Sei sulla pagina 1di 148

LETTERATURA LATINA – MODULO A (Prof. PIRAS) A.

A 2020/21

LEZIONE 1 (14/10/2020) Ileana Addari


L’esame si divide in due moduli: il modulo A che si caratterizza soprattutto perché è un modulo
letterario e il modulo B che invece è il modulo linguistico. Sono entrambi moduli da sei crediti distinti.
Ho cercato di coordinare questi due moduli con il distico elegiaco, il metro utilizzato dall’epigramma
e dall’elegia.

Il modulo A sarà dedicato agli Epigrammata di Catullo di cui parleremo tra poco mentre il modulo
B, per chi intende frequentarlo, al primo libro delle elegie di Tibullo. Quindi vedete c’è una certa
continuità tra i due moduli.

Vediamo il programma del modulo A.

Contenuti:

n Lettura e commento degli Epigrammata di Catullo (carmi 69-116). Come vedremo tra poco,
il Liber di Catullo è stato diviso già in epoca antica in tre sezioni secondo un criterio
metricologico:
1. le nugae (nuge) letteralmente “sciocchezze”, sono le poesie leggere
2. i carmina docta che sono invece quelli più lunghi elaborati dal punto di vista artistico
3. epigrammi (carmi 69-116)

Ho scelto gli epigrammata perché sono testi un po’ più semplici accessibili a diversi corsi di laurea,
una via di mezzo adatta a tutti, modernisti e classicisti.

Analizzeremo questo testo in maniera


1. letteraria
2. filologica
3. linguistica

1.Cosa si intende per analisi di tipo letterario? Innanzitutto bisogna inquadrare il contesto letterario
in cui l’opera è stata prodotta perché le opere dei poeti antichi non sono opere astratte dal contesto
storico ma nascono in quel clima, respirano e assorbono la sensibilità del momento. Se prendiamo ad
esempio qualsiasi autore della lett. italiana come Petrarca, è chiaro che assorbe questo clima quasi
pre- umanistico che gli intellettuali del tempo sentivano e che quindi veicolano, rielaborano e
trasmettono sino a noi. Così anche Catullo, non è estraneo dal suo contesto.
Quindi questo contesto va illustrato e analizzato per capire meglio la portata della sua poesia.
Ovviamente questo contesto non potrà prescindere dalla illustrazione dei caratteri della poesia
neoterica (che riprenderemo) e i modelli a cui si ispira. Sapete che i romani sono originali nella
rielaborazione, nella romanizzazione. Diciamo che da Ennio in poi e dall’età arcaica in poi, i modelli
di riferimento sono sempre greci ma i romani hanno questa capacità di rielaborare,di romanizzare ma
non sono degli inventori originali di generi letterari tranne che per la satira, come dice Quintiliano.

2.L’analisi filologica invece tende a vagliare la bontà del testo. Se noi oggi vogliamo scrivere un
libro, cosa facciamo? prendiamo il computer, digitiamo il testo che vogliamo pubblicare, lo salviamo
in una pennina e lo portiamo dal tipografo che ne stampa quante copie vogliamo. Queste copie sono
perfettamente uguali l’una all’altra e se c’è un errore, deriva dalla fonte, dalla digitazione del testo,
non certamente dal tipografo. Chiaramente gli antichi non agivano così, non c’era la tipografia
meccanica che abbiamo noi oggi in formato digitale, sia nell’antichità che nel Medioevo la
pubblicazione avveniva in forma manoscritta. Prendiamo ad esempio una copisteria di un monastero
medioevale. C’era un monaco che dettava ad altri 50 monaci il testo. Tutti i monaci avevano capacità
diverse (es. capacità uditiva diversa) allora spesso capitava che quelle 50 copie dettate fossero diverse
l’una dall’altra. È stato fatto un esperimento recentemente: è stato dettato a 50 persone un capitolo
dei promessi sposi e dopo una verifica, queste copie erano l’una diversa dall’altra perché uno aveva
sentito male, uno aveva fatto un errore di scrittura, uno aveva saltato una parola. Ora voi immaginate
questo processo di trasmissione del testo quanti errori ha accumulato in un testo antico. Il compito
del filologo è quindi scrostare il testo antico da tutti questi errori che si sono accumulati nella
trasmissione del testo riportandolo all’originale o perlomeno a una versione che si avvicini molto
all’originale, quello che noi chiamiamo oggi archetipo. Quest’ultimo è un’utopia perché è una forma
ideale del testo in quanto coincide alla fine con la mente dell’autore perché l’autore stesso nel
riversare dalla sua mente nel foglio di carta la sua opera,potrebbe commettere qualche errore,una
svista. Allora l’archetipo è un’astrazione, il filologo si pone come obiettivo quello di riportare il testo
alla versione più simile all’originale o perlomeno a una versione che, come si dice in termini moderni,
l’autore stesso potrebbe riconoscere come il suo testo. Quindi quando noi facciamo l’analisi di
Catullo, dobbiamo vedere cosa l’analisi manoscritta ci propone e scegliere tra le varianti quella che
noi riteniamo essere la variante originale. Questo lavoro è fondamentale in un testo antico, pensiamo
a quante varianti possono essersi accumulate in Catullo nel corso di circa 1000 anni. Il lavoro del
filologo è come quello dell’archeologo, entrambi lavorano per riportare qualcosa al loro splendore
originario, ma uno lavora sulle pietre, l’altro sulle parole.

3.Poi ovviamente c’è l’analisi linguistica. Sono opere scritte in una lingua lontana dalla nostra, in
latino e noi dobbiamo interpretare queste strutture morfologiche e sintattiche per arrivare al
significato esatto che l’autore dava a quelle parole. Lo studio della grammatica può apparire pesante
ma non deve essere mai visto come fine a sé stesso. La grammatica è uno strumento, non è il fine del
nostro lavoro. Per esempio, il solfeggio è una noia mortale però è necessario per godere delle tue
capacità di suonare uno strumento musicale. Allo stesso modo anche la grammatica deve essere una
fase propedeutica perché si ci possa accostare a questa letteratura antica, bisogna si riconoscere le
strutture grammaticali, ma bisogna anche interpretare: leggere e commentare. Poi la maggior parte
di voi sarà degli insegnanti quindi dovete acquisire gli strumenti per fare bene il vostro lavoro.

n Il modulo A ha una caratterizzazione prevalentemente letteraria quindi fa parte del programma


anche lo studio dell’evoluzione storica della lett. latina che fino agli inizi del V secolo sono
da studiare da soli

Modalità d’esame: la prima parte riguarda la verifica della vostra conoscenza della storia della lett.
latina. Di solito tre domande: una sull’età arcaica, una sull’età classica e una sull’età imperiale. (es:
io vi chiedo Ennio e voi fate un discorso organico su Ennio, io non chiedo dettagli e date, a me
interessa che voi capiate il discorso dell’evoluzione della lett. latina cioè la capacità di fare
connessioni tra i vari autori. Potrei chiedere anche: la satira latina e allora cominciate dalla satira
arcaica con i problemi di interpretazione della satira arcaica, se era come quella che noi conosciamo
da Orazio o come altra cosa, poi Lucilio, Properzio, Giovenale..Bisogna fare connessioni così.
Quando io faccio una domanda, vorrei una risposta come un futuro insegnante che fa un discorso
organico sulla base di quanto appreso dal manuale.

La seconda parte invece riguarda i testi fatti a lezione. Dovete leggerli e la traduzione non deve essere
a memoria ma è una traduzione che mi consente di capire se voi avete individuato correttamente le
strutture linguistiche del testo. La traduzione la sappiamo tutti ma deve essere funzionale all’analisi
del testo. Poi dobbiamo fare un’analisi filologica se ci sono delle varianti che abbiamo considerato a
lezione. Per esempio il termine amica significa amante nella poesia neoterica. Quindi dobbiamo fare
osservazioni di carattere letterario, poi di carattere morfosintattico: perché ha scelto quel costrutto
anziché un altro (motivi metrici, ecc).

Non sto a tormentarvi sulla grammatica astratta, ma sempre in funzione del testo che state leggendo.
Mi interessa però che stiate attenti agli accenti quando leggete, leggete a voce alta per articolare
meglio certi nessi consonantici propri del latino. La lettura mentale è qualcosa che gli antichi non
conoscevano. Noi abbiamo una prima testimonianza di lettura mentale nel IV sec d.C. quando
Agostino nelle confessioni racconta il suo incontro con Ambrogio di Milano (che è stato il fautore
della sua conversione) e racconta che gli antichi leggevano sempre a voce alta. A noi questo interessa
perché molte figure di suono che i poeti antichi adottavano nel testo, possiamo coglierle e
comprenderle solo leggendo a voce alta. Sono proprio testi pensati per essere declamati, non letti
mentalmente.

Per la prima parte bisogna avere un manuale di storia letteraria completo: dalla storia preletteraria
sino al V secolo. Io consiglio il Conte. È un testo senza antologie perché a noi interessa solo il discorso
storico letterario. Il Conte è un testo ben fatto, alcuni dicono che è difficile come scrittura ma è molto
ben fatto.

In alternativa potete usare il Garbarino. È un testo bello, chiaro, schematico, un po’ prolisso in certe
parti.

Poi c’è anche il Cavàrzere che è un po’ più piccolo. Scegliete voi quello più adatto.

Per gli studenti di Lettere Classiche, che volessero approfondire alcuni aspetti della letteratura latina,
si consiglia: E. Paratore, Storia della letteratura latina, Firenze, Sansoni, 1986. Perché dà un taglio
filologico alla lett. latina ed è più adatto a questo corso di studi.

Altri manuali si possono concordare col docente.

Parte monografica:

Testi: Catullo, Carmina 69-116.

n Edizione di riferimento: R.A.B. Mynors (ed.), C. Valerii Catulli carmina, Oxford, Oxford
University Press, 1958. Usiamo questa edizione per poter fare un’analisi filologica poiché è
presente un apparato critico, l’apparato delle varianti testuali più importanti tramandate dai
codici in modo tale che voi possiate fare una scelta vostra. L’edizione propone quella lezione
ma noi possiamo sceglierne un’altra.
n Poi abbiamo un’Edizione “di servizio”: Catullo. I canti, introduzione e note di A. Traina,
traduzione di E. Mandruzzato, Milano, BUR, 1982. Contiene una traduzione sempre utile.
n Poi abbiamo un piccolo articolo che metterò su moodle in pdf: Un approfondimento sullo stile
di Catullo: A. Ronconi, “Stile e lingua di Catullo”, in A. Ronconi, Da Lucrezio a Tacito.
Letture critiche, Firenze, Vallecchi, 1968, pp. 46-69.

Strumenti ausiliari
- Per entrambi i moduli si richiede la conoscenza di A. Traina - G. Bernardi Perini, Propedeutica
al latino universitario, Bologna, Pàtron, 1998 (6. edizione). Non è una grammatica, ma
affronta problemi della lett. latina in maniera scientifica. (es pronunce, metrica, sintassi)
- Come sussidio per lo studio della grammatica latina: I. Dionigi et al., Il latino. Grammatica
ed esercizi, edizione compatta, Bari, Laterza, 2011. In alternativa: M. Fucecchi – L. Graverini,
La lingua latina. Fondamenti di morfologia e sintassi. 2. ed., Firenze, Le Monnier Università,
2016 (va bene per chi non ha mai fatto latino).

Eventuali altri testi andranno concordati col docente.

Ulteriori sussidi

Una serie di lezioni sarà dedicata alla metrica con particolare riferimento al distico elegiaco, utilizzato
da Catullo (mod. A) e da Tibullo (mod. B)

Se qualcuno ha bisogno di maggiori approfondimenti può fare ricorso a L. Ceccarelli, Prosodia e


metrica latina classica con cenni di metrica greca, nuova edizione, Roma, Società Editrice Dante
Alighieri, 2004.

Cominciamo ora a parlare di Catullo e della sua età. (discorso storico-letterario)

Siamo nell’età cesariana che va più o meno dall’80 al 44 a. C. cioè dalla morte di Silla (78) fino alla
morte di Cesare. Non è che nel 44 morto Cesare, si conclude l’età cesariana ovviamente, (Cicerone,
morto nel 43 è ancora pienamente nell’età cesariana) diciamo che finché Augusto non prende i poteri
nel 27, le cose non cambiano. Dal punto di vista storico però si tende a utilizzare questa scansione
temporale che può andare bene al liceo non per degli scienziati come noi(universitari), dobbiamo
prenderla come uno strumento di studio generale, non come una verità assoluta.

CARATTERI DELL’ETA’ CESARIANA

È un periodo di transizione caratterizzato da un fenomeno di individualismo e di crisi morale e


religiosa.

Per individualismo si intende che non conta più la collettività come per esempio era per Catone il
quale nelle Origines non indica mai i generali che hanno portato il popolo romano alla vittoria perché
è tutto il popolo romano nel suo complesso che ha portato alla gloria. Invece in questo periodo
cominciano le singole personalità a prendere piede. Già con l’età degli Scipioni, si portano dalla
Grecia certe idee come il culto della personalità sull’esempio di Alessandro Magno. Quindi la
collettività viene meno rispetto alle capacità del singolo.

L’individualismo si manifesta come:

1) individualismo politico, nel sovrapporsi delle singole personalità alla solidarietà di classe (quanto
detto sin ora: non più il popolo romano ma i singoli, Silla, Cesare, ecc)

2) individualismo economico, nel crescente sviluppo delle imprese capitalistiche e latifondistiche: le


guerre civili soprattutto di Silla hanno impoverito l’Italia. I piccoli proprietari si sono indebitati,
hanno dovuto vendere ai latifondisti. Quindi non c’è quel ceto medio borghese ma c’è la classe dei
poveri che corrono in città a cercare qualcosa da fare e poi i grandi ricchi che hanno nelle loro mani
la maggior parte delle risorse terriere. L’individualismo economico si vede benissimo nel passaggio
da Catone a Varrone. Catone scrisse un trattatello sull’agricoltura “de agricoltura” la prima opera in
prosa integra della lett. latina. È proprio questa la prima opera tramandata integralmente dall’antichità
perché è un trattato pratico, tecnico, ancora utile anche nel Medioevo per la coltivazione dei campi,
per le medicine, concimazione, ecc..
Quando Catone parla dell’agricoltura, si riferisce sempre a un piccolo podere perché ai suoi tempi era
quello l’appezzamento standard.
Se noi poi andiamo nell’età cesariana con Varrone (il più erudito tra i romani) nel “de rustica”
vediamo che non si riferisce più al piccolo podere, ma al grande latifondo perché è cambiata la società,
la struttura economica, si è passati dal piccolo podere che va bene in una società collettivistica al
grande latifondo che va bene in una società individualistica.
Vedete come la letteratura risente anche delle condizioni sociali, politiche del suo tempo.

3) individualismo culturale, comincia a prendere piede il concetto di Otium non nel senso medievale
ma nell’antichità l’otium era un concetto pregnante. Indicava l’attività intellettuale pura, la poesia, la
musica, la filosofia, il pensare non a cose pratiche ma a cose veramente elevate. Il contrario dell’otium
è il negotium (nec otium): affari, commercio, pratiche in tribunale… tutto quello che non è attività
intellettuale è negotium.
L’individualismo di questo periodo si manifesta nel fatto che il poeta è un poeta che mira alla pura
attività intellettuale. Heidegger scrisse un bel libretto sul pensiero meditante. Distingue il pensiero
umano in due grandi categorie: pensiero calcolante e meditante. Il primo ti consente di risolvere i
problemi pratici (negotium); il secondo è quello che va al di là dell’aspetto pratico, è anche il pensiero
che pensa a sé stesso, il pensiero del pensiero. L’otium è il pensiero meditante cioè una forma di
divagazione mentale che non ha alcun riscontro pratico.
Quindi i poeti dell’età cesariana fanno poesia senza pensare al governo in carica, a ideologie
particolari, non è una poesia militare ma è poesia pura, è il pensiero che pensa a sé stesso. Ecco perché
la sentiamo una poesia moderna. Quando leggiamo Catullo, lo sentiamo moderno perché non è legato
alle questioni pratiche del periodo ma cerca di indagare quei sentimenti propri dell’uomo di tutti i
tempi.

Il secondo fenomeno è la crisi morale e religiosa. Nei periodi di transizione c’è sempre una
rivalutazione critica della tradizione culturale e religiosa (lo sfaldamento comincia ad avvertirsi già
da prima, Cicerone già parlava di crisi della religione romana a cui credeva solo il popolino). Si
cercano quindi nuove forme di spiritualità. Tra queste la filosofia che affascina di più è quella di
Epicuro. Perché? I manuali di qualche anno fa lo descrivevano come la ricerca del piacere ma non è
esattamente così. Epicuro era una specie di asceta, di monaco che cercava equidistanza tra piacere e
dolore. Una forma di atarassia: imperturbabilità che respingesse tanto il piacere estremo quanto il
dolore. Era uno che stava attento a non cadere perché la caduta era un’esperienza molto dolorosa.
Quindi l’epicureismo non è la ricerca del godimento puro, è tutt’altro, è la ricerca della equidistanza
tra piacere e dolore, equilibrio difficile da mantenere. La maggior parte dei letterati di questo periodo
ma anche dell’età augustea (Virgilio, Orazio) sono tutti epicurei.

Orazio dice proprio sono un maialetto della mandria di Epicuro. Quando porta avanti la sua dottrina
del carpe diem, ha una base epicurea: non è un godimento vorace giorno per giorno ma è vivere
intensamente ogni minuto che la vita ci dà con consapevolezza perché il passato non esiste più, il
futuro non c’è ancora. L’unica cosa che possiamo possedere pienamente è il presente, quindi
cerchiamo di viverlo intensamente e con consapevolezza stando attenti perché poi bisogna fuggire sia
il dolore che il piacere.

Ovviamente questo epicureismo era visto con un certo sospetto dalle autorità perché predicava
l’atteggiamento che viene compendiato da un detto greco λάθε βιώσας e rappresenta un elemento
potenzialmente sovversivo, giacché scardina i fondamenti della morale e della religione tradizionali,
invitando gli uomini a staccarsi dalla vita politica, la ragion d’essere, l’esistenza stessa di Roma,
quindi visto come un alto tradimento da parte del cittadino. È per questo che le autorità combattevano
questa filosofia anche se ne erano attratti. Infatti lo stesso Cicerone ne riporta qualche massima nelle
lettere a Lucilio ed è proprio lui che fa pubblicare il de rerum naturae di Lucrezio il quale porta a
Roma l’epicureismo.

Questo clima di crisi crea uno stimolo per la produzione di idee originali. Quando c’è la bonaccia, lo
spirito non produce più nulla. Tanto è vero che l’età classica è questa. Abbiamo Catullo, Cicerone,
Cesare.

Da un punto di vista letterario, questa crisi porta alla nascita di nuovi generi letterari mai battuti
prima come la lirica soggettiva d’amore che prima non esisteva. Catullo con la poesia neoterica è
stato il primo a Roma a proporre questa lirica soggettiva che non cantasse dei sentimenti in astratto
ma dei propri sentimenti personali. La poesia greca è una poesia oggettiva. I greci rispetto ai romani,
hanno sempre avuto problemi a parlare di sé stessi, e quando lo facevano usavano sempre dei filtri;
mentre la poesia romana è soggettiva (Catullo, Properzio, parlano del PROPRIO amore e della
PROPRIA donna).

Tra gli altri generi ricordiamo il poema scientifico (Vi ho ricordato il de rerum naturae) e il dialogo
filosofico di Cicerone: le opere filosofiche di Cicerone sono dei dialoghi che trattano argomenti di
filosofia. Anche Platone ha scritto dei dialoghi, ma la novità sta nel fatto che Cicerone ha combinato
in maniera straordinaria il trattato aristotelico con il dialogo platonico. È venuto fuori questo dialogo
filosofico che è qualcosa di originale nella lett. antica. Cicerone immagina un incontro tra amici a
cena e ognuno esprime il proprio punto di vista (non botta e risposta come Socrate)

Abbiamo poi tra gli altri generi l’epistolario intimo. Io mi riferisco soprattutto a Cicerone. Ha scritto
queste lettere forse non destinate alla pubblicazione (avrebbe forse voluto revisionarle) che sono
diventate un modello per gli autori successivi come Seneca, Lucilio.
Questione delle epistole di Cicerone: voleva forse pubblicare subito quelle ad Attico che sono forse
quelle più elaborate ma le altre, quelle familiares non ha fatto in tempo a rielaborarle perché è stato
ucciso nel 43. Dopo la sua morte non sappiamo chi, ha pubblicato queste lettere. Perché? ci sono due
scuole di pensiero. La prima pensa che siano state pubblicate dai suoi amici per mettere in evidenza
la grandezza di Cicerone. Secondo altri furono pubblicate dai suoi detrattori, nemici per mettere in
evidenza le debolezze di questo uomo perché da questo epistolario non elaborato sono venute fuori
le debolezze, le preoccupazioni, un Cicerone molto più umano. Quando l’epistolario fu riscoperto dal
Petrarca, quest’ultimo si mise a piangere perché scopre che la grande figura tutta d’un pezzo di
Cicerone, era un uomo con preoccupazioni come tutti gli altri. È un testo molto soggettivo perché
viene fuori l’uomo nella sua autenticità non come costruzione o filtro letterario.

I poetae novi o νεώτεροι.


Il termine viene usato da Cicerone con un tono dispregiativo per distinguere i poeti moderni dai
cosiddetti classici come Ennio e Accio che Cicerone apprezzava perché più vicini alla sua visione del
mondo, alla sua visione politica, ai suoi mos maiorum rispetto agli autori moderni che stavano
cercando di scardinare la tradizione.

Questi poeti novi non sono sbucati dal nulla ma sono stati preparati da movimenti cosiddetti
preneoterici tra cui il circolo di Lutazio Catulo. Egli era un politico letterato che aveva cominciato a
rivalutare la tradizione letteraria di Roma importando i gusti della poesia alessandrina. Sapete che la
lett. Greca dal III sec in poi cambia completamente direttiva e allora la poesia classica viene sostituita
da una poesia molto più individualistica, molto più raffinata ed erudita, quella che noi chiamiamo
poesia alessandrina, poesia ellenistica.
Lutazio Catulo cominciò ad importare a Roma alcuni canoni di questa poesia alessandrina. I poetae
novi si ispirano a queste forme ellenistiche e utilizzano perlopiù come modello Callimaco.

Tra caratteri della poesia neoterica vi è il ripudio della poesia epica. Callimaco diceva “un grosso
libro è un grosso malanno” perché un autore non può gestire un numero enorme di versi come può
essere un poema epico perché l’opera poi scorrerà male, avrà molte impurità. È meglio concentrarsi
su un testo breve da curare in tutti i dettagli sino ad arrivare alla perfezione. Ma allora perché Virgilio
è tornato alla vecchia poesia epica? Il discorso è complesso. Virgilio inizia con la poesia alessandrina,
quando Augusto per ragioni ideologiche gli chiede di elaborare un poema per esaltare la grandezza
di Roma, Virgilio ha paura di non saper gestire un’opera monumentale. Come fece? i libri dell’Eneide
sono dei piccoli epilli. L’epillio è un genere letterario alessandrino, un piccolo poema circoscritto
come argomento. Ha quindi accostato tanti epilli (12) così bene da creare un poema epico tradizionale.
Ha quindi cercato di accostare la sua esperienza di poeta alessandrino ellenistico con le esigenze
dell’ideologia augustea, del grande poema nazionale.

Altro carattere della poesia neoterica è il gusto per la poesia breve e raffinata. Doctrina oltre che
brevitas. Cosa vuol dire dottrina? Significa che magari c’è la scelta di una versione particolare di un
mito, qualche riferimento a un’istituzione antica, l’uso di una parola antica, cioè qualcosa che possa
suscitare la curiosità del lettore. Capite bene che questo tipo di poesia non è più una poesia popolare
(Plauto) ma elitaria perché circola tra persone che condividono lo stesso ideale politico. Quindi la
lett. Latina ha questa caratteristica, non è una letteratura di massa (tranne qualche forma letteraria)
ma è elitaria, fatta per una cerchia di intellettuali.
L’ultimo punto è la ricerca della sobrietà e semplicità di stile. Attenzione perché quando uno legge
Catullo, pensa sia una poesia semplice e di getto. In realtà la semplicità di Catullo è apparente perché
è una semplicità che scaturisce da una fortissima elaborazione formale. La poesia antica è artigianale,
il poeta è un fabbricatore del verso che deve possedere una tecnica di versificazione. Non è un’opera
di getto ma rielaborata varie e varie volte sino a farla diventare perfetta.

LEZIONE 2 (15/10/2020) Alessia Serra


Continuiamo la nostra lezione introduttiva a Catullo, io stavo parlando della poesia neoterica, dei
poeti novi di cui Catullo è il massimo rappresentante, quello se non altro di cui abbiamo di più. Degli
altri poeti novi abbiamo solo frammenti, a volte incomprensibili tramandati dai grammatici, quindi
per ragioni linguistiche non certo letterali. E abbiamo detto che questi ideali letterali, a cui si rifanno
i poeti novi, sono quelli della poesia alessandrina, in particolare di Callimaco, che forse dei poeti
alessandrini è quello più raffinato, che si prestava a diventare modello e punto di riferimento anche
per i poeti romani. Abbiamo detto che il cardine principale di questa poesia neoterica è il ripudio
dell'epoca, della poesia epica, quella prolissa di perfezione numerica difficile da gestire perché il
poeta novus deve padroneggiare la materia, un poema di 12/24 libri, ovviamente difficile da gestire
e poi da maneggiare. Quindi si preferisce un genere letterario che sia, come dire, ispirato alla brevità
perché si possa raffinare nel dettaglio, nei particolari, nella laccatura, in modo tale che possa venire
fuori un gioiello perfetto. Perciò si preferisce alla pomposità la sobrietà e la semplicità dello stile che
potete vedere, anche se sono di spalle, dalla slide. Però ribadisco quello che si è detto ieri: non è una
semplicità ingenua, che viene fuori da un'improvvisazione, da un atteggiamento estemporaneo. E una
semplicità perfetta nella lavorazione formale. Quindi si diceva che questa semplicità, questa sobrietà
della poesia neoterica è tutto frutto di una forte lavorazione, non frutto di una poesia così
estemporanea, come dicevamo ieri, postromantica per cui uno si sveglia la mattina prende carta e
penna, si sente ispirato e scrive delle belle poesie. Siamo in un’altra dimensione, in un altro capitolo
della storia letteraria. Questa semplicità è appunto apparente perché dietro c’è una forte elaborazione
formale.

Quali sono i generi letterari nuovi della poesia neoterica che sono stati anche sperimentati prima di
quest’età e però non hanno avuto molto successo?

Sono soprattutto questi tre che sono segnati nella slide:

L’epigramma, che interessa a noi in maniera più diretta. L’etimologia di epigramma è abbastanza
perspicua cioè è un testo breve che dev’essere originariamente inciso su un materiale duro. Per
esempio, su pietra, oppure sul bronzo o sul legno. Quindi una sorta d’iscrizione metrica breve perché
lo spazio in una lastra marmorea, in una pietra, in un metallo, in un legno non consentiva ovviamente
di allungare, diciamo così, il discorso. Poi diventa un genere letterario che prescinde dal materiale di
supporto e si caratterizza, appunto, per questa estrema brevità. L’epigramma acquista questa
caratterista: una brevità; poi la varietà tematica perché l’epigramma può trattare qualsiasi tema:
amoroso, polemico, la battuta. Insomma, uno sceglie l’argomento che vuole, un contenitore che si
presta a diversi temi e diversi motivi. A Roma, quindi parliamo sempre dei poeti novi, l’epigramma
è il contenitore di una poesia soggettiva, come si diceva ieri. Quindi uno cerca di trasfondere, di
portare all’interno di questo contenitore le proprie emozioni con dei sentimenti che possono essere
d’amore, ma anche d’ira, di sdegno per esempio. Quindi ci sono tante possibilità, tante corde, tante
anime che si possono esprimere attraverso questo strumento. E poi, sempre in riferimento ai poeti
novi della dottrina, cioè uno cerca di fare un po’ sfoggio della propria erudizione, della propria
cultura. Magari utilizzando dei termini piuttosto rari, un riferimento a qualche mito raro, uno fa
sfoggio di dottrina. Non è una cultura popolare, si diceva ieri, è una cultura elitaria per una cerchia
ristretta di intellettuali, di persone colte quindi c’è quasi una gara a chi ne sa di più, a chi fa più sfoggio
di un virtuosismo intellettualistico.

Il secondo genere è quello dell’elegia, guardate che è difficile a volte distinguere l’epigramma
dall’elegia, perché qual è il discrimen tra questi due generi: è la lunghezza del testo. Perché abbiamo
sempre un distico elegiaco come metodo dell’uno e dell’altro genere, però l’epigramma in genere,
come vi dicevo, è più breve, formato magari da due, tre distici, non di più. Quando si supera questa
dimensione si passa già all’elegia, ecco perché molte volte, lo vedremo anche con Catullo, qualche
leggeremo qualche epigramma piuttosto lungo qualcuno dice: “ma questa veramente è già un’elegia,
non è più un epigramma perché è piuttosto lungo per essere un epigramma”.

Infatti, diciamo che Catullo viene indicato come uno degli iniziatori dell’elegia latina. In genere si
cita meglio Gallo, che fece una fine piuttosto brutta, un uomo politico che fu mandato a ricoprire per
prima la prefettura dell’Egitto, voi sapete che l’Egitto non fu mai una provincia ma una prefettura per
ragioni che voi ben conoscete. E a quanto pare Cornelio Gallo ha nutrito delle velleità autonomistiche,
indipendentistiche sgradite a Roma, quindi è caduto in disgrazia e prima che lo facessero fuori, si è
ucciso lui. Lui era un grande poeta, scrisse quest’opera “Gli Amores” di cui abbiamo soltanto notizie
praticamente, ma gli antichi lodavano la sua capacità versificatoria e la sua poesia. Tant’è vero che
Virgilio gli dedica la decima bucolica e gli hanno anche dedicato alla fine delle georgiche che però
prima della pubblicazione venero censurate perché c’era una sorta di “damnatio memoriae” intorno a
questo personaggio. Le bucoliche non furono toccate perché ovviamente erano già famose, quindi
non è che tu puoi modificare un’opera che circola già sulla bocca di tutti e che tutti quanti hanno sul
comodino. Invece le georgiche stavano per uscire quindi Augusto poté intervenire e togliere quella
parte che elogiava Cornelio Gallo. Però noi di Cornelio Gallo non sappiamo praticamente nulla,
abbiamo un frammento scarso, non di più, se non le testimonianze degli antichi.

Quindi per noi l’iniziatore dell’elegia rimane pur sempre Catullo, anche se con questa riserva per cui
non sappiamo se alcuni di questi campi lunghi siano elegie o epigrammi. L’elegia nasce in Grecia
come lamento funebre, l’etimologia che si dava “elegos” era appunto quello del lamento funebre
accompagnato dal flauto, all’inizio nasce con questa connotazione poi invece pian piano anche questo
diventa un contenitore che può contenere qualsiasi cosa, per esempio il mito, oppure l’amore,
l’impegno politico ecc.

Il terzo genere, tipicamente alessandrino, è l’epillio: “piccolo epos”, poemetto. “Pillio” in greco è
il diminutivo di epos, quindi un poemetto che potrebbe essere di trecento/quattrocento/cinquecento
versi in esametri dattilici che hanno per contenuto soprattutto il mito e spesso le varianti più rare del
mito. Voi sapete che l’antologia non è univoca, l’antologia greca è soprattutto molto variegata, per
cui quasi ogni paese aveva la sua versione del mito. Allora questi poeti alessandrini cercavano le
versioni più strane, più rare, sempre per far sfoggio di erudizione. Il mito a cosa serve? Il mito è una
trasfigurazione della realtà, come voi ben sapete, non è che il mito sia un raccontino così edificante,
il mito è una forma non razionale, non concettuale di un’interpretazione della realtà. La lavorazione
dell’uomo, dell’uomo singolo e anche dell’uomo come civiltà, come società passa da una fase mitica
ad una fase concettuale: cosa significa? Significa che un bambino, un ragazzo non hanno la capacità
di astrazione e di condensare un concetto razionale alcune idee ma lo raccontano. Faccio un esempio:
se voi chiedete ad un bambino delle scuole elementari cosa sia la colpa, non vi dirà il concetto
nazionale “quel sentimento di disagio che si prova quando uno è consapevole di aver trasgredito una
norma”. Il bambino vi dirà: “la colpa è quando uno di nascosto dalla mamma ruba la marmellata e se
la mangia”. Questo è un mito, cioè una forma narrativa e non concettuale di interpretazione della
realtà universale. In genere i ragazzi quando arrivano al liceo passano dalla fase del mito alla fase
della ragione, quindi usano già concetti nazionali, a meno che qualcuno non sia indietro nello sviluppo
intellettuale. Questo procedimento che noi troviamo nella maturazione vale anche per la storia
dell’emisfero occidentale per cui abbiamo una fase che è dominata dal mito, cioè gli antichi
raccontavano un reale, lo interpretavano non attraverso filosofemi ma attraverso racconti che avessero
una portata universale.

Quand’è che si passa dal mito al logos concetto razionale? Con la sofistica, voi lo sapete, avete fatto
filosofia. Sono i sofisti che hanno cominciato ad abbandonare il mito e ad utilizzare il logos, il
concetto razionale. Ecco perché la cultura greca passa quasi soprattutto dalla fase mitica alla fase
razionale. Quindi la tragedia si abbandona perché poi finisce il fatto e cominciamo magari i trattati
aristotelici di filosofia e così via. Quando si parla di Epido non è sia un raccontino così edificante o
più o meno curioso. No, è il raccontare qualcosa che avviene in ciascuno di noi. Infatti, Freud se n’era
reso conto con il complesso di Edipo, ovvero una fase che ciascun individuo attraversa. Quindi i reci
raccontavano quello che accadeva dentro di loro attraverso dei racconti, dei miti non attraverso
concetti razionali o filosofemi. Non so se il discorso, ragazzi è chiaro. È importante capire questo,
altrimenti non capisci neanche la portata della tragedia greca. La tragedia greca interpreta la realtà
raccontando per paradigmi narrativi, non per concetti razionali. Questo è qualcosa che dovete sempre
tenere presente. Quindi anche l’epillio non è un raccontino così, quando per esempio Catullo racconta
il suo amore, lo fa attraverso un mito, cioè utilizza un mito greco per raccontare la sua vicenda
interiore, lo fa appunto in forma narrativa.

Ecco il rapporto tra i poeti novi e i loro modelli: non è che i romani imitano i greci e non aggiungono
nulla di nuovo, non fanno nulla di nuovo. Altroché, cambiano e il mutamento è dovuto alle diverse
condizioni storico-politiche in cui si trovano, perché gli alessandrini (siamo nel terzo secolo avanti
cristo) scrivono in un momento in cui l’assolutismo delle monarchie ellenistiche soffoca la libertà
politica di pensiero e quindi si costringono gli intellettuali a isolarsi nell’accademismo della ricerca
pura oppure nell’erudizione come capitava nell’età dei Flavi con Domiziano, mica tu potevi dire le
cose che volevi dire. Assolutamente no, o ti dedicavi magari alla scienza oppure nelle ricerche così
erudite ma che non avessero nessun impatto nella società e nella politica, altrimenti ti facevano fuori.
I regimi totalitari assolutisti non vogliono teste che pensano e allora questi esseri pensanti che fanno?
Macinano cose che non hanno nessun impatto nella società e nella politica, quindi l’accademismo
oppure nell’erudizione, così da non essere una minaccia sovversiva. Invece nell’età Cesariana, è
un’epoca di accese e spesso violente lotte politico-sociali perché siamo in un’epoca di transizione di
tipo politico, economico e sociale. Quindi è un’epoca, come scritto qua, ricca di fresche energie vitali.
Ecco perché questi neoterici sono impegnati in un’appassionata lotta contro la tradizione, con i mos
maiorum e con le convenzioni della società borghese. Quindi se la cultura alessandrina è un po’
stagnante perché le condizioni politiche non permettono la libera espressione del pensiero, l’età
cesariana invece favorisce quest’attacco alla tradizione, alla religiosità tradizione ad esempio, alle
convinzioni e questo l’hanno sempre fatto. Quindi vedete la differenza sta proprio nelle diverse
condizioni storico-politico.

I primi rappresentanti della poesia neoterica: abbiamo soltanto ovviamente dei frammenti raccolti da
uno studioso italiano Antonio Traglia che ha appunto fatto questa benedizione dei frammenti di questi
poeti che sono giunti soprattutto per tradizione indiretta. Voi sapete la differenza tra tradizione
indiretta e diretta di un testo. Se, per esempio, io dovrò imitare Orazio andrò alla ricerca di manoscritti
medievali che mi tramandano le opere di Orazio, questa è tradizione diretta. Perché abbiamo dei
testimoni dedicati alle opere di Orazio. Però spesso le opere antiche sono state anche citate da altri
autori: per esempio Cicerone cita spesso Accio, Pacuvio, Ennio e allora se noi ricambiamo questi
frammenti di questi poeti per le opere di Cicerone stiamo utilizzando la traduzione indiretta perché
sono opere, frammenti che non ci giungono attraverso dei codici medievali dedicati a quegli autori
ma soltanto delle citazioni fatte da altri. Questa è la traduzione indiretta. E allora, i frammenti di
questi primi rappresentanti della poesia neoterica noi li conosciamo solo attraverso la tradizione
indiretta perché altri li citano (ad esempio di grammatici che erano interessati a parole strane). Quali
sono questi rappresentanti? Ne ricordiamo soltanto alcuni Valerio Catone, Furio Bibaculo e Varrone
Atacino che alternano poesia di gusto neoterico a forme di poesia arcaica. E che significa? Significa
che magari si cimentano ancora nella composizione di un poema epico, Le Argonautiche per esempio
no? Però sperimentano anche nuovi generi: l’epillio, l’epigramma, l’elegia. Sono, come dire, degli
apri pista, aprono la strada ai poeti novi belli e pronti. Infatti, vengono chiamati poeti pre-neoterici
perché preparano l’avvento della poesia neoterica vera e propria. Abbiamo personaggi, in questa fase
di transizione, come Elvio Cinna e Licino Calvo. Elvio Cinna, tra l’altro fece una fine brutta perché
morì nel 44 linciato dalla folla in occasione di disordini dopo la morte di Cesare perché fu scambiato
con un omonimo, che era completamente estraneo alla cosa. Una cosa importante che vorrei farvi
notare è che condusse con sé a Roma il poeta greco Partenio di Nicea, il quale scrisse un manualetto
dal titolo Erotikà Pathémata cioè la passioni amorose. Voi mi direte perché è importante? Perché
divenne una sorta di prontuario per i poeti latini, cioè quando cercavano magari qualche storia
d’amore tragica, qualche passione accesa del mito, usavano questo manuale di riferimento. Quindi è
una delle fonti della nostra poesia, anche di quella Augustea. E lo sappiamo da Catullo, che Cinna
scrisse un poemetto mitologico, un epillio intitolato Zmyrna, che era un personaggio mitologico.
Questo epillio è ammirato e lodato da Catullo come vedremo in un epigramma.
L’altro è Licinio Calvo, tra l’altro figlio di Licino Macro (tribuno della plebe, personaggio noto alla
storia romana), che fu autore di epigrammi, di elegie per la prima volta soggettive, quindi possiamo
dire che la soggettività nell’elegia comincia in Licinio Calvo, epitalami ed epilli. Gli epitalami sono
quei canti nuziali che venivano cantati. Deriva da ἐπιϑαλάµιος (ὕµνος) comp. di ἐπί «sopra, presso»
e ϑάλαµος «talamo», perciò, di fronte al talamo, alla camera degli sposi per augurare la fecondità e
la prosperità. Anche Catullo scrive degli epitalami nei Carmina Docta, perciò, è un genere che ha
coltivato. Tutti questi poeti sono spesso miglioratori e seguono ovviamente l’atticismo. L’oratoria si
smoda in due dimensioni: quella dell’atticismo e quella dell’asianesimo. L’atticismo è chiamato così
perché si ispira ai grandi oratori attici, per esempio Lisia, ed è un tipo di eloquenza sobria che rifugge
dalle figure retoriche pompose, cioè cerca di convincere l’uditore con la forza dei fatti non con
l’eleganza delle parole, bisogna lasciar parlare i fatti che convincono molto di più di tante parole. Il
contrario invece dell’atticismo è l’asianesimo cioè quella moda retorica che invece fa un grande uso
di figure retoriche, di suono, di ritmo e cerca quasi di stordire gli spettatori, gli ascoltatori di
convincerli con la magniloquenza delle parole e non con la sobrietà e con la comicità dei fatti. Quindi
sono due mode completamente diverse. Cicerone, come sapete, come oratore era il più grande della
storia della letteratura latina era un asianesimo moderato, cioè uno che ha saputo contemperare i pregi
dell’atticismo e quelli dell’asianesimo: ecco perché è uno scrittore così grande. Poi avremo modo
anche di parlare di Cicerone ma ricordatevi che Cicerone è forse lo scrittore latino più vicino alla
nostra cultura occidentale per un motivo molto semplice: le grammatiche latine, dal rinascimento in
poi, sono tutte improntate sullo stile di Cicerone perché Lorenzo Valle che voi conoscete (grande
umanista), quando scrisse le sue Elegantiae linguae latinae, cioè un manuale di stilistiche e della
grammatica ha preso il De oratore di Cicerone, l’ha smontato e ha codificato una lingua latina
standard che servisse appunto per la composizione di un buon latino. Ora dalle Elegantiae linguae
latinae di Lorenzo Valla venivano tutte le nostre grammatiche latine, come il Tantucci etc., e quindi
praticamente noi siamo debitori di Cicerone di un modo, non soltanto di scrivere un latino ma di
scrivere in italiano perché la grammatica italiana si è conformata su quelle grammatiche. Non
soltanto: anche il nostro pensiero e la sua organizzazione è stata informata proprio agli schemi che
Cicerone ha praticamente codificato, quindi se noi ragioniamo in un certo modo lo dobbiamo a lui e
organizziamo il pensiero secondo quelle categorie linguiste e grammaticali. Quindi ha avut un flusso
notevolissimo nella nostra cultura, molti così lo disprezzano definendolo un vanesio ma intanto con
i suoi ideali ha perso la testa: come sapete è stato decapitato. Fu il prezzo da pagare perché Ottaviano
potesse avere il potere, Antonio dice: “va bene, io ti lascio lo spazio libero però i devi fare un favore,
voglio la testa di Cicerone”. Ottaviano è stato un debole e ha concesso questo crimine e Cicerone è
diventato una specie di martire da questo punto di vista.

Ora per farvi un esempio di quei frammenti di Licinio Calvo, vi ho messo il primo perché fa
riferimento ad un personaggio che magari conoscete di nome: Tigellio Sardo, che era un poeta
notissimo nell’età Cesariana, amico di Cesare, di Augusto, di Ottaviano, di Orazio e di cui purtroppo
non abbiamo nulla se non una testimonianza di Cicerone e Orazio stesso. Cicerone lo temeva perché
aveva delle aderenze di potere che potevano costargli care. Infatti, in una lettera raccolta parla di
questo sardo perché secondo come si muove per noi saranno guai, perché riusciva evidentemente ad
entrare nelle gabbie del potere. Questo frammento è un trimetro giambico:

“Sardi Tigelli putidum caput uenit”

Cosa significa la frase? “Sta arrivando quella faccia puzzolente del sardo Tigellio” (detto con
disprezzo)

Arriva à venit, però potrebbe significare un’altra cosa perché sapete che venit ha un omografo da
veneo à essere messo in vendita. Quindi è messo in vendita questa faccia zozza del Tigellio Sardo.
È un riferimento verso i sardi che venivano catturati spesso e venduti come schiavi a basso prezzo,
perché erano schiavi ribelli che davano problemi ai padroni, lo sta trattando come l’ultimo degli
schiavi. Ecco vedete qui si nota un po’ la moda neoterica perché c’è questo gioco di parola tra
venit/venire e veneo/essere messo in vendita. Poi c’è quest’attacco personale molto diretto che è
completamente estraneo alla poesia alcaica. A proposito di Tigello Sardo, volevo leggervi quello che
ci dice Orazio, a cui dedica l’incipit della terza satira del primo libro e lo descrive come un
personaggio stravagante, un po’ un’artista mezzo matto a cui se tu gli chiedi di cantare qualcosa non
lo fa nemmeno se lo dovessi pestare a sangue, quando invece non gli chiedi comincia a cantare e non
la smette più.

“È un vizio che hanno tutti i cantori, in compagnia di amici a pregarli di cantare non ne vogliono
sapere, se nessuno glielo chiede non la finiscono più. Tigellio Sardo era fatto così, se Cesare che
poteva quel poteva gliel’avesse chiesto per l’amicizia di suo padre e sua non avrebbe prodato nulla
ma se gli avesse saltato il picchio sarebbe stato capace di cantare oh vacanti dall’antipasto sino alla
frutta. Ora con il tono più acuto, ora con il tono più basso del tetracordo. In lui non ci fu mai
coerenza, cento volte correva come avesse visto un nemico alle calcagna, mille altre incedeva
gravemente come chi porta in processione gli arredi del culto di Giunone, tante volte aveva duecento
servi, tante altre dieci. Ora si empiva la bocca di re, di principi, di cento altre grandezzate. Ora
invece è rimasta un treppiede, una saliera di sale puro e una toga anche rozza purché lo ripari dal
freddo. Gli potevi regalare un milione a quest’uomo discreto e di poche pretese, in cinque giorni non
aveva più un soldo in cassetta. La notte stava sveglio fino al mattino, il giorno lo passava tutto a
russare, non si è mai visto un essere così incostante.”

Sono tanti versi che Orazio dedica a questo personaggio, voi conoscete forse la villa di Tigellio, che
ovviamente non è la villa di Tigellio ma è una casa di epoca romana che la tradizione ha voluto
indicare come la casa di questo strano cantore, strano poeta. Una delle poche testimonianze che
abbiamo di un sardo che ha avuto un certo peso nella tarda repubblica.

Invece il secondo frammento di Traglia è un epigramma satirico, attacco ad un personaggio con una
sensibilità, che noi non possiamo accettare oggi perché abbiamo una mentalità più evoluta, però è
importante perché troviamo epigrammi di questo tipo sia in Catullo, sia soprattutto in Marziale.
Vedete questo è un distico elegiaco:

“Magnus,
quem metuunt omnes, digito caput uno
scalpit. Quid credas hunc sibi uelle? Virum.”

Maio, nome di personaggio temutissimo, probabilmente un critico conservatore.

“Maio che tutti quanti temono, con un solo dito si gratta la testa. Che cosa pensi che desideri? Un
maschio. “

Ma la cosa più interessante è che questo epigramma è stato ripreso proprio da Marziale, un poeta che
scrive soltanto epigrammi nell’età dei Flavi. Ad un certo punto c’è un epigramma che ricorda proprio
questo, ve lo leggo in italiano:

“Tu vedi, o Deciano, quell'uomo dai capelli arruffati e del quale temi tu stesso il sopracciglio severo
e che sempre nomina i Curii e i difensori Camilli (i rappresentanti del mos maiorum)? L'aspetto
austero di lui non t'inganni: ieri fu donna.”

Riprende esattamente questo epigramma di Licinio Calvo, per dire che c’è una sorta di isoglossa tra
i neoterici e la poesia cosiddetta Flavia, quindi hanno avuto un impatto notevolissimo nella storia
della cultura.
Veniamo ordunque al nostro Catullo: per quanto riguarda la sua biografia, abbiamo un problema
cronologico. Tratto da tutti gli storici della letteratura, abbiamo come fonte per la sua data di nascita
e di morte il famoso Chronicon di San Girolamo. Il Chronicon è un’opera cronografica, perché gli
antichi hanno sempre avuto grandi difficoltà nella cronologia e cronografia, perché noi oggi abbiamo
le ere, partiamo dalla nascita di Cristo (anno 0) e da lì contiamo i nostri anni ma gli antichi non
avevano questa certezza. C’era sì, la fondazione di Roma ma non veniva usata tanto venivano usati i
consoli dell’anno e in Grecia gli arconti. Quindi spesso, appunto, si servivano di questi studi di
cronografia per cercare di collocare gli eventi storici in una scansione temporale oggettiva. Quindi
usavano queste opere per collocare in certe date gli eventi più noti della storia antica. Girolamo scrive
questo Chronicon traducendo la cronaca di Eusebio di Cesarea (che appunto è greco), aggiornando
con le notizie di Roma. Lui parte dalla nascita del patriarca Abramo, Girolamo è un cristiano, quindi
aveva come riferimento la storia sacra. Ora all’anno 1930 quindi dalla nascita di Abramo che
corrisponde al 87a.C, secondo la nostra era, dice:

“C. Valerius Catullus scriptor lyricus Veronae nascitur.”

Ci dice che Catullo è nato a Verona nell’anno 87 a.C., ci dice anche che l’intero nome è Caius
Valerius Catullus, poi subito lo definisce come “scriptor lyricus” ovvero di poesia breve, dotta,
amorosa e soggettiva. Quindi ci fa capire come gli antichi conoscevano soltanto quel liber carminum
che leggiamo ancora noi oggi, ha scritto solo quello. È morto a trent’anni quindi forse non ha potuto
scrivere di più. Interessante questo scriptor lyricus quindi viene indicato come il rappresentante della
lirica latina. All’anno dal 1959 dalla nascita di Abramo, che corrisponde al 58 a.C., scrive:

Catullus XXX aetatis anno Romae moritur.

Quindi Catullo muore a Roma a trent’anni, quindi sappiamo che secondo Girolamo nasce nel 87 e
muore nel 58. Tenete conto che quando si parla di date antiche c’è sempre di un margine di almeno
un anno, non si è mai precisi. Ma il problema non risolto, perché nel carme XI verso 11-12 e nel
carme XXIX al verso 20, c’è un riferimento agli sbarchi di Cesare in Britannia nel 55-54, non tornano
più i conti. Se fosse morto nel 58 come fa a citare eventi del 55-54? Allora gli studiosi si sono
cimentati per risolvere questa difficoltà cronologica. Ora riporto questo esempio anche per farvi
veder come a volte gli storici della letteratura lavorano con le fonti, è soltanto come dire un esempio
metodologico. Vediamo come sono le ipotesi o proposte di soluzione di questo problema:

1) Partiamo con uno dei primi, un autore tedesco, L. Schwabe, che nel 1862 scrisse quest’opera
critica dal titolo Quaestionum Catullianarum liber I ovvero “primo libro di problemi catulliani”.
Quindi studia Catullo e sostiene che il numero XXX fornito da Girolamo non debba essere preso alla
lettera, cioè può essere una cifra tonda però si può anche stendere di un paio di anni. Quindi sostiene
che Catullo sia morto di 33/34 anni. Dunque, sarebbe nato nel’87, come testimonia Girolamo, e morto
nel 54/53 a.C., quindi poteva benissimo aver fatto riferimento a quegli eventi di cronaca, ovvero
Cesare che sbarca in Britannia, questo territorio che sembrava Eldorado, salvo poi scoprire che non
valesse niente. Tanto è vero che poi gli Inglesi hanno saccheggiato mezzo mondo perché risorse locali
non avevano e cadde il mito della Britannia felix, aurea e venne tutto abbandonato. Così potrebbero
tornare i conti: trent’anni approssimativamente.

2) Allora Smith e il nostro Vincenzo Marmolare, italiano, propongono un’altra cosa. Smith che
vedete nel 1914 scrisse un articolo su questo problema, in una rivista filologica importantissima,
RheinischesMuseum. Poi diversi anni dopo, nel 1952, V. Marmorale scrisse “L’ultimo Catullo”.
Come risolvono il problema? Pensano a una confusione di Girolamo tra il consolato di C. Mario (nel
86) e quello di C. Mariojr. (nel 82) per quanto riguarda la data di nascita. E poi pensano alla
confusione tra il consolato di Q. Cecilio Metello Nepote (del 57) e quello di Q. Cecilio Metello Pio
(del 52) per la data di morte. Propongono quindi gli anni 82-52 cioè 30 anni. Ora è anche possibile,
perché uno studioso dice che la cosa più irritante nella storia romana è l’omonimia dei personaggi.
Infatti, ricostruire le dinastie è quasi impossibile perché trovi un sacco di omonimi, allora devi fare
ricerche approfondite, controlli incrociati per capire chi sia uno e chi sia l’altro.

3) Abbiamo altri punti di vista: Schuster e il nostro italiano Francesco Della Corte. Il primo scrisse
un articolo su Catullo nella The Realencyclopädie der classischen Altertumswissenschaft chiamata
Pauly–Wissowa, che sono cognomi di due studiosi che hanno dato luogo ad un’enciclopedia
monumentale dell’età classica scritta in tedesco, sono 69/70 volumi. Ogni articolo è scritto da uno
specialista e firmato da uno specialista, qualsiasi cosa: tutti i personaggi della storia romana,
istituzioni, qualsiasi cosa. È un’enciclopedia davvero monumentale. È chiamata The
Realencyclopädie perché è un’enciclopedia delle cose, delle persone e non dei concetti astratti. Se
cercate “fides” non la trovate, se cercate “tribunum militum” trovate tutto sul tribuno militare, trovate
perciò le cose concrete e non le idee filosofiche. Perciò Schuster in quest’articolo del P.W., e poi
Della Corte in uno studio, del 1951, intitolato Due studi catulliani, ritengono invece che Girolamo
abbia confuso il primo consolato di Cinna dell’87 col quarto dell’84. Anche qui un caso di omonimia.
E propongono gli anni 84-54, prendendo per buona la durata della vita di Catullo (30 anni) indicata
da Girolamo.

Per riassumere:

1. 87 –54/53 (Schwabe)
2. 84–54(Schuster, Della Corte)
3. 82 –52 (Schmidt, Marmorale)

Ora se prendete i vostri manuali, potete trovare una di quelle possibilità. Statisticamente i manuali si
orientano sulla data 84-54, ovvero la via mediana perché non possono negare che ci sono i riferimenti
sullo sbarco di Cesare in Britannia.

Il Liber Catulliano è una raccolta, un canzoniere di carmi composto da 116 carmi, non sappiamo se
ce ne fossero altri. Abbiamo qualche frammento ma non sappiamo esattamente dove collocarli. Questi
carmi sono ripartiti in tre sezioni, il criterio di ripartizione è metricologico. La prima sezione (carmi
1-60) in metro vario, soprattutto endecasillabi faleci, che sono il metro preferito di Catullo. Vengono
chiamate “nugae” cioè poesie leggere, quisquilie. Anche se in realtà sono poesie raffinate, molto
elaborate anche se magari l’argomento non è molto serioso degli altri, quindi ecco perché sono
chiamate così. Qui il poeta esprime tutta la sua baldanza giovanile, i suoi sentimenti per donna amata,
all’odio verso i rivali. È un Catullo che si rivela nella sua soggettività piena, sempre frutto di
un’elaborazione formale. La seconda sezione è quella dei carmina docta (carmi 61-68), molto più
lunghi degli altri e forse più elaborati dal punto di vista stilistico. Per quanto riguarda il genere
letterario: si tratta di epitalami (ovvero canti nunziali), epilli (poemetti mitologici) ed elegie
(epigrammi più lunghi come dimensione). Alla fine, del corso ne leggeremo due di queste elegie per
farvi capire la differenza tra epigrammi ed elegie. La terza sezione è quella dei carmi (69/116), quelli
che costituiscono il cuore del nostro corso: carmi brevi in metro elegiaco e perciò detti anche
epigrammata. È probabile che Catullo, essendo morto giovane, non abbia avuto modo di poter
rielaborare quest’opera, in una disposizione diversa e noi l’abbiamo secondo la disposizione dei
grammatici. Il primo carme è una sorta prefazione dedicata a Cornelio Nepote, compaesano di
Catullo, evidentemente Cornelio lo aveva introdotto negli ambienti culturali di Roma e per gratitudine
gli dedica questo epigramma incipitario. State attenti: questo carme non è un’introduzione a tutta
l’opera, ma soltanto a una parte delle nugae, quindi non bisogna interpretarlo come un’introduzione
a tutto il Liber ma soltanto ad un tot di nugae. I carmi più leggeri si riferiscono sicuramente alla prima
attività poetica di Catullo. Ricordiamo che i carmi non vanno in ordine cronologico, noi troviamo gli
epigrammi fra gli ultimi che magari sono stati scritti in giovinezza visto che il criterio metrologico.
Ma la maggior parte delle nugae, si pensa appunto che appartengano alla prima attività del poeta,
infatti troviamo per esempio questi tempi caratteristici di Catullo: l’erotismo scurrile, la caricatura
del personaggio, i morti di fame, i cattivi poeti, beffa. Un poeta scanzonato che bastona a destra e a
manca senza pietà, quella baldanza giovanile di chi è convinto di spaccare le montagne. Quindi
troviamo vedete un Catullo vivace, aggressivo, triviale anche se tali caratteri sono mitigati da una
grazia ingenua e fanciullesca. Un bambino monello che se la prende coi personaggi e utilizza delle
parolacce che oggi noi non useremmo mai.

I motivi ricorrenti della sua poesia sono almeno tre:

1) Il primo motivo è l’amicizia, carmi dedicati ad amici, famoso quello di Catullo invitato a cena ma
non ha nulla perché è uno squattrinato

2) Gli affetti familiari, leggeremo il carmina 101 che poi sarà ripreso da Foscolo per la morte del
fratello Giovanni.

3) Poi il grosso della poesia è quello per l’amore per Lesbia, una donna, moglie di Quinto Metello
Celere. Donna d liberi costumi che usava Catullo come un “toy boy”. Catullo è innamorato ma questa
donna saltava da un materasso all’altro, ma lui si era illuso che fosse l’amore della sua vita e non
potevano vivere una storia piena perché sposata. Ma lei prima di sposarsi aveva adocchiato anche
Cicerone perché Cicerone aveva comprato una casa a Roma, attigua alla casa di Clodia, e secondo
alcune fonti aveva adocchiato Cicerone. Ma egli era scaltro e non si fece irretire da questa donna,
dalla fonte si capisce che i Clodii sono sempre stati mezzo matti, non ce n’era uno sano di mente.
Comunque, questa donna è molto particolare, magari vedremo qualcosa di lei. Lesbia è uno
pseudonimo, fa riferimento a Saffo, la poetessa di Lesbo, perché lesbia è una donna raffinata, una
conoscitrice della letteratura, un’amante della poesia e quindi Catullo la paragonava ad una delle
ragazze educate da Saffo nel suo tiaso. Sapete che saffo aveva una specie di circolo femminile
chiamato appunto Tiaso, con connotazione religiosa e dava una connotazione artistica alle ragazze
che andavano da lei. Perciò erano tutte ragazze colte, ragazze che sapevano di poesia, d letteratura,
di filosofia e allora Catullo pensa che questa donna assomiglia ad una delle ragazze educate da Saffo
e inventa questo nome Lesbia. E metricamente corrisponde: Clodia è un dattilo, lunga-breve-breve,
Lesbia lo stesso. Gli antichi facevano così quando usavano degli pseudonimi, conservavano la
struttura metrica della parola, una specie di cifra. Chi è che ci dice che Lesbia si chiamava Clodia?
Apuleio, nel De magia, dice chiaramente che questa donna era la moglie di Quinto Metello Celere.
Anche qui ci sono parecchie dispute sugli studiosi.
Il motivo dell’amicizia, vi dicevo, che è un motivo molto marcato, molto presente nel canzoniere di
Catullo e badate che non è pura convenzione letteraria, ma amico vero, concreto, reale, di tutti i giorni.
Non è una cosa astratta ma rappresenta un sentimento reale, portato alla massima intensità. Diciamo
che quando Catullo parla di amici, ne parla quasi come un amore della propria donna, certo manca il
lato fisico, ma i sentimenti che prova sono forti come quelli per le donne amate. Utilizza dei termini
come foedus e fides, cioè il patto che si instaura tra due persone, un amico oppure con la propria
moglie o la propria ragazza. La fides è la fedeltà che scaturisce con l’osservanza di questo patto. Ha
un’intensità notevolissima.

Il carme 30 all’amico Alfeno: in questo carme lui si lamenta perché l’ha tradito, perché secondo lui,
non è stato un amico fedele e usa espressioni simili a quelle che si usano con una fidanzata.

“O Alfeno, ingrato e infedele verso gli amici sinceri, non hai più alcuna compassione, crudele, del
tuo dolce amico? Non esiti più a tradirmi o a ingannarmi, perfido? Ai celesti non piacciono le azioni
empie degli uomini ingannatori. Ma tu non te ne curi e lasci me misero nella sventura. Ahimè, che
cosa dovrebbero fare gli uomini, dimmi, o a chi dovrebbero prestar fede? Eppure, proprio tu mi
ordinavi di consegnarti la mia anima, disonesto, inducendomi ad amarti, come se tutto fosse sicuro
per me. Ora sei tu a tirarti indietro e lasci che tutte le tue parole e le tue azioni le trascinino via i
venti e le nuvole del cielo rendendole vane. Se tu ti sei dimenticato, gli dèi però ricordano, lo ricorda
la Fede, che farà sì che tu ben presto ti penta della tua condotta.”

Notate che perfidus in latino è colui che non mantiene la fides, quindi sleale perché non ha mantenuto
a quel patto. Ai
celesti: il patto con la moglie, l’amico deve essere consacrato davanti agli dèi e se lo rompi li stai
offendendo. Termini tipici del coniugium, delle nozze.
Prestar fedeà la fides. Vedete
che sembra quasi scritto ad una fidanzata? È la stessa intensità che noi troviamo nei carmi per Lesbia
o per le altre donne.

