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PER LA STORIA DEL COLLEZIONISMO ITALIANO

Metodo e limiti della museologia

La museologia è una disciplina giovane nata nel 1955 quando si staccò dalla tradizionale museografia.
Museo: tendenza istintiva alla tesaurizzazione, attitudine dell’uomo alla raccolta di documenti od
oggetti. Per conoscere un museo occorre basarsi sulle due discipline, in stretto rapporto fra di loro, cioè
la museografia (strumento e metodo) e la museologia (messa in pratica e valore di tale metodo).
Museografia: riguarda l’ambito operativo-architettonico. Quindi l’insieme di tecniche e pratiche che
concernono il suo funzionamento.
Museologia: ambito teorico-storico. E’ tesa alla ricerca dei significati e dell’essenza costitutiva dei
musei. Si tratta di una disciplina di lunga tradizione ma che è stata determinata con un termine apposito
solo di recente. Già dal rinascimento infatti nacquero i concetti di collezione, di museo pubblico, di
tutela e salvaguardia. Questo fenomeno fu spinto sicuramente dal collezionismo, cioè dalla raccolta da
parte dell’uomo di oggetti o documenti disposti cronologicamente o per argomenti. L’esempio
sicuramente più esaustivo di collezioni è quello della famiglia patrizia dei Medici a Firenze che venne a
crearsi sia per tendenze di gusto artistico sia, e soprattutto, come messaggio per il popolo fiorentino di
gloria e potere della famiglia. Risulta però difficile delineare un preciso profilo del collezionismo sia
per la mancanza di documenti e testimonianze sia per i grandi scambi di opere che avvenivano in quel
periodo. Occorre capire il gusto e lo spirito del tempo per capire la società e i suoi protagonisti. Anche
se però già dal collezionismo si può capire la psicologia del tempo, il motivo di queste raccolte.
Sicuramente da una parte c’era la volontà di possesso di oggetti preziosi oppure, nel caso di opere
classiche, il volersi immedesimare come continuatori della civiltà classica. Dall’altro lato c’era la paura
della caducità del tempo e della vita, come ci mostra il Cardinal Borromeo in alcune sue riflessioni (per
la creazione dell’Accademia Ambrosiana) che portava l’uomo a raccogliere tutto ciò che rappresentasse
il passato e il presente per le generazioni future affinché non fossero dimenticati. Si nota anche dal fatto
che molti collezionisti che alla loro morte donavano le loro raccolte ad altri mantenessero il vincolo
dell’integrità e del nome a cui faceva parte la collezione (proiettare il proprio nome al futuro). Si creava
così un tutt’uno tra collezionista e oggetti (eternità).

Le prime testimonianze: dal Medioevo al Preumanesimo

Sicuramente per quanto riguarda le collezioni del periodo medievale è difficile trattare una storia
precisa per la grande mancanza di documenti. Dalla caduta dell’Impero e l’avvento dell’era cristiana la
chiesa assunse il ruolo guida anche sul piano culturale dell’insegnamento (diffidenza per il possesso).
Anche se appare strano il primo documento che testimonia una raccolta è quello di un uomo di chiesa,
l’abate Suger della chiesa di Saint-Denis (Parigi, XII sec.) e sostenitore dei Capetingi (dinastia reale
che regnò in Francia tra X e XIV sec. fino all’arrivo dei Valois). Egli faceva capo all’ordine cistercense
e fu figura importante soprattutto per la ricostruzione della chiesa che è da considerarsi la genesi dello
stile gotico. Nei suoi testi egli enumera la grande quantità di tesori, arredi liturgici, gemme antiche, vasi
preziosi e altro che si trovavano all’interno della chiesa. Per Suger la bellezza materiale e la
rappresentazione artistica avevano lo scopo di portare il fedele dalla contemplazione alla sfera
spirituale (a differenza di quanto diceva san Bernardo) che aiutava a capire le varie sfaccettature
meravigliose che Dio era in grado di compiere. Comunque questa appare l’unica testimonianza proprio
per la censura ecclesiastica al lusso e al piacere. E’ dal preumanesimo che invece nascono nuovi
interessi artistici come quello di Ristoro d’Arezzo che apprezza alcuni vasi istoriati classici rinvenuti
nella regione. L’interesse medievale per l’antico è da vedersi come un interesse puramente strumentale
e non come tradizione di valori culturali e ideologici. Tutto ciò che veniva raccolto, sia oggetti cristiani
che pagani, venivano investiti di significati simbolici e allegorici cristiani per mostrare la fantasia
creativa divina. E’ solo dal trecento che si trovano interessi per l’antichità classica, visibili soprattutto
in ambito veneziano. Come l’erudito de Gheltoff che elenca tutta la collezione del doge Marin
Falieroconservata nel suo palazzo di Venezia oppure quando Oliviero Forzetta descrive i suoi interessi
sia per la letteratura sia per le opere d’arte soprattutto classiche.
E’ comunque con Tetrarca che per la prima volta l’arte classica è vista per le sue valenza estetiche e
storiche. Egli vede l’antichità come paradiso perduto e come modello di vita per tutti. Nel suo De
remediis utriunsque fortunae appare la sua influenza su Plinio e Sant’Agostino. Egli paragona anche
Simone Martini che aveva realizzato il ritratto di Laura al mitico Apelle. La sua visione dell’arte
classica è ancora di contemplazione e di stimolo visivo ma aveva anche valenze storiche testimoniata
dalla sua raccolta di monete antiche. Altri come il medico e letterato padovano Giovanni Dondi
iniziarono a vedere nell’arte classica (per le rovine di Roma) un qualcosa di straordinario da accogliere
come modello di vita. Il preumanesimo apre quindi questo nuovo atteggiamento culturale che avrà il
suo sbocco nel Rinascimento.

Firenze e il gusto dei Medici nel quattrocento

L’Italia, fino al depauperamento napoleonico a favore dei musei, è da considerarsi come un museo
naturale, un patrimonio comune dislocato nelle varie aree geografiche (Roma per eccellenza). A
differenza dell’Italia settentrionale dove vi erano dei musei privati (tutto si trovava all’interno dei
palazzi) Firenze è da considerarsi sotto un altro aspetto. Per quanto riguarda il recupero dell’antichità,
questo avvenne prevalentemente attraverso rilievi e documenti e non come in altre città facendosi
portare opere originali. La classicità fu vista come qualcosa di ideale da riprodurre nell’arte moderna. A
Firenze ci fu il primo insegnamento di greco e fece iniziare una ricostruzione del mondo antico e della
civiltà greca per trasformarli in ideali di vita per i comportamenti e le scelte culturali dell’élite del
periodo. Molti come Poggio Bracciolini o Niccolò Niccoli vollero creare delle biblioteche su modello
di quelle classiche e quindi creare un rapporto diretto con il passato. L’arte classica venne vista, a
seconda delle persone su due punti diversi: per gli artisti come modello di ispirazione mentre per i
potenti come oggetto di autocelebrazione e di prestigio. Proprio su questo secondo aspetto è da vedersi
il particolare interesse suscitato dalla famiglia Medici: essi volevano trasmettere un messaggio che
esaltasse il loro potere sia politico che culturale e del loro prestigio intellettuale e sociale. Per la
letteratura critica sul mecenatismo mediceo sicuramente i documenti più importanti sono quelli di
Giorgio Vasari. Primo fu Cosimo il Vecchio (1434-1464) che si interessò prevalentemente
all’architettura e alla scultura commissionando opere a Donatello, Michelozzo e Brunelleschi (da
ricordare la corniola che si fece montare su anello dal Ghiberti).
Poi ci fu suo figlio Piero il Gottoso (1464- 1469) che trasformò la collezione di famiglia con un più
preciso assetto che preferì incentrarsi su opere ricche di valenze etiche e morali, eleganti e armoniose.
Il Filerete ci offre una descrizione della raccolta di Piero di facevano parte codici miniati, sculture
greche, cammei antichi, busti importanti che venivano viste per tutta la loro valenza estetica e storica.
Ma sicuramente la figura più importante fu quella di Lorenzo de Medici (1469-1492) tanto che su di lui
è stato creato un mito laurenziano. Con lui tutte le collezioni medicee acquistano una precisa
disposizione all’interno del Palazzo mediceo di via Larga (si sa dai documenti perché dopo la loro
cacciata nel 1494) si è perso molto. Dunque lo scopo del mecenatismo mediceo era quello di propagare
le gloria dell’arte fiorentina e il loro prestigio. Le sculture antiche e moderne erano poste anche fuori,
nel cortile (le più importanti quelle bronzee di Donatello raffiguranti Davide e Giuditta)) e avevano il
ruolo di trasmettere l’abbattimento della tirannide, i busti degli antichi imperatori sui sovrapporta di
potenziare la virtù politica e morale mentre gli otto tondi con rilievi classici sulla facciata esteriore del
cortile che dava sulla via avevano scopo commemorativo. Insomma questi messaggi non si trovavano
solo dentro ma anche fuori dal palazzo. Analogo significato di proiezione celebrativa si ritrova sugli
affreschi della facciata del palazzo della famiglia dell’Antella in piazza Santa Croce.
Con Cosimo II de Medici (1609-1621) si avrà ancora questa continuità.
Nella camera grande a piano terreno (decorata però sotto Cosimo il Vecchio) vi erano tre celebri
episodi della vittoria di San Romano dei fiorentini sui senesi dipinti da Paolo Uccello (segno di vittoria
per i governatori ed esaltava le virtù guerresche dei cittadini) che servivano a dare un’invito a dominare
la violenza e l’irrazionalità degli episodi che invece si trovavano su altre tre tavole sempre nella stessa
stanza raffiguranti cacce di draghi e leoni. Anche nella sala al primo piano per le udienze pubbliche era
stato inserito un altro messaggio: le tre tavole del Pollaiolo raffiguranti le fatiche di Ercole volevano
rappresentare il pacificatore e il nemico dei malvagi e quindi una condanna alla tirannide. Forse però
Lorenzo, oltre che hai messaggi, era proprio interessato all’arte nel senso più profondo e possedeva una
grande sensibilità estetica. Un nucleo rilevante della collezione dei Medici si trovava nel giardino di
San Marco (come ci informa il Vasari). Lorenzo aveva creato una sorta di scuola solo per alcuni artisti
che potevano imparare a copiare in questo museo all’aperto le sculture antiche e moderne che vi si
trovavano. Fu proprio qui, come ci dice il Vasari, che nacque il genio di Michelangelo che ha potuto
imparare dai grandi geni del passato.
Il mecenatismo mediceo è dunque da considerarsi uno degli aspetti fondamentali per capire il
collezionismo, ricco di messaggi politici, di gusti, di tendenze dei vari componenti della famiglia.

