/La_corte_di_Lorenzo_il_Magnifico>

10
Capitolo 2

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Alla ricerca dei classici

Testi di approfondimento
Il XIV secolo è caratterizzato da un movimento letterario che prende il nome di umanesimo dallo studio delle umane
lettere, cioè della letteratura e della filosofia. Spesso si usa anche la parola Rinascimento, per indicare la ‘rinascita’
dell’antichità greca e romana, ma molti storici fanno notare che il rapporto con i classici non era mai morto, attraverso
il Medioevo, così come non era morta la lingua latina; era morto il mondo pagano e si era indebolito lo studio della
letteratura latina, anche perché molti volumi erano ‘persi’ nelle biblioteche dei monasteri.
Fin dalla seconda metà del Duecento, però, si sente il bisogno di conoscere un po’ di più le letterature classiche e di
imitare le loro forme. Sono solo tentativi, e dovrà passare ancora un secolo prima che l’amore per lo studio degli antichi
divenga, per opera del Petrarca e del Boccaccio, una passione più generale e dia il via a ricerche e ad un lavoro serio.
Nella prima metà del Quattrocento gli studiosi cercano nelle biblioteche e nei conventi, e scoprono ‘codici’, antichi
volumi pieni di polvere, spesso molto rovinati dagli insetti che mangiano la carta. Questi manoscritti vengono copiati
per poterli far conoscere, ma spesso i copisti, che capiscono poco di quello che copiano, fanno errori gravi. I volumi
vengono studiati, corretti, commentati; ogni scoperta, per gli intellettuali umanisti ha l’importanza di un avvenimento
indimenticabile.
Coluccio Salutati scopre e divulga le lettere Ad familiares di Cicerone; Luigi Marsili fa stupire tutti con la sua profonda
conoscenza della letteratura latina; Niccolò Niccoli consuma tutta la sua ricchezza comprando rarissimi codici; Poggio
Bracciolini scopre molti testi di Cicerone, Plauto, Stazio, Quintiliano, ma soprattutto il De rerum natura, di Lucrezio:
secondo molti, la scoperta del poema di Lucrezio è il momento della grande svolta dal mondo antico a quello moderno,
perché dimostra che nell’antichità c’erano già intellettuali atei, che credevano in un mondo fatto di atomi, e che quindi
l’imitazione del mondo classico poteva seguire anche questa via.
Molti studiosi vanno in Oriente per imparare il greco e cercare volumi: Guarino Veronese resta cinque anni a Costan-
tinopoli, Giovanni Aurispa torna dalla capitale bizantina con trecento codici, Giovanni Filelfo torna dalla Grecia con
molti manoscritti. Le traduzioni fanno conoscere la letteratura greca in Italia e rapidamente l’amore per lo studio delle
letterature classiche diventa una moda. Gli umanisti cercano di imitare gli autori classici scrivendo opere nella lingua
dell’antica Roma, che usano con grande padronanza. Ma se nei trattati, cioè in quelli che oggi chiamiamo ‘saggi’, l’uma-
nesimo dà molti frutti, nella sua produzione artistica in latino è molto povero. I poeti provano a scrivere poesia epica
come Omero e Virgilio, ma producono poemi noiosi, privi di movimento e di colore.

Adattato da <http://www.storiologia.it/lettere/lettere9bis.htm>

Testi di approfondimento al volume Letteratura italiana per stranieri di P.E. Balboni, Edizioni Edilingua, www.edilingua.it 11
Capitolo 2

10
Machiavelli e Guicciardini a confronto
Machiavelli e Guicciardini sono due storici e teorici della politica nel momento del massimo splendore di Firenze. Sono
due vite parallele, in parte simili in parte diverse, e hanno molte idee comuni e molte opposte.
Anzitutto, le loro storie di vita sono diverse:
- Machiavelli viaggia molto per tessere la tela internazionale dei Medici, ma non è un diplomatico, mentre Guicciardini
entra nella carriera diplomatica come ambasciatore dei Medici presso Ferdinando il Cattolico;
- Machiavelli è segretario della Signoria, ma presto rompe i rapporti con i Medici, mentre Guicciardini è governatore
di Modena, Reggio e Parma, Presidente della Romagna e luogotenente delle truppe pontificie e fiorentine. Nella vita,
dunque, Guicciardini dimostra di sapersi adattare meglio ai continui cambiamenti di alleanze e di influenze.
Veniamo alle idee:
- Machiavelli vede nella storia il ripetersi di scelte e risposte a situazioni già presenti nel passato: lo studio del passato
aiuta a capire e a gestire il presente attraverso il principio di ‘imitazione’ dei grandi del passato, che hanno saputo
sfruttare abilmente la fortuna, come occasione per dar modo alla loro azione politica di avere risultati;
- per Guicciardini non esistono modelli di azione da imitare in ogni tempo. Vale solo l’esperienza di ogni singolo uomo
politico: il passato non si ripresenta nel presente nelle stesse forme. L’uomo non può semplicemente imitare le azioni
degli uomini politici di altri tempi.
La grande differenza comunque sta nell’oggetto profondo della loro ricerca. Anche se entrambi parlano delle diverse
forme di Stato e della natura dei capi degli stati, il loro punto di vista è diverso:
- Machiavelli scrive opere di analisi politica di tipo scientifico, anche quando lo fa in volumi dedicati alla storia romana
o fiorentina: il suo interesse centrale riguarda i grandi problemi legati alla formazione e al mantenimento degli stati;
- Guicciardini è soprattutto uno storico: analizza con spirito critico gli avvenimenti legati alla fine della libertà italiana
a causa delle invasioni straniere, parla delle grandi personalità che, secondo lui, sono le vere protagoniste della storia,
ma non produce teorie generali sullo Stato, non crede che l’Italia potrà unificarsi (a differenza di Machiavelli) dopo la
morte di Lorenzo de’ Medici, ancora giovane.

Adattato da Roberto Crosio, Machiavelli e Guicciardini a confronto, in


<http://www.roberto-crosio.net/didattica_in_rete/mach_guicc.htm>

12
Capitolo 2

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Il poema cavalleresco

Testi di approfondimento
Il precedente più lontano di questo genere letterario è rappresentato dall’epica classica (èpos in greco significa “narra-
zione”), come l’Iliade, l’Odissea di Omero e l’Eneide di Virgilio.
Nel Medioevo europeo nasce l’èpos cavalleresca, i cui protagonisti sono cavalieri della nobiltà feudale che difendono la
fede insieme con i valori guerreschi della società feudale: l’esempio più significativo è La Chanson de Roland, scritta
intorno alla prima crociata, che racconta la storia di Orlando, il famoso cavaliere di Carlo Magno, e la sua morte a Ron-
cisvalle, nella guerra dei Franchi per liberare la Spagna dai musulmani: Orlando diviene un personaggio chiave in molte
opere successive.
Le storie dei cavalieri di Carlo Magno, i ‘paladini’, hanno un’ampia diffusione popolare attraverso i ‘cantari’, narrazioni
in versi spesso accompagnati dalla musica, diffusi da poeti popolari, i ‘giullari’, che recitano nelle piazze o lungo le vie
dei pellegrinaggi verso i luoghi sacri della cristianità.
Sul finire del Quattrocento, il volgare, trascurato dagli umanisti, torna a essere usato come lingua letteraria, e la mate-
ria cavalleresca medievale torna come oggetto di poesia d’arte, particolarmente nei circoli culturali presso la corte dei
Medici a Firenze e degli Estensi a Ferrara.
La strada viene aperta da Luigi Pulci, a Firenze, che compone Morgante (1461-1483), raccontando la guerra tra Franchi
e Musulmani in modo comico e satirico: Morgante è il nome dello scudiero [un servo che aiuta il signore ad indossare la
corazza, gli prepara le armi e il cavallo, ecc.] di Orlando e, attraverso i suoi occhi, vengono presi in giro i valori della
cavalleria.
Dopo di lui, a Ferrara, Orlando innamorato (1476-1491) di Matteo Maria Boiardo focalizza il tema amoroso e dà il
nuovo modello di poema cavalleresco. In questo poema l’eroe è innamorato di Angelica, figlia del Re del Katai (Cina),
e l’antica materia epico-religiosa diventa secondaria, mentre entrano elementi magici, fantastici e soprattutto il centro
dell’interesse diventa l’amore. Orlando innamorato celebra un mondo feudale cavalleresco che nella società mercantile di
fine Quattrocento non esiste più, ma che ha il fascino delle favole antiche, soprattutto nel sofisticato mondo della corte.
Anche la forma narrativa è nuova: gli episodi vengono interrotti e ripresi con una tecnica di suspence e i personaggi
cominciano a essere approfonditi in chiave psicologica. La forma metrica è l’ottava (otto versi), che consente una nar-
razione ampia e tranquilla.
Il poema cavalleresco raggiunge un grandissimo valore poetico con Orlando furioso, uno dei capolavori della letteratura
italiana, composto a Ferrara tra il 1503 e il 1532 da Ludovico Ariosto. I valori del mondo feudale antico sono ormai
lontani, ma sono raccontati con distacco e nostalgia, come un sogno lontano, un insieme di storie che è bello rivivere
con la fantasia.
Mentre Boiardo e Pulci raccontavano avventure fini a se stesse, quasi casuali, senza uno scopo finale, Ariosto organizza
la narrazione in un modo per cui gli episodi hanno una giustificazione razionale, anche se è difficile capire l’ordine degli
eventi, che sono davvero tanti.
La tecnica compositiva è ancora quella della suspence, della ripresa delle storie dopo averle lasciate in sospeso in un
momento drammatico.
Nel secondo Cinquecento la tradizione estense del poema cavalleresco ha un altro geniale interprete in Torquato Tasso,
l’autore di Gerusalemme liberata, il poema che narra la conquista di Gerusalemme alla fine della prima crociata (1096-
1099).
Dietro lo scontro tra cavalieri cristiani e arabi, che vede anche l’intervento di forze soprannaturali, ci sono i problemi
interiori di una personalità complessa e inquieta come quella di Tasso, che vive nel clima pesante della Controriforma
cattolica. La stessa corte estense è soggetta al controllo culturale della corte romana. L’ispirazione è storico-religiosa
e richiama i modelli classici, che esaltavano un unico eroe: in questo caso Goffredo di Buglione, capo cristiano nella
prima crociata (1096). L’elemento amoroso e lirico (con la descrizione di sentimenti e psicologie) è molto importante.
Le storie d’amore infelice e i teneri personaggi femminili rendono la narrazione talvolta sentimentale e patetica, mentre
altri personaggi femminili incarnano la seduzione che porta il cavaliere cristiano al peccato. L’elemento fantastico si
trasforma in elemento miracoloso, mosso da diavoli e angeli.

Adattato da <http://www.homolaicus.com/letteratura/epico-cavalleresco.htm>

Testi di approfondimento al volume Letteratura italiana per stranieri di P.E. Balboni, Edizioni Edilingua, www.edilingua.it 13
Capitolo 2

12
Il cortigiano secondo Castiglione
Sembra impossibile: mentre per tutta la prima metà del Cinquecento eserciti imperiali, francesi, svizzeri, spagnoli in-
vadono l’Italia, distruggendo e saccheggiando, Raffaello dipinge serenamente le Stanze del Papa; Michelangelo dipinge
la cappella Sistina; Ariosto scrive Orlando Furioso; a Milano Leonardo dipinge l’Ultima cena; Bembo definisce il modello
petrarchesco e scrive la ‘grammatica’ dell’italiano; Tiziano dipinge a Venezia i suoi capolavori e, soprattutto, Castiglione
scrive il Cortegiano, dove fissa un nuovo modello di intellettuale, di umanista che vive a corte. Come se gli eventi politici
fossero lontani, in un altro Paese.
Chi è il cortigiano del Castiglione?
Mentre nel primo umanesimo la nobiltà dell’animo veniva prima di quella della famiglia, Castiglione torna a proporre il
nobile di sangue, che vive alla corte del principe; un nobile che non è più uno studioso dei classici, ma è una perso-
na che sa parlare, vestire e agire con eleganza e sa anche usare la spada se necessario. A differenza dell’intellettuale
precedente, il cortigiano non vuole avere un ruolo nella gestione dello Stato, nelle decisioni politiche, anche se deve
guadagnare la fiducia del principe e orientarlo verso il bene. La realtà e gli stati italiani sotto il dominio straniero sono
poco significativi e non richiedono più un cortigiano ‘intellettuale’ come prima, un consigliere del principe: l’uomo di
corte diventa un ‘damerino’, un dandy vuoto e senza profondità, che pochi anni dopo il Cortegiano di Castiglione viene
descritto anche nel Galateo di Monsignor della Casa: l’eleganza, da semplice elemento esteriore, diventa l’essenza stessa
dell’essere cortigiano.
E le donne?
Il Cinquecento italiano è il secolo delle poetesse: in questi cento anni ce ne sono di più di quante ce ne siano nell’intera
storia della letteratura mondiale fino a quel momento. Il Cinquecento è il secolo di Vittoria Colonna, Veronica Gambara,
Gaspara Stampa, Veronica Franco, Tullia d’Aragona e molte, moltissime altre. Molte di loro, oltre che poetesse sono cor-
tigiane – ma al femminile questa parola comincia ad avere un significato tutto particolare: non sono dame di compagnia
per la conversazione e le feste, le ‘dame di corte’, ma prostitute colte ed eleganti. Nel Cortegiano Castiglione presenta le
figure della duchessa e della sua dama di compagnia, che con eleganza e savoir faire guidano la conversazione, il gioco,
gli incontri di società; ma si tratta di una donna che deve saper stare al suo posto, che è socialmente inferiore all’uomo.

Adattato da Poesia cortigiana e lirica d’amore nel Rinascimento italiano, a cura di Olivia Trioschi,
<http://www.club.it/autori/articoli/101-102/articolo.html>

14
Capitolo 2

13
La ‘questione della lingua’ nel Rinascimento

Testi di approfondimento
La questione della lingua è strettamente legata alla storia della lingua letteraria italiana e, in particolare, alle sue ori-
gini dal dialetto fiorentino, che diventa lingua comune della penisola soprattutto grazie all’opera di Dante, Petrarca e
Boccaccio.
In De vulgari eloquentia [La lingua volgare, popolare], Dante fissa le regole dell’uso letterario del volgare: la questione
non è trovare un dialetto migliore degli altri, ma la creazione di una lingua
a. “illustre”, cioè raffinata;
b. “cardinale”, che sia il cardine, il punto intorno al quale si muovono tutti gli altri dialetti;
c. “aulica”, legata ai modelli classici ed alti;
d. “curiale”, adatta ad una corte o a un tribunale.
Dante tuttavia sa bene che la divisione politica d’Italia è un ostacolo totale alla creazione di questa lingua.
Dopo due secoli, tra la fine del Quattrocento e il Cinquecento, e dopo il ritorno al latino dovuto all’Umanesimo, il pro-
blema torna di attualità.
Tre sono le correnti di pensiero:
a. la corrente ‘cortigiana’, che ha i maggiori sostenitori in Baldassarre Castiglione e Gian Giorgio Trissino (autore
anche di un progetto di riforma dell’ortografia): propone la lingua usata nelle corti italiane dell’epoca e nella quale,
su una base genericamente toscana, si inseriscono parole e modi di costruire le frasi prese da altre lingue italiane
(dette ‘dialetti’) o da altri paesi (soprattutto il provenzale del sud della Francia), purché siano raffinate ed eleganti
nel suono;
b. la corrente ‘fiorentina’, sostenuta fra gli altri da Niccolò Machiavelli, propone il fiorentino (o il toscano di Siena,
secondo altri) dell’epoca;
c. la corrente guidata da Pietro Bembo che, nelle Prose della volgar lingua (1525), si oppone all’ipotesi di fondare
l’italiano sull’uso linguistico comune delle corti rinascimentali, la ‘lingua cortigiana’, perché non si può conside-
rare vera lingua letteraria una lingua che non sia resa famosa dall’opera di grandi scrittori; per lo stesso motivo è
contrario al fiorentino parlato di quegli anni, perché non è una lingua abbastanza raffinata. Propone dunque l’uso
della lingua fiorentina del Trecento, in particolare quella di Petrarca per la poesia e quella di Boccaccio per la prosa,
mentre Dante non viene considerato un buon esempio perché nella Divina Commedia usa parole di dialetti o lingue
diverse dal fiorentino.
L’opera di Bembo segna il successo della corrente che guarda al passato. In questo senso il contributo fondamentale
è dato dalla fondazione dell’Accademia della Crusca, nel 1583, il cui scopo è studiare la lingua italiana e difenderne la
purezza. Nel 1612 viene pubblicato il Vocabolario degli Accademici della Crusca, che fino all’Ottocento sarà visto come
la massima autorità in fatto di lingua.
In questo modo la lingua letteraria italiana si rivolge al passato, staccandosi dalla lingua d’uso quotidiano, per il quale
si continuano a utilizzare i dialetti.

