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il non
finito c.cupola basilica san pietro d.david 2.leonardo(stile+pittura) a. madonna con bambino b. vergine delle rocce c.
ultima cena d. gioconda 3. raffaello (stile + rapporti con arte classica) a. sposalizio della vergine b. madonna col
cardellino c. trasfigurazione
Michelangelo
Michelangelo Buonarroti nacque a Caprese, nella Val Tiberina, il 6 marzo del 1475. Appartenente ad una famiglia di
piccola nobiltà, Michelangelo ebbe la possibilità di frequentare la scuola di Domenico Ghirlandaio col quale però non
andò mai d'accordo. L' attività della bottega non corrispondeva al carattere di Michelangelo che lavorava sempre in
solitudine, è in questo periodo in cui egli studiò la cultura quattrocentesca fiorentina e in particolare pittori come
Filippo Lippi, Gentile da Fabriano, Verrocchio, Pollaiolo e soprattutto Masaccio. E' proprio in questo ambiente che
l'artista matura la sua idea della bellezza dell'arte: anche per lui come per gli altri artisti rinascimentali l'arte è
imitazione della natura e attraverso lo studio di essa si arriva alla bellezza, ma a differenza degli altri lui pensa
che non bisogna imitare fedelmente la natura ma trarre da questa le cose migliori in modo da arrivare ad una
bellezza superiore a quella esistente in natura.
Cappella sistina
La Cappella Sistina deve il nome al suo committente, il papa Sisto IV della Rovere (1471-1484), che volle edificare
un nuovo grande ambiente sul luogo dove già sorgeva la "Cappella Magna", aula fortificata di età medioevale,
destinata ad accogliere le riunioni della corte papale. Finestre centinate (arcuate superiormente) ne assicurano
l’illuminazione e una copertura con volta a botte si raccorda alle pareti laterali con lunette e vele triangolari. La
cantoria sul lato destro ospitava un tempo i componenti del coro, mentre il sedile in pietra posto su tre lati del
salone, con esclusione di quello dell’altare, era destinato alla corte papale. La raffinata balaustra quattrocentesca
sormontata da candelabri divide l’ambiente riservato al clero da quello destinato al pubblico: fu arretrata alla fine
del Cinquecento per rendere il primo spazio più ampio. La splendida pavimentazione a mosaico, rimasta ancor oggi
intatta, risale al 1400 e fu realizzata su modelli medioevali. Ultimata nel 1481 la struttura architettonica, il papa
Sisto IV chiamò a lavorare nella Cappella famosi pittori fiorentini, come Botticelli, Ghirlandaio, Cosimo Rosselli e
Signorelli, nonché umbri, quali Perugino e Pinturicchio. La pittura della parete “Il Giudizio Universale” è stato
iniziato da Michelangelo nel 1535, su incarico di Clemente VII, ma venne realizzato per papa Paolo III Farnese.
Il Giudizio di Michelangelo ha suscitato molte polemiche quando è stato scoperto, nel 1541, per diversi motivi:
- Per l'interpretazione troppo libera, non ha rispettato le regole della prospettiva tradizionale, perché ogni
figura ha una sua "prospettiva personale",
- perché manca un'armonia spaziale complessiva: ci sono contrapposizioni di gruppi isolati di figure, con
arretramenti e avanzamenti.
- per i cambi di dimensioni: per esempio Cristo giudice gigantesco rispetto alle figure più basse che dovrebbero
essere più vicine a noi e apparire più grandi.
- per la troppa agitazione, troppi movimenti, scorci, posizioni difficili, figure giudicate goffe.
Insomma, si è rimproverata a Michelangelo proprio la sua enorme potenza creativa, la sua capacità eccezionale di
superare i tradizionali canoni rappresentativi.
A questo si aggiunge lo scandalo per l'esibizione del nudo. Quest'ultimo motivo di critica e di incomprensione, ha
portato alla copertura delle figure con i panneggi eseguiti da Daniele da Volterra.
Michelangelo nel Giudizio universale, sceglie di rompere completamente con la tradizione. La prospettiva non serve
più, perchè lo spazio, inteso come ambiente esterno della figura, viene eliminato. Sono le figure stesse che creano
lo spazio, con i loro corpi si espandono, riempiono l'ambiente.
