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(Nicola Bonazzi, Andrea Campana, Fabio Giunta, Nicolò Maldina, Gian Mario Anselmi)
LA SCENA DEL MEDITTERANEO
Dante come ponte tra età antica e moderna, vero e proprio padre della patria. Letteratura come luogo in
cui confluiscono le esperienze più importanti di molte discipline e saperi.
Medioevo: riscoperta progressiva del patrimonio classico greco e latino grazie anche alla cultura cristiana
medievale. Testi greci conosciuti essenzialmente grazie alle traduzioni e ai commenti arabi, dal momento
che la conoscenza del greco in occidente andò sostanzialmente perduta fino alla caduta per mano turca di
Costantinopoli, e rinascerà in Italia grazie ai dotti bizantini esuli nel primo Umanesimo.
Società classica e poi medievale costruita sul primato del bellatores, celebrati nella grande poesia epica,
dell’aristocrazia di sangue, del vir condottiero, politico, mercante, vescovo: si affacciano in Europa prima e
in Italia poi (corte di Federico II e Scuola Siciliana) i modelli del costume amoroso e della sua trascrizione
poetica, fino ad arrivare al tema religioso-salvifico dello Stil Novo. Per la letteratura italiana lo snodo
fondamentale è l’epoca del 1200 e di Dante, Petrarca, Boccaccio e del primo Umanesimo.
Il latino era la lingua principale, strumento di comunicazione nell’Europa dei dotti, delle corti, dei centri
conventuali e religiosi, nelle università: a partire dall’anno 1000 emergono definitivamente lingue e dialetti
che stanno alla base delle lingue moderne, che guadagnano piena dignità letteraria (denominate lingue ro
manze in quanto derivate dal ceppo romano-latino a tutte comune; fondamentale in questo senso fu anche
la cultura Bizantina, che ebbe in Ravenna il suo centro principale in occidente). La Chiesa si dimostrò molto
cauta nell’uso del volgare, assumendo precocemente il latino come propria lingua per il suo valore
universale: San Girolamo tradusse in latino la Bibbia, Sant’Agostino scrisse le sue opere in questa lingua.
Il ruolo della Chiesa fu fondamentale grazie a monasteri e abbazie, centri di propaganda non sono solo
religiosa ma anche culturale: importantissimo fu il ruolo dell’ordine benedettino e dei suoi scriptoria, nei
quali venne trascritto e tramandato un vastissimo patrimonio di testi. Il cristianesimo organizzato andò
quindi ad occupare quel vuoto lasciato dalla generale crisi delle istituzioni laiche, svolgendo un
determinante ruolo culturale.
L’avvento al potere tra VIII-IX secolo di Carlo Magno produsse effetti significativi sul piano culturale: la sua
idea imperiale si ispirava all’antico modello romano, e da qui derivò l’impulso da lui dato agli studi classici e
alla promozione culturale in genere (corte all’interno della quale gli intellettuali tornarono ad essere
protagonisti in campo letterario, filosofico, artistico, mantenendo una piena autonomia rispetto ai centri
religiosi). Presso la capitale del suo impero, Aquisgrana, sorse un vero e proprio gruppo culturale guidato
dal grande monaco Alcuino, che richiamò le maggiori intelligenze del tempo (Paolo Diacono, Teodulfo,
Eginardo, Dungal); venne ripreso lo studio dei testi antichi, riscoperti, riletti e ricopiati dagli amanuensi: Il
libro divenne un bene sempre più prezioso, anche se il numero delle persone alfabetizzate era ancora
bassissimo. Da queste considerazioni deriva l’importanza che l’oralità ebbe nel medioevo: veicolo talora
quasi unico odi trasmissione di saperi e testi di cultura religiosa e profana elevata in contesti socialmente
alti, eppure non sempre permeabili alle pratiche scrittorie e di alfabetizzazione dopo il crollo delle istituzioni
scolastiche romane.
In questa epoca ci fu inoltre un rinnovamento laico del sapere con la nascita delle università in alcune città
europee, luoghi in cui le universitates (comunità) di studenti, guidate da appositi maestri, potevano
approfondire e perfezionare particolari branche del sapere: innanzitutto le leggi fondate sullo studio del
diritto romano che si andava riscoprendo dopo secoli di abbandono grazie al corpus giustinianeo (le prime
facoltà furono infatti quelle di giurisprudenza). Bologna fu centrale da questo punto di vista per la cultura
medievale, ed è paragonabile a ciò che fu Firenze per il Rinascimento.
L’apprendistato culturale e scolastico del giovane del tempo contemplava lo studio di sette materie\arti in
latino: grammatica, retorica, dialettica, aritmetica, geometria, astronomia, musica; una volta completato
questo ciclo, gli studenti più ricchi e volenterosi passavano agli studi universitari di giurisprudenza,
medicina, filosofia o alla teologia, considerata la scienza per eccellenza in quanto materia di studio erano le
“cose divine”. Queste considerazioni fanno riferimento ad un quadro generale, nel quale si distinguono poi
tante realtà particolari differenti (In Italia fondamentali furono i centri di Pavia, Milano, Ravenna, Bologna).
“Rinascita” dell’XI secolo e diffusione di nuovi generi: opere di storia, trattati, poesia epica, inni sacri e laudi,
biografie, poesie di tipo profano e goliardiche. Prende piede insomma una letteratura d’intrattenimento
(radici della novellistica).
ITALIANI, FRANCESI, PROVENZALI
Modelli della letteratura italiana delle origini
Le prime letterature volgari degne di questo nome si affermarono tra XI e XII secolo in Francia, imponendosi
a livello europeo fino a tutto il XIII. L’Italia risentì di un forte ritardo: il primo testo solitamente citato è il
Cantico di frate Sole di San Francesco d’Assisi (1224-26), duecento anni più tardi.
Le letterature cui facciamo riferimento sono:
- quella del nord-ovest della Francia, in lingua d’oil (antico francese o oitanico): si concentrò
soprattutto sull’epica e produsse un’enorme quantità di chanson de geste, poemi narrativi
cavallereschi a sfondo nazionalistico che celebravano per lo più le imprese di Carlo Magno e dei
suoi paladini contro i saraceni invasori (Chanson de Roland la più famosa), e di romans, romanzi
spesso chiamati “cortesi” che seguivano l’avventura di un cavaliere singolo o di un ristretto gruppo
di cavalieri in cerca quasi sempre di un oggetto magico o sacro (come il Santo Graal) o di una dama
scomparsa e in pericolo da salvare e riportare alla propria corte; i romans attingevano a cicli
narrativi classici (Alessandro Magno, Tebe, Troia) e leggendari (Artù e i cavalieri della tavola
rotonda): Chrétien de Troyes ne fu il massimo interprete.
- quella della Provenza e dell’Aquitania, in lingua d’oc (provenzale o occitanico o linguadoca): il
territorio era qui diviso in piccole corti indipendenti, e i poeti, di diversa estrazione sociale anche se
di consueto nobili, erano detti trobadores (dal verbo “trobar”: comporre poesie); da ricordare
Bernatt de Ventadorn fautore del trobar leu, poetare semplice, e Arnault Daniel fautore del trobar
clus, poetare difficile ed ermetico.
Tali letterature si servirono del tema amoroso come medium. Il rapporto uomo-donna era descritto come
un rapporto vassallatico nel quale la donna rappresentava nel gioco delle parti erotico il feudatario, al quale
l’amante vassallo doveva porgere omaggio e sottomissione: donna come domna (domina: padrona) o
midons (meus dominus: mio signore). Principale teorico di tale rapporto, definito “amor cortese”, fu Andrea
Cappellano.
Biografia
Dante Alighieri nasce a Firenze nel 1265 in una famiglia della piccola nobiltà fiorentina. Il suo primo e più importante maestro di
arte e di vita è Brunetto Latini, che in questi anni ha una notevole influenza sulla vita politica e civile di Firenze. Dante cresce in un
ambiente "cortese" e stringe amicizia con alcuni dei poeti più importanti della scuola stilnovistica: Guido Cavalcanti, Lapo Gianni e
Cino da Pistoia. Ancora giovanissimo conosce Beatrice (figura femminile centrale nell'opera del nostro poeta), a cui Dante è legato
da un amore profondo e sublimato dalla spiritualità stilnovistica. Beatrice muore nel 1290. Dopo questa disgrazia Dante vive un
momento di crisi. Dante, a partire dal 1295, entra attivamente e coscientemente nella vita politica della sua città. La sua carriera
politica raggiunge l'apice nel 1300 quando Dante, guelfo di parte bianca, viene eletto priore (la carica più importante del comune
fiorentino): il poeta è un politico moderato, tuttavia convinto sostenitore dell'autonomia della città di Firenze, che deve essere
libera dalle ingerenze del potere del Papa. L'anno successivo, il papa Bonifacio VIII decide di inviare a Firenze Carlo di Valois, fratello
del re di Francia, con l'intenzione nascosta di eliminare i guelfi bianchi dalla scena politica. Il poeta non ritornerà mai più nella sua
città natale, è condannato ingiustamente all' esilio. Iniziò un pellegrinaggio per l'Italia. Prese contatto con Bartolomeo della Scala a
Verona e con i conti Malaspina in Lunigiana, e tra il 1304 e il 1307 compose il Convivio (poi rimasto interrotto) per acquisire meriti
di fronte all'opinione pubblica (per lungo tempo coltivò l'illusione di poter essere richiamato nella sua città come riconoscimento
della sua grandezza culturale). Appartiene allo stesso periodo il De Vulgari Eloquentia. Col passare degli anni Dante iniziò a vedere il
suo esilio come simbolo del distacco dalla corruzione, dagli odi e dagli egoismi di parte. La denuncia e il tentativo di indirizzare di
nuovo l'uomo verso la retta via sono per lui l'ispirazione di una nuova poesia che prende forma nella Divina Commedia.
L'imperatore Arrigo VII continua a sostenere le idee politiche di Dante, possibile portatore di pace nella nostra penisola; ma di
nuovo la speranza svanisce con la morte improvvisa dell'imperatore nel 1313. Muore a Ravenna nel 1321.
Senilità
Nel 1361 perde il figlio Giovanni e il caro amico Socrate, al quale aveva dedicato la raccolta di lettere
Familiari. In questa fase inizia a scrivere delle lettere sulle “cose senili” (o Rerum senilium libri) poi raccolte
in 17 libri e dedicate all’amico Francesco Nelli. Queste dure raccolte poetiche sono veri e propri
monumenti che Petrarca innalza alla propria carriera: infatti le Familiari si concludono con un dialogo con i
classici del passato (Cicerone, Quintiliano, Livio, Virgilio, Omero ecc.), e le Senili si concludono con una
missiva ai posteri in cui il nostro si propone come ponte fra presente e futuro.
Dalla Senile n.17, diretta a Boccaccio, apprendiamo che prima di morire Francesco ha potuto sfogliare il
Decameron: rimane molto colpito dalla novella di Griselda (x,10), così la impara a memoria e la riscrive in
latino con il titolo De insigni obedientia et fide uxoria, facendola diventare famosa in tutta Europa.
Nel 1367 viene pubblicata un’opera iniziata da Petrarca molti anni prima, intitolata De remediis utriusque
fortune (“rimedi per l’una e per l’altra sorte”): centinaia di brevi dialoghi tra Gioia e Speranza, tra Dolore e
Timore, con la Ragione che sostiene l’esigenza dell’equanimità sia nella buona che nella cattiva sorte. Carica
di precetti della filosofia stoica e di riferimenti a Livio, Cicerone, Seneca. Ebbe molto successo in Francia.
Nel 1368 Francesco si trasferisce a Padova, e poco dopo ad Arquà dove trascorre gli ultimi quattro anni
della sua vita. Morirà il 18-19 luglio 1374, poche ore dopo aver terminato l’ultimo dei suoi Trionfi. Tale
opera è una serie progressiva di sei “visioni” in cui il trionfatore di un capitolo soccombe al successivo:
amore trionfa su uomini, pudicizia su amore, morte su pudicizia, fama su morte, tempo su fama, eternità su
tempo. Ricco di riferimenti all’amata Laura, con la quale il poeta dialoga nel trionfo della morte. Tale opera
sarà divulgata postuma dal genero Francescuolo da Brossano e da Lombardo Della Seta.
La biblioteca
La produzione di Petrarca è legata alla sua attività di lettore, di studioso e di umanista. Possedeva la più
ricca biblioteca privata della sua epoca: acquistava molti libri, altri li faceva copiare o li riceveva in dono,
altri ancora li cercava nei monasteri e nelle abazie del nord Europa durante i suoi viaggi diplomatici (in una
di queste occasioni riporta alla luce le Epystole di Cicerone). Informazioni relative alla composizione della
sua biblioteca ci arrivano da due fonti: la prima risale allo stesso poeta, che intorno al 1333 annota i nomi
dei suoi libri peculiares nel foglio di guardia del codice Parigino Latino 2201; la seconda deriva dallo studio
delle sue postille autografe, cioè delle annotazioni ai margini dei suoi libri e delle sue opere. Possedeva libri
in molte lingue e di molte epoche: la sezione ellenica appare marginale rispetto alle altre, specialmente se
confrontata a quella latina, in cui spiccano gli autori che più ama (Cicerone, Virgilio, Livio); non mancano
autori di età cristiana e i testi medievali (Tommaso d’Aquino, Riccardo di San Vittore, Dante e Boccaccio).
Tutti questi testi avevano attraversato molti secoli perdendo la loro esatta fisionomia, risultando corrotti
dalle numerose ed errate trascrizioni: il nostro studia per ricondurli alla forma più vicina possibile
all’originale, esercitando su di esse uno spirito critico e fondando le basi della scienza della ricostruzione del
testo, cioè la filologia (famoso ad esempio il lavoro sulle Decadi di Tito Livio). Petrarca dimostra una nuova
sensibilità nei confronti dell’aspetto materiale del testo: grafia, distribuzione sulla pagina, materiale della
pagina stessa, conservazione dei libri. Egli favorisce il passaggio dall’oscura grafia gotica a una scrittura più
chiara e leggibile: la cultura è un bene da trasmettere ed è quindi fondamentale rendere più facile e
immediata la fruizione del sapere.
Assenza vistosa nella biblioteca è costituita dalle Metamorfosi di Ovidio, testo sicuramente fondamentale
per il poeta (riconosce al mito valore estetico e letterario, e lo utilizza in chiave personale).
Bilinguismo
Durante il periodo giovanile trascorso a Bologna, dove rimane affascinato dal fermento culturale del tempo,
si cimenta per la prima volta nella sperimentazione della poesia volgare: egli si muove all’interno del nuovo
codice linguistico con cautela, e vi lavora in continuazione per perfezionarlo affinché possa diventare
esemplare ed illustre. La dignità del volgare era già stata sostenuta e dimostrata da Dante nel trattato De
vulgari eloquentia. Dante usa un registro plurilinguistico, Petrarca invece ne usa uno unilinguistico: mentre
nel primo convivono diversi stili espressivi, da quelli bassi e corposi dell’Inferno a quelli rarefatti e sublimi
del Paradiso, nel secondo vengono eleminati i toni estremi per mantenere la lingua su un livello mediano e
quindi perfetto. Il volgare è quindi per Petrarca una lingua giovane da consolidare.
Il latino splende invece di gloria secolare, e rappresenta per il nostro la lingua più familiare: lo predilige per
le opere di carattere filosofico ed erudito, in cui linguaggio tecnico e strutturazione del pensiero si
avvalgono di una tradizione consolidata. Il latino è la lingua dell’anima, della confessione, usato quindi
anche per le opere più autobiografiche e per le postille che riportano sia aspetti tecnici e filologici sia
riflessioni e interventi intimi e personali.
Petrarca penitenziale
Al verso undici del sonetto proemiale del Canzoniere leggiamo “di me medesimo meco mi vergogno”
(allitterazione più poliptoto): la voce del poeta è lacerata dalla meditazione sui propri peccati, come risulta
anche nelle opere Salmi penitenziali e Preghiere.
Ai margini del Parigino Latino 2923, contenente l’epistolario di Abelardo ed Eloisa, annota allusioni ai propri
più intimi e riservati turbamenti, segnali di un’incessante lotta con sé stesso e con l’ardore delle proprie
passioni. Dei peccati carnali si fa menzione anche nella lettera Senile VIII a Boccaccio, dove il poeta afferma
che grazie a Dio è riuscito progressivamente a distaccarsene. Nella Familiare X 5-29-30 al fratello Gherardo
afferma la sua attrazione per le donne, creature inquietanti e misteriose che riesce però a evitare e alle
quali preferisce la morte, almeno a suo dire.
Petrarca e Boccaccio
I due si vedono per la prima volta nell’autunno 1350, durante la sosta fiorentina di Petrarca che era diretto
a Roma per il giubileo: a questo primo incontro ne seguiranno altri (Padova 1351-1368, Milano 1359,
Venezia 1363). Ci rimane la loro corrispondenza epistolare: le lettere del Boccaccio sono molto più
numerose e di tono immediato e occasionale, mentre quelle del Petrarca sono in numero minore e molto
più curate nella forma ma probabilmente più pesate e meno autentiche.
Alcuni codici petrarcheschi furono nelle mani di Boccaccio, il quale siglò le sue letture con la sua naturale
inclinazione all’illustrazione: celebre il disegno dell’airone (uccello considerato tra i più saggi, che ha paura
delle tempeste: allegoria che rappresenta Francesco) e di Valchiusa nel Plinio di Petrarca; tale disegno
rappresenta il viaggio spirituale verso la salvezza, per mezzo dell’airone che risale una irta salita.
Boccaccio inoltre offrì la sua opera al severo giudizio dell’anziano Petrarca che ne criticò il codice linguistico
e la vanità sensuale, ma che restò colpito dall’exemplum morale dell’ultima novella, quella di Griselda
(moglie sottoposta dal marito a durissime prove che ne dimostrassero virtù e fedeltà): la tradusse in latino
col titolo De insigni obedientia et fide uxoria facendone un’allegoria della tolleranza cristiana di fronte alle
dure prove a cui viene sottoposta l’esistenza terrena negli imperscrutabili disegni divini.
Biografia
Nato ad Arezzo il 20 luglio 1304, fanciullo, dovette seguire il padre Ser Petracco, notaio fiorentino esiliato da Firenze per le sue idee
politiche, ad Avignone, allora sede pontificia. Presso la vicina università di Montpellier inizia, su richiesta del padre, lo studio delle
materie giuridiche che proseguì presso l'università di Bologna, ma ben presto si appassionò allo studio degli antichi. A Bologna tra
coltivò numerose amicizie tra cui quella con il principe romano Giacomo Colonna. Nel 1326 la morte del padre richiamò Francesco e
suo fratello Gherardo in Francia. Ad Avignone il 6 aprile 1327, giorno del venerdì santo, il poeta vide Laura la donna che amerà
anche dopo la sua morte che avvenne, a causa della peste, il 6 aprile 1348. Nel 1330, come cappellano, entrò al servizio della
famiglia Colonna. L'occupazione gli diede l'occasione di viaggiare per la Francia, le Fiandre e la Germania. Venne accolto dai Signori
che allora dominavano le città italiane conoscendo i più illustri letterati e poeti del tempo. Durante questi viaggi generò i due figli
Giovanni (1337) e Francesca (1343). Il 1 settembre del 1340 mentre si trovava in ritiro a Valchiria, a poche miglia da Avignone,
venne informato da parte del Senato Romano e dell'Ateneo di Parigi dell'offerta a essere incoronato poeta: dopo essere stato
esaminato per tre giorni dal re di Napoli Roberto d’Angiò, nel giorno di Pasqua del 1341 venne cinto dalla corona di poeta in
Campidoglio. Dal 1353 visse in Italia a Milano e in seguito a Venezia e Padova per stabilirsi infine ad Arquà, sui colli Euganei, dove
morì il 19 luglio 1374.
GIOVANNI BOCCACCIO (1313-1375)
Un toscano alla corte degli Angiò
Nasce a Firenze/Certaldo nel 1313 da madre ignota e da Boccaccio di Chiellino, ricco mercante legato ai
Bardi, che voleva fare del figlio l’erede dei suoi commerci. Dopo i primi studi grammaticali venne mandato a
bottega nel fondaco dei Bardi a Napoli, città nella quale i Boccaccio vivevano dal 1327 in quanto il padre era
stato nominato rappresentante della compagnia presso gli Angioini (la corte aristocratica e cortigiana della
città influenzò molto la cultura del nostro). Giovanni iniziò ben presto i corsi di diritto e a studiare materie
umanistiche da autodidatta: poté frequentare Cino da Pistoia (professore di diritto e poeta volgare che gli
trasmise la passione per Dante e Petrarca) e gli intellettuali Andalò del Negro, Paolo d’Abaco e Paolo da
Perugia, e poté consultare i volumi della ricca biblioteca di re Roberto, che spaziavano dai classici antichi ai
testi mediolatini a quelli della letteratura volgare. Dal 1334 Boccaccio inizia a scrivere:
- nella Caccia di Diana, poemetto in terzine dantesche, esalta la forza nobilitante dell’amore,
calando la vivace mondanità femminile della corte angioina in forme letterarie legittimate dalla
tradizione classica e romanza.