Gli affetti familiari, è il secondo tema che abbiamo visto, anche questi sono molto sentiti, rimangono
in secondo piano ma quando fa riferimento ai genitori, al fratello, si vede che c’è un attaccamento
sincero e questo tema degli affetti familiari appartiene più genuina tradizione romana. Ricordatevi
che Catullo era di Verona, la Gallia Cisalpina ed era un provinciale e le province sono sempre più
attaccate alle tradizioni rispetto alle metropoli. Uno pensa che Catullo sia una specie di dandy, di
rivoluzionario che vive questa storia con Lesbia in maniera moderna ma lui addirittura gli chiede la
fides secondo i canoni del mos maiorum. Lui vagheggiava un matrimonio romano, tradizionale per
questa donna. Palatole dice giustamente che Clodia in realtà non ha mai amato questa donna

Gli affetti trovano la loro massima espressione nel celebre epigramma 101 per la morte del fratello,
che sarà rivisitato da Michele Marullo, un minimalista, egli ha scritto un epigramma per il fratello
morto che ricalca quello di Catullo e poi da Foscolo. Vedete come la tradizione nelle forme, nei
contenuti che si propaga praticamente fino all’età moderna.
L’amore per Lesbia che vi dicevo forse il tema più presente, più corposo all’interno di questo
canzoniere. Allora la sua passione per Clodia si evolve in tre fasi, sarebbe bello ordinare questi carmi
quasi in maniera cronologica:

1. La prima fase è quella della divinizzazione della donna amata, con accenti che sembrano
quasi stilnovistici, diciamo che è una cosa normale no? Penso sia capitato a tutti noi quando
uno si innamora non vede che il principe azzurro o la fata, non si piò neanche toccare perché
una divinità. Tutto un film che si gira Catullo però. Il carme che meglio impersona meglio
questo amore è il carme 51 con la traduzione Il Carme di Saffo. “Ille mi par esse deo videtur”
sembra essere simile agli dèi, già questo Ille che ha una lontananza quasi mitologica, e poi
quel deus, deo richiama la divinizzazione della persona amata. Ci sono alcuni carmi che
appartengono a questa prima fase, si potrebbero raccogliere e creare in maniera cronologica
questa prima fase.
2. A un certo punto la fase della divinizzazione viene a mancare e subentra l’impeto gioioso e
sensuale della passione. Uno con una donna che prima non poteva baciare, la vuole toccare
perché capisce che è una storia reale. I carmina di questa fase sono i famosi carmi dei baci, io
qui ho citato il carme 5 che tutti quanti conoscono: Vivamus, mea Lesbia, atqueamemus etc.
Questo forse è l’cona della storia d’amore di Catullo
3. E poi purtroppo c’è la terza fase del disincanto, della disillusione il sogno è infine si
infrange nella contigua infedeltà di Lesbia: Il crepacuore perché l’ha fatto dannare, come
si dice. È interessante questa terza fase perché Catullo, qui ci sono connotazioni psicologiche
importanti, si sente legato fisicamente a questa donna ma mentalmente si sente separato.
Succede sempre così, se avete avuto una storia d’amore con un’altra persona, vi sentite
fisicamente attaccati a quella persona ma sentimentalmente non più. Catullo alterna diversi
sentimenti opposti (odi/amo; bene velle/amare) e ad un’angoscia che sicuramente poi lo
porterà alla morte. Quindi è interessante perché la storia d’amore tra Catullo e Lesbia
attraversa le fasi di tutte le storie d’amore, poi fortunatamente ci sono le strie d’amore che
finiscono bene.

Vediamo i carmina docta, sono i carmina 61 e 68. Ripetiamo sono epilli, epitalami ed elegie. I
problemi critici di questi carmi è la loro valutazione, perché se voi leggete i vari manuali, ci sono
giudizi contrastanti: alcuni li giudicano capolavori di tecnica e spirito alessandrino, mentre per altri
li vedono fredde esercitazioni letterarie o meglio la cosa peggiore che Catullo abbia scritto. Dipende
dalla sensibilità, dal vostro occhio critico. La critica letteraria è sempre un quid di opinabilità, di
arbitrarietà perché l’opera varia nel riverberare nel nostro vissuto, se non trova questo riverbero può
sembrare qualcosa di freddo e di vissuto. Al contrario, trova una valutazione migliore. La poesia deve
riverberare dentro di noi. Cosa possiamo dire? Non possiamo prendere posizione, ma possiamo dire
questo: che in realtà noi ritroviamo in questi carmi gli stessi temi delle nugae e degli epigrammi,
soltanto che questi temi sono filtrati attraverso il mito e la dottrina, quindi ricevono una maggiore
idealizzazione. Quindi troviamo ugualmente il tema dell’amicizia, dell’amore per Lesbia e gli affetti
familiari, ma questi sentimenti non sono più soggettivi ma sono filtrati attraverso il mito. Catullo
ripesca un mito che possa interpretare l’affetto per l’amico, per la famiglia o per la donna amata. È
l’atteggiamento che dobbiamo avere quando leggiamo questi i carmina docta, senza avere pregiudizi.
I caratteri della poesia di Catullo in rapporto ai modelli d riferimento. Con Catullo assistiamo
alla trasformazione dell’elegia erotico mitologica alessandrina in elegia personale. Non è che gli
alessandrini non cantassero gli amori tragici, lo facevano. Però non era il loro amore, interpretavano
i sentimenti di altri. Invece con Catullo diventano drammi personali, ecco perché Catullo ci sembra
così moderno: per questo motivo. Il rapporto tra Catullo e gli alessandrini consiste in (io ho cercato
di sintetizzare):

1. In un’analogia formale, quindi analogo agli alessandrini per l’aspetto della forma, per
esempio, la scelta dei generi letterari: l’epitalamio, l’epigramma, per la brevitas, per la
doctrina, troviamo analogie che ne danno la forma esteriore.
2. In un’antitesi sostanziale perché, l’ho ripetuto alla nausea, all’oggettività alessandrina, alla
freddezza se volete alessandrina, si contrappone la soggettività, il personalismo catulliano.

Catulo come abbiamo detto è legato alla tradizione romana e non possiamo non trovare una forma
religiosità nelle sue poesie, si basa spesso sul concetto di pietas. Non è la pietà nostra ma devozione
per la famiglia, per la patria, per gli dèi, Enea per Virilio è pius Enea, perché è devoto alla patria che
deve riformare da un’altra parte, agli dèi che gli raccomandano di fare questo lungo viaggio, al padre
che si carica sulle spalle per salvarlo da Troia che brucia. La pietas è un concetto religioso molto
forte. Poi appunto fides, che vi dicevo prima. Quindi Catullo è un po’ strano, perché è contradditorio
con questo atteggiamento moderno, distruggere tutto, però dall’altro canto è legato da alcuni concetti
fondamentali della tradizione romana. È un po’ contradditorio, conflittuale.

LEZIONE 3 (16/10/2020) Franca Zara


Di queste due edizioni del testo di Catullo quella rappresentata dal THuaneus è l’edizione più accurata
quindi migliore, più vicina all’archetipo cioè diciamo alla mente di Catullo, qui forse vediamo
l’incipit del carme 62 secondo il Parisinus 8071, il foglio è il 5 in recto. Voi sapete che i fogli
manoscritti si dividono in recto e verso per via della pelle di pecora, il recto si dice la parte giusta e
l’altra interna si dice verso. Nella seconda edizione noi abbiamo due codici importanti: il più prezioso
è il cosiddetto Germanensis, codice G come sigla, che troveremo nell’apparato critico cosi chiamato
perché proviene dall’abbazia di Saint-Germain de Pres vicino a Parigi poiché ora si trova nella solita
Biblioteca Nazionale di Francia viene chiamato Parisinus 14137; è un manoscritto abbastanza tardo
ma se pensate che il codice Thuaneus è del viii-ix sec. Questo è del xiv sec. Scritto forse a Verona
guarda caso patria di Catullo nel 1375 però ricordatevi che in filologia c’è un detto che dice:
recentiores non deteriores cioè i codici più recenti non necessariamente sonVeo i meno pregevoli.
Perché? Perché un codice magari vergato nel xi sec. Può avere come antigrafo un modello del vi se.
Quindi non è necessariamente peggiore o corrotto rispetto agli altri manoscritti. In questo caso noi
abbiamo assodato che probabilmente deriva da un codice più antico, l’altro invece importante è il
codice O cosi chiamato perché si trova a Oxford in latino si diceva Oxonium quindi l’aggettivo è
Oxoniensis cioè codice di Oxford, si trova nella Biblioteca Boodleiana fondata all’inizio del xviii
secolo da questo ricco Sir Boodley che tra l’altro ha il merito di aver aperto la prima biblioteca
pubblica del mondo. Anche quest’Oxoniensis è stato vergato in Italia forse sempre a Verona senza
sbilanciarci troppo in Italia settentrionale intorno al xiv sec. Quindi coetaneo del codice G. Qual è il
rapporto tra i due codici? I codici G e O forse sulla base dei dati che si possono ricavare dalla
collazione cioè dal loro confronto derivano da un archetipo originale del ix sec. Adesso perduto che
viene chiamato codice V codice Veronensis perché si suppone circolasse e fosse il capostipite di
questi due; quando noi troviamo nell’apparato critico la lezione del codice V è soltanto un’astrazione
perché noi non possediamo il codice V, lo possiamo solo ricostruire sulla base del confronto tra questi
codici esistenti. Ora noi abbiamo notizia di un codice di Catullo del X sec. Che si trovava nella
Biblioteca Cattedrale di Verona e che fu letto dal vescovo di Verona Roterio nel 965 e allora molti
hanno detto: “Ma sicuramente questo è l’archetipo di O e G”. Ma sembra che non sia cosi, noi oggi
abbiamo la certezza di una cosa: pare che G e O dipendano direttamente forse da un codice sempre
del xiv sec. Sempre scoperto a Verona ora perduto che si è ricordato anzi celebrato in un epigramma
di un preumanista che si chiamava Benvenuto Campesani alla fine dell’edizione del Manos che vi
darò c‘è riportato anche questo epigramma del Campesani in cui si parla della scoperta di questo
evento. Vedremo che l’epigramma non è chiarissimo perché c’è un verso molto oscuro però è molto
chiamo che è stato scoperto in quel periodo e che è la copia di G e O. Ho una pagina del Parisinus
con scrittura mediocarolina. Poi ho messo una pagina dell’Oxoniensis, la dicitura esatta di questo
codice di Oxford è Oxoniensis canonicianus classici latini 30 foglio 34 v col carme 85 dove c’è una
variante: Odi et amo. Quare id faciam fortasse requiris. Nescio si fieri sentio et ecrucior. Abbiamo la
lezione si invece di sed. Adesso passiamo alla metrica. Abbiamo detto che gli epigrammi sono scritti
in distici elegiaci quindi cercheremo di illustrare anche i fondamenti della metrica perché è inutile
che io ho in mano un’elegia se molti non sanno cosa si intende per metrica né cosa sono i piedi.
Partiamo dal concetto di accento. Cosa s’intende per accento? L’accento non è altro che il rilievo che
viene dato ad una sillaba in una parola rispetto ad un’altra sillaba quindi le parole sono formate da
una catena parlata di sillabe toniche e di sillabe atone. Il flusso delle parole quando parliamo vengono
marcate, l’accento ha valore distintivo facendo modificare anche il senso delle parole. Per esempio
ancora (accento su prima a) e ancora (accento su o) ecc (Vedi slide 3 su metrica). Qual è la differenza?
La differenza è che gli organi fonatori variano all’altezza delle sillabe marcate. Nelle lingue l’accento
in genere ha un valore distintivo nel senso che può anche modificare il senso della parola es canto
(accento su a) e cantò con diversa marcatura della sillaba. Noi abbiamo almeno due tipi di accento
con cui possiamo marcare la sillaba: attraverso l’intensità dell’aspirazione oppure attraverso una
variazione di tonalità emesso all’altezza della sillaba che vogliamo rimarcare. Nel primo caso
parleremo di accento espiratorio o intensivo nel secondo caso parleremo di accento melodico-
quantitativo perché la marcatura della sillaba non è prodotta attraverso una maggiore espirazione
dell’aria o una maggiore tensione degli organi fonatori all’altezza di quella sillaba ma avviene
attraverso un’elevazione del tono melodico della sillaba. La maggior parte delle lingue moderne sono
lingue che hanno un accento intensivo mentre non conosciamo lingue che hanno un accento melodico
forse qualche lingua slava. L’accento melodico quantitativo si realizza elevando il tono della sillaba,
il tono non il volume, la nota non il volume, l’accento melodico è caratteristico delle lingue classiche
come il greco e il latino. Allora, vi dicevo prima, si eleva il tono, la nota ma di quanto rispetto alla
parlata normale? Si ritiene sulla base delle fonti antiche che la sillaba accentata si elevava rispetto
alla sillaba base di una quinta (Vedi slide 7). Quindi quando noi abbiamo una parola con l’accento
acuto in greco come in logos non è che i greci antichi pronunciassero logos e espirassero
maggiormente all’altezza di quella sillaba ma elevavano il tono. Noi oggi ne parliamo solo a livello
teorico ma dobbiamo immaginarci quando i greci antichi declamavano una poesia c’era in realtà tutta
una sorta di melodia, cantilena che rendeva gradevole il testo che era accompagnato dagli strumenti.
Come facciamo a sapere che l’intervallo era di una quinta? Ce lo dicono gli antichi. Dionigi di
Alicarnasso che scrisse il trattato De Compositione Verborum lo dice quando parla dell’accento
metrico melodico lo dice, vi traduco la parte in rosso: “l’accento melodico si misura per un solo
intervallo cosiddetto “dià pente” di quinta più o meno. E questo valeva anche per il latino, il sanscrito
etc Ora guardate la nomenclatura: il termine latino accentus che è un composto di ad cantus fa capire
che c’era il canto, un aspetto melodico e anche il greco prosodia non è altro che il calco perfetto di
accentus che è tutta quella normativa che governa l’accento melodico ,poetico e poi anche la
nomenclatura dell’accento oxus, barus, perispomenos ci rimanda a questo tipo di intervalli di
intervalli musicali. Nell’accento acuto si eleva, nel grave si abbassa , il perispomeno si ha solo con
sillabe lunghe perché ha bisogno di tre tempi. Al tratto melodico importante il greco e il latino ci
aggiungono la quantità delle sillabe che possono essere lunghe o brevi. Questo è il segno della sillaba
lunga _ , questo u è il segno della sillaba breve. Ricordate che per convenzione teorica grammaticale
una sillaba lunga corrisponde a due brevi, probabilmente nella pratica non era cosi ma la convenzione
grammaticale e poetica faceva si che all’interno di una sillaba lunga ci potessero stare due sillabe
brevi. C’è una corrispondenza matematica. Allora la prosodia, vediamo un po’. La lunghezza delle
sillabe può essere per natura o per posizione cioè una sillaba è lunga per natura ab origine perché lo
è da sempre però a volte abbiamo degli allungamenti delle sillabe per via della posizione in cui si
trovano per esempio una vocale che sia breve per natura se seguita da due consonanti diventa lunga.
Io qui (slide 12) ho messo un verso di Virgilio il 16 della prima Bucolica niger quamvis, vedete niger
che significa nero ha due brevi la i e la e , se segue una parola come quamvis che vuol dire benché
vedete che la e si allunga perché seguono due consonanti la r e la q : questa è la lunghezza per
posizione nel senso che la e è breve per natura ma è il contesto che la allunga per via della posizione
in cui si trova . Questo è importante per la versificazione. Oppure una vocale lunga o un dittongo si
può abbreviare se seguita da un’altra vocale per esempio il verso 79 dell’Ecloga 3 di Virgilio abbiamo
l’imperativo vale cioè stammi bene in latino la a è breve la e è lunga però dopo c’è la parola inquit
che inizia per vocale quindi la e diventa breve. Compresenza del tratto melodico –quantitativo e di
quello intensivo. Che cosa vuol dire questo discorso? Questo discorso significa che la distinzione che
abbiamo fatto prima tra le lingue che adottano un accento intensivo e lingue che adottano accento
melodico- quantitativo non è una differenza assoluta cioè quelle che hanno l’accento intensivo hanno
anche un tratto melodico a cui però noi non diamo importanza perché rimane come tratto secondario
cosi come le lingue antiche come il latino e il greco che hanno un accento melodico avevano anche
un accento intensivo come tratto secondario però diciamo non ci facevano caso, non era importante
x loro. Questo capita anche da noi per es. parlando dell’italiano sulla quantità vocalica noi abbiamo
come in inglese e tedesco le vocali lunghe e le vocali brevi ma voi non ve ne accorgete. Se io
pronuncio la parola fato=destino la a è lunga ma se dico fatto la a è breve, se dico polo la a è lunga
ma se dico pollo la o è breve solo che sono tratti secondari a cui non facciamo più caso. I greci e i
latini che ne avevano la consapevolezza la quantità ha valore distintivo il nominativo rosa si distingue

da rosa con a lunga che è un ablativo e quindi erano obbligati a far caso alla quantità vocalica perché
cambiava il senso delle parole. Allo stesso modo noi abbiamo un aspetto melodico ma lo abbiamo
solo in alcuni casi cioè nelle intonazioni delle frasi. È bello? Oppure È bello! Però guardate spesso
noi nel parlato riusciamo a capire se è una domanda o un’affermazione dal tono non dalle parole.
Nello scritto abbiamo? Per capire che si sta formulando una domanda. Una cosa che dovete capire è
che quando noi leggiamo in metrica il distico elegiaco stiamo facendo una ricostruzione arbitraria nel
senso che noi non possiamo più parlare o cantare come facevano gli antichi quindi quando noi
cerchiamo di leggere in metrica stiamo soltanto apponendo il nostro sistema espiratorio a un sistema
che in realtà era melodico-quantitativo. Quindi tutto questo a cosa ci serve? Ci serve perché per un
filologo la conoscenza della metrica è uno strumento importante per la ricostruzione del testo. Se voi
state ricostruendo l’esametro dattilico e vedete che una parola prosodicamente non ci sta dal punto di
vista metrico voi potete dire matematicamente che li c’è una corruttela e trovare magari quella
variante che si adatta a quello schema metrico.
Quindi per noi filologi è uno strumento importante a parte che la metrica e ritmo ci permette di capire
certe figure retoriche che non si capirebbero leggendo in prosa e certe variatio. Sono tutti strumenti
ermeneutici cioè che ci permettono una più precisa interpretazione e analisi del testo. Attenti perché
l’accento tonico e ritmico non coincidono. Che cosa è il piede? Il piede è la più piccola cellula ritmica
per chi conosce la musica a gruppi di note come le sestine o all’atomo rispetto alla molecola, il metro
è un’unità ritmica già definita potrebbe corrispondere in musica al tempo, a 2/4, . , 6/8 e cosi via.
Quindi i metra sono composti da piedi e più metra formano un verso. Quali sono i metri più frequenti?
Allora vedete (slide 17) che lo spondeo è più lento e solenne poi il dattilo che è alla base dell’esametro
ed è formato da una sillaba lunga e 2 brevi, dattilo vuol dire piede il cui osso è formato da falange,
falangina e falangetta, anapesto o antidattilo è il contrario del dattilo, il cretico di origine cretese –u.
Poi ci sono altri versi meno frequenti che leggerò (slide 18) brevemente: molosso, baccheo,
proceleusmatico, peone, ionico a maiore e a minore. Nel caso dei piedi più lunghi piede e metro
possono coincidere come nel caso del dattilo infatti il dattilo è composto da 6 metra dattilici. Nella
nostra trasposizione, nella lettura metrica l’accento intensivo si fa cadere convenzionalmente sulla
sillaba lunga solo in casi particolari cadrà sulla sillaba breve. L’esametro dattilico è formato da 6
metra dattilici però l’ultimo è monco perché manca una breve quindi è catalettico ciò significa che
manca di una sillaba quindi è formato da 5 dattili e uno spondeo o un trocheo. Ora in base a quello
che si è detto prima il dattilo può essere sostituito liberamente da uno spondeo in tutti i piedi in che
senso? Se convenzionalmente due brevi corrispondono a una lunga allora ne consegue che queste due
brevi possono essere sostituite da una lunga e allora anziché avere un dattilo si ha uno spondeo tranne
il quinto piede che è sempre puro, a volte non lo è, ma nel 99% dei casi lo è, è il punto di riferimento
per il ritmo del dattilo. È una forma di riconoscimento per il ritmo dattilico. Nell’ultimo metro
possiamo avere un trocheo o uno spondeo anche e con lo spondeo non c’è equivalenza matematica
uu=- perché qui siamo alla fine del verso non è più necessario contare perché il ritmo si spegne. Ora
l’effetto del ritmo del dattilo e dello spondeo. È vero noi possiamo a nostro piacimento sostituire il
dattilo con lo spondeo ma poi è chiaro che l’effetto cambia. Siccome le brevi rappresentano sempre
uno strumento per rendere rapido il ritmo e le lunghe invece lo rallentano la bravura del poeta sta nel
dosare bene le brevi e le lunghe in modo tale da creare un ritmo per dire rappresentativo cioè se
Virgilio sta parlando in poesia di un cavallo che corre su un prato userà delle brevi mentre per es.
quando c’è un ritmo lento perché la scena è lenta si usano gli spondei. Marca ciò che raccontando con
il ritmo dell’azione sarebbe ridicolo se per un cavallo che corre usasse degli spondei, non può farlo, è
un controsenso. Il ritmo accompagnava l’azione che veniva rappresentata. La cesura. Che cosa è la
cesura? Un ritmo lungo come l’esametro sarebbe impronunciabile senza prendere il respiro anche chi
suona uno strumento a fiato es. il flauto, l’oboe mette nello spartito una specie di segno che significa
che tu devi prendere il respiro in modo tale che la scala abbia senso compiuto tu non prendi il respiro
quando la frase musicale non è ancora finita. Questi punti fissi sono dette cesure in cui bisogna
prendere il respiro anche in metrica. Il respiro si prende non quando lo volete voi ma quando il metro
ve lo consente, cedere significa tagliare perché la frase è spezzettata in piccoli tempi per poter
prendere il respiro. Abbiamo dunque tre tipi di cesure quindi tre punti in cui è possibile prendere il
respiro: la prima è detta semiquinaria o in greco Ecc pentemimere perché è possibile prendere il
respiro dopo 5 mezzi piedi; la seconda cesura è la semiternaria detta in greco tritemimere e avviene
dopo tre mezzi piedi poi abbiamo la semisettenaria o eftemimere in greco il respiro dopo sette mezzi
piedi. Vediamo singolarmente queste cesure. La semiquinaria cade dopo 5 respiri. Che vuol dire? Voi
prendete ecco questo verso delle Bucoliche (slide24) Tityre tu patulae|recubans sub tegmine fagi
Vedete il respiro? Primo mezzo piede, secondo mezzo piede, terzo mezzo piede, quarto e quinto piede
poi cesura semiquinaria perché si ha dopo 5 mezzi piedi. La cesura semiquinaria basta a pronunciare
tutto quanto un verso perché più o meno siamo quasi a metà e mi basta per percorrere il verso fino
alla fine. Le altre due cesure invece a volte sono combinate perché se prendete respiro troppo prima
non avete fiato per arrivare fino alla fine allora ne prendete un altro dopo sette mezzi piedi. Quindi
(slide 25) silvestrem| tenui Musam | meditaris avena. In genere queste 2 cesure sono sempre
accoppiate cioé dove c’è la semiternaria c’è la semittenaria. Abbiamo anche una cesura che viene
convenzionalmente “femminile”, si chiama cosi perché spezza il dattilo formando un trocheo vedete
(slide 26) non cade nella lunga ma dopo la breve. Ecco in Virgilio Ecl2,7 Nil nostri miserere|Mori me
denique coges la parola miserere non viene spezzata. Voi capite se c’. una cesura femminile
soprattutto per la punteggiatura. Ora la scelta della cesura. Noi possiamo scegliere la cesura da
utilizzare ecco per es. il verso Ecl 1,2 (slide27) io posso usare la semiquinaria oppure la semiternaria
con la semisettenaria ma poi uno può usare solo la semiternaria se ce la fa…ma è cosciente che
modifica il ritmo. Ecco il caso di una cesura improbabile. Vi ho detto che nel verso 7 della seconda
Bucolica c’è una cesura semiquinaria femminile: Non hai pietà di noi? Mi costringi a morire se
continui così. Nil nostri miserere uno può dire che potrebbe fare la semiternaria ma non si fa perché
si scardina completamente il senso della frase. La domanda e la risposta sono frantumate dalla cesura
sbagliata perché miserere e mori non è una frase musicale è solo l’accostamento di due parole. Quindi
state attenti anche al senso del verso. Abbiamo poi una sorta di pausa secondaria che si chiama dieresi
bucolica perché si trova nella poesia bucolica in Virgilio, nel greco Teocrito, in Tibullo. E? una cesura
secondaria che si trova alla fine del quarto piede dattilico però badate in genere la dieresi coincide
con una pausa di senso, per es. Ecl3,86 (slide 29) Pollio et ipse facit||nova carmina:| pascite taurum.
Ecco qua il distico elegiaco che ci interessa. Cosa significa distico? Coppia di due versi, sono due
versi perché il distico è formato da un esametro e da un pentametro dattilico. L’esametro come dice
la parola è formato come abbiamo visto da 6 metri e pentametro da 5 metri. Guardate che il pentametro
è molto particolare perché è formato da due unità abbastanza separate tra loro è formato da un dattilo
che può essere sostituito da uno spondeo, un altro dattilo sostituibile da uno spondeo e poi una sillaba
lunga e poi la cesura, poi ricomincia dattilo, dattilo e sillaba lunga. Guardate che nella seconda parte
del verso non c’è possibilità di sostituzione sono dattili puri (slide 30). Ora per il fatto che questo
ritmo sia cosi strano ci fa pensare che sia un verso asinarteto cioè un verso che è costituito dalla
giustapposizione di due unità ritmiche indipendenti. Il verso asinarteto cioè scollegato da due versi
scollegati come se fossero due battute diverse in musica. Perché si chiama pentametro? Abbiamo nel
pentametro sempre la cesura fissa essendo un verso scollegato tra una parte e l’altra. Ecco una cosa
importante: queste sillabe che determinano l’unità ritmica sono sempre lunghe Ecco un verso di
Tibullo (slide 32) Diviti |as ali |us ful |vo sibi |congerat| auro Et tene |at cul|ti ||jugera|multi sol|i tenete
conto che la i di iugera è consonantica non va contata come vocale. Ora il pentametro non è mai usato
kat. stichon cioè solo, indipendente, solo nel quinto secolo con Marziano Capella ma sono solo
esperimenti. L’incontro di due vocali in un verso determina sempre la caduta di una vocale.
Prendiamo ilverso Ecl 1,12 Usque adeo turbatur agris; en ipse capellas vedete abbiamo l’incontro di
e ed a in questo caso abbiamo l’elisione, l’eliminazione di una vocale che non si pronuncia. Oppure
in Virgilio Ecl 1,39 Ipsi te fontes, ipsa haec arbusta vocabant la a di ipsa non si pronuncia perché
dopo c’. un dittongo, la h non fa posizione, non c’è aspirazione. Gli antichi invece avevano orrore per
lo iato, lo ritenevano una sorta di cacofonia insopportabile a meno che non volessero ottenere degli
effetti particolari. Ecco qui uno iato (slide 34) Ecl.6,44 di Virgilio Clamassent ut litus | ”Hyla,Hyla!”
omne sonaret Nella sesta bucolica si parla di questo ragazzo, si parla degli argonauti, che sbarca da
questa nave che fu rapito dalle Ninfe per la bellezza e quindi spari e i marinai per il fatto che non
tornava più scesero giù e lo chiamarono e per far capire la eco prodotta Virgilio usò appunto uno iato.
Qua c’è anche una correptio ante vocalem cioè la a è lunga ma siccome dopo c’è omne la a si abbrevia.
La sinalefe. Che cosa è? (slide 35) È una specie di elisione che avviene per. Quando c’è una nasale, la
terminazione nasale per gli antichi erano per gli antichi erano contesti finali molto deboli, labili, la
nasale era una risonante nasale. Quella nasale spesso non veniva neanche scritta, la parola consul
veniva scritta consu perché la nasale non ha la forza di fare posizione e di evitare che in questo caso
cada. Si discute se effettivamente questa sillaba venisse pronunciata o no certo è che se la manteniamo
il ritmo si perde.

LEZIONE 4 (21/10/2020) Alberto Caocci

Continuiamo il discorso sulla metrica. Abbiamo parlato di alcuni fenomeni frequenti, per esempio
l’elisione, la sinalefe, la prodelisione, lo iato. Sono fenomeni che riguardano la lettura, ma hanno
anche un loro peso nella computazione della sillaba del verso.
L’elisione consiste nella omissione della vocale finale di una parola quando la parola successiva inizia
anch’essa con vocale, anche se preceduta da h. Per quanto riguarda la h se si trova in posizione iniziale
corrisponde ad leggere aspirazione, quando la h si trova all’interno della parola è soltanto un segno
grafico per la divisione delle sillabe, non ha nessuna aspirazione. Per quanto ci sia un’aspirazione è
talmente debole che non impedisce la formazione dello iato, quindi gli antichi tendevano a realizzare
l’elisione anche se la parola successiva iniziava con la h, come se fosse un’iniziale vocalica pura. Ora
il problema è se si legge la vocale o bisogna per forza elidere, questo dipende da voi, basta non
compromettere il ritmo del verso, quindi non capitare sulla vocale che si dovrebbe elidere, altrimenti
avrete una sillaba in più e rischiate di perdere il ritmo della lettura, alla fine conviene elidere perche
è più semplice e il ritmo è più spedito. Come abbiamo visto la volta scorse c’è il dodicesimo verso
della bucolica di Virgilio:

ùsque adeò | turbàtur agrìs. | En ìpse capèllas

usque adeo: abbiamo la e finale di usque la a iniziale di adeo quindi abbiamo uno iato, fenomeno che
gli antichi detestavano e lo evitavano con l’elisione. In poesia dovremmo leggere i questo caso (è un
esametro dattilico) “usquadeò”.

Così anche il verso 39 della stessa prima bucolica:

ìpsi tè fontès, | ipsa haèc arbùsta vocàbant

ipsa haec: cioè questi stessi arbusti, nonostante ci sia la h iniziale questa h non fa posizione e quindi
l’elisione si realizza senza alcun problema.

Lo iato è la causa dell’elisione in alcune circostanze, pero il poeta quando è bravo, quando sa usare il
metro, quando ha intenzione di realizzare una poesia rappresentativa ne fa uso o per ottenere effetti
onomatopeici, oppure versi di animali, oppure anche per riprodurre l’eco. Abbiamo fatto l’esempio
del vero 44 della VI bucolica:
Famoso episodio degli argonauti i quali mandano a terra in un’isola un ragazzo per fare rifornimento
d’acqua, questo fu rapito dalle ninfee e i compagni preoccupati non vedendolo tornare iniziano a
chiamarlo. Questo ragazzo si chiamava Hyla, nome greco. Virgilio nel racontare questo episodio
anziché attivare l’elisione come sarebbe stato normale in un altro contesto, lascia lo iato:

clamassent, ut litus Hyla, Hyla, omne sonaret;

Non “Hilomne sonaret” ma “Hyla omne” questo iato “ao” vorrebbe riprodurre l’eco delle urla dei
richiami dei compagni preoccupati per il ragno che si era perso. Sono tutte circostanze volute,
intenzionali, con un effetto rappresentativo.
L’altro fenomeno è quello della sinalefe, che è assimilabile all’elisione, l’unica differenza è che non
c’è l’incontro tra due vocali ma tra due vocali si interpone una nasale, che abbiamo definito una
risonanza nasale, perché la nasale del latino in alcuni dialetti fonetici era una risonanza inconsistente
da un punto di vista fonetico. Questa nasale non ha il peso sufficiente per impedire, un po come la h,
l’elisione. Le finali sono am, um, em, im. Si discute se questa sillaba soppressa venisse omessa anche
nella pronuncia, noi questo non lo sappiamo; alcuni dicono che si doveva leggere per forza perché
altrimenti il testo senza la desinenza non è comprensibile, altri dicono che l’elisione avveniva. Nella
tradizione scolastica, anche per la necessità di non perdere il ritmo, si elide la sillaba. Rinnovo
l’esortazione di leggere il testo a voce alta. Vediamo il verso 11 della prima bucolica:

Nòn equidèm ìnvideò, | miròr magis: | ùndique tòtis

Secondo la regola si dovrebbe leggere come “non equidìnvideòr” quindi non “equidem videòr” perche
ci sarebbe una sillaba in più e si crea quasi un inciampo.
Cosi anche il verso 24 della stessa bucolica:

Vèrum haec tàntum aliàs | intèr caput èxtulit ùrbes,

Si legge come “verhaec tantaliàs” quindi dovete omettere nella pronuncia le sillabe finali. Non c’è
nessuna differenza con l’elisione, è una elisione mascherata da questa nasale finale.
La prodelisione è un tipo di elisione che riguarda le due forme del presente indicativo del verbo essere,
cioè la seconda persona singolare (es) e la terza (est). Questo fenomeno avviene quando queste due
forme del verbo essere seguono una parola che termina per vocale o per nasale. Vediamo il verso 70
della seconda bucolica:

semiputata tibi frondosa vitis in ulmo

Sarebbe in ulmo est, “in ulmost”, in pratica cade la prima vocale del verbo essere, molti editori
scrivono direttamente ulmost come se fossero due parole attaccate, una specie di crasi, per far capire
che la c’è la prodelisione.
Un altro esempio con la nasale sempre nelle bucoliche, libro 3 verso 45:

et molli circum est ansas amplexus acantho


“circumst” anzi che circum est. Sono fenomeni che si trovano frequentemente, quindi bisogna saperli
individuare e analizzare non solo nella lettura ms anche nell’analisi testuale.
Vediamo alcune regole empiriche di prosodia, cioè se dobbiamo fare l’analisi di un verso come
facciamo a sapere quale sillaba è lunga e quale sillaba è breve? La pratica vi aiuterà molto ma ci sono
anche delle regole che si possono utilizzare.
La prima è la regola dei dittonghi: per natura il dittongo è sempre lungo. Le sillabe possono essere
lunghe o per natura (perché nascono cosi) o per posizione (perché il contesto fonetico tende ad
allungare la vocale che per natura è breve. Il dittongo essendo formato d due vocali per natura è lungo,
perché per pronunciare il dittongo ci vuole tempo, allora i dittonghi essendo costituiti da due suoni
impiegano più tempo per essere pronunciati. Il dittongo per sua natura è lungo, se voi trovate un
ditone quella sillaba è sicuramente lunga, a meno che non ci siano casi particolari. Per esempio: rosae
è ovvio che ae è lungo, oppure poena è lungo, taurus è lungo (tau/rus non ha tre sillabe perché au è il
dittongo). Noi diciamo che il dittongo è formato da due vocali, in realtà è formato da una vocale e da
una semivocale, se noi abbiamo due vocali pure abbiamo uno iato, non un dittongo. In pratica nel
caso di taurus quella u di fatto è una w di pronuncia, non è una vocale pura.
La seconda regola è quella delle due consonanti: una vocale se è breve per natura quando si trova
seguita da due consonanti oppure da una consonante doppia (x, z) la vocale breve si allunga. La regola
in latino è Vocalis longa est si consona bina sequntur, che poi è un esametro. Gli antichi per imparare
a memoria le cose usavano i versi perché col ritmo riuscivano a ricordare, è una forma di
mnemotecnica. Una vocale è lunga se seguono due consonanti.
Esempio: actus. ct sono due consonanti anche abbastanza forti perché sono due velari, quindi la a è
per forza lunga, anche se la radice di agere (ago) è breve, ma a noi questo non interessa perché a noi
interessa la quantità prosodica del verso.

Senex: la e è sicuramente lunga perché segue una consonante doppia. La x è un unico segno ma
comprende due suoni: una velare e una sibilante.

Gaza (tesoro): z è una consonante doppia quindi la a è sicuramente lunga. La z è formata da dentale
sonora + una sibilante. Questa è la seconda regola che può essere utile.

Abbiamo poi il caso della positio debilis: si crea nel contesto fonetico da muta cum liquida, cioè una
consonante muta (b, p, c, d, g, tif, h) e la liquida (l, r). La vocale può essere lunga o breve a seconda
delle esigenze del poeta, perché la l e la r sono consonanti molli che possono avere quasi il valore di
vocale, infatti in alcune lingue hanno questo valore. Questa caratteristica delle liquide permette che
quella consonante muta si possa considerare o in posizione intervocalica o in posizione chiusa, come
se seguissero due consonanti pure.
Esempio: tènebre, si potrebbe leggere anche tenèbre perché possiamo considerare b e r come due
consonanti quindi anche se la vocale precedente è breve si allunga in vista della posizione, oppure se
consideriamo la r come semivocali o vocalica la e rimane breve, dipende da poeta.
repleo (riempire): pl può essere considerato o breve o lunga a seconda del fatto che noi consideriamo
la l come vocale o piena consonante.

NOTA BENE: il nesso di muta cum liquida si deve trovare nella stessa parola, non nella catena
parlata. Nel caso di amat lentum non possiamo dire che c’è muta con liquida, perche è vero che c’è t
seguita da l ma sono in due parole diverse, quindi non c’è il meccanismo della postio debilis, si tratta
di un allungamento per posizione vero e proprio.

Altra regola: Vocalis ante vocalem corripitur. Una vocale davanti ad un’altra vocale si abbrevia.
Per esempio deus (dio), la e è per forza breve perché seguita da un’altra vocale. rapuit (rapì): a u è
breve perché seguita da un’altra vocale.
Il caso di audivit, perfetto di audio, la i è lunga ma se faccio cadere la v che si trova in posizione
intervocalica non pronuncerò “audìit”, ma “àudit” perché la i che prima era lunga si trova direttamente
avanti alla vocale e la abbrevia.
C’è un’altra regola: Finale diversa da s: Quando una parola termina con una consonante diversa da
s generalmente la vocale è breve. Per esempio caput sappiamo che la u è breve perché non finisce con
s, oppure laudat siamo sicuri che la a è breve, però in lauda la a è lunga.
Queste sono tutte regole che vi possono orientare per una corretta lettura dell’esametro. C’è anche
l’aiuto dell’accento prosastico, quindi fate riferimento alla legge della penultima. Se l’accento cade
sulla terzultima necessariamente la penultima sarà breve.
Vediamo un esempio pratico, verso 3 della IV bucolica:

sì canimùs silvàs, | silvaè sint cònsule dìgnae


se non cantiamo le selve siano le selve degne di un console.

La quarta bucolica è una bucolica un pò profetica che vuole racontare la palingenesi della società
romana e la nascita di un puer, non sappiamo chi sia. Questo tema non è un tema umile e dimesso
proprio della poesia bucolica, quindi Virgilio si scusa dicendo che usa le bucoliche per trattare un
tema che è più elevato del genere bucolico, per cui dice se noi cantiamo le salve, cioe se noi
utilizziamo la poesia bucolica, sia almeno una poesia bucolica degna di un console, cioe degna di un
personaggio elevate, sta mettendo le mani avanti. Se vogliamo scandire il verso come facciamo a
capire quali sono le sillabe lunghe e le sillabe brevi? Facciamo sillaba per sillaba:

Si: essendo la prima sillaba dell’esametro è sempre lunga, ricordate che la prima sillaba è sempre
lunga, l’accento dell’esametro cade sempre nella prima sillaba.

Canimùs: la penultima è sicuramente breve, poi la us sarà sicuramente lunga perche seguono due
consonanti, us + s (quindi la s finale e la s iniziale di silvas). Allora possiamo ricostruire il primo
dattilo del primo metro, abbiamo la prima sillaba lunga, necessariamente le altre due sono brevi, se
la i è breve sarà breve anche la a, perché abbiamo bisogno di un dattilo.

Silvas: la i è seguita da l+v quindi è lunga, poi la as è lunga perché anche qui seguono due consonanti,
la desinenza s e la la prima lettera della parola successiva (a, s+s).

Silvae: c’è il dittongo ae che è sicuramente lungo.

Sint: la i è lunga perché seguono due consonanti


Consul: stessa cosa, la o è lunga perché seguita da due vocali. Se leggiamo consule quella u sarà
breve in forza della legge della penultima, altrimenti l’accento non cadrebbe nella terzultima sillaba.
Poi abbiamo la e è sicuramente breve perché il quinto piede ha sempre il dattilo puro.

Dignae: la i è lunga perché è seguita da due consonanti e il dittongo finale lungo.


Allora siamo sicuri della scansione.
In questa frase c’è anche un poliptoto, questa figura retorica che consiste nell’accostamento di due
casi diversi della stessa parola.

Testi di Catullo:
Carme 69 secondo il codice di Parigi, foglio 31R. Siamo nel XIV secolo quindi la scrittura è gotica.
È un carme che porta una specie di attestazione: “In Rufum”, cioè è indirizzato a Rufo, oppure contro
Rufo. Questo è un personaggio di cui non conosciamo l’identità, alcuni pensano sia Celio Rufo, amico
di Cicerone, però è una pura ipotesi, perché l’omonimia nell’antichità è un fenomeno molto irritante
perché ci sono tanti personaggi con lo stesso nome, quindi non possiamo sapere chi sia il destinatario.
Probabilmente è un rivale in amore di Catullo, che lo attacca per una questione di igiene personale.
È uno dei carmi abbastanza triviali che Catullo serve. La trivialità non è quindi limetta solo alle Nugae
ma la troviamo anche negli Epigrammata, perché il criterio di distribuzione di questi carmi è metrico,
non contenutistico, quindi troviamo anche negli epigrammi gli stessi motivi che troviamo nelle
Nugae.
Sono distici elegiaci.

Noli admirari, quare tibi femina nulla,


Rufe, velit tenerum supposuisse femur,
non si illam rarae labefactes munere vestis
aut perluciduli deliciis lapidis.
laedit te quaedam mala fabula, qua tibi fertur
valle sub alarum trux habitare caper.
hunc metuunt omnes, neque mirum: nam mala valde est
bestia, nec quicum bella puella cubet.
quare aut crudelem nasorum interfice pestem,
aut admirari desine cur fugiunt.

Traduzione:
Non domandarti stupito perché nessuna donna al mondo, Rufo, voglia distendere sotto di te le sue
morbide cosce (cioè voglia far l’amore con te), nemmeno se tu cercassi di smuoverla con il dono
d'una veste preziosa o con l’adescamento di un prezioso brillante. Ti nuoce una cattiva diceria, per
la quale si dice che sotto la valle delle tue ascelle abiti un feroce caprone.
Tutte han paura di lui, nulla di strano: è una bestiaccia, e nessuna bella fanciulla vorrebbe dormirci.
Perciò o elimini questo crudele flagello dal naso, o finiscila di domandarti stupito perché scappano.
State attenti alle elisioni e alla sinalefe, già nel primo verso abbiamo noli admirari che si legge come
“noladmirarì”, quindi c’è già una prima elisione, perché la i si elide per la vocale della parola
successiva.
È un epigramma abbastanza crudo, triviale per questo personaggio che evidentemente non amava
troppo la doccia o l’igiene personale.

Noli admirari: non domandarti stupito, abbiamo una forma di imperativo negativo molto forte.
L’imperativo negativo si può fare in due modi, o con il ne + perfetto congiuntivo, oppure con il noli
+ infinito. Catullo ha scelto questa forma perché è la forma più colloquiale, sta parlando con un
cozzone che non si lava, non può usare forme eleganti come potrebbe essere il ne con il perfetto
congiuntivo, ma usa la forma popolare. Dal punto di vista del verso è pesante, perché sono tutte sillabe
lunghe quindi rallentano il ritmo, è un verso molto pesante. Catullo è un pò un pioniere del distico
elegiaco, quindi non ha la leggerezza di un Ovidio o di Virgilio, è un po sulla linea di Lucrezio. Non
riesce ancora a maneggiare il verso del distico.
Admirari non significa soltanto stupirsi, è un verbo deponente, ma vuol dire domandarsi stupito.

Quare velit: interrogativa indiretta. Quare sarebbe qua re, quindi per quale ragione, per quale motivo,
res ha il significato di motivo, causa.

Femina: è un termine molto generico, donna in senso universale. Ci sono due ragioni per cui ha scelto
questo termine. Probabilmente ha scelto femmina perché crea una sorta di paronomasia con femur,
femina femur è una ad nominatio, cioè l’accostamento di due parole che hanno lo stesso suono. E poi
perché il termine femmina indica la donna in generale, “nessuna donna al mondo”. Femina è molto
più efficace in questo contesto. Femina è il termine per indicare la donna nella sua funzione materiale,
perché se guardiamo la costituzione etimologica è un antico participio medio passivo, la radice di
questo verbo è the, che significa propriamente allattare, nutrire. L’aspirata sonora dell’indoeuropeo
in latino diventa. Se volessimo ricostruire il significato della parola femmina sarebbe colei che nutre,
che allatta. Poteva usare benissimo “nulla puella” non l’ha usata per questa parola, ma anche perché
quella c’è dopo, quindi c’è una specie di contrapposizione tra la donna in generale e la bella ragazza,
giovane. C’è questa contrapposizione.
Rufe: il destinatario è in seconda posizione, anche per creare una certa suspance, dice dopo il
destinatario.

Supposuisse: “mettere sotto di te”, il dativo tibi è connesso a questo verbo. Abbiamo l’infinito
perfetto di subpono. Usa l’infinito perfetto perché la volontà si riferisce ad un’azione collocato nel
passato, è come se dicesse: “nessuna donna finora voglia aver disteso sotto di te le sue gambe” quindi
c’è l’azione passata. Il secondo motivo è che è una sorta di infinito aoristico, molto amato dai poeti.
L’infinito aoristo indica un’azione universale. C’è un’altra ragione cioè che subposuisse dal punto di
vista metrico è più comodo di un infinito presente. Quindi spesso queste forme aoristiche hanno anche
una ragione ritmica.

Femur: è il femore, le gambe per indicare sensualità della donna, teneris perché fa riferimento alla
donna giovane.

Non si labefactes: potasi del periodo ipotetico dell’irrealtà.


Labefacte, è labefio, è un verbo guerresco militaresco, indica l’esercito che cerca di far crollare una
città che si trova assediata, tant’è vero che labes significa crollo, rovina, facere vuol dire fare, quindi
determinare il crollo di qualcosa.
Labefacto è un verbo frequentativo di labefacio, quindi vuol dire che i tentativi sono ripetuti, non ha
tentato una sola volta ma più volte, ovviamente senza successo perché la donna non cede.

Se guardate i manoscritti non si illam rarae è una ricostruzione di Aldo Manunzio, grande umanista,
però se guardiamo i codici vediamo “nos illa mare”, che non significa nulla, allora gli studiosi hanno
cercato di capire cosa significasse questa forma, l’unica alternativa era quella di leggerla come “non
si illam rarae”, qualcuno però al posto di rarae pensa “cara”, che è la stessa cosa sarebbe una veste
cara.

Munere: strumentale

Perluciduli: un brillante, una pietra diafano, letteralmente che lascia passare la luce, un brillante, una
pietra preziosa. È un diminutivo, la parola è un hapax legomenos, cioè una parola che ricorre soltanto
una volta in tutta la latinità. Gli hapax possono essere relativi o assoluti, cioè se ricorrono una sola
volta in quell’autore si chiama hapax relativo, se invece scorrono una sola volta in tutta la latinità è
un hapax universale. Abbiamo una forma alterata, un diminutivo. Per quale motivo usa un
diminutivo? Molti dicono per esigenze metriche, perché è più comodo, però tenete conto che i
diminutivi in latino non hanno lo scopo di indicare cose piccoline, ma hanno la funzione di indicare
cose a cui siamo affezionati, si chiamano infatti vezzeggiativi, oppure affettivi. Non indicano a
dimensione dell’oggetto ma il rapporto affettivo. Le donne antiche erano molto attratte dai brillanti.

Deliciis: significa delizia, però qui è usato nel suo significato etimologico, deliciae perche è un plurale
tantum, è un derivato del verbo lacio che è il laccio, quindi deliciis è quindi l’esca con cui si cattura
una preda, significa attrarre, sta quasi tenendo un tranello alla donna.

Usa quaedam per sfumare, per incuriosire, è un indefinito che serve per creare aspettativa.
Fabula: è un colloquialismo, perché non significa favola ma diceria. Nel linguaggio parlato uno dei
verbi per “dire” oltre che narrare era fabulare. Qui sta usando un termine proprio del linguaggio
parlato.

Qua: è una correzione, perché nei manoscritti c’è que, che non ha senso perche qui serve un ablativo.
C’è un pleonasmo, una sovrabbondanza, oltre a fabula aggiunge anche fertur, c’è un tentativo di
allungare, creare suspance.

Tibi: ha una funzione di possessivo, come te fosse tibi habitare, “ti abiti” è un dativo etico che
sostituisce il possessivo.
Fertur: è impersonale: si racconta, si narra. Anche questo molto colloquiale.

Qui c’è un’immagine silvestre, quasi bucolica, non dice “sotto il cavo delle ascelle” ma sotto la Valle,
in modo tale da creare questo quadretto del caprone che si aggira in una valle, come se fosse una
scena bucolica.
Notate l’anastrofe, quella figura retorica per cui la preposizione diventa post posizione, perche va
dopo il sostantivo a cui si riferisce: Valle sub.

Alarum: sono le ascelle, c’è una specie di comparazione con le ali degli uccelli, ma anche in italiano
‘ascella’ è un derivato di ala, è un diminutivo di ala, non è una figura.

Piu che abiti io tradurrei come “si aggiri”.


Habitare: è il frequentativo di habere, che può essere usato in senso assoluto per dire “trovarsi,
esserci”. Habitare significa trovarsi spesso, aggirarsi, in questo caso pascolare.

Il 7 verso è sicuramente un’allusione a Licinio Calvo, in genere i poeti della cerchia neoterica si
facevano cortesie riecheggiando i versi di uno all’altro. Catullo vuole alludere intenzionalmente
all’epigramma dell’amico, che è un epigramma canzonatorio.

Hunc: puo essere riferito o a Rufo oppure al caprone.

Neque mirum est: non è strano, non fa meraviglia. Nessuna lingua ha lo stesso modo di esprimere la
stranezza, nelle lingue antiche non esiste un concetto univoco per esprimere la stranezza, strano deriva
da “exstranum” che vuol dire qualcosa fuori dall’ordinario.

Quicum: relativo che introduce una proposizione relativa impropria, quasi di valore finale
consecutivo. È una forma composto da qui (antico strumentale) più la preposizione cum e corrisponde
a quacum, qui siamo di fronte ad un arcaismo. Quicum nel latino arcaico puo essere usato sia per il
maschile sia per il femminile, come in questo caso.

Bella puella: omoteleuto, fa quasi rima. bellus è un aggettivo molto caro a Catullo ed è tipico della
poesia erotica latina, ed è un diminutivo di bonus, bellus significa grazioso, carino (diminutivo di
caro). La fanciulla bella è la fanciulla carina, graziosa. Perla è un altro termine della poesia erotica
latina, in riferimento alla donna amata.

Cubet: vuol dire andare a dormire, qui fa riferimento al far l’amore.

Catullo ama il quare, c’era anche prima. “perciò”, qui ha valore di avverbio, prima aveva valore di
congiunzione.

Creudelem pestem: ha un modello nella letteratura greca, perché nei lirici greci per indicare qualcosa
di fastidioso per il naso usavano la parola rinolezos cioè la rovina del naso, quindi nell’utilizzare il
crudelem peste sembra che voglia ricopiare il termine greco. Il greco è una lingua molto più duttile,
il lato non ha una capacità di composizione, è una lingua pratica che non ama la composizione. C’è
anche una sorta di riferimento infratestuale, cioè sembra che Catullo faccia riferimento a se steso,
perché l’espressione crudelem peste in riferimento ad una festa l’ha utilizzata anche nel carme 68 in
riferimento al minotauro, usa la stessa espressione, quindi il cerone potrebbe essere paragonato al
minotauro.
C’è una sorta di composizione ad anello, abbiamo admirari nel primo verso e nell’ultimo, quindi
ripresa dell’espressione del verso iniziale.

Corfugiunt: espressione colloquiale, la proposizione è una proposizione interrogativa indiretta, ci


dovrebbe essere un congiuntivo. Questa non è per necessità metrica, ma ha voluto scegliere un temine
del parlato. Qualche latinista si è indignato che Catullo usasse l’indicativo dove ci vuole il
congiuntivo.

LEZIONE 5 (28/10/2020) Riccardo Pisu


Nella lezione precedente abbiamo commentato i Carmi epigràmmata1 di Catullo, cioè i 69-116, e
abbiamo visto il primo epigramma (LXIX), di cui abbiamo analizzato contenuto e forma metrica.
Procedendo con la nostra analisi, passiamo al Carme LXX.

CARME LXX
Questo Carme, benché non riporti il nome della donna, è sicuramente riferito a Lesbia. Già in questo
epigramma, Catullo sta forse cominciando a realizzare che il rapporto con Lesbia non è così sicuro
come lui l’avrebbe immaginato e sognato. Infatti, Lesbia sta dando i segni della sua incostanza in un
rapporto che, poi, sarà rovinoso e che porterà il Poeta alla morte.

È un epigramma molto breve, secondo lo stile dell’epigramma ellenistico, e riporta alcune


caratteristiche interessanti sia dal punto di vista formale (stilistico), sia dal punto di vista
contenutistico. Ovviamente, si tratta di distici elegiaci perché questa terza sezione del canzoniere di
Catullo è dedicata, appunto, a questa forma metrica.

Nulli se dicit mulier mea nubere malle


quam mihi, non si se Iuppiter ipse petat.
Dicit: sed mulier cupido quod dicit amanti,
in vento et rapida scribere oportet aqua.

La mia donna dice di non volere sposare nessuno


se non me, neppure se la corteggiasse Giove in persona.
Sì, sì, lo dice: ma ciò che una donna dice ad un amante innamorato
bisognerebbe scriverlo nel vento e nell’acqua che tutto porta via.

Si tratta di un epigramma molto breve, in cui i primi versi rispecchiano la situazione personale di
Catullo, caratterizzata dal dubbio su Lesbia (di cui sopra) che si insinua nel suo cuore. La seconda
parte, invece, si conclude con un agnome2, cioè con una sentenza di carattere universale, una

1
I carmi epigràmmata sono epigrammi composti in distici elegiaci e costituiscono la terza parte (69-116) del Liber (o Carmina), una
raccolta di poesie in vario metro di Catullo.
ll Liber consta di 116 carmi divisi in tre sezioni. Delle prime due: la prima (1-60), detta nugae, raccoglie carmi brevi scritti in metro
vario, soprattutto endecasillabi faleci, ma anche trimetri giambici, scazonti e saffiche; la seconda (61-68), detta carmina docta, contiene
elegie, epitalami e poemetti più lunghi ed impegnativi in esametri e in distici elegiaci.
2
Sono tutt’altro che sicuro che si scriva così, ma non trovo riscontri.
considerazione che vale per tutti gli amanti. Da questi ultimi versi traspare un po’ di disincanto e di
pessimismo. Dunque, appare chiaro il sospetto che le parole di Lesbia non siano affidabili e che –
come si dice volgarmente – bisogna prenderle con le pinze.

Nulli
Notiamo la sapiente disposizione delle parole. Il Nulli posto all’inizio è una sorta di “chiave di
violino” in una partitura, perché ci fa intendere che c’è un certo scetticismo di Catullo nei confronti
del rapporto con Lesbia.
Nulli, qui, è inteso come dativo di nemo, mentre secondo la grammatica normativa, il dativo di nemo
non è nulli, ma nemini. Nella poesia e nella lingua arcaica (e poi anche nella lingua tarda) però, nulli
è una forma alternativa si alterna a nemini, che è la forma più corretta, oltre a essere quella che –
come detto – troviamo in tutte le grammatiche. Nulli, infatti, sarebbe un dativo pronominale e,
propriamente, sarebbe il dativo di nullus, nulla, nullum come aggettivo. Qui però viene usato da
Catullo in maniera sostantivata, come dativo di nemo, appunto.
È probabile che Catullo abbia scelto nulli anche perché, da un punto di vista semantico, è più forte di
nemini.
Inoltre, bisogna considerare l’esigenza metrica, dato che nemini è formato da due sillabe brevi e una
lunga, invece nulli è uno spondeo3. I poeti latini usano con molta sapienza e oculatezza le parole sulla
base dell’analisi prosodica4. Qui Catullo non sta certamente scherzando ma, essendo decisamente
triste e disincantato, preferisce un ritmo piuttosto lento, che viene favorito dalla scelta di parole
spondaiche, quindi con molte sillabe lunghe. Di fatto in nulli se dicit sono tutte sillabe lunghe; mentre
la seconda parte del verso, mulier mea nubere malle, è un po’ più dinamica e articolata.

Mulier mea
Mulier mea: la mia donna. Sappiamo che nella poesia erotica latina, il termine classico, canonico, per
indicare la donna amata è puella, la ragazza. Da un punto di vista morfologico, puella è un diminutivo,
quindi ha una sorta di carica vezzeggiativa. Invece mulier rimane piuttosto neutro, per quanto dovesse
ugualmente essere una parola usata in riferimento alla donna amata; tanto è vero che è rimasto, per
esempio, nell’italiano moglie, nello spagnolo mujer, nel sardo muzere/mulleri. Questa continuazione
nelle lingue romanze fa pensare che il termine avesse anche nel latino classico un’accezione di questo
tipo.

Malle
La mia donna dice di “non voler” sposare nessuno, o di “non preferire”, perché malle vuol dire
preferire; in italiano però lo traduciamo come volere.

Nubere
In molti hanno detto che nubere è una forma di eufemismo per indicare il rapporto amoroso. Cioè,
come se si dicesse: la mia donna dice di non voler stare con nessuno se non con me. In realtà, qui,
Catullo probabilmente fa una specie di amara ironia. Lui sogna un rapporto quasi tradizionale con
Lesbia - rapporto che non si sarebbe mai potuto realizzare -, allora usa questo nubere che è, appunto,

3
Lo spondeo, nella metrica classica, è un piede formato dalla successione di due sillabe lunghe.
4
La prosodia (dal greco prosodia, composto di pros-, "verso" e odè, "canto") è la parte della linguistica che studia l'intonazione, il
ritmo, la durata (isocronia) e l'accento del linguaggio parlato.
il verbo tecnico per indicare il matrimonio romano. Perciò, è come se dicesse: la mia donna, sì, dice
che vorrebbe sposarmi, ma sappiamo che questo non è realizzabile.
È da notare che il verbo nubere (da cui, per esempio, deriva nuptĭae, le nozze), regge il dativo nulli:
nubere nulli. Questa particolare costruzione sintattica la si può capire andando a vederne la
costituzione etimologica.
Molti linguisti hanno messo in correlazione il verbo nubere con il sanscrito nabati5, che significa
coprirsi, velarsi. In questa accezione, è come se il verbo significasse velarsi per qualcuno. Siccome,
in antichità, le donne maritate erano velate - come anche è oggi nel mondo islamico -, allora questo
dativo nulli sarebbe una sorta di dativo di vantaggio, dativo di interesse: velarsi per qualcuno,
maritarsi a vantaggio di qualcuno. Vediamo, dunque, che si tratta di una costruzione che è rimasta
fino a oggi.
Secondo alcuni, il verbo nubo sarebbe collegato anche con nubes, quindi le nuvole viste come un velo
che copre il cielo. È una ricostruzione possibile, dato che le parole hanno dei percorsi tormentati e
arrivano, magari, ad acquisire significati insospettabili alla fine della loro storia.

Nulli se dicit mulier mea nubere malle.


Si nota anche l’insistita allitterazione delle nasali. Questa ripetizione lascia intendere l’atteggiamento
di sospetto, di perplessità, di scetticismo. Anche in italiano, quando si vuole esprimere un dubbio si
pronunciano dei suoni nasali (mmh), a indicare un “mah, chissà”. Probabilmente, nella scelta delle
parole il Poeta ha questa stessa intenzione.

Dicit
Un verbo importante in questo caso è dicit, che ritroviamo nel verso 3 dopo averlo visto nel verso 1:
Nulli se dicit mulier mea nubere malle quam mihi, […] Dicit
La mia donna dice di non volere sposare nessuno se non me, […] Sì, sì, lo dice
Questo dicit funge da ripresa del dicit che troviamo nel primo verso. Questo stilema6 ci riporta forse
al modello seguito da Catullo. Infatti, molti studiosi hanno messo in relazione questo Carme LXX di
Catullo con un epigramma di Callimaco, esattamente l’epigramma XXV della Raccolta del Pfeiffer.
In questo epigramma, Callimaco scrive:
Callignoto ha giurato a Ionide di non tradirla mai con nessun altro, ragazzo o ragazza che sia.
Sì, ha giurato, ma è vero quel che dicono: i giuramenti d’amore non arrivano all’orecchio
degli dèi.
Dunque, è probabile che il modello sia questo. È chiaro che poi Catullo percorre vie proprie, però lo
stilema che tradisce la dipendenza va cercato proprio in questi versi:
dicit… dicit, sed;
laddove, nel testo greco di Callimaco abbiamo
omosen… omosen, allà7 (giurò… giurò, ma),
quindi, verbo… verbo, congiunzione avversativa nella stessa posizione metrica.
Ciò testimonia l’altissima probabilità che nel comporre questo epigramma Catullo abbia avuto
presente Callimaco, anche per via del fatto che Callimaco è il modello per eccellenza della poesia
neoterica. Inoltre, ci sono epigrammi di Catullo in cui il riferimento a Callimaco è molto più esplicitò.