Le botteghe degli artisti

Artista-storico: Dal quattrocento in avanti la figura dell’artista cambiò sicuramente: iniziò ad essere
considerata una persona intellettuale e la stessa arte non fu più concepita come attività meccanica ma
come attività intellettuale da considerare come creazione artistica (nasce anche la critica d’arte). Le
raccolte diventano per gli stessi artisti uno strumento per avere prestigio e rinomanza sociale. L’artista
non è più dunque un semplice artigiano ma un intellettuale, un antiquario, un conoscitore che si stacca
dalle botteghe medievali a solo scopo didattico per trasformarle in veri e propri camerini, in studioli, in
accademie e in wunderkammern di attrazione per il pubblico composti sia da opere realizzate da loro
sia da altre da seguire come modello e da esporre. Possedere sculture greche e romane, rilievi, gemme,
monete erano il simbolo del prestigio raggiunto dall’artista. Le raccolte degli artisti assumono così
questa doppia valenza: da una parte servono da modelli ispiratori e come stimolo nell’esercizio della
loro professione dall’altra sono simbolo del loro prestigio.
Lo studio-raccolta dell’orefice Valerio Belli, come ci dice il Vasari, era ricco di statue antiche e
moderne, calchi di bronzo e gesso (antico = spia della posizione sociale raggiunta).
Un tipo di “accademia familiare”, adunanza di artisti e letterati, era invece quella di Baccio Bandinelli
(nota attraverso un’incisione), che era sia scrittore che artista.
Una raccolta più particolare era quella del Vasari: egli possedeva un’enorme collezione di disegni che
utilizzata da complemento visivo alle sue vite. Essa era concepita come un vero e proprio museo di
grafica ordinato cronologicamente e storicamente che il Vasari inseriva in cornici disegnate da lui
stesso.
Artista-mercante: Dal Seicento gli artisti offrono anche la loro competenza tecnica diventando
commerciali e consulenti per il nuovo gusto borghese, fornendo consigli sulla vendita e sugli acquisti.
Eccezionale per assetto e consistenza lo studio dell’architetto romano Martino Longhi che alla sua
morte mise una clausola dicendo che chiunque avesse voluto, su richiesta, fruire di tali beni gli doveva
essere concesso.
Altre botteghe erano invece da considerarsi come splendidi Wunderkammern (le cosiddette raccolte di
meraviglie): esse erano costituite da oggetti bizzarri e particolari come strumenti scientifici, porcellane
cinesi, fossili e altro. Uno dei più famosi fu quello del pittore Filippo Napoletano che aveva questo tipo
di gusto per l’esotico.
Si è visto quindi il passaggio di collezioni viste a scopo didattico a collezioni che diventano mezzo
potente di successo che rende gli artisti inseriti nella società e anche in competizione con i grandi
committenti.

Gli studioli

Vasta documentazione sia scritta che figurativa (es. Tetrarca nel suo studiolo). Fin dalla sua
costituzione lo studiolo viene concepito come ambiente di raccolta, di meditazione e di solitudine. Pian
piano diventa centro di raccolta di tutti gli oggetti della collezione del proprietario fino a diventare un
museo privato, un gabinetto antiquario destinato all’esposizione e al godimento di oggetti preziosi. A
differenza delle altre collezioni questa è premeditata, possiede un significato tra oggetti, ambiente e
proprietario. Anzi proprio il tipo di collezione rispecchia l’immagine del collezionista-fruitore-
committente che segue appunto un programma iconografico teso a identificare se stesso (deve mettere
in luce le sue virtù morali, intellettuali, politiche, ecc…). Lo studiolo, chiamato anche camerino,
studietto, scrittoio, tesoretto è identificabile spesso solo con un mobile atto a contenere degli oggetti.
Ma già dal Cinquecento, come si legge in alcuni testi di Sabba da Castiglione, lo studiolo era già inteso
come una collezione che comprendeva anche più ambienti.
Famosa è la decorazione dello studiolo di Lionello d’Este e del fratello Borso (Ferrara), che si trovava
nella loro villa a Belfiore (distrutta) nata dall’incontro fra il marchese e l’umanista Guarino da Verona.
In una lettera di questi due si legge il programma iconografico che illustrava la decorazione con delle
Muse, protettrici delle scienze e delle arti (volevano alludere alle virtù intellettuali e alla saggia politica
del marchese).
Come a Belfiore anche nel Castello (presso Parma) di Federico da Montefeltro le decorazioni volevano
esaltare le sue virtù guerresche e politiche realizzata tramite pittura e tarsia (disegno formato da vari
materiali incastrati tra loto come il legno o la pietra) di filosofi, poeti e padri della chiesa.
Anche i “camerini di alabastro” di Alfonso d’Este, fratello di Isabella d’Este, sono da considerarsi di
grande importanza (temi erotici classici).
Nello studiolo di Francesco I de’ Medici a Palazzo Vecchio si è davanti ad un grande sperimentalismo.
Si presenta infatti come uno stile non unitario ma che è formato da un programma iconografico ben
definito: si basa sulla partizione dei quattro elementi naturali e sulla esemplificazione delle loro diverse
qualità (inclinazioni scientifiche di Francesco).
Ma alle raccolte di questi grandi committenti una conseguenza, alla loro morte, era la dispersione delle
stesse. Ciò spezzava quel valore simbolico che gli aveva conferito il proprietario e spezzava quel
ritratto che egli si era creato.
Pian piano si ebbe l’esigenza di esporre in ambienti più ampi le proprie raccolte. Esso si può definire
come un “museo privato” proprio perché ad ogni raccolta viene ormai associato uno spazio proprio
(valorizzazione estetica e di contenuti).

La corrispondenza di Isabella d’Este Gonzaga.

Isabella era nipote di Lionello d’Este e moglie di Federico Gonzaga ed è da considerarsi una delle
donne più virtuose di questo periodo (XV-XVI). Grazie alla sua ricchissima corrispondenza che aveva
con intellettuali e artisti si possono capire i gusti e gli atteggiamenti della donna. Arrivata a Mantova si
rese conto che la città non aveva un proprio patrimonio culturale, così chiamò a corte gli artisti più
importanti di quel periodo. La sua creazione più importante fu sicuramente quella dello studiolo nel
Castello di San Giorgio (residenza ufficiale) che ella lo vede come mezzo per assicurarsi il primato
nelle corti. Si serve di artisti, intermediari, letterati, agenti iniziando con loro una corrispondenza.
Nel 1502 fa uno dei suoi acquisti più importanti: una Venere antica e un Cupido di proprietà dei
Montefeltro. Ma poi si accorse che il Cupido era un’opera moderna di Michelangelo ma la tenne
comunque perché la trovò splendida. Ma era una donna troppo esigente, basti vedere le minuziose
istruzioni che dava agli artisti quando richiedeva delle opere, tanto che a volte questi si rifiutavano. Per
lo studiolo aveva programmato un ciclo allegorico dipinto da Mantenga, dal Perugino e dal Costa,
artisti che però possedevano stili diversi (voleva celebrare l’unione delle due dinastie Este e Gonzaga).
Per lei gli artisti erano semplici esecutori che dovevano obbedire al committente (il Bellini una volta si
rifiutò davanti a lei). Nel 1505-06 lo studiolo era finito. La sua collezione era formata da gemme,
cammei, frammenti antichi e cercò di arricchirla in tale quantità che mancò lo spazio per esporre alcuni
oggetti. Riuscirà anche ad avere un Cupido anticò che posizionerà a fianco di quello michelangiolesco.
Questa raccolta era per lei ricca di valori morali, simbolo del suo prestigio e vittoria sulla sua vita di
donna disperata (il marito non le era vicino).
Nel 1522 ormai vedova e anziana, lasciò il castello al figlio Federico e si trasferì nell’adiecente Corte
Vecchia dove continuò le sue collezioni. Sotto agli ambienti privati e allo studiolo vi erano le grotte che
davano su dei giardini segreti. Lo studiolo aveva un programma preciso mentre le grotte raccoglievano
oggetti senza ordine. Alla sua morte lasciò delle specifiche disposizioni nel suo testamento anche se
nonostante ciò subirono una triste sorte. Il decaduto duca Vincenzo II Gonzaga fu costretto a vendere in
blocco la raccolta al re Carlo I d’Inghilterra (‘600). Quest’operazione suscitò una reazione violenta da
parte del popolo perché, anche se non possedeva di persona la collezione, se ne sentiva comunque
legata ideologicamente. Si frantumò così il sogno e l’impegno di una donna che dedicò la sua vita solo
a collezionare.