- Nel Filocolo, ampio romanzo in prosa realizzato ispirandosi ad Ovidio, riscrive la storia narrata
nell’opera francese Conte de Floire et Blanchefor (l’amore contrastato del conte Florio per la nobile
orfana Biancifiore, che avrà lieto fine) facendone un romanzo di formazione in cui il protagonista
uscirà vittorioso e cristiano dalla vicenda.
- nel Filostrato (1337) narra un episodio del ciclo troiano, e cioè la conquista e poi la perdita di
Criseida da parte di Troiolo, in un climax ascendente e discendente della storia d’amore in cui al
registro guerresco succede quello lirico-elegiaco: il parallelismo tra l’autore abbandonata
dall’amata e Troiolo abbandonato da Criseida è al centro del proemio dell’opera (realizzata in
ottave con versi endecasillabi a rima ABABABCC, che se non è proprio inventata da Boccaccio è di
certo da lui istituzionalizzata).
- Nella Teseida (1339-41) narra la rivalità tra Arcita e Palemone entrambi innamorati di Emilia,
mettendo ancora una volta al centro della sua opera la vicenda amorosa anche se questa volta in
forma epica: tale poema in dodici libri si ricollega alla forma virgiliana, così come lo stesso titolo
grecizzante che allude all’Eneide, ed è scritto in un volgare che Boccaccio stessa indica come
esempio di quella poesia epoca in volgare italiano di cui Dante aveva lamentato l’assenza nel De
vulgari eloquentia.
Decameron (1348-70)
Il codice berlinese Hamilton 90 è la versione definitiva di tale opera, soggetta a continue rivisitazioni e
riscrittura. “Comincia così il libro chiamato Decameron cognominato (sottotitolato) principe Galeotto (che
fece da tramite tra Lancillotto e Ginevra, canto V dell’inferno), nel quale si contengono 100 novelle in 10
giorni dette da 7 donne e da 3 giovani uomini”: l’autore indica subito titolo e contenuto dell’opera, una
raccolta di novelle che è frutto di una riunione entro una struttura unitaria e organica di forme letterarie
brevi (come i Fragmenta petrarcheschi) e che viene iniziata all’indomani dell’epidemia di peste del 1348
(come per Petrarca); difficile è stabilire se si tratta di una riunione di testi in parte già scritti, oppure se la
stesura delle novelle consegue all’ideazione del loro contenitore narrativo.
La cornice del Decameron è una complessa e dinamica vicenda parallela a quella delle novelle, presentata
come vera: una brigata di sette ragazze e tre ragazzi, tutti di elevata condizione sociale, decidano di cercare
una possibilità di fuga dal contagio spostandosi in campagna (tra due ville e l’amena Valle delle donne),
dove trascorrono il tempo secondo precise regole, tra canti, balli e giochi, preghiere. Nelle introduzioni e
nelle conclusioni alle giornate, così come all’inizio e alla fine delle singole novelle, entra in scena la vita
quotidiana della brigata regolata da precisi parametri: il “saper vivere cortesemente atteggiato” non può
più trovare posto nella città falcidiata dalla peste, e ad essa si contrappone un ideale di decoro e letizia
nelle forme di una rigida regolamentazione democratica del quotidiano.
Per occupare le prime ore pomeridiane, i ragazzi decidono di raccontare una novella ciascuno, tranne il
venerdì (dedicato alla preghiera) ed il sabato (dedicato alla cura personale delle donne): ogni giorno viene
eletto un re che fissa il tema della giornata a cui tutti gli altri narratori dovranno ispirarsi nei loro racconti.
Al solo Dioneo, per la sua giovane età, è concesso di non rispettare il tema delle giornate e di novellare
sempre per ultimo. La prima e la nona giornata hanno un tema libero, mentre le altre sviluppano argomenti
specifici (avventura a lieto fine nella seconda, l’industria nella terza, gli amori tragici nella quarta, gli amori
lieti nella quinta, l’avventura di amanti o la prontezza di parola nella sesta, le beffe familiari nella settima,
quelle non familiari nell’ottava, la magnanimità nella decima): ciascun tema sembra suscitare quello
successivo, in una catena che si sviluppa abbracciando l’intero spettro del narrabile medievale.
Lo schema oppositivo e ascendente che lega la prima all’ultima novella (il blasfemo opportunismo di
Ciappelletto alla santa pazienza di Griselda) rivela l’enorme molteplicità tematica al centro del Decameron,
la quale va a comporre una polifonica “commedia umana” che si sviluppa in un mondo dominato da forze
quali amore e fortuna, ma al cui centro sta l’ingegno dell’uomo che diventa termine di paragone del suo
agire nel mondo; un universo narrativo in cui i temi chiave tendono a superare i confini delle giornate e
quelli delle singole novelle, estendendo trasversalmente la propria presenza. A questa vastità tematica
corrisponde la vastità delle forme narrative medievali, rivendicata dallo stesso autore (“cento novelle, o
favole o parabole o istorie che dire le vogliamo”): ricco è il bagaglio di modelli narrativi che viene accolto e
superato insieme nella polisemia del significato boccacciano del termine novella. I racconti sono ispirati ai
topoi narrativi medievali e all’impianto comunale e cortigiano.
Finalità salvifica del Decameron: dichiarata fin dall’incipit dell’opera, l’intenzione dell’autore è quella di
offrire conforto all’afflizione amorosa delle donne prive degli svaghi concessi agli uomini, con il doppio
scopo del “diletto” e dello “utile consiglio”. Nel Hamilton 90 l’opera viene affidata alle prestigiose forme del
volume universitario di studio: essa va a costituire una vera e propria codificazione della novella, intesa
come breve racconto, e del suo contenitore narrativo, in un libro che offre ai racconti una cornice di
riferimento destinata a segnare profondamente l’evoluzione successiva del genere (come sarà ad esempio
per i Canterbury Tales di Goeffrey Chaucer). Ruolo centrale svolto dal Boccaccio nell’evoluzione del genere
novellistico tra Medioevo e Rinascimento.
Da Firenze a Certaldo
Nei primi vent’anni fiorentini il nostro fu guida intellettuale e ambasciatore politico e culturale della città,
situazione che cambiò significativamente durante gli anni dal 1360: il fallimento della congiura antiguelfa
del 1361-62, ad opera di persone a lui vicine, e i diversi tentativi di trovare una sistemazione a Napoli ne
segnarono un’involuzione. Un più deciso orientamento di riflessione e spiritualità cristiana lo portarono a
prendere gli ordini sacri. Dal 1370 fino alla morte nel 1375, decise di ritirarsi a Certaldo.
L’influenza petrarchesca lo fece avvicinare sempre più all’ideale dell’intellettuale assoluto, sciolto da ogni
cura terrena e dedito esclusivamente alla letteratura, meglio se erudita e latina: sebbene già a Napoli
avesse cominciato una produzione latina, a partire dal 1350 questa prese il sopravvento su quella volgare;
compose le egloghe del Buccolicum carmen (L'egloga è un componimento della poesia bucolica in forma
dialogica, con significato allegorico e celebrazione della vita agreste: in Boccaccio il velo allegorico è meno
marcato rispetto a quanto avviene nel Bucolicum carmen di Petrarca e in Dante), il De montibus e le
Genealogie deorum gentilium (opere di vocazione enciclopedica che innovano i generi medievali della
letteratura geografica e dei corpora mitologici: rinuncia al gusto dei mirabilia fantastici nella prima e
superamento del caotico accumulo di opere nella seconda; entrambe le opere sono proiettate entro un
orizzonte classicista e preumanista , propugnato negli ultimi due libri delle Genealogie che sono dedicati
alla difesa della poesia), il De casibus virorum illustrium e il De mulieribus claris. Enciclopedismo tutto
letterario che informa di sé, coniugato a un’ispirazione più propriamente storica e ad un intento più
marcatamente moralistico.
Prima del 1350 scrive una vita latina di Petrarca e nei primi anni cinquanta si colloca la prima stesura della
biografia dantesca Trattatello in laude a Dante: rimeditazione della vicenda biografica di Dante che
consente al nostro di mettere a fuoco un concetto di poesia reso a parificarla alla Bibbia nel segno di una
comune tendenza a nascondere profonde verità sotto il velo dell’allegoria; tentativo di armonizzare le
divergenti impostazioni di Dante e Petrarca in un’eclettica visione d’insieme. Tra le opere di Boccaccio è
anche da segnalare il Corbaccio (1354-1356), la più impegnativa tra le opere in volgare: racconto del
percorso di redenzione di un personaggio autobiografico dall’infelice amore per una vedova, condotto sotto
la guida del defunto ex marito di lei (interpretazione allegorica e penitenziale del viaggio di Dante
personaggio della Commedia); invettiva contro il genere femminile ed esaltazione di sapore petrarchesco a
preferire l’esercizio intellettuale all’amore per le donne.
Biografia
Giovanni Boccaccio nasce in Toscana (a Certaldo o a Firenze) nel 1313. Nel 1327 parte giovanissimo per Napoli, al seguito del padre,
per imparare il mestiere mercantile e bancario. Qui, grazie agli stimoli della vivace vita culturale che anima la nobiltà napoletana,
Boccaccio inizia ad interessarsi ai classici latini e ai grandi capolavori in volgare. Così, dopo un periodo di formazione da autodidatta,
Boccaccio compone la Caccia di Diana, il Filostrato, Il Filocolo, il Teseida. Nel 1340 Boccaccio, a causa di problemi economici che
affliggono il padre, deve rientrare a Firenze. Qui la vita si rivela subito molto diversa dai continui svaghi partenopei, e Boccaccio si
concentra sulla propria produzione letteraria: scrive la Commedia delle ninfe fiorentine, l'Amorosa visione, l'Elegia di Madonna
Fiammetta, il Ninfale Fiesolano. Dopo la peste del 1348 il Decameron che concluderà nel 1351. Dopo questa magistrale prova,
Boccaccio modifica, almeno in parte, i propri interessi di scrittura: oltre ad opere di carattere erudito realizza il Corbaccio. L'ultimo
periodo di vita, caratterizzato anche da difficoltà economiche e personali, è per Boccaccio quello della meditazione esistenziale ed
intellettuale: alla riscoperta dei classici corrisponde il sempre vivo interesse per Dante, cui Boccaccio dedica un Trattatello in laude
e una serie di pubbliche letture della Commedia a Firenze. Muore a Certaldo nel 1375.
UMANESIMO LATINO E VOLGARE
Il quattrocento è un secolo sperimentale e di transizione tra il trecento delle “tre corone” e il cinquecento
della loro canonizzazione (Petrarca per la poesia, Boccaccio per la prosa), caratterizzato dall’assenza di
modelli letterari vincolanti e di un canone di auctoritates: ogni città dà il suo peculiare contributo allo
sviluppo della propria cultura.
I Dialogi ad Petrum Paulum Histrum di Leonardo Bruni aprono il secolo nel 1402, con un dialogo
sull’importanza della disputatio tra dotti: la forma del dialogo, ripresa da Platone, sarà la prediletta per la
trattatistica del secolo. Leonardo Bruni e Coluccio Salutati realizzarono l’utopia platonica dei saggi al
governo, essendo per lungo tempo segretari della repubblica fiorentina e promuovendo l’ideologia della
florentina libertas contro il modello “tirannico” milanese: esaltarono Firenze nelle loro opere latine,
ergendola a nuova Atene. Questa valorizzazione della vita attiva alimentata dalla lettura dei classici prende
il nome di “Umanesimo civile”: esso conoscerà un felice esito sul versante volgare, col poema in terzine
dantesche La città di vita di Matteo Palmieri. Bruni e Salutati realizzarono anche opere di critica, traduzione,
biografia riguardanti Dante, Petrarca, Boccaccio.
Vita
Nato nel 1470 a Venezia in una famiglia aristocratica, ricevette un’ottima educazione e viaggiò sin da
piccolo insieme al padre (Bernardo Bembo, ambasciatore della repubblica) nelle principali corti italiane: a
Firenze conobbe il Magnifico e Poliziano. Studiò greco a Messina per poi rientrare a Venezia dove iniziò a
collaborare con l’editore Aldo Manuzio che pubblicò la sua prima opera de Aetna. Studiò filosofia
all’università di Padova e di Ferrara, dove soggiornò presso la corte estense: qui scrisse gli Asolani e iniziò a
frequentare Lucrezia Borgia, moglie del duca Alfonso. Nel 1506 si trasferì ad Urbino dove rimase fino al
1512: cercò presso la corte dei Montefeltro quella vita di quiete, onore e libertà che aveva sempre
desiderato. Divenne poi responsabile dei documenti ufficiali di papa Leone X, potendo così rendersi
protagonista della vita culturale romana. Tornò in Veneto dopo la morte del papa, divenendo storiografo
ufficiale della repubblica veneziana. Nel 1539 venne nominato cardinale e si trasferì nuovamente a Roma
fino alla sua morte nel 1547. Nel corso della sua vita entrò in contatto con Erasmo da Rotterdam e con i
maggiori intellettuali dell’epoca. Fu appassionato di numismatica, epigrafia, botanica ed arte.
Opere:
- De Aetna: prima opera (1496) che consiste in un dialogo latino nel quale i due interlocutori sono
Bernardo Bembo e Pietro Bembo stesso, in uno sdoppiamento significativo. Prende spunto
dall’ascesa di Pietro al vulcano e presenta considerazioni scientifiche, e una riflessione etico-civile
sul rapporto padre-figlio e sul binomio otium-negotium. Alla prima edizione ne seguirà un’altra nel
1530, di stile ciceroniano: inesausto processo di revisione linguistica e stilistica.
- Asolani: dialogo di modello ciceroniano dedicato a Lucrezia Borgia a al tema amoroso. Prosimetro
ambientato ad Asolo, presso la corte della regina Caterina Cornaro: in tre libri il dialogo vede
succedersi l’eloquenza dell’amore infelice, la celebrazione di quello felice e il superamento delle
due prospettive con la proposta di un amore superiore; tentativo di riflessione intorno a quale
amore sia buono e quale no (prova più riuscita del dialogo d’amore cinquecentesco). Alla prima
edizione del 1505 ne seguirono altre due nel 1530 e nel 1553: continua revisione che mira ad un
distacco sempre maggiore dai modelli della tradizione e al raggiungimento di maggiore purezza
linguistica e stilistica, che ha nel monolinguismo di Petrarca il primo modello. Bembo non mira però
ad un’imitazione archeologica, ma vuole fondare un nuovo stile che si faccia a sua volta esemplare
per la letteratura volgare.
- Rime: corpus di 178 componimenti nel quale troviamo tutte le forme metriche canoniche (sonetto,
canzone, ballata, capitolo, sestina, madrigale) con qualche concessione alla moda cortigiana
(canzonetta e strambotto) e che sviluppa i temi più propri del Canzoniere petrarchesco: amore per
la donna, amicizia, desiderio di gloria, pentimento e sentimenti religiosi. Le liriche sono disposte a
creare un percorso ascensionale che va dall’amore, al lutto, fino al pentimento. Anche questa opera
conosce un ininterrotto processo di revisione e adeguamento: dalla prima edizione, dedicata a
Elisabetta Gonzaga signora d’Urbino, si arriverà a quella definitiva triplicata nelle dimensioni, nella
quale all’iter emotivo si aggiungerà anche l’esibizione dei rapporti con uomini di governo e di
cultura, facendo dell’opera un diario della propria esperienza etica, civile, letteraria. Tale opera
divenne subito un modello da evitare per quegli autori che si ispiravano alla tradizione
petrarchesca: fenomeno cinquecentesco del “Petrarchismo” e Canzoniere come ideale assoluto di
lirica si anella forma che nei temi (la fedeltà al modello non esclude però variazioni e adattamenti).
- Prose della volgar lingua: già nell’epistola De imitatione Bembo affermò che l’imitare è un
passaggio obbligato per acquisire la capacità di gareggiare con un modello giudicato eccellente, ma
che il fine ultimo deve essere il superamento di ciò che imitiamo (“Quello che è migliore di tutti ci
proponiamo di imitarlo; poi che lo imitiamo in modo da raggiungerlo; infine tutto il nostro sforzo
miri a questo: che quello che abbiamo raggiunto anche lo superiamo”): in questo senso va
interpretata l’opera Prose della volgar lingua, opera uscita nel 1525. Essa ha forma dialogica ed è
divisa in tre libri: nel primo si traccia una storia della lingua volgare, nel secondo si analizzano i
concetti di gravità, piacevolezza e variazione dello stile, nel terzo si sviluppa una vera e propria
grammatica del volgare letterario. Ogni personaggio del dialogo ha una specifica posizione circa la
natura del volgare ideale da usare nelle scritture: Carlo, alter ego di Bembo, sostiene la necessità di
rifarsi a Petrarca per la poesia e a Boccaccio per la prosa, escludendo Dante in quanto modello non
imitabile per il suo pluristilismo e per l’eccessivo ventaglio dei temi trattati. Bembo afferma la
supremazia della poesia pura, della retorica sulla filosofia, di Petrarca su Dante.
Schede lessicali, elenchi di termini, postille, zibaldoni: tutto il materiale intorno ai temi linguistici
prodotti da Bembo nel corso della sua giovinezza è sistemato all’interno di tale opera, specialmente
nel terzo libro. I modelli indicati nelle Prose verranno seguiti fino all’ottocento.
Le Satire
Composte tra 1517-24, le sette satire manifestano l’indole pacata ma insieme intollerante ai servilismi e alle
adulazioni del nostro. Scritte in terzine, metro che serve a frenare la piena dei sentimenti del poeta. Nella
Satira I Ludovico si oppone con fermezza al volere di Ippolito, rivendicando per sé un ideale di vita
tranquillo e sobrio, fatto di pochi agi purché sufficienti a garantirgli le ore di studio che ha sempre dovuto
mendicare, ed è persino disposto a restituire al cardinale i benefici sin lì ottenuti (immagine dell’asino in
trappola in una fessura a causa dell’eccessiva quantità di grano che ha mangiato, costretto a vomitare per
liberarsi). Da segnalare sono anche la Satira III, nella quale un gruppo di popolani tenta invano di catturare
la luna, allegoria dell’illusorietà di onorificenze e premi (immagine della luna come ricettacolo delle vane
speranze torna anche nell’Orlando furioso), e la Satira IV, nella quale il nostro racconta i suoi anni di
governatorato in Garfagnana tra 1522-25.
L’Orlando Furioso
Tale poema rappresenta il momento culminante di una lunga tradizione che aveva fatto di Orlando l’eroe
per antonomasia delle narrazioni cavalleresche, molto amate presso Ferrara, vera e propria capitale del
romanzo cavalleresco. Ludovico ricollega la sua opera a quella di Matteo Maria Boiardo, poeta estense
autore delli’Innamoramento di Orlando: tutti i personaggi del Furioso sono già qui presenti, come presente
è il gusto per gli episodi fantastici e per l’intreccio di trame diverse, per le armi e per gli amori; unendo
suggestioni provenienti dalla lirica classica di Ovidio e Properzio, Boiardo fa del paladino una figura
pienamente umana: egli non è solo il coraggioso combattente della tradizione carolingia, ma anche uomo
vinto dalla passione d’amore grazie alla quale trova la forza di portare a compimento le proprie imprese
(l’invenzione più nota di Boiardo rimane quella della fontana dell’odio e dell’oblio, riguardante i personaggi
di Angelica e Rinaldo). Ludovico riprende la narrazione esattamente da dove Boiardo l’aveva interrotta,
rivendicando la propria appartenenza ad un preciso contesto culturale.
Nella redazione definitiva dell’opera, composta da 46 canti, data alle stampe nel 1532 (le edizioni
precedenti risalgono al 1516 e al 1521), centrale è l’episodio della pazzia di Orlando, e cambia la patina
linguistica: la koinè padana lascia il posto al toscano illustre, secondo la soluzione prospettata da Bembo
nelle Prose (soluzione scelta in seguito al progressivo declino delle corti, e dettata quindi dalla volontà di
raggiungere un pubblico più ampio). In appendice a un’edizione del 1545 vennero pubblicati cinque canti
stilisticamente distanti dal poema, che il nostro scelse di non pubblicare: narrano degli inganni del traditore
Giano nei confronti dei protagonisti con tono cupo e malinconico (carattere moralizzante).
I primi due versi del poema dichiarano la volontà di fondere la materia epica del ciclo carolingio con quella
cortese del ciclo bretone o arturiano: “Le donne, i cavalier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese io
canto”. Tre sono i filoni principali che si intrecciano continuamente all’interno della ricchissima sequenza di
vicende del poema: l’amore di Orlando per Angelica, l’amore di Ruggiero e Bradamante (capostipiti della
dinastia estense), la guerra tra cristiani e saraceni. Orlando entra in scena nel canto VIII: è a Parigi a
difendere il campo cristiano contro i saraceni, ma subito parte per mettersi sulle tracce di Angelica.