Adattato da <http://laspada.altervista.org/wp-content/uploads/2016/05/quest_ling_rinascim.pdf>

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Capitolo 2

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La cultura della Controriforma
All’inizio del Cinquecento l’unità cattolica viene interrotta dalla Riforma
protestante (1517). Lutero non condanna solo la sete di denaro dei
Papi e dei vescovi, ma denuncia anche la mancanza di cultura da parte
del clero più povero, dei parroci. Alcuni sacerdoti di campagna sono
infatti analfabeti e non sanno neppure leggere il Vangelo o spiegare
la Bibbia.
La cultura laica, invece, è molto più diffusa e diventa dominante; i
laici, cioè le persone che non fanno parte del clero della Chiesa, si sen-
tono culturalmente forti e cominciano a scrivere anche di temi religiosi,
visti dal loro punto di vista. La Chiesa non può accettarlo, sono solo i
sacerdoti che possono interpretare i testi sacri, mentre il Protestante-
simo sostiene che per interpretare la Bibbia non c’è bisogno del clero:
ogni singolo credente, guidato dallo Spirito Santo, può farlo.
La Chiesa di Roma non può accettare questa situazione storica e culturale: nel 1545 quindi convoca il Concilio di Trento,
primo passo della Controriforma cattolica. Alla sua conclusione, nel 1563, Papa Pio IV pubblica un nuovo Indice dei libri
proibiti, in cui non solo condanna i libri sgraditi e da distruggere con il fuoco, ma porta gli autori al Tribunale dell’In-
quisizione. Un altro passo importante della Controriforma è quello di aumentare la cultura del clero inferiore, perché la
Chiesa capisce che su questo tema Lutero ha ragione. Per questo motivo nel Concilio di Trento vengono creati i seminari,
cioè le scuole per preparare culturalmente e spiritualmente i futuri sacerdoti, e soprattutto per allontanare il clero dal
contatto con la cultura laica rinascimentale.
La Chiesa inizia una politica di propaganda dei suoi princìpi, insegnando ai sacerdoti e ai monaci le regole per la pre-
dicazione e creando ordini di monaci specializzati nell’insegnamento: in questo modo la Chiesa è sicura di diffondere
gli ideali controriformisti, perché è presente in tutti i momenti di riunioni popolari, nelle piazze, nelle cattedrali, nei
seminari e soprattutto nelle scuole.
È chiaro che in una tale situazione la cultura letteraria rinascimentale si trova in una grave crisi: la Chiesa si mostra così
potente che fuori dalla Chiesa tutto sembra pericoloso: il tribunale dell’Inquisizione colpisce infatti molto duramente
la libertà di espressione filosofica e culturale. Fondato in Italia nel 1542, sull’esempio spagnolo, il Tribunale dell’Inqui-
sizione uccide qualsiasi tendenza protestante in Italia ed elimina anche alcuni eretici, cioè persone che si allontanano
dall’insegnamento ufficiale della Chiesa. Galileo Galilei e Giordano Bruno sono solo due degli esempi di intellettuali (uno
scienziato e un teologo) che la Chiesa definisce eretici.

Adattato da La strategia culturale della controriforma come reazione alla cultura rinascimentale e
la deflagrazione della cultura letteraria tradizionale di Mario Scarpellini,
<http://www.homolaicus.com/storia/moderna/riforma_protestante/controriforma.htm>

16
Capitolo 3

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Il mondo barocco

Testi di approfondimento
Il termine barocco con cui oggi si indica la cultura del Seicento dà spesso il senso di qualcosa di negativo. Infatti, già
nel Settecento, tanto in Francia quanto in Italia, barocco diventa l’equivalente di ‘strano’, soprattutto in rapporto all’ar-
te e all’architettura. Solo alla fine dell’Ottocento questa parola passa a descrivere una trasformazione profonda del gusto
e dell’ordine rinascimentale. Quanto alla letteratura, si deve subito dire che sin dai primi anni del secolo essa mostra un
desiderio esagerato di fare qualcosa di nuovo, qualcosa di diverso da tutto ciò che si è fatto prima.
In letteratura, con barocco intendiamo una sensibilità e una tecnica espressiva che porta al massimo la raffinatezza
e che usa la metafora come suo strumento fondamentale. Una metafora mette in relazione due cose, due idee, ma in
questo periodo queste due cose devono essere il più distanti possibile per sorprendere il lettore, quando il poeta riesce
a trovare una connessione tra le due. Il mondo non viene descritto e imitato, viene travestito, re-inventato: si produce
un mondo sdoppiato, ricco di metamorfosi e di giochi analogici, pieno di meraviglie.
Nella poesia quindi entrano figure e situazioni quotidiane eccentriche, aspetti spettacolari della natura, oggetti mecca-
nici come l’orologio, il compasso, il telescopio, la fontana meccanica, l’automa. Gli avvenimenti diventano le scene di
un grandioso teatro, e il mondo stesso diventa teatro.
La civiltà visiva del Seicento è tutt’uno con quella teatrale. Tutte le sue manifestazioni sembrano regolate dalla teatrali-
tà, dal bisogno dell’effetto scenografico. Se la vita è un teatro, ogni uomo interpreta un ruolo come attore del proprio io
profondo. E il secolo vede nascere così il teatro moderno, da Shakespeare a Calderón de la Barca, da Gryphius a Vondel,
da Corneille a Racine, il dramma dell’uomo viene esplorato ed espresso nel contrasto terribile tra potere e amore, tra
illusione e realtà.
La teatralità barocca si ritrova anche nella predicazione sacra, avendo come scena la cattedrale, la corte, la città, la
piazza, la campagna. Sono infatti gli anni difficili della controriforma cattolica e della propaganda che occupa ogni
campo dell’arte.
Nella letteratura del Seicento, in un’Europa divisa e confusa, un posto particolare è occupato da un genere che era
scomparso e che ha in Cervantes il primo genio, il romanzo. Il romanzo barocco può essere eroico, sentimentale, storico,
picaresco [cioè fatto di una sequenza di avventure, senza una costruzione organica], enciclopedico, pastorale, utopico,
quasi come uno specchio multiplo di una società e delle sue forme di vita differenziate verso l’alto e verso il basso.
Il romanzo porta anche alla biografia e, se vi si aggiunge l’introspezione mistica, al viaggio interiore nello spazio dell’a-
nima: sembra quasi che, in modo parallelo alla nuova scienza della natura, matematica e sperimentale, nasca anche una
scienza dell’uomo, un’antropologia che interpreta i suoi comportamenti.

Adattato da Introduzione alla letteratura del Seicento,


<https://library.weschool.com/lezione/introduzione-alla-letteratura-del-seicento-21414.html>

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Capitolo 3

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Il Vocabolario dell’Accademia della Crusca
Lo sforzo del Cinquecento di definire un ‘canone’ della letteratura, cioè di elencare i testi e gli autori fondamentali,
quelli che non si possono ignorare, si trasmette anche al campo linguistico, soprattutto a seguito della questione della
lingua che era iniziata nel Rinascimento e che era stata risolta dalla proposta di Pietro Bembo di utilizzare la nobile alta
lingua fiorentina del Trecento, idea accettata dalla maggioranza degli scrittori colti.
In questo contesto di interesse per la lingua, il fatto più rilevante nel secondo Cinquecento è la fondazione a Firenze, nel
1583, dell’Accademia della Crusca: un’istituzione, nata per iniziativa di alcuni intellettuali (tra cui soprattutto Leonardo
Salviati), che ha come scopo la ‘difesa’ della buona lingua letteraria, il “fior di farina” [cioè la parte migliore della farina,
quella bianca] che deve essere separato dalla “crusca” [la parte del grano che deve essere eliminata, la parte scura e
dura che rende il pane integrale].
L’Accademia, seguendo Bembo, identifica la buona lingua con il fiorentino del Trecento; tuttavia, accetta anche parole
di scrittori non toscani o parole presenti nell’uso vivo, per produrre uno strumento linguistico adatto alle nuove esi-
genze del secolo e non basato soltanto sull’imitazione degli autori antichi.
A partire dal 1590, l’Accademia lavora alla realizzazione di un Vocabolario e la prima edizione viene pubblicata a Ve-
nezia nel 1612, seguita da una seconda edizione nel 1623: per la prima volta in Italia nasce un dizionario del volgare
costruito con strumenti scientifici e il successo dell’opera è tale che ha vasta diffusione anche nel resto d’Europa,
diventando modello per lavori simili in altri Paesi fuori dell’Italia.
Ovviamente l’Accademia della Crusca rivolge la sua attenzione alla lingua letteraria e non a quella parlata dal popolo,
data la divisione linguistica e politica dell’Italia del tempo; il canone fissato dall’Accademia, cioè l’elenco dei letterati da
prendere come esempio, è ancora quello rinascimentale e porta a un “purismo” [lo sforzo di mantenere ‘pura’ e perfetta
la lingua] che sarà rifiutato dal Romanticismo in poi.
In particolare, Salviati, fondatore dell’Accademia, lavora a lungo su un’edizione ‘ripulita’ del Decameron di Boccaccio
(voluta dalla Chiesa per motivi di censura, sia per il contenuto di molte novelle sia per l’uso della lingua popolare). Un
lavoro che fortunatamente non avrà molto seguito.

Adattato da l’Accademia della Crusca,


<https://letteritaliana.weebly.com/la-controriforma.html>

18
Capitolo 3

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Le origini del melodramma

Testi di approfondimento
Il termine melodramma, sinonimo di ‘opera’ o ‘opera lirica’, indica uno spettacolo teatrale nel quale ci sono insieme
recitazione, canto, musica e balletto.
Il melodramma nasce a Firenze, dove un gruppo di nobili si riunisce spesso nel Palazzo del Conte Bardi per discutere
del rapporto tra poesia e musica. Tra questi c’è spesso anche Vincenzo Galilei, il padre di Galileo Galilei. L’idea degli
intellettuali del gruppo è quella di far rivivere lo stile drammatico degli antichi greci, uno stile recitativo in grado di
accoppiare la lingua e il canto.
Nei primi anni del Seicento a Firenze vengono rappresentate due opere dallo stesso titolo, Euridice [il personaggio
mitologico amato da Orfeo, il fondatore della musica: lei muore, Orfeo va a riprenderla nel mondo dei morti, ma a un
passo dall’uscita la perde per sempre]. La versione di Jacopo Peri viene messa in scena per le nozze di Maria de’ Medici
con Enrico IV di Francia, e da quel momento l’opera diventa un genere di moda.
L’argomento delle prime opere è mitologico o storico. Gli intellettuali di Palazzo Bardi vogliono ricreare nel teatro
musicale lo stile drammatico degli antichi greci e quindi esaltano la recitazione sulla musica: una singola voce recita
cantando, accompagnata da strumenti musicali. L’opera è ancora molto lontana da quella a cui siamo oggi abituati: il
ritmo è lento, l’azione scenica ridotta, il canto è vicino al ritmo della recitazione, l’accompagnamento musicale è affidato
a pochi strumenti.
In un primo tempo i melodrammi sono rappresentati nelle corti o nei grandi palazzi dei nobili, in occasione di avveni-
menti particolari, come incoronazioni, matrimoni, feste, e sono eventi unici e irripetibili, caratterizzati da scenografie
bellissime, di grande lusso.
Nel 1637 viene aperto a Venezia il primo teatro a pagamento, il San Cassiano. È un evento del tutto straordinario, che
permette anche alla borghesia la partecipazione agli spettacoli teatrali e che porta al successo il melodramma come
genere teatrale. Nel giro di mezzo secolo il San Cassiano viene affiancato da altri sedici teatri, dove vengono allestite
oltre 300 opere e moltissimi nuovi teatri vengono aperti in tutta Europa.
I teatri, per sopravvivere, hanno bisogno di incassi certi e continui, e per ottenere questo risultato devono soddisfare
le richieste del pubblico: nasce così la figura dell’impresario, che diventa il vero responsabile del successo o dell’in-
successo del teatro. L’impresario deve scegliere i cantanti, i musicisti che compongono musica adatta ai gusti del
pubblico, i librettisti [cioè i letterati e i poeti che mettono in versi la storia], i musicisti dell’orchestra, gli scenografi
che devono sorprendere gli spettatori con le loro invenzioni fantasiose e spettacolari, e così via: l’impresario è insieme
produttore e regista.
Il melodramma diventa popolarissimo in tutta Europa, e a Vienna ci sono poeti italiani come Metastasio o Da Ponte che
scrivono libretti per musicisti come Mozart o Gluck.

Da Storia del Melodramma, <http://www.pestalozzi.cc/ic/lirica/01-origini.html>

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Capitolo 3

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Dei delitti e delle pene
Influenzato dalle teorie esposte da Jean Jacques Rousseau nel suo Contratto sociale ed ammiratore del pensiero del
filosofo inglese John Locke, nel suo breve trattato Dei delitti e delle pene Beccaria parte dal concetto della convivenza
comune, cioè del fatto che gli uomini vivono insieme in una società.
Gli uomini, dice Beccaria, sacrificano una parte delle loro libertà nel momento in cui accettano di vivere secondo le
regole della comunità, ricevendo in cambio maggiore sicurezza e servizi sociali come strade, polizia, e così via. L’autorità
dello Stato e delle leggi è quindi legittima, giusta, accettabile fino a quando gli uomini che sono governati da quelle
leggi ritengono che esse siano in equilibrio con quella parte di libertà personale cui hanno rinunciato per darla allo
Stato in nome del bene comune.
Citando direttamente Montesquieu, Beccaria definisce ‘tirannica’, quindi inaccettabile, ogni punizione che non sia do-
vuta all’assoluta necessità. Il sovrano ha il diritto di punire, ma questo diritto è fondato sulla necessità di tutelare la
libertà e il benessere di tutti quando sono messe in pericolo da qualche individuo: ma nel decidere il tipo di pena, l’unico
criterio da seguire è “l’utile sociale”, cioè l’utilità della pena nel difendere la società civile.
Partendo da questa premessa, le proposte del filosofo sono le seguenti:
a. una decisa battaglia contro la complessità delle leggi, che porta a una varietà di interpretazioni, spesso arbitrarie,
che permettono a chi ha il potere di usare la legge a proprio favore;
b. la necessità di pubblicare le sentenze pronunciate dai giudici, per dimostrare che non c’è stata ingiustizia e ‘tiran-
nide’, cioè potere ingiustificato da parte del Sovrano;
c. la necessità di cancellare il sistema delle denuncie anonime, cioè senza firma: è un sistema che spesso serve a ven-
dette private e non a fare giustizia;
d. l’opposizione chiara alla tortura: è una pratica disumana che non garantisce che quello che dice chi è sotto tortura
sia la verità, perché davanti al dolore fisico chiunque può confessare qualsiasi delitto. Inoltre, non è giusto punire
gli accusati con la tortura prima di aver dimostrato che sono colpevoli: la punizione, in caso di tortura, viene prima
della sentenza;
e. l’abolizione della pena di morte, perché non rispetta l’idea alla base del contratto sociale: nessun uomo è disposto
a dare la propria vita in nome della convivenza comunitaria; tornando a quanto detto all’inizio, tra le libertà alle
quali un cittadino rinuncia per il bene comune non c’è certamente la libertà di vivere. Inoltre, la pena di morte non
è efficace contro la criminalità: secondo Beccaria spaventa più l’idea di una lunga pena in prigione che non l’idea di
una morte istantanea;
f. la separazione chiara e decisa tra ‘peccato’ e ‘crimine’: la pena decisa da un giudice è solo un mezzo per impedire
che si ripetano altri crimini, quella decisa da un sacerdote rientra nella vita privata del cittadino che crede in Dio;
g. l’accusato deve sempre essere considerato ‘persona’ e non ‘cosa’: secondo lui e non può esserci libertà dove questo
principio non è rispettato.
Malgrado alcune affermazioni criticabili agli occhi moderni, l’opera di Cesare Beccaria resta un passo avanti fondamen-
tale nella storia dello sviluppo civile del mondo occidentale: sia per il successo internazionale (dalla Russia di Caterina
II agli Stati Uniti di Jefferson) che muove le coscienze su argomenti basilari per la formazione di una società giusta e
democratica, sia per l’utilità pratica visto che molte delle misure auspicate nel trattato sono messe in pratica in diversi
stati ancora prima della Rivoluzione Francese.

Adattato da Laura Barberi,


<https://www.liberliber.it/mediateca/libri/b/beccaria/dei_delitti_e_delle_pene/html/note_cri.html>

20
Capitolo 3

19
La riforma teatrale di Goldoni

Testi di approfondimento
Quando nella sua autobiografia, Mémoires, Goldoni parla della sua riforma teatrale – cioè delle profonde trasformazioni
dal lui realizzate nella struttura dell’opera teatrale in prosa – ci vuole quasi dare l’impressione che essa sia stata chiara-
mente definita anche nei particolari fino dall’inizio e che tutta la sua attivitá di commediografo non sia stata altro che
una progressiva e coerente attuazione di tali principi.
In realtá la sua riforma si realizza con continui passi avanti e ritorni alle posizioni precedenti, anche a causa delle
situazioni particolari di cui doveva tener conto: la realtá professionale del mondo degli attori, il gusto del pubblico, le
polemiche degli altri protagonisti della scena letteraria e teatrale veneziana.
Nella prima metà del Settecento domina la Commedia dell’Arte, ormai stanca e prevedibile: gli attori improvvisano su
una trama condivisa; invece Goldoni propone un testo scritto che l’attore deve rispettare, senza affidarsi alle proprie
capacitá d’improvvisazione.
Il secondo elemento chiave, strettamente connesso con la presenza di un testo scritto, è costituito dal passaggio dalle
maschere ai caratteri.
La Commedia dell’Arte utilizzava maschere come Arlecchino, Brighella, Pantalone, Co-
lombina: erano dei “tipi”, rigidi, con un abbigliamento, un linguaggio e un comporta-
mento ben conosciuti dal pubblico. L’elemento centrale di una commedia era una situa-
zione comica, ad esempio scambi di persona, biglietti d’amore destinati a una ragazza
che finiscono nelle mani di un’altra, e così via. Invece il ‘comico’ che interessa Goldoni
non è quello basato sulla situazione, ma quello che deriva dal carattere del personaggio,
dalle varie passioni che gli agitano l’anima.
Dal tipo umano sintetizzato nella maschera nella Commedia dell’Arte, si passa quindi
all’individuo con un carattere unico e irrepetibile, dotato di una sua personalità.
Dopo l’eliminazione delle maschera, l’introduzione del testo scritto e la rappresentazione
delle passioni, l’ultima riforma goldoniana è quella di trovare il modo giusto per realiz-
zare sulla scena queste novità – e per farlo accettare agli attori, che devono cambiare
le tecniche di recitazione: gesti meno esagerati, da un lato, e l’esigenza di imparare ad
usare le espressioni del viso, non più coperto dalla maschera, necessarie per esprimere e
comunicare la varietà e la complessità dei sentimenti individuali del personaggio.