Roma e il recupero dell’antico

Roma è sicuramente da considerarsi il “museo naturale” per eccellenza. Inizialmente le rovine erano
viste come qualcosa di magico di un periodo storico ormai ontano e fantastico. Dal Quattrocento
l’antico divenne materia di studio e di analisi critica anche per la nuova politica papale volta al
protezionismo di queste opere per mantenere e conservare l’immagine e l’assetto urbano della città.
Martino V inizia mediante leggi ed editti a proteggere e restaurare monumenti pagani e ne impedisce la
distruzione o gli smembramenti. Questa tutela dei papi darà il via al collezionismo antiquario.
Papa Paolo II (origine veneziana) iniziò dal 1464 una raccolta privata di piccoli oggetti antichi. Fece
restaurare monumenti come il Pantheon, il Campidoglio e l’arco di Tito e iniziò lo studio della
numismatica. Possedeva infatti una grande collezione di medaglie, monete, gemme, cammei fra cui la
preziosa Tazza Farnese. Come ci dice Ciriaco d’Ancona la sua era una delle raccolte più raffinate del
tempo anche se però, alla sua morte, il suo successore Sisto IV ne donò una parte a Lorenzo il
Magnifico per creare un’alleanza con Firenze.
Per Sisto IV la raccolta doveva avere uno scopo politico e propagandistico e non estetico e personale.
Nel 1471 dona, come si legge nell’epigrafe commemorativa sulla lapide che lo attesta, un importante
nucleo artistico alla città di Roma: dei bronzi, la Lupa simbolo della città, lo Spinario, la testa di
Costantino, l’Ercole e altro ancora. Ciò va visto in chiave politica. Il Campidoglio, simbolo terreno
della perfezione morale, diventa punto di raccolta della donazione papale e quindi il primo museo
aperto al pubblico (il popolo può fruire del proprio patrimonio) trasformando questo complesso
monumentale da municipale a papale, da luogo politico a Museo (che più tardi verrà ristrutturato da
Michelangelo con una pavimentazione che trova come centro la statua di Marco Aurelio.
Giulio II continuando il lavoro dei suoi predecessori porta però avanti un programma che celebri al
massimo il potere temporale dei pontefici. Dal Campidoglio l’interesse si sposta al colle del Vaticano
che il papa vuole trasformare nella sede del nuovo monarca cristiano. Nel 1505 da l’incarico a
Bramante di incorporare la villa di Innocenzo VIII in un vasto complesso che prevedeva un teatro, una
biblioteca, un museo e un giardino. Bramante, basandosi sugli antichi realizza un edificio che
rispecchia l’antica Roma. Viene creato uno spettacolare giardino che diviene una sorta di museo
all’aperto, ricco di statue, fontane, nicchie a stretto contatto con la natura. L’intento era però quello di
spogliare le statue della loro connotazione pagana e di proiettarle come simboli cristiani universali. Il
Belvedere venne definito come bosco sacro proprio per la sua grande suggestione tra arte e natura.
Campidoglio e Vaticano divennero così i punti di raduno delle raccolte anche se il secondo non era
visibile a tutti.
Con Leone X l’interesse per l’antico si fa sempre più forte tanto che si iniziano veri e propri scavi per
trovare reperti (viene scoperta la Domus Aurea di Nerone). Uno dei protagonisti di quegli anni è
sicuramente Raffaello che vede nell’antico non soltanto un modello supremo a cui ispirarsi ma anche
come qualcosa che va difeso e conservato (lo scrisse anche a Leone X in una lettera). Raffaello venne
nominato dal papa ispettore generale delle belle arti, fatto che testimonia appunto questo interesse di
salvaguardia del patrimonio artistico. Ancora fino al ‘500 la conservazione era tesa a conservare
l’assetto urbanistico della città; dal Settecento invece si inizierà a intendere la conservazione come
salvaguardia dei beni artistici (‘800: editto del Cardinale Pacca).
Fuori Roma ciò avviene in tempi diversi. A Napoli l’umanesimo fu un fenomeno prettamente
d’importazione. A Bologna e a Milano si era più rivolti allo studio e al commento di testi classici
seguiti quindi da un’attività filologica, di insegnamento universitario e a volte di collezione di materiali
e monete e sulla creazione di enciclopedie scientifiche.
Sul piano collezionistico il recupero dell’antico è tentato dall’umanista e storico Paolo Giovio,
formatosi presso le corti erudite di Roma e Firenze. Nella seconda metà del ‘500 fa costruire una villa
sulle sponde del lago di Como, una dimora isolata composta di vari ambienti interni e di portici, cortili
e giardini destinata ad ospitare la sua grande collezione che viene definita (per la prima volta) da
Giovio come “iucundissimo museo”. Torna così quel termine nato nel periodo ellenistico che intendeva
un luogo di studio protetto dalle divinità. Per Giovio per la prima volta ciene utilizzato per indicare la
sede apposita per la raccolta. Egli divide la sua collezione per generi (letterati, artisti, regnanti,
guerrieri,…). Creò così un’enorme galleria di originali e di copie che stimolò anche il Vasari che
doveva corredare le sue vite con delle incisioni e che conobbe fortuna in tutta Europa. La novità del
Giovio fu quella di creare un nuovo rapporto con il visitatore, l’amatore. Allo studiolo si sostituirono
più ambienti come saloni, logge, cortili che più avanti sarà sostituito (‘600) dalla Galleria. Dalla sfera
del privato si passa così alla fruizione pubblica.
Molti di questi allestimenti di collezionisti si sono in parte perduti ma possiamo ancora conoscerli
grazie alle fonti scritte e alle incisioni.
Molti usavano decorare e riempire di statue le facciate esterne e interne che davano sul cortile, per dare
un’idea ai passanti delle meraviglie che si potevano trovare all’interno (es. Facciata interna del Palazzo
Caprinica della Valle, la facciata della villa del Cardinale Ferdinando de’Medici a Trinità dei Monti e il
cortile del palazzo Mattei realizzato da Carlo Maderno. Si possedevano pezzi moderni ed antichi. Si sa
che il banchiere Jacopo Galli avesse nel suo giardino il bacco di Michelangelo.
Accanto alla raccolta di oggetti più imponenti c’erano anche quelle meno costose di monete, cammei e
medaglie, anche se questi non erano più raccolti come emblemi e documenti storici del passato (come
Petrarca) ma per il loro valore estetico (Paolo II e Lorenzo il Magnifico). Per gli storici queste
servivano invece come importante testimonianza sia visiva che documentaria per le scritte che vi
riportavano. Come già detto i reperti da casuali iniziarono a seguire una ricerca organizzata tramite
scavi.
Le collezioni fiorentine e gli Uffizi nel Cinquecento

