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MARC AUGE': “L'ANTROPOLOGO E IL MONDO GLOBALE”

Prefazione.
“Tradizionalmente. L'etnologo ha sempre studiato le relazioni sociali all'interno di un gruppo
ristretto, tenendo conto del loro contesto geografico, storico, storico-politico. Oggi, invece, il
contesto è planetario. Per ciò che riguarda le relazioni, anch'esse cambiano la loro natura e le loro
modalità con lo svilupparsi delle tecnologie della comunicazione, le quali ridefiniscono al tempo
stesso il contesto e le relazioni che vi si producono.” (pag. VII) Difatti, se in passato l’etnologia era
un’osservazione più localizzata, mentre l’antropologia più globale, oggi questa loro differenziazione
si è affievolita. Questo è avvenuto perché ormai ognuno di noi sembra appartenere allo stesso
mondo e, dunque, ogni osservatore, etnologo o antropologo, è parte di coloro che osserva e come
dice Augè, diventa <indigeno per se stesso>. Oggi, ogni etnologia è un'antropologia. L'antropologo
faceva intendere che ciò che egli riteneva naturale e quindi evidente, era invece culturale e
problematico. Oggi, questo suo compito lo deve svolgere a livello globale, in un mondo di cui egli
fa parte insieme a tutte le altre persone. Per questo abbiamo bisogno di una visione antropologica
critica, benché i criteri siano un po' cambiati rispetto al passato.

Prima parte: etnologia, antropologi.


1. Retrospettiva
La motivazione che spingeva gli individui a diventare antropologo negli anni Sessanta era per lo più
la politica. Il dibattito intellettuale, a quel tempo, ruotava attorno al pensiero marxista sia che vi si
aderisse o no. Esso costituiva una prima linea di demarcazione, mentre la seconda era linea di
carattere geografico-storico in quanto alcuni lavoravano in Stati colonizzati dalla Francia ed altri no,
come in America Latina o in Oceania. Qualche volta queste linee coincidevano: le popolazioni
africane dovevano subire quelle che erano le volontà delle autorità locali che a loro volta erano più
o meno sotto il dominio della vecchia potenza coloniale. Alcuni lavoravano a contatto con società
private o istituzioni di Stato con attività di assistenza, mentre altri invece lavoravano in modo
apparentemente meno legato all'attualità dell'epoca. È grazie alla struttura politico-gerarchica delle
società africane e all'ambiente intellettuale dell'epoca che l'interesse di studio era rivolto alle
strategie di potere, ai gruppi religiosi e alle evoluzioni strutturali delle popolazioni. Alcuni
“americanisti” francesi, a differenza della maggioranza, preferiva l'osservazione di gruppi isolati
che rappresentavano le antiche società primitive.
Qui si vuole sottolineare come tutti gli etnologi avevano la sensazione di partecipare ad una realtà
più ampia sia sul piano intellettuale – appoggiando o negando il pensiero marxista - che su quello
pratico che si esprime nella visione dello sviluppo economico o nella difesa delle società in via di
estinzione.
Ciò significa che tutti loro erano impegnati nei loro studi mentre l’ambiente intellettuale di cui loro
facevano parte stava iniziando a considerare le scienze sociali al pari delle scienze naturali e che,
quindi, le scienze sociali potessero rivendicare la stessa oggettività*.
Quando l'antropologo arriva in un nuovo ambiente deve preoccuparsi in primis di trovare una
spiegazione alla sua presenza. Agli occhi degli altri, egli è visto come un mistero, se non anche una
minaccia. È persino sospettato di essere un agente mandato dalle autorità coloniali, nazionali,
governative. Augé lo definisce un detective che si trova sul luogo del delitto prima che questo
avvenga. Egli aspetta che succeda qualcosa per poterlo studiare. Tuttavia, se dichiarasse
apertamente la sua occupazione, rischierebbe di compromettere la sua posizione e allora mente.
Ricorrere alla storia, ad esempio, era un modo per tranquillizzare e far leva sui ricordi dei più
anziani e saggi. Questo, permetteva anche di raccogliere informazioni sui rapporti di filiazione,
sull'unione matrimoniale, sulle classi d'età, permetteva cioè di fare etnologia. Ma innanzitutto
permetteva di conquistare un po' di fiducia dalla popolazione locale, di farsi accettare e ascoltare da
loro. Rimane comunque il rischio che l'interlocutore possa adattare le proprie risposte alle domande
che gli vengono poste, per cui è opportuno studiare minuziosamente quali procedure d'indagine
attuare. Spesso si è a contatto con gruppi che hanno interessi differenti; di conseguenza i rapporti di

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forza iniziali hanno un peso decisivo sull'indagine.
“L'antropologia fornisce uno strumento di analisi critica della società che permette, al di là di ogni
parola o pregiudizio di sorta, di cogliere meglio il funzionamento reale dei rapporti sociali. […] La
prima qualità che l'antropologo può rivendicare consiste nel grado di precisione con cui riesce a
definire l'organizzazione simbolica di un insieme sociale: è a una tale organizzazione che talvolta si
attribuisce il nome di “cultura”, ma una cultura così intesa non è mai un semplice insieme di
rappresentazioni, bensì una teoria sociale le cui diverse sfaccettature possono combinarsi e produrre
un'ideologia del potere suscettibile di subire trasformazioni ed eventuali manipolazioni.” (pag. 11).
Questa cultura è una <ideo-logica>, visto che può essere contemporaneamente una teoria della
natura, un codice civile e un manuale d’uso. Lo sguardo antropologico è critico nei confronti di ogni
cultura, per questo l’antropologo vero deve riuscire a non farsi ingannare e rimanere oggettivo. Per
questo motivo il primo compito dell’antropologo è dimostrare gradualmente ai propri interlocutori
che ciò che loro fino ad adesso hanno considerato naturale è, invece, culturale e, quindi, arbitrario.
Quello che interessa all'antropologo è di cogliere quello che accomuna le diverse culture e non tanto
ciò che le differenzia. La “teoria” sociale, infatti, non nasce dal nulla, ma dall’osservazione e dalla
speculazione intellettuale. In particolare, essa deriva dalla dimensione arbitraria del simbolico di
Strauss (crede che dal momento in cui sia nato il linguaggio, l’universo abbia un significato) e
dall’osservazione ben organizzata e consapevole della realtà. Da qui deriva il fatto che le culture,
anche se differenti tra loro, presenteranno sempre elementi che le porteranno ad accomunarsi e ad
essere paragonate. Da qui si può parlare di un’antropologia comparativa, ma anche speculativa.

