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IL TRECENTO

INDICE

Pag.

1 Francesco Petrarca
8 Giovanni Boccaccio

I
FRANCESCO PETRARCA

È il primo vero classico della letteratura italiana, appassionato cultore degli antichi scrittori latini:
Virgilio, Cicerone, Seneca, Livio.
Per molti autori Petrarca è esempio stilistico, concettuale e formale, dà vita ad una scuola di gusto
per ispirazione e per versificazione. Insegna a fare una letteratura decorosissima. Il suo
atteggiamento è colto e classicistico e il linguaggio è elitario: sceglie la parola secondo il suo gusto
musicale e latineggiante – brando, speme, aura.
Nutre un vero culto per le lettere, che sente come scopo fondamentale della vita: per lui il poeta è
un mito e la sua attività è la più elevata. Ritiratosi nel suo ultimo rifugio, la casa di Arquà, morirà
serenamente leggendo Cicerone: il suo è un passaggio dal sapere alla morte.
Nasce ad Arezzo nel 1304 da famiglia fiorentina esiliata da Firenze perché il padre, notaio, è guelfo
di parte bianca (come Dante). Si spostano poi ad Avignone, dove il padre trova occupazione presso
la corte pontificia, che da Roma si è trasferita là in ossequio al re di Francia.
Per volontà paterna, studia legge, la facoltà colta per eccellenza e va a Bologna: non è la sua
passione, sarà uno dei tanti avvocati falliti della letteratura italiana. Comunque, si arricchisce di una
cultura sterminata, non enciclopedica però, perché la sua tendenza è selettiva: non ama la
Scolastica, non ama San Tommaso, il pensiero scientifico, a differenza di Dante.
Dante vive la realtà politica di Firenze mentre Petrarca nasce in esilio e non può sentirsi legato alla
piccola patria fiorentina.
Petrarca sogna una nazione italiana autonoma, non più parte dell’Impero universale di Dante, ma
nobile continuatrice della Roma repubblicana.
Dante ha un vigore interiore che non è di Petrarca, insicuro e ambizioso; Dante esprime la sintesi
della cultura e della mentalità medioevale, mentre Petrarca anticipa la concezione umanistica della
vita che si affermerà nel secolo seguente e preannuncia il dramma dell’uomo moderno, fra lo
smarrimento della certezza religiosa e la ricerca della piena giustificazione della propria vicenda
terrena.
Petrarca è alla ricerca di un equilibrio spirituale sempre sfuggente: Valchiusa, in Provenza, poi
Selvapiana e Arquà in Italia sono le tappe del suo ideale pellegrinaggio. Vive in un dissidio che
non riesce a comporre stabilmente: fra gli ideali della vita cristiana e quelli dell’amore sensuale
tormentoso e impossibile per Laura, già sposata; il desiderio di onori; la brama di gloria, realizzata
dalla corona poetica di alloro di cui è insignito sul Campidoglio a Roma, città da lui preferita a
Parigi per ragioni culturali; l’ardore della passione di cui sono frutto anche due figli illegittimi.
Il bisogno di conoscere cose nuove, l’amore vitale per la cultura lo porta a viaggiare in Francia,
nelle Fiandre, in Germania, alla scoperta di codici antichi; alla familiarità con potenti prelati,
intellettuali, signori, la cui protezione gli garantisce rendite, onori, incarichi di rappresentanza nelle
ambascerie.
Secondo Hauser, Petrarca gode di altissimo prestigio sociale come intellettuale di fama
europea. Non conosce l’esilio e la povertà di Dante.
Passa da una corte all’altra riverito e onorato, senza obblighi gravosi, mantenendo una propria
indipendenza e una dimora privata dove può studiare e scrivere, e conferendo lustro ai principi per
la sua saggezza di uomo di grande cultura.
È ben lontano dall’immagine dello scrittore dell’età comunale, implicato nella vita politica cittadina
e portato a rifletterla nella sua opera. Anticipa la figura del letterato dell’età umanistico-
rinascimentale, considerato come testimone e coscienza dei valori umani più alti senza una reale
partecipazione alla vita politica.

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La sua fama ha inizio nei circoli umanistici, dove matura l’intenzione di approfondire
sistematicamente lo studio degli antichi, che gli appaiono maestri di vita e di stile, da emulare
nella loro stessa lingua perfetta, il latino, sia in prosa che in poesia.
A parte il Canzoniere e i Trionfi, scritti in volgare, sceglie per la sua produzione il latino dei
classici, non quello medioevale della Scolastica e di Dante: Africa, poema epico dedicato alla
glorificazione di Scipione l’Africano; De viris illustribus, biografia dei grandi; Epistulae;
Secretum; De vita solitaria.
È uno scrittore bilingue e chi vuole vedere nel suo latino una lingua morta, Carlo Calcaterra
spiega che è viva perché pensa in latino, è la lingua della sua interiorità, non del vocabolario.
Quando sui codici appunta piccole cose a margine, lo fa in latino.

Petrarchismo è l’influenza di Petrarca nella letteratura successiva. Petrarca è un intellettuale di


fama europea, di grande prestigio. Muore avendo suscitato intertestualità, imitazione, come colui
che ha semplificato e organizzato la tradizione poetica in un modello esemplare, imitabile.
Mentre la Divina Commedia è politematica e polistilistica, frutto non di semplificazione ma di
assemblaggio della cultura precedente, l’opera di Petrarca è qualcosa di specialistico.
Il tema è l’amore; il genere poetico è lirico, espresso nell’eleganza del sonetto; il linguaggio è
proprio di un’arte aulica, dove la vita è tradotta in suono. È cultura per nobili, sono pochi a
saper capire il sentimento che si fa musica.
Petrarca è in linea con la storia: ora si passa dal comune alla signoria, forma neo-feudale; la
borghesia diventa sempre più chiusa, aristocratica sino a pretendere, tramite il denaro, il titolo
nobiliare. Società e cultura appartengono a pochi.
La Divina Commedia nasce e si giustifica nell’attesa di un rinnovamento con conseguente salvezza
per tutti.
Ora il Papato è ad Avignone; i comuni si stanno corrodendo in lotte intestine, con il passaggio alle
Signorie, corpi individuali; crisi economiche e irrimediabile processo verso l’individualismo.
A Petrarca, quindi, ciò che interessa è l’uomo con la sua interiorità. Lirismo, cultura dell’ego: in
lui si sintetizza la crisi, la decadenza della civiltà medioevale.
Con l’Umanesimo e il Rinascimento, l’imitazione di Petrarca è scontata. Bembo loda la sua
“volgar lingua”: elegante, ricca di indicazioni grammaticali e sintattiche, tra cui l’uso del
congiuntivo, quindi imitabile.
Nel Cinquecento i Petrarchisti sono ottimi imitatori. Molte donne possono poetare, tra cui
Vittoria Colonna, Gaspara Stampa: basta saper assimilare i canzonieri petrarcheschi più belli. Si
concepisce poesia come imitazione di modelli.
Quando, nel Seicento, l’arte è originalità, anche Petrarca, come modello, entra in crisi. Non si
mette in discussione la grandezza dell’artista, bensì l’opportunità di imitarlo. È Torquato Tasso il
poeta congeniale al Seicento ed è lui a rinnovare Petrarca, ampliando il linguaggio con nuove parole
ed espressioni.
Quando entra in crisi il barocco, con il suo caos e la sua creatività, si ritorna all’ordine,
all’armonia, all’equilibrio, ad un razionalismo illuministico, a Petrarca.
Il Romanticismo lo rivaluta, non come modello tecnico, ma come spirito di poesia.
La poesia non è intesa come sfogo di sentimento – sarebbe diario, non comunicazione: perché la
nostra vita diventi universale non deve cantare la passione, ma la memoria della passione. Poesia è
il canto che serve a disacerbare il dolore, è passione redenta dalla memoria: questo è l’eterno
messaggio, che Foscolo dice essere lasciato da Petrarca – non come modello, dunque, ma come
attitudine psicologica.

