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ANTROPOLOGI IN CITTA’ – STEFANO ALLOVIO

1) L’ANTROPOLOGIA URBANA COME VIA D’USCITA – ALLOVIO. Per molti antropologi, una certa antropologia urbana
rappresenta una “via d’uscita”. Questo è quello che sommessamente sostiene anche Hannerz in “Exploring the city”,
interpretandola come una valida soluzione alle crescenti difficoltà logistiche e finanziarie comportate dalle ricerche sul
territorio nel sud del Mondo. Gli esordi delle ricerche “a casa propria” si devono ad un gruppo di sociologi dell’Università di
Chicago che tra le due guerre iniziarono a condurre ricerche sul campo nella propria città, attività da non considerare
avvilente, ma forse, per ragioni di pertinenza, addirittura più interessante. A questo quadro va aggiunto il fatto che il
lavorare nella propria città assume oggi, in un mondo sempre più globalizzato, sfaccettature molto più numerose e
variegate rispetto a decenni addietro. Tuttavia, quanto detto resta valido a patto di : A) non convincersi che sia necessario
fare ricerca antropologica “qui”, credendo che il “qui” sia diventato indifferente rispetto ad ogni altro “là”; B) non
convincersi che “qui” sia contesto sufficiente a comprendere ogni altro “là”. Lo studio dell’”altrove urbano” diventa una via
privilegiata per dar conto delle differenze e delle somiglianze delle forme di vita che sono diventate in maggioranza storie
di vita urbana. Sarebbe infatti paradossale pensare di poter raccontare il mondo partendo solamente dalle “nostre” città,
quando dal 2007, secondo alcune stime, la maggior parte della popolazione mondiale vive in un qualche tipo di contesto
urbano. In questa panoramica generale sulla tematica, va anche ricordato che alcuni tra gli stessi antropologi dubitano
della liceità dello statuto disciplinare dell’antropologia urbana. Infatti, pur avendo l’antropologia superato da tempo la fase
agorafobica (Hannerz), pare non del tutto guarita da un “ipocondrismo epistemologico” (Geertz) che la porta ad assumere
livelli di guardia nei contesti di ricerca urbani, dove infatti l’ipocondrismo investe il metodo , la teoria e la stessa “identità”
dell’antropologo che stenta a riconoscersi e farsi riconoscere. In tutto ciò diventa importante far ugualmente tesoro di
metodi e teorie degli antropologi urbani degli ultimi decenni e nondimeno far fronte al problema delle provvisorie
delimitazioni disciplinari con un’elencazione di forme di antropologia urbana. È problematico definire una volta per tutte
l’antropologia urbana e al contempo individuare nettamente quali siano le indagini antropologiche “della città” e quali
quelle “nella città”. Si è ritenuto ugualmente utile cercare di capire cosa facciano gli antropologi in città. Da un seminario
tenutosi all’università Statale di Milano nasce quest’opera, all’interno della quale si è deciso di includere saggi (tratti da
interventi al seminario stesso) relativi a contesti non italiani per via di un duplice auspicio, ovvero che l’antropologia urbana
continui a rasentare “una via d’uscita” come dimensione irrinunciabile al viaggio; e che le future edizioni del seminario
possano dar conto di altre ricerche antropologiche in contesti urbani italiani, certo non privi di interessanti spunti di
ricerca ( ad esempio alla Sapienza di Roma è stata fondata l’associazione culturale “Anthropolis” proprio al fine di
sviluppare ricerche antropologiche connesse alla pianificazione territoriale e alle problematiche delle amministrazioni
comunali). Si ritiene nuovamente efficace il ricorso al pensiero di Hannerz, che identifica come specificità della ricerca
antropologica l’interesse per “episodi di interazione e di interdipendenze” che permettono di dar conto della società
studiata. Nei primi saggi gli episodi di interazione e interdipendenze si collocano all’interno di esperienze associative; nella
parte centrale l’attenzione si sposta su specifici luoghi o artefatti (monumenti) rintracciabili in ambiente urbano e intorno
ai quali prendono forma episodi e relative narrazioni di interazioni e interdipendenze tra gruppi e tra singoli individui. Gli
ultimi saggi si concentrano più sul tema di margini e confini rintracciabili negli spazi urbani.

2) TIMBUCTU, L’importanza di mettersi insieme in una mitica città africana – AIME. A Timbuctu si dice che “la
chiacchierata è preziosa perché nell’aldilà non c’è”. La conversazione è una delle dimensioni dominanti della quotidianità
africana, infatti, dietro a momenti apparentemente solo conviviali si intravedono istituzioni di tipo associazionistico capaci
di stemperare, riunificare e far convivere divisioni di tipo etnico e di casta.
LE CONDEY DI TIMBUCTU: il primo sindaco francese della città (Louis Marc-Schrader, 1908)scrisse che presso molte
popolazioni dell’ansa del Niger è usanza riunirsi tra giovani pressoché coetanei (da +/- 2-3 anni, non rigido) in associazioni
fraterne che inglobano tutti, senza distinzioni di rango sociale o casta. Il fine principale è l’aiuto reciproco, ed ogni abitante
di Timbuctu appartiene obbligatoriamente ad uno di questi gruppi. Jean-Pierre Olivier de Sardan nei suoi studi parla delle
medesime associazioni di età nel Niger e nel Mali; Leynaud fa lo stesso per i gruppi malinke dell’alta valle del Niger, mentre
Raulin, descrivendo gruppi dell’alto Niger, riporta che in questi gruppi la nozione di età è in primo piano, tantoché i membri
si definiscono tra loro con termini che significano “uguali in età”. Quest’ultimo aggiunge che se lo scopo più apparente dei
gruppi è l’organizzazione di pasti tra giovani, la funzione essenziale è l’assistenza reciproca in caso di matrimonio. Queste
associazioni uniscono insieme indistintamente femmine e maschi in legami destinati a durare tutta la vita, con numerose
implicazioni sociali, economiche e strutturali. Ad esempio, il padre bianco Auguste Dupuis-Yakouba – che riuscì ad
integrarsi a tal punto da divenire un capo quartiere di Timbuctu – descrive con toni positivi queste compagnie, sostenendo
che consentono di minimizzare difficoltà e di pacificare dissapori. Tra gli altri ne hanno scritto anche studiosi come Miner e
Saad. Il termine Kondey (in lingua Sonrhai) indica in generale un’associazione, ma nel parlato comune definisce queste
particolari forme di associazionismo basate solo sull’età. Alla base di ciascuna di esse c’è come nucleo un gruppo misto di
amici che si frequentano fin da bambini. Pur essendo lo spazio un criterio importante ( dato che generalmente il nucleo di
fondazione è il quartiere) non esistono regole rigidamente rispettate. C’è infatti da dire che – in base ad una logica che sta
andando stemperandosi – in passato i quartieri e la geografia della città determinavano maggiormente l’appartenenza,
anche grazie ad una distribuzione della popolazione basata su professione ed origine etnica. Insomma, più che come regola
fissa, la logica territoriale va vista come una tendenza naturale.
L’inizio, il momento di fondazione della Kondey, va individuato in linea di massima nel giorno della circoncisione, sebbene
non si tratti di un atto ufficiale ma di un rafforzamento tramite rituale collettivo di un’unione preesistente in forma di
amicizia. In genere, attorno ai 14-15 anni dei membri, il gruppo vero e proprio prende forma: si eleggono allora il
presidente, il vice, il tesoriere e l’amendeur, incaricato di multare assenteisti, ritardatari e disturbatori. La gerarchia dei
quadri si ispira a quella delle associazioni di tipo europeo ed ha probabilmente assunto la forma attuale in periodo
coloniale. Ogni Kondey ha poi una sorta di padrino (almouthabba) e/o una madrina (gnagna), persone in vista nel quartiere
che riconciliano membri del gruppo in caso di dispute. Talvolta i due possono portare aiuti economici, ed essendo molto più
anziani dei membri del gruppo restano in carica tutta la vita, aiutando la Kondey ad inserirsi in un sistema che la lega alle
generazioni che la precedono. La caratteristica che principalmente distingue la Kondey dalle classi d’età propriamente dette
è la libertà di scelta nell’adesione: essendo iniziative è infatti più corretto parlare di “costume”, che non di “obbligo”.
RIUNIRSI ED AIUTARSI: La kondey non danno forma ad un sistema vero e proprio: non prevedono passaggi d’età né livelli
di status; non essendo strutturate nel loro insieme, non sono integrate organicamente in un sistema codificato le une con le
altre, eccezion fatta – parzialmente – per quelle adiacenti sul piano di età. Malgrado ciò, tutte condividono una simile
organizzazione, che prevede un presidente ed un vice per ciascuna delle parti, maschile e femminile, più i due rispettivi
portavoce. Ognuna di queste associazioni redige uno statuto con le proprie linee guida; dal momento della costituzione ci si
riunisce periodicamente – a rotazione – nelle abitazioni dei diversi membri per consumare un pasto collettivo e per
discutere. La frequenza delle riunioni va a diminuire con il trascorrere degli anni (da una volta a settimana, fino ad una al
mese). Malgrado ciò, non appena succede un evento rilevante ad uno dei membri, questo resta obbligato ad avvertire
immediatamente gli altri, pena la multa dell’associazione. Tra i pilastri si annoverano: lo scherzo –anche pesante – tra i
membri (vedi presidente del Mali che tra i coetanei di Timbuctu viene tranquillamente sbeffeggiato); la punizione con
ammenda per ritardo, assenteismo e presa di parola in riunione senza averne chiesto il permesso; e la tassazione (assieme
alle multe) per finanziare il fondo comune ai fini del mutuo soccorso. All’interno di questo schema, tuttavia, una certa
fluidità è prevista ed accettata per quanto riguarda la permanenza e l’adesione parallela ad altre kondey. Quando invece si
commette qualcosa di sufficientemente grave per essere espulsi da una kondey , generalmente si tenta di entrare in
un’altra, possibilmente rivale. Può poi accadere una fusione tra Kondey, o anche che una Kondey si sciolga a causa di
malintesi, assenteismo, emigrazione o confluita dei membri in altri gruppi. L’esodo e l’emigrazione sono fenomeni
particolari per la stabilità dell’associazione: se infatti ad ogni ritorno dei membri fuoriusciti si organizzano riunioni per
accoglierli nuovamente, dall’altro questi stessi danno vita a sorte di “filiali” delle kondey di appartenenza nei luoghi di
emigrazione.
Per quanto riguarda la non sistematica interazione tra Kondey, si possono riscontrare rapporti tra gruppi coetanei o
contigui: in occasione di eventi particolari si invitano a partecipare anche gruppi esterni. Altro punto di contatto si evidenzia
in caso di mancata accettazione della decisione del presidente da parte di uno dei due membri di una Kondey coinvolti in un
litigio: in questo caso la questione si porta davanti al gruppo immediatamente superiore per età, via via fino agli anziani,
come rilevato anche da Marc-Schrader. Quello che resta il tratto più distintivo della kondey è però il senso di fratellanza,
solidarietà e cameratismo duraturo tra i membri. Tuttavia, questo sentimento tra coetanei può entrare in conflitto con la
fratellanza di sangue: per tale ragione difficilmente due fratelli fanno parte di una stessa kondey. In qualche modo, ci
troviamo davanti a quello che Frank Henderson Stewart definisce “fraternal linking system” (di tipo negativo) , regola per
cui la promozione a cui un individuo può accedere è determinata da quella a cui appartengono i suoi fratelli. Avere fratelli
maschi nello stesso gruppo porterebbe a due principi contraddittori: l’eguaglianza dei membri dello stesso gruppo d’età
entrerebbe in contrasto con l’autorità del fratello maggiore nei confronti del minore.
NOBILI E SCHIAVI: Olivier de Sardan sostiene che tutte le rappresentazioni o discorsi della società sonrhai-zarma pre-
coloniale siano attraversati dalla dicotomia banniya-borcin, ovvero schiavi-uomini nobili/liberi: sono categorie che si
oppongono in ogni settore dell’esistenza. Timbuctu non sembra fare eccezione; secondo Dupuis-Yakouba la società
tombouctienne è divisa in macro gruppi sociali, che gli abitanti locali definiscono “classi”. Tra i gruppi si distinguono:
-alfa (gruppo nobile per l’istruzione): in passato, gruppo di Imam e maestri di scuola
-arma (gruppo nobile per l’origine)
-chorfa ( poco numerosi, discendenti dal profeta, gruppo a sé stante)
- kunta (gruppo proveniente dal Marocco del Sud)
-gabibi (neri, per contrapposizione ai “gakorey”: arabi, tuareg e peul) : liberi ma non nobili, in condizione di inferiorità
rispetto ad alfa ed arma. Sebbene attualmente la schiavitù non esista più, sopravvivono pratiche di
asservimento/sfruttamento che ripropongono le categorie del passato. Dunque, l’antica ed abolita gerarchia locale fondata
sulla dicotomia liberi/schiavi sopravvive ancora come categoria mentale.
IL BRASILE DEL MALI: Non nascendo la città da un nucleo autoctono, ma dall’afflusso di stranieri, la questione etnica vede
un panorama articolato. Infatti, da un originario insediamento di nomadi tuareg e da bellah si sovrappose dal 1324 la
dominazione malinké, che durò fino al 1434, quando la città venne riconquistata dai tuareg. Negli anni della dominazione
tuareg, poco più ad est Sonni Alì Ber iniziava a gettare le fondamenta del regno del Sonrhai, che nel 1469, alla guida di una
potente armata, si impadronisce di Timbuctu, caccia i Tuareg e massacra chiunque avesse collaborato con essi. Alì capì
l’importanza che l’islam aveva nella vita della città, e ne favorì strategicamente la pratica. I suoi discendenti, la dinastia degli
askia, garantì alla città un secolo di pace. E ancora: nel 1591 arrivò poi l’armata marocchina, al comando di Jouder Pasha.
Fu allora che i soldati de nord, stanziati a Timbuctu, iniziarono a sposare donne locali dando vita all’ennesimo gruppo
sociale. Insomma, qui nessuno può definirsi “puramente” appartenente ad un’etnia: infatti ci si avvale più spesso di altre
espressioni di appartenenza: come classe, casta e status. Sane Chirfi afferma a tal proposito che “qui il termine identità non
si rifà a nessun valore etnico, ma ad una mentalità”, o ad un comportamento. Ciò vale oggi come in passato, tantoché lo
stesso sovrano del Mali Kanka Musa (XIV sec) non fece nulla per rimarcare la sua diversa origine, preferendo piuttosto
aderire in piano alle regole implicite della vita locale. Per aggiungere un’altra citazione, possiamo riportare che Khallil
Ibrahim ha affermato: “Noi abbiamo fatto il melting pot molto prima degli USA; Timbuctu è il Brasile del Mali!”. Insomma, è
la storia che si contrappone alla presunta purezza delle origini manipolandole e ridisegnandole sul presente.
CORPORAZIONI: Alle divisioni precedenti va ad aggiungersi quella legata alle corporazioni di mestiere: è infatti la
conoscenza di un mestiere a fare di un semplice cittadino di Timbuctu un vero Koro Boro, ovvero un nativo della città, un
civilizzato. È sulla base di questi mestieri che sono nate le corporazioni, ciascuna delle quali ha le sue regole, le sue
tradizioni e le sue danze tipiche. Corporazione più famosa ed influente è senza dubbio quella dei muratori, seguita da quella
dei sarti e da quella dei falegnami, fatta tradizionalmente risalire agli Askia. Ci sono infine gli artigiani del metallo, divisi In
- Dyam: fabbri di origine soninké. Producono principalmente in rame, argento ed oro, rivolti perlopiù al mercato locale.
- Garasa: fabbri tuareg, produzione rivolta al turismo.
In tale discorso, va detto anche che conoscere un mestiere non implica necessariamente praticarlo.
KONDEY COME ANTISTRUTTURA: Attraverso la forma organizzativa specifica e le azioni previste, le Kondey vanno ad
interferire con diverse sfere dell’esistenza dei tombouctiens. Innanzitutto, basandosi sul criterio di età, operano dei tagli
trasversali rispetto alle diverse linee di divisione che attraversano la società. Inoltre, rapporto scherzoso ed obbligo di
solidarietà contribuiscono ad attenuare eventuali tensioni tra gruppi etnici diversi. Mary Douglas ha teorizzato che le
categorie dello scherzo vengono messe in contrasto con le categorie del controllo, pertanto le prime diventano legami o
mediatori tra i diversi domini organizzati; è così che le kondey diventano spazi di regolamento dei conflitti interni. Questa
basilare funzione autoregolatrice risulta ancora più importante alla luce della storia di questa città senza un vero e proprio
centro, attraversata dagli strati orizzontali delle caste e da quelli verticali dei gruppi etnici. In questo contesto l’individuo
finisce per essere attraversato da una fitta rete di relazioni che non lo lasciano mai solo. Il volersi isolare – anche
temporaneamente - è malvisto. Inoltre, come accennato, a Timbuctu le Kondey si intrecciano con le corporazioni, e il
cittadino si trova così ad essere sottoposto a diverse forze centripete, che lo tirano in direzioni diverse e con diverse
intensità: si muove tra appartenenze che più che sovrapporsi vengono “attraversate” e frequentate di volta in volta
dall’individuo. Tutti gli intervistati concordano che le relazioni tra compagni di kondey restano tuttavia più forti di tutte le
altre. Dunque, operando in modo trasversale, il sistema delle kondey si propone come antistruttura nell’accezione di
Turner, il quale aveva teorizzato che esistessero due modelli di società contrapposte: il secondo (società come comitatus),
che emergerebbe nel periodo liminale, prevede che la società sia concepita come comunità/comunione (communitas =
antistruttura) non strutturata o strutturata rudimentalmente e relativamente indifferenziata di individui uguali. Le comunità
antistrutturali sono quelle che tendono a voler creare uno stato di perfetta concordia e comunione tra i membri, proprio
annullando le distinzioni strutturali (orizzontali e verticali), riducendo tutti allo stesso livello di status. L’antistruttura crea e
vive in uno stato di liminalità, cioè il passaggio da una struttura minore ad una maggiore: si tratta di una società depositaria
del significato concreto di un sistema culturale e sociale, della totalità del valore individuale del collettivo e collettivo
dell’individuale. Le kondey rientrano a pieno titolo in questa tipologia. Queste trasformano un dato biologico, l’età, in un
dato sociale, e in questo possono essere comparate alle classi di età, ma a differenza di queste non diventano struttura:
quello creato dalle kondey è un vincolo assolutamente privato, non strutturale, che non di rado sostituisce la struttura
stessa.
E A BAMAKO SI FA IL GRIN: Il Grin, concetto difficile da spiegare ad un forestiero, è a grandi linee una riunione più o meno
informale di amici che si trovano per discutere di tutto: è la versione urbana delle riunioni di villaggio del Mali e dell’Africa
occidentale. Meno strutturato delle kondey, vive di partecipazione spontanea , anche se l’abitudine fa sì che i partecipanti
siano tendenzialmente sempre gli stessi, e sono pressoché coetanei. I giovani sono soliti animare i grin per discutere ed
ascoltare musica. Lo scrittore ed artista maliano Manthia Diawara ricorda che negli anni Sessanta le scuole superiori erano
importanti centri di vita intellettuale e culturale a Bamako, in quanto, non essendoci l’università a quel tempo, esse
costituivano i luoghi dove si ritrovavano le future élites del paese. Poi, nel formare i loro Grin, i giovani avevano già
selezionato nella massa di studenti gli amici, cementato la loro amicizia e sviluppato attitudini e stili di vita comuni. Si
sceglievano a questo punto un nome, con cui la loro reputazione si diffondeva in tutta la città: a questo fattore si
aggiungeva l’altro primo a pari merito per importanza, ovvero la sede permanente legata al nome, il quartier generale con il
giradischi ed una buona collezione di dischi, riviste e romanzi di spionaggio, scambiati tra i membri. Infine, ogni grin aveva
del the verde, che tutti bevevano ascoltando musica e discutendo. La composita formazione della popolazione della
capitale fa sì che l’origine etnica della popolazione sia spesso variegata. Anche qui, la pratica di discussione e
frequentazione assidua aiuta a stemperare eventuali rivalità. Sempre secondo Diawara, i grin contribuiscono alla
formazione della coscienza nazionale tra i giovani della capitale, al di là delle divisioni etniche. “Negli anni Sessanta, all’alba
dell’indipendenza, i maliani si scoprirono senza identità; fu attraverso i grin che iniziarono a definirsi “bamakois” , maliani
e panafricani. (…) i grin sono stati la spina dorsale della rivoluzione”. Diawara ricorda che la rivolta democratica capitanata
dall’attuale presidente Toumani Traoré ( che nel 1992 cacciò il dittatore Moussa Traoré, partì proprio dai grin. I grin sono
tema dibattuto anche nelle testate giornalistiche, data la loro importanza. Essi hanno a loro volta regole e prevedono
sanzioni per i trasgressori, e molte persone concordano che questi rappresentano l’incontro e l’intesa. Tuttavia, non tutti la
pensano allo stesso modo: non è mancato chi ha sottolineato che in un mondo globalizzato come quello attuale non c’è
posto per i pigri ed i passivi che spendono le giornate a chiacchierare. Si è aggiunto a questo coro il giornale “O.M.K. dit
Zounou”, in cui è scritto che “il grin è stato un fenomeno positivo , ma attualmente è diventato elemento chiave di
sottosviluppo e povertà”. Di opinione diversa è invece il “Jag”: “Per i salariati (…) il grin è una medicina antistress,
indispensabile per l’equilibrio psicologico e per sfuggire ai capricci delle mogli, per i disoccupati resta la sola attività legale e
nobile”. Anche tra i giovani ci sono posizioni nettamente diverse: chi fa appello alla tradizione e ritiene che la convivialità
sia più importante del profitto e considera i grin come momenti di investimento in socialità si contrappone a chi - sposando
un approcciò più utilitarista ed economicista - vede nelle discussioni una perdita di tempo e di denaro. Aime conclude il
saggio sottolineando che infondo anche il forum in cui sono stati presentati i saggi qui riassunti non è stato altro che una
forma di grin.

3) KINSHASA, forme associative nella capitale del Congo- ALLOVIO.