Adattato da Carlo Goldoni: La riforma teatrale,


<https://teatrouv2014.wordpress.com/la-riforma-teatrale/>

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Capitolo 4

20
Romanticismo e Risorgimento
In Italia il Romanticismo e il Risorgimento costituiscono una coppia che non può essere separata: ‘romantico’ è prati-
camente sinonimo di ‘patriottico’.
Il Romanticismo è la cultura letteraria della classe borghese che sta crescendo e desidera per l’Italia uno Stato unitario.
Nei primi romantici, come Alessandro Manzoni (di cui ricordiamo l’ode Marzo 1821) o l’intellettuale milanese Giovanni
Berchet, la lotta per l’indipendenza dell’Italia è insieme un fatto politico, morale e letterario.
Questa identità tra cultura romantica e classe borghese viene chiarita da Giovanni Berchet nella Lettera semiseria di
Grisostomo a suo figlio, che presenta il Romanticismo agli italiani: dopo aver affermato che tutti gli uomini sono di-
sposti per natura ad intendere la poesia, spiega che la poesia romantica è rivolta alla classe borghese.
La comune aspirazione ad un Risorgimento nazionale porta gli scrittori romantici in Italia a vedere nella letteratura
uno strumento di battaglia politica e sociale, e lo stesso fa Verdi con le sue opere. A differenza che per i neoclassici,
rivolti al passato, la letteratura del Risorgimento è, nelle parole di Berchet, “poesia dei vivi” che ha come fonte prima-
ria il vero e la storia: quindi fanno parte di questo tipo di letteratura alcuni generi come il romanzo storico, la lirica
patriottica, la ballata storica e i libri di memorie, tutti legati al vero. Nella categoria generale del ‘romanzo storico’
vanno inseriti, in realtà, anche il teatro storico come Il Conte di Carmagnola e l’Adelchi di Manzoni, o il melodramma
storico di Verdi, in cui i fatti storici dimostrano agli italiani che da sempre si lotta per l’unità nazionale e l’indipen-
denza dagli stranieri.
Rivolto a un pubblico borghese, che vive nella realtà e non nell’adorazione del passato, lo scrittore romantico deve mo-
dificare lo stile e la lingua, deve usare una lingua più vicina al parlato, che risvegli nel popolo il sentimento patriottico.

Adattato da Laprofonlin, <https://laprofonline.wordpress.com/150-unita-ditalia/romanticismo-e-risorgimento/>

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Capitolo 4

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Ugo Foscolo, tra Illuminismo e Romanticismo

Testi di approfondimento
Ugo Foscolo è unico nella sua capacità di far convivere l’ideale neoclassico con l’inquietudine in un periodo in cui Illu-
minismo e Romanticismo si fondono. Infatti, pur essendo figlio della tradizione neoclassica che vuole l’imitazione dei
grandi classici latini e greci, Foscolo riesce ad introdurre nelle sue opere un’anticipazione del sentimento romantico che
vive in lui.
Anche il sentimento politico è molto forte.
Foscolo si sente tradito dal fallimento della Rivoluzione francese che ha portato all’Impero napoleonico. L’Italia sognava
libertà ed autonomia, ma con l’inizio del nuovo Impero tutte le speranze sono tradite e dopo il 1815 la nostra penisola
resta ancora divisa in numerosi stati. Dopo la Rivoluzione, inoltre, la classe borghese è il punto di riferimento, e questo
lascia insoddisfatti gli uomini legati all’idea romantica di libertà, che i borghesi vedono come anarchia, improvvisazione,
inaffidabilità.
Nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis sono presenti i temi della delusione politica e amorosa.
È un romanzo epistolare a carattere autobiografico che ha come modello letterario I dolori del giovane Goethe, altro
romanzo centrato sul tema dell’amore impossibile e che termina con il suicidio del protagonista. Come Jacopo Ortis nel
romanzo, anche Foscolo ha amato e ha viaggiato molto, anche Foscolo soffre per il tradimento delle sue aspettative di
libertà e di giustizia. Jacopo è quindi il suo alter ego, deluso dalla scoperta che la storia è solo un processo che non ha
alcuna razionalità e che la vita sociale è in realtà un campo di battaglia. Il suicidio porta Jacopo a ritrovare la libertà
perduta.
Ma se lasciamo il romanzo e andiamo a considerare le poesie, vediamo che questi temi romanticissimi sono esposti con
i perfetti endecasillabi classici dei Sepolcri, nei classicissimi Sonetti e le nelle ancor più classiche Odi.

Adattato da Alessia Sicuro,


<https://www.liberopensiero.eu/04/06/2015/varie/ugo-foscolo-tra-illuminismo-e-romanticismo/>

Testi di approfondimento al volume Letteratura italiana per stranieri di P.E. Balboni, Edizioni Edilingua, www.edilingua.it 23
Capitolo 4

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Foscolo rivoluzionario
Nelle lettere comprese fra il 1796 e il 1799 Foscolo esprime la radicalità democratica e rivoluzionaria delle sue posizioni,
e lo fa con una retorica libertaria a cui sostituirà più tardi altre forme di eloquenza civile di derivazione classica.
Nel maggio del 1797, Foscolo scrive all’amico Fornasini di Brescia, «Venni nella Cispadana con la devozione del
democratico; passerò per la vostra rigenerata città colla sacra baldanza del Repubblicano: potremo per la prima volta
giunger le destre sciolte dalle catene dell’Oligarchia» [sono venuto nella Repubblica Cispadana, la Pianura Padana, con
l’entusiasmo del democratico; passerò per Brescia, la vostra città rinata, con il sacro entusiasmo di un repubblicano:
potremo per la prima volta stringerci le mani ormai liberate dalle catene dell’aristocrazia]. Tutti i temi centrali della
propaganda rivoluzionaria sono qui riuniti: democrazia, repubblica, fratellanza, libertà dalla tirannide, rinascita.
Nell’ode a Bonaparte liberatore, stampata a Bologna nel maggio del 1797, Foscolo parte dalla figura di Giulio Cesare,
che ha ucciso la libertà a Roma: ma Napoleone è il nuovo Cesare che ristabilisce le libertà che il generale romano aveva
soppresso.
Pochi mesi dopo, Foscolo ripropone la sua visione cosmica della libertà davanti al Circolo costituzionale di Milano: «Si
desti [si risvegli] l’antica virtù, l’antico valore; risorgano [nascano di nuovo] gli antichi Eroi Repubblicani; ritornino i bei
giorni di Roma, Atene e Sparta; si spengano tutti i tiranni e si renda libero il mondo. Viva la Repubblica dell’Universo».
L’altro grande nemico del Foscolo rivoluzionario è l’aristocrazia, in particolare quella veneziana.
Nel sonetto A Venezia, Foscolo annuncia l’arrivo ormai prossimo della rivoluzione: il «popolo» già prepara «alta vendet-
ta» contro i suoi tiranni.
La polemica contro la nobiltà e i governi oligarchici, cioè di poche persone, ritorna anche in vari interventi pubblici, sia
veneziani che milanesi, e ha certe volte toni di rara violenza. Basta leggere il Discorso su la Italia, indirizzato al gene-
rale Championnet nell’ottobre 1799, in un momento particolarmente drammatico, quando il dominio francese in Italia
è messo in difficoltà dall’attacco degli austriaci e dei russi: Foscolo vuole dimostrare ai francesi che, se non vogliono
perdere la penisola, è nel loro interesse dichiarare «la Indipendenza d’Italia» e consiglia loro di prendere le ricchezze
dei ricchi che sono scappati e di dividerle fra i combattenti più coraggiosi, conquistando così il popolo e portandolo
dalla propria parte.

Adattato da Enzo Neppi, Foscolo e la Rivoluzione francese. Momenti e figure del pensiero politico foscoliano,
<https://journals.openedition.org/laboratoireitalien/554>

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Capitolo 4

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Leopardi politico

Testi di approfondimento
Leopardi è indubbiamente un pensatore anche politico, ma non è certamente un teorico della politica, e non si è mai
preoccupato quindi di organizzare i propri pensieri e le proprie intuizioni in un trattato.
Così come la filosofia e la poetica di Leopardi si evolvono nel tempo, anche il suo pensiero politico si evolve, e la tra-
sformazione politica è forse più radicale di quella poetica.
La prima fase della sua riflessione è quella che va a grandi linee dal 1815 alla metà degli anni Venti: è il periodo delle
tre canzoni patriottiche e delle esortazioni alla gioventù italiana.
In questa fase il pensiero politico di Leopardi è mosso da un sentimento attivo, eroico, rivolto all’azione ed è in sintonia
con le dinamiche del discorso patriottico del primo Risorgimento.
Nella seconda fase, invece, la problematica politica si amplia decisamente, vede insieme un senso di frustrazione, il
desiderio di contribuire e intervenire all’interno del panorama culturale e politico italiano, il rifiuto dei miti progressisti
del tempo...
È il periodo della morte delle grandi illusioni, e Leopardi sembra abbandonare anche l’interesse per la politica, fino a di-
sprezzarla, a considerarla inutile, dal momento che non serve a procurare la felicità dell’uomo, destinato a essere infelice.
Dopo la stesura di gran parte delle Operette Morali, il tono ironico e polemico della produzione degli anni Trenta è dun-
que l’ultimo segno di questa nuova consapevolezza. Davanti all’incapacità dei suoi contemporanei di vedere la realtà,
l’unica risposta possibile è l’ironia, la risata distruttiva.
Il deluso Leopardi politico dell’ultima fase diventa dunque un aggressivo Leopardi filosofico: è l’autore di opere fero-
cemente satiriche come la Palinodia, I nuovi credenti e i Paralipomeni, opere che attaccano le istituzioni politiche e
sociali dell’epoca e vogliono allo stesso tempo scuotere dal loro sonno i contemporanei, cercando di mostrare l’«arido
vero» della condizione umana.
Non si tratta dunque di una volontà di distruzione sarcastica, fine a se stessa, ma dello sforzo di far sparire gli errori per
cercare di porre le fondamenta di nuove costruzioni. E questo è un agire pienamente politico...
Un testo fondamentale è il Discorso sui costumi degli italiani, scritto nel 1824, frutto della collaborazione e dell’amicizia
di Leopardi con gli intellettuali liberali moderati dell’Antologia di Gian Pietro Vieusseux. Leopardi dichiara esplicitamen-
te il proprio intento pedagogico, la sua intenzione di formare gli italiani, ai quali Leopardi si rivolge come a una «fami-
glia» e a dei «fratelli». Leopardi prende le distanze dalla nascente società borghese moderna e dalle posizioni liberali,
moderate e cattoliche del gruppo fiorentino in cui opera. Ma il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani
non sarà mai pubblicato durante la vita di Leopardi e le riflessioni su civilizzazione, modernità e società saranno negli
anni seguenti affidate sempre al registro ironico-critico delle Operette Morali: da giovane intellettuale patriota allineato
ai miti patriottici, il Leopardi degli anni Trenta diventa contrario alla costruzione di una nazione moderna fondata su
spiritualismo, progressismo e utile economico.

Adattato da Chiara Natoli e Andrea Penso,


<http://www.appuntileopardiani.cce.ufsc.br/edition11/>

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Capitolo 4

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Leopardi filosofo
Che Leopardi sia poeta nessuno l’ha messo in discussione. Che sia anche filosofo, invece, è stato oggetto di acceso
dibattito.
Alla base c’è il fatto che egli ha scritto di filosofia e, per così dire, da filosofo: sullo Zibaldone troviamo tanti e tali
pensieri sull’anima, la metafisica, la religione, la società, la natura, la morale, e via dicendo, che l’opera può certamen-
te essere definita un trattato filosofico, anche se sono appunti personali non sistematici. Né si può dire che manchi a
Leopardi lo stile filosofico, perché alcune sue pagine, specie quelle relative alla teoria del piacere, sono di tale rigore
e oggettività che sembrano stilate dalla penna di un filosofo razionalista come Locke o da un suo seguace.
Punto di partenza della riflessione leopardiana, che vuole tentare di chiarire il senso della vita, è il disagio esisten-
ziale dell’autore, ovvero la sua infelicità fisica e psicologica, della quale vengono indagate le cause, le dinamiche e le
conseguenze.
Alla base della riflessione giovanile di Leopardi c’è la teoria dell’amor proprio, secondo la quale l’uomo è un essere che ama
necessariamente se stesso e mira alla propria conservazione e alla propria felicità. L’altruismo è un controsenso: quando io
faccio del bene ad un altro è perché provo piacere, quindi lo faccio sempre per me stesso. L’altruismo è il massimo dell’egoi-
smo. Quindi non hanno senso, per Leopardi, le ideologie ottimistiche e le utopie rassicuranti del suo secolo; la storia non
è progresso, ma è solo il precipitare dal primitivo stato di natura, buono e felice, allo stato di civiltà, corrotto e decadente.
Tutta la storia del genere umano è la storia della lotta tra la felicità e la verità, tra l’illusione e la realtà, tra la vita
e il sogno. La realtà è banale e cattiva, sono vere solo le speranze, che sono il nutrimento dell’umanità: non si può
abbandonarle senza cadere nella disperazione. Le illusioni salvano, la ragione uccide.
A partire dagli anni del cosiddetto “silenzio poetico” (1823-27) Leopardi rovescia la sua impostazione iniziale, giungen-
do ad apprezzare la ragione contro la natura. Continuando ad analizzare le cause dell’infelicità umana, egli osserva che
l’impulso vitale della natura è contrastato
a. da un limite biologico, la debolezza dell’uomo, condannato al decadimento e alla morte;
b. da un limite ontologico [che è caratteristica essenziale di quell’essere], cioè dall’impossibilità di essere felici: la
natura crea nell’uomo una tensione fortissima verso la felicità, un desiderio costante di piacere, ma la felicità è
irraggiungibile. I piaceri momentanei che si provano nella vita non sono altro che un momento di sospensione
dell’infelicità. Il piacere è sempre sperato, non è mai ottenuto, è sempre futuro, non è mai presente: esso sfugge
sempre;
c. da un limite storico, dato dalla inconciliabilità di individuo e società, tra i quali si realizza uno scontro di egoismi.
L’atteggiamento dei singoli è antisociale: ognuno cerca sempre di avere di più, di superare gli altri, di sottomettere
tutto e tutti al proprio utile o piacere. Ne consegue che tutte le società sono state cattive. Di qui la polemica contro
l’ingenua fiducia del XIX secolo nel progresso scientifico e tecnologico, nelle macchine, nell’espansione economica,
che comporta lo sfruttamento industriale e il colonialismo.

Adattato da Introduzione al pensiero filosofico, a cura di Giovanni Ipavec,


<http://www.filosofico.net/giacomoleopardi.html>

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Capitolo 4

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Il pensiero di Manzoni sulla nazione italiana

Testi di approfondimento
Bisogna anzitutto ricordare che Manzoni è principalmente uno scrittore e quindi, per quanto profonde e ragionate pos-
sano essere le sue riflessioni, il suo discorso non presenta la sistematica coerenza che è propria della filosofia e della
riflessione politica. D’altronde, come ha notato Boldrini, per Manzoni la filosofia non è fine a se stessa, ma è un mezzo
per creare un atteggiamento critico per la soluzione di quei problemi etico-religiosi, storici ed estetici che nascono dalla
sua profonda e complessa umanità.
Malgrado queste premesse, è possibile definire, in termini abbastanza organici, i nuclei essenziali della riflessione
storico-politica di Manzoni che, va subito detto, risulta intimamente legata con le sue prospettive di carattere etico-re-
ligioso.
Manzoni ha chiaro il concetto di nazione elaborato nel corso della Rivoluzione francese ed esaltato dalla cultura ro-
mantica. Riguardo alla situazione italiana, Manzoni lo vive come puro e intenso impegno patriottico, che accentua le
sue aspirazioni di libertà dagli stranieri senza tuttavia arrivare mai ad atteggiamenti o azioni di pieno nazionalismo;
comunque, Manzoni resta sempre al di fuori di ogni scelta di tipo rivoluzionario. Questo deriva dal fatto che il problema,
prima che politico, è per lui morale nel senso che va risolto alla luce di un principio che garantisca a tutti i popoli, e
quindi anche a quello italiano, un giusto destino di libertà.
L’obiettivo che Manzoni si propone è quello di uno Stato unitario in cui le ragioni della politica vadano in parallelo con
quelle della religione e in cui l’alto valore della libertà si traduca anche in liberalismo politico e liberismo economico.
In questo modo egli è in quella che viene comunemente definita scuola «cattolico-liberale» o, proprio con riferimento
al suo nome, «manzoniana», insieme ad autori come Vincenzo Gioberti o Cesare Balbo, Niccolò Tommaseo o Gino Cap-
poni, Carlo Troya o Luigi Tosti. Manzoni, però, si distingue non solo per il prestigio della sua personalità, che lo rende
un punto di riferimento, ma anche perché rifiuta, diversamente da altri, ogni soluzione federalistica del problema ita-
liano; inoltre è contrario al potere temporale dei papi, quindi rifiuta ogni diretto coinvolgimento politico della Chiesa.
Quanto alla concezione della storia, non c’è dubbio che in Manzoni siano presenti insieme le influenze dell’Illuminismo
e della religione cattolica, entrambi orientati a considerare la storia umana dominata dall’ingiustizia e dal male. Ma
è altrettanto vero che nel suo spirito ci sono le ragioni della fede che riportano le azioni umane alla responsabilità
individuale di ciascuno e di tutti.
La complessità del pensiero e dell’arte di Manzoni è stata causa di molte critiche di vario genere sia tra i cattolici sia
tra i laici. A seconda delle opinioni, è stato accusato di scarsa o eccessiva adesione alla fede e all’ortodossia cattolica.
Ma negli ultimi tempi sembra che la figura di Manzoni, a seguito di più attenti studi del suo pensiero storico-politico,
venga posta tra i più fedeli e autorevoli testimoni del suo tempo, anche perché l’interazione tra Risorgimento e reli-
gione è stato continuo, come è avvenuto anche nel pensiero e nella coscienza di Alessandro Manzoni.