*La prima esperienza come antropologo di Augé è stata nel 1965, quando osservò e studiò un
villaggio tra mare e laguna vicino a Abidjan, sulla Costa d’Avorio. Questo suo primo terreno è stato
molto rilevante, gli ha sempre impartito degli insegnamenti. In particolare, egli ha effettuato 3
osservazioni importanti: la prima riguarda la “resistenza” di quel terreno perché sono stati i suoi
interlocutori, i suoi oggetti di studio a dargli i temi per la sua ricerca e a trasformare le sue domande
in base alle loro risposte; la seconda concerne, invece, la grande importanza dei suoi predecessori,
le cui analisi gli furono molto utili per cogliere quella realtà a cui si trovava di fronte; la terza ed
ultima riguarda l’antropologia e come essa sia riuscita a rivelargli il gioco dei rapporti sociali. Nella
parte successiva del capitolo, egli approfondisce queste tre osservazioni, secondo lui, essenziali per
rispondere alla domanda sull’utilità dell’antropologia e sul suo ruolo al giorno d’oggi. All’epoca,
volendo identificare dei modi di produzione in grado di combinarsi in una formazione sociale,
credette che la teoria di Althusser si applicasse alla comunità interessata. Tuttavia, i suoi
interlocutori lo condizionarono a cambiare linguaggio e a prendere in considerazione ciò che lui
definiva “sovrastrutture”. Quello che più li appassionava era la morte e la malattia, per loro ogni
evento aveva una causa e ogni causa era sociale, umana. In questo modo, Augé racconta di essersi
ritrovato a diventare testimone di incidenti, di loro interpretazioni e accuse. Questo lo spinse,
dunque, a tentare di capire la logica dei loro ragionamenti e individuò 3 tipi di evento:
- i commenti e le accuse in seguito ad un evento disastroso
- la ricostruzione della storia tramite un’indagine post mortem
- il ricorso a un profeta guaritore con il compito di pronunciarsi sulla colpevolezza di coloro
che erano accusati
Questo dimostra come siano stati i suoi interlocutori a portarlo sul loro terreno, perché è stato lui ad
aver capito di doversi adattare. Nell’antropologia teorica, la prospettiva strutturalista si opponeva
alla tradizione britannica di Radcliffe-Brown e di Meyer Fortes, che considerava il lignaggio
(=discendenza) il centro dell’analisi sociale. Al contrario per Strauss, Leach e Needham erano i
legami di affinità ad essere essenziali ed era a seconda delle regole dell’unione matrimoniale che si
definivano i gruppi di filiazione (=rapporti di parentela). Altre differenze tra Strauss e gli etnologi
britannici riguardavano la natura delle influenze che si esercitavano attraverso i diversi tipi di
relazione così definiti.

MANCA TUTTA LA PARTE SUL MATRILIGNAGGIO CHE NON SI CAPISCE

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2. L'enigma della cultura e del primo “terreno”
La presenza dell'etnologo e cioè di una persona estranea interessata a temi riguardanti la vita e la
morte della storia collettiva, dei rapporti tra uomini e donne, della giovinezza e della vecchiaia,
genera non solo lo spirito speculativo ma anche la riflessione sulla natura e sul senso di certi aspetti
che vengono vissuti quotidianamente ma su cui si riflette poco. In questo senso, l'etnologia diventa
a volte “etnoanalisi” per entrambi i soggetti impegnati nella discussione. Ad esempio, se la
tecnologia odierna ha risolto il problema dell'infertilità con l'inseminazione artificiale o il ricorso a
madri portatrici, in Africa tutto ciò è rappresentato dalla loro immaginazione: si sconsiglia alla
donna di lavarsi di notte per evitare che uno stregone prenda il posto del feto. Sono quindi
molteplici i legami che si colgono tra logica simbolica e osservazione empirica e tra
rappresentazioni culturali e riflessione filosofica. In primo luogo, si può scorgere la natura del
ragionamento che sta alla base di certe regole o di certi divieti. In secondo luogo, si possono trovare
le spiegazioni a certi comportamenti o certi pregiudizi dominanti nella saggezza popolare. E in terzo
luogo, ci permette di ritornare alle origini empiriche della riflessione filosofica.
Hountondji aveva sempre criticato la definizione “filosofia bantu” di Temples. Secondo lui, infatti,
non esisteva alcuna “filosofia” collettiva o “etnofilosofia”, ma è sempre esistita, nel pensiero
occidentale, la tendenza di comparare l’incomparabile per poter, così, giustificare una superiorità e
recuperare delle tradizioni locali reinterpretandole. Una rappresentazione del mondo non è un tratto
filosofico, ma deriva da un gruppo di osservazioni empiriche che un osservatore esterno, etnologo o
interlocutore, mette insieme, come se facessero parte di un unico sistema; mentre nella vita corrente
queste vengono evocate solo in determinate occasioni. Questo significa che le informazioni
accumulate nel tempo restano sempre presenti in una memoria collettiva di cui alcuni, meglio di
altri, riescono a gestire.
Dunque, in una molteplicità di variabili, risulta difficile definire il concetto di “cultura”; ma vista
l'inseparabilità dalle regole sociali che essa stessa produce, può essere considerata come un insieme
di proposizioni e di rappresentazioni paragonabili ad altre. Nella parte finale del capitolo Augé poi
afferma che l’etnologo non potrà mai sorprendersi di quello che scopre o che crede di aver capito
della cultura oggetto dei suoi studi; questo perché ad ogni caratteristica di quella cultura l’etnologo
scoverà sempre l’esito di un ragionamento e potrà risalire alle domande non formulate tramite le
risposte che raccoglie dai suoi interlocutori.