AFRICANI E AFRICANISTI IN CITTA’: Solo dagli anni ’70 gli antropologi hanno smesso di essere soggetti agorafobici e anti-
urbani per definizione, affermando con convinzione la loro attenzione alla città. in questo contesto va tuttavia ricordata la
scuola di Manchester, che promosse e produsse alcune pionieristiche indagini antropologiche urbane in Africa (Copperbelt,
attuale Zambia) già negli anni ’50. Epstein, ad esempio, lavorò a Luanshya, dove studiò organizzazione e rappresentanza dei
lavoratori locali in contesto minerario, e a Ndola, contesto che gli permise di riflettere con maggiore incisività sulla natura
dell’indagine antropologica urbana. Nel primo contesto riscontrò che, a discapito di quanto sostenuto dall’amministrazione
britannica, la grande trasformazione sociale in atto e la proletarizzazione dei minatori non avevano lasciato spazio alle
vecchie logiche tribali. A riconferma di ciò, quando gli anziani scelti come mediatori dall’amministrazione britannica
fallirono nel loro compito, si delineò una nuova leadership urbana che si muoveva su presupposti lontani da quelli tribali. A
Ndola Epstein scoprì fino a che punto la ricerca in città potesse costituire una sfida per una disciplina propensa ad isolare ed
esaminare regolarità sociali nella vita tribale o dei villaggi. Ndola nasceva come piccolo centro amministrativo e
commerciale, e nel tempo manteneva la sua importanza strategica di nodo di collegamento stradale e ferroviario per
l’intera area. Benché questo tessuto urbano fosse fluido, mobile e variegato, Epstein sottolineò che non si trattava di
un’aggregazione caotica e disorganizzata, bensì di un contesto dotato di un certo grado di coesione ed ordine sociale. Per
questo studio l’antropologo individuò una metodologia da lui ritenuta ideale per dar conto della vita sociale ed urbana,
ovvero le “episodic biographies”: si trattava di uno strumento atto ad esporre in extenso e senza commenti un resoconto
basato su un certo numero di testi preparati per l’antropologo da un africano (autoctono) che registrava i propri movimenti
per la città e i contatti avuti con le varie persone nel corso di un certo numero di giorni. (…) Il metodo era efficace
nell’illustrare il carattere casuale e accidentale di gran parte della vita sociale urbana. Ne conseguiva la delineazione di un
quadro fortemente relazionale.
Oltre ad Epstein, un altro antropologo della scuola di Manchester che si interrogò sulle nuove città della Copperbelt fu
Mitchell, che negli anni ’50 studiò come l’appartenenza tribale si esprimesse in città ponendo le basi alla discussione di ciò
che nella comunità scientifica si intende per “tribalismo”. Sostenne che nella Rodesia (Sud) l’unità tribale degli africani che
vivevano in città si esprimeva nelle “tribal burial societies”. Queste società funerarie erano molto simili alle società di
mutuo soccorso che si svilupparono tra i lavoratori inglesi alla fine dell’Ottocento, per poi diffondersi in Europa. Del resto,
nel contesto africano, la solidarietà lignatica che funziona nel villaggio deve essere ricostruita o riformulata nel momento in
cui si emigra in città alla ricerca di fortuna e lavoro salariato. L’esigenza primaria è ricostruire la coesione lignatica-clanica
nel nome di una non ben precisata “solidarietà familiare africana” quale valore atavico di un intero continente. Ciò che
preme di più è evitare il rischio di trovarsi soli e senza risorse nei momenti cruciali dell’esistenza.
Questo tema classico dell’antropologia urbana è oggi osservabile a Kinshasa, capitale della Repubblica democratica del
Congo. Infatti, l’antropologa Jean La Fontaine, recatasi a Kinshasa, ha registrato la presenza di molte associazioni
mutualistiche, già nei primi anni sessanta, all’indomani dell’indipendenza. Collegandosi al proprio interesse per le forme
associative trasversali alla parentela, Allovio intraprende un’indagine sulle associazioni volontarie che determinano un
rapporto di mutualità.
KINSHASA, UN PARTICOLARE TERRENO DI RICERCA: Questa capitale conta 9 milioni di abitanti per 10.000 km2 di
superficie, e a livello amministrativo è divisa in 24 comuni, percepiti come quartieri metropolitani. Kinshasa fu fondata col
nome di Leopoldville dai belgi in una regione di importanti centri commerciali precedenti, animati da agricoltori humbu
(coinvolti nel commercio di avorio e schiavi), pescatori teke e commercianti tio, a cui si aggiungevano carovane kongo e
piroghe Yansi. Nel 1880 i due più importanti villaggi rivieraschi teke erano Kintambo e Nshasa, oggi incorporati nella parte
vecchia della città. Questi due in passato furono i poli propulsori nella fondazione della cittadina coloniale, nata
ufficialmente nel 1881, quando Stanley ottenne dal capo teke di Kintambo il diritto di fondare una stazione nel suo
territorio. Qui , il sistema urbano era già presente in una qualche forma, e i colonizzatori si limitarono a sovrapporvi il
proprio insediamento, introducendo come novità la netta separazione sul piano spaziale della “città dei bianchi” dalle
molteplici “città dei neri”. Nel 1890 i belgi iniziarono la costruzione della ferrovia, e fu allora che il commercio iniziò la sua
rapida crescita, che permise a sua volta alla città di crescere a ritmi vertiginosi, espandendosi verso est- dai decenni
successivi ai giorni nostri. Nell’illustrare questo processo, va detto che se fino agli anni ’50 la città si era alimentata di
immigrati dal basso Congo, negli anni a cavallo dell’indipendenza (’61) si registra un incremento degli immigrati dalle
regioni orientali dell’attuale Bandundu e in misura minore dalle regioni più lontane. Iniziarono così a prendere forma i
quartieri di Masina e Kimbanseke, attualmente veri e propri centri urbani satelliti della metropoli, probabilmente i più
popolati dell’intera regione amministrativa di Kinshasa. La crescita spontanea dei due centri non ha prodotto delle vere e
proprie baraccopoli; anche da un punto di vista urbanistico si conferma quello che l’antropologo Trefon indica come una
delle caratteristiche principali di Kinshasa: la presenza di un certo grado di ordine all’interno di un contesto caotico e
disordinato. Questo paradosso dell’ordine che regna nel disordine è la cornice l’analisi e la descrizione delle molteplici
strategie quotidiane di sopravvivenza riconducibili all’economia informale, alla continua negoziazione e intermediazione
connessa alle più disparate transazioni: è la débrouillardise in base a cui gli interessi individuali per soddisfare i bisogni
primari dell’esistenza soppiantano gli interessi collettivi e la solidarietà. È tutto riconducibile al fatto che il Kinos, abitante
di Kinshasa, non aspettandosi nulla dallo Stato, cerca di sopravvivere gestendo al meglio le microstrategie del quotidiano.
CONTESTO SOCIALE DI KIMBANSEKE: qui il terreno è sabbioso e in molte zone i lotti con abitazioni si susseguono lungo un
reticolo ortogonale di strette vie. La vita domestica si svolge perlopiù in strada o nei cortili. Essendo molto difficile avere
una visione di insieme di Kimbanseke (formato da 4 enormi quartieri scollegati che si sviluppano verso sud da Boulevard
Lumumba) molte delle interviste si sono concentrate nel quartiere di Kingasani, che rigurgita quotidianamente – d’all’alba -
su Boulevard Lumumba una moltitudine impresionante di individui, per poi inghiottirli nuovamente la sera. Esiste qui un
denso paesaggio sonoro dell’economia informale che soltanto dopo settimane si riesce a cogliere. A Kingasani, la corrente
elettrica viene erogata soltanto in determinate fasce orarie di giorni stabiliti, ma gli orari non sempre sono rispettati. Gli
allacci sono abusivi e i fili elettrici seguono percorsi improbabili fra sabbia e lungo le mura di abitazioni, tant’è che nella
stagione delle piogge non sono pochi coloro che muoiono folgorati. La notte si animano le assemblee nelle numerose
chiese pentecostali del quartiere, e fin quando la corrente viene erogata le musiche delle radio si sovrappongono a volumi
altissimi. La notte di riposo e silenzio è davvero corta a Kinshasa, e in certi leggendari quartieri non esiste proprio.
La composizione etnica di Kimbanseke varia a seconda dei quartieri; per quanto riguarda Kingasani, la distinzione etnica tra
popolazioni del Bandundu e popolazioni del Kasai si può rintracciare per esempio nelle scelte alimentari: le prime utilizzano
principalmente come base la farina di manioca ( da cui si ricava il noto fufu), le seconde preferiscono quella di mais. I
nuclei familiari possono superare le 30 persone: un nucleo si definisce in base a due criteri (non sempre compresenti a
Kinshasa), ovvero dormire sotto lo stesso tetto e mangiare dalla stessa pentola. Esistono molti nuclei famigliari nascosti in
un nucleo famigliare, per via della presenza di madri nubili con prole che continua a vivere nella casa dei genitori,
condividendo con questi il tetto, ma non la pentola. Secondo Tom De Herdt, ad incrementare la presenza di nuclei nascosti
a Kinshasa sarebbe la diffusa condizione di indigenza, a cui si somma la problematica di incorporazione nel nucleo familiare
di figli di parenti defunti, figli di relazioni extraconiugali, o figli di co-mogli decedute. In più, a Kinshasa è fortemente sentita
la conflittualità tra matrilinearità e virilocalità –compresenti- , che sortiscono una situazione complessa in cui i figli
appartengono alla famiglia della madre, ma vivono in una “parcelle” riconducibile al padre. Esigenza fortemente sentita è
quella di garantire ai figli il possesso dei beni della casa in cui vivono; un modo per conseguire l’obiettivo è quello di
contrarre matrimonio presso il Comune in modo da registrare l’unione e tutelare i figli sulla base delle norme di eredità
sancite dallo stato congolese. Nei registri del comune di Kimbanseke si registra un curioso caso del nucleo famigliare
Luyindula che ha deciso di “trasformarsi” per legge in Fondazione ai fini di garantire la proprietà ai figli.
Tutti questi fattori, a cui si deve aggiungere un’elevata mobilità spaziale (molti sono affittuari), determinano un tessuto
sociale fortemente segnato da disgregazione e differenza nelle reti di solidarietà famigliare, anomia e insicurezza; fattori
che gravano su un già precario senso di comunità. L’esplosione di un fenomeno associativo è una reazione alla
disgregazione del tessuto sociale ed una risposta creativa al desiderio di ricostituire capitale sociale.
L’ASSOCIAZIONE URBANA IN CONGO: dagli anni ’60 l’associazionismo è una delle più peculiari caratteristiche della vita
urbana. La Fontaine rileva la presenza di grandi e piccole associazioni, le prime controllate dai missionari o
dall’amministrazione centrale, le seconde di natura variegata, favorite dalla vita urbana . La Fontaine si concentra sulle
associazioni a base occupazionale e su quelle di mutuo soccorso finanziario, come le ikelemba ( che negli anni ’60
permettevano ai membri - tramite tassazione- di disporre a turno di una notevole somma di denaro). Pur continuando ad
esistere, le ikelemba risentono della crisi dei salariati, che rende complicata l’adesione al gruppo di microcredito ed il
rispetto dei versamenti. Oggi il microcredito è tenuto in vita primariamente da imprenditrici donne. La Fontaine tratta
anche di “mutualités” congolesi, ovvero di piccole società di mutuo soccorso su base etnica o regionale, ad oggi non troppo
mutate. C’è stata una rinascita delle iniziative di mutuo soccorso all’interno del tessuto urbano attorno agli anni ’90, al
culmine dello sfaldamento dello Stato. Va detto che, benché le mutualità siano molto diversificate tra loro, il
funzionamento è comune a tutte: 20-40 persone si accordano e versano mensilmente una somma di denaro fissa in una
cassa a cui non si deve mai attingere, in quanto costituisce una sorta di patto sociale atto a disincentivare l’abbandono da
parte dei singoli membri. Quando invece subentra un problema ( classificato secondo una scala di priorità), si costituisce
una cassa di soccorso con raccolta di una somma supplementare. I casi previsti di intervento sono molto particolareggiati,
ma i funerali restano i casi di intervento principali delle mutualità. Quando però la mutualità è composta maggiormente da
individui giovani, gli interventi prioritari diventano le sovvenzioni per matrimoni e nascite di figli. La stretta correlazione fra
mutuo soccorso e necessità connesse ai funerali è una costante dell’associazionismo africano anche in contesti migratori:
Bruno Riccio e Sebastiano Ceschi sottolineano come molte associazioni contemporanee di senegalesi immigrati nelle
province di Bergamo e Brescia siano nate con lo scopo di contribuire al rimpatrio delle salme, e solo successivamente
abbiano ampliato il raggio di azione proponendo attività culturali e ricreative. Negli ultimi anni a Kinshasa l’organizzazione
dei funerali risulta essere una triste opportunità di guadagno da parte dei giovani: in molti casi, purtroppo, si tratta di vere
e proprie estorsioni accompagnate da atti di violenza. Alla luce di ciò non stupisce che nello statuto di mutualità
Association des bons jeunes de Bikuku, oltre a definire gli ambiti di intervento di mutuo soccorso secondo le priorità dei
giovani, si identifichino anche i fini e gli intenti generali, indicando l’organizzazione dei funerali tra le priorità: la logica con
cui si immagina lo sviluppo del quartiere antepone la gestione dei funerali alla manutenzione della strade, all’accesso
dell’acqua ed alla corrente elettrica.
LOTTA ALL’ANOMIA E RETI MORALI: Nel saggio “Urbanism as a way of life” (1938), Wirth spiega che nelle città le relazioni
sociali sono tipicamente segmentarie, superficiali e impersonali; si riscontrerebbe così un incremento di “rapporti
secondari” come quelli espressi nelle associazioni volontarie deputate ad attenuare l’anomia, il vuoto sociale e
l’indifferenza reciproca. A Kinshasa, dove le micro-strategie quotidiane di sopravvivenza sopperiscono alla fragilità e rarità
di ruoli professionali strutturati, l’attribuzione di status è difficile ed incerta. In riferimento a tale lotta all’anomia urbana
occorre comprendere la distribuzione parossistica delle cariche sociali all’interno delle mutualità. Ciascuna di esse ha
estremo rigore nel definire le cariche interne, che durano dai 2 ai 10 anni: forte è l’ipertrofia dei ruoli, dovuta all’altissimo
numero di cariche sociali in molti casi previste da statuto, in relazione al numero di membri. Le cariche mostrano inoltre
l’inesauribile processo mimetico nei confronti degli apparati burocratici ed amministrativi occidentali. Per comprendere la
ragione dei rimandi mimetici, si tenga presente che sono passati pochi anni dalle elezioni presidenziali che hanno visto
impegnato l’Onu in uno sforzo organizzativo senza precedenti, o anche che nella Repubblica Democratica del Congo è in
servizio la più numerosa missione di caschi blu al mondo. Un’ulteriore considerazione importante è che l’associazionismo
di mutuo soccorso è l’ambito in cui prende forma ciò che si può definire il “recupero normativo” all’interno della società. Si
consideri che il Congo contemporaneo presenta un tessuto sociale smembrato da decenni di regime cleptomane e da anni
di guerra. Insomma, la débrouillardise si basa essenzialmente sulla fragilità dell’assetto normativo e sulla debole rilevanza
degli interessi collettivi e della solidarietà. Alla luce di ciò, si nota nei regolamenti interni delle mutualità un abbozzo quasi
“utopico” di ripristino delle norme e dell’ordine (motivo per cui, ad esempio, in molte associazioni sono vietate le relazioni
sessuali tra membri , e in altre sono determinate norme di buona condotta).
TIPOLOGIA DELLE MUTUALITA’ E SPETTRO ASSOCIATIVO: tentiamo di mettere ordine all’interno della selva di associazioni
di mutuo soccorso esistenti a Kimbanseke:
A: Mutualità che si basano sull’origine territoriale o sull’appartenenza etnica : in teoria, tutti possono far parte di
mutualità di questo tipo. È interessante notare che tali associazioni contemplano spesso sanzioni in caso di concubinaggio
fra membri , quasi a voler introdurre una forma nuova di esogamia clanica. Caratteristica di questa mutualità è
l’organizzazione interna al gruppo di un’orchestra che intervenga durante la veglia funebre e riproponga in ambiente
urbano le melodie e le canzoni dei luoghi d’origine.
B: Mutualità che si basano sulla comune professione dei membri: si organizzano attorno al mondo del lavoro e al
contempo contribuiscono ad organizzarlo. Caso emblematico è la Mutualité des depositaires Pascal. Association des jeunes
vendeurs des boudins, che raggruppa i giovani venditori ambulanti di salsicciotti. Nel regolamento interno sono inserite
regole “deontologiche” che riguardano l’attività professionale del gruppo. Dal regolamento interno si evince la giovane età
dei membri: si fa anche menzione di ciò a cui si ha diritto con la conclusione degli studi.
C: Mutualità che si basano sull’età, ovvero associazioni giovanili: in molti casi nello statuto è specificato come tetto
minimo di età per entrare a farne parte 18 anni. Le sanzioni inflitte sono calcolate con unità di misura studentesche, come
gli A4. Questo tipo di mutualità è quello che maggiormente si rifà al linguaggio delle ONG. Ad esempio, la Mutialité de
développement communautaire ha come scopo la lotta alla povertà, il micro-credito, la lotta all’AIDS, la promozione della
pace. Malgrado ciò, si tratta di una mutualità come le altre, preposta al mutuo soccorso in caso di decessi, matrimoni,
ospedalizzazioni e nascite. Occorre sottolineare che la speranza in un futuro migliore si accompagna ad una esplicita
denuncia nei confronti degli anziani.
D: Mutualità basate sulla sola necessità di mutuo soccorso: in questo caso si fa leva sul fatto che emerge un “Noi” che si
afferma in un tessuto sociale segnato dalla mancanza di solidarietà familiare, etnica o di rassicurazioni statali.
Le mutualità , va ricordato, non sono ONG, benché di queste ultime sfruttino linguaggi e retoriche “sviluppiste” nel
redigere gli statuti e nel presentarsi all’esterno. Diverso è infatti il caso delle “vere” ONG, che tuttavia “nascondono” al loro
interno attività di mutuo soccorso. Emblematica al riguardo è un’associazione di agronomi e veterinari che svolge la propria
attività a Kimbanseke. In questo contesto, pur sapendo che il tema della ricerca di Allovio erano le mutualità, nessuno ha
esplicitato l’intento mutualistico dell’associazione, benché questo emergesse brevemente nello statuto, non tanto in
riferimento agli obiettivi dell’associazione, quanto ai “vantaggi” assistenziali di cui possono godere i membri. Sorprendente,
ad esempio, il fatto che alla voce “assistenza sociale” del bilancio corrispondessero il 30% delle uscite totali. Da ciò si evince
che, se da un lato la “modernità” penetra l’associazionismo tradizionale attraverso l’utilizzo del linguaggio delle agenzie
internazionali e delle ONG, dall’altro il concetto tradizionale di mutualità si insinua nelle organizzazioni della “Modernità”
come si evince dal caso sopra esposto. È interessante notare che la presenza del mutuo soccorso all’interno delle ONG non
venga percepita fra i Kinois come indebito sotterfugio, ma come la più ovvia e scontata tra le attività dell’ONG. Se ne può
concludere che evidentemente esiste un significato indigeno, una declinazione locale, del concetto “universale” di ONG.