Adattato da Mario Gabriele Giordano, Il contributo italiano alla storia del pensiero: storia e politica,
<http://www.treccani.it/enciclopedia/>

Testi di approfondimento al volume Letteratura italiana per stranieri di P.E. Balboni, Edizioni Edilingua, www.edilingua.it 27
Capitolo 4

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Verdi e il Risorgimento
Nel corso della sua lunga vita, Verdi ha attraversato quasi un intero secolo durante il quale l’Italia è passata da Paese
largamente soggetto al dominio straniero a Stato unitario, desideroso di inserirsi tra le grandi potenze europee.
Verdi ha rifiutato l’arte élitaria, lontana dai problemi e dalla realtà del tempo; in lui rimane sempre viva la necessità di
stabilire un dialogo con il presente e con l’attualità storica. La sua è dunque un’arte ‘popolare’ nel senso più alto del
termine, in quanto parla con un linguaggio immediatamente comprensibile che, sebbene in drammi lontani nel tempo e
nello spazio, è in stretta sintonia con i grandi ideali del momento.
è dunque ovvio che il movimento risorgimentale non abbia lasciato indifferente il compositore; al contrario, costituisse
la base da cui sono nate quelle pagine corali – dal Nabucco a I Lombardi, dall’Attila al Macbeth – dove si esprime un
sincero amor patrio e il dolore per un popolo oppresso e asservito.
Verdi è stato sempre vicino ai maggiori intellettuali lombardi del tempo, che nella maggior parte dei casi non nasconde-
vano i propri sentimenti anti-austriaci. Tuttavia, questo non significa che Verdi abbia partecipato attivamente alla vita
politica, pur avendo idee chiare, orientate all’inizio in senso repubblicano e poi, dopo l’incontro con Cavour, al progetto
di un’unità sotto la guida della monarchia dei Savoia.
L’unico momento in cui Verdi esprime pubblicamente i suoi ideali patriottici è nel 1848, quando la libertà dell’Italia
sembra vicina: scrive all’amico Piave il 21 aprile 1848: “L’ora è suonata, siine pur persuaso [sii sicuro di questo], della
liberazione. è il popolo che la vuole: e quando il popolo vuole non avvi [c’è] potere assoluto che le possa resistere! Sì,
sì, ancora pochi anni, forse pochi mesi e l’Italia sarà libera, una, repubblicana”.
In questo clima scrive un’opera dal chiarissimo messaggio politico, La battaglia di Legnano, dove la sconfitta di Federico
Barbarossa [imperatore tedesco che cerca di annullare la libertà dei Comuni del Nord] simboleggia in modo chiaro la
sconfitta degli stranieri che occupano l’Italia.
Ma quando i moti insurrezionali del 1848 vengono repressi nel sangue, Verdi si allontana dalla partecipazione attiva,
torna a essere in primo luogo un compositore, anche se non abbandona le speranze di un riscatto nazionale.
Tuttavia, nell’immaginario popolare il suo nome resta legato in modo indissolubile agli ideali risorgimentali e si trasfor-
ma addirittura in uno slogan rivoluzionario che, apparso per la prima volta sui muri di Roma, si diffonde rapidamente in
tutta Italia: “Viva VERDI” significa “Viva V[ittorio] E[manuele] R[e] D’I[talia]”.
Il musicista si convince che l’unità d’Italia non può avvenire attraverso le rivolte popolari e che l’idea repubblicana di
Mazzini sia un’utopia irrealizzabile, e pensa che solo con una paziente opera diplomatica in nome dei Savoia sia possibile
assicurarsi l’appoggio dei governi europei.
Dopo l’unità d’Italia per cinque anni, dal 1861 al 1865, Verdi è parlamentare, ma poi abbandona questo ruolo, convinto
di essere più utile al Paese come artista che come deputato. Il suo impegno politico si trasforma dunque, dopo l’unità,
nel fermo richiamo a ideali di pace e di fratellanza, lontano dai compromessi della politica.

Adattato da <http://www.verdi.san.beniculturali.it/verdi/?page_id=221>

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Capitolo 5

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La Scapigliatura

Testi di approfondimento
Nella seconda metà dell’Ottocento gli scrittori sentono una situazione di chiusura, di immobilità sul piano culturale e
sociale e cercano in se stessi qualcosa di nuovo che si opponga in qualche modo ai canoni vecchi della tarda letteratura
romantica. In Italia tale situazione è più pesante: il Romanticismo italiano (a parte Foscolo, Manzoni, Leopardi) si ca-
ratterizza come letteratura e poesia del Risorgimento perché i poeti e gli scrittori vedono nella creazione letteraria un
modo per promuovere gli ideali risorgimentali.
Alcuni poeti, come Giovanni Prati e Aleardo Aleardi, riscoprono il sentimentalismo,
ma producono una poesia senza forza e il loro scrivere in modi e forme ormai passate
produce reazioni molto forti da parte delle giovani generazioni. Tra questi giovani, si
nota anzitutto il movimento della Scapigliatura, che si sviluppa a Milano e in Lom-
bardia. È un fenomeno con caratteristiche geograficamente limitate proprio perché
a Milano c’è un’apertura culturale dove ogni reazione può esprimersi apertamente.
Il termine Scapigliatura viene dal titolo di un romanzo di uno di questi letterati,
Cletto Arrighi, La scapigliatura e il 6 febbraio: è una specie di programma letterario
dove sono espresse le esigenze fondamentali di questi nuovi poeti, che rifiutano
totalmente tutto ciò che è ‘passato’: rifiutano il sentimentalismo, abbandonano i
temi patriottici, criticano duramente la società in cui vivono, in particolare la classe
borghese, e l’unico modo per dimostrare la loro opposizione è fare il contrario di
quanto fatto fino a quel momento.
La loro prima esigenza sul piano politico è una nuova idea di ciò che è il ‘reale’: non
come in Verga e Zola, non la realtà com’è, ma la realtà brutta, orribile, disgustosa,
la realtà non è mai rappresentata in letteratura o poesia. Vogliono provocare la
borghesia descrivendo aspetti della realtà che per vergogna o buon gusto si cerca di
Daniele Ranzoni (1843-1889), nascondere. È un atteggiamento violento e volutamente scandaloso. È una reazione
La lettura contro il manzonismo e contro le sue tendenze di cattolicesimo liberale.
Come tutti i giovani che rifiutano le certezze ma non sanno dare alternative, anche la
poetica degli Scapigliati non è ben definita, è un insieme di temi senza unitarietà che dimostra l’incapacità di proporre
sistematicamente qualcosa di ‘nuovo’ che sostituisca il ‘vecchio’.
Il riferimento degli scapigliati è Baudelaire di cui riprendono il principio «sprofondare nell’abisso per trovarvi del nuo-
vo» – un programma certo lontano dagli ideali borghesi di Milano... Dai contemporanei la Scapigliatura, quindi, non
è apprezzata. De Sanctis, il grande critico di quegli anni, autore della prima Storia della letteratura italiana, la valuta
negativamente, non apprezza il modo in cui gli scapigliati fanno propria la nuova tendenza a riprodurre il reale. Carducci,
il poeta più famoso del periodo, li accusa di non avere ideali da proporre e di distruggere quelli che ci sono già.

Adattato da <http://www.epertutti.com/letteratura/La-Scapigliatura-Fortuna-criti32427.php>

Testi di approfondimento al volume Letteratura italiana per stranieri di P.E. Balboni, Edizioni Edilingua, www.edilingua.it 29
Capitolo 5

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Il Verismo
La tendenza al reale nasce come ‘verismo’ nell’ambito della filosofia positivista, è un’esperienza letteraria che ha bisogno
di verità, di oggettività. Il verismo italiano si collega con il naturalismo francese di Zola, che ha come base concettuale
l’evoluzione scientifica, che vede l’uomo come il prodotto di fattori ereditari, di ambiente sociale e di momento storico.
Allo scrittore verista si aprono in Italia i temi offerti da regioni assai differenti per storia, per modi di vivere, per mondi
sociali che vanno dalla campagna al mondo del sottosviluppo urbano, dalla borghesia all’aristocrazia. Per la prima volta
nasce, dall’interno della borghesia, una letteratura che guarda la vita popolare e ne denunciava degradazioni e miserie.
Per la prima volta dopo l’illuminismo le cose contano più delle parole, l’oggettività più della sensibilità individuale; il
genere letterario dei veristi, quindi, non è più la lirica ma la prosa.
Il romanzo non è più quello storico del Romanticismo, ma diventa una specie di inchiesta sulle condizioni presenti di
gruppi di uomini (pescatori, contadini, braccianti, artigiani, borghesi, finanzieri, politici, prostitute ecc.). L’ambiente
non è idealizzato, ma è studiato con occhio scientifico e viene mostrato nella sua realtà. I personaggi non sono i con-
tadini o i pescatori delle poesie sentimentali ma i braccianti [chi lavora nei campi ed è pagato a giornata], i padroni
inferociti dal timore di richieste economiche dei braccianti, le donne che lavorano nelle risaie, le lavandaie, le donne
perdute, le aristocratiche di classe viste nel loro contesto ecc.
I personaggi non si esprimono con un linguaggio letterario o autocensurato, ma usano la lingua parlata nei vari ambien-
ti, o almeno vicina a tali ambienti, con l’uso di termini regionali, locali, dialettali. La poetica del verismo abbandona il
fiorentino-popolare manzoniano per le nuove necessità di creare una lingua popolare capace di rappresentare ambienti
e luoghi diversi. Con ciò non vogliamo dire che tale letteratura sia espressione del popolo, ma che costituisca un avvi-
cinamento ai problemi della vita del popolo – quel popolo di cui la borghesia, cioè quelli che sanno leggere, ha paura
sociale. Lo scrittore borghese ha attenzione alla vita reale delle classi popolari, si concentra sulle loro sofferenze, ma
non ha fiducia nel socialismo anche quando esprime idee e sentimenti sociali.
Lo scrittore che con mezzi tecnici eccezionali interpreta il mondo della povertà e quello borghese della Sicilia è Giovanni
Verga. Nasce a Catania, una città che ha ancora una tradizione illuministica e ha una fiorente accademia scientifica che
studia anche l’ambiente storico e umano. Il rifiuto delle illusioni, il guardare la realtà dei fatti, consentono a Verga di
scoprire, con gli strumenti dell’artista, i danni economici e morali prodotti dall’industrializzazione nella parte più mo-
derna della società. Verga parte dalla Sicilia verso un mondo più aperto e moderno, scopre il sistema economico-morale
borghese settentrionale e lo condanna in assoluto, ma lo fa attraverso il punto di vista di un altro sistema: quello della
morale patriarcale della famiglia dei contadini e pescatori siciliani.
È un mondo di esseri che non hanno importanza, lasciati soli per legge, per abitudine, per morale pubblica, e che si
sentono essi stessi chiusi in un destino già deciso. Verga entra in loro con la sua moralità, ne capisce il coraggio e le
sofferenze. Il narratore non orienta l’interpretazione del lettore, fa vedere la realtà attraverso gesti, proverbi, storie.

Adattato da <http://www.storiadellaletteratura.it/main.php?cap=18&par=4>

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Capitolo 5

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Decadentismo, Estetismo e Parnassianesimo

Testi di approfondimento
Il Decadentismo è un movimento artistico e letterario nato in Francia e diffuso in Europa tra il XIX e il XX secolo.
Possono essere considerati precursori della sensibilità decadente autori come Charles Baudelaire (1821-1867) e
Théophile Gautier (1811-1872) i quali, per descrivere una condizione di disagio e di rottura rispetto agli ideali della
società borghese, contribuiscono alla rivalutazione positiva della parola ‘decadente’, usata inizialmente come forma di
disprezzo nei loro confronti.
In Francia il movimento nasce attorno al gruppo dei cosiddetti ‘poeti maledetti’, tra cui è possibile includere Paul Verlai-
ne (1844-1896), Stéphane Mallarmé (1842-1898) e Arthur Rimbaud (1854-1891), la cui opera è fortemente influenzata
dalle teorie simboliste; in Inghilterra il Decadentismo è invece più legato alle teorie estetizzanti del poeta e romanziere
Oscar Wilde (1854-1900) e negli Stati Uniti, la figura di riferimento può essere considerata Edgar Allan Poe (1809-1849).
Con il termine ‘decadentismo’, quindi, ci si riferisce a un clima che pervade gli ambienti culturali parigini nella seconda
metà dell’Ottocento e che incarna istanze di rifiuto della borghesia positivista, fiduciosa nel futuro ma al tempo stesso
legata alla società tradizionale, di cui i decadenti dimostrano il disprezzo con comportamenti e scritti giudicati immorali
dal senso comune.
Al Decadentismo è possibile avvicinare altri movimenti letterari del periodo, come l’Estetismo, nato dal Parnassianesimo
[il Parnaso è il monte del centro della Grecia sacro ad Apollo e alle Muse]. Quest’ultimo movimento nasce intorno a una
raccolta di poesie di autori diversi intitolata Il Parnaso contemporaneo, pubblicata nel 1871 e poi riedita nel 1876, e
raccoglie un gruppo poetico che vuole di una poesia ‘pura’, formalmente perfetta e lontana da qualsiasi calore emotivo.
Il principio base è quello dell’arte per l’arte, secondo cui l’espressione artistica deve trovare in sé, nei propri valori di
forma e di suono, e non in ideali patriottici o sociali, la propria bellezza; anche l’Estetismo recupera questa idea, svalu-
tando quindi i contenuti storici, morali o sentimentali del testo letterario e indulgendo spesso, come il Decadentismo,
sulle componenti più sensuali, morbose o strane della vita. È il mondo di Oscar Wilde e di Gabriele D’Annunzio.
In Italia il Decadentismo vive due differenti momenti, condizionati anche dalla situazione socio-politica in cui lavorano
gli autori.
Per quanto riguarda la prima fase, quella più estetizzante e legata alla tradizione dei maestri francesi, la figura di rife-
rimento è senza dubbio quella di Gabriele D’Annunzio.
Fortemente attratto dall’idea di fare della propria vita un’opera d’arte, D’Annunzio afferma il primato della vita estetica
sulla vita etica e incorpora nella sua lirica quelle esigenze sensuali che caratterizzeranno in seguito sia la sua opera
letteraria sia la sua vita privata.
Di natura differente è invece il Decadentismo pascoliano, le cui fondamenta affondano saldamente nel Classicismo e
che è percorso da una costante aria di inquietudine e pessimismo. Il simbolismo pascoliano osserva in profondità i
significati nascosti della realtà: il poeta si deve liberare della lettura razionale degli aspetti esteriori delle cose e risco-
prire la spontaneità, l’istintivo capace di trovare nuovi e imprevedibili collegamenti tra i dati del reale, come farebbe
la fantasia di un fanciullo, un bambino (Il fanciullino è il testo teorico in cui il poeta esprime questa sua visione del
mondo). L’attenzione di Pascoli è quasi sempre rivolta ad argomenti semplici e quotidiani, come gli oggetti della casa,
la campagna circostante, le piccole fatiche di tutti i giorni o i rumori degli animali e della natura che, nello sguardo del
poeta, diventano segni di una verità diversa, superiore e nascosta alla maggior parte delle persone comuni.