3. Le tre etnologie
Vediamo ora la distinzione tra etnologia del soggiorno, etnologia del percorso ed etnologia
dell'incontro. L'etnologia del soggiorno corrisponde agli studi svolti in Africa nella regione
alladiana in Costa d'Avorio. Gli studi compiuti in Togo, nel paese Mina, hanno fatto emergere
l'utilità dell'etnologia del percorso in quanto essa permette il confronto e l'approfondimento delle
varie dimensioni in cui tutte le società ordinano il mondo. In altre parole, essa estende l'etnologia
all'antropologia. Anche se le diverse culture si assomigliano nelle domande che vi vengono poste,
esse differiscono nelle risposte. Spesso le domande riguardano i rapporti tra spazio e identità, tra
identità e alterità, tra tempo e identità, tra vita e morte, e anche la questione del potere. Augé parla
poi di una svolta delle sue attività di ricerca negli anni Ottanta con l'etnologia dell'incontro che
corrisponde ad un'attenta osservazione delle componenti antropologiche dei fenomeni sociali
incontrati nel corso dell'esistenza, senza che questo incontro sia stato necessariamente voluto e/o
programmato. È un tipo di osservazione ispirata al metodo, al tema e all'oggetto teorico
dell'antropologia ma che supera i vincoli dell'antropologia del soggiorno. Parlando di etnologia
dell’incontro, Augé riporta i titoli di due suoi libri: I giardini del Lussemburgo e Un etnologo nel
metrò. Il primo non si tratta di un esercizio etnologico, ma riflette sulla soggettività di un etnologo
che durante una giornata particolare medita sul tempo, il passato, la malattia e la felicità. Questo
libro dimostra come l’oggetto dell’etnologia, la materia a cui essa si riferisce non sia “esotica” e che
l’etnologo sia una persona implicata nella sua ricerca. L’”etnologia dell’incontro” non è una vera e
propria etnologia. Infatti, quando ha scritto il suo libro Un etnologo nel metrò, Augé non ha fatto
un’etnologia del metrò, ma ha colto e osservato nella metro dei tratti, dei dettagli antropologici che

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gli hanno permesso di analizzare la sua posizione da osservatore osservato, potendo, così, compiere
un’analisi sulla soggettività di uno degli individui implicati in un fenomeno collettivo.
Successivamente, l’autore recupera il concetto di “etnoanalisi” affermando che essa non è una
disciplina e che non è vero che, basandosi sulle quattro dimensioni privilegiate dell’etnologia
(filiazione, unione, residenza e generazione), l’etnologo potrebbe arrivare ad interessarsi a singoli
individui invece che gruppi. Difatti, Augé dichiara che “l'etnologo dovrebbe avere una capacità di
ascolto che lo porta a confrontarsi con affermazioni che non ha forse tutti i mezzi intellettuali per
poter interpretare. Egli si colloca in una posizione all'incrocio tra la simbolica sociale e
l'immaginario individuale. Deve saperlo, tenerne conto e sapersi fermare davanti a ciò che si delinea
o si profila all'orizzonte della sua indagine: questa non può veramente compiersi se egli non giunge
a delimitarne le zone vuote, le linee di fuga e le tracce della sua incompiutezza.” (pag. 19)
Si possono fare alcune osservazioni al riguardo. La prima fa riferimento al fatto che oggi assistiamo
ad ogni tipo di esibizione di sé grazie allo sviluppo della tecnologia, portando così alla formazione
di un nuovo tipo di relazione attraverso lo schermo, che complica il rapporto con sé e gli altri che
stanno dall'altra parte. La seconda osservazione è che delle vere e proprie indagini antropologiche
non possono basarsi solo sul web. La terza osservazione riguarda la necessità di vigilare affinché gli
studi che dipendono dall'etnologia del soggiorno non siano confusi con quelli dell'etnologia
dell'incontro. Quest’ultima può, senza dubbio, formulare delle ipotesi ma soltanto la presenza sul
campo potrà convalidarle o meno (etnologia del soggiorno e del percorso). Se venissero a mancare
queste condizioni non si tratterebbe di antropologia ma di indagini documentarie o giornalistiche. In
seguito, Augé recupera anche il concetto di “etnofinzione”, una finzione che viene costruita intorno
a questioni etnologiche o antropologiche che sottolinea la portata generale dei fatti banali della vita
quotidiana nel mondo attuale.
“L'importanza della scrittura per l'antropologo si misura nel rapporto coi lettori (gli “altri” a cui egli
si rivolge) e nell'attenzione che egli mostra condividendo con loro la scoperta degli altri “altri”
(quelli di cui parla). Non può accontentarsi di un quasi-monologo perché finirebbe per parlare solo a
se stesso: o egli è consapevole di partecipare alla costruzione progressiva di un sapere e di
contribuire aggiungendo la propria pietra all'edificio che si erige lentamente senza altra
giustificazione al di fuori di tale sapere (e in questo caso è tenuto a spiegare il più chiaramente
possibile l'insieme dei suoi dati, soprattutto se formula ipotesi antropologiche di carattere più
generale), oppure intende condividere la propria esperienza con un pubblico non specialistico, e
allora lo scopo della sua scrittura è quello specifico di ogni progetto letterario. Talvolta si dice che è
proprio per obbedire a questo doppio impegno che certi etnologi scrivono sempre due libri: uno più
tecnico, l'altro più personale e “letterario”.” (pag. 20)
Quando un etnologo giunge sul campo, esercita una vita caratterizzata da una particolare forma di
solitudine, perché si trova ad essere distante dalla propria casa, ma allo stesso tempo non può
neanche considerare di essere in quella degli altri. Inoltre, egli deve tenere conto dei manuali che
costituiscono in un certo senso la base delle sue indagini, i manuali di etnologia classica, e che gli
suggeriscono di praticare contemporaneamente l'osservazione partecipante e l'osservazione
distaccata. Da qui concerne l'ipotesi secondo cui l'etnoanalisi saprebbe un'autoanalisi che si compie
mediante la scrittura. Ma allo stesso tempo non si può ridurre l'etnologia alla scrittura. La difficoltà
dell'etnologo, che allo stesso tempo è anche la sua risorsa, riguarda il fatto che egli ha di fronte una
realtà che gli resiste e che è anche l'oggetto dei suoi studi.