5
Non riesco a trovare corrispondenze esatte ma mi sembra che il docente pronunci così.
6
Stilèma (der. di stile, sul modello di fonema, morfema, ecc.): in stilistica, tratto, elemento di stile che caratterizza uno scrittore, o
anche una scuola o un’epoca letteraria.
7
Scusate ma non ho mai studiato greco.
Perciò si tratta della riproduzione di uno stilema e di un motivo, anche se comunque c’è una variatio
piuttosto consistente.

Non si se Iuppiter ipse petat


Neppure se la chiedesse Giove in persona. Sappiamo che Giove era un donnaiolo: se la intendeva non
soltanto con le dee dell’Olimpo, le Ninfe, ma anche con le donne umane; tanto è vero che Plauto ne
ha fatto il protagonista de L’Anfitrione, famosa commedia dove Giove cerca di conquistare una donna
terrena. Dunque, quello di Catullo è un po’ un proverbio, in cui Giove è il dongiovanni per eccellenza.
Il significato è che Lesbia dice che non sposerebbe nessun altro, nemmeno se questo dongiovanni
irresistibile per una donna (essendo Giove un dio) riuscirebbe a conquistarla.

Petat
Il verbo petere può darsi che abbia il significato di “cercare di fare l’amore con qualcuno”, ma il
docente tradurrebbe molto più tranquillamente con “corteggiare”, “richiedere”, “aspirare a qualcosa
o a qualcuno”, “dirigersi verso qualcosa o qualcuno” senza spingersi così oltre come altri fanno.

La menzione di Giove porta a un’altra considerazione. Una delle caratteristiche dell’età cesariana è
la crisi morale e religiosa che la investe. Così, la religione tradizionale non soddisfa più questi spiriti
raffinati. È vero che tutto il pantheon viene conservano perché la religione tradizionale ha forti
connessioni con il sistema politico, quindi, serve un po’ come instrumentum regni, ma gli spiriti più
colti e illuminati non credevano più alle divinità. Giove, Venere e Marte rimanevano delle icone, dei
simboli, però svuotati del loro significato religioso-teologico.
In età cesariana, si va quindi verso la concezione di una divinità unica. Nel De divinatione, Cicerone
lo dice chiaramente: “noi che siamo l’intellighenzia di Roma non possiamo credere agli dèi del
popolo, perché è una teologia inconsistente, contradditoria e a volte anche immorale, visto come gli
dèi si comportano. Quindi conserviamo quest’apparato di religiosità soltanto come strumento di
governo, per accontentare il popolino dato che lo Stato si fonda su quei principi”. Se si leggono le
opere di Cicerone, infatti, si vede che egli parla di un princeps deus, cioè un solo dio sovrano che ha
le caratteristiche del dio platonico (o aristotelico). Cioè si va verso una forma di monoteismo, che
apre ovviamente la via all’avvento del Cristianesimo.
Catullo, che è un’intellettuale, una persona illuminata che vive questa crisi morale e religiosa, tratta
queste divinità come bagaglio mitologico, però svuotato del significato proprio. Abbiamo quindi un
segno di questa crisi che investe l’età cesariana.

Dicit: sed mulier cupido quod dicit amanti, in vento et rapida scribere oportet aqua

Dicit
Sì, sì, lo dice: “parole, parole, parole” (cit. canzone di Mina) però svuotate di ogni consistenza e
significato.

Sed
Il sed introduce in disincanto: ma ciò che una donna dice a un amante innamorato bisognerebbe
scriverlo nel vento e nell’acqua che tutto porta via.

Mulier
Il sostantivo mulier si ripete qui, però con un’accezione diversa rispetto al verso 1, in cui mulier mea
era una donna consistente e nella fattispecie era Lesbia, la “mia” donna, la donna storica, reale. Nel
verso 3, invece, mulier è una donna universale, cioè è “qualsiasi donna”. Quindi: ciò che “qualsiasi
donna” dice ad un amante appassionato bisognerebbe scriverla nell’acqua. Qui c’è un esconsione8 del
sentimento di Catullo a una portata universale, cioè quello che Catullo prova viene ingigantito e
trasformato in una massima valida per tutti.

Quod dicit
È la terza volta che appare dicit, a rimarcare il fatto che quelle di Lesbia sono semplicemente “parole”.

Cupido amanti
Qui, cupidus è l’amante desideroso e forse, più che “appassionato”, lo si potrebbe tradurre più come
amante “innamorato”, travolto dalla passione al punto che non riesce più a far funzionare la ragione.
Anche per gli antichi, gli innamorati sono coloro perdono il lume della ragione.
C’è un proverbio latino che dice:
Amare et sapere vix deo conceditur.
Essere innamorati ed essere razionali è un privilegio concesso a malapena agli dèi (a Giove).
In questi versi è condensata un po’ tutta la storia d’amore di Catullo e di Lesbia. Lesbia era razionale
e riusciva a gestire bene i suoi rapporti, non solo quello con Catullo ma anche con altri amanti
contemporaneamente. Lei usava Catullo come un toy boy, come un giocattolino, mentre Catullo era
del tutto preso, fuori di testa. Quindi la mulier è il burattinaio, mentre il cupidos amans è il burattino.

In vento et rapida scribere oportet aqua.


Queste parole bisognerebbe scriverle “nel vento e nell’acqua che tutto porta via”.
Oportet, anche se è un presente indicativo, lo traduciamo come se fosse un falso condizionale, quindi
“bisognerebbe”.

L’immagine dell’acqua che tutto porta via è un’immagine già classica. C’è, infatti, un frammento di
Sofocle che dice: “il giuramento di una donna lo scrivo nell’acqua”, nel senso che appunto non è
consistente, non vale nulla, non è attendibile. C’è però una novità nella poesia di Catullo, ossia lo
scrivere nel vento, che non trova riscontri nella letteratura precedente, anche greca. Se lo scrivere
nell’acqua è un topos, scrivere nel vento è un motivo nuovo, una novità d’immagine che Catullo ha
elaborato spontaneamente.

CARME LXXI
Nel Carme LXIX si parlava di Rufo che, avendo un problema di igiene personale (nel senso che non
si lavava), con la sua puzza teneva lontano le donne e al contempo si meravigliava e si domandava
come mai le donne non andassero con lui. Con quel carme, Catullo, freddamente gli spiegava che il
suo problema era questo.
In questo Carme LXXI ritorna lo stesso motivo.

8
Se l’ho capito correttamente, è un termine molto ricercato, di cui trovo appunto un solo risultato su Google. Un sinonimo potrebbe
essere traslazione.
Si cui iure bono sacer alarum obstitit hircus,
aut si quem merito tarda podagra secat
aemulus iste tuus, qui vestrum exercet amorem,
mirifice est a te nactus utrumque malum.
Nam quotiens futuit, totiens ulciscitur ambos:
illam affligit odore, ipse perit podagra.

Se a qualcuno, a buon diritto, il maledetto caprone delle ascelle è stato d’ostacolo,


oppure se la lenta gotta (podagra) ha (mai) tormentato qualcuno meritatamente
questo tuo rivale, che si dà da fare (o daffare) con il vostro amore,
per miracolo ha ottenuto / trovato da te entrambi i malanni.
Infatti, ogni volta che va a letto / che fa all’amore, tante volte punisce entrambi:
affligge lei con la puzza e lui crepa di colpo.

Qui, Catullo si rivolge a un amico che ha un problema con un rivale in amore (che potrebbe anche
essere lo stesso Rufo del Carme LXIX), il quale ha il suddetto problema di igiene personale. Catullo
dice all’amico: non ti preoccupare perché tanto il tradimento di questo Rufo è punito con la sua stessa
puzza che emana dalle sue ascelle. Mentre il senso generale è chiaro, ossia il fatto che Catullo voglia
rassicurare l’amico, vediamo che il testo non funziona perfettamente; non si capisce immediatamente
cosa Catullo voglia dire.

Sacer hircus alarum


La puzza che il rivale dell’amico emana dalle ascelle è espressa con la stessa immagine del Carme
LXIX (sotto la valle delle sue ascelle si aggira un caprone): hircus significa ariete, caprone. È
interessante tutto il sintagma sacer hircus alarum, cioè il “maledetto caprone delle ascelle”. In latino
sacer è un sostantivo anfibologico9, cioè può avere due significati. Infatti, sacer vuol dire consacrato
a qualcuno, dedicato a qualcuno. Perciò può essere:
- o dedicato agli dèi superi e significare benedetto, sacro.
- o dedicato agli dèi inferi, e quindi essere infernale, maledetto. In questo utilizzo, l’accezione è
negativa.

Si cui… si quem
Notiamo come gli stilemi corrispondono: si cui… si quem. Ricordiamoci che cui e quem sono degli
indefiniti. Un tempo nella scuola si diceva, erroneamente, che il pronome indefinito aliquis, quando
si trovava preceduto da si, misi, me “perdeva le ali”, ossia diventava quis invece che aliquis. In realtà
si tratta di due distinti pronomi indefiniti, aliquis e quis, il secondo dei quali si usava in determinati
contesti. Infatti, quando introdotto dal si condizionale, i latini preferivano utilizzare quis, anziché
aliquis. Quindi, si cui corrisponde a si alicui10.

Iure bono
A buon diritto. In teoria dovrebbe essere optimo iure, ma qui Catullo varia un po’ questa espressione,
sicuramente per ragioni metriche.

9
Anfibologico. Che si presta a doppia interpretazione; ambiguo, equivoco.
10
Alicui è il dativo di aliquis.
Tarda podagra
Il rivale aveva due difetti fisici: oltra alla puzza delle ascelle, aveva anche la gotta, la podagra. La
gotta è un accumulo di acidi urici negli arti, soprattutto inferiori, che, quando la patologia è molto
grave, rendono quasi impossibile la deambulazione. La podagra viene chiamata tarda perché rallenta
il passo, non tanto perché arriva tardi, sebbene la si potrebbe intendere anche in questo senso dato
che, in genere, la gotta sopraggiunge in età piuttosto avanzata. Comunque, è meglio tradurre tarda
come lenta.

Merito
Merito corrisponde a iure bono e si traduce con “meritatamente”, “a buon diritto”. Significa che questi
due difetti, la puzza e la gotta, il rivale li ha avuti meritatamente come punizione della sua
spregevolezza e della sua slealtà nei confronti degli amici; glieli ha attribuiti la sorte (per quanto
l’igiene personale non sia un difetto fisico ma, piuttosto, comportamentale e morale).

Secat
Il docente presenta la seguente riflessione come una sua intuizione.
Secat, che molti pensano sia un presente indicativo, è con grande probabilità un perfetto indicativo
contratto, sincopato e sta per secavit. Ci accorgiamo di questo perché, essendo i due versi paralleli,
se abbiamo un perfetto nel primo verso, obstitit (perfetto di obstito), è logico che anche nel secondo
verso ci sia un perfetto, quindi secavit, benché sincopato. La pronuncia corretta è secāt, con la “a”
lunga, dato che è, appunto, una forma sincopata. Questo genere di perfetti sincopati è tipico della
poesia arcaica; Lucrezio, per esempio, ne usava tantissimi.
Oltretutto, un’ulteriore riprova è data dal fatto che il verbo si trovi alla fine del pentametro. Per quanto
sia vero che, in genere, il secondo emistichio del pentametro può sopportare anche delle brevi, la
norma vuole che siano sillabe lunghe. Dunque, è forte l’ipotesi che sia secāt, con la “a” lunga, che
equivale appunto al perfetto indicativo secavit; e lo traduciamo come “ha (mai) tormentato”.
Considerate queste argomentazioni, non si capisce il perché della corrente di pensiero a favore del
verbo al presente; inoltre, sarebbe una forma di incoerenza, specialmente per un poeta raffinato come
Catullo.

Qui vestrum exercet amorem


Aemulus iste tuus, questo tuo rivale, qui vestrum exercet amorem. La traduzione più comune per qui
vestrum exercet amorem è: che tormenta il vostro amore.
Vestrum, secondo alcuni, equivarrebbe a tuum, mentre invece, secondo il docente, Catullo lo usa
perché la donna è condivisa da due amanti11.
Exercere, dunque, viene tradotto come “tormentare”, “disturbare”. Diversa l’opinione del docente,
che si chiede: ma se la donna è consenziente, perché dare a exercere questa interpretazione? La donna
romana di quel periodo storico e di quella classe sociale aveva una certa caratura, un certo
temperamento e non era affatto sottomessa; si pensi a ciò che faceva Lesbia con Catullo. Allora, la
traduzione che il docente propone è “darsi da fare con”, e quindi: questo tuo rivale, che si dà da fare
con il vostro amore, con la vostra donna. Exercere ha quasi un’accezione militaresca: esercitarsi,

11
Il docente non lo dice, ma dà per scontato che amorem sia la donna, la persona, non il sentimento dell’amore. Chiedo scusa se metto
questa nota, ma magari può aiutare a comprendere perché faccia questa analisi di vestrum e, più in generale, per comprendere la sua
interpretazione del verso.
allenarsi, darsi da fare con la donna in senso amatorio è una forma di eufemismo per intendere che
“ci va” spesso; il loro rapporto è occasionale ma continuato nel tempo. Questa interpretazione è più
“vittoriana”, più pudica.

Mirifice est a te nactus utrumque malum


Questo è un verso un po’ complesso. Letteralmente sarebbe:
miracolosamente (per miracolo) ha ottenuto da entrambi i malanni.

Nactus est è il perfetto deponente di nanciscor, che significa ottenere, conseguire, trovare, imbattersi
in.

A te sta per “da te”. Ma perché abbiamo “ha ottenuto da te” se non è stato l’amico di Catullo a
provocare i malanni? Molti commentatori difendono questa lezione dei codici – i quali riportano a te
-, ma il docente ha una sua teoria12. Infatti, “ha trovato da te entrambi i mali” non vuol dire nulla,
perché l’amico di Catullo non è responsabile dei danni quasi congeniti del rivale. Per il docente, in
origine qui era presente un avverbio, come recte o, meglio ancora apte, che significa giustamente,
opportunamente, adeguatamente. Apte, inoltre, farebbe pendant con iure bono e con merito dei primi
due versi.
In questo modo avremmo che
aemulus iste tuus, […], mirifice est apte nactus utrumque malum.
questo tuo rivale (sleale), […], miracolosamente ha ottenuto giustamente entrambi i malanni.
come che i malanni fossero la punizione, la vendetta, per la sua slealtà nei confronti dell’amico.

Tanto più che nei versi successivi dice:


Nam quotiens futuit, totiens ulciscitur ambos: illam affligit odore, ipse perit podagra.
Infatti, ogni volta che va fa all’amore, tante volte punisce entrambi:
l’una affliggendola con la puzza e lui stesso crepa per il dolore della podagra.
Il rapporto sessuale corrisponde alla vendetta, alla punizione per la slealtà nei confronti dell’amico.

Futuit
Catullo utilizza un’espressione volgare e trasgressivo come fottere proprio perché si tratta di un
rapporto meramente sessuale, privo di sentimento.

Quotiens, totiens
Si tratta di due parole abbastanza ampie che sono in correlazione: quante volte, tante volte.

Ulciscitur
Vendicarsi di qualcosa, punire qualcosa.

Illam affligit odore, ipse perit podagra.

12
Digressione sulla crux desperationis. Nell’edizione del Mynors, prima di a te c’è una crux desperationis, cioè una croce che usano i
filologi quando pensano che il testo non funzioni, ossia quando non sono convinti che la lezione che recano i manoscritti abbia senso.
La crux desperationis si usa in ultima istanza quando il testo decisamente non funziona e non si trova una soluzione adatta a sanare il
testo ritenuto corrotto, non quando il filologo non capisce il testo. Qui, dal punto di vista sintattico non c’è nessun guasto, però è il
senso che non torna.
Notiamo la bella disposizione delle parole: illam, ipse. I pronomi sono messi in prima posizione per
dare enfasi.
Abbiamo anche una sinalefe, Illa_fligit odore, e poi, nella cesura, a metà del verso abbiamo una forma
di elisione, che noi non appuriamo perché c’è una pausa e quindi non è il caso di elidere. Per cui
leggiamo:
illa_fligit odore, ipse perit podagra.

Podagra
Nel verso 2, aut si quem merito tarda podagra secat, la prima “a” di podagra viene considerata lunga,
per effetto della legge della positio debilis. Ossia, quando abbiamo una vocale che per natura è breve,
quando si trova seguita da una consonate esplosiva (o occlusiva) più una liquida, che può essere la
“l” o la “r”, può liberamente essere considerarla o breve o lunga, a piacimento del poeta (es. tènebre,
tenèbre).
Nel caso di podagra abbiamo a+g+r. La a è breve per natura, ma essendo seguita da una esplosiva (o
occlusiva) più una liquida, può essere o lunga o breve. Catullo, nel verso 2 intende la “a” come lunga
(avremo podàgra), mentre nel verso 6 la “a” è considerata breve (podagrà). Ricordiamo che nel
pentametro, mentre nel primo emistichio si può avere la sostituzione con le vocali lunghe, nel secondo
emistichio troviamo sempre dattili puri (quindi le brevi ci sono sempre).

Ipse perit podagra


Notiamo anche qui l’amore di Catullo per l’allitterazione. In questo secondo emistichio abbiamo tre
“p”. Catullo adotta intenzionalmente questi effetti fonici e sonori.

CARME LXXII
Il Carme LXXII è, anche questo, dedicato a Lesbia, la quale compare nel verso 2.
La storia tra Catullo e Lesbia si dipana in tre fasi:
1. la prima è quella dell’idealizzazione della donna, descritta quasi con accenti stilnovistici, come una
dea;
2. la seconda fase è quella della gioia e della passione amorosa;
3. la terza fase che è quella del disincanto, della sofferenza, del tradimento.
Con questo Carme siamo nella terza fase, in cui Catullo ha capito che non può fare alcun affidamento
su Lesbia.

Dicebas quondam solum te nosse Catullum,


Lesbia, nec prae me velle tenere Iovem.
Dilexi tum te non tantum ut vulgus amicam,
sed pater ut gnatos diligit et generos.
Nunc te cognovi: quare etsi impensius uror,
multo mi tamen es vilior et levior.
Qui potis est, inquis? Quod amantem iniuria talis
cogit amare magis, sed bene velle minus.

Una volta eri solita dire (dicevi spesso) di conoscere solo Catullo,
Lesbia, e di non voler stringere (tenere) al mio posto nemmeno Giove.
Una volta (allora sì) io ti amavo, non tanto come la gente comune ama un’amante,
ma come un padre ama i figli e i generi.
Adesso ti ho conosciuto (ora so chi sei): perciò anche se brucio più intensamente (di passione)
tuttavia, per me sei molto più senza valore e più leggera (meno importante, o significativa).
Come è possibile - dici? Perché un tale torto (la slealtà)
costringe chi ama ad amare di più, ma a voler bene di meno.

Dicebas quondam solum te nosse Catullum


Notiamo la frequenza degli spondei: soltanto il quinto piede è, come di norma, un dattilo puro. Qui
Catullo è depresso, non è dell’umore di brindare o ballare, perciò utilizza questo ritmo lento.

Dicebas
Ritorna, ancora una volta, il verbo dicere, ossia le “parole, parole, parole” che Lesbia dice a Catullo
ma che poi non trovano riscontro nelle azioni e nell’atteggiamento reale.
Inoltre, l’uso dell’imperfetto indicativo dicebas sta a indicare l’azione durativa delle tante parole che
nel tempo Lesbia ha riversato e che, appunto, sono cadute a vuoto. Perciò la traduzione ideale è “eri
solita dire”; o anche “dicevi spesso”.

Quondam
In ogni poeta ricorre l’utilizzo di parole care, predilette (che i tedeschi chiamano liebe Worte13), che
rivestono, per chi le scrive, un significato particolare, pregnante e che indicano, in qualche misura, il
sentimento predominante nella letteratura di un poeta.
Ad esempio, in Lucrezio uno degli avverbi più ricorrenti è nequiquam, che significa “invano” e che
esprime la frustrazione del poeta, la vanità delle cose umane. Lucrezio è un poeta fondamentalmente
pessimista e vede nelle vicende della vita umana una sostanziale vanità, che esprime con questo
avverbio. Egli, alla fine, sia abbandonerà a un pessimismo radicale, quasi leopardiano.
Catullo, per l’appunto, ama moltissimo l’avverbio quondam, che significa “un tempo”. Egli si proietta
nel passato idealizzando quell’amore con Lesbia che avrebbe voluto vivere felicemente, ma che
invece lo sta facendo soffrire. Ricordiamo ad esempio il Carme VIII14 verso 3, fulsere quondam
candidi tibi soles, ossia “un tempo sì che splendettero belle giornate (di sole)”.

Quondam… Nunc…
Il quondam si contrappone bruscamente al nunc del verso 5:
Quondam… Nunc…, ossia “un tempo… Ora…”: il passato idealizzato contro la cruda realtà del
presente.
Notiamo anche che il verso 1 e il verso 5 condividono anche un verbo: quondam nosse, nunc cognovi.
Abbiamo delle relazioni molto forti tra i due versi, quasi che questo epigramma si possa dividere in
due sezioni abbastanza nette: la prima sezione, versi 1-4, che indica appunto un passato idealizzato;
la seconda versione, dal verso 5 alla fine, che invece indica la drammaticità del presente che Catullo
sta vivendo

Nosse

13
Chiedo scusa. Sembra che dica liebis Worte, ma il riscontro più simile che trovo su Google è liebe.
14
Nella registrazione sentire Carme VII ma è un lapsus linguae del docente.
Nosse è la forma ridotta di novisse. È un perfetto logico, uno di quei verbi che hanno soltanto le forme
del perfetto. Corrisponde a “conoscere”, ma non soltanto nel senso di “fare l’amore”, come molti
brutalmente traducono. Nosse è, piuttosto, una conoscenza profonda, non soltanto teoretica ma
affettiva.

A volte si dice “conoscere in senso biblico” nel senso di “fare l’amore con qualcuno”. Si dice così
perché gli antichi, specialmente nel Vicino Oriente, intendevano il “conoscere” non come un
conoscere “teoretico”, alla maniera aristotelica, ma come un conoscere “esperienziale”: fare
esperienza di qualcosa con qualcuno, condividere un’esperienza insieme a un’altra persona.
Un discorso simile vale anche per il concetto di “verità”, che nel mondo antico non era intesa come
la verità “teoretica”, ossia quella che si può dimostrare con prove, bensì come una verità
“esperienziale”, cioè un rapporto di fiducia che si instaura tra due persone. Ne consegue che, tra due
persone che si fidano l’una dell’altra è possibile dire la verità, mentre tra persone che non si conoscono
la verità può essere anche non detta, si può anche mentire15.

Quindi, quando Catullo utilizza il verbo nosse non intende un conoscere “teoretico” (cioè “sapere chi
è una persona”) ma un conoscere “esperienziale”, cioè “avere esperienza di qualcuno in maniera
approfondita”, che certamente comprende anche l’aspetto sessuale, ma che non si limita a questo; è
qualcosa di molto più ampio.

Lesbia (verso 2)
Lesbia, quasi come forma di enjambement, viene messo all’inizio del pentametro e diventa una specie
di inciso che costringe a fermare il discorso.

Nec prae me velle tenere Iovem


e di non voler stringere (tenere) al mio posto nemmeno Giove
Qui torna la figura di Giove come donnaiolo e persona a cui non si può resistere (vedi Carme LXX).
Possiamo dire che Giove sia un personaggio quasi antonomastico.
Tenere si può tradurre con “stringere”, “stare con”.
Nec corrisponde a nec quidem, cioè “neppure”.

Amicam (verso 3)
Amicus indica nel linguaggio erotico l’amante (il ragazzo, la ragazza, il fidanzato, la fidanzata).

Dilexi
Qui Catullo non utilizza il verbo amare ma il verbo diligere.
Nel mondo antico, i verbi erano molto più articolati rispetto a quanto accade nelle lingue moderne
perché indicavano, a volte, differenze all’interno di uno stesso sentimento. In greco, per esempio, i
verbi per indicare l’amare sono tantissimi (fileo, eramai, agapao, etc) e indicano ciascuno un amore
diverso16.

15
Oltre a essere tipico della mentalità antica, questo discorso vale anche per il Vicino Oriente. Tanto è vero che, anche durante la
Guerra del Golfo (agosto 1990 – febbraio 1991), Bush senior bombardava Baghdad perché Saddam Hussein era sospettato di avere
armi chimiche, e diceva in tv “Saddam ci deve dire la verità”. Ma per Saddam Hussein, e in generale per un semita, tali parole erano
vuote di significato perché – come si è detto – la verità si dice solo se c’è un rapporto interpersonale di fiducia, altrimenti al nemico si
può anche mentire.
16
Scusatemi anche in questo caso per il greco e per non avere riportato la digressione sul significato dei verbi in greco.
In latino abbiamo due verbi per amare: diligere e amare (e bene velle, che si vedrà più avanti).
Diligere è un amore di sentimento, di dilezione, che implica anche la stima della persona che si ama.
Diligere presuppone quasi una sorta di discernimento, perché la radice è quella del verbo legere che
significa “scegliere”; perciò, si fa una sorta di discernimento, si sceglie la persona che si vuole amare.
È un verbo molto più maturo, intellettualistico. Non c’è solo la passione ma c’è anche la ragione che
interviene nell’atteggiamento dell’amare.
Amare è l’amore passionale, che può anche prescindere dalla stima della persona. È la pura attrazione
fisica.

Dilexi tum te non tantum ut vulgus amicam


sed pater ut gnatos diligit et generos.
Catullo vuole quindi intendere che: allora (tum sta per quondam, in passato) io ti amai, ma non tanto
come sa gentixedda / zentighedda ama un’amante, cioè soltanto a livello passionale e di passatempo,
bensì di un amore profondo, ossia come un padre ama i figli e i generi.

Sed pater ut gnatos diligit et generos.


Questo verso ha lasciato sconcertati un po’ tutti i commentatori, i quali si sono chiesti come faccia
un amante appassionato a usare questa similitudine del padre che ama i figli e i generi. La ragione sta
nel fatto che Catullo sognava con Lesbia un amore tradizionale, fatto appunto della dextrarum
iunctio17 e della confarreatio18, cioè di tutte quelle fasi del matrimonio romano che denotavano un
foedus, un patto, un contratto vero e proprio, a cui doveva corrispondere la fides.
Così, fa giustamente riferimento alla tradizione, al padre come pater familias che ama tutti coloro che
fanno parte della sua famiglia, sia i figli propri, sia i generi: gnatos sono i figli nati dal suo sangue,
generos sono i figli acquisiti. Può sembrare strano un padre che ama i generi, a non lo è. Se ci
pensiamo, anche in Sardegna i generi chiama(va)no “mamma” e “babbo” la suocera e il suocero una
volta entrati a far parte della famiglia della moglie. Dunque, figli e generi sono messi sullo stesso
piano perché fanno parte della grande familia romana. Questo denota un grande amore di Catullo per
la tradizione.
In gnatos la grafia arcaica, che diventa natos con la semplificazione del nesso consonantico. Catullo
lo usa, oltre che per testimoniare ancora una volta il legame con la tradizione antica di Roma, forse
anche per metterlo in correlazione con generos, che è della stessa radice gigno, così come gnatur e
gnascor; e quindi facenti parte della stessa stirpe.
Questa nota è importante per capire cosa sognasse Catullo dal suo rapporto con Lesbia.

Nunc te cognovi
Con il verso 5 avviene il passaggio dalla prima alla seconda sezione. Catullo finora aveva parlato di
cose idealizzate, di passato, di quello che lui sognava e avrebbe voluto. Ora invece cade e batte il
muso sulla realtà, e la introduce con Nunc te cognovi: ora ti ho conosciuto, ora so chi sei veramente.
Notiamo che cambia anche il verbo. Prima aveva usato nosse, novisse, ora usa cognovi, che è più
realistico: ora che ho fatto esperienza, so bene chi tu sei.

Quare etsi impensius uror

17
Dextrarum iunctio: stretta di mano cerimoniale che due sposi facevano al momento del matrimonio.
18
Confarreatio: era il rito religioso con il quale si celebrava il matrimonio romano arcaico, che la tradizione faceva risalire a Romolo.
multo mi tamen es vilior et levior.
Qui troviamo la conseguenza dell’aver preso coscienza: anche se brucio (uror) più intensamente,
anche sono ancora fisicamente attratto da te (spesso, infatti, succede che l’attrazione fisica scompaia
più tardi dell’affetto), tuttavia mi sei molto più vile (di minor valore) e insignificante.

Impensius
Impensius è un avverbio al comparativo: più intensamente.

Etsi… tamen…
È una concessiva: benché… tuttavia…

Mi
Mi significa ai miei occhi. È un dativo di interesse.

Vilior
Vilior, vilis vuol dire che ha “meno valore”. È la stessa radice di valeo, valoris.

Levior
Levior, levis vuol dire “leggero”, che non ha peso, consistenza, significato.

Vilior e levior
Sono forme paronomastiche, cioè fanno assonanza. Sono due parole costituite dalle stesse sillabe,
anche se disposte in maniera diversa.

Multo
Gli avverbi come multo hanno la terminazione con l’ablativo in “o” quando si riferiscono a dei
comparativi (vilior e levior). Diversamente, la terminazione sarebbe stata in “um”.

Qui potis est, inquis? Quod amantem iniuria talis


cogit amare magis, sed bene velle minus.
In conclusione, Catullo previene una obiezione di Lesbia. Qui potis est, inquis?, “Come è possibile?”,
racchiude la domanda: “come è possibile che se bruci ancora intensamente per me, io sono ai tuoi
occhi di minor valor e insignificante? Come è possibile questa contraddizione?”. E spiega che un tale
torto, iniuria talis (riferito alla slealtà di Lesbia), costringe (cogit) chi ama ad amare di più, ma a voler
bene di meno.

Qui
Qui equivale a quo modo. Non è qui, quae, quod. La terminazione in “i” è un antico strumentale.

Potis
Nel latino arcaico esisteva questo aggettivo potis, pote a due uscite. Potis valeva per il maschile e per
il femminile, mentre pote per il neutro (come mitis, mite, per esempio). Nel latino storico, invece,
entrambe le forme sono riferibili a qualsiasi genere, quindi potis può essere anche neutro, diventa
quasi una forma indeclinabile, avverbiale.
Iniuria
Iniuria è il contrario di ius, quindi siamo sempre nell’ambito del foedus e della fides. Catullo pensa
di aver stretto un patto con Lesbia, quindi pretende la fides. Ne consegue che Lesbia, con la sua
slealtà, va contro il ius, contro il diritto, contro questo patto.

Bene velle
È tipica in Catullo la contrapposizione lacerante tra l’amare fisicamente e il voler bene
intellettualmente, o anche affettivamente.

LEZIONE 6 (29/10/2020) Rachele Tatti


Ci siamo fermati al carme 73 che oggi vedremo che introduce un altro tema tipico della poesia di
Catullo e cioè l’amicizia non so se ricordate quanto si è detto nelle prime lezioni quando si parlava
così a grandi linee dei temi e dei motivi che Catullo tratta nel suo canzoniere a parte questo (?)
dell’amore di Catullo per Lesbia un tema molto presente è quello dell’amicizia abbiamo detto che per
Catullo l’amicizia ha un’intensità pari a quella dell’amore se si esclude appunto il fattore fisico però
Catullo ritiene che appunto nell’amicizia quel fedus che deve corrispondere a una realtà, a una fides
diciamo che l’amicizia latina è molto più stretta rispetto alla φιλία greca, la φιλία greca è un rapporto
di stima se volete anche di fiducia ma che non coinvolge intimamente le persone tant’è vero che φιλία
sta indicare come si è detto ieri anche un amore astratto, l’amicizia invece per i romani sta a indicare
qualcosa di più, è una sorta di contratto, di patto che dev’essere rispettato e Catullo così lo sente,
tant’è vero che chiede agli amici la stessa fedeltà che chiederebbe a una donna e che di fatto chiede a
Lesbia. Questo carme 73 è una sorta di rimprovero amaro, simile a quello del carme 30, nei confronti
di un amico che evidentemente lo ha tradito, che forse doveva stare un po’ più vicino a lui nei momenti
del bisogno e invece non ha sentito questa vicinanza, questo calore che lui desiderava. Vedete è un
epigramma breve, interessante da diversi punti di vista, ci sono anche delle durezza da un certo punto
di vista, ci sono anche delle durezze da un punto di vista formale ma lo ribadisco Catullo è un po’ un
pioniere, un iniziatore del genere epigrammatico e quindi non si può pretendere quella scorrevolezza
che noi troveremo per esempio in Tibullo, in Properzio o in Ovidio, è come dire uno che ancora
sperimenta questo metro particolare che era stato trascurato nella letteratura precedente.

CARME LXXIII

Desine de quoquam quicquam bene velle mereri

aut aliquem fieri posse putare pium.

omnia sunt ingrata, nihil fecisse benigne

<prodest,> immo etiam taedet obestque magis;

ut mihi, quem nemo gravius nec acerbius urget,

quam modo, qui me unum atque unicum amicum habuit.


Allora vedete è abbastanza breve, tutto sommato il senso è perspicuo anche alla prima lettura dice:
“smettila di voler ben meritare di qualcuno oppure di pensare che qualcuno possa diventare buono. Il
mondo è ingrato/irriconoscente, non serve a nulla fare del bene, anzi, -addirittura taede cioè- deprime
e danneggia maggiormente come a me -come accade a me- che nessuno tormenta più gravemente o
più duramente di colui che fino a poco tempo fa mi ebbe come unico e solo amico”

Vedete non fa il nome dell’amico esprime soltanto l’amarezza per un’amicizia che evidentemente è
mancata nel momento del bisogno. Vedete come all’inizio abbiamo questo desine, un verbo che
troviamo spesso nel canzoniere di Catullo non so se ricordate quel carme che abbiamo citato anche
ieri, il carme 7 (cita parte del testo), è un verbo appunto che Catullo utilizza con una certa frequenza
all’interno della sua poesia, poi ovviamente questo verbo regge l’infinito infatti abbiamo addirittura
due infiniti bene velle mereri cioè smettila di voler ben meritare di qualcuno cosa vuol dire in italiano
questa frase: fare una buona azione a vantaggio di qualcuno in latino sono espressioni abbastanza
comuni per esempio “ben meritare della patria” cioè far del bene alla patria, acquisirsi dei meriti nei
confronti della patria, io lo lascerei cosi anche se in italiano è una frase un po’ obsoleta, però rende
bene in latino questa costruzione ben meritare di qualcuno. Questo velle è il fraseologico di bene
mereri e notate come Catullo lo inserisce all’interno di questa (?) l’espressione verbale sarebbe bene
mereri e Catullo inserisce il verbo fraseologico con l’avverbio e l’infinito. Vi dicevo che questo carme
non è privo di una certa durezza che sta nel poliptoto di questo pronome indefinito quisquam vedete
abbiamo de quoquam che è l’ablativo di quisquam e poi abbiamo quicquam cioè il neutro dello stesso
pronome indefinito, ora già il pronome quisquam non è che sia gradevole nel suono, ripetuto così in
una sorta di poliptoto rende certamente più duro in verso, io non so realmente perché l’abbia fatto
Catullo, sicuramente ha voluto cercare un effetto fonico particolare, forse anche una patina piuttosto
arcaica non so se ricordate qualche frammento della poesia arcaica per esempio di Ennio ma anche
di Accio, di Pacuvio, con queste allitterazioni insistite anche piuttosto dure che richiamano forse una
tradizione della vita arcaica, probabilmente Catullo ha voluto riproporre qui questo ritmo così atavico,
ancestrale, è possibile anche se dal nostro punto di vista non possiamo non rilevare una certa durezza
da un punto di vista sintattico questo quicquam lo si potrebbe intendere sicuramente è un accusativo
di relazione cioè ben meritare di qualcuno in qualcosa, l’accusativo di relazione esprime appunto una
limitazione del concetto corrisponde all’ablativo di limitazione quindi la si può intendere così,
certamente ne possiamo accogliere la lezione della tradizione manoscritta, tutti i quanti i manoscritti
perlomeno quelli più autorevoli hanno quisquam cioè al nominativo maschile il che non ha senso
perché sintatticamente non funziona l’unica cosa è correggere con questo piccolo intervento testuale
in neutro quicquam ben meritare cioè fare qualche buona azione nei riguardi di qualcuno, vorrei
anche farvi notare che l’indefinito quisquam non è un pronome indefinito che si possa usare in tutti i
contesti, si usa o in contesti negativi o in questo caso in contesti eventuali, dubitativi se voi dovete
indiare qualcuno o usate aliquis oppure usate quispiam, quisquam lo usate solo in frasi negative o
dubitative, eventuali che non implicano una certezza nel pensiero o nella dichiarazione che si sta
facendo. Smettila di voler meritare di qualcuno in qualcosa oppure smettila anche di pensare che
qualcuno possa diventare buono, cioè se uno è fatto così non è che lo puoi cambiare, se uno ha un
temperamento, un’indole radicata certamente non lo puoi cambiare facilmente quindi gli sta dicendo
rassegnati perché se l’amico è fatto così dovremo accettarlo così com’è perché non si può cambiare.
Abbiamo anche qui ugualmente un ritratto che sembra piuttosto arcaico, c’è questa triplice
allitterazione posse putare pium vedete tre parole accostate che cominciano sempre con questa
bilabiale, quindi questo mi conferma che probabilmente anche la scelta di de quoquam quicquam sia
venuta per fare un po’ la patina tradizionale arcaica a questo carme così come tradizionale è la
concezione dell’amicizia che ha Catullo vedete che qui abbiamo aliquis perché qui non c’è
un’accezione negativa o un concetto dubitativo, si parla di un qualcuno, chiunque, cioè non pensare
che si possa diventare buoni. Io qui ho tradotto questo pius come buone perché in italiano forse
funziona meglio cosi, è più comprensibile così, ma è chiaro che qui in realtà l’aggettivo pius faccia
riferimento alla pietas, cioè alla devozione che indica anche un dovere nei confronti degli dei in primo
luogo, nei confronti dei genitori, dei parenti, della patria, ricordatevi sempre quando si parla della
pietas del pius Aeneas, questo personaggio che sacrifica se stesso, il proprio desiderio, i propri
progetti di vita per seguir il desiderio degli dei, cioè la fondazione di Roma o perlomeno mettere le
basi per la fondazione; quindi questo è la pietas per i romani, per noi la pietà è un’altra cosa, è un
sentimento di benevolenza generico, di carità verso un bisognoso, anche con un’accezione di scarto
dal punto di vista psicologico e sociale, la pietà si prova quando uno si trova su un livello più alto
rispetto a quello che si vuole aiutare, per i romani questa non è assolutamente pietas. Però noi
traduciamo così genericamente “che qualcuno possa diventare buono” è chiaro che qui la bontà è
sempre correlata all’amicizia, per cui l’amico di cui Catullo si lamenta non ha rispettato la pietas
questo patto che l’amicizia esige e quindi rientra in questo grande ambito che è la pietas e dice infatti
omnia sunt ingrata, nihil fecisse benigne prodest, dice “tutto è irriconoscente” io tradurrei questo
omnia come nel francese tout le monde, il mondo è irriconoscente, cioè tutto è irriconoscente, non ci
si può fidare più di nessuno, questo omnia ha quindi un valore universale e dice infatti “non serve a
nulla fare del bene”; allora soffermiamoci un attimo qua, se voi guardate l’apparato critico nel Maines
(?), prodest è un’integrazione, una congettura di un’umanista Avantius, nome latinizzato, che ha
editato tra i primi il testo di Catullo, il manoscritto riportava una lezione che non funzionava né come
sintassi né come metrica e i vari filologi hanno tentato di sanare questo verso che sembrava guasto io
lascerei cosi questa congettura dell’ Avantius che funziona benissimo sia da un punto di vista metrico
sia da un punto di vista concettuale e intenderei appunto niente giova cioè a nulla serve fare del bene,
rientra in questo pessimismo che Catullo sta esprimendo nei confronti dell’affidabilità dell’uomo in
generale, altri invece al posto di prodest, sempre leggendo l’apparato critico del Maines che voi avete
a casa, propongono iuverit come per esempio il Beres, oppure iam iuvat il Manrouk/Mabrouk (?) che
è un altro grande filologo dei tempi passati, se noi accettiamo iuverit significa niente potrebbe giovare
fare del bene, a niente potrebbe servire far del bene insomma il concetto è un po’ sempre quello, io
mi semplificherei la vita è lascerei qui semplicemente il prodest. Ora è interessante un’altra cosa:
l’uso dell’infinito perfetto fecisse, che può avere anche una ragione logica, cioè niente giova ave fatto
del bene, cioè lo sguardo del poeta è retrospettivo sulle azioni che ha compiuto in passato, è quindi
giustificato l’uso del perfetto però non dimentichiamoci che i poeti hanno questa predilezione per
l’infinito così detto aoristico, cioè l’infinito perfetto in poesia non indica sempre un’azione passata,
indica un’azione aoristica ovvero indefinita nel tempo, cioè universale esattamente come il concetto
che sta esprimendo qui Catullo, tenete conto che il facisse benigne corrisponde al bene mereri cioè
ben meritare di qualcuno significa fare del bene a qualcuno quindi c’è anche una variatio dal punto
di vista lessicale e se vogliamo mettere in correlazione i due termini (bene mereri-facisse benigne)
troviamo anche un chiasmo, perché nella prima espressione abbiamo l’avverbio e poi infinito in
questa seconda espressione abbiamo l’infinto e poi l’avverbio, quindi la disposizione delle parole è
chiaramente chiastica. Anzi (immo) etiam taedet questa correzione che il poeta fa è una figura retorica
che si chiama epanortosi dal greco ἐπανόρθω siginfica rettificare, è quindi la rettifica di
un’espressione che si è appena fatta, il poeta dice niente giova aver fatto del bene ANZI, non solo
non giova, deprime, maggiormente danneggi, nuoce anche di più. Immo significa anzi e determina
una forte opposizione, è una forte avversativa. Abbiamo poi due verbi: taedet e obest, se ricordate le
prime lezioni forse di istituzioni di lingua latna questo è un verbo detto assolutamente impersonale
uno dei cosiddetti verba affectuum, verbi di sentimento come miseret provare misericordia, come
piget provare risentimento che sono assolutamente impersonali perché non hanno mai il soggetto e
hanno una costruzione particolare, qui non si vede perché il verbo è usato in senso assoluto senza
alcun complemento che gli sia vicino, però ricordatevi che questi verba affectuum hanno in genere
l’accusativo della persona che prova il sentimento e il genitivo della cosa per cui si prova il sentimento
per esempio se io dico me piget vitae cioè provo rincrescimento per la vita, me è il complemento
oggetto, sono io che provo questo sentimento, vitae è il genitivo che indica la cosa per cui si prova
questo sentimento, abbiamo spiegato il perché di questa costruzione, bisogna fare un ragionamento
un po’complesso di psicolinguistica, vedete noi siamo figli della scienza Freudiana, per cui abbiamo
consapevolezza che certi sentimenti anche forti che noi proviamo sono la modificazione del nostro
animo, della nostra psiche che reagisce dinnanzi ad uno stimolo particolare e abbiamo appunto questa
concezione un po’ intrinsecistica(?) dell’individuo ma per gli antichi non era così, per loro questi moti
improvvisi e intensi dell’animo umano erano dovute a delle intrusioni di forze esterne, quando uno
per esempio aveva un attacco di panico era una forza esterna, una divinità per esempio, che si
impossessava della persona, se vi ricordate panico veniva dal dio pan, che era quel terrore improvviso
che spesso coglie chi si trova per esempio da solo in bosco e gli antichi questo sentimento non lo
interpretavano come una reazione della psiche all’insicurezza di stare soli in mezzo a un bosco che è
pieno di pericoli, ma per loro era il dio pan che compiva una sorta di possessione demoniaca
dell’individuo e così per tutti gli altri sentimenti. Quindi non è vero che sono verbi assolutamente
impersonali, il soggetto ce l’hanno in questa forza esterna non definita, capace di impossessarsi
dell’individuo, ecco perché l’individuo che prova questo sentimento va in accusativo perché è
l’oggetto di questa forza esterna; questa è un’interpretazione che ha dato la scuola francese e secondo
me ha un suo fondamento in quanto risulta coerente con la visione del mondo che avevano gli antichi,
anche quando per esempio voi leggete Saffo, anche nelle traduzioni di Catullo, che immagina che
Eros gli appaia, la invada, non è semplicemente una figura retorica o un’immagine che lui utilizza è
una cosa che lei provava sinceramente convinta che una forza esterna come Eros invadesse il suo
cuore, ora noi quando ci innamoriamo sappiamo che l’innamoramento è una reazione della psiche,
invece per gli antichi è una forza esterna che s’introduceva dentro di loro e li faceva agire in un certo
modo, questo lo diceva anche Bruno Gentili che è un grande storico della letteratura greca, sono
riflessioni comportate da studi seri. Ora cosa significa taedet fa riferimento certamente al taedium
che sarebbe la noia, ma attenzione non è la noia che scaturisce dal momento in cui uno non sa che
cosa fare, è la noia esistenziale, quella di Sartre per esempio, è la aegritudo di cui parla Cicerone nel
terzo libro delle Tusculanae Disputationes, ma è anche, se ci pensate bene la aegritudo del Petrarca
nel Scretum dove la individua come uno dei suoi difetti fondamentali, una sorta di mancanza di voglia
di vivere, una sorta di depressione, malinconia che condiziona tutta la nostra esistenza, questa noia
esistenziale; allora se noi ci affidiamo a queste riflessioni potremmo rendere questo taedium come
“deprime”, è una continua frustrazione poiché tu fai del bene ma non ne hai poi il frutto e allora
sopraggiunge il tedium. Et obest magis, obest è un composto del verbo sum (obsum) vale a dire
letteralmente “che ti sta contro” infatti ob significa contro, è qualcosa che si oppone, che danneggia,
che nuoce, quindi taedet e obest sono quasi un allitterazione sinonimica, o meglio ancora se volete
sono un’endiadi, ovvero un unico concetto, quello del blocco psicologico e morale, espresso
attraverso due parole distinte. Oi c’è come vedete il riferimento alla propria storia personale, perché
se ci fate caso i primi versi descrivono una situazione che potrebbe essere valida per tutti, lui sta
facendo considerazioni gnomiche e dice che non serve a nulla far del bene a qualcuno, ma lo sta
dicendo come massima condivisibile da tutti, non è possibile pensare che qualcuno possa diventare
buono dice nel verso due, anzi tutto questo rischia di deprimerti e ostacolarti maggiormente e poi gli
ultimi due versi, l’ultimo distico, si riferisce alla sua storia personale. Ut mihi, come me, come accade
a me, scede così dall’universale alla storia individuale, questo è tipico di Catullo, ma in generale della
poesia latina, ricordate nelle prime lezioni quando ho detto la differenza sostanziale che c’è tra la
poesia greca e quella latina è il fatto che la poesia greca è una poesia oggettiva, i greci erano piuttosto
restii a descrivere se stessi e il proprio intimo, lo facevano attraverso i filtri della mitologia e della
letteratura, invece la poesia latina affronta coraggiosamente la disamina spietata della psiche, che
troverà poi il suo punto più alto poi nelle confessioni di Sant’ Agostino, lui fa proprio una disamina
spietata dei propri processi psicologici e mentali; e Catullo è un po’ l’iniziatore di questa poesia
soggettiva, quindi passa da una considerazione universale a una considerazione della sua propria
storia personale, e dice: come a me che nessuno tormenta più gravemente e più acerbamente come
colui che, cioè l’amico non menzionato, modo fino a poco tempo fa, mi teneva come unico e solo
amico, cioè tu mi facevi dichiarazione di essere il mio migliore amico e nel momento del bisogno sei
scomparso; da un punto di vista sintattico questo mihi dipende da obest perchè il verbo obsum regge
il dativo. Quindi: come a me che nessuno, urget che io tradurrei stressa, tormenta letteralmente
significa premere, strattonare, pressare, più gravemente e più acerbamente, gravius e acerbum sono
due avverbi nel grado comparativo, quam che introduce il secondo termine di paragone, di chi, qui
che si riferisce appunto all’amico non nominato, fino a poco tempo fa mi teneva come unico amico,
modo in questo caso ha un valore temporale, come probabilmente ho già detto modo da luogo per
esempio al romanesco “mo” che significa ora quindi vale a dire fino a questo momento. Me habuit,
mi considerò unum atque unicum amicum come unico e solo amico, come amico particolare, come
l’amico migliore, è chiaro che unum e unucum sono una sorta di allitterazione sinonimica però
servono per rafforzare il concetto dell’unicità dell’amicizia, per sottolineare come non ero uno dei
tanti amici ma l’unico vero amico di questa persona che mi ha tradito. C’è in questo verso qualche
caratteristica da un punto di vista metrico prosodico, la cesura cade in mezzo ad atque siccome è
considerata come una parole composta (at+que) spesso i latini fanno cadere la cesura smembrando
la composizione della parola, questo capita anche in greco. Oltre a questo ci sono diverse sinalefe e
diverse elisioni abbiamo la prima elisione me unum per cui la e cade, poi abbiamo la sinalefe unum
at, poi abbiamo que uni con l’elisione di que e di u, poi la sinalefe di um e di am, poi ancora la sinalefe
di um di hab nonostante ci sia la h viene detto che la h non fa posizione e quindi è come se fosse uno
iato (lettura in metrica). Diciamo che il verso è un po’ particolare, la ragione di questa originalità va
oltre la questione dello sperimentalismo perché infatti Catullo sta ancora sperimentando un verso
particolare, a volte le difficoltà metrica sono dovute anche alla volontà di esprimere un certo discorso
spezzato, qui Catullo è triste e probabilmente la del discorso non è compatibile con la tristezza, e un
po’ come quando vi ho parlato nel carme 8 dell’uso del coliambo cioè il trimetro giambico zoppo con
due accenti contigui che danno quasi la sensazione dell’inciampo, lo usa perché essendo un carme
triste Catullo vuole dare l’impressione che il suo discorso sia singhiozzante perciò non è escluso che
anche la difficolta in questo verso finale voglia riprodurre un discorso non fluido ma spezzato
dall’amarezza che lui prova per il tradimento dell’amico. (domanda da parte di un alunno riguardante
la lettura in metrica) allora abbiamo un’elisione tra me e unum quindi leggiamo “mun”, poi una
sinalefe tra unum e at quindi leggiamo “unat”, poi abbiamo ancora elisione tra que e un quindi “qun”,
poi sinalefe tra um e am quindi “unicam”, poi alla fine ancora sinalefe tra amicum e habuit quindi
“amicabuit”. In ogni caso è importante che voi sappiate riconoscere i particolarismi metrici e me li
sappiate spiegare, se poi la lettura di questi versi così complessi non è perfetta non è un problema.

Allora passiamo al carme 74 che è un carme triviale, ci sono alcune parole sconcie, ma Catullo è così,
alterna momenti di depressione e amarezza ma spesso ci sono carme scherzosi o addirittura sarcastici
contro alcuni personaggi. Qui si parla di un certo personaggio, un certo Gellio che evidentemente era
famoso per essere un debosciato, pare che se la fosse fatta con la moglie dello zio fratello di suo
padre, pare che fosse un poco di buono e noi lo sappiamo perché questo personaggio è ricordato anche
da Valerio Massimo nella sua opera “Detti e fatti memorabili”, facciamo una piccola digressione su
Valerio Massimo che era uno dei massimi rappresentati della storiografia in età giulio-claudia, in
quell’età la storiografia ha dei caratteri molto particolari, non è di tipo scientifico come poteva essere
un po’ quella di Sallustio o di Tacito, era una storiografia molto moralistica e un po’ salottiera cioè
cercava di raccontare la storia per ricavarne degli insegnamenti morali o semplicemente per
intrattenere un pubblico, i tre rappresentanti questa storiografia sono Velleio Patercolo che era una
sorta di panegirista di Tiberio, Valerio Massimo che appunto mette insieme una serie di aneddoti di
valore morale e poi abbiamo Curzio Rufo che racconta la storia di Alessandro Magno per intrattenere
i salotti del tempo introducendo tratti esotici. Allora Valerio Massimo ad un certo punto quando parla
della moderazione dei genitori nei confronti dei figli sospettati di qualche cosa parla di un certo Lucio
Gellio che probabilmente è proprio lo stesso personaggio protagonista di questo epigramma, diche
così Valerio Massimo: “Lucio Gellio dopo aver esercitato tutte le cariche pubbliche fino alla censura,
pur avendo quasi la certezza che il figlio si fosse macchiato di gravissimi delitti, quali uno stupro
commesso contro la matrigna e un patricidio premeditato, non si precipitò tutta via a vendicarsi subito,
ma chiamati a consiglio quasi tutti i senatori, dopo aver esposto quasi tutti suoi sospetti, diede facoltà
al giovane di difendersi e compiuta una diligentissima inchiesta lo assolse con sentenza, non solo del
consiglio, ma anche sua propria che se si fosse fatto prendere dall’ira e avesse frettolosamente infierito
contro avrebbe commesso un crimine invece di punirlo” , insomma un contesto molto particolare
perché parla della moderazione dei genitori ma a noi interessa il fatto che c’era un Gellio che aveva
commesso i fatti a cui accenna anche Catullo in questo epigramma. Certamente non era un amico di
Catullo questo è ovvio, allora vediamo un po’ di leggerlo e commentarlo come sempre.

CARME LXXIV

Gellius audierat patruum obiurgare solere,

si quis delicias diceret aut faceret.

hoc ne ipsi accideret, patrui perdepsuit ipsam

uxorem, et patruum reddidit Arpocratem.

quod voluit fecit: nam, quamvis irrumet ipsum

nunc patruum, verbum non faciet patruus.

Allora diamo una traduzione piuttosto letterale e poi vediamo di tradurre bene, letterale fino ad un
certo punto perché alcune parole mi rifiuto di tradurle nel senso loro proprio. “Gellio aveva sentito lo
zio rimproverare spesso se qualcuno diceva o faceva delle smancerie, perché questo non accadesse
anche a lui si lavorò per bene la moglie dello zio e rese lo zio un Arpocrate, perciò fece quello che
voleva infatti quand’anche ora s’infilzasse (se la facesse) con lo zio stesso, lo zio non aprirebbe
bocca/non farebbe parola” cioè ha apparentemente tacitato lo zio e messo con le spalle al muro in
modo che non si potesse più lamentare di nulla. Vedete, si capisce bene che il personaggio è piuttosto
squallido, privo di scrupoli però la cosa particolare è che aveva uno zio criticone che era pronto a
criticare se qualcuno diceva o faceva qualcosa attinente al sesso. Allora vediamo di commentare bene
questi primi due versi innanzitutto, vedete patruum, qui attenzione c’è la sinalefe, significa zio
paterno, obiurgare significa rimproverare, fare la ramanzina a qualcuno quando fa qualcosa di
sbagliato, invece questo solere che è ovviamente un verbo fraseologico indica essere solito, abituato
a e lo traduciamo con un avverbio: spesso, quindi Gellio aveva sentito spesso lo zio rimproverare se
qualcuno diceva o faceva delicias che è un eufemismo per indicare qualcosa che appartiene alla sfera
sessuale, quindi se uno diceva o faceva qualcosa riguardante il sesso, significa delizie ma è chiaro
che il riferimento è quello. Quindi Gellio che era un debosciato aveva paura che lo zio potesse criticare
anche lui, aveva paura di diventare lui stesso vittima degli attacchi dello zio, così ha escogitato un
piano, in pratica si è fatto la zia, l’ha svergognato pubblicamente di fronte a tutta la società romana e
così non ebbe più il coraggio di aprire bocca e cosi lui poteva fare benissimo quello che voleva perché
era sicuro del silenzio dello zio una specie di ricatto morale. Hoc ne ipsi accideret, questa è una
finale, perché questo, cioè il rimprovero, non accadesse a lui, ipsi è Gellio ovvero il soggetto;
perdepsuit ipsam uxorem patrui ovvero si è lavorato per bene la stessa moglie dello zio, cioè la zia
che era di origine (?), una libertà e non era una matrona di antiche tradizione e i romani trattavano
con un po’ più di libertà questi parenti acquisiti quando venivano da condizione servile. Il verbo
perdepso, che corrisponde poi al verbo greco δεψέω che significa impastare, viene usato in senso
ovviamente metaforico, letteralmente sarebbe ha impastato la stesa moglie dello zio, cioè si è fatto
diremo noi oggi, verbo molto particolare, abbastanza raro perché è un verbo triviale, un verbo quindi
volgare, non lo troviamo nell’alta letteratura. Ha reso lo zio un Arpocrate, cioè ha ammutolito
completamente lo zio, Arpocrate è una divinità egizia del silenzio che veniva rappresentata come un
giovane ragazzo che si metteva un dito in bocca per esortare al silenzio, cioè lo zio non ha potuto dire
più nulla; così lui ha fatto quello che ha voluto, quod voluit fecit, perché ha tacitato completamente
lo zio, dice infatti ora dopo che è successo questo fattaccio quand’ance si volesse fare lo zio stesso lo
zio non potrebbe aprire bocca, non potrebbe neanche reagire, qui c’è un verbo sconcio che mi rifiuto
di commentare ovvero irrumero che noi traduciamo come farsi lo zio, oppure infilzarsi lo zio, usiamo
queste espressioni italiane piuttosto comuni evitando la traduzione letterale del verbo, lo zio a questo
punto non aprirebbe bocca neanche se venisse come dire stuprato dal nipote. Vedete che un carme
piuttosto crudo, non molto raffinato infatti ci sono molte ripetizioni, guardate quante volte compare
patruus è presente in quasi tutti i versi e nel verso sei prende la forma quasi di un poliptoto, poi
troviamo spesso ipsi; insomma non è un carme molto raffinato, probabilmente Catullo non lo aveva
buttato giù di getto perché non era consuetudine degli antichi fare così, però certamente lo ha scritto
con maggior leggerezza rispetto ai carmi più impegnati. (Il prof mostra alcune foto di Arpocrate).

Passiamo al carme 75 che è un carme molto noto, breve, quindi un epigramma nel senso classico del
termine, si riferisce alla storia d’amore con Lesbia che è citata espressamente, sicuramente l’avete
visto anche alle superiori perché è uno tra i più noti, che si legge con più frequenza. Qui noi vediamo
che Catullo fa una differenza psicologica abbastanza sottile tra il sentimento del amare e quello del
bene velle; l’amore è visto come una sorta di attrazione fisica che porta verso la persona amata in
maniera quasi istintiva e irrazionale e il bene velle che invece già un amore di tipo intellettualistico,
una stima che coinvolge anche la ragione non soltanto il corpo e qui c’è già questa scissione, questa
lacerazione all’interno del poeta tra l’attrazione fisica che continua a provare nonostante i tradimenti
di Lesbia e questo bene velle che viene meno perché il disincanto di fa sempre più forte. (Lettura)

CARME LXXV

Hùc est mèns dedùcta tuà mea, Lèsbia, cùlpa

àtque ita se òfficiò pèrdidit ìpsa suò,

ùt iam nèc bene uèlle queàt tibi, si òptima fìas,

nèc desìstere amàre, òmnia si faciàs.