Tutti si muovono dietro la spinta ossessiva di qualcosa e qualcuno: è questa la grande follia del mondo,
quella che Ludovico ravvisa nei suoi contemporanei, nei cortigiani alla ricerca di un prestigio sociale come
nei signori sempre pronti a rivaleggiare con qualche altro principe nell’acquisto e nell’ostentazione del
potere. Il timbro della poesia di Ariosto non può essere tragico poiché egli stesso avverte di non riuscire a
dissociarsi dalla pazzia dell’umanità: preso atto di questo tanto vale accettarla e sorriderne. In un famoso
episodio del canto XII vediamo buona parte dei personaggi entrare nel castello incantato del mago Atlante:
hanno visto entrarci la persona amata o vi hanno perso qualcosa, ma ciò che cercano è solo un’apparenza,
un’immagine che svanisce nel momento stesso in cui credono di averla raggiunta; metafora del mondo:
tutti siamo alla ricerca ossessiva di qualcosa che non si realizza mai, perché mai l’uomo è in grado di godere
pienamente di ciò che ha, e ogni condizione pur minimamente felice è perennemente rimandata. Anche la
luna compare al canto XXIII come emblema di irraggiungibilità, di un desiderio o di un’aspirazione sempre
frustrata: Orlando ha perso la testa dietro ai capricci della sua amata e ora il suo senno è finito sulla luna, e
Astolfo si assume il compito di recuperarlo potendo così osservare tutte le cose che gli uomini perdono
lassù senza saperlo (canto XXXIV), tra cui anche le adulazioni e i doni che i cortigiani fanno ai loro signori.
Irridente e amara lettura dei destini umani, conflitto tra ragione e passione, ingovernabilità del caso: dalla
miscela tra senso inquieto del presente e piacere del racconto favoloso nasce una spezzatura ironica che
costituisce una caratteristica peculiare del poema.
Ariosto muore nel 1533 pochi mesi dopo la pubblicazione dell’opera, nella sua casa in contrada Mirasole a
Ferrara. In tutta Europa si diffusero rifacimenti e traduzioni del suo capolavoro.
NICCOLO’ MACHIAVELLI (1469-1527)
Un incontro straordinario
Nel 1521 si reca a Carpi presso il Capitolo generale dei frati francescani (incaricato dal governo fiorentino di
ottenere maggiore autonomia per i monasteri toscani e di convincere un famoso frate a predicare a Firenze
per la quaresima), e dopo essere passato per Modena e avervi incontrato Francesco Guicciardini,
governatore della città per conto del papa, nasce fra i due un breve scambio epistolare dai toni comici e
canzonatori: vicinanza di idee e vedute tra i due intellettuali.
Apprendistato
Niccolò nasce a Firenze nel 1469, in un ramo cadetto di una delle famiglie più antiche della città, in passato
protagonista della scena politica: il padre Bernardo non è particolarmente ricco ed è escluso dagli uffici
pubblici. Cresce durante il regno di Lorenzo De Medici (“Il Magnifico”), il quale riesce grazie alle sue non
comuni doti diplomatiche a far accettare alle varie fazioni politiche il primato della propria famiglia,
ponendo fine alle lotte intestine che caratterizzano la città nel XV secolo. Assiste anche alla vicenda di
Girolamo Savonarola, un frate giunto in città nel 1490 (chiamato proprio dal Magnifico, su richiesta di Pico
della Mirandola) che si scaglia contro il lusso sfrenato della nobiltà e la corruzione del clero e dei capi
politici fiorentini, procurandosi la fama di profeta grazie ai suoi discorsi: predice sventure sull’Italia, e poco
dopo la penisola assiste alla morte del Magnifico (1492) e alla discesa del re francese Carlo VIII. I seguaci di
Savonarola, detti Piagnoni, riescono quindi ad imporsi sulle altre fazioni cittadini, almeno fino alla
scomunica del frate da parte di papa Alessandro VI: gli stessi fiorentini sembrano ora abbandonare il frate,
il quale viene arrestato, torturato e messo al rogo per eresia nel 1498. Nella seconda lettera del suo
corposo epistolario, Machiavelli critica Savonarola per le sue strategie politiche, che ben celava dietro al
suo zelo religioso e alle sue esortazioni al popolo.
Vicende politiche
Cinque giorni dopo la morte di Savonarola, Machiavelli riceve il suo primo importante incarico politico: si
ritrova a gestire gli affari militari nei territori dominati dalla Repubblica fiorentina, in qualità di segretario
della commissione dei “Dieci di libertà e pace”, divenendo di fatto una sorta di ministro degli esteri privo
però di poteri decisionali. Si trova a dover affrontare la spinosa situazione della riconquista di Pisa:
nell’assedio alla città i fiorentini si servono di truppe mercenarie, delle quali il nostro critica il lassismo e la
scarsa fedeltà iniziando fin da ora ad accarezzare l’idea della necessità dell’Ordinanza, cioè di un esercito
regolare di leva composto tutto da fiorentini.
Giunto poi in Francia per chiedere aiuti al re Luigi XII, è costretto a rientrare in patria per affrontare le
truppe papali di Alessandro VI, che stanno conquistando molti territori al confine con la Repubblica
fiorentina sotto la guida del figlio del papa Cesare Borgia (“Il Valentino”): quest’ultimo suscita in Machiavelli
grande ammirazione per il fatto di essere astuto, energico, coraggioso e imperscrutabile, e anche perché ha
la fortuna dalla sua parte; anni dopo ne farà un esempio da portare ai lettori del Principe (Il Valentino si
ammala nel 1503, anno in cui muore anche suo padre: arrestato dal nuovo papa Giulio II, appartenente ad
una famiglia rivale dei Borgia, è costretto a ritirarsi in Spagna dove morirà in battaglia nel 1507).
In seguito a queste vicende Macchiavelli persevera con l’idea di un esercito regolare ben addestrato: scrive
a tal proposito Parole da dirle sopra la provisione del danaio, sulla necessità di imporre nuove tassi per
assicurare un esercito fedele alla Repubblica; scrive anche Del modo di trattare i popoli della Valdichiana
ribellati e il primo Decennale, narrazione in versi degli ultimi dieci anni di storia fiorentina.
Intanto il papa Giulio II coalizza i grandi d’Europa contro la monarchia francese creando la Lega Santa, che
riesce a scacciare i francesi (principali alleati dei fiorentini) dalla penisola: Firenze deve così accettare il
ritorno dei Medici. Tutti i funzionari politici del precedente regime sono destituiti dalle loro cariche:
Machiavelli, accusato ingiustamente di essere coinvolto in una congiura antimedicea, è condotto in carcere
(1512-13); viene liberato l’anno successivo grazie all’amnistia generale concessa dal nuovo papa Giovanni di
Lorenzo de Medici, cioè Leone X.
Machiavelli decide così, insieme alla moglie Marietta Corsini, di ritirarsi nel suo podere detto “l’albergaccio”
a Sant’Andrea in Percussina, presso San Casciano: anni di umiliazione e avvilimento causati dalla rinuncia
alla politica attiva. In una famosa lettera del 1513 indirizzata a Francesco Vettori (scritta in fiorentino
parlato con abbondanza di costrutti latini), il nostro racconta le sue giornate trascorse tra attività
degradanti e meccaniche (risolvere liti tra contadini, andare a caccia, giocare a carte) fino al calare della
sera, durante la quale può riprendere i suoi amati studi ed “entrare nelle antiche corti degli antichi uomini”
per interrogarli e passare quattro ore di assoluta felicità: uomo d’azione educato anche al culto delle
lettere.
Il Principe
Nella lettera precedentemente citata troviamo anche un accenno al Principe, che Machiavelli aveva
probabilmente terminato da poco: la necessità di lavorare, di trovare un impiego che lo faccia sentire vivo,
lo spinge a mandarlo ai Medici. Nella dedica a Lorenzo di Piero de Medici (nipote del Magnifico, duca
d’Urbino e reggente politico a Firenze) dichiara di non aver usato formule retoriche ampollose e gravi per la
sua opera, in quanto solo la varietà e l’importanza della materia possono abbellire il suo scritto: esso risulta
infatti pieno di una saggezza aspra e sbrigativa. Conosciuto in forma manoscritta già dal 1517, fu stampato
postumo solo nel 1532: è un insieme di 26 brevi capitoli sul governo monarchico, il cui tema centrale è
costituito dal mantenimento e dalla conquista dello stato da parte del principe (“che cosa è il principato, di
quale specie sono, come si acquistano, come si mantengono, perché si perdono”); si tratta di verificare le
dinamiche attraverso le quali si può conquistare o perdere il potere, e difendere e mantenere i territori
dello stato: distacco da qualunque tipo di idealismo in nome del pragmatismo (“andare dietro alla verità
effettuale della cosa, più che all’immaginazione di essa”, cap. XV, che analizza i comportamenti e le qualità
che un principe deve avere). La materia è suddivisa secondo il seguente schema:
- Cap 1-11: tipologie di principati.
- Cap 12-14: tipologie di eserciti.
- Cap15-23: tipologie di principi.
- Cap 24-26: virtù e fortuna, ed invito ad unificare l’Italia.
Se è necessario il principe deve imparare ad essere non buono (antropologia negativa: non c’è bontà nella
natura umana secondo Machiavelli): il Valentino, al quale è dedicato il cap. VII, è presentato come principe
ideale in quanto abile ad essere crudele quando è necessario, compiendo azioni che riescono imporsi come
exemplum; deve poi essere generoso quando è possibile, ma dal momento che esserlo costa caro è meglio
essere parsimoniosi: così non si dilapideranno i beni dello stato, come affermato nel cap. XVI; deve essere
pietoso ma all’occorrenza anche crudele: conviene ad un principe essere più temuto che amato, poiché
l’amore è sorretto da un vincolo di riconoscenza che si può facilmente tradire, mentre il timore si fonda
sulla paura di essere puniti che non abbandona mai i sudditi, come affermato nel cap. XVII; deve essere
leale ma può tradire la parola data se necessario, e se le leggi del suo stato non bastano a conservarlo e a
governarlo deve ricorrere alla forza; deve insomma avere una doppia natura, essere uomo e animale
insieme: nel cap. XVIII leggiamo che “Il principe è dunque costretto a saper essere bestia e deve imitare la
volpe e il leone. Dato che il leone non si difende dalle trappole e la volpe non si difende dai lupi, bisogna
essere volpe per riconoscere le trappole e leone per spaventare i lupi. Coloro che si limitano a essere leoni
non conoscono l’arte di governare” (capitolo fondamentale: l’astuzia della volpe e la forza del leone
possono aver ragione di ogni nemico; viene anche messo in evidenza come i principi migliori siano stati
quelli sleali e disonesti). Insomma il buon principe non è colui che si attiene in ogni circostanza a quei
comportamenti virtuosi teorizzati dai trattatisti dei secoli precedenti, ma chi esercita con lucidità e
fermezza le azioni richieste dalle diverse contingenze: in ciò sta la virtù dell’abile politico, cioè nella capacità
di leggere ogni situazione e adottare quelle misure in grado di sottomettere le avversità impreviste del caso,
dimostrando di essere umano e bestiale, simulatore e dissimulatore (machiavellico appunto).
Lo stile dell’opera è asciutto e la scrittura secca e precisa, in modo da favorire chiarezza espositiva e
limpidezza del ragionamento. Come nel linguaggio scientifico, Machiavelli propone due soluzioni possibili
per ogni caso, e le frasi si dispongono così in coppie oppositive rette dalla congiunzione “o”: sintassi che
non fa quasi mai ricorso alle subordinate e che non ammette sfumature, escludendo possibilità intermedie.
Principe come specchio della drammatica situazione politica della penisola all’inizio del 1500: essa risulta
un’opera fondamentale della politica occidentale contribuendo a riformarla. Machiavelli stesso è
consapevole della novità offerta dalla sua opera, che costituisce un vero e proprio manuale scientifico che
vuole avere utilità pratica: offre regole da seguire, fornisce esempi, analizza cause e conseguenze, e si
distacca da qualsiasi tentativo di idealizzazione in nome del pragmatismo. Machiavelli cerca di fare della
politica una branca autonoma della conoscenza umana, svincolandola dalla morale.
Discorsi e Mandragola
Durante gli anni di riposo forzato, che dureranno fino al 1518, Machiavelli realizza anche altre opere:
- L’Asino: poemetto incompiuto in cui l’autore si immagina di visitare i serragli della maga Circe, pieni
di uomini trasformati in bestie.
- Favola di Belfagor arcidiavolo: il diavolo sale sulla terra e si sposa per verificare la petulanza e
l’arroganza delle mogli.
- Discorsi sopra la prima decade di Tito Livio: opera dedicata a Zanobi Buondelmonti e Cosimo
Rucellai, due giovani aristocratici fiorentini amanti della politica, frequentati da Machiavelli a
partire dal 1517 (nel giardino della casa di Rucellai, i cosiddetti Orti Oricellari, si svolgevano
periodicamente le riunioni). Opera di struttura frammentaria e rapsodica, composta da 3 libri e 142
capitoli, incentrata sulle istituzioni repubblicane: è immaginata come un testo di commento
all’opera dello storico latino Tito Livio, la quale viene presa come spunto per svolgere una
riflessione del tutto autonoma e incentrata sul presente; il modello latino serve al nostro per
individuare le cause della decadenza contemporanea, lo scarto tra la corruzione dei propri tempi e
l’integro funzionamento degli ordini civili nella Roma repubblicana. Machiavelli è convinto che nei
suoi comportamenti essenziali l’uomo sia immutabile, e proprio a tale convinzione risponde la
necessità di rifarsi a Livio: i romani hanno ideato le migliori strutture repubblicane e le migliori
forme di convivenza civile, che vanno quindi studiate per assumerne gli insegnamenti e gli esempi.
Se nel Principe il dettato era più drammatico e conciso, nei Discorsi si fa più ampio e articolato e il
giro della frase assume l’andamento ragionativo dell’analisi problematica.
- Arte della guerra: dialogo in cui espone i modi migliori per difendere militarmente lo stato,
criticando le milizie mercenarie ed invocando una radicale riforma delle istituzioni politiche al fine
di garantire un’altrettanta necessaria riforma dell’esercito. Fabrizio Colonna, protagonista
dell’opera, discute con competenza ogni aspetto dell’arte militare consapevole però che un buon
esercito deve essere formato da buoni soldati, e che buoni soldati si hanno solo con una riforma
radicale delle istituzioni politiche: Machiavelli risponde così alle accuse sull’inutilità dell’Ordinanza,
soppressa nel 1512, rilanciandone l’importanza.
- La Mandragola: esperimento teatrale più felice di Machiavelli (aveva già scritto L’Andria e scriverà
La Crizia) che va in scena per la prima volta a Firenze nel 1518. La trama si rifà alla grande
tradizione novellistica toscana, con una forte tipizzazione dei personaggi. Il giovane Callimaco è
innamorato di Lucrezia, moglie dello stupido Nicia, e organizza una beffa ai suoi danni grazie
all’aiuto di un servo furbo e di un frate corrotto: a Nicia viene fatto credere che la sterilità della
moglie può essere curata attraverso un distillato di mandragola, pianta immaginaria, il quale però
causerà la morte del primo uomo che giacerà con lei. Così viene organizzato il rapimento di uno
sconosciuto, che nel buio della camera la donna dovrà scambiare per il marito: sotto le vesti dello
sconosciuto c’è ovviamente Callimaco, che può così passare la notte con l’amata, aprendole gli
occhi sulla stupidità del marito e convincendola a tradirlo ancora.
Commedia di beffa e passione, inno alla gioia di vivere e alla scaltrezza: nei dialoghi ritroviamo
molte di quelle riflessioni contenute nel Principe.
Ultime missioni
Machiavelli si è nel frattempo riavvicinato ai Medici e il nuovo papa Clemente VII (Giulio De Medici) gli
commissiona una storia della città ed egli mette così mano alle Istorie fiorentine, concluse nel 1525. Intanto
il papa, su consiglio di Guicciardini, forma una lega con Firenze, Venezia, Milano e l’ex avversario francese
per opporsi all’accresciuta potenza di Carlo V, sovrano di Spagna e imperatore, che sembra sconvolgere i
delicati equilibri europei. Proprio Guicciardini, plenipotenziario papale, manda Machiavelli in missione
presso le nazioni coinvolte nel possibile scontro. La lega viene però sconfitta e le truppe imperiali giungono
a Roma, devastandola nel cosiddetto sacco del 1527: di conseguenza a Firenze i Medici vengono cacciati e
viene restaurata la Repubblica, e Machiavelli viene destituito da ogni incarico a causa del suo legame con il
precedente regime. Non avrà modo di scontare l’esilio a cui era destinato: muore per un’infezione non
curata il 21 giugno 1527.
Biografia
Nato a Firenze nel 1469 da un'antica ma decaduta famiglia, fin dall'adolescenza ebbe dimestichezza con i classici latini. Inizia la sua
carriera in seno al governo della repubblica fiorentina alla caduta di Girolamo Savonarola. Divenne dapprima segretario della
seconda cancelleria e, in seguito, segretario del consiglio dei Dieci. Svolse delicate missioni diplomatiche presso la corte di Francia, il
papato e la corte imperiale e tenne le comunicazioni ufficiali fra gli organi di governo centrali e gli ambasciatori e funzionari
dell'esercito impegnati presso le corti straniere o nel territorio fiorentino. Sono proprio le missioni diplomatiche in ambito italiano
che gli danno l'opportunità di conoscere alcuni prìncipi e di osservarne da vicino le differenze di governo e di indirizzo politico; in
particolare, ha modo di conoscere Cesare Borgia e in questa occasione mostra interesse per l'astuzia politica e il pugno di ferro
mostrati dal tiranno (il quale aveva da poco costituito un dominio personale incentrato su Urbino). Proprio a partire da questo,
successivamente nella maggior parte dei suoi scritti tratteggerà analisi politiche assai realistiche della situazione a lui
contemporanea, confrontandola con esempi tratti soprattutto dalla storia romana. Dopo la fine delle Repubblica i Medici
ricuperano il potere su Firenze con l'aiuto degli Spagnoli e della Santa Sede e Machiavelli viene destituito. Nel 1513, dopo una
congiura fallita, viene ingiustamente accusato e arrestato. Dopo l'elezione di Papa Leone X gli viene però concessa la libertà. Si ritira
allora a Sant'Andrea, nella sua proprietà. In quella sorta di esilio scrive le sue opere più importanti. In seguito, malgrado i tentativi
di raggiungere il favore dei suoi nuovi sovrani, non riesce ad ottenere nel nuovo governo una posizione simile a quella passata.
Muore il 21 giugno del 1527.
Opere
Guicciardini continua sempre a scrivere nonostante l’intensa attività politica:
- Dialogo del reggimento di Firenze: riprende in maniera più articolata i principi esposti nel Discorso
di Logrogno ampliandone le riflessioni. Tornerà su tale testo più volte realizzandone due edizioni e
riscrivendo per tre volte il proemio: nelle circa 200 pagine dell’opera (contro le 50 del Discorso) si
affrontano temi come la tenuta dello stato, l’ambizione, la gloria, le finalità dell’agire politico, la
natura del potere. Il sistema costituzionale immaginato dall’autore è ampiamente democratico,
formato da un Consiglio che accolga tutti i cittadini, il quale deve eleggere i “migliori” che andranno
a formare un Senato il cui compito sarà quello di coordinare il Consiglio stesso: utopia di un
governo retto dai migliori (come Machiavelli, anche il nostro si distacca da qualsiasi idealismo per
concentrarsi sugli effetti che un tale governo potrebbe avere).
- Accusatoria, Difenseria, Consolatoria: tre orazioni scritte per difendersi dall’accusa di aver costretto
il papa ad una politica fallimentare, nelle quali Guicciardini offre una lucidissima autoanalisi (viene
tuttavia citato in giudizio dal nuovo governo repubblicano di Firenze per alto tradimento, e viene
bandito dalla città e condannato alla confisca dei beni: si rifugia così dal papa Clemente VII, e
durante tale esilio forzato scriverà moltissimo).
- Considerazione intorno ai Discorsi del Machiavelli: critica molte delle posizioni sostenute dall’amico
nell’opera sulle repubbliche.
- Ricordi: una serie di circa 221 massime di carattere morale e politico la cui primissima stesura risale
al 1512, nate forse come scritti del tutto occasionali e privati per poi configurarsi col passare degli
anni in una vera e propria raccolta. La dimensione municipale dei primi 29 ricordi lascia il posto a
una visione più ampia e universale, vera summa del pensiero di Guicciardini sull’uomo:
consapevolezza della negatività dell’uomo, del suo desiderio di sopraffazione e di dominio, della
tirannia della fortuna e della precarietà della vita, dei limiti dell’agire umano e dei condizionamenti
esterni. È impossibile estrarre dalla storia delle regole cui appellarsi, ma occorre saper cogliere le
differenze tra le diverse situazioni: differenza fondamentale con Machiavelli, che riteneva di dover
indagare il passato per ricavarne insegnamenti utili anche nel presente.
- Storia d’Italia: opera storica monumentale, scritta negli anni del suo ritiro a vita privata, che in 20
libri narra gli eventi che vanno dal 1494 (discesa di Carlo VIII) al 1534 (morte di Clemente VII).