4) BOMBAY/MUMBAI, culture alimentari in una città globale- RONCAGLIA. Per comprendere il percorso alimentare
bombaita prima e mumbaita dopo l'autrice intende porre una schematica suddivisione della storia urbana in tre fasi
principali.
1-LA CITTA’ PORTO E LA SUA DIETA: Durante il dominio inglese Bombay è diventata un centro di commercio internazionale.
Regalata dai Portoghesi a Carlo II come parte della dote per il matrimonio con Caterina di Braganza nel 1662, solo verso il
1780 iniziò a superare in importanza il primo porto commerciale indiano di Surat . Fu in questo periodo che divenne la
seconda città dell'impero coloniale. La guerra civile americana del 1860 diede poi un ulteriore stimolo allo sviluppo della
città in quanto l'industria Tessile Britannica spostò le sue basi in India . In queste circostanze, Bombay divenne nodo
commerciale per tutta l'India, un punto di convergenza tra la Terra e il mare . Va però detto anche che il suo sviluppo
commerciale e industriale fu modellato da spinte centripete che non avevano la loro base solo nelle forze modernizzatrici
occidentali: il mercato indiano delle merci era legato a più ampie relazioni di produzione-scambio con l’hinterland e con
mercati esteri, e i suoi cotonifici dipendevano dall'incremento e dalla penetrazione del prodotto nel mercato interno al
paese. Lentamente la città prendeva la forma di un centro commerciale ma anche di un centro amministrativo politico
educativo dove nuove forme di convivenza e di organizzazione sociale andavano a svilupparsi . Questo prodigioso sviluppo
non poteva che riflettersi sul profilo sociale demografico della città :- il modello di crescita caratteristico della città formava
il suo panorama culturale urbano con una politica di apertura verso migrazioni di persone provenienti da contesti differenti,
di accoglienza e di integrazione di fedi. Da un punto di vista alimentare, si delinea chiaramente una prima fase in cui il cibo
indiano era apprezzato dai viaggiatori britannici, fase a cui progressivamente si sostituì l'utilizzo di una cucina mista che ad
oggi ha un proprio ricettario ed è denominata Anglo Indian food . Il difficile adeguamento alle abitudini alimentari locali
spinse gli europei ad utilizzare il servizio di alcune cucine Parsi dove , nelle occasioni in cui non potevano pranzare a casa
propria , potevano richiedere pasti cucinati in modo tale che si avvicinassero ai gusti della madrepatria . Fu Infatti proprio la
comunità dei Parsi a svolgere un ruolo fondamentale nel rendere possibile una mediazione culinaria tra la classe coloniale
inglese e le popolazioni immigrate in città. Tuttavia, più che la relazione privilegiata di intermediazione svolta dai parsi, si
ricorda sicuramente il loro ruolo basilare nella costruzione di cucine, gestite generalmente da donne parsi che, utilizzando
conoscenze dei propri mariti, preparavano pranzi per i membri della classe medio-alta e per l'élite bombaita. Ciò che ha
reso la cucina mazdeista un veicolo importante di mediazione culturale è l'estrema adattabilità nei confronti delle influenze
hindu. Nella cucina Parsi si incontrano Infatti poche restrizioni alimentari e i piatti riflettono sia l'eredità persiana nella sua
forte componente non vegetariana sia l'adattamento di tali cucina alle abitudini alimentari acquisite . La letteratura sullo
sviluppo delle cucine parsi è purtroppo scarsa, proprio per il carattere femminile di questa invisibile arte quotidiana .
Rivolgendo invece uno sguardo retrospettivo alla fine dell'800 , si può riscontrare che le importanti istituzioni alimentari di
Bombay erano i caffè irani , anche essi aperti sempre da immigrati parsi e musulmani proveniente dalla Persia . Queste
piccole sale da thè diventarono particolarmente popolari per 2 caratteristiche principali , ovvero l'apertura a tutte le
comunità urbane e la creazione di una cultura pubblica della ristorazione . Già all'epoca questi caffè non ponevano
restrizioni castali e avevano aperto anche alcune stanze adibite ad uso familiare dove donne e uomini potevano mangiare
insieme. Merita poi un ulteriore discorso l'alimentazione della numerosa classe operaia, che non aveva la possibilità
economica e sociale di accedere ai luoghi precedentemente descritti per poter consumare i propri pranzi. Neanche i colletti
Bianchi mangiavano fuori casa, ma avevano l'abitudine di portare con sé il tiffin (indicava pasto leggero popolare nell'india
britannica, ed è rimasto nel vocabolario quotidiano nell'accezione di "pasto da consumarsi fuori casa") o dabba, o in
alternativa di farsi portare il pranzo durante la pausa del Lavoro dall'Associazione dei dabbawala. Questi individui erano i
portatori di cibo, riuniti nell'associazione del nutan Mumbai tiffin box suppliers charity Trust . Dalla fine dell'Ottocento
questi lavoratori consegnano pasti cucinati a casa dai familiari del cliente destinatario , essendo il cibo preparato a casa
espressione delle prescrizioni religiose , castali, politiche ed etniche di ciascuna comunità.
2- LA CITTA’ MANUFATTURIERA E LA SUA DIETA: Dalla costruzione delle prime filande verso la metà del 1800 fino alla loro
chiusura nel 1980, l'allora Bombay ha visto la propria fisionomia cambiare con la crescita, l'espansione ed infine il declino
della manifattura di cotone. Nei cotonifici lavoravano prevalentemente uomini che emigravano dai villaggi verso la città in
cerca di lavoro e che attraverso i legami familiari, di casta e di provenienza geografica trovavano un impiego come operai,
mantenendo la famiglia rimasta al villaggio. La loro vita sociale spesso si svolgeva in affollate piccole stanze, in edifici
chiamati chawl, dove dormivano, mentre i pasti venivano consumati in piccole trattorie chiamate khanawal. In genere
questi luoghi erano gestiti da vedove o da donne che dovevano mantenere la famiglia durante le fasi di disoccupazione dei
mariti, cosa che si rivelava essere una valida alternativa alla prostituzione. Il rapporto di popolazione tra numero di donne e
numero di uomini era di circa 525 su 1000. La ragione di questo scarto era strettamente connessa al modello migratorio
prevalente. La precarietà delle condizioni di lavoro spingeva Infatti gli uomini a lasciare il villaggio senza le proprie famiglie.
Tuttavia, con l'espansione dell'industria del cotone, a partire dal 1880 la richiesta di manodopera femminile crebbe in modo
consistente, ma successivamente all'adozione delle leggi a favore della maternità, i limiti posti alle ore di lavoro per donne
e bambini furono nuovamente un freno per il reclutamento femminile. Il progressivo sganciamento dal mondo industriale
rilegò le donne ad occupazioni relative alla sfera dei servizi alla persona, alla collaborazione domestica, alla ristorazione, ai
piccoli commerci, nonché alla prostituzione , settore dominato Dalle Vedove . Queste piccole trattorie sopracitate erano di
fondamentale importanza per le donne proprio perché davano loro la possibilità di garantirsi un sostentamento salvandosi
da situazioni di Profondo disagio . Ad esempio, "Annapurna" significa divinità del cibo , ed è il nome di un'associazione
femminile fondata nel 1975 , anno in cui migliaia di donne furono lasciate a casa dal lavoro nei cotonifici. Si trattava di una
di queste organizzazioni in cui le donne cucinavano, vendevano e mandavano il cibo agli operai che emigravano da tutti i
distretti del Maharahstra ed agli ambulanti. Ad ogni modo, in passato il cibo proposto dai khanawal era a base di ricette
regionali molto semplici e venduto ad un costo estremamente contenuto, che rendeva il mangiare fuori non un evento
speciale, bensì una scelta quotidiana dettata dalla sopravvivenza per moltissimi lavoratori. Solo la classe media poteva
permettersi di mangiare a casa con la propria famiglia, mentre la popolazione operaia utilizzava spesso il sopracitato
servizio . Queste cucine divennero veri centri di socializzazione dove le persone potevano ordinare il proprio tiffin da
portare al lavoro, come anche riunirsi, incontrarsi e discutere.
3- LA CITTA’-POST-INDUSTRIALE E LA SUA DIETA: Dall'inizio del Novecento inizia una graduale dismissione delle principali
Manifatture di Mumbai e la città inizia ad avviare un processo di trasformazione da città industriale coloniale a Metropoli in
cui si innescano le dinamiche sociali e politiche legate al periodo successivo all'indipendenza, avvenuta nel 1947 .
Nell'industria si tenta l'emancipazione dell'India dall'Inghilterra con una politica autarchica. Il periodo successivo
all'indipendenza mostra come l'industria del tessile si sia dovuta riconvertire come parte di un sistema economico non più
vincolato ai rapporti asimmetrici con l'industria inglese. Durante la progressiva decadenza del polo tessile, diverse
multinazionali posero le loro basi a Bombay favorendo il passaggio da un'economia industriale ad una di servizi. La città
assunse un ruolo centrale nella distribuzione dei flussi di capitali e di informazioni e come piattaforma di produzione per i
prodotti e le innovazioni di un'economia post industriale terziarizzata. Le stagioni di un'economia legata al settore terziario
hanno promosso la crescita di nuove classi sociali tra cui quella della borghesia di lingua marathi . Nel 1960, in base ad una
riorganizzazione degli Stati indiani su entità linguistiche, venne creato lo stato del Maharashtra . Allora il nome della città
venne modificato In relazione ad un processo di revisione dei nomi considerati espressione dell' influenza britannica, fu così
che nel 1995 si scelse di trasformare il nome della città in Mumbai in onore della dea Mumba, divinità di riferimento per la
tribù dei Pescatori koli, su proposta dello Shiv Sena (partito populista e nativista hindu) , all'epoca al governo nel
Maharashtra. Oggi Mumbai continua a distinguersi per la grande varietà dei suoi linguaggi, delle sue religioni, delle
gerarchie catastali, dei rituali domestici, delle feste e delle forme di preghiera. Tuttavia, anche il cibo rispecchia le
trasformazioni economiche e culturali, infatti lo spazio pubblico è dominato da una varietà impressionante di proposte
alimentari: si tratta dello Street Food e dei suoi molteplici tipi di prodotti ed attività. Tra i cibi venduti si distinguono cibi
caldi e freddi in base agli effetti che questi cibi hanno sull'organismo. In occasione delle principali festività vengono proposti
i piatti appropriati alle circostanze. In India, dove le differenze castali sono ancora presenti nel distinguere le persone da cui
si può accettare il cibo da quelle da cui invece va rifiutato, i venditori ambulanti spesso utilizzano il burro chiarificato al
posto dell'acqua per rendere il cibo più sicuro. Ad ogni modo, va anche detto che a Mumbai il dibattito sui venditori
ambulanti ha assunto talvolta toni piuttosto accesi. Spesso le proposte prendono spunto da due elementi principali, la
lingua e la religione, che riflettono la proposta di cibi non vegetariani, da parte dei rivenditori non hindu. Nel valutare chi
può vendere cibo sul suolo in baita si persegue una politica nativista distinguendo i cibi che si possono o non si possono
cucinare sul terreno pubblico. Questo genere di cibo viene chiamato dalle generazioni più giovani junk-food , ovvero cibo di
scarsa qualità, a basso costo e facilmente reperibile. Ad ogni modo, la trasformazione di Mumbai ha visto negli ultimi anni la
presenza di una crescente classe media che con la pratica del cenare fuori casa sottolinea un tratto distintivo della propria
condizione. È una realtà relativamente recente perché solo le persone con condizioni economiche basse avevano
l'abitudine di consumare il proprio pasto fuori casa fino a poco tempo fa. La ristorazione indoor promuove una serie di
cambiamenti indotti da un aumento dei salari ed all'entrata nel mondo del lavoro delle donne appartenenti alla classe
media. A questi cambiamenti sono seguite nuove esperienze di commensalità e socializzazione con una conseguenza nella
modificazione degli spazi. Pare chiaro che la storia culinaria di Mumbai sia l’espressione di un continuo avvicendamento di
nuove ondate migratorie che hanno portato al gusto Urbano influenze disparate, dai grandi hotel della Bombay coloniale a
uso dei britannici, alle cucine femminili, alla comparsa degli irani Cafè , ai ristoranti di ispirazione Europea occidentale, fino
ai dhaba, trattorie che offrono cibo regionale. L'offerta di cibi sembra ormai praticamente inesauribile: ad esempio per la
classe media la catena barista offre spuntini e caffè in un ambiente confortevole dove chiacchierare e parlare d'affari, ma ci
sono anche ristoranti dove si assiste al servizio di multi menù che propongono cibi delle diverse tradizioni, oppure fusioni
tra più stili alimentari, la cosiddetta World cuisine . Insomma, Al di là delle diversificazioni, il cibo a Mumbai, pur nella
grande offerte alimentari, non viene assunto alla stregua di una merce qualunque. Mangiare il cibo di casa propria,
mangiare un cibo riconosciuto, è mezzo per mantenere anche in un contesto di forte trasformazione l'importanza di un
certo tipo di sapore cui non si vuole rinunciare. Si tratta di un discorso più ampio sull'alimentazione che oltre le
rielaborazioni edonistiche o sensuali, per diventare un potente congegno semiotico in grado di veicolare attraverso le sue
forme materiali e le sue forme intangibili le sue relazioni di produzione e scambio, le rappresentazioni collettive a esso
legate. Da un lato, quindi, un bene materiale espressione delle relazioni produttive e di scambio volte ad ottenerlo,
dall'altro , un bene morale che continua a parlare nel linguaggio delle tradizioni etniche, castali e di purezza rituale e che
non può essere compreso se isolato dagli assunti culturali del territorio.

5) HARGEYSA, la ricostruzione della nuova capitale del Somaliland tra diaspora e campi rifugiati- CIABARRI. INTRODUZIONE:
il saggio di Ciabarri si apre con alcune delle immagini di un video sull’emigrazione giovanile girato nel 2008 ad Hargeysa per
il programma culturale “Dhoof baa i galay” : Suudi, emigrato al tempo del conflitto civile del 1988-1991, esce dall’aeroporto
della capitale della Somalia per il suo definitivo ritorno a casa. Vede la piazza dell’Indipendenza, al cui centro è stato
incastonato in un monumento uno degli aerei Mig che nell’ ’88 – su ordine dell’allora presidente Somalo Siyaad Barre-
distrussero la città. Procedendo ritrova poi la vivacità della città, coi suoi grandi edifici commerciali: il paesaggio diventa
protagonista e racconta da sé il successo della ricostruzione della città , enfatizzando il monumento civile come luogo della
memoria collettiva. Hargeysa, già dai primi anni ’80, vide contrapporsi il governo centrale di Mogadiscio al movimento di
opposizione del Nord (SMN: Somali National Movement) , la cui vittoria, nel 1991, portò alla dichiarazione di indipendenza
delle regioni del nord-ovest ed alla costituzione del Somaliland. La ricostruzione della città testimonia ai suoi abitanti il
successo della traiettoria di repressione, lotta e riscatto finale, la cui memoria comune e collettiva costituisce l’elemento
fondante della nuova nazione. Insomma, analizzando i segni materiali del nuovo spazio urbano è innanzitutto possibile
rintracciare e ricostituire le forze vive, sociali ed economiche, che lo hanno prodotto e che sono state protagoniste della
transizione post-conflitto. Allo stesso modo, lo spazio urbano a sua volta produce significati, rappresentando un sistema di
segni che vengono letti costantemente dai suoi abitanti, diventando metafora e dimostrazione tangibile della rinascita.
Leggere lo spazio urbano per leggervi le dinamiche costitutive della società che gli dà vita e lo anima è tanto un’opzione
metodologica che pertiene al lavoro del ricercatore quanto un’operazione continuamente condotta dagli abitanti stessi,
come già notava R. Barthes nell’Impero dei Segni. Va notato che l’interazione avviene a più livelli: ad esempio, i palazzi
commerciali esibiscono anche una strategia di costruzione della visibilità e del prestigio sociale portata avanti dai loro
proprietari. In assenza di nomi di vie e di piazze, essi sono diventati un punto di riferimento preciso nello spazio urbano, pur
continuando ad indicare al contempo una via per la mobilità sociale e per l’accumulazione economica. Il ricercatore
Mohammed Hassan Ibrahim, presso l’Academy for Peace and Development di Hargeysa, ha messo in luce che l’edificazione
di un secondo grosso albergo nella città alla fine degli anni ’90 (Hotel Ambassador), nella zona est dell’aeroporto, aveva
assunto localmente il significato di simboleggiare l’avvenuta pacificazione delle due parti della città dopo la cosiddetta
“guerra dell’aeroporto” (’94-95). Questo conflitto, a dire il vero, nascondeva problemi profondi al livello degli equilibri di
potere tra i maggiori gruppi tribali (nel saggio “Clan”, “tribù” e “lignaggio” sono usati in maniera indifferenziata per definire
i vari gruppi di discendenza alla base della società somala) che compongono la società somalilandese; in particolare, i gruppi
Habar Garhajis (ad est della città) erano insoddisfatti degli accordi di spartizione di potere emersi nel corso della
pacificazione interna e del loro ruolo marginale nel processo di ricostruzione economica. L’instabilità interna allo stato ebbe
inizio con questo conflitto, che si protrasse fino al 1997. Insomma, in questo quadro, la costruzione del nuovo Hotel
attestava la raggiunta condizione di equilibrio, e contribuì a stemperare la divisione: anche i gruppi Garhajis venivano
coinvolti nella ricostruzione. IL MONUMENTO DELL’AEREO, GUERRE – FUGHE E RITORNI. Il sopracitato monumento
ricorda un anno specifico, il 1988, che segnò dopo un decennio di repressione l’inizio di una fase di guerra aperta. L’SNM
rientrò nel nord somalo e con un attacco alla disperata occupò i centri urbani di Hargeysa e Burao. La reazione del governo
fu bombardare le città causando l’esodo della popolazione civile oltre il confine con l’Etiopia, dove si stabilì una serie di
campi rifugiati. Nel gennaio del 1991 il governo centrale di Mogadiscio fu rovesciato da movimenti popolari e di
opposizione del sud, cosa che diede il via libera nel nord alla presa di potere da parte del SNM. Gli altorilievi sul basamento
del monumento in questione rappresentano il bombardamento di Hargeysa e riportano le due date fondanti della nuova
nazione: 18 maggio 1991 , data di dichiarazione di indipendenza del Somaliland dallo stato Somalo nella città di Burao, e
26 Giugno 1960, data della prima indipendenza dalla Gran Bretagna. A costituire il cuore della narrazione collettiva del
Somaliland e del movimento indipendentista furono senza dubbio la repressione subita ad opera del Governo centrale nel
corso di tutti gli anni 1980 , la lotta contro questa e il bombardamento sopracitato: violenza e lotta forgiarono la nuova
nazione. Altro elemento centrale nell’immaginario collettivo è poi sicuramente il periodo vissuto nei campi rifugiati in
Etiopia: se infatti in questo periodo il SNM subì gravi perdite, il popolo si ritrovò unito nell’opposizione al governo centrale,
e i campi rifugiati divennero un luogo di riorganizzazione. Nel processo in questione gli anziani dei vari clan rivestirono un
ruolo fondamentale, al fianco del movimento armato. Questo pose le basi per il “governo della comunità”, che avrebbe
successivamente portato ad una serie di assemblee tribali che determinarono, nei primi anni novanta, i momenti di
fondazione della nuova entità politica. Va poi detto anche che l’esperienza nei campi rifugiati non fu solo fonte di
cambiamento politico, ma soprattutto di cambiamento sociale: questi campi restarono aperti fino ai primi anni 2000 e
grazie ad essi le persone ospitate riuscirono a riallacciare e a coltivare per tutto il periodo della permanenza i legami con le
rispettive aree di provenienza. Essi contribuirono a riaprire anche il confine somalo-etiope, rimasto chiuso dalla guerra
dell’Ogaden, combattuta dai due Stati negli anni 77-78. La presenza dei campi concorse inoltre allo sviluppo locale di
un’economia fondata sullo scambio tra razioni alimentari distribuite nel campo da un lato e i beni di prima necessità
dall’altro. In aggiunta, l’apertura del confine consentì l’espansione di quest’economia anche all’interno del Somaliland,
attraverso un collegamento tra i campi e i maggiori centri urbani. L’attivismo commerciale cominciato nei campi si è
allargato successivamente fino a comprendere una vasta rete di commerci, includendo il Gibuti, Medio Oriente ed infine
Estremo Oriente. Per la città di Hargeysa in particolare risultò importante la connessione con il campo rifugiati di
Hartasheikh ( entrambi i centri sono situati sul corridoio commerciale che ha storicamente collegato il porto di Berbera nel
Somaliland, con l’interno etiope): all’ombra dei campi rifugiati, nei primi anni Novanta Hartasheikh divenne il maggior
centro di mercato transfrontaliero della regione. Per quanto riguarda la merce scambiata, se inizialmente si trattava giusto
di vestiario e cibo, con il tempo questi divennero più sofisticati. I vari campi concorsero poi a sviluppare un’altra
caratteristica centrale del Somaliland post-conflitto: l’internazionalizzazione della società. Per varie ragioni i campi furono
per molti un primo luogo di rifugio all’interno di una traiettoria più ampia di delocalizzazione che portò i rifugiati verso mete
finali più lontane. I campi diedero inoltre forte impulso a molte delle compagnie di trasferimento denaro che connettono
ora l’intero mondo della diaspora somala. Inoltre, la vita nei campi rifugiati funse da catalizzatore verso la vita urbana,
specialmente per quei nuclei familiari nomadi o seminomadi che nel periodo di guerra persero i loro mezzi di
sostentamento, ovvero gli animali. La sedentarizzazione forzata comportò anche l’incremento del consumo di Kat, facilitato
dai lunghi periodi di inattività, vegetale dalle proprietà stimolanti, oggi molto importante nell’economia del Somaliland.
Infine va ricordato che l’esperienza dei campi rifugiati non finiva veramente con il ritorno in città; molte delle famiglie
rientrate, infatti, mantenevano parte della famiglia nei campi, dove quindi faceva regolarmente ritorno. Tale connessione si
riflette oggi nelle forme urbane per via indiretta, se non per quei gruppi di rifugiati più sfavoriti che rimasero nei campi fino
all’ultimo momento, e che alla loro chiusura non avevano dove andare. Questi gruppi ad Hargeysa si raccolsero nella zona
di State House, così denominata perché sede degli edifici di rappresentanza del Governo centrale nei tempi precedenti al
conflitto civile. CITTA’ E RICOMPOSIZIONE SOCIALE: nel Post-Conflitto, la crescita urbana ha rappresentato una dinamica
di ricomposizione sociale ed il punto di partenza dei processi di ricostruzione; nel nord le città hanno rappresentato un
primo luogo sicuro verso cui si sono indirizzati vari movimenti di ritorno della popolazione. Per quanto riguarda Hargeysa,
un’ulteriore fonte di attrazione fu lo statuto di Capitale, nonché la concentrazione –dopo il 1997 – di numerose
organizzazioni internazionali impegnate nei settori dell’aiuto umanitario e dello sviluppo. Questo insieme di fattori ha fatto
sì che dopo la guerra la popolazione delle maggiori città triplicasse. L’insieme delle forze in atto ad Hargeysa fu inizialmente
franato da episodi di instabilità politica, materializzatesi in scosse di assestamento dell’equilibrio tra i poteri in Somaliland.
La guerra dell’aeroporto (94-95) ebbe come teatro proprio questa città, e come già accennato, in questa occasione la città si
scisse in due parti, delimitate dal letto del fiume, con tanto di bombardamenti di artiglieria tra le due zone. Un nuovo esodo
di persone raggiunse i campi rifugiati in Etiopia. L’instabilità di questo periodo si protrasse fino al 1997, momento in cui la
sopracitata costruzione dell’Hotel Ambassador venne a simboleggiare la raggiunta pacificazione. Fu solo la stabilità politica
che ne conseguì a permettere l’inizio di un lungo periodo di crescita economica. IL MONUMENTO DEL TELEFONINO: la
nuova economia si fondava sulle rimesse e sulla ricostruzione interna incentrata nelle città e su un’economia di transito.
Hargeysa può essere identificata come il luogo di consumo e reinvestimento nel mercato immobiliare per eccellenza,
almeno per quanti hanno fatto fortuna negli affari, nonché la base di molti dei gruppi commerciali. Il paesaggio urbano
dunque riflette immediatamente tutto ciò, in primis attraverso l’estrema visibilità delle sedi commerciali , che ordinano lo
spazio urbano e diventano un riferimento per gli abitanti, ma che vogliono anche marcare questo privilegio sociale: la
visibilità sociale degli uomini d’affari e delle imprese commerciali è inoltre ricercata attraverso il mecenatismo, finanziando
la costruzione di luoghi pubblici e comunitari. Come accennato in precedenza, in forma più dispersa ma quantitativamente
più incisiva, accanto ai reinvestimenti nel commercio, sono state le rimesse dei migranti a costituire il pilastro della
ricostruzione del paese. Lo scritto di Ahmed “ Remittances and their economic impact in Post-war Somaliland” fu il primo
dopo la guerra a tornare a sottolineare il ruolo fondamentale delle rimesse e della diaspora nella ricostruzione di Hargeysa.
L’espressione “economia delle rimesse”, utilizzata da Vali Jamal negli anni 1980, diventa ancor più pertinente nella
descrizione della società somala dopo il conflitto civile. Così, la città si è costituita anche come nodo di una rete globale che
assomma migrazione e commercio. Si comprende allora pienamente il significato dell’enorme telefonino al centro di un
impianto della Telesom, maggior azienda del settore, la cui sede rappresenta il palazzo più alto e prestigioso di Hargeysa.
La Telesom, insieme all’impresa Dahabshil (altro gigante del settore), rappresenta in qualche modo il punto di congiunzione
tra i due assi dello sviluppo locale: attivismo commerciale ed economia delle rimesse. Queste due imprese hanno messo in
piedi da un lato l’infrastruttura che ha consentito la comunicazione e gli scambi tra tutti i luoghi della diaspora somala, e
dall’altro hanno fatto passare attraverso i propri canali sia rimesse dei migranti a favore delle famiglie, che transazioni
commerciali ed investimenti. La supremazia architettonica della Telesom è apertamente sfidata dall’ambizioso progetto
della nuova sede del ramo finanziario di Dahabshil, ora in costruzione. La costruzione al centro della città minaccia tuttavia
di oscurare anche il significato di quest’ultima come centro civile della città, ponendo in secondo piano la sede della Banca
centrale –che conia la moneta nazionale - e il monumento dell’aereo. Insomma: ormai sono le aziende private, e non i
pubblici, a dettare strada e modello di sviluppo locale nel Somaliland. Quest’invadenza del privato nel pubblico ha sollevato
un dibattito tra gli abitanti, ma il potere del privato non si rispecchia solo sul campo pubblico, ma anche sugli individui: le
persone ne sottolineano l’arroganza, ma con fatalismo ne riconoscono anche il potere di agire incontrastato. LE
FRAGILITA’ DEL SISTEMA: LA LINEA SOTTILE TRA SVILUPPO E DISASTRO: Si sa che l’economia dell’importazione si basa sul
fatto che la linea commerciale transnazionale congiunge tra loro luoghi a bassa tassazione (se non ad esenzione totale); e
che i mercati dell’Estremo oriente, che non conoscono concorrenti essendo a basso prezzo, sono in grado di infiltrare anche
mercati a basso potere d’acquisto come quelli dell’Africa Orientale. Con queste premesse, il Somaliland come spazio
politico ed economico si è caratterizzato sin dagli inizi come spazio pressoché deregolamentato, e il mancato
riconoscimento intenzionale del Somaliland è un ulteriore elemento capace di mantenere costante questo ordine di cose.
Anche il finale passaggio delle merci in uscita attraverso la frontiera con l’Etiopia si basa su una limitata tassazione, e ancor
più sul contrabbando che tende ad aggirare gli alti alti vincoli e i prelievi fiscali imposti dall’Etiopia al commercio di
transito. Il contrabbando, inizialmente tollerato da entrambe le parti e con equo profitto, vede ora i tentativi di parte
etiopica di porvi un limite.
Anche l’economia urbana fondata sulle rimesse presenta punti interrogativi: il primo è relativo all’estrema dipendenza
dell’economia locale dalle rimesse che giungono dall’estero. Tale dipendenza deriva anche da un generale processo di
trasformazione dell’economia e della società derivante dal lungo coinvolgimento con la migrazione internazionale, per il
lavoro prima (’70-’80) e forzata poi (1988). I meccanismi di riproduzione sociale e i valori di riferimento ad essi connessi
passano in misura sempre maggiore attraverso la migrazione verso l’estero: questa dinamica espulsiva si scontra tuttavia
con le sempre maggiori limitazioni alla mobilità internazionale riservate ai provenienti dall’Africa. Come detto, le città sono
al centro del processo di ricomposizione sociale e politica del Somaliland. Oltre che il luogo si convergenza della mobilità
internazionale e delle reti commerciali , esse sono anche centri di attrazione per le aree rurali circostanti. La relazione tra
città e mondo rurale è storicamente uno dei punti chiave dei cambiamenti sociali, infatti. Ad ogni modo, gli spazi marginali
della città sono stati sovente luoghi di mobilitazione politica e di protesta e Mogadiscio continua ad essere – come altri
centri urbani del Sud- uno dei luoghi di maggiore conflittualità in tutto il conflitto civile somalo. Hargeysa invece, avendo
riassorbito i segni più immediati della guerra, può oggi apparire simile ad altre città africane; è però sufficiente una breve
analisi dei modi di costruzione delle forme urbane o delle memorie e narrazioni dei suoi abitanti per riscontrarne la
specificità. Come detto, ciò che emerge come peculiarità di Hargeysa è il fatto che, per via dei bombardamenti e dei
saccheggi avvenuti nel corso del conflitto civile, è stata ricostruita a partire praticamente da zero. La ricostruzione
postbellica è “edificazione” sia nell’accezione materiale che simbolica del termine.