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Con la critica scientifica, metodologica, De Sanctis ridimensiona Petrarca: grandissimo artista
tecnico, ma non poeta. Senza dubbio, lui sostiene, è superato da Dante, giacché la poesia è tanto più
grande quanto più è impegnata e complessa psicologicamente.
Petrarca, però, mantiene un dominio incontrastato anche attraverso le revisioni realizzate da Tasso,
Leopardi, Carducci, Ungaretti.
Mentre Dante nella Divina Commedia rispecchia i valori del Medioevo, nel Canzoniere, come in
nessun’altra opera europea, c’è la risposta epocale alla crisi del Medioevo, con la nascita
dell’Umanesimo.
Si sta sostituendo Dio con l’uomo, dalla verticalità si passa all’orizzontalità: l’io diventa metafora
di crisi epocale.
Se il poeta, come sostiene Lucas, è colui che legge l’oggi in prospettiva del domani, in Petrarca è
presente la crisi spirituale che precorre l’Umanesimo.

Petrarca e i suoi tempi. Socialmente il Trecento è il trionfo della società borghese, dell’etica
borghese, di Marco Polo.
L’Italia è la più evoluta e ricca d’Europa: in realtà ci sono i segnali di una lenta recessione. Molte
banche falliscono, tra cui quella dei Bardi, ricca famiglia fiorentina. Mentre il Duecento è
contrassegnato dal coraggio, nel Trecento si diffonde la paura, il denaro è in pericolo. Nel
Quattrocento il borghese non investe più in nuovi traffici, ma in beni immobili: la terra è più
sicura.

Umanesimo. È una rivoluzione della società, dove si dà dignità sociale alla professione
dell’intellettuale, che riscopre il valore dei poeti antichi.
È ancora una tendenza, ma l’antropocentrismo sta per sostituirsi al teocentrismo: c’è ancora il senso
religioso, ma Dio non giustifica tutto.
Petrarca scrive numerosissime lettere: non sono uno sfogo, un momento di abbandono; il controllo
stilistico è basilare per nobilitare culturalmente la vicenda, per valorizzare la propria individualità,
la sua grande cultura. Ne è chiara esemplificazione l’Ascensione al Monte Ventoso, presso
Valchiusa, in Provenza: cita monti mitici della regione greca; Livio, che racconta come Annibale
passò le Alpi con il suo esercito; costante l’amore del poeta per la patria bella e ricca di memorie di
un passato glorioso. Non è romanticismo, ma memoria di passione filtrata dalla cultura, anche se
talvolta appesantisce.
L’interesse precipuo dell’Umanesimo è lo studio dell’uomo, in viaggio. Dante, nel suo
pellegrinaggio è alla ricerca di Dio; Petrarca va per conoscere sé stesso.
Se San Tommaso, ai vertici della Scolastica, la filosofia medioevale, vuole risolvere tutti i
problemi, Sant’Agostino sostiene che non c’è scienza se non è scienza dell’uomo: si deve indagare
sull’animo dell’uomo non centro dell’universo ma centro di cultura e storia.
Ed è proprio Sant’Agostino ad illuminare Petrarca, per superare le barriere della sua
ammirazione esclusiva per l’antichità e realizzare il desiderio di conciliare la cultura classica
con la cristiana.
Mentre Dante ha una visione unitaria di salvezza ecclesiale, Petrarca nel De vita solitaria giunge ad
una religiosità nuova, più moderna, che coltiva lo spirito ed educa alla formazione dell’io.
Nella solitudine, concepita come un aristocratico appartarsi dal mondo per meditare e studiare,
trova un punto di incontro tra la saggezza pagana e la spiritualità cristiana.
Italia mia, benché il parlar sia indarno. La canzone rivela il suo impegno di intellettuale in
politica. Per Dante il mito politico è l’impero, per Petrarca è la pace, perché soltanto in essa
l’uomo può coltivare sé stesso. La pace, quindi, è il valore politico, ma umano, individuale. Ha una
visione moderna, acuta: non si rivolge né al Papa, né all’imperatore, ma ai Signori d’Italia.
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È un messaggio conativo, riscaldato da un affetto sincero. Li esorta a cessare le lotte fratricide che
straziano la patria, per condurre le quali assoldano barbare milizie bavaresi che, oltre ad essere
infide, devastano irreparabilmente l’Italia. Invoca la nobile stirpe latina a non farsi idolo di una
vuota fama cui non corrisponde sostanza alcuna, a non credere al valore di questi barbari, che non
ne hanno affatto.
I principi sentano forte il dovere di difendere i loro popoli, che otterranno una rapida e certa vittoria,
se stimolati a mettere in atto quell’antico valore latino che vive nei loro cuori.
L’Italia è, per Petrarca, la nazione regina, proprio perché figlia ed erede di Roma, continuatrice
della sua civiltà.
Petrarca parla di sé stesso, è l’unico protagonista della sua poesia, gli altri sono sue proiezioni.
Lirismo, espressione del proprio sentimento, che, però, assurge a livello metafisico, a voce
dell’umanità tramite la cultura, perché canta lo spirito e in quanto tale è di tutti.
Petrarca, dunque, canta l’io, ma generalmente riesce a superarlo e canta la tragedia epocale. Dà
inizio al lirismo moderno e scopre l’io dissociato. Il suo è un individualismo fiero: senso di
autonomia a livello politico; senso di libertà, da godere in solitudine; sfrenato amore per la gloria,
per il successo; a contrapporsi, la percezione che tutto è effimero, inutile, la vita mondana è
caducità, illusione.
Dall’autoanalisi del dissidio emerge la poesia del dubbio che cerca di chiarificare, anche senza
giungere alla Verità. Nel Secretum, Petrarca immagina di avere tre giornate di colloquio con
Sant’Agostino, alla presenza di una fulgida figura di donna, la Verità.
Emerge l’incapacità del poeta a rassegnarsi a sentire caduchi e inconsistenti l’amore, la bellezza, la
gloria, la poesia proprio perché esprimono la nostra umanità più generosa. Li sente, sì, insidiati dal
tempo e dalla morte, ma li ama come espressione di vita eletta. Sente nel suo cuore qualcosa di
inappagato e soffre di un grande morbo spirituale – l’accidia. È noia, mancanza di volontà, di
forza per perseguire gli ideali – veggio il bene e al peggior m’appiglio. Nasce dal sentimento della
precarietà di tutti i valori umani, eppure ha in sé una sorta di amara dolcezza, che rende incapaci ad
elevarsi ad una decisa scelta del bene.
Il travagliato dibattito spirituale non si conclude per Petrarca con una chiara conciliazione tra
umano e divino, bensì con l’accertamento della complessità dell’animo umano e della sua
problematicità.
Sant’Agostino gli ha insegnato che la verità è nell’intimo della coscienza e Petrarca ricerca,
attraverso un continuo e difficile dialogo con sé stesso, la luce che sappia illuminare la sua vita,
nella creazione, spesso ardua, sempre incompiuta, di valori più alti.
Petrarca è, dunque, il fondatore della poesia moderna, capace, come estetica e poetica, di
giungere al Novecento, ad Ungaretti.
Laura e Dio. Gli stilnovisti tendono a risolvere il dissidio tra amore terreno e amore divino
riconducendo la donna a Dio, a livello ottativo come per Cavalcanti oppure ontologico come per
Dante.
Per Petrarca questo non è possibile: la caducità è la categoria della storia, dell’esistere, dove tutto è
effimero, nell’ineluttabile cammino verso la morte.
Laura vive nel tempo e, quando Laura muore, anche il mito dell’amore muore, ulteriore
insegnamento che tutto è caduco.
Resta, però, l’amore per la vita, l’istinto alla stabilità, a cercare qualcosa che blocchi il tempo, a
trovare l’eterno nel tempo, l’infinito nel finito. L’amore per Laura è simbolo di transeunte, ma per
raggiungere Dio bisogna trascendere il terreno: Petrarca non sa più farlo, quindi è impossibile la
sintesi Laura-Dio. Trova però una soluzione al dissidio.