4. Incontri dell'etnologo
Per trattare dell’utilità dell’antropologo, Augé recupera “l’etnologia dell’incontro”. Per “incontri
dell'antropologo” e “incontro dell'antropologo” si intendono due esperienze complementari e
simmetriche, ma al tempo stesso distinte e contrapposte. Durante la sua esistenza, l'antropologo fa
diversi incontri, e molti di questi arricchiscono il suo bagaglio di conoscenze e la sua riflessione, in
quanto essi rappresentano l'occasione per scoprire delle varianti o delle variazioni di osservazioni
eseguite altrove e in un'altra epoca. Ma quello che è più rilevante è l’incontro con l’antropologo da
parte di coloro presso cui si è recato. A tal proposito, Augé riporta l’incontro che ha avuto con sue

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due colleghe etnologhe e i rispettivi interlocutori. Questi ultimi, sia in Brasile che in Venezuela,
erano molto contenti di avere al loro fianco una figura come l’etnologo, che permetteva loro di
sentirsi capiti nel momento in cui confidavano i loro dubbi e le loro paure. In particolare, in
Venezuela, dove lavorava Gemma Orobitg, la parte più anziana tra i pumé (popolo indiano che è
stato spinto sempre di più dentro la savana da parte degli allevatori criollos, che man mano
occupavano i loro territori) credeva che ormai gli dei non ascoltassero più i canti dei loro sciamani
durante il rito notturno. Al contrario i giovani, che erano più impegnati politicamente, non davano
molta importanza a questi riti, ma cercavano di migliorare la situazione agendo. Sia gli anziani che i
giovani, però, apprezzavano la figura dell’etnologo, unico mediatore in grado di ascoltarli insieme e
separatamente. Anche in Brasile, dove lavorava Véronique Boyer, Augé ritrova questa complicità
nell’esperienza di alcune donne che vivevano una vita molto complessa: erano spesso sole con i
propri figli (il marito o il compagno era scomparso). Tuttavia, avevano trovato conforto nel culto
dell’Umbanda (religione brasiliana secondo cui i vecchi spiriti neri, tramite la loro saggezza e
pazienza, permettono all’uomo di migliorarsi e di evolvere), che dava loro la possibilità di offrire
una sorta di solidarietà femminile.
Dunque, generalmente, l'etnologo aveva un ruolo di mediatore o di intermediario tra i vari gruppi di
una popolazione. Ma è ancora così anche oggi in un mondo globalizzato? Invece, quello che può
fare un antropologo è di proporre una propria versione delle situazioni per aiutare a capirle in tutti i
loro aspetti e in tutte le loro dimensioni, in particolare rispetto ai criteri di riferimento che sono la
filiazione (e, in generale, l'iscrizione nel tempo), l'unione (e, in generale, l'iscrizione nel corpo
sociale), la generazione (e, in generale, la solidarietà legata all'età) e infine la residenza (e, in
generale, l'iscrizione nello spazio).
L'attenzione poi si è spostata dall’incontro con i gruppi delle popolazioni a quelli che oggi vengono
chiamati “nonluoghi” della “sovramodernità”, ovvero l’incontro con gli spazi della circolazione, del
consumo e della comunicazione. L'incessante crescita di questi spazi, l'individualizzazione dei
percorsi, le famiglie monoparentali sempre più numerose, la crisi degli alloggi, e molto altro, sono
esempi delle condizioni odierne, che hanno generato nuove forme di solitudine. Siamo di fronte alla
messa in discussione di tutto ciò che fino a ieri sembrava certo. L'antropologia tende a trattare dei
parametri che permettono di cogliere o misurare tali cambiamenti: è un corpus di dati e analisi che
offre gli strumenti adeguati per una riflessione critica sulle società in generale, è quindi una
disciplina umanista a metà tra storia e filosofia. L'antropologo orienta la propria indagine sullo
studio delle relazioni sociali all'interno di un gruppo, nel suo contesto geografico, storico, culturale,
politico ed economico. Oggi, con la diffusione dei media, il contesto di indagine è diventato
planetario. Questo complica ulteriormente l'osservazione perché i media hanno creato nuove e
molteplici forme di relazione, rendendo, così relativa la distinzione tra le relazioni sociali e il
contesto.
Ma l'antropologia ha anche una funzione pedagogica in quanto depositaria di un'esperienza storica
che varia nello spazio e nel tempo. Quindi, Augé afferma che l’idea di questo libro è proporre al
lettore un insieme di riflessioni a partire da un’osservazione che chiunque può fare oggi: la
modificazione delle nostre percezioni dello spazio e del tempo dovute allo sviluppo tecnologico che
influenza quotidianamente le nostre vite. Spazio e tempo assumono un ruolo importante per l’uomo:
l’organizzazione dello spazio e l’impiego del tempo definiscono e riassumono l’elemento essenziale
delle attività umane.

Parte seconda: spazio


5. dal paesaggio culturale al paesaggio sovramoderno
LE DUE MEMORIE
“La natura si presenta sotto il triplice segno dell'evidenza, del mistero e della bellezza. L'evidenza,
innanzitutto. È proprio naturale, è scontato, è evidente: l'aggettivo “naturale” è impiegato per
significare il contrario di ciò che è artificiale, alterato, complicato. La nozione di “naturale” oscilla
tra quelle di spontaneo, veritiero e semplice.” (pag. 31)
Secondo l'antropologo, l'uomo è un animale simbolico, cioè ha bisogno di pensare alla relazione