Quello di Firenze appare sicuramente meno antiquario ed erudito rispetto a quello romano: aveva
sicuramente più finalità politiche e di prestigio.
Mentre per le raccolte medicee è più facile delineare un profilo, ciò appare più difficile per le altre
famiglie patrizie. Dopo la cacciata dei medici e l’avvento della Repubblica Firenze aveva sicuramente
un periodo travagliato del quale risentirono anche le collezioni. Dopo che molte raccolte andarono
perdute iniziò anche qui la volontà di salvaguardare il patrimonio rimasto. Inizia così una politica
protezionistica da parte dei Medici soprattutto con la fondazione dell’Accademia delle Arti e del
Disegno nata nel 1563 che voleva appunto salvare la gloria culturale e artistica della città. La figura di
Andrea del Sarto fu sicuramente di grande importanza nell’ambiente toscano, da seguire come modello
come lo era Michelangelo a Roma.
Importante fu l’abitazione di Ottaviano de’Medici contigua agli orti medicei di San Marco. Egli, come
scrisse il Vasari, aveva raccolto opere sia moderne che antiche ed era stato il primo a raccoglierle e a
restaurarle.
Nel frattempo Palazzo Vecchio divenne residenza di Cosimo e venne fatto restaurare: acquistava un
senso di glorificazione e di potere politico. L’ampliamento e la decorazione dei nuovi ambienti ducali
vennero affidati al Vasari e alla sua bottega e si ispiravano al gusto dell’antichità romana (Domus
Aurea). Tutto ciò che era scampato dalle guerre precedenti era stato tenuto nella Guardaroba, che aveva
il compito di conservare e distribuire nel palazzo gli oggetti. C’erano anche altri ambienti atti a
contenere oggetti preziosi, come il Tesoretto. Lo scrittoio, altro ambiente, conteneva una grande
quantità di ritratti di famiglia e molti oggetti di piccole dimensioni, molto amati da Cosimo. Iniziò
anche un interesse verso l’arte etrusca che acquistò anche valori ideologici perché la Toscana voleva
rivendicare la propria indipendenza dai romani dicendo appunto che discendeva da questo popolo.
Sono infatti molte le statue e altro di epoca etrusca collezionate da Cosimo (es. Minerva). Anche se
poco più avanti si tornerà all’interesse per la cultura romana anche per interessi politici.
Palazzo Pitti, prima di diventare dal 1588 residenza di Ferdinando I, era destinato agli ospiti illustri. La
sala più celebre era quella della Nicchie dove vi erano 35 grandi statue entro nicchie e più di 200 ritratti
della famiglia. Essa rappresentava una delle più grandi raccolte di statue che poteva competere quasi
col Belvedere vaticano.
L’amore di Cosimo verso la scienza e l’astrologia lo portò alla creazione, in Palazzo Vecchio, della sala
delle Carte Geografiche, dove al centro vi era un enorme globo e alle pareti dipinti di parti del mondo e
di scienziati famosi. Qui si può vedere anche la sua passione per gli arazzi, realizzati nelle Fiandre che
però lui inizierà a far produrre anche in Toscana. Una parte della raccolta di Giovio passò alla
collezione di Palazzo Pitti.
Francesco I, figlio di Cosimo, inizialmente aveva degli interessi diversi da quelli del padre. Egli fu
molto legato a Bernardo Vecchietti, protagonista del Riposo del Borghini (opera in forma di dialogo fra
vari intellettuali e collezionisti). Egli sarà infatti consigliere e agente del granduca e sarà lui che gli farà
conoscere lo scultore Giambologna. Francesco si fece costruire la villa suburbana chiamata da egli
stesso “il riposo”, con un grande parco disposto su più livelli e una raccolta posizionata in più stanze.
Altra personalità del Riposo del Borghini era lo scultore Rodolfo Sirigatti che possedeva una collezione
che era dislocata in cinque ambienti nella sua casa a Firenze. La prima e la quinta erano funzionali
all’esercizio dell’arte e possedevano statue e altri oggetti, mentre le altre tre erano una sorta di studiolo
dove c’era anche il ritratto dello scultore Bandinelli eseguito da Andrea del Sarto.
Importante era anche la collezione principesca di Alberto V di Baviera a Monaco che l’aveva suddivisa
in cinque categorie di argomenti: storia sacra e famiglia; prodotti artistici; prodotti naturali; strumenti
musicali; dipinti, incisioni e stampe. La sua collezione poteva essere considerata come un ritratto per
gli occhi che mostrava appunto tutte le categorie esistenti.
Altra raccolta nobiliare importante fu quella dei Salviati soprattutto per la parentela stretta che avevano
visto che Maria Salviati era stata sposa di Giovanni Medici detto delle Bande Nere (padre di Cosimo).
Anche nel loro palazzo ebbero modo di allestire una galleria con una serie di statue di gusto romano, le
soggette nel cortile realizzate dagli stessi artisti di corte medicea che potevano quindi paragonarsi con
quelli di Cosimo.
Altra collezione importante fu quella di Niccolò Gaddi che possedeva un palazzo con un grande
giardino, un orto botanico, una galleria, uno studiolo e altri ambienti. Egli fu grande amico di
Francesco I e fu anche luogotenente dell’Accademia delle belle Arti. I suoi gusti erano soprattutto per
gli oggetti più particolari e bizzarri come oggetti esotici accostati però anche a statue classiche e ad una
raccolta di disegni che non si era mai vista oltre a quella di cui si era parlato del Vasari. Egli prima di
morire lasciò delle disposizioni sul suo “paradiso dei Gaddi” (così chiamato) che doveva essere fruibile
a tutti.
Fino alla morte di Cosimo, gli interessi di Francesco non erano stati quelli a scopo celebrativo o
commemorativo della famiglia. Ma poi anch’egli si diresse verso questa direzione portando avanti uno
dei progetti più importanti della storia del collezionismo. Gli Uffizi, edifici a scopo amministrativo fatti
costruire da Cosimo a Giorgio Vasari, vennero trasformati come luogo di collezioni. Proprio per questo
fece realizzare dal Buontalenti la tribuna ottagonale e la loggia superiore. La collezione era disposta
lungo i due corridoi e lungo e stanze suddivise per categorie. La tribuna non conteneva le raccolte per
categorie ma secondo un programma visivo estetico. Le opere esposte dovevano solo suscitare la
meraviglia e lo stupore degli spettatori. Gli Uffizi, grande contenitore delle raccolte medice, già dalla
sua apertura al pubblico nel 1584 (pubblico in senso ristretto) aveva due principali scopi: quello
conservativo del patrimonio della famiglia e quello celebrativo sempre di questa. E’ da considerarsi la
seconda collezione aperta al pubblico dopo la donazione di papa Sisto IV al Campidoglio (Palazzo dei
Conservatori e Palazzo Nuovo sede dei musei Capitolini).

Antico e moderno nelle raccolte di Padova, Verona e Venezia

Già dal Cinquecento il Veneto fu molto attento al recupero dell’antichità classica ma allo stesso tempo
si occupò anche dell’arte contemporanea. A seconda della città ma anche delle singole persone gli
interessi potevano cambiare anche se tutti mostrarono attenzione per il recupero dell’arte classica
proveniente dalla Grecia.
A Padova iniziò un grande interesse per l’antiquario e per il finto antico. Da ricordare è la raccolta
dello studioso e scrittore Pietro Bembo di gusto umanistico e antiquario. Opera di grande importanza
per capire il profilo delle collezioni dell’Italia settentrionale è “Notizia di opere del disegno” del
veneziano Marco Antonio Michiel, fonte insostituibile per capire come avveniva il collezionismo in
questo territorio (egli cercò di creare anche un catalogo degli artisti e opere mai portato a compimento).
Nella collezione del Bembo spiccava la famosa “mensa iliaca”, tavola in bronzo con figure egiziane
d’argento, numerosi busti e ritratti antichi e dipinti. Possedeva anche un manoscritto miniato di Virgilio
risalente al V secolo.
Altra raccolta importante era quella del giurista e letterato Marco Mantova Benavides. Qui oltre alle
notizie del Michiel si può ricorrere al testamento del proprietario che stabiliva che la raccolta non
doveva essere dispersa dopo la sua morte. Come si legge in un inventario egli aveva disposto le sue
opere in tre ambienti: lo studio, lo studietto e lo studio grande. Ogni oggetto si trovava in apposite
scansie intervallate da nicchie con statue antiche di marmo o gesso. Più in alto erano invece appese
stampe e quadri. Con l’estinzione della famiglia Benavides il patrimonio passò prima ad un'altra
famiglia e poi venne donato alla Repubblica di Venezia.
Anche a Verona si assiste ad un gusto per l’antico romano. La più importante è quella nel Palazzo di
Mario Bevilacqua. Esso ospitava un enorme museo privato dislocato in più stanze con una galleria, una
biblioteca, uno studio e altro ancora che venne definito l’albergo delle Muse.
A Venezia una fisionomia del collezionismo è più difficile da delineare. Prima di tutto si trattava di una
città priva di una corte principesca ma sorretta da una solida oligarchia aristocratica dove ogni famiglia
cercava di avere e di esporsi di più rispetto alle altre. Dunque per glorificare il proprio potere si
investivano ingenti somme di denaro in opere d’arte, biglietto da visita per avere una posizione d’alto
rango.
Il Tesoro di San Marco da ducale divenne pubblico e venne arricchito da nuovi oggetti preziosi. Anche
tutti gli altri beni della chiesa venivano sentiti parte del popolo.
Per quanto riguarda le raccolte private queste erano costituite prevalentemente da piccoli e medi oggetti
antichi o da ritratti, genere che riscosse un grande successo a Venezia, che aveva scopo celebrativo
(Giovanni Bellini). Dunque era un misto di anticaglie e di opere contemporanee.
Sempre da Michiel possiamo sapere com’era strutturata la raccolta del ricco mercante milanese Andrea
Odoni. Ma anche dal Vasari si hanno notizie: egli la definì “albergo dei virtuosi” per la liberalità con
cui era aperta a letterati ed artisti. Nella corte da basso erano esposte statue antiche e moderne; nello
studio del primo piano vi erano oggetti di piccole dimensioni; nella loggia che serviva da collegamento
tra le stanze vi erano quadri e nella camera da letto tra i vari quadri di arte sacra spiccava il ritratto
dell’Odoni dipinto da Lorenzo Lotto.
La collezione era uno strumento di elevazione spirituale, morale e sociale nei confronti degli altri.
Altra raccolta era quella della famiglia Vendramin (immagine) che però appare decisamente orientata
verso l’arte contemporanea: in particolare la pittura fiamminga e i dipinti di Giorgine del quale
possedeva la tempesta. Era dunque un genere di temi indeterminati spesso con paesaggi, interni o altro
e non storici, religiosi. La paura del Vendramin, che aveva impiegato soldi e tutta la sua vita per questa
raccolta, era che le sue opere fossero disperse nella famiglia: così le vincolò col fidecommesso, legge
che ne impediva la dispersione e che manteneva il nome del proprietario legittimo (ricordare il proprio
nome).
A metà del Cinquecento iniziò a Venezia una notevole attività edilizia tesa alla costruzione di nuove
imponenti dimore più che all’acquisto di piccoli oggetti. Questi investimenti della Serenissima
(Repubblica di Venezia) influenzarono i collezionisti che spesso lasciarono la propria raccolta non più
agli eredi ma agli edifici pubblici. Come la donazione del Cardinale Domenico Grimani, ricca di
sculture e di ritratti e che poteva vantare di una delle biblioteche più grandi d’Europa, costituì un
enorme patrimonio per la Serenissima. La donazione venne posta nell’antisala della Libreria Marciana.
Per quanto riguarda l’allestimento ci sono rimasti dei disegni che lo illustrano di Zanetti (a sanguigna).
Lo statuario Grimani fu sicuramente la raccolta di statue più cospicue della città.
Lo Statuario Grimani è da considerarsi il terzo Museo Pubblico in Italia anche se questo si differenzia
perché fu il risultato di un singolo benefattore che voleva tramandare ai posteri il proprio nome.

