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di Domenico Valenza
Riassunto dei Volumi 1-5 del testo "La scrittura e l'interpretazione: storia e
antologia della letteratura italiana nel quadro della civilta europea". Analisi
dettagliata della biografia e delle maggiori opere letterarie dei principali
esponenti della letteratura italiana: Dante, Macchiavelli, Ariosto, Parini,
Foscolo, Leopardi, Manzoni e Verga.
1. L'attualità di Dante
Dante è il massimo poeta della civiltà comunale. Nella sua opera convergono la cultura dell'intero medioevo
e i fermenti di una nuova epoca. Ogni aspetto (sociale, filosofico, religioso, politico) del suo tempo è
affrontato da Dante con originalità, e la sua figura è radicata nella nostra storia letteraria; basti pensare che
nell'opera dantesca è fondata la nostra lingua: il 15% del lessico italiano di oggi è stato immesso nell'uso per
la prima volta proprio da Dante.
Con la Vita nuova scrive il primo romanzo della nostra letteratura; con il Convivio un modello di prosa
filosofico-scientifica in volgare; con la Commedia un modello di poesia e narrazione; con il De Vulgari
Eloquentia difende la nuova lingua. Ma Dante non è solo il padre della lingua e della letteratura italiana; è
anche un riferimento decisivo della nostra identità nazionale.
2. Le idee di Dante
Dante rivela la propria appartenenza al Medioevo nella tendenza a interpretare la realtà sulla base di principi
universali e gerarchici. Mostra sì una sensibilità nuova, ma gli è estranea la specializzazione del sapere; ed
egli può così occuparsi di politica, religione, linguistica, filosofia. In Dante si configura insomma la
tendenza all'integrazione dei saperi, tipica della cultura medievale.
La politica. Nella vita di Dante è possibile distinguere due momenti separati. Durante l'esperienza politica
tra il 1295 e il 1301, Dante difende l'autonomia del Comune dalle ingerenze della Chiesa. Dopo l'esilio,
Dante matura il rifiuto della frammentazione prodotta dall'esperienza dei Comuni e rilancia un modello
universalistico, come dimostra il De Monarchia.
Qui Dante afferma la legittimità del potere imperiale, fondato sulla tradizione romana e voluto da Dio per
rimediare alla degenerazione della storia umana. Alla contrapposizione secolare tra Impero e Chiesa, Dante
stabilisce una distinzione di funzioni: all'imperatore spetta intero il potere temporale, al papa quello
spirituale. La critica alla civiltà comunale sta anche nel rifiuto della sua logica del guadagno. Dante non
ammette che l'attività umana faccia a meno di un modello.
Filosofia e teologia. Nel Convivio, Dante afferma l'indipendenza di filosofia divina (teologia) e umana; ciò
lo pone all'interno di un filone di aristotelismo radicale influenzato dal filosofo arabo Averroè. D'altra parte,
nella Commedia, Dante è suggestionato dalla rielaborazione della tradizione aristotelica di san Tommaso.
Dal tomismo, accoglie soprattutto l'unione di fede e ragione: la fede nelle verità rilevate si accompagna alla
fiducia nella loro dimostrabilità razionale.
Ciò nondimeno, Dante subisce anche la suggestione di sant'Agostino, le cui Confessioni sono un modello
per la Commedia, e Boezio, il cui De Consolationae philosophiae orienta almeno in parte la tendenza
all'allegoria riscontrabile nel Convivo e nella Commedia.
Lingua e poetica. Il nucleo del pensiero linguistico di Dante consiste nella valorizzazione del volgare,
innalzato già sul piano teorico alla dignità degli argomenti più illustri e dello stile tragico. Mentre però nel
De Vulgari Eloquentia vi è una concezione astratta e idealizzata della lingua, nella Commedia è messa a
frutto l'accurata ricognizione concreta della realtà linguistica italiana.
La Vita nuova è l'autobiografia della giovinezza di Dante. Incontrata Beatrice per la prima volta a nove anni,
Beatrice saluta il poeta nove anni dopo, rafforzandone l'amore. Un giorno, in chiesa, Dante fissa Beatrice;
ma i presenti credono che egli guardi una bella donna tra i due, la quale accetta e protegge Beatrice. E' il
motivo della donna-schermo, tipico della tradizione cortese.
A causa della partenza di questa donna, Dante la sostituisce con un'altra donna-schermo, ma la finzione
provoca la fama di una relazione disonesta tra i due, così da determinare il risentimento di Beatrice, che
nega a Dante il proprio saluto. Dopo un periodo di smarrimento, Dante raggiunge una nuova maturità; non si
rivolgerà più a Beatrice ma ne racconterà le sue bellezze.
Probabilmente alcuni anni dopo la morte di Beatrice, vi è l'episodio della donna gentile, che consola Dante
con la pietà fino a coinvolgerlo in una nuova passione. E' una terza visione di Beatrice ad allontanarlo da
questa passione, facendolo vergognare per aver dimenticato l'oggetto del proprio amore. Un'ultima visione
dirà a Dante di concludere questa fase della ricerca.
La Vita nuova è la prima espressione compiuta del sincretismo di Dante, di fondere cioè insieme ingredienti
diversi al fine di una loro valorizzazione reciproca: la civiltà classica e la cultura cortese.
La Vita nuova comincia simbolica e finisce allegorica. L'inizio afferma il simbolismo medievale, la
corrispondenza diretta tra mondo dei valori e mondo dei fenomeni: e il saluto di Beatrice rende subito
visibile la sfera superiore dei valori. Con la rielaborazione del lutto, Dante comprende che la sfera dei valori,
prima raggiungibile senza mediazioni, va ora conquistato tramite una ricerca.
Una caratteristica del mondo di Dante è la capacità di utilizzare dati biografici ed artistici in modo da creare
un sistema organico. Tale sistema costituisce una sorta di mitologia personale, in cui è difficilissimo, oltre
che inutile, distinguere tra verità storica e invenzione fantastica.
4. Il Convivio di Dante
Il Convivio è un'enciclopedia incompiuta del sapere medievale, scritta in volgare e strutturata in trattati, con
temi tra loro affini. Dante commenta alcuni propri testi di carattere dottrinale, e svolge così una funzione
divulgativa per un pubblico di non esperti. Grazie ad alcuni riferimenti (Dante presenta il proprio esilio
come già iniziato), si può assegnare l'inizio della composizione, al 1304.
Il titolo dell'opera è spiegato nel primo capitolo del primo trattato. Egli vuole apparecchiare un banchetto
(un convivio), in cui al posto delle vivande siano serviti agli ospiti gli argomenti del sapere. Dante dichiara
di non appartenere a chi mangia il pane degli angeli (la sapienza divina), e che però si è staccato da chi si
nutre di erba e ghiande (cioè estranei all'amore per il sapore e presi solo da interessi materiali). Egli è ai
piedi della mensa dei vari sapienti, di cui raccoglie le briciole.
I temi dell'opera sono la difesa del volgare (I), l'esaltazione della filosofia (II-III), la discussione sulla
nobiltà, cui si riconnette la proposta della monarchia universale, basata sull'Impero Romano (IV).
Nel Convivio Dante pronuncia la prima difesa del volgare nella maggiore possibilità comunicativa; il
volgare è ancora inferiore al latino quanto a bellezza e nobiltà, ma pure dotata di potenzialità.
5. De Vulgari eloquentia
Il De vulgari eloquenzia fu probabilmente composto da Dante tra il 1303 e il 1304. Il tema è la definizione
di una lingua volgare illustre, capace di affiancare le grandi lingue classiche. Come il Convivio, è
incompiuto; tutti i codici si arrestano dopo l'inizio del capitolo XIV del secondo libro.
Il primo libro dimostra la nobiltà del volgare, superiore al latino. Dante opera una storia universale delle
lingue. A partire dall'ebraismo, nell'Europa meridionale vi furono parlanti di tre lingue diverse e naturali:
d'oil, d'oc e del sì. Per combattere la proliferazione, nacque il latino, lingua artificiale.
A questo punto Dante analizza le diverse varietà di volgare, quattordici, ma nessuna di queste coincide con il
volgare illustre. Scartato il metodo induttivo, Dante passa a quello deduttivo; il volgare illustre è definito nei
suoi caratteri ideali: illustre, cardinale, regale e curiale. Illustre perchè dà lustro; cardinale perchè cardine
degli altri volgari; regale perchè se in Italia vi fosse una reggia vi troverebbe collocazione; curiale perchè
risponde alle norme stabilite dagli italiani più prestigiosi.
Dante non propone un modello formato dal meglio delle varie parlate italiane, ma riconosce in ognuna le
potenzialità di identificarsi con il volgare illustre, a patto di liberarsi dai limiti provinciali.
Il primo libro argomenta la necessità della monarchia universale. Ciò che allontana l'uomo dall'impiegare il
libero arbitrio in direzione moralmente corretta è la cupidigia dei beni materiali, che provoca contese e
guerre. L'imperatore sarebbe esente da cupidigia, in quanto possessore di tutto. La necessità dell'Impero è
provata anche dal bisogno umano di un ordine gerarchico, con un'unica guida: dimostrazione è la nascita di
Cristo, avvenuta durante l'impero di Augusto.
Il secondo libro è dedicato a considerazioni storiche sull'Impero romano, che è nato dalla volontà di Dio
stesso, perchè la parola di Cristo potesse diffondersi con l'unificazione del mondo.