6) NOUMEA, Forme di appropriazione oceaniana dello spazio urbano in una ville blanche-FAVOLE. [Baudelaire, Nouméa culpa:
questa città ha bisogno di uscire dalla sua storia, dal suo spazio, di accettare che il tempo è in movimento, cambia, che più niente sarà
come prima. L’avvenire è dell’immaginazione: uscire da se stessi per trovarsi o inventarsi] Tra gli antropologi che si occupano di
Nuova Caledonia, è abbastanza frequente nutrire diffidenza verso la città in questione. Favole , nel 1996, fu costretto a
restare un paio di giorni in questa società melanesiana gli parve “mediterranea”, tanto caotica quanto anonima: si trattava
di un “Non-luogo”, dove fermarsi giusto il tempo strettamente necessario.
Nonostante la sopracitata evitazione, Nouméa è tuttavia presente nelle etnografie degli oceanisti che lavorano sulle “tribù
della Grande Terre”. Infatti, molti kanak oggi vivono in città, così come molti polinesiani di Wallis e Futuna o melanesiani di
Vanuatu. Gli oceanini delle “tribù” e dei villaggi sono in città e, reciprocamente, Nouméa fa parte dei loro villaggi e delle
loro tribù. Unica città del Pacifico francofono occidentale, questa è un punto di riferimento imprescindibile per chi abita le
isole. Essendo questa città “nei” villaggi, prima ancora che per ragioni metodologiche legate alla critica dell’esotismo e del
metodo di Malinowski, l’antropologia “nella” e “della” città non è affatto inopportuna per un oceanista che si occupi di
Pacifico “francofono”. Ad ogni modo, a Nouméa l’autore ebbe modo di risiedere per circa un mese nel 1999 e di passarvi
tre estati tra il 2005 e il 2007, per tenere dei corsi all’università locale e svolgere indagini sui migranti di Wallis e Futuna
presenti in città. Lo studio proposto in questo saggio nasce da varie “piste” di ricerca che l’antropologo ha visto aprirsi
tramite reti di conoscenza progressivamente sviluppate vivendo in loco. Nouméa gli ha permesso di familiarizzare con un
paese dinamico “a sovranità condivisa” franco-kanak o franco-caledone chiamato a scegliere tra la piena indipendenza e la
forte autonomia nell’ambito di un accordo privilegiato con la Francia. Entro il 2018 gli abitanti saranno chiamati a scegliere
le sorti del paese: Nouméa potrà restare l’unica città-capoluogo della Nuova Caledonia o diventare capitale di un nuovo
Stato Nazionale. LE ORIGINI, UNA VILLE BLANCHE IN MELANESIA: L’Oceania pre-coloniale era un mondo senza città; infatti,
pur non mancandole aree ad alta densità demografica, le società preferivano un abitato disperso, “itinerante”, o la
costruzione di piccoli villaggi sul litorale. Qui le principali città sono dunque un prodotto coloniale e nascono nella seconda
metà dell’Ottocento: Nouméa fu fondata nel 1854. Tuttavia, nonostante l’origine recente, L’Oceania insulare ha oggi un
tasso di popolazione urbana che si aggira attorno al 45%.. Port-de-France, “Nouméa” dal 1866, nel 1854 (anno successivo
alla conquista francese dell’arcipelago) fu individuata come sito ideale per un avamposto militare ed amministrativo. Si
presentò agli occhi del capitano Tardy de Montravel come un porto perfetto, una grande e ramificata penisola immersa e
protetta dall’enorme laguna corallina. Come altra caratteristica positiva, i primi amministratori notarono l’assenza o la
relativa lontananza degli aborigeni (termine per esprimere membri di gruppi sociali giù presenti in loco prima dell’arrivo dei
successivi gruppi), successivamente denominati “kanak” (termine hawaiano per designare gli abitanti della Melanesia ed in
generale del Pacifico, nell’accezione di “primitivi”, “selvaggi”). Tra i fattori negativi, la scarsità d’acqua. L’area si presentava
come una “terra nullius”, una “terra di nessuno” perché non esistevano abitanti permanenti; anche se , in realtà, numerosi
erano quelli che la frequentavano per attività stagionali. In questo senso, l’etnologo francese Alban Bensa ha sottolineato
quanto la concezione dell’abitare un luogo e la definizione di territorio siano tutt’altro che scontanti in una prospettiva
interculturale. In ogni caso, Nouméa venne concepita e nacque come “luogo dei bianchi” e “per i bianchi”: una “ville
blanche” da cui i kanak furono tenuti alla larga, con le sole eccezioni della manodopera e delle melanesiane che andarono
spose a soldati e coloni, almeno fino al 1946. Questa “ville lumière dei Mari del Sud si presentava come uni spazio diverso
dalla brousse, ovvero “la boscaglia”. Nouméa era, alle origini, abitata in prevalenza da militari e la popolazione maschile era
in netta maggioranza. Per le infrastrutture ci si affidò ai detenuti, così il penitenziario costruito sulla piccola isola di Nou
(oggi unita alla terraferma da un ponte) arrivò ad accogliere tra il 1864 e il 1897 oltre ventimila forzati, che diedero poi al
territorio di Nouméa la sua prima forma. Nascevano così i primi quartieri, il Centre Ville e il Quartier Latin. I detenuti
potevano essere liberati in cambio del loro impegno a contribuire attivamente alla colonizzazione dell’isola come
agricoltori, allevatori o braccianti. L’afflusso di criminali si interruppe alla fine dell’Ottocento, sostituito con l’arrivo di coloni
“liberi”. Dalle comunità miste di forzati e liberi si formerà la prima persistente comunità di “Bianchi” caledoni, i cui
discendenti furono chiamati dispregiativamente “caldoche”, oggi sostituito dai più neutri “pionniers” o “calédoniens de
souche”. Se alla sua fondazione la città contava 129 abitanti, il numero salì a 1200 con il primo arrivo di detenuti dieci anni
dopo, e al termine della colonizzazione penitenziaria (1897) la popolazione toccava quasi 9000 unità. Per ovviare alla
carenza femminile, il governo francese organizzò dei “Viaggi per le orfanelle”, ricordate nel nome di una della baie della
città, Baie de l’Orphelinat, dove sorgeva l’edificio in cui venivano alloggiate prima di andare in spose ai coloni. Negli anni 20
la popolazione crebbe a picco, fino a raggiungere 12.237 abitanti agli inizi degli anni ’30. UNA CITTA’ PLURIETNICA:
L’abbondanza di Nickel incentivò lo sviluppo di un’industria di trasformazione già nel corso degli anni ’80 dell’1800. Così,
l’esigenza di manodopera per le miniere spinse il governo francese a incoraggiare l’arrivo sull’isola di immigrati provenienti
dall’Asia. Alcune di queste comunità divennero una presenza stabile in loco, mentre di altre rimasero solo flebili tracce. A
questo quadro, si aggiunge il fatto che dalla seconda metà del XX secolo i polinesiani di Wallis e Futuna divennero presenza
via via più corposa; ed ancora oggi l’aspetto polietnico del luogo colpisce i visitatori. Dopo il bombardamento giapponese di
Pearl Harbour, la Nuova Calcedonia venne scelta all’esercito americano come base aerea e navale: a Nouméa gli americani
realizzarono strade, potenziarono il porto, resero agibili all’aviazione civile e commerciale i due principali aeroporti. A
partire dal II dopoguerra, Nouméa non ha mai smesso di crescere ed accogliere nuove ondate di immigrazione, spinte dal
governo francese anche per mantenere in minoranza i Kanak, oltre che per esigenze di manodopera: per questo motivo
l’abolizione del Codice di Indigenato e la concessione della cittadinanza nel 1946 furono eventi fondamentali. È solo negli
anni 50 e 60 che la città prese la vera e propria forma di cittadina mediterranea che oggi la contraddistingue: ad eccezione
di alcune costruzioni nascoste nel fitto tessuto del Centre Ville, della Nouméa ottocentesca rimane oggi ben poco. Negli
anni Ottanta dello scorso secolo la città fu scossa da scontri tra forze lealiste e indipendentiste; l’attuale assetto politico,
sociale ed amministrativo della città e dell’intero arcipelago è il prodotto di quegli anni turbolenti. Le tensioni ebbero un
primo epilogo nel 1988 con la firma degli accordi di Matignon, seguiti, dieci anni dopo, dall’accordo di Nouméa: i due
accordi hanno trasformato il Territorio d’Oltremare Francese della Nuova Calcedonia in un paese a “sovranità franco-
caledone”, in cui si lotta insieme per il “destin commun”. A fronte di un forte aumento di popolazione (oggi 163.000
abitanti, contando anche le città circostanti) anche dovuto all’incremento kanak interno alla popolazione, va notato che
kanak ed oceanini in genere non sono stati resi vittime di vere e proprie forme di ghettizzazione, sebbene la disparità di
accesso alle risorse tra bianchi e kanak siano consistenti, malgrado le politiche di riequilibrio inaugurate con gli Accordi di
Matignon. GLI SQUATS, UN MODO “OCEANINO” DI ABITARE LA CITTA’: Fino a tempi recenti, i tentativi di “oceanizzare” la
ville blanche sono stati piuttosto modesti. Jean-Marie Tjibaou, celebre leader indipendentista kanak ucciso nel 1989, al
termine del periodo degli scontri civili sopracitati, sottolineava l’importanza di ripensare la presenza kanak a Nouméa,
ovvero l’importanza di “realizzare l’integrazione simultanea della città e della tribù”. A tale proposito, si può notificare che
è possibile passare lunghi periodi in città senza accorgersi che in numerosi quartieri sorgono ampie aree di abitati
“spontanei” chiamati localmente “squats”, e i significati con cui il termine è spesso declinato sono profondamente
inadeguati (come ha notato la Dussy). Il verbo inglese significa “abitare abusivamente”, ma in Nuova Caledonia gli squat
vengono spesso genericamente definiti “baracche”. In realtà queste abitazioni, sebbene nascano da occupazioni abusive, in
realtà non somigliano a baraccopoli. Questi complessi nascono negli anni Settanta del secolo scorso in aree demaniali; alle
origini si trattava di piccole costruzioni adibite a deposito degli attrezzi e dei prodotti del giardinaggio. Nascono come “orti
in città”, che in seguito, per il sovraffollamento delle case dovuto alla crescita del nucleo famigliare, per l’inadeguatezza dei
grandi condomini dei quartieri dormitorio, divennero veri e propri siti di abitazione. Le ricerche della Dussy misero in luce
in effetti che all’origine degli squats vi era l’esigenza di praticare una petite agricolture, volta all’autoconsumo familiare.
Inoltre, ancora più importante appariva la possibilità di disporre di igname e taro per alimentare con il dono la rete di
relazioni sociali in cui gli squatters erano inseriti. Vale la pena sottolineare che sia per molti kanak che per molti polinesiani
di Wallis e Futuna le relazioni della coutume (termine polisemico che rimanda in primo luogo alle relazioni di scambio tra
individui e gruppi) che legano gli individui alle loro reti familiari e politiche sono tutt’ora di grande importanza; un esempio
è la cerimonia katoaga, in cui vengono redistribuite grandi quantità di cibo, cerimonia a cui lo stesso autore assistette nel
2007. Sempre nello stesso anno, l’autore ha partecipato ai festeggiamenti per la fine del primo anno di master a Bordeaux
di un giovane kanak: in questa occasione i parenti del ragazzo, residenti negli squats, hanno preparato bougna (piatto di
igname, taro e banane) per gli invitati. Tornando invece alle ricerche della Dussy: l’antropologa, nell’ambito dei suoi studi,
ha riscontrato che molti degli abitanti degli squats non erano appena immigrati, bensì erano individui che avevano
precedentemente abitato la città di Noumea, e che svolgevano occupazioni analoghe a quelle degli altri oceanini di città.
insomma, più che abitazioni di emergenza, questi squats sembravano il tentativo di occupare zone interstiziali al fine di
dare forma ad un tipo di abitare più conforme alle esigenze alle esigenze di una società oceaniana, una risposta al
sovraffollamento ed all’inadeguatezza dei loro precedenti alloggi. Si tratta di spazi interstiziali dall’insospettata creatività
che il sistema-città non riesce a controllare, dove si possono imporre “scelte” e “stili” dell’abitare che la ville blanche con il
suo impianto occidentale non offre. Gli oceaniani negli squats riproducono alcune dinamiche proprie della “tribù”: il primo
occupante è lo “chef coutumier” (rielaborazione da “i primi occupanti del territorio” e “i leader politici venuti da altrove”), il
leader consuetudinario a cui chiedere autorizzazioni relative al territorio dello squat. Non è un caso che i kanak chiamino gli
squats “tribus”, mentre i polinesiani “villages”. Questi territori appaiono come sintesi creativa tra l’abitare la città e l’abitare
il bosco. Organizzati a blocchi, questi squats spiccano per varietà di piante, e non vi mancano luoghi pubblici: famosi sono i
nakamal, o “bar à kava”, in cui gli oceaniani si ritrovano la sera a bere il kava, bevanda polinesiana dalle blande proprietà
psicoattive. Tuttavia, se addentrarsi in queste zone è generalmente considerata attività poco raccomandabile , bazzicare un
nakamal è considerata maniera lecita di frequentare uno squat, anche per chi non lo abita. Tentare un censimento in un
simile posto sarebbe poco agevole, tuttavia le inchieste svolte evidenziano la presenza di una popolazione di squatters
decisamente significativa in rapporto alle dimensioni della città. In ambito di questo tema, va infine detto che questi
complessi abitativi sono argomento dibattito anche nello stesso mondo kanak; c’è una netta divisione tra i maggioritari
indipendentisti kanak, che vedono in questo fenomeno un tentativo di ripristinare la “sovranità” fondiaria kanak sulla città,
e i minoritari lealisti anti-indipendentisti, che vedono gli squatters come usurpatori e trovano che il modo di vita oceaniano
si realizzi meglio nelle tribù di origine. La questione dei diritti fondiari, in conclusione, precede di molto l’arrivo dei
colonizzatori, e non sorprende che anche all’interno del mondo kanak vi siano spaccature. OCEANIZZARE LA CITTA’:
MONUMENTI E SIMBOLI DELL’IDENTITA’ E DELLA CONVIVENZA: Sono stati compiuti vari tentativi finalizzati
all’appropriazione kanak di spazi simbolici e visibili della città: già il fatto che delle 900 strade della città solo 15 portino un
nome kanak è un elemento di attrito, ma a ciò va anche ad aggiungersi che molti dei restanti 885 nomi siano quelli dei
protagonisti delle politiche coloniali. Una caso esemplare è quello relativo alla presenza di un monumento dedicato a Jean-
Baptiste Olry, governatore della Nuova Caledonia che gestì la rivolta kanak capeggiata dal capo Atai (1878), finita soffocata
nel sangue. In tutto questo, l’accordo di Noumea del 1998 ha rafforzato l’esigenza di rendere più visibile la presenza
oceaniana nella città, così come la necessità di individuare simboli condivisi della convivenza. L’autore propone allora
l’emblematica vicenda del monumento Mwa Ka, attualmente situato tra il museo Territoriale e il mercato della città. nel
2003, il comitato “150 anni dopo”, aveva deciso di erigere un monumento il primo monumento kanak a Noumea in
occasione dei 150 anni dalla presa di possesso francese dell’isola. Fu incaricato di coordinare il progetto lo scultore Narcisse
Decoiré, della tribù di Saint-Louis. Questo chiese ad otto scultori, ciascuno proveniente da una delle diverse aree linguistico-
culturali del paese, di istoriare con immagini della mitologia dei loro gruppi di appartenenza l’imponente tronco di un
albero di 150 anni. Questo tronco, o “totem”, fu ribattezzato “il Vecchio”, ma il suo nome originale significa “la grande
casa”, e doveva essere la “spina dorsale” della nuova nazione. Nel 2003 venne nella città Jacques Chirac, che durante una
conferenza stampa si schierò pesantemente contro la richiesta di indicare appartenenza etnica nel censimento. Argomentò
che la repubblica Francese non riconosce che cittadini francesi, e non ammette discriminazioni etniche. Il censimento che
era in corso fu effettivamente sospeso e , agli occhi di molti melanesiani, la bocciatura del quesito etnico apparve come la
negazione della presenza kanak come popolo aborigeno. Così, realizzato il monumento, trovato l’accordo sulla importanza
simbolica, occorreva trovare un luogo dove collocarlo. Il Comitato 150 anni dopo chiese al sindaco di poterlo erigere in
Piazza des Cocotiers, a poche decine di metri dalla statua di Orly, ma l’autorizzazione fu negata, e nell’attesa la statua fu
collocata nel cortile della Provincia Sud. L’anti-indipendentista Jacques Lafleur, Presidente della provincia del Sud, si era
offerto di “ospitare” temporaneamente il monumento prima della sua inaugurazione. Alla fine trovarono un accordo nella
possibilità di collocare il monumento nei pressi della Baia De la Moselle, davanti al Museo Territoriale, vicino al momento
dei caduti nella II guerra Mondiale. Al momento della II inaugurazione, nel 2004, Mwa Ka aveva già subito un’inattesa
metamorfosi creativa, e ora si presentava come l’albero maestro di una grande imbarcazione ricostruita alla sua base. La
metafora nautica sembrava del resto adatta a trasportare tutti verso il “destino comune”. Infatti, paradossalmente, la
metafora iniziale era parsa ad alcuni troppo sbilanciata verso i kanak, e conseguentemente eccessivamente etnica. L’anno
successivo, sempre nel 24 settembre, il monumento venne inaugurato per la 3° volta, conoscendo altre metamorfosi. In
quell’occasione venne collocato alla base della piroga un timoniere dall’inconfondibile aspetto kanak. La statua venne
portata in pellegrinaggio, metafora della volontà di dar vita ad un paese plurietnico e tuttavia saldamente ancorato
all’esistenza di un popolo aborigeno capace di indicare la migliore rotta. Ad oggi, la vicenda del Mwa Ka è tutt’altro che
esaurita. Il 24 settembre 2010 la festa attorno al monumento ha registrato un’ampia partecipazione; nell’estate, non a
caso, il Congresso della Nuova Calcedonia aveva infatti approvato il nuovo inno del Paese, il motto, i simboli per le nuove
banconote. Oggi davanti al monumento sventolano due bandiere. “Il Vecchio”, da un lato, occupa in maniera permanente
un’area fortemente visibile dello spazio urbano, ma dall’altro resta un monumento “in movimento”, che appare in perenne
costruzione e divenire: ogni anno, nell’anniversario della sua inaugurazione, torna ad essere oggetto di modifiche.