Gallerie e quadrerie nobiliari

Dal Cinquecento lo studiolo, quel luogo minuto di impronta umanistica in cui vi potevano accedere
pochissime persone, viene sorpassato dalla Galleria, più ampia sia da un punto di vista spaziale che
concettuale. Si trattava di un ambiente grande atto a contenere una grande quantità di opere al quale
potevano accedere molte più persone (più prestigio della famiglia).
La galleria aveva impronta classica anche se a quel tempo era vista come un luogo per esporre oggetti
celebrativi. Nel Cinquecento essa ebbe il suo slancio in Francia dove venne concepita come luogo di
passaggio e passeggio al coperto. Diversa fu invece la sua funzione in Italia che servivano in primo
luogo a far risaltare i gusti e il prestigio del proprietario.
Il primo esempio in Italia è sicuramente quello della Galleria di Sabbioneta realizzata per volere del
duca Vespasiano Gonzaga che presentava trofei di caccia, statue, busti e altro ancora. Da qui la gallerai
divenne un accessorio architettonico indispensabile per farsi notare dalla società. Ma divenne anche il
primo ambiente che aveva uno scopo conservativo e di radunanza del patrimonio principesco, come
quello di Cesare Gonzaga a Mantova, un enorme museo eclettico che presentava opere di diverso tipo.
Cesare si faceva consigliare dal vescovo Girolamo Garimberto, anche lui proprietario di una cospicua
collezione.
Altra galleria imponente era quella “della Mostra” a Mantova di Vincenzo I Gonzaga, ricca di busti e
quadri in nicchie.
Anche a Milano si assiste alla diffusione di questo ambiente, in particolare nelle dimore delle famiglie
più importanti come i Visconti e i Magenta. Sono molte le testimonianze scritte che attestano la
diffusione della galleria in molte città italiane.
Particolare era l’interesse di Carlo Emanuele I duca di Savoia che trovò affinità col gusto eclettico del
poeta Marino. Egli amava i reperti antichi e intraprese anche la realizzazione una galleria che doveva
collegare il palazzo Vecchio col Castello e doveva ospitare tutte le opere del duca che dovevano
mettere in mostra le imprese celebrative della famiglia (avevano anche uno scopo politico per
rafforzare i legami culturali con la corte di Filippo II). L’impresa della galleria venne portata avanti da
Federico Zuccai (pittore forestiero) e da una grande quantità di collaboratori per terminare velocemente
il lavoro.
A Verona grande peso fu dato dalla famiglia Giusti che oltre ad uno splendido giardino possedeva
anche una galleria. In un ambiente che venne unito alla galleria, la boscareccia, vennero inserite molte
opere con soggetti derivati dai poemi tasseschi che in quel periodo erano molto di moda (quindi
interesse per opere contemporanee).
A Roma la galleria acquista un assetto più scenografico e celebrativo che doveva ospitare opere di tutti
i generi. La villa realizzata per Scipione Borghese non serviva da dimora per quest’ultimo ma solo per
il piacere degli amici e degli ospiti. Le pareti a differenza di quelle in Francia rivestite di stucchi qui
venivano lasciate lisce per far risaltare gli arredi e i quadri.
C’è però da ricordare che un genere non ancora entrato a far parte delle raccolte era quello delle nature
morte e di vita quotidiana perché ovviamente non serviva a esaltare la famiglia o la casata.
A Firenze sotto il periodo di Ferdinando III de’Medici si passò invece ad apprezzare il genere
paesaggistico e quotidiano fiammingo. Ma ovviamente vi erano tendenze all’interno della città.
Una sorta di Panteon fiorentino era la casa del filosofo Baccio Valori che possedeva opere di epoche e
generi diversi.
Più fastose e celebrative furono i palazzi di Genova, come il palazzo Durazzo che conteneva
ricchissime collezioni (copie, imitazioni dell’antico, originali, opere moderne,…).
L’evoluzione della galleria è assai rapida e si passa dalle ancora piccole collezioni di Cesare Gonzaga a
Mantova a quelle più imponenti e celebrative della villa di Scipione Borghese, della galleria di Carlo
Emanuele I di Savoia a quella di Baccio Valori a Firenze e al palazzo Durazzo a Genova.
Per poi passare a quelle col significato più attuale di esposizione e pinacoteca della galleria Visconti a
Milano, dei Giusti a Verona (esposizione-conservazione).

Musei ideali e gallerie poetiche


Nel Rinascimento ci fu una spinta verso un coordinamento razionale, la volontà di seguire le leggi della
natura e di creare una città ideale. Questa città non aveva legami con la realtà, sia sul piano
architettonico che ideologico; era più che altro un esempio di come avrebbe dovuto vivere la società del
tempo.
Una di queste città si può trovare nell’opera composta da Tommaso Campanella (filosofo domenicano),
“La città del sole”, che prendeva come spunto eventi reali e andava contro al bigottismo del regime
spagnolo nel meridione. Secondo Campanella questa doveva essere fondata su principi di uguaglianza e
comunità dei beni, dove tutti i cittadini erano liberi da qualsiasi pressione ideologica e condizionamenti
politici: tutto ciò basandosi sulle idee della Repubblica di Platone.
L’opera di Campanella proponeva dunque un nuovo assetto di civiltà sia sul piano politico che
religioso e serviva da strumento pedagogico. Egli la concepì a pianta circolare formata da sei gironi
sulle cui mura erano disegnati minerali e pietre preziose, animali, piante, figure geometriche e le arti
meccaniche: questa visione doveva stimolare le capacità individuali di ognuno e la capacità di
apprendere queste scienze rappresentate. Questo può essere paragonato ad un museo ideale dove
Campanella ha cercato di suddividere in categorie il sapere universale. Purtroppo questo nuovo tipo di
sistema conoscitivo non fu assimilato dalla società del tempo.
Oltre alla città ideale si elaborarono altri modelli concettuali come i “musei ideali” che nasce dalle
collezioni private e dalle raccolte pubbliche (Uffizi, donazione capitolina, lo Statuario Grimani) e
anche dal nuovo spazio diffusosi in quegli anni, la galleria.
La Galeria del Marino può essere considerato di questo genere. Si trattava di una raccolta poetica che,
cercando di stupire e meravigliare il lettore, passava in rassegna descrivendo e commentando una serie
di opere. Tutto questo catalogato per generi, per contenuto e per tecnica. La parte poetica serviva da
compendio alla parte figurativa seguendo il detto graziano ut pictura poesis che rappresentava proprio
questo rapporto fra le due arti: poesia è pittura parlante e pittura poesia muta. Egli stabilisce così un’
unione tra l’opera d’arte e la sua descrizione.
Molte opere divennero anche spunto di metafora, come la testa della Medusa del Caravaggio (del
Marino) fu descritta come esaltazione della virtù dei sensi.
Altro museo ideale è quello del Boschini che nel suo “La carta del navegar pittoresco” (dedicata
all’arciduca Leopoldo Guglielmo per il quale David Teniers aveva dipinto la collezione di quadri) crea
una guida rimata su tutte le bellezze di Venezia. L’opera di Boschini si può considerare un
corrispondente scritto dei quadri che aveva realizzato Teniers per l’arciduca. Egli inoltre da dei consigli
per l’allestimento e la scenografia delle opere.
L’opera del Marino ha come scopo il gusto del meraviglioso mentre quella del Boschini si concentra
più sull’ambientazione e sul tipo di allestimento da utilizzare.
Alcuni di questi musei si concretizzarono in collezioni particolari, come le raccolte di stampe: il Libro
dei disegni del Vasari e il Museum Chartaceum di Cassiano del Pozzo ne sono degli esempi.
Un altro genere utilizzato furono le ekfrasis, genere poetico tardo antico, che descriveva un’opera
d’arte che seguivano sempre l’assioma (principio universale) dell’ut pictura poesis e poesia pittura
parlante e pittura poesia muta.
Come il sonetto di Petrarca che elogiava le capacità pittoriche di Simone Martini nel ritratto della sua
amata Laura. Il ritratto divenne infatti un genere molto usato nelle corti sia per scopi celebrativi che
civici: Lionello d’Este promosse addirittura una gara nel 1441 a Ferrara per chi sarebbe riuscito a fargli
il ritratto più bello: vinse Jacopo Bellini (oggi perduto) ma ce ne è rimasto uno del Pisanello.
Il quadro leonardesco di Cecilia Gallerani (la dama con l’ermellino) è certificato della sua autenticità
del pittore dal sonetto del poeta Bellincioni.
Il ritratto perse pian piano la sua funzione celebrativa per divenire oggetto di fruizione estetica.
Anche il ritratto dell’amata realizzato da Raffaello (la Fornarina) è accompagnato da una descrizione
poetica dello stesso pittore, che mostra così anche la sua formazione letteraria.
Anche Tiziano cerca, nel ritratto all’ambasciatore di Carlo V Don Diego Hurtado, di concentrarsi sulla
parte psicologica del personaggio per mostrarne la spiritualità.
Anche il ritratto della poetessa Laura Battiferri, dipinto dal Bronzino, viene esaltato dalle rime del
Lasca. Insomma si va a formare un rapporto strettissimo tra arte e letteratura: l’ekfrasis da pure
descrizione del soggetto diventa ricca di contenuti.
Anche la pittura del Caravaggio venne utilizzata per descrizioni letterarie, come “La Buona ventura”
che venne commentata dal Murtola in un suo madrigale per esaltarne il contenuto di inganno e
disinganno del protagonista.
Diversa è la “Pinachoteca” di Michele Silos che illustra le più significative sculture e pitture delle
chiese di Roma: questo può essere considerato un ottimo documento per conoscere le raccolte e la loro
ubicazione anche se qui si privilegia lo svolgimento del soggetto e non lo stile.
Un testo molto usato per soggetti pittorici fu La Gerusalemme Liberata, come si può vedere nel dipinto
del Furini che mostra la pittura che vince sulla poesia.

Sui criteri di disposizione, decorazione e arredo degli spazi interni e sulle modalità di
allestimento dei dipinti e dei disegni.