Dice: “il mio animo la mia mente per colpa tua o Lesbia si è ridotta fino a questo punto e si è rovinata
da se stessa facendo il proprio dovere, tanto che non potrebbe più volerti bene se tu diventassi anche
la donna migliore, ne smettere di amarti qualunque cosa tu facessi”. Vedete che è molto breve ed è
organizzato con dei rimandi, con delle antitesi, contrapposizioni che denotano un certo labor lime,
ovvero un’elaborazione formale molto raffinata e oculata. Sapete bene che quando troviamo un testo
antico nei manoscritti spesso non troviamo segni d’interpunzione, se ci sono spesso risultano molto
vaghi e non corrispondono ai nostri segni d’interpunzione e la differenza è fondamentale perché i
segni d’interpunzione degli antichi venivano messi in funzione della recitazione o della declamazione
del testo, un po’ come i respiri in una partitura ricordate la lezione sulla metrica abbiamo detto che in
genere chi canta o chi suona mette dei segni simili a degli apostrofi nel punto in cui è opportuno
prendere fiato; quindi questi segni trovati nei manoscritti avevano forse un senso nella declamazione
del testo ma non corrispondono alla nostra logica d’interpunzione perché il nostro sistema
d’interpunzione è fondato su una divisione sintattica del testo, cosa che per gli antichi era
completamente estranea, questo per dire che noi da filologi quando editiamo un testo abbiamo anche
il compito di scegliere quale interpunzione usare, vi faccio questo discorso perché vedete nel testo
del Traina il primo verso di questo stesso carme interpunge in modo diverso, huc est mens deducta
tua, mea Lesbia, culpa quindi secondo Traina il vocativo è mea Lesbia mentre per (?) che pone la
virgola tra mea e Lesbia il vocativo è solo Lesbia e quindi la traduzione ovviamente cambia perché
se io lo intendo cos’ devo tradure: il mio animo la mia mente o Lesbia per colpa tua si è ridotta fino
a questo punto mentre se io adotto l’interpunzione presente nel Traina devo tradurre: l’animo, o mia
cara Lesbia, per colpa tua, si è ridotto fino a questo punto. Il problema è proprio questo mea che
essendo un nominativo potrebbe riferirsi sia a Lesbia portando così a tradurre “mia cara Lesbia” o a
mens, io francamente preferisco quest’ interpunzione perché vedete che i due possessivi sono appunto
accostati per sottolineare quasi una contrapposizione tua-mea solo che tua che è un ablativo si
riferisce a culpa, mea si riferisce invece a mens quindi c’è la mente del poeta che è fedele alla donna
e la colpa della donna infedele, quindi a mio parere questa contrapposizione ci orienta verso questa
soluzione d’interpunzione, nell’altra versione risulta un po’ banale, invece intendere mea come
possessivo di mens e tua come possessivo di culpa da un senso molto più intenso a mio parere, ognuno
poi è libero di farsi una propria idea del testo, però la poesia alessandrina è una poesia sottile a volte
bisogna trovare anche dei sensi nascosti in questo genere di espedienti stilistici non la prima lettura
banale, trovare invece delle letture nascoste, critiche. (risposta alla domanda di alunno) La traduzione
secondo la punteggiatura che avete davanti (testo sopra) è così: il mio animo, o lesbia, per colpa tua
si è ridotta a questo punto; mentre la traduzione secondo l’interpunzione del testo di Traina è: l’animo,
o mia cara Lesbia, per colpa tua si è ridotto fino a questo punto; ripeto per me la prima soluzione
risulta più raffinata rispetto all’altra che risulta banale, mia cara Lesbia è quasi una smanceria gratuita
in un carme dove lui si allontana da Lesbia, un fatto è certo: che mea è un nominativo, tua è un
ablativo. (risposta alla domanda di un alunno) Secondo me anche in antichità a cosa si riferisca mea
è volutamente ambiguo, spesso infatti gli antichi cercavano quella che viene chiamata anfibologia,
quindi magari un ascoltatore superficiale poteva intendere mea Lesbia come se fosse un unico blocco
mentre un ascoltatore più raffinato forse dava un’interpretazione più sottile, a mio parere poi ripeto
che siamo sempre nel campo dell’opinabilità. Adesso atque ita se afficio perdidit ipsa suo, il mio
animo si è rovinato, si è arrovellato quasi col suo stesso dovere, offico suo, questo dovere, questo
officio è ovviamente il dovere che nasce dalla fedeltà, abbiamo tante volte detto che Catullo si è illuso
di aver stretto un patto con Lesbia e quindi esige fedeltà, lui la sta mantenendo e quindi sta
mantenendo questo officium, questo dovere morale, Lesbia no e quindi lui si è rovinato l’animo nel
tentativo di rispettare questo dovere. Poi c’è la parte finale che è quella più elaborata dal punto di
vista dello stile: ut iam nec bene uelle queat tibi, si optima fìas, nec desistere amare, omnia si facias
vedete che c’è una sorta di parallelismo perché abbiamo la proposizione reggente che è una
proposizione consecutiva e poi e poi c’è questa condizionale si optima fìas omnia si facias, che sono
due condizionali nell’ambito del periodo ipotetico nell’ambito della possibilità. Dice: tanto che non
potrebbe più volerti bene, perché ci sono tanti torti per cui ormai la ragione, la mens che indica anche
la capacità razionale, si sta allontanando da lei per cui non potrà più volerti bene, si optima fìas: se
anche diventassi la migliore delle donne, cioè anche cambiassi rotta, ma d’altro canto non potrebbe
neanche smettere di amarti qualunque cosa tu facessi, o per recuperare quest’amore o semplicemente
qualunque cosa di brutto potresti ancora fare. Dunque notate che abbiamo qui una sorta di costruzione
chiastica con i verbi fraseologici, perché abbiamo bene velle queat quindi l’infinito bene velle e il
fraseologico queat poi abbiamo il fraseologico desistere e poi amare, quindi è una costruzione
chiaramente chiastica; però quello che è importante notare qui è la contrapposizione tra il bene velle
e l’amare, Catullo si sente ancora attratto fisicamente dalla donna è ancora portato a desiderarla però
la mens si sta sempre più allontanando perché a un certo punto interviene la ragione, la volontà per
trovare questo rapporto. Vedete che qui abbiamo il soggettivismo più spinto troviamo anche in greco
questo tipo di frasi ma risultano molto più distaccate invece Catullo sta parlando proprio di se e della
sua storia personale. Alcuni hanno visto il modello di questo epigramma in un epigramma di Teognide
che secondo me è molto più cervellotico rispetto a questo, sono i versi 1091-1094 e dice così nella
traduzione: “il mio cuore è in pena per amor tuo, non posso né odiarti né amarti e capisco quanto è
difficile odiare quando c’è un vincolo d’affetto ma quanto è difficile amare chi rifiuta.” Si ci può
essere qualche spunto ma secondo me Catullo fa un'altra cosa, c’è il gioco dei richiami, dell’antitesi,
dell’amare e dell’odiare, però secondo me lo spirito è totalmente diverso quindi questo riferimento
potrebbe essere preso un po’ con le pinze, però insomma è interessante perché rappresenta una fase
dell’amore tra Catullo e Lesbia. Una cosa da farvi notare è porre attenzione a queat dal verbo queo
un po’ più ricercato rispetto a possum e ci sta benissimo nel verso quindi probabilmente è anche
questa la ragione del suo utilizzo; poi anche questo iam state attenti perché in frasi negative
corrisponde al nostro “più”, cioè tanto che non potrebbe più volerti bene, quindi non “potrebbe già”
ma “potrebbe più”. Una piccola variatio sta nelle condizionali si optima fìas omnia si facias abbiamo
l’anastrofe della congiunzione condizionale, si in principio di frase e poi si in seconda posizione.
Molti discutono sul significato di omnia si facias o qualunque cosa tu faccia per recuperare questo
rapporto oppure non potrei smettere di amarti qualunque altro torto tu mi potresti fare, anche in questo
caso la critica è divisa, ognuno può prendere posizione secondo la versione che lo convince di più,
come ho già detto altre volte questi testi devono un po’ riverberare dentro di noi e poi ognuno ci vede
un’interpretazione diversa anche secondo il proprio vissuto che è un elemento interpretativo di grande
importanza nella lettura della poesia soprattutto antica.

Adesso passiamo al carme 76 che vedete è piuttosto lungo. Riguardo questo carme si è detto molto
ed è difficile effettivamente trattarlo come epigramma perché sono ventisei versi e gli epigramma
come vi ho detto nascono con la caratteristica della brevità perché dovevano essere scritti in un
materiale duro, una lastra di marmo, una pietra, bronzo o legno che non consentiva grande spazio,
quindi per la loro origine dovevano essere brevi, qui invece troviamo un testo di ventisei versi, quindi
alcuni hanno visto in questo carme un po’ l’inizio della elegia amorosa latina, è vero che
tradizionalmente si fa iniziare con Cornelio Gallo che ha scritto gli amores e che forse inizia proprio
questo genere in maniera dedicata e specifica però gli inizi sono già ravvisabili in Catullo e questo
sarebbe l’esempio più emblematico di elegia amorosa, quindi di fatto la prima elegia amorosa della
letteratura latina. Si scrive dell’ultima fase della storia d’amore di Catullo e Lesbia ed è divisa in 3
sezioni: la prima piuttosto generale in cui lui parla della soddisfazione che si può ricavare dal ricordo
delle passate benemerenze e sono i versi 1-9, la seconda versi 10-16 dove lui cerca di esortare se
stesso a reagire a questa situazione che lo deprime, la terza versi 17-26 abbiamo una sorta di preghiera
che è sicuramente molto interessante anche perché noi non conosciamo molto dell’eucologia (studio
della preghiera che gli antichi rivolgevano agli dei) degli antichi, conosciamo alcuni testi ontologici
per esempio di Catone o di Verrone però non abbiamo grandi documenti e questo è un esempio
abbastanza ampio. E’ chiaro che la preghiera che rivolge agli dei è quella della liberazione da questa
situazione che lo tormenta, lui è sempre stato onesto, non ha mai tradito nessuno rispettando la pietas
quindi chiede agli dei di essere ricambiato e di essere liberato da questa passione. E’ chiaro come la
visione che appare in questa terza sezione è una visione tipicamente romana, contrattualistica, io ho
fatto questo quindi gli dei mi devono ricambiare, una maniera che nessuno di noi userebbe per pregare
il proprio dio ora, loro non avevano un rapporto affettivo con la divinità infatti se leggete la letteratura
antica non trovate nessuno che facesse dichiarazione d’amore verso Zeus, perché appunto il rapporto
era distaccato, io faccio questo perché tu mi faccio questo, io faccio sacrifici perché tu non mi rompa
le scatole quando voglio qualcosa, ma non esisteva un rapporto affettivo esso nascerà poi con
cristianesimo ebraismo etc. ma non certamente in quella greca e romana, quindi questa mentalità
contrattualistica traspare palesemente da questo testo ontologico che adesso noi analizzeremo. (lettura
testo)

Siqua recordanti benefacta priora voluptas

est homini, cum se cogitat esse pium,

nec sanctam violasse fidem, nec foedere nullo

divum ad fallendos numine abusum homines,

multa parata manent in longa aetate, Catulle,

ex hoc ingrato gaudia amore tibi.


Nam quaecumque homines bene cuiquam aut dicere possunt

aut facere, haec a te dictaque factaque sunt.

Omnia quae ingratae perierunt credita menti.

Quare iam te cur amplius excrucies?

Quin tu animo offirmas atque istinc teque reducis,

et dis invitis desinis esse miser?

Difficile est longum subito deponere amorem,

difficile est, verum hoc qua lubet efficias:

una salus haec est, hoc est tibi pervincendum,

hoc facias, sive id non pote sive pote.

O di, si vestrum est misereri, aut si quibus umquam

extremam iam ipsa in morte tulistis opem,

me miserum aspicite et, si vitam puriter egi,

eripite hanc pestem perniciemque mihi,

quae mihi subrepens imos ut torpor in artus

expulit ex omni pectore laetitias.

Non iam illud quaero, contra me ut diligat illa,

aut, quod non potis est, esse pudica velit:

ipse valere opto et taetrum hunc deponere morbum.

O di, reddite mi hoc pro pietate mea.

Ora vedete che qui Catullo è molto più sciolto rispetto agli altri epigrammi, si vede che ci ha messo
più labor lime, che si è sforzato di più di essere scorrevole ed è veramente una bella elegia. (risposta
a una domanda alunno) Allora ci sono due cose da dire innanzitutto lui non fa riferimento a nessuno
divinità, l’altro giorno ho detto che è vero che Catullo non crede più agli dei tradizionali però
l’intellighenzia del tempo si orientava più verso quasi un’unica divinità, qui appunto non si sta
riferendo a una divinità particolare ma a una divinità generica poi è chiaro che lui attinga anche a
delle forme che sono tradizionali pero mi sembra indicativo che nessuna divinità venga qui
menzionata, ma una divinità generica, non sa a quale santo votarsi e semplicemente invoca “o dei”
senza fare alcun riferimento esplicito.

LEZIONE 7 (30/10/2020) Alessandra Dessì


Stavamo parlando ieri del carme 76 che è molto particolare e che viene indicato come se fosse la
prima elegia amorosa della letteratura latina perché non può essere considerato un epigramma per via
della lunghezza, i versi sono 26, vanno oltre la fisionomia naturale di un epigramma. E poi anche il
contenuto, che è un contenuto amoroso, erotico, è tipico dell’elegia che noi conosceremo con Ovidio,
siamo nell’ambito dell’elegia amorosa. Questo carme così lungo si può dividere in tre sezioni. Dal
primo verso al nove abbiamo la prima sezione che parla dei tristi ricordi che il poeta ha nella sua
mente e nel suo animo, ricordi di passate benemerenze come lui stesso dice, cioè di buone azioni,
quella sua pietas soprattutto nei confronti della donna amata. Poi abbiamo una seconda sezione, la
sezione che va dal verso dieci al sedici, in cui vi è l’invito a sé stesso a reagire ad una situazione
particolarmente dolorosa per lui. Infine abbiamo la terza sezione, dal verso diciassette al ventisei, una
preghiera agli dei perché lo aiutino a liberarsi da questa passione che lo sta distruggendo. Non c’è
nessuna divinità invocata, diciamo che è quella divinità che tende a diventare quasi monoteistica nella
tarda repubblica, con Cicerone per esempio o con gli scrittori dell’età augustea, siamo in una fase di
evoluzione della concezione della divinità. Tutto l’apparato religioso, del pantheon, i vari dei, sono
un orpello che come dice Cicerone nel “De divinatione” può essere utilizzato per governare il
popolino ma una persona colta non può certamente aderire a questo tipo di religiosità. Sappiamo che
anche Lucrezio si pone su questa direzione. Lucrezio attacca in maniera brutale soprattutto la
superstizione, fa l’esempio del sacrificio di Figenia, gli uomini per ubbidire alla superstizione, a
quest’apparato di norme religiose, non si sono fatti scrupoli a uccidere una giovane donna solo per
propiziare la partenza della flotta verso la città di Troia per la guerra. Lucrezio per quanto sia
razionalista, non nega l’esistenza degli dei, dice che gli dei abitano negli intermundia, questi spazi tra
mondi e sono assolutamente indifferenti alle vicende umane. Lucrezio stesso che pure è un
razionalista spinto non arriva a negare l’esistenza degli dei, li fa abitare in questo spazio fra mondi,
un altro sistema solare, non hanno interferenze con le vicende umane. Quindi c’è veramente una
religiosità che si evolve nel senso del monoteismo, soprattutto il platonismo e il neoplatonismo,
proporranno un modello quasi di teologia che si avvicina di più al cristianesimo, per certi versi.
Tornando al nostro testo, è uno dei carmi che si iscrivono nella storia d’amore tra Catullo e Lesbia,
fa parte della terza fase della storia d’amore, Catullo ormai ha compreso che non c’è niente da fare,
che la donna lo tradisce in continuazione, che viola costantemente questo foedus, è una donna
inaffidabile, quindi cerca in tutti i modi di liberarsene anche se è sempre attratto, da solo non ce la fa,
per cui chiede aiuto agli dei per liberarsi da questa passione che lo sta portando alla morte. Da un
punto di vista formale è molto più accurato degli altri, ha un andamento lento, solenne, le parole sono
a volte anche pesanti, perché c’è una dovizia di spondei che rallentano il ritmo, ma rispetto ad alcuni
che abbiamo visto è sicuramente più raffinato, più elaborato.

Siqva recordanti benefacta priora uoluptas

est homini, cume se cogitat esse pium,

nec sanctam uiolasse fidem, nec foedere nullo

dium ad fallendos numina abusum homines,

multa parata manent in longa aetate, Catulle,


ex hoc ingrato gaudia amore tibi.

Il ritmo scorre lentamente, ci sono molte parole pesanti. Al primo verso “recordanti benefacta”, sono
parole molto corpose. Oppure guardate al verso quattro, “diuam ad fallendos”, parole che hanno
questa capacità di rallentare molto il ritmo. Non è un carme gioioso, è triste, Catullo è depresso, quindi
questo ritmo così lento, pesante, corrisponde forse anche al suo stato d’animo.

Traduzione:

Se per un uomo che ricorda le passate benemerenze c’è una qualche soddisfazione,

Quando ripensa di essere stato onesto, di non aver violato la santità della parola data,

di non aver abusato della volontà degli dei in nessun patto per ingannare gli uomini,

molte gioie, o Catullo, ti restano in serbo preparate per il resto della tua vita

quanto lunga essa possa essere, da questo amore non corrisposto.

I carme di Catullo iniziano sempre questi indefiniti, “quisquam”, “aliquis” oppure “quis” anche qui
abbiamo lo stesso stilema, “siqva” si può scrivere staccato oppure attaccato perché il pronome
indefinito “quis” è enclitico, non ha un accento proprio, si appoggia alla parola che lo precede. “Qva”
si riferisce a “uolupatas”, alla fine del verso come se fosse “si aliqvua uolupatas est homini recordanti
benefacta priora”. “Uolupatas” è il piacere, una soddisfazione interiore, si potrebbe anche dire usando
le parole di Petrarca, una “uolupatas dolendi”, una soddisfazione insita nella malinconia e nella
sofferenza che il poeta sente. Una soddisfazione che si ha nell’avere la coscienza a posto, nel ritenere
che tutto sommato la vita è stata improntata su principi di onestà e di pietà. Se c’è una qualche
soddisfazione per l’uomo che ricorda (homini recordanti), “recordor” è un verbo deponente, significa
“riportare nel cuore”, ha la stessa radice di cor,cordis, tutto si svolge sul piano del sentimento, sarebbe
“se qualcuno riporta nel cuore”. “Scordare” significa “cacciare via dal cuore”. Se qualcuno trova nel
cuore la soddisfazione nel ricordare le passate buone azioni (benefacta priora), alla lettera sarebbe “le
prime benemerenze”, quando pensa di essere stato “pius”. Questo “cogitare” non è esattamente come
il nostro “pensare”, perché il pensiero è qualcosa che si può affacciare anche in maniera subitanea
nella nostra mente, il latino “cogitare” corrisponde forse al nostro “rimuginare”, denota
un’elaborazione piuttosto faticosa del pensiero. “Cogitare” deriva da “cum agitare”, “agitare” è il
frequentativo di “agere” che significa mettere in moto, muovere, un movimento interiore,
un’elaborazione interiore del pensiero non un semplice percepire un pensiero effimero. Qui è proprio
un rimuginare, far affacciare alla mente, nel cuore, quello che si è compiuto di buono nella vita
passata, non è un semplice pensare ma riflettere meditando in maniera profonda. “Pius” si riferisce
alla pietas, cioè all’aver rispettato quei principi connessi all’antica devozione romana nei confronti
della persona amata, dei parenti, della patria, dei genitori. Uno forse si sarebbe aspettato al posto di
“esse” un “fuisse”, cioè “pensa di essere stato” però si potrebbe anche dire che la pietas scaturisce al
presente da tutte le benemerenze del passato, quindi l’infinito presente può avere anche questa
ragione, chiaro che “fuisse” nel verso non ci sta, ma diciamo che anche l’infinito presente ha la sua
ragione logica, essere pio in quanto in passato si sono compiute delle buone azioni, una sorta di
presente resultativo. Risulta al presente ciò che si è compiuto al passato. Nei versi 3 e 4 esplicita in
cosa consiste la pietas di Catullo, non era del tutto uno stinco di santo, era una persona buona e
ingenua, fanciullesca, ma regolare dal punto di vista dei precetti della tradizione. In che cosa consiste
la pietas che Catullo scopre dentro di sé? Lo dice in due frasi: nec sanctam uiolasse fidem, nec foedere
nullo dium ad fallendos numina abusum homines cioè “di non aver violato la santità della parola data
(ha sempre rispettato la fides, nei confronti di tutti ma specialmente nei confronti della donna amata)
– “uiolasse” è la forma ridotta di “violavisse”, infinito perfetto di violare, inoltre notate “sanctam
fidem”, la fidem è santa perché è sancita, consacrata, alla presenza degli dei, ricordatevi che “sanctus”
nasce come participio del verbo “sancire” che significa “stabilire solennemente”- e di non aver
abusato della volontà, della potenza degli dei in nessun patto per ingannare gli uomini” cioè Catullo
non ha mai spergiurato, ha invocato gli dei solo per rispetto della verità. Nel verso tre le parole chiave
sono “fidem” e “foedere”, la fides e il foedus sono parole chiave spesso presenti nella poesia di
Catullo. E’ presente una particolarità, una sorta di irregolarità linguistica. Infatti in latino è presente
il principio della duplex negatio adfirmatio, cioè la doppia negazione afferma, se dico “non ho visto
nessuno” abbiamo due negazioni “non” e “nessuno” per cui significa che ho visto qualcuno, in latino
dovrei dire “non ho visto alcuno” utilizzando “quemquam”, ma se utilizzo “neminem” significa che
qualcuno ho visto. Nell’utilizzo delle negazioni il latino è molto logico, razionale. Qui abbiamo
comunque due negazioni, “nec” e “nullo” che si rafforzano l’un l’altra, una piccola trasgressione della
norma, infatti verrebbe da leggere “nec foedere ullo”. “Nec foedere ullo” non è adatto perché si
creerebbe uno iato e non possiamo qui realizzare l’elisione, ma qualche volta specialmente nel
linguaggio colloquiale o in quello arcaizzante troviamo due negazioni che si rafforzano a vicenda.
“abusum” al verso 4 è “abusum esse” cioè l’infinito perfetto del verbo deponente “abutor”, che
significa “usare malamente”, quindi sarebbe “nec abusum esse numine dium ad fallendos homines”
cioè “ di non aver abusato della potenza degli dei per ingannare gli uomini”. “Abutor” come “utor”
regge l’ablativo, infatti qui abbiamo “numina”. Il “numen” è il cenno, il segno, che la divinità manda
agli uomini, è il sostantivo del verbo “nuo”, “nuo” significa “accennare”, dare un cenno a qualcuno.
Gli antichi romani erano sempre attenti a cogliere i segni, se gli dei fossero disposti o meno alla
collaborazione con gli uomini. I romani avevano paura degli dei per cui prima di imprese importanti
cercavano di capire se gli dei fossero neutrali, contrari o ben disposti attraverso pratiche di matrice
etrusca come l’aruspicina, appunto per scrutare un cenno, un segno degli dei. La parola ha una storia
particolare, indica appunto il segno che gli dei sono disposti a concedere all’uomo per vedere se sono
contrari o meno alle sue imprese. “Non ho cercato segni dagli dei per ingannare gli uomini” dice
sostanzialmente Catullo, il verbo “fallere” significa “ingannare”, dal verbo “fallo” deriva anche
l’antico participio che poi è diventato aggettivo “falsus”. “nullo foedere” significa “in nessun patto”,
Catullo non ha imbrogliato nessuno, non ha fatto patti falsi invocando gli dei. “Multa” e “gaudia”
formano un forte iperbato, ovvero una collocazione innaturale delle parole. Si potrebbe dire che il
“siqva” il primo verso sia la protasi del periodo ipotetico mentre “multa parata manent…” sia
l’apodosi di questo lunghissimo periodo ipotetico. Non vi è nessuna difficoltà perché il pensiero è
esposto chiaramente, non vi sono contorsioni nel periodo. Allora cosa dice: “allora se qualcuno ha
una qualche soddisfazione dall’essere stato pio, molte gioie restano procacciate da questo amore non
corrisposto per il resto della tua vita”. Spesso i neutri plurali latini diventano singolari in italiano, la
parola “gaudia” che è un neutro plurale, diventa “gioia” in italiano. In sardo “farra” che significa
“farina” è singolare ma nasce come neutro plurale, da far,farris. Il neutro latino tende molto verso un
concetto singolare. Le gioie di cui Catullo parla derivano dall’amore non corrisposto (ingratus, non
significa sgradito ma amore non corrisposto) “in longa aetate”, che non significa “per lungo tempo”
altrimenti avremmo un accusativo ma significa “per tutta la lunghezza della tua esistenza”, come se
Catullo vedesse l’insieme della propria esistenza, non vi è movimento ma l’immagine complessiva
della sua esistenza per questo è giustificato l’ablativo e non l’accusativo. Non significa “per lungo
tempo” che è un qualcosa di indeterminato, ma “per l’interezza della tua esistenza”, per quanto questa
sia lunga.

Al verso tre, io userei visto che c’è una virgola dopo fidem, le due cesure, cioè la tritemimere e la
eftemimere: nec sanctam (pausa) uiolasse fidem, (pausa) nec foedere nullo. Molti preferiscono una
pentemimere femminile ma non mi convince perché c’è la virgola, è meglio rispettare quando c’è un
segno di interpunzione così forte e far corrispondere la pausa con la virgola.

nam quaecumque homines bene cuiquam aut dicere possunt

aut facere, heac a te dictaque factaque sunt.

Omnia quae ingratae perierunt credita menti.

Qui finisce la prima sezione. Al verso sette tra “quaecumque” e “homines” abbiamo un’ elisione, tra
“cuiquam” e “aut” una sinalefe, “aut facere heac” un’altra elisione e un’altra ancora “omnia quae
ingratae”.

Traduzione:

infatti tutte le cose che gli uomini possono dire o fare di bene a qualcuno,

queste cose sono state da te dette e fatte.

Tutte cose che sono andate perdute, affidate a un animo irriconoscente.

Il verso sette è un verso reso pesante dai pronomi “quaecumque” e “cuiquam”, forme pronominali
ampie. C’è una sorta di ripresa, “quaecumque” si riferisce all’ heac del verso successivo e poi abbiamo
i verbi “dicere” e “facere” ripresi da “dicta” e “facta”, i participi. Ovviamente Catullo si riferisce a sé
stesso. Poi c’è una riflessione amara, tutte le buone azioni di Catullo non sono servite a nulla, sono
andate perdute (perierunt) affidante ad un animo (mens) irriconoscente. “Credita” è il participio di
“credo” e il suo significato originario è quello di “affidare”, pensate all’italiano creditore, io ho un
credito, qualcosa che ho affidato e posso riprendere quando lo desidero e in effetti questa è
l’etimologia più antica. Poi comincia la seconda sezione in cui Catullo cerca di esortare sé stesso a
liberarsi della situazione che lo sta uccidendo.

Quare iam te cur amplius excrucies?


quin tu animo offirmas atque istinc teque reducis,

et dis inuitis desinis esse miser?

difficile est longum subito deponere amorem,

difficile est, uerum hoc qua lubet efficias:

una salus haec est, hoc est tibi peruicendum,

hoc facias, siue id non pote siue pote.

“Quare cur te iam amplius excrucies?” è una disposizione delle parole possibile. “Quare iam te cur
amplius excrucies?” è una disposizione preferita da molti editori, perché altrimenti si va a creare uno
iato tra “iam” e “amplius” proprio dove c’è la cesura, cosa possibile ma non particolarmente raffinata.
Nella tradizione manoscritta è frequente il fenomeno di trovare le parole disposte in maniera
differente. Gli antichi memorizzavano una porzione di testo e poi la riportavano nella copia; qualche
volta in questo passaggio, le parole cambiano disposizione dall’originale alla copia.

Traduzione:

Perché dovresti tormentarti ancora?

Perché non ti fai forte nell’animo e non ti strappi da questa situazione

E non smetti di essere infelice contro il volere degli dei?

È difficile abbandonare improvvisamente un lungo amore,

è difficile, ma fallo in qualunque modo:

questa è l’unica salvezza, questo è ciò in cui devi trionfare

fallo sia che sia possibile o che non sia possibile.

C’è un’esortazione che Catullo fa a sé stesso per liberarsi da questa pena. “excrucies” è un
congiuntivo dubitativo, perché dovresti tormentarti di più? “Excruciare” è un verbo colloquiale che
troviamo spesso in Plauto ma non nella poesia successiva perché considerato troppo popolaresco.
“Excruciare” significa “mettere in croce”, c’è “crux” come radice. E’ una parola tipica del linguaggio
colloquiale, la poesia augustea l’ha bandita. Diciamo che in Catullo ci sta bene perché il tono è
abbastanza colloquiale. “Quin” significa “quid non”, la n finale tronca è la negazione, “perché
non…”. Il “tu” è particolare perché in latino i pronomi personali generalmente non vengono espressi
se non nei casi in cui si vuole dare enfasi, devi essere tu, proprio tu a reagire prima che lo facciano
gli dei. “Offirmare” significa “ob firmare”, opporsi, fermarsi contro, “ob” indica l’opposizione, è
l’invito a resistere contro questo dolore che lo tormenta. “Animo” potrebbe essere uno strumentale
in riferimento a uno sforzo interiore, spirituale, morale oppure un locativo “nell’animo”, io lo
intenderei più come uno strumentale, lo sforzo a cui si riferisce Catullo non è fisico ma interiore, non
è “corpore” ma “animo”. “Reducere” significa “tirarsi indietro”, “istinc” è un avverbio di moto da
luogo, “da questa situazione”, da questa condizione. Alcuni credono che “istinc” si riferisca a Lesbia,
cioè “non ti strappi, non ti liberi da lei”, è possibile però mi sembra forzato considerare “istinc” come
riferito a una persona, in genere ha valore locale, per cui direi “perché non ti strappi via da questa
situazione”. Al verso dodici è ripreso un concetto presente anche nel carme ottavo, “perché non smetti
di essere infelice contro il volere degli dei?”. “Dis inuitis” è un ablativo assoluto, sarebbe “contro il
volere degli dei”, “inuitis” è un aggettivo che noi definiamo predicativo che significa “contro il
volere”. Gli dei non vogliono perché Catullo è un pius, ha compiuto molte buone azioni, vogliono
che abbia una ricompensa per queste benemerenze. E’ un po’ una frase fatta come “grazie a Dio” che
può essere pronunciata anche da un ateo, è una di quelle espressioni avverbiali, cristallizzate che
spesso non hanno un riferimento diretto alla divinità. I versi tredici e quattordici presentano
un’epanafora, ovvero iniziano con la stessa parola, si distingue dall’anafora perché la ripetizione
avviene all’inizio del verso. E’ una forma colloquiale, denota un linguaggio dimesso non solenne.
Dal punto di vista della lettura abbiamo la prodelisione, la forma del verbo essere “est” si fonde con
l’aggettivo precedente, quindi si legge “difficil est”. In italiano utilizziamo il concetto di “troncare”
quando si tratta di porre fine a una relazione, invece gli antichi utilizzavano il verbo “deponere” che
significa mettere da parte, lasciar cadere, è diverso, è come un dismettere un abito. Cicerone nel “De
amicitia”, operetta filosofica tra le più fortunate e originali, parla oltre che dei vari tipi di amicizia
anche del modo in cui porre fine al rapporto. Le amicizie secondo Cicerone vanno scucite, utilizza il
verbo “desuere”, in maniera graduale e indolore bisogna allontanarsi dalla persona. Anche qua
Catullo non utilizza “troncare” ma “dismettere”, è molto delicata come figura. Notate l’iperbato
longum/amorem, l’aggettivo è abbastanza lontano dal sostantivp a cui si riferisce, ma la cosa più
interessante in questo verso è l’antitesi longum/subito, “longum” indica qualcosa che si estende a
lungo nel tempo mentre “subito” indica qualcosa d’istantaneo, un lungo amore che a d’un tratto
dev’essere abbandonato. “Efficias” è un congiuntivo esortativo, Catullo sta esortando sé stesso,
quindi non usa l’imperativo ma un congiuntivo esortativo che è molto più blando. “Qua lubet”
significa “a qualunque costo”. “Verum” è una congiunzione avversativa, significa “però”, “ma”. La
conclusione fornisce la ragione della necessità di porre fine al rapporto, questa è l’unica possibilità di
Catullo per salvarsi, è la sfida che bisogna vincere. “Unum” significa “uno solo” quindi “una salus”
indica “l’unica salvezza”. Al quindicesimo verso abbiamo un esametro spondaico, cioè il quinto
piede anzi che essere un dattilo puro come previsto dalla norma, è costituito da uno spondeo. Il verbo
“pervincere” significa non semplicemente “vincere”, infatti il “per” se utilizzato nella composizione
dei verbi, indica un’azione portata avanti fino al termine, quindi “vincere fino in fondo”, “arrivare al
trionfo”. Dal punto di vista grammaticale abbiamo una perifrastica passiva, dove “tibi” è il dativo
d’agente sarebbe “questo è da trionfare da te”, in italiano non traduciamo alla lettera per cui diciamo
“in questo tu devi trionfare”. Al verso sedici si riprende lo stesso concetto del verso quattordici, “fallo
sia che sia possibile sia che non sia possibile” o “fallo in qualunque modo”. C’è una varatio, al posto
del verbo “efficio” abbiamo il verbo semplice “facio” ma con lo stesso significato, quindi “hoc facio”
corrisponde a “hoc efficias”. A “qua lubet” corrisponde “siue id non pote siue pote”. Con il verso
sedici finisce la seconda sezione e ha inizio la parte eucologica, quella della preghiera. Lo stesso
schema delle preghiere pagane si ritrova nelle preghiere cristiane, la differenza sta nel rapporto con
la divinità. Il cristianesimo ha utilizzato le forme preesistenti.
o di, si uestrum est misereri, aut si quibus umquam

extremam iam ipsa in morte tulistis opem,

me miserum aspicite et, si uitam puriter egi,

eripite hanc pestem perniciemque mihi,

quae mihi subrepens imos ut torpor in artus

expulit ex omni pectore laetitias.

non iam illud quaero, contra me ut diliga tilla,

aut, quod non potis est, esse pudica uelit:

ipse ualere opto et taetrum hunc deponere morbum.

o di, reddite mi hoc pro pietate mea.

Traduzione:

o dei, se il vostro compito è avere pietà, o se mai a qualcuno avete portato l’estremo soccorso in punto
di morte,

volgete lo sguardo a me infelice, e se ho condotto la vita in maniera pura, strappatemi questa peste,

che insinuandosi come un torpore nella profondità delle membra,

ha cacciato via da tutto il mio cuore ogni gioia.

Io non chiedo più che essa ricambi il mio amore o pretenda di essere onesta:

io mi auguro di star bene e di liberarmi di questo morbo orribile.

O dei, concedetemi questo in cambio della mia pietas.

“o di”,Non sono nominati gli dei, è una divinità generica. “Si uestruem est misereri” sarebbe se è
vostro compito provare pietà, “misereo” significa sentire la stessa infelicità della persona che si
intende aiutare, è una forma di condivisione del dolore, in greco si chiama “sympatheia”. “Quibus” è
un indefinito come se fosse “aliquibus”, “o se mai a qualcuno avete portato l’estremo soccorso”,
Catullo si sente allo stremo, in fin di vita. Al verso diciotto “extremam opem”, l’aggettivo è all’inizio
del verso e il sostantivo a cui si riferisce alla fine, è un espediente che troviamo spesso nella poesia
elegiaca alessandrina che diventerà normale con Virgilio, Ovidio, Properzio. “iam ips in morte”
significa “ormai in punto di morte”. La lettura è particolare perché la i di “iam” è semivocalica o
consonantica, “iam” e “ipsa” realizzano una sinalefe, “iam” quasi scompare nella lettura, dovrebbe
essere “extremam ips in”. Essendoci una sinalefe secondo le regole dovrebbe essere “ipsa” anzi che
“iam ipsa”, ma è impossibile pensare che gli antichi facessero scomparire questa parola allora si
potrebbe leggerla “extremam iam ips in…”. Normalmente nell’eucologia non si utilizza il verbo
“aspicio” ma il verbo “respicio”, cioè gli dei quando volgono lo sguardo verso gli uomini “respiciunt”
non “aspiciunt”, usano un altro composto. Qui “Catullo” usa “aspicio” anzi che “respicio” per motivi
metrici. Se scrivessimo “me miserum respicite” non ci starebbe nel verso, sicuramente ha utilizzato
questo composto con “ad” anzi che con “re” per realizzare la sinalefe e far rientrare le espressioni nel
verso. “Puriter” significa puramente, onestamente. C’è un’anomalia dal punto di vista linguistico.
Con gli aggettivi della prima classe gli avverbi sono in -e, dovrebbe essere “pure” non “puriter”
mentre la formazione degli avverbi in -iter è tipica della seconda classe degli aggettivi, ad esempio
dulcis,dulciter, suavis,suaviter. Lui utilizza la formazione degli avverbi della seconda classe in un
aggettivo della prima classe, “puriter” è un arcaismo e lo ritroviamo in Plauto. La lingua delle
preghiere, la lingua sacrale, liturgica, si caratterizza per l’arcaismo, il linguaggio antico, perché la
liturgia utilizza un linguaggio fisso. Cicerone dice che spesso le preghiere che i sacerdoti rivolgevano
agli dei erano quasi incomprensibili. Non è strano quindi che Catullo utilizzi in questa preghiera un
linguaggio con una patina arcaica, fa parte dello stile della preghiera antica, per cui utilizza questa
forma che è migliore dal punto di vista metrico e rende il linguaggio più solenne, ricercato. “Pestem”
e “perniciem” sono due sinonimi, formano un’iterazione sinonimica, anche questo fa parte dello stile
delle preghiere. Inoltre vi è un nesso allitterante. Vi è una leggera distinzione tra i due termini,
“pernicies” fa riferimento alla letalità del morbo, del danno, si consideri che la parte centrale della
parola è come nex, necis che indica la morte. “Pernicies” è una rovina che può causare la morte, come
sta accadendo in questo caso a Catullo, Lesbia alla fine lo condurrà alla morte. E’ interessante questa
iterazione sinonimica allitterante perché è un tratto dell’eucologia antica. “Que” si riferisce a
“pestem” e “perniciem”, è un’alliterazione sinonomica per cui il concetto è lo stesso e viene riassunto
con un pronome relativo singolare “que”. Questa peste, questa rovina che “subrepens”, “subrepo”
significa strisciare di nascosto, insinuarsi di nascosto, “repere” significa “strisciare” mentre “sub”
indica sempre qualcosa di clandestino, di nascosto. Insinuandosi di nascosto con un torpore (ut torpor)
“in imos artus”, sarebbe “nelle profonde membra”, ma qui “imos” ha valore predicativo per cui non
“nelle profonde membra” ma “nella profondità nelle membra”. Questa malattia insinuandosi come
un cancro nella profondità delle membra ha cacciato dal tutto il mio cuore la gioia. “Laetitia” è diverso
dal “gaudia” precedentemente incontrato perché “gaudium” è una gioia intima mentre “laetitia” è la
gioia di vivere. Abbiamo un plurale perché non sta facendo riferimento a un unico momento di gioia
ma a tutti i momenti gioiosi che la vita può riservare, è un plurale di indeterminazione (laetitias). Si
può quindi tradurre come “gioia di vivere”. La preghiera finale è questa: “io non chiedo più – come
evidentemente ha fatto un tempo- che essa contraccambi il mio amore”- Catullo non ci spera più. Dal
punto di vista della prosodia abbiamo sempre “iam” e “illud” che realizzano la solita sinalefe. “Illud”
è prolettico della proposizione esplicativa che c’è dopo, introdotta da “ut”. “Contra” è un avverbio,
sarebbe “mi ami a sua volta”. “…oppure cosa che non è possibile (quod non potis est) voglia essere
pudica -il “pudor” è l’onore della persona, Lesbia ormai è una svergognata, Catullo non chiede più
questo perché non ci crede più, chiede agli dei di stare bene, ha smesso di chiedere che lei ricambi il
suo amore, vuole solo liberarsi del dolore – io stesso mi auguro di star bene e di liberarmi da questo
dolore che mi opprime”. “ego ipse” io stesso, “opto ualere” mi auguro di star bene. “Tetrum deponere
morbum”, significa “liberarmi da questa malattia deprimente”. “Teter” in latino ha la stessa radice di
“tedet” che fa riferimento al tedio, la nausea esistenziale. E’ una malattia che crea una stanchezza di
vivere. L’ultima evocazione finale: “o dei concedetemi questo in cambio della mia pietas”. Vorrei
farvi notare il fatto che “o di” si trova il verso diciassette ed è ripreso all’ultimo verso, mentre il
riferimento alla pietas riconduce al secondo verso, si può quindi parlare di composizione ad anello.
Da questo verso si evince chiaramente la concezione contrattualistica che c’è nel rapporto con gli dei,
dice “rendetemi questo in cambio di”, siamo nell’ambito del “facio ut facias”.

LEZIONE 8 (04/11/2020) Efisia Dessalvi

CARME LXXVII ( 7)

Questo carme è indirizzato ad un amico, probabilmente un amico che ha tentato di portargli via la
ragazza, cioè Lesbia. Lo chiama “mio amico, mio creduto amico”, c’era quindi un rapporto
abbastanza stretto tra i due. Potrebbe essere Marco Celio Rufo, personaggio noto perché difeso da
Cicerone in una celebre orazione (Pro Caelio)in cui Celio fu accusato da Lesbia ,con cui ebbe un
rapporto sentimentale, di averle rubato dei gioielli e di aver tentato di avvelenarla. Allora Cicerone
scrisse questa bellissima orazione, molto ironica e ci fa di Lesbia un quadretto tutt’altro che
lusinghiero, perché la tratta un po’ da meretrice, da persona poco seria. Infatti Rufio riuscì ad essere
assolto da queste accuse che prob. erano infondate. Quindi non è esclusa la corrispondenza, ossia
che il Rufo di cui si parla nel Carme 77 sia questo Marco Celio Rufio difeso da Cicerone.

Lettura metrica al minuto 02.34

Rvfe mihi frustra ac nequiquam credite amice

(frustra? Immo magno cum praetio atque malo),

sicine subrepsti mi, atque intestina perurens

ei misero eripuisti omnia nostra bona?

eripuisti, heu heu nostrae crudele uenenum

vitae, heu heu nostrae pestis amicitiae.

Epigramma molto breve ma molto intenso, si vede la sensibilità di Catullo per la lealtà degli amici,
per i tradimenti. Soffriva quando un amico, un conoscente gli faceva un qualche torto.

Traduzione letterale in italiano.

< O Rufo, creduto mio amico,invano e a vuoto,anzi con grande prezzo e con grande danno, così ti
sei insinuato e bruciandomi le viscere hai strappato ,me infelice e tutto il nostro bene( si..lo hai
strappato(te lo sei portato via!) aimè crudele veleno della nostra vita,peste e fragello della nostra
amicizia. >
Pochi distici che esprimono però rammarico e sofferenza per un amico che ha tentato di portar via
la donna a Catullo.

Rvfus: il nome si trova già in prima posizione, è un po’ il destinatario, come si fa in una lettera
(caro Rufo),quindi quasi un andamento epistolare. Ma gli rinfaccia subito la sua slealtà (frustra?
Immo magno cum praetio atque malo).

Creditus: participio di credere. Non ha solo il significato di “ritenuto amico da me” ma forse anche
“amico a cui a vuoto si è fatto affidamento”. Il verbo credere non significa solo -ritenere, reputare:
verbi arbitrari/opinari - come in italiano, ma nella sua origine semantica è-affidare qualcosa a
qualcuno-. Catullo fa affidamento su questo amico, ma l’esperienza gli fa capire che è stato un
amico sleale,”amico creduto invano”

Mihi: notare l’accostamento persona-pronome di 1 persona. Può essere inteso o come un possessivo
come una sorta di dativo d’agente “creduto amico da me/da parte mia”. Da ricordarsi che il dativo
d’agente non viene usato solo nella perifrastica passiva per indicare colui che compie l’azione, ma
spesso in latino, prosa o poesia, il dativo d’agente viene usato anche col participio passato o con
forme perifrastiche del Perfetto, forme passive come -laudatus sum/laudatus eram-. E qui abbiamo
la doppia possibilità di intenderlo o con valore di quasi possessivo, dativo etico, ma poi diventa
equivalente di un possessivo o proprio un dativo d’agente.

Frustra ac nequìquam= invano. Il rammarico, la delusione che Catullo prova è espresso


intensamente con questa coppia di avverbi. Essi indicano lo stesso concetto ossia quello di un
qualcosa avvenuto senza effetto, senza costrutto. Questo “nequiquam” lo troviamo in Lucrezio, il
quale era pantofobico,aveve paura di tutto, che crollasse il mondo da un momento all’altro, questo
mondo costituito da aggregato di atomi; egli aveva vivo il senso dell’organità, delle cose immani.
Troviamo questo avverbio “nequìquam” in Lucrezio in maniera impregnante, in questo senso di
vanità che esprimeva davanti a sé questa visione del mondo socastica ossia casuale
dell’aggregazione degli atomi. Questo avverbio è rimasto soprattutto poetico, lo troviamo
rarissimamente in prosa. Frustra e nequìquam sono sinonimi ma l’accostamento è voluto per
intensificare il concetto -proprio a vuoto, proprio inutilmente-. La stessa coppia la ritroviamo nelle
Metamorfosi di Aquileio dove non c’è differenza di significato, ma accostamento rafforzativo per
esprimere concetto di nullità, di vanità di azione compiuta.

La differenza tra frustra e nequìquam? Bisogna andare alla loro costituzione etimologica:

nequiquam>significa invano nel senso che un’azione compiuta non ha effetto, non viene realizzata.
Se uno fa un’azione -nequiquam-vuol dire che fa un’azione a vuoto, non ha nessun risultato,nessun
effetto

frustra>indica che l’effetto c’è, ma non è quello atteso,èun effetto diverso da quello che si sperava
di ottenere. Ha la stessa radice di *fraus,fraugare….come se venisse defraugato di far l’azione e
come risultato ne ottieni un altro.

Quindi non sono esattamente sinonimi, l’accostamento è rafforzativo. Ma queste differenze


verborum sono interessanti per capire il contesto in cui sono utilizzate, le differenze sottili.
Qua Catullo li accosta per far vedere l’inaffidabilità di questo amico. Nel senso che la sua speranza
di avere un amico leale è caduta totalmente a vuoto. Lo esprime con questi 2 avverbi: uno perchè
non ha avuto un amico, due perchè anziché avere amicizia, calore umano, solidarietà, ha cercato di
atteso.

(frusta? Immo magno cum praetio atque malo)>EPANORTOSI: prima utilizza l’avverbio
frustra, poi si corregge. E’ una figura retorica che corrisponde ad una rettifica del discorso, in greco
epanorqos significa raddrizzare, correggere; perché si corregge qualcosa detto con veemenza, con
impeto.

v.3 sicine subrepsti mi= così tu mi sei insinuato (come un serpente).

Surrepo lo abbiamo visto in un carme precedente col significato di “strisciare sotto sotto, di
nascosto”, quindi insinuarsi clandestinamente, subdolamente. Questo amico ha approfittato
dell’amicizia per fregargli la ragazza. Ecco perché usa il verbo subredere= si è insinuato in seno
come un serpente

Subrepsti: forma sincopata perché il perfetto di subrepo è subrepsi, subrepsisti. La metrica non può
accogliere la forma integra ed ecco la forma sincopata. Il registro di questo epigramma è
confidenziale, colloquiale, non ha la gravitas come un’elegia prudenziana o i Carmina Docta e
quindi Catullo si può permettere di usare forme parlate e colloquiali.

Sicine: sic +ne interrogativo. NB: da non confondere il ne-negazione col ne-interrogativo. Il ne-
negazione non è mai enclitico mentre il ne-interrogativo è sempre enclitico.

Se devo dire “Sei a casa?” dirò” Es-ne domi? Questo -ne funge quasi da interpunzione, punto
interrogativo; cioè ha la funzione di preparare l’ascoltatore ad una domanda (come gli Spagnoli che
mettono prima il punto interrogativo per preparare all’ascolto).

Ma perché è così ampia questa forma? Bisogna partire dal SIC= sii +ce ossia la stessa che troviamo
in ECCE, ISTICE, ILLICE (come in italiano lì, là). Sono antichi avverbi dimostrativi di luogo
(quello lì, quello là) che aiutano ad indicare la persona a cui si sta riferendo.

Catullo quando aggiunge l’enclitica-ne a sic ripristina la forma originale SICENE, perché la forma
sicne nel verso non ci sarebbe stata: ovviamente questa e breve in virtù dell’apofonia latina essendo
attica e, in forza dell’accento che si trova nella prima sillaba, fa diventare la i breve tipica del
latino: quindi da SICENE >SICINE. È la stessa cosa di facio > ficio.

Inoltre Illice > illic per troncamento; istice > istic per troncamento.

Anche in italiano l’accento ci fa mangiare le parole,oppure in dialetti meridionali si comprimono


alcune vocali (Napule) > forte accento iniziale sulla a che strascica la e breve e la fa diventare un
residuo vocalico. Questo è chiaro nelle lingue semitiche dove nel corso della flessione lo sva
subisce la forza dell’accento che lo comprime e schiaccia, tantochè in alcuni casi lo sva neppure si
pronuncia, si fa direttamente la sincope. Sono fenomeni che noi troviamo anche in altre famiglie
linguistiche, ma se pur l’uomo parla lingue diverse, è uguale dappertutto: ha le stesse tendenze, le
stesse esigenze, comportamenti linguistici tanto da essere UNIVERSALI LINGUISTICI come si
dice in glottologia.
Mi=forma contratta per mihi, dativo della forma ego in prima persona. Abbiamo un’elisione perché
cade nel verso proprio dove dovremo prendere fiato,dove c’è la cesura. Potrebbe anche essere mihi,
che va bene lo stesso, non cambia nulla. Ma Catullo usa spesso le elisioni nelle cesure perché lì il
ritmo si ferma e nelle cesure ci si può mettere qualche irregolarità ritmica.

Nel Traina la versione è MEI e non Mi ma non cambia nulla perché ei è dittongo e vale sillaba
lunga. È una scelta grafica di Traina.

“Così mi ti sei insinuato e bruciandomi le viscere”: le viscere sono gli intestini: per gli antichi le
viscere sono sedi di sentimenti forti. Ma in latino -intestinus- non ha sempre valore di viscere, ma
qualcosa di interno: intus =dentro tanto che si dice -bella intestina-ossia guerre interne, tra
concittadini, fratelli. In italiano ha assunto l’accezione anatomica che conosciamo.

Qua non dice “bruciandomi l’intestino” ma “bruciandomi le viscere” ossia la parte più profonda di
noi, sede dei sentimenti, del cuore.

v.4 “Hai strappato tutto il nostro bene” nostra: plurale collettivo con riferimento a Lesbia, è un
plurale modestiae = tutto il mio bene

“ ah me misero ( al dativo),strappato a me infelice, tutto il mio bene”

Questo ei al v.4 è una congettura del Lachmann (vedi nota nel testo) che è il padre della filologia
moderna, perché altre versioni come il Veronensis hanno “sihi” oppure “sic” ma non hanno senso.
Lachmann pensa ad ei per confusione del copista quindi confusione paleografica

“ei”=esclamazione comune= aimè, ahi povero me!

Poi in una sorta di EPANAFORA riprende al verso 5 successivo “eripuisti”: “me la hai portata via,
mi hai portato via tutto!” per rimarcare l’accusa.

Ci sono queste esclamazioni del poeta “heu heu” che rimarcano le sofferenze del poeta.

v.5 “ ahimè crudele veleno della mia vita” in realtà nostra per plurale modestiae.

Da notare tra v.5 e v.6 nostrae……….uitae> ENJEBEMENT o INARCAMENTO AD EFFETTO :


non è dato da difficoltà espressive ma è un tratto di eleganza stilistica molto marcato. I poeti
raffinati lo usano bene soprattutto quando il nesso è chiaro: attributo al v.5 e nome al v.6, è una
sorta di iperbato voluto, tutto molto raffinato, spesso in Virgilio. Chi ha familiarità con questi
schemi latini, riesce a godere di questo espediente stilistico molto raffinato.

v.6 ripete “heu heu pestis” anche questa è una congettura: i manoscritti hanno pectus: sarebbe cioè
tradotto” cuore/petto della nostra amicizia” che però non ha molto senso. I commentatori hanno
cercato di giustificare nel senso che Rufo era il cuore dell’amicizia di Catullo, ma sono tentativi
disperati di difendere un testo che non funziona. Il testo va conservato sempre se il senso è
perspicuo, ma se deve fare voli pindarici per giustificare una lezione dei codici che non funziona, è
inutile arrabbattarsi e conviene cercare un’altra soluzione.

La soluzione più coerente è quella del Guarinus Veronese (uno dei primi umanisti, uomo molto
raffinato in esegesi dei classici) “pestis in vece di pectus”. Tenete conto che in Paleografia la c e la s
si confondono, come pure la i e la u a volte c’è solo un trattino in più o in meno. Si dà quindi
giustificazione in termini paleografici e si intende benissimo.

“ahimè flagello della nostra amicizia”, ci sarebbe un parallellismo che convince tra il”uenerum
crudele nostrae e pestis amicitiae. La scienza, anche quella filologica va avanti attraverso il
confronto delle diverse opinioni, non c’è il maestro che dice tutto definitivamente. Molte teorie
vengono accreditate quando un maestro è ancora in vita, quando muore comincia la revisione della
sua dottrina. vedi il Wilamowitz.

Alain le Chantraine (?) sul carme 77: “pectus amicitiae” quasi come se il poeta dopo aver declamato
“Ahimè crudele veleno della mia vita” aggiungesse “ohimè anima della mia amicizia” per
rimpiangerne la perdita irreparabile.

La volgata “pestis”, correzione paleografica semplicissima, conviene tuttavia alla progressione del
pensiero che dipinge via via di un colore più acceso l’infamia del tradimento. Chantraine mette in
relazione pestilentia e pestis venenum anche nel carme 44.

CARME LXXIII (78)

Gallus habet frates,quorum est lepidissima coniunx

alterius,lepidus filius alterius.

Gallus homo est bellus: nam dulces iungit amores,

cum puero ut bello bella puella cubet.

Gallus homo est stultus, nec se videtesse maritum,

qui patruus patrui monstret adulterium.

Lettura in metrica al minuto 35:00 circa

Traduzione. Gallus ha tre fratelli, dei quali la moglie di uno è graziosissima, e il figlio di un altro è
grazioso.

Gallus è un uomo di mondo: infatti favorisce le dolci relazioni amorose, tanto che una bella ragazza
va a letto con un bel ragazzo.

Gallus è un uomo stupido e non si accorge di essere anche lui un marito, da zio insegna a mettere le
corna ad uno zio.

Il protagonista di questo carme è Gallo, di cui non sappiamo nulla, neppure se Gallo è il suo nome o
l’origine. questo epigramma è piuttosto scherzoso, ripete il nome in tutti i distici, piuttosto
pungente. Prende in giro questo personaggio che è condiscendente verso una marachella di un
nipote che sta tentando la moglie del fratello, quindi di sua cognata. Catullo dice _stai attento!
Perché sei anche tu uno zio ed è pericoloso insegnare agli altri a mettere le corna agli zii.

Epigramma interessante non per la storia, quasi una barzelletta, ma perché questo tipo di epigramma
lo troveremo poi in Marziale. Quest’ultimo ha scritto tanti libri di epigrammi, siamo in età dei flavi,
dal punto di vista formale è stato quello che lo ha perfezionato al meglio: è infatti uno dei modelli
degli umanisti che hanno coltivato in modo particolare l’epigramma. Gli umanisti erano spesso
impegnati nelle cancellerie al seguito dei potenti, quindi non potevano occuparsi di poemi epici(
Petrarca con Africa è un’eccezione), ma poemi brevi nei ritagli di tempo della loro attività. E
avevano preso Marziale come esempio. Marziale dal punto formale è molto raffinato, gli altri hanno
lo stesso tenore delle barzellette di Gino Bramieri.

Quindi ritornando a Gallus: l’aneddoto è che favorisca la tresca tra un nipote e la cognata e non si
accorge che egli stesso è uno zio e quindi che ci può essere un nipote che fa lo stesso con la moglie!
È una freddura tipica di questi epigrammi pungenti.

Vedete GALLUS ripetuto 3 v >è una triplice anafora. C’ è poi un gioco di parole: al v 1
lepidissima, al v 2 lepidus, al v 3 bellus, al v 4 bello-bella.

V1: dal punto di vista metrico- quorum est- fa elisione > quorumst si fonde come in una crasi.

V 2: Lepidus: grazioso, raffinato, persona aggraziata, da lepos= grazia, arguzia. Si riferisce non alla
bellezza fisica, quanto a temperamento, raffinamento.

Dal punto di vista metrico alterìus si legge altèrius perché la -i- è breve.

Dal punto di grammaticale: alcuni aggettivi seguono la flessione pronominale per cui hanno la
desinenza in -ius al gen sing, il dativo in -i. tra questi aggettivi figura alter, altera,alterum che pur
essendo della 1 classe al genitivo singolare fanno alterius come qui, quae, quod che fa cuius.

Dal punto di vista prosodico alterius ha la -i- lunga, ma qualche volta in poesia si abbrevia per
necessità metrica.

2 distico:” Gallo è un uomo di mondo”> est bellus non si può tradurre bello, forse un uomo che ci
sa fare. Per capire cosa significa questo aggettivo si fa riferimento ad un epigramma di Marziale (3
libro epigr 63). Premetto che bellus è un diminutivo dell’aggettivo bonus, non corrisponde al nostro
bello, può indicare che è carino, che è capace, bravo, ma non bellezza fisica.

Marziale in q epigramma(63) parla di un certo Cotilo che definisce “bellus homo est”

“Sono in molti Cotilo, a dire che tu sei un homo bellus,

lo sento dire: ma che cos’è, spiegami, un homo bellus?

Homo bellus è uno che si acconcia per bene i riccioli della chioma,

che sa di balsamo, di cinnamomo (=profumo),


uno che intona sottovoce cazoni del Nilo e di Cades (lascive!)

uno che muove secondo varie cadenze le braccia depilate,

uno che sta seduto l’intera giornata tra le poltrone delle donne,

e bisbiglia sempre qualcosa alle loro orecchie,

che riceve biglietti da tutte le parti e ne scrive,

uno che schiva di venire a contatto col gomito/mantello del vicino,

sa chi ama ciascuno, che corre da un banchetto all’altro

che sa a memoria l’albero genealogico del cavallo Irpino

Ma che dici? E’ questo? E’ proprio questo Cotilo, homo bellus?

E’ un essere complicato, Cotilus homo bellus “

Quindi “homo bellus” non indica la bellezza fisica, ma un saperci fare, un uomo di mondo, nel 1700
si direbbe un Cicisbeo che si occupa delle trame amorose dell’uno o dell’altro.

V3 Gallo uomo di mondo, infatti congiunge dolci amori> cioè favorisce piacevoi legami amorosi:

v 5 segue una proposizione consecutiva: “cum puero ut bello bella puella cubet” ossia tantochè una
ragazza carina va a letto con un ragazzo carino

v6 Gallo è un uomo stolto/stupido, “nec se videt esse maritum”= non si accorge di essere lui stesso
un marito

v6 lui, che essendo uno zio (patruus), insegna l’adulterio ad uno zio.

V4: poliptoto ossia lo stesso termine viene accostato in caso diverso.

Ricordate che in linguaggio amatorio puer puella indicano i due amanti, la donna/uomo amati:
Lesbia è chiamata puella, ma non è una ragazza, anzi è abbastanza matura. Puer = amante

Bellus bella indicano la frivolezza, non soltanto che ci sanno fare, persone che prendono la
storiad’amore con leggerezza.

V5 nec = et non: ha una leggera sfumatura causale perché spiega la stoltezza di Gallus (ossia=
stupido) >” poiché no si accorge di essere marito”. Spesso la PARATASSI, tipica nel linguaggio
colloquiale in commedia plautina, dev’essere interpretata in senso IPOTATTICO, quindi questo nec
è come se fosse e quia non = poiché non

Domanda: l’ultimo distico può essere un PTOSTOCHRIYON ? No, piuttosto una POINTE ossia
punta, tipica dei carmi, stoccata finale che è sempre un po’ imprevista come la ptostochriyon (che è
più costruita),la pointe =punta è sempre imprevista, battuta finale.
V 6 POLIPTOTO patrus (al nominativo) e patrui (al genitivo) patrus è lo zio paterno, con valore
predicativo= in qualità di zio. Inoltre troviamo una proposizione relativa col congiuntivo, relativa
impropia col valore causale(perché insegna)

CARME LXXVIIIb ( 78b)

* * * * * *

sed nunc id doleo, quod purae pura puellae

suauia comminxit spurca saliua tua.

uerum id non impune feres:nam te omnia saecla

noscent et,qui sis,fama loquetur anus:

Ma ora io di questo mi dolgo, il fatto che la tua sporca saliva

ha insozzato i baci puri di una pura fanciulla.

Ma non la passerai liscia (lett. Non lo sopporterai impunemente)

Infatti tutte le generazioniti conosceranno e un’antica fama

dirà chi tu sia.

È chiamato 78b perché nei manoscritti è attaccato al precedente, ma il contenuto non ha niente a che
fare col precedente in cui c’è una pointe finale.

Lo Scaligero(=umanista) ha pensato che per errore questo carme è stato attaccato al precedente.

È stato chiamato 78b (e non 79) per non turbare la numerazione tradizionale. E’ probabile manchino
dei versi (2 o 4, un distico o due); Catullo nei versi saltati magari si lagnava di un personaggio, del
suo modo di fare, del suo comportamento che non possiamo ricostruire: gli ASTERISCHI in
filologia indicano una lacuna di entità imprecisata. Quando in un manoscritto c’è una parte che
manca e quasi la certezza che manca, mettiamo gli asterischi (in genere 3 o anche di più).

I segni diacritici più importanti sono:

*** asterischi per parti mancanti

< > parentesi uncinate per integrazione di parola o parte di parola che i manoscritti non recano
perché bisogna aggiungere per esigenze metriche o di tipo logico
[ ] parentesi quadre per quello che si deve espungere, qualcosa che si è aggiunto indebitamente
durante la trasmissione del testo, del manoscritto

+ Crux desperationis: quando il testo non funziona, non c’è una lacuna visibile e non sappiamo
come funzioni il testo, si mette la crux per dire che il testo è guasto, non si capisce per quale
motivo (lacuna o altro) e non si riesce a sanarlo. E una ammissione di impotenza di un filologo
davanti ad un testo che oggettivamente non funziona (ma non perché non si capisce il latino o
proprio per ignoranza)

Bisogna però andare cauti con questi segni diacritici.

Nel carme 78b Catullo si sta lamentando di questo personaggio che in pratica insozza la purezza di
una ragazza. All’inizio Catullo si duole di qualcosa che non riusciamo a ricostruire, ma il fatto che
ci sia un sed avversativo significa che questo pensiero si contrappone a qualcosa già espresso e non
ricostruibile.