Guicciardini utilizza fonti quasi tutte di prima mano, e ciò rende l’opera il primo lavoro storico
impostato secondo criteri moderni di analisi e interpretazione. Prevale l’atteggiamento pessimistico
e sfiduciato rispetto alla possibilità per l’uomo di governare gli eventi, e il sentimento di egoismo e
sopraffazione: l’opera, del resto, è una narrazione della progressiva decadenza dell’Italia.
Novella
Fatica del modello narrativo novellistico: le testimonianze più notevoli del genere nei primi decenni del ‘500
sono le novelle Favola di Belfagor arcidiavolo di Machiavelli e Istoria novellanete ritrovata di due nobili
amanti di Luigi Da Porto. In questo periodo assistiamo generalmente alla confluenza della forma novellistica
in altri generi letterari: trattati, poemi, opere composite (Viaggio in Alemagna di Vettori, Innamorato di
Boiardo). La confluenza della novella nel trattato procede in tre direzioni: la presenza di facezie, aneddoti,
esempi con funzione proba d’intrattenimento; gli inserti su come e che cosa raccontare in società; la ripresa
e l’amplificazione della cornice, che riproduce il contesto ameno della conversazione.
Con l’allargamento del pubblico dei lettori grazie alla diffusione della stampa, la letteratura è chiamata a
soddisfare la richiesta di intrattenimento: in Italia la prosa narrativa predilige la forma breve, in Francia e
Spagna si fanno invece le prime grandi prove del romanzo (escono nel 1532-64 i cinque libri delle avventure
di Gargantua e Pantagruel di Francois Rabelais, che presentano tratti innovativi quali il grottesco,
l’iperbolica esplosione di tutto quanto è legato agli istinti corporei, gli eccessi verbali, la comicità e il riso
dissacrante; esce il Lazarillo de tormes, nella forma di una lettera di Lazaro, che da inizio al romanzo
realista, che qui coincide col picaresco e cioè col racconto della formazione del protagonista tra miseria,
espedienti e avventure che non oltrepassano mai la soglia del verosimile: confonde il pubblico
sopprimendo gli assilli didattico-moralistici, e la narrazione assume valore autonomo). Rilevante è Novelle
di Matteo Bondello, che evoca un mondo di corti raffinate che non ha confini nazionali: la storia entra
nell’opera e vi porta l’eco delle guerre, sullo sfondo delle quali vengono narrati eventi mirabili più spesso
nel male che nel bene. Il classicismo armonico misurato teorizzato dalla trattatistica stride con la crudezza
delle scene raccontate e con la lingua anti-toscana dell’opera, la quale è in linea con l’area padana
occidentale alla quale Bandello appartiene e a quella francese nella quale l’autore trascorre gli ultimi anni.
La stagione più fortunata del libro di novelle si colloca a metà del ‘500, anni del Novelle, delle Piacevoli notti
di Straparola, dei Diporti di Parabosco, delle opere di Domenichi, Doni, Grazzini, Fortini (novellieri toscani).
Nella seconda metà del ‘500 e dopo il concilio di Trento, gli Ecatommiti di Cinzio ripropongono l’uso della
cornice, anche se questa volta in chiave cupa e moralista rispetto al modello boccacciano: l’esito rovinoso
delle passioni già esposto d Bandello raggiunge qui il culmine nella creazione di personaggi cristallizzati in
un’ossessione che finisce per trascinare loro stessi e chi li circonda alla morte; lo stile rispecchia la durezza
dei temi. Importanti poi le opere di Erizzo, Bargagli, De Mori e di Tomaso Costo, che chiude il secolo con
l’opera Fuggilozio, nella quale la cornice si dilata fino a diventare la parte saliente del libro e in cui le novelle
sono brevi e varie, due qualità molto apprezzate all’epoca.
Molti sono gli intrecci tra novella e teatro, e diverse situazioni presenti nelle novelle di Bandello le
ritroviamo in opere teatrali come la Venexiana e Gl’Ingannati in Italia, e nelle opere di Shakespeare e
Painter in Inghilterra (la storia di Romeo e Giulietta conosce una traduzione in versi di Arthur Brooke).
Teatro
In Italia commedia e tragedia conoscono uno sviluppo eccezionale, mentre in Francia e Inghilterra si dovrà
invece attendere il secolo successivo. Cruciali per la rinascita del teatro sono le ragioni di ordine politico e
sociale: i principi comprendono le grandi potenzialità dello spettacolo come strumento di consenso e
promuovono la costruzione di teatri stabili i quali portano al restringimento del pubblico in senso elitari:
trasferimento progressivo degli spettacoli verso le corti e declino di quelli eseguiti all’aperto con gran
concorso del pubblico popolare.
I primi testi teatrali moderno sono commedie, le quali sono fortemente influenzate dal contesto socio
culturale al quale si riferiscono e alla composizione del pubblico. Possiamo comunque delineare caratteri
universali interni al genere: presenza del prologo, tipizzazione dei personaggi, manipolazione comica della
lingua, ripetizione di intrecci, influenza dei modelli latini di Terenzio e Plauto. Entro scenografie
prospettiche si muovono i personaggi alimentati da passioni e bisogni semplici quali amore e denaro, per la
cui soddisfazione confliggono coppie antagoniste: gli intrecci si chiudono sempre con il ristabilimento
dell’ordine, in ottemperanza a una morale di stabilità sociale. Diffusione della commedia in Italia:
- Ferrara con Ariosto e Urbino con Bernardo Dovizi da Bibbiena sono i centri principali.
- Firenze con Machiavelli, Cosimo I e Giovan Maria Cecchi, nella quale c’è un clima di maggior
sperimentazione formale e in cui la componente letteraria delle commedie viene sminuita a
vantaggio degli effetti che suscitano meraviglia.
- Siena con le congreghe dei Rozzi, artigiani commediografi, e degli Intronati, accademici nobili.
- Venezia con Francesco de Nobili detto “Cherea” e Angelo Beolco detto “Ruzante”, la cui poetica
definita “snaturale” si fonda sul primato dell’istinto naturale dell’uomo e sulla sua espressione
diretta cioè il dialetto, e Pietro Aretino, autore di cinque commedie caratterizzate da una notevole
capacità espressiva (commedie “di parola”).
- Roma con Francesco Belo e con lo stesso Pietro Aretino, chiamato in città da Leone X, papa che
meglio sa organizzare la vita teatrale. Celebre anche Anibal Caro sotto il pontificato di Paolo III,
nell’epoca delle riforme interne della Chiesa.
- Napoli con Giovan Battista Della Porta e Giordano Bruno, il cui Candelaio è un’aspra e grottesca
parodia della commedia tradizionale.
Nella seconda metà del secolo si apre la via alla commedia dell’arte, con personaggi cristallizzati nelle
maschere, che faranno la fortuna del teatro italiano all’estero.
Per quanto riguarda la tragedia, l’atto di nascita è considerato la Sofonisba di Giangiorgio Trissino del 1524
che aderisce al modello classico della tragedia “regolare”. In questa direzione operano a Firenze anche
Rucellai, Alessandro Pazzi de Medici, Alamanni, Martelli. Una svolta si ebbe nel 1541° Ferrara con
l’Orbecche di Giraldi, che inaugura una tragedia carica di orrore e intenzioni morali, ispirata allo stile di
Seneca e che si contrappone al dramma classico: non è più il fato a causare le vicende drammatiche messe
in scena. A Venezia ha fortuna la tragedia di argomento greco con Dolce ed Aretino. Anche Tasso si cimenta
in questo genere con l’opera il Re Tossismondo, riuscendo a innestare istanze moderne entro i principi
classici aristotelici.
Con la fine del secolo la tragedia rinascimentale si esaurisce, ridotta a esercitazione accademica. Nel ‘600
prevarranno soggetti storici e biblici, con vicende pietose e terribili a scopo edificante, e si complicheranno
gli intrecci romanzeschi suggellati da un rassicurante lieto fine: clima della Controriforma e necessità di
giustificare sul piano etico il teatro.
Da citare anche il genere del dramma pastorale, il così detto “terzo genere”, fondato ancora una volta a
Ferrara con l’opera Egle di Cinzio. Elementi fondamentali sono i monologhi dell’innamorato, i riti magici, le
zuffe, le metamorfosi, la parodia del villano, le scene patetiche, le battute comiche, gli scenari primaverili.
Degne di nota sono l’Aminta di Tasso e il Pastor fido di Guarini.
Poetica
Con i Discorsi dell’arte poetica e in particolare sopra il poema epico Tasso compone un trattato che mira a
rifondare il poema epico: parla della terza via dell’epos, nella quale si vanno a conciliare la rigorosa unità
dell’epos aristotelico e le tematiche\situazioni del romanzo cavalleresco. Nuovo concetto di unità: essa non
è più un movimento narrativo unico e chiuso, ma un intreccio aperto e vario nel quale il poeta ricrea
l’armonia multiforme del reale proprio attraverso l’unità di un disegno. Per quanto riguarda la materia da
trattare occorre scegliere una storia cristiana\ebrea la cui collocazione temporale appaia verosimile, e
quindi né troppo vicina né troppo lontana: l’uso del meraviglioso verrà così inglobato all’interno del
verosimile cristiano. In questa cornice agirà il perfetto cavaliere, non dimentico dei valori cortesi e dell’etica
cavalleresca, che incarna le esigenze etiche e spirituali del tardo Rinascimento.
Opere:
- Rime: modello fondamentale per la lirica barocca. Sin dalle giovani Rime degli accademici eteri
(1567) si riconoscono le linee della poetica tassiana matura: petrarchismo rinnovato capace di
reinterpretare il recupero dei classici con un gusto della novità ingegnosa e sottile. L’attitudine
sperimentale si riconosce soprattutto nell’abbandono del sonetto a favore del madrigale, più libero
dagli schemi accademici e più adatto ad esprimere i suoi sentimenti. Il corpus dell’opera si
distribuisce in tre gruppi: amorose, encomiastiche e sacre.
- Rinaldo: romanzo cavalleresco pubblicato nel 1562 a Venezia, con cui l’autore intende assorbire
nelle forme del tradizionale romanzo cavalleresco non solo i modelli classici, ma le nuove
sperimentazioni narrative post-ariostesche.
- Gerusalemme liberata: ripreso nel 1565 e terminato nel 1575, con il titolo provvisorio Gottifredo.
L’opera diventa oggetto del dialogo epistolare della “revisione romana” con alcuni lettori designati
dal Tasso stesso (Speroni, da Garba, de Nobili, Antoniano, Gonzaga): le critiche ricevute e la sua
crescente insoddisfazione lo portano a rivedere l’opera più volte. Nel 1581 il poema viene
pubblicato a Parma da Ingegneri, all’insaputa dell’autore, con il titolo Gerusalemme liberata; dello
stesso anno sono le due edizioni di Bonnà. Il successo è straordinario e europeo.
La vicenda del poema si colloca alla fine della prima crociata, durante l’assedio a Gerusalemme del
1099 (fonte principale è Guglielmo di Tiro). Protagonista dell’opera è Goffredo di Buglione,
cavaliere cristiano modellato sull’Enea virgiliano, che subordina codici ed emozioni al senso del
dovere, che consiste nella conquista di Gerusalemme e nel recuperare Rinaldo: giovane eroe votato
all’azione e alla gloria, fuggito dal campo cristiano, sedotto dalla maga Armida e portato nel
giardino delle isole Fortunate; solo dopo aver recuperato il senso e il ruolo di eroe cristiano, Rinaldo
abbandona Armida e riconduce i propri impulsi nella sfera dell’ordine, e annulla la magia con la
quale il mago Ismeno aveva incantato la selva di Saron, impedendo ai cristiani di usarne il legno per
costruire macchine d’assedio. Con Tancredi si assiste invece al dramma d’amore non corrisposto,
che diventa tragedia quando egli affronta la sua amata Clorinda in duello: lo scontro si risolve con la
morte di lei, che indossando una nuova armatura ha nascosto la sua identità. Alle debolezze
cristiane si contrappongono quelle dei musulmani: quelle di Erminia, innamorata di Tancredi, di
Armida, incarnazione della femminilità narcisistica che incatena, di Solimano, titano solitario e
senza potere che vive fino in fondo una realtà abbandonata da Dio.
A partire dal nucleo centrale della conquista di Gerusalemme si dipartono quindi gli episodi
secondari e legati ai vari personaggi, secondo la visione tassiana del concetto di unità. L’unità è
anche valore ideologico rispetto alla molteplicità confusa: alla nomina divina di Goffredo a capo
degli eserciti cristiani viene accreditato il valore di un sacro ordine verticale. Profonda è la
complessità psicologica dei personaggi, i cui punti di vista emotivi-soggettivi si alternano alla
globale visione divina. La verosimiglianza include anche il meraviglioso-cristiano della magia e del
soprannaturale: la magia diviene strumento espressivo per esplorare la vita interiore e gli impulsi
più oscuri dell’uomo, e permette a Tasso di motivare la presenza di forze occulte anche all’interno
di un ordine divino e provvidenziale (la figura stessa di Satana è presente nel IV canto).
Il metro usato per la composizione è l’ottava e lo stile è dotato di grande forza figurativa: Tasso
scandisce la narrazione attraverso un “parlar disgiunto”, una struttura paratattica di frasi in
sequenza disposte in forma di chiasmo. Poema che si può “vedere”.
- Conquistata: pubblicata a Roma nel 1593. Sorta di correzione della Liberata, nella quale vengono
eliminati alcuni episodi ritenuti superflui e viene attenuato l’impatto del meraviglioso per
accrescere la credibilità storica e la funzionalità dell’allegoria. Opera meno complessa nella quale la
varietà degli affetti e dei rapporti umani risulta ridotta. La contrapposizione fra cristiani e infedeli si
fa più radicale. Lo stile risulta più intenso e solenne.
- Epistolario: durante gli anni trascorsi a Sant’Anna, la lettera diventa per lui l’unico mezzo di
relazione e comunicazione con il mondo esterno. Nel suo epistolario si presenta spesso come
vittima, come l’artista malinconico perseguitato dal potere. Stile raffinato, eloquente, colto, e
insieme commosso e familiare.
- Dialoghi: composti anch’essi a Sant’Anna. Il forestiero napoletano, protagonista e interlocutore,
altri non è che il Tasso incarcerato: i dialoghi, composti per diverse occasioni e senza un progetto
prestabilito, costituiscono un prova di equilibrato e composto ragionamento oltre ad essere una
terapia per i suoi turbamenti. L’atmosfera delle scene descritte è serena ed elegante; la scrittura
limpida e ornata, ma non dimentica della sperimentazione intorno a nuove forme del genere
dialogico; i temi di riflessione sono molteplici: dal costume al dibattito filosofico, dalla nobiltà
all’amore, dalla poesia all’etica, ma l’amarezza autobiografica trasmette alle situazioni di alcuni
dialoghi l’amarezza di un’esistenza malinconicamente patetica.
- Re Torrismondo: tragedia composta a Mantova dopo la liberazione, costruita sul tema della forza
autodistruttiva e d’annientamento delle passioni, che narra la vicenda del principe dei Goti. Rapita
la principessa di Norvegia Alvida, per consegnarla al re di Svezia Germondo che la vuole come
sposa, Torrismondo se ne innamora: scoprirà poi che la ragazza è sua sorella; la donna si toglie la
vita credendo di non essere amata da Torrismondo, il quale si suicida a sua volta.
- Le sette giornate del mondo creato: poema che racconta il mito cristiano della creazione. Opera
devozionale, come lo saranno quelle di ultima mano: Lacrime di Maria Vergine e Lacrime di Gesù
Cristo.
Nel 1594 Tasso ottiene una pensione dal papa, ma muore l’anno dopo a Roma presso il convento di
Sant’Onofrio per una grave malattia. Grazie alla sua opera la coscienza diventa l’arena in cui affetti ed
emozioni dei personaggi si affrontano: da questo teatro dell’anima emerge una nuova soggettività che
prefigura il passaggio dall’epos al romanzo introspettivo moderno.
Saggiatore
Nel 1618 tre comete si resero visibili ad occhio nudo: Galileo realizzò insieme all’allievo Mario Guiducci un
Discorso delle comete che fu edito l’anno dopo solo a nome di Guiducci. Nell’opera si descriveva il moto
rettilineo e la luminosità apparente delle comete, in risposta alle teorie di Orazio Grassi, gesuita scelto per
interpretare ufficialmente il fenomeno, che assimilava le orbite delle comete a quelle dei pianeti. Grassi a
questo punto reagì con un’altra opera, pubblicata sotto pseudonimo, alla quale seguì un’ulteriore risposta
di Galileo: questa controreplica, dedicata al nuovo papa Urbano VIII con il titolo metaforico di Il Saggiatore
(bilancia di precisione degli orafi), si presenta come una lettera a Virginio Cesarini, nobile ecclesiastico
romano ex-gesuita e membro dell’accademia dei Lincei. L’opera si presenta come manifesto della nuova
scienza: traendo spunto dal fenomeno in questione affronta una serie di argomenti ed enuncia l’importanza
del nuovo metodo scientifico, basato sull’osservazione diretta della natura e sul rifiuto del principio di
autorità. Capolavoro scientifico e letterario: stile polemico, ironico e sarcastico, favorito dall’uso di un
volgare nitido, scientificamente esatto, cauto, rispettoso del proprio oggetto.
Epoca di passaggi e di mediazione, di graduali scoperte e acquisizioni etiche e scientifiche. Difficile è fissare
l’inizio dell’età dei lumi: la letteratura saggistica del ‘700, che solo in parte si identifica con l’illuminismo, è
composta da testi eruditi e da testi di divulgazione, che costituiscono una delle novità più significative, e
che cercano di raggiungere un pubblico sempre più vasto; divulgare non è soltanto semplificare ma
soprattutto far conoscere, uscire dalla ristretta cerchia degli specialisti per allargarsi al mondo.
Fondamentale fu la figura di Voltaire, autore delle Lettere filosofiche che fecero scandalo in Francia e
vennero condannate con l’accusa di ispirare al libertinaggio: egli denunciò il fanatismo e l’intolleranza
religiosa, i privilegi e i soprusi della nobiltà, i pregiudizi filosofici e letterari della società francese, esaltando
l’intraprendenza inglese e lo spirito di commercio. Voltaire indicò l’Inghilterra come modello di libertà
politica, civile, culturale, e descrisse la società inglese come agile e mobile, libera da vincoli e preconcetti
che franavano il resto dell’Europa. Londra era la patria del libero pensiero, della ricerca scientifica, della
tolleranza, e modello del commercio, dei viaggi e delle conquiste extraeuropee, della sobrietà civile e
politica: questi caratteri sociali hanno corrispondenti letterari nella fioritura di riviste, delle quali lo
Spectator di Addison fu l’esempio migliore.
Per quanto riguarda l’Italia, due furono i centri maggiori dell’illuminismo:
- Napoli: Giambattista Vico fu l’esponente più celebre con la sua opera Principi di una scienza nuova
d’intorno alla comune natura delle nazioni; importanti anche Giannone, Genovesi, Galiani, Filangeri:
importantissimi furono gli studi sull’economia, tanto che a Napoli venne istituita la prima cattedra
d’economia in Europa, grazie alla volontà e ai finanziamenti di Bartolomeo Intieri.
- Milano: Pietro e Alessandro Verri e Cesare Beccaria, autore di Dei delitti e delle pene (1764; messa
all’indice due anni dopo), l’opera di maggior successo dell’illuminismo italiano nella quale viene
evidenziato il compito educativo della giustizia, la quale è parte integrante della pubblica felicità, e
l’inutilità di tortura e pena di morte: manifesto della giustizia moderna democratica. I tre diedero
vita alla rivista Il Caffè, alla quale collaborarono i giovani dell’accademia milanese dei Pugni insieme
a molti altri intellettuali. Giuseppe Parini fu invece il miglior esempio di poeta illuminista.
In Europa i primi fermenti illuministici si avvertono alla fine del ‘700, quasi in contemporanea con la
scoperta di Newton della legge di gravitazione universale nel 1682. Nel 1685 in Francia con l’editto di
Fontainebleau fu revocato l’editto di Nantes di circa un secolo prima, il quale sanciva la libera espressione
di fede religiosa: migliaia di ugonotti lasciarono il paese, causando una profonda crisi civile e culturale. Si
diffuse l’esigenza di una maggiore libertà e tolleranza di pensiero: si sviluppò un pensiero critico che sulla
base dell’esperienza mette in discussione il principio di autorità e contesta norme religiose, politiche,
culturali. Alla fine del ‘600, grazie alle mutate condizioni politiche inglesi, questo movimento intellettuale
trovò maggiore possibilità di espressione: epoca di Locke e Leibnitz (mondo in cui viviamo come miglior
mondo possibile), di Voltaire e Diderot\D’Alembert (Enciclopedia).
La nascita di riveste come Lo Spectator favorì lo sviluppo della stampa periodica, che fu strumento decisivo
per l’affermazione delle idee illuministiche. I primi esempi italiani sono costituiti dalle gazzette di Mantova e
Parma, a cavallo dei due secoli; nel 1764-66 uscì Il Caffè, periodico più celebre dell’illuminismo italiano
(bottega del caffè, protagonista indiscussa del periodo, luogo vero e immaginario in cui nasce la rivista), e
nello stesso periodo ne nacquero molti altri modellati su quelli inglesi e francesi.