In Italia ,fino al Settecento, non si trovano vere guide e manuali che indichino norme di allestimento o
regole per disporre quadri tranne che in trattati di architettura o inventari.
Un primo passo avanti lo troviamo nel trattato architettonico, “De re aedificatoria” di Leon Battista
Alberti che distingue tre tipi di edifici. La casa privata egli mette in risalto l’importanza della
disposizione di ambienti, arredi e quadri. L’unico ambiente pubblico della casa era per lui la biblioteca.
Due manuali che servivano anche come norme di comportamento furono il “Cortegiano” di Castiglione
come modello di vita dell’aristocrazia e il De Cardinalatu di Paolo Cortesi come modello di vita per
l’aristocrazia ecclesiastica. Il Cortesi concepiva la casa divisa in tre zone: quella intima, privata e
pubblica.
Il Parlotti invece diede dei suggerimenti nella scelta dei quadri dividendo quelli immorali da quelli
leciti (per il Concilio tridentino di quegli anni).
GianPaolo Lo mazzo nel suo Trattato dell’Arte elenco i contenuti più convenienti per i vari ambienti.
Con la metà del Seicento i luoghi pubblici nella casa aumentano: oltre alla biblioteca vi sono la galleria,
i saloni di ricevimento e le sale di lettura che vengono concepiti come veri e propri luoghi di
esposizione.
Da qui si cercano di individuare le modalità di allestimento e i criteri di disposizione degli arredi e delle
opere d’arte. La corrente barocca porta ad un nuovo tipo di allestimento detto ad “incrostazione”: i
dipinti vengono collocati sulla parete senza spaziature e senza riguardo alla loro visibilità. Il grande
collezionista Vincenzo Giustiniano, dopo aver distinto lo stile della pittura contemporanea in dodici
maniere, disse che amava ricoprire completamente di quadri tutte le pareti. Tutto veniva assemblato:
quadri, emblemi, rilievi, iscrizioni per dare una visione globale dell’arte che però non dava
l’opportunità di distinguere le opere singolarmente. Oltre alle testimonianze letterarie ne abbiamo
anche di pittoriche che mostrano questo tipo di allestimento, per esempio nel quadro che mostra La
galleria dell’arciduca Guglielmo a Bruxelles di Teniers.
Di grande importanza sono i disegni di Diacinto Marmi, architetto e arredatore delle residenze medicee,
autore di un’opera che descriveva l’allestimento che doveva compiersi in Palazzo Pitti per le nozze di
Cosimo II e Margherita d’Orleans. Egli concepisce l’arredamento come una fusione di arti. Un altro
suo allestimento è quello per la villa di Poggio Imperiale che rappresentano una fonte importante.
A causa dell’abolizione del fidecommesso nell’800 grandi collezioni e ambienti andarono perduti e
quindi ci rimangono solo fonti scritte.
Sempre nel Seicento diverso fu il gusto di Cassiano del Pozzo che invece suggeriva di tenere i quadri a
una certa distanza e di suddividerli per generli per non creare confusione. Questi criteri sono visibili nei
due quadri dello Schoenfeld, Trattenimenti musicali, dove si nota appunto una più giusta simmetria di
allestimento.
Altra opera che merita attenzione è quella di Giulio Mancini, Considerazioni sulla pittura, dove nel
capitolo decimo, “regole per comprare, collocare e conservare le pitture”, suggerisce quali sono i generi
pittorici da collocare in certi ambienti (li divide in: i soggetti licenziosi nelle camere private, paesaggi e
carte geografiche in ambienti di passaggio, i soggetti religiosi nelle camere da letto,…). A loro volta
questi venivano divisi per dimensione e tecnica.
Così si inizia a perdere quel tipo di allestimento ad “incrostazione” per uno più simmetrico e ragionato,
proprio perché come avevano notato alcuni, prima si potevano trovare dei quadri appesi senza criterio
dove spesso i più beli e importanti si trovavano lontano dall’occhio mentre quelli meno importanti in
basso.
L’ordinamento del Mancini avrà grande riscontro nel Settecento nelle pinacoteche pubbliche finalizzate
a scopo didattico (Uffizi, museo di Dresda in Germania).
Come la pittura anche le stampe e i disegni vengono viste in maniera diversa: gli artisti le concepivano
come exempla e modelli professionali ma molti le utilizzavano per le proprie collezioni. Come già
detto molti cercarono di ordinarle in veri e propri libri, come il Vasari che le riunì in undici tomi
ordinati cronologicamente mentre Cassiano del Pozzo li ordinò per temi e argomenti.
Anche il cardinale Leopoldo, fratello del granduca Ferdinando II, su esempio del Vasari si fece creare
una sorta di storia dell’arte mediante ese,pi di grafica dal suo storiografo Filippo Baldinucci. Più avanti
le stampe acquistarono importanza venendo incorniciate o messe sotto vetro per essere appese alle
pareti.

Virtuosi, dilettanti e conoscitori

Per Torquato Tasso l’antiquario era una persona che sapeva eleggere il meglio e insegnare il vero. Nel
Cinquecento questa figura venne associata ad uno studioso dell’antico, un collezionista, ma non ancora
ad un commerciante. Conoscente e conoscitore erano invece associati all’artista.
Fu nel Seicento che per la prima volta si cercò di fissare i metodi e i criteri per gli arredi, per gli
acquisti e per tutto ciò che riguardava il mondo dell’arte (Giulio Mancini, Vincenzo Giustiniano,…).
Pian piano la figura del conoscitore inizia ad assumere un ruolo indipendente dall’artista e dal
committente. Anche il rapporto stretto tra artista e committente iniziò a cambiare: ad allentare questo
legame furono le mostre annuali o periodiche come quelle presso il Pantheon o a Venezia a San Rocco
dove l’artista proponeva le sue opere ma questa volta frutto del proprio gusto personale sia tematico
che soggettivo. In questo modo l’artista si faceva conoscere per quello che era e non per le opere che
gli venivano commissionate (obbligo) da altri. Ciò fece conoscere maniere e stili diversi e molti artisti
poco noti acquistarono importanza. Un caso emblematico fu quello dei Bamboccianti (Gruppo di pittori
olandesi, fiamminghi e italiani del XVII secolo, attivi a Roma, accomunati dalla ripresa di stilemi e
tratti compositivi propri della produzione del pittore olandese Van Laer, chiamato Bamboccio per il suo
aspetto deforme, che amava scene della vita quotidiana popolare). La storiografia contemporanea li
vedeva negativamente ma nonostante ciò vennero molto apprezzati dai collezionisti.
La figura di cui si è detto prima, il conoscitore o dilettante, fu sicuramente importante in quel periodo:
si trattava di uomini colti ed eruditi che non praticavano il mestiere dell’arte e che esprimevano i loro
giudizi sulle opere (come GianPietro Bellori). Questi facevano parte di quella nuova borghesia formata
da scienziati, bibliotecari, letterati, medici ai quali si deve la formazione di collezioni quasi
specialistiche lontane dal fasto e dal caos delle gallerie nobiliari. Altra figura importante fu quella del
mercante, che svolgeva l’ufficio di talent-scout dei giovani artisti. In particolare a Venezia i mercanti
ebbero un ruolo importante: qui svolgevano il commercio con le più grandi potenze straniere.
A Napoli invece si cercò di non disperdere il proprio patrimonio, anzi si cercò di incrementare per
arricchire il proprio status. Un genere che qui trovò particolare successo fu quello dei paesaggi
fiamminghi. Altro tipo di gusto si ritrova nelle stampe che dal Settecento avranno largo successo.
Ma cambiò anche la stessa immagine del collezionista che non era più solo un ricco aristocratico ma
anche un più modesto borghese, come il Brontino, modesto libraio ma anche commerciante che
possedeva una piccola collezione. Insomma si ha una varietà di collezionisti ma anche di generi
collezionati per i nuovi stili che vengono apprezzati. Proprio sugli stili ci si deve soffermare perché è su
questo che ora si muove l’interesse delle persone e non più solo sul significato e sul contenuto
dell’opera. Alcuni cercano addirittura di rilevare le differenze di stili tra territori ma anche tra gli stessi
pittori anche per individuare l’autore di un’opera non firmata. Così il Mancini cercava di aiutare chi
acquistava quadri a non farsi imbrogliare dall’infido mondo dei commercianti ma saper riconoscere un
falso da un originale e un autore da un altro. Forse questo tipo di procedimento che divenne quasi
scientifico derivava dalla sua attività di medico che appunto passava la vita a cercare e capire i sintomi
del corpo umano.
Marco Boschini cercò di capire invece i vari stili veneziani e diede le basi per lo studio
dell’attribuzione (di un quadro a un pittore) o connoisseurship.
Per il Lanzi per diventare un buon conoscitore bisognava anche studiare gli abbozzi e i disegni
preliminari dell’artista perché è lì che si vedeva al meglio il suo estro artistico.
Così furono in molti a delineare un profilo di come doveva presentarsi il conoscitore. La cosa sicura
che proprio grazie ai dilettanti il gusto dei collezionisti trovò correnti alternative e divergenti dal gusto
ufficiale.
Dalla meraviglia al metodo: Wunderkammern e raccolte scientifiche *