L'umanità di fronte al giudizio divino è nuda, perchè non può più nascondere nulla. E il nudo viene scelto da
Michelangelo perchè è inteso come l'anima umana che si fa "corpo", diventa concreta, visibile, è "messa a nudo" di
fronte a Dio.
Cristo giudice, gigantesco, atletico, al centro, in una nuvola luminosa, è l'immagine della giustizia divina, superiore
ed estranea a quella umana.
Forma il centro di un immenso vortice, come una centrifuga, intorno al quale ruota tutto l'insieme di queste masse
umane, che si muovono a grappoli, a gorghi.
Compie questo gesto fatale che dà l'avvio al movimento di rotazione, indicato dalla salita faticosa degli eletti e
dalla caduta frenata dei dannati. E' una circolazione lenta, ma inesorabile e continua.
Al centro, la Madonna, tutta rannicchiata, chiusa in sè stessa, sembra ritrarsi, spaventata, di fronte a questa
scena terribile.
Le figure hanno perso la bellezza fisica di quelle della volta, affrescata dallo stesso Michelangelo più di vent'anni
prima, perchè esprimono la condizione tragica dell'esistenza umana.
L'umanità che risorge, in basso a sisistra, ha un aspetto sinistro: i morti escono dalle tombe ancora scheletri e si
incarnano via via, rappresentati con corpi pesanti e goffi, effetti macabri e impastati nel fango. Il ritorno alla vita
è visto in modo tutt'altro che trionfale, ma come una riconquista faticosa e difficile.
I dannati sono personaggi disperati e terrorizzati, che si agitano inutilmente, tentano di salire al cielo e vengono
fatti precipitare o trascinati via malamente, sia dagli angeli che dai demoni.
I demoni sono figure grottesche e volgari, hanno una connotazione fortemente negativa.
I santi sono figure più atletiche ed eroiche, si veda per esempio il san Sebastiano, ma hanno espressioni
spaventate e sconvolte. Davanti all'evento terribile hanno gesti di sconcerto, di stupore.
L'unica figura impassibile è quella di Cristo giudice.
Il non finito
L’artista toscano ammetterà con sempre più convinzione che la forma artistica debba sì omaggiare il divino (e
perciò i valori assoluti morali e spirituali) attestando però essa stessa uno scarto e una sconfitta nei confronti del
suo obiettivo. Se la forma artistica è fatta da uomini, diviene offensivo pretendere che essa esaurisca
compiutamente l’essenza del divino dandogli definitivamente forma. A questo proposito, è significativa la Pietà
Rondanini, scultura conservata al Castello Sforzesco di Milano, concettualmente incompiuta perchè espressione di
questa differente sensibilità. Dal marmo emergono i profili dei personaggi sacri, che però hanno rinunciato alla
definizione rigorosa dei capolavori dell’epoca giovanile e matura; essi si stagliano sul marmo che per la maggior
parte resta in uno stato di mancata lavorazione, e i volti e le membra si confondono tra i vari protagonisti del
gruppo sacro.
La Cupola della Basilica di San Pietro, alta circa 120 metri fino alla lanterna e con un diametro di 42 metri, fu
ideata da Michelangelo su modello di quella di Brunelleschi di Santa Maria in Fiore a Firenze.
L’artista, prima della morte, ne diresse la costruzione di tutta la parte basamentale fino al tamburo; la calotta
venne innalzata nel 1590, sotto il pontificato di Sisto V, da Giacomo Della Porta aiutato da Domenico Fontana, per
la sua realizzazione ci vollero 22 mesi tra il 1588 e il 1589, per la realizzazione della lanterna cuspidata furono
necessari altri sette mesi.
Il basamento è suddiviso da 16 contrafforti, con colonne binate di ordine corinzio, tra i quali si aprono i finestroni
rettangolari a timpano alternativamente curvilineo e triangolare, dall’attico del tamburo si slancia la calotta a
doppio guscio che al tempo di Clemente VIII era ricoperta di lastre di piombo, essa è suddivisa in sedici spicchi con
tre ordini di finestre con ricche cornici; la lanterna, ritmata da coppie di colonne, termina con una copertura
cuspidata. Ai lati emergono due cupole minori puramente decorative, sormontanti le cappelle Gregoriana e
Clementina.