7) PARIS, Una capitale alle porte della città dei morti- GIAMPAOLI. INTRODUZIONE: circa 2 milioni di persone all’anno la
visitano, e al suo interno si trovano alcune delle più importanti testimonianze architettoniche del XIX e XX secolo e vi
prospera una vegetazione variegatissima: si tratta della Necropoli dei Père-Lachaise (dal nome del gesuita confessore di
Luigi XIV, che occupava la dimora situata dove oggi sorge la cappella del cimitero). Voluto da Napoleone nel 1804 come
risposta alla situazione igienicamente ormai insostenibile dei cimiteri parrocchiali interni alla capitale francese, il complesso
finì per integrarsi – con tutti i suoi 44 atteri di superficie - nel tessuto urbano, diventando anche il più vasto parco di Parigi
intra-muros. La rilevante posizione che il cimitero ha guadagnato nell’immaginario collettivo è dovuta in parte alla sua
suggestiva conformazione geografica collinare (rispetto alla circostante pianura), e in parte agli episodi storicamente
rilevanti di cui è stato teatro, primo fra tutti la conclusione della settimana di sangue, ultimo tentativo di resistenza degli
insorti della Comune di Parigi (1871). Venendo al presente, si può oggi definire il P-L come una metropoli dei morti situata
nel cuore di una delle più importanti metropoli dei vivi: esso possiede le caratteristiche che ne permettono l’appropriazione
da parte dei viventi alla stregua di un vero e proprio tessuto urbano indipendente, la cui cinta muraria lo delimita e
differenzia rispetto alla città circostante. Si potrebbe paragonare a Città del Vaticano sia per dimensioni che per “sacralità”
rivestita. Inoltre, sembra rivelarsi anche una sorta di riproduzione, a scala ridotta, della metropoli che la circonda, della sua
evoluzione storica, del suo impianto urbanistico e delle sue dinamiche sociali.
MAPPA DELLA CITTA’: Essendo completamente circondato da un muro alto all’incirca quattro metri, l’accesso al cimitero si
effettua attraverso cinque porte, due delle quali principali e tre secondarie. L’Avenue principale costituisce l’arteria
storicamente più importante, ed è fiancheggiato da alcuni imponenti ed elaborati monumenti; il largo viale conduce dal
portale d’ingresso al magnifico monumento ai morti, opera dell’architetto Bartholomé, situato ai piedi della collina. A pochi
passi dal grande incrocio con l’avenue des Puits, si trova l’edificio su tre piani della Conservation, la cui forma sovrasta
questa parte del cimitero, e che, per la funzione che ricopre, può essere paragonato al quello che è il municipio per la città
circostante. La piazza principale è dominata da 2 edifici: la cappella del cimitero (pubblico) e il monumento funebre
(privato) di Thiers, primo presidente della Terza Repubblica francese ed artefice della sanguinaria repressione della
comune. Lo spazio antistante è costituito per larga parte da un prato decorato di aiuole. Quest’area e la Rotonda Casimir
Périer costituiscono le “terrazze” di cui profittano maggiormente gli “abitanti” del cimitero, perlopiù anziani che passano le
loro giornate a leggere , lavorare a maglia e parlare tra loro seduti sulle differenti panchine, da cui di tanto in tanto si alzano
per dare indicazioni turistiche. LE ATTRAZIONI: La porzione spaziale finora descritta costituisce “il centro storico” del Père-
Lachaise. Tuttavia, è incamminandosi lungo gli stretti chemins che si raggiungono i maggiori luoghi di interesse, tra cui si
citano ad esempio la tomba di Jim Morrison, quelle di Chopin, Molière, La Fontaine, o quelle di Abelardo ed Eloisa. Per
quanto riguarda l’interesse paesaggistico, immancabile è la passeggiata nell’affascinante e decadente carré des Maréchaux,
situato intorno al Chemin du Dragon ed allo Chemin des Chèvres, e che deve il proprio nome al gran numero di
luogotenenti di Napoleone che vi sono sepolti. Questo settore, inoltre, è il “quartiere gay” del cimitero: per decenni uomini
omosessuali ne hanno fatto luogo privilegiato di incontri. Al di là dell’Avenue Transversale N°1 si estende tutta la parte
“nuova” del cimitero: si tratta di una porzione integrata dopo il 1850, quasi interamente pianeggiante, caratterizzata da una
maggiore razionalità urbanistica che fa da contrappeso ad un insieme paesaggistico meno affascinante e ricco rispetto alla
parte più antica. Tuttavia, anche quest’area ha visto alcuni dei propri monumenti divenire luoghi di interesse: la tomba di
Oscar Wilde, della Piaf, delle coppie Yves Montand- Simone Signoret e Amedeo Modigliani- Jeanne Hébuterne. E non si
dimentichi il complesso del Crematorium-Colombarium, che occupa l’intera divisione 87 e con la sua grande cupola in stile
neo-bizantino domina tutta la parte più recente del cimitero; sebbene resti per la maggior parte del tempo chiuso al
pubblico. LUOGHI DI CULTO E PRATICHE RITUALI: questo cimitero resta un luogo estremamente marcato da un punto di
vista religioso, e possiede tutte le caratteristiche dei luoghi di culto. La cappella principale e quella del crematorio
costituiscono gli esempi più significativi ed evidenti di questo tipo di costruzioni, ma sono lontane dall’essere gli unici.
Come in tutte le grandi metropoli, abbondano spazi destinati ai diversi culti e confessioni: numerose sono le comunità che
attraverso i sepolcri dei propri antenati hanno creato un legame duraturo con questo spazio finendo per ricavarsi dei propri
luoghi di preghiera privilegiati. Il monumento più importante per la comunità spiritista ( i cui membri sono perlopiù di
origine brasiliana e caraibica) , considerato un vero tempio, è la tomba del celeberrimo divulgatore Allan Kardec, situata
nella divisione 44. Pur godendo anche essi della frequentazione di un discreto numero di persone, i “santuari” di altre
comunità ugualmente presenti al Père-Lachaise colpiscono in genere in misura minore l’attenzione del visitatore. Alla
divisione 93 si trova la tomba di Gérard Encausse, detto Paus, che costituisce il luogo dove i pochi ma assidui fedeli della
dottrina del celebre occultista possono riturarsi in meditazione. C’è poi la tomba di Swami Vijayananda, che è diventata
punto di riferimento per i seguaci della filosofia vedanta. Infine, sempre in tema di spazi destinati al raccoglimento, si deve
citare quello che potrebbe essere finito “Il cimitero di questa necropoli”: si tratta della porzione di terreno antistante e
contigua al Mur des Fédérés ( su parte delle divisioni 96 e 77), dove sono stati eretti numerosi monumenti commemorativi
della Shoah. Quest’area risulta cupa e realmente cimiteriale, distaccandosi sensibilmente da quella più animata
circostante. Esistono poi dei monumenti divenuti spazi in relazione ai quali un considerevole numero di persone mette
all’opera pratiche di tipo rituale, compiendo dei veri e propri pellegrinaggi. Il Mur des Fédérés, dove furono fucilati gli ultimi
comunardi e sotto al quale furono scavate delle fosse comuni per contenere i cadaveri, è la meta di un pellegrinaggio che
unisce tutte le principali componenti politiche e sindacali della sinistra francese. Si passa poi ai monumenti che suscitano
culti, per così dire, più “terreni”: Se sulla tomba di Wilde le ammiratrici sono solite lasciare timbri di rossetto, sui genitali
della statua posta sulla tomba di Victori Noir sfregano la mano donne che non riescono ad avere bambini e uomini con
disfunzioni erettili. Non si dimentichi poi la tomba di Jim Morrison: sulla tomba di questo personaggio si sono poi prodotte
le più originali pratiche devozionali, dalle offerte di particolari “ex voto” ( sigarette, canne, poesie) fino alle vere e proprie
manifestazioni di ebbrezza collettiva. LE RAPPRESENTAZIONI “CONSOLARI”: Come ogni grande città che si rispetti, anche il
Père-Lachaise possiede le sue sedi di rappresentanza estera. L’avenue des Combattants Etrangers può essere presa come
l’equivalente di quel “quartiere delle ambasciate” che ogni capitale possiede. La maggior parte di questi monumenti ricorda
soldati che hanno combattuto accanto ai francesi durante la prima guerra mondiale e in conflitti successivi. Non è a questo
punto difficile capire la cura con cui vengono decorati e tenuti in ordine alcuni altri monumenti del cimitero, a cui viene
attribuita una funzione simile. Il cenotafio (divisione 44) commemorativo di Imre Nagy e più in generale dell’insurrezione
ungherese del 1956, repressa nel sangue dall’invasione sovietica, è il luogo rappresentativo dell’intera Ungheria nel Père-
Lachaise. Lo stesso tipo di rapporto lega la comunità armena alla tomba del generale Antranik, eroe della resistenza ai
turchi, e la comunità polacca alla tomba di Chopin, tenuta sempre in ordine e sorvegliata contro i possibili eccessi delle
comitive, da persone auto-designatesi rappresentanti in loco del proprio paese . Questa tomba può rivaleggiare per
quantità di fiori con quella di Kardec, considerata la più fiorita del cimitero, tanto da far parlare ironicamente del maestro
spiritista come del “santo protettore dei fiorai della zona”. UN POLO ECONOMICO: vale la pena evidenziare quanto
diversificati siano i settori che in qualche modo partecipano in questa economia legata alla necropoli. Per iniziare va
rilevato che il grande numero di visitatori utilizza mezzi pubblici ( soprattutto metropolitana) per raggiungere il P-L.
Passando poi ad analizzare gli esercizi privati, si è già accennato ai fiorai situati attorno al cimitero: essi, oltre ai semplici
fiori, vendono anche candele e piccole decorazioni, e non è raro che mettano a disposizione dei turisti anche mappe della
necropoli, cartoline raffiguranti i monumenti principali e t-shirt con stampato il volto di Jim Morrison. Ci sono poi le pompe
funebri, che come le agenzie immobiliari in città cercano senza sosta di accaparrarsi gli spazi migliori nella zona; essi sono
sicuramente tra coloro che profittano maggiormente del business del cimitero. Infine, vi sono anche svariati bar e piccoli
ristoranti. A tutto ciò va comunque sommato il sistema economico informale, che ruota intorno a quelle figure che si
autodefiniscono “guide”.

8) LIBREVILLE, Vivere nella periferia della capitale del Gabon- GONZàLEZ DìEZ: IMMAGINI l’autore del saggio racconta che al
suo primo arrivo in città, Libreville gli parse caotica e disorientante; a trattenerlo- nello specifico nel villaggio periferico di
Okala- furono il caso e l’opportunità. Grazie alla sua mancanza di conoscenze pregresse, Diez sostiene di essere rimasto
sorpreso, un pomeriggio di Ottobre del 2008, leggendo “Afrique ambigue” di Balandier, in cui Libreville veniva presentata
in maniera del tutto differente da quanto egli in persona poteva riscontrare sul campo. A distanza di 50 anni, la città non
risultava più languida e desueta: il traffico era continuo, la gente brulicava e le cerimonie erano ad ogni angolo. Del resto, in
quel lasso di tempo la popolazione era cresciuta da 50.000 a 600.000 abitanti: quali erano stati gli impatti della rapida
crescita sulla popolazione, dunque? Sicuramente, Okala ne aveva risentito direttamente. UNA CAPITALE FRAMMENTATA:
Libreville, fondata dai francesi nel 1843 come Capoluogo amministrativo del Gabon, venne tutto sommato trascurata
rispetto alla vicina Brazzaville. Nel 1960, con l’indipendenza, divenne capitale della Repubblica Gabonese, e iniziò a vivere
una crescita esponenziale. Oggi, pur essendo sempre una città di dimensioni relativamente limitate, essa accoglie quasi
metà della popolazione gabonese (seppur non esistono dati affidabili sulla popolazione complessiva). I dati sugli oltre 21
gruppi etnici e linguistici non sono facilmente recuperabili, in quanto la politica governativa dagli anni Sessanta in poi ha
cercato di attenuare le divisioni etniche favorendo un equilibrio fra tutti. Per evitare rivendicazioni, i dati sui gruppi
linguistici sono stati praticamente eliminati dalle statistiche ufficiali. Va poi ricordato che ai gabonesi autoctoni vanno
aggiunti gli stranieri, passati in poco più di 50 anni dal 5% al 20% della popolazione. La gran concentrazione di popolazione
in capitale fa sì che il resto dello stato risulti un’enorme periferia: la seconda città del Gabon, Port-Gentil, conta soltanto
100.000 abitanti, pur essendo spesso considerata la capitale economica del paese. In realtà, il punto forte di questa
seconda città sta quasi esclusivamente nella sua posizione geografica privilegiata, visto che il 70% delle aziende commerciali
e industriali hanno sede a Libreville: si riscontra quindi che il dualismo capitale amministrativa-capitale economica
tipicamente africano non è rappresentativo per il Gabon. Ad ogni modo, la crescita rapidissima sopracitata ha avuto
un’influenza determinante sulla frammentazione e disarmonia della città: Libreville si presenta come un insieme di
insediamenti umani geograficamente vicini tra loro. I suoi quartieri sono isolati fra loro, separati spesso da ampie zone di
terra incolte o abbandonate: l’estensione dell’area urbana, del resto, è amplissima: circa 16.000 ettari, di cui una terza
parte periodicamente sottoposta ad inondazioni. Ogni zona ha un proprio profilo ed una propria specificità. Ognuna delle
zone ha profilo e specificità proprie. La vita si concentra principalmente sulle strade, tantoché la città sembra nata proprio
intorno alle direttrici stradali. Le zone principali, geograficamente scandite da queste strade, sono:
1- quartieri governativi: ospitano i modernissimi edifici del governo e dell’amministrazione, presidiati da forze di sicurezza
(soprattutto intorno a Bord de Mer e Boulevard Trionphal.
2-quartieri europei: spesso sovrapposti a quelli governativi. Gli edifici hanno più piani e sono dotati di servizi, tra i quali i
principali sono anche i nuclei degli antichi villaggi mpongwue colonizzati dai francesi. Oggi abitati da europei e gabonesi
altolocati.
3- La Sabliére: zona di élite ostentatamente lussuosa che si sviluppa lungo la spiaggia settentrionale della città, a partire
dall’aeroporto. Abitata da élite governativa, imprenditori europei e corpo diplomatico.
4-quartieri misti e precari: dove si concentra la maggior parte della popolazione , spesso sorti da antichi villaggi fang
dell’entroterra (modello ad imbuto, un solo ingresso principale), poi inglobati nella città, o sorti spontaneamente tra un
quartiere e l’altro (generalmente “aperti” su tutti i lati) . In alcun casi seguono lo sviluppo delle nuove vie di comunicazione.
Le case sono di legno o lamiera e le condizioni igieniche precarie.
A questo quadro si aggiungono le basi militari sparse per la città, con maggior concentrazione nei quartieri governativi e di
élite. La loro presenza non è discreta: la città è fortemente militarizzata, più a scopo deterrente che altro.
OKALA: UN VILLAGGIO NELLA CITTA’: si tratta di un antico villaggio fang ora attaccato alla capitale e rappresenta un
perfetto esempio della frammentazione dell’area urbana di Libreville. Okala si è ampliato nel tempo tanto da risultare
diviso tra tre municipalità diverse: Libreville a Sud, una autonoma al centro e quella di Angondjé a nord. Logicamente,
questa divisione evidenziala debolezza dell’istituzione municipale e si traduce nella difficoltà di determinare il numero
esatto degli abitanti, che dovrebbero comunque aggirarsi attorno alle 5000 unità. Ad ogni modo, negli ultimi decenni il
villaggio ha vissuto numerose trasformazioni e la sua popolazione è sicuramente aumentata: la percentuale degli immigrati
dovrebbe essere di poco superiore al 30% della popolazione. Okala è separata dalla capitale dall’aeroporto, ma con minibus
e taxi collettivi il centro città si può raggiungere quotidianamente in meno di mezz’ora. Insomma, Okala ha la doppia
caratteristica di essere villaggio semi rurale da una parte, ma dall’altra di essere integrata al contempo nel complesso
urbano della capitale. Okala resta luogo di residenza, mentre Libreville rappresenta perlopiù il luogo di lavoro e il luogo
dove si possono trovare altri tipi di risorse e servizi più specifici. La popolazione è varia, e questo si riflette sulle costruzioni.
Le abitazioni sono attorniate da piccoli appezzamenti di terreni spesso adibiti a coltivazione. La maggior parte delle
costruzioni in cemento sorgono lungo l’asse stradale che, partendo dalla strada statale che da Libreville va verso nord, si
sviluppa verso est secondo un modello ad Y. La deviazione di sinistra conduce verso nord-est, al villaggio di Angondjé,
mentre quella di destra conduce a sud-est, disperdendosi progressivamente e ramificandosi in strade minori di poca
importanza. Pur senza rispettare una regola precisa, le costruzioni meno precarie si dispongono più vicine all’asse stradale
principale, mentre quelle spontanee si articolano verso l’interno. L’apparente disorganizzazione dello spazio rispecchia la
mancanza di ordine nel percorso di crescita urbana che si è detta tipica di Libreville nel suo complesso. FRA OCEANO E
FORESTA: come Libreville, anche Okala si presenta all’osservatore esterno in modo ambiguo. Abbiamo visto che essa non è
più un villaggio, ma non è neanche un quartiere a pieno titolo della capitale. I suoi abitanti sono in vario modo coinvolti
dalla vita urbana di Libreville, ma non rinunciano ad uno stile di vita apparentemente più rurale. L’antropologo autore del
saggio si è interrogato su quale fosse la concezione dello spazio degli abitanti e sullo spazio stesso. Come prima cosa, si
evince che per gli abitanti il senso di “villaggio” e di “quartiere” è sicuramente determinato dal fatto che la via di ingresso ad
Okala è una sola, venendo ad essere complessivamente accessibile da due soli punti: uno solo dei quali è costantemente
frequentato. In realtà, la barriera artificiale costituita dall’aeroporto e dai terreni paludosi separa Okala in modo
simbolicamente netto dal quartiere che sorge speculare ad ovest di essa, la Sablière, stereotipo del paradiso tropicale dove
tutto appare ostentatamente perfetto. Per gli abitanti di Okala la Sablière è un mondo inavvicinabile sia da un punto di vista
sociale, sia perché lo si ritiene moralmente da evitare. Nell’immaginario popolare, infatti, l’oceano che fronteggia la capitale
è tremendo e pericoloso ( e in questa forza della natura si palesa ma potentissima Mami Wata, divinità acquatica) , giacché
rigetta spesso – per colpa di forze del male e stregoneria - cadaveri di profughi provenienti dalla Guinea Equatoriale che
tentano di giungere in Gabon. I guaritori professionali nganga nei loro racconti fanno poi continui riferimenti a questa
spiaggia come scenario privilegiato di culti e sacrifici dedicati agli spiriti del male. Storia ricorrente nell’immaginario
collettivo è lo schianto dell’aereo Gabon Express, precipitato nelle acque davanti alla Sablière l’8 giugno 2004. L’aereo
affondò solo dopo diverse ore, causando la morte di 19 persone. Molti pescatori riuscirono a trarre in salvo delle persone,
prima di essere allontanati per far spazio ai soccorsi ufficiali, che tuttavia non arrivarono in tempo. L’esercito francese in
questo caso non intervenne per non specificate ragioni di sovranità. La tragedia venne considerata nazionale, e il Governo
decretò lutto nazionale ed esequie di Stato per le vittime. Ancora oggi molti credono che si sia trattato di un sacrificio del
presidente dell’epoca, Omar Bongo Ondimba, in onore di Mami Wata, per ottenere potere in vista delle elezioni dell’anno
successivo. Al giorno d’oggi il tratto di spiaggia davanti a cui si immerse l’aereo è sempre deserto; alle ragioni sopracitate si
aggiunge il fatto che l’oceano è il luogo da cui sono arrivati gli europei, con tutti i loro marchingegni dal forte potere
stregonesco, e il tramite attraverso cui un tempi si portavano via gli schiavi. Insomma, questa zona possiede tutti i requisiti
per essere considerata negativamente: rappresenta il centro simbolico dei principali atti di stregoneria e manipolazione
delle forze occulte. Dal lato opposto, invece, verso est, Okala sfuma nella campagna per poi finire delimitata dalla foresta.
Questa zona è composta da piccoli appezzamenti , case isolate, stradine la cui ubicazione è conosciuta solo dagli abitanti. È
frequentata su questo versante quasi solo da piccoli contadini che si spostano personalmente tutte le mattine, portandosi
fino all’incrocio dell’asse stradale per vendere i propri prodotti; tutti gli altri sembra che la ignorino, concependo la foresta
come limite logisticamente invalicabile. In conclusione: Okala è concepita come ben delimitata in tutte le direzioni: a Ovest
la Sablière, a est la foresta, a sud l’aeroporto e a nord Angondjé. Tale delimitazione aiuta gli abitanti a sentirsi parte di un
villaggio, sebbene i legami interpersonali siano relativamente deboli. ISTITUZIONI ED ORGANIZZAZIONE FAMIGLIARE: cosa
succede all’interno dei confini di un abitato? Okala non è compatta ed omogenea; i rapporti si articolano intorno a tre
ambiti diversi: istituzioni, famiglia, gruppi religiosi, non equivalenti per rilevanza. Infatti, la debolezza istituzionale, la relativa
tenuta della struttura famigliare e il progressivo aumento delle comunità religiose sono variabili molto influenti nella vita
delle persone. 1) le istituzioni, come detto, sono in crisi; vengono pertanto percepite come lontane e assenti. La
municipalità di Libreville è sentita alla stregua del governo: è distante ed ha interessi diversi. L’intervento istituzionale è
raro, e tendenzialmente si limita alla bonifica del canale fognario centrale e una quasi inesistente raccolta rifiuti; per il
resto, l’asse stradale è senza manutenzione da anni, la rete elettrica è fallace e la gendarmeria è presente ma non
“efficace”. I corpi di guardia presenziano in quasi ogni villaggio del Gabon: si tratta di costruzioni aperte su tutti i lati,
originariamente sui due estremi del territorio. Questi abitati erano anche luoghi di ritrovo per molti uomini. Tuttavia, ad
Okala sono pochi, isolati e poco frequentati. Qui l’autorità del capo villaggio, preposto ad amministrare le faccende
quotidiane secondo la “justice coutumiére”, non è riconosciuta dalla maggioranza degli abitanti. Insomma, qui mancano
quelle istituzioni che garantiscano nel resto del paese una relativa coesione della comunità, e la popolazione si trova in una
posizione ambigua. 2) quanto a criticità, nemmeno il sistema famigliare ne è esente. Okala, essendo una via di mezzo tra
campagna e città, è interessata da un dualismo dei modelli famigliari, e nei villaggi prevalgono tuttavia le famiglie estese.
Nel caso dei Fang i nuclei sono detti ndé-bot, e si raccordano con altri simili nell’ottica segmentaria del lignaggio, sebbene
clan e lignaggi conservino solo un’importanza simbolica. A Libreville le famiglie estese sono una minoranza, e prevalgono
invece i piccoli nuclei fondati sul principio di virilocalità. Le caratteristiche dell’ambiente urbano, la sua tipologia di
abitazioni e la crescente povertà sono alcuni dei fattori che spingono verso una disgregazione delle famiglie estese in nuclei
più piccoli. A Okala, come in altri quartieri popolari della capitale, va per la maggiore una sorta di organizzazione
intermedia, basata non tanto sulla residenza, ma sulla prossimità. Il capo famiglia abita in una casa assieme a una o più
(massimo 3 per legge) delle sue mogli e ai figli minori, mentre quelli più grandi abitano con le proprie famiglie in altre
abitazioni vicine. Per i pasti e le attività religiose quotidiane si recano tutti a casa del capofamiglia. Anche i parenti collaterali
possono aggiungersi a questo gruppo famigliare. Il nucleo delle abitazioni si chiama “village”. Questi gruppi sono spesso
tenuti assieme dalla precarietà economica, che da una parte spinge alla differenziazione residenziale, mentre dall’altra
attrae il gruppo verso il centro re-distributore/dispensatore di risorse, rappresentato dal capo famiglia. I legami affettivi,
chiaramente, esistono, tuttavia spesso i giovani nutre un forte desiderio di emancipazione, e spera che un’autonomia
economica li possa aiutare a separarsi dal gruppo. Queste tendenze centrifughe non sono comunque nuove nella società
gabonese, se già Balandier osservava spinte analoghe negli anni Cinquanta, e le considerava implicite nella società fang.
Secondo questo antropologo, infatti, il desiderio di emancipazione dei giovani stava proprio alla base della riproduzione del
sistema di lignaggio. Ad ogni modo, ad Okala sono molto frequenti anche le famiglie nucleari e le famiglie tronche
matrifocali, nelle quali una donna e i propri figli convivono assieme alla madre/nonna di entrambi. Questo tipo di famiglie è
più diffuso tra i ceti poveri, e generalmente le donne sono entrambe molto giovani. I maschi non consanguinei sono
totalmente assenti, generalmente i padri sono ragazzi giovani che non arrivano nemmeno a riconoscere i figli. La gente di
Okala di solito considera negativamente queste famiglie; tuttavia, al di là dei discorsi generici e vaghi, Gonzalez Diez
afferma di non aver potuto apprezzare nessun particolare comportamento di stigmatizzazione pratica nei loro confronti: il
fatto di avere un figlio senza essere sposati è di fatto considerato una “ragazzata”, e le giovani madri, dopo qualche anno,
sono accettate in società al pari di tutte le altre donne madri. LA DIMENSIONE RELIGIOSA: 3) questo è l’ambito di
socializzazione che gode del maggior successo. Le principali religioni presenti in Gabon sono: Islam, cattolicesimo, chiese
pentecostali e culto del bwiti; la loro presenza è diversificata, ma ad Okala sembrano prevalere pentecostali e bwitisti.
Tuttavia, in Gabon la religione ufficiale è l’Islam, almeno da quando il presidente Albert Bongo si convertì ufficialmente
cambiando il proprio nome in Omar, negli anni ’70. La scelta del presidente fu seguita da solo da una parte della classe
politica e da pochissimi civili. L’aumento dei musulmani è invece dovuto all’immigrazione dall’Africa Occidentale. I cattolici
sono presenti ad Okala con una piccola missione salesiana e una parrocchia, che però si trovano ai margini dell’abitato. La
missione riscuote più successo nelle sue attività aggregative per i giovani, come l’oratorio e i campi estivi. Tuttavia, ciò non
si traduce in un aumento dei fedeli: il fatto che i sacerdoti siano missionari europei non aiuta ad avvicinare gli abitanti o a
cambiare la concezione che molti hanno della chiesa cattolica come eredità coloniale. La scena è dunque dominata dalle
chiese pentecostali e dalle mbandja, templi del bwiti, culto gabonese che nasce fra i Mitsogo e che a partire dagli anni ’20
si diffonde tra i Fang. Venendo a contatto col cristianesimo ha sviluppato forme diverse, una delle quali, l’ombwiri, è
preponderante. Il bwiti e l’ombwiri si basano sull’uso della pianta allucinogena iboga, che consente di avere visioni. Le
chiese pentecostali possono essere presentate come diretti antagonisti del Bwiti. Presenti in Gabon fin dai primi decenni del
XX secolo, è però solo dagli anni Novanta che la loro presenza conosce una rapidissima espansione. Il loro successo si basa
sulla promessa di salvezza fondata sui doni dello Spirito Santo, che permettono a chi si converte di rinascere
simbolicamente in nuova vita. La predicazione pentecostale è fondata su un netto rifiuto di tutto ciò che è legato alla
tradizione, anche se, in realtà, si inserisce accuratamente in essa e ne fa repertorio simbolico ed immaginario proprio. Si
ritengono Pentecostali e Bwiti direttamente antagonisti; li contrappongono differenze che caratterizzano la loro azione sul
territorio: 1) visibilità spaziale: pentecostali evidenti , con luoghi di culto sull’asse viario centrale / bwiti discreti; 2)
frequenza: i pentecostali arrivano ad incontri addirittura quotidiani / i bwiti non hanno un’attività rituale regolare, e tra un
incontro e l’altro possono trascorrere anche mesi 3) margine di autonomia: i pentecostali hanno chiese che sono
emanazioni di organismi transnazionali, con esplicito intento di convertire quante più persone possibili / le comunità bwiti
sono perlopiù indipendenti e non svolgono attività proselitiste. 4) Numeri: una chiesa pentecostale può ospitare centinaia o
migliaia di persone / una comunità bwiti ospita poche decine di persone, la gerarchia iniziatica corrisponde a quella di
parentela: se la famiglia iniziatica cresce, si scinde come un normale nucleo famigliare. La gestione familiare delle comunità
iniziatiche è accentuata dal fatto che il tempio è fatto costruire dal maître (capo famiglia) sul terreno di sua proprietà,
spesso adiacente alla sua abitazione: non esiste mai una proprietà collettiva della comunità. I bwitisti dicono che si crea così
una nuova grande famiglia in cui i rapporti di fraternità e filiazione sono sempre caratterizzati dalla condivisione di una
“sostanza” che però on è più il sangue, ma l’elemento spirituale dell’iniziazione all’Iboga, della rivelazione da parte degli
antenati/spiriti di una determinata verità o visione del mondo.
Dunque, il confronto fra pentecostali e bwitisti configura ancora l’ambiguità di Okala: da una parte prende forma un
religione che si concepisce universale e che cerca di creare legami fra persone indipendentemente da quelli esistenti;
dall’altra prende forma un culto locale che si rivolge alle persone utilizzando i vecchi sistemi tradizionali della parentela.
CITTA’, VILLAGGIO O PERIFERIA? Okala si può definire come insediamento urbano a metà tra mondo rurale e città.
l’insediamento è caratterizzato dai segni dell’improvvisa esplosione demografica ed è costantemente alla ricerca della sua
specificità. Si tratta di una comunità eterogenea e poco coesa, dove le istituzioni sono molto deboli. Le particolarità di
questo caso evidenziano come sia difficile costruire un mondo urbano specificatamente africano. Okala e gli altri quartieri
periferici di Libreville evidenziano una serie di contraddizioni evidenti: non più villaggi ma non ancora città. Del resto, la
sproporzione demografica rende la stessa Libreville un grande centro di cui il resto del paese è un’immensa periferia.
Villaggi come Okala sono inseriti in questo contesto come periferie di primo livello o, forse più appropriatamente,
semiperiferie. Diez sostiene che sia interessante concentrare l’attenzione sul modo in cui gli abitanti di questi luoghi
organizzano le loro vite e impostano i loro modelli di convivenza. Qui i modi di procedere sono frutto di continue
ridefinizioni, mediazioni e processi di adattamento.