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con gli altri uomini e a ciò che si trova al di là degli uomini, la natura: in questo senso, la natura
esiste solo nei limiti del tempo umano. Tutti i gruppi umani, si sono messi ad esplorare l'ambiente
circostante, dandovi un senso, o per meglio dire un ordine. Un ordine di tipo simbolico dovuto alla
comparsa del linguaggio, che riguarda sia il mondo umano che quello non umano (diventato
un’estensione di quello umano proprio tramite questo ordine). Considerando la natura un ordine
simbolico arbitrario, non dipendente da alcun procedimento scientifico, non significa che essa sia
irrazionale, ma è coerente con l’osservazione empirica del mondo esterno. Si noti come questo
ordine trova espressione in ogni gruppo umano con le regole di filiazione, di unione matrimoniale,
di residenza, che, però, variano a seconda della cultura. È in questo senso che il carattere simbolico
trova la sua espressione nel linguaggio. In ogni cultura ogni cosa è percepita come naturale,
scontato ed evidente ma in realtà è l'attribuzione di un ordine culturale. È dalla comparsa del
linguaggio che si è cercato di attribuire un senso alla natura e l’etnologo, tra le altre cose, ha anche
il compito di far comprendere ai suoi “informatori” locali che ciò che loro considerano naturale ed
evidente, è, in realtà, arbitrario e intenzionale e, quindi, culturale. (l’etnologo, facendo
un’esperienza simile, allontanandosi dai suoi riferimenti abituali, non è un relativista, perché
riscontra il carattere universale delle culture nelle domande che le diverse culture pongono alla
natura umana e non nella natura umana stessa)
Lo spazio e il tempo (“forme a priori ella sensibilitààKant) sono l’oggetto e la materia dell’attività
simbolica. Da essi si prendono gli elementi tramite cui gli stessi tempo e spazio vengono ordinati.
È dallo spazio e dal tempo che dipende la nozione di paesaggio. Ad esempio, in Africa si distingue
lo spazio abitato (è codificato e determinato simbolicamente attraverso le norme di residenza, che
assegnano a ciascuno una propria posizione a seconda delle regole della filiazione e dell’unità
matrimoniale), lo spazio coltivato (è ripartito e utilizzato in funzione dell’ordine sociale) e lo spazio
più selvaggio della caccia o della pesca (riservato a certe professioni: cacciatore, pescatore,
specialista di piante o guaritore). Nessun luogo si sottrae alla simbolizzazione, anche se questa è più
intensa dove è maggiore la presenza dell'uomo. Ma questo ordine non consiste solo nel nominare i
luoghi o nei punti di riferimento (una statua o una semplice pietra come avviene nel paesaggio
africano), ma anche nel tracciare degli itinerari (i primi cartografi riuscirono a rappresentare
chiaramente le coste africane perché tutti i loro punti rilevanti, come villaggi e fiumi, erano stati
precedentemente nominati dagli indigeni). L'ordine sociale, quindi, definisce la nostra relazione con
la natura, in cui nominare vuol dire classificare, la solitudine assoluta è impensabile, l'identità si
definisce rispetto a un’alterità e lo stesso e l’altro sono strettamente legati e associati a spazio e
tempo. Dunque, la società fa parte della definizione stessa di uomo e lo stato di natura di Rousseau
è un riferimento da lui utilizzato per misurare i difetti della vita in società.
Un paesaggio risveglia due tipi di memoria: una collettiva, insita nella natura o nei monumenti; e
l’altra sono le infinite memorie individuali che riflettono i passaggi di tutti gli individui che hanno
avuto l'occasione di contemplarlo (alcuni si meravigliano nel scoprirlo o nel ritrovarlo; altri, invece,
sono in grado di riconoscerne le differenze e i cambiamenti perché è dove hanno lavorato, dove si
sono formati, come i montanari o i marinai). “I paesaggi sono culturali, sempre abitati e trasformati
dalla presenza umana, e variano in senso duplice, ossia in funzione della loro situazione geografica
e delle società umane che li hanno modellati. Essi quindi dipendono anche, proprio come le opere
d'arte, dallo sguardo che li cattura o li sorvola, vi si sofferma o scorre su di essi. Proprio come le
opere d'arte o come accade tra esseri umani dove ciascuno può provare, nei confronti di un altro,
attrazione, repulsione o indifferenza.” (pag. 36)
L'etnologo fa un’esperienza particolare e quasi contraddittoria: quella del luogo che gli permette di
conoscere la struttura sociale, che di ciò che eccede, fonda o trasgredisce il suo ordine apparente.

LE NOTTI E I SOGNI
In molte culture del mondo, la notte non è soltanto quella porzione di tempo che succede al giorno o
lo precede, ma è anche un'altra modalità della vita diurna, capace, attraverso il sogno, di proseguirla,
interrogarla, spiegarla o modificarla. Per chiunque, il variare del giorno e della notte è
l'accompagnamento quotidiano del tempo che passa, una metafora concreta e visibile della morte e