Adattato da
<https://library.weschool.com/lezione/decadentismo-riassunto-definizione-pascoli-d-annunzio-pirandello-svevo-16220.html>

Testi di approfondimento al volume Letteratura italiana per stranieri di P.E. Balboni, Edizioni Edilingua, www.edilingua.it 31
Capitolo 6

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Le avanguardie in Italia ed Europa
La parola ‘avanguardia’ è utilizzata per la prima volta in ambito artistico da Baudelaire (1864) per parlare ironicamente
del gruppo degli scrittori francesi di estrazione democratico-liberale, che vogliono essere più avanti degli altri.
Nel Novecento l’espressione si riferisce ai movimenti artistici e letterari che hanno origine tra il 1905 e il 1930, con l’in-
tenzione di opporsi ai valori estetici di fine Ottocento, rovesciandone le forme, i temi e le convenzioni. Le avanguardie
contestano anche i rapporti tra mercato e arte e si oppongono all’idea che l’opera d’arte possa essere ridotta a merce.
Futurismo
Una delle principali avanguardie è il Futurismo, il manifesto viene pubblicato da Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944)
sul giornale francese Le Figaro il 20 febbraio 1909. Il nome vuole indicare un’esplicita rottura con il passato in favore del
moderno e del progresso tecnologico, con l’esaltazione della civiltà delle macchine e della velocità. L’arte del passato deve
essere distrutta e i poeti futuristi si affidano principalmente ad una poetica distruttiva e incendiaria, che abolisce i
vecchi codici espressivi. Il movimento futurista ha prodotto numerosi manifesti che vanno dalla pittura al cinema, dalla
danza all’architettura, ma quello più rilevante sul piano letterario è certamente Il manifesto tecnico della letteratura
futurista (1912) di Marinetti; le parole d’ordine sono: la distruzione della sintassi, l’abolizione degli aggettivi e degli av-
verbi in favore delle catene di sostantivi, l’utilizzo del verbo all’infinito, l’eliminazione della metafora, l’utilizzo estremo
dell’analogia e dell’onomatopea, l’abolizione della punteggiatura e soprattutto l’attenzione per un lessico che richiami
i rumori, gli odori e la quotidianità della vita urbana. Inoltre Marinetti propone l’adozione del verso libero, poesie nelle
quali le parole possono essere messe con la massima libertà sulla pagina fino a creare immagini e disegni. Lo scopo del
futurismo è, infatti, quello di disintegrare ogni uso codificato della lingua.
Il futurismo è l’unico movimento culturale italiano del Novecento ad avere un’ampia risonanza anche fuori dai confini
nazionali: ad esempio, nel 1913 Guillaume Apollinaire (1880-1918), con la pubblicazione del manifesto L’antitradizione
futurista, collega l’esperienza del cubismo pittorico e del futurismo italiano. Anche l’americano Ezra Pound (1885-1972),
esponente dei movimenti poetici dell’imagismo e del vorticismo, frequenta il gruppo futurista e ne prende alcuni spunti
tecnici, nonostante la dura polemica contro la vuota retorica di Marinetti. Il paese che accetta più di tutti la rivoluzione
futurista è sicuramente la Russia, in particolare grazie a poeti come Velimir Chlebnikov (1885-1922) e Vladimir Maja-
kosvkij (1893-1930), e all’opera dei pittori appartenenti al cubofuturismo, in particolare Kazimir Malevič (1879-1935).
Espressionismo
In Germania domina il movimento d’avanguardia espressionista, nato nel 1905, come reazione violenta al naturalismo e
all’impressionismo dominanti in quel periodo. Gli espressionisti si oppongono con fermezza al mondo borghese, propo-
nendo il ritorno a una condizione primitiva dell’uomo, dominata dall’irrazionale e dall’istinto.
In Italia il movimento espressionista viene animato da alcuni scrittori che collaborano alla rivista La voce, fondata nel
1908 a Firenze da Giuseppe Prezzolini, che almeno in una prima fase vuole l’unione tra impegno civile e letterario.
Dadaismo e Surrealismo
Il Dadaismo cresce nel pieno della Grande Guerra a Zurigo come reazione all’orrore provocato dagli avvenimenti sociali
e politici del primo Novecento: sono artisti che vivono a Zurigo, città neutrale da cui osservano la tragedia dell’Europa.
Il termine dada rende bene il principio nonsense che sta alla base dell’arte dadaista, in quanto termine scelto a caso den-
tro un dizionario. Il dadaismo si pone in netto contrasto con i valori culturali, politici e morali del mondo borghese e per
questo privilegia l’assurdo, che rompe le categorie della logica dominante. Ben presto si diffonde in Germania e a Parigi.
Il nuovo metodo di fare poesia viene enunciato da Tristan Tzara nel Manifesto sull’amore debole e l’amore amaro (1920),
e consiste nel ritagliare tutte le parole di un articolo di giornale e nell’estrarle a caso da un sacchetto dopo averle me-
scolate. La poesia dadaista deve scaturire da un gesto rivoluzionario, attraverso suoni e parole in libertà ma, a differenza
del futurismo, con le parole-immagini e i suoni inarticolati si tenta di arrivare al ‘grado zero’ della scrittura.
Molti membri del dadaismo entrano nel movimento surrealista, nato in Francia nel 1924 con la pubblicazione del Manife-
sto del Surrealismo, scritto da André Breton (1896-1966), uno dei rappresentanti più importanti del movimento francese
insieme a poeti e scrittori come Paul Éluard (1895-1952) e Louis Aragon (1897-1982), Antonin Artaud (1896-1948) e
Georges Bataille (1897-1962). I principi del Surrealismo richiamano la teoria freudiana: non guardano al mondo logico
e razionale della realtà quotidiana ma a una dimensione ‘altra’: il sogno, l’inconscio e l’immaginazione contribuiscono
alla surrealtà, anche attraverso stati di ubriachezza e di effetti di droghe. Il metodo della scrittura surrealista è quello
della scrittura automatica, della libera associazione delle parole e delle immagini in un automatismo psichico che libera
totalmente l’individuo.

Adattato da Filippo Milani, La letteratura italiana del Novecento: un itinerario europeo,


<https://site.unibo.it/griseldaonline/it/letteratura-italiana/filippo-milani-letteratura-italiana-novecento-itinerario-europeo>
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Capitolo 6

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Il culto della bellezza nel XIX-XX secolo

Testi di approfondimento
All’inizio della seconda metà del XIX secolo dominano in Europa le solide virtù borghesi e i principi di un capitalismo in
espansione (è il periodo vittoriano in Inghilterra, il secondo impero in Francia).
Dopo la rivoluzione industriale, in un atteggiamento di critica contro il capitalismo, l’artista sente il bisogno di chiudersi
in una dimensione estranea alla realtà e farsi ‘diverso’, lontano dall’oppressione del mondo industriale.
Nasce così una vera e propria religione estetica, che considera la Bellezza come valore primario, superiore a qualsiasi
altro, unico oggetto di analisi dell’artista. La vita stessa deve essere vissuta come opera d’arte, in una continua ricerca
estetica. L’Arte si separa dalla morale e dalle esigenze pratiche, non deve rappresentare il vero e giudicare, è pura espres-
sione del Bello, ciò che provoca piacere estetico.
Si crea un legame inscindibile tra Bellezza e Arte: non vi è Bellezza che non sia opera di ‘artificio’, cioè ‘fatto ad arte’,
‘fatto dall’arte’. Di conseguenza cresce una forma di disprezzo verso la natura, avvertita come una banale manifestazione
del mondo su cui l’Arte deve necessariamente intervenire. «Più studiamo l’arte meno ci interessa la natura», afferma Wil-
de, e Whistler precisa che «La natura è abitualmente sbagliata»: la natura non può produrre Bellezza senza l’intervento
dell’arte. Da qui la considerazione del Realismo come il più totale fallimento della rappresentazione del Bello.
Dall’idea che l’arte crei una seconda natura, migliore di quella autentica, si passa all’idea che l’arte sia violazione del-
la natura. L’Arte possiede una vita indipendente rispetto al reale e procede in maniera del tutto autonoma rispetto a
quest’ultimo e all’epoca in cui essa stessa si sviluppa.
Tutto ciò si manifesta nel movimento artistico-letterario dell’Estetismo.
Etimologicamente, il nome ha origine dal greco aisthesis, ‘sensazione’, poiché per l’esteta tutto avviene attraverso
percezioni sensoriali. Attraverso i sensi si riscopre l’anima degli oggetti, ma ogni artista elabora diverse interpretazio-
ni della realtà: per questo non esiste una realtà univoca, ma solo ciò che passa sotto la sfera percettiva del creatore.
L’artista è un Dio creatore che crea e osserva il mondo intorno a sé, pone se stesso al centro di questo mondo, come
protagonista e governatore assoluto da cui dipendono tutti gli eventi.
Il culto della forma prevale sul contenuto, l’intuizione prevale sul pensiero, il gusto prevale sulla razionalizzazione. L’ar-
tista vuole trasformare la sua vita in opera d’arte, sostituendo alle leggi morali le leggi del bello, allontanandosi dalla
bruttura del mondo, dalla società borghese materialista interessata esclusivamente al profitto. Gli scrittori diventano
quindi ‘sacerdoti’ della Bellezza.

Adattato da Eleonora Bertola, Il culto della bellezza nel XIX-XX secolo,


<http://sezionex.blogspot.com/2012/05/il-culto-della-bellezza-estetismo-di.html>

Testi di approfondimento al volume Letteratura italiana per stranieri di P.E. Balboni, Edizioni Edilingua, www.edilingua.it 33
Capitolo 6

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Il superuomo dannunziano
Di solito si dice che il Superuomo dannunziano nasce nel gennaio 1895, con l’inizio della pubblicazione del romanzo Le
vergini delle rocce, e con la figura insieme epica ed estetizzante di Claudio Cantelmo, protagonista del romanzo. I temi
“di potenza e di predominio” (come D’Annunzio li chiama in una lettera) di Cantelmo sono in realtà già presenti tra i
versi di alcune delle odi più cariche di sentimento superumano presenti nella seconda raccolta di poesie di D’Annunzio,
Canto Novo. Negli anni successivi la presenza del superuomo diventa elemento fondamentale della poetica matura di
d’Annunzio, in quei momenti di grande interesse, in Italia e in Europa, per la figura del superuomo, che assume una
posizione di primo piano in molte riflessioni degli intellettuali.
Il superuomo ha fondamentalmente tre caratteristiche peculiari:
- “energia” o “forza”, che diventa poi volontà di dominio,
- “esuberanza sensuale”, cioè l’espressione libera dei diritti del corpo e della natura umana,
- “culto della bellezza”, punto che differenzia gli uomini scelti, i superuomini, dalla realtà del popolo qualunque.
A seconda dei momenti della vita di Gabriele d’Annunzio e dei suoi impulsi intellettuali, il suo superuomo tende mag-
giormente all’una o all’altra delle caratteristiche presentate sopra, come conseguenza della sua percezione delle realtà
politico-sociali presenti intorno a lui.
In particolare, la produzione che si estende dalla raccolta di poesie Primo Vere (1879) e giunge fino alla pubblicazione
sul mercato letterario dei due romanzi Giovanni Episcopo e L’innocente, entrambi pubblicati nel 1892, mostra l’imma-
gine di un’evoluzione nell’idea di superuomo: all’inizio c’è un’esaltazione chiaramente legata alla ricerca di un piacere
sensuale diffuso, ottimistico e pieno di vitalità, ma non c’è ancora un distacco dal resto del mondo abitato da ‘schiavi’,
in seguito prevale un’attrazione profondamente decadente verso i piaceri intellettuali e fisici legati alla religione del
Bello (Isaotta Guttadàuro, Il Piacere), con una sensualità vissuta anche al di là dei limiti del pudore, che segna la linea
di confine fra la componente superumana e la realtà circostante, ‘barbara’ ed ignorante del vero.

Adattato da Massimo Ottoveggio, <https://gabrieledannunzio.it/estetizzazione-della-politica-e-della-guerra/>

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Capitolo 6

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Luigi Pirandello, la vita reale e la “forma” in cui ci appare

Testi di approfondimento
Pirandello cresce nel periodo di una crisi che ha due aspetti: da una parte, la crisi storica e sociale dell’Italia; dall’altra,
la crisi della cultura positivistica, la caduta cioè dei valori e delle certezze acquisite, dei miti della ragione, della scien-
za, del progresso, che si esprime nella contemporanea cultura del decadentismo. Questa seconda crisi trova nell’opera di
Pirandello una delle sue più importanti espressioni: l’uomo non è più in grado di conoscere e di padroneggiare il mondo
esterno, non conosce più se stesso e non si appartiene. Viene da qui il relativismo di Pirandello, che utilizza il linguaggio
del teatro per definire la vita come una “buffoneria”, una “fantocciata”, una “pupazzata”.
Dal libro Le alterazioni della personalità di Binet, Pirandello prende l’idea che la personalità dell’uomo non è una, ma
molteplice; da questo spunto, verrà uno dei suoi temi decisivi, quello della follia: i suoi personaggi si sdoppiano, sono
dissociati, sono contemporaneamente “uno, nessuno e centomila”.
Una seconda fonte di riflessione per Pirandello è il Saggio sul genio dell’arte di Sèailles, secondo il quale noi non sen-
tiamo le cose come sono, le sentiamo per il modo in cui ci appaiono, a seconda della nostra educazione, della nostra
mentalità, della situazione in cui ci troviamo.
Più tardi, nel libro Le finzioni dell’anima di Marchesini, Pirandello trova l’idea che non esistono valori morali certi: l’idea
del bene, il dovere, ecc., sono semplici ‘credenze’, che Pirandello chiamerà poi “forme”.
Il tema contrasto tra la vita e la “forma” è un altro dei temi pirandelliani. Il tema della “forma”, ciò che ostacola, contrasta
il flusso, lo scorrere tranquillo della vita, è importante per capire come Pirandello maturi l’esigenza del teatro: infatti, il
palcoscenico è un mondo finto, su cui non si muovono uomini vivi, ma personaggi, ossia “maschere”. Nel teatro greco gli
attori portavano una grande maschera, esageratamente comica o tragica, che mostrava subito la natura del personaggio
rappresentato. Togliersi la maschera dal viso vuol dire recuperare la “vita nuda”, un’esistenza sincera e piena.
Per Pirandello, il teatro è un luogo-simbolo, il luogo della falsità, delle apparenze sociali; cerchiamo la vita vera e invece
siamo costretti a vivere in un mondo falso, nel mondo delle maschere, dei “pupi” [le marionette del teatro cavalleresco
siciliano].
Pirandello descrive questo contrasto tra realtà e maschera usando l’umorismo. Secondo lui, lo scrittore umorista è un
autore ‘debole’: l’umorista non può, né vuole, ricomporre la realtà in forme ‘belle’, come pensavano i classici, e non vuole
mettersi al centro dell’opera, non è insomma un genio che crea, come pretendevano i romantici. Egli non è più colui
che scrive, ma colui che tra-scrive; Verga aveva già teorizzato il principio per cui l’autore deve ‘nascondersi’, non deve
essere presente nella sua opera, ma adesso Pirandello sposta ancora più in là questa rinuncia al tradizionale ruolo dello
scrittore che ri-costruisce il mondo: l’autore sparisce, diventa muto, si annulla; perciò i suoi personaggi, e non solo i
Sei personaggi della sua opera più famosa, viaggiano qua e là in cerca di autore.
Ciò che resta cruciale è la perfetta corrispondenza in Pirandello tra il relativismo della visione umana delle cose e l’umo-
rismo di chi le descrive: il relativismo gli rivela il caos del mondo; l’umorismo è la forma d’arte più adatta per esprimerlo.

Adattato da <http://www.epertutti.com/italiano/PIRANDELLO-NOVELLIERE-E-LA-CRI22538.php>

Testi di approfondimento al volume Letteratura italiana per stranieri di P.E. Balboni, Edizioni Edilingua, www.edilingua.it 35
Capitolo 6

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L’Ermetismo, tra analogia e sinestesia
Non è possibile comprendere a pieno la poesia italiana del Novecento e la letteratura della prima metà del secolo senza
conoscere l’Ermetismo, una corrente letteraria vasta, composita, complessa, che ha avuto un grande influsso nello sce-
nario letterario italiano.
Nato tra gli anni Venti e gli anni Trenta del Novecento, nel vivace ambiente culturale fiorentino, l’Ermetismo può essere
considerato, almeno all’inizio, una corrente letteraria piuttosto che una scuola; è un atteggiamento di alcuni autori nei
confronti della poesia, delle sue possibilità espressive, dei suoi temi e dei suoi stili – e questo atteggiamento è anzitutto
una forma di reazione al dominio culturale fascista e agli anni del Ventennio: estranei e disgustati dalla propaganda del
regime, alcuni intellettuali che collaborano alla rivista Solaria scelgono una forma d’arte che possa ignorare il regime,
che possa ignorare la Storia che stanno vivendo.
Il termine Ermetismo deriva da un saggio del 1936, dal titolo Poesia ermetica, dove il critico letterario Francesco Flora
lo utilizza con chiaro riferimento alla figura mitica di Ermete Trismegisto, per indicare una poesia oscura e complessa
che, sull’esempio del decadentismo francese e in particolare di Mallarmé, privilegia l’analogia e altre figure retoriche di
difficile interpretazione, ha una forte componente simbolica ed esprime una condizione storica ed esistenziale caratte-
rizzata dall’angoscia e dalle difficoltà di cui l’atmosfera soffocante del regime è la causa principale.
La poesia che si afferma con gli Ermetici è una poesia nuova, frutto di un lungo lavoro di ricerca e di sperimentazioni
precedenti, ed è caratterizzata da una nuova musicalità. Gli ermetici puntano sull’essenzialità della parola, posta in
stretta unione con il gioco analogico; tendono a realizzare un’espressione molto compressa, breve, che produce brevissi-
mi momenti lirici capaci di esprimere l’inesprimibile, di mostrare attraverso frammenti, minime informazioni, la sostanza
segreta del reale. Proprio per questo è privilegiata l’analogia, una figura retorica che realizza l’essenzialità, contro un
procedimento logico-discorsivo di tanta poesia precedente.
Assieme all’analogia l’altra figura che meglio aiuta a spiegare il procedimento stilistico dell’Ermetismo è la sinestesia
[vedi glossario], in cui sensazioni che arrivano da sensi diversi e immagini tra loro lontane sono fuse e collegate.
Il rifiuto dei modelli espressivi tradizionali è una scelta etica prima che stilistica: isolandosi nella difficile scelta della pa-
rola ci si salva dalla contaminazione con la retorica fascista (una scelta, però, non condivisa da tutti se si pensa all’iniziale
vicinanza di Ungaretti con Mussolini). La storia non è quella esterna, la Storia, ma quella intima e personale, con i temi
della solitudine, della ricerca del valore della parola essenziale e dei rapporti analogici tra gli elementi della realtà.
Solaria (una rivista che esce a Firenze dal 1926 al 1936) diventa il luogo in cui le varie scelte poetiche individuali
diventano un movimento, che assume le tipiche caratteristiche di una scuola, attraverso l’utilizzo di modelli comuni.
Si tratta di autori che condividono la purezza della parola senza abbellimenti, dal gusto delle cose enigmatiche, dal
compiacimento élitario dell’oscurità del significato comprensibile solo a chi conosce i riferimenti, da un intellettualismo
che aumenta la distanza con il grande pubblico e riserva questo genere di poesia a pochi lettori raffinati.