Dal Cinquecento iniziò un intenso interesse per il mondo naturale. Ma la cosa più importante e che
cominciò un lavoro di revisione e di critica dei testi classici fino ad allora indiscussi (Aristotele, Plinio,
…). Tutto questo per una nuova voglia di conoscere i fenomeni naturali e di sperimentare tutto quello
che era possibile. Tutto questo grazie alle scoperte di Galileo e anche per la scoperta del nuovo mondo
e quindi di nuove forme animali e vegetali. Di grande importanza è la figura del medico e naturalista
bolognese Ulisse Aldroviandi che cercò di classificare la realtà naturale e di conoscere le nuove terre
lontane. Egli sperimentò un tipo di raffigurazione e illustrazione delle forme vegetali e animali che si
realizzò nella creazione di un archivio completo della natura. Egli possedeva una collezione di reperti
artistici e antiquari che però avevano come tema dominante quello della botanica e della zoologia che
serviva da compimento alla sua enciclopedia illustrata. La sua raccolta doveva servire anche per la
formazione a Bologna di medici e speziali: infatti nel suo testamento scrisse esplicitamente che la
raccolta doveva essere tutelata per la fruizione di tutti. Di questo interesse per il mondo naturale i centri
propulsori sono sicuramente le farmacie, gli orti botanici e gli erbari che raccoglievano tutti i tipi di
elementi anche da terre lontane. Si differenziavano così dalle grandi collezioni di corte che pur
possedendo questi tipi di oggetti li lasciavano insieme ai manufatti artistici e quindi non in una loro
specifica categoria. E proprio grazie a questi nuovi dilettanti di origine borghese nascono questi musei
privati specializzati volti a raccogliere il più possibile di una determinata categoria.
La collezione di Michele Mercati era corredata da un ricco catalogo illustrato, la Methalloteca.
Altre collezioni specializzate furono quelle del veronese Francesco Calzolai e del napoletano Ferrante
Imperato. La raccolta del Calzolai, rivolta alle piante officinali e a campioni minerali, divenne un vero
e proprio museo. E così anche quella dell’Imperato, composta da un ricco erbario, divenne una delle
meraviglie di Napoli. Le incisioni dei cataloghi dell’Imperato e del Calzolai ci possono dare un’idea di
come venivano esposti gli oggetti: i più particolari e grandi appesi in alto mentre i più piccoli disposti
in scaffali. La disposizione obbediva a canoni estetici più che funzionali e di studio, in opposizione alle
Wunderkammern quattrocentesche, prima di tutto perché più specifiche e in secondo luogo venivano
usate anche come elementi per nuovi esperimenti e teorie. Col Seicento si cerca anche una separazione
della scienza dall’arte formando così due tipi di collezioni diverse: così quelle artistiche dovevano
servire come strumenti di pressione ideologica e glorificazione personale mentre quelle scientifiche per
mostrare le meraviglie della realtà e per proporne la conoscenza. Diversa era invece la concezione
all’estero dove non esisteva ancora un tipo di specializzazione come quello italiano.
Anche a Roma si porta avanti questo nuovo tipo di raccolta anche se il tipo di allestimento risponde
ancora a canoni artificiosi e scenografici perché l’intento era quello di stupire il più possibile lo
spettatore mostrando tutto quello che poteva esistere in natura (es. museo di Kircher ).
Anche il bolognese Francesco Cospi pubblicizzò la propria raccolta con un catalogo ricamente
illustrato dal Legati. Da come si può notare dall’incisione iniziale del catalogo gli oggetti erano
sistemati ordinatamente in scaffalature con uno scopo quindi anche funzionale. La collezione fu donata
dallo stesso Cospi al senato bolognese che insieme alla collezione dell’Aldrovandi andò a formare
l’Istituto delle Arti e delle Scienze.
Altra raccolta è quella del milanese Manfredi Settala che rispecchia il suo interesse per le scienze
sperimentali e per i processi tecnico-artigianali. Illustrata in tre cataloghi egli la divise in sei settori:
fossili, vegetali e animali; libri, stampe e disegni; quadri medaglie e reperti archeologici; strumenti di
precisione e congegni meccanici;…
Il suo scopo era di creare un teatro delle meraviglie che doveva fungere da laboratorio ai suoi studi e
alla sua biblioteca.
Per vedere la differenza di queste nuove raccolte naturalistiche con le Wunderkammern sono state
paragonate le prime a quelle raffigurazioni irreali in pittura come quelle dell’Arcimboldi o di Otto
Marseus mentre le seconde con le composizioni fiamminghe minuziose e riassuntive della realtà.
Comunque nel Settecento si afferma sempre di più la dicotomia fra arte e scienza e quindi alla diversa
collocazione di tali oggetti in musei d’arte e in musei di scienza. Questo fu anche un secolo importante
per il sapere: venne per la prima volta realizzata una vera e propria enciclopedia, l’Encyclopedie (di
Diderot e d’Alambert formata da 35 volumi), primo libro che raccoglieva le branche della cultura. La
novità inoltre era la classificazione razionale del mondo perché l’enciclopedia trattava certi argomenti
che quindi acquistarono una propria individualità. Le raccolte scientifiche iniziarono così ad essere
considerate importanti quanto quelle artistiche e quindi conobbero una grande diffusione. Inoltre questo
campo si fece sempre più specializzato e preciso.
Una raccolta ancora improntata sul gusto dell’esotico è quella dell’olandese Eberard Rumph, con
reperti provenienti anche dalle Maldive, che erano state descritte in catalogo realizzato da lui stesso. La
raccolta venne acquistata in blocco da Cosimo III de’Medici (1670-1723) il primo della famiglia che
mostrò un particolare interesse per le scienze naturali. Sarà proprio lui ha creare il primo museo
scientifico pubblico “La Specola”, formata da tutto il patrimonio scientifico della famiglia (conchiglie,
crostacei, fossili,…).
Famoso museo fu anche quello del principe illuminato di Biscari, inaugurato a Catania nel 1758, per
“l’utilità degli studiosi e il decoro della patria”. Questo era diviso in due sezioni: storico-antiquaria e
scientifico-naturalistica alle quali era annessa anche una biblioteca.
Come si nota, quindi, la scienza non diventa solo una disciplina indipendente dall’arte ma si avvale
anche di edifici specifici .

La fortuna dei primitivi

L’interesse per lo studio e la tutela dell’arte cosiddetta primitiva ha inizio nella prima metà del
Novecento con l’opera di Lionello Venturi “Gusto dei primitivi”. Con l’Umanesimo e il Rinascimento
il Medioevo era praticamente stato messo da parte, anche per i giudizi negativi col quale era valutato
(periodo delle invasioni barbariche, corruzione del clero,…). Ma già dal Settecento questo periodo
iniziò ad essere rivisitato anche se inizialmente solo per scopi storici e documentari, cioè spesso per
capire le origini della propria città o regione. Quindi le prime ragioni di studio furono sicuramente a
scopo campanilistico mentre già dall’Ottocento l’interesse storico venne affiancato anche da
apprezzamenti di tipo estetico-critico.
Nel Seicento un precoce interesse verso l’arte primitiva si riscontra nella vasta collezione veneta di
Girolamo Gualdo Junior che da come si può leggere nei suoi inventari possedeva opere tardo-gotico.
Dall’interesse storico volte a capire le origini del proprio paese si passa anche a studiare l’evoluzione
degli stili delle varie scuole confrontando le varie opere dei diversi periodi medievali.
E’ a Venezia (‘700) che si assiste, contrariamente al gusto corrente, alle prime raccolte di opere
primitive. Un esempio è quella dell’abate Facciolati che possedeva molte opere bizantine e pitture
trecentesche. Anche Carlo Lodoli ne possedeva una simile ma disposta in ordine cronologico, quindi
una sorta di “Galleria progressiva”, che voleva mostrare l’evoluzione del fenomeno artistico.
Diversa era invece la situazione romana dove i collezionisti appartenevano solo alla classe aristocratica
ecclesiastica. Essi raccoglievano oggetti tardo-antichi soprattutto per la loro grande valenza religiosa
(reliquie, cimeli, croci,…). I più importanti furono Stefano Borgia e padre Casimiro all’Aracoeli che
raccolsero questi oggetti con lo scopo di mostrare lo svolgimento della pittura dagli esordi del
cristianesimo fino al presente (museo cristino).
Un esempio precoce di questo tipo di museo fu quello Epigrafico del Maffei in area veneta che
mostrava appunto questo fenomeno pittorico.
Altro museo importante fu quello capitolino a Roma inaugurato nel 1734 da Clemente XIII che ebbe lo
scopo anche di conservare, restaurare e tutelare le opere. Altro esempio di interesse verso le civiltà
primitive e medievali fu il Museo Sacro istituito da Benedetto XIV (1756) annesso alla biblioteca
Vaticana che raccoglieva sarcofagi, iscrizioni, pitture su tavola e altro ancora che doveva confermare e
documentare storicamente le origini del cristianesimo.
A Firenze, il direttore degli Uffizi Raimondo Cocchi, aveva proposto di unire al museo un’ala dedicata
alle opere dei primitivi anche se non venne mai realizzata. Questo genere pittorico iniziò così a
divulgarsi anche tra i collezionisti: sono infatti molti i documenti che attestano acquisti di questo
genere di opere (come Angelo Maria Bandini di Fiesole).
Enrico Hugford, singolare figura di pittore, conoscitore e commerciante fu sicuramente una delle
personalità più aperte a questi generi all’inizio non apprezzati. Egli possedeva la Tebaide (paesaggio)
che oggi si trova agli Uffizi. Altro grande collezionista fu il marchese Alfonso Tavoli che approfittando
delle leggi di soppressione dei beni ecclesiastici emanate da Pietro Leopoldo di Lorena, ne acquistò in
grande quantità. La sua raccolta passò poi a Ferdinando di Borbone nel 1787. Negli ambienti in cui
venne portata la raccolta (nella reggia ducale a Colorno). Qui molte tavole dei primitivi vennero
smembrate delle loro cornici originali e scambiate con altre di stile rococò, come il polittico di
Bernardo Daddi che oltre che essere suddiviso in pannelli singoli venne incorniciato con cornici rococò
che quindi ne modificavano il valore. E questo proprio perché a queste pitture non era ancora stata
riconosciuta una piena autonomia ma erano viste ancora come curiose testimonianze di un passato
estraneo e lontano.
Ma questi non furono gli unici allestimenti: abbiamo già visto quello del Lodoli a Venezia di
ordinamento cronologico anche se il più importante è sicuramente quello del commerciante Girolamo
Manfrin, corredato anche di un ampio catalogo, ricco di opere ben conservate che voleva rappresentare
la storia della pittura italiana con particolare attenzione al progresso della scuola veneziana. La sua
raccolta testimonia il nuovo valore storico-documentario dei primitivi.
Una diversa e precoce considerazione nei riguardi dei primitivi è quella di Luigi Lanzi, letterato e
storico d’arte, che nel suo Storia pittorica apre ad una valutazione estetica e artistica dell’arte dei
primitivi che troverà definitivo riconoscimento un secolo dopo con Roberto Longhi.
Il recupero storico dei primitivi non fu dunque per merito dei collezionisti ma della nuova cultura
aperta illuminista e delle forze più vive dell’erudizione locale (studiosi, eruditi, letterati,..). Appare
quindi legata all’evoluzione e alla crescita della cultura italiana sia laica che ecclesiastica.