9) SARAJEVO, il confine che non c’era : normalità e pratiche dello spazio urbano dopo il conflitto- LOFRANCO:
INTRODUZIONE: il saggio guarda a Sarajevo nella sua dimensione quotidiana- fortemente segnata dai lasciti del conflitto
del 1992-1995- ed ai modi dei suoi abitanti di praticarla. Partendo dalla citazione di Fabio Dei, secondo cui la strategia del
terrore sui civili che caratterizza guerre “a bassa intensità” o scontri etnici/religiosi rende impossibile tracciare il confine
tra “guerra e non guerra”, Lofranco sostiene che il processo di ridefinizione della normalità culturale nel periodo post-
conflitto non possa essere semplicemente considerato un processo di pacificazione interetnica ( termine usato dalla
saggista benché- paradossalmente- non ce ne sia traccia nell’intera storia istituzionale della Bosnia-Erzegovina). Gli studi
su questo Stato- nota Lofranco – sono stati vittime di “congelamento metonimico” (Appadurai), ovvero aspetti e pratiche
della popolazione sono stati presi come elementi in grado di rappresentare in toto e in ogni tempo l’essenza culturale
della popolazione stessa. L’ipotesi di sovrapporre normalità e pacificazione è scartata, in quanto cristallizzerebbe la città
nella rappresentazione del post-conflitto etnico, inducendo a tralasciare la complessità di fattori e soggetti individuali e
collettivi, locali e non, che interagendo tra loro hanno contribuito a delineare la normalità culturale post-conflitto. Il
secondo fondamento teorico scelto per questo saggio è il carattere negoziale della normalità e delle pratiche quotidiane.
L’antropologa croata Maček sostiene che la normalità (modalità di vita accettabile) durante il conflitto non sia stata
soffocata, ma strenuamente negoziata dagli abitanti. Concepire la normalità e le pratiche dello spazio rubano in questi
termini fa emergere quanto in realtà siano temporalmente variabili le concezioni annesse, in primis quella di “vita
normale”. Tuttavia queste due concezioni si oppongono a quelle teorie che vedono nelle azioni dei soggetti la sola
realizzazione di un ordine socioculturale elaborato da istituzioni e funzionale al mantenimento del loro potere, quando
invece parlare di negoziazione permette di rivalutare il ruolo interattivo degli abitanti. Infatti, pur nella condizione di
“displaced persons” e rifugiati, questi cittadini elaborano pratiche di spazio “possibili”- sebbene la possibilità non sia
sconfinata, bensì una condizione elaborata in relazione al potere (Bourdieu). Dalla ridefinizione della normalità, a città va
analizzata come prodotto di una relazione di potere storicamente variabile che si instaura nel contesto urbano tra soggetti
localizzati e spazi soggettivati (Amalia Signorelli). Nel caso specifico, l’oggetto della ricerca è il principio di
territorializzazione delle identità etniche. A tale proposito è rilevante citare il Trattato di Dalton, che nel 1995 ha diviso il
territorio della città in due: Sarajevo (interviste: quartiere Grbavica), a prevalenza Bosnjak e Croata; e Sarajevo-est
(interviste quartiere Lukavica), a maggioranza Serba.
SECESSIONE E PULIZIA ETNICA COME POLITICHE DELLO SPAZIO URBANO: Appadurai definisce lo Stato-nazione moderno
come una compagine isomorfa di ethnos, territorio e potere: le etno-nazioni tenterebbero di ricreare lo stesso modello
isomorfo a dispetto dell’integrità dello Stato-Nazione, che non sarebbe più in grado di esercitare un controllo all’interno
dei propri confini. Con tali premesse, la secessione (che a Sarajevo è partita dalla divisione territoriale) assume una
centrale importanza ed una priorità cronologica nei disegni politici dei movimenti etno-nazionalisti. Essi prevedono la
realizzazione di autonomia territoriale ed istituzionale dalla cornice statale comune, a cui seguono operazioni volte a
rendere l’ethnos coestensivo rispetto al territorio e alle istituzioni. A Sarajevo, sin dal 6 aprile del 1992, si è registrata la
comparsa di lacerazioni sul tessuto urbano, la cui presenza si è andata definendo fino alla formazione di uno squarcio: la
front-line. In questo modo l’aspetto territoriale si è saldato con il processo di secessione istituzionale iniziato dalla
fondazione di municipalità parallele. La secessione istituzionale ha poi preso corpo dal 3 ottobre del ’93, con la
pianificazione della serba Sarajevo-est. La lotta per il posizionamento della front-line è stata uno scontro tra
rappresentati dello spazio urbano. La disputa per il controllo territoriale ed istituzionale della città chiama in causa il
potere panoptico (trattato da de Certeau- l’invenzione del quotidiano) , che domina visivamente lo spazio, rendendolo
misurabile e divisibile con precisione geometrica. In questo conflitto, la Comunità internazionale ha mantenuto una
visione satellitare, nell’intento di restare nel proprio ruolo super partes. Da questa posizione, si potrebbe notare che la
linea di fronte divide perfettamente le due porzioni, su cui si erano attestati schieramenti etnicamente definiti. Si arrivò al
Novembre del 1995: a Dayton fu accettato il Piano del Gruppo di contatto, con cui si sanciva che la suddetta linea
diventava confine amministrativo atto a scindere sul suolo urbano e statale porzioni di territorio definite, dette “Entità”.
Tuttavia, a conti fatti, questa rappresentazione dello spazio urbano si è dimostrata astratta ed arbitraria rispetto
all’esperienza che ne facevano quotidianamente i cittadini che lo abitavano. In definitiva, una volta delineato sul
territorio, il confine ha trasformato le pozioni in spazi impraticabili per i cittadini, dimostrando che caratteristica del
potere panoptico è la sua estraneità al quotidiano. In relazione a ciò, è stato significativo che per decidere su una
questione territoriale relativa al quartiere di Dobrinja nel 2001 il giudice abbia avviato delle consultazioni con gli abitanti
del quartiere, cercando di colmare la distanza tra astratto e quotidiano. Tuttavia, diversamente dalle mappe utilizzate
dalle diplomazie internazionali, quelle utilizzate dalle istituzioni politiche e militari di basano su immagini meno distaccate
dal suolo: propongono una visione dello spazio urbano che tenga conto anche delle caratteristiche morfologiche del
territorio, perché i dettagli altimetrici di una mappa sono molto rilevanti nel definire quale metà della città la tenga in tiro
dall’alto, e quale, dal basso, ne sia il bersaglio. Inoltre, in caso di assedio, il fronte su cui si attestano le truppe dell’uno e
dell’altro schieramento tende ad essere rappresentata come un cerchio invece che come una linea, giacché diventa
rilevante mostrare chi sia all’interno e chi all’esterno del cerchio, per poter dimostrare chi è la vittima e chi il carnefice.
Nel caso di Sarajevo, tanto le rappresentazioni fatte proprie dalle truppe governative della ARBiH- divisone ad anello-
quanto quelle della VRS- divisione a cerchi concentrici - presentano la linea di fronte come confine morale che riuscirebbe
a separare dicotomicamente il male dal bene, e a veicolare un’operazione di vittimizzazione del Sé demonizzando l’Altro.
In entrambi i casi è da notare che gli spazi delimitati da queste figure geometriche curve non si intersecano mai; forse a
voler riconoscere in sede negoziale in maniera inconfutabile il principio della separazione territoriale su base etnica. Tutte
le mappe militari di Sarajevo cancellano insomma dal territorio l’esistenza di ogni pratica dello spazio che aggiri l’ordine
territoriale funzionale ai loro progetti politici. Tuttavia, si ometteva così l’esistenza di pratiche quotidiane di
attraversamento della linea di fronte per diversi motivi, non per ultimo il tentativo di sfuggire ai bombardamenti. Inoltre,
nella rappresentazione topografica non si riesce nemmeno a render conto delle quotidiane pratiche di appropriazione
dello spazio urbano. E ancora, le mappe utilizzate dalla Comunità Internazionale e quelle delle forze militari locali
risultano accomunate da astrattezza e desiderio di controllo dello spazio, nonché del modo di praticarlo tipico di quel
potere panoptico che considera solo i “cadaveri dell’attività sociale”, ovvero gli oggetti o le pratiche non calate nelle
congiunture della vita quotidiana da cui non sono scindibili. Occorre in questo quadro sottolineare che il tentativo mai
pienamente realizzato di portare a compimento l’isomorfismo tra ethnos, territorio e potere ha comportato per i poteri
locali l’elaborazione del progetto della pulizia etnica che, al contrario di quanto si pensi, consiste in molteplici strategie
impiegate sinergicamente e con diversa intensità sia durante, sia dopo il conflitto. Le varie istituzioni hanno fatto astuto
ricorso sin dall’inizio del conflitto alla “normazione disciplinare”, che, con parole di Foucault, consiste “nell’introdurre un
modello ottimale costruito in funzione di un certo risultato, in modo da rendere le persone, i loro gesti e atti conformi a
tale modello. Nel caso di Sarajevo, la normazione ha fatto leva sulla territorializzazione dei diritti sociali ed economici.
L’applicazione intensiva della logica normativa durante il conflitto si è dovuta confrontare, a ostilità finite, con l’azione
della C.I. volta contrastare gli effetti discriminatori generati da queste norme, soprattutto nel caso dei “minority returns”
(secondo alcuni, ostacolati dall’assenza di simboli identitari rappresentativi del gruppo di appartenenza nel luogo dove si
abitava prima del conflitto), ovvero nei confronti di sfollati e rifugiati rientrati nelle zone di residenza pre-conflitto, in cui il
proprio gruppo nazionale di appartenenza era stato ridotto in minoranza. Si noti che la strategia sopracitata ha assunto
importanza crescente dopo il conflitto, giacché ha rappresentato la soluzione per continuare ad esercitare un potere
coercitivo sulle modalità di praticare lo spazio urbano quando la minaccia delle armi ha cessato di esistere. La
normazione tendenzialmente aiuta con altri mezzi il progetto di adeguamento dell’ethnos al territorio ed alle istituzioni
nate dalla secessione attraverso una modalità che può essere assimilata al foucaultiano “disciplinamento dei corpi” e che,
a Sarajevo, è consistito nel rimuovere coattivamente gli individui dal proprio ordinario ambiente di vita e nel collocarli in
un comparto territoriale governato dal gruppo nazionale a cui tali individui vengono assimilati tramite essenzializzazione
identitaria più o meno violenta. La rifondazione simbolica dello spirito urbano, in questo contesto risponde al tentativo
di promuovere questa nuova logica etno-autarchica. Pilastri del progetto di rifondazione simbolica:
A. l’eliminazione della politica del doppio alfabeto e la progressiva identificazione esclusiva dell’alfabeto cirillico
con l’entità etno-nazionale serba e di quello latino con l’identità bosnjak e croata.
B. Sostituzione di denominazioni topografiche di vie e piazze del passato socialista con quelle di personaggi ed
eventi di un passato recentemente reinterpretato in chiave etnico-nazionale.
C. Conversione di spazi laicizzati di matrice socialista in spazi di fede radicalizzata e politicizzata: moschee e chiese
cattoliche a Sarajevo, chiese ortodosse a Sarajevo Est.
D. Rituali urbani nuovi o risignificati dalle istituzioni locali che cercano di disseminare i simboli distintivi della
identità del gruppo maggioritario, soprattutto nei territori situati a ridosso del nuovo confine amministrativo.

Sia la normazione che la rifondazione simbolica possono essere identificate come strategie di una fonte normativa esterna
all’individuo. Sono cioè sempre il prodotto di un mutamento dello spazio pubblico in una modalità top-down che non dà
garanzia di un mutamento di norme e valori sociali relativi ai modi di praticare questo spazio urbano. Perché queste
divisioni si trasformino in disposizioni durevoli, i principi devono infatti essere incorporati, trasformandosi da politica che
disciplina il posizionamento del corpo nello spazio a politica che muta stabilmente i modi dei corpi di praticare lo spazio,
inteso come produzione culturale intersoggettiva. Questo arduo compito è spesso affidato alla violenza dei gruppi
paramilitari. Ad esempio, la pulizia etnica ha seguito una dinamica outside-inside, ergo una logica di penetrazione dello
spazio intimo, sia nel senso domestico, che nel senso del corpo. A seguito di ciò, lo spazio urbano post-conflitto presenta
sugli spazi infradomestici i segni delle operazioni paramilitari volte a stanare i corpi. L’invasione dello spazio domestico era
funzionale all’affermarsi di meccanismi irreversibili, secondo i quali lo spazio monoetnico viene associato in uno spazio
sicuro, e la violenza preventiva tende ad essere percepita come unica arma di difesa. In questo senso diventa evidente che
attraverso l’incorporazione del principio della pulizia etnica, cioè della sua messa in pratica in maniera inattesa ed
irriflessiva, le persone ordinarie, legate alle vittime da rapporti di intimità, scatenano una furia etnocida. È così che la
politica territoriale etno-nazionalista ha finito per interessare anche sviluppo urbano, spazio domestico e corporeo.
3-PERDERSI E RIORIENTARSI NELLA CITTA’: l’etno-nazionalismo ha innescato il caos culturale, inaugurando una situazione
di disordine relativo alle norme culturali che permettevano di conferire un ordine spazio-temporale all’esperienza
quotidiana. Si può accostare la crisi cognitiva (Appadurai) all’angoscia territoriale (Ernesto de Martino). Per gli abitanti di
Sarajevo “la crisi della presenza” è motivata da un’incertezza derivante dalla perdita delle categorie culturali indispensabili
per conoscere l’universo sociale che senza di esse costituisce un dominio sconosciuto. In questa accezione, ogni abitante
della città ha perso la sua bussola culturale e si è “perso nella città”. “perdersi” – secondo La Cecla- significa perdersi
rispetto ad un contesto: è cortocircuito o inversione di un processo culturale. Tuttavia, al contempo questo generale
sconvolgimento innescato dall’implementazione dell’etno-nazionalismo ha spinto violentemente in direzione dell’avvento
repentino di nuovo ordine culturale, dopo lo sconvolgimento dovuto al conflitto. Dalle interviste si evince che i serbi di
Lukavica hanno accettato più diffusamente la presenza nel loro quartiere di elementi simbolici legati alla loro identità
nazionale. Per questi, infatti, il conflitto ha comportato l’abbandono della loro dimora in città per trasferirsi in un luogo
rurale e ignoto, associato nel preconflitto ad uno spazio vuoto. Qui, la presenza di simboli identitari nazionali è parte
integrante del processo di edificazione intensiva e di urbanizzazione accelerata necessario per “addomesticare” il nuovo
territorio di insediamento. I prodotti simbolici sono quindi visti come indispensabile atto creativo. Parlando delle nuove
denominazioni delle vie, gli abitanti di Lukavica hanno sottolineato che non si è trattato di ribattezzare, ma di battezzare
strade nuove, sorte con l’edificazione di Sarajevo est. Gli elementi simbolici sono giustificati per la loro valenza di antidoti
culturali contro la paura di perdersi, generata dall’esodo in una zona semi rurale. Gli interlocutori di Lofranco confermano
quanto sostenuto da La Cecla, ovvero che “accettare di separarsi dai nomi dei luoghi significa accettare di perdere la propria
identità”; è però legittimo chiedersi se l’identità che gli abitanti vogliono salvaguardare sia quella nazionale o quella urbana.
Gli intervistati di ambo le parti sono accomunati dalla contestazione delle denominazioni proposte dalle istituzioni locali
etno-nazionaliste orientate a puntellare il territorio di richiami ad un’etnostoria che si tenta di rappresentare come
profondamente radicata nella storia passata e presente, ma che in realtà informa lo spazio urbano di valori diversi rispetto
a quelli attraverso cui gli abitanti lo hanno conosciuto nella loro esperienza diretta. In questo caso le denominazioni nuove
evidenzierebbero una sfasatura storica tra il periodo di storia urbana evocata dalle vie e quello della storia urbana su cui si
basa la conoscenza locale degli abitanti, ancora radicata nelle politiche e nella memoria veicolate dalla Sarajevo socialista.
Infatti, di alcune delle denominazioni del periodo pre-socialista è noto il significato solo ai più anziani. Questo revisionismo
storico veicolato dalle istituzioni ha comportato diverse contestazioni, tanto per le denominazioni che richiamano eventi
troppo lontani, quanto per quelli troppo vicini, magari legati al recente conflitto, in quanto spesso si tratta di fatti circa i
quali il popolo non condivide un giudizio morale univoco. Gli abitanti di Grbavica , tuttavia, concordano ad esempio
sull’opinione di non dare alle vie denominazioni di “assassini, cattivi e criminali”. In tutto ciò è indicativo che l’approvazione
della toponomastica non risulti tanto legata alla comune appartenenza nazionale di abitanti e personaggi storici: molte
contestazioni sono scaturite perché il cambio della toponomastica ha reso sconosciuti luoghi un tempo familiari. Perdersi
nello spazio urbano è in questo senso un’esperienza interetnica comune a tutti i sarajlije che tentano di muoversi nelle
aree della città che frequentavano prima del conflitto: pare proprio che la scelta di denominazioni “inedite” legate alla
storia etno-nazionale abbia generato difficoltà generalizzata nel localizzare i punti di interesse; difficoltà spesso sfociata
nella richiesta dell’utilizzo di denominazioni più neutrali, apolitiche. È infatti nelle contestazioni che si scorge la tendenza
alla riaffermazione del concetto laico ed interetnico di spazio pubblico che caratterizzava il socialismo. Ad ogni modo, uno
sguardo su queste dinamiche porta a concludere sia la contestazione che l’approvazione della nuova toponomastica sono
prodotti dell’habitus urbano socialista tanto quanto della condizione presente, legata alla necessità di riassorbire gli effetti
del dislocamento nelle pratiche quotidiane dello spazio. In conclusione, nel contesto post-conflitto, perdersi è esperienza
culturale universalmente esperita tanto quanto lo è orientarsi: per La Cecla perdersi è solo l’inizio del processo culturale
che consiste nell’uso delle occasioni esterne per volgerle a proprio favore, il piegare l’estraneo a divenire accogliente, a
permettere di dimorarvi.
TRAIETTORIE QUOTIDIANE ED ATTRAVERSAMENTI DEL CONFINE: Gli attraversamenti del confine qui considerati sono
quelli quotidiani ed individuali. Si è riscontrato che le strategie delle istituzioni locali tendono a strutturare un habitus
urbano in cui il confine sia inteso come limite invalicabile, per mantenere gli spazi monoetnici. Tuttavia, esistono altra forze
capaci di esercitare un’influenza su questo tipo di dinamiche. Ad esempio è stato riscontrato che a determinare la
possibilità o l’impossibilità di attraversamento del confine sono spesso i diversi ambiti di attività dei sarajlije ( nei settori più
controllabili dalle istituzioni locali l’attraversamento è scoraggiato). Particolare efficacia in questo senso hanno riscontrato
le imposizioni legali di usufruire dei servizi e delle strutture situate sul territorio della città, o dell’entità di residenza (ad
esempio il limite è invalicabile per quanto riguarda l’assistenza sanitaria). Tuttavia, in alcuni settori di amministrazione o
welfare, la C. I. è intervenuta per limitare alla legislazione locale di porre limiti alle scelte individuali dei cittadini. Restano
comunque presenti anche in questi settori meccanismi informali che in una o nell’altra città operano in maniera
complementare al fine della realizzazione del progetto. Un esempio è la discriminazione sul posto di lavoro, che infatti cerca
di normalizzare le “anomalie” costituite dal numero di serbi che continuano ad abitare a Sarajevo. Le persone che vivono
questa condizione plurisituata si trovano nell’imbarazzante situazione di dover giustificare le loro scelte in un contesto
socio-politico che cerca proprio di eliminare queste situazioni di ambiguità. Le situazioni che scaturiscono col mancato
adeguamento della scelta lavorativa a quella residenziale possono poi tramutarsi in condanne esplicite: è così che si tenta di
cooptare nella propria sfera di influenza i cittadini che ancora non si collocano sul territorio urbano secondo lo schema
previsto dalle forze etno-nazionaliste. I meccanismi di discriminazione sono poi attuati anche in altri contesti, tra cui quello
dell’istruzione obbligatoria, in cui il pendolarismo non è insolito. Lavoro ed istruzione obbligatoria cadono facilmente
vittime delle logiche etno-nazionaliste perché sono facilmente controllabili dalle istituzioni, ma anche perché sono contesti
in cui è richiesta interazione quotidiana con colleghi e compagni ( che diventerebbe insostenibile qualora si andasse
dichiarando idee nazionaliste della propria parte). Malgrado ciò, va notato che anche in questi ambiti si riscontrano logiche
non che rifiutano di conformarsi al modello autarchico. Un quando di dinamiche simile si ripropone per quanto riguarda
l’Università: frequentare l’Università del proprio territorio di appartenenza potrebbe essere una considerazione secondaria
rispetto a quella relativa all’offerta formativa o a fattori economici. Venendo ad altri discorsi, è evidente che il confine ha
diviso in maniera non equa tra le due città patrimonio storico, architettonico, infrastrutturale ed economico,
concentrandolo per la maggior parte nella capitale, ovvero Sarajevo. La disparità è poi ulteriormente alimentata anche dal
diverso grado di trans-nazionalizzazione degli spazi che si è andato a determinare a seguito del conflitto inteso come evento
che ha innescato un processo di inserimento violento dello spazio urbano in dinamiche globali. Come riconosce lo stesso
Appadurai, Sarajevo è una di quelle città il cui spazio è diventato trans-locale a causa di processi economici globali che
legano insieme città tra loro più che con il loro stesso hinterland. Tuttavia, nelle ricerche della Lofranco è emerso un ambito
in cui l’appartenenza nazionale e l’attraversamento del confine sono considerati del tutto irrilevanti: si tratta dello
shopping, in particolare di abbigliamento; si concorda infatti che acquistare a Sarajevo sia largamente preferibile. Da alcune
risposte si evince che a condizionare la scelta dei luoghi in cui fare acquisti è ancora l’habitus pre-conflitto: in questo ambito
la sedimentazione storica degli habitus porta infatti le pratiche dello spazio urbano messe in atto dai cittadini a sfuggire alla
regolamentazione istituzionale che le vuole limitate allo spazio della città di residenza. Va infatti detto che già prima del
conflitto i centri urbani si distinguevano da quelli rurali per lo standard d’abbigliamento secolarizzato, che non rivelava in
nessun modo l’appartenenza religiosa o nazionale di chi lo indossava. Da ciò, anche dopo il conflitto mantenere un habitus
urbano significa vestirsi in modo “moderno”, ovvero con abiti prodotti nei paesi dell’Europa Occidentale, come confermato
anche dal concetto specifico di “roba bella” (“fina gardaroba”) espresso da una degli interlocutori dell’antropologa.
Tuttavia, non essendo consentite dal governo jugoslavo già prima del conflitto la produzione e l’importazione di merci
dell’Europa Occidentale, i cittadini erano soliti aggirare l’ostacolo organizzando viaggi oltre confine, soprattutto in Italia, per
acquistare vestiti da rivendere o per uso personale ( pratica detta “ svercati”, ovvero contrabbando per libera iniziativa e
non gestito da bande). Anche al tempo della ricerca della Lofranco, continuare ad acquistare in negozi del centro di
Sarajevo permetteva ai serbi di vestire secondo lo standard urbano pre-conflitto e di continuare ad affermare la propria
identità di cittadini nonostante l’esodo li abbia portati in zone semi-rurali. Insomma: l’habitus urbano moderno e
occidentalizzato nell’acquisto delle merci, che strutturava nel periodo pre-conflitto le pratiche di attraversamento del
confine tra Jugoslavia socialista ed Europa capitalista, sopravvive oggi nell’attraversamento del confine tra Sarajevo e
Sarajevo-est. A questo quadro va aggiunto che l’attraversamento del confine urbano è stato fino ad oggi strutturato anche a
partire dalla situazione di asimmetria in cui i cittadini bosniaci si vengono a trovare nei confronti dei cittadini dell’UE: le
politiche che per ragioni di “sicurezza” hanno bloccato fino al dicembre 2010 la migrazione dalla Bosnia hanno elminato la
possibilità fisica di evadere lo spazio nazionale. La località e le pratiche dello spazio vengono quindi quotidianamente
prodotte in questo contrasto tra senso di appartenenza ad una comunità trans-locale e di esclusione da essa. Tutto ciò non
è privo di effetti: l’habitus dell’attraversamento del confine prende forma anche in relazione alle pratiche dello spazio
immaginato, negato, rimpianto e sognato.
RIFLESSIONI CONCLUSIVE: Una delle principali conclusioni a cui si è giunti con questa ricerca è che, in fin dei conti, lo stato
etno-nazionale non riesce ad imporre il completo isomorfismo tra popolazione etnicamente omogenea, territorio, e potere
politico che ne detiene il controllo. Tuttavia, si è visto che in alcuni contesti, specialmente quelli in cui è richiesta
un’interazione interpersonale diretta, il modello monoetnico assume una cogenza di tipo sociale. In tutto ciò, la logica
securitaria sembra orientare sia gli spostamenti di residenza che gli spostamenti quotidiani, poiché ancora oggi gli spazi
prossimi alle abitazioni restano fuori dai tragitti quotidiani di chi si reca dall’altra parte del confine. In queste zone è infatti
più facile essere riconosciuti dagli ex vicini e segnalati come traditori, serbi o musulmani. Una prima osservazione delle
pratiche urbane post-conflitto riguarda nello specifico la differenziazione dei principi che regolano l’accesso allo spazio
pubblico rispetto a quello privato. Un’ulteriore deduzione è che l’avvento di dinamiche e soggetti transnazionali non
produce il ripristino totale di una modalità interetnica di frequentare e produrre spazio urbano; spesso è proprio la
frequentazione di spazi de-territorializzati a permettere ai cittadini dell’una o dell’altra parte di ribadire la propria identità
urbana, moderna ed occidentalizzata, senza necessariamente dover accettare l’inter-etnicità che la caratterizzava prima del
conflitto. Le pratiche dello spazio urbano, infine, si delineano attraverso una dinamica di parziale inserimento in una realtà
transnazionale che promuove evasioni solamente virtuali dello spazio locale, spesso surrogate dall’acquisizione di beni
materiali prodotti dal mercato globale. Questa dinamica si risolve in una frustrante ri-territorializzazione violenta che
contribuisce a trasformare l’appartenenza al delimitato spazio di residenza, in quella che Appadurai definirebbe “una
struttura di sentimento”. Le pratiche dello spazio sembrano dirette dal persistere di quello che Armakolas (antropologo) ha
definito “a displaced sense of place”. Come riconosce Gupta, in un simile contesto la cittadinanza appare effettivamente
delineata da appartenenze multiple.