Adattato da Simone Casavecchia, Che cos’è l’Ermetismo, <https://www.sololibri.net/Ermetismo-cos-e.html>

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Capitolo 7

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Il Neorealismo tra letteratura e cinema

Testi di approfondimento
Non è facile dare una definizione di Neorealismo, dal momento che non si tratta tanto di un movimento culturale o di
una corrente letteraria dal manifesto poetico ben definito (come nel caso del Futurismo) o dalle caratteristiche comuni
(come per l’Ermetismo degli anni Trenta), quanto di una tendenza e di un ‘clima’ complessivo della cultura e della
narrativa italiana degli anni ’40-’50.
Italo Calvino, nella Prefazione del 1964 a Il sentiero dei nidi di ragno, scrive che il Neorealismo «non fu una scuola, ma
un insieme di voci, in gran parte periferiche, una molteplice scoperta delle diverse Italie, specialmente delle Italie fino
allora più sconosciute dalla letteratura». Si può quindi parlare di un orientamento di diversi autori verso un rinnova-
mento tematico, contenutistico e linguistico della letteratura e del ‘fare’ letteratura.
Questa esigenza di cambiamento coincide del resto con il mutamento della situazione politica italiana, con il passag-
gio dal fascismo alla repubblica, attraverso la drammatica esperienza del secondo conflitto mondiale e della guerra di
Liberazione.
La produzione neoralista – richiamandosi sin dal nome alle esperienze del realismo ottocentesco e del verismo di Verga
– vuole descrivere la realtà contemporanea di un Paese di fronte a sconvolgimenti enormi; l’attenzione per il reale e la
riscoperta di piccoli mondi regionali si uniscono con lo scopo di una riflessione etica e civile attraverso lo strumento
del romanzo e della narrazione. Questo interesse per le culture locali, evidente nelle ambientazioni di molte opere, si
esprime innanzitutto nella scelta di dialetti e di forme linguistiche regionali per far parlare i propri personaggi.
Due sono i romanzi che anticipano la stagione neorealista, pubblicati entrambi nel 1941: Conversazione in Sicilia di Elio
Vittorini e Paesi tuoi di Cesare Pavese. Ma è dal 1943, con la caduta del regime fascista, fino alla fine degli anni Qua-
ranta che si realizza il periodo d’oro della scrittura neorealista: nel 1945 sempre Vittorini pubblica Uomini e no, scritto
nel 1944 e considerato il primo romanzo sulla Resistenza; nel 1947 escono Il sentiero dei nidi di ragno di Calvino, Il
compagno di Pavese e Cronache di poveri amanti di Vasco Pratolini. In questi romanzi si trovano alcuni tratti comuni:
un linguaggio, un’ambientazione e dei personaggi popolari; una funzione etico-morale della narrazione; il racconto di
storie di vita vissuta.
Dagli anni Cinquanta inizia il graduale superamento della poetica neorealista, che nel frattempo si è estesa anche al
cinema, con nomi quali Roberto Rossellini, Vittorio De Sica, Luchino Visconti, Cesare Zavattini, Giuseppe De Santis e
Pietro Germi.
Questa tendenza cinematografica, la più importante del secondo dopoguerra, ha luogo in Italia negli anni Quaranta-
Cinquanta: è un approccio al cinema di finzione diverso da quello del cinema precedente ed avrà per anni un’influenza
enorme nel cinema mondiale.
Nell’Italia uscita dalla guerra e dalla dittatura, quando si sentiva forte il bisogno di una rinascita politica e sociale, gli
autori di sceneggiature e registi cinematografici propongono un cinema che scava nella realtà del presente e nel più
recente passato, raccontando storie, temi e personaggi di quel mondo reale su cui bisogna agire per cambiare la realtà.
L’industria cinematografica italiana è stata annullata dalla guerra, il mercato nazionale è invaso da film americani, gli
‘studios’ di Cinecittà sono stati distrutti, per questo i neorealisti scelgono di fare i loro film fuori dagli studi, di tornare
a girare per strada e nelle campagne, con attrezzature leggere ed economiche. Dopo anni di doppiaggio di film stranieri,
gli italiani, hanno ormai perfezionato l’arte della sincronizzazione del sonoro, le troupe possono quindi girare dal vivo
e registrare i dialoghi dopo, in fase di postproduzione.
Il movimento neorealista può essere distinto in due fasi: una prima fase che affronta temi del più recente passato, gli
anni della guerra, la Resistenza ecc., ed una seconda fase, a partire dal 1948, che affronta invece temi di rilevanza
sociale. Roma città aperta (1945) di Roberto Rossellini e Ladri di Biciclette (1948) di Vittorio De Sica sono i film più
rappresentativi di queste due fasi.
Nel cinema classico si fa grande attenzione all’economia del racconto, tutto è funzionale alla narrazione, anche nei
momenti di passaggio si possono cogliere elementi utili a collegarne le varie fasi. Non è così nei film neorealisti che
tendono a riportare tutti gli eventi sullo stesso livello, la cinepresa indugia su situazioni ordinarie, comportamenti quo-
tidiani, ma che spesso si rivelano le scene più intense del film.
I registi e gli scrittori neorealisti non mettono in scena un mondo di cui capiscono il senso: essi osservano, indagano la
realtà che descrivono, la documentano. In questo modo di raccontare sta il segreto del realismo di questi film.

Adattato da Breve storia del cinema, <http://brevestoriadelcinema.altervista.org/20-1.html>

Testi di approfondimento al volume Letteratura italiana per stranieri di P.E. Balboni, Edizioni Edilingua, www.edilingua.it 37
Capitolo 7

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Moravia e il cinema
Intellettuale, voce di un secolo, molto più che un semplice scrittore:
stiamo parlando di Alberto Moravia, romanziere, giornalista, saggista,
critico e drammaturgo.
Decadenza morale, tramonto della borghesia e crisi esistenziale: questi
i temi centrali in tutta l’opera di Moravia. Questo stato di insofferenza
non diventa mai denuncia o ribellione sociale, ma si esprime nella noia
e nelle vicende dei borghesi, ed è presente in ogni suo scritto, lettera-
rio e giornalistico. Del Moravia giornalista si parla poco: ma il suo con-
tributo è stato immenso, dai suoi report di viaggio alla sua attività di
critico cinematografico. Ed è proprio la sua connessione con il cinema
che vale la pena approfondire. Moravia, Pasolini, Antonioni
Moravia comincia a occuparsi di cinema prima in radio, poi nel 1957
comincia la sua collaborazione con L’Espresso. Gli articoli di Moravia sul cinema non sono solo recensioni, ma anche
interviste e riflessioni sul panorama italiano. Un’attività parallela a quella dello scrittore, durata incredibilmente tutta
la vita.
Le esplorazioni di Alberto Moravia in oltre mezzo secolo di storia cinematografica (tra Visconti, Fellini, Antonioni, Paso-
lini, Moretti e tanti altri) non sono quelle tipiche di un critico specializzato nel settore, eppure Moravia ha un ruolo di
primo piano tra i suoi colleghi perché le sue mancanze di competenza specifica del campo cinematografica lascia spazio
a riflessioni sull’ambiente del cinema, sulla società e altro.
Per Moravia cinema e letteratura sono sia mezzi per raccontare storie, sia uno specchio con il ritratto della società del
tempo. Ed è per questo che egli si dedica anche a scrivere sceneggiature, cioè testi per film: da Ossessione (1943) di
Luchino Visconti a La donna del fiume (soggetto del 1953 scritto con Flaiano, Pasolini e Bassani). Film che hanno molto
in comune con la sua poetica: dai temi trattati, quali i problemi sociali e il tramonto della borghesia, alla sensibilità
tormentata dei personaggi.
I suoi romanzi inoltre si prestano molto bene all’adattamento cinematografico: le sue storie sono diventate sogget-
ti diretti dai registi più noti. Tra i migliori film tratti dai suoi romanzi vanno ricordati: Il conformista, diretto da un
Bernando Bertolucci, ispirato dall’erotismo, dal disprezzo, dalla noia, dall’indifferenza – temi più attuali che mai – e,
ovviamente, La Ciociara, diretto da Vittorio De Sica. Film del 1960, in cui la bravissima Sophia Loren dimostra a tutti
che è una stella del cinema e in cui il dolore della guerra vista dagli occhi di una contadina diventa il ritratto di un
pezzo di storia italiana.
Alberto Moravia non è un regista, non è uno studioso del cinema eppure, grazie al suo modo di scavare la realtà e di
sviscerarla mettendo a nudo i sentimenti e i desideri più barbari della natura umana, ha inconsapevolmente aperto la
strada a numerosi artisti (come Bertolucci e Pasolini), i quali non hanno avuto paura di esprimere il loro mondo interiore
attraverso dipinti grotteschi e scomodi del quotidiano. Moravia non è solo uno scrittore, Moravia è un modus vivendi
del cinema.

Adattato da Carmen Palma, in MIfacciodiCultura,


<http://www.artspecialday.com/9art/2017/11/28/alberto-moravia-cinema-cuore-dellartista/>

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Capitolo 7

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Gadda, l’italiano e i dialetti

Testi di approfondimento
L’opera di Carlo Emilio Gadda è difficilmente collocabile all’interno della letteratura italiana, perché sfugge a qualsiasi
classificazione, non si lascia incatenare in categorie né analizzare con parametri predefiniti a causa della sua comples-
sità ed eterogeneità.
Nonostante questo apparente essere fuori dal mainstream Gadda è anche lo scrittore italiano che ha più influenzato le
successive generazioni della letteratura italiana fino ai giorni nostri: infatti l’Italia è piena di nipoti, nipotini, pseudo-
nipoti dell’ingegnere.
La grandezza di Gadda sta nell’essere riuscito a fondere la sua abilità nel manipolare la lingua e i linguaggi con la pos-
sibilità di ricostruire e recuperare generi della tradizione letteraria italiana, creando nuove e impreviste architetture
romanzesche.
L’obiettivo di Gadda è quello di sfuggire, attraverso il plurilinguismo e la contaminazione tra registri diversi, alla tradi-
zionale contrapposizione tra realismo e antirealismo, tra una narrativa specchio della realtà e una letteratura fantastica.
In questo modo egli crea una macchina narrativa che sta in equilibrio tra una continua tensione alla disgregazione, in
cui cioè ogni parte rischia di andare via per conto suo, e una estrema compattezza formale, compiendo una delle più ri-
levanti sperimentazioni del modernismo europeo. L’opera di Gadda, insomma, non ha nulla da invidiare a quella di Joyce
o Céline, ma a livello europeo, forse per le difficoltà legate alla traduzione (in realtà condivise con molti altri scrittori
modernisti), non ha ottenuto il riconoscimento che avrebbe meritato.
Gadda non può accettare l’idea che di andare necessariamente verso un monolinguismo italiano, che suona falso perché
viene imparato per obbligo a scuola attraverso le buone regole grammaticali; Gadda vede che il dialetto, invece, conser-
va la vivacità, la naturalezza e l’immediatezza espressiva della lingua d’uso, non studiata a tavolino. Per queste ragioni,
ma non solo, la tradizione dialettale milanese diventa un modello di riferimento indispensabile per Gadda – anche se
Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, apparso in cinque puntate tra il 1946 e il 1947, e pubblicato nel 1957, usa
il dialetto romano.
Il pastiche linguistico gaddiano nasce dalla necessità di convertire il disordine delle cose in un’organizzazione razionale
e in una visione rigorosa del reale, che però porta a scoprire che anche se è riorganizzato il reale è ancora in disordine,
che c’è un intreccio caotico di relazioni dietro all’apparente semplicità delle vicende messe in ordine. Il compito della
scrittura è allora quello di riprodurre fedelmente la molteplicità infinita delle relazioni di cui ogni manifestazione del
reale è espressione, rifiutando le norme convenzionali.
Lo scrittore quindi deve usare tutti i possibili sinonimi di una parola o un concetto «usati nelle loro variegate accezioni
e sfumature, d’uso corrente, o d’uso rarissimo». In questo modo Gadda apre la propria scrittura a un’ampia presenza di
varianti dialettali, con l’impiego simultaneo di più registri linguistici e di scelte stilistiche sempre rinnovate.
La grandezza dell’opera di Gadda sta probabilmente in una paradossale opposizione: da un lato, la sua capacità di
mettere insieme sulla pagina le tante lingue italiane, con un’operazione di estremo realismo linguistico, dall’altro il
fatto che non è imitabile, perché è un tale maestro che nessuno scrittore giovane può neanche pensare di fare un altro
pasticciaccio linguistico.

Adattato da Filippo Milani, La letteratura italiana del Novecento: un itinerario europeo,


<https://site.unibo.it/griseldaonline/it/letteratura-italiana/filippo-milani-letteratura-italiana-novecento-itinerario-europeo>

Testi di approfondimento al volume Letteratura italiana per stranieri di P.E. Balboni, Edizioni Edilingua, www.edilingua.it 39
Capitolo 7

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Il Gattopardo, da romanzo ‘di destra’ a film ‘di sinistra’
Ci sono dei romanzi (e dei film) capaci di dar forma nelle loro pagine (e nelle loro immagini) alle tensioni che attraver-
sano la società. E ci sono dei saggi (e dei saggisti) che poi sanno ritrovare e spiegare lo ‘spirito dei tempi’ rappresen-
tato da quei libri o film. E che, soprattutto, ci aiutano a capirlo meglio. È il caso del Gattopardo, uscito in libreria l’11
novembre 1958 e come film il 27 marzo del 1963. È il mistero di come un romanzo poco amato (per non dire di peggio)
dall’establishment letterario sia divenuto un caso letterario e poi un classico, e di come un regista come Visconti abbia
trasformato un romanzo ‘di destra’ in un successo ‘di sinistra’.
Da subito, infatti, la politica diventa la chiave di un libro che il suo autore non riesce nemmeno a veder stampato (muore
a Roma il 23 luglio del ’57, prima che l’editore Feltrinelli accetti di pubblicare il romanzo, dopo che altri editori l’hanno
rifiutato). Le prime recensioni sono favorevoli (come quella di Montale sul Corriere) ma poi i problemi nascono a sinistra.
Le riflessione del protagonista, il Principe di Salina, sul fatto che bisogna che “tutto cambi perché nulla cambi” viene
visto come il segno di una visione antistorica, contraria a ogni idea di progresso. E così i meriti letterari che in tanti
riconoscono nel libro passano in secondo piano davanti alle accuse ‘politiche’ della critica di sinistra, che domina nei
giornali e nelle case editrici.
Sono anni in cui la cultura ha un ruolo fondamentale nella lotta politica e Il Gattopardo diventa il campo di battaglia
in cui si misurano schieramenti contrari, soprattutto quando il romanzo vince il Premio Strega sconfiggendo gli altri
concorrenti, tra questi anche Pasolini.
Ma il romanzo ha un grande successo popolare (in otto mesi, 100 mila copie vendute), e il cambiamento di prospettiva
arriva dal più inaspettato dei “compagni di strada” cinematografici del Partito Comunista, Luchino Visconti, detto il
“conte rosso” perché non solo è nobile ma è anche da sempre schierato con la sinistra e con il PCI. È lui che convince
Goffredo Lombardo, il direttore della casa cinematografica Titanus, ad affidargli il film che all’inizio doveva essere diretto
da altri registi certo meno noti. Ed è soprattutto lui che garantisce di diminuire la forza di alcuni aspetti del romanzo,
riportandolo nel grande fiume della lettura ‘progressista’, di sinistra, del nostro Risorgimento.
Tagli di alcune scene e inserimenti di nuovi dettagli sono gli strumenti che usa Visconti: da una parte inserisce elementi
che in parte prende da Verga (la novella Libertà) e De Roberto (I Viceré), dall’altra taglia qualche dettaglio e così nel
film il conservatore Principe di Lampedusa rientra nel percorso per cui la storia marcia sempre verso il progresso.
Ma durante la trasformazione del romanzo in film, curiosamente, si rendono sempre meno necessarie le correzioni ‘ideo-
logiche’ che avrebbero dovuto rendere il romanzo più accettabile in una logica marxista. La fedeltà del film alle battute
del romanzo, alle situazioni descritte da Tomasi di Lampedusa, finisce per mascherare gli ‘aggiornamenti’ ideologici, che
forse scompaiono nei cinque tagli con cui Visconti accorcia la copia distribuita in Italia per presentarla a Cannes (da
205 minuti a 185) e che da allora diventa la versione ufficiale del film.