Molta forma dizionario ebbe molta fortuna, così come quella del saggio, strumento migliore per diffondere
le opinioni e molto utilizzato dai giornali: maestro di tale genere fu Francesco Algarotti. La divlugazione si
fece sempre più capillare, aprendosi a salotti e giardini e a nuove categorie sociali (donne): la scrittura si unì
all’oralità, in una società in cui conversazione e opinione pubblica divennero cardini indispensabili.
Al rinnovato pubblico si indirizzò il romanzo, genere nuovo privo di regole e modelli codificati e che si
identifica quindi con la libertà di immaginazione arricchendo la gamma espressiva della cultura illuministica:
mutarono i gusti del pubblico e nacque una letteratura borghese (epoca di Defoe, Swift, Richardson).
Nel ‘750 le prospettive dell’illuminismo si mescolarono spesso con quelle del neoclassicismo, dopo che
vennero riportate alla luce le rovine di Ercolano (1738) e Pompei (1748): il neoclassicismo punta alla
riscoperta nostalgica del mondo classico greco e latino in tutte le sue forme, per ripristinare nella
modernità i valori etici ed estetici la cui perdita nel corso dei secoli ha determinato la decadenza della
civiltà occidentale. L’abate Giuseppe Parini fu il maggior poeta illuministico neoclassico italiano, autore di
celebri Odi (vita rustica, salubrità dell’aria, innesto del vaiolo, brindisi, alla musa) e del poema Il Giorno, nel
quale vengono messe in scena abitudini e vezzi, supponenza e privilegi, vacuità e frivolezza dell’aristocrazia
(celebri i passaggi della vergine cuccia, del giovin signore, della favola di Amore e Imene e di quella del
Piacere); egli coniugò felicemente estetica ed etica, bellezza e utilità: unendo l’utile al dilettevole e
trattando temi sociali si fa della poesia un contributo essenziale per la pubblica felicità.
CARLO GOLDONI (1707-1793)
Nasce a Venezia in un periodo di illusoria stabilità politica, culturale ed economica, in quanto nel 1718 il
conflitto tra la città e l’impero ottomano culmina nella pace di Passarowitz: in realtà il periodo è
caratterizzato da un’inarrestabile decadenza, specchio dall’immobilismo della classe dirigente attaccata ai
propri privilegi.
Goldoni si forma attraverso i principii dell’illuminismo riformatore e del razionalismo dell’Arcadia. Dimostra
di essere culturalmente cosmopolita: fondamentale è per lui la lettura di Shakespeare, dal quale eredita
l’avversione alle tre unità aristoteliche, il culto per i personaggi di spessore e per il vigore delle passioni;
realizza anche un adattamento teatrale della Pamela di Richardson. Nella prefazione ai Due gemelli
veneziani egli delucida il suo rapporto col teatro classico (nonostante fosse poco incline a formulazioni
teoriche sull’arte), con riferimenti a Plauto, Trissino, Firenzuola. Considera la Mandragola di Machiavelli la
migliore commedia italiana di sempre. Studia giurisprudenza a Pavia ma si laurea a Padova dopo
l’espulsione dal collegio Ghislieri. Con le opere La donna di garbo e Momolo cortesan inaugura la sua
riforma del teatro: lavora prima come autore comico presso il teatro di Sant’Angelo di Venezia, poi passa al
più ampio teatro di San Luca ed infine lavora per l Comédie Italienne a Parigi. A Parigi trascorre gli ultimi
anni, e realizza la sua monumentale autobiografia Memorie.
Mondo-teatro e poetica
Nella prima metà del ‘700 il melodramma era ancora importante pur sembrando ormai prossimo al declino
in quanto non interpretava i nuovi bisogni di limpida chiarezza e razionalità: mentre questo genere
diventava sempre più di nicchia, la massa del grande pubblico ricercava evasioni immediate nel genere
della commedia dell’arte (canovacci, intrecci prevedibili, maschere, improvvisazione). Goldoni entrò in
polemica proprio con la commedia dell’arte, caratterizzata ormai da immobili formulari, da sterilità
tematica, da innaturalezza e fissità dei tipi umani per via delle maschere: nella prefazione alle sue
Commedie egli enunciò i due principi ispiratori della sua opera, e cioè il “Mondo”, inteso come esperienza
del reale, e il “Teatro”, inteso come pratica del gioco scenico (stile organico libero dalla precettistica
accademica e dall’improvvisazione). Attraverso l’osservazione dei costumi umani, il poeta rappresenta la
verità della natura armonizzandola con il teatro, in linea con i pensieri di Diderot e Lessing. La commedia
riformata dal nostro si fonda quindi su due innovazioni tecniche:
- Introduzione progressiva del testo scritto.
- Abolizione delle maschere, sostituite da personaggi dotati dell’interiorità e dello sviluppo
psicologico di un individuo storicamente definito: non più personaggi in abstracto, ma individui
agitati da intense passioni e carichi di naturalità (caratterizzazione dei personaggi). Un esempio in
questo senso i personaggi della Locandiera, Mirandolina su tutti.
Goldoni ricevette molti consensi ma anche molte polemiche, su tutte quella di Chiari e Gozzi che
rivendicarono una visione dell’arte più disimpegnata.
Attraverso la vivace galleria dei caratteri umani da lui rappresentata riuscì a rappresentare il mito e il
tramonto borghese, evitando deformazioni grottesche come quelle ad esempio delle satire di Parini;
delusione del nostro nei confronti di un ceto che non stava mantenendo fede ai propri compiti storici,
concretizzata nelle opere La bottega del caffè, Donna vendicativa, Vecchio bizzarro, Donna sola, I rusteghi,
Trilogia della villeggiatura. Nell’opera in dialetto veneziano Il campiello trae ispirazione poetica dal popolo
minuto, e nelle Baruffe chiozzotte infonde nuova grazia e naturalezza alla vita degli umili: popolo come
orizzonte alternativo della storia. Le opere di Goldoni risultano cariche di negatività, e nel contrasto tra
atmosfera festosa e malinconia la commedia umana viene spesso percepita come “danza di morte”.
Memorie
Redatte a Parigi e nel 1783-84, quando Goldoni è vecchio e malato. L’opera è costituita da tre parti:
- Infanzia e avventure galanti della giovinezza (elaborata partendo dalla sua precedente prefazione
dell’edizione delle proprie Opere, nota come Memorie italiane: Goldoni promuove e valorizza
l’immagine di sé come innovativo autore di teatro, raccontando la prima fase della sua vita)
- Anni cruciali del 1748-63 e partenza per Parigi.
- Meschinità della vita di corte parigina e della commedia francese.
Opera caratterizzata da un’approssimazione cronologica che spesso sfocia nell’incongruenza, in quanto il
calendario veneziano sfasava di due mesi rispetto a quello gregoriano, rendendo difficile scandire e
calcolare in maniera precisa i momenti esatti della sua vita; a ciò va inoltre aggiunta la precaria salute
psichica dell’autore, affetto da nevrosi. Chiara è invece l’esposizione della sua visione relativistica e
dilemmatica della verità e della vita, e la sua ansia di coniugare sempre gli esempi degli antichi alla nuova
scienza. Prosa dal ritmo asindetico e paratattico, caratterizzata dall’uso dell’indiretto libero che conferisce
notevole incisività ai personaggi.
Realismo linguistico
Potenzialità offerte dal dialogo e dal confronto dei differenti punti di vista dei personaggi: Goldoni
costruisce i propri dialoghi in modo limpido e razionale, abbassando moduli e stilemi linguistici al livello del
parlato quotidiano. Adesione sincera all’intima realtà sociale, culturale, psicologica dei personaggi.
Vivace polifonia: uso dell’italiano della borghesia settentrionale, del toscano standard, del veneziano della
nobiltà, della borghesia e dei ceti popolari, in un pastiche al limite dello sperimentalismo linguistico. Il suo
genio comico si rivela soprattutto nell’impasto dialettale, denso di umori: conferisce al dialetto la grazia
spigliata della naturalezza.
Trattati politici
Il nucleo ideologico che fonda l’analisi alfieriana appare inutile e velleitario, configurandosi come puro
slancio emotivo disancorato dal lucido esame dell’esperienza storica. I suoi trattati, solo apparentemente
illuministici, sono in realtà riconducibili al pensiero dominante che fonda la sua personale mitologia: la lotta
contro la tirannide e ogni forma di oppressione. I suoi discorsi appaino tanto convincenti dal punto di vista
retorico quanto superficiali da quello politico. Nei trattati l’opposizione alla tirannide non trova una
corrispondenza nei valori propugnati dalla borghesia mercantile, e l’autore arriva a guardare con favore gli
ideali espressi dalla monarchia costituzionale inglese e le forze reazionarie antinapoleoniche.
- Della tirannide: composto da due libri che analizzano prima la natura della tirannide, poi i modi per
opporvisi (la parte più riuscita è quella relativa all’analisi psicologica del tiranno). Lo stile dell’opera
contribuisce a inaugurare il modello dell’intellettuale “sradicato”, che con aristocratico sdegno e
slancio vitalistico, fronteggia la malignità della sorte e i limiti della condizione umana.
- Del principe e delle lettere: composto da tre libri in cui viene delineata la figura del letterato-tribuno
che sa rinunciare all’inutilità ornamentale della scrittura per difendere ideali superiori di libertà e
verità; evento avvertito come slancio libertario e non come un percorso graduale (superficialità).
- Panegirico di Plinio e Traiano: celebrazione dell’ideale del principe che, rinunciando al suo potere
dispotico, conferisce ai sudditi la libertà e lo status di cittadini.
- Misogallo: prosimetro di critica nei confronti della Francia e dei suoi rivoluzionari.
Tragedie
Le tragedie di Alfieri non conoscono progressione narrativa né catarsi risolutiva. L’evento tragico è dato da
sempre e il suo esito fatale si produce con rigore deterministico, svelando la vanità di ogni azione umana.
Caratteristica delle sue opere è la riduzione numerica dei personaggi ad una coppia di antagonisti,
solitamente un tiranno e un personaggio che titanicamente gli si oppone, i quali rappresentano
rispettivamente oppressione e libertà; nel Saul e nella Mirra questo schema viene violato ed il conflitto è
radicato in un solo personaggio e in esso interiorizzato: conflitto tra giovinezza audace e severa regalità
nella prima, tra irruzione dell’eros e rimozione della passione empia nella seconda.
Sintassi ardente e concitata priva di ornamenti: la disarmonia sallustiana e il sublime tragico senecano si
incontrano nel suo stile, spesso ai limiti dell’espressionismo. Le tre fasi dell’officina alfieriana: ideare il
soggetto, stendere in prosa la tragedia, verseggiare il testo. Retorica della sospensione e uso smodato della
punteggiatura per evocare le “intermittenze del cuore” dei personaggi.
La Vita
Vocazione autobiografica come esercizio spirituale. Continua revisione dell’opera, fino all’edizione
definitiva uscita postuma nel 1806. L’opera di divide in due parti: la prima si apre con un’introduzione ed è
articolata nelle quattro sezioni di puerizia, adolescenza, giovinezza, virilità; la seconda parte riprende
l’ultima sezione narrando gli eventi dal 1790 in poi. Alfieri inizia a scrivere l’opera appena quarantunenne,
mosso dall’amore proprio e da una naturale inclinazione per il vero e il bello, assimilati alla sua poetica,
come spiega lui stesso nell’introduzione. Mitizzazione di sé: l’autore delinea un itinerario di salvezza
improntato all’agiografia di sé, in cui gli episodi acquistano profondità prospettica configurandosi come
tappe del suo percorso letterario (apprentissage).
Registro linguistico alle soglie dello sperimentalismo: linguaggio convulso, a tratti squilibrato e a tratti
prezioso, colto, latineggiante, che si dimostra studiato e per nulla naturale.
Le Rime
Gli episodi, anche autobiografici, che esse riportano assumono un potente valore di intuizione simbolica e
di rivelazione epifanica. Sono cariche di una violenta tensione drammatica: poesia come scenario su cui
amplificare la propria pena e intensificare il proprio dramma. Molto hanno in comune con i personaggi
delle tragedie alfieriane, ed esprimono anch’esse il contrasto tra ideali eroici e realtà meschina. Il vigore
lirico dell’autore trae linfa vitale dall’aspirazione insoddisfatta, dall’inappagamento. Il tono si fa più pacato
nelle liriche composte in vecchiaia, caratterizzate dal tema della solitudine: rinuncia alla retorica tribunizia.
Le Commedie e Le Satire
Il nostro compone sei commedie: L’uno, I pochi, I troppi, L’antidoto, e La finestra e Il divorzio. La tetralogia
costituita dalle prime quattro ironizza sulle arretratezze ed inefficienze insite in tutti i sistemi di governo:
nella quarta Alfieri indica il governo misto, cioè la monarchia costituzionale, come il più efficace per
garantire ordine e felicità. Le commedie risultano piatte: esili nella struttura, fiacche e impacciate nei
dialoghi, pedanti e moraleggianti nello stile.
Le satire sono invece 17 e scritte in terza rima: racconta la realtà sociale con naturalezza; stile brioso.
UGO FOSCOLO (1778-1827)
Nasce a Zante, un’isola greca nel mar Ionio al cui ricordo dedicherà il sonetto A Zacinto, il 6 febbraio 1778. Il
padre è veneziano, mentre la madre è di origine greca: l’origine e il collegamento ideale con la poesia di
Omero e di Teocrito saranno sempre un punto fisso per Foscolo. Nel 1785 la famiglia si trasferisce a Spalato
a seguito del lavoro del padre, che però muore nel 1788. Foscolo e la madre nel 1792 si spostano a Venezia,
dove il giovane Ugo frequenta la scuola di San Cipriano a Murano e la Biblioteca Marciana. In questi anni
Foscolo inizia la propria formazione poetica, con la lettura dei classici greci, latini (in particolare Tibullo,
Ovidio e Orazio) e italiani (tra cui Dante, Parini, Alfieri, oltre a Vincenzo Monti) e la scoperta del pensiero
degli illuministi e di Jean-Jacques Rousseau. Sotto l’influsso delle idee giacobine, Foscolo si avvicina anche
alla politica, coltivando gli ideali di libertà e indipendenza nazionale. Tutto ciò confluisce nei primi testi
letterari, ancora influenzati dal Classicismo e dall’Arcadia. Nel 1797 va in scena a Venezia la tragedia Tieste,
composta secondo lo stile e i moduli alfieriani: l’opera ha successo ma il contenuto dell’opera mette
l’autore in cattiva luce presso il governo veneziano. Foscolo fugge così a Bologna, dove si arruola
nell’esercito napoleonico e pubblica l’ode A Bonaparte liberatore.
Le convinzioni del poeta subiscono un duro contraccolpo il 17 ottobre 1797, quando Napoleone con il
Trattato di Campoformio cede Venezia all’Austria: Foscolo si autoesilia a Milano, dove conosce Giuseppe
Parini (la scena è trasposta in un famoso capitolo delle Ultime lettere di Jacopo Ortis) e Vincenzo Monti,
innamorandosi della moglie di quest’ultimo. Nel 1798 è a Bologna, dove si arruola volontario nella Guardia
Nazionale. Nel 1799 esce la prima edizione delle Ultime lettere di Jacopo Ortis, contrarie alla volontà
dell’autore perché portate a termine da Angelo Sassoli per aggirare i vincoli della censura politica. Sempre
in quell’anno Foscolo ripubblica l’ode A Bonaparte liberatore, facendola però precedere da una dedica assai
polemica nei confronti del generale francese, e compone l’ode A Luigia Pallavicini caduta da cavallo. Tra
1800 e 1801 stringe un legame amoroso con Isabella Roncioni, che è una delle fonti di ispirazione per il
personaggio di Teresa nel romanzo. Nel 1801 Foscolo torna a Milano, dove ha una relazione con la
nobildonna e intellettuale Antonietta Fagnani Arese, alla quale dedicherà nel 1803 l'ode Alla amica risanata.
Nel 1802 Foscolo porta a termine le Ultime lettere di Jacopo Ortis e nel 1803 pubblica l’edizione delle
Poesie, in cui confluiscono le due odi e i sonetti scritti in questi anni, tra cui anche quelli più celebri (il
sonetto-autoritratto Solcata ho fronte, occhi incavati intenti, Alla sera, A Zacinto, In morte del fratello
Giovanni). Segue il commento alla Chioma di Berenice, fatta passare per un fittizio frammento in greco
antico appartenente ad un inno alle Grazie, cioè alle tre divinità del mito classico. Nel 1804 il poeta si sposta
in Francia, per prestare servizio sotto l’armata napoleonica contro l’Inghilterra, sulle coste della Manica. Qui
il poeta traduce dal greco l’Iliade e dall’inglese il Viaggio sentimentale di Laurence Sterne e ha una figlia da
una donna inglese. Nel 1806 Foscolo torna a Venezia dopo la caduta del dominio austriaco: dopo la
pubblicazione dell’editto di Saint Cloud, Foscolo coglie l’ispirazione per il carme Dei sepolcri. Nel 1809 riceve
la cattedra universitaria a Pavia. Il rapporto tra Foscolo e il potere peggiora nel 1811, alla rappresentazione
a Milano della tragedia Aiace. Tra 1812 e 1813 vive tra Bologna e Firenze, lavorando ad una nuova tragedia
(la Ricciarda) e al poemetto delle Grazie e pubblicando la Notizia intorno a Didimo Chierico. Alla caduta di
Napoleone nel 1814: il poeta abbandona per sempre l’Italia, riparando prima in Svizzera (dove nel 1816
pubblica la terza edizione dell’Ortis e l’Hypercalypseos liber singularis, un’opera amaramente satirica contro
i letterati che si asserviscono al potere) e poi esiliandosi a Londra, a partire dal settembre del 1816. A
Londra passa l’esilio e trae la conclusione del suo fallimento politico-letterario, cioè dell’impossibilità di
partecipare alla formazione di una coscienza nazionale e alla costruzione di un pubblico della letteratura
non ancorato allo specialismo conservatore o all’intrattenimento apolitico. Il lungo soggiorno inglese lo
trasfigura da scrittore in giornalista e impiegato delle lettere. Muore proprio a Londra, in miseria, e nel 1871
le sue ceneri vengono trasferite nella basilica di Santa Croce.
Opere:
- Ultime lettere di Jacopo Ortis: la sua composizione si protrae per diversi anni. Nel 1799 esce la
prima edizione a Bologna, portata però a termine da Angelo Sassoli in modo da aggirare i vincoli
della censura austriaca, ma contrariamente alle volontà dell’autore. Trasferitosi a Milano, Foscolo
fa stampare sulla Gazzetta Universale di Firenze un annuncio pubblico con cui rigetta il romanzo;
rimette poi mano al testo per concluderlo dal suo punto di vista: la seconda versione esce proprio a
Milano nel 1801-02. La terza versione esce invece a Zurigo nel 1816.
La trama ricalca quella dei Dolori del giovane Werther di Goethe: il giovane patriota Jacopo, fuggito
da Venezia dopo Campoformio, cerca conforto alle sue delusioni politiche e riparo alla possibile
persecuzione austrica giungendo sui colli Euganei, dove si innamora di Teresa, promessa sposa di
Odoardo. Lascia così quel luogo e viaggia in Italia visitando anche Santa Croce e incontrando Parini.
Venuto a sapere del matrimonio di Teresa con Odoardo, torna sui colli Euganei dove si toglie la vita
pugnalandosi al cuore come il Saul di Alfieri.
Scopo unicamente politico dell’opera: l’Italia non ha nessuna seria tradizione del romanzo e questa
opera vuole quindi evitare di risultare banalmente romanzesca e poco impegnata. Riformulazione
del romanzo sentimentale per raccontare l’attualità.
- Poesie: nel 1803 viene pubblicata a Milano la quarta edizione, costituita di 12 sonetti e 2 odi
(riferite a due donne e poste in apertura dell’opera: A Luigia Pallavicini caduta da cavallo, All’amica
risanata): ogni componimento simboleggia un verso di un ideale “ipersonetto”. Alfieri è il modello
per i sonetti, carichi di soggettività politica e intellettuale critica nei confronti della società, Parini
quello per le odi, che esprimono l’armamentario dell’Arcadia e il gusto neoclassico dell’autore.
Dedica a Giovan Battista Niccolini, drammaturgo fiorentino: in essa Foscolo afferma che scopo di
tale è opera è quello di riassumere e cancellare i suoi precedenti componimenti, indicando quali
strade la lirica italiana non possa più percorrere.
- Dei sepolcri: pubblicato nel 1807 con dedica a Ippolito Pindemonte, poeta e letterato modenese, e
note dell’autore. Opera che si ricollega alla poesia sepolcrale, affermatasi nel ‘700, che aveva come
temi ricorrenti la morte e la transitorietà di tutto ciò che è mondano. Carme in endecasillabi sciolti
che vuole risultare epico-lirico al modo di Pindaro, recuperando l’immenso patrimonio classico già
messo a frutto per le odi con uno scopo però diverso: non più armonioso e favoloso, ma crudo e
severo, sublime (andatura che ricorda la Fenomenologia dello spirito di Hegel).