Il terzo libro è dedicato ai rapporti tra Impero e Chiesa: da un lato i filoimperiali, che sostengono la
superiorità del potere temporale su quello del papa, e dall'altro i filopapali, più diffusi in Italia. Dante
confuta entrambe le tesi, e in particolare la seconda: al Papa non spetta alcun potere temporale. Per Dante,
entrambe le autorità derivano da Dio, e perciò non sono subordinate tra loro.
Secondo Boccaccio, Dante avrebbe cominciato a scrivere il poema a Firenze, prima dell'esilio. Tale ipotesi è
ora respinta dagli studiosi, e si può considerare che Dante abbia ultimato l'Inferno nel 1308-1309, il
Purgatorio nel 1312, e il Paradiso nel 1316.
Secondo la concezione cristiana medievale, l'intera vicenda terrena è una figura del destino eterno,
esattamente come nel poeta di Dante. I protagonisti del poema hanno un significato allegorico non perchè
alludono ad altro, ma al contrario perchè realizzano pienamente se stessi nell'aldilà. Per loro il mondo
terreno è stato figura di quello ultraterreno (di dannazione o salvezza).
Per Dante, la commedia è una critica del presente, della società a lui contemporanea. Nell'Inferno, la caduta
è anzitutto quella di Firenze e della vita comunale, fondata su profitto e avidità. All'avidità pubblica fa
riscontro una avidità psicologica, nei vizi comportamentali (gola, lussuria) e intellettuali (l'adesione a forme
di disimpegno o impegno estraneo alla prospettiva cristiana).
Dante critica anche le istituzioni dell'Impero e della Chiesa, rei di aver rinunciato alla missione di guide.
Tuttavia, la sua fiducia nella loro funzione storica è intatta: riconosce in Arrigo VII una rinascita della
missione imperiale e, egualmente, ricorda con nostalgia la militanza dei primi cristiani.
Nella Commedia, la terzina diventa inoltre un'unità ritmica e sintattica basilare. E' stato detto giustamente
che come Machiavelli pensa per dilemmi, Dante pensa per terzine. Ogni ragionamento è infatti sorretto da
questa griglia strofica, secondo lo schema ABA BCB CDC.
Grazie anche alla rima, Dante riesce a comunicare atmosfera e colore delle tre cantiche: aspra nell'inferno,
piana e dolce nel Purgatorio e nel Paradiso. Ma anche lo stile mostra una ricchezza straordinaria
(pluristilismo), dal parlato più truce alle sublimi dimostrazioni teologiche.
La voragine infernale è suddivisa in nove cerchi: più si scende, più i cerchi sono piccoli e i peccati gravi.
Nell'Antinferno stanno gli ignavi, esclusi dal giudizio in quanto esenti da colpe e meriti. Nel primo cerchio
(Limbo) vi sono i bambini non battezzati e i virtuosi che non credettero in Dio, specie pagani: essi non sono
puniti in nessun modo ma solo esclusi dalla beatitudine celeste.
Seguendo San Tommaso, l'amore pecca per eccesso (gola) o per falsità nella scelta dell'oggetto (l'ira come
pervertimento del bene). La distinzione di fondo tra Inferno e Purgatorio è questa: nel Purgatorio ci si
purifica da peccati confessati in seguito al pentimento, nell'Inferno si sconta un peccato compiuto del quale
non ci si è efficacemente pentiti. A differenza del Purgatorio, dove le anime espiano diversi peccati,
nell'Inferno il peccatore è vincolato per l'eternità al proprio peccato.
Tipico dell'Inferno è il rapporto conflittuale di Dante con le anime che incontra. Non stupisce che l'Inferno
sia stata la cantica più ammirata dai commentatori romantici, che mettono in risalto il conflitto Dante-
dannati. Nè stupisce che l'Inferno trovi da sempre maggior consenso tra i lettori per il suo carattere più
avventuroso e meno impegnativo del Purgatorio e del Paradiso.
Il Purgatorio non è assimilabile a Inferno e Paradiso: esso è infatti temporalmente limitato, perchè le anime
vi restano per un periodo definito, e comunque dopo il Giudizio Universale è destinato a perdere la sua
ragion d'essere. Se nell'Inferno Dante scende, nel Purgatorio sale verso il cielo, e i peccati sono via via più
lievi. Ancora, nel Purgatorio giorno e notte si alternano.
Nel Purgatorio, la rimozione delle colpe avviene in tre modi: pena, preghiera e exempla. Le pene richiamano
quelle dell'inferno, assegnate secondo l'uguale principio del contrappasso, ma ora la sofferenza è risanatrice.
Le anime le accettano con gioia, sapendo di avvicinarsi alla beatitudine.
Con la preghiera, le anime invocano il soccorso divino per sè e per i vivi. Infine, nel Purgatorio si mostrano
alle anime vari tipi di exempla: uno della virtù opposta al loro vizio, e un altro dello stesso peccato colto nel
momento della punizione divina.
Il Paradiso si divide in nove cieli (o sfere) concentrici via via più grandi, contenuti tutti nell'Empireo, una
specie di decimo cielo che si distingue dagli altri per essere immobile. Nell'Empireo ha sede Dio, sebbene la
sua presenza si manifesti ovunque in forma mediata.
Dante ha immaginato che la Grazia divina abbia creato le condizioni perchè ai suoi occhi umani (e perciò
imperfetti) fosse visibile l'interiorità delle anime. Dunque per Dante, le anime sono distribuite nei vari cieli a
seconda del livello di beatitudine. Ma la vera sede di tutti è l'Empireo, e Dante, al termine del viaggio,
nell'Empireo, vede nuovamente tutte le anime del paradiso.
Nel Paradiso manca in qualche modo la drammaticità delle altre due cantiche; ma drammatica è invece la
conquista della beatitudine. Si deve infatti ricordare che all'origine della Commedia vi è il traviamento di
Dante, caratterizzato anche da un allontanamento dall'ortodossia religiosa.
Accanto a tali argomenti, vi sono poi le tematiche politiche: la Chiesa, l'Impero, Firenze, trattate con
definitiva lucidità e distacco. Dante è pessimista sulla situazione storica ma sereno, nella certezza appagante
del trionfo finale del bene; corrotti papi, imperatori, monaci e frati, sono incorruttibili però nel loro
significato universale Chiesa, Impero, Ordini monastici. Ciò che gli conferisce originalità e grandezza è
l'impegno nel conquistare con la parola il terreno dell'indicibilità.
Dopo aver raccontata le difficoltà nel risalire gli scalini, vi è un nuovo scenario. Fino a metà canto, i versi
sono descrittivi e servono ad acuire le aspettative del lettore. Nella bolgia, l'elemento predominante è il
fuoco, e ogni fiamma nasconde un peccatore: lo spettacolo è singolare e, per le emozioni, Dante rischia di
cadere giù. Dante, tra le fiamme, ne ha notata una atipica in quanto biforcuta. Virgilio, investito della
funzione docente, riepiloga i misfatti fraudolenti dei due greci.
Il discepolo manifesta enfaticamente il desiderio di parlare con loro; tale enfasi si traduce in una ridondanza
di termini simili. Virgilio accetta la richiesta, ma non si fa scavalcare nel suo ruolo di magister e si propone
come mediatore. Trattasi infatti dei greci, con la lingua dei quali Dante non ha affatto dimestichezza. C'è
inoltre il problema della superbia dei greci verso gli stranieri.
L'esordio di Virgilio è una captatio benevolentiae, con uso di ripetizioni e parallelismi. Prima che Ulisse
cominci a parlare viene descritto, in termini quasi fisici, il fenomeno della fuoriuscita delle parole dalla
fiamma. Il realismo del fenomeno è accentuato da ripetizioni di suoni (Lo maggior corno de la fiamma
antica | cominciò a crollarsi mormorando). La mobilità della fiamma è data invece dai due avverbi
monosillabi al centro del verso (indi la cima qua e là menando).
Il mare è lo scenario adeguato: non a caso apre e chiude la vicenda; e la sinalefe mare aperto sembra quasi
fondere i due termini e farne uno solo più grande, a renderne così la sconfinatezza. Basta un'orazione piccola
ma molto persuasiva per convincere i compagni. E' un comando travestito da preghiera, e l'ordine è nascosto
nell'imperativo (Considerate).
L'occidente indica sia la direzione da seguire per scoprire il mondo senza gente sia, ambiguatamente, il
luogo dove tramonta il sole e quindi la fine della vita dell'uomo.
L'antitesi (noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto) disegna il repentino cambiamento dello stato d'animo.
Un turbine di vento li avvolge, solleva la nave come un fuscello per tre volte, numero divino. E nel vocabolo
finale rinchiuso c'è un triplice chiudersi del racconto di Ulisse, della sua drammatica avventura e del canto
che lo ha per protagonista.
Come vide Fubini, l'impresa di Ulisse risalta la grandezza dell'umanità prima di Cristo, ma anche la sua
insufficienza, perchè non può essere sostenuta dalla Rivelazione divina. In Ulisse si celebra l'uomo ma
anche i suoi limiti. E in questo dramma Dante trova se stesso, quando in un certo periodo della sua vita fu
suggestionato dall'idea di poter raggiungere la verità attraverso la via filosofica. Ulisse, se non fosse per il
peccato di frode, starebbe nel limbo.