Adattato da Paolo Mereghetti, <http://ricordidieva.blogspot.com/2013/04/paolo-mereghetti-e-il-gattopardo.html>

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Capitolo 7

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Scrittrici che hanno dato voce al mondo femminile

Testi di approfondimento
In secoli di storia della letteratura, la donna è stata scritta e raccontata dall’uomo, come se la voce femminile potesse
farsi sentire solo attraverso la parola orale. La donna scrittrice è, in verità, una realtà pressoché costante, sin dalle ori-
gini della letteratura, però è stata penalizzata dalla debolezza sociale della sua figura e dalle censure di una letteratura
ufficiale aderente ai canoni maschili. In tal modo, essa appare una voce nel deserto e le sue opere sono lasciate in una
zona d’ombra.
Qualcosa però cambia fino dalla prima metà del Settecento: è il momento in cui si realizza l’affermazione sociale della
donna come scrittrice. Emerse dal loro stato di silenzio, le donne si impegnano in forme di letteratura spesso facili (gli
epistolari, i diari, le autobiografie) ma anche nel romanzo, genere letterario ancora giovane e quindi libero dai modelli
letterari maschili. Ma mentre l’Inghilterra ci presenta, solo nell’800, nomi come Jane Austen, Emily e Charlotte Brönte,
George Eliot, l’indice degli autori della nostra letteratura mostra quanto sia limitato il numero dei nomi di donna che la
tradizione ha tramandato dalle origini fino a oggi.
È soprattutto a partire dagli anni ’70 del Novecento che, grazie agli scritti dell’inglese Virginia Woolf e della francese
Simone de Beauvoir, si avvia lo studio della letteratura dal punto di vista femminista e si lavora sulla ricostruzione della
tradizione letteraria femminile, che a partire dal secondo dopoguerra, diventa più consistente, come nel caso di Elsa
Morante, Lalla Romano, Natalia Ginzburg, Dacia Maraini, Susanna Tamaro, e altre.
Il XX secolo offre un quadro della nostra letteratura femminile che mostra la successione di tre generazioni di scrittrici
impegnate nella ricerca di una nuova coscienza di sé in quanto donne, ma anche di un’identità intellettuale femminile.
La prima generazione si forma a cavallo tra Ottocento e Novecento, quando si fanno timidamente spazio le idee del mo-
vimento di emancipazione femminile in Italia. Quasi tutte autodidatte, le scrittrici di questa generazione, al di là delle
scelte stilistiche, trasformano la scrittura in un percorso di coscienza. In questo contesto si distingue in modo singolare
la figura di Sibilla Aleramo che appare certamente, agli occhi dei contemporanei, una voce nel deserto: il suo romanzo,
Una donna, è un’opera di rottura, bandiera di un’effettiva presa di coscienza di un’autrice.
La seconda generazione è quella delle scrittrici nate all’inizio del secolo, adulte sotto il fascismo. Con la dittatura mus-
soliniana si va incontro a un periodo di grande chiusura socio-politica e culturale che sembra cancellare il percorso della
generazione precedente. In un clima di grande isolamento, ciascuna scrittrice, separatamente, ha dovuto costruire la pro-
pria presenza intellettuale e il proprio mestiere di scrittore. Un esempio è Anna Banti che con Artemisia sembra orien-
tarsi verso il romanzo storico, eppure supera la biografia tout court con una commistione di storia e contemporaneità;
i fatti ufficiali sono contaminati con digressioni e commenti dell’autrice sviluppando una duplicità dei piani temporali.
Infine, nella terza generazione di scrittrici del Novecento italiano si intrecciano due generazioni di donne, quella cre-
sciuta nel ventennio fascista e quella cresciuta nella prima repubblica. Sono scrittrici che vivono le lotte per l’emanci-
pazione rilanciate dal movimento femminista degli anni Sessanta-Settanta, che hanno segnato il passaggio da forme
di coscienza individuale a una coscienza collettiva e politica della propria condizione di donna. Emerge un nuovo modo
di interpretare la realtà femminile che si riflette nel romanzo neofemminista: il tema centrale non è più la conquista
dei diritti civili, bensì la denuncia delle nuove forme di esclusione della donna, indicando la coppia e la famiglia come
luoghi responsabili della perdita di valore dell’io femminile.

Adattato da Sara Foti Sciavaliere, Donne e letteratura italiana,


<http://www.ripensandoci.com/donna-letterature-scrittrici-italiane-novecento-sibilla-aleramo-una-donna-anna-banti-artemisia-
gentileschi-dacia-maraini-donna-in-guerra-la-lunga-vita-di-marianna-ucria-associazione-ripensandoci-itine/>

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Capitolo 7

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Eduardo De Filippo, Napoli e la sua lingua
Prima di affrontare, anche solo in maniera sommaria, un autore che ha scritto moltissimo e un personaggio centrale
della cultura italiana del Novecento come Eduardo De Filippo, bisogna anzitutto avere ben presente un aspetto: prima c’è
Napoli e poi il suo teatro… perché Napoli è l’unica città del mondo ad avere un ‘senso scenico’ così incredibilmente svi-
luppato e così profondamente legato al suo stesso essere, ‘senso scenico’ inteso come la tendenza alla rappresentazione
scenica della vita in tutti i suoi aspetti, sia belli che brutti, al fine di capirla, di renderla più sopportabile e, al limite,
di riderci sopra. La fame, i figli, i sogni, la malavita, la famiglia, i vicoli, l’arte di arrangiarsi: sono queste le tematiche
principali del teatro napoletano, non i tormenti dell’alta borghesia tipici della produzione del drammaturgo norvegese
Henrik Ibsen, i problemi psicologici dei testi pirandelliani o le tensioni spirituali e morali tipiche del teatro russo.
Sono argomenti all’apparenza semplici, banali ma difficili da rendere universali, che richiedono un’esperienza di vita
profonda, anche drammatica, per poterli descrivere e trasmettere con la giusta efficacia. È necessaria una contestualiz-
zazione molto forte dei temi e dei personaggi con il luogo da cui arrivano per permettere allo spettatore di comprendere
la vita vera che viene rappresentata dalla finzione scenica. Napoli, con le sue contraddizioni, tra ricchezze e miserie,
rappresenta lo sfondo ideale per questo teatro della realtà.
Napoli è senza dubbio la protagonista del teatro di Eduardo, una Napoli che può essere ‘milionaria’, come in una delle
commedie, oppure miserabile, tristissima o felicissima, ma sempre presente come una grande madre che abbraccia,
coccola, sgrida o punisce i suoi figli. In questo contesto si inserisce il teatro di Eduardo, che assorbe e rielabora la tra-
dizione teatrale napoletana, portandovi anche la riflessione novecentesca di autori come Pirandello e Beckett.
Il teatro del maestro napoletano denuncia le piaghe nella società e nei singoli individui, e solo la lingua napoletana
riesce ad esprimere alla perfezione la riflessione sull’ambiguità delle intenzioni nei rapporti umani. Nonostante la sta-
ticità scenica di molte commedie e l’uso del dialetto, Eduardo riesce a tenere l’attenzione dello spettatore (anche non
napoletani!) per tre atti grazie ad una forte caratterizzazione dei personaggi e a una maniacale attenzione per l’uso
delle parole. In scena ci sono pochi attori, le scenografie sono spesso elementari, le trame sono semplici, ma c’è una
straordinaria dialettica che rende ogni dialogo avvincente e costruito su misura per il personaggio. Le parole prendono
vita, producono sorrisi, tensione, commozione, mentre gli attori restano fermi.
Parole, gesti, sogni, illusioni: il teatro di Eduardo è tutto questo. Rappresenta il superamento del teatro napoletano
classico ed il suo ingresso nei palcoscenici internazionali – ma nonostante il successo, i premi, i riconoscimenti, Eduardo
non ha mai dimenticato da dove veniva, quell’intreccio di vicoli e stradine che costituisce il cuore della vecchia Napoli.
Non ha mai dimenticato la sua gente, la sua musica, il sole, il mare ed il profumo di Napoli, che ha sempre riproposto
anche nei lavori della maturità. Non ha mai ambientato commedie in un posto che non fosse la sua città natale; non
ha mai usato un altro linguaggio né usato altri personaggi, a dimostrazione di un legame totale con una città che, nel
bene e nel male, è stata attrice e spettatrice del suo teatro e della sua stessa vita.

Adattato da Gabriele Gambardella,


<http://www.900letterario.it/scrittori-del-900/eduardo-de-filippo-tra-palco-e-realta/>

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Capitolo 7

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Le ‘sei lezioni’ di Calvino

Testi di approfondimento
Nel 1984, Italo Calvino viene invitato dall’Università di Harvard a tenere un ciclo di lezioni, le “Charles Eliot Norton
Poetry Lectures”, nell’anno accademico 1985-1986. Purtroppo quelle lezioni non si tengono perché il 19 settembre del
1985 lo scrittore muore. Ma abbiamo i testi delle prime cinque lezioni e il progetto della sesta.
L’Università di Harvard lascia piena libertà allo scrittore riguardo il tema delle lezioni e Calvino decide di impostare il
lavoro sui valori letterari da conservare e da portare nel nuovo millennio, cioè in quello che attualmente viviamo.
Calvino propone sei parole chiave, ciascuna legata ad un valore letterario fondamentale, e le elenca in ordine di impor-
tanza: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità e coerenza.
Leggerezza
Il primo valore a cui Calvino si riferisce e che caratterizza la sua opera è la leggerezza: una “sottrazione di peso” che lui
stesso ha applicato alle figure umane, alle città ma soprattutto alla struttura del racconto e al linguaggio. La lezione vuole
dimostrare che «la leggerezza per me si associa con la precisione e la determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono
al caos»: è un valore e non un difetto, e Calvino lo esalta rifacendosi alle opere del passato e proiettandolo nel futuro.
Rapidità
Per sostenere il valore della rapidità, Calvino parte dal raccontare una vecchia leggenda che riguarda Carlomagno, sot-
tolineando come attorno all’anello magico – l’oggetto – si crei un campo di forze: «l’anello è un segno riconoscibile che
rende esplicito il collegamento tra persone o tra avvenimenti»: una funzione narrativa che deriva dalle saghe nordiche,
passando attraverso i romanzi cavallereschi e i poemi italiani del Rinascimento. Il segreto di questo genere di racconti
sta nella economia del racconto, un movimento senza sosta che procede quasi a zig-zag, ma che viene rapidamente
riportato al suo centro dall’oggetto-simbolo.
Esattezza
A proposito dell’esattezza, Calvino chiarisce che per lui essa consiste in tre cose: «un disegno dell’opera ben definito e
ben calcolato, l’evocazione di immagini visuali nitide, incisive, memorabili [...] e un linguaggio il più preciso possibile
come lessico e come resa delle sfumature del pensiero e dell’immaginazione».
«La precisione per gli antichi Egizi era simboleggiata da una piuma che serviva da peso sul piatto della bilancia dove si
pesano le anime».
Nella parte finale della lezione, lo scrittore si riferisce a Leonardo da Vinci, che si definiva “omo sanza lettere” eppure
proprio della parola scritta, e precisa, aveva bisogno.
Visibilità
La quarta lezione ruota attorno alla visibilità, e si apre con Dante nel Purgatorio che dice: “Poi piovve dentro a l’alta
fantasia”. Dunque, osserva Calvino, «la fantasia è un posto dove ci piove dentro». Dante poeta deve immaginare ciò che
Dante personaggio vede, o crede di vedere, o sogna, o ricorda, o che gli viene raccontato. Dante «sta cercando di definire
la parte visuale della sua immaginazione verbale», linguistica.
Calvino distingue due tipi di processi immaginativi: «quello che parte dalla parola e arriva all’immagine visiva e quello
che parte dall’immagine visiva e arriva all’espressione verbale. Il primo processo è quello che avviene normalmente nella
lettura», così come nel cinema dove «l’immagine che vediamo sullo schermo era passata anch’essa attraverso un testo
scritto, poi era stata vista mentalmente dal regista, poi ricostruita nella sua fisicità sul set, per essere definitivamente
fissata nei fotogrammi del film».
Molteplicità
La difesa del valore della molteplicità si apre con una lunga citazione dal Pasticciaccio di Carlo Emilio Gadda, per intro-
durre il concetto di “romanzo contemporaneo come enciclopedia, come metodo di conoscenza, e soprattutto come rete
di connessione tra i fatti, tra le persone, tra le cose del mondo.” Perché Gadda? Perché «la sua filosofia si presta molto
bene al mio discorso, in quanto egli vede il mondo come un “sistema di sistemi”, in cui ogni sistema singolo condiziona
gli altri e ne è condizionato».
Calvino conclude le lezioni con questa riflessione:
«Chi siamo noi, chi è ciascuno di noi se non una combinatoria d’esperienze, d’informazioni, di letture, d’immaginazioni?
Ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario d’oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere con-
tinuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili».

Adattato da <https://ilmestieredileggereblog.com/2017/06/15/lezioni-americane-italo-calvino/>

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Capitolo 7

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Moravia su Pasolini
Chi era, che cercava Pasolini?
In principio c’è stata, perché non ammetterlo?, l’omosessualità, intesa però nella stessa maniera dell’eterosessualità:
come rapporto con il reale, come filo di Arianna nel labirinto della vita. Pensiamo un momento solo alla fondamentale
importanza che ha sempre avuto nella cultura occidentale l’amore; come dall’amore siano venute le grandi costruzioni
dello spirito, i grandi sistemi conoscitivi; e vedremo che l’omosessualità ha avuto nella vita di Pasolini lo stesso ruolo
che ha avuto l’eterosessualità in quella di tante vite non meno intense e creative della sua.
Accanto all’amore, in principio, c’era anche la povertà. Pasolini era emigrato a Roma dal Nord, si guadagnava la vita
insegnando nelle scuole medie della periferia. È in quel tempo che si situa la sua grande scoperta: quella del sottopro-
letariato come società rivoluzionaria, simile alle società del primo cristianesimo, portatrice di un messaggio di umiltà
da contrapporre alla società borghese.
Questa scoperta corregge il comunismo di Pasolini. Non più un comunismo di rivolta; e neppure illuministico; e ancor
meno scientifico; né veramente marxista. È un comunismo populista, ‘romantico’, cioè animato da una pietà antica, un
comunismo quasi mistico, radicato nella tradizione e lanciato verso l’utopia, proiettato nell’utopia.
Le cose stavano a questo punto quando Pasolini scrisse Le ceneri di Gramsci, La religione del nostro tempo, Ragazzi di
vita, Una vita violenta e esordì nel cinema con Accattone. In quel periodo, che si può comprendere tra gli anni Cin-
quanta e gli anni Sessanta, Pasolini riuscì a fare per la prima volta nella storia della letteratura italiana qualche cosa di
assolutamente nuovo: una poesia civile di sinistra.
La poesia civile era sempre stata a destra in Italia, almeno dall’inizio dell’Ottocento a oggi, cioè da Foscolo, passando
per Carducci fino a D’Annunzio. I poeti italiani del secolo scorso avevano sempre inteso la poesia civile in senso trionfa-
listico. Pasolini riuscì a compiere un’operazione nuova e molto, molto difficile: l’unione della moderna poesia decadente
con l’utopia socialista.
Ma a questo punto arriva quello che gli italiani chiamano il ‘boom’ economico. Gli umili, i sottoproletari di Accattone
e di Una vita violenta, quegli umili che nel Vangelo secondo Matteo Pasolini aveva accostato ai cristiani delle origini,
invece di preparare la rivoluzione smettono di essere umili, sostituiscono la scala di valori contadina con quella consu-
mistica. Cioè, diventavano dei borghesi.
La scoperta della borghesizzazione dei sottoproletari è stata per Pasolini un vero e proprio trauma politico, culturale
e ideologico. Se i sottoproletari delle borgate, i ragazzi che attraverso il loro amore disinteressato gli avevano dato la
chiave per comprendere il mondo moderno, diventavano ideologicamente dei borghesi prim’ancora di esserlo davvero
materialmente, allora tutto crollava, a cominciare dal suo comunismo populista e cristiano. Il comunismo irrazionale di
Pasolini non si è più risollevato dopo questa scoperta.
Da quel momento Pasolini non avrebbe più parlato a nome dei sottoproletari contro i borghesi, ma a nome di se stesso
contro l’imborghesimento generale.
Lui solo contro tutti.

Adattato da un articolo di Alberto Moravia pubblicato su L’espresso il 9 novembre 1975,


quattro giorni dopo l’uccisione di Pasolini,
<http://www.centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it/molteniblog/pasolini-un-ricordo-di-moravia-del-novembre-1975/>

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Capitolo 7

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Dario Fo, un insensato di genio

Testi di approfondimento
Nel Manuale minimo dell’attore, Dario Fo si lamenta perché in Italia è considerato un grande attore ma non un com-
mediografo, mentre all’estero invece sì. Dario Fo ha ragione ma non si spiega perché. Del resto ancora oggi si continua
a ignorare che gli attori seicenteschi Pier Maria Cecchini, Giovan Battista Andreini e Nicolò Barbieri furono scrittori di
teatro nettamente superiori a tutti i letterati commediografi del loro secolo...
Ma il fraintendimento di Fo non è solo colpa dei critici conservatori.
Nel 1980 Carmelo Bene, uno dei grandi registi italiani del secondo Novecento, festeggiava un compleanno di Eduardo De
Filippo precisando che era un grande attore nonostante i suoi testi teatrali. Posizione condivisa da quasi tutta la neoa-
vanguardia, impegnata a dare un’apparenza progressista a idee piuttosto vecchie: come quella che avvertiva che l’attore
non aveva bisogno di scrivere per diventare autore, essendo già autore per il solo fatto di recitare, anzi di esistere. Di
qui il ridimensionamento dei testi di Eduardo e di Fo rispetto al loro recitare; nello stesso modo nel Seicento i letterati
si liberarono della pericolosa concorrenza di abili e agili scrittori classificandoli come ‘attori’ e facendoli ammirare come
creatori di un’arte improvvisa che poteva benissimo fare a meno della parola.
Classificare Dario Fo come il nostro più grande mimo o come compagno militante della sinistra rivoluzionaria è stato uti-
le a tutti. Semplificava le cose a destra e a sinistra, con l’aiuto dello stesso Fo, impegnato a volte a spiegare la lotta di
classe con il tono di un predicatore. In realtà Dario Fo è un predicatore impossibile. Fa della pedagogia politica e poi,
istintivamente, la nega; ci ride sopra.
Dario Fo è infatti maleducato: ignora le regole del galateo drammaturgico, le sorprende, le confonde. Il corpo della
commedia è per lui come il corpo dell’attore. Si muove in modo strano e si contorce in maniera incomprensibile per un
normale cittadino in abiti borghesi in teatro. Così la trama, l’azione, i dialoghi, i destini dei personaggi (dalle prime
Farse alle ultime opere) deludono sempre le aspettative, si accoppiano in maniera incoerente, insensata. Un’insensatezza
per cui serve il genio.
I testi di Fo sono sempre inseparabili dall’artigianato teatrale. I testi di molti autori viventi sono ‘preventivi’ (nel senso
che si sforzano di prevenire, e quindi di intimidire ogni azione teatrale); quelli di Fo, come di Eduardo, come di Viviani,
sono invece consuntivi, nel senso che riprendono le memorie e il training di un tecnico (l’attore), e nello stesso tempo
contengono un’illuminazione di visionaria aspettativa per quello che potrà essere il domani di quella tecnica, immagi-
nando, lì sulla carta, gli scatti improvvisi che si potranno fare sulla scena.
In questo senso i testi di Fo sono il regno della libertà e del possibile.
Imprevedibili come una partita di calcio non truccata. E anche i prevedibili schemi sociologico-didattici da cui partono
spesso i suoi ultimi copioni finiscono per essere incoerenti, i discorsi politici diventano parole deliranti, trionfo del
comico – che in Fo è il conflitto vitale fra un’ordinata pedagogia e la grande risata che la rovescia.