Dalla collezione al museo pubblico


Nel 1618, il cardinale Federico Borromeo, inaugura a Milano L’accademia Ambrosiana. I motivi
furono prima di tutto promuovere i nuovi dettami del Concilio di Trento che doveva difendersi dalla
grande ondata Protestante che aveva investito tutta l’Europa e in secondo luogo incoraggiare lo studio e
il nuovo tipo di creazione pittorica e scultorea dei canoni tridentini. Recuperando gli insegnamenti del
cugino San Carlo Borromeo Federico si appassionò così alle arti visive, mezzo immediato di
comunicazione con i fedeli. L’Accademia si prestava quindi ad essere un luogo d’insegnamento gestito
e programmato dalla Chiesa e che quindi aveva fini sia ideologici che pratici. Federico donò la sua
intera biblioteca e collezione all’Accademia che era formata da codici, testi, statue antiche, pitture
fiamminghe e alcuni pezzi della raccolta di Giovio a Como.
Inoltre Federico realizzò un’operetta, il Musaeum, che oltre che essere un catalogo di tutte le opere che
si trovavano nella sua collezione dava anche le giustificazioni per il fatto che un uomo di Chiesaa
possedesse tanti oggetti preziosi. Uno scritto di questo tipo l’avevamo già visto nei testi dell’abate
Suger di Saint-Denis che aveva detto che la sua collezione serviva al fedele per trascendere la bellezza
divina. Per il cardinale invece questa raccolta serviva più che altro a conservare il passato, a salvare le
immagini tanto che a volte fece realizzare delle copie di opere che gli interessavano.
Questo appare comunque come un fatto isolato rispetto alla sua epoca.
E’ dal Settecento che si instaura un rapporto fondamentale tra cultura e cittadino. Vengono riscoperti i
diritti dei cittadini e si richiede una fruizione pubblica delle grandi collezioni private viste come
strumento fondamentale per lo studio e la formazione degli intellettuali. Il museo acquista sempre più
importanza nella società tanto che si arriva alla nascita della museografia (termine coniato dal titolo del
volumetto del tedesco Nickel), una disciplina doveva offrire una classificazione ordinata e razionale dei
materiali.
Da qui l’istituto museo acquista consapevolezza della sua importanza culturale e si stacca dalle
abitazioni private per entrare in edifici costruiti e progettati appositamente per loro. Cambiano anche i
criteri di allestimento che ora non sono più dettati dalla volontà del singolo ma per volere della
comunità. Inoltre i musei suddividono i vari campi della conoscenza in settori come il Museo
Epigrafico di Verona istituito da Scipione Maffei che può essere considerato il primo istituto
integralmente pubblico con funzioni didattico-scientifiche. Questo testimonia la nuova importanza
delle epigrafi sia a livello artistico che documentario perché possono essere paragonate a testimonianze
letterarie. Inoltre la “notizia del nuovo museo di iscrizioni” pubblicata dallo stesso Maffei può essere
considerata la prima opera di letteratura museografia perché oltre a elencare le opere ne definiva i
criteri di esposizione e allestimento. La collezione venne suddivisa in classi (greche, etrusche, latine,
cristiane, medievali e spurie) e disposte cronologicamente. La sistemazione architettonica, del veronese
Alessandro Pompei, fu la prima che utilizzò uno stile neoclassico che tra l’altro si trovava in sintonia
col tipo di raccolta. Questa funzione didattico-scientifica del museo è quella che poi verrà elaborata da
Diderot nell’Encyclopedie dove intende il museo come luogo ove sono raccolti un certo tipo di
materiali, accessibile a tutti per fini didattici e di apprendimento.
Altro fatto anticipatorio alle teorie di Diderot è l’organizzazione razionale della raccolta del celebre
naturalista Antonio Vallisnieri, donata dal figlio all’università di Padova con l’obbligo di mantenerla
integra. In linea con le più moderne concezioni illuministiche fu anche la scelta dell’ultima superstite
della dinastia medicea, Anna Ludovica de’Medici, che con il Patto di Famiglia lasciò l’enorme
patrimonio artistico dei Medici alla nuova dinastia dei Lorena (famiglia di duchi che regnava
nell’omonima regione in Francia) che ormai stava capo del granducato di Toscana. Questo significò
che le opere e tutto il patrimonio non era più visto come proprio di una persona o famiglia ma proprietà
di tutti i cittadini e quindi della comunità. Gli Uffizi, il fulcro delle collezioni medicee, andò quindi
sotto la gestione dei Lorena i quali però dovevano mantenerlo inalienabile per la comunità.
Anche il Museo Capitolino inaugurato nel 1734 dopo il trasferimento della donazione di papa Sisto IV
dal palazzo dei Conservatori al palazzo Nuovo ha come scopo la salvaguardia del patrimonio locale.
Oltre del catalogo compilato dal Bottari la politica papale in materia di beni artistici si avvale anche di
leggi che ne preservano la dispersione e la distruzione. Altro grande centro culturale è il Museo Pio
Clementino in Vaticano che mostra ancora una volta il ruolo egemone della chiesa.
Dell’esigenza di un museo aperto al pubblico si fa portavoce Gian Ludovico Bianconi (consigliere
artistico dell’elettore di Sassonia) che appunto vedeva nella creazione di un edificio che raccogliesse i
quadri della scuola locale per preservarli dalla dispersione. Anche Benedetto XIV proponeva di
costituire una galleria pubblica da annettere all’Istituto delle Scienze e delle Arti che doveva contenere
quel patrimonio ormai sentito collettivo.
La riforma napoleonica sconvolse sicuramente il territorio a favore dei musei (anche fin troppo).
Anche molte collezioni private sentirono la necessità di mostrarsi al pubblico, come la raccolta di
Filippo Fersetti, di quella nuova famiglia borghese progressista, che passò poi al cugino venne ubicata
nella villa di Santa Maria di Sala presso Padova per essere visitata da artisti e conoscitori (qui si formò
anche Canova).
Importante fu anche la grande donazione al pubblico del Conte Giacomo Carrara, erudito conoscitore
di storia e grande collezionista, che aprì a Bergamo una galleria con le sue innumerevoli raccolte
accompagnata da una scuola pittorica (fine ‘700). Nel suo testamento scrisse che l’organismo doveva
rimanere al servizio pubblico e gestito dai privati (dal 1958 è passato al Comune di Bergamo).
Nasce quindi il bisogno di fruizione al pubblico delle proprie raccolte e nasce anche la volontà di
catalogarle come fonti storico-documentarie. Alcuni spazi vengono anche ristrutturati in funzione del
pubblico.
Gli Uffizi di Pietro Leopoldo riordinati e catalogati da Luigi Lanzi nel suo “Reale Galleria di Firenze
accresciuta e riordinata” sono lo specchio di questa cultura avanzata della museologia illuminista.
L’opera si configura anche come guida sintetica al museo che ne descrive la nuova suddivisione per
cronologia, per scuole e per tecnica. Si spezzo però anche quell’unità tra arte e scienza proprio perché
vennero tolte dalla collezione medicea tutto ciò che riguardava oggetti e strumenti scientifici che
sfoceranno poi nel Museo della Specola contiguo a Palazzo Pitti (sede del sovrano).
La nuova politica napoleonica spezzo queste conquiste così avanzate della cultura italiana. Le leggi di
soppressione dei beni ecclesiastici e degli edifici religiosi portarono alla creazione in Francia del Musée
des Munuments Francais di Alexander Lenoir, suggestiva anticipazione del museo storico e
d’ambientazione. Tutte queste requisizioni ecclesiastiche e delle opere d’arte dei paesi conquistati
confluirono nel Louvre, trionfo del museo ottocentesco. Tutta l’arte era ormai a portata di tutti ed era
gestita esclusivamente dallo Stato. Sicuramente il paese più colpito da questa requisizione forzata fu
l’Italia dove tutte le opere persero la loro contestualizzazione. Questa politica suscitò subito delle
lamentele da parte degli intellettuali, in particolare dallo stotico dell’arte francese Quatremére de
Quincy, che trovava fuori luogo togliere un’opera dal suo contesto geografico e storico perché le faceva
perdere di importanza.
Il primo tentativo per andare incontro a queste opere tolte dal loro contesto originale è stato quello di
creare dei musei suggestivi che ricreassero un certo tipo di ambientazione, come i maestosi edifici alla
greca a Monaco e a Berlino, oppure nelle sale costruite a Period Rooms americane o nelle ricreate
ambientazioni dei collezionisti privati. Se gli obiettivi principali dei musei del Settecento e
dell’Ottocento furono quelli della conservazione e al prestigio nazionale quelli del nostro secolo sono
rivolti al totale coinvolgimento del pubblico, per renderlo partecipe e interessato al museo.

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