Secondo la Corti, il limite posto da Ercole sembra non esserci mai stato nell'antichità e introdotto dagli
arabi per motivi commerciali. Tale limite è superato da Ulisse non per infrangere un divieto, quanto per
soddisfare la propria sete di sapere. Se l'impresa è fallimentare, la sua motivazione è nobilissima. Dante, sì,
condanna Ulisse ma è coinvolto emotivamente dal suo dramma, come con altri personaggi dell'inferno.
Ancora, per Lotman, se Dante è un pellegrino, Ulisse è un esploratore.
Con Il Principe di Machiavelli, il genere del trattato abbandona la dissertazione filosofica e scientifica e
adotta la forma del saggio, in cui l'autore sostiene una sua verità individuale. Lo scandalo del Principe sta
dunque nella spregiudicatezza del suo autore. Un secondo scandalo è questo: la morale del principe dipende
dalla sua azione politica e dunque è fatta coincidere con la sorte stessa dello Stato. La politica diventa
autonoma dalla religione e dalla morale.
Infine, ulteriore elemento è la carica demistificatoria, l'invito a cercare sotto le motivazioni ufficiali. Nasce
in lui il pensiero del sospetto, che guarda sotto le apparenze e le convenzioni.
L'opera è divisa in tre libri. Il libro I (60 capitoli) è dedicato all'amministrazione dello Stato e all'importanza
della religione come strumento politico; a causa di ciò, Machiavelli rimpiange la religione pagana di Roma,
che induceva il cittadino a identificarsi nello Stato, e critica quella cri-stiana che invece lo distoglie dagli
interessi civili. Il libro II si occupa della politica estera; Il terzo spiega come le azioni di alcuni uomini
abbiano fatto grande Roma, e come si trasformino gli Stati.
Per Machiavelli le forme accettabili di Stato sono: il principato, monarchia limitata cioè controllata dagli
aristocratici e dalla borghesia; la repubblica sull'esempio di Roma, con un equilibrio interno di poteri. E'
questa la repubblica mista, in contrapposizione con quella aristocratica (dominata da un'oligarchia, Venezia)
e democratica (dominata dalle classi più basse, la Firenze repubblicana).
La scelta di questi due sistemi e il rifiuto di ogni degenerazione del potere in tirannia (potere assoluto del
principe), oligarchia (dell'aristocrazia) e anarchia (del popolo) dipendono dal fatto che principato e
repubblica mista permettono assetti istituzionali più equilibrati e dunque più stabili.
La vocazione comica di Machiavelli si realizza a teatro. Il suo capolavoro è la Mandragola, scritta intorno al
1518. All'influenza di Plauto e Terenzio si aggiunge quella di Boccaccio, sebbene manchi il gusto
edonistico. Machiavelli non celebra il piacere dei sensi, e neppure esalta l'ingegno dei beffatori. Piuttosto si
limita a constatare freddamente che il mondo si divide fra ingannatori e ingannati. E il riso non è mai
liberatorio; si riflette in questa degradazione la crisi politica italiana.
Per realizzare il programma sopra esposto, occorre andare dietro alla verità effettuale delle cose e non
all'immaginazione di essa. E' questo il realismo di Machiavelli: guardare in faccia la realtà. Lo studio della
realtà mostra che la fortuna, cioè la mutevolezza del caso e della storia, determina in larga misura le vicende
umane. L'uomo può opporle la sua virtù, mediando tra impeto e cautela. Ma poichè la fortuna è donna, essa
preferisce gli impetuosi.
Per Machiavelli, il principe non può farsi condizionare da preconcetti morali: la sua moralità consiste nel
bene dello Stato. La politica è ora autonoma dalla morale comune. Poichè il principe deve obbedire solo alla
ragion di Stato, può usare a tal fine anche strumenti moralmente riprovevoli.
Il trattato si conclude con un'esortazione ai Medici perchè pongano fine alla situazione di crisi in Italia e la
liberino dagli stranieri. L'esortazione è scritta in uno stile vibrante e appassionato: al posto del ragionamento
si ricorre alla forza dei sentimenti. Macchiavelli alterna dunque linguaggio alto e basso, rigore
argomentativo e intensità appassionata.
Attraverso una figura naturalistica, Machiavelli distingue due modi di combattere: quello dell'uomo, che usa
il confronto di idee, e quello della bestia, che impiega la violenza. Quando le leggi non bastano, il principe
deve saper impiegare la violenza. La violenza può essere di due tipi: la golpe (l'astuzia) e il lione (la
violenza). Entrambe sono necessarie: con la prima si evitano i tranelli, con la seconda la violenza degli
avversari.
Alla necessità della forza si accompagna quella della simulazione. Per il principe è più utile simulare pietà e
umanità che averle davvero. Le doti etiche sono pure illusioni della lotta politica, finzioni utili a nascondere
il dominio. Il vulgo guarderà solo alle apparenze, mentre i pochi che vi andranno oltre non riusciranno a
imporsi perchè la maggioranza starà dalla parte del principe.
Per Machiavelli la violenza e l'inganno vanno accettati come reali e necessari, e non mascherati da ambigue
velleità morali. Significativo nel testo è l'uso di congiunzioni con valore conclusivo, indispensabili al
procedere implacabile dell'argomentazione: dunque, pertanto, perciò, ecc.
In questo panorama, la scrittura non possiede più strumenti e valori; può, al massimo, mettere ordine di
fronte alla complessità e all'ambivalenza della realtà (come nell'Orlando Furioso). Ciò si evidenzia già nelle
Lettere. Se l'epistolario di Petrarca è il frutto di una rigorosa elaborazione letteraria, quello ariostesco è
ancorato a situazioni reali, trattate in modo diretto. Nell'epistolario di Ariosto manca, addirittura, ogni
requisito di organicità e costruzione letteraria.
D'altra parte Ariosto interpreta però il rapporto con la tradizione. Se Bembo è il petrarchismo tendono alla
riduzione dei modelli, restringendo il canone quasi al solo Canzoniere, Ariosto mantiene un rapporto vivo e
ricco con la tradizione, con modelli classici come Orazio e Catullo.
Le Satire sono tra le sue opere più apprezzate. La Satira prevede uno sviluppo narrativo e un'articolazione
logico-discorsiva ben lontani dalla purezza e dalla lirica. In tal senso, la loro elaborazione va collegata alle
stesse premesse ideologiche del Furioso. Ariosto lavora a una concretezza che colga gli elementi
autobiografici senza incanalarli liricamente, come nel petrarchismo.
Le Sette Satire nascono da eventi biografici e rispondono al bisogno di difendersi o affermare il proprio
punto di vista; sempre determinante è dunque il riferimento alla realtà concreta vissuta.
Il ricorso alla terzina dantesca in sede di poesia narrativa e argomentativa segnala già la valorizzazione di un
modello che proprio in quei decenni entrava in ombra; ed è originale l'utilizzo stilisticamente disimpegnato
del modello dantesco, plurilinguismo compreso. Ariosto dà infatti spazio a una colloquialità diretta, a un
parlato che non esclude momenti trascurati. Il tono confidenziale ben si addice alla tematica autobiografica
non sublime e non idealizzata.
Come Boiardo, Ariosto intreccia nel poema vicende di guerra o epiche, e vicende d'amore, cioè
romanzesche. Anche il titolo è un omaggio al poema boiardesco, poichè lo ricalca. Orlando da innamorato
diventa furioso, pazzo per amore. E' un procedimento tipico di Ariosto: sviluppare i suggerimenti di Boiardo
e radicalizzarli. Orlando furioso suona dunque come un paradosso persino per un guerriero cede alla forza
dell'amore. La ragione umana è, insomma, un bene fragile.
Il racconto d'armi si apre con l'assedio di Parigi, che oppone i Cristiani di Carlo Magno ai Saraceni di
Agramante, re d'Africa. L'antefatto è in Boiardo: per salvare l'ostilità tra i paladini Orlando e Rinaldo,
entrambi innamorati di Angelica, Carlo ha affidato la giovane al duca Nalmo. La otterrà chi ucciderà più
nemici. Ma Angelica fugge (è l'inizio del Furioso) e Orlando e altri cavalieri la cercano; intanto la guerra
continua e si concluderà con la vittoria dei cristiani.
Le vicende romanzesche sono quelle vissute dai cavalieri, in particolare Orlando e Rinaldo. Dopo lunghe
peripezie, Orlando scopre che Angelica ha sposato Medoro, soldato saraceno; per la gelosia impazzisce. Il
paladino Astolfo, che ne ha recuperato il senno sulla luna, lo fa rinsavire. Orlando combatte quindi con i
Cristiani e conclude vittoriosamente la guerra. Rinaldo, cugino di Orlando e anch'egli innamorato di
Angelica, se ne disamora bevendo alla magica fonte dell'Odio.
Lo stile dell'Orlando furioso esprime un tentativo di distacco e di controllo razionale sui fatti narrati. Il poeta
evita sia le punte estreme del realismo o del comico, sia le impennate verso il tragico, puntando a un tono
medio colloquiale e diretto, spesso ironico. Tale opera segna così il trionfo dello spirito rinascimentale, della
sua ricerca di equilibrio. D'altra parte, vi è messa una crisi dell'homo faber fortunae suae, con il fallimento
quasi completo delle ricerche dei protagonisti.