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della nascita.
A seconda della nostra posizione sul globo, le notti possono essere più brevi o più lunghe del giorno,
e le transizioni tra il giorno e la notte e viceversa sono più marcate o assenti. Il tramonto e l'alba
sono caratteristici del paesaggio dell'Europa occidentale. Qui è la natura stessa che fornisce
l'illustrazione di alcuni momenti transitori della nostra vita come l'attesa, la speranza e il timore.
Augé fa poi una distinzione tra la notte africana (in particolare, la notte iveriana) e quella
venezuelana (la notte amerindiana). In Africa, in mezzo alla foresta, la fitta vegetazione impedisce
ogni immaginazione e avvicina le presenze maligne, come gli stregoni, che circondano i viventi,
che credono che durante la notte, questi esseri prendano vita e si intrufolino nei sogni delle persone
e nel loro mondo per cercare di portarli nella loro società. La società di tali stregoni è considerata
come il doppio o la replica della società vivente. Per questo motivo, nelle popolazioni africane si
prestava molta attenzione ai sogni che raccontavano i bambini, perché si temeva che potessero
essere reclutati dagli stregoni senza neanche saperlo. Inoltre, sconsigliavano anche alle donne
incinte di recarsi presso il bagno posto all’esterno della dimora, per paura che uno stregone o morto,
i cui riti funebri non fossero ancora stati celebrati, o che lo fossero stati, ma in modo scorretto, si
insinuasse come “doppio” nel feto. Invece, quando uno sciamano indicava l'orizzonte, in cui lui
localizzava il paese degli dei, degli antenati e dei morti, è proprio da questo orizzonte che gli dei
giungevano quando avevano voglia di far visita agli uomini.
Invece, nelle notti stellate delle pianure venezuelane, ogni due o tre sere si faceva un rito per
stabilire un contatto uditivo con gli dei, che si erano allontanati sempre più (questo allontanamento
evidenzia l’’isolamento dei pumé, fuggiti dall’espansione dei criollos). L’unico dio rimasto era Ichi
Ayi, protettore della relazione.
La sera si riunivano, c’era chi fumava sigari e chi “sniffava” una droga locale. Lo sciamano,
chiamato cantador, cantava tutta la notte, finché, verso mezzanotte, gli dei si impossessavano della
sua voce, che diventava più sonora e melodiosa, mentre lui raggiungeva il paese degli dei per
occuparsi di alcune questioni del villaggio, in particolare cercava di convincere i malati a tornare,
visto che si erano già stabiliti presso i morti. Verso l'alba, la voce del dio spariva e riappariva il
cantador, il quale riportava le notizie dal villaggio dei morti e questo costituiva una sorta di
pronostico sulla sorte dei malati del villaggio ancora in vita. Per l’etnologo questo era uno
spettacolo appassionante, perché riuniva due fenomeni solitamente divisi: il sogno e la possessione.
La notte può essere associata all’immagine della morte oppure essere culla degli incubi più oscuri,
ma può anche essere considerata promessa di rinascita, d'aurora e di nuova vita. Questo è il
paradosso della notte. Invece, nell'universo la notte non è altro che una forma di movimento che
conduce in maniera indifferente dalla vita alla morte o viceversa. Difatti, il colmo paradossale della
metafora della notte è che viene sempre utilizzata al contrario, la notte è il periodo in cui noi
vediamo chiaramente, mentre di giorno, il cielo fa solo da sfondo al paesaggio. Quindi, la notte ci
permette di allontanarci dalla quotidianità per scoprire le realtà poco conosciute dell'universo. In
questo senso, essa è un richiamo al risveglio, alla coscienza e all'avventura.
In Africa è ben visibile l'ordine simbolico: viene applicato al paesaggio, alle persone, al tempo delle
nascite e delle morti, in una visione circolare del mondo, in cui la vita rinvia alla morte, lo stesso
all’altro o ciò che è esteriore a ciò che è interiore e viceversa.
Ma lo stretto legame tra paesaggio, società e cultura non è visibile solo nelle società pagane, ma
anche in quelle cristiane; ne è un esempio il campanile di una chiesa che tende quasi a dominare,
per la sua altezza, sulle altre case.
Ma i paesaggi non sono mai puramente naturali, e la loro diversità è un fatto culturale. Inoltre, i
paesaggi sono anche ricordi di infanzia. Quindi, possiamo dire che vi è una doppia diversità dei
paesaggi, nello spazio e nel tempo. Una diversità di tipo geografico e climatico, che risulta evidente
a chiunque, ed una diversità legata alle storie individuali, che viene amplificata dai cinque sensi
dell’uomo: i suoni, i sapori, gli odori e molto altro possono distinguere un paesaggio da un altro e lo
trasformano in un insieme di emozioni e sensazioni. Al contrario, la musica, come una semplice
canzone, può rievocare un paesaggio, così come una sensazione casuale può far rinascere un ricordo
rimasto a lungo sepolto in noi stessi.

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IL PAESAGGIO URBANO
L'antropologia, quindi, lo studio delle relazioni sociali in un dato spazio e contesto, è
principalmente interessata all'evoluzione del mondo attuale, ovvero all’urbanizzazione e alla
globalizzazione. Lungo i secoli, i monumenti storici si sono accumulati nella città europea, ma tale
accumulazione è stata irregolare e complessa, visto che le costruzioni o le ricostruzioni sono sempre
state accompagnate da distruzioni. La città europea moderna si è costruita e sviluppata grazie
all'accumulazione consapevole di storie, stili e insediamenti.
Nell’Ottocento, molte città sono state riconfigurate (esempio: Parigi), ma il fenomeno di
accumulazione e coesistenza è considerato dai postromantici moderni un insieme di elementi diversi.
Per questo motivo, quando Baudelaire, nei Quadri parigini, si ritrae davanti alla finestra, intento a
scoprire la città, Parigi è raffigurata come un paesaggio in cui si mescolano comignoli di fabbriche
ai campanili delle chiese. Questo gusto per l’accumulazione lo si riscontra anche nel gusto per i
musei. L’accumulazione museale risponde, però, a un altro ordine: obbedisce al desiderio di
raccogliere nello stesso luogo le testimonianze della diversità del mondo intero, nel tempo e nello
spazio. Allo stesso modo, il modello della città europea è esportato nel mondo tramite la
colonizzazione: le città coloniale sono considerate delle sorte di repliche della città europea, ma, a
differenza di quello che accade in Europa, i loro musei restano locali.
La sovramodernità, ovvero l'accelerazione della storia, il restringimento dello spazio e la
promozione dell’individuo consumatore, corrisponde ad un'intensificazione dei processi che
costituiscono la modernità e non alla loro cancellazione. Difatti, il paesaggio sovramoderno
trasforma quello moderno, ma non è il suo contrario. Per questo vivere nella città globale significa
accettare la storia, ovvero affrontare gli eventi con una certa idea dell’avvenire e non subirli in
modo passivo. Attualmente, viviamo in un mondo del divieto e della discontinuità, in contrasto con
le impressioni del nostro sguardo, che derivano dal cinema e dalla TV. Le immagini satellitari, le
viste aeree, le autostrade, i TGV ci abituano ad una visione globale delle cose. L'estensione del
tessuto urbano avviene a livello globale e questo vuol dire moltiplicazione degli spazi di
circolazione, di consumo e di comunicazione. Questa moltiplicazione tende a modificare lo spazio
urbano e sulla visione paesaggistica dell’uomo. Quindi i “centri storici” diventano musei, luoghi di
visita per i turisti. I musei si trasformano in monumenti, che a volte suscitano più curiosità di quello
che espongono. Ciò significa che la crescita urbana si è invertita e la città sembra trasformarsi in
periferia.
Quella che oggi chiamiamo crisi ha una dimensione psicologica, affettiva, intellettuale e
paesaggistica. Infatti, la crisi è un cambiamento radicale di cui l’uomo riesce ad individuare gli
effetti, ma non a controllare le cause. La velocità con cui viaggiano i messaggi, ma anche i trasporti,
ci fanno percepire il mondo come se fosse sempre più piccolo. Ma anche le autostrade e i TGV
modificano la nostra visione del mondo e creano altri paesaggi, rompendo la magia dell’infanzia
(perché elimina quegli ostacoli che un tempo impedivano di vedere in lontananza, come muri o
alberi, compiendo percorsi sopraelevati). Il paesaggio sovramoderno riproduce nella dimensione
spaziale la crudeltà dell'esperienza temporale. La storia è infinita, ma la vita individuale è limitata.
Ciò significa che nei paesaggi più caratteristici della sovramodernità vi è una dimensione utopica e
onirica, una promessa di unità che è probabile che finisca per infrangersi sulle contraddizioni e sulle
durezze della storia, ma che siamo certi in ogni caso, che non vedremo mai realizzarsi.
Se nei nostri vecchi ricordi il pianeta ci sembrava molto grande, ora non è più così. Lo sviluppo
della tecnologia ha reso il nostro pianeta piccolo perché abbiamo la possibilità con l'aereo di
sbarcare ovunque o di compiere il giro del mondo, mentre un tempo tutto ciò non era possibile. Vi è,
quindi, una frattura tra il paesaggio, che è già planetario, la società, che non lo è ancora, le culture,
che sono divise al loro interno tra aspetti differenti e l’arte, che non sa di cosa deve rispondere, visto
che è superata dallo spazio. Tuttavia, la moltiplicazione di spazi anonimi crea una certa familiarità:
in ogni parte del mondo i supermercati, gli aeroporti, le stesse scritte e indicazioni in inglese
contribuiscono ad uniformare il pianeta. Un pianeta caratterizzato dall’accelerazione del tempo,
dall’individualizzazione dei percorsi, che sembra diventare ogni giorno sempre più piccolo.