V 1 id è un prolettico del quod dichiarativo che c’è dopo “di questo io mi dolgo…….cioè del fatto
che)

Quod dichiarativo, non pronome relativo neutro,”di ciò= del fatto che”

Purae pura POLIPTOTO

Pura si riferisce a suauia del v2, purae a puellae> sembra quasi una sorta di PLEASMO.

ricordate che puella nel linguaggio amoroso significa amante.

Inoltre presente ALLITERAZIONE purae pura puella ossia sillaba “pu” per 3 volte.

Ricordate la differenza tra alliterazione e omeoarto.

Alliterazione è quando sono accostate 2 parole che cominciano con lo stesso suono.

Omeoarto quando cominciano con la stessa sillaba, è più specifico dell’alliterazione e la


comprende.

V2 suauia dal punto di vista metrico la -u- è semiconsonante quindi in questa parola lunga breve
breve.

In latino ci sono 3 parole per indicare i baci, con dettagli e differenze.

1-comune/generico osculum diminutivo di os-oris=bocca. Scritto come boccuccia ossia


procedimento con cui si dà il bacio, stringendo le labbra. In tedesco letterario bacio si dice

”moiscin” da maul che significa muso.

Quindi bacio come musetto e infatti il verbo osculare= baciare in senso generico.

2- basium/basia termine di origine celtica col significato di bacio appassionato: un genitore non
darà ai figli basia, ma oscula. I basia sono quelli degli amanti.
3-savia/suavia ossia baci casti, rispettosi, affettuosi che un nonno dà ai nipoti o un fidanzato dà
alla fidanzata con affetto.

Qui siccome sono baci di una ragazza pura non possono essere basia, ma suavia per indicare i baci
affettuosi(metricamente ci stava bene pure basia o osculum): Catullo ha scelto savia per mettere in
evidenza la purezza.

Purus in senso morale significa ingenuità. Purus deriva dal greco pur- puros che significa fuoco,
perché col fuoco si disinfettavano le cose( si cauterizzava la ferita col fuoco). Qua indica l’integrità
della ragazza, anche ingenuità. Si contrappone la purezza di quella ragazza con la saliva sporca di
questo personaggio.

V2 comminxit= insozzato ma propriamente significa “orinare”. C’è un carme 39 dove si parla di un


certo Egnatius che veniva dalla Penisola Iberica e secondo una consuetudine del suo paese usava
un dentifricio/sbiancante a base di urina. E Catullo lo prende in giro” Cosa ridi con la bocca lavata
con l’urina!”

>Ipotesi Piras: magari qui si può far riferimento allo stesso Egnatius che usa questo sbiancante. Il
carme 78 parla di un Gallo (che abbiamo detto non sappiamo se sia un nome o proveniente da
Penisola Iberica),quindi è possibile che questi due carmi siano stati uniti, perché è lo stesso
soggetto, dalla tradizione manoscritta.

V3 verum solita congiunzione avversativa ma, tuttavia

Feres futuro = non porterai impunemente ciò( questa colpa)

da notare il parallelismo al V1 sed nunc id

V2 verum id stesso stilema

Perché la passerai liscia? Non perché io ti possa fare del male, ma perché ti circonderai di una fama
che ti bollerà a fuoco per tutta la vita e per tutta la storia. Ossia tutte le generazioni ti conosceranno

V3 saecla non secoli(100 anni) ma generazioni degli uomini. Probabilmente saecula si riconnette al
verbo senere = seminare, quindi la seminagione degli uomini.

Saecla = forma sincopata per saecula

V4 fama diceria, può essere buona o cattiva. E’ vox media, deriva da fhmi| ossia quello che si dice
di qualcuno, qua si dirà male. La fama è antica perché si perpetuerà.

Anus di per sé è un sostantivo(=vecchietto), qui si usa come aggettivo e lo concorda con fama,
quasi una personificazione. Virgilio nel 4 libro dell’Eneide mette una personificazione che si diverte
a esaltare o screditare gli uomini. E qui Catullo cerca di personificare la fama secondo una
tradizione ben nota.

Non dice “quis sis” ma dice “ qui sis”

Ci sono in latino 2 pronomi interrogativi:

quis-quid che indica l’identità


quid-quae-quod interrogativo che indica la qualità.

Catullo non dice “chi tu sia”, ma dice “che razza di uomo sei” in riferimento alla qualità.

Si potrebbe pensare ad una APLOGRAFIA dei manoscritti e quis sis è diventato quisis, ma lo
abbiamo così ed è più espressiva.

Loquetur= parlerà, qua meglio racconterà.

LEZIONE 9 (05//11/2020) Maria Laura Scifo

Carme 79

Un carme molto interessante, ma anche problematico che dobbiamo cercare di interpretare nella
maniera più corretta. E come vedremo ci sono diverse interpretazioni. Qui compare come protagonista
Lesbia, poi abbiamo ovviamente Catullo al verso 2 e 3 e poi questo personaggio che non riusciamo
bene ad identificare, che viene da Catullo nascosto con lo pseudonimo di Lesbius. Cerchiamo di
leggerlo e poi lo traduciamo e vediamo quali interpretazioni si possono dare di questo testo.

Lesbius est pulcer. quid ni? quem Lesbia malit


quam te cum tota gente, Catulle, tua.
sed tamen hic pulcer vendat cum gente Catullum,
si tria natorum suavia reppererit.

Allora traduciamo un po’ e vediamo cosa significa. Dice “Lesbio è belloccio, bello e come no? Lesbia
lo preferirebbe a te o Catullo insieme a tutta la tua stirpe, a tutta la tua gente, ma tuttavia questo
belloccio, venda pure come schiavo Catullo insieme alla sua gente se troverà (letteralmente) tre baci
di conoscenti” cioè se troverà tre conoscenti, tre persone che lo conoscono bene, disposte a baciarlo.
Appunto perché è una persona spregevole.

Lesbius: Il problema che si pone nella identificazione di questo Lesbius è duplice. Allora, noi
sappiamo che Clodia, Lesbia, aveva un fratello abbastanza noto a chi si occupa di storia romana, che
era appunto Clodio Pulcro, quel tribuno della plebe che fu ucciso da Milone e Cicerone difese Milone
per questo omicidio. Tenete conto che Cicerone aveva avuto dei danni da Clodio perché era stato
praticamente mandato in esilio per il suo intervento. Gli era stata anche confiscata la casa, la casa era
stata rasa al suolo e avevano fatto una specie di piazzetta, una statua dedicata alla libertà. Quindi
insomma, Cicerone aveva molti motivi per avercela contro il fratello di Clodia. Quindi la maggior
parte dei commentatori dice che se Lesbia è Clodia, Lesbius è Clodio.

Pulcer: Oltretutto, questo pulcher che troviamo qua nella grafia Pulcer, faceva anche parte del nome
della famiglia, perché era appunto Publio Clodio Pulcro. A quanto pare era una famiglia di belle
persone fisicamente, addirittura nelle fonti descrivono questo fratello di Clodia con dei lineamenti
molto molto sottili, molto fini, quasi femminili, un bel ragazzo. Il problema era che questo ragazzo
era un facinoroso però forse anche un po’ matto. Come tutta la famiglia dei Clodi aveva qualche
rotella fuori posto ed era diventato un personaggio ingestibile e abbastanza pericoloso. E allora molti
dicono “sicuramente dietro questo Lesbio c’è il fratello di Clodia”. Il problema qual è? Il problema è
che il Carme fa capire che in sostanza il fratello se la intende con la sorella in una specie di rapporto
incestuoso e vengono addotte alcune fonti a sostegno di questa diceria, secondo cui Clodia se la
sarebbe fatta anche con il fratello. In particolare, mi riferisco alla Pro Caelio, questa orazione di cui
abbiamo parlato ieri. Sapete che Caelio Rufo era stato amante di Lesbia e poi Lesbia/Clodia lo aveva
accusato in sostanza di averle rubato dei gioielli e di aver tentato di avvelenarla e quindi il rapporto
si era chiuso in modo abbastanza drammatico. Nel discorso di difesa, Cicerone fa allusione a questa
diceria del rapporto incestuoso tra Clodio e la sorella. Vi cito un passo del capitolo XIII della Pro
Caelio dove dice “Se liquidata costei (cioè liquidata la testimonianza di Clodia) nulla rimanga in piedi
né dell’accusa né dei mezzi a cui si appoggia, che altro dovremmo fare noi avvocati di Caelio, se non
respingere chi ci aggredisce? Ed io lo farei anche con maggior violenza, se non mi trattenesse la mia
inimicizia col marito ehm… volevo dire col fratello. Faccio sempre lo stesso errore.” E’ chiaro che
qui non è un errore. Cicerone volutamente finge di fare questo errore, chiamando il fratello di Clodia
marito, appunto in riferimento a questa diceria del rapporto incestuoso.

Poi ancora nel capitolo 15 della stessa orazione, Cicerone dice “Prenderò invece qualcuno di questi
(testimoni) e precisamente il tuo fratello minore, (quindi appunto Clodio) che in questa materia è così
pieno di garbo, che ti ama più di ogni altro e che non so per quale timidezza vani terrori notturni, ha
sempre usato dormire con te, come un fanciullo con la sorella maggiore”. E anche questo passo
appunto, è stato addotto dai critici per confermare il fatto che tra Lesbia-Clodia e il fratello ci fosse
un rapporto di tipo incestuoso, probabilmente è soltanto una diceria. Noi sappiamo che Clodia era
affezionata sinceramente al fratello, senza per forza pensare ad un rapporto di tipo incestuoso. Però
poi sapete le male lingue poi infiorettano queste cose e presentano nella maniera più truce la
situazione. Però al di là di queste testimonianze che sembrano anche convincenti, a me non convince.
Cioè, Catullo secondo voi poteva essere geloso del fratello di Clodia di cui si diceva… mah, a me
sembra veramente un po’ caricata tutta la situazione. E allora, mi sembra più convincente la soluzione
di un critico tedesco, che si chiama Kroll, che ha scritto un bellissimo commento in tedesco ai carmi
di Catullo, e Kroll appunto pensa ad un’altra persona, non a Publio Clodio Pulcro, fratello di Lesbia.
E questa persona sarebbe un certo Sesto Clodio oppure Sesto Lelio, secondo i manoscritti, il quale
era lontano parente di Clodia con cui avrebbe avuto una relazione. Ce ne parla Cicerone nella orazione
Pro Domo Sua, la ricorderete l’ho detto prima, che quando Cicerone fu mandato in esilio da Clodio,
gli fu confiscata la casa e poi venne rasa al suolo. Quindi, quando Cicerone tornò poi dall’esilio
ovviamente pretese la restituzione di quel terreno per potersi ricostruire la casa. E ad un certo punto,
lui, in questo discorso, parlando appunto di Clodio, fa riferimento a un uomo chiamato sozzissimo
pappone, degustatore delle tue libidini. “Un uomo tanto spiantato quanto facinoroso, un membro della
tua razza. Sesto Clelio o Sesto Clodio, (dipende dai codici) uno che con la sua lingua è riuscito a
staccare da te persino tua sorella.” Quindi con riferimento ad un rapporto amoroso tra questo Sesto
Clelio o Sesto Clodio e Clodia. Ecco, secondo me si pensasse a questo personaggio anziché al fratello,
forse le cose funzionerebbero meglio. Perché francamente questa gelosia di Catullo nei confronti del
fratello presuppone che lui desse credito a questa diceria malevola tra i due, ma secondo me senza
fondamento. Mi sembra una cosa poco verosimile… non so. Voi pensate a un fidanzato e una
fidanzata, è improbabile che il fidanzato pensi ad un presunto rapporto incestuoso della fidanzata col
fratello. Mi sembra veramente una cosa un po’ forzata. Mentre mi sembra più ragionevole, più
verosimile pensare ad un altro personaggio, sempre della famiglia dei Clodi o perlomeno come dice
Cicerone ‘socius sanguinis’, quindi imparentato comunque con la famiglia, che poteva anche aver
avuto una relazione con questa bella donna che era Clodia. Io credo che le cose funzioni meglio così,
non so se vi convince, ma tutto sommato mi sembra una buona soluzione.

Gente: Il riferimento alla gens, la gens è di Catullo, nel senso che: Lesbia preferirebbe questo Sesto
Clodio/Clelio a Catullo insieme a tutta la sua gente. Non tanto alla gens di Clodia. Comunque lo
commentiamo bene così cerchiamo di capire.

Lesbius-Lesbia: Notate qui ovviamente il gioco di parole Lesbius-Lesbia, va benissimo. Se Lesbia


può essere Clodia, Lesbio può essere Clodio, ma non necessariamente il fratello. E tale, come vi
dicevo, è anche il gioco di parole con pulcer, visto che i Clodi erano Pulchri. Poi dice:

Quid ni? ‘E come no?’ quem Lesbia lo preferirebbe a te Catullo insieme a tutta la tua stirpe. Quindi
diciamo che nel piatto della bilancia, in un piatto c’è appunto questo Lesbius, nell’altro piatto c’è
Catullo con tutta la sua stirpe e diciamo che Catullo con tutta la sua stirpe non compensa il peso che
questo personaggio avrebbe nel cuore di Lesbia. Questo è il riferimento alla gens se ho risposto bene
alla domanda.

sed tamen hic pulcer vendat cum gente Catullum. Tuttavia -dice- questo belloccio (traduciamolo
così) venda pure come schiavi

vendat: è un congiuntivo concessivo, perché qui questo vendat è usato come nella vendita degli
schiavi. Troviamo un’espressione simile anche in Seneca nell’Apokolokyntosis, si vede che era
un’espressione proverbiale, un’espressione piuttosto usuale.) Quindi, questo belloccio venda Catullo
insieme alla sua stirpe, renda schiavi Catullo insieme a tutta la sua famiglia, se questo Lesbius, questo
Clodio, avrà trovato tre baci di persone che lo baciano, cioè tre persone che riescono a stimarlo, dal
momento che questo Lesbio evidentemente è ritenuto un personaggio spregevole.

Reppererit: al verso 4, attenzione: è un futuro anteriore “se avrà trovato tre baci di conoscenti”.

Notorum: sono persone che lo conoscono, noti.

Suavia: sono baci che indicano rispetto, stima. In sostanza, se avrà trovato tre conoscenti che lo
stimano che sono disposti a baciarlo, non li troverà e dimostra la spregevolezza del personaggio.

Quindi vedete, è un epigramma molto breve, anche un molto oscuro per alcuni aspetti, però diciamo:
linguisticamente è tranquillo, non c’è nessun tipo di difficoltà.

A. mi chiede ripetere velocemente i tre termini latini per indicare i baci. Allora, il termine più comune,
quello che indica un bacio neutro, è osculum e abbiamo detto che l’etimologia è perspicua perché
osculum, da un punto di vista della struttura parola, è il diminutivo di os, oris bocca perché quando
uno bacio che cosa fa: tende le labbra e fa una boccuccia, quindi osculum propriamente significa
boccuccia. Però indica un bacio generico, può essere un bacio affettuoso, un bacio passionale, un
bacio come dire anche senza affetto, come può essere quello di Giuda con Gesù. Poi abbiamo il
termine basium, che è un termine celtico introdotto probabilmente da Catullo che era di quella zona.
Sapete che Catullo era di Verona, quindi era nella Gallia Cisalpina. È probabile che abbia usato un
vocabolo celtico a lui noto, familiare, di quell’area della pianura padana dove abitavano appunto i
celti. Invece la terza parola per indicare il bacio è savium o suavium con quella ‘u’ semiconsonantica,
che indica un bacio in genere di rispetto, come può essere il bacio per esempio del nonno ai nipotini,
del genitore ai figli. Può indicare anche il bacio di un’amante, però non è mai un bacio passionale
come basium, che invece è il bacio erotico, quello potente. Suavia è un bacio affettuoso, ma non
necessariamente passionale. Quindi utilizzare savia o suavia fa riferimento a baci di persone che
dovrebbero stimarlo e invece lo ritengono spregevole.

Carme 80

Se siamo d’accordo possiamo andare al carme successivo, che vi dico subito mi mette un po’ in
imbarazzo perché è un carme un po’ pornografico. Vi dico chiaramente che mi sono messo qualche
problema se trattarlo con voi oppure no. Io avendo quasi sessant’anni ho una formazione un po’
puritana, per cui certi argomenti un po’ mi imbarazzano. Poi mi sono detto, ma siamo tutte persone
adulte e saltarlo sarebbe come una forma di lacuna perché, nonostante il contenuto osceno che non
chiederò all’esame, quindi state tranquilli, non lo chiederò all’esame, è un po’ tipico di certa poesia
epigrammatica. Si trovano temi di questo tipo nell’antologia palatina, nell’epigrammatica greca e un
po’ anche negli epigrammi di Catullo e di Marziale, quindi al di là del contenuto è anche uno specimen
dei temi che l’epigrammatica antica trattava. Ci sono cose che fanno oggettivamente schifo, però
prendiamole da persone mature, adulte e commentiamolo nel modo più asettico possibile. Questo
carme non lo chiederò, ma chiaramente voi non dovete studiare solo le cose che sapete che chiedo o
meno all’esame, voi dovete farvi una conoscenza di Catullo al di là del fatto che uno possa chiedere
o no. Non focalizzatevi soltanto sulla parte finale del corso. Cercate di capire Catullo, poi una volta
che capirete bene Catullo, andrete bene all’esame. Come diceva Catone ‘rem tene, verba sequentur’
una volta che conoscente l’argomento andrete bene. Qualche caratteristica stilistica senz’altro
ovviamente (posso chiederla). Allora leggiamo.

Quid dicam, Gelli, quare rosea ista labella


hiberna fiant candidiora nive,
mane domo cum exis et cum te octava quiete

e molli longo suscitat hora die?


nescio quid certe est: an vere fama susurrat
grandia te medii tenta vorare viri?

sic certe est: clamant Victoris rupta miselli


ilia, et emulso labra notata sero.

Perché, o Gellio, io dovrei dire il motivo per cui queste tue rosee labbra diventino più candide della
neve invernale quando tu la mattina esci da casa o quando l’ottava ora (che sarebbero le due del
pomeriggio) ti risveglia da un placido riposo in una lunga giornata? Oppure è vera la diceria che si
sussurra: tu divori il fallo dritto di un uomo? E’ certamente così, lo rivelano i fianchi spezzati del
povero Vittore e le labbra segnate (letteralmente) dal siero che hai munto

Il personaggio che è preso di mira in questo carme è il solito Gellio e ci sono appunto i problemi su
chi sia questo Gellio e ormai abbiamo capito che non è possibile identificare questo personaggio.
Vedete che si pone una domanda e dice “Perché, o Gellio, io dovrei dire il motivo per cui queste tue
rosee labbra diventino più candide della neve invernale”. Anche in questo carme così osceno,
l’incipit sembra un incipit poetico, no? Così gentile delicato “Perché dovrei dire il motivo per cui
queste tue rosee labbra diventino più candide della neve invernale quando tu la mattina esci da casa
o quando l’ottava ora (che sarebbero le due del pomeriggio) ti risveglia da un placido riposo in una
lunga giornata?” certamente c’è sotto qualcosa e qui comincia la stoccata finale “Oppure è vera la
diceria che si sussurra: tu divori il fallo dritto di un uomo? E’ certamente così, lo rivelano i fianchi
spezzati del povero Vittore” che probabilmente era uno schiavo che si prestava a queste attività
sessuali “e le labbra segnate (letteralmente) dal siero che hai munto”. Allora, detto questo,
cerchiamo un po’ di commentare questo carme.

Quindi vi dicevo che c’è una specie di disarmonia tra la prima parte e l’ultima parte perché la prima
parte sembra veramente poetica. Si parla di labbra rosee che sono più candide della neve invernale;
si parla delle giornate lunghe d’estate. Insomma, sembra che vada a finire in una direzione e invece
ne prende improvvisamente un’altra. E l’altra appunto è la fama che circonda questo personaggio a
cui evidentemente piacevano gli uomini e che faceva appunto le cose che abbiamo detto. Allora,
vediamo un po’.

Quid dicam Gelli: questo dicam che vedete qua è un congiuntivo dubitativo, non è un futuro. Dice:
“Perché dovrei dire il motivo per cui” Qua re/Quare

Rosea ista labella: notate una cosa interessante, sicuramente ha una valenza ironica. Le labbra di
questo personaggio che evidentemente Catullo non stima, sono labbruzze/labbruzzi. C’è labella che
è il diminutivo, qual è il diminutivo in italiano di labbra c’è labbruzze, labbrucce… Ovviamente, a
parte la necessità metrica, c’è un’intenzione ironica nei confronti di questo personaggio. Questo ista
corrisponde a un pronome possessivo di seconda persona singolare cioè, codeste tue (aggiungiamo
noi) labbra di color rosa. Ricordatevi sempre, forse ne abbiamo parlato l’anno scorso a proposito dei
dimostrativi, il dimostrativo Hic, Haec, Hoc si riferisce a qualcosa che è vicino a chi parla e a chi
ascolta (Questo). Iste, Ista, Istud si riferisce a qualcosa che è lontano da chi parla, ma vicino a chi
ascolta come in questo caso. Catullo manda questo epigramma a Gellio che lo sta leggendo lontano
da Catullo quindi ista sono codeste labbra, lontane da Catullo, ma chiaramente vicine a Gellio visto
che le ha addosso. Mentre Ille, Illa, Illud si riferisce a qualcosa che è lontano da chi parla e da chi
ascolta. Ecco perché in questo caso Iste in pratica coincide con un pronome possessivo, aggettivo
possessivo di seconda persona singolare, come se fosse tua. Le labbra ovviamente sono rosee, però
ad un certo punto diventano, appaiono (fiant) più candide della neve invernale. Qui c’è tutta questa
immagine poetica, c’è questo luogo comune per cui il biancore, il candore più puro è quello della
neve invernale, nonostante poi vedremo che la scena è in estate.

Quando di mattina Mane exis domo esci da casa. Domo è un ablativo di moto da luogo. E quando
l’ora ottava di risveglia suscitat quiete e molli dal placido riposo della siesta noi diremmo, longo die
in una lunga giornata. Allora vediamo un po’ di capirci bene.

La giornata degli antichi ovviamente era divisa sulla base delle ore di luce. Noi abbiamo tre ore che
sono un po’ l’ossatura della giornata degli uomini antichi. Abbiamo cioè, la terza ora che sono le nove
del mattino, l’ora sesta che è mezzogiorno, l’ora nona che sono le tre del pomeriggio. Questi sono i
tre punti di riferimento. Quindi se l’ora nona sono le tre del pomeriggio, l’ora ottava sono le due del
pomeriggio. Cioè l’ora appunto in cui si fa la siesta, non soltanto oggi, ma evidentemente anche
nell’antichità. E questa sosta è detta quies riposo, perché è una sosta nel lavoro della giornata. E
questa quies è detta mollis, cioè placida molle e forse anche lasciva significa, perché vedete che c’è
un doppio senso. E poi dice Longo die, che significa longo die? Ovviamente è un ablativo di tempo,
significa quando le giornate sono lunghe e quindi la stagione è quella estiva. Letteralmente “una lunga
giornata estiva” potremmo dire. Quindi le labbra sono più candide della neve invernale, ma siamo
appunto in estate. Quindi c’è anche un po’ questa contrapposizione piuttosto ironica. E poi aggiunge
nescio quid certe est e qui passiamo alla seconda parte del carme, quella meno poetica e più realistica.
“Certamente c’è sotto qualcosa”, certamente c’è qualcosa che non riesco ad individuare. Attenzione,
questo quid che voi vedete è un indefinito. Nescio quid potrebbe anche essere scritto tutto attaccato
perché è un po’ come il nostro italiano ‘non so che’. “C’è certamente una causa che non riesco bene
a capire. Oppure, davvero sussurra la fama che tu” e abbiamo appunto una proposizione infinitiva.
Cioè a dire: Oppure è vera la diceria che si sussurra, che tu… la fama anche qui non è in senso
positivo, ma in senso negativo di una cattiva diceria. Sussurra perché essendo appunto oscena, non
viene proclamata a voce alta, ma si bisbiglia all’orecchio.

E poi c’è l’infinitiva con tutta quanta l’immagine: vorare che tu divori, che cosa? Grandia fa
riferimento al fallo e tenta… insomma avete capito. Medii viri non di un mezzo uomo, state attenti,
perché medius ha un valore predicativo, quindi fa riferimento all’altezza cioè, all’altezza della cintola,
a metà. Non è che sia un mezzo uomo. E’ un aggettivo di valore predicativo che appunto ha questo
significato. Poi dice “è certamente così, non può essere diversamente” e porta due prove. La prima
prova sono le reni spezzate, come si diceva in altri tempi cioè i fianchi fiaccati del povero Vittore.
Vittore come detto era uno schiavo che era costretto, come detto, a fare le volontà del padrone Gellio.
Quindi vedevi questo schiavo con le reni fiaccate e capivi che aveva lavorato parecchio. Poi la
seconda prova sono appunto le labbra che portano il segno di questo siero e ci fermiamo qua.

E’ un carme caratteristico di molta poesia epigrammatica lo ripeto e se prendete anche molti


epigrammatisti greci trovate temi di questo tipo. Quindi voglio dire, sono quei pedaggi che un poeta
paga al genere letterario, ne vedremo tra poco anche uno poco dopo.

Medii non fa riferimento all’età, se io per esempio dico “in media via” indica al centro della strada,
non la strada a metà. Quindi se dico medius vir significa uomo all’altezza a metà uomo, quindi
all’altezza della cintola. Quindi non fa riferimento all’età, fa riferimento alla posizione dove si trova
appunto il membro.

L’omosessualità è una cosa un po’ particolare nel mondo antico. In Grecia differisce un po’ rispetto
a Roma. In genere l’omosessualità tra due coetanei era biasimata, mentre era accettata quella tra un
uomo adulto e un ragazzo. A Roma facevano sempre ironia ma era accettata. In Grecia invece, poteva
avare un valore paideutico perché alcuni studiosi hanno messo in evidenza che questi rapporti
omosessuali erano transeunti cioè, non duravano tutta la vita, ma erano un’iniziazione alla vita
sessuale adulta. Cioè significa che, noi oggi non abbiamo questa divisione dei sessi così netta, quindi
noi da ragazzi facciamo le nostre esperienze con le ragazze direttamente, senza alcun problema.
Tenete conto però, che nell’antichità le ragazze erano tenute chiuse a casa. Quindi diciamo che
l’iniziazione alla vita sessuale avveniva in una dimensione omosessuale. Poi questi ragazzi che
avevano queste esperienze, da adulti si sposavano tranquillamente, avevano dei figli, potevano
diventare degli erastai, degli amanti. Tutto era collocato in una dimensione che oggi potremmo dire
paideutica, educativa. Ecco, ciò che era condannato era il rapporto omosessuale fra due coetanei.
Oppure per esempio, come in questo caso, a Roma era condannato il rapporto tra un padrone uno
schiavo. Anche Seneca, Giovenale, Marziale biasimano questo genere di rapporto. In Grecia c’era un
po’ più di tolleranza, a Roma invece le cose erano un po’ più rigide. Tra adulti coetanei era considerato
negativo, era tollerato tra un adulto e un giovinetto. Le fonti ci dicono che erano così e molti lo
spiegano affermando la divisione abbastanza netta tra i sessi e la formazione e maturazione sessuale
avveniva in questo contesto omosessuale. Però, quando si trattava di adulti era qualcosa di negativo.
Tra donne la stessa cosa: se noi prendiamo per esempio il tiaso di Saffo, avveniva la stessa cosa. Le
ragazze venivano educate in questo modo, ma poi potevano diventare madri di famiglia o a loro volta
educatrici sessuali di altre ragazze. Era una condizione transeunta e non permanente come potrebbe
essere oggi. Era un’esperienza tra le tante della vita che si attraversavano. La condanna totale della
omosessualità è arrivata col cristianesimo, ma in realtà anche prima. Ci sono state delle correnti nel
mondo greco come quelle di tipo stoico e aristotelico che già condannavano l’omosessualità. Poi il
cristianesimo ha assorbito questo per un motivo che, se volete vi posso anche spiegare. Aristotele
diceva che “tutto quello che non è secondo ragione, è condannabile”. Allora diceva “non bisogna fare
sesso perché quando l’uomo fa sesso non usa la ragione. Quindi è un comportamento non razionale,
che va condannato”. Ora, questo tipo di posizione è stata assunta da molte correnti filosofiche
ellenistiche tra cui per esempio lo stoicismo. Quindi anche lo stoicismo condanna l’omosessualità. Il
cristianesimo la condanna per due motivi: prima di tutto perché c’è una tradizione vicino orientale
che guardava con molto sospetto l’omosessualità. Per esempio, ci sono alcune norme del Levitico,
che condannano l’omosessualità e quindi il cristianesimo ha assunto un po’ questa condizione. Poi
tenete conto che la rigida morale sessuale del cristianesimo è dovuta un po’ a un atteggiamento di
difesa cioè, i primi cristiani venivano accusati, tra le altre cose di partecipare a culti orgiastici. Perché?
Perché i cristiani si riunivano di notte per fare le loro cerimonie e quindi i pagani dicevano “chissà
cosa faranno questi di notte. Si chiamano fratelli e sorelle, sicuramente faranno delle cose sconce”.
Ora, il fatto che si riunissero di notte e non di giorno per fare le cerimonie, si giustifica col fatto che
si lavorava 12, 14 ore al giorno. Quindi, l’unico modo per potersi incontrare per le loro cerimonie,
era la notte prima che facesse luce, prima di andare a lavorare. Tenete conto che non c’era neanche
la domenica quindi, si lavorava tutti i giorni tranne che in casi eccezionali. Quindi l’unico momento
per incontrarsi era la notte ed era invalsa questa diceria per cui i cristiani si dedicavano ai culti
orgiastici. Allora cosa hanno fatto i cristiani per difendersi? Già nel II secolo con i primi apologisti
“noi siamo più puri degli altri, noi condanniamo tutto quello che riguarda il sesso”. Quindi da lì è
partita questa morale rigida, non condivisa da tutti per carità però che alla fine è diventata
maggioritaria. È eredità del mondo ebraico e dei riferimenti che la scrittura ha sull’omosessualità,
come su tante altre cose, non solo su quella. Quindi è un po’ complesso, però il cristianesimo non è
che si è inventato questa condanna. Era qualcosa che era già nell’aria con lo stoicismo, con le correnti
gnostiche… adesso non posso parlarvi dello gnosticismo perché andiamo un po’ fuori tema. Lo
gnosticismo aveva una condanna ancora più rigida nei confronti della sessualità e dell’omosessualità.
Il cristianesimo ha assorbito un po’ queste istanze e le ha fatte proprie, anche se non tutto il
cristianesimo è uguale, però diciamo che la posizione maggioritaria è appunto questa. Il cristianesimo
non ha inventato nulla a parte il Vangelo, però alcune cose le ha mutuate dalla filosofia stoica o dalle
filosofie ellenistiche in generale. Il cristianesimo non ha rappresentato un colpo di spugna che ha
cancellato tutto, ha semplicemente riutilizzato e riconvertito quello che già aveva a disposizione.
Questa ormai è una cosa assodata.
Vi dicevo che, a proposito del carme 80, forse è un po’ un pedaggio che Catullo deve pagare al genere
dell’epigramma perché si trattavano questi temi anche un po’ pornografici. Un altro tema, un altro
pedaggio, a proposito di quello che si diceva, è anche quello dell’omosessualità. Voi sapete che molti
epigrammi, della colonna di Meleagro per esempio, sono dedicate a dei giovanetti, dei ragazzi, degli
amasi come si diceva. Quindi anche Catullo, pur essendo dimostrato che fosse puramente
eterosessuale, paga il pedaggio e qualche carme lo dedica anche a questo tema omoerotico.

Carme 81

Il riferimento è a un certo Giovenzio, un ragazzo che compare anche in altri carmi delle nugae, con
cui Catullo immagina di aver avuto una relazione. Allora, leggiamo un po’

Nemone in tanto potuit populo esse, Iuventi,


bellus homo, quem tu diligere inciperes,
praeterquam iste tuus moribunda ab sede Pisauri
hospes inaurata pallidior statua,
qui tibi nunc cordi est, quem tu praeponere nobis
audes, et nescis quod facinus facias

Quindi in pratica, in questo carme Catullo si mostra geloso di Giovenzio perché ha cominciato ad
amare un personaggio di Pesaro, come se a Roma non ci fossero ragazzi da amare che se li deve
cercare per forza in terra straniera. Vediamo cosa dice:

“In mezzo a un popolo così numeroso (che sarebbe appunto il popolo romano) o Giovenzio, non
potrà esserci nessun uomo carino che tu volessi amare, tranne questo tuo ospite proveniente dalla
città decadente di Pesaro, più pallido di una statua dorata, il quale ora ti sta a cuore e che tu osi
preferire a me e non sai quale brutta azione stai commettendo”

Quindi vedete che il Carme è abbastanza neutro, non si sente questa passionalità tipica dei carmi o
dedicati agli amici o dedicati alla donna amata, Lesbia. Secondo me è proprio un pedaggio che si fa,
un tributo che si fa al genere letterario, piuttosto convenzionale direi. L’unica cosa che sembra
storicizzare questo componimento è il riferimento a Pesaro. Non sappiamo per quale motivo, non
sappiamo se ci sia qualche allusione particolare che ovviamente ci sfugge. Cerchiamo di
commentarlo così.

Stavamo parlando appunto del Carme 81 e dicevamo che appunto questo Giovenzio lo si ritrova
anche in un altro carme delle nugae ovvero, nel 48. Non sappiamo ovviamente se sia un
personaggio reale oppure una finzione letteraria. Sicuramente il nome è uno pseudonimo, si può
capire che Iuventius è un nome romano, ma non possiamo dire nulla sul personaggio. Nel Carme 48
diceva così, lo leggo dalla traduzione che ho di fronte di Mandruzzato, nella edizione di servizio del
Traina.

“Se quei tuoi occhi di miele, o Giovenzio, fosse dato baciarli sempre sempre trecentomila volte,
neanche allora penserei di saziarmene in futuro, fosse messe di baci fitta fitta, come mai fu messe di
spighe asciutte”
Anche qui un componimento piuttosto convenzionale nel tema. Interessante dal punto di vista
formale, ma abbastanza convenzionale.

Allora qui cosa ci dice, l’abbiamo già tradotto,

tanto populo: in un popolo così numeroso come quello romano, perché andare a cercare un amante
fuori. Poté esserci, o Giovenzio, nessun uomo carino che tu potessi cominciare ad amare, tranne
appunto questo della città di Pesaro. Vediamo un po’ di commentare questi primi versi.

Questo Nemone non vi deve spaventare perché è appunto nemo, cioè questo pronome negativo che
significa nessuno + il ne enclitico interrogativo di cui si è parlato ieri. Infatti la frase è interrogativa
e addirittura tutto quanto l’epigramma è un’unica interrogativa, tant’è che il “?” lo trovate alla fine
del verso 6. Quindi è giustificata questa particella ne che deve anticipare e prepara il lettore a questo
tono interrogativo.

In tanto populo: tantus non significa solo numeroso, ma ‘così grande’ perché il popolo di Roma
non è soltanto numeroso: sappiamo che la città di Roma era forse la più grande metropoli del
mondo antico fino ad allora conosciuto, ma perché era una città potente, prestigiosa. In mezzo ad un
popolo così prestigioso, così grande, così numeroso, non ci poté essere proprio nessun carino che tu
volessi amare, o Giovenzio.

Iuventi: vedete che qui Iuventi è messo proprio alla fine del verso. A volte i destinatari sono messi
o all’inizio oppure alla fine del verso. Guardate per esempio il carme successivo, l’82, dedicato a un
certo Quinzio. Quinti viene messo all’inizio, come altri: Rufe viene messo all’inizio. Quindi è una
consuetudine della poesia soprattutto dattilica, mettere il nome del destinatario possibilmente
all’inizio oppure alla fine perché sono posizioni enfatiche, posizioni di rilievo.

Populo esse: un’altra cosa che vorrei farvi notare, è l’elisione tra populo e esse che è un po’
particolare perché. Voi mi direte, ma ne troviamo uno anche tra nemone e in, certo, ma tenete conto
che la e in nemone è breve, quindi l’elisione è più agevole, è più facile. Mentre populo, la o di
populo è una o lunga, quindi è più rara l’elisione quando la sillaba è lunga, soprattutto questa
elisione nella lettura potrebbe determinare una forma di incomprensione della desinenza. Mentre in
nemone nessuno va a pensare che sia qualcosa di particolare, in populo se tu elidi potresti non
cogliere la desinenza. Quindi diciamo è una specie di ardimento stilistico-metrico che Catullo qui
ha adottato.

Homo bellus: qui bellus lo traduciamo come carino, ma abbiamo detto che non fa riferimento
soltanto alla bellezza fisica, ma un uomo interessante potremmo dire, carino, attraente sotto tanti
punti di vista. Che tu appunto volessi amare.

Quem tu diligere inciperes: qui ci sono appunto due cosettine da notare. Prima di tutto vedete che
noi abbiamo una proposizione relativa introdotta da quem, di valore però finale/consecutivo. Cioè,
un uomo grazioso tale che tu volessi amarlo, così che tu volessi amarlo. Quindi è una proposizione
relativa impropria, di valore finale-consecutivo. Ma la cosa più interessante è questa sorta di
fraseologia col verbo incipio che indica, come dire, la progressione dell’azione. Incipio significa
cominciare. Quindi letteralmente, che tu cominciassi ad amare, che tu intendessi amare, che tu ti
dessi ad amare. L’azione deve essere ingressiva, come se fosse in inglese I’m going to love, per
esempio, che indica un’azione ingressiva abbastanza marcata. Io direi che non traduciamo “che tu
cominciassi ad amare”, ma “che tu volessi amare”. Verbo appunto di volontà che indica l’intenzione
appunto di intraprendere una determinata azione.

Sapete che esistono due tipi di proposizioni relative: quelle proprie, quando hanno effettivamente la
funzione di proposizione relativa perché mettono in relazione questa specie di proposizione
incidentale con la principale. Però le proposizioni relative proprie hanno sempre l’indicativo. Se
diciamo abito a Cagliari, che è grande, quella è una proposizione accessoria, che dice qualcosa di
Cagliari, ma non aggiunge nulla alla sintassi. Mentre quelle improprie, che sono riconoscibili
dall’uso del congiuntivo che hanno sempre un’altra funzione che può essere finale, consecutiva,
causale, concessiva. Sta a noi riconoscere la funzione che hanno queste relative improprie
particolari. Qui, mi sembra che il senso di questa relativa sia di tipo finale-consecutivo. Un uomo
così carino che tu potessi amare. Però, attenti, bisogna anche soffermarsi sul verbo diligere.

Diligere: Non è che questo Giovenzio si butta così a pesce, all’avventura di un solo giorno, no.
Perché non usa il verbo amare, che è appunto il verbo della passione, il verbo dell’attività erotica
fisica. Diligere significa affezionarsi, cioè presuppone anche la selezione della persona, che tu
cominciassi ad affezionarti, qualcosa del genere è il senso, ma non buttarsi a pesce all’avventura.
Cominciare a corteggiare, a conoscere, affezionarsi, stimare. Il verbo diligere è un verbo molto più
intellettuale, mentre amare è più istintivo. Prima vi ho parlato per esempio del cristianesimo. Il
verbo che i cristiani usavano non era mai amare era sempre diligere, perché indicava un’azione più
razionale, meno istintiva. Un po’ come il greco agapan, che tra i tanti verbi per indicare l’amare,
era il più neutro. Non era un amore, astratto o fisico, ma un amore che scaturiva dalla condizione di
essere tutti fratelli. Quindi c’è una componente intellettuale che il verbo amare non ha, visto che il
verbo amare è molto istintivo. Quindi, che tu cominciassi ad affezionartici, qualcosa del genere
significa. Tranne, dice, questo tuo hospes dalla sede fatiscente, decadente di Pesaro.

praeterquam iste tuus moribunda ab sede Pisauri: vedete anche qua, abbiamo iste rafforzato con il
possessivo di seconda persona, che indica qualcosa che è lontano da chi parla, ma vicino a chi
ascolta. Perché è naturalmente vicino a Giovenzio.

Hospes: non sappiamo se Giovenzio fosse ospite di questo personaggio o se il personaggio fosse
ospite di Giovenzio. Perché hospes sapete ha un po’ questa duplice accezione. Normalmente in
latino, come anche in greco, hospes è colui che ospita, però qualche volta è colui che è ospitato. Noi
non sappiamo ovviamente in quale accezione qui Giovenzio lo stia usando. Visto che parla prima
del popolo romano, è probabile che questo pesarese fosse un ospite di Giovenzio a Roma.

moribunda ab sede Pisauri: qui c’è un problema anche di carattere di critica testuale. Se noi
prendiamo per buona la lezione dei codici, significa che questo personaggio che Giovenzio
vorrebbe iniziare ad amare viene da una città, una sede, un territorio moribundus, che potremmo
tradurre come decadente, fatiscente che è quello di Pesaro. Non ci risulta che Pesaro fosse una città
decadente e oltretutto moribundus è un aggettivo che non ricorre mai in riferimento a oggetti, ma
sempre in riferimento a persone e quindi questo ha creato qualche difficoltà ai critici. Tant’è che
qualcuno al posto di moribunda, legge moribundus riferendolo all’ospite. Quest’ospite non era
proprio aitante, anzi era piuttosto malaticcio visto che dopo lo riferisce come più pallido di una
statua dorata. Quindi è possibile che questo moribunda vada letto moribundus e riferito all’ospite.
Comunque fatto sta che questo sede indica la provenienza dell’ospite cioè dal territorio di Pesaro. Il
Traina riporta moribunda a sede anziché ab sede. Non so, scegliete voi la lezione che vi viene
meglio: tutte e due sono accettabili. Ripeto l’unica difficoltà che abbiamo di fronte è che
moribundus in genere non si riferisce mai ad un oggetto inanimato. Questo non significa che non sia
possibile, che Catullo non sia stato il primo ad utilizzarlo. Così stando le cose noi dovremmo
tradurlo “dalla dimora/sede/città fatiscente/decadente di Pesaro”.

Pisaurum: soltanto una piccola notazione glottologica. Noi ovviamente leggiamo il latino
Pisàurum, tant’è vero che anche la pronuncia metrica conferma Pisàurum, però probabilmente a
livello popolare si leggeva Pìsaurum, altrimenti non si spiega l’esito italiano di Pesaro. Come
probabilmente non si leggeva Brundùsium, ma Brùndusium per Brindisi. Oppure per esempio
Tarèntum era letto Tàrentum per Taranto. Tenete conto che tutte queste città che si trovavano sul
versante del mare Adriatico erano tutte degli illirici e sappiamo che una caratteristica dell’illirico
era quella di portare l’accento sulla prima sillaba della parola. Spesso l’accento latino non
corrisponde a quello indigeno, a quello locale.

Ora questo personaggio doveva essere un po’ moribondo esattamente come la sede da cui
proveniva, visto che viene definito “più pallido di una statua dorata”. Ora noi conosciamo molte
statue antiche, basta andare anche al museo di Cagliari, e le vediamo bianche di marmo, ma
sappiamo che la consuetudine degli antichi, anche dei greci, era quella di dipingere le statue. Noi le
vediamo bianche perché la vernice è scomparsa, in molti casi ci sono tracce di vernice ancora, negli
occhi per esempio. La consuetudine era quella di dipingere queste statue, qualche volta erano
dipinte con una specie di bronzina, una tinta che sapeva d’oro, che rendeva pallida questa statua. Il
color oro risulta abbastanza pallido e quindi viene definito più pallido di una statua indorata.

Inaurata statua: ablativo di comparazione retto da pallidior, comparativo di pallidus

Qui tibi nunc cordi est: qui è riferito all’ospite di Pesaro, “il quale ora ti sta a cuore”. Attenzione
qui abbiamo un altro caso di elisione: la e di est cade e quindi le due parole si fondono, cordi est
diventa cordist. Nell’espressione tibi cordi est, tenete conto di un fenomeno molto caratteristico in
latino ovvero, il doppio dativo. Tibi è dativo di interesse, cordi è un dativo di fine. Il fine è quello
dell’affetto, dell’amore.

quem tu praeponere nobis || audes: “che tu osi preferire a noi”. Poi c’è un’altra relativa, notate che
il tu è enfatico perché il latino non adopera spesso il pronome personale soggetto, se non quando
indica proprio tu. Nobis è un pluralis modestiae. Notate anche l’inarcamento, l’enjambement. Audes
viene posto all’inizio del verso 6, ovviamente il riferimento è a praeponere.

Audes: il verbo audes, deriva da audeo “osare”, pensate ad audace in italiano. Ha la caratteristica di
essere semi-deponente perché i tempi che derivano dal tema del presente sono nella forma attiva;
mentre i tempi che derivano dai temi del supino sono di forma deponente/passiva. Infatti fa audeo,
audes, ausus sum, audere, come gaudeo, fio

et nescis quod facinus facias: “e non sai/non ti rendi conto di quale brutta azione stai
commettendo” (nei miei confronti). Qui ci sono un po’ di cosette da notare.

Quod: da un punto di vista di critica testuale, i codici hanno quid e non quod. Significa che sarebbe
un arcaismo, ma il valore è sempre quello di quod.
Facinus facias: una figura etimologica o se volete, un accusativo dell’oggetto interno. Perché
facinus è il complemento oggetto ricavato da facere. Facinus è ciò che si fa, è un’azione. Come
correre una corsa, vivere una vita. Qui Facinus ha un’accezione negativa. Di per sé è una vox
media, esattamente come fama. Può indicare un’azione buona o una cattiva. In Sallustio ad esempio
è un’azione generica. Qui ha un’accezione negativa, perché è un torto che Giovenzio sta facendo a
Catullo che avrebbe voluto stringere una sorta di amicizia particolare.

Quod facinus facias: è una proposizione interrogativa indiretta.

Carme 82

Anche questo è abbastanza piccoletto che si fonda su un gioco di parole, sembra quasi una
filastrocca. Il destinatario è un certo Quinzio che evidentemente ha attentato alla ragazza di Catullo
e Catullo gli dice “per cortesia non portarmi via quello che per me è una cosa anche più cara degli
occhi”.

Quinti, si tibi vis oculos debere Catullum


aut aliud si quid carius est oculis,
eripere ei noli, multo quod carius illi
est oculis seu quid carius est oculis

“O Quinzio, se vuoi che Catullo ti sia debitore degli occhi o se c’è qualche altra cosa più cara degli
occhi, non strappargli ciò che per lui è molto più caro degli occhi o se c’è qualcosa di più caro degli
occhi.”

Vedete il gioco di parole che si fonda sul appunto concetto che il bene che Quinzio sta minacciando
a Catullo è più caro della stessa vista, degli stessi occhi. Vorrei soltanto farvi notare un po’ di
cosette, soprattutto dal punto di vista concettuale. Le cose care sono sempre state paragonate
all’occhio. Anche noi diciamo per una cosa di valore “è costato un occhio della testa” oppure se
prendete una poesia della letteratura vicina orientale dice: “difendimi come la pupilla dell’occhio”,
come se fosse la cosa più cara. Infatti, guardate che spesso il termine occhio o pupilla passa ad
indicare una cosa cara. Faccio un esempio: se voi prendete il sardo pippìa, che cosa significa? Voi
direte, significa bambina, ma come primo significato è la pupilla dell’occhio. Quindi una bambina,
una figlia o un figlio, che è quanto di più caro un genitore possa avere, è paragonato alla pupilla
dell’occhio. Oppure pensate anche in greco “kora” che significa fanciulla: kora è prima di tutto la
pupilla di un occhio. Oppure pensate alla moglie. Noi in sardo diciamo pobidda, da cosa deriva
pobidda? Da pupilla, perché per un marito dovrebbe essere la cosa più cara la moglie. Quindi c’è
questa continua assimilazione tra la pupilla dell’occhio e la cosa più cara. Catullo non fa altro che
riprendere un luogo comune di una cosa cara paragonabile alla preziosità della vista degli occhi.
Ecco perché dice “O Quinzio, se tu non vuoi che Catullo ti sia debitore degli occhi”, se vuoi che ti
sia grato non minacciare, non tentare la mia fidanzata. È un po’ questo il concetto.

Si vis: una cosa che volevo farvi notare dal punto di vista sintattico. Da questo si vis dipende poi
un’infinitiva cioè, si vis Catullum debere tibi oculos “se vuoi che Catullo debba a te gli occhi”. Poi
gioca sempre sullo stesso concetto “se c’è qualcosa più caro degli occhi”
Oculis: solito ablativo di comparazione retto da carius, comparativo neutro di carus

Eripere ei noli: notate l’anastrofe. Nell’imperativo negativo, che si costruisce appunto con noli e
l’infinito, in genere noli va prima. Questo ei è un dativo riferito a Catullo da is, ea, id. Non volere
strappare a lui ciò che (quod) è molto più caro per lui (illi) degli occhi. Poi continua questo gioco di
parole “oppure se c’è qualcosa di più caro degli occhi”.

Multo: quando noi vogliamo rafforzare un comparativo con un avverbio come multum, non
possiamo usare la forma con l’accusativo avverbiale, ma con l’ablativo. In alcune determinate
circostanze è preferito l’ablativo avverbiale al posto dell’accusativo avverbiale e questa occasione è
una di queste.

Quid: nel verso 2 e 4 questo quid che voi trovate è un pronome indefinito, come se fosse aliquid.
Non è quid interrogativo (che cosa?)

Non c’è molto altro, è più un virtuosismo stilistico che gioca su questa immagine, ma non c’è niente
di particolare.

LEZIONE 10 (06/11/2020) Monica Diotima

L’ordine dei Carmi non è cronologico bensì metrico, non vi è la narrazione della storia d’amore fra
Catullo e Lesbia, non è come il Canzoniere di Petrarca. Petrarca ha avuto modo di risistemare il suo
Canzoniere e quindi se noi leggiamo tutto quel corpus di poesie vediamo profilarsi la storia d’amore.
Per Catullo non è così perché non è stato lui a ordinare i carmi in questo modo. Come si è detto
all’inizio, è stato un grammatico che, sulla base di criteri metricologici, ha diviso la prima sezione in
carmi di metro vario, soprattutto endecasillabi faleci, poi la parte centrale costituita da carmi più
lunghi, quelli chiamati appunto carmina docta, e la terza parte invece in carmi in distici elegiaci,
appunto gli epigrammata, ma, ripeto, l’ordine non corrisponde alla successione, come dire, naturale,
della storia di Catullo con Lesbia. La ripartizione è dovuta a un grammatico tardoantico, quindi
diciamo che in genere queste sistemazioni avvengono intorno al IV secolo, forse magari anche prima,
III, ma di certo non subito dopo la morte di Catullo. In genere, i grammatici sono intervenuti più tardi,
quindi io direi che si può pensare al IV secolo.

Siamo arrivati al carme LXXXIII, un carme molto particolare perché ci fa capire che Clodia/Lesbia
non era una donna nubile ma era una donna maritata, visto che c’è un riferimento preciso al marito.
Noi sappiamo che il marito di Clodia era un aristocratico romano, un uomo politico, Quinto Metello
Celere, che morì nel 59 a.C.. Evidentemente questo carme è stato scritto quando il marito di Clodia
era ancora vivo. Cosa sappiamo di questo personaggio? Era un personaggio importante nella Roma
del tempo, conosciuto e stimato anche da Cicerone; anche se poi Cicerone ammette, soprattutto nelle
sue Lettere, che non era, come dire, un’aquila. Era una brava persona, onesta, autorevole, ma non
acutissima, non era, diciamo così, un genio; lo definisce un po’ limitato e questa descrizione, che
Cicerone fa, sembra collimare con quanto qui Catullo sembra alludere. Leggiamo e chiariamo poi
tutti i particolari, come sempre:
LXXXIII

Lèsbia mì presènte virò mala plùrima dìcit;

Haèc illì fatuò màxima laètizià-(e)st.

Mùle, nihìl sentìs? Si nòstr(i) oblìta tacèret,

Sàn(a) essèt; nunc quòd gànnit et òbloquitùr,

Nòn solùm meminìt, sed quaè mult(o) àcrior èst res,

I’ratà (e)st; hoc èst, ùritur èt loquitùr.

Allora, traduciamo e commentiamo:

'Lesbia dice moltissime cattiverie contro di me alla presenza del marito;

E queste (cattiverie) per quello scemo (fatuo, stupido) sono il massimo della gioia (della
soddisfazione).

O asino, non ti accorgi di nulla. Se lei stesse zitta perché si è dimenticata di me,

Sarebbe guarita dalla passione d’amore; ora per il fatto che ringhia, abbaia e sparla,

Non soltanto mi ricorda, ma, cosa che è molto più pungente,

È adirata; cioè brucia e sparla'.

Il contesto è abbastanza chiaro, Catullo si lamenta ma non in maniera adirata, bensì in maniera quasi
divertita che Lesbia parli male di lui davanti al marito. Lo interpreta come un buon segno, perché dice
‘se di me non le importasse più nulla tacerebbe, non direbbe nulla’; invece per il fatto che ‘è arrabbiata
contro di me, prova ancora qualche sentimento, è ancora coinvolta sentimentalmente’. Per il marito,
questo sparlare di Catullo è il massimo della soddisfazione, perché pensa di aver recuperato la propria
donna, la propria moglie. In realtà, non si accorge che è un segno di un legame che ancora permane.
Quindi, vedete che Catullo non se la prende tanto, sembra quasi che sia divertito di fare arrabbiare
Clodia, la propria amante.

PRAESENTE VIRO, è un ablativo assoluto, ‘alla presenza del marito’. Vir, viri, in latino, oltre che
uomo generico, indica il marito, così come mulier, oltre che donna, indica proprio la moglie, come
del resto testimonia anche l’esito romanzo dell’italiano ‘moglie’, dello spagnolo ‘mujer’. Anche in
latino, dunque, a livello di sermo quotidianus, vir e mulier erano corrispettivi di marito e moglie in
italiano.

Qualcuno ha pensato che non si tratti del marito, cioè Quinto Metello Celere, ma si tratti di un’altra
persona. Però la cosa non convince perché, se questo vir fosse stato un rivale di Catullo, non si sarebbe
espresso così morbidamente, ma l’avrebbe attaccato in maniera virulenta come ha fatto con tutti gli
altri rivali, con tutti coloro che hanno attentato alla propria fidanzata, amata. Teniamo conto che qui
Catullo si è un po’ divertito, evidentemente non è un rivale ma è proprio il marito, Quinto Metello
Celere. Pare che su questo ci siano pochi dubbi.

MALA PLURIMA, ‘moltissime cattive parole’,

MI, forma contratta di mihi, ovvero ‘contro di me’

Domanda: come facciamo a sapere con certezza che Lesbia è Clodia? Quando abbiamo studiato
Catullo a scuola, ci hanno detto che non era certo che fosse lei.

Risposta: abbiamo la testimonianza di Apuleio che, nel De magia, afferma che Lesbia corrisponde a
Clodia. Poi, gli studiosi hanno discusso (Clodia aveva altre sorelle) se fosse la Clodia che noi
conosciamo, quella attaccata da Cicerone nella Pro Coelio, o se fosse la sorella minore. Diciamo che
è un’ipotesi che ormai è caduta. C’è stato uno studio abbastanza curato di Enrica Malcovati, una
grande filologa italiana, che ha dimostrato, praticamente quasi senza ombra di dubbio, che Lesbia è
sicuramente la Clodia citata da cicerone nella Pro Coelio. Non abbiamo il documento di identità, però
tutti gli elementi, tutti i dati inostro possesso, ci portano ad identificare Lesbia con Clodia, sorella
maggiore di Publio Clodio Pulcro, tribuno della plebe. Certo, non abbiamo la certezza al cento per
cento, ma al novanta sì.

HAEC, si riferisce a mala plurima, ‘queste cose’, ‘queste cattiverie’ che Lesbia lancia contro Catullo
per illi fatuo, ‘scemo’, ‘fatuo’, uomo che non ha consistenza, no ha spina dorsale; un uomo che non
è esattamente un vero uomo. Diciamo che questo fatuus forse corrisponde a quanto ci dice Cicerone
di Quinto Metello Celere, cioè che è una brava, persona, onesta, anche autorevole perché ha ricoperto
incarichi importanti ma non aveva, come dire…non era esattamente un intelligentone, una persona
piuttosto modesta quanto a capacità intellettive.

‘Per questo scemo’, fatuus, queste cose sono la massima gioia, il colmo della gioia, il colmo della
soddisfazione. Evidentemente Lesbia/Clodia parlava apertamente di Catullo al marito, e il marito si
rallegrava di queste cattiverie, senza rendersi conto che questa cattiveria dimostrava che il legame
ancora permaneva. E infatti Catullo, che non era uno scemo, dice:

MULE, NIHIL SENTIS, ‘O asino, non ti accorgi di nulla, non hai capito nulla?’ ‘mule’, non è
propriamente ‘asino’ ma ‘mulo’. Naturalmente in italiano usiamo mulo forse per indicare la
caparbietà, la testardaggine. Qui indica l’asineria, il fatto che uno è ottuso di mente, che non capisce
la situazione. E il verbo sentire, in latino, non è tanto il nostro ‘sentire’ quanto il nostro ‘accorgersi’
(p.e. ‘non ti accorgi di nulla?’). Tra l’altro, vorrei fare notare un piccolo confronto con il sardo: in
campidanese il verbo significa ‘accorgersi’ (se in sardo dico ‘no s’indi sentidi’, voglio dire ‘non se
ne accorge’), il sardo ha mantenuto questa accezione propria del latino.

SI…TACERET SANA ESSET, notate che c’è un periodo ipotetico del terzo tipo, cioè ‘se stesse zitta,
perché si è dimenticata di me, allora sarebbe sì sana’ (guarita dalla passione d’amore).

Questo OBLITA, attenzione, è un participio perfetto del verbo obliviscor che è un deponente.
Ricordatevi che il participio perfetto dei verbi deponenti ha un valore attivo, quindi non significa
‘dimenticata di..’ ovvero ‘è stata dimenticata’ ma ‘ha dimenticato’. Quindi, ‘se lei stese zitta perché
si è dimenticata di me, di noi, sarebbe sana, sarebbe guarita dalla passione d’amore (d’amore,
aggiunge il prof.). Il verbo obliviscor, come tutti i verbi di memoria, anche in greco, regge il genitivo,
quindi nostri è il genitivo del pronome personale nos. Ricordatevi che nos ha come declinazione: nos,
nostri, nostrum, nobis, nos, nobis, quindi il genitivo del pronome personale nos può essere nostri o
nostrum. Nostri si usa quando il genitivo è oggettivo o soggettivo, nostrum si usa quando è partitivo.
Se io dico ‘una parte di noi’ dirò pars nostrum, non pars nostri, perché è un partitivo: multi nostrum
‘molti di noi’, mentre quando ha valore oggettivo-soggettivo e non partitivo, allora abbiamo la forma
nostri. Cosa significa aggettivo soggettivo o oggettivo? Prendiamo l’espressione memoria nostri ‘il
ricordo di noi’, questa espressione, in italiano, può essere intesa in senso oggettivo o in senso
soggettivo, cioè chi è che ricorda? Il ricordo di noi significa che siamo noi a ricordare o che siamo
noi ad essere ricordati? Diciamo che la frase è di per sé ambigua. Se siamo noi che ricordiamo, il
ricordo di noi, il ricordo che noi abbiamo di qualcosa, allora il genitivo è soggettivo, perché appunto
siamo noi che ricordiamo, siamo noi il soggetto del ricordo. Se invece dico ‘il ricordo di noi’ inteso
come il ricordo che altri hanno di noi, allora quel genitivo diventa oggettivo, perché il ‘noi’ è
l’oggetto del ricordo di altri. Quindi quando io dico oblita nostri, ‘dimentica di noi’, ‘che si è
dimenticata di noi’, quel nostri è un genitivo oggettivo, perché noi siamo l’oggetto della dimenticanza
o del ricordo, in questo caso di Clodia. Molti studenti non hanno ben chiara questa distinzione, tra il
genitivo partitivo e il genitivo soggettivo/oggettivo ma è una cosa abbastanza chiara perché nostrum
si usa soltanto in un contesto partitivo, ‘molti di noi’, ‘alcuni di noi’, ‘parte di noi’, e allora useremo
la forma nostrum; negli altri casi si usa la forma nostri. Questo vale anche per vestrum e vestri, per il
pronome di seconda persona, plurale, chiaramente. Quindi se stesse zitta perché si è dimenticata di
noi, sarebbe sana. Vedete anche come l’amore secondo un topos anche letterario viene rappresentato
come una malattia, tant’è vero che anche in greco, l’amore viene inserito fra i pathemata, cioè fra le
malattie, come nella filosofia ellenistica, l’amore è fra i più gravi pathemata. Ecco perché Catullo usa
qui il termine sanus, fa riferimento appunto a questa concezione dell’amore, come una sorta di
malattia dell’anima. Invece, dice NUNC QUOD GANNIT ET OBLOQUITOR, NON SOLO
MEMINIT…SED IRATA EST. Quindi prima il pensiero viene espresso in maniera irreale, col
periodo ipotetico dell’irrealtà, ‘se stesse zitta, allora..’, ma non sta zitta perché parla, dunque c’è una
contrapposizione tra il pensiero della irrealtà e il pensiero, invece, della cruda realtà. Dice poiché
gannit et obloquitor, cosa vuol dire questo gannit? Ora poiché possiamo tradurre con ‘abbaia’,
‘ringhia’, perché il verbo gannire è il verbo tipico degli animali, il verso soprattutto dei cani. Quindi
come noi diciamo ‘eh sì abbaia…abbaia’ anche di una persona, oppure ‘ringhia’, chiaramente stiamo
applicando un fenomeno proprio degli animali a delle persone, così fa anche Catullo. Quindi
Clodia/Lesbia è arrabbiata e brontola, cioè ringhia e abbaia, et obloquitur, ‘e sparla’. Vedete,
obloquitur è formato dal verbo loquor, che significa ‘parlare’, più questo ob che, abbiamo visto altre
volte, è un preverbio, una preposizione che indica ‘contro’, quindi ‘parla contro’, contro di me, quindi
‘sparla’, ‘critica’, poiché abbia, critica, sparla, non solum meminit, dove meminit si contrappone a
oblita, ‘non solo ricorda ma è arrabbiata’, non è così neutro, come uno può ricordare una vecchia
storia d’amore passata di una persona che non prova più nulla. Qui lei ricorda e si arrabbia, è un
ricordo che la fa arrabbiare, vuol dire che ci tiene ancora, vuol dire che è ancora legata. Una cosa che
vorrei dirvi e che potrebbe sembrare una banalità: questo meminit è un perfetto logico. In latino ci
sono i perfetti logici che sono perfetti resultativi, cioè la forma esteriore del verbo è al perfetto ma il
significato è al presente, ciò significa che meminit non significa ‘ha ricordato’ ma ‘ricorda’. Cosa
significa perfetto resultativo? Indica un’azione che è stata compiuta nel passato ma i cui risultati, i
cui esiti, le cui conseguenze sono verificabili al presente. Quindi magari ha concepito nella memoria,
ha elaborato nella memoria, dunque ricorda, quindi un’azione passata che ha effetto al presente. Non
sono molti questi verbi, odi odisse, novi novisse, che si trovano comunemente. Da un punto di vista
formale è un perfetto con raddoppiamento, da mens mentis, portare alla mente, ricordare. Però ecco
tenete presente che, benché la forma sia del perfetto, il significato è invece del presente. Questo capita
anche in greco, prendete un perfetto come oida, che significa ‘io so’ ma appunto ‘ho appreso’ e
dunque, in quanto ho appreso nel passato, so ora, quindi il risultato è verificabile e constatabile al
momento presente. Ecco perché si chiama resultativo o logico. Diciamo che le grammatiche oscillano
un po’ nella terminologia, quindi dire perfetto logico o resultativo è dire più o meno la stessa cosa.
Quindi non soltanto ricorda, vedete che qui non abbiamo il pronome ma lo possiamo desumere dal
nostri di oblita, dal momento che meminit è in correlazione con oblita, oblita nostri, meminit nostri.
Ovviamente anche meminit, essendo un verbo di memoria come obliviscor, anche se obliviscor è la
mancata memoria, a sua volta regge il genitivo.