Il secondo grande filone è quello degli amori. Le sue origini remote sono nei miti celtici; ma la sua nascita è
rappresentata dai romanzi arturiani del XII secolo. Mentre nell'epica carolingia il centro ideologico è
un'impresa collettiva (la guerra santa), qui è in gioco la sorte di un singolo cavaliere.
Anche qui vi sono duelli e battaglie, ma non le guerre carolingie. Il cavaliere affronta una serie di di
avventure (la quÍte), e scopre così il proprio destino e la propria identità. Il romanzo bretone o arturiano
riceve un nuovo metodo narrativo, inaugurato da Chrètien de Troyes alla fine del XII secolo:
l'entrelacement, l'intrecciare le diverse storie che hanno per protagonisti i diversi cavalieri.
Dal punto di vista strutturale, il passo è costruito secondo una duplice progressione. La prima è l'accumularsi
di indizi che svelano a Orlando l'amore tra Angelica e Medoro, sino al braccialetto. Il paladino cerca invano
di difendersi: ingannandosi o fingendo di non vedere. Sono, in realtà, i primi sintomi della perdita della
ragione e dell'incapacità di padroneggiare le cose.
La seconda progressione riguarda infatti la psicologia di Orlando e la sua follia. Da interiore, essa diventa
esteriore fino a esplodere. Ariosto assimila qui il proprio destino a quello del suo eroe: la letteratura è uno
strumento di equilibrio, e il Rinascimento ha fiducia nel valore educativo dell'arte.
Questa volontà di equilibrio si esprime anche sul piano stilistico. Sia la prima parte che la seconda hanno
forti elementi di drammaticità: una nel dolore di Orlando, l'altra nello sconvolgimento dei paesani che lo
combattono. Ma in entrambe l'ironia (o una punta di comico) smorza i toni.
Conclusi gli studi e presi gli ordini ('54), introdotto nell'ambiente della nobiltà intellettuale milanese, Parini
è accolto come precettore presso il duca Serbelloni. Otto anni dopo, la moglie Vittoria è forse causa
dell'allontanamento del poeta dalla sua posizione. Nel 1763 esce Il Mattino, seguito nel '65 da Il
Mezzogiorno, e il prestigio del poeta cresce con la loro pubblicazione.
Accanto ai due poemetti, la sua produzione poetica si arricchisce di numerosi testi sparsi, tra cui le Odi. La
concezione della poesia come strumento civile fa di Parini un propugnatore delle idee illuministiche, sia
quando difende la nuova civiltà fondata sulla scienza, sia quando rigetta le superstizioni oscurantiste. Una
prima raccolta di Odi esce nel 1791, una seconda nel 1795.
Parini lascia incompiute le due parti mancanti del Giorno (Il Vespro e la Notte), il poema in quattro parti
ideato negli anni Settanta come completamento e rielaborazione dei due poemetti già pubblicati. Dopo la
morte, e per tutto l'Ottocento, Parini sarà il simbolo del letterato impegnato in senso civile e morale.
Difficile è oggi distinguere mito e lineamenti autentici della sua personalità.
Pur negato a una vita sentimentale in piena luce, Parini è comunque uno dei più malinconici poeti d'amore,
soprattutto dove canta, invecchiato, l'impossibilità dell'amore ricambiato e vissuto. Di umile origine e attivo
in una società aristocratica, difende la dignità della propria condizione.
Il paradosso della sua posizione sta nel fatto che egli vuole alcune trasformazioni radicali, ma senza
preoccuparsi delle forze, sociali e produttive, in grado di realizzarle. Ciò spiega la sua disillusione dinanzi al
radicalizzarsi di tensioni delle quali non comprende le ragioni di fondo (proprio perchè ignora l'esistenza e le
esigenze della nuova classe borghese).
La disposizione dei testi, nelle raccolte su cui interviene, mostra la volontà di organizzarli secondo capitoli
tematici: aprono odi civili, poi testi sulla funzione civile della cultura; infine testi leggeri e ironici, con un
ripiegamento malinconico. D'altra parte, la disposizione tematica coincide quasi con la cronologia di
composizione. Ciò implica che Parini si dedicò in una prima fase a tematiche civili e impegnate,
restringendo poi il campo ad argomenti ed esperienze personali e private.
Se a ogni costo Parini volle essere letterato tradizionale, egli volle anche essere l'espressione di una
rinnovata funzione civile della poesia. Nella tensione tra le due vocazioni, e nel ripiegamento dinanzi alla
loro inconciliabilità, Parini avrebbe scoperto la nuova condizione del poeta moderno.
Parini non si accorge però, se non implicitamente, che quel soggetto cui intende ridare voce, la poesia, non
appartiene più al meccanismo dei rapporti storici e sociali: ne è stato infatti espulso.
Mentre finge di aderire a quel mondo e di celebrarne i meriti, il Precettore incarna una prospettiva critica e
dissacratoria, manifestata con il taglio ironico. La meschinità e la corruzione della nobiltà sono così oggetto
di una caricatura feroce e di una denuncia, seguendo gli illuministi europei.
In una prima fase (gli anni sessanta) il poeta pensò a tre poemetti, intitolati il Mattino, Il Mezzogiorno e La
Sera. In una seconda fase, dagli anni settanta fino alla morte, Parini lavorò invece al progetto di un poema
organico, da intitolarsi Il Giorno. Il secondo progetto prevedeva un unico poema suddiviso in quattro parti:
Il Mattino, Il Meriggio, Il Vespro, La Notte.
E' evidente che gli otto trascorsi da Parini presso casa Serbelloni sono un'esperienza decisiva per l'ideazione
del Giorno. La ricchezza e il lusso dei nobili dovevano produrre un effetto forte sul giovane prete, abituato a
combattere con la povertà: lo dimostra Dialogo sopra la nobiltà, 1757. Nè sfugge a Parini la contraddizione
latente nella condivisione, da parte del ceto nobiliare, delle idee illuministiche, le quali corrono il rischio di
ridursi a pose snobistiche e a mode mondane.
Pubblicati nel 1763 e nel 1765 entrambi anonimi, i poemetti Il Mattino e Il Mezzogiorno rappresentano in
modo organico le prime due parti del progetto. Il Mattino è preceduto da una dedica in prosa alla Moda (poi
soppressa), la dea che ha sconfitto la Ragione, il Buonsenso e l'Ordine. Emerge qui l'ironia del poeta, che
finge di abbracciare un modo di pensare in cui non si rispecchia
Arrivato il momento del risveglio, il Giovin Signore deve affrontare gravi preoccupazioni, legate
all'esigenza di muoversi in modo studiato ed elegante: per esempio sbadigliare e stropicciarsi gli occhi
aristocraticamente, trasformando in una posa artistica la bassezza dei bisogni fisiologici. Nel Mezzogiorno,
il punto di vista del precettore si trasforma: questi cessa di essere il suggeritore per diventare l'umil Cantore.
Dal privato della società nobiliare, si passa infatti al pubblico.
Anche in questo episodio, la narrazione è condotta dal punto di vista del mondo aristocratico; in particolare,
l'ottica della Dama. Ciò spiega l'umanizzazione della cagnetta (alunna, parea dicesse), e perfino la sua
divinizzazione (idol) e spiega altresì la criminalizzazione del servo.
In questo caso, però, al punto di vista del potere, se ne affianca poi uno alternativo, a partire dal v. 542.
Insomma, la posizione del poeta non resta solo implicita nell'antifrasi, cioè nel meccanismo straniato (*dire
qualcosa intendendo l'esatto contrario), ma sente anche il bisogno di emergere.
La sua poesia porta inoltre i segni di una condizione nuova dell'intellettuale e dello scrittore in Italia. A
differenza di Alfieri, aristocratico di nascita e benestante, Foscolo è il primo scrittore borghese, costretto
cioè a fare i conti con la scrittura come condizione professionale.
Ugo Foscolo nasce nel 1778 a Zante, allora nella Repubblica veneta, da padre veneziano e madre greca. La
prima discesa di Napoleone in Italia ('96) accende il suo entusiasmo politico. Sospettato per le sue posizioni
dal governo oligarchico di Venezia, deve lasciare la città. Nell'ottobre 97, Venezia è ceduta da Napoleone
all'Austria con il Trattato di Campoformio. E' la grande delusione politica della vita di Foscolo, le cui
posizioni politiche piegano sempre più verso il pessimismo.
Dal 1804 al 1806 Foscolo è in Francia del Nord con il contingente italiano, qui scrive la Notizia intorno a
Didimo Chierico. L'atteggiamento litigioso verso i francesi e i letterati più affermati gli procura molti
nemici, e anche Monti. Alla crisi di tali rapporti, si aggiunge la censura dell'Ajace (1881), soppressa dal
governo francese. Ciò segna la rottura definitiva con il potere napoleonico.
Dopo la sconfitta di Napoleone a Lipsia, Foscolo torna nell'esercito e ha contatti con gli inglesi per salvare
l'indipendenza del Regno Italico dall'Austria. Prevalendo gli austriaci, ha un breve periodo di tentennamento
dinanzi alle loro offerte, giustificate dal suo atteggiamento antifrancese. Dovendo però, da ufficiale, giurare
fedeltà al nuovo potere, fugge in esilio nel 1815. Foscolo si reca in Svizzera e poi in Inghilterra, e molto
difficili sono gli ultimi tre anni fino alla morte, nel 1827.