Lo spunto ufficiale per il poemetto è fornito dall’editto di Saint Cloud del 5 settembre 1806, che
estende all’Italia un precedente decreto francese riguardante la regolazione urbana dei cimiteri:
all’art. 75 obbligava a seppellire i morti lontano dall’abitato dei comuni. Foscolo si oppone
all’allontanamento dei cimiteri dagli occhi dei cittadini, in quanto essi possono indirizzare alla virtù
nel senso alfieriano del termine: esempio contro l’assolutismo politico. La morte non ha alternative,
e non esiste un futuro ultraterreno: non è presente nell’opera nessuno spiritualismo e nessuna
religiosità; il futuro dopo la morte è solo terreno e mondano: vale per chi resta. Nei Sepolcri si
discute insomma quale sia il senso della tradizione, il senso cioè dell’uso odierno della tradizione
letteraria e più largamente culturale una volta che ne sia abbandonata ogni riesumazione in chiave
manualistica e consolatoria.
- Notizia intorno a Didimo Chierico: inventa un nuovo personaggio-scrittore un po' sfaccendato,
ironico, amaro, che rifugge il mondo dei colleghi letterati. Nuova maschera che è in un certo senso
continuazione di quella di Jacopo Ortis.
- Grazie: dedica le prime due edizioni 1812-13 ad Antonio Canova che sta lavorando ad un gruppo
scultoreo sullo stesso tema mitologico (le tre Grazie sono le tre divinità figlie di Zeus e Eurinome:
Agliaia l’ornamento, Eufrosine la gioia, Talia l’abbondanza). Nel 1822 vengono stampati 184 versi
dell’opera per pubblicizzare una collezione di sculture antiche e neoclassiche: essa viene fatta
passare come traduzione di un inno greco. Tutto il materiale prodotto e mai ordinato e redatto in
vita, sarà pubblicato solo nel 1985 da Mario Scotti.
Elevazione alla massima potenza dei sepolcri: discorso che si inabissa nella ricerca del significato
trascendentale del bello, in quanto grande principio regolatore della società. Soccombe in questa
opera il sogno stesso del neoclassicismo, infranto dalla sua inapplicabilità ideologica all’Italia del
tempo (il mito greco non coincide con uno sguardo archeologico sulla modernità, e il programma di
trasferire il moderno nell’antico fallisce).
ALESSANDRO MANZONI (1785-1873)
Introduzione: radici del Romanticismo
Cultura romantica intesa come rinnovamento artistico e letterario, come profonda rivolta spirituale che
affermava la soggettività, il genio creativo, le origini nazionali. Sensibilità formatasi soprattutto in Germania,
dal riconoscimento dei limiti della razionalità illuminista, ed espressa per mezzo della narrativa, della
trattatistica, della filosofia. Fondamento di questa rivoluzione era la percezione della frattura storica ed
esistenziale tra la moderna civiltà europea di matrice cristiana e il mondo latino che ispirava i valori
neoclassici.
La cultura italiana di questo periodo era dominata dall’ideale del bello estetico. Il paese era politicamente e
culturalmente diviso e in buona parte occupato da potenze straniere. Dopo il congresso di Vienna, Milano
era tornata in mano agli austriaci: gli aristocratici milanesi sentirono la necessità di rinnovare i mezzi della
cultura in funzione del cambiamento sociale (i generi del romanzo e del dramma vennero percepiti come i
più adatti a raccontare le vicende politico-culturali). Gli elementi mistici e irrazionali del Romanticismo
europeo, come il suo immaginario magico e sepolcrale, erano però estranei alla sensibilità di un ambiente
di formazione illuminista e liberale come quello milanese, che tuttavia cominciò a dirsi romantico
(romanticismo inteso come sinonimo di modernità culturale e di mentalità liberale, di unione di slanci
passionali e spirito patriottico).
Ruolo essenziale di mediazione tra fenomeni culturali del nord Europa e movimento romantico milanese fu
ricoperto da Madame de Stael: nel suo romanzo Corinne, ou L’Italie denuncia la decadenza della cultura
italiana, conseguenza non solo delle condizioni politiche ma anche di una tendenza nazionale a rifugiarsi nel
culto dell’età classica, sottostimando la letteratura del vero e non traendone appieno i valori (parla di
Dante, Machiavelli, Galileo, Filangeri, Pindemonte, che considera sottostimati e incompresi dagli
intellettuali italiani). In un articolo pubblicato sulla rivista Biblioteca Italiana, la baronessa invitava i letterati
a tradurre testi contemporanei per cercare di uscire dalle vecchie usanze: mentre molti classicisti si
sentirono offesi, un gruppo di giovani intellettuali colse l’occasione stampando tre scritti nei quali
l’aggettivo romantico veniva impiegato in esplicita opposizione al fronte dei classici che la baronessa aveva
attaccato (Silvio Pellico, Ludovico di Breme, Pietro Borsieri, Giovanni Berchet facevano parte di tale gruppo:
Leopardi li rimprovererà nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, in quanto essi sono
scaduti nel cattivo gusto della massa e delle mode straniere, fraintendendo il senso da attribuire ai caratteri
“sentimentale” e “popolare”, i quali devono rifarsi ai sentimenti universali sentiti dagli antichi e dai bambini
e che i moderni possono ritrovare solo nella poesia). Questa nuova tendenza si definì pienamente con la
pubblicazione nel 1818 del “Conciliatore”, al quale collaborarono Berchet, Confalonieri, Visconti: la nuova
poetica si riassumeva nella modernità dei soggetti, meglio se attinti dalla storia della patria, e dei valori
morali che era possibile trarne; esso durò però un anno soltanto: con la repressione dei moti del 1820-21
vennero arrestati Pellico, Confalonieri, Borsieri e Berchet e il movimento romantico milanese si dissolse.
Vita
Alessandro Manzoni nasce a Milano da una relazione extra-matrimoniale tra Giulia Beccaria e Giovanni
Verri, fratello di Alessandro e Pietro. Viene immediatamente riconosciuto dal marito di lei, Pietro Manzoni.
Dal 1801 abita col padre a Milano, ma nel 1805 si trasferisce a Parigi, dove a quel tempo invece risiedeva la
madre insieme con il suo compagno Carlo. A Parigi rimane fino al 1810 e si accosta all'ambiente degli
ideologi, che ripensavano in forme critiche e con forti istanze etiche la cultura illuminista. Rientrato a
Milano nel 1807, incontra e si innamora di Enrichetta Blondel, con la quale si sposa con rito calvinista e
dalla quale avrà negli anni ben dieci figli. Il 1810 è l'anno della conversione religiosa della coppia ad un
cattolicesimo rigoristico, ispirato alle prospettive del giansenismo. Dal 1812 lo scrittore compone i primi
quattro Inni Sacri e l'anno seguente inizia la stesura de Il conte di Carmagnola. È questo, per il Manzoni, un
periodo molto triste dal punto di vista familiare dati i numerosi lutti ma molto fecondo da quello letterario:
compone gli Inni sacri (Resurrezione, Nome di Maria, Natale, Passione, Pentecoste; ai quali si aggiunsero poi
quelli incompiuti Natale 1833 e Ognissanti), le Osservazioni sulla morale cattolica, la tragedia Adelchi, le odi
Marzo 1821 e Cinque Maggio, le Postille al vocabolario della crusca ed avvia la stesura del romanzo Fermo
e Lucia, uscito poi nel 1827 col titolo I promessi sposi. Il lungo lavoro di stesura del romanzo si caratterizza
sostanzialmente per la revisione linguistica, nel tentativo di dare un orizzonte nazionale al suo testo,
orientandosi sulla lingua "viva", cioè parlata dai ceti colti della Toscana contemporanea. Per questo si recò a
Firenze nel 1827 allo scopo di "risciacquare i panni in Arno". Nel 1833 muore la moglie (per questa
occasione compose proprio Natale 1833) e nel 1837 si risposa con Teresa Borri (morta negli anni’50). La
tranquillità familiare, però, è ben lungi dal profilarsi all'orizzonte, tanto che nel 1848 viene arrestato il figlio
Filippo: è proprio in questa occasione che scrive l'appello dei milanesi a Carlo Alberto. Di due anni dopo è la
lettera al Carena Sulla lingua italiana. Tra il '52 e il '56 si stabilisce in Toscana dove viene nominato Senatore
del Regno. Nel 1862 viene incaricato di prendere parte alla Commissione per l'unificazione della lingua e sei
anni dopo presenta la relazione Dell'unità della lingua e dei mezzi per diffonderla.
Poetica e Opere
Manzoni non interviene pubblicamente del dibattitto milanese, ma la riflessione teorica tra saggi, lettere e
appendici alle opere, prova l’intensità con cui egli vive le implicazioni morali delle questioni estetiche in
auge. Questa tensione etica investe il pensiero del pubblico e della sua educazione, l’ossessione del vero
storico e la filosofia della storia, ed è all’origine di ogni scelta stilistica e narrativa dello scrittore.
- Conte di Carmagnola: tema degli scontri tra signorie. Riflette le tesi del Conciliatore sulla tragedia.
Delle unità aristoteliche, Manzoni mantiene quella di azione ridefinendola come principio di
necessità che deve legare gli eventi rappresentati, i quali devono rispettare le fonti storiche ed
essere scelti come soggetto drammatico in virtù del significato politico e morale che è possibile
trarne. Per non forzare il realismo del racconto egli sceglie il coro come spazio esclusivo delle
proprie opinioni. Manzoni afferma che la storia ci dice ciò che gli uomini hanno compiuto, mentre la
poesia ci dice ciò che hanno pensato e provato, ricostruendo il contrasto tra passioni e volontà.
- Adelchi: tema degli scontri tra franchi e longobardi. Alla tesi politica sulla causa della decadenza
dell’Italia, l’autore sovrappone una speculazione filosofica sulla natura tirannica del potere: l’eroe
tragico è vittima di quel pessimismo “mondano” che per Manzoni non lascia alternativa tra fare o
subire un torto (morte come unica via liberatoria dalla feroce violenza che infuria nel mondo, in
linea con una visione cristiana giansenista). Il significato profondo della figura di Adelchi e del suo
dialogo con il padre è importante e allo stesso tempo innovativo: riflette infatti sul fatto che anche
loro, prima di essere stati sconfitti da Carlo e dai Franchi, si erano dovuti imporre su altre
popolazioni: riflette sulla ciclicità della storia, e da ciò ne consegue un miglioramento sul piano
morale del personaggio.
Manzoni vedeva un limite del genere drammatico nella centralità dell’eroe e nella riduzione del popolo a
un’entità narrativa indistinta: al popolo spetta secondo lui cambiare il corso della società e della storia, e
sceglie il romanzo per renderlo protagonista mostrandolo alle prese con i reali agenti del cambiamento
(poteri umani e poteri naturali). La scelta del romanzo non riguarda tanto il suo valore artistico, quanto il
suo rapporto con la verità storica.
Manzoni finirà col cambiare questa teoria, arrivando a definire come inconciliabili il lavoro del poeta e
quello dello storico (“Nel romanzo storico il soggetto principale è poetico in quanto meramente verosimile”)
- Promessi sposi: (il Fermo e Lucia è il romanzo storico antesignano dei Promessi sposi: i personaggi
sono in buona parte gli stessi; il primo romanzo risulta più statico e costituito da blocchi distinti)
l’edizione definitiva detta “quarantana” esce nel 1840-42, illustrata da Francesco Gonin per
raggiungere anche un pubblico meno alfabetizzato, e scritta usando un fiorentino depurato di ogni
residuo della lingua milanese. Manzoni sente la necessità di distinguere la ricostruzione realistica
del passato e le opinioni contemporanee su quello stesso contesto: per dividere questi due piani,
presenta l’opera come un falso manoscritto d’epoca del quale lui è solo un traduttore. Ricreazione
del ‘600 lombardo come ambiente del tutto concreto e del quale i personaggi risultano essere
credibili nei gesti, nella mentalità, nelle relazioni.
Concezione etica di Manzoni: è convinto che un contesto di decadenza consente di individuare
meglio le responsabilità e le virtù personali. I personaggi del romanzo si possono distinguere
facilmente secondo il modo in cui amministrano il proprio arbitrio tra le forze naturali e quelle
sociali: i deboli come Renzo vengono criticati quando si ribellano in forme sbagliate, ma il riscatto
non è precluso a chi abbia commesso dei crimini (fede nella divina provvidenza).
Manzoni ha inventato il romanzo storico italiano ed ha contribuito in maniera decisiva all’affermarsi
del genere romanzo in sé. Egli ha utilizzato i dati storici ricavandone gli elementi per una riflessione
filosofica sulla storia e sulla condizione umana che investiva la propria epoca.
Trama: negli anni 1628-30 il territorio lombardo, sotto il dominio degli spagnoli, è afflitto da una grave carestia. In un paesino lucchese il
matrimonio tra Renzo Tramaglino e Lucia Mondella è impedito dal nobile locale Don Rodrigo, che ingaggia un fuorilegge, l’Innominato,
affinché rapisca la ragazza: Lucia si rifugia in un convento milanese per volere di fra Cristoforo, ma qui Gertrude insieme al suo amante
Egidio consegnano la ragazza all’Innominato. Renzo nel frattempo si rifugia a Milano presso padre Bonaventura: qui scoppia un tumulto
popolare e un’epidemia di peste. L’Innominato si lascia impietosire dalla ragazza, e dopo il colloquio col cardinale Borromeo decide di
liberarla: i due giovani si riconciliano nel lazzaretto di Milano, dove Lucia guarisce dalla peste e Don Rodrigo ne rimane vittima. Tornati a
casa vengono finalmente sposati da Don Abbondio.
- Storia della colonna infame: ricerca sulla persecuzione del 1630 a due untori accusati ingiustamente
di propagare la peste per Milano tramite unguenti. Il processo decretò sia la condanna capitale di
due innocenti, Guglielmo Piazza e Gian Giacomo Mora, sia la distruzione della casa-bottega di
quest'ultimo: come monito venne eretta sulle macerie dell'abitazione del Mora la "colonna infame"
che dà il nome alla vicenda. Nel 1778, ormai divenuta una testimonianza d'infamia non più a carico
dei condannati ma dei giudici che avevano commesso un'enorme ingiustizia, fu abbattuta. Tale
opera venne aggiunta in appendice ai Promessi sposi, ma era nata come parte del Fermo e Lucia.
Porta
Si distaccò progressivamente dalle scelte filoaustriache della famiglia, fondando la Società delle Ganasse e
diventando celebre come attore del “teatro patriottico”. Nel 1812 si apre la fase dei componimenti
maggiori con l’opera Desgrazzi de Giovannin Bongee: il fervore creativo di questi anni è legato alle attività
della Cameretta, circolo di amici che si riunisce in casa Porta per discutere di attualità e politica, che
propugna un ideale di cultura democratica e liberale. La frequentazione con intellettuali riformisti gli
permise di venire in contatto come autori come Foscolo e Manzoni (il quale riconoscerà l’ispirazione che ha
tratto dalla poesia portiana).
Le storie degli umili messe in scena nei componimenti di questi anni costruiscono un mosaico sociale,
mettendo in scena i fatti tragici che colpiscono i protagonisti e delineando gli scenari in cui essi si svolgono:
la città contemporanea diventa la protagonista della nuova poesia, in un mondo in cui ci si sente figli della
natura, della tecnica e della storia (i paesaggi ameni popolati da scrittori poeti vengono sostituiti dal
frastuono metropolitano reso con allitterazioni e onomatopee, e dal senso di soffocamento causato dal
viavai cittadino reso con la tecnica dell’enumerazione caotica). Porta dimostrò quindi grande attenzione al
contesto sociale, denunciando il potere e l’ipocrisia della società: non scompare mai in lui la
consapevolezza di un divario incolmabile tra i ceti, che solo in parte può essere stemperato dalla comicità.
Porta si cimentò anche in una traduzione in milanese dell’Inferno dantesco, completandone soltanto una
piccola parte: questi versi risultano scanditi da rime aspre e dal ritmo dei monosillabi. L’autore insegue la
musicalità delle allitterazioni dantesche, ma declassa le immagini poetiche e la maestosità delle figure a un
livello più quotidiano.
Gli ultimi anni della vita di Porta furono caratterizzati dalla polemica antinobiliare e anticlericale: il tenore
delle sue denunce non si smorzò, e lui stesso affermò di essere posseduto da una “musa arrabbiata”. Decise
di morire romantico chiarendo la sua posizione nelle opere Sonettin col covon e El Romanticismo.
Belli
Contemporaneo di Porta, si cimentò nella traduzione dal milanese al romano di due suoi sonetti, dedicati
alle figure femminili della formosa Sura Catterinin e della sgangherata Teresin: varia lo schema delle rime
ma non rinuncia all’attenzione per il dettaglio stilistico e fonico. Nei due sonetti Belli mostra di saper essere
osceno molto più di Porta, e allo stesso tempo di risultare più comico ed irriverente (il corpo maschile
risulta essere nelle composizioni del Belli oggetto del desiderio quanto quello femminile). Entrambi gli
autori scelgono di cedere la parola ai personaggi all’interno delle loro opere, ma se in Porta resta operante
la distinzione dei registri, in Belli tutti parlano la stessa lingua e sono ugualmente volgari.
La maggior parte delle notizie sulla vita di Belli ci giungono dalla lettera del 1818 all’amico Filippo Ricci,
intitolata Mia vita: vi si narrano le peripezie della sua famiglia negli anni della Roma giacobina, e delle
difficoltà da lui affrontate una volta rimasto orfano. Successivamente fondò l’Accademia Tiberina per
promuovere gli studi storici su Roma (alla cui plebe dedicò l’opera Sonetti). Viaggiò molto tra 1817-27.
La vastità dei suoi interessi è documentata dagli undici volumi del suo Zibaldone.
La visione della storia come una linea che continuamente si inceppa e la consapevolezza che il progresso
raggiunto può sempre ribaltarsi in una condizione di barbarie costituiscono il sostrato filosofico in cui si
innesta il personale scetticismo di Belli. Da segnalare sono poi le sue riflessioni intorno alla cultura
popolare, alla superstizione, al valore delle lingue basse, al gusto del dettaglio realistico e grottesco che lo
avvicina ai principali narratori dell’800.
Possiamo definire tale autore come censore di sé stesso: pur scrivendo usando lingue basse, egli era
convinto che solo la produzione in italiano meritasse la pubblicazione; arrivò a condannare i suoi sonetti
romaneschi, chiedendone la distruzione al figlio Ciro e al canonico lateranense Tizzani, eredi delle sue carte.
Negli ultimi anni di vita subisce un’involuzione, anche a causa della morte dell’amata moglie, e la sua
ispirazione inizia a svilirsi: è del 1849 l’ultimo e malinconico sonetto dedicato alla nuora Cristina, nel quale
tragico e comico si uniscono nel paradosso delle grandi aspettative destinate a sfociare nel nulla.
Molte furono le traduzioni in lingua straniera delle sue opere: Russia (Gogol su tutti), Inghilterra, Germania.
GIACOMO LEOPARDI (1798-1838)
Vita
Nasce a Recanati dal conte Monaldo e dalla marchesa Adelaide Antici, membri dell’antico patriziato
marchigiano. Il padre è grande appassionato di lettere, dall’ideologia cattolica conservatrice: Giacomo
riceve un’educazione religiosa canonica, ed inizia i suoi studi già nel 1807 con il maestro sacerdote Sanchini;
dal 1812 diviene autodidatta studiando sui libri della biblioteca del padre: impara benissimo il greco e si
interessa di molte altre lingue. Diviene in breve tempo un ottimo traduttore (Ars poetica di Orazio e
Batracomiomachia di Omero), autore di trattati scientifici (Storia dell’astronomia) e etno-antropologici
(Saggio sopra gli errori popolari degli antichi), oltre che filologo. Decisivo è il 1817: inizia una
corrispondenza epistolare con il letterato piacentino Pietro Giordani che lo introduce in ambienti letterari
non provinciali. In due ampie lettere, il nostro gli descrive il suo stato d’animo utilizzando uno stile
classicistico inframezzato da scatti colloquiali e ricco di allusioni e riferimenti letterari: egli raffigura se
stesso come un genio incompreso e isolato, un puer senex malato nel corpo e corroso dagli studi nel cuore,
prigioniero della desolante Recanati; compare in esse il concetto di noia, sentimento terribile e indistinto
che annichilisce e disorienta: angoscia esistenziale che si nutre della quiete e della routine della vita, dovuta
all’impossibilità di appagare l’infinito desiderio umano (prime tracce della teoria del piacere). Nel 1818
scrive il Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica che rappresenta la più importante trattazione
poetica del primo Leopardi. Nel 1819 inizia a comporre gli Idilli e prova anche a fuggire da Recanati, ma
viene scoperto: torna così negli anni successivi a concentrarsi sulla composizione. In questo periodo,
rileggendo Machiavelli ed Hobbes, mette a punto il suo pessimismo sociale, che in un passo dello Zibaldone
definirà “machiavellismo di società”: la massa degli uomini vive per lui in uno stato di guerra perenne di
tutti contro tutti a causa dell’egoismo proprio di ogni uomo (questo machiavellismo viene formalizzato nei
Pensieri del ’32-’36, in cui si analizza proprio il comportamento degli uomini in sé, e all’interno della
società). Ottiene dal padre il permesso di recarsi a Roma nel 1822, presso lo zio Carlo Antici: trascorre circa
un anno nella capitale, rimando deluso dalla grettezza della vita salottiera della città, e una volta tornato a
casa si chiude in una solitudine quasi monastica, pensando e scrivendo moltissima anche se solo in prosa.