SED QUAE MULTO ACRIOR EST RES, ‘la qual cosa è molto più pungente, molto più significativa,
ha molto più significato’. Cosa vuol dire acer? Vuol dire tagliente, è la stessa radice di acutus, acuto,
aguzzo, oppure pensate anche in sardo aces dà luogo ad ‘azza’, propriamente filo del coltello , ma
anche una persona che ha azza è uno che è tagliente nel suo comportamento. Quindi, ciò che è molto
più pungente, molto più significativo, che è arrabbiata, è incavolata. E poi conclude con HOC EST:
questo hoc est, questo è, cioè , è così, questo è.

URITUR ET LOQUITUR, brucia, quindi le brucia e quindi parla. I codici hanno loquitur, però alcuni
filologi hanno pensato che questo loquitur fosse un po’ una banalità, forse è un’attrazione da
obloquitur del verso 4. Sapete che molte edizioni presentano termini influenzati da parole nelle
vicinanze che il copista aveva ancora in mente e quindi ha scritto loquitur anche alla fine del verso.
E allora in molte edizioni, mi pare anche nel Traina, se non ricordo male, al posto di loquitur hanno
coquitur, cioè in pratica postulano uno scambio nei manoscritti fra una ‘l’ e una ‘c’. Cosa possibile,
anche se una ‘l’, per chi conosce un po’ i manoscritti, è molto più alta. Del resto, anche nella nostra
scrittura moderna, è molto più alta di una ‘c’, che è piuttosto rattrappita, piuttosto raggrinzita. Però,
diciamo che la cosa è anche possibile. E allora, se noi, anziché loquitur leggiamo coquitur come lo
dovremmo intendere? Come ‘brucia’ e ‘cuoce’, come se fosse una pentola a pressione, che è nel fuoco
e che piano piano brucia e cuoce, cuoce nel suo brodo, come si dice anche volgarmente in italiano. Io
non vi saprei dire la mia opinione, francamente, certo uritur e coquitur è suggestiva come possibilità,
tra l’altro sono anche due concetti piuttosto affini, del bruciare e del cuocere, che appartengono più o
meno alla stessa situazione però, se i manoscritti, soprattutto i più autorevoli, hanno loquitur, forse
io lo lascerei. Il Traina riferisce ‘ha un febbrone che la cuoce’, beh, il senso è quello. Altrimenti, se
non accettiamo coquitur, dovremmo tradurre ‘brucia e quindi (et esplicativo) parla’. Parla proprio
perché la cosa le brucia. Se volete, questo loquitur può essere un verbo, come si dice in poesia, simplex
pro composito, cioè un verso semplice al posto del verbo composto. Prima c’era obloquitur, potrebbe
darsi, se noi lo citiamo in questa lezione, che loquitur è la forma semplice di obloquitur. Non so se
questo vi è chiaro, ma noi ne abbiamo già parlato: nella poesia latina spesso vengono usati verbi
semplici al posto dei relativi composti, infatti si chiamano simplicia pro compositis, ad esempio, cosa
vi posso dire, come in questo caso, loquor al posto di obloquor, ago al posto di perago e così via;
cioè verbi semplici che hanno la stessa accezione dei verbi composti. Lo si fa per tante ragioni, la
poesia ha un linguaggio che un po’ si discosta dalla norma, dalla consuetudine, un po’ ci sono le
ragioni metriche che costringono a usare magari termini più brevi che si adattano meglio al verso.
Quindi potrebbe anche darsi che ‘brucia e per questo sparla’ perché la cosa le brucia. Diciamo che
entrambe le possibilità sono giustificabili, questo dipende dalla nostra sensibilità.

Ripetizione della traduzione del verso 5: ‘Non solo ricorda, ma, cosa che è molto più pungente, più
tagliente, quindi anche più significativa, è arrabbiata’. ACRIOR è naturalmente il comparativo di
acer. E come sempre è rafforzato dall’avverbio multo, cioè con la terminazione con l’ablativo anziché
multum; perché se io voglio dire ‘molto’ in latino dico multum, però se questo multum è riferito a un
comparativo, abbandona la terminazione dell’accusativo avverbiale e assume quella dell’ablativo
avverbiale, quindi multo acrior.

Nel primo verso abbiamo una cesura femminile, Lesbia mihi praesènte, abbiamo la finale trocaica
praesènte, non praesènt, nè praesentè perché non si può troncare la parola. Virò mala plùrima dìcit,
cesura semiquinaria femminile cosiddetta. E poi al secondo verso c’è una prodelisione, haec illì fatuò
màxima lae’tiziàst=laetizia est. Poi c’è qualche elisione, è una cosa normale perché si sa . Nel verso
6 c’è un’altra prodelisione: iratàst= irata est hoc èst ùritur et loquitùr.
LXXXIV

Questo carme 84 è interessante dal punto di vista della storia della lingua perché noi sappiamo che ad
un certo punto, soprattutto nella tarda repubblica, con l’influsso del greco, con questa infatuazione
che i Romani avevano per la letteratura greca e per la lingua greca, ci fu la consuetudine, soprattutto
nelle classi alte, di riprodurre l’aspirazione del greco. Tenete conto che l’aspirazione in latino è
sempre un suono piuttosto labile e non sempre veniva pronunciato. Infatti ci sono spesso delle forme
grafiche differenti, ad esempio arena con h e senza h, orus ugualmente, poiché essendoci una leggera
aspirazione poteva anche non venire scritta. Però con l’influsso del greco si cominciò, soprattutto
nelle classi alte, fra gli intellettuali, a rispettare questa aspirazione. Accadeva che le persone che non
avevano grande cultura o che non facevano parte di una cerchia di intellettuali aspirassero parole dove
non ci voleva l’aspirazione, giusto per darsi un tono. E’ un po’ quello che si chiama l’iperurbanismo,
non so se la Pinto ne ha parlato. L’iperurbanismo è una forma di atteggiamento del parlante a elevare
il proprio linguaggio - questo lo facciamo anche noi sardi - voi sapete che i sardi sono famosi per
raddoppiare le consonanti, la ‘v’ soprattutto viene raddoppiata. E allora molti sardi, consci del fatto
che si raddoppia spesso la consonante, tendono a scempiare laddove non è necessario.
L’iperurbanismo è una forma di ipercorrettismo: prediletto pronunciato come ‘predileto’, forma
chiara di iperurbanismo.

Succedeva così anche nella tarda repubblica anche con l’aspirazione: persone di basso rango
aspiravano le parole dove non era necessario, e questo era sintomo della rusticitas, della poca cultura.
C’è una testimonianza di Nugidio Figulo, un personaggio noto nella tarda repubblica per tante ragioni,
che diceva così rusticus fit sermo (il linguaggio diventa rustico) si adspires perperam (se aspiri la
lettera sbagliata). Qui Catullo descrive proprio un personaggio, che , evidentemente, veniva da un
ceto basso, di umili natali, che, per darsi un tono, mettersi alla pari delle persone più fini e colte,
aspirava anche dove non doveva aspirare. Questo personaggio, un tale Arrio, non sappiamo se sia il
Quinto Arrio, di cui parla Cicerone, amico/collaboratore di Crasso (può anche darsi ma, sapete,
l’omonimia è un problema nella prosopografia romana, quindi è difficile dire con certezza che si tratti
dello stesso personaggio di cui parla Cicerone). C’è una consonanza rispetto a ciò che dice Cicerone,
perché dice che arrivo proveniva da un infimo loco, cioè un ceto sociale piuttosto basso anche se poi
è riuscito a elevarsi socialmente; potrebbe essere un indizio di corrispondenza. Non ci interessa sapere
esattamente chi fosse, noi interessa l’aspetto letterario, filologico; le questioni prosopografiche le
lasciamo agli storici.
Chòmmoda dìcebàt, si quàndo còmmoda vèllet

Dìcere, (e)t ìnsidiàs A’rrius hìnsidiàs,

E’t tum mìrificè speràbat se èsse locùtum,

Cùm quantùm poterà dìxerat hìnsidiàs.

Crèdo, sìc matèr, sic lìber avùnculus èius,

Sìc matèrnus avùs dìxerat àtque (a)vià.

Hòc miss(o) ìn Syrià requièrant òmnibus àures;

A’udibànt ead(em) haèc lèniter èt levitèr,

Nèc sibi pòstillà metuèbant tàlia vèrba

Cùm subit(o) àffertùr nùntius hòrribilìs,

I’oniòs fluctùs, postqu(am) ìilluc A’rrius isset,

Iàm non I’oniòs èsse, sed Hìoniòs.

Traduciamo:

‘Arrio, ogni volta che doveva/voleva dire ‘comodità’ diceva

"Chomodità’, e quando doveva dire ‘insidie’ diceva ‘hinsidie",

E si vantava (sperava, letteralmente) di aver parlato in maniera straordinariamente forbita quando


aveva pronunciato ‘hinsidie’ con quanta più intensità poteva.

Io penso così avevano pronunciato sua madre, così suo zio di condizione libera, così il suo nonno e
la sua nonna materna.

Una volta speditolo in Siria (magari per una spedizione al seguito di Crasso), le orecchie di tutti
avevano trovato riposo, avevano trovato pace, tregua. Udivano queste stesse parole senza
aspirazione e con leggerezza e non si temevano più, da quel momento, tali pronunce, (cioè parole
pronunciate a questo modo), quando, all’improvviso, giunge una notizia orribile, e cioè che il mar
Ionio (letteralmente, i flutti Ioni, le onde del mar Ionio), dopo che Arrio se n’era andato là, non era
più Ionio ma Hionio!(l’aspirazione di Arrio arrivava fino all’Italia)’
Il tono è scherzoso, questo personaggio era alla berlina, che per iperurbanismo o ipercorrettismo,
pronunciava in maniera piuttosto goffa.

SIQUANDO è come un si aliquando, noi possiamo tradurre alla lettera ‘ogni volta’. Il soggetto, posto
nel secondo verso, è Arrio, che è il soggetto sia di dicebat che di vellet dicere: Arrio, ogni volta che
voleva dire commoda, neutro plurale dell’aggettivo commodum (sarebbero ‘le cose comode’, noi
possiamo tradurre più comodamente con ‘comodità’), cioè Arrio ogni volta che voleva dire comodità
diceva ‘chomodità’ con l’aspirazione. Infatti, vedete che la parola così storpiata viene messa in prima
posizione per dare enfasi, quindi c’è la contrapposizione tra la forma con l’h e senza l’h. Notate che,
molte volte, ci sono anche parole latine che hanno subìto questo ipercorrettismo e che sono rimaste
così. Ad esempio, l’aggettivo pulcher di per sé non ha l’h, tant’è vero che qualche volta anche Catullo
lo scrive come pulcer, senza la h. Poi con l’influsso del greco venne scritto con la h pulcher. Poi
pensate a sepulchrum, sepolcro; di per sé l’h non ha una ragione etimologica ma viene aggiunta
sempre come forma di ipercorrettismo, anche a seguito di una paretimologia, cioè a una falsa
etimologia, etimologia popolare; per cui sepulchrum sarebbe qualcosa che non ha bellezza (se indica
negazione, separazione e pulchrum indica il bello) quindi sepulchrum come qualcosa di non bello
perché triste. Dunque, in seguito a questi ragionamenti paretimologici e alla spinta
dell’ipercorrettismo/urbanismo, sepulchrum ha avuto la h dove non ci voleva. Così pensate ai
Gracchi, Gracchus, la h non serve, però è stata aggiunta sulla spinta dell’iperurbanismo. Alcune
persone riuscivano a dosare bene, altre non riuscivano a gestire lapidazione inserendola dappertutto,
anche dove non era necessaria.

ET SPERABAT SE ESSE LOCUTUM, MIRIFICE, sperabat l’ho tradotto ma sarebbe meglio ‘si
vantava’ di aver parlato mirifice, ‘in maniera meravigliosa’ ‘straordinariamente forbita’.

TUM…CUM, allorquando aveva detto hinsidie con la h, QUANTUM POTERAT, con più fiato
poteva, con quanta più intensità poteva. E poi, Catullo cerca anche di spiegare per quale motivo lui
parlava così, perché probabilmente dalla parte del ramo materno era di origine servile, veniva da un
ceto piuttosto basso, e dice ‘credo’ (è un ‘credo’ incidentale, fuori dalla sintassi) così la madre, così
suo zio che era libero, così avevano pronunciato il nonno e la nonna materna, tutto il ramo materno
aveva questa pronuncia iperurbana, ipercorretta.

Molti hanno discusso su questo LIBER, per cosa centrasse nel contesto familiare, perché
evidentemente questo avunculus era di condizione libera, come abbia ottenuto la libertà non lo
sappiamo, però qui si dice che era di condizione libera. Alcuni dicono che potrebbe essere libertus, e
che magari, non standoci nel verso, viene adottato liber (non tanto quindi il termine giuridico ma la
sua condizione effettiva), non sarebbe strano. Quindi altri proposero libere, un avverbio con elisione,
quindi inteso, così liberamente, senza ritegno, senza mettersi problemi, senza freni. E’ possibile, ma
sembra un’interpretazione arzigogolata. Se noi teniamo presente che questo genere di pronuncia era
tipica dei ranghi piuttosto bassi, anche di condizione servile, perché non pensare che questo zio avesse
effettivamente ottenuto la libertà, anche per meriti suoi personali, non lo sappiamo. E’ inutile
cambiare il testo quando funziona bene, soltanto perché non lo capiamo. Dobbiamo sforzarci di
interpretarlo, quindi ‘credo così la madre, così suo zio (avunculus, diminutivo di avus, ‘uncle’
dell’inglese, che ha assorbito molti latinismi). Anche in sardo c’era ‘concu’, che è rimasto come
cognome, ma che significa zio. Quindi ‘così suo zio, così il nonno e la nonna materna’.

E poi c’è un riferimento alla Siria. Probabilmente era partito al seguito di Crasso che fece molte
spedizioni in Oriente; può darsi che si sia portato questo collaboratore in qualche campagna militare
in Oriente. E quindi dice, ‘quando lui partì in Oriente, le orecchie dei romani ebbero un po’ di pace
perché non sentirono più questi strafalcioni.

HOC MISSO IN SYRIAM, hoc misso è un ablativo assoluto, il verbo mittere è un verbo tecnico per
indicare una spedizione, un incarico fuori Roma; tant’è vero che poi nel Medioevo c’è poi il termine
missus che indica l’ambasciatore, l’inviato, quello che oggi chiamiamo il ‘messo’ per l’appunto.
Quindi evidentemente non è una partenza per turismo ma aveva avuto un incarico particolare,
probabilmente da Crasso se noi accettiamo questa identificazione.

REQUIERANT OMNIBUS AURES, letteralmente ‘a tutti avevano trovato riposo le orecchie’; in


italiano, al posto del dativo omnibus preferiamo tradurre con un genitivo ‘le orecchie di tutti avevano
trovato tregua, pace’. Requierant, attenzione, è una forma sincopata, perché propriamente dovrebbe
essere requieverant; il paradigma del verbo requiesco, ovvero ‘trovare quiete’ ‘trovare pace’, fa
requiesco, requiescis, requievi, requietum,…, quindi tutti i tempi che si formano dal tema del perfetto
dovrebbero avere la ‘v’. E allora il piuccheperfetto corretto è requieverant: qui per ragioni metriche
abbiamo la forma requierant, sincopata. Dunque, finalmente un po’ di pace e un po’ di tregua per le
orecchie.

AUDIBANT EADEM HAEC LENITER ET LEVITER, notate anche qui un gioco etimologico,
perché abbiamo alla fine del verso 7 aures poi all’inizio del verso 8 audibant, verbo corrispondente.
Auris e audio sono imparentati etimologicamente, c’è evidentemente una connessione intenzionale
fra questi due termini. Anche l’imperfetto audibant non è normale, è in una forma arcaica perché
propriamente dovrebbe essere audiebant. Ricordate che anche la quarta coniugazione ha un perfetto
in ‘ie’ audiebant come legebant della terza. Catullo qui sceglie una forma arcaica, che troviamo
spesso negli autori arcaici, ma anche il Lucrezio, perché ha bisogno di una sillaba in meno, quindi
preferisce questa forma ridotta anziché la forma completa. Quindi ‘udivano’, chi? ‘le orecchie di
tutti’, il soggetto è le orecchie dei Romani che udivano eadem haec, ‘queste stesse parole’, quali?
Parole come commoda, insidiae e così via, quelle che pronunciava spesso Arrio, senza però
l’aspirazione, leniter et leviter, e quindi con maggior respiro, con maggior leggerezza. Eadem ed
haec, queste stesse parole naturalmente. Leniter significa senza aspirazione, spirito lene significa
spirito dolce, quindi leniter è un termine tecnico ‘senza aspirazione’ mentre leviter indica ‘con
leggerezza’ perché le parole non aspirate sono più leggere. Con l’aspirazione faccio uno sforzo
intenso nella pronuncia e la parola risulta pesante, mentre senza aspirazione acquista una leggerezza
diversa. Quindi leniter è un termine tecnico, leviter è una conseguenza della leggerezza della
pronuncia. Notate poi il gioco di parole perché leniter e leviter sono una sorta di paronomasia, cioè
due parole che differiscono soltanto per una lettera, la ’n’ e la ‘v’; si può parlare benissimo di
paronomasia, cioè di adnominatio, cioè l’accostamento di due parole che hanno suoni simili. Nei
manoscritti leviter e leniter spesso si confondono, mi viene in mente un passo del Somnius Scipionis,
dove c’è Scipione che viene descritto come leniter adridens, cioè ‘sorridendo leggermente’,
‘sorridendo amabilmente’, e alcuni codici hanno leniter mentre altri hanno leviter, e quindi le edizioni
critiche sono al 50% fra chi sceglie leviter e chi sceglie leniter. Si tratta di parole paronomastiche.
NEC SIBI POSTILLA METUEBANT TALIA VERBA, siamo sempre nel piano dell’ironia. Ne
postilla, cioè ‘né dopo quelle cose’, cioè la partenza, si temevano tali parole. Postilla è un arcaismo,
dopo Catullo non lo troviamo più. Lo troviamo nei poeti arcaici, in Lucrezio, ma poi non si trova più
perché viene sostituito da postea che è la forma normale per indicare ‘dopo’. In seguito alla partenza
di questo personaggio per la Siria non temevano sibi, per sé, non avevano paura, di talia verba
‘vocaboli tali’, ‘pronunciati in questo modo’, ‘siffatti vocaboli’, che potevano assumere
indebitamente l’aspirazione, questo indica talia.

CUM SUBITO, cum temporale, cum narrativo, ‘quando all’improvviso’, tipico delle narrazioni, delle
favole, ‘d’un tratto’, AFFERTUR NUNTIUS HORRIBILIS, ‘viene portata una notizia orribile.
Notate l’ironia di Catullo: la notizia, che arriva dall’Oriente a Roma è definita horribilis, con
l’aspirazione; qui ovviamente la parola è giusta, però che è una specie di antifona perché fa capire
qual è la notizia, il tenore, cioè che in pratica le aspirate che Arrio aveva portato con sé in Oriente
tornavano con le onde dello Ionio, che era diventato per l’appunto Hionio. Quindi questo horribilis
annuncia già l’aspirazione che sarebbe arrivata le correnti del mare. Qual è questa notizia
orribile?(che noi traduciamo come ‘terribile’ ma che alla lettera significa che fa rizzare i peli, i capelli,
dalla paura, dall’orrore, horror è questo, la radice è sempre quella di hirtus - da cui orrido, orripilante,
che fa drizzare i peli - quindi anche una notizia che fa raggelare) è espressa da un’infinitiva, cioè
Ionios fluctos esse iam non Ionios sed Hionios, cioè che ‘le onde ionie, dopo che Arrio era andato di
là, in Oriente, non erano più Ionie ma Hionie, con l’aspirazione. Attenzione, quando pronunciamo
Ionio, intendiamo quella ‘I’ come consonantica, tant’è vero che nelle grafie fino a poco tempo fa mar
Ionio si scriveva con la J, i lunga (qualcuno lo scrive ancora); in realtà, in latino la I di Ionio non è
semiconsonantica ma pienamente vocalica, quindi sarà pronunciata come I’oniòs, con la ‘i’ accentata
altrimenti il ritmo non torna: I’oniòs fluctùs postqu(am) ìlluc A’rrius ìsset, Iàm non Iìoniòs essè, sed
Hìoniòs. L’altra soluzione non convince, cioè se la considerassimo semiconsonantica, dovremmo
intendere quella seconda ‘i’ come semiconsonantica, peggio ancora.

POSTQUAM ILLUC ARRIUS ISSET, ‘dopo che Arrio era andato (piuccheperfetto congiuntivo di
eo) illuc ‘di là’, verso Oriente. Perché abbiamo un piuccheperfetto congiuntivo? Effettivamente Arrio
era andato di là, perché abbiamo un congiuntivo in una proposizione temporale? Qui vige quel
fenomeno, che ha fatto dannare molti studenti, che si chiama attrazione modale. Funziona in maniera
semplice, la usiamo anche in italiano: quando una proposizione secondaria, con il congiuntivo o
l’infinito (come nel nostro caso), regge a sua volta una proposizione secondaria che normalmente
regge l’indicativo, cambia l’indicativo in congiuntivo, appunto per l’attrazione dei modi. Siccome la
reggente è al congiuntivo (o all’infinito), allora la proposizione accessoria, subordinata, secondaria,
che avrebbe dovuto avere l’indicativo, cambia l’indicativo in congiuntivo; qui abbiamo isset per
questa ragione.

Anche noi in italiano quando pronunciano una subordinata al congiuntivo, a cui attacchiamo un’altra
subordinata che normalmente non avrebbe il congiuntivo, siamo tentati di usare il congiuntivo, di
trasformare inconsapevolmente quell’indicativo in congiuntivo; questo perché stiamo usando una
catena di congiuntivi, c’è il pilota automatico che trasforma in congiuntivo anche la dipendente che
dovrebbe avere l’indicativo. Ciò è dovuto all’economia del parlare, per evitare troppi sforzi, con la
continuazione nella subordinazione anche laddove non servirebbe, perché abbiamo attivato quel
registro, quel meccanismo che funziona finché non lo disattiviamo consapevolmente e
intenzionalmente, come nei periodi ipotetici, funziona così. In italiano nel parlato abbiamo la stessa
dinamica del latino, sembra una regola astrusa ma è comprensibilissima da un punto di vista
psicologico.

Nota bene, la ‘I’ di Ionios la consideriamo lunga poiché la accentiamo mentre sul vocabolario è
indicata come breve. I latini si comportano con molta libertà con i termini stranieri e utilizzano le
lunghe e le brevi come fa comodo a loro. Il detto Graeca per Ausoniae fines sine lege vagantur, le
parole greche in territorio latino mettono l’accento un po’ dove serve. Qui è considerata come una
lunga: Ionios fluctus… ‘I’ lunga, ‘o’ breve, ‘i’ breve perché vocalis ante vocalem corripitur, e dal
momento che non possiamo avere un cretico ma abbiamo un dattilo, matematicamente la prima ‘I’ è
lunga, ‘o’ breve, ‘i' breve; ‘o’ lunga perché in sillaba chiusa da s, desinenza di accusativo e così via.
Abbiamo il dattilo più la lunga di inizio spondeo, e così vale per gli altri casi. E’ opportuno fare i
calcoli che all’inizio possono sembrare pesanti ma che in realtà sono interessanti.

SPERABAT del terzo verso può essere tradotto anche come ‘era convinto’, sperare indica una
aspirazione quindi ‘era convinto’ può significare anche ‘si illudeva’, visto che la speranza è qualcosa
di poco oggettivo, consistente.

Gli ultimi due versi resi al meglio sarebbero così: ‘che il mar Ionio, dopo che Arrio era partito di là,
cioè in Oriente, non era più Ionio ma Hionio’. Mar Ionio invece che flutti ioni, ma onde ionie, flutti
ioni, dà l’idea che questa aspirazione dall’Oriente veniva portata il Italia quindi le orecchie non
avevano più pace perché le onde del mare portavano dall’Oriente l’aspirazione di Arrio fino a Roma,
in Italia. Forse le onde danno meglio l’idea della corrente che porta qualcosa da lontano. Credo che
questa sia l’idea che aveva Catullo. Possiamo però tradurre asetticamente in italiano ‘il mar Ionio’. Il
Traina traduce così ‘lo Ionio che da Arrio ci arrivò non fu più Ionio, diventò uno “Hionio”. Il concetto
è sempre quello ma da un punto di vista del testo latino forse fluctus dà meglio l’idea del vettore, del
veicolo, che porta l’aspirazione dall’Oriente fino all’Italia.

Il carme successivo è molto noto, è il Carme CXXXIII

O’d(i) et amò. Quar(e) ìd faciàm, fortàsse requìris.

Nèscio, sed fierì sènti(o) et èxcruciòr

Molto semplice, ci sono diverse elisioni: òd(i) et amò, quar(e) ìd, sent(o) et èxcrucior.

‘ Odio e amo. Perché lo faccia forse ti domandi. Non lo so, ma sento che accade e mi tormento ’.

Questo carme è significativo per quell’oscillazione di sentimenti che è tipica di Catullo, cioè questa
compresenza di dell’amore e dell’odio in una fase in cui razionalmente si rende conto che la storia
non può più essere portata avanti. Ma, affettivamente e fisicamente è ancora attratto da lei. Quindi
c’è questa lacerazione della persona tra la dimensione razionale ed intellettuale e la dimensione fisica
e affettiva. Sono situazioni che tutti noi abbiamo attraversato, abbiamo avuto storie che non sono
andate bene, perché l’uomo è fatto così, e ci si trova in un momento in cui avviene una lacerazione
nell’individuo ovvero sai che con quella persona non potrà più andare bene, razionalmente capisci e
realizzi che è impossibile andare avanti, però affettivamente e fisicamente si è ancora legati a quella
persona. Qui Catullo, con una psicologia molto moderna e profonda, non dico freudiana, ha messo in
luce e descritto una situazione universale. Ecco perché questa poesia ha avuto così grande fortuna,
perché ciascuno vi si rispecchia in questa situazione di lacerazione quando una storia è finita o sta
finendo. Ma attenzione, questo carme ci permette di fare una bella riflessione: noi pensiamo questa
poesia sia scaturita da una genuina ispirazione di Catullo, magari immaginiamo Catullo seduto sulla
riva del mare e inventa questa poesia così bella. In realtà, dietro ci sono tanti modelli letterari a cui si
è ispirato. Certo poi alla techne ha aggiunto l’ingegno, cioè alla arte ha aggiunto la sua ispirazione, la
sua anima, però non dimentichiamo che c’è tutta una tradizione letteraria che è stata messa in
evidenza. C’è un epigramma di Filodemo di Gadara (poeta ellenistico epicureo che è stato anche a
Napoli, ha avuto influenza sulla letteratura latina) su cui, se Dio vuole, nel secondo semestre farò un
corso che dice: ‘le arie musicali, le parole, l’occhio radioso, il canto di Santippe e il primo fuoco, o
anima, ci incendieranno. Questo io non so per opera di chi, o quando o come accada (nescio sed fieri,
sentio et excrucior); lo saprai tu mentre bruci, anima disperata’. Gli studiosi hanno messo in evidenza,
sebbene diverso ma con medesimo stilema, che c’è un particolare che potrebbe avere ispirato l’inizio
del carme Odi et amo. Perché nel primo verso troviamo omma kai odi, che richiama fonicamente al
contrario odi et amo, quindi è probabile, e io francamente ne sono convinto, che conoscendo la tecnica
alessandrina queste cose le facevano; dietro a questo odi et amo c’è il modello rovesciato di omma
kai odi di Filodemo. Dietro un’apparente genuinità c’è una caterva di letteratura.

LEZIONE 11 (11/11/2020) Andreina Scano

CARME 85

Fonti: il poeta antico è un versificatore, un artigiano del verso, la grandezza del poeta va commisurata
alla capacità di nascondere i filtri delle fonti. Sebbene questo distico sembri molto spontaneo e diretto,
ci sono delle fonti a cui lui fa riferimento.

- Un epigramma di Filodemo di Gadara, poeta ellenistico, esponente dell’epigrammatica


ellenistica, grande influsso nei poeti latini, venuto in Italia, nato intorno nel 11 a.C., e morì
intorno al 35, contemporaneo di Catullo, ha avuto un influsso enorme, conosceva gli
epigrammi che Filodemo compose in età giovanile, poi compose testi filosofici di Filodemo,
nei papiri di Ercolano, contengono la filosofia di Epicureo, che è presente anche nei poeti
dell’età augustea. L’epigramma XVII della raccolta di Marcello di Gigante, filologo che si è
occupato dei papiri di Ercolano: “le arie musicali, le parole, l’occhio radioso, il canto di
Santippe, e il primo fuoco, o anima, ti incendieranno”, contrapposizioni di sentimenti che
provocano sofferenza nel cuore del poeta, fine del primo verso di Filodemo, da un punto di
vista sonoro rimanda all’Odi et amo, cosa possibilissima perché i poeti latini amavano questi
preziosismi della poesia alessandrina; oma kai odi/odi et amo, al contrario.
- Anacreonte, frammento 46 della raccolta di Gentili, “amo e poi di nuovo non amo, e sono
pazzo di amore e poi non sono più pazzo di amore”, oscillazione di sentimenti di amore e di
odio;
- Versi di Teognide, versi 1091 e 1094, “il mio cuore è in pena per amor tuo, non posso né
odiarti né amarti, e capisco come è difficile odiare quando c’è un vincolo di affetto, ma come
è difficile amare chi rifiuta”.
Catullo ha rielaborato questi versi: non basta la techne, ci vuole anche l’ingenium, l’ispirazione,
come è stato detto nell’Ars Poetica. Il fatto che noi leggiamo questo distico come se fosse spontaneo
è l’esito di una lunga elaborazione formale, e presentarlo come un testo originale, nascondendo i
modelli da cui lui si è ispirato.

CARME 86

Termini dell’estetica antica: parametri diversi rispetto ai nostri (capelli biondi e occhi chiari). I capelli
neri, gli occhi scuri erano le caratteristiche predilette dagli antichi: i barbari erano biondi e gli antichi
avevano una certa ostilità verso di loro. Formosa, candida, longa, venustas, pulcherrima, veneres:
armamentario terminologico che riguarda i canoni dell’estetica antica. Il carme parla di Quinzia, che
potrebbe essere la sorella di Quinzio, ma non ci sono prove certe che i due fossero fratello e sorella,
che può essere bella, ma non è significativa, non sarà mai Lesbia.

Quintia formosa est multis. mihi candida, longa, recta est: haec ego sic singula confiteor. Totum illud
formosa nego: nam nulla venustas, nulla in tam magno est corpore mica salis. Lesbia formosa est,
quae cum pulcerrima tota est, tum omnibus una omnis surripuit Veneres.

“Quinzia per molti è bella, è una bella donna: per me è candida, alta, diritta, io ammetto tutti questi
dettagli ma nego ma tutto quelle bella donna: infatti in un corpo così grande non c’è nessun fascino e
non c’è nessuna briciola di sale. Lesbia invece è bella, lei è sia tutta bellissima, sia lei sola ha sottratto
a tutte le altre donne ogni il fascino.”

“Formosa”: bellezza delle forme, corpo proporzionato, ben costruito, ben formato, senza nessun
eccesso, bellezza puramente esteriore.

“Multis” e “mihi”: dativi di relazione. Canoni estetici sono molto soggettivi, si gioca sull’arbriteraità.
Contrapposizione tra multis e mihi, per molte persone Quintia è bella, per me sarà bella, ma nego che
sia tutta questa grande bellezza di cui parlano: opposizione allitterante.

“Candida”: pelle chiara, pelle candida, donna era bella perché avevano la pelle chiara, gli antichi non
amavano l’abbronzatura e la pelle scura perché chi aveva la pelle scura o abbronzata, erano di
condizione servile, connotazione sociale e non erano gradite.

Nel Cantico dei Cantici, cercano di emulare l’epigrammatica ellenistica: una ragazza parla e dice, io
sono scura e per questo sono bella, questi erano i canoni di bellezza orientali. Quando Girolamo, di
cultura romana, traduce in latino “sono nera ma nonostante tutto sono bella” applicando le categorie
estetiche dei romani, invece di tradurre “et” ha tradotto col “sed”. Catullo rientra in questi canoni di
bellezza. In Omero, uno degli aggettivi più ricorrenti è leucolenos, dalle bianche braccia, leucos
corrisponde a candidus, usato per rimarcare la bellezza della donna.

“Longa”: ragazza alta, segno della bellezza. Riferimenti letterari: in Omero, nel sesto libro
dell’Odissea e Ulisse incontra Nausicaa, la sua statura, la sua altezza, assomiglia a una palma, e nel
Cantico dei Cantici, per riferirsi a una donna si dice che la tua altezza, statura assomiglia a quella di
una palma.

“Recta est”: longilinea, diritta. Prodelisione, “recta” ed “est”.

“Sic”: “ammetto sì questi singoli dettagli”, tradotto come “sì”, il sì italiano deriva dal sic latino, non
significa “così”.

“Haec singula”: singoli dettagli, ammessi perché sono dati aggettivi.

“Formosa”: quasi fuori dalla sintassi, perché si mette in evidenza il concetto e non l’aggettivo, per
cui diventa indeclinabile quasi e diventa neutro ed è concordato con “totum”, che è neutro.

Si passa dai dati oggettivi, non possono essere negati, se è alta, non è bassa, ai dati soggettivi.

“Nam…salis”: manca il fascino ed è una donna insignificante. Dettagli che non la rendono davvero
bella.

“Venustas”: nel vocabolario, è la leggiadria e la bellezza. Per Cicerone, il sostantivo veniva applicato
solo alla bellezza femminile, è l’aggettivo di “venus”, indica l’attrazione, il sex-appeal, ancor prima
di divenire la divinità. L’etimologia di venus in venustas, si può ricollegare a to win, ossia vincere,
colui che vince è attratto all’oggetto che ha vinto. Venus è l’attrazione verso qualcosa che ti interessa,
la venustas, è l’attrazione non è necessariamente motivata da un dettaglio fisico.

“Nulla in tam magno est corpore mica salis” Donna insignificante, poco interessante, nonostante sia
in un corpo così cospicuo e vistoso, non c’è una briciola di sale. Elisione tra “nulla” e “in”, e una
prodelisione tra “magno” ed “est”.

Contrapposizione con Lesbia, formosa e bella.

“Quae”: pronome relativo.

“Cum…tum”: in correlazione.

“Omnibus/una”: una è riferito a Lesbia, lei sola ha rubato tutta la bellezza: caratteristiche esteriori
“pulcherrima” e quelle interiori “Veneres”.

“Omnis”: forma arcaica di omnes.

“Veneres”: non indica la divinità, ma la capacità di attrazione.

CARME 87
Si riferisce a Lesbia, esprime tutto l’amore che le ha dato.

Nulla potest mulier tantum se dicere amatam vere, quantum a me Lesbia amata mea est. Nulla fides
ullo fuit unquam foedere tanta, quanta in amore tuo ex parte reperta mea est.

“Nessuna donna può dire di essere stata sinceramente tanto amata, quanto la mia Lesbia è stata amata
da me. Nessuna lealtà fu mai tanto grande in alcun patto quanta è stata trovata nel tuo amore da parte
mia”

“Nulla”: posizione enfatica riferito a “mulier”, all’inizio del verso.

“Mulier”: indica la “puella”, la donna amata, una connotazione tradizionale, evoca il matrimonio
tradizionale, “coniugium”, e dopo parla di “fides” e “foedus”, colonne portanti del matrimonio
tradizionale. “Puella” indica delle esperienze transitorie. “Mulier” è più impegnativo, è stato patto
stabile, indica quasi la moglie.

“Vere”: in enjambement con “amatam”, sinceramente, intensamente, veramente.

Sottinteso “esse”: “amatam esse”, infinito perfetto, in una proposizione oggettiva, “nulla mulier
potest dicere se amatam esse tantum quantum”.

“Lesbia mea”: rimarca che è la sua donna, Catullo è possessivo.

Ripetizione stesso stilema, soggetto è la lealtà e non la donna: “nulla fides…” con la presenza dei
soliti concetti “foedus” e “fides”.

“tanta…quanta”: si riferisce alla “fides”.

Metrica: “quanta” e “in”, elisione, “tuo” ed “ex”, dove “ex” cade nella cesura, di solito la
preposizione si appoggia con l’accento alla parola che segue. “Mea” ed “est”, elisione. “Ex parte
mea”, invece di “a me”, è una varatio, ma non è il massimo, è un’espressione formale.

CARME 88

Serie di epigrammi contro il solito Gellio: bollato per la fama di incestuoso, con la matrigna e la
sorella e con le cugine.

Quid facit is, Gelli, qui cum matre atque sorore prurit, et abiectis pervigilat tunicis? quid facit is,
patruum qui non sinit esse maritum? ecquid scis quantum suscipiat sceleris? suscipit, o Gelli,
quantum non ultima Tethysnec genitor Nympharum abluit Oceanus: nam nihil est quicquam sceleris,
quo prodeat ultra,non si demisso se ipse voret capite.

“Oh, Gellio, che cosa fa colui che prova prurito con la madre e con la sorella, e veglia tutta la notte
spogliato delle vesti? Che cosa fa colui che non lascia che suo zio faccia il marito? O on sai quanto
grande crimine sta commettendo? Oh, Gellio, commette un crimine così grande che né il mare più
lontano né l’oceano padre delle ninfe potrebbe lavare, infatti non c’è altro crimine contro il quale
potrebbe spingersi neppure chinato il capo si divorasse da solo”
Distinzione tra il “crimen”, delitto punito dal Codice penale e il “flagitium”, l’incesto, deprecabile
ma non contravveniva al Codice penale. Le calunnie nell’Antica Roma, venivano punite
pesantemente, erano molto molto gravi. Gli epigrammi di questo tipo, per calunniare un’altra persona,
fanno parte di un genere letterario, presente anche nell’Antologia Palatina, per cui Catullo ha pagato
il pedaggio al genere, e inoltre non sappiamo se Gellio sia uno pseudonimo o un nome reale.

Prima domanda in termini generali.

“Prurit”: senso sessuale.

“Abiectis tunicis”: ablativo assoluto.

“Pervigilare”: indica un’azione durativa, più lunga, “tutta la notte”.

“Quid…is”: anafora, seconda domanda, attacco in un precedente carme a Gellio, facendo tacere lo
zio, rimando a quel carme.

“Ecquid”: formula popolare, indica quasi un “non”, in una domanda retorica, presente in Plauto.

“Quantum scelleris”: genitivo partitivo di “quantum”.

“Suscipiat”: prendere su di sé, accollarsi.

Frase quasi ellittica: “quantum” senza il correlativo, “suscipit tantum scelleris quantum…”,
ovviamente compendiato, ossia struttura compendiaria, certe espressioni che possono essere capite
attraverso l’intuizione.

“Tethys”: mare, prosopopea, corrisponde al mare.

“Ultima”: superlativo di ultra, ciò che sta molto oltre, mare sconfinato.

“Oceanus”: padre delle ninfe, prosopopea, vastità del mare.

“Nympharum”: sarebbero le ninfe, le Oceanine, di cui parla Esiodo nella Teogonia. Congettura di
Luciano Muller: legge “Linfarum”, acqua dei fiumi o dei laghi, padre di tutte le acque, l’oceano è il
padre di tutte le acque.

“Abluit”: purificare, abluzione, lavaggi di purificazione. Dal punto di vista etimologico “abluel”
significa “lavare via da”, ab significa separazione, colpa che non potrebbe essere purificata, lavaggio
che è finalizzato a rimuovere qualcosa che ha sporcato la coscienza, verbo tecnico.

“Quicquam”: neutro di “quisquam”, si usa in contesti negativi, pleonastico per rimarcare che non c’è
nessun crimine più grave di questo, perché c’è già nihil.

Soggetto di “prodeat” è sempre “is”, ossia “colui”, carattere generale ma si riferisce a Gellio.

“Quo”: avverbio di moto a luogo. “Ubi”, stato in luogo. “Unde”, moto da luogo. “Qua”, moto per
luogo. “Ultra”, è avverbiale, significa “oltre”.

“Demisso capite”: ablativo assoluto.


Ultimo verso, volutamente oscuro e ambiguo: “Vorare”, usato in carme a luci rosse, riferimento ad
un’autofellatio, si divorasse da solo, se si unisce alle sue parenti, non gli resta che “divorare” sé stesso.

“Matre” e “atque” per elisione; “nympharum” e “abluit” per sinalefe che cade proprio nella cesura;
“se” ed “ipse” per elisione.

LEZIONE 12 (12/11/2020) Gianluca Aru

Il Carme 89 è sempre rivolto a Gellio, che probabilmente era uno dei rivali in amore di Catullo. Nel
carme 91 (vedi il prossimo) si chiarisce meglio questa rivalità in Amore con Catullo, ammesso che
sia la stessa persona, perché non tutti sono d'accordo. Ci sono alcune particolarità di carattere metrico
che metteremo in evidenza.

Traduzione.

Gellio é smunto: perché no? (come no?) Perché dovrebbe smettere di essere magro lui che ha una
madre così buona, così energica, una sorella così affascinante, uno zio così bravo, la casa così piena
di ragazze sue parenti? Quand'anche non toccasse nulla se non ciò che è lecito toccare troverai mille
motivi, perché lui è così magro.

Il tema centrale è la magrezza, la "tenuitas" di Gellio, dovuta appunto a questa iperattività sessuale.

Qui c' un uso della aggettivazione piuttosto equivoca volutamente perché per esempio

- La madre è chiamata "bona" che di per sé vuol dire buona, brava, ma diciamo così può
essere intesa anche in senso piacente. Una madre come diremo in senso volgare in italiano una madre
"bona",

- e così anche "valens". È così "energica". "Valens" vuol dire "che é in salute", quindi che
sta bene. Energica perché si dedica molto a questa sua attività con il figliastro. Dicevamo non é
probabilmente la madre, ma se consideriamo la fonte che è Valerio Massimo dovrebbe essere la
matrigna, ammesso che ci sia questa identità fra questo Gellio e quello descritto da V. Massimo.

- e poi anche una sorella così affascinante - abbiamo già commentato il "venustus" come
attraente - uno zio così bravo, conosciamo anche lo zio - e poi dice tutta quanta la casa. "Omnia"
quando si usa così in un contesto familiare Omnia indica la casa, e "tutta la casa piena di ragazze
sue parenti" -è il riferimento alle sue cugine.

Questo cognatis indica le ragazze sue parenti. Attenzione cognatus in latino non ha lo stesso
significato dell'italiano. Bisogna sempre puntare alla struttura etimologica della parola. In questo caso
cum + gnatus, che sarebbe "nato insieme", quindi nato nell'ambito della stessa famiglia (in questo
caso in senso di clan/tribù). Quindi quelle "cognato" sono le ragazze sue parenti, ad indicare che ha
delle belle ragazze come parenti, come cugine, zie.

Ecco uno così perché dovrebbe smettere di essere magro?

Questo "desinat" è un congiuntivo dubitativo. "Quare desinat?" Perché dovrebbe smettere di essere
magro. Il "macer" alla fine del IV verso è sinonimo di "tenuis", sottile, smunto. Macer é proprio
come il nostro magro. E la nostra parola per magro deriva da macer. E poi continua: "Quand'anche
non toccasse nulla se non ciò che è lecito toccare", in realtà lui tocca proprio le persone che
dovrebbe rispettare, "troverai mille motivi per cui lui sia magro". La cosa che ci interessa qua da un
punto di vista della sintassi é questo congiuntivo "Ut Attingat" che ha il valore di una proposizione
concessiva. Sappiamo che "UT + il congiuntivo" può esprimere una proposizione finale, una
posizione consecutiva, una proposizione completiva o complementare diretta o qualche volta può
essere una causale. In questo caso, invece UT esprime una proposizione concessiva. "Anche se",
"Quand'anche", "Ancorché" non toccasse nulla di ciò é lecito toccare .... Questo "fas est" "è lecito"
fa riferimento - come dicevamo ieri- al fatto che l'incesto non era un crimine punito dalla legge ma
era una scelleratezza, un flagitium, come dicevano i romani stessi, legato alla sfera della moralità,
della religione. Ciò che non è lecito moralmente, ciò che non è lecito anche da un punto di vista della
Pietas. Quindi FAS non è IUS. In latino si diceva <<contra ius fasque>> <<contro ogni legge divina
ed umana>>. Lo Ius é appunto la legge divina, quella positiva, nel senso di quella stabilita degli
uomini per convenzione mentre il FAS é la legge che fa riferimento alla sfera della morale. Qui
non dice "ius est" ma dice "fas est". Cio' che non é lecito toccare. Allora dice tu troverai "quantumuis"
mille motivi per cui lui é così magro. Quantumuis é un avverbio, quantum vis, sarebbe "quanto
vuoi". Quindi "troverai quanto tu vuoi perché lui sia così magro". Ci sono alcune parti da
evidenziare dal punto di vista metrico. "Quid ni?": "perché no?" "E come no?". Il verbo vivere. Qui
il verbo vivere collegato con il dativo costruisce quasi una costruzione con dativo di possesso, è
come se fosse "cui sit", letteralmente "al quale sia una buona madre", letteralmente "al quale viva
una buona madre", "una sorella affascinante", cioè il fatto che abbia una buona madre, una sorella
affascinante e così via. Da notare anche la alliterazione "valens", "viva", "venusta" insistita. Questa
"v" iniziale che crea una alliterazione intenzionale. Anche "patrum" "plena" "puellis" é una
allitterazione tripla. Poi abbiamo una elisione in tamquomnia: tamque omnia. Altra elisione la
abbiamo in <<qui ut nihil>> ... leggiamo qui ut senza fare troppi equilibrismi fonetici: quut sarebbe
cacofonico. "quare": la "E" è lunga in quanto la parola é composta da qua e re dove re é l'ablativo
di res, rei quindi la desinenza é lunga.

Domanda dalla chat. chiedono di precisare differenza fra FAS e IUS. FAS é qualcosa che é lecito
a livello morale perché magari sancito da una norma etica mentre IUS è ciò che è stabilito dalla
legge umana dalla legge positiva. La legge positiva è una legge che è stata posta (quindi stabilita)
dall'uomo per convenzione. Le leggi non sono di diritto divino ma sono delle regole. Una società di
uomini si impone per convenzione delle leggi da seguire. Tutti quanti siamo d'accordo che si gioca
in questo modo e allora quello diventa IUS. Quindi è una legge un diritto per convenzione. Una legge
positiva. Il FAS invece é una legge naturale che secondo gli antichi aveva la radice nella stessa
volontà degli Dei. Il fatto, per esempio, che un figlio non possa unirsi con la mamma, non é un fatto
di IUS ma é un FAS, una legge naturale, divina, che deve essere rispettata, anche se non c'è poi una
sanzione da parte del diritto penale.

La frase funziona così: "Perché dovrebbe smettere (desinat) (esser macer) di essere magro (is cui)
colui al quale vive una madre così buona così energica, una sorella così affascinante uno zio così
bravo una casa così piena di ragazze sui parenti". In tutta questa frase NON c'è una sfumatura di tipo
concessivo, quindi questo "cui vivat" é che come se fosse "Cui sit" e quindi il "cui" avrebbe il valore
di un dativo di possesso. Uno che è così, che ha questa tendenza all'incesto non può non essere magro.

CARME 90

Ha sempre come protagonista Gellio e c'è sempre questo rapporto incestuoso fra lui e la madre. Si fa
riferimento ad una consuetudine presente in Persia, dove i maghi potevano avere rapporti incestuosi
con i parenti.

Diciamo che non è un carme molto comprensibile. E' piuttosto oscuro nel suo senso generale.
Possiamo desumere la solita tendenza (incestuosa) del nostro Gellio. Il fatto che appunto i maghi
persiani avevano questa caratteristica. Dice Catullo ironicamente "dal matrimonio, dal coniugio, dal
rapporto tra la madre, la matrigna e Gellio dovrebbe nascere un mago persiano che potesse fare dei
sacrifici agli dei. Questo é un po' il senso generale di questo carme.

TRADUZIONE

Dal rapporto nefando fra Gellio e la matrigna nasca un mago e impari l'arte aruspicina dei persiani.
Infatti bisogna che da figlio e madre venga generato un mago se è vera l'empia superstizione dei
persiani finché gradito (gratus) riconoscente possa venerare gli dèi con una preghiera ben accetta
sciogliendo il grasso unguento nella fiamma.

Questo "nascatur" é un congiuntivo esortativo/concessivo. Nasca un mago. Se é concessivo sarebbe


"nasca pure un mago dal rapporto tra Gellio e la madre". Diciamo che entrambi i modi sono
accettabili. "Coniugium" non é semplicemente riferito al matrimonio ma é riferito a qualsiasi
rapporto stretto. Basta guardare a come é strutturata questa parola dove c'è il "cum" che indica
"insieme". Poi c'è "iugum" che é il giogo quindi il "coniugium" é la condizione di essere aggiogati
assieme. Quindi può essere il matrimonio ma può essere qualsiasi altro rapporto fra due persone che
vivono a stretto contatto, che vivono un rapporto molto stretto anche se non é un rapporto legittimo.
Catone però dice questo coniugio é comunque nefando, "nefandum". Anche l'etimologia di questa
parola é basilare dove c'è il "ne", negazione, poi c'è la radice di for, faris come femi del greco che
significa "dire". Quindi é un rapporto di cui non si può parlare, quasi inconfessabile, indicibile per
la sua gravità.

A proposito di iperbati o di disposizioni particolari delle parole, notiamo che la preposizione "ex" ha
come sostantivo "coniugio", ablativo che si trova nel verso successivo. Abbiamo "Gelli matrisque"
i genitivi che sono incastonati tra la preposizione e il sostantivo in una specie di enjabment,
inarcamento, fra un verso e l'altro.

E poi dice questo mago cosa fa. "Discat persicum aruspicium" cioè "impari, apprenda, l'arte della
aruspicina (aruspicium), l'arte della divinazione persiana". Di per sé noi sappiano che l'aruspicina
era di origine etrusca, i romani l'hanno ereditata dagli etruschi e consisteva soprattutto nella
osservazione delle viscere degli animali sacrificati. Si tratta di una parola etrusca la cui costruzione
etimologica non é chiara. L'unica cosa che possiamo desumere è questo "spicium", dal verbo
"specio", "osservare", "guardare".

Quindi l'arte aruspicina non può essere sicuramente persiana. I persiani conoscevano l'arte della
divinazione. Ma è chiaro che è un'altra cosa rispetto all'aruspicina che noi conosciamo in territorio
italico. Quando noi abbiamo qui "Magus" non dobbiamo pensare a mago come il mago otelma o al
mago illusionista. In latino "magus" è soprattutto l'astrologo. L'astrologo che riesce magari a
prevedere il futuro attraverso la osservazione degli astri.

NOTA. Cosa diversa é l'auspicium parola che deriva da avispicium che indica l'osservazione degli
uccelli ed è diverso dall'osservazione delle viscere degli animali sacrificati.

Catone continua "infatti un mago, nel senso che abbiamo appena detto, bisogna che da madre e figlio
venga generato e quindi nasca un mago se è giusta la empia superstizione dei Persiani."

Osserviamo questo "gnato" "gignatur" è una specie di figura etimologica "gnato" è la grafia arcaica
per "nato". Chiaramente la grafia é sempre quella del greco "ghignomai", "gigno". "Ghnatus" é il
prodotto del "gignere" quindi "gnato" forma una figura etimologica. E "gignatur" é una varitio rispetto
a "nascatur " del verso iniziale. Da un punto di vista della sintassi abbiamo questo "opportet" che
regge questa complementare diretta con "gignatur". Cioè "bisogna (opportet impersonale) che un
mago venga generato da madre e figlio". Ovviamente manca UT proprio della complementare diretta
(chiamata anche completiva). Questo "UT" che manca, formerebbe il costrutto del congiuntivo
paratattico. Che é quella proposizione subordinata che normalmente si traduce con ut e il congiuntivo
che però omette la congiunzione UT. Lo facciamo anche in italiano: Spero sia bello, spero che sia
bello. E dice se è vera la empia religione dei Persiani.

Ripete per ulteriori spiegazioni. Talvolta una proposizione completiva con il congiuntivo viene
accostata alla principale senza UT. Questo costrutto, questa modalità si chiama congiuntivo
paratattico esattamente come in italiano. La proposizione completiva al congiuntivo viene così
giustapposta, accostata alla principale, semplicemente così senza alcuna congiunzione.

Tornando al verso 4 "religio" va intesa non come religione ma come superstizione. Anche Lucrezio
parla di religione come superstizione. Ovviamente questa "religio" è detta empia perché contravviene
alla pietas. "Impius" é ciò che va contro la Pietas. Siccome qua si parla di un rapporto incestuoso,
dove non c'è rispetto per i parenti, allora questa superstizione, questa pratica è appunto "impia" perché
é contro questo cardine morale, etico di Roma.

Piccola digressione. Religio cosa significa? Qualcuno dice che "religio" deriva da religare perché è
questo legame che si crea tra l'umano e il divino. "Religare" cioè "creare un collegamento". E questa
etimologia la dava anche Agostino. In realtà religio deriva da relegere, che significa ripetere.
Perché? Perché le formule religiose si caratterizzano per la loro fissità quindi sono degli schemi, dei
riti che devono essere ripetuti in maniera precisa, senza alcuna sbavatura perché altrimenti quella
formula non funziona, non coglie nel segno e non arriva fino agli dei. Quindi significa ripetere senza
alcuna sbavatura. Pensiamo alla liturgia cristiana. La messa è sempre uguale, a parte le letture, ma il
testo sempre quello é, perché la liturgia, la formula deve essere ripetuta esattamente senza alcuna
variazione. Releggere, ripetere esattamente la formula il rito la praticae non "religare", cioè creare un
legame tra l'uomo e Dio.

Quindi dice "se è vera questa empia superstizione dei Persiani" questo "UT" - lo intenderei come
finale e quindi - "affinchè" "gratus" quindi "riconoscente" "veneretur divos" "veneri gli dei",
"accepto carmine" "con la preghiera ben accetta.

Ricordiamo che le preghiere antiche erano sempre cantate. Ecco perché si parla di carmen. Anche
le preghiere che abbiamo citato altre volte di Catone nel De Agricoltura sono definite carmina perché
sono parole cantate. Carmen deriva da Canmen con dissimilazione dal vervo "canere" che significa
cantare. Quindi carmen è un testo che viene cantato. Cos'è una dissimilazione? Sono due suoni
uguali che tendono a differenziarsi per una pronuncia più agevole, quindi "canmen" diventa
carmen proprio per differenziare queste due nasali che creano questo intoppo nella pronuncia. Quindi
"accepto carmine" è appunto una "preghiera ben accetta agli dei". Poi c'è il riferimento alla
osservazione delle viscere di cui si parlava prima "squagliando il pingue omento sulla fiamma per
osservare appunto le viscere". L'omento è quella pellicola con la membrana che ricopre le viscere. Il
tutto è ironico e ha un finale piuttosto comico perché lui dovrebbe guardare le viscere poi sembra
quasi che stia cucinando.

Dal punto di vista della metrica. La cosa più importante è al verso 4 dove abbiamo una sinalefe proprio
dove c'è la cesura, cioè "si veràst persàr" "ìmpia rèligiò" oppure visto che c'è la cesura si può anche
spezzare il ritmo "si veràst persàrum" "ìmpia rèligiò". Poi altro elemento a proposito di metrica,
questo liquefaciens ... di per sé questa "E" è breve però qui c'è una esigenza metrica per cui Catullo
la considera lunga. Infatti diciamo "omentìn" sinalefe "inflammà" "pìngueliquefaciéns" quindi c'è
sinalefe fra "omentum" ed "in" e poi questa "E" in "liquefaciens" che diventa lunga. Si chiama
allungamento in arsi cioè quando l'accento cade sull'ultima sillaba del verso, anche se la sillaba è
breve diventa lunga per esigenze metriche.

Riprende alcuni versi secondo le richieste.


Traduzione Versi 5 e 6: "affinché riconoscente veneri gli dei con una preghiera ben accetta
sciogliendo il grasso omento sulla fiamma". Per "gratus", alcuni editori mettono "gnatus" e quindi
ripetono il figlio. Però diciamo che c'entra poco il figlio. Al verso 4 abbiamo una sinalefe proprio
dove c'è la cesura, cioè "si veràst persàr" "ìmpia rèligiò" ma visto che c'è la cesura si può anche
spezzare il ritmo "si veràst persàrum" ìmpia rèligiò". L'importante è non perdere il ritmo. Traduzione
del verso 3. "bisogna che un mago venga generato da madre e figlio". Dal rapporto tra madre e figlio.
"Vera est" è una prodelisione ---> "verast", omentum in è una sinalefe. La prodelisione è l'apocope
della vocale del verbo essere con una parola iniziale per vocale o per nasale.

Per protagonista c'è sempre Gellio. In questo 91° carme si vede bene come forse Gellio poteva essere
un rivale di Catullo, perché sembra che dica che c'ha tentato anche con Lesbia o comunque con una
donna amata da Catullo. Non si da un nome ma é molto probabile che si parli della solita Lesbia.

Traduzione.

Oh Gellio io speravo che con questo nostro infelice disperato amore, tu mi saresti stato fedele, non
perché io ti conoscessi bene e ti ritenessi coerente (affidabile) o perché pensassi che io potessi inibire
la mente (l'intenzione) (pensassi di tenere la tua mente lontana) da una turpe infamia (vergogna), ma
poiché vedevo che questa donna per cui mi (divora) divorava un grande amore, non ti era né madre
né sorella. E sebbene (benché) Io fossi unito a te da una lunga (molta) dimestichezza (familiarità,
non amicizia), non credevo (avrei creduto) che questo per te fosse un motivo sufficiente ma tu l'hai
ritenuto sufficiente tanta è la gioia che tu trovi in ogni colpa dovunque ci sia una qualche
scelleratezza.

Cosa si deduce da questo carme? Che Catullo e Gellio facevano parte della stessa cerchia, anche se
non sembra che trai due ci fosse una amicizia però Catullo era abbastanza tranquillo in quanto sapeva
che Gellio ambiva soltanto alle donne che fossero sue parenti, la matrigna, la zia, la cugina quindi
essendo Lesbia non sua parente pensava che Gellio la lasciasse in pace. Evidentemente invece ci tentò
anche con Lesbia o comunque con la donna amata da Catullo e dice "evidentemente a te piacciono le
scelleratezze" e quindi non solo sei incline all'incesto ma sei incline anche al tradimento, alla
scorrettezza nei confronti degli amici e dei conoscenti. Ecco da qui si potrebbe forse dire che Gellio
potrebbe essere stato un rivale di Catullo ed ecco perché lo attacca così duramente anche in altri
carmi.