Dall'illuminismo Foscolo deriva una visione laica della storia e della società, nonchè una solida prospettiva
materialistica. Ma dall'illuminismo Foscolo si allontana nella concezione dell'intellettuale; non uno
scienziato ma una coscienza collettiva. D'altra parte, il giovane Foscolo, seguace di Rousseau, assegna alla
natura primitiva il valore più alto, e non all'intervento scientifico.
La struttura e molti temi del romanzo rimandano ai grandi modelli europei di romanzo epistolare, dalla
Nouvelle Heloise di Rousseau al Werther di Goethe. L'originalità si fonda anzitutto sul taglio autobiografico
dell'Ortis, nel quale Foscolo proietta il proprio carattere e le proprie esperienze.
L'Ortis segna la fine della cultura illuministica. Manca ogni fiducia nei valori civili; la società è considerata
alla luce del realismo di Machiavelli e dell'assolutismo (come Hobbes) senza speranze di redenzione. E
d'altra parte, una lettura preromantica dell'Ortis è negata dal rifiuto della Provvi-denza e del progresso che
del Romanticismo italiano sono la ineliminabile premessa ideologica.
Le illusioni presenti sono due: l'amore e la poesia. L'amore è Teresa, alla poesia spetta il compito di
unificare i contrasti interiori del soggetto, di purificarne le passioni. Ma il tentativo è fallito.
4. I sonetti: Alla sera
Nella forma del sonetto Foscolo dà il meglio della propria ispirazione giovanile. Il sonetto implica infatti un
massimo di concentrazione espressiva, e favorisce un poeta per sua natura frammentario e dispersivo come
Foscolo. La qualità dei dodici sonetti è sempre elevata, benchè siano da riconoscere ai quattro aggiunti nel
1803 una maturità espressiva e un'originalità maggiori.
Alla sera, composta tra il 1802 e il 1803, accosta i due motivi della personalità foscoliana: l'aspira-zione alla
pace e lo spirito guerriero. La sera, immagine della morte e del nulla, trasmette al poeta un senso di distanza
dal presente, negativamente connotato, e placa le sue tempeste interiori.
L'equilibrio formale del sonetto è sostenuto anzitutto dalla contrapposizione delle quartine e delle terzine. Le
quartine hanno un andamento ampio e disteso, grazie anche al parallelismo delle due frasi coordinate (e
quando...e quando...). Le terzine sono invece più concitate, affidate al polisindeto e ai verbi di movimento
(vagar, vanno, fugge, si strugge).
La riflessione sulla sera veicola la riflessione sulla morte. Questa non si accompagna però in Foscolo ad un
sentimento religioso. E' definita infatti Fatal quiete, ancor più netta nulla eterno.La vita non è limitata
dall'assenza di un oltre, ma dalla sua caducità senza rimedio.
35. A Zacinto
In A Zacinto (1802-1803), il tema è quello tipicamente foscoliano dell'esilio, qui legato alla rievocazione
mitica della propria isola natale. Diversamente da Ulisse, che riuscì infine a ritornare alla sua amata Itaca, il
poeta sa che il ritorno a Zacinto gli sarà impossibile, dato che sarà sepolto in terra straniera, e alla sua isola
natale può solo rivolgere la propria poesia.
L'elevatezza di questo sonetto è affidata soprattutto al confronto fra vicende individuali e mitiche. La
struttura è sostenuta da due periodi, uno di undici e l'altro di tre versi, entrambi aperti da una negazione.
All'infanzia (fanciulletto) si oppone il presagio della morte nella conclusione (sepoltura).
Se un parallelo con Ulisse è possibile fino a un certo punto, possibile è invece quello con Omero, dato che
Foscolo potrà solo cantare la sua terra. Perseguitato dal fato come l'eroe Ulisse, Foscolo rappresenta se
stesso come nuovo possibile Omero del mito moderno.
I capolavori di Foscolo nascono nei rari momenti in cui queste due tendenze si fondono, come in alcuni
Sonetti e nei Sepolcri. Quando invece restano divisi, o quello civile è troppo debole, vi sono risultati
artisticamente elevati, ma poveri di vita interiore. E' il rischio delle odi e del capolavoro incompiuto della
maturità, Le Grazie, costituito da tre inni: Venere (la Grecia e l'origine della bellezza); Vesta (il
rinascimento italiano); Pallade (la fuga delle Grazie e il trionfo della barbarie).
Una lettura delle Grazie in prospettiva simbolistica è legittimata da alcuni aspetti della scrittura foscoliana, e
non solo dalla sua frammentarietà. L'esaltazione della bellezza quale suprema forza unificatrice sembra
davvero anticipare gli sviluppi del Romanticismo e perfino la poesia simbolista.
In appendice alla traduzione di Viaggio sentimentale di Yorick lungo la Francia e l'Italia, Foscolo fa
stampare una Notizia intorno a Didimo Chierico. Didimo è un intellettuale che rifiuta tutte le mode cui
hanno ceduto gli altri intellettuali, e vive appartato da essi in solitudine. Il suo passato è ricco di impegno e
di passione, ma egli se ne è distaccato pur senza rinnegarlo.
In precedenza, Pindemonte e la Albrizzi si erano lamentati della severità della legislazione francese,
accusandola di non considerare dell'aspetto umano delle tombe; Foscolo ne rifiuta la posizione per ragioni
filosofiche e politiche, per poi ritrattare nei Sepolcri. Una certa importanza ha anche l'estensione all'Italia del
editto di Saint-Cloud, che stabiliva il divieto di seppellire i morti all'interno delle zone abitate, e prescriveva
un rigido controllo sulle iscrizioni funerarie.
L'innovazione sta in primo luogo nell'intento dimostrativo, cioè per via filosofica, e sua carica attualizzante.
I Sepolcri sono costituiti da 295 endecasillabi sciolti, divisibile in quattro parti.
Con questo carme, Foscolo fonda una sorta di religione umanistica, cioè una sacralità della funzione poetica,
che si prolungherà fino al nostro secolo, dove si può parlare, per esempio, di un foscolismo di Montale, che
concepiva poesia e cultura quali strumenti di difesa dal fascismo.
In tal senso, è una vergogna che Parini non abbia avuto una sepoltura adeguata e giaccia in una fossa
comune, mescolato forse alle ossa di un assassino. Foscolo respinge la distinzione classista contro cui si
battevano i provvedimenti rivoluzionari, ma difende un criterio di meriti culturali e civili.
In Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, se moderna è la ricerca di significato, ancora più moderno
è il fatto che la luna non risponda. In tutto il canto non c'è neppure un indizio che ella ascolti le domande: la
luna è muta. Da questa condizione moderna Leopardi non propone scappatoie: evitati fideismo e
insensatezza, Leopardi crede che se la vita è un deserto, tuttavia in questo deserto deve essere tentata in ogni
modo la ricostruzione di un sistema di valori.
La causa dell'infelicità umana è data dal contrasto tra il bisogno dell'individuo di essere felice e le possibilità
reali di esserlo. Nasce qui la teoria del piacere. L'uomo aspira naturalmente al piacere. Ma il piacere
desiderato è sempre superiore al piacere conseguibile.
Queste riflessioni comportano una ridefinizione del concetto stesso di natura. Ora la responsabilità
dell'infelicità umana ricade per intero sulla natura, che determina la tendenza umana al piacere, senza poi
poter soddisfare tale bisogno. La causa dell'infelicità non è più storica, ma esistenziale: si parla perciò, per
questa seconda fase, di pessimismo cosmico.
Ancora, la posizione sulla civiltà è ora ambivalente. Da una parte, con la civiltà, l'uomo smaschera la propria
condizione, recuperando almeno, se non la felicità, almeno la dignità della coscienza. D'altra parte essa,
sottraendo l'uomo alle illusioni, lo ha reso egoista. La società moderna è una lotta di tutti contro tutti che
Leopardi presenta nei termini di Hobbes e Machiavelli.
Il progetto leopardiano diventa un progetto di civiltà. Consapevoli del male comune, gli uomini devono ora
allearsi per ridurre il dolore e accrescere la felicità. Su questa base si muove la ricerca artistica degli ultimi
anni (La ginestra), quanto l'impegno intellettuale e civile a Firenze e Napoli.
48. Lo Zibaldone
A diciannove anni, nel 1817, Leopardi inizia a scrivere le proprie riflessioni in un quaderno che formerà poi
lo Zibaldone di pensieri. Il titolo allude alla varietà e al carattere frammentario. Tale materiali restò a Ranieri
per lungo tempo, e solo tra il 1898 e il 1900 fu pubblicata.
Lo Zibaldone non nasce come opera per il pubblico; d'altra parte, più che sfoghi o confessioni personali,
Leopardi fissa infatti tra le pagine dello Zibaldone le proprie riflessioni di studio: appunti da letture,
discussioni di posizioni altrui. In quanto depositario della continua ricerca leopardiana, lo Zibaldone è il
campo privilegiato per indagare il pensiero dell'autore e la sua evoluzione.
Le prime operette corrispondono infatti a un ripiegamento psicologico e culturale di Leopardi, che tenta di
trovare un equilibrio nel distacco. L'organicità dell'opera non sta nella struttura, ma nel suo fine, concettuale
e pratico: da un lato, essa vuole mostrare il vero e irridere alle sue mistificazioni illusorie;, dall'altro, il fine
pratico determina il carattere morale dei testi.