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Se il Medioevo da terra si eleva al cielo, l’Umanesimo fa scendere Dio dal cielo sulla terra. Dio è la
contraddizione della caducità e a Lui si deve l’intelligenza dell’uomo. La poesia, frutto di questo
dono divino, non nega il caduco ma vi appone il sigillo dell’eterno.
L’arte è dunque l’unico strumento a disposizione dell’uomo per dare stabilità alla caducità. Il
dolore fa parte della vita, ed esiste per essere redento dall’arte. Se l’amore di Laura non può
ascendere a Dio, nella misura in cui diventa poesia assolutizza Dio con una giustificazione che non
è più etica, teologica, ma estetica. L’arte è l’unica attività umana che sacralizza la vita, può
divinizzare l’umano: supremo modo per essere uomini è fare arte, inseguire la bellezza, che è
virtù.
Vasari racconta che Tiziano sta dipingendo Carlo V, sul cui impero non tramonta mai il sole. Gli
cade il pennello e l’imperatore lo raccoglie – gesto significativo.

I Trionfi
È l’unica opera in volgare, oltre al Canzoniere. È una visione simbolica del Poeta, scritta in terzine.
Accanto all’influsso dantesco e di altri poemi allegorico-didascalici del Medioevo è evidente quello
degli scrittori latini antichi, nelle cui opere Petrarca ritrova una saggezza esemplare, unita a
un’arte eletta, superiore, a suo avviso, al volgare troppo comune e popolaresco che lui sente
come difetto nella Divina Commedia.
È suddivisa in sei parti concatenate, tra cui significativo, in particolare, è il Trionfo della Morte.
Laura riposa sul suo letto di morte, fra una schiera di donne gentili, che la piangono, poi ne esaltano
la santa dipartita. Il demonio non osa tentarla e lei si spegne serenamente, senza strazio, simile a un
lume cui manca alimento e si smorza lentamente, senza scosse.
La nuova ed eterea bellezza di Laura fa apparire la sua morte come una trasfigurazione, uno
schiudersi ad un mondo di luce, di purezza e di pace. La morte, manifestazione dolorosa della
caducità, perde concretezza e diviene sublime nel canto del poeta. È la sublimazione della sua
passione: come dice Foscolo, per Petrarca l’arte è calore di fiamma lontana.

Canzoniere
Rerum vulgarium fragmenta: così Petrarca intitola la raccolta delle sue rime in volgare, ma anche
Rime sparse o Canzoniere. Rivela la volontà del poeta di dare una traccia forte del proprio
amore per Laura, in vita e in morte.
Scritte in vari tempi, ad un certo momento vuole comporle in un complesso organico, ma in realtà
non è importante: comunque siano messe hanno senso. L’unità profonda dell’opera è nel continuo
fluttuare dell’anima del Poeta tra illusione e delusione, sogno e consapevolezza, nell’ansiosa ricerca
della luce che giustifichi la vita: è espressione di uno spirito complesso, moderno.
Il Canzoniere è un’opera aperta, ove ogni sonetto è realizzazione assoluta, senza legami con il
precedente o il seguente.
Dal punto di vista stilistico, Petrarca dà i canoni tecnici del sonetto, con nuovo sistema di rime e
pause: lo rende classico e sarà modello nei secoli a venire.
Come alto ingegnere della parola, Petrarca vuole le rime congruenti, che non siano unite soltanto
dal suono (significante) ma anche a livello concettuale (significato): il poeta è creatore di fantasia,
che deve essere controllata dalla ragione.
Ama la musica classica, con regole precise, non il jazz: ama le costruzioni ciceroniane; abbina la
dolcezza dei suoni alla complessità sintattica, parole dolci in una controllatissima struttura classica.

Sonetto I - Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono


Il rapporto io-voi denota il suo distacco dalla massa: è l’intellettuale che si rivolge a chi può capirlo,
perciò rende nitida e lucida la sua confessione interiore.
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Petrarca preannuncia la propria vicenda umana rappresentata nel Canzoniere: un alterno fluttuare di
speranza e disinganno, un perdersi dell’anima dietro le false seduzioni del mondo, un errare che
produce vergogna. È l’uomo senza reductio, più libero ma più inquieto, perché ha perso il senso di
Dio-Verità assoluta e il Dio interiore si traduce in coscienza, rimorso, dissidio.

Sonetto XXXV – Solo e pensoso i più deserti campi


Il poeta cerca la solitudine: è l’intellettuale incompreso dalla gente, perché è l’uomo-umanista
in un mondo antico, che sta finendo. Evita il contatto con gli altri e cerca il dialogo con la natura,
cui confida i suoi sentimenti, vagando fra i luoghi più deserti – riflesso dell’intima desolazione.
Immerso in una meditazione che lo assorbe totalmente, cerca soltanto in sé stesso la consolazione
delle proprie pene. Fugge ogni vestigio umano, perché non vuole che la gente si accorga della sua
sofferenza d’amore.
Amore, però, vaga sempre con il Poeta, ragiona con lui “.,et io col lui”. La virgola in quella
posizione assurda ha un significato importante: indica una pausa, un silenzio, a significare la
consapevolezza che il suo tormento non ha fine, ma è capace di distruggere la solitudine, di
riempire la vita.

Sonetto LVII – Padre del ciel, dopo i perduti giorni


È la preghiera che il Poeta rivolge a Dio affinché lo liberi dalla fiera passione con il lume della Sua
grazia. Denuncia la sua accidia, l’incapacità di superare il sentimento, e lo fa in termini chiari,
senza sbavature. È la nuova religiosità: Dio non è più universalistico, è ridimensionato a livello
psicologico, è dentro il poeta e Lo prega, nello smarrimento per le proprie colpe
La chiarezza d’introspezione, caratteristica della lirica petrarchesca, diventa confessione sincera del
proprio peccato.
Petrarca indica la data in cui ha avuto inizio la sua vicenda: è un alibi, per dare l’impressione di
realtà, ma non ha importanza. Ciò che il Poeta vuole è trattare la sua storia come mito, fuori dallo
spazio e dal tempo: allora è poesia.

Sonetto XC – Erano i capei d’oro a l’aura sparsi


È il sonetto dell’innamoramento, momento cardine nella vita di Petrarca.
Bello è l’inizio erano: dà il tono alla composizione. Tutto è proiettato al passato, c’è la
rappresentazione della passione come memoria, la poetica contemplazione di Laura, la cui fisicità di
bellezza trascolora nell’incanto della natura.
Fa emergere il dolore, l’amore come tormento: la ferita inferta dalla freccia scoccata dall’arco non
può risanarsi, anche se la corda si è allentata. La piaga, però, cessa di esistere quando diventa
immagine poetica: l’amore è giustificato non perché porta a Dio – donna angelicata – ma perché si
redime nell’arte.