Commento al testo. Quando uno analizza un testo deve stare un po' attento ai segnali stradali, cioè a
tutti quegli indicatori che gli consentono di individuare bene i nessi sintattici. Allora noi abbiamo
questo "video" in seconda posizione che ha una funzione prolettica rispetto al "quod" causale che
troviamo nel verso 3. Cioè "Io speravo che tu mi saresti stato fedele" non "per il fatto che" non "ideo
quod" non "per questo motivo cioè perché". Questo "video" é prolettico cioè anticipa il "quod"
causale che troviamo al verso 3. Poi è da notare che abbiamo due causali una con il congiuntivo,
l'altra invece con indicativo: "quod cognossem" e poi "quod videbam". Perché la prima causale al
congiuntivo e la seconda invece ha un indicativo? La prima causale va con il congiuntivo "quod
cognossem" e "putarem" perché è una causa puramente presunta, e infatti la sta negando, "non
perché io conoscessi ... o perché pensassi" "ma perché vedevo", la prima causa è una causa supposta,
presunta, mentre la seconda causa è data come oggettiva. Ecco perché la prima ha il congiuntivo e
la seconda ha l'indicativo. Anche in Italiano funziona nello stesso modo.

"O Gellio, io speravo" poi da "sperabam" dipende una proposizione oggettiva che ha "fore", l'infinito
futuro.

Ricordate il detto latino "spero, promitto e iuro reggono l'infinito futuro" perché la speranza l'augurio
e l'auspicio sono un qualcosa che è proiettato nel futuro. Quindi il latino costruisce sempre l'oggettiva
che segue questi verbi con infinito futuro.

"Io speravo che tu in questo nostro infelice disperato amore mi saresti stato fido (cioè fedele), cioè
non mi avresti rotto le scatole con Lesbia o con la ragazza che io amavo. Questo è il senso crudo del
pensiero.

Nel verso 2 notiamo che abbiamo una anafora con la ripetizione di hoc "in questo nostro infelice ....
in questo disperato amore".

Molti dicono che questo amore infelice e disperato non può che essere l'amore per Lesbia perché usa
queste espressioni anche in altri carmi. La cosa non è matematica, non è una prova assoluta, però
probabilmente si tratta di Lesbia. Probabilmente!

"Non perché io ti conoscessi bene" "cognossem" è la forma ridotta per il piùcheperfetto


"cognovissem". "Non perché ti conoscessi bene" letteralmente sarebbe "non perché ti avessi
conosciuto bene". Però qualche volta come abbiamo visto anche in altri Carmi il più che perfetto
quasi corrisponde al nostro imperfetto italiano. Tanto è vero che se ci pensate bene conoscesse
"cognossem" la derivazione è quella dal più che perfetto e non dal congiuntivo imperfetto.

Poi abbiamo "non perché ti ritenessi" "onstantem" "affidabile". "Constans", riferito all'amicizia viene
usato anche da Cicerone nel De Amicizia e quindi si riferisce all'amico che non fa il doppio gioco,
che è sempre uguale, che è costante, quindi che è coerente, quindi che è affidabile, è attendibile come
amico perché non cambia, è uno su cui puoi fare tranquillamente affidamento. "Oppure" dice "perché
pensassi di poter inibire (tenere lontano, inibeo) la tua mente (cioè le tue intenzioni) da una turpe
infamia", cioè quella del tradimento, cioè quella di fregargli la donna amata, questo è il "probrum".
Anche " probrum " come "flagitium" è qualcosa di vergognoso, anche se non necessariamente
incorrente nel diritto penale. È un comportamento riprovevole. C'era anche vi ricordate l'espulsione
dal Senato "probri causa". Sallustio fu colpito dalla "probri causa" per un comportamento
riprovevole che poteva anche non essere perseguito per legge ma il senato poteva decidere di cacciarlo
via dalla seduta in caso avesse un comportamento riprovevole.

Dire "turpis" e dire "probrum" è un po' dire la stessa cosa quindi c'è una specie di pleonasmo. Il
"probrum" è sempre turpe, ovviamente.
Dice "ma poiché io vedevo che questa donna, la cui grande passione mi rodeva, non ti era né madre
né sorella" visto che tu ambisci sempre alle tue parenti.

Una cosa interessante questa anastrofe "neque quod" dovremmo tradurlo come se fosse "quod
neque" "sed quod neque" cioè "ma poiché io vedevo che questa (questa donna) il cui grande amore
mi rodeva" (letteralmente mi mangiava), "non ti era né madre ne sorella". Questo "Germanam" è
interessante. Noi lo traduciamo come "sorella" perché anche "germanus" (come lo spagnolo
hermano, fratello) ha la stessa radice di gens, gentis. È la stessa radice del verbo gigno o ghignomai
del greco. "Manus" poi è il suffisso di formazione di alcuni aggettivi. La forma originaria era "gen
manus", quindi sarebbe nato nella stessa "gens", della stessa gente, poi "R" è frutto della
dissimilazione, come in "can men" che diventa "carmen". Questo perché in latino l'accostamento di
"N" e di "M" non è molto gradito al parlante e allora si dissimila facendo diventare quella "N" una
"R". Quindi "germanam". "Et quamvis tecum multo coniungerer usu, non satis..." "E benché io fossi
unito a te "multo uso" cioè fossimo in rapporti di familiarità", di dimestichezza - qui non si parla di
amicizia, perchè l'usu non vuol dire l'amicizia, l'usus è la pratica, la frequentazione di una persona,
il fatto che si condividano certi spazi non significa per forza che due siano legati da amicizia, questo
è l'"usus" per il latino, e soprattutto se fossero stati amici Catullo lo avrebbe detto. La preposizione
"quamvis" è una proposizione concessiva. "Sebbene io fossi unito con te .....". "Crediveram" è un
più che perfetto. "Non avrei mai creduto che questo motivo ti fosse sufficiente per fare quello che
hai fatto".

Un particolare. Questo "causae" è in genitivo perché è un genitivo partitivo di ID. Spesso in latino
possiamo usare questa costruzione del neutro del pronome più il genitivo, per esempio, anziché dire
quel tempo, cioè "id tempus" Io posso dire "id temporis", quindi "id" come se fosse sostantivato,
neutro, e poi genitivo partitivo. E anche qua abbiamo "id" - neutro sostantivato del pronome - più
genitivo "causae", quindi quel motivo un tale motivo. "Io non avrei creduto che un tale motivo ti
fosse sufficiente (satis, avverbio) perché tu mi facessi questo sgarbo". E poi dice "tu satis id duxti"
"tu lo hai ritenuto sufficiente" dove questo "duxti" é la forma sincopata per "duxisti", cioè la seconda
persona del perfetto di "duco", forma ridotta sicuramente per esigenze metriche. "Duco" non significa
solo condurre ma qualche volta significa anche ritenere, pensare come "puto". Poi c'è la stoccata
finale. "Tanta è la gioia per te (che tu provi) in ogni colpa dovunque "in quacumque" ci sia una
qualche scelleratezza". Cioè più la colpa è sporca e scellerata più ti fa provare gioia, più tu ci godi.
Questa è l'accusa che Catullo sta facendo. La costruzione è abbastanza normale. "tibi est" è
sicuramente un dativo di possesso. "tanta gioia tu hai in ogni colpa dovunque c'è una qualche
scelleratezza". Abbiamo la stessa cosa di prima "aliquid" il pronome indefinito neutro che regge un
genitivo partitivo "sceleris" da "scelus scleris", letteralmente sarebbe qualcosa di scelleratezza.

Carme 92

Secondo Gellio, l'autore delle "noctes atticae" questo carme è un esempio di perfezione versificatoria.
Tutti ai suoi tempi ritenevano questi versi molto affascinanti. C'è sempre Lesbia come protagonista,
abbandoniamo Gellio e torniamo alla nostra Lesbia.

Lesbia mi dicit semper male nec tacet umquam


de me: Lesbia me dispeream nisi amat.
Quo signo? quia sunt totidem mea: deprecor illam
assidue, verum dispeream nisi amo.

Lesbia parla sempre male di me e non sta mai zitta


sul mio conto: possa io morire se Lesbia non mi ama.
Con quale segno? (Con quale prova? sottinteso "io faccio questa affermazione)
Perchè sono gli stessi miei sintomi: io la maledico
di continuo. ma possa morire se non la amo.

C'è una certa simmetria all'interno del carmen. Ecco perché Gellio la riteneva una poesia perfetta. Ci
sono dei giochi di parole perché nel primo verso - se ci pensate bene - "dicit semper" corrisponde
"nec tacet umquam" cioè "dire sempre" e "non tacere mai" sono la stessa cosa, solo che è detto in
forma di litote.

Dire "dicit semper male me" è la stessa cosa che dire "tacet umquam de me" però rovescia la
affermazione usando una litote, questa figura retorica. In ogni caso non riesce a tacere su di me. e poi
continua "possa io morire" espresso con un congiuntivo ottativo. Nel senso che io posso scommettere
- da questi sgnali - che Lesbia è ancora innamorata di me.

"Quo signo?" ablativo strumentale "con quale prova?", sottinteso io dico questo? Perché qeusti
"signa", queste prove, sono altrettanto mie, cioè sono i miei stessi sintomi. Poi il verbo deprecari non
significa pregare, ma è un sinonimo di maledicere cioè "io la maledico" "assicue" "continuamente"
"in continuazione" e qui anche "assidue" fa pandan con "semper" perché prima "dicit male semper"
e poi dice "deprecari assidue", sta dicendo la stessa cosa, é lo stesso atteggiamento. "Ma" "verum"
"dispeream" stessa cosa cioè congiuntivo ottativo, "ma possa io morire (crepare)" "se non la amo".
Catullo si consola così.

Quo signo? È un ablativo strumentale. Con quale segnale (puoi dirmi questo)? Quali sono le prove
per cui tu ... oppure anche per quale motivo sta accadendo questo? Perché sono ugualmente "mea
signa!", perché sono i miei stessi sintomi.

È un carmen molto sintetico. Ha uno stile veramente alessandrino. Per capire i carmina di Catullo
bisognerebbe scorrere quelli della antologia palatina, e ci si renderebbe conto che molti stilemi sono
gli stessi, perché a parte la soggettività impetuosa che Catullo inserisce nella sua poesia poi i modelli
sono quelli. Da un punto di vista di sinalefe ed elisioni l'unica particolarità metrica è forse "nisi amo"
che diventa "nisamò" per elisione. Forse anche per questo gli antichi ritenevano questi versi perfetti,
perché tutto sommato sono molto regolari, ben strutturati, la sintassi è molto semplice. Uno degli
indizi della perfezione formale del distico è quando il pensiero è contenuto all'interno di uno stesso
distico. Quando il pensiero è trasversale, è espresso in più distici, allora questo non è segno di
perfezione. Non c'è un intreccio strano, oltretutto c'è specularità fra nisi amat e nisi amo. Ci sono
diversi richiami che rendono questo carme un gioiellino da un punto di vista formale.

LEZIONE 13 (13/11/2020) Martina Lepori

Il carme 93, ci stiamo già volgendo verso la fine di epigrammi e del canzoniere di Catullo e questo è
un tema questo del Carme 93 forse il nuovo almeno per noi, per questo corso perché mette in luce un
altro aspetto della poetica neoterica di Catullo, un aspetto che abbiamo già rilevato cioè quello del
disimpegno politico vedete che vi ho citato un personaggio di primo piano Cesare, il quale era in
buoni rapporti con la famiglia di Catullo nonostante questo lui senza problemi afferma che non gli
importa nulla di sapere chi è Cesare quale sia la sua politica addirittura non importa neanche di sapere
se sia bianco nero, se abbia la pelle bianca o la pelle nera.
Vediamo di leggerlo poi lo commentiamo forse un po' meglio:

Carme 93
Nil nimium studeo, Caesar, tibi velle placere,
nec scire utrum sis albus an ater homo.

Dice io non mi sforzo troppo Cesare di volerti piacere di volerti andare a genio di esserti gradito, né
di sapere se sei un uomo bianco o nero. Qui non sta insultando Cesare, Cesare loo conosceva e
provava anche una certa indulgenza per il giovane poeta ma sta semplicemente usando un proverbio
quello dell'uomo bianco e dell'uomo nero un proverbio che ho testato anche in Cicerone per dire non
importa nulla di chi Cesare sia cioè non mi voglio schierare né da una parte né dall'altra non mi voglio
occupare di politica ,quindi, diciamo che il significato di questo Carme è soprattutto politico cioè il
distanziarsi totalmente dalla vita politica del tempo. Noi sappiamo da alcune fonti che Cesare era in
buoni rapporti con Catullo e sappiamo anche che lui ci rimase male per alcuni epigrammi che Cesare
scrisse non quanto contro di lui, quanto contro i suoi collaboratori, soprattutto un certo Mamourd. il
prefectus fabrus nelle campagne di Cesare che viene attaccato pesantemente da Catullo per essere
uno spendaccione, ingrassatore, un donnaiolo senza scrupoli insomma un tipaccio infatti vedremo
che anche nel carme successivo, nel 94 dietro questo personaggio mentila c'è appunto il nostro
Mamour, quindi Cesare un po se la prese perché aveva attaccato così pesantemente il collega, il suo
collaboratore. Però si dimostrò piuttosto indulgente, c’è lo dice Svetonio, sapete che questo’ultimo è
un biografo, una malalingua perché riporta anche dei pettegolezzi intorno agli imperatori però
diciamo sono notizie sicuramente fede degne perché sappiamo che Svetonio poteva avere accesso
anche agli archivi quindi aveva notizie di prima mano.
Svetonio prima parla di Calvo sempre un altro poeta neoterico, Svetonio sta mettendo in evidenza la
clemenza Cesaris cioè la indulgenza di Cesare nei confronti dei suoi avversari , Cesare non ebbe mai
rancore per i propri avversari ma cercò sempre di perdonarli comunque cercò sempre una
riconciliazione con i propri nemici.
A Gaio Calvo che dopo aver scritto contro di lui epigrammi oltraggiosi, con la mediazione di amici
si adoperava per una riconciliazione, scrisse di sua iniziativa e per primo quindi per proporre la pace
a Valerio Catullo.
Cesare sapeva bene che da lui era stato impresso un eterno marchio di infamia con alcuni versetti
relativi a Mamour, e quando Catullo li chiede scusa lo accolse a cena il giorno stesso e continuò a
frequentare la casa di suo padre come aveva sempre fatto quindi anche Svetonio confermerebbe che
Cesare in qualche modo era ospitato perlomeno era in egame di amicizia con la famiglia di Catullo,
infatti diciamo Catullo non se la prende direttamente con Cesare se la prende con le persone che
ruotano attorno a Cesare vediamo di commentare meglio un po' questo complimento.
Nill Nill studeo (significa sforzarsi, desiderare, tendere a qualcosa, Nill è la forma contratta di niil,
cioè niente e viene usato come una forma di negazione rafforzata equivalente a NON,) quindi vuol
dire non mi sforzo, non mi curo. Nimiun, troppo, quindi non mi curo troppo Cesare e contato che è
messo in posizione centrale una cioè delle posizioni enfatiche del esametro di volerti piacere, e notate
che c'è un rafforzativo perché infondo studeo e velle afferiscono allo stesso campo semantico quindi
non mi sforzo di volerti piacere proprio per dire guarda non mi importa niente andarti a genio, poi
può darsi che ci sia dietro qualche atteggiamento piuttosto scherzoso visto che Cesare lo conosceva
bene.
Né sapere se tu sei un uomo bianco o un uomo nero non interessa neanche sapere quale sia il colore
della pelle e ovviamente qui non fa riferimento a bianchi e neri secondo una categoria moderna, qui
è un proverbio mi interessa proprio sapere chi sia quali si allena la tua identità e mi dicevo che è un
proverbio per dire che non mi interessa sapere chi sia, quale sia la tua identità. È un proverbiò che ha
testato anche in cicerone mi pare nelle filippiche , quindi era un luogo comune insomma un modo di
dire abbastanza usuale.
Da un punto di vista della sintassi della proposizione interrogativa indiretta disgiuntiva utrun an,
sapete che ho utrun corrisponde al greco poteron, c'è tra le due cose se sei bianco oppure se sei nero,
diciamo che è una costruzione regolare non c'è niente di particolare la prima Insis e la seconda e
quella disgiuntiva introdotta da Albun chiaramente si contrappone all'Ater, Ater vuol dire scuro
,qualcuno pensa soprattutto per esempio i commentatori di Orazio che riportano questo proverbio
dicono che si riferisca a qualità morali cioè se sia buono cattivo quindi albus corrisponderebbe buono
e ater cattivo ma io non direi che in questo caso possiamo applicare questa interpretazione qui sta
dicendo che. Non importa proprio niente di chi sia Cesare non importa neanche sapere come fatto
fisicamente questo è il concetto che noi possiamo dedurre. andiamo quindi direttamente al

Carme 94

Mentula moechatur. Moechatur mentula? Certe.Hoc est quod dicunt: ipsa olera olla legit.

Allora di chi si parla? Si parla di un personaggio che porta il soprannome di Mentula, ora che noi
possiamo tradurre come bischero, chi è questo bischero? Chi è questo Amendola? È probabile che sia
Il Mamur di cui si parlava poco fa, cioè questo prefectus fabbro di Cesare che è uno delle vittime
degli strali di Catullo. Per quale motivo viene chiamato Mendula? Probabilmente è un soprannome
che gli stessi soldati e i soldati davano a Mamour a volte sapete che quando si fa il militare si appellano
gli ufficiali soprattutto quelli piuttosto antipatici con dei soprannomi e quindi evidentemente il
soprannome di questo Mamour era mentula. Sapete anche che i soldati quando marciavano, mentula
ha un significato scemo, i soldati quando marciavano erano soliti a cantare così del verso squadrati,
che sono delle canzoni molto ritmate, molto cadenzate. c'era consuetudine soprattutto in alcune
circostanze come poteva essere anche il trionfo consuetudine di insultare e i generali, gli ufficiali
prendendoli un po' in giro quindi non è escluso che questo fosse un soprannome che veniva affibbiato
a questo Mamour. Abbiamo detto che Mentula ha un doppio senso, un senso osceno pensate che da
mentula deriva il nostro “minchia” come funziona da un punto di vista fonetico.
Preferirei dire bischero perché in italiano bischero significa anche un personaggio spregevole. Si
potrebbe usare “testa di” ma mi rifiuto di usare questa espressione. tornando alla questione del
significato dell’esito in italiano, prendete un termine come Vetulus che significa vecchio, qual è il
passaggio fonetico? per sincope abbiamo detto Vetulus e abbiamo la trasformazione con una gutturale
Veclus da cui poi in italiano vecchio. Veclus è quasi una forma quasi di dissimilazione perlomeno di
accomodamento fonetico e poi abbiamo l'italiano vecchio. volete fare un altro esempio per esempio?
Catulus che significa cagnolino, con la sincope Catlus poi la forma di accomodamento fonetico
diventa cactus, e poi diventa che cosa in italiano? Cacchio, tenete conto che cacchio che però viene
usata come in volgare, in realtà in italiano significa cagnolino propriamente ed è usato come
eufemismo, anziché dire un'altra parola come noi diciamo “cavolo” anziché dire un'altra parola. come
succede nella linguistica normalmente l’eufemismoche che solitamente sostituisce la parolaccia a sua
volta diventa una parolaccia essa stessa, come nel caso della parola che non vogliamo pronunciare
deriva da Capizziu che significa testolina, testolina è un eufemismo per non citare la parola magari
in mentula, una qualche altra parola del genere e poi è diventata essa stessa una parolaccia perché
ovviamente c'è una trasformazione continua delle parole per cui gli eufemismi a loro volta diventano
parolacce così è successo anche nel caso di caculus cagnolino, come cavolo per esempio italiano che
passa a significare quello che dovrebbe nascondere. Nel caso di Mendula il procedimento è lo stesso,
tenete conto che sicuramente noi abbiamo una forma apofonica di questo tipo già nel latino popolare
quindi se noi prendiamo questa parola “intula” diventa mincla con la sincope, poi accomodamento
fonetico mincla e poi veramente diventa il nostro ‘minchia’. Vedete come funziona cioè le leggi
fonetiche sono leggi ferree sono leggi che diciamo così non derogano perché seguono sempre quasi
sempre se non ci sono altre interferenze gli stessi procedimenti. allora dice mentula mecatur, tradotto
vuol dire va a donne è un grecismo perché deriva dalla dal greco moikeiwo, moikos che significa
adultero, commettere adulterio, quindi possiamo dire che Mentula va a donne cioè non va con la
propria donna con la propria moglie ma si dedica a delle avventure quindi possiamo tradurre
tranquillamente va a donne.
Questo mercature è un grecismo, vedete che il verbo è deponente e mòikos significa adultero, quindi
va a donne. Vedete in disposizione chiastica “mecatur mentula”, va a donne mentula? Certo, dov’è il
chiasmo lo vedete, noi abbiamo il soggetto mentula, dopo il verbo Macarthur poi verbo mecatur, e il
soggetto mentula. Mentre se noi sovrapponiamo queste due frasi abbiamo una disposizione a chi che
si chiama appunto chiasmo a X che si chiama chiasmo. Dove sta il gioco di parole? Sta che nel primo
caso mentula è usato come soprannome forse di Mamour, nel secondo caso è usato in senso proprio
quindi noi dovremmo tradurre bischero va a donne, va a donne è un bischero? È chiaro che è un
bischero va a donne. quindi c'è questo gioco di parole tra l'uso di mentula come nome proprio e l’uso
come nome comune di cosa certo che è un amentula va a donne, cosa dovrebbe fare? e poi infatti c'è
il proverbio: Hoc est quod dicunt: ipsa opera olla legit, questo è quello che dicono.

Olla significa pentola legit olera ipsa, raccoglie le verdure, qui ovviamente un proverbio giocato
sull'accostamento di due parole simili olla e ipsa, che equivale al nostro la mosca va al miele. questo
è un po' il senso del proverbio solo che qua c’è Questa parola omasia, per cui si accostano due parole
con suoni simili olla e olera. Quest’ultima tenete conto che è plurale, sono le verdure per fare il
minestrone quindi una pentola per la sua funzione naturale raccoglie le verdure per il minestrone così
come una mentula per sua funziona naturale va donne questo è un po' il concetto.
Attenzione leggere qui non è usato nel senso che noi conosciamo di leggere ma di raccogliere pensate
non so collezione, colletzion, significa Raccolta quindi è una pentola raccoglie le verdure, quindi ciò
che dicono l”a pentola raccoglie le verdure”.
Ipsa è un pronome come sapete determinativo, da Ipse e qui però viene svuotato della sua funzione,
diventa quasi un articoloide, cioè ha quasi la funzione di un articolo tanto è vero che questi pronomi
dimostrativi o determinativi nelle lingue romanze diventano dei pronomi. mi direte da che cosa deriva
l'italiano il là chiaramente deriva da ille, illa, il l'articolo whole the rumeno per esempio: il presidente
rumeno l'articolo si mette dopo, no presidentul, presidentuili genitivo del presidente. per esempio il
sardo su, sa, sos deriva Da ipsa, se voi prendete le prime carte volgari del sardo vedete che isos, ipsa,
Ipsar praticamente questo pronome determinativo si svuota di significato e diventa una forma di
articolo ma se ci pensate bene anche nel greco quelli che noi chiamiamo articoli erano antichi pronomi
dimostrativi, come dimostra anche l'uso che ne fa per esempio Omero quindi poi si svuotano di
significato perché le parole piano piano vengono logorate, anche semanticamente e vengono usate
come articoli. quindi Ipsa olera, non traducete le stesse verdure, perché qui il registro linguistico è un
registro colloquiale se non volgare e quindi è normale che Catullo usi ipse già con questa funzione di
articoloide.
L’unica cosa che potete notare qua è questo gioco di parole olera, olla, pentole e verdure. Olla è la
forma popolare per aura, pensate non so la famosa commedia di Plauto “la ululaira” l'aria hanno la
commedia della pentola, c'erano queste due forme aura oppure olla. Au e o sapete che in latino spesso
si scambiavano per esempio non so guardate come Claudius e Clodius, è lo stesso nome soltanto che
Clodius è diciamo la pronuncia popolare mentre Claudius se la pronuncia. Voi mi direte per quale
motivo Clodio pulcro si è fatto chiamare Clodio anche se era della Jenes Claudia lui era tribuno della
plebe quindi la sua trasformazione di Claudius in Clodius della forma popolare era una specie di
captazion benevolenzia. per essere più aceto per essere più rappresentativo di quella fascia popolare
che lui voleva difendere ma che in realtà voleva sfruttare, quindi è stata un’operazione quasi di
marketing questo suo spostamento, questa variazione del cognome da Claudius in Clodius. Oppure
pensate anche non so Plaudo e Plodo è la stessa, pesate nei verbi composti non abbiamo Plaudo ma
Plodo, per esempio ex Plodo mentre la forma normale è Plaudo. Nei verbi in latino ci sono queste
forme praticamente dialettali, anche in sardo a volte abbiamo questo genere di oscillazioni vocali che
spesso da un paese all'altro certi dittonghi che magari si chiudono in alcuni paesi quindi è una cosa
abbastanza normale, se voi andate per esempio nella zona del sulcis inglesiente
certi dittonghi “au” quasi quasi è talmente stretto che lo pronuncio come una o esattamente come
accadeva in gotico. anche in gotico il dittongo “au” che si pronunciava “o”, era talmente chiuso che
la fine si identificava con una “o”. Quindi sono fenomeni che noi troviamo anche in altre lingue uno
non deve stupirsi, perché alla fine l’uomo è lo stesso in qualunque punto della terra, la bocca è fatta
allo stesso modo, con lo stesso numero di denti con la stessa lingua e quindi certi accomodamenti
fonetici sono comuni a tutti gli uomini perché condividiamo una stessa anatomia e quindi siamo
portati a non complicarci la vita cercando di semplificare certi nessi fonetici o consonantici o vocalici.
quindi insomma sapete che funziona sempre così ci sono delle lingue particolari che hanno delle
caratteristiche tutte loro e speriamo quando pronunciamo le vocali espiriamo, quando pronunciamo
la parola l'aria la buttiamo fuori ma ci sono certe lingue per esempio dell'Africa in cui la pronuncia
della vocale viene fatta non ispirando ma inspirando all’interno, non provateci perché rischiate magari
di soffocarvi o che vi venga un enfisema polmonare, però ci sono queste lingue che hanno queste
caratteristiche particolari. Ma al di là di queste cose poi diciamo noi condividiamo molti tratti con
tutti i parlanti del pianeta.

Carme 95
È un carme lacunoso, ci sono asterischi dopo il terzo verso che indicano una lacuna che è stata poi
integrata i diversi modi. È interessante il fatto di fare uno studio sui tentativi che sono stati fatti per
completare questo verso che manca il senso è piuttosto chiaro, però è interessante vedere come gli
studiosi poi lo hanno integrato, si potrebbe fare uno studio sulle integrazioni. Le cause potrebbero
essere qualche macchia di umidità a volte succedeva che un topolino magari mangiassi una parte
oppure l'umidità o l'inchiostro stesso che deborda secondi mancasse la pergamena a volte anche le
candele se lo Joe non usiamo la luce elettrica ma primo non le candele a volte la cera finire il libro e
quindi magari bruciarono rendeva incomprensibile e poi inchiostro quindi sono tante cause e non non
saprei

Zmyrna mei Cinnae nonam post denique messem


quam coepta est nonamque edita post hiemem,
milia cum interea quingenta Hortensius uno
.........
Zmyrna cavas Satrachi penitus mittetur ad undas,
Zmyrnam cana diu saecula pervoluent.
at Volusi annales Paduam morientur ad ipsam
et laxas scombris saepe dabunt tunicas.
.........
Parva mei mihi sint cordi monimenta ...,
at populus tumido gaudeat Antimacho.

Di cosa sta parlando? Questo è un tema letterario anche di polemica letteraria, perché la prima parte
sta celebrando l'uscita di un poemetto, di un epiglio dell'amico Elvio Cinna e poi ovviamente questo
gli dà occasione per attaccare invece poetastri, soprattutto quei poeti pesanti lutolenti che scrivono
migliaia e migliaia diversi senza saper gestire però alla fine la materia questo è un po' il senso. Questo
poemetto si chiama Zmyrna, un personaggio mitologico, è una ragazza che ha traversato diciamo
così, ha vissuto una storia d'amore piuttosto tragica, diciamo che si tratta di una storia che piaceva
molto sia ai poeti lenistici che ai poeti romani. Ricordatevi che è una delle fonti principali dei poeti
romani su queste storie d'amore tragiche era Partenio di Nicea che scrisse per l'appunto una specie di
prontuario intitolato erotica patemaca cioè le passioni d’amore. Si raccontavano delle tristi, delle
tragiche storie d'amore quindi era un prontuario per i poeti romani da cui attingevano questi temi,
questi motivi, questi miti quindi è finalmente uscita la Smirna del mio amico Cinna che lo vuole
celebrare.
Vediamo un po' cosa dice: finalmente dice dopo nove mesi e dopo nove inverni da quando è stata
intrapresa, è stata cominciata è uscita è venuta alla luce è stata pubblicata la Smirne del mio amico
Cinna, mentre invece Ortensio poi possiamo soltanto integrare il senso in un solo anno ha scritto
500.000 versi.
Smirna verrà mandata cioè giungerà presso questo penitus sarebbe “lontano” presso le profonde onde
del Satraco poi per lungo tempo le canute generazioni degli uomini sfoglieranno la Smirna. Invece
gli annali di Volusium moriranno presso la stessa Padova e spesso daranno larghe tuniche agli
sgombri.
allora commentiamo bene questo carme: sappiamo che Elvio Cinna è un poeta neotermico che è
amico di Catullo e quindi faceva parte della cerchia dei poeti in cui si scambiavano le poesie. allora
venne pubblicato dopo tanto tempo questo poemetto e Catullo lo vuole celebrare, quai una sorta di
pubblicità, vuole proprio fare pubblicità a quest’opera dell’amico.
Notate che dopo nove anni è detto con un'espressione molto ampia dice: “dopo l'annona messe (quindi
dopo nove Stati visto che la messe viene tutte in estate e dopo il nono inverno quindi dopo nove anni
ovviamente un numero come dire simbolico per dire la poesia non deve essere buttata giù di getto ma
deve essere soggetta alla Labor Lines. Anche Orazio nella sua poetica diceva che le opere bisognava
scriverle poi metto nel cassetto e lasciarle sedimentare per diversi anni per nove anni quindi il nove
è un numero simbolico. Una volta si riprende in mano si rivede e si può anche pubblicare ma non
scrivere di getto e subito pubblicare perché l'opera d'arte deve essere sottoposta ad una accurata
elaborazione formale questa è rimasta nel cassetto o perlomeno è rimasta nel laboratorio per nove
anni. Vedete l'espressione così ampia per dire, solenne, anche per dire che è un parto difficile, è stata
una lunga gestazione non è una cosa buttata giù così. questo tandem come per dire quasi un sospiro
di sollievo finalmente dopo tanto tempo è uscito questo evento letterario.
zmyrna, di Cinna dice non è un post Messenger poi non amo quel post em one setta est notato un po'
la costruzione arcaica perché come si dice S ascoltatemi bene non messe at non è em o squame certa
est cioè nel e non inganno dopo che e stata cominciata dopo che Cinna ha cominciato a scrivere.
In cosa consiste questa costruzione particolare? che il post vedete viene usato come una preposizione
con l'accusativo però poi abbiamo come dire il “quam” che introduce la seconda proposizione, cioè
anziché dire nel nono anno dopo che è stata cominciata dice dopo il nono anno che è stata cominciata
quindi “post quam” dopo che che non è esattamente un atmesi, cioè la separazione delle due parti
della congiunzione temporale, ma è proprio la funzione diversa perché post viene utilizzata come
una preposizione con l'accusativo e poi abbiamo il “quam” che introduce questa seconda
proposizione.
Ovviamente sono degli ablativi di tempo, cioè nella nona estate e nel nono inverno dopochè la Zmyrna
è stata cominciata, dopo che si cominciò a scrivere la zmyrna, dovrebbe essere cosi nel latino classico.
invece cosa fa a Catullo secondo un uso piuttosto arcaico, un arcaismo che rende solenne ovviamente
il linguaggio? usa questo post come una preposizione normalmente con l'accusativo e quindi dice
post non ammessem, et posto non ammessem iemem quam cepta est, ciò e dopo la nona estate e dopo
il nono inverno da che è stato cominciato, è stata cominciata la composizione della Zmyrne .
non so se così forse è più chiaro, in pratica il post quam viene smembrato e la prima parte post viene
usato come preposizione, chiaramente il senso non cambia soltanto una questione di sintassi però
volevo farvi notare che è una costruzione arcaica utilizzata appositamente per elevare il registro
linguistico, per rendere solenne questo annuncio dell'uscita della Zmyrna.
Poi ovviamente c'è subito la contrapposizione mentre invece Ortensio, uno possiamo dire, uno anno,
solo in un anno anno anziché aspettare nove anni ha pubblicato 500.000 versi un poema di 500.000
versi c'è una buona cifra ovviamente iperbolica.
Chi è questo ortensia Ortensio? sicuramente Ortensio Ortalo che magari qualcuno di voi già conosce
il rivale di Cicerone un grande oratore, rivale, diciamo un rivale bonario di Cicerone. Sapete che
Cicerone pubblicò anche un'operetta al Ortensius,
perduta purtroppo, che conteneva un protretico alla filosofia cioè una esortazione a dedicarsi agli
studi di filosofia. purtroppo quest'operetta è andata perduta dico purtroppo perché gli antichi
consideriamo per esempio Agostino Sant'Agostino fu portato la conversione proprio dopo la lettura
di quest'operetta si dedicò a Platone dopo la lettura di quest'operetta quindi doveva essere uno scritto
interessante. noi sappiamo che Ortensio oltre che grande oratore di Pazziano, quindi molto pomposo
scriveva anche delle poesie sappiamo anche che il Catullo era tutto sommato in buoni rapporti con
ortensia però qua sembra che gli voglio lanciare una stoccata proprio per evidenziare la differenza tra
i due poeti, tra l’amico Cinna e Ortensio, che era ancora legato alla vecchia poesia come quella di
Ennio i poeti piuttosto arcaici.ho detto non sappiamo quale sia il fisionomia del verso numero quattro,
ma il senso è chiaro, cioè mentre Ortensio in un solo anno a composto 500.000 versetti e questo è il
senso che che si può desumere dal contesto.
vedete dice così: Zmyrne quindi la zmyrna operetta le piglio di Cina mittetur, sarebbe letteralmente
sarà inviata cioè arriverà tenitus scusa vuol dire vuol dire nel punto più lontano letteralmente significa
profondamente tenitus ma arriverà profondamente, cioè molto lontano questo è il significato. "Cava
Satrachi penitus mittetur ad Dundas “che fino alle onde fino alle acque cave cioè profonde del Satraco.
Satrca che cos’è? il satraco è una città, è un fiume di Cipro quindi una regione molto lontana da Roma
in oriente in Asia minore, quindi Solone andrà veramente quasi agli estremi confini del Mediterraneo
e poi c'è ancora “Cana Diu specula pervoluent Zmyrna ” cioè le bianche generazioni per lungo tempo
sfoglieranno quindi leggeranno la Zmyrna.
Vedete che ci sono le due dimensioni: la prima dimensione è quella geografica cioè l'opera di Cinna
arriverà fino ai confini della terra, la seconda dimensione è quella temporale cioè generazioni e
generazioni leggeranno la Zmyrna. Purtroppo noi non possiamo leggerlo perché è l'operetta è andata
perduta oltretutto noi sappiamo dalle fonti che era un epiglio molto difficile tanto è vero che i
grammatici facevano a gara per interpretare alcuni versi evidentemente si è lasciato prendere la mano
dal furore della erudizione e quindi a volte risultava ermetico, risulta oscuro e probabilmente questa
oscurità ha anche determinato la perdita delle poemetto perché se nessuno poi capisce questi testi
chiaro che la tradizione non hai interesse a conservarli soltanto un caso cioè Persio, poeta difficile
però la tradizione lo ha conservato. era un po' una sfida per i grammatici invece la Zmyrna è andata
perduta completamente. Quindi vedete le due dimensioni quella geografica al verso cinque quella
temporale cronologica al verso sei.

Notiamo il politoto al verso cinque Zmyrna in nominativo, al verso sei abbiamo invece Zmyrnam in
accusativo è una sorta di variazione. Un'altra cosa da notare “saecula” noi diciamo anche come secoli
e va benissimo però tenete conto che il latino secolo non indica quella raccolta di 100 anni come per
noi ,è la generazione degli uomini ecco perché questi saecula sono detti Cana dei capelli bianchi
canuti perché generazioni e generazioni invecchieranno leggendo la Zmyrna, avranno i capelli bianchi
leggendo la Zmyrna tantissimi uomini riusciranno a leggere questa Zmyrna ecco perché ha detto
“Cana Diu specula” e forse vi ho anche detto in un’altra occasione che saecula viene messo in
relazione con il verbo “serere “che significa seminare, piantare perché sono appunto le piantagioni le
seminagioni degli uomini le generazioni degli uomini.
Un'altra cosa che volevo farvi notare nel verso sei noi leggiamo se fosse in prosa “pervoluent” però
state attenti perché la seconda viene qui usata non in senso semi consonantico come se fosse una V
ma in senso vocalico come se fosse una U, quindi noi leggiamo “Zmyrnam cana Diu specula
pervoluent” perché se leggiamo “pervolvent” manca una sillaba “pervoluent” d’accordo? Spesso i
latini giocavano come del resto facciamo anche noi, qualche volta usiamo la cosiddetta dieresi pensate
anche Dante c'è una I normalmente semi consonantica spesso Dante ci metti due puntini sopra e
diventa una vocale che è una sillaba a se. Consideriamo la parola viaggio è bisillabo viag-gio a volte
Dante lo usa con la dieresi e diventa un trisillabo allora ci mette due puntini sulla I. Anche i poeti
romani facevano questo gioco lo facevano sia con la I che con la V che si leggeva U, quella U poteva
essere una semi consonante come il W in inglese, oppure potevano in questi casi per ragioni poetiche,
metriche considerare quella V (U) come una vera e propria vocale quindi che faceva sillaba a sé.
noi sappiamo che Ortensio e come sappiamo anche Cicerone si dedicò alla poesia poi non ebbe molta
fortuna perché Cicerone non aveva alcuna vena poetica, era un buon versificatore perché non era uno
stupido e la lingua la conosceva bene però se voi leggete frammenti poetici sono di una pesantezza
mortale nel senso che non gli abbiamo conservati se non per tradizione indiretta perché sono
veramente pesanti cioè solo quelle con i versi molto laccati, molto elaborati, c’è molta tecnica ma
praticamente non c’è l’ingegni, non c'è l’indole poetica, non c'è ispirazione poetica.
Allora prima si contrapponeva la Zmyrna alle poesie di Ortensio che pure poveretto era una brava
persona e le sue poesie erano più o meno di gusto raffinato anche se non neoterico, invece poi nella
parte finale di questo epigramma la contrapposizione con Volusio, forse lo conscete perché in una
delle nuge attacca ugualmente questo poetastro, questo personaggio che scrisse gli Annales
evidentemente voleva emulare Ennio e che Catullo chiama cacata carta cioè carta cagata, cioè non
vale manco la pena di una carta scritta e carta cagata perché sono diversi che fanno veramente schifo
quindi era un poeta che Catullo ha attaccato brutalmente. qui torna su questi annali di Volusio, infatti
dice mentre gli annali di Volusio questo at è una contrapposizione molto forte e mentre invece gli
annali di Volusio moriranno presto la stessa Padova, mentre la Zmyrna di Cinna arriverà fino alla
fine del mondo fino alle cave onde del satraco e valicherà nei secoli, gli annali di Volusio invece cosa
fanno? Moriranno presso la stessa Padova, nel posto dove sono stati composti non riusciranno a
oltrepassare il “pomerium” diciamo così della città di Padova.
Ora guardate un po' questo “paduam”, noi sappiamo che il nome di Padova è Patavium tanto è vero
che patavino significa padovano però c'era anche la forma popolare Padua che poi da luogo all'italiano
Padova e la forma fontina è come “Mantua” che poi diventa Mantova, quindi Mantua - Mantova -
Paduam - Padova, sono quelle forme locali che poi ovviamente hanno avuto la meglio rispetto alle
forme letterari. Quindi gli annali di Volusio moriranno all’interno della stessa Padova, e poi ci sta
questa frase, dice: “et laxas scombri siepe dabunt tunica” un verso che è stato molto imitato da anche
gli umanisti, e offriranno spesso larghe tuniche agli sgombri, ma cosa significa? Che finiranno nelle
pescherie ad avvolgere i pesci, significa questo. Sapete che gli sgombri son anche pesci di poco
valore, vengono usati come esche nella pesca a traino, soprattutto per i barracuda, quindi daranno
tuniche larghe (detto scherzosamente), vesti larghe agli sgombri. Questo succedeva davvero, ora vi
racconto una storiella, a Costantinopoli c’era un Italiano nel ’36 che studiava e si chiamava Tommaso
D’Arezzo, quindi era un’italiano che studiava a Costantinopoli, e sapete che ad Atene, Costantinopoli,
Bisanzio sono sempre state le mete dei giovani universitario, come per noi può essere Oxford.
Come tutti quanti gli studenti che abitano fuori sede, devono occuparsi del mangiare, anche io quando
ero a Cagliari studente abitavo in affitto con altri studenti in un appartamento a volte c’era il problema
di cosa si mangiava, oggi cosa facciamo? Noi eravamo al mercoledì che si mangiava bene poi dal
mercoledì in poi rimanevano le guarnizioni del frigorifero e quindi bisognava arrangiarci per fare un
po' il pranzo e allora anche Tommaso D’Arezzo chiese: cosa facciamo oggi? Andiamo al mercato e
vediamo se troviamo qualche pesce per poter cucinare. Tommaso d'Arezzo va al mercato del pesce
di Costantinopoli e appunto disse di avere quel pesce che gli piaceva tanto e il pescivendolo cominciò
a incartare questo pesce, lui che ovviamente era uno studioso indotto disse di aspettare e chiese di
poter vedere la carta che sta utilizzando, guarda la carta e praticamente era la lettera Addio Nieto ,
che è una lettera perduta molto nota agi antichi ma perduta e l’aveva scoperto proprio nel mercato del
pesce quindi veramente alla fine certe opere andava a finire per incartare la roba da mangiare.
Voi sapete anche che che Bach il musicista quando lui morì non è che fosse così famoso come si
potrebbe intendere, aveva scritto tante cantate, tante musiche lui lavorava in una scuola media, si
potrebbe dire “inferiore”, insegnava un po' di latino e capitava che con le partiture di Bach
incartassero i panini per la merenda degli studenti finché anche lì non si sono accorti di quello che
stavano facendo e avevano bloccato quest’operazione. Vedete molte volte le opere d’arte venivano
così utilizzate per gli scopi più abbietti, più bassi, ora magari Volusio si meritava ovviamente di finire
nelle pescherie altri come Bach, come l'autore della lettera Diognetto certamente no, però qualche
volta è successo un qualcosa del genere.

Ora facciamo quindi seguire questo Carme 95b, come se fosse un unico carme.

Ci mancano questi due versi per concludere il Carme 95, abbiamo detto che non tutti gli studiosi sono
d'accordo che appartengono allo stesso al Carme e quindi per evitare di sconvolge la numerazione si
mette 95b, non so se avete mai visto, forse ve l’ho fatto vedere il manoscritto con le più importanti
degli epigrammi di Catullo, praticamente sono scritti uno accanto all'altro quindi a volte non si capisce
bene quando finisce uno e comincia l’altro, quindi questi problemi si presentano abbastanza
frequentemente.
Allora dice così:

“Parva mei miei sint corsi monimenta” successivamente manca una parola, la parola che viene
supplita normalmente mi pare anche con l'elezione di Traina è “sodalis”, “at populus tumido
gaudente Antimacho.”

Dice quindi:
A me stiano a cuore i capolavori, i piccoli capolavori del mio amico Cinna, del mio amico sodale
Cinna mentre il popolo, la gente comune gioisca del pomposo Antimaco.
Anche qui c'è sempre la contrapposizione tra una poesia breve, raffinata invece una poesia pomposa,
lunga, ampollosa che però risulta essere un po' sciatta rispetto alla raffinatezza della poesia neoterica.
Qui forse è più evidente il modello di Callimaco, ricordate Callimaco che se la prende appunto con
Antimaco di colofone, l'autore di poemi, di elegie che non finivano più, piuttosto sciatte, e poi perché
c'era quel detto ricordato anche altre volte del mega biblion cacon, cioè un grosso libro, una grossa
opera è un grosso malanno perché scorre fangoso, perché non si riesce a raffinarlo come si dovrebbe,
si riesce a gestirlo artisticamente e quindi viene una cosa elefantiaca, ma spesso così senza una
elaborazione formale.
Quindi vedete che la Zmyrna probabilmente si riferisce sempre alla Zmyrna di Cinna, chiamato
monumentum parvum, monumentum significa un capolavoro, un qualcosa che verrà ricordato, tenete
conto che monumentum alla stessa radice del verbo “moneo” che significa "far ricordare”,
esattamente come il greco “mnemen”, quindi le poesie di Cinna che riescono ad andare alla fine del
mondo e riescono a valicare anche i confini temporali sono appunto dei monument, che verranno
comunque ricordati però solo parva perché non sono grossi libri, non sono grossi poemi, ma sono
piccole poesie per lo meno degli epilli, dei poemetti. Sembra quasi un ossimoro “parva monimenta”
è un po' l'ideale artistico poetico della poesia neoterica, qui abbiamo detto che si potrebbe benissimo
supplire “sodalis” come ultima parola del primo verso quindi “parva mei miei sint cordi monimenta
sodalis” del mio compagno, del mio amico. Notate qui “sint" che è un congiuntivo esortativo “mi
stiano a cuore” e notate sempre la costruzione del doppio dativo che abbiamo visto anche in altre
circostanze, “mihi cordi” il primo dativo, “mihi” un dativo di vantaggio di interesse, “cordi” è un
dativo di fine. Qui vedete la poesia di Cinna è appunto Contrapposta a quella di Antimaco, Antimaco
qui è un'icona della poesia pomposa, non è che ha qualcosa contro Antimaco, questo ultimo era già
morto naturalmente però tutti gli antimachi, tutti quelli che si dedicano a questa poesia epica ormai
demodé, ampollosa, pomposa che non riscuote più il gusto del pubblico.
Chi è che potrebbe godere della poesia di Antimaco? Il popolu, la gente rozza, la gente che non ha
sensibilità poetica, artistica, quella gente che non distingue manco a prosa dalla poesia, quindi non
vale manco la pena di scrivere per il popolu perché non saprebbe apprezzare la nostra arte. Ecco
notate che Antimacus è definito “tujmidus” cioè gonfio letteralmente, chiaramente quindi pomposo,
gonfiato, proprio perché è una poesia elefantiaca sia come dimensione sia anche evidentemente per
il tono eccessivamente solenne o perlomeno tronfio che sa di falso, di sintetico, non autenticamente
di ispirato come sarà invece il poema di Virgilio nell’Eneide.
Forse l'ho già detto ma lo ripeto vedete Virgilio nasce come un poeta di stampo alessandrino perché
le Bucoliche si rifanno a Teocrito, agli idilli di Teocrito, quindi la sua formazione è una formazione
alessandrina. Quando Augusto gli chiese di comporre un poema nazionale lui cercò un po' di
schermirsi perché sapeva di non avere il fiato sufficiente per comporre un poema epico, anche perché
un poema epico non era nelle sue corde allora com'è che ho fatto? Virgilio era un grande artista, un
grande poeta quindi ha trovato la soluzione più pratica, in pratica i 12 libri dell’Eneide sono strutturati
come se fossero 12 epilli, ogni libro è quasi un epilleo , pensate al secondo libro della specie di troie
alosis , cioè un epiglio sulla caduta di troia, il quarto libro è una storia d’amore tra Enea e Didone,
storia tragica che ricorda Partenio di Nicea, perlomeno nello spirito, il sesto libro e la nequia c’è la
discesa agli inferì, quindi lui ha composto il poema strutturandolo come una serie di epigli, poi è vero
che ci sono dei libri che sono dei connettivi soprattutto con le battaglie e così via quelle parti che
vengono chiamate Iliadiche, perché si ispirano direttamente alle mischie furibonde di alcuni libri di
Omero. Di fatto ha cercato di costruire questo poema giustapponendo dei piccoli epilli, perché
soltanto così poteva fare e ha creato un capolavoro, perchè vedete Virgilio viene danneggiato
soprattutto dalla lettura che si faceva, non so se si fa ancora nella scuola italiana al ginnasio al biennio
in epica, in quelle bruttissime traduzioni italiane, pessime traduzioni italiane. Virgilio è veramente
un’altra cosa, lo so che leggerlo in latino è pesante ci vogliono gli strumenti per farlo ma se voi leggete
Virgilio in latino vi rendete conto che è tutta altra cosa e tutto un altro autore è una sensibilità, ha una
umanità, una delicatezza che non può essere espressa in nessuna traduzione Italina. C’è l’umanitas
del poeta, che ricorda l’umanitas di Terenzio è palpabile soltanto se uno legge certe cose che sono
veramente meravigliose, veramente meravigliose. Quando io leggo l’Eneide in Italiano a mente lo
butto subito via perché è altra cosa, non è Virgilio non è l’eneide, è un'altra cosa. Però se voi
veramente un domani con molta pazienza prenderete anche soltanto dei brani antologici di Virgilio,
in latino della ricchezza espressiva del'umanità che traspirano, che traspira dei versi, è una cosa
veramente eccezionale, bellissima.

Carme96
Anche questo carme è molto delicato, dedicato all'amico Calvo per la morte della moglie, la moglie
Quintilia. Noi sappiamo da altre fonti che Quintilia era proprio la moglie di Calvo, un altro poeta
ovviamente euterico.
dicevo che Quintilia è la moglie di Calvo, poeta neoterico, che evidentemente morì immaturamente,
allora Catullo cerca un po' di di consolarlo per questa perdita, una cosa che volevo farvi notare e
interessante è questa , i poeti latini usano degli pseudonimi per le donne amate, soltanto quando sono
amanti, quando invece si tratta di mogli o anche di mariti, allora si usa il nome vero e proprio quindi
Quintiliano non è uno pseudonimo ma è il nome effettivo della moglie di Calvo, ovviamente attestato
da altre fonti. vediamo un po' di leggere questo è un bel Carme molto sentito, forse ci presenta anche
un Catullo un po' diverso.
Si quicquam mutis gratum acceptumque sepulcris accidere
a nostro, Calve, dolore potest,
quo desiderio veteres renovamus amores
atque olim missas flemus amicitias,
certe non tanto mors immatura dolori est
Quintiliae, quantum gaudet amore tuo.

Vedete come è molto bello, anche da un punto di vista metrico, è abbastanza regolare non ci sono
cose strane dice:
Se alle mute pause o Calvo, può venire in qualcosa di gradito e di ben accetto dal nostro dolore,
dalla nostalgia con cui noi rinnoviamo un vecchio amore, un vecchio affetto, e piangiamo le amicizie
di un tempo perdute. Certamente per Quintilia la morte immatura non è di tanto dolore quanto di
gioia per il tuo amore.
Letteralmente sarebbe: quanto gioisce per il tuo amore, vedete come è molto bello. Quindi Quintilia
secondo poi la scatologia degli antichi soffriva per la sua morte indigna, come dice Virgilio non è
immatura, precoce, però viene consolata dalla perdita della vita, dall’amore e Calvo continua a
portarle.
Vedete qui dice “se qualcosa” questo “quicquam si trova sempre in uhm contesto indefinito, per lo
meno, ecco perché c’è questo pronome.
Ai muti sepolcri c’è quasi una sineddoche, cioè si cita il sepolcro per indicare il defunto, i sepolcri
sono muti perché i cari che sono sepolti non parlano, quindi la sineddoche è quella figura retorica per
cui si indica una parte di una realtà, anziché un’altra. Se un qualcosa di grato, ben accetto può giungere
alle mute tombe, dal nostro dolore o Calvo o dal desiderio con cui noi rinnoviamo un antico affetto.
Badate che questo desiderio deve essere messo sullo stesso piano di dolore, cioè qualcosa può
derivare dal nostro dolore, dal desiderio, dalla nostalgia con cui noi rinnoviamo un antico amore. Che
cos’è il desiderio? State attenti, perché è molto diverso dal concetto che conosciamo noi,
Il nostro desiderio corrisponde a cupiditas, ma il desiderio del latino è il senso di mancanza, la
nostalgia, qualcosa che ci manca. Tenete conto che gli antichi romani usavano questi verbi
prendendoli da un uso molto pratico, perché sapete i romani non hanno mai avuto questa grande
capacità astrattiva, hanno sempre utilizzato verbi magari legati all'attività di tutti giorni e poi gli hanno
traslati, in un senso quasi metaforico ad indicare i concetti più astratti, come per esempio il desiderio
come il desiderare. Se andiamo alla fonte di questo verbo che cosa significa propriamente desiderare?
nasce come linguaggio della marineria, dei marinai, se noi ci mettiamo per mare usiamo il GPS,
neanche più la bussola, ma gli antichi non avevo né GPS e neanche bussola, quindi per orientarsi
usavano appunto le stelle, quindi quando loro vedevano le stelle e potevano orientarsi con esse, cosa
facevano? Consideravant e quindi considerare significa “osservare" le stelle per potersi orientare,
quando invece magari il cielo era scuro perché magari era coperto dalle nubi e non c'erano le stelle
allora cosa facevano? Desideravant, mancava un punto di orientamento, un punto di riferimento e
quindi provavano uno sconcerto, l’incertezza perché se uno si trova in mezzo al mare e non ha una
punta di riferimento è un bel guaio, non sa esattamente dove sta andando. Quando invece per esempio
non dovevano stare fuori all’aperto, come colui che deve governare la nave, da cui assiderare, cioè
morire di freddo, perché uno che dorme all’aperto, quindi sono tutti termini che hanno vedete
un'origine piuttosto pratica nelle attività quotidiane, e poi vengono usate in senso traslato.
Quindi il desiderium è propriamente la mancanza di un punto di riferimento, la mancanza di qualcosa,
e corrisponde esattamente al nostro “nostalgia”, senso di mancanza.

Traduciamo: con la nostalgia con cui rinnoviamo cioè riportiamo alla memoria la mente rinfocoliamo,
riviviamo i vecchi amori, affetti e sembra quasi di sentire i sepolcri di Foscolo e “atque olim missas
flemus amicitias” e piangiamo le amicizie in tempo perduti, state attenti perché questo “missas” è il
verbo semplice per il composto, sarebbe “amissas” cioè ammettere, perdere, inteso per la morte,
quindi noi piangiamo per le amicizie un tempo perdute, le persone care un tempo perdute.
Per Quintilia vedete che ha messo nell'ultimo verso in posizione emfatica per Quintilia la morte
immatura non è il tanto dolore quanto tutto gioisce Gaudet per il tuo amore , cioè quando vedi conforto
lei di gioia il tuo amore, anche qua notate una cosa interessante il nostro solito dativo doppio perché
abbiamo “Quintiliae” che è un dativo di interesse e poi c'è dolori canto che è un dativo di fine, quindi
letteralmente certamente per Quintilia la morte immatura non è di tanto dolore quanto gioisce Gaudet
amore tuo, dice che se Quintilia soffre per essere mancata così precocemente ma viene confortata
dall'amore che tu ancora le porti, questo il pensiero delicato gentile che Catullo dice a Calvo. Cosa
possiamo dire? “Mors immatura” È la morte precoce, matura, perché morì giovane, si dice anche
“mors indigna” perché non era ancora preparata per la morte a causa della giovinezza. Notate ancora
una volta l'iperbato “tanto dolori” e poi la correlazione “tanto quantum” tanto è un dativo, quantum è
un accusativo avverbiale, il verbo “gaudio” regge l’ablativo. Questo è un carme molto bello, molto
delicato, semplice direi che forse è uno dei migliori.

Lo ripeto:
Se alle mute tombe o Calvo può venire in qualcosa di gradito e di accetto dal nostro dolore dalla
nostalgia con cui rinnoviamo gli antichi affetti e piangiamo le amicizie perdute una volta certamente
per “Quintilia" la morte immatura non è di tanto dolore quanto letteralmente gioisce del tuo amore,
cioè quanto lei è di conforto il tuo amore. L'unica cosa forse che può creare qualche disturbo e questa
costruzione “quo desiderio”, cioè voi dovete intenderla come se fosse "desiderio quo”, cioè la
nostalgia con cui praticamente desiderio è messo sullo stesso piano di dolore a nostro dolore, cioè a
desiderio quo, cioè dalla nostalgia con cui noi rinnoviamo gli antichi affetti. questo è la costruzione,
perché questo desiderio come se fosse uno strumentale non è che abbia molto senso e perché sarebbe
in questo secondo caso ma non voglio confondervi, dal nostro dolore poi dice da cui con nostalgia
intendo questo desiderio come una sorta di quasi di aggiunta rispetto al dolore che specifica meglio
il senso di mancanza della perdita di quest per il marito mi sa che la cosa più ovvia. Allora se noi
citiamo come vi ho detto questo desiderio quo, ci fa pensare ad una anastrofe cioè il pronome relativo
dovrebbe essere messo dopo, desiderio quo veteres renovamus amores. Cioè dopo desiderio quello
vecchio no a parte questo punto che può dare qualche problema resto del Carlino mi sembra
abbastanza chiaro non so cosa su questo Car me un po' se qualcuno ok tutto chiaro benissimo adesso
le 11:44 possiamo anche fermarci qui vi dico subito che salterò i Car 97 98 e 99 poi andiamo
direttamente al 100 così mi racconti la trama di bacchettone sono Car che piuttosto imbarazzanti e la
gente magari la traduzione del traino però io li
LEZIONE 14 (18/11/2020) Chiara Eleonora Scano

Si passa direttamente al carme 100, saltando i carmi 97,98,99, perché sono carmi un po’ osè e forse
meno interessanti dal punto di vista letterario. Si è già visto che Catullo tratta temi piuttosto scabrosi,
quindi è inutile soffermarsi e compiacersi su alcune volgarità. Gli studenti potranno leggere i tre carmi
saltati nella traduzione di Mandruzzato, nell’edizione Traina, ma non verranno chiesti all’esame.

CARME C

Il carme 100 fa riferimento a dei giovani, probabilmente veronesi e, dunque, conterranei di Catullo.
La cosa particolare è che questi due amici, Celio e Quinzio (Celio è forse Celio Rufo, unico Celio che
conosciamo che con sicurezza ha fatto parte della cerchia dei conoscenti, o degli amici, se vogliamo,
di Catullo) si sono fidanzati con un fratello e una sorella, Aufileno e Aufilena. Catullo un po’ ironizza
su questa particolarità: che i due amici si siano poi uniti, fidanzati diremo noi oggi, con un fratello e
una sorella. Da notare che, secondo anche la tradizione romana, fratello e sorella portano lo stesso
nome, così come Clodio e Clodia, perché ovviamente si portava il nome della gens.

È un epigramma piuttosto leggero, in cui Catullo fa sempre riferimento al suo amore con Lesbia,
dimostrando di essere un po’ ossessionato da questa passione che lo avvolge.

*Segue lettura, traduzione e commento del carme*

C. Traduzione

CAELIUS Aufillenum et Quintius Aufillenam Celio e Quinzio, il fior fiore della gioventù di
Verona, impazziscono d’amore per Aufileno e
flos Veronensum depereunt iuuenum,
Aufilena, il primo per il fratello e il secondo per la
hic fratrem, ille sororem. hoc est, quod dicitur, illud sorella. Questo è quello che si dice un dolce
fraternum uere dulce sodalicium. sodalizio veramente fraterno.
A chi potrei dare la preferenza? A te, o Celio: infatti
cui faueam potius? Caeli, tibi: nam tua nobis 5
soltanto la tua amicizia è stata da noi (da me)
perspecta ex igni est unica amicitia,
saggiata con il fuoco, quando una folle fiamma
cum uesana meas torreret flamma medullas. d’amore bruciava le mie midolla/ le mie viscere.

sis felix, Caelis, sis in amore potens. Possa tu essere felice, o Celio, possa essere
vittorioso in amore.

Come vedremo poi, l’edizione del Mynors riporta una piccola variante rispetto a quella del Traina,
perché un punto del verso 6 è un po’ guasto, non è leggibile nei manoscritti, per cui sono proposte
diverse soluzioni.