L'ironia implica infatti un rifiuto dello strumentario ipocrita della morale tradizionale: le Operette possono
essere morali sono a patto di proporre una nuova forma di moralità, che si cali nella concreta esperienza. E
ciò comporta lo smascheramento della morale tradizionale.
Le Operette morali vogliono dunque assolvere tre funzioni: rappresentare senza veli la necessità del dolore
per gli uomini; smascherare le illusioni consolatorie; additare un modello di reazione all'infelicità, nelle
passioni e nei gesti generosi che anche la disperazione può consentire.
Nel dialogo tra i due emerge la completa indifferenza della Natura al bene e al male degli uomini. Ed è la
Natura stessa ad affermare le leggi di un rigoroso materialismo: la scomparsa di questo o quell'individuo, di
questa o quella specie (umanità inclusa) non tocca l'interesse della Natura, volta solo a perseguire la durata
dell'esistenza in un "perpetuo circuito di produzione e distruzione".
Il dialogo è mozzato sulla disperata richiesta di significato rivolta dall'Islandese alla Natura, e resta dunque
senza risposta: Leopardi si avvia a fondare una ricerca di senso la cui responsabilità ricade per intero sulle
domande. Lo stile si fonda sulla tecnica dell'accumulo, soprattutto dell'accumulo di sofferenze dell'islandese.
Dall'esperienza, questi passa poi all'accusa alla natura.
Per descrivere l'esperienza della vita umana, Leopardi non sceglie un personaggio importante come in altre
operette ma un uomo comune, definito solo dalla propria nazionalità e chiamato a rappresentare un punto di
vista medio, obiettivo, fondato sull'esperienza. E' in qualche modo una tecnica simile a quella a cui Leopardi
ricorrerà nel Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, in cui affiderà al punto di vista ingenuo e diretto
del pastore le domande sul senso dell'esistenza.
Il tema è un aspetto della teoria del piacere: la felicità è sempre nel futuro; così che la vita si basa un'attesa
che non si realizzerà mai, dunque un'illusione. Il metodo socratico (maieutico) del dialogo fa emergere la
verità delle battute, con un tono malinconico e uno stile immediato. Il senso sta in una frase del venditore:
"Quella vita ch'è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita
passata, ma la futura".
D'altra parte, ogni testo in sè è autonomo, anche nel rispetto della sua genesi, e non dentro un progetto
d'opera. E il titolo persegue l'unificazione dei due filoni, le canzoni e i testi idilliaci. Utile è suddividere la
produzione in tre fasi: una prima fase (1818-22) che vede le canzoni civili e gli idilli; una seconda (28-30)
con i canti pisano-recanatesi; una terza (31-37) con una nuova poetica.
Una prima, destinata a essere subito interrotta e rifiutata, è di tipo romantico. Saranno infatti le altre due
direzioni di ricerca a produrre nuclei fondamentali. Da una parte vi sono le canzoni civili (1818-1822),
dall'altra gli idilli (1819-1821). Nelle canzoni, Leopardi tenta una poesia impegnata, prima patriottica e poi
civile. Negli idilli, invece, una poesia più modernamente lirica, di tipo senti-mentale, con una selezione
linguistica più intima, impiegando forme metriche aperte e personali.
Il confronto fra mondo antico e mondo moderno attraversa tutta la canzone, e ne è il tema conduttore. Tanto
la civiltà classica quanto quella rinascimentale sono superiori rispetto al mondo moderno. Si tratta di un
confronto già presente nella cultura settecentesca, ripreso qui però da Leopardi in pieno clima romantico con
un punto di vista originale, vale a dire l'esaltazione della classicità e la condanna implicita al Medioevo, in
contrapposizione con la cultura romantica.
Qui Leopardi si misura con il modello dei Sepolcri. Foscoliano è il tema dell'esempio che promana dalle
tombe dei grandi; simile la speranza che dagli esempi giunga un invito al riscatto.
Leopardi rifiuta però la visione umanistica foscoliana tesa a fare della poesia una garanzia di civiltà, e
contrappone alle Muse il nulla. Il riscatto resta dunque per Leopardi assai difficile, e comunque affidato più
all'azione che all'arte: la componente titanica (e alfieriana) della sua formazione prevale sull'educazione
classicistica.
La definizione "grandi idilli", utilizzata in passato, non si addice: essa tende infatti a evidenziare una
continuità con gli idilli giovanili, valorizzando l'aspetto emozionale e respingendo quello filosofico-
argomentativo. In realtà la novità di questa fase sta proprio nel punto di incontro tra essi.
Ogni elemento del titolo ha importanza nella definizione del contesto filosofico. Canto rimanda alla
dimensione lirica e melodica del testo; notturno esalta la dimensione esistenziale, essendo la notte il
momento canonico dei grandi interrogativi sulla vita; pastore evoca una funzione di guida; errante significa
che si aggira senza meta, in cerca di significato; infine l'Asia evocava ai tempi di Leopardi la distanza e
l'ignoto. Messi insieme, definiscono universalmente la condizione umana.
Nel Canto, Leopardi distingue tra la luna, l'uomo e le bestie. La luna sa rispondere alle domande di senso, le
pecore evitano di porsele; per questo il pastore ipotizza che siano felici. Lui invece e gli uomini in generale
si fanno domande ma non trovano risposte, possono al massimo formulare ipotesi. Ma alla fine, la strofa
conclusiva spezza le congetture sulla possibilità di forme di vita felici.
Sul piano formale, resiste la novità centrale della canzone libera, sperimentata sia per la sua incisività
espressiva che per il suo procedere argomentativo. Accanto ad essa, compaiono tentativi nuovi come A se
stesso (canzone di un'unica stanza) o i versi sciolti della Palinodia. Frequente il ricorso a una sintassi
concentrata, con periodi brevissimi, anche di una sola parola.
Ciò accade grazie alla confluenza in Manzoni di diversi filoni culturali: l'Illuminismo lombardo di Parini e
soprattutto di Beccaria e Verri; il Romanticismo con la sua attenzione per la storia nazionale e per il
sentimento popolare; la cultura francese. Senza Manzoni non ci sarebbe stata storia del romanzo in Italia.
Mentre in Francia e in Inghilterra il romanzo si era affermato già nel Settecento, Manzoni dovette partire da
zero. La sua impresa è perciò molto più notevole.
Nella produzione poetica giovanile, cioè il primo decennio dell'ottocento, spicca il componimento in
endecasillabi sciolti In morte di Carlo Imbonati e scritto dopo la sua morte (1805). Poichè questi viveva con
la madre, esso è anche una consolazione per lei. Il carme è una sorta di dialogo mora-le con Imbonati, che
diventa per il giovane poeta un maestro di vita e di letteratura simile a Parini.
Per Manzoni, i miti della fede cattolica possono formare una sorta di epica collettiva. Così da un lato l'autore
può manifestare il proprio entusiasmo religioso di neofita (la conversione è del 1810); dall'altro può restare
lontano dal lirismo soggettivo e radicarsi nella cultura del popolo cristiano. Sul piano religioso, la divinità è
presentata come consolazione ma anche come terrore biblico.
Nella Prefazione al Conte di Carmagnola, Manzoni fa seguire le sue riflessioni sulla tragedia, riassumibili in
tre punti. In primo luogo, seguendo Schlegel, il precetto dell'unità di tempo e di luogo (la vicenda non deve
durare più di 24 ore e deve svolgersi nello stesso luogo) non ha fondamenti in Aristotele, che non la poneva
come una regola. E non trova giustificazione neppure nell'esigenza di verosimiglianza, dato che essa deriva
solo dalla coerenza dell'azione scenica.
Manzoni respinge l'alternativa posta da filosofi illuministi come Rousseau secondo cui vi sono solo due
possibilità: o il dramma è interessante ed esteticamente riuscito, e allora è moralmente dannoso, oppure è
freddo, noioso e allora moralmente utile. Secondo Manzoni un dramma insieme interessante e diretto allo
scopo morale è invece possibile. Riprendendo ancora Schlegel, il coro è necessario come personificazione
de'pensieri morali, come cantuccio del poeta.
Relativamente al rapporto tra storia e invenzione, secondo Manzoni lo scrittore non deve inventare ma
attenersi ai fatti accaduti, e poi ricostruire quegli aspetti della storia rimasti fuori dal lavoro storiografico, e
cioè i sentimenti e le sofferenze. In tale ricostruzione egli deve creare azioni e situazioni conformi a quelle
che hanno luogo nella vita reale. Insomma, la letteratura completa la storia. Si tratta di una preziosa
dichiarazione di poetica che varrà anche per i Promessi sposi.
A queste prese di posizione va aggiunta la lettera scritta nel settembre 1823 a Cesare D'Azeglio Sul
romanticismo. Criticando D'Azeglio, che ne riteneva superate le ragioni, Manzoni prende le difese del
Romanticismo, nelle forme, più ragionevoli, che aveva assunto in Lombardia.
Così dicendo, Manzoni si mostra consapevole della varietà del Romanticismo e prende le distanze dai più
irrazionali, in Germania e in Inghilterra. Manzoni crede inoltre che il movimento abbia l'utile per iscopo, il
vero per soggetto e l'interessante per mezzo. L'arte insomma deve aver per fine l'uti-lità morale; deve
fondarsi sul vero storico; deve servirsi di una materia che interessi più persone.