Gli anni 1823-28 costituiscono il periodo di non poesia (eccezione: epistola Al conte Carlo Pepoli del ’26): si
dedica così alle Operette morali, e visita Milano, Bologna, Firenze (qui conosce gli intellettuali
dell’Antologia, la rivista fondata da Vieusseux, sulla quale vengono pubblicate le sue Operette a partire dal
’26). Nel 1828 si reca a Pisa, e qui torna poetare: il primo testo che redige è Il risorgimento, che esprime un
gioioso ritorno alla poesia, documentando il ritorno alla vita interiore e alla sensibilità emotiva. Torna a
Firenze nel 1830 grazie agli intellettuali dell’Antologia, i quali gli mettono a disposizione una somma di
denaro sufficiente per vivere un anno in completa autonomia: la profonda riconoscenza del nostro si
manifesta con la dedica del suo capolavoro, cioè i Canti, che raccoglie le poesie scritte fino a quel momento.
Si avvicina molto all’intellettuale Antonio Ranieri, con il quale lascia Firenze per recarsi a Roma prima e
Napoli poi (1833): qui si innamora della nobile fiorentina Fanny Targioni Tozzetti, e pensando di essere
corrisposto le dedica il Ciclo d’Aspasia, opera nella quale dipinge la donna come essere angelico (richiami
allo stilnovismo dantesco e cavalcantiano) e parla dell’amore tra uomo e donna come risarcimento ai mali
inflitti dalla natura, per sfociare però sul finale in un pessimismo sconsolato e nel desiderio di riporre ogni
passione perseguendo l’assoluta atarassia. Il soggiorno del nostro a Napoli, ultima città ad ospitarlo, si
rivela ricco di composizioni, nonostante la cagionevole salute: realizza la seconda versione dei Canti e
Paralipomeni della Batracomiomachia (poema narrativo, zoo-epico e comico composto da 8 canti in ottava
rima: si ricollega all’opera di Omero, narrando la guerra tra i topi, esponenti del partito liberale italiano, e le
rane, legittimisti filopapali, mentre i granchi rappresentano gli austriaci; il nostro prende atto della mancata
riuscita dei primi piani di liberazione nazionale e riconosce alla base dell’insuccesso un’ideologia troppo
poco concreta, mancante delle realpolitik e di pragmatismo). Nel 1836 realizza la lunga canzone La ginestra
o il fiore del male, considerata il suo testamento poetico: invita gli uomini ad unirsi e a darsi forza l’un
l’altro, assumendo un atteggiamento eroico nei confronti della natura maligna e dell’ingiustizia cosmica.
Muore l’anno successivo.
LEOPARDI di Antonio Bazzocchi
Anni di formazione
Studia le lingue antiche e moderne, la letteratura, le scienze e la religione. Diverse sono le attività del
periodo:
- Traduzioni: il latino gli è imposto dal padre mentre il greco lo scopre da sé, ed è proprio lo studio di
questa lingua e la lettura dei poeti greci antichi a incrementarne la vocazione poetica, alla quale
contribuisce anche la forza della sua immaginazione (lo afferma lui stesso nello Zibaldone, nel
1821). Le prime opere che traduce sono l’Ars poetica e le Odi di Orazio, e la Batracomiomachia e
alcuni passi dell’Odissea di Omero: ne seguono altre di Mosco, Esiodo, Archiloco, Anacreonte. La
traduzione degli antichi diventa già esperimento poetico: nel tradurre ad esempio Mosco, Leopardi
stesso percepisce la sua attività non come serva dell’arte ma come vicina alla natura stessa, in
quanto prodotta da un poeta civilizzato ma non ancora corrotto dai vizi cittadini; Omero viene
invece identificato con uno stato primitivo in cui convergono la natura e la condizione infantile
dell’uomo. Questi autori greci diventano per il nostro i testimoni di un’epoca privilegiata di unione
con la natura, anzi sono essi stessi una seconda natura, dove l’immaginazione è al suo massimo di
intensità e artificio: poesia “ingenua”; questa situazione non potrà mai più ripetersi
- Prime composizioni: 23 dissertazioni filosofiche di vario soggetto (logico, fisico, metafisico) le due
tragedie La virtù indiana e Pompeo in Egitto, esperimenti di scrittura in greco spacciati per originali.
Filologia: nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi parla degli errori che gli antichi hanno
commesso a causa della loro inciviltà (in linea con l’educazione cattolica). Concetti di errore e vero: gli
errori cioè le illusioni, i sogni, i prodotti dell’immaginazione sono contrapposti al vero, cioè alla ragione;
Leopardi sembra propendere per la verità contro l’errore, dichiarando la necessità di eliminare i
pregiudizi dell’infanzia. Il Leopardi di queste pagine è esattamente nella posizione opposta a quello che
comporrà le prime canzoni e gli idilli, dove la forza dell’immaginazione e dell’errore viene caricata di
valore assolutamente positivo nei confronti della ragione: l’esperienza del mondo antico diventa
gradualmente quella del rapporto originario con la natura, che si rivela come qualcosa di esterno e
percepibile con i sensi, ma anche qualcosa di intimo e privato, fondamentale nell’infanzia.
Il passaggio dai classici greci e latini alla poesia moderna avviene attraverso la mediazione del modello
dantesco: passaggio dalla condizione ingenua, poetica, a qulla adulta, sentimentale. Compone la lunga
cantica Appressamento della morte, ambizioso poema allegorico di ispirazione dantesca: un giovane poeta
viene guidato da un angelo nell’oltretomba con lo scopo di allontanarlo dai desideri terreni, indicandogli la
via verso la visione di dio.
Tentazione autobiografica
Due furono gli esperimenti di scrittura in questo senso, uno nel 1817 el0altronel 1819:
- Il diario del primo amore: scritto in occasione dell’incontro con Gertrude Cassi, cugina del padre
Monaldo, che trascorre quattro giorni a Recanati e lo fa innamorare facendogli sperimentare per la
prima volta una passione prima solo immaginata. Il rapporto con l’oggetto d’amore avviene su due
piani: Giacomo vede la donna, ne subisce il fascino, ma poi la sogna, la immagina e sente che
l’immaginazione ha effetti a volte anche più intensi di quelli diretti alla percezione sensibile; da qui
deriva la rappresentazione dell’assenza che accompagna il rapporto sensibile con le cose, per cui
finito e infinito vengono a contatto. La donna immaginata risulta dominante rispetto a quella reale,
e il nostro esprime la volontà di mantenerne l’immagine e il ricordo: ma una volta composto il
canto, le immagini si sono indebolite e diventa più grande il vuoto del cuore; la malinconia si
accompagna ad una nuova intensità di pensieri, e prefigura ancora una volta l’analisi della noia.
Altezza del pensiero e sensibilità dell’animo sono i risultati positivi della passione: l’amore però, per
gli eccessi di malinconia, può diventare una vera malattia con effetti fisici come insonnia e
debolezza. Nelle ultime pagine si afferma poi che la donna desiderata può ricomparire in sogno
ancora intensamente viva, molti più di quanto riesce a rievocarla la memoria: alternanza tra
desiderio e vuoto, immaginazione e memoria, presenza ed assenza.
- Ricordi d’infanzia e l’adolescenza: titolo non originale dell’opera, che contiene appunti di
impressioni, ricordi personali e familiari, di letture che si mescolano a sensazioni varie. Le note si
susseguono senza interruzione come veri e proprio appunti. Qui Leopardi indica le caratteristiche
della sua intelligenza, fatta di duttilità e capacità di imitazione. Vengono trattati anche problemi
filosofici poi ripresi nelle in altre opere, come l’immensità del cosmo e la piccolezza della natura,
del rapporto finito-infinito, della pluralità dei mondi e della critica all’antropocentrismo. Il bisogno
di proiettarsi in figure diverse da sé per esprimere le proprie idee, che troviamo nei Canti, si
materializza qui nel passaggio dalla prima alla terza persona.
Mutazione: passaggio nel 1819 dalla poesia alla filosofia, dallo stato antico al moderno. In quell’anno si
ammala agli occhi e non riuscendo per lungo tempo a leggere si concentra sulla meditazione: la riflessione
che consegue al dolore provoca in lui un cambiamento, e per questo la sua immaginazione si indebolisce.
Fine del predominio della natura sui sensi e inizio di un’epoca sotto il segno della ragione e del vero. Poeta
e filosofo sono le due figure che si alternano nella scrittura in prosa e in versi di Leopardi.
Canti
Opera che raccoglie tutti i suoi esperimenti poetici, e che è cresciuta parallelamente a lui ed è quindi
costituita da diversi nuclei e componimenti successivi. Nell’ordine:
- Canzoni del 1818-20: si apre la carriera poetica ufficiale di Leopardi. Fanno parte di questo periodo
il trittico All’Italia e Sopra il monumento di Dante (definite come patriottiche) e Ad Angelo Mai
quant’ebbe trovato i libri di Cicerone della Repubblica. Caratterizzate da tono alto e da un gusto del
travestimento erudito che il poeta si porta dietro dai suoi studi giovanili, da una lingua e un giro
sintattico modellati sui classici, da immagini e passaggi veloci da una strofa all’altra in cui i legami
concettuali appaiono completamente nuovi. In queste poesie, come in quasi tutte le grandi poesie
leopardiane, prendono il loro titolo da un interlocutore presente o assente ma sempre necessario
allo svolgimento della poesia stessa: Leopardi riporta alla lirica la solennità del dialogo, il pathos
drammatico del teatro, il clima sentimentale del romanzo moderno. Ciò che il nostro sottolinea in
queste prime tre canzoni è la decadenza dei comportamenti moderni in confronto agli antichi, la
condizione di abbattimento morale della nazione e dei suoi abitanti, la viltà che si è sostituita alla
virtù, la paura al coraggio: insomma il disagio che Leopardi vuole cogliere è la mancanza di virtù e di
ideali nei suoi contemporanei, di fronte ai quali proclama una forte volontà di intervento e azione,
a rischio della vita stessa. La tomba è uno dei luoghi più invocati sia nel suo aspetto funebre che per
il suo valore di ricordo ed esempio (ripresa di Simonide e Foscolo). Doppio aspetto delle prime
canzoni: da un lato ci sono le grandi invocazioni storiche condotte per ampi quadri, dall’altra un
impeto di sentimenti elevati che accompagna queste invocazioni, dove sale alla ribalta l’Io lirico,
che commenta, interroga, si stupisce diventando il vero protagonista degli avvenimenti.
- Canzoni del 1821-22: nel 1819 avviene la mutazione che lo porta diventare filosofo iniziando una
meditazione sul vero dominata dalla ragione. Realizza alcuni degli idilli più famosi e poi ritorna alla
composizione di canzoni di intonazione impegnata e classicheggiante, e nello stesso periodo scrive
molto anche nello Zibaldone. La meditazione non impedisce la poesia. Sono di questi anni Nelle
nozze della sorella Paolina e A un vincitore nel pallone (tema della virtù), Bruto minore e Ultimo
canto di Saffo (tema dell’amore e scelta del suicidio, e ragione nemica della natura), Alla primavera
e Inno ai patriarchi (si interroga la natura recuperando la memoria dei tempi antichi).
- Idilli: autoanalisi sentimentale che segue i tormenti dell’età adolescente e vi medita sopra. Gli idilli
esprimono situazioni, affezioni, avventure storiche dell’animo del poeta, e sono: L’infinito, Alla
luna, Il sogno, La vita solitaria, tutti pubblicati nel 1825-26 sulla rivista Nuovo Ricognitore e poi
nell’edizione bolognese dei versi. Essi entrano in contatto con una natura reale in cui il tempo che
domina è un presente che sembra voler cogliere l’essenza di ogni momento: gli oggetti del
paesaggio lirico fanno da sfondo alle meditazioni diventando però protagonisti della meditazione
stessa. La voce che parla ha bisogno di questi oggetti per svolgere un racconto in torno a sé stessa:
non è più un io astratto e indefinito, ma un io caratterizzato da esperienze biografiche precise. La
storia interiore di questo nuovo io nasce a contatto con la realtà e da qui parte per accennare alle
esperienze private della memoria e del sogno: in tutti i componimenti la dimensione del presente
viene messa in rapporto con quella del passato, proprio per sottolineare la dimensione di avventure
storiche fatte dei fatti rappresentati.
- Prima edizione dei Canti, Firenze 1831: preceduta da un’edizione bolognese dei versi del 1326, con
cui il nostro inizia a pensare a una raccolta delle sue poesie (idilli, elegie, sonetti satirici, traduzioni
di Omero e Simonide, quest’ultima “contro le donne”, che si mescola ai componimenti più lirici e
amorosi sancendo il passaggio a un nuovo tipo di scrittura che vedremo nelle Operette morali).
Inserisce nella raccolta anche l’Epistola a Carlo Pepoli: I nuclei della raccolta sono due: la presenza
della noia nella vita dell’uomo e il poeta stesso che si sente alla fine di un’epoca della sua vita; la
vita non è vitalità, ma un sonno agitato e difficile da sopportare, difficile anche per chi, libero da
bisogni primari, ha davanti a sé un tempo di vuoto da riempire con attività di ogni tipo.
Nell’edizione del 1831 l’autore recupera le canzoni, che vanno a occupare i primi nove posti
dell’indice, al decimo inserisce un’elegia giovanile (Primo amore), seguono i cinque idilli (amore
ormai visto dalla prospettiva sentimentale del ricordo), al sedicesimo posto c’è la canzone Alla sua
Donna, al diciassettesimo l’Epistola a Carlo Pepoli (la meditazione si sostituisce alla passione e il
vero occupa definitivamente lo spazio delle illusioni e delle passioni); la quiete dopo la tempesta e il
sabato del villaggio chiudono questa edizione, offrendo due immagini di felicità apparente e
illusoria e l’immagine della vita come uniforme continuità di noia e dolore, interrotta
momentaneamente da piccoli spazi di piacere.
- Edizione definitiva, Napoli 1835: rispetto alla precedente il passaggio tra Il primo amore e l’infinito è
mediato dal nuovo testo il passero solitario, tra vita solitaria e alla sua donna si inserisce il
Consalvo, la raccolta termina con un nuovo ciclo di canti amorosi (il pensiero dominante, amore e
morte, a sé stesso, Aspasia) seguiti dalle canzoni Sopra un bassorilievo antico sepolcrale, Sopra il
ritratto di una bella donna, Palinodia al marchese Gino Capponi, il tramonto della luna, la ginestra,
e da una breve sezione di frammenti.
Zibaldone
Raccolta di pensieri e osservazioni da cui l’autore progettava di ricavare diversi trattati intorno a temi
estetici, filosofici, morali. Esso contiene idee e meditazioni che sono necessarie per capire le due opere
maggiori di Leopardi, i Canti e le Operette, anche se molto spesso il pensiero riprende, commenta ma anche
modifica qualcosa che la poesia e la prosa aveva affermato. Si possono dare due casi diversi: o un’idea
viene elaborata prima nelle opere poetiche e in prosa poi ripresa nello Zibaldone, o esso modifica quanto si
trova già nell’opera. La prima edizione dell’opera esce postuma nel 1898-00: 7 volumi e 4.526 pagine,
contenenti conversazioni e discussioni del poeta con sé stesso (1821: anno più prolifico) non organizzate
secondo una struttura organica. Volendo arrivare ad un tema fondamentale, lo si può individuare nel
rapporto uomo-natura. La maggior parte dei pensieri dell’opera viene articolata attraverso opposizioni, le
quali spesso delineano percorsi che si incrociano tra loro: ragione-immaginazione, natura-ragione, antichi-
moderni, poesia-filosofia.
In un celebre passo egli afferma che i pensatori, se vogliono raggiungere la verità, devono elaborare sistemi
di pensiero, anche se i loro sistemi possono essere errati e distanti dal vero: la scoperta di ogni singola
verità ha senso solo se la si mette in rapporto con tutte le altre verità. La correlazione di queste verità può
avvenire solo per mezzo dell’immaginazione, non essendo la ragione sufficiente: pensiero e immaginazione,
e anche sentimento, devono collaborare nella ricerca della verità.
Importante è il passo che riguarda il rapporto uomo-natura, cioè la possibilità della mente umana di
comprendere l’infinità della natura. Leopardi esprime l’assoluta superiorità dello stato di natura su quello di
cultura, degli antichi sui moderni, degli effetti della natura rispetto ai prodotti della ragione. La natura è
superiore perché ha caratteristiche di perfezione immutabili, mentre l’uomo moderno si è allontanato dallo
stato naturale giungendo ad una seconda e corrotta natura (Subentra il concetto di assuefazione: esso
spiega tutte le trasformazioni che nella storia hanno portato la natura originaria a diventare una seconda
natura dalla quale non si può tornare indietro [giustificazione del suicidio: impensabile in uno stato naturale
ma legittimo in uno stato di seconda natura come il nostro, dove il desiderio di sottrarsi al dolore può
spingere alla morte]). Nel 1824 la concezione di Leopardi sulla natura si modifica improvvisamente:
l’opposizione natura-ragione, in cui la natura appare come ordine perfetto, svanisce in quanto la
contraddizione entra a far parte dello stesso ordine naturale. Tale contraddizione sta nel fatto che l’uomo
nasce ma non può essere felice, e desidera la morte, e ciò è una contraddizione stessa della vita e della
natura, che quindi non è perfetta come aveva fino ad allora sostenuto. Il fine naturale dell’uomo deve
essere la felicità, ma il fine dell’esistenza in generale e di quel sistema che ordina le cose della natura non è
in nessun modo la felicità, in quanto essa è impossibile e in quanto la somma dei dispiaceri supera sempre
quella dei piaceri: da ciò ne consegue che il fine della natura universale è la vita dell’universo, la quale
consiste ugualmente in produzione, conservazione e distruzione dei suoi componenti, ed essa quindi non
considera nemmeno la condizione degli uomini. Se dalla prospettiva umana la natura sembra malvagia,
Leopardi preferisce non cedere ad una prospettiva ristretta come quella umana, rispettando il principio di
relativizzazione: “Questo è un universo, un ordine: se buono o cattivo, non lo diciamo”. La posizione ultima
rimane quella dell’ammirazione: la natura è quindi in definitiva ordine perfetto (ulteriore ribaltamento) che
contempla la presenza del male, la quale è sua parte integrante.
Operette Morali
Di carattere comico e satirico, ricche di lirismo e estro, di mescolanza di generi e contaminazione, di
citazione erudita e di allusione colta, presentano vistose analogie con i dialoghi del greco Luciano di
Samosata ed anche con le opere di Voltaire. 19 delle 24 operette vengono composte nel 1824 (il 1823 è un
anno importante per l’autore, in quanto cambia la sua concezione intorno al mondo antico e alla felicità
degli antichi, la quale è un’illusione). Leopardi sembra volere traslare gli appunti dello Zibaldone in una
forma più presentabile e ufficiale, quella appunto del dialogo spiritoso tra antichi poeti, scienziati, dei,
individui immaginari, animali, pianeti, dando un definitivo assetto al sistema filosofico, sociologico, estetico
di cui erano espressione, e trattando nella forma della commedia temi propri della tragedia. A differenza
dei Canti, le Operette morali vengono concepite già come un’opera compatta e definita nella sua struttura.
Tre sono le edizioni dell’opera:
- 1824: costituita dalle prime 20.
- 1827: a quelle dell’edizione precedente se ne aggiungono altre 3, e la disposizione cambia (Milano).
Questa è considerata la prima edizione ufficiale.
- 1832: aggiunta di altre 2 operette, in quella che viene identificata come seconda edizione ufficiale
(Napoli). Una terza edizione venne poi bloccata dalla censura borbonica.
Le edizioni attuali si basano però sull’assetto definitivo del libro sull’edizione postuma a cura di Antonio
Ranieri (Firenze), che compiendo l’ultima volontà dell’autore aggiunge le 3 operette ancora inedite
Frammento apocrifo, Copernico, Plotino-Porfirio.
In questi componimenti: la condizione di sofferenza dei viventi viene estesa a tutte le epoche e a tutte le
specie, la noia rivelata quale condizione costante e irreparabile dell’esistenza, la società rappresentata
come campo di azione privilegiato delle bestialità umana, il progresso tecnico e scientifico dichiarato
responsabile dell’imbarbarimento dell’uomo in quanto frutto della ragione, il mestiere dell’artista e del
letterato come inutile e dannoso poiché inquinato dall’ipocrisia, l’antropocentrismo criticato e sbeffeggiato;
bersaglio della satira era quindi il mondo nel suo complesso: relativizzazione dell’immagine del mondo che
si deforma in conseguenza alla sua perdita di valore, alla quale si correla l’idea di un’umanità rimpicciolita e
inerme (limitatezza della terra e del cosmo ed apertura ad una dimensione d’infinito). Molti sono i rimandi
alla filosofia di Socrate.