Nel carme si tratta di due amici di Verona, compagni di vecchia data di Catullo, che si sono innamorati
di un fratello e di una sorella. Catullo quindi scherza su questa casualità, su questa coincidenza. Il
primo è Celio, che probabilmente è lo stesso Celio Rufo che troviamo anche in altri carmi; mentre di
Quinzio non sappiamo molto, non abbiamo un’identità precisa. Il fratello e la sorella si chiamano
Aufileno e Aufilena perché fanno parte della stessa gens, quindi il nome è lo stesso; un po’ come
Clodia aveva per fratello Clodio, perché l’usanza nelle famiglie romane era questa. Celio e Quinzio
sono detti il flos Veronensum “il fior fiore dei veronesi”, ma questo non significa naturalmente che il
carme sia stato composto a Verona: Catullo, infatti, avrebbe potuto scriverlo anche a Roma, per poi
inviarlo a questi amici di Verona.

v.1 Veronensum: non è la forma normale, che dovrebbe essere Veronensium, però qualche volta nella
terza declinazione i temi in -i e i temi in consonante si confondono. Se la forma della grammatica
normativa è Veronensium, quando al poeta serve una sillaba in meno usa anche la forma dei temi in
consonante Veronensum, come spesso capita in poesia (anche Lucrezio, Virgilio, un po’ tutti i poeti
adottano queste soluzioni per far entrare le parole all’interno dello schema metrico).

v.1 depereunt: verbo depereo che regge gli accusativi Aufillenum e Aufillenam. Il verbo depereo con
l’accusativo, nel senso di “impazzire d’amore per qualcuno” è tipico della poesia erotica, lo troviamo
in tutta quanta la latinità. Addirittura, nelle poesie degli umanisti, degli autori e dei poeti
rinascimentali questo verbo viene ripreso proprio come verbo tipico: “bruciare d’amore per
qualcuno”, letteralmente “morire d’amore per qualcuno”. È quindi un verbo “tecnico” della poesia
amorosa. L’etimologia del verbo è semplice: pereo sta per “morire”, il de non è altro che un
rafforzativo: “morire totalmente”, “morire definitivamente”, quasi “scomparire totalmente per
l’amore/per la passione di una persona”. Depero con l’accusativo non si trova in prosa, perché è un
verbo tipico della poesia latina, consacrato a far parte del lessico e del vocabolario della poesia erotica
latina.

v.3 hic…ille: il poeta ripete, in modo da rimarcare questa sorta di umorismo “il primo (Celio) ama il
fratello (Aufileno), il secondo (Quinzio) ama la sorella (Aufilena)”. Da notare qui i due dimostrativi
hic e ille, che traduciamo come “il primo” e “il secondo”. In italiano hic (“questo”) si riferisce al
termine più vicino, in latino invece spesso si riferisce al primo termine nominato, in questo caso
Caelius; mentre ille, (”quello”) che in italiano si riferisce al termine più lontano, in latino si riferisce
al secondo termine menzionato, quindi Quinzio.

Il poeta, poi, facendo una sorta di battuta dice: “questo è quel che si chiama un dolce sodalizio
veramente fraterno”. Non perché siano fratelli Celio e Quinzio, ma perché sono fratello e sorella
Aufileno e Aufilena. Catullo, quindi, un po’ gioca e ironizza su questa casualità di due amici che si
sono fidanzati con un fratello e una sorella.

v.5 faveam: Catullo si pone una domanda “a chi io dovrei dare la preferenza?”, letteralmente “a chi
dovrei piuttosto favorire? / chi dovrei piuttosto favorire?”. Faveam è un congiuntivo dubitativo, quasi
che Catullo si ponga il dubbio su quale sia la coppia migliore, se Celio con Aufileno o Quinzio con
Aufilena.

Rispondendo alla domanda, il poeta dice: “sicuramente a te, o Celio: infatti soltanto la tua amicizia
è stata da me saggiata con il fuoco”
v.5/6 tua…unica amicitia”: da notare il forte iperbato tra tua, possessivo, e unica amicitia: tua si
trova nel verso precedente, unica amicitia in quello successivo. C’è quindi una Wortstellung, una
disposizione delle parole abbastanza ardita: “soltanto la tua amicizia è stata saggiata da noi col
fuoco”. Il motivo per cui Catullo ha adottato questo iperbato è sicuramente per creare l’opposizione
tua/nobis. Catullo, infatti, ama accostare i pronomi personali o possessivi per rimarcare o un’unità,
una solidarietà (come in questo caso19), o, qualche volta, anche un’opposizione.

v. 6 perspecta ex igni: “soltanto la tua amicizia (l’amicizia che noi abbiamo) è stata saggiata col
fuoco”. Si tratta di un’amicizia a prova di bomba, come si direbbe in italiano. Il verbo perspicio
significa proprio “esaminata, controllata” quasi “collaudata col fuoco” (perspecta ex igni).
Non tutti gli editori sono d’accordo con questa ricostruzione, sono state fatte davvero tante proposte
per sanare questo verso che non suona bene. L’edizione del Traina, per esempio, in luogo di perspecta
ex igni riporta perspecta egregie est cioè “è stata verificata egregiamente/straordinariamente”.
Dovremo quindi tradurre “infatti soltanto la tua amicizia è stata da me saggiata/verificata
egregiamente”. La lezione del Traina non convince tanto, perché avverbi come egregie sanno un po’
troppo di zeppe metriche, parole che vengono utilizzate per riempire il verso e che tutto sommato
sono piuttosto banali. Mentre la proposta ex igni è più interessante, innanzitutto perché l’espressione
perspicere igni o perspicere ex igni la si trova anche in altri autori latini per dire “saggiare col fuoco/
vagliare col fuoco” (come diciamo noi anche in italiano); poi, soprattutto, l’immagine del fuoco
concorda con la fiamma del verso successivo, quando Catullo fa riferimento alla vesana flamma20,
cioè alla folle passione d’amore che lui prova per Lesbia (si suppone che sia Lesbia naturalmente,
perché soltanto per questa donna usa queste espressioni così intense). Ci sarebbe, allora, una certa
coerenza nella metafora del fuoco: l’amicizia è stata saggiata col fuoco quando proprio un fuoco
bruciava le mie viscere. È possibile dunque che ci sia questa consonanza, questa concordanza.
Chiaramente è possibile preferire egregie o altre lezioni proposte da altre edizioni, purché si riesca a
giustificare e argomentare la lezione scelta. Per questa lezione in particolare ci sono diverse proposte,
molte delle quali fanno riferimento ad altri avverbi, simili a egregie: per esempio qualcuno al posto
di egregie propone eximie ‘straordinariamente’. Sono comunque tentativi, se non proprio maldestri,
sicuramente banali, perché è facile riempire un verso con un avverbio che tutto sommato non ne
stravolge il senso. Ci sono invece proposte più interessanti, che citiamo solo a beneficio d’inventario,
come per esempio perfecta exibita est “si è mostrata perfetta” e altre soluzioni di questo tipo, che
vanno benissimo. Tutto sommato, però, l’alternativa più economica e bella sembra essere perspecta
ex igni “saggiata col fuoco”, secondo un’espressione che è rimasta anche in italiano

v.7 vesana…flamma: la flamma di Catullo, questa fiamma di passione, è chiamata vesana, cioè
”insana, malsana”. Ve- è un prefisso che spesso serve per ribaltare il senso dell’aggettivo a cui si
riferisce: sanus vuol dire “sano di mente”, mentre vesanus è il contrario, uno che ha perso la testa.
Quindi una passione che fa perdere la testa, malsana o insana se volete.

v.7 torreret: (rif. a flamma) “bruciava”, però diciamo che bruciava a fuoco lento, perché torreo
significa “tostare” propriamente (pensate torrefazione in italiano, che significa la torrefazione del
caffè). È dunque una cottura, una bruciatura intensa e lenta: questa fiamma quindi non è una vampata,
ma è una fiamma che ha consumato pian piano, quasi a fuoco lento, il cuore di Catullo.

19
Nei poeti raffinati come Catullo c’è sempre una ragione nell’utilizzo di una figura retorica: in questo caso l’iperbato
si spiega con la volontà di Catullo di accostare i due pronomi tua e nobis per creare una solidarietà, perché tua si
riferisce a Celio, nobis a Catullo (essendo un pluralis modestiae): il poeta vuole dunque rimarcare questa solidarietà,
questa unione, quasi fusione di cuori tra i due amici. Ecco il perché dell’accostamento. Altre volte, invece,
l’accostamento potrebbe rappresentare un’antitesi.
20
“è stata vagliata col fuoco quando una fiamma folle bruciava le mie viscere”.
v.7 medullas21: è un termine proprio della poesia erotica: medullas, medullae “le midolla” per
indicare il cuore. Flamma medullas, tra l’altro, è una clausula che troviamo anche in Virgilio (nel IV
libro dell’Eneide a proposito della passione di Didone per Enea) e che è stata ripresa anche da altri
poeti: la fiamma che corrode, che divora le midolla. È un’espressione, un’immagine che ha una sua
tradizione nella poesia erotica latina.

v.8 sis felix, Caelis, sis in amore potens: è l’augurio che Catullo rivolge al suo amico: “sii felice (in
questo rapporto amoroso) e sii vittorioso in amore”. Queste sono espressioni che si usavano
sicuramente come espressioni augurali agli sposi. Felix infatti fa riferimento alla fecondità, come noi
potremo dire “tanti auguri e figli maschi”. Felix fa riferimento proprio alla fecondità: la radice di felix
è quella che troviamo in femina, quindi indica l’allattare, il nutrire. Orazio per esempio usa felix con
messis: le felices messes “le messi felici”, le messi del grano, sono spighe che sono piene, che sono
ben nutrite, che sono state ben curate e quindi che hanno molto nutrimento; non sono le spighe smunte
e rinsecchite, ma sono belle grasse, belle pingui, belle piene di chicchi di grano. Felix poi è passato
per metonimia a indicare la fortuna, la felicità, la prosperità anche all’interno della famiglia.
Sis in amore potens: ripete l’augurio “possa essere tu vittorioso/ trionfante in amore”. Potens, in
questo caso, non significa potente in senso sessuale, significa “vittorioso, trionfante”, cioè possa tu
costruire un rapporto stabile, in senso quasi romano, con la persona, Aufileno, che Celio si è scelto.
Il tutto è ironico perché sappiamo che il diritto romano non prevede il matrimonio tra due persone
dello stesso sesso. Questo epigramma, però, è scherzoso e Catullo si permette di fare questi auguri
tradizionali a un rapporto che è ovviamente un po’ fuori dalle righe.

Vediamo alcune particolarità della lettura metrica.

v.1 ci sono delle sinalefe anche in cesura: Caelius Aufillenum et diventa Caelius Aufillenet, sinalefe
tra -um e et.

v.2 abbiamo due sinalefe, tra fratrem e ille e tra sororem e hoc: hic fratrem, ille sororem. hoc est

v.5 dopo tibi c’è una dieresi cosiddetta bucolica, una sorta di cesura secondaria. Quella di Catullo non
è poesia bucolica, ma qualche volta i poeti la inseriscono.

v.6 c’è un’elisione tra perspecta (o egregie, se si sceglie la lezione alternativa) e ex (perspectex) e
una prodelisione tra igni e est (ignist), perché il verbo essere si fonde con la parola precedente. Tra
unica e amicitia c’è l’elisione tra le due a.

21
Medullas non è una figura retorica specifica. Gli antichi cercavano sempre di identificare alcune passioni con gli
organi interni. Noi oggi quando parliamo di cuore, diciamo che il cuore è la sede di sentimenti come l’amore, la
tenerezza; per i greci antichi, per esempio, la sede del sentimento era invece il fegato (è rimasto anche da noi “uno
che ha fegato, uno che ha coraggio”: coraggio ha la stessa radice di cuore, cor, cordis). Poi pian piano la sede si è
spostata dal fegato al cuore. Qui le midolla indicano la profondità del sentimento: il midollo osseo è quanto di più
profondo c’è nell’organismo umano, quindi viene usato per indicare la profondità del sentimento. Gli antichi
cercavano sempre di collegare i sentimenti, le passioni agli organi interni, ma questo in tutti i popoli: per esempio, in
ebraico rehem “viscere” indica la sede della tenerezza, un po’ come noi oggi diciamo “un amore viscerale”.
Nell’antichità questi sentimenti profondi venivano sempre collegati con gli organi interni: la sede poteva essere il
cuore, il fegato, gli intestini, il midollo. C’era dunque una varietà anatomica di identificazione della sede che provocava
quel tipo di sentimento. Medullas dunque non è una sineddoche o un’altra figura retorica: il midollo essendo un
organo profondo vuole indicare la profondità e l’intensità del sentimento.
CARME CI
Il carme 101 è un carme molto noto e ha avuto una grande fortuna. Catullo, come tutti i giovani
intellettuali del tempo, seguiva qualche generale in qualche campagna militare. Sappiamo che Catullo
accompagnò un generale in Bitinia, quindi fece la sua esperienza in Bitinia. Nell’andare in Bitinia,
approfittò per fermarsi nella Troade dove c’era la tomba del fratello. Catullo esprime il cordoglio e il
dolore per la morte del fratello e, soprattutto, per la sepoltura lontano dalla patria di questo fratello di
cui non sappiamo nulla. Questo carme è importante perché è stato imitato successivamente: Foscolo
nel componimento In morte del fratello Giovanni ricalca i temi di questo epigramma (questo carme è
un vero e proprio epigramma, quasi nel senso proprio del termine, perché è quasi un’iscrizione
funebre). È stato anche imitato dagli umanisti, per esempio Michele Marullo, autore di epigrammi
latini, che comporrà un carme un po’ più lungo rispetto a questo, rifacendosi su questi temi catulliani.
È dunque un carme che ha avuto una grande fortuna, perché si tratta di un carme molto bello e delicato
nel descrivere i sentimenti che Catullo prova per il fratello.

CI. traduzione

MULTAS per gentes et multa per aequora uectus Trasportato attraverso molte genti e attraverso molti
aduenio has miseras, frater, ad inferias, mari, sono giunto fratello per queste povere offerte
ut te postremo donarem munere mortis funebri, per farti l’estremo omaggio della morte e
et mutam nequiquam alloquerem cinerem.
parlare invano col tuo cenere muto.
quandoquidem fortuna mihi tete abstulit ipsum, 5
heu miser indigne frater adempte mihi, Dal momento che la sorte mi ha strappato proprio te,
nunc tamen interea haec, prisco quae morem parentum ahimè, povero fratello prematuramente portatomi
tradita sunt tristi munere ad inferias, via, ma ora intanto queste cose che in virtù di
accipe fraterno multum manantia fletu,
un’antica usanza degli avi (prisco morem parentum)
atque in perpetuum, frater, aue atque uale. 10
sono state tramandate in triste dono come offerte,
accoglile grondanti molto di pianto fraterno, e per
Catullo porta delle inferiae, delle offerte alla tomba del fratello: evidentemente ne ha approfittato per
sempre, o fratello, addio e ancora addio.
una piccola cerimonia, per un piccolo rito funebre che era stato negato al fratello nel momento in cui
era morto, perché lontano dalla patria. È interessante il verso 1, multas per gentes et multa per
aequora vectus, perché fa riferimento al lungo viaggio che Catullo ha dovuto fare per raggiungere la
Bitinia. Non è sostenibile l’ipotesi di chi pensa che dalla Bitinia sia andato alla Troade: piuttosto
mentre andava in Bitinia si ferma alla Troade, soltanto così si può spiegare che lui per arrivare lì ha
attraversato molte popolazioni e molti mari. Gentes sono le popolazioni, non le gentes le famiglie
romane: gens, gentis è un po’ come έθνη (ethnē)22 del greco, indica quindi le nazioni, le popolazioni,
che nel Cristianesimo diventeranno poi “i genitli”, i cosiddetti pagani. Poi anche multa per aequora
significa “attraversato molti mari”.

v.1 vectus: significa “trasportato”. Veor, passivo di veo, significa “essere trasportato”, ma anche
“andare, partire, mettersi in viaggio”, quindi “viaggiare”. Si potrebbe, dunque, anche tradurre
“viaggiando per molte popolazioni e per molti mari, sono giunto finalmente a onorare la tua tomba”.

22
Nota di trascrizione: non conoscendo il greco, non so se il termine esatto sia questo.
v.1 aequora: indica la distesa del mare. Aequor non ha nulla a che fare con acqua; aequor è ciò che
è pianeggiante, ciò che è aequum, cioè è “piano”. La distesa piana per eccellenza è il mare. Per
metonimia, in poesia, aequora nell’80% dei casi significa “il mare”. Può indicare anche una pianura,
un prato o altro, però di per sé in poesia s’intende il mare. Propriamente, però, significa una “distesa
pianeggiante”, come appunto è il mare.
v.1 multas per gentes et multa per aequora: parallelismo, “per molte popolazioni e per molti mari”.
v.2 advenio: “sono giunto”. Dietro questo advenio c’è il greco ἥκω (hḗkō)23, che ha un significato
perfettivo resultativo24, cioè il presente, in genere, ha il senso di perfetto. ἥκω quindi non significa
“giungo”, ma “sono giunto”; così come advenio non significa “giungo, sto arrivando”, ma “sono
giunto, sono arrivato”. Quindi “Sono arrivato o fratello per queste misere offerte funebri”, cioè per
offrirti queste offerte funebri.
v.2 inferias: “offerte funebri” che si portavano nella tomba. Quali erano le offerte funebri? Erano,
per esempio, la farina, il latte, il miele, tutti alimenti che si riteneva potessero giovare all’anima del
defunto, in genere cose che potevano piacere al defunto stesso. Alcuni pensano che l’uso del latte sia
connesso con quella credenza antichissima per cui le anime dei defunti risiedono nella Via Lattea,
nell’orbis lacteus o Γαλαξίας (Galaxìas, in greco). E allora il latte farebbe riferimento anche
all’immortalità dell’anima che sopravvive e abita nel Cosmo, nella Via Lattea. Probabilmente, però,
si tratta di alimenti di prima necessità che potevano essere graditi ai defunti25. Anche se per noi oggi
sembrerebbe quasi una follia, per gli antichi era invece normale portare nella tomba oggetti o cibi che
erano particolarmente graditi al defunto, perché era un modo per rivivere un rapporto che ormai non
c’è più, un contatto con la vita reale, terrena che ormai non c’è più.
v.2 has miseras… ad inferias: è un complemento di fine. Molti traducono inferias come “tomba”,
ma inferias non è la tomba: Catullo giunge per fare le offerte, per queste povere offerte (ad has
miseras inferias) con cui vuole omaggiare il fratello defunto (lo dirà dopo).
v.3 ut te postremo donarem munere mortis: “sono giunto per queste misere offerte per donarti
l’estremo omaggio della morte” (postremo munere mortis) cioè l’estremo omaggio che si dà a un
defunto. Il tutto è molto compendiato, e, continua il poeta “e parlare invano col tuo cenere muto” (per
usare l’espressione di Foscolo)
v.3 munus morti: è l’omaggio che si dà al defunto, un omaggio funebre, diremo noi oggi.
v.3 donare: è qui presente la seconda costruzione del verbo donare. Il verbo donare in latino si può
costruire in due modi: o, come in italiano, con l’accusativo e il dativo (“dono una cosa a te”
complemento oggetto e dativo di termine), oppure con l’ablativo (della cosa che si dona) e
l’accusativo (della persona a cui si dona), come se usassimo in italiano gratificare “ti gratifico con
questo”. Se nella traduzione usassimo gratificare in luogo di donare, sarebbe “affinché io possa
gratificarti con l’estremo omaggio della morte”. Ricapitolando, il verbo donare in latino si può
costruire o con l’accusativo e il dativo (come in italiano), oppure con l’ablativo e l’accusativo della

23
Non ἔχω (con epsilon, chi, omega), ma ἥκω (con eta, kappa, omega)
24
I critici concordano nel pensare che Catullo nell’usare advenio abbia presente il senso e l’uso di ἥκω del greco
(quando si trova ἥκω in greco bisogna sempre tradurre come “sono arrivato, sono giunto”, mai come “giungo” che si
tarduce invece ἔρχομαι (érkhomai)).
25
Queste tradizioni si tramandano poi inconsciamente fino a oggi, anche se non si conoscono le usanze romane. Un
collega dell’Ogliastra raccontava al professor Piras di conoscere una vecchietta, una vedova che andava spesso alla
tomba di suo marito defunto e versava su di essa dell’aranciata, perché l’aranciata piaceva tanto al marito. Quasi per
fare un piacere al marito versava quest’aranciata sulla tomba, proprio come inferia, come offerta. Sono delle categorie
che ci portiamo dietro inconsciamente, proprio come eredità.
persona a cui si dona: per capire questa seconda costruzione bisogna immaginare che il verbo donare
abbia il significato dell’italiano gratificare “ti gratifico di questo, ti gratifico con questo”.
munus è postremum perché è l’ultimo dono che si può fare al defunto.
v.4 “parlare invano con il tuo cenere muto”: chiaramente la cenere non parla, ma c’è quasi
un’identificazione della cenere con il defunto stesso.
Due cose interessanti da notare al verso 4:
1) nequiquam: “invano”, qui ha proprio l’accezione sua originaria di “invano” cioè “senza
effetto”. Ricordate la distinzione tra frustra e nequiquam: nequiquam significa “senza
effetto”, cioè compiere un’azione senza effetto; mentre frustra è compiere un’azione che ha
un effetto diverso da quello sperato, da quello che ci si aspetta. Ecco spiegato dunque l’uso di
nequiquam: il poeta parla invano, è chiaro che parla invano, perché non sta parlando con una
persona viva, ma con un defunto, quindi l’azione non ha effetto. Quindi il nequiquam è qui
usato nel senso proprio. Oltretutto si tratta di un avverbio solenne, un po’ arcaizzante, che non
si trova quasi mai in prosa; si trova spesso In Lucrezio e Virgilio, ma non nella prosa. È
dunque un termine poetico veramente ricercato, anche solenne.
2) adloquor: significa sì “parlare, rivolgersi a qualcuno”, ma sempre rivolgersi in tono
consolatorio. Adloquor in latino spesso significa anche “consolare” (Catullo lo usa anche nelle
nugae con questo significato). Quindi adloquor significa “parlare a qualcuno per consolarlo”;
ad indica “rivolgersi a”.26 Quando si legge in questo verso adloquerer, uno dirà “parlare con
il tuo cenere muto”, perché probabilmente avrà in mente le parole di Foscolo, però si ricordi
che è quasi un parlare consolatorio, quasi un “consolare la tua cenere muta per essere morto
prematuramente”. Si immagini sempre un parlare con consolazione, ai fini della consolazione
e del conforto. Questo è interessante ed è una sfumatura che non va persa e che raramente
viene messa in evidenza, ma l’uso latino di adloquor è chiarissimo, sia in prosa sia in poesia.
La tragedia sta nel fatto che si cerchi di consolare qualcuno che non può ricevere tale
consolazione, tali parole. Ecco perché il poeta usa nequiquam “invano”, perché è una
consolazione senza effetto: Catullo svolge questa azione del parlare per consolare, ma senza
effetto27, senza che abbia poi un esito o un risultato, “senza costrutto” come si potrebbe dire
in italiano. Il tutto va collegato quindi a nequiquam, che è posizionato nel cuore del verso.

26
In tedesco, il verbo zusprechen, composto da zu (preposizione, equivalente di ad latino e di to dell’inglese) e
sprechen (“parlare” equivalente di loquor), significa “consolare, confortare qualcuno”, esattamente come in latino.
27
Catullo è conscio del fatto che si tratti di un rito, che quindi non ha nessun effetto. Per gli antichi i morti andavano in
un aldilà che era una specie di penombra. Anche nelle famose νέκυια (nekquiae ?) di Omero non c’era la distinzione
tra i buoni e i cattivi, nel senso che anche gli eroi condividevano una condizione di penombra. Quando Odisseo
incontra Achille, gli chiede come mai sia lì, lui che era stato un eroe sulla terra; Achille risponde che preferirebbe
essere uno schiavo sulla terra piuttosto che dominare nel regno dei morti, perché non c’è ancora quella teodicea
(“giustizia di Dio”) che è stata definita soprattutto nei secoli del cristianesimo, che prevedeva un premio un premio per
i buoni e una condanna per i cattivi. Nell’antichità tutti i morti condividevano questa realtà di penombra, di squallore,
senza avere nessun contatto col mondo terreno. I Campi Elisi sono una superfetazione: la letteratura vicino-orientale e
quella greca arcaica non ha l’idea dei Campi Elisi. L’idea del regno dei beati è venuta dopo, è una definizione
successiva dell’Ade. A sostegno di ciò, si pensi al significato e all’etimologia di ᾍδης (Hádēs), in cui ἁ alfa è ritenuto dai
linguisti un alfa privativo e la seconda parte della parola ha la stessa radice di εἶδον (eîdon) “vedere”. L’Ade, dunque, è
tale perché è un luogo dove uno non vede nulla, è buio, c’è penombra, c’è nebbia. Soltanto in un secondo momento si
è pensato ai Campi Elisi, che sono dunque una costruzione successiva. Nelle fonti antiche si parla anche di una
possibile localizzazione dei Campi Elisi in alcune isole atlantiche, probabilmente identificate con le Canarie: i primi
navigatori parlavano in maniera fantastica di queste isole, che noi oggi chiamiamo Canarie, e si è fantasticato sul fatto
che fossero le isole dei beati, i Campi Elisi. Si tratta però di una tradizione differente da quella mediterranea vera e
propria, probabilmente è di origini persiane, ma non certamente mediterranee. Sia il mondo vicino- orientale, sia il
Nota metrica: al verso 4 tra nequiquam e alloquerer abbiamo una sinalefe in cesura.

v.5 quandoquidem fortuna mihi tete abstulit ipsum: “dal momento che la sorte ha portato via proprio
te”.
quandoquidem: indica una causa oggettiva, perché la morte è tangibile, constatabile e non può essere
una causa soggettiva. Catullo è di fronte alla tomba del fratello, quindi chiaramente vede che è morto.
Quandoquidem indica quindi la realtà, l’oggettività, quasi la dura realtà dell’evento.
fortuna: è una vox media, nel senso che è collegata al verbo fero: la fortuna è quello che la vita porta,
e dunque non solo cose buone, dal momento che spesso porta anche cose cattive, spiacevoli. Quindi
è ciò che porta il destino (fortuna da fero). In italiano la fortuna ha un’accezione sempre positiva;
mentre in latino la fortuna può essere anche ciò che noi oggi chiamiamo sfiga, perché la vita può
portare anche qualcosa di molto spiacevole, come in questo caso in cui Catullo dice “la sorte mi ha
portato via proprio te”.
Da notare come il rimpianto e il dolore per la perdita è espresso in maniera enfatica non soltanto con
l’uso del determinativo ipsum, ma anche con il raddoppiamento del pronome tete “proprio te”. Come
troviamo sese, meme “proprio me”, troviamo anche tete “proprio te”, come in questo caso. Come se
Catullo dicesse “mi ha portato via proprio te stesso” cioè “proprio te doveva portare via la sorte”:
questo è il tono con cui Catullo evidentemente ha pensato questo verso. Segue infatti al verso
successivo un’espressione di dolore.

v.6 heu miser indigne frater adempte mihi: “ahimè povero fratello indegnamente portatomi via”.
indigne: non è un vocativo riferito a frater, ma è un avverbio. Lo sappiamo per via della metrica: dal
momento che leggiamo heu miser indigné, vuol dire che quella e è lunga, non può essere quindi un
vocativo, che invece ha la e breve. La e lunga (ē) è proprio la terminazione degli avverbi, quindi vuol
dire “indegnamente”. Indignus nella poesia funeraria indica sempre qualcosa come “prematuro”.
Anche Virgilio nel XII libro dell’Eneide, quando descrive la morte di un soldato, dice che la sua
anima fugit indignata sub umbras, che non significa “fuggì indignata nelle ombre, nell’Ade”, ma
significa invece “fuggì precocemente nelle ombre”; quell’inidignata quindi vuol dire che è morto
prematuramente. Questo è un uso tipico della poesia funeraria. Quindi al v.6 indigne vuol dire
“prematuramente/precocemente portatomi via”.
adempte: un vocativo del participio di adimo, è un sinonimo di aufero. Al verso 5 abbiamo abstulit,
perfetto di aufero, “portare via”, e al verso successivo abbiamo invece adimo (paradigma: ădĭmo,
ădĭmis, ademi, ademptum, ădĭmĕre), che significa ugualmente “sottrarre”, quindi è un sinonimo di
auferre. È interessante che ci sia questa variatio “intelligente”, per così dire.
v. 7/8/9 nunc tamen interea haec, prisco quae morem parentum/ tradita sunt tristi munere ad
inferias,/
accipe fraterno multum manantia fletu: “ma ora intanto questi doni (haec) che per un’antica usanza
dei padri (prisco more parentum) sono stati tramandati (tradita sunt) come triste ufficio/ compito
(tristi munere) per le offerte (ad inferias) accoglile grondanti molto di pianto fraterno/del pianto di
tuo fratello”
v.7 haec: sono questi doni che sta portando Catullo, probabilmente latte, miele, questo tipo di doni
che si portavano alle tombe

mondo greco, raccolti intorno al bacino del Mediterraneo condividono la stessa idea di aldilà (l’Ade dei Greci, per
esempio, non è molto diverso dallo Sheol degli antichi ebrei).
v.7 prisco more parentum: “per via di un’antica consuetudine, usanza (mos) tradizionale”; parentum
sono gli avi, sono i padri, quindi si tratta di un’usanza tradizionale
v.8 tradita sunt: “sono stati tramandati”. La traditio, il tradere significa passare di mano in mano,
quindi è una usanza che si passa di generazione in generazione
v.8 tristi munere: è un ablativo di modo, “come un triste dono”; triste perché ovviamente è un dono
funebre. Si può tradurre anche come “triste compito” perché munus non indica soltanto il dono, ma
anche il compito: il munus è l’ufficio, l’incarico che ha qualcuno. Il tristi munere è il triste ufficio
della sepoltura, dei riti funebri, come nella liturgia cristiana “il pietoso ufficio della sepoltura”
v.8 ad inferias: “per offerte funebri”, come al v.2
v.9 accipe: ha come complemento oggetto haec di tre versi prima, “queste cose tu accoglile”. Il tutto
è intramezzato dalla lunga relativa “quae prisco more parentum etc…”.
v.9 manantia: è sempre riferito a haec e ha funzione di participio predicativo, “questi doni tu accoglili
grondanti molto di lacrime fraterne”.

Si arriva al verso finale del carme, che è una sorta di σφρηγίς (sphrēgís), una sorta di sigillo: “e per
sempre (in perpetuum) fratello addio e ancora addio”.
v.10 ave atque vale: è una formula che troviamo in molte iscrizioni funerarie, anche non metriche.
Catullo qui non sta inventando nulla, sta applicando nel suo epigramma una formula funeraria
abbastanza comune, abbastanza frequente. Ave è il saluto, come χαῖρε (khaîre) del greco, che si usa
quando uno incontra una persona; vale, invece, è il saluto di congedo, quando uno lascia una persona.
Quindi ave atque vale vuol dire “addio e ancora addio”, perché il fratello è giunto alla tomba, lo
saluta, e poi lo lascia con questo addio perpetuo, in perpetuum. La formula ave atque vale è però una
formula stilizzata, è cristallizzata, formulare, per cui è difficile trovare un corrispettivo in italiano. Si
può proporre, come fanno alcuni, “addio e ancora addio”

Particolarità metriche del carme 101:


v.2 elisione tra advenio e has
v.4 sinalefe tra nequiquam e adloquerer
v.5 elisione tra tete e abstulit
v.7 elisione tra interea e haec
v.8 elisione tra munere e ad
v.10 elisione tra atque e in; elisione tra ave e atque.

Carme CII
Il carme 102 è un breve epigramma, formato da due soli distici, dove Catullo esprime la sua lealtà
verso un amico che viene chiamato Cornelio. Sull’identità di Cornelio è tutto un po’ oscuro, ma è
probabile che si tratti di Cornelio Nepote. Il primo componimento delle nugae di Catullo, quello che
apre il canzoniere, è dedicato appunto a Cornelio Nepote. Cornelio era un conterraneo di Catullo,
probabilmente anche colui che lo aveva introdotto negli ambienti intellettuali di Roma, per cui Catullo
ha sempre dimostrato una gratitudine e ha sempre espresso amicizia nei confronti di questa sorta di
mecenate che lo ha aiutato. Naturalmente Cornelio era più vecchio rispetto a Catullo. È quindi
probabile che l’amicizia e la lealtà che Catullo vuole dimostrare sia da tributare a Cornelio Nepote.

CII. traduzione
Se è stato affidato qualcosa da un amico ad una persona
discreta e affidabile, la cui lealtà sia assolutamente
accertata/ nota troverai che anche io sono vincolato da un
SI quicquam tacito commissum est fido ab amico,
cuius sit penitus nota fides animi,
meque esse inuenies illorum iure sacratum,
Corneli, et factum me esse puta Arpocratem.

Catullo in questo carme sta dicendo che se è mai esistita una fedeltà, una persona che ha conservato
fedelmente un segreto o una confidenza, quella persona è sicuramente lui: dice dunque all’amico che
lo consideri pure vincolato ad un giuramento di discrezione e di fedeltà, anzi che lo consideri
addirittura un Arpocrate. Questo riferimento ad Arpocrate è quasi una pointe finale dell’epigramma.

v.1 si quicquam…commissum est: committere significa “affidare” (pensare all’italiano


commissione, ovvero “affidare qualcosa a qualcuno” o committenza), traduciamo quindi “se qualcosa
è stato affidato da un amico (ab amico) ad una persona discreta e leale (tacito fido)”
tacito…fido: attenzione, non sono ablativi da collegare ad ab amico, ma sono due dativi, quindi “se
da un amico (ab amico) è stato mai affidato qualcosa (a chi?) ad una persona muta/discreta (tacito
fido)”. Tacito e fido sono legati per asindeto, non c’è una congiunzione copulativa.
ab amico: è complemento d’agente
quicquam: indefinito neutro, che viene usato in frasi negative o dubitative
v.2 Il verso 2 è una relativa: “la cui lealtà (cuius fides animi) sia assolutamente nota (sit penitus nota)”
cuius…fides animi: “la cui lealtà d’animo/ la cui fedeltà d’animo”; cuius ha come antecedente tacito
fido. Fides animi corrisponde al nostro “lealtà”28, è un giro di parole per indicare quel concetto che
noi oggi in italiano esprimiamo con lealtà.
penitus: è un avverbio, che letteralmente significa “profondamente”, però traduciamo con
“assolutamente nota” o qualcosa del genere.
v.3 ha qualche zona d’ombra
-que: enclitico, non può essere messo in correlazione con il secondo et (come et…et “sia…sia”); ha
invece valore di “anche”, cioè: “troverai che anche io sono stato vincolato/sono obbligato da un tale
giuramento)
sacratum: sacrare significa consacrare, quindi vincolare, obbligare con un rito o un giuramento anche
sacro; letteralmente significa “dedicare a” e può essere qualcosa dedicato alle divinità celesti o alle
divinità infere. In questo caso quindi significa “consacrato, vincolato, obbligato”. Da che cosa? Noi
traduciamo “da un tale giuramento”
iure: ius, iuris qui non vuol dire “diritto”, ma ha il significato latino di ius iurandum che significa
“giuramento”. Quindi sono vincolato non dal diritto, ma dal giuramento. Quindi “sappi che anche io
vincolato da un tale giuramento, che anche io sono un adepto di questa cerchia di coloro che osservano
le cose che sono state affidate e che sono vincolate dall’obbligo del silenzio”
illorum: rappresenta un problema interpretativo. Risponderebbe alla domanda: il giuramento di chi?
Di quelli (illorum). Quale giuramento, di chi? Molti propongono di intendere illorum riferito a tacitus
e fidus, come se fosse illorum tacitorum et fidorum, ma è un’ipotesi un po’ azzardata. Molti, come
Beherens e altri filologi, propongono di sostituire illorum con indorum: allora si farebbe riferimento
al giuramento all’interno di una setta orientale, come spesso accadeva a Roma. Altri ancora

28
Fides animi corrisponde al nostro “lealtà”. Non è necessario tradurre fedeltà d’animo, perché è un pleonasmo: la
fedeltà pertiene sempre a una dimensione dell’animo, non del corpo.
propongono mistarum29, cioè in riferimento a adepti di una setta quasi segreta, nascosta, il tutto
ovviamente in senso un po’ ironico. Illorum così com’è non funziona: grammaticalmente non c’è
nessun problema, però in quanto a senso non si capisce chi sia illorum, a meno che Catullo non faccia
riferimento a qualcosa che noi non conosciamo e che soltanto lui e Cornelio potevano conoscere, “al
giuramento di quelli”. Anche questa è una possibilità, ma si tenga conto del fatto che in genere una
poesia ha sempre una dimensione pubblica, quindi difficilmente ci sono queste espressioni criptiche
nelle poesie antiche. Espressioni criptiche possono invece essere presenti nelle lettere, soprattutto
quelle non pubblicate (come quelle di Cicerone, pubblicate post mortem), ma nelle poesie questo
capita molto raramente. Allora molti hanno pensato che illorum sia un guasto, una corruttela per una
parola che ci è sfuggita. Indorum dal punto di vista paleografico è una soluzione economica, perché
illorum e indorum tutto sommato sono due parole vicine; però gli indi, cioè gli indiani, che
c’azzeccano? Non c’è nessuna notizia di una setta orientale che era legata dal vincolo del giuramento.
Tutto rimane quindi piuttosto oscuro. Di fatto rimane che illorum è un guasto, ma non si sa come
sanarlo. Anche l’edizione di Traina riporta la lezione illorum, riportando in nota che “è da escludere
un’allusione a culti misterici” (come invece fanno altri, tra cui Beherens e Lenchantin che pensano a
culti misterici).

v.4 “Cornelio (Corneli), ritieni pure (puta) che io sia diventato un Arpocrate.
Corneli: è messo in posizione enfatica, all’inizio del pentametro;
Arpocratem: Arpocrate era una divinità di origine egizia, raffigurata come un ragazzo, un giovane
che si mette il dito in bocca per esortare al silenzio. L’Arpocrate quindi è la figura della persona muta
che non parla, che quindi tiene custodito un segreto.
Il verso finale sarebbe una piccola pointe, perché c’è questa finale un po’ umoristica. Tutto il secondo
distico si può ritenere venato da una certa ironia, da un certo humor, anche nell’espressione così
solenne di dire che lui è vincolato, è quasi consacrato da giuramento di non so chi, di non so che cosa
è comunque un’espressione da cui traspare un po’ di umorismo e ironia.

Particolarità metriche del carme CII:


v.1: prodelisione tra commissum e est; elisione tra fido e ab
v.3: elisione tra meque ed esse; elisione tra esse e invenies. Attenzione: la i di iure è una
semiconsonante, dunque non può aversi una sinalefe tra illorum e iure
v.4: elisione tra Corneli ed et; elisione tra me ed esse; elisione tra puta e Arpocratem.

CARME CV
CV. Traduzione
MENTULA conatur Pipleium scandere montem: Bischero tenta di scalare il monte Pipleo: ma le
Musae furcillis praecipitem eiciunt.
Muse a suon di forcate lo buttano giù a precipizio.

29
Lenchantin pensa che dietro illorum ci sia mistarum “gli adepti” di una setta; tra illorum e mistarum però passa un
oceano, è dunque difficile difendere una simile lezione. Il senso potrebbe essere quello, ma non sappiamo come
risolvere il rebus.
In questo carme 105 compare il solito Mentula, già incontrato in carmi precedenti, che probabilmente
è il soprannome di Mamurra. Questo carme probabilmente fa riferimento a un tentativo di Mamurra
di comporre delle poesie. Scalare il monte Pipleo significa appunto dedicarsi alla tecnica
versificatoria, all’arte delle Muse, alla poesia; le Muse, però, non lo vogliono, lo disprezzano e lo
cacciano via dal monte a forza di forconi.
Pipleium…montem: Piplea era una località della Grecia, una fonte e anche un monte, che era caro
alle Muse, sacro alle Muse. Dire Monte Pipleo significa dire “monte delle Muse”, dove appunto le
Muse risiedevano frequentemente. Scandere montem Pipleium sigifica quindi dedicarsi alla poesia,
alle Muse.
scandere: è usato in senso transitivo (il verbo lo permette, anche in prosa. Non è una grande
eccezione);
Musae: è posto a inizio verso, collegato al verso precedente per asindeto che ha valore avversativo,
“ma le Muse”;
eiciunt praecipitem: “lo buttano giù/lo scacciano giù a precipizio”. Praecipitem ha un valore
predicativo: il complemento oggetto è sempre Menutla, come se fosse eiciunt Mentulam praecipitem,
cioè “buttano giù Bischero a precipizio”
furcillis: “forconi”, è uno strumentale: con dei forconi lo cacciano via dal monte, buttandolo giù a
precipizio.

Il carme 105 è molto semplice e non ha nessuna particolarità, ma è interessante questo tentativo di
Mamurra di dedicarsi alla poesia, di cui non abbiamo altre testimonianze. È probabile che in qualche
simposio o in qualche convitto abbia tentato di comporre una poesia, incorrendo subito negli strali di
Catullo.

Particolarità metriche:
v.2: sinalefe tra praecipitem ed eiciunt.

LEZIONE 15 (19/11/2020) Giovanni Soru

Carme CIII

Questo carme parla di questo lenone, il quale deve dei soldi a Catullo. È un carme molto generico.

Àut sodès mihi rèdde decèm sestèrtia, Sìlo, 1


dèinde estò quamvìs saèvus et ìndomitùs:

àut, si tè nummì delèctant, dèsine quaèso

lèno esse àtque idèm saèvus et ìndomitùs.

Traduzione:

Per favore o mi restituisci, oh Silone, diecimila sesterzi

E poi sii duro e intrattabile quanto vuoi,

oppure se ti piace il denaro, smettila ti prego di essere un ruffiano

e nello stesso tempo di essere duro e intrattabile.

Sodes – ‘per favore’, espressione tipica del linguaggio parlato. Si tratta della forma contratta di si
audes.

Decem sestertia – ‘diecimila sesterzi’. Sestertium era un antico genitivo plurale (sestertiorum) inteso
poi come una sorta di neutro e declinato anche al plurale. L’espressione completa era decem milia
sestertium (sestertiorum per la precisione), che poi è stata ridotta.

Quamvis – non si tratta della congiunzione concessiva col congiuntivo, ma è l’avverbio ‘quanto vuoi’.

Carme CIV

È un carme abbastanza contenuto, formato da due distici, in cui Catullo vuole smentire la diceria che
lo vede parlar male della sua donna (ovviamente Lesbia).
Crèdis mè potuìsse meaè maledìcere vìtae, 1

àmbobùs mihi quaè càrior èst oculìs?

nòn potuì, nec, sì possèm, tam pèrdite amàrem:

sèd tu cùm Tappòne òmnia mònstra facìs.

Traduzione:

Tu credi che io avrei potuto parlare male della mia vita,

che per me è più cara di entrambi gli occhi?

Non avrei potuto, ne, se fossi in grado di farlo, ti amerei così perdutamente:

ma tu piuttosto ne fai di cotte e di crude con Tappone.

Il carme inizia con una certa intensità di sentimento, per poi arrivare alla fine dove se la prende con
Lesbia (o forse un’altra donna, ma sicuramente è lei), che invece non è così fedele e che si diverte
con questo personaggio definito da Catullo ‘Tappone’.

Maledicere – non va inteso con l’italiano ‘maledire’, ma va interpretato proprio nella sua costituzione
etimologica: male dicere > ‘dir male’, quindi ‘dir male di qualcuno / sparlare.

Meae vitae – nella poesia erotica – soprattutto in quella di Catullo – questa espressione fa sempre
riferimento alla donna amata, intesa come ‘la sua ragione di vivere’. Quindi meae vitae va inteso
come ‘la mia donna’.

Quae carrior est mihi ambobus oculis – ‘che per me è più cara di entrambi gli occhi’. L’immagine
dell’occhio inteso come la cosa più preziosa che ci sia (il termine pupilla ha avuto interessanti esiti
romanzi e ancora oggi usiamo l’espressione ‘vale un occhio della testa’, ereditata dal patrimonio e
dalla civiltà latina).

Non potui – ‘non avrei potuto farlo’. Questo è un cosiddetto falso condizionale.
Si possem, tam perdite amarem – ‘se anche potessi farlo, non ti amerei così perdutamente’. Per il
poeta sarebbe quindi una contraddizione sparlare di Lesbia e allo stesso tempo amarla così
perdutamente.

Il tutto è immerso nel periodo ipotetico della irrealtà, lo dà come ipotesi per assurdo, e lo vediamo
perché sia la protasi (si possem) e sia l’apodosi (tam perdite amarem) hanno l’imperfetto congiuntivo,
che è uno dei tempi dell’irrealtà.

Da notare come gioca col verbo possum con la ‘possibiltà e la ‘impossibilità’: al verso uno abbiamo
potuisse, poi al verso tre potuit e si possem.

Dopo questi versi così intensi abbiamo una sorta di scatto nervoso del poeta alla fine. Dice ‘tu
piuttosto ne combini di tutti i colori con Tappone’.

Tappone - Non sappiamo chi sia questo Tappone, non sappiamo neanche se sia un nome reale o
inventato, forse è uno pseudonimo (pare che il nome tappis-tapponis fosse diffuso nelle farse, spesso
attribuito a un personaggio ghiottone). Probabilmente era un rivale di Catullo, a cui Lesbia
ammiccava. Insomma un personaggio che destava qualche preoccupazione al poeta.

Tu – ‘piuttosto tu’. Sappiamo che in latino i pronomi personali non sono usati con frequenza, quindi
in questo caso serve a mettere in evidenza, significa ‘proprio tu / tu piuttosto’, usato in forma enfatica
(quasi avversativa visto il sed prima).

Facis omnia monstra cum Tappone – l’espressione omnia monstra facere è stata molto discussa dagli
studiosi, perché non ricorre in altri autori e quindi è difficile sapere l’esatto significato. Possiamo
desumere il significato di questa espressione dal contesto: monstrum è inteso come ‘tutto ciò che desta
meraviglia’ (non corrisponde al nostro italiano ‘mostro’, anche se deriva da lì), indica quindi qualcosa
di strano, insolito, che crea scalpore; quindi omnia monstra facere potrebbe voler dire ‘farne di tutti
i colori / farne di cotte e di crude’. Monstrum può anche essere inteso come ‘stranezza’, quindi la
traduzione sarebbe ‘tu che fai stranezze con Tappone’. C’è sicuramente un riferimento a qualche
scappatella amorosa di Lesbia con questo personaggio, anche se il tutto resta un po’ criptico.

Da un punto di vista metrico e stilistico il carme è abbastanza piano.

Carme CVI
È un carme convenzionale di tipo omoerotico, secondo lo stile della poesia alessandrina, che parla di
un banditore e di un bel ragazzo, e Catullo si domanda se questo giovane vuole mettersi in vendita.

È un carme scherzoso tutto sommato ma appunto convenzionale (l’antologia palatina è piena di carmi
del genere) e possiamo considerarlo come un pedaggio che Catullo deve pagare al genere letterario.

Cùm puerò bellò praecònem qui videt èsse,

quìd credàt, nisi sé vèndere dìscuperè?

Traduzione:

Colui che vede un banditore stare con un bel ragazzo,

che cosa dovrebbe credere se non che desidera mettersi in vendita?

Credat – ‘che cosa dovrebbe credere’, è un congiuntivo dubitativo.

Discupere – ‘desiderare smaniosamente’. Non è un desiderio composto, ma quasi una smania. Il


preverbio dis- indica sempre ‘di qua e di là’.

Vendere se – ‘vendersi’. Non vuol dire che il banditore desidera vendere il ragazzo, ma è il ragazzo
stesso a vendersi.

Sintatticamente il carme è ambiguo, perché in una proposizione infinitiva soggetto e complemento


oggetto sono in accusativo; quindi dobbiamo decidere chi è il soggetto e chi il complemento.
Carme CVII

Questo carme esprime tutta la gioia di Catullo dopo che Lesbia, di sua spontanea volontà, è ritornata
da lui. Il loro rapporto era una sorta di tiro e molla; probabilmente in quel giorno Lesbia si sentiva
sola e ha deciso di tornare da Catullo, il quale non ha nascosto la sua felicità per questa riconciliazione.

Il carme è costruito con una certa elaborazione formale, tuttavia presenta qualche sbavatura. Ad
esempio, troviamo alcune ripetizioni che esprimono la gioia del poeta per il ritorno di Lesbia.

Questo carme, proprio per la stranezza di alcune espressioni, ha una tradizione testuale tormentata:
non tutte le edizioni sono concordi.

Sì quiquàm cupidò optàntique òptigit ùmquam 1

Ìnsperànti, hoc èst gràtum animò propriè.

quàre hoc èst gratùm nobìs quoque càrius àuro

quòd te rèstituìs, Lèsbia, mì cupidò.

rèstituìs cupido àtque inspèranti ìpsa refèrs te 5

nòbis. ò lucèm càndidiòre notà!

quìs me unò vivìt felìcior, àut magis hàc res

òptandàs vità dìcere quìs poterìt?


Traduzione:

Se a un innamorato che lo desiderava è mai accaduto qualcosa contro la sua speranza,

questo è davvero gradito al suo animo.

Perciò questo è gradito anche a me e più caro dell’oro

il fatto che, oh Lesbia, tu ti restituisci a me innamorato.

Ti restituisci a me innamorato contro ogni speranza (senza speranza), spontaneamente tu stessa ritorni

a me. Oh giornata degna di una nota più bianca!

Chi vive più felice di me solo, oppure chi potrà dire cose più desiderabili

di questa mia vita?

Catullo parte da considerazioni universali (“se a un innamorato che lo desiderava è mai accaduto…”)
per arrivare alla sua vita sentimentale (“il fatto che tu ti restituisci a me…”).

“La vera poesia è quella che sa esprimere pensieri e concetti universali che l’uomo possa godere (o
che perlomeno in cui si possa riconoscere) in ogni spazio e in ogni tempo. Una poesia di duemila o
tremila anni fa è vera poesia quando riesce a dire qualcosa anche a noi oggi dopo tanto tempo.”

Sono proprio queste riflessioni universali a rendere quindi affascinante l’opera di Catullo.
Ovviamente ci sono studiosi che ritengono invece che “il poeta vero è quello che riesce a incidere
nella società del suo tempo”; potrebbe andar bene in una dimensione storicistica, ma chi si trova a
fare i conti con la propria esistenza cerca nelle letterature antiche quello che dice di significativo
anche oggi.

Cupido – ‘innamorato’. Cupidus di per sé vuol dire ‘desideroso’, in questo caso è però colui che
desidera è la donna amata, quindi corrisponde al nostro innamorato.

Optantique – ‘e che lo desidera’ oppure ‘che desidera qualcosa’ (abbiamo quiquam).

Insperanti – ‘senza che lo sperasse’, sarebbe ‘contro ogni speranza’.


Animo – è quasi un complemento di stato in luogo più che un dativo (sappiamo però che l’aggettivo
gratus può reggere il dativo), perché è una soddisfazione intima, nelle pieghe dell’anima.

Dal verso tre passa alla dimensione personale.

Carius auro – ‘è più caro dell’oro’ che cosa? Quod te restituis.

Hoc – è prolettico della dichiarativa introdotta da quod al verso quattro. Infatti la traduzione è ‘questo
fatto a noi è gradito… il fatto che…’.

Restituis cupido – è una epanalessi, ovvero la ripresa delle espressioni del verso precedente al verso
successivo (una sorta di anafora).

Ipsa refers te nobis – ‘tu stessa ti riporti a noi’, ovvero ‘tu stessa ritorni da noi’. Nobis è un plurale di
modestia.

Ipsa – indica la spontaneità dell’azione di Lesbia, che ritorna da sola da Catullo. Il termine è messo
dal poeta in una posizione di forte evidenza proprio per enfatizzare questa spontaneità, questa sua
iniziativa (non è stato Catullo a pregarla di ritornare, l’ha deciso lei). Non si tratta quindi di una
volontà passiva, ma attiva.

Curiosità! In greco ci sono due verbi per indicare il volere: βούλοµαι e Θέλω. Il primo indica la
volontà attiva, ovvero la volontà parte dal soggetto stesso (es. “voglio che quello studente esca
dall’aula”); il secondo invece indica la volontà passiva, ovvero la volontà non parte dal soggetto, che
invece sta accondiscendendo alla richiesta di un altro.

o lucem candidiore nota – ‘oh giornata da ricordare con una nota più bianca’, è un’esclamazione di
gioia! Ci sono delle espressioni latine per cui le giornate nefaste venivano segnate con una pietruzza
nera e quelle gioiose invece con una pietruzza bianca. Ad esempio, albo signanda lapillo (= giornata
da segnare con una bianca pietruzza) oppure nigro signanda lapillo (= giorno da segnare con una
pietruzza nere) che appunto indicavano giornate belle e giornate brutte. Catullo fa riferimento a queste
espressioni idiomatiche.

Lucem – è una metonimia per indicare la giornata. È un accusativo esclamativo (N.B. in latino per
fare un esclamazione si usa l’accusativo e non il nominativo o il vocativo).
Candidiore nota – letteralmente ‘da un’annotazione più bianca’. È un ablativo, ma di che tipo? Ci
sono due possibilità: la prima è che ci sia sottinteso un dignam – l’aggettivo dignus può reggere
l’ablativo – traducendo ‘oh giornata degna di una nota più candida’; la seconda è che si tratti di un
ablativo di qualità, quindi tradotto ‘ oh giornata da una pietruzza più candida’.

Uno – unus viene usato da Catullo per contrapporre se stesso a tutti quanti gli altri, che secondo lui
fanno una vita più infelice della sua.

Quis poterit dicere res magis optandas hac vita? – ‘Chi potrà dire cose più desiderabili di questa
vita?’.

Magis optandas – ‘più desiderabili’. Essendo optandus un gerundivo non può fare il comparativo
sintetico (non si può dire optandiores), quindi si forma il comparativo analitico con magis.

Hac vita – è il secondo termine di paragone. C’è un forte iperbato (hac al settimo verso e vita
all’ottavo).

Nell’edizione del Mynors troviamo delle excrucio desperationis, hac est rispetto a hac res e optandus
rispetto a optandas. Però in questo modo il testo non avrebbe senso.

Caratteristiche metrico prosodiche

Al primo verso troviamo uno iato in cupido optantique. Normalmente si dovrebbero elidere, ma non
accade perchè c’è la cesura. Sempre al primo verso c’è l’elisione tra optantique e optigit.

Al secondo verso abbiamo l’elisione in insperanti hoc e la sinalefe in gratum animo.

Al terzo verso abbiamo l’elisione in quare hoc.

Al quinto verso abbiamo l’elisione in cesura in cupido atque e l’elisione in insperanti ipsa.
Al settimo verso abbiamo l’elisione in me uno.

Carme CVIII

Carme in cui Catullo attacca un certo Comino (forse di Spoleto), identificato come un oratore dai
gusti discutibili. Catullo lo considera un personaggio squallido e gli augura che alla sua morte le
bestie facciano a brandelli l suo corpo.

È un carme particolarmente duro, interessante comunque perché apre un altro aspetto della poesia di
Catullo.

Sì, Cominì, populi àrbitriò tua càna senèctus 1

spùrcata ìmpurìs mòribus ìntereàt,

nòn equidèm dubitò quin prìmum inimìca bonòrum

lìngua exsècta avidò sìt data vùlturiò,

èffossòs oculòs voret àtro gùtture còrvus, 5

Ìntestìna canès, cètera mèmbra lupì.

Traduzione:

se, oh Comino, la tua canuta vecchiaia inzozzata di cattivi costumi

dovesse finire secondo l’arbitrio (il gusto) della gente,

io non dubito affatto che prima la tua lingua nemica delle persone oneste
una volta mozzata sarebbe data in pasto ad un avido avvoltoio,

gli occhi una volta cavati fuori li divorerebbe un corvo dalla nera gola,

gli intestini li divorerebbero i cani e tutte le altre membra i lupi.

È evidente l’attacco virulento – che ricorda certe scene omeriche – contro questo personaggio
squallido. Tra le membra citate da Catullo troviamo la lingua, quindi poteva essere un calunniatore
oppure un oratore che attaccava le persone oneste per difendere i delinquenti.

Il primo verso ha due cesure: la semiternaria dopo Comini e la semisettenaria dopo arbitrio.

Cana senectus – ‘la vecchiaia canuta’. Nella poesia e nella prosa latina questa espressione ispira
sempre venerazione: la vecchiaia come depositaria di saggezza, di equilibrio. Però qui la senectus è
stata spurcata (= inzozzata) dalle sue scostumatezze.

Sicuramente questo modo di giustiziare una persona non era contemplato dal diritto penale romano,
nonostante i romani fossero comunque molto barbari in tale materia.

Curiosità! La pena di morte per i falsificatori di denaro consisteva nel far ingoiare al colpevole del
piombo fuso. La pena per il parricidio vedeva il condannato messo in un sacco assieme a un cane, un
gallo, una scimmia (simbolo della generazione animalesca dell’uomo) e un serpente, chiuso e buttato
a mare.

Intereat – congiuntivo presente, protasi del periodo ipotetico della possibilità.

Dubito – indicativo, apodosi del periodo ipotetico della realtà. Si tratta di un periodo ipotetico misto
(la protasi afferisce a un tipo, l’apodosi a un altro).

Arbitrio popoli – ‘ad arbitrio della gente’, ovvero se la gente potesse fare di testa sua, lo farebbe
morire in questo modo.

Non equidem dubito quin – i verba dubitandi reggono una proposizione complementare, diretta o
complettiva, con quin e il congiuntivo (sit data).
Primum – ‘prima’ parte dalla lingua, quasi come fosse una gerarchia, che è inimica bonorum (=
‘nemica delle persone oneste’).

Bonorum – ‘le persone oneste’, non va quindi inteso come ‘i benpensanti’ di Cicerone (tutti coloro
attacati al mos maiorum).

Exsecta – ‘tagliata via’, participio di exseco.

Sit data – ‘sarebbe data’. Teoricamente è possibile intenderlo come un perfetto congiuntivo passivo
(= ‘sarebbe stata data’). Tuttavia, bisogna tener presente che in latino le forme perifrastiche possono
essere anche scisse. In questo caso sit data non va considerato come un’unica forma verbale
monolitica, ma va inteso in maniera separata: sit come presente congiuntivo e data come participio
di valore aggettivale. Il significato è quindi al presente ‘sarebbe nelle condizioni di essere data’.

Atro gutture – ‘con la sua gola (becco) nera’. È uno strumentale più che un complemento di qualità.

Voret – è in comune con corvus, canes, lupi. Si trova al singolare perché è riferito al più vicino, ma
in realtà va inteso come vorent al plurale.

Carme CIX

Uno dei migliori carmi da un punto di vista formale e anche come intensità, perché Catullo crede alla
promessa di Lesbia che la loro storia d’amore durerà per sempre. Prega gli dei affinché questa
promessa si possa avverare, segno che giace il tarlo del dubbio nell’animo di Catullo.

Anche in questo carme notiamo una contrapposizione tra una realtà ideale e il dramma dell’attualità.
Iùcundùm, mea vìta, mihì propònis amòrem 1

hùnc nostrum ìnter nòs pèrpetuùmque forè.

dì magnì, facite ùt verè promìttere pòssit,

àtque id sìncerè dìcat et èx animò,

ùt liceàt nobìs totà perdùcere vìta 5

Aèterum hòc sanctaè foèdus amìcitiaè

Traduzione:

Oh vita mia, tu mi prospetti che questo nostro amore tra di noi

sarà bellissimo e per sempre.

Oh grandi dei, fate in modo che possa prometterlo per davvero,

e che lo dica sinceramente e di tutto cuore,

affinché ci sia consentito portare avanti per tutta la vita

questo eterno patto di santa amicizia.

Il primo distico è il sogno di questo amore bellissimo senza fine. Poi inizia appunto la preghiera agli
dei che lo riporta al mondo reale. Questo carme probabilmente si colloca nella cesura tra la fine della
seconda fase (gioia e passione per Lesbia) e l’inizio della terza fase (disincanto per la storia d’amore
ormai in declino).

Iucundum – ‘bellissimo’. Questo aggettivo deriva dalla stessa radice del verbo iuvare (= giovare).

Proponis – in latino il verbo propono rispetto all’italiano significa ‘prospetto / proietto avanti’ nel
futuro, molto più intenso rispetto al semplice ‘proponi’. Quindi la traduzione sarebbe ‘tu mi prospetti
che questo nostro amore sarà bellissimo’.

Questo bel sogno di Catullo è incastonato con un forte iperbato fra gli aggettivi iucundum e
perpetuum, tipico della poesia alessandrina. Questo iperbato è ricercato, non è messo così a caso.
Hunc nostrum inter nos – ‘che questo nostro amore fra di noi’ è un pleonasmo, Catullo vuole
rimarcare che questo amore è solo tra loro e che non c’è nessun altro. Sembra quasi una certezza che
il poeta vuole dare a sé stesso.

Dal verso tre, ovvero dalla preghiera, possiamo percepire i dubbi di Catullo. Usa tre espressioni
avverbiali, vere, sincere, ex animo, che in sostanza vogliono dire la stessa cosa: Catullo spera che la
promessa di Lesbia sia sincera.

Liceat nobis – ‘ci sia consentito’. Il nobis qui implica sia Catullo che Lesbia.

Perducere – ‘portare avanti’. Il preverbio per- indica la continuazione di un’azione fino alla fine (es.
perficere = ‘portare a compimento’ e facere = ‘fare’).

Tota vita – ‘per tutta la vita’, è un complemento di tempo continuato. Non dovrebbe essere totam
vitam / per totam vitam? Teoricamente sì, ma il complemento di tempo continuato si usa quando il
lasso temporale è indefinito; quando invece il lasso temporale è ben definito, come in questo caso, si
usa l’ablativo. La traduzione letterale sarebbe ‘nell’intero arco dell’esistenza’.

Aeternum hoc sanctae foedus amicitiae – ‘questo eterno patto di una santa amicizia’ è un’espressione
solenne, quasi liturgica. È presente anche qui il concetto di foedus, un patto aeternum sancito anche
sotto la testimonianza degli dei. Dice poi ‘di una santa amicizia’ perché è un rapporto amoroso
consacrato dalla testimonianza degli dei, è un rapporto santo e non devono esserci interferenze o
minacce che possono comprometterlo.

N.B. amicitiae indica qualsiasi rapporto amoroso e non solo il rapporto tra due amici.

Potrebbero piacerti anche