Il Cinque maggio, scritto nel luglio 1821 alla notizia della morte di Napoleone, ha dell'ode civile le movenze
epiche (nella rievocazione dei momenti culminanti della vita dell'imperatore). Il fascino che il potere e le
grandi personalità esercitano su Manzoni è costante: basti pensare, nei Promessi sposi, all'Innominato, al
padre di Gertrude o allo stesso cardinale Borromeo.
D'altra parte egli, essendo un liberale, non nutre certo simpatie politiche per l'uomo che aveva instaurato un
potere personale e autoritario. Ma la morte avvenuta sull'isola di Sant'Elena, dove Napoleone era relegato da
sei anni, e le notizie che parlavano della sua conversione cristiana inducono Manzoni a rivedere la vicenda
napoleonica in una nuova prospettiva.
L'ode è composta da diciotto strofe di sei settenari ciascuna. Le prime quattro pongono il tema; la parte
centrale racconta l'episodio storico; la parte finale, altre quattro strofe, trae le conseguenze, e cioè
l'insegnamento religioso. Ancora, la parte narrativa centrale è suddivisibile in due momenti di cinque strofe
ciascuna, dedicati alle imprese del condottiero e all'esilio a Sant'Elena.
Il passato remoto impiegato scandisce una dimensione temporale ormai trascorsa ma ne valorizza le
imprese. Dal punto di vista ideologico e religioso, l'autore sottolinea il ruolo salvifico della Grazia. La figura
di Napoleone è iscritta nel disegno storico voluto da Dio.
Al centro dell'ode è il motivo dell'autorità. Qui, la grandezza di Napoleone ha qualcosa della grandezza
divina, vi è come un nascosto parallelismo tra le due forme di potere. E se dal punto di vista ideologico,
l'autore non ha dubbi nel mostrare la nullità della vita terrena rispetto a quella divi-na, la parte epica mostra
il fascino che sulla psicologia dell'autore esercitano le grandi personalità.
Il tema in Manzoni è troppo ricorrente, e troppo violentemente represso per non pensare a una dimensione
inconscia da collegare a una figura paterna fortemente superegotica (portatore cioè di una dura legge
morale). La stessa figura di Dio, che atterra e suscita, è quella di un Dio-padre.
Nel Conte di Carmagnola, la soluzione appare ancora contraddittoria, con elementi linguistici di provenienza
varia non ancora bene amalgamati, mentre più equilibrata e unitaria è l'Adelchi.
La tragedia Il conte di Carmagnola è pubblicata nel 1820. Lo spunto deriva dalla Storia delle repubbliche
italiane dello svizzero Sismondi, in cui si rivalutava la figura del Conte di Carmagnola, un capitano di
ventura dell'inizio del Quattrocento. Sismondi e Manzoni vedono in lui una vittima innocente della ragion di
Stato, della perfidia e della slealtà dei politici.
Il protagonista è un personaggio storico, come la moglie e la figlia; ma nella tragedia vi sono anche
personaggi "ideali", cioè inventati. Il protagonista è un uomo di potere che vorrebbe rispet-tare il codice
militare e morale, in un mondo politico dominato dall'immoralità: è insomma il contra-sto tra ideale e reale.
Troppo brusca però appare alla fine la sua conversione. Altro tema dell'opera è la condanna delle lotte
fratricide fra Italiani che possono solo favorire l'ingerenza straniera.
64. L'Adelchi
Anche l'Adelchi, nel coro dell'atto terzo, presenta un appello al popolo italiano a non fidarsi dell'aiuto
straniero e all'azione. Adelchi è un personaggio più moderno di Carmagnola: egli vive la contraddizione
sociale, tra il suo ruolo pubblico, figlio di un re oppressore, e i sogni di giustizia.
Adelchi è infatti figlio di Desiderio, re dei Longobardi e oppressore dei Latini, i quali sperano nell'intervento
di Carlo Magno, re dei Franchi. Come si vede, la situazione ha molte analogie con l'Italia tra Settecento e
Ottocento, oppressa dagli austriaci e fiduciosa nell'aiuto di Napoleone. La vicenda è ambientata fra il 772 e
il 774, e gli avvenimenti sono quasi tutti storici. Ermengarda e Adelchi sono i due protagonisti, personaggi
romantici, malinconici, divisi fra sentimento e dovere.
Nell'opera Manzoni pone il vero storico; ma a vedere bene gli interessa soprattutto il vero morale. Più
dell'accertamento dei fatti, preme a Manzoni quello delle colpe morali e delle responsabilità individuali, dei
giudici e anche degli inquisiti che denunciavano altri innocenti per salvarsi.
Manzoni inventa così un genere di scrittura che pur ricollegandosi al pamphlet illuministico, se ne
differenzia per il suo contenuto rigorosamente storico. Si tratta di un genere dunque diverse dal romanzo
filosofico (come Candide di Voltaire), sia dal pamphlet di denuncia relativo a un tema specifico (Dei delitti
e delle pene di Beccaria); pur risentendo di entrambi, è del tutto nuovo. Notevole è il recupero che ne farà
Sciascia. In L'affaire Moro (1978), Sciascia ricostruisce un fatto storico reale da un punto di vista morale,
unendo storiografia, denuncia morale e psicologia.
Il titolo definitivo è I promessi sposi. Storia milanese del secolo XVII scoperta e rifatta da Alessandro
Manzoni. L'opera comprende una Introduzione, in cui compaiono la trascrizione di un presunto manoscritto
del Seicento, che conterrebbe la storia di Renzo e Lucia, e le riflessioni dell'autore su di esso; poi 38 capitoli
di narrazione; infine, la Storia della colonna infame.
All'inizio il tempo del racconto è molto lento, per poi considerarsi. Ciò si spiega con la necessità di
presentare all'inizio i personaggi principali; poi la narrazione può essere molto più spedita.
Per contrastare il matrimonio, essi si servono, come strumenti, dapprima di Don Abbondio, poi di Gertrude.
Il momento di svolta si ha quando l'Innominato passa dagli oppressori ai protettori.
Da tale schematizzazione, si rivela quanto sia equilibrato il romanzo. Tale sistema inoltre non è un puro
artificio, ma serve a comunicare un messaggio ideologico, tutto giocato sul contrasto tra bene e male. Le
forze in gioco riguardano infatti il potere sociale, il potere spirituale corrotto e il potere spirituale autentico:
Don Rodrigo e l'Innominato (potere sociale), Don Abbondio e Gertru-de (potere spirituale corrotto), padre
Cristoforo e Borromeo (potere spirituale autentico).
Nel maestro di Lucia, Padre Cristoforo, l'autore proietta diversi aspetti autobiografici. Da un certo punto di
vista, egli è il personaggio principale della narrazione, colui che deve calare l'ideale nel reale. Per questo si
fa umile e si spende nel sacrificio quotidiano. L'eroe depone l'astrattezza dei protagonisti alfierani e
foscoliani e si misura con la dimensione realistica e pragmatica.
In Gertrude, non c'è solo la descrizione della sua psicologia, ma anche quella cui ricorre il padre. Egli non
dice mai alla figlia di farsi monaca, ma la convince con un processo di colpevolizzazione, sfruttando ogni
errore. L'aguzzino tortura due volte la vittima: sul piano pratico e sul piano morale.
Don Abbondio è infine il personaggio più legato alla dimensione carnale della vita. Manzoni, pur
mostrandolo impietosamente nei suoi limiti, non gli lesina un sorriso di pietà. Per questo Don Abbondio non
è solo un personaggio comico: ha anche uno spessore umoristico pirandelliano.
I due più grandi narratori dell'Ottocento sono Manzoni e Verga, uno vissuto in età romantica, l'altro negli
anni della delusione successiva all'Unità d'Italia. Senza Manzoni non ci sarebbe stato il romanzo in Italia;
ma senza Verga non ci sarebbe stato il romanzo moderno.
Le scelte di Verga nascono da una crisi storica: egli è uno degli ultimi rappresentanti della generazione
risorgimentale e ne vive le contraddizioni. Il protagonismo degli intellettuali è ora impossibile nella nuova
Italia dominata dall'interesse economico. Occorre rinunciarvi: di qui il Verismo.
Lasciata Catania, Verga va a Firenze (1869-72) e a Milano (1872-93). Sul piano politico, tra il 1878 e il1882
è vicino alla Destra Storica, che propone un'alternativa agraria al predominio dell'industria del Nord. Dopo il
1882, Verga si allontana dalla politica assumendo atteggiamenti più reazionari.
Dal 1893 Verga torna a Catania e sfiora il cinismo, anche nei rapporti privati. Nel 1920 è nominato senatore
e assiste a Catania alle celebrazioni in suo onore, per i suoi ottant'anni, in cui Pirandello lo contrappone a
D'Annunzio. Proprio quando comincia un momento più favorevole, muore (1922).
Nella produzione catanese si avverte però uno sviluppo. In Una peccatrice (1865) l'aspetto storico-patriottico
è lasciato cadere e il romanzo s'impernia su una storia d'amore passionale; l'amore romantico trionfa ancora:
l'ideale non si arrende alla realtà e preferisce la morte.
Il romanzo presenta vari punti di interesse. Per la prima volta, Verga si sforza di assumere il punto di vista di
un personaggio semplice ed elementare; adotta il fiorentino in modo meno enfatico; compare il tema, poi
ricorrente, dell'orfano e dell'escluso; infine l'esclusione sociale della vittima si congiunge al fattore
economico. Il romanticismo resta vivo comunque, con l'amore-passione.