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6. Sedentarietà e mobilità
Secondo gli stereotipi più comuni, il luogo è la forma compiuta della felicità e della realizzazione di
sé, quella della casetta che dovrebbe custodire una felicità intima e segreta e simbolizzare al
contempo il più ambizioso fra gli ideali. Il più ambizioso poiché esso è basato sulla convinzione che
la relazione con l'altro debba essere sempre radicata simbolicamente nello spazio. La ricetta della
felicità è quindi a portata di mano se si crede in sé stessi, se si rinuncia alle ambizioni superficiali e
ci si accontenta di quel poco che è però essenziale: l'amore, l'amicizia, la sobrietà. Ora, questo
ideale, per quanto possa essere limitato, non viene realizzato da molti. Le circostanze della vita
fanno spesso vacillare l'amore e l'amicizia, e la sobrietà e la sedentarietà non proteggono dalla noia
o dalla solitudine. Infatti, la società mediatica più volte si impadronisce del richiamo pubblicitario
del promuovere la felicità per vendere le proprie fiction/feuilletons o i propri prodotti finanziari.
Dunque, le immagini pubblicitarie mettono in scena una felicità prefabbricata sotto varie forme e
alla quale dovremmo tutti noi auspicare: vacanze, viaggi, cure del corpo, giovinezza eterna. Ma che
cos'è in realtà la felicità? Chi può decidere della felicità degli altri? Se gli uomini provano
soddisfazione in fenomeni come il gioco d’azzardo o gli spettacoli sportivi, dove la dimensione
finanziaria è sotto i loro occhi, non è sempre per incoscienza, ma può essere che ad alcuni di loro
desiderino di essere alienati.

LUOGO E NONLUOGO
Per luogo si intende uno spazio in cui è possibile distinguere le relazioni sociali grazie alle regole di
residenza. Al contrario, i nonluoghi sono quegli spazi, come aeroporti o supermercati, che non
permettono questa lettura e assicurano una totale libertà individuale. Tuttavia, non esiste nessun
nonluogo nel senso assoluto del termine (non vi è un luogo che presenta tale libertà, gli aeroporti e i
supermercati sono sorvegliati e ad un certo punto bisogna rilasciare le proprie generalità), anche se
oggi gli spazi di circolazione, consumo e comunicazione (che Augé definisce “nonluoghi empirici”)
si stanno sviluppando velocemente. Dunque, teoricamente il nonluogo è la dimensione assoluta
della libertà individuale, uno spazio dove non vi si trova nessuna relazione sociale, e quindi,
inesistente nella sua forma assoluta. Invece, teoricamente, il luogo è la dimensione assoluta del
senso sociale, è uno spazio in cui l'individuo è totalmente definito dalle proprie relazioni, e queste
sono tutte leggibili nello spazio in cui vive. Neanche un tale spazio esiste, e tutto ciò che vi si
avvicina, si avvicina anche al totalitarismo. Il luogo non si oppone al nonluogo come il bene si
oppone al male o il vivere bene al vivere male. Infatti, il luogo assoluto sarebbe uno spazio in cui
questo senso sociale sarebbe al suo culmine, in cui la libertà individuale è impensabile
(totalitarsimo); mentre il nonluogo assoluto sarebbe uno spazio in cui non ci sono né regole né
obblighi collettivi, uno spazio di solitudine infinita (la morte).
Negli spazi di comunicazione come Internet vengono a crearsi nuove relazioni e se l'antropologia è
lo studio delle relazioni sociali localizzate e del loro contesto, la rete, in quanto insieme di relazioni
e contesto, pone un problema particolare.
Anche se il luogo è uno spazio in cui sono leggibili le relazioni sociali, non vuol dire che questo sia
necessariamente uno spazio di felicità. Solo gli individui possono giudicare cosa sia la felicità, ma
le relazioni sociali perfette non permettono a nessun individuo di farlo. Tuttavia, un minimo di
senso sociale è essenziale per l’individuo. Essendo la modernità caratterizzata da un’emancipazione
sempre maggiore dell’individuo, l’insieme di identità e alterità permettono una piena esistenza
dell’individuo e condiziona quella che Augé definisce <la sua capacità di felicità>. La foto tende ad
immortalare un luogo, un volto, un momento felice della nostra vita. La consacrazione dell'istante di
felicità, che passa attraverso l’intuizione dell’amore è presente anche in molti romanzi del XIX
secolo, tra cui quelli di Stendhal. Essi danno vita a luoghi che sono però effimeri o di passaggio, che
comunque si iscrivono nell’immaginazione del protagonista e del lettore, rappresentando tutte le
felicità possibili.