Sonetto CXXVI – Chiare, fresche, e dolci acque


Rievoca il luogo, in Provenza, dove Laura gli apparve coperta da una cascata di fiori: immagine
magica, trasfigurata in emblema della bellezza del mondo, di una vita gioiosa e totale che non
conosce tramonto.
Laura ora non c’è; il Poeta vede la tomba, si commuove, piange e chiede a Dio grazia: almeno il
proprio corpo possa essere sepolto in quel luogo tanto caro.
Concettualmente Petrarca è semplice, è monocorde, il messaggio non è ricco, ma la capacità di
analisi crea una poesia di memoria, moderna. Non si tratta di memoria volontaria, frutto di
coscienza: è inconscia e, come tale, aperta a stacchi imprevisti, passaggi improvvisi dal presente, al
passato, al futuro. Come nei sogni, la descrizione è senza una logica consequenzialità.
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Sonetto CLIX – In qual parte del ciel, in quale idea
È un sonetto in lode di Madonna Laura: richiama la tradizione del dolce stil novo, ma in realtà è
elegante espressione del classicismo di Petrarca, frutto dell’Umanesimo, il cui interesse precipuo è
lo studio dell’uomo.
Il Poeta si chiede da quale divina idea la natura abbia tratto il modello del viso mirabile di Laura,
nel quale essa ha inteso mostrare la sua perfezione: chiaro è il riferimento alla filosofia di Platone,
secondo cui le cose terrene sono copie delle idee, le realtà assolute che sono nell’Iperuranio. Laura
non è angelo, ma ninfa delle fonti, dea delle selve – divinità mitologiche.
L’ultima immagine di Laura è imitazione di Orazio. Petrarca ricerca, studia i classici per sé stessi,
ma poi si rende conto che non sono attuali, esaustivi per spiegare completamente l’uomo moderno.
Nasce il dissidio: allora li storicizza per trovare la sintesi tra cultura classica e cultura
cristiana, fra l’uomo classico e Dio. Orazio non è cristiano, è realistico: rappresenta la donna nella
sua fisicità, dulce loquentem dulce ridentem, è l’amore di un giorno.
Petrarca, grande poeta intertestuale, apporta una variazione minima ma fondamentale: Laura non
solo dolce parla e dolce ride, dolce ella sospira. Il verbo sospirare non esiste in Orazio. Petrarca
lo usa per definire l’atteggiamento psicologico, interiore, l’anima, lo spirito di Laura, e l’amore
per lei è per sempre.

Sonetto CCLXXIX – Se lamentar augelli, o verdi fronde


Il sonetto è concepito nella solitudine di Valchiusa, piena di dolci ricordi: Laura è morta, ma è viva
e presente nel ricordo, nella sua interiorità.
Come per incanto è evocata dal paesaggio dove la vide e la sognò: le fronde verdi, le onde
scintillanti, la riva fiorita e fresca. Laura ora gli parla di vita: quando era viva, per il Poeta era
oggetto di tentazione, di passione tormentosa; ora non più, il dissidio è superato. Non c’è la
trascendenza in Dio, ma c’è l’immanenza, la redenzione nella poesia: Laura è possesso del Poeta.

Sonetto CCCX – Zefiro torna, e ‘l bel tempo rimena


Petrarca non mette in relazione l’io, il suo stato d’animo e il paesaggio. È un paesaggio di
campagna, poetico, stilizzato. Ritorna Zefiro, il vento che, con la primavera, riconduce il bel
tempo, il canto della rondine – la mitologica Progne – e quello dell’usignolo – la Filomena del mito
classico – fiori candidi e vermigli, erbe rinnovate.
Nel suo famoso canto Il sabato del villaggio, Leopardi coglie fiori dai giardini di Petrarca.

GIOVANNI BOCCACCIO

Boccaccio non ha l’importanza storica di Dante e di Petrarca, ma la sua influenza è basilare tra i
prosatori.
Non si sa con esattezza quando e dove nasca, probabilmente nel 1313 a Cataldo, tra Empoli e Siena,
a 30 chilometri da Firenze. Figlio illegittimo, certamente è vissuto in quel paese, dove è anche
sepolto.
Suo padre, mercante a Firenze, lo invia giovinetto a Napoli a far pratica mercantile e bancaria. La
città, grande emporio economico, è governata dagli Angioini, dopo la disfatta di Manfredi nella
battaglia di Benevento, nel 1266. Qui Boccaccio vive gli anni più belli della sua vita, a contatto con
il mondo cortese e cavalleresco, ancora ben vivo alla fastosa corte angioina, e con il mondo
variegato di popolani, mercanti e avventurieri dei più diversi paesi del Mediterraneo.
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Lavora in una succursale della Banca dei Bardi e frequenta l’alta società, le allegre brigate fra
feste cittadine e ozi spensierati nelle campagne vicine alla città.
Non ha però la vocazione mercantile. Per volere del padre, studia diritto canonico, ma poco e male.
Avidamente si getta sui libri dei poeti: è un’educazione da autodidatta, ma sorretta da un intenso
entusiasmo per la poesia che lo spinge a leggere i classici latini, la letteratura medioevale italiana
e francese, a scrivere alcuni poemi cavallereschi e parte delle Rime.
Intensa è la vita sentimentale: l’amore giovanile più forte lo lega a Maria dei Conti d’Aquino,
sposata a un nobile della corte. La celebra in prosa e in versi, fino alla Fiammetta del Decameron.
Quell’amore si conclude con l’abbandono da parte della volubile signora.
Nel 1340 deve tornare a Firenze, dove il padre ha subito un crollo economico a seguito del
fallimento della Banca dei Bardi. Nel 1348 assiste alla terribile peste a Firenze e, dopo la morte del
padre, amministra lo scarso patrimonio. Gode però di un posto ragguardevole in città per la sua
fama di ingegno e di eloquenza, che gli procura onorevoli uffici e ambascerie. Rafforza il suo
impegno letterario e dà forma definitiva al Decameron, ideologicamente borghese, non più cortese.
Durante uno dei suoi viaggi in Italia incontra Petrarca. Sono molto diversi, ma sono intelligenti e
c’è intesa spirituale. Boccaccio ha maturato un culto vero e proprio per la poesia e le lettere
classiche, persuaso che occupino una funzione insostituibile di civiltà.
Petrarca è il glorioso maestro, come umilmente e affettuosamente lo chiama: lo ha persuaso a
dirigere la mente verso le cose eterne lasciando da parte il diletto di quelle temporali.
Il maestro lo tratta alla pari: hanno alcuni incontri, ma soprattutto un carteggio frequente che dura
sino alla morte di Petrarca.
La profonda amicizia aiuta Boccaccio a risolvere serenamente una grave crisi religiosa. Ha
trascorso la giovinezza in una corte gaudente, emancipata; la maturità in un ambiente mercantile,
senza pregiudizi, moderno; ha lasciato in disparte Dio.
Dopo cinquanta anni, insorgono dubbi, rimorsi, pentimenti, il progetto di bruciare, disconoscere il
Decameron. Petrarca, in una lettera matura, assennata, difende l’opera: lo ammonisce che la
professione di fede cristiana può armonicamente comporsi con la poesia e le lettere.
Negli ultimi anni, Boccaccio abbandona gli interessi cortesi, amorosi, borghesi, laici, concreti per
dedicarsi all’attività culturale umanistica. Grande estimatore di Dante, vuole diffonderne il
culto e far conoscere il profondo valore della Divina Commedia, commentandola pubblicamente in
chiesa. Soltanto la morte gli impone di interrompere il progetto.
Boccaccio è estroverso, piace al pubblico, ha successo non tra gli intellettuali, gli ecclesiastici,
ma nella classe mercantile e imprenditoriale. Il Decameron non compare nelle biblioteche dei
monasteri, ma in quelle appartenenti alle grandi famiglie fiorentine.
Nel Quattrocento, giunge alla cultura ufficiale; Chaucer, a Londra, imita Boccaccio nella sua
raccolta di racconti scritta nel 1397-98 – The Canterbury Tales.
A differenza di Petrarca, i cui destinatari sono sempre l’élite socio-culturale europea, in
Boccaccio si distinguono tre fasi cui corrispondono tre diversi destinatari: cortesi; borghesi; nuova
élite borghese. È quest’ultima a rappresentare il declino, il momento conclusivo della civiltà
comunale con le sue problematiche e la tensione progressista. A loro vuole dare il frutto della sua
attività altamente culturale realizzata nella terza fase, convinto che la nuova cultura possa essere
forza liberatrice.
Boccaccio inventa il linguaggio di prosa italiana, prosa sillogistica, né filosofica né aristocratica.
Secondo Bembo, il Decameron è testo classico di prosa, ne loda lo stile ma non i contenuti –
novelle volgari, licenziose, erotiche.
In realtà Boccaccio guarda l’uomo, lo coglie nella realtà del suo vivere terreno, con il disfrenarsi di
istinti e passioni, con la sua intelligenza e capacità di dominio su sé stesso e sulle cose, le sue