A dominare le operette è l’elogio dell’immaginazione, della vita osservata a distanza, sognata anziché
vissuta, o consumata con il massimo di intensità e vivacità possibile, oppure addirittura è la prospettiva dei
morti a predominare su quella dei vivi.
SCAPIGLIATURA
Con l’unità nazionale (1861) si chiude un’intera stagione artistica e culturale: perduto ormai il proprio ruolo
di incitamento all’azione, la poesia patriottica di matrice berchettiana dai ritmi marziali e dai toni innografici
si stempera in una retorica sempre più facile e arcadica. Tuttavia la patria tanto desiderata non sembra
rispondere ai sogni e alle aspettative: gli artisti sentono di vivere in una condizione di marginalità nella
nuova società borghese e capitalista. Delusione postrisorgimentale e crisi dei secolari valori umanistici da
cui deriva un atteggiamento di protesta e di rottura con la tradizione: spasmodica ricerca del nuovo,
attitudine ribelle e sperimentale di marca ancora romantica si esprimono nella Scapigliatura.
La Scapigliatura è un movimento che si sviluppa a Milano e in misura minore a Torino subito dopo l’unità
d’Italia, e che domina la vita culturale per poco più di un decennio fino al progressivo esaurimento intorno
alla fine degli anni ’70. Il nome deriva dal romanzo di Carlo Righetti La Scapigliatura e il 6 febbraio: un
dramma in famiglia, una sorta di feuilleton di tema romantico-risorgimentale uscito nel 1862 in la
Scapigliatura è presentata come una casta formata da individui di ambo i sessi di 20-25 anni, pieni di
ingegno, più avanzati del loro tempo, indipendenti “come l’aquila delle Alpi”, pronti al bene quanto al male,
irrequieti, travagliati, turbolenti: casta che rappresenta “il serbatoio del disordine, dell’imprevidenza, dello
spirito di rivolta e di opposizione a tutti gli altri ordini stabiliti. Siamo di fronte alla declinazione italiana della
bohème, che si identifica più come un costume sociale che come un movimento letterario.
Anche se differenze notevoli caratterizzano i vari membri del movimento, è possibile individuare
caratteristiche comuni: ribellismo antiborghese (tradotto in una vita sregolata, anticonformista, spesso
conclusa con l’alcolismo o col suicidio), noia esistenziale, irreligiosità blasfema, individualismo esasperato,
opposizione al mondo ufficiale dell’accademia, gusto per il macabro e per l’orrido, irrazionalismo tendente
al misticismo e al fantastico\sovrannaturale, commistione di generi e forme. Fondamentale è poi l’inter-
artisticità, che interessa letteratura, pittura, musica. In assenza di un vero e proprio manifesto
programmatico non si può parlare ancora di avanguardia: le posizioni scapigliati venivano presentate
soprattutto tramite riviste (Cronaca grigia, Figaro, Lo Scapigliato). Tutti i temi più ricorrenti trovarono
espressione nella poesia di Praga Preludio: opposizione alla generazione precedente e Manzoni in
particolare, polemica antireligiosa, volontà di scandalizzare, tensione irrisolta tra ideale e reale, conflitto
con il lettore borghese. Tutta la poesia degli scapigliati è figlia del dualismo e della contraddizione, e si
sviluppa all’ombra delle opere di Baudelaire e Heine. Maggiori esponenti:
- Emilio Praga: Penombre è la sua opera poetica principale, ed esprime il malessere dell’autore, la
sua attitudine sperimentale e la sua attrazione per il macabro e il sovrannaturale, pur utilizzando
una metrica largamente convenzionale.
- Ugo Tarchetti: da ricordare sono la raccolta poetica postuma Disjecta di tema funebre che sfiora i
limiti del feticismo e della necrofilia, e Canti del cuore, di prosa poetica sciolta da ogni vincolo.
- Arrigo Boito: da ricordare il Libro di versi e la favola Re Orso (sperimentalismo metrico, linguistico,
grafico). Lasciò la letteratura per la musica.
- Giovanni Camerana: nella sua raccolta postuma Versi si delinea il passaggio da un impressionismo
giovanile a un simbolismo carico di tratti decadenti ed esistenziali.
- Carlo Dossi: scrittore di narrativa più rivoluzionario di questa generazione sul piano dello stile e
dell’inventiva linguistica. I suoi libri sfuggono a ogni precisa qualifica di genere essendo ricchi di
digressioni sul modello sterniano e alternando continuamente racconto e riflessione: pastiche pre-
espressionista in cui dialettismi, termini aulici o desueti, tecnicismi e voci popolari si fondono in un
dettato che anticipa lo stile di Carlo Emilio Gadda. Opere da ricordare: L’Altieri, Vita di Alberto
Pisani, Desinenza in A, Amori, Note azzurre.
Vanno poi ricordati Giuseppe Rovani, Giovanni Fardella, Camillo Boito (fratello di Arrigo), Giovanni Cagna.
Da segnalare è il suo ampio lavoro critico e filologico, e la redazione di antologie per gli studenti del
ginnasio e del liceo: visione pedagogica modernissima.
Simbolismo
Nella prosa del Fanciullino Pascoli afferma che il poeta è un fanciullo in grado di percepire il mondo con
primigenio e fantastico candore, con un’istintiva capacità di rinominare con la sua lingua le cose. Il suo
animo non risponde alla ragione e i suoi occhi sono dotati di una vista pura, non offuscata ma anzi
magicamente attratta dal progresso della vita moderna. Egli percepisce il mondo nella sua autentica
essenza, nella semplicità e nella bellezza delle cose anche più insignificanti: coglie la sostanza della natura.
La poesia è quindi spontanea e antiletteraria, libera da schemi logici e culturali in quanto pura, e può essere
di tutti poiché il fanciullino abita in ogni essere umano.
Nonostante la poetica delle cose, secondo la quale ogni elemento lirico è già in natura ed è soltanto da
riscoprire e rinominare, Pascoli appartiene di diritto all’ambito del simbolismo e dell’estetismo: quella di
Pascoli è un’oggettività di tipo particolare, in cui non c’è nessuna tentazione puramente descrittiva, ma la
volontà di cogliere il significato più profondo della cosa, il suo senso poetico, il suo simbolo nascosto (esso
finirà con l’intrecciarsi con la memoria dell’infanzia e troverà compimento nella dimensione autobiografica
e intimistica della sua poesia). Il rapporto con i morti percorre tutte le sue poesie: il mito funebre nasce per
perpetrare il nido. Forte è poi l’interesse del nostro per il positivismo e la civiltà delle macchine.
Sperimentazioni
Attraverso modalità simboliste Pascoli vuole recuperare con un linguaggio nuovo le percezioni che gli
provengono dal mondo della natura, restituendole in una poesia analogica e impressionistica: è chiara nel
poeta la necessità di cogliere la musicalità che lo circonda e di trasportarla sul testo, anche per mezzo del
fonosimbolismo (fenomeno attraverso cui si dà valore semantico a uno o più suoni senza mediazione
grammaticale; così avviene per esempio per le onomatopee tratte dalla natura); il linguaggio, oltre ad
attingere a diversi registri (scientifico, dialettale, delle lingue morte), si fa agrammaticale.
Senza stravolgere la metrica tradizionale, ad esempio non eliminando le rime, il poeta intende dare risalto
alla versificazione, al valore timbrico del testo: lo fa attraverso le già citate onomatopee, l’allitterazione,
l’anafora e altre figure retoriche.
Opere:
- Myricae (tamerici): fin dagli anni giovanili la produzione pascoliana tendeva a disporsi in serie
diverse e compresenti, come fosse ispirata da una volontà quasi ossessiva di costruzione pianificata
(volontà che troviamo in quest’opera). Il titolo è tratto da un verso della IV egloga di Virgilio,
richiama la formazione classica dell’autore e ne sottolinea il legame con una natura umile. Si parla
quindi di poesia naturale: i motivi ispiratori sono il camposanto, la lacrima e la natura madre
dolcissima, come afferma lo stesso Pascoli nella prefazione. La campagna, il mare, il silenzio della
natura e l’uomo capace di coglierne il mistero, la vita arcana, sono i fili conduttori di una ricerca che
percorre la strada del decadentismo europeo: Pascoli rinuncia alla sintassi tradizionale per
abbandonarsi alle frasi nominali e alla suggestione musicale dei suoni, ad analogie e a sensazioni, a
sperimentazioni metriche (temperate dalla presenza di forme antiche) e lessicali (uso di linguaggi
tecnici e settoriali).
- Canti di Castelvecchio: la dimensione diaristica fa da sfondo anche a questa raccolta, nella quale
vengono espressi i motivi familiari e le angosce autobiografiche: Pascoli si sofferma a riflettere sulla
propria esistenza ripercorrendo pene ed affanni della sua vita, dalla giovinezza alla maturità. Con la
ricerca e il recupero del passato, Pascoli attenua la propria solitudine: i suoi ricordi confermano
però il continuo sbiadire di eros in thanatos (dell’amore nella morte). La fine dell’esistenza si
contrappone però alla rinascita: con il buio della notte la vita della natura si spegne, ma in quello
stesso buio un’altra vita prende forma (corrispondenza morte-rinascita); le tenebre non alludono
solo alla morte ma anche al riposo e all’evasione del pensiero. La raccolta è dedicata alla defunta
madre nella prefazione. La lingua è evocativa e complessa e la sperimentazione si affianca al
fonosimbolismo.
- Poemetti: sin dall’edizione del 1897 Pascoli intende rappresentare, oltre all’infanzia, la condizione
dell’essere umano, la sua finitezza, la vanità della vita, l’ineluttabilità della morte. La vita rustica di
una famiglia contadina fa da cornice alla riflessione più generale sul dolore dell’essere nati e sulla
finitezza dell’esistere, sull’inconoscibilità del reale e sull’impossibilità di essere felici (torna il motivo
autobiografico della famiglia disgregata e solo in parte ritrovata).
Nell’edizione del 1904 il poeta modifica il nome della raccolta in Primi poemetti, e realizza poi nel
1909 i Nuovi poemetti, i quali si rivolgono ad esplorare la fatica o il mistero dell’esistenza umana in
chiave leopardiana (dove affiora cioè l’indeterminato), rifacendosi alle atmosfere georgiche di
Virgilio e Dante.
- Poemi conviviali: sebbene il mondo antico, mitologico e leggendario che anima la raccolta sia
proposto con uno stile alessandrino, con una lingua preziosa, con riferimenti a fonti più colte, è
ancora una volta l’inquietudine del presente a collocarsi al centro dell’opera. La solitudine è ora
quella di Achille, la finitezza quella di Alessandro Magno, l’incertezza quella di Ulisse, l’invisibile
quello di Socrate: Pascoli attribuisce un’anima decadente ai suoi personaggi, dominata da
smarrimento confusione, dubbio, paura. Nel capolavoro della raccolta, Gog e Magog, Alessandro
magno diviene l’emblema del limite umano, del conflitto tra sogno e realtà.
- Odi e Inni, Poemi Italici, Poemi del Risorgimento: sulle orme di Carducci si dedica a una poesia civile
e d’occasione, guardando ad avvenimenti storici, eventi naturali, fatti di attualità. Il tono si fa
talvolta retorico e declamatorio, ed in esso si mescolano antiche ricerche linguistiche con
espressioni popolaresche. Echi di un socialismo prossimo a tradursi in nazionalismo: rivendica la
pace sociale interna allo stato e incita la conquista esterna e il colonialismo, celebra spedizioni e
grandi uomini, evoca i protagonisti delle guerre di indipendenza (per i quali il suo tono si fa
sepolcrale e notturno, quasi fantasmatico).
- Canzoni di re Enzio: affini allo stile sperimentale delle opere precedenti, dalle quali si distaccano
però per le atmosfere folkloristiche e per l’uso di un linguaggio e di una versificazione più
arcaizzante, che si rifanno a quelli di ballate, cantilene, romanze del ‘200.
- Carmina: canti scritti in latino nei quali viene evocato il mondo classico da inediti punti di vista
(mondo degli schiavi degli umili, dei poeti e dei soldati, dei bambini e delle madri private dei figli)
che sono però sempre filtrati dagli occhi dell’uomo moderno. Tornano in questi componimenti il
sentimento decadente del vuoto, l’ansia di solitudine, il timore del disinganno, il dolore generato
dal distacco e dalla morte. Con essi Pascoli vincerà ben 14 concorsi di poesia latina ad Amsterdam.
D’Annunzio romanziere
Romanzo come genere che meglio poteva garantire celebrità presso un pubblico borghese. I più importanti:
- Il piacere: rappresenta il raggiungimento della sua maturità narrativa. Opera del 1889 che racconta
le vicende amorose del conte Andrea Sperelli in un Roma aristocratica fatta di ricevimenti e incontri
mondani, per mezzo delle quali introduce in Italia l’estetismo (concezione secondo cui l’arte è un
valore assoluto e la bellezza rappresenta il fine di tutte le azioni, indipendentemente da ogni
implicazione morale e religiosa). Centrali sono i temi della confusione tra arte e vita, del culto
spassionato per la bellezza, dell’avidità del piacere, del fare della propria vita un’opera d’arte: tutto
ciò conduce Sperelli al fallimento. Le figure della sensuale Elena Muti e della spirituale Maria Ferres,
tra cui l’anima di poeta si dibatte, ne mettono in evidenza l’inettitudine celata dietro la maschera
dell’esteta.
- Giovanni Episcopo, L’innocente: traendo ispirazione dai romanzieri russi realizza questi due
romanzi, caratterizzati dalle tematiche della colpa e dell’espiazione e da un evangelismo
misticheggiante (direzione spiritualistica).
- Trionfo della morte: romanzo del 1894 che chiude il Ciclo della rosa, di cui fanno parte anche Il
piacere e L’innocente. Storia di Giorgio Aurispa e Ippolita Sanzio che arrivano a suicidarsi in una
vicenda di morbosa gelosia e incomprensioni. Oltre alla complessa psicologia del protagonista e ad
una prosa “musicale”, è da segnalare l’incontro con l’opera di Nietzsche e con la tematica del
superuomo (Zaratustra).
- Le vergini delle rocce: il protagonista Claudio Cantelmo vuole generare il nuovo re di Roma, e cerca
quindi moglie tra tre giovani sorelle del meridione, non ancora contaminato dalla democrazia. Stile
allusivo e simbolico, capace di creare pagine suggestive nonostante una trama poco coerente. Le
parti più interessanti sono quelle in cui lo scrittore si abbandona alla malinconia dello scorrere del
tempo e dello sfiorire dell’amore.
Notturno
Produzione in prosa di impronta autobiografica dove lo stile sontuoso dei romanzi è sostituito da una
scrittura più immediata, che procede paratatticamente per brevi annotazioni. Trovò accenti nuovi e più
sinceri pur non riuscendo mai a mettersi completamente a nudo. Il Notturno costituisce la produzione più
coraggiosa tra quelle autobiografiche: scritto nel 1916 durante la convalescenza seguita ad un grave
incidente aereo che gli causò la perdita di un occhio; il nostro si trova costretto a scrivere su strisce di carta
aiutato soltanto dalla figlia Renata e rievoca gli episodi bellici, gli amici scomparsi, vari aneddoti del passato.
Storie di vermucci
Strapparsi la maschera è il gesto apparentemente liberatorio con cui Mattia Pascal diventa Adriano Meis. La
stesura dell’opera Il fu Mattia Pascal deriva anche da urgenze economiche che costringono il nostro ad
arrotondare il magro studente da insegnante (nel 1903 avviene l’allagamento di una zolfara in cui era stata
investita l’intera dote della moglie). Approfittando in un equivoco Mattia si finge morto per sfuggire da una
vita diventata una prigione a causa della moglie che non lo ama, della suocera che lo disprezza, e
soprattutto della sua inettitudine. Divenuto Adriano Meis gode inizialmente di ritrovata libertà: viaggia a
lungo per poi fermarsi a Roma presso la pensione di Anselmo Paleari, portavoce filosofico di Pirandello, che
lo invita a riflettere sulla piccolezza e l’insensatezza della vita umana. Il senso del tragico non può esistere
nel mondo moderno, perché l’uomo non è più al centro della scena: “Siamo solo vermucci su un granello di
sabbia”. Mattia finge una seconda morte in quanto la sua identità fittizia sarebbe dovuta essere ingabbiata
nuovamente negli schemi imposti dalla società per essere mantenuta: torna ad essere Mattia Pascal, il
quale è però un morto vivente, e si ritira in una biblioteca a guardare vivere gli altri.
La pluralità delle identità compresenti in ogni uomo dà vita ad una trama dalla struttura innovativa, la cui
riflessione filosofica costituisce il nucleo centrale del saggio L’umorismo. L’opera umoristica si distingue da
quella comica in quanto attraverso la riflessione permette il passaggio dall’avvertimento del contrario al
sentimento del contrario: vediamo una vecchia signora truccata e agghindata in maniera ridicola per la sua
età e ridiamo di lei, ma riflettendo pensiamo che si comporta così per paura di perdere il giovane marito e
questo smorza il nostro riso e ci porta a provare compassione per la sua sofferenza; anche qui emerge l’idea
della maschera che ognuno di noi porta per poter vivere in società. Si concretizza così la dialettica tra
forma, rigida impalcatura sociale, e vita, il fluire inarrestabile che da questa impalcatura vorrebbe liberarsi.
Sul tema della maschera è anche il romanzo Uno, nessuno e centomila in cui Vitangelo Moscarda entra in
crisi d’identità dopo una banale osservazione riguardo un suo lieve difetto fisico (il suo naso pende
leggermente a destra): la sua identità è ora spezzettata nelle innumerevoli visioni che gli altri hanno di lui e
cancellare questi frammenti diventa il suo scopo; ricomporli in un’unità non è possibile in quanto troppo
numerosi. Vitangelo arriverà a isolarsi dal consorzio umano in una dimensione di immersione nella natura
che è un ritorno al caos primigenio.
Teatro e mondo
Il teatro innalza Pirandello a fama mondiale: l’opera che ne decreta il trionfo è Sei personaggi in cerca
d’autore in cui per la prima volta si realizza la cancellazione dei confini tra palcoscenico e platea,
inaugurando così la trilogia del “teatro nel teatro” (completata da Ciascuno a suo modo e Questa sera si
recita a soggetto). Sei personaggi si recano da un capocomico chiedendogli di mettere in scena la triste
storia della loro vita: il personaggio infatti è una creatura autonoma che, una volta uscita dalla mente
dell’autore, può ribellarsi a una rappresentazione della propria storia che non lo soddisfi. La tragedia dei
personaggi sta proprio nel fatto che nel mondo moderno il tragico non può trovare adeguata
rappresentazione, perché l’emozione e la passione si stemperano nell’acqua ghiacciata della riflessione e la
distanza umoristica dagli eventi narrati (concretizzata nello svelamento dell’artificialità e falsità della
macchina teatrale) impedisce l’identificazione dello spettatore con i personaggi stessi.
Anche quando un testo viene espressamente definito tragedia, come accade per l’Enrico IV, l’indicazione va
letta con nimo umorista: l’antica tragedia è solo una falsa rappresentazione per compiacere la follia del
protagonista, che in seguito ad una caduta da cavallo da vent’anni è convinto di essere l’imperatore
penitente Enrico IV; ma l’inganno è in realtà doppio, perché il protagonista sa di non essere un imperatore,
ma continua a fingersi pazzo per comodità e per vendetta verso i presunti amici che hanno inscenato
questa grottesca rappresentazione (i personaggi rimangono imprigionati per sempre nel doppio inganno).
La rivoluzione pirandelliana del teatro coinvolge molti aspetti, non solo tematici ma anche formali e tecnici
come la recitazione e la regia: nel 1924 diventa direttore del Teatro d’Arte di Roma.
L’adesione al fascismo nel 1924 entusiasta e sbandierata sembra iscriversi in questo clima di visibilità e
spettacolarizzazione della propria vita. Nel 1934 riceve il premio Nobel.
Autori importanti della cultura mitteleuropea furono Schnitzler, interessato degli studi psicanalitici e
maestro della tecnica del monologo interiore, Musil, che mette in evidenza l’incapacità dell’uomo
novecentesco di prendere una decisione tra tutte le infinite possibilità che si equivalgono, Mann, che
analizza la dissoluzione dei miti antichi e la crisi della civiltà contemporanea, Kafka, secondo il quale
l’esistenza non è la vita pura e semplice ma l’insieme delle relazioni che in un individuo legano conscio e
inconscio, istinto e ragione, apparenza e realtà.
Decisiva fu anche l’influenza di Virginia Woolf e James Joyce: tecnica del flusso di coscienza e del monologo
interiore, per esplicitare il moto irregolare dei pensieri, mescolando i dati oggettivi con la psicologia dei
personaggi (si dissolve il confine tra realtà e soggetto).