Adattato da Siro Ferrone, <https://www.lindiceonline.com/osservatorio/cultura-e-societa/dario-fo-un-insensato-genio/>

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Capitolo 7

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Alda Merini
C’è una canzone di Roberto Vecchioni che recita: “Ogni uomo della vita
mia era il verso di una poesia, perduto, straziato, raccolto, abbraccia-
to”. È un brano che il famoso cantautore ha dedicato ad Alda Merini,
una delle più importanti ed influenti poetesse italiane. Un talento sco-
perto dal critico letterario Giacinto Spagnoletti quando lei aveva solo
15 anni. Ma la sua straordinaria capacità letteraria non è riuscita a
salvare Alda Merini da una vita difficile, fatta di alti e bassi, con anche
circa 10 anni caratterizzati da un continuo “dentro-fuori” dagli ospedali
psichiatrici per un presunto disturbo bipolare.
Alda Merini non era una donna facile, per niente. Forse proprio per
la sua grande sensibilità e la sua estrema capacità di trasformare le
emozioni in parole. Così sono nate le sue poesie: dal cuore, dagli amori, dalla paura e dalla sua esperienza personale.
Leggendole, le parole sembrano rotolare come perle che cadono a terra dal filo di una collana rotta. Un movimento
continuo, uno scivolare di sensazioni da brividi, riga dopo riga.
Per chi non la conosce, vedendo una sua foto in internet, Alda Merini sembra una donna di paese. Uno sguardo profondo
e pieno di rughe incise in un volto tondeggiante che dà la sensazione di qualcosa di buono, di una nonna che sorride
a un nipote. Ma dietro a quell’aspetto piuttosto semplice, si nasconde un’anima profonda e tormentata in grado di dare
vita a poesie immortali. Ecco allora una breve lista di motivi per cui, se ancora non lo avete fatto, dovreste immergervi
nei versi di Alda Merini.
Per sentirsi compresi: ci sono delle volte, di sera, in cui siamo presi da un po’ di malinconia e cerchiamo nella musica,
nei libri o nelle poesie un po’ di conforto. Cerchiamo un modo per sentirci meno soli e per sapere che altre persone pro-
vano le stesse emozioni che in quel momento sentiamo noi nel nostro cuore. Leggere le poesie di Alda Merini significa
questo: trovare nero su bianco le nostre emozioni e stupirci. Perché ogni suo verso sembra parlare un po’ di noi, come
se avessimo raccontato ad un’amica scrittrice i nostri problemi e lei li avesse resi quasi luminosi nella semplicità delle
parole impresse sulla carta.
Per motivarci: Alda Merini non si è mai arresa. Ha continuato a scrivere anche quando era rinchiusa negli ospedali psi-
chiatrici. Non ha rinunciato alla sua passione per la poesia nemmeno quando non è stata ammessa al Liceo Manzoni di
Milano perché non aveva superato la prova di italiano. Questa donna è l’esempio concreto del fatto che se nel nostro
cuore siamo certi di qualcosa dobbiamo sempre lottare e non farci influenzare dagli altri.
Per apprezzare la diversità: anche se oggi Alda Merini è considerata una poetessa cruciale nella letteratura italiana e
probabilmente tutti diranno di ‘amarla’, non è sempre stato così. La sua diversità, il suo disturbo bipolare, l’ha costretta
anche a periodi di solitudine in cui gli amici si sono allontanati, forse per paura. Il diverso fa paura. È una frase che
sentiamo spesso nei contesti più disparati, ma imparando ad andare oltre le apparenze, proprio come hanno fatto gli
uomini che hanno scelto di amare e lasciarsi amare da Alda Merini, si può scoprire un mondo nuovo.
Per sperimentare: Alda Merini scriveva, ma non solo. Disegnava, suonava e studiava. Non si è mai fermata a ciò che
conosceva e ha sempre cercato di apprendere nuove forme di comunicazione. Questa curiosità l’ha portata a incontrare
tanti artisti diversi che hanno lavorato con lei mettendo in musica le sue poesie, rispondendo alle sue domande sulla
religione, stimolandola nella crescita e dandole forza. Sperimentare nuove metriche, sperimentare emozioni, sperimen-
tare l’amore non sono altro che sinonimi di un verbo ben più ampio: vivere. Vivere quella vita che Alda Merini ha sempre
adorato, nonostante tutto.
Per amare: le poesie di Alda Merini parlano un po’ di tutto, ma l’amore è uno dei temi centrali della sua poetica. Nelle
sue parole sono racchiusi attimi di dolcezza, carezze, baci rubati, sguardi strappati. C’è un’intera poetica dell’amore che
aiuta anche noi, nell’era di internet, del web e del 2.0 a capire come questo sentimento possa essere ben più profondo
di quanto non vogliano farci credere in TV o nei film strappalacrime.
Vi abbiamo convinti a farvi avvolgere dalle sue meravigliose poesie?

Adattato da Selena Marvaldi, Cinque motivi per leggere le poesie di Alda Merini,
<https://www.foxlife.it/2017/11/15/alda-merini-poesie-perche-leggere/>

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Capitolo 7

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La nascita della canzone d’autore

Testi di approfondimento
Pur partendo da due sistemi semantici preesistenti (il linguaggio poetico e quello musicale), la canzone d’autore costi-
tuisce un’unità narrativa e metrica inscindibile. Non è infatti possibile separare musica e testo, così come non si può
lasciare da parte l’interpretazione del cantante, che diventa il terzo elemento semantico essenziale: essa può dunque
essere considerata una forma d’arte, e più specificamente un genere nuovo e autonomo.
La canzone d’autore assume dalla tecnica poetica alcune figure retoriche, metafore, analogie, sinestesie, ma ne rende più
immediata e ‘popolare’ la comprensione. Essa elimina, inoltre, le componenti spaziali e temporali indefinite, collocando
la storia, le emozioni o i sentimenti descritti in coordinate per lo più reali: anche dove si fa ricorso all’immaginario, si
tratta di un immaginario collettivo già condiviso da chi ascolta e dunque facile a riconoscersi.
Sono rilevabili elementi di novità anche nei rapporti tra musica e testo. Quest’ultimo non è più infatti un valore
aggiunto, funzionale alla melodia e costretto in una struttura intoccabile di note e accenti; scompare la rigidità dello
schema strofa-ritornello; le sezioni melodiche possono diventare tre, quattro, e possono ripetersi con variazioni e
riprese assai più libere che nel passato. Anche la lunghezza delle sezioni non è più dettata da canoni predeterminati,
ma si adatta al contenuto, all’intensità dei sentimenti espressi. Scompare la ricerca di invenzioni melodiche evidenti,
si indebolisce l’uso di preziosismi stilistici, di variazioni armoniche sofisticate. Gino Paoli ha detto “abbiamo scritto
belle canzoni, perché non sapevamo scrivere canzoni”. Paradossalmente, questo apparente impoverimento costituisce la
ricchezza effettiva della canzone d’autore, permettendole di diventare appunto non un semplice accostamento di due
parti ma un’unità nuova, anche se col tempo la melodia ha trovato nuove strade, si è arricchita e nobilitata, prendendo
in determinati periodi addirittura il sopravvento.
Come molte rivoluzioni, anche quella della canzone d’autore è nata da un’élite culturale progressista e in centri cittadini
più avanzati rispetto al resto del paese. Elementi originali si trovano già negli anni Cinquanta: compaiono l’ironia, la
battuta colta, la descrizione di ambienti inusuali; si adoperano per la prima volta termini che di poetico hanno poco. Ma
il punto di rottura è di sicuro costituito dalle canzoni di Domenico Modugno. Fedele alla tematica dialettale popolare,
utilizzando a volte direttamente i dialetti meridionali, schietto, semplice, nel 1958 Modugno si presenta a Sanremo
con Nel blu dipinto di blu, eleggendo come luogo del suo beau geste il festival più visto, più rappresentativo della
vecchia maniera di far canzone. E lì con una canzone nuova, fantastica e reale assieme, distrugge l’universo di stereotipi
sentimentali e la tipica tradizione melodica della canzone italiana. Dal punto di vista formale Modugno ‘inventa’ il
cantautore introducendo recitazione e interpretazione, mentre dal punto di vista dei contenuti da un lato aggancia la
canzone al surreale, alla lezione della psicoanalisi, e dall’altro le dà, al suo sorgere, un’impronta popolare di ascolto
affascinante, coinvolgente.

Adattato da Roberto Vecchioni, La canzone d’autore in Italia,


<http://www.treccani.it/enciclopedia/la-canzone-d-autore-in-italia_%28Enciclopedia-Italiana%29/>

Testi di approfondimento al volume Letteratura italiana per stranieri di P.E. Balboni, Edizioni Edilingua, www.edilingua.it 47
Capitolo 8

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Il giallo all’italiana e la tradizione del melodramma
Delitti passionali. Tradimenti. Vendette. A ispirare i noir di successo non sono gli americani, ma un genere antico: l’o-
pera. E non è un caso che il commissario Montalbano provenga dalla Sicilia di Cavalleria Rusticana, che offre lo schema
a quattro personaggi di un delitto passionale: lui (per facilità lo indichiamo con A) ama lei (che indichiamo con B),
ma deve andare via per lavoro un anno intero. Torna, e lei (B) ha sposato l’altro (che indichiamo con C). Lui (A) allora
si mette insieme all’altra (che indichiamo con D), che si innamora pazzamente di lui (A). Lui (A) però non ha mai di-
menticato lei (B), ne è ossessionato e trascura l’altra (D). La donna (D) per vendicarsi perché trascurata dall’uomo che
ama, va dall’altro (C) e gli suggerisce l’inesistente infedeltà di lei (B). Lui (A) e l’altro (C) si scontrano, e lui (A) muore.
Potremmo continuare all’infinito a cercare nella storia dell’opera modelli che potrebbero essere la base di un romanzo
nero attuale: il caro, vecchio melodramma che sembra così impolverato e trascurato, riservato ormai a pochi appassio-
nati, e che invece è attuale e moderno nella sua essenza, alle fondamenta del romanzo nero italiano, che è la novità più
evidente nell’ambito della narrativa contemporanea. Il melodramma mette in scena, spesso in maniera assai realistica,
le passioni e il processo di corruzione di sentimenti inizialmente positivi, che si degradano scontrandosi con situazioni
a volte banali. I buoni sentimenti, l’amore, la dolcezza, la fedeltà spezzati e ridotti in cenere dal vizio, dall’egoismo,
dall’approfittarsi dell’amicizia e dell’ospitalità.
Queste modalità di narrazione portano, attraverso il tempo e senza variare nella sostanza, dal melodramma fino al mo-
vimento che è riconoscibile come letteratura italiana nera contemporanea: e in qualche modo ne spiegano l’essenza, la
natura e soprattutto la popolarità. Non c’è un periodo dell’anno, da gennaio a dicembre, in cui nella classifica dei libri
più venduti non compaiano nelle prime posizioni almeno un paio di romanzi neri italiani. Certo, si spazia dal thriller al
giallo, dal noir puro al poliziesco e a tutte le possibili sfumature del genere, ma rimane il fatto che al top delle vendite
ci sono gli autori di narrativa criminale. Il fenomeno è curioso e interessante, e porta a discutere delle ragioni e delle
conseguenze. Ma anche del recente passato, e di quanto è accaduto da una ventina d’anni a questa parte.
Grandi scrittori che hanno scritto libri gialli, veri capolavori, ne abbiamo avuti (da Scerbanenco, a Fruttero e Lucentini,
da Veraldi a Macchiavelli), e di letteratura criminale hanno scritto autori immensi come Gadda e Sciascia, fino al Nome
della Rosa di Umberto Eco. Ma si trattava di casi individuali, sebbene straordinari.
Il vero e proprio movimento, organico e connesso, comincia ovviamente con Andrea Camilleri.
Il Maestro, il vero iniziatore, colui che ha inaugurato la strada che hanno poi percorso in tanti, ha portato il romanzo
criminale italiano al di là del pregiudizio dei critici ufficiali, conquistando le librerie e gli scaffali delle case con centi-
naia di migliaia di copie vendute. È lui il vero iniziatore del movimento della letteratura nera italiana che oggi domina
le classifiche, ha il primato di traduzioni all’estero e arriva con successo e in molte versioni sugli schermi televisivi.
Il fenomeno del successo del noir è planetario. Ma per le ragioni che abbiamo esposto all’inizio, pensiamo che contesti
narrativi come il giallo nordico e quello nordamericano si muovano su schemi differenti dal nostro. Non abbiamo in Italia
i Legal o Medical thriller, gli assassini seriali, gli scoppi di immotivata violenza all’interno di una società rigorosamente
regolamentata: noi italiani parliamo di sentimenti corrotti, di passioni personali, di ossessioni. La dimensione delle
nostre storie è, per dir così, più quotidiana e realistica, meno eccezionale e lontana: proprio come Santuzza e Turiddu
nella Cavalleria. E l’investigatore è uno che, come il lettore, è costretto a entrare nelle anime dei personaggi coinvolti
nella storia, a riconoscere le emozioni perché anche lui le ha provate.
In fondo, seduti in poltrona con un libro in mano o seduti in un teatro d’opera, quello che cerchiamo è sempre la stessa
cosa: un’emozione da condividere. E da ricordare.

Adattato da Maurizio De Giovanni, Il giallo all’italiana? Viene dal melodramma. Come insegna Camilleri,
<http://espresso.repubblica.it/visioni/2017/12/13/news/il-giallo-all-italiana-viene-dal-melodramma-come-insegna-camilleri-1.315944>

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Capitolo 8

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Una letteratura “millennial” per i “millennial”

Testi di approfondimento
A differenza della letteratura della tradizione che la scuola insegna, la narrativa contemporanea è costantemente in
movimento, nasce mentre ne parliamo. E questa letteratura può offrirci molte occasioni di interpretazione del presente
e riflettere su grandi questioni.
Nel panorama di una produzione editoriale abbondantissima, ci sono alcune tendenze più innovative e di interesse
socio-culturale: il nuovo realismo, l’ibridazione di generi e linguaggi, la crescente presenza della narrativa femminile.
Tra le tendenze in atto, una delle più rilevanti è costituita dalla presenza, accanto alla letteratura di finzione, di una nar-
rativa “non finzionale” (non fiction novel), al confine con la scrittura giornalistica. L’Italia ha un testo fondamentale della
non fiction novel degli anni Duemila: Gomorra di Roberto Saviano, pubblicato nel 2006, che è stato un successo planetario;
tradotto in versione cinematografica, ispiratore di serie televisive e di opere teatrali, ha fatto nascere una specie di cor-
rente (il “gomorrismo”), dai successivi romanzi di Saviano ai numerosissimi romanzi-inchiesta sulla criminalità organizzata
pubblicati in Italia nel decennio successivo (tra gli autori: Cannavale, Catozella, Di Fiore, Simonetta, Tizian).
La diffusione della letteratura non finzionale testimonia un bisogno di realtà, di impegno sociale ma anche di forti emo-
zioni. È un realismo nuovo quello della narrativa anni Duemila: ben diverso dal naturalismo del romanzo tradizionale,
con le sue lunghe descrizioni, le minuziose ricostruzioni d’ambiente, lo scavo psicologico dei personaggi; al contrario,
si presenta piuttosto come una diretta e talvolta brutale rappresentazione della realtà.
La tendenza all’ibridazione, alla mescolanza, non riguarda solo i generi letterari ma anche i linguaggi, addirittura i
supporti della comunicazione. Tra le pagine di molti romanzi troviamo foto, disegni, schizzi pittorici; a fini di visibili-
tà e di marketing si uniscono testi scritti e supporti audio-video; l’unione tra grafica e testo che si realizza, in forma
più organica e strutturata, in quella nuova frontiera della narrativa rappresentata con grande successo editoriale dalla
graphic novel: sia che a tradurre in grafica le proprie storie siano letterati di valore quali Ammaniti, Carlotto, Carofiglio,
Ferracuti ecc., sia che, in senso inverso, ad affrontare la scrittura letteraria siano fumettisti come Zerocalcare o Gipi.

Adattato da Elisabetta Degl’Innocenti, La narrativa italiana degli anni Duemila,


<https://it.pearson.com/aree-disciplinari/italiano/approfondimenti-disciplinari/narrativa-italiana-anni-duemila.html>

Testi di approfondimento al volume Letteratura italiana per stranieri di P.E. Balboni, Edizioni Edilingua, www.edilingua.it 49

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