LA FELICITA' SENZA LUOGO

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La felicità amorosa non è l'unico tipo di felicità. Vi sono anche il movimento, l'ebbrezza
dell'avventura e il contesto storico, sempre dimensioni associate a dei luoghi. In realtà, visto che gli
eroi stendhaliani considerano anche l’azione, la storia e la guerra delle promesse di felicità, si può
arrivare ad affermare che sono gli eroi stessi in cerca di felicità a fare dello spazio un luogo
d’incontro.
Gli spazi di circolazione, di consumo e di comunicazione sono ambivalenti dal punto di vista della
felicità. Da una parte si può pensare che oggi la solitudine degli individui sia minima grazie ai nuovi
mezzi tecnologici, ma dall’altra parte questi ultimi non fanno altro che illuderci. Ad esempio, la TV
ci fa credere di conoscerei i grandi di questo mondo, mentre Internet ci illude di essere in contatto
con l'intero pianeta e che tutto il sapere sia a portata di mano. Ma, in realtà, la maggioranza delle
persone non ha acceso a tale mezzo di comunicazione e chi se ne serve lo fa prevalentemente per un
uso ludico, visto che internet è in grado di insegnare solo a chi già sa. Quindi, la natura di questo
tipo di comunicazione è problematica, incerta e indefinita, in quanto esclude l'esperienza diretta.
Le relazioni stabilite tramite Internet non sono delle relazioni vere e proprie, ma piuttosto delle
promesse di relazioni. Augé le paragona ai messaggi nei piccoli annunci sul giornale, che giocano
con il tempo e cercano di credere all’incontro. Inoltre, afferma che una promessa di felicità
possibile è l’elemento di movimento romanzesco: nei romanzi cavallereschi, difatti, il cavaliere
parte pur non avendo una meta o uno scopo e senza sapere cosa stia cercando; e l’ambientazione
della foresta i cui si svolge la storia è la rappresentazione del nonluogo e di uno spazio d’attesa.
Ritornando al fatto che nel mondo attuale gli spazi di circolazione, consumo e comunicazione
stanno aumentando sempre più, l’autore dichiara che coloro che li frequentano condividono una
certa forma di anonimato relativo e provvisorio (difatti, prima o poi dovranno rilasciare le loro
generalità, come abbiamo detto prima parlando di supermercati e aeroporti- anche i cavalieri sono
obbligati a rilasciare il loro nome al momento opportuno).
La migrazione rientra nella stessa prospettiva: promette la stessa speranza illusoria. Anche se essa
non promette felicità, le persone che emigrano cercano di sfuggire all'infelicità. Il problema è che
non ha più molto senso proclamare di essere felici perché ci si trova a casa propria, dal momento
che la mondializzazione si è estesa a livello globale. Gli immigranti diventano così i veri
avventurieri del mondo perché sono continuamente alla ricerca di quel senso di accoglienza di chi si
sente a casa. Ma sempre più spesso ci vengono proposte immagini di sofferenze dovute alla guerra,
alla povertà o all'abbandono. Tra la sedentarietà e l’esilio sono presenti tutte le forme di reclusione
relativa, rappresentate dai campi profughi, dove persone vivono da molti anni e cercano di crearsi
un itinerario individuale. Quindi prima di pensare alla felicità del maggior numero di uomini,
secondo Augé, dovremmo cercare di proteggerli dall'infelicità. La felicità non ha una dimensione
collettiva, e non vi è forse cosa più temibile di promettere felicità ad un intero popolo. L'incontro,
l'amicizia e l'amore offrono agli individui una possibilità di felicità che dà un senso alla vita,
inventando luoghi inediti e una nuova percezione del tempo. Questa felicità individuale è intensa e
fragile al tempo stesso: essa deriva dall’improvvisa consapevolezza di esistere, di essere sé stessi,
consapevolezza che dipende dal bisogno e dalla presenza di un altro o degli altri. Il diritto alla
felicità è il primo tra i diritti individuali e la politica ha il dovere di renderlo possibile
concretamente, non di imporlo o di prometterlo.

CENTRARE, DECENTRARE, RIMETTERE AL CENTRO


Oggi, usiamo molto frequentemente il privativo <<senza>> come quando parliamo dei “senzatetto”
o dei “sans-papieres” cioè coloro che sono senza documenti regolari. Ne parliamo come se avere un
tetto sopra la testa e dei documenti sia la condizione per giungere alla felicità. Persone più facoltose
che accumulano residenze in vari continenti, sono la dimostrazione che l'ideale della vita
individuale non è lo stare attaccati ad una dimora fissa né tanto meno il mostrare i propri documenti,
quanto piuttosto nell'avere la libertà di circolare e di restare relativamente anonimi. Le città
continuano comunque a suscitare fascino nei migranti, che dal Sud si spostano verso Nord, così
come avveniva anni fa quando le persone dalla campagna si trasferivano in città. Il fenomeno
dell'urbanizzazione generalizzata corrisponde più o meno a ciò che chiamiamo globalizzazione.

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Difatti, si potrebbe affermare che il mondo è come un'immensa città (Augé lo definisce “mondo-
città”). Questo “mondo città” è caratterizzato dalla mobilità e dall'uniformazione. Guardando da
un'altra prospettiva, però, si nota che le grandi metropoli si estendono e, al loro interno, è possibile
trovare ogni sorta di diversità e di divisione. In questo modo, la “città-mondo”, con le sue divisioni
e i suoi contrasti, si contrappone al “mondo-città”, che costituisce il contesto globale e che applica il
proprio marchio estetico ad alcuni punti forti del paesaggio urbano: grattacieli, aeroporti o centri
commerciali.
Più questa grande città si estende, più si decentra: i “centri storici” diventano musei, luoghi di visita
e di consumo per i turisti, il centro delle città è sempre più abitato dalla parte di popolazione agiata
e straniera, l’attività di produzione e culturale spesso si sposta oltre il contesto locale. Questo fa sì
che anche i trasporti diventino problematici: la distanza tra l’abitazione e il luogo di lavoro arriva ad
essere considerevole. Come si fa a ritrovare la città perduta?
La risposta la si trova nel locale. Infatti, nonostante l'illusione della tecnologia che ci fa credere di
poter essere in ogni parte del mondo, noi viviamo nel locale. Sarebbe quindi opportuno considerare
i mezzi di comunicazione come dei mezzi che facilitano la vita e non che si sostituiscono ad essa. È
proprio da qui che bisogna partire per evitare che si creino nuove forme di isolamento. [Una città
non è un arcipelago, quello che Le Corbusier ha trascurato nella concezione di una vita incentrata
sulla casa e sull’