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debolezze e la sua virtù – fatta di consapevolezza e di energia che si esplica nel ritmo
dell’azione.
A volte il tono si fa commosso, quando vagheggia un ideale di nobili valori cavallereschi, a volte
ironico e maliziosamente divertito, quando osserva i vizi umani e certa bassa commedia della vita:
gli amori facili, le beffe che gli intelligenti fanno ai gonzi, i religiosi che cedono a istinti non buoni
o ingannano la credulità delle folle ignoranti. Nasce l’erronea immagine di un Boccaccio cinico,
amorale, che si compiace di una comicità grassa e volgare. In realtà, anche nelle novelle di
carattere più spiccatamente erotico egli descrive con analisi attenta, con conoscenza psicologica, i
pensieri e gli affetti che danno impulso alle azioni, e, sempre, il suo interesse non va al fatto bruto
ma all’uomo.
Dice bene De Sanctis “se Dante ha scritto la Divina Commedia, Boccaccio ha dato vita alla
Commedia Umana”. E Auerbach “Decameron è la più grande storia di realismo nella letteratura
occidentale”.
Non è facile analizzare il mondo, l’uomo per tutte le stagioni: la diagnosi fatta da Boccaccio è la
più ampia possibile.

Filocolo
Boccaccio va a lezione di greco, anche se non lo impara bene, a differenza degli intellettuali
rinascimentali – Poliziano, dodicenne, sa poetare in greco; altri conoscono quattro lingue, italiano,
latino, greco, francese.
Filocolo, secondo Boccaccio, è composto da due parole greche che significano fatica d’amore. In
realtà è un nome inventato. È un’opera in prosa, da una leggenda medioevale, scritta nel periodo
napoletano: è la storia d’amore di Florio e Biancofiore, ricca di peripezie e avventure, secondo la
tradizione cortese.

Ninfale Fiesolano
È un poemetto scritto durante il periodo fiorentino. Non è la classica storia d’amore. La tipologia
umana è varia: il pastore Africo, che arde del suo giovanile amore; Mensola, la ninfa consacrata al
culto di Diana e al voto di castità, dolce e ingenua, travolta dal turbine della passione per Africo, da
cui ha un figlio, e per punizione trasformata in fiume da Diana; i vecchi genitori di Africo che
educano il nipotino e non lo capiscono pienamente.
Il Poeta tende ad una concezione euforica e dinamica della vita, e privilegia la gioventù, che ritrae
con limpida evidenza in un quadro borghese, di quotidianità.

Teseida
Poemetto in ottave, probabilmente l’ultima opera del periodo napoletano. Boccaccio vuole
comporre un poema epico, sul grande modello dell’Eneide. La materia epica risulta, però, arida e
fredda e il centro vivo è ancora un’esperienza amorosa.
Teseo, re di Atene, è in guerra contro le Amazzoni e contro Tebe. Due prigionieri tebani, intimi
amici, Arcita e Palemone, s’innamorano entrambi di Emilia, cognata di Teseo.
Si affrontano in duello: vince Arcita ma, in seguito, è vittima di una mortale caduta da cavallo e
affida Emilia a Palemone.
Fiammetta
È la migliore opera in prosa, prima del Decameron, scritta durante il periodo fiorentino.
La protagonista narra il suo amore per Panfilo; la tristezza del distacco, quando il giovane è
richiamato a Firenze dal padre; la desolazione della solitudine fino a un tentativo di suicidio,
quando sa del tradimento di Panfilo con un’altra donna. Il romanzo è autobiografico – la vicenda
d’amore tra Maria d’Aquino e Boccaccio.

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Lo scrittore, però, è riuscito ad osservarla con maggiore obiettività, libero ormai dalla passionalità
delle opere precedenti, capace di una fine acuta analisi psicologica, anche se ancora inceppato da
propositi di eleganza.
Le opere minori rivelano la graduale maturazione di Boccaccio, nella ricerca di umanità e di
stile, la cui sintesi si realizza nel Decameron.
Per quanto riguarda i contenuti, sono presenti i grandi temi – amore, paesaggio, intelligenza,
magnanimità – ma in modo così disorganico che è difficile stabilire la sua visione della vita, quale
emerge dal Decameron.
Ci sono poi i limiti formali: il linguaggio è un cocktail, un’alternanza di popolare, comico-
realistico, e di ricercato aulico, selettivo. Al contrario, nel Decameron, è il fiorentino parlato da
classi colte, lingua viva senza parole libresche, in un periodare ciceroniano, di classicismo stilistico.