David
Il David di Michelangelo fu scolpito utilizzando un gigantesco blocco di marmo bianco grezzo e richiese il lavoro
ininterrotto del maestro per i due anni che vanno dal 1502 al 1504 d.C.
La statua, alta sedici piedi, rappresenta un giovane uomo nel pieno del suo vigore fisico, con un'espressione
accigliata ed austera. L'eroe biblico, rappresentato in totale nudità, caratteristica questa che per la prima volta
viene riproposta nel periodo rinascimentale, è rappresentato in un impianto classico a tutto tondo.
Rispetto al David scolpito da Verrocchio o da Donatello, in quello di Michelangelo vibra un ideale di perfezione e
potenza, così armoniosamente coesistenti, da divenire un'icona di bellezza assoluta oltre che un simbolo eterno
della città di Firenze.
Il David fu originariamente commissionato dall'Opera del Duomo di Firenze, ma una volta terminato venne esposto
in piazza della Signoria, di fronte a Palazzo Vecchio, dove rimase fino al 1873, quando, una commissione allestita
per le celebrazioni del 400esimo anniversario della nascita di Michelangelo, stabilì che la statua andava custodita
all'interno dell'Accademia di Belle Arti per porla al riparo dagli agenti atmosferici.
Leonardo
Leonardo da Vinci si allontana decisamente dallo stile fiorentino basato sulla delineazione netta dei contorni e
sulla chiarezza del colore: preferisce invece inserire la figura in un chiaroscuro vellutato e ombroso, non isolandola
o circoscrivendola in forme astratte. Lo stile cui da inizio è definito “ sfumato”, proprio per questa tendenza a
perdere la determinatezza delle figure e a fonderle con l’ambiente circostante.
Ne La Vergine delle rocce,si avverte tutta la singolarità, la delicatezza, il misticismo della pittura di
Leonardo. Il fondo ha un effetto quasi magico, e vi si associa la stessa completezza e lo stesso
roccioso
spessore spirituale che si nota nei lineamenti della Vergine. I personaggi che affollano la scena sono
quattro: la Madonna è leggermente piegata in avanti e se ne sta in piedi al centro della tavola, e la sua figura
supera in altezza quella di tutti gli altri soggetti. Col braccio destro abbraccia S. Giovannino e lo ricopre con il suo
mantello, in segno di protezione. Il santo, alla sinistra del quadro, appare inginocchiato e con le mani giunte: vestito
di un semplice panno, rivolge il corpo e lo sguardo a Gesù. Quest’ultimo si trova davanti a Maria, in primo
piano e nella parte destra della tavola, ed è, diversamente dalle altre figure, completamente seduto. Pur
essendo il soggetto di minori dimensioni è anche il solo a godere di una posizione tanto importante come
quella del primo piano: questo gli conferisce risalto e lo distingue nettamente da S.Giovanni, con cui tuttavia
molti critici l’hanno a lungo confuso. Il bambino, inoltre, solleva le mani in un gesto di benedizione rivolto al
Battista.
Dietro al Cristo, ecco l’angelo: in ginocchio, ha la stessa posa di S. Giovannino. E’ giovane, ben vestito, e ha tratti
raffinati e femminili; con la mano destra sostiene Gesù e gli da forza.
I quattro personaggi sono disposti a croce e collegati da un sapiente gioco di sguardi, gesti e movimenti: questo
crea una sorta di circolo in cui ogni figura è legata all’altra.
I corpi umani non sono isolati in forme definite e circoscritte, ma si fondono con l’ambiente circostante: i colori
delle vesti di Maria e dell’angelo, infatti, sono uguali al blu delle acque e al marrone-bronzo delle rocce. Anche il
rossiccio scuro dei capelli è la stessa tonalità delle pietre, e il luminoso incarnato non è che una versione più chiara
del colore dominante dello scenario.
A permettere questa fusione di colori e contorni è senz’altro la tecnica dello sfumato.
L’opera è infatti il trionfo del chiaroscuro: Leonardo da Vinci evita di contrapporre in maniera forte le ombre e le
zone in luce, scarta i colori troppo brillanti e intensi e preferisce rendere con dolcezza le penombre, le zone grigie,
gli sfumati. La sua è una innovativa tecnica che punta allo sfumato, al naturalismo, all’equilibrio sia fisico che
psicologico della scena.