10) TOKYO, Orientarsi in una modernità irrisolta, URRU: AI MARGINI DELLA DISCIPLINA: Nell'antropologia chi scrive
da Tokyo è 3 volte marginale. L'osservazione che la scelta dell'altro antropologico è legata in modi complessi alla storia
dell'espansione Europea ha automaticamente portato a scartare il Giappone. Il marchio esotico associato, con la
collocazione remota e le notizie straordinarie che si sommavano, a partire dal “Milione” di Marco Polo fino a formare
un'immagine restia a qualsivoglia innesto foresto, non bastò a fare del Giappone un primario luogo di interesse
antropologico fino alla metà avanzata del secolo scorso. In Giappone, infatti, lo sforzo esistenzialista non andò oltre le
claudicanti teorie della scuola di cultura e personalità capeggiata da una Ruth Benedict, che tuttavia mai pose piede sull'
arcipelago. La fioritura di una antropologia urbana attenta a questioni di reti o etnicità, di povertà o segregazione se da
una parte equivaleva ad una inaspettata guarigione da una miopia congenita, dall’altra non garantiva che lo sguardo si
puntasse oltre poche località predilette. Neppure con i nuovi occhiali, fabbricati per lo più all'Università di Chicago e al
Rhodes Livingston Institute di Lusaka, gli antropologi si avvidero che in Giappone, fin dal XVII secolo, l'urbanizzazione era
stata più rapida che in ogni altro posto al mondo. Jhon Embree, primo antropologo occidentale ad approdare in
Giappone, allievo di Radcliffe-Brown , si diresse verso le zone del Kyushu con il dichiarato intento di effettuare uno studio
sociale integrato di un villaggio agricolo non troppo vicino ad una qualche grande città. Dovevano del resto trascorrere
ancora quasi due decenni, quei vent’anni che avrebbero portato da una parte il paese in un’inedita situazione coloniale
dopo la sconfitta bellica, e dall’altra l'antropologia a nozze con le tesi della convergenza, per vedere Ronald Philip Dore
affrontare l'intreccio tra questione urbana e questione moderna. A distanza di tempo, Il paradosso non è venuto meno :
l'esemplarità della monografia di Dore del 1958 è riconosciuta da chi ha lavorato in Giappone, ma ugualmente continua a
non ricevere considerazione nel discorso più ampio della disciplina . Addirittura, nel ponderoso Compendio di
Antropologia urbana firmato Ulf Hannerz sono dedicate letteralmente appena 5 righe al Giappone, pur trattandosi di un
volume di oltre 500 pagine. Pessimo servizio per una società con un tasso di urbanizzazione che supera il 80%. Pessimo
servizio, poi, anche per l'antropologia del Giappone che, dopo Dore , non si è più sottratta alla necessità di stare in città,
sfornando una serie di lavori etnografici, invariabilmente sintonizzati sui più accreditati Trend disciplinari, ai quali
offrirebbero preziose rettifiche se non salutari antidoti appena li si volesse ascoltare. Studi come Crafting selves, Tsukiji e
the Business of Ethnography mostrano con fulgore cosa significa oggi fare ricerca sul campo a Tokyo. Dagli studi citati, i
ricercatori più restii potranno tornare a sapere cosa si intendesse per descrizione densa prima che la vague postmoderna
la trasformasse in ventriloquio, o semplicemente capire come si affronta un'istituzione complessa come quella del
mercato del pesce più grande del mondo. AL CENTRO DEL MONDO: A Tokyo l'antropologo ha la sensazione di vivere al
centro del mondo - sensazione dovuta all'energia che la città profonde ad ogni livello percettivo e cognitivo- ed ha la
certezza che i modi della capitale sono esemplari per il resto del paese. Una città giapponese viene Infatti giudicata dalla
prossimità del suo standard a Tokyo. La stessa ruralità è diventata un non-luogo, e Tokyo, per contro, il luogo di
importanti esperienze formative, che la campagna , semplicemente , subisce (H. Yoshioka). M. Hayashi testimonia che,
nell'uso quotidiano, per dire che si va a Tokyo si ricorre al verbo salire, mentre per dire che ce ne si allontana il verbo
scendere. La sensazione è quella di di essere al centro di ogni accadere. Tokyo si distingue per una consolidata leadership
che non ha nulla dell'inconsistenza superficiale ed effimera né del latente terzomondismo delle altre città di spicco in
Giappone: Tokyo fa ed esibisce meno di quanto potrebbe. (L.Sacchi). La città oggi non solo è esportata Oltre i confini in cui
è maturata, ma sovverte le facilonerie dell'ordine mondiale. Alla straordinaria ricettività nipponica nei confronti di modelli
alloctoni è andata affiancandosi, a partire dagli anni 70 e con un incremento nell'ultimo decennio del secolo scorso, una
disseminazione di verso opposto capace di: indurre sull'altra sponda del Pacifico rinnovati timori di un pericolo giallo, in
Giappone un riaccostamento ai vicini asiatici, e da parte di questi un interesse verso questo paese, inteso come
anticipatore di una modernità, emulatore ed antagonista al contempo dell'occidente. Insomma, l'odierna articolazione di
culture e società dell'Asia orientale e sud-orientale all'interno di un discorso capitalista, al quale il Giappone e Tokyo in
primis erano arrivati oltre un secolo fa, sta creando uno spazio dove specifici elementi della cultura giapponese e in
particolare l'immaginario che Tokyo attiva trovano un pubblico ed un mercato vasti e insperati. Il ribaltamento nei giudizi
sulla città espressi dai vari visitatori è eloquente. È oggettivo che Tokyo è stata frequentemente associata al termine
“caos”, tuttavia Significativo è che la tesi del caos di Tokyo sia stata connotata in opposti termini negativi o positivi da due
successive generazioni di viaggiatori, e senza che il dato urbanistico di fondo cambiasse. A rappresentare la prima,
l’autore chiama tre illustri nomi italiani : Fosco Maraini, Cesare Brandi, Alberto Arbasino. Il primo Si chiedeva come fosse
possibile che in un paese di stupende bellezze naturali e che ha il culto dell'arte in ogni forma le città potessero essere
tanto squallide e laide. Egli sosteneva inoltre che i giapponesi avessero un involontario compiacimento di sciatteria nel
costruire le città. Il secondo affermava che Tokyo era una città spaventosa, la più grande e più brutta del mondo, con
un’urbanistica caotica, quasi inesistente. Il terzo conclude definendo la megalopoli orrenda, una Los Angeles più sinistra,
dove l'assenza di un centro risulta ancora più spettrale. Tuttavia ,solo a distanza di vent'anni da una simile stroncatura, gli
architetti Denise Scott Brown e Robert Venturi ne parlano come della città più rivelatrice del loro tempo. Infatti, dalla
seconda metà degli anni 80, il giudizio sulla capitale del Giappone muta di segno, passando dalla deprecazione alla
celebrazione: quello stesso caos che urtava in precedenza diventava esempio di una desiderabile condizione urbana; non
Il coagulo degli incubi della modernità ma il flusso eletto a norma. P. Pons la elogia come città che non pretende di
conquistare il tempo, ma che implicitamente si offre come temporanea, peritura, transitoria, senza presentare nulla di
definitivo. Continua aggiungendo che essa non è né bella né laida, perché non vuole se stessa come espressione di uno
stile o di un progetto. Insomma, non il terrore ma lo stupore: è città dell'effimero sempre ricostruita, è un'immensa
metafora della fluidità generalizzata del paesaggio urbano. In questa frammentazione tutto è possibile (C. Buci-
Glucksmann). Il grigiore, in qualche modo, diventa lieve. Di Tokyo, addirittura, si iniziano a registrare la cura leggendaria
nel tessere il paesaggio , la precisione stupefacente dei dettagli urbani, la fervente visionarietà degli architetti. Il caos
veniva ora visto come indice di una logica altra, non confrontabile con quella occidentale. Tokyo diventava un universo
post-americano (F.Purini) che precede l'occidente in un futuro che ha felicemente abbandonato gli ormeggi cartesiani e le
dualità della metafisica. Era insomma successo che Tokyo e il Giappone si scoprivano post-moderni. Anzi, tali li scoprivano
in complicità autori occidentali e giapponesi. Al conferenziere Roland Barthes- che visitava l'arcipelago nel 1966- non
parve vero di rinvenire laggiù un sistema aperto di significati fluttuanti, privi di aggancio univoco con i significanti (" la
stessa incrinatura del sistema simbolico"); con questa dislocazione non geografica ma metaforica inizia L'impero dei segni.
Ed è così che il Giappone diventa l’incarnazione di una condizione che esemplifica la possibilità di rinunciare alle categorie
di pensiero occidentale, alla fondatezza del soggetto, al logo-centrismo. L'abilità di Roland Barthes è consistita nel parlare
di crisi dell'umanesimo, declino della modernità e declino dell'Occidente trattando di tutt’altre faccende, tra cui Tokyo ,
soprattutto nel capitolo intitolato 'centro-città, centro vuoto'. In questo, scrive che il centro delle città occidentali è
sempre pieno, al contrario di quanto accade a Tokyo, che presenta il paradosso prezioso di possedere un centro, ma di
averlo vuoto. In questo scenario, agli intellettuali giapponesi che negli anni 70 e 80 ingaggiavano un estenuante corpo a
corpo con la modernità volto a superarla, non parve vero che proprio da Occidente arrivassero indicazioni di una affinità,
persino di una convergenza, tra una condizione giapponese ed una condizione postmoderna. Quella di Roland Barthes era
soltanto una avvisaglia che l'eventuale fine della grande narrazione che aveva visto soccombere L'impero del Sol Levante
non lo avrebbe lasciato moribondo ai margini della storia, ma lo avrebbe consegnato al Trionfo -filosofico oltre che
economico. Ora il Giappone poteva bene smettere di arrabattarsi con la modernità, perché era stato riconosciuto da
sempre naturalmente postmoderno. Insomma, la modernità stessa non era stata che una parentesi ed il Giappone
appariva ora come l'incarnazione paradigmatica e il precursore di ciò che l'umanità avrebbe scoperto al di là dell'utopia
moderna. Se le visite in Giappone di Jacques Derrida e Jean Baudrillard ('84 e '95) si trasformarono in tournée di 2 stelle
contese tra aule Magne e studi televisivi; un simile destino investì il 26enne Asada Akira , autore di una sintesi della
filosofia continentale francese che, in poche settimane, vendette 80 milioni di copie, e passò alla storia come "A A
gensho" il fenomeno "AA". È in questa congiuntura che il discorso su Tokyo da un lato si amplia alla passata Edo e
neutralizza la cesura moderna insita nel cambio di nome, mentre dall'altro assume i tratti di una glorificazione.
L’ERRANZA E L’ITINERARIO: La situazione non rimase lineare: ci voleva forse più di un contropiede per sovvertire il
paradigma moderno. Il problema, insomma, è che se il disordine può dar soddisfazione all'intellettuale e all'esteta, non ne
dà necessariamente al cittadino comune, perché ciò che a questo serve è la pratica.
A Tokyo, infatti, il viaggiatore resta sconcertato nel vedere che nella capitale giapponese l’àncora toponomastica è
declinata in modi diversi dalle maggiori Metropoli europee, cosa che rende facile perdersi ed ancora più,
paradossalmente, ritrovarsi o trovare il luogo al quale si era diretti. Si vedrà poi che impadronirsi dei criteri di
orientamento equivale ad accumulare una formidabile conoscenza della metropoli. Urru sostiene che Roland Barthes
annotava con semiotico compiacimento che le vie della città non hanno un nome, affermazione di per sé imprecisa, ma
accettabile, perché effettivamente solo una percentuale infinitesima dello Straordinario numero complessivo di strade ha
un nome. Ad avere un nome sono però le unità amministrative: non aste stradali, ma lembi di territorio, cioè superfici.
Nel 1878 la nuova capitale fu Infatti suddivisa in 15 municipi. Nel 1932, al culmine di una serie di riforme, si aggiunsero
Altri 20 municipi. Dopo la guerra, un’ulteriore revisione ridusse il numero da 35 a 23. Inoltre, ciascun Municipio veniva
suddiviso in quartieri individuati da singoli toponimi all'interno dei quali iniziava l'assegnazione dei numeri civici per
isolati, quindi per lotti ed abitazioni. Anche la suddivisione in quartieri subì successivi processi semplificatori; il metodo più
seguito fu quello di accorpare i quartieri più piccoli al fine di ridurre la ridondanza delle numerazioni civiche. Gli abitanti
seguirono il processo con un favore controverso. Ad esempio, nel municipio di Taito, la scomparsa dei toponimi Yoshiwara
e San'ya fu accolta quasi con generale sollievo. Al contrario, nel municipio di Bunkyo i residenti intrapresero un’azione
legale in piena regola per impedire la scomparsa di Yayoi, considerata un affronto alla storia dopo che il toponimo era
passato ad indicare un'intera epoca (III Sec a.C.- III Sec d.C.) per il ritrovamento in loco di stoviglie di terracotta. Le cose, in
effetti, sono ancora più complicate dalla varietà degli usi comunque invalsi nelle diverse aree della città, nonché dal rifiuto
delle compagnie ferroviarie di adeguare il nome delle stazioni ai capricci della toponomastica. A discapito di ciò, Roland
Barthes affermava con convinzione che affinché ci fosse padronanza del reale era sufficiente che ci fosse un sistema,
anche se apparentemente illogico.
Il secondo grande combattimento che deve affrontare Il forestiero a Tokyo riguarda la numerazione. Qui la progressione
dei numeri civici non segue l'asta viaria ma si distribuisce sulla superficie in modo apparentemente caotico.
L'assegnazione del numero aveva inizialmente a che fare con l'ordine cronologico con cui gli edifici furono costruiti.
Somme, correzioni, accumuli sono l'ordinaria cronaca di ogni metropoli, una sedimentazione mai conclusa, una catena di
approssimazioni agli usi ben prima che agli ideali dell'urbanistica. A questa panoramica si aggiungono una serie di eventi
traumatici che hanno trasformato la città: dagli infiniti incendi ai terremoti, ai bombardamenti alleati del 45 , che hanno
distrutto degli edifici. Oggi si è al punto che effettivamente esiste una qualche probabilità di trovare civici consecutivi sul
lembi di territorio adiacenti, sebbene resti poco chiaro dove la serie inizi e dove finisca. Sebbene Oggi si riesca a trovare
un indirizzo senza ricorrere al vigile urbano, la stratificazione di toponimi e numeri è tale che, come la stregoneria presso
gli Azande, solo una conoscenza maturata all'interno attraverso la personale esperienza garantisce le pretese di coerenza
dell'insieme. I Tokugawa, a partire dal XVII secolo, svilupparono la produzione di mappe a livello di pratica sistematica e
rituale, ed ancora oggi rituale e sistematico è l’uso che ne fa l'abitante di Tokyo. In Giappone la capacità di leggere le
mappe è fondamentale : come la conoscenza degli ideogrammi, saper leggere una mappa fa parte del capitale culturale
indispensabile del residente urbano. A Tokyo le mappe vengono esposte in pubblico: i luoghi privilegiati sono le stazioni,
dove le mappe stanno appese in bella vista come numi tutelari del flusso pendolare. Inoltre, le mappe sono pubbliche
perché pubblicate: in fascicoli allegati alle riviste, oppure in calce a singoli articoli accanto all'indirizzo e al recapito
telefonico e con l'indicazione della stazione più vicina. Per strada, alla richiesta di informazioni, la più apprezzata forma di
cortesia consiste nel tracciare uno schizzo atto ad orientare a destinazione: Roland Barthes ricorda che gli abitanti del
posto eccellono in questi disegni improvvisati ("l'arte del gesto grafico: ha sempre un certo sapore vedere qualcuno
scrivere, a maggior ragione disegnare"). Le mappe sono più che uno strumento pratico , ed è sempre consuetudine
tenerne nella borsetta. Questo risparmia l'imbarazzo di chiedere la strada, e l’esposizione all’altro nel comunicare la
propria destinazione. In sintesi, nel mezzo di una capitale che cambia, le mappe offrono l’appiglio di una idealizzata
stabilità capace di sopravvivere al tempo. Roland Barthes sottolinea anche che questa città non può essere conosciuta che
grazie ad un'attività di tipo etnografico; suggerisce quindi di girarla a piedi per conoscerla a fondo. Per essere buona da
pensare, dunque, Tokyo va percorsa, preferibilmente a piedi o in bicicletta: un viaggio in prima persona, occhi aperti e
taccuino alla mano. Della stessa opinione è anche il direttore del laboratorio di eco-design locale, Jinnai. Insomma,
muovere le gambe mette in moto il cervello e ogni passo compiuto avvicina ad un ordine, per quanto provvisorio,
trasformando l'erranza in itinerario. In conclusione, la spaesante pluralità dei luoghi di Tokyo mostra quanto siano
complesse e contraddittorie le forze che vi agiscono e ambigue le lusinghe della società capitalistica avanzata. Se davvero
serve qualcosa per orientarsi a Tokyo, si tratta di un approccio che garantisca esattezza idiografica, etnograficamente
fondata.