Decameron
Con il suo capolavoro Boccaccio realizza la tanto ricercata sintesi di umanità e di stile e fonda la
prosa italiana.
Come dice Salinari, il Decameron, insieme alla Divina Commedia e al Canzoniere, raggiunge
l’apice della letteratura italiana.
Sono cento novelle, alle quali diede il titolo grecizzante di Decameron (dieci giornate), inserite in
una cornice, importante perché rappresenta il loro filo conduttore. Al di là del fine estetico, la
cornice ha un significato ideologico: Boccaccio rende esplicito il senso della sua opera, è
autocoscienza, momento programmatico.
Esprime, come in un vasto arazzo, il proprio atteggiamento nei confronti dello spettacolo
multiforme della vita, e quell’ideale che si rifrange nelle trame dei suoi racconti. È un ideale di vita
cortese, fondato sulla dignità dello spirito e il decoro dei modi, in un sereno, elegante vivere
civile, dove il vizio non è condannato, ma soltanto analizzato, e la virtù è umana saggezza, fatta di
consapevolezza, coerenza ed energia con cui affrontare l’esistenza.
Inizia con la connotazione di tempo e di luogo: 1348 – Firenze. La città è desolata dalla peste, dalla
morte, ma non solo. Vive una realtà di riflusso, di crisi della borghesia, di decadenza e
disfacimento dei valori dell’uomo.
All’astrattezza simbolica della “selva oscura” di Dante, Boccaccio contrappone la realtà storica, con
data e città precise.
Il mondo sociale del Decameron è quello della borghesia, ma mai mitizzata.
Boccaccio è consapevole di una crisi generale di valori, sotto la spinta delle trasformazioni
economiche, politiche, sociali che investono la società del suo tempo, tanto da giustificare qualsiasi
iniquità pur di conservare i privilegi.
Il Decameron è trionfo di realismo di vita contrapposto all’astrattezza di una cultura che ha cercato
di andare contro natura, senza la consapevolezza che ogni cultura che insegni a negare gli istinti
fallisce nell’educazione alla vita.
Vuole individuare le grandi virtù con cui rifondare la civiltà, passare dalla morte alla vita. È la
giovinezza, ingenua e pura, che può salvare il mondo senescente.
Dieci giovani si trovano a pregare per sfuggire alla peste: sette donne sagge, di sangue nobile, belle
di forme, di decoro e onestà – Pampinea, Fiammetta, Filomena, Emilia, Lauretta, Neifile, Elissa – e
tre uomini – Panfilo, Filostrato, Dioneo. Si ritirano in campagna, dove al paesaggio di morte della
città si sostituisce quello cortese.
La donna non ha più i tratti angelici e indefiniti delle stilnoviste, né la soavità muta di Laura: è la
creatura che impersona la bellezza e la grazia, vive con intensità i propri sentimenti e sa donarsi
nella gioia d’amore.

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È primavera: uccelli che cantano; acque limpide; aure fresche. La brigata si ritrova in una deliziosa
villa in collina ad organizzare e regolare la quotidiana vita comune.
Per vivere quel tempo, scelgono di danzare, cantare e raccontarsi novelle – una per ciascuno ogni
giorno, tranne il venerdì e la domenica, a ricordare morte e risurrezione di Gesù.
La peste è ormai un ricordo remoto. Inizia una vita idillica e serena, signorile e onesta. La natura
invita alla gioia, a ritrovare la propria integra umanità nel calore cordiale di un’armonica
convivenza. È questo lo sfondo ideale delle novelle: un mondo pervaso da un’ottimistica fiducia
nell’uomo, da un equilibrio fra uomo e natura, fra spirito e sensi, individuo e società.
Ci sono dei temi di vita fissi, ma c’è anche la libertà di raccontare novelle a piacere: all’interno
della cornice ordinata, decorativa, si può inserire il disordine gotico della vita. L’ultima giornata
sarà allietata dalla magnanimità di grandi feste.
Dall’Inferno della peste, della distruzione, si passa al Paradiso laico di giovinezza, amore, gioia di
vivere: è un messaggio ottimistico, di speranza in anni tragici.

Ser Ciappelletto
La prima novella della prima giornata è introdotta da Panfilo con alcune considerazioni: le pene del
vivere – la peste – richiedono il continuo aiuto di Dio, spesso invocato attraverso
l’intercessione dei Santi, sulla cui autenticità non c’è, però, certezza. Può dunque accadere di
credere santo uno che, invece, con ogni probabilità è dannato – Ser Ciappelletto.
Dio, comunque, guarda alla purezza di intenzioni di chi lo invoca, perciò ci si può rivolgere
fiduciosamente a Lui.
La morale della novella trova giustificazione nel contesto dell’opera: è un momento di liberazione
da quelle concezioni che Boccaccio considera impedimenti all’osservazione realistica e
comprensiva della vita e della complessa psicologia dell’uomo, suo fondamentale interesse di
narratore.
La morale, poi, non resta isolata. Cinque delle dieci novelle della prima giornata sono connesse con
la pratica religiosa del tempo. C’è un Giudeo che, dopo aver visto, a Roma, la sfrenata corruzione
del clero, si converte al Cristianesimo, convinto che deve essere altissima la santità di questa
religione, se può continuare a vivere pur essendo così tradita; è ripudiata ogni forma di intolleranza
religiosa in nome della purezza di cuore del credente (nov. 3 – Melchisedech e il Saladino); è
satireggiato il cedere dei monaci ai peccati della carne nonostante il loro tuonare contro di essi dal
pulpito; lo stesso vale per l’ipocrisia dei religiosi.
L’azione di Ser Ciappelletto è emblematica di questo mondo dominato dalla legge economica,
dalla sua logica fredda e spietata, dove anche la parola ha la forza dell’azione e può diventare
merce di scambio.
Ciappelletto, notaio abituato a fare atti notarili falsi, a suscitare ragioni di fiera discordia tra amici e
parenti e a compiere omicidi su richiesta, si trova un giorno in cattive condizioni sia economiche
che per quanto riguarda la sua reputazione sociale, irreparabilmente compromessa. Accetta di
regolare affari sleali, ma, mentre è ospite di due fratelli usurai, si ammala gravemente. Per salvare la
loro reputazione, decidono di far dare l’estrema unzione a quest’assassino che hanno in casa.
Chiamano un frate, troppo onesto e pio perché possa pensare all’abisso di cinismo e perversione di
un uomo che è in punto di morte. Ciappelletto ricorre ad un linguaggio evangelico ed ecclesiastico;
all’umile tono di chi si confessa pentito; alla confessione, tra le lacrime, di un vero peccato – l’aver
offeso la mamma. Maestro di ipocrisia e falsità, riesce nella sua confessione sacrilega e blasfema,
così da farsi ritenere santo e, dopo morto, essere considerato degno di culto religioso.

Melchisedec e il Saladino

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Il colloquio tra il saggio ebreo e il Saladino, grande sovrano musulmano, rivela il culto di
Boccaccio per l’intelligenza, la munificenza, la saggezza dell’uomo che conosce la vita e riesce a
districarsi dalle sue complesse situazioni.
I due protagonisti emergono come ingegni fini e aristocratici, pieni di decoro e di affabile liberalità.
Alla domanda insidiosa del Saladino – quale delle tre religioni sia quella verace, la giudaica o la
saracina o la cristiana – Melchisedec dà una risposta che mette d’accordo entrambi. Le tre religioni
vengono da Dio, quindi ugualmente degne di onore – onore che significa riconoscere il valore
effettivo dell’uomo, delle cose belle ed eccellenti.

Se l’intelligenza, il dinamismo sono valori precipui dell’uomo, c’è, però, la fortuna, il caso a
fare opposizione e a determinare la lotta.
La storia, che per Dante è frutto dell’azione di Dio tramite l’uomo, per Boccaccio è il regno della
fortuità, è caos, se non prevale l’intelligenza razionalizzata a trasformare il Caos in Logos.