Dietro alle spalle della Vergine delle Rocce, di S.Giovanni, di Gesù e dell’angelo si scorge una grotta bagnata da un
fiumiciattolo. Se la parte in primo piano è resa in modo concreto e dettagliato, il paesaggio in lontananza si perde
invece nella foschia, e le figure non appaiono più nitide e definite. Questo è dovuto all’ opinione di Leonardo da
Vinci secondo cui la presenza dell’aria nell’atmosfera costituisce una sorta di velo, che sfoca e confonde la visuale.
Tale tecnica si distingue dalla prospettiva esatta e geometrica e fu ideata dallo stesso Leonardo da Vinci : è nota
col nome di prospettiva aerea.
Ultima cena
Il fatto evangelico è rappresentato nel momento drammatico in cui Cristo annuncia che uno dei suoi lo tradirà. La
scena è illuminata da una luce obliqua che attraversa la mensa cogliendo la parete destra e che riappare nel
paesaggio intravisto attraverso le tre porte del fondo; al centro, isolata, è la figura di Cristo, intorno si agitano gli
apostoli, aggruppati a tre a tre, in un vario gestire che caratterizza in ognuno l’emozione prodotta dall’annuncio del
maestro. “Uno che beveva – è Leonardo stesso che nel “codice Forster” commenta l’opera – lascia la zaina nel suo
sito e volge la testa verso il proponitore. Un altro tesse le dita delle mani insieme volgendo accigliato verso il
compagno; l’altro con le mani aperte mostra le palme di quelle, e alza la spalla inverso le orecchie, e fa la bocca della
meraviglia. Un altro parla nell’orecchio dell’altro, e quello che l’ascolta si torce inverso lui e gli porge gli orecchi
tenendo un coltello nell’una mano e nell’altra il pane, mezzo diviso. L’altro nel voltarsi, tenendo un coltello in mano,
versa con tal mano una zaina sopra la tavola, l’altro posa le mani sopra della tavola e guarda, l’altro soffia nel
boccone, l’altro si china per vedere il proponitore infra il muro e il chinato. “Si notino nel dipinto anche i rapporti
prospettici che tendono a prolungare l’ambiente reale in quello figurato; lo spazio fra la mensa e la parete di fondo
è identico a quello reale di metà refettorio.
Il dipinto nel corso dei secoli è andato deperendo: già nel 1518 si segnalarono i primi guasti; in seguito, Paolo Giovio
e Gregorio Armenini, che lo vide attorno al 1547, parlarono della rovina della pittura; a fine ’500 Paolo Moriggia lo
disse ormai “in gran parte perduto”. Le ragioni sono diverse, una delle quali si fa risalire a Leonardo stesso, che,
intenzionato a sperimentare nuove tecniche, dipinse a tempera forte su due strati di gesso (ma vi è stata
individuata anche la presenza di miscele di vernice e acquaragia, colla di pesce e resina) e non a olio come si
sarebbe supposto, rendendo così ammissibili anche le lunghe pause nell’esecuzione, improponibili in una pittura a
fresco.
Gioconda
La Gioconda è una donna con espressione pensosa e un delicato, appena accennato sorriso, spesso interpretato
come enigmatico o criptico. Può dirsi di certo il dipinto più famoso del mondo. Si tratta di un olio su legno di pioppo.
Stupisce subito la piccolezza del quatro, specie considerando quanto lo si immaginava grande per valore e bellezza
prima di vederlo dal vivo. Il dipinto mostra una bravura esecutiva che lo pone tra i massimi capolavori di Leonardo.
L’ambiguità dell’espressione del viso è in gran parte dovuta all’uso dello sfumato, che rende “sfocate” le parti più
espressive del volto (gli angoli degli occhi, la bocca) conferendo al quadro un’aria di mistero. L’identità della donna
non è certa. Lo studioso Fiorentino Pallanti ritiene che si tratti di Monna Lisa Gherardini, donna della piccola
nobiltà rurale fiorentina, seconda moglie di Francesco Bartolomeo del Giocondo. Precedenti ricerce sostenevano
d’altro canto che si trattasse della benestante signora fiorentina “Madonna Lisa del Giocondo”. Altra ipotesi
possibile è che Leonardo non abbia dipinto una persona precisa. Alcuni sostengono si tratti di un autoritratto dove
Leonardo si è raffigurato in versione femminile. Secondo un’ipotesi più recente la Gioconda potrebbe raffigurare
Bianca Sforza, primogenita del lombardo Ludovico il Moro, morta avvelenata nel 1496. Il quadro di Leonardo fu uno
dei primi ritratti a rappresentare il soggetto davanti a un panorama ritenuto, per lo più, di fantasia.