11) RIO DE JANEIRO: La centralità dei margini, MALIGHETTI E LAZZARINO. MALIGHETTI: presenta il lavoro collaborativo in
questione affermando di aver svolto una ricerca sull’impatto di alcuni progetti di cooperazione internazionale in una favela di Rio de
Janeiro con la collaborazione della dottoranda in scienze antropologiche Lazzarino, che ha fruito alcune restituzioni testuali
dell’esperienza. Prosegue poi con un discorso metodologico, in cui sostiene che la dialogicità, fattore fondamentale nelle etnografie,
possa essere pensata in termini complessi, includendo le interrelazioni dell’antropologo coi lettori: benché la ricerca sul campo sia
interazione tra prime e seconde persone, gli antropologi devono ricordare di scrivere in funzione delle terze persone che li leggeranno.
Prosegue aggiungendo che si può pensare l’etnografia come meta-narrazione, o “narrazione di secondo ordine” che possiede un certo
grado di indipendenza dal lavoro sul campo su cui si basa. Il lavoro etnografico stacca il ricercatore, oltre che dalle situazioni di
interlocuzione con i suoi informatori sul campo, anche dal processo di scrittura. LAZZARINO: pur non aspirando all’impossibile morte
dell’autore, la Lazzarino dichiara che l’intento è quello di esibire l’ingombrante incidenza di questo come “soggetto vivo”, inserito nei suoi
ambiti, tempo, ruoli e posizioni. MALIGHETTI: prosegue sostenendo che l’osservazione della partecipazione richiede di prendere in
esame tutto quell’insieme complesso di sentimenti , qualità ed occasioni che fondano la specificità del metodo di lavoro antropologico. La
negoziazione sul campo è influenzata dalla storia personale del ricercatore, dalla sua personalità e dal suo orientamento teorico, dal suo
ruolo istituzionale, dal suo coinvolgimento emotivo, politico ed ideologico e dalle differenti circostanze che incontra. LAZZARINO:
Ricorda che il soggiorno a Rio non è stato finalizzato allo svolgimento di una ricerca scientifica o alla produzione di testi per la stampa.
MALIGHETTI: Conferma ricordando di esservisi recato nel 2003 con l’incarico di valutare, per conto di una ONG italiana, l’impatto di
alcuni progetti di cooperazione internazionale realizzati dalla controparte locale, il CCAP, Centro di Cooperazione ed Attività Popolari,
organizzazione di favelados che svolge la maggior parte della sua attività nell’insieme delle 13 comunità che compongono la favela di
Manguinhos. Quanto prodotto di scritto in questa esperienza è stato largamente determinato dalle richieste della committenza. La
resistenza a proseguire il lavoro è legata alla problematicità del pensare una simile realtà di violenza razionalizzandola, superando il
piano emotivo e traducendo la violenza in una narrazione coerente. Il tema della violenza, infatti, richiede la valutazione di complesse
questioni teorico-epistemologiche. Citando la Scheper-Hughes, secondo cui la sfida ironica dell’antropologia è cercare un senso in un
mondo assurdo, l’antropologo rimarca la paradossalità di cercare un metalinguaggio adatto a parlare degli orrori e ad emanciparsi da
spiegazioni teoriche e discorsi normalizzanti, che collidono con quelli del terrore che di essi si alimenta. Si rimane così prigionieri
dell’opacità epistemica (Taussing) soprattutto se ci si spinge anche a raccogliere memorie di violenza, essendone stati anche vittime.
LAZZARINO: Citando Beneduce: “la violenza assedia e soffoca il ricercatore con l’esuberanza dei suoi significati e delle sue immagini,
appannando le fini lenti strutturali o ermeneutiche di volta in volta inforcate, e mettendo a nudo gli oggetti fino a smembrarli”. Prosegue
notando che una delle proprietà della violenza sembra essere quella di rendere porosi i confini , di confondere e contaminare luoghi e
soggetti, (..) appartenenze, territori, istituzioni, secondo logiche non univoche. In questo contesto l’impulso può essere quello di sottrarsi a
qualcosa da cui non si riesce a prendere una semplice distanza. MALIGHETTI: Sempre parlando di approcci, si arriva a trattare la svolta
interpretativa e riflessiva degli anni Ottanta, madre di approcci che tuttavia hanno mostrato come la violenza sia impermeabile
all’ottimismo cognitivo e resistente agli sforzi di tradurre e rendere familiare l’estraneo e allo stesso tempo preservare e comunicare tale
estraneità (Geertz). Risulta estremamente complicato sottrarsi al rischio romantico di estetizzare ed erotizzare violenza ed orrore (stesso
timore nutrito da Bourdieu), o di ridurli ai loro effetti pornografici e voyeuristici. Il problema risiede nel fatto che la violenza sfugge alla
sua comprensione, sia attraverso l’assuefazione ( da qui la “malattia infantile dell’antropologismo”, ovvero la tendenza a normalizzare
l’esperienza), sia per il suo imporsi in termini tanto esagerati da impedire la riflessione razionalizzata ex post. LAZZARINO: illustra il
tentativo applicato per superare queste problematiche, ovvero quello di prendere la violenza come linguaggio, o dispositivo, per rendere
pensabile ed agibile il contesto di interazione dei soggetti (tra cui l’antropologo). Ponendo l’etnografia della violenza come etnografia-
limite, la si può intendere in senso kantiano come separazione tra conoscibile ed inconoscibile. MALIGHETTI: La violenza come
esperienza del limite, aggiunge l’antropologo, questiona direttamente la legittimità del lavoro etnografico, oltre che le forme di scrittura
adeguate a tale descrizione. Parlando del proprio contributo, Malighetti lo definisce “pratico” e fondato necessariamente sul linguaggio
teorico specifico della disciplina. Tale “know-how” è stato illustrato come concentrato all’elaborazione di strumenti analitici miranti al
raggiungimento di una comprensione differente rispetto all’immediato intendimento degli attori sociali e fondata su questa eterotopia. La
praxis si basa sul “punto di vista del nativo” ma non si può ridurre ad esso. La qualità del contributo antropologico in materia consiste in
una comprensione che traduca il linguaggio privato dei nativi nel linguaggio pubblico e specializzato della scienza. Parafrasando
Wittgenstein si può affermare che l’importante è considerare non l’agire in astratto, ma l’agire “come”, in modo da non sopprimere la
rilevanza del farlo “come” antropologo. LAZZARINO: ricorda che Malighetti ha sostenuto di non attribuire specificità epistemologica
all’antropologia urbana in quanto branca disciplinare dotata di una strumentazione teorico-metodologica ad hoc, sebbene l’esperienza
pre-riflessiva del professore stesso sembri mettere in luce alcune specifiche caratteristiche tipiche del lavoro antropologico in contesto
metropolitano. La dottoranda sostiene dal canto suo che fare ricerca in città implichi necessariamente il confronto con l’artificialità della
delimitazione del campo, e che il contesto inviti a tracciare, in modo quasi evidente, un parallelismo osmotico (quasi indistinguibilità) tra
il luogo del campo e quello del soggetto investigante. Tutte le variabili riscontrabili sarebbero caratteristiche concorrenti a dar forma
all’eclettismo metodologico in ambito urbano. MALIGHETTI: Afferma di non attribuire specificità generica alla città. Sostiene che quello
etnografico sia un lavoro in primis un lavoro sui processi di modellizzazione per comprendere le realtà: da questa prospettiva diventano
più interessanti gli “ob-jectum” (ob-jecta) in quanto prodotti di processi di oggettivazione. In un’otica di superamento delle dicotomie del
discorso della modernità, prosegue, si può parlare dello studio della città come capitolo fondamentale di un’antropologia critica della
modernità, tradizione che ha definito l’apparato scientifico disciplinare in modo univoco e totalizzante. Successivamente l’antropologia ha
trasformato la stessa modernità in oggetto di scienza. L’antropologo afferma dunque di condividere la definizione di Klcukhon ripresa da
Remotti secondo cui l’antropologia sarebbe “il giro più lungo e contemporaneamente la via più breve per tornare a casa”. LAZZARINO:
Prosegue sottolineando che a Rio, dove favela, struttura del narcotraffico, azione del CCAP e ricercatore si danno come luoghi/soggetti
(termini co-appartenenti e processualmente dinamici) che si compenetrano, la soggettività dell’antropologo è crocevia mobile attraverso
cui si legge il senso dell’investigazione, è luogo poroso e processuale. Le pratiche dello studioso tracciano un tragitto topografico e
semantico insieme, che, incrociando altre pratiche, attori sociali, circuiti e discorsi, li rende visibili e ne disinnesca il silenzio.
MALIGHETTI: Specifica a questo punto che la nozione di “campo”, nella sua valenza polisemica, non denota un contenitore neutrale, ma il
luogo simbolico di costruzione di senso, ovvero ciò che determina le caratteristiche specifiche di un’esperienza condivisa. Citando Tassan,
Malighetti afferma che il movimento conoscitivo nello spazio, che Ingold chiama “ambulatory knowing” o “knowledge ambulating”,
assume valore metodologico produttivo di luoghi pratici e soggettivamente esperiti. LAZZARINO: Conferma dichiarando che l’
“enunciazione pedonale” – come atto locutorio e spaziale insieme - assume una dignità metodologica pari a quella che il racconto
personale possiede nella scrittura etnografica. Questo, secondo Pratt, “media la contraddizione interna alla disciplina tra autorità
personale ed autorità scientifica”. Camminare, insomma, crea discontinuità e indicando un’appropriazione presente di tipo conoscitivo-
esperienziale dello spazio attraverso un io ha altresì come funzione quella di porre l’altro davanti a questo “io” e di creare così
un’articolazione congiuntiva e disgiuntiva di luoghi. Il racconto personale e l’arte euristica del “flâneur” si collocano nel limite creativo di
de-organizzazione e de-soggettivazione: si tratta dell’attraversamento transliminale ermeneutico dell’atto conoscitivo. MALIGHETTI:
Sostiene che la complicità ontologica che lega interprete e cosa interpretata può comprendere anche l’ordine spaziale. La marginalità-
estraneità dell’antropologo è in verità lo spazio liminale dove il processo di formazione della conoscenza sociale si compie. Sul campo
antropologo e informatore partecipano ad una working fiction in cui condividono il mondo dei significati; in un certo senso è come se la
situazione del campo perdesse la sua connotazione scientifica di laboratorio di produzione della vita per diventare inevitabilmente ironica.

1-ECCEZIONE E TERRITORIO; MALIGHETTI: Entra nel vivo della trattazione ricordando quanto la favela sia oggetto di
stereotipi egemonici. Sostiene poi che la combinazione di restrizioni materiali essenziali, politiche pubbliche speciali,
criminalizzazione del territorio, demonizzazione di povertà e violenza esercitata dalle forze armate rappresenti un
dispositivo di confinamento ed apartheidizzazione delle favelas come territori di eccezione.
LAZZARINO: prosegue sottolineando la costruzione della favela come “Isolato Etnico”, ovvero dispositivo di confinamento
strategico della violenza e della riduzione della realtà esistente a criminalizzazione indiscriminata da circoscrivere e
contenere. La violenza di tali stereotipi non può che fungere a sua volta da dispositivo di confinamento destoricizzato e
depoliticizzato. Come per i campi profughi, le favelas sembrano condannate ad un’ossimorica provvisorietà permanente.
MALIGHETTI: rimarca l’aspetto costante e caratterizzante dei conflitti tra gruppi di narcotrafficanti (perché controllare il
territorio è fondamentale ai fini del profitto) e tra questi e le forze dell’ordine. Ad esempio, al tempo della ricerca, l’unico
ingresso a Manguinhos era sotto il controllo delle “macchine da guerra”, attraverso una pesante colonna di metallo da
sollevare e ricollocare in modo da impedire il libero flusso.
LAZZARINO: Sostiene che lo stato di guerra quotidiana strutturi l’ordinario intorno alla pratica ed alla prospettiva della
violenza e della violazione. Il terrore, insomma, oscura i confini tra gli spazi, e i tempi di guerra da quelli di pace.
MALIGHETTI: conferma sostenendo che il potere governativo della violenza si radichi nella vita sociale e nelle istituzioni in
termini microfisici ed invisibili. Infatti, la violenza indiscriminata omologa polizia e narcotraffico, paradossalmente. La
corruzione è largamente diffusa, e riguarda compravendita di armi, scambio di prigionieri e cadaveri, suddivisione del
profitto del narcotraffico e di altri beni del patrimonio pubblico e privato.
LAZZARINO: Afferma che, d’altra parte, l’interventismo militare del potere pubblico è capace di soddisfare una società
ansiosa di punizioni esemplari: davanti alla spettacolarizzazione della violenza prevalgono infatti condanna e scandalo, con
un effetto di depoliticizzazione immediata. In ciò, la favela si trova ad oscillare tra eccezionalità rappresentazionali interne
ed esterne, nel paradosso della quotidianità.
MALIGHETTI: Ritiene che l’apparato extra ordinem delle leggi speciali nel confronti delle favelas produca una sovranità
definibile come potere di sospendere legalmente la validità della legger ed i fondamenti giuridici, esercitando un dominio
arbitrario, senza alcuna mediazione. L’inversione del rapporto tra regola ed emergenza diventa standard, introducendo
l’effetto perverso della continuità dell’emergenza. I dispositivi emergenziali permettono allora di trasformare problemi
sociali in questioni tecniche legittimate, giustificando quindi le norme arbitrarie totalizzanti, a discapito di ogni altra
modalità di intervento. È così che si estende quella che Agamben chiama “zona grigia di operazioni militari giustificate come
operazioni umanitarie che sottraggono autonomia e libertà agli attori civili”. La dimensione biopolitica sottolinea le
drammatiche condizioni giuridico-politiche dei rapporti Stato-individui, e così, in nome di sicurezza e diritti umani, i cittadini
sono trasformati in soli corpi, in nuda vita. E – prosegue Malighetti- come ha mostrato Agamben, la tecnica di governo della
relazione di eccezione è un dispositivo che comprende ciò che lo eccede, creando e definendo lo spazio entro cui
l’ordinamento assume valore. La struttura topologica caratteristica fonda lo statuto della favela nell’essere preso fuori, e
dunque- paradossalmente - include attraverso l’esclusione stessa.
LAZZARINO: Ricorda l’utilità molteplice assunta dal paradigma dentro/fuori, nel momento in cui è lo Stato stesso a
compiere lo sforzo di marginalizzare e rinchiudere. È proprio in questo contesto che il narcotraffico, con ripetuti gesti
brutali di territorializzazione, finisce per manifestare la propria forza violenta servendosi di categorie identitarie.
MALIGHETTI: Prosegue aggiungendo che le azioni dello Stato accolgono preoccupazioni di una parte della dalla società
brasiliana circa il posto che l’altra dovrebbe ricoprire. Ne risulta un’inversione del nesso di vittimizzazione: sono quindi le
classi dominanti che arrivano a chiedere la tutela degli interventi violenti da parte del potere pubblico. D’altro canto, va
detto anche che i narcos ricorrono deliberatamente a forme di violenza esplicita per acquisire forte grado di agency nella
gestione del potere che si realizza tramite terrore e che esprime, in termini focaultiani, una sovranità fondata sul biopotere
di decidere di vita e morte altrui. La violenza spettacolare è usata per riprodurre l’ “adesione totale” (Appadurai), che
Gourevitch ha descritto, a proposito del genocidio di Ruanda, come “pratica di costituzione della comunità”, ovvero una
tecnica per “immaginare una comunità”. Ciò che fa il narcotraffico per esprimere il suo potere totalizzante è usare l’identità
come tecnologia di dominio centralizzato per esercitare una sovranità eugenetica contro le minacce provenienti da fattori
esogeni ed endogeni. Si impone dunque, e supera quello detto Stato, ridotto a potere parallelo a cui è sottratto, tra le molte
altre cose, il monopolio della forza. Insomma, la costruzione dell’alter come minaccia comporta il sospetto verso ciò che
potrebbe sfuggire al controllo, ovvero Stato e Polizia, spie e collaborazionisti, estranei e devianti.
LAZZARINO: In questo contesto, il narcotraffico finisce per sostituirsi all’assente potere non violento pubblico.
MALIGHETTI: Conferma che la risposta quasi sempre militare da parte dei pubblici poteri e la politica del confronto armato
genere odio verso le forze dell’ordine, contribuendo a spingere i giovani verso le organizzazioni criminali. In quelli chiamati
dai Narcos “territori liberi” il traffico equivale al potere legislativo, esecutivo e giudiziario, inoltre amministra possibilità di
lavoro ed aiuti economici, garantendo anche tempo libero ed attività ricreative. È infatti oggettivo che i favelados hanno
storicamente trovato nella favela spazi di solidarietà e convivialità. Questo ordine precario che si viene a formare produce
uno stato di “sdoppiamento del soggetto sociale”, che si manifesta anche nella simultanea presenza, negli attori sociali, sia
del desiderio di abbandono delle favelas, sia di un forte adattamento alla vita comunitaria.
2 VIOLENZA = X. LAZZARINO: Introducendo il nuovo argomento, sostiene che la violenza appaia come regime di verità
produttivo, biopotere tecnico, osservando che agisce come l’ “operatore totemico” di Lévi-Strauss o “la casella vuota
dell’oggetto= x” di Deleuze. Il primo dilata il senso di appartenenza al gruppo tribale ristretto, mentre i secondo consente
alla serie di muoversi e comunicare tra loro, passandoci attraverso e circolandoci di continuo. La violenza non informa e
banalmente accomuna campi, ma nella sua ubiquità e nel suo perpetuo spostamento produce il senso in ogni serie.
MALIGHETTI: Deduce che in questi termini si possa usare la violenza per contraddire gli inefficaci tentativi di imporre un
ordinamento segregazionista e la promozione di ideologie fondate su dualismi del tipo dentro-fuori. Anche le forme di
criminalità esistenti possono considerarsi esito di antiche forme di esclusione da diritti e servizi ad opera statale.
Precarietà, povertà ed emarginazione sono logiche globali economiche e politiche comprensibili come violenza strutturale.
Lo stesso capitalismo ha costruito il suo sistema sulla frontiera fra inclusione di alcuni ed esclusione di altri nella fetta di
popolazione che può accedere alla prosperità. A Rio questo era ben evidente quando i contingenti di ex-schiavi e migranti
che arrivano (XIX-XX sec) si vedevano negata la cittadinanza. Questo esercito industriale di riserva, confinato alle parti più
alte dei morros ( colline) e nelle periferie, andava a rimpolpare il corpo di manodopera a basso costo. Le favelas, dove
queste indispensabili persone vivevano, finirono per svolgere la funzione di ghetto. L’esclusione dei diritti prodotta da
un’inclusione limitata alla forza lavoro ed alla sua precaria riproduzione biologica si è successivamente alimentata
dell’assenza dello stato sociale e del trionfo del neoliberismo.
LAZZARINO: La violenza strutturale comporta il perpetuarsi della violenza spettacolare degli scontri a fuoco e di quella
invisibile e diffusa che impregna le soggettività: questa seconda violenza è anomia, in quanto consustanziale ad una
configurazione ampia e storicamente determinata di fattori socio-economici. Ancor più efficacemente, Bourgois parla di
“sofferenza socialmente strutturata”; ma va comunque ricordato che non si può separare la violenza strutturale da quella
esplicita esercitata dagli armati, perché- come puntualizza Malighetti- le due forme non sono indipendenti. Prosegue
Lazzarino ribadendo che il soggetto/luogo favela è nel suo piccolo invaso da forze transazionali che lo mettono in relazione
sia coi legami spazio-temporali che intrattiene con le proprie condizioni di origine, sia con le arene mobili dei traffici illeciti
e leciti, nazionali o internazionali. Secondo una logica neoliberista di integrazione del mercato mondiale, la delimitazione di
territori interni corrisponde a fette di mercato globale, non a caso. In questo contesto, infatti, gli stili di vita dei paesi
industriati determinano la micro-geografia del terrore di territori lontani.
MALIGHETTI: Fa notare che in termini spaziali le favelas di Rio restano indiscutibilmente centrali: esse si collocano a ridosso
delle zone più ricche, dove le classi dirigenti occupano abitazioni-bunker sorvegliate da polizie private ed usano auto
blindate. Insomma, la violenza delle bande criminali e dello Stato invadono costantemente la città, producendo uno stato di
sofferenza etico-politica. Dagli anni ottanta in poi, quindi, le zone ricche si sono trovate sempre più esposte a questi scenari
di violenza, finendo per incarnare a pieno ciò che il geografo Marcelo Lopez chiama “fobopole”, ovvero spazio urbano che
patisce uno stress cronico a causa della violenza e della paura di questa, con conseguente senso di insicurezza.
LAZZARINO: Nota che operando un ribaltamento della “prospettiva dell’asfalto” (dove asfalto sono la città, la modernità, la
razionalità e la pacificazione come punti di vista privilegiati) ci si trova ad avere la Favela al centro della città, città che
finisce così ad essere periferia. È la violenza che elimina e ricalca le distanze, è questa che tiene assieme eccezionalità e
pervasività, movimenti opposti ma inseparabili.
MALGHETTI: Prosegue osservando che sia molti politici che gruppi criminali non hanno interesse a modificare la situazione
attuale, in quanto in favela la violenza non configura alcuna forma economica o politica contraria allo status quo, né
tantomeno aspira a farlo. Sono infatti le strategie del terrore a permettere il controllo del territorio, la gestione delle
dispute ed il mantenimento di un modello fondato sull’esclusione includente.
LAZZARINO: Conferma aggiungendo che il manifestarsi della violenza nelle azioni è come l’oggetto = x, ovvero esorbitante il
suo posto ed eccedente la struttura: attraverso la violenza la favela, il narcotraffico, il CCAP, i corpi e le soggettività vedono
sfondati i propri confini ed eccedono il proprio posto. È infatti la Favela che straripa nella città, il narcotraffico che
comprende ed eccede la favela ed entra nell’intimità dell’antropologo , invadendo la cooperazione, colludendo con la
polizia e connettendosi a scenari internazionali. Sembra dunque che ognuno si muova nella negoziazione e
nell’ambivalenza per accaparrarsi territori reali e simbolici, ampliando incessantemente lo spazio di manovra nelle aree di
confine porose ed elastiche, nella necessità di percorrere, evitare e gestire la violenza. Si tratta di un mondo in cui non
sembra esserci mai corrispondenza totale né separatezza totale, ma solo legami metaforici e metonimici che ammettono
sostituzioni e condensazioni.
MALIGHETTI: Ricorda che è importante riconoscere la centralità delle favelas –oltre che per la violenza- anche attraverso i
modelli per pensare forme di integrazione che trascendano tecniche di governamentalità statale e pratiche di
“normalizzazione del narcotraffico”. Se infatti da un lato le realtà dei favelados invitano ad analizzare la cittadinanza come
vero spazio vissuto e processo dialogico, dall’altro i laboratori di forme di umanità e di produzione culturale, tra cui CCAP,
interpellano le possibilità aperte ai punti di vista degli esclusi per costituire visioni e pratiche innovative per pensare e
realizzare economie e per formare gruppi sociali. Si cerca dunque di superare i passati fallimenti negli approcci
assistenzialistici e nelle compassionevoli azioni umanitarie, a favore di iniziative integrate e multisettoriali fondate su
potenzialità alternative delle risorse umane locali. In tutto ciò, la condizione dei favelados può essere considerata
paradigmatica: invita a considerare come le condizioni dei dannati della terra possano rappresentare modelli per
interpretare la condizione delle soggettività contemporanee delocalizzate dall’accelerazione dei meccanismi disgregatori e
dislocanti della globalizzazione. Gli statuti negativi di questi soggetti (senza terra, senza lavoro, senza cittadinanza…) si
fondano sullo scarto tra cittadinanza formale e sostanziale e si fanno necessariamente sono portatori di domande e spunti,
non solo attorno alle politiche del riconoscimento del diritto alla diversità. Per concludere, l’analisi delle favelas da un lato
evidenzia come i meccanismi dello stato di eccezione e la loro fenomenologia siano divenuti essenziali di tutti gli Stati,
mentre dall’altro suggerisce forme di cittadinanza che si sviluppino come processi costruttivi e prassi trasformative.

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