Andreuccio da Perugia
Protagonista, come ha detto Croce, è il Caso, bizzarro e imprevedibile.
Nell’arco di una notte durissima, Andreuccio vive un rito di iniziazione: l’adolescente ingenuo e
rovinosamente disarmato di fronte alla vita passa ad un’intelligente consapevolezza che lo ridona
all’azione, fino a conquistare il dominio sugli eventi, a ritrovare quell’astuzia, prontezza ed energia
nell’affrontare le complesse situazioni del vivere che costituiscono virtù necessarie per Boccaccio.
Fondamentale per lo scrittore è anche l’ambientazione sociale: per questo predilige la città, in
particolare Napoli e Firenze, che lui conosce bene. In questa novella la ricostruzione delle vie di
Napoli fatta da Andreuccio ha una concretezza che appare fondata su precisi ricordi di Boccaccio. E
la scelta di quell’ambiente pittoresco della malavita napoletana sa creare l’atmosfera di continui
imprevisti e avventure voluti dal Caso.
Tra i racconti d’amore tragico spicca l’amore infelice di Lisabetta, moglie di Guglielmo
Rossiglione.
È una storia di ambiente feudale. Nell’ozio della vita al Castello, la donna si innamora di un
compagno di caccia del marito. È un amore vero, un trasporto ricambiato.
Il marito lo scopre, invita l’amico a caccia e lo uccide. Gli strappa il cuore, lo fa cucinare e lo dà a
cena alla moglie che, tranquillamente inconscia, dice che è buono. A fine banchetto, quest’uomo
feroce rivela la verità a Lisabetta: il suo amore non è passeggero, è un valore al di sopra della sua
vita e non le resta che gettarsi dalla finestra.
La diagnosi del tragico fatto è chiara: l’infamia di una società che non conosce i valori umani e,
laddove sia giustificata una punizione, ricorre ad una feroce scorrettezza.
La felicità raggiunta dagli amanti dopo eventi straordinari è tema di due capolavori.

Federigo degli Alberighi


Boccaccio guarda con nostalgia un passato ancora dominato dal codice cortese: l’ideale di dignitosa
compostezza, di signorilità, di civile decoro contrapposto alla dura realtà mercantile del
presente.
Federigo è l’emblema della vera cortesia, quella dell’anima. È uomo aristocratico, generoso,
liberale, nutre un amore nobilissimo per Giovanna, bella e onesta, che lui cerca inutilmente di
conquistare con l’eleganza e lo splendore di balli, feste, banchetti e gioia di donare.
L’abuso della liberalità e della munificenza lo porta alla povertà, per cui decide di ritirarsi nel suo
podere di campagna: non può più vivere decorosamente in città e non vuole apparire spregevole agli
occhi di colei che ama. Non chiede l’aiuto di nessuno e sopporta la miseria con grande dignità,
vittorioso nella lotta contro la sfortuna.

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Gli rimane il falcone, a lui tanto caro, ultimo legame fra sé e il passato signorile: lo fa volare
giornalmente, con grande diletto dell’unico figlio di Giovanna.
Il giovinetto si ammala e la donna, vedova onesta nel suo signorile ritegno e madre autentica,
conosce ciò che il figlio serba nel profondo del suo cuore – lui crede che guarirebbe subito se
potesse avere il falcone di Federigo.
Giovanna, dopo tante esitazioni, con una compagna, fa visita a Federigo: vuole restare a desinare
con lui per chiedergli in dono il falcone.
Se l’amore di madre è capace di vincere la ritrosia della donna, la sincerità e la profondità
dell’amore spingono l’uomo a sacrificare ciò che ha di più caro: cucina il falcone per la cena. Non
è il sacrificio che avrebbe voluto Giovanna. Di qui l’estrema umiliazione di Federigo. Ma la dignità
con cui sopporta il fallimento e la sua magnanimità spingono Giovanna a donargli il suo affetto:
preferisce sposare un uomo povero ma veramente nobile come Federigo piuttosto che un uomo
ricco come lei.
Divenuto così accorto amministratore dei beni di famiglia, Federigo termina con lei i suoi anni in
letizia e ricchezza.

Nastagio degli Onesti


È chiaro esempio della capacità dell’uomo di dominare gli eventi.
Petrarca ha un carattere contemplativo e il suo vocabolario è statico; Boccaccio rappresenta la realtà
dell’uomo in azione, sempre pronto ad adattarsi, a proprio vantaggio, alle varie situazioni e, anche
quando è sconfitto nel suo rapporto con il mondo, non si arrende. È l’uomo borghese che mira a
trasformare il mondo credendo nel valore della sua intelligenza.
Nastagio è a Ravenna e si innamora di una giovane che disdegna il suo amore e lo fa soffrire a tal
punto che pensa di suicidarsi. Consigliato dagli amici lascia Ravenna e va in pineta a meditare.
Solo e pensoso, sembra un uomo petrarchesco. Ecco, all’improvviso, un tramestio e l’azione ha
inizio. Assiste alla caccia infernale di un cavaliere, suicida per amore, il quale insegue la donna che
fu verso di lui troppo crudele ed è condannata ad essere straziata. Nastagio è innamorato sì, ma
vigile, consapevole che l’amore è sintesi di sentimento e di ragione. Lucidamente proteso alla
conquista della sua donna, decide di farla assistere, insieme a tutti i parenti, all’orrendo spettacolo.
Ne consegue il matrimonio dei due e Nastagio rende maliziosamente noto che dopo quella visione
le donne di Ravenna divennero più arrendevoli ai desideri dei loro amanti.

Jacopo Passavanti, frate domenicano, è un bravo predicatore trecentesco, autore di un trattato


dottrinale – Lo specchio di vera penitenza. Raccoglie le sue prediche, aneddoti e novelle tesi a
dimostrare l’esigenza teologica della confessione e del pentimento. Durante la sua predicazione a
Firenze, Boccaccio ascolta un suo celebre racconto – Il carbonaio di Niversa. È la leggenda della
caccia infernale relativa agli amanti colpevoli che ritornano dopo morti sulla terra, per scontare
orrendamente il peccato. La condanna è per il loro amore carnale. È scritta bene, ma rispecchia il
mondo teocratico, ecclesiale del Medioevo. L’evento è rappresentato con concentrazione
drammatica al fine di influenzare le coscienze: attraverso il pentimento, il tormento avrà un giorno
fine, ma nulla toglie al suo orrore.
Diversa è la trascrizione di Boccaccio: riconduce la vicenda alla vita quotidiana, persino
mondana. Differente è l’idea della vita e dei rapporti umani: il peccato della donna è quello di non
aver ceduto all’amore, è peccato la crudeltà in amore.
L’intelligenza, la saggezza, il garbo, la liberalità possono innalzare ad un ideale aristocrazia
dell’animo, che non è più prerogativa di pochi eletti, ma anche conquista di gente socialmente
modesta. È quello che conta per Boccaccio più della nobiltà di sangue.

Cisti fornaio
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Bella è la ricostruzione dell’ambiente: pulito, ordinato, dominato dalla figura di Cisti, uomo che si è
fatto da solo ed è ricchissimo, anche se la fortuna lo vuole in una posizione sociale modesta.
A Firenze sono giunti due ambasciatori del Papa per cercare di mettere pace tra le due fazioni dei
Guelfi Bianchi e Neri: sono ospiti di Messer Geri, che collabora con loro. Al mattino sono soliti
passeggiare lungo l’Arno e Cisti, uomo d’azione e prontezza di spirito, si fa trovare davanti
all’uscio di casa: su un tavolinetto prepara una bottiglia del suo buon vino, messo in una lucente
secchia di acqua fresca; un orcetto, tipico manufatto di Bologna; bicchieri nitidi, che sembrano
d’argento.
È un quadretto pieno di grazia, dove la pulizia esterna riflette l’intima lindura di Cisti, che con il
farsetto e il grembiule bianchissimi suggerisce un’immagine di finezza e di eleganza adatte ai
signori.
Pensa che sarebbe grande cortesia invitarli a bere, ma la differenza di condizione sociale gli dà la
consapevolezza che sarebbe gesto troppo familiare. Deve dunque agire in modo che siano loro ad
invitarsi da soli. Si mette a centellinare saporitamente il suo vino così da destare in loro il desiderio.
Riesce nel suo intento e Cisti ha la gioia di onorarli e di essere onorato quale valente uomo, come
lo definisce Geri in modo affabile e cortese.
Il vino è apprezzato a tal punto che ogni mattina tornano insieme a gustarlo e, quando gli
ambasciatori si apprestano a lasciare la città, Geri offre un magnifico banchetto, al quale invita i
cittadini più onorevoli e tra questi Cisti: intelligente e fiero della condizione conquistata con “il
proprio ingegno e industria umana”, vuole dignitosamente rimanere al suo posto.