Raffaello
Ha una grande padronanza dei mezzi espressivi e un linguaggio chiaro, preciso e disteso. Il suo stile è
inconfondibile. Dotato di eccezionale apertura mentale, Raffaello apprende in continuazione dagli altri artisti, non
soltanto durante la sua formazione, ma fino all'età matura. Si interessa alla cultura contemporanea, entra in
contatto con i protagonisti del pensiero neoplatonico e stringe amicizia con letterati e intellettuali.
I primi insegnamenti, che riceve dal padre Giovanni Santi, vengono bruscamente interrotti a undici anni per la
scomparsa di quest'ultimo, ma proseguono con il giovane Timoteo della Vite (Timoteo Viti o Timoteo da Urbino,
1469 - 1523), discepolo del Francia, un pittore dal soave ma alquanto affaticato linguaggio. Il giovane Raffaello
incomincia ad amare la pittura di Piero della Francesca, che arricchirà il suo già profondo senso dello spazio. La sua
continua ricerca per una corretta composizione spaziale, per il giusto equilibrio delle forme e per la conquista di
una profondità atmosferica ottenuta da armoniosi impasti di colore, ha una risposta nell'arte del Perugino. Ma
Raffaello, nell'assorbire queste pregiate peculiarità, riesce a superarlo ed a staccarsi da esso conferendo
originalità alle sue opere. Anche nei dipinti del periodo perugino, Raffaello si stacca decisamente dalla pittura del
Perugino, nonostante l'esatta ripetizione del tema della seconda opera. Già prima, Raffaello aveva ripetuto lo
schema della Consegna delle chiavi del Perugino (Cappella Sistina, Vaticano) per il duomo di Perugia, ma non vi è
alcuna traccia di plagio nelle sue opere, perché egli conferisce alle figure energia e vitalità con deliziosa purezza.
Possiamo affermare che Raffaello parte certamente dal Perugino, ma sviluppa ulteriormente il suo linguaggio in una
nuova armonia che comprende tutte le essenzialità della pittura e, principalmente, il rapporto tra spazio e figure,
oltre naturalmente al proprio caratteristico e luminoso cromatismo. Questo rapporto tra spazio e figure, tanto
caro a Raffaello, viene da lui integrato, nel suo soggiorno fiorentino, con le morbide atmosfere leonardesche
ottenute con sfumati chiaroscuri in un armonioso e plastico cromatismo.
Fulcro della composizione (come già nell’opera del maestro) è la figura centrale del sacerdote che sorregge i polsi
di Giuseppe (il quale porge l’anello nuziale) e di Maria. Rispetto all’opera del Perugino, Raffaello ha operato
un’inversione nella suddivisione dei personaggi che affiancano gli sposi in due gruppi, maschile e femminile;
differenzia le due composizioni il gesto del pretendente, il quale spezza il proprio ramoscello, che non è fiorito, a
dimostrazione della consapevolezza che non è lui il prescelto, proprio per la mancanza del fiore che avrebbe dovuto
adornare il bastone del futuro sposo, secondo il racconto del testo sacro, preso come base della composizione.
Anche gli abbigliamenti dei personaggi paiono direttamente ispirati all’iconografia del Perugino, così come allo stile
del maestro si riferisce l’addolcimento evidente nelle pose e nei gesti delle figure, nonché nella lieve inclinazione
uguale e contraria delle teste dei personaggi dei due gruppi, un’inclinazione che contribuisce a far convergere lo
sguardo dell’osservatore sulla scena centrale.
Eppure l’opera di Raffaello differisce da quella del maestro per un motivo più sostanziale di quello che può essere il
mero repertorio simbolico e iconografico di riferimento.