Il successivo romanzo è Eva (1873). La sconfitta del protagonista, Enrico Lanti, è duplice e riguarda l'amore
e l'arte. Non solo fallisce la sua storia d'amore con la ballerina Eva, ma finisce anche frustrato il suo
desiderio di restare fedele agli ideali artistici della giovinezza. Il romanzo è ancora la storia di un giovane
romantico che verifica il fallimento dei propri ideali.
In Eva il romanticismo giovanile di Verga appare ormai in crisi ma ancora non del tutto superato. Il mondo
arcaico-rurale della Sicilia è un'alternativa alla modernità. Alla ballerina, che incarna la civiltà moderna, si
contrappongono la famiglia e la Sicilia. In Tigre reale (1875), nella notte d'amo-re in cui la russa Nata è
ammalata di tisi e ridotta a un cadavere, si vede l'influenza scapigliata.
Con Eros (1874), la parabola della delusione romantica è ormai completata. Verga è approdato a un realismo
freddamente oggettivo, ma un po' squallido e scolorito, poi temperato dal Verismo.
Di questo periodo è anche una novella di ambiente rusticano e siciliano (bozzetto siciliano), Nedda (1874).
Per la prima volta Verga sceglie umili personaggi della sua terra: Nedda è una povera raccoglitrice di olive.
La novella non è verista, perchè l'autore difende il proprio personaggio.
Sul piano letterario, da tale impostazione deriva una poetica antiromantica. Nella poetica verista, la
psicologia può essere rappresentata solo dall'esterno, dedotta. Seguendo i teorici del Naturali-smo, per Verga
occorre procedere dal semplice al complesso, dalle classi più basse alla civiltà.
Di qui il progetto di un ciclo di romanzi, denominati prima La Marea, poi I Vinti, che rappresenti in ordine
la vita dei pescatori e dei contadini (I Malavoglia), la borghesia di provincia (Mastro-don Gesualdo), la
nobiltà cittadina (La duchessa di Leyra), infine il mondo parlamentare romano (L'onorevole Scipioni) e
quello degli scrittori e degli artisti (L'uomo di lusso).
Per quanto riguarda la teoria dell'impersonalità, Verga sostiene l'eclissi dell'autore, il quale deve sparire
nella propria opera, senza lasciarvi le tracce della propria personalità. E' esclusa anche la presentazione dei
protagonisti da parte del narratore: il lettore deve imparare a conoscerli.
I personaggi attorno al protagonista possono essere distinti tra coloro che stanno sopra Malpelo e lo
opprimono, e coloro che stanno al suo stesso livello e sono oppressi come lui. Così, il sistema dei personaggi
ci fa capire come Verga concepisce la vita: un sistema dualistico conflittuale. Con Rosso Malpelo, Verga
trova un personaggio emblematico della diversità: non solo è orfano, ma ha anche i capelli rossi. Per la
prima volta Verga esperimenta l'artificio di straniamento, vale a dire mostrare come strano un fenomeno
normale presentandolo da un'ottica inedita.
Quando una voce narrante sostiene che il protagonista è cattivo perchè ha i capelli rossi, questa non può
essere l'opinione di Verga. Si apre così un divario tra punto di vista del narratore e dell'autore. E proprio su
questo divario, si fonda lo straniamento. Tutto il racconto obbedisce alla figura retorica dell'antifrasi: dire
una cosa ñ Rosso è cattivo - ma farne intuire un'altra. D'altra parte, il punto di vista dell'autore, per quanto
nascosto, finisce per emergere comunque.
La sua visione atea e materialistica (si pensi al dialogo con Ranocchio sul Paradiso) ha qualcosa di
leopardiano in quanto pone in causa la ragione stessa della vita: meglio è non essere mai nati.
Verga scrive due prefazioni ai Malavoglia. Viene accettata dall'editore quella più asciutta, più impersonale e
scientifica, e che esplicita la poetica di Verga in vari aspetti. La narrazione è anzitutto definita uno studio,
che deve essere sincero e spassionato, vale a dire senza passione.
Per Verga, la forma deve essere inerente al soggetto: l'autore deve adoperare il linguaggio e la prospettiva
dei propri personaggi. Verga chiarisce altresì che il romanzo fa parte di un ciclo che intende mostrare il
condizionamento della lotta per la vita a ogni gradino della scala sociale.
Lo scrittore dichiara di interessarsi ai vinti, cioè alle vittime del progresso. Ciò si spiega con il fatto che lo
scrittore è travolto anch'egli dal progresso ed è anche lui un vinto. Il progresso infatti da un lato subordina
l'artista alle proprie leggi (il successo volgare), dall'altro lo disprezza ed emargina.
Per fare la dote a Mena, padron 'Ntoni compra a credito una partita di lupini, indebitandosi con l'usuraio del
paese, Campana di legno. Durante il trasporto dei lupini, la barca fa naufragio e Bastianazzo muore in mare.
Comincia un periodo di disgrazia e miseria. Quando la famiglia sembra riprendersi, un nuovo naufragio
della Provvidenza e poi il desiderio di evasione di 'Ntoni ricacciano la famiglia nella disgrazia, sino a
indurre il vecchio 'Ntoni a cedere casa e barca.
'Ntoni, che durante il servizio militare ha conosciuto le grandi città ed è affascinato dal progresso, cerca
fortuna a Trieste ma è più povero di prima. Comincia a fare così il predicatore di idee di eguaglianza, e a
frequentare gli ambienti di contrabbando, disonorando la famiglia.
Arrestato e poi uscito cinque anni dopo dal carcere, il nonno è morto e 'Ntoni resta nella casa del Nespolo
solo una notte: all'alba riparte per sempre. Ha capito che non può più vivere in una famiglia di cui ha violato
le norme morali. Nel romanzo si distinguono tre parti.
Il mondo del passato ha il suo eroe in padron 'Ntoni. Il nonno 'Ntoni conosce una sola verità, i proverbi e la
saggezza degli antichi. Il mondo del presente ha il suo eroe nel nipote 'Ntoni, che è invece un personaggio
problematico, scisso fra valori contrapposti: quello della famiglia e della modernità. 'Ntoni è forse il
personaggio più autobiografico, ed è erede del Lanti di Eva. Con l'addio di 'Ntoni a Trezza, Verga esprime il
suo doloroso commiato dal mondo premoderno.
Altro elemento è l'uso del discorso indiretto libero, ora organico alla narrazione. Anche la lingua muta:
Verga non ricorre al dialetto, ma impiega un italiano parlato così come lo parlano i siciliani dotati di una
certa cultura: un parlato che conserva le sfumature sintattiche e talora lessicali del dialetto. Esemplare è l'uso
del che, il ca siciliano, che ha valore di congiunzione.
Ancora una volta, il punto di vista della voce narrante non coincide con quello dell'autore. Questi sparisce
regredendo in un narratore incolto o primitivo: è questo l'artificio di regressione.
Verga esalta l'ideale dell'ostrica, dell'attaccamento alla famiglia. Chi si allontana da questi valori si perde e
la parabola di 'Ntoni è esemplare. Per Verga la forza della famiglia è data dal legame di sangue, ed è una
cellula di resistenza. Se si eccettua la solidarietà familiare, si è soli; la solidarietà di classe non esiste, nè la
possibilità di un futuro diverso. Nella parte finale, 'Ntoni si identifica con il mare che come lui non ha paese;
è escluso dal paese-nido, dal conforto delle stelle e del mare.
Una nuova svolta arriva con Novelle rusticane e Per le vie, raccolte di novelle uscite nel 1883. A partire da
esse, tutti i personaggi appaiono dominati dal solo interesse della roba, cioè della logica economica. Ogni
illusione riformista viene meno, e cade anche il rapporto con la Destra storica di Sonnino. Ancora più vuota
di cadenze epico-liriche è Vagabondaggio (1887).
Si possono distinguere due fasi della ricerca verista di Verga: una prima, rappresentata da Vita dei campi e I
Malavoglia, in cui persistono ancora certi valori romantici; e una seconda, da Novelle Rusticane a Mastro-
don Gesualdo, in cui questi valori sono scomparsi e sostituiti dalla roba.
La prima parte descrive il matrimonio di Gesualdo con una nobile decaduta, Bianca Trao. Nella parte
seconda, Gesualdo diviene il più ricco del paese; nella terza, Gesualdo combina il matrimonio fra Isabella e
il duca di Leyra. Nella Parte quarta il motivo conduttore è la decadenza e la morte di Gesualdo. La
narrazione presenta salti temporali di molti anni, di cui si dà conto con la tecnica del riassunto. Di qui il
carattere frantumato del racconto, evidente nella sua partizione.
Il sistema dei personaggi non è più quello dei Malavoglia, romanzo corale in cui protagonista è l'intero
paese. L'opera è infatti incentrata su Gesualdo. L'opposizione tra mondo dei sentimenti e dell'egoismo perde
la sua validità in un universo in cui domina solo la legge della roba.
Tuttavia tale opposizione si fa interna al protagonista: Gesualdo segue sì la legge dell'utile, ma ne paga lo
scotto con il suo senso di colpa verso i suoi familiari, e i due figli illegittimi. Rispetto ai Malavoglia, due
elementi cadono: manca il coro anonimo di parlanti, e Verga tenta una regia narrativa più vasta; egli
concede inoltre maggiore spazio alla psicologia dei suoi personaggi.