Frate Cipolla
Il frate è astuto e ameno, dotato di una mirabile prontezza di spirito e di una eloquenza fatta di
frasi ampollose e altisonanti, tali da suscitare stupore negli ignoranti Certaldesi. Racconta un
castello di menzogne per raggiungere il suo scopo: la presentazione della reliquia, i miracolosi
carboni di San Lorenzo, con cui traccia altrettanto miracolosi crocioni sul bianco abito della festa
dei Certaldesi, affollatisi attorno a lui: è il simbolo della loro stoltezza.
C’è l’indubbia satira per il culto delle false reliquie diffuso nel Medioevo, per carpire la fede della
gente più incolta. Boccaccio, però, pone in caricatura proprio i Certaldesi per la loro goffa credulità
e si diverte di fronte all’improntitudine e alla furbizia del frate, che egli guarda con quella simpatia
che prova verso le persone intelligenti, abili e piene di vitalità.

Guido Cavalcanti
Disegna con simpatia nostalgica la figura di Cavalcanti: appartiene ad un’età liberale e cortese
che lo scrittore lamenta ora perduta, soffocata dalla cupidigia di denaro e dalla volgarità che
ne consegue. Non solo la signorilità del tratto affascina Boccaccio, bensì la sua superiore cultura, la
quale affina l’intelligenza e l’abilità di vanificare l’incomprensione della gente volgare con una
sagace inconfutabile battuta di spirito.
Oltre al culto delle virtù cavalleresco-borghesi, lo scrittore esprime l’amore per la poesia e per la
cultura come formatrici di una più elevata aristocrazia umana.

Nella sua analisi della realtà, in contrasto con il cavaliere dell’ingegno e dell’industria umana,
Boccaccio fa emergere la figura dello stupido che si crede intelligente ed è arrogante. Non lo
giudica però, sono i fatti a dare il giudizio; lo osserva con il suo sorriso, libero da pregiudizi,
capace di attenuare anche la negatività dei non-valori dell’uomo.

Calandrino e l’elitropia

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Figura emblematica è Calandrino, protagonista di novelle dove si parla di beffe, di burlatori e di
burlati. Stolidità, piena fiducia in sé stesso, ingordigia, avarizia, cupidigia, una vaga astuzia
animalesca rafforzano il suo egoistico sfrenato desiderio di ricchezza, di dominio e di potenza:
sono oggetto di beffe feroci da parte di amici sornioni e burloni.
Maso si tuffa in un discorso indiavolato, un’arruffata girandola di trovate per frastornare la testa di
Calandrino: esiste il paese di Bengodi, dove trovare l’elitropia, pietra dalle virtù magiche, capace
di rendere invisibili. Preda di un’agitazione febbrile per l’impazienza di coronare il suo sogno,
svela il segreto ai due amici Bruno e Buffalmacco, che fingono la loro piena adesione. Calandrino
crede di aver trovato la pietra per primo e di essere divenuto invisibile. Così ne raccoglie in quantità
e, nella sua cupidigia e idiozia, non vuole svelarlo ai compari: si beffano di lui colpendolo a sassate,
che sopporta soffrendo eroicamente in silenzio. Giunto finalmente a casa, la moglie lo saluta con
una battuta sarcastica, chiara espressione che chi comanda non è Calandrino: la ritiene rea di aver
rotto l’incantesimo della pietra, quindi merita il suo scoppio di furore e di violenza.
Alla fine, è ancora lui, povero gonzo, ad essere gabbato: gli amici gli rimproverano di non aver
rivelato loro il ritrovamento dell’elitropia.

Boccaccio rivela una volontà sinfonica nell’alternanza di giornate frizzanti, scoppiettanti,


umoristiche e un po’ sboccate ad altre dal ritmo lento, serio, fino al grande adagio, al tempo
maestoso dell’ultima giornata. Protagonista è la cortesia, come liberalità e magnanimità,
dell’animo e delle azioni: il Decameron termina nel Paradiso terrestre.
Griselda dà prova di magnificenza con il suo amore, che è pazienza, fedeltà, obbedienza e
venerazione assolute nei confronti del marito.

Ghino di Tacco e l’abate di Clignì


Sono intimamente congiunti sul comune culto della signorilità, che Boccaccio crede si possa trovare
in chiunque.
Ghino, gentiluomo senese, ricordato da Dante nel Purgatorio, è dipinto da Boccaccio come bandito
di strada, tra Lazio e Toscana, ma celebre per la sua liberalità.
L’abate di Clignì, colto e ricchissimo, con il permesso di Papa Bonifacio VIII, lascia Roma per
recarsi ai bagni di Siena, a curare i suoi problemi di stomaco. Parte con grandissima pompa di
bagagli, cavalli e servitù, ma Ghino li sorprende e li fa prigionieri. Sono trattati con cortesia, ma
l’abate, adirato e sdegnato, ha un atteggiamento arrogante. Ghino vuole educarlo all’umiltà e
guarirlo con una dieta opportuna: una tovaglia bianchissima, pane abbrustolito e vino pregiato.
Rimessosi in perfetta salute, l’abate ora vuole tornare libero: Ghino confessa che, da uomo gentile,
cacciato da casa e ridotto in povertà, è diventato un brigante e nemico della corte di Roma non
per malvagità, ma per poter difendere la propria condizione di nobile. Ritiene l’abate valente
signore ed è pronto a lasciarlo libero, portando con sé una parte o anche tutto ciò che possiede.
L’abate riconosce nel suo ospite un autentico gentiluomo e gli lascia quasi tutto il suo,
dispiaciuto che il capriccio della fortuna lo costringa ad un mestiere così biasimevole.
Tornato a Roma, chiede al Papa di rendere grazia a Ghino. Bonifacio VIII lo chiama alla sua corte,
in breve ne riconosce il valore e gli dona una grande prioria dell’Ordine degli Spedalieri di San
Giovanni di Gerusalemme, di cui diventa Cavaliere.

Lo Stile. Boccaccio è alla ricerca di una coscienza nuova che consenta di fondare una cultura nuova
e nuovi rapporti nella società. Non è più orientato verso la trascendenza e i grandi problemi morali e
religiosi di Dante, ma verso lo studio dell’uomo, che analizza nella gamma complessa dei suoi modi
di sentire e di agire.

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L’analisi dei personaggi in una concreta dimensione psicologica, storica e sociale trova la sua
giusta espressione in una prosa dal ritmo lento, ampio, musicale, ipotattico, come dice De
Sanctis: servendosi del classico fiorentino colto ama indugiare su particolari, situazioni secondarie,
figure minori, non sfronda, e dal punto di vista sintattico predilige il periodo latineggiante.
Il suo stile non è umorale, emozionale, ma riflette il distacco nell’osservare senza pregiudizi e
senza dare giudizi: darà tono solenne alla prosa italiana.

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