Si tratta di un motivo che riguarda l’impostazione globale delle due opere, un’impostazione tutta quattrocentesca,
quella del Perugino, laddove la versione di Raffaello ci pare già calata a pieno nella temperie cinquecentesca della
visione. Alla rappresentazione della scena per piani paralleli, realizzata appunto dal Perugino nel pieno rispetto delle
regole della prospettiva matematica, Raffaello sostituisce una rappresentazione spaziale tutta giocata sulla
prevalenza della linea curva. Lo “Sposalizio della Vergine” di Raffaello sembra coinvolgere in un unico discorso
proporzionale ed armonico tutte le arti, attraverso l’utilizzazione di un medium pittorico limpidamente ispirato ai
più aggiornati raggiungimenti di Piero della Francesca. L’osservatore viene letteralmente risucchiato in un unitario
avvolgente globo spaziale, attraverso l’artificio sapiente delle due ali divergenti tra loro di figure, di cui quella
esterna pare idealmente prolungarsi appunto al di là dei limiti dello spazio del quadro: in questo spazio unitario
Raffaello ha saputo compendiare tutti gli aspetti della natura e dell’opera dell’uomo con un discorso sacro coniugato
in termini d’immersione nel reale.
Il pavimento a lastroni, che nel dipinto del Perugino segue l’andamento lineare della prospettiva matematica, diviene
nell’opera di Raffaello una sorta di ramificazione a raggiera della struttura circolare, della quale suggerisce
un’espansione spaziale che supera i limiti del dipinto stesso per estendersi nel suggerimento di una spazialità anche
retrostante della scena, quasi a voler sottolineare la sua totale immersione in un’atmosfera reale. Pare quasi che
l’autore superi il tradizionale punto di fuga della prospettiva matematica ed anticipi la suggestione leonardesca per
l’immersione appunto del soggetto nel passaggio, un’ispirazione che gli avrebbe dettato alcuni lavori del periodo
fiorentino.
Il quadro raffigura la Madonna seduta su di una roccia, con un libro in mano (da cui l'epiteto Sedes Sapientiae) che
interrompe la sua lettura per rivolgere teneramente il suo sguardo verso i bambini che giocano davanti a lei: Gesù
bambino (a destra) e San Giovannino che tiene in mano un cardellino, simbolo della Passione.
In questo dipinto la lezione di Leonardo emerge, oltre che dall'impostazione piramidale, in particolare dal bruno del
terreno e dalla resa atmosferica del paesaggio di fondo, che si perde nei vapori della lontananza. I volti del
Battista e di Cristo recano un’impronta inconfondibilmente leonardesca nello sfumato che li avvolge e nei tratti
somatici.
Trasfigurazione
La Trasfigurazione presenta una nuova tipologia di dipinto che segnerà tutto il corso del ‘500. Inizialmente la
Trasfigurazione era stata pensata in modo diverso: la prima idea era raffigurare una teofania (apparizione di Dio),
influenzato da Sebastiano del Piombo sdoppia così la scena: L’atto principale viene posto nella metà superiore della
tavola, dove Gesù perde la materialità e si trasforma in Divinità alla presenza di Mosè, Elia e di tre Apostoli.
Nella metà inferiore vengono dipinti i restanti Apostoli e “l’indemoniato” circondato dai parenti. Il ragazzo viene
posto sotto esorcismo di fronte alla Trasfigurazione, ovvero al contatto con il Divino. Il dipinto appare nell'insieme
caratterizzato da un forte dinamismo, sottolineato soprattutto dai gesti dei personaggi raffigurati. Dinamismo
però che non è proprio della rappresentazione del Divino, che è infatti statico ed immobile. Questa scelta di
Raffaello si trova in accordo con la tradizione artistica precedente: il divino non può essere caratterizzato dal
dinamismo, perché quest'ultimo è sinonimo di imperfezione (idealismo platonico).
Quest'opera viene considerata uno dei maggiori capolavori di Raffaello, se non un vero e proprio testamento
artistico. L'artista riesce a raffigurare con apparente semplicità un evento straordinario come il miracolo, e
soprattutto risolve senza sforzo ogni problema di anatomia e d'espressione, in uno stato di perfezione tale da
suscitare negli osservatori un senso di divinità dell'autore, inteso come rapporto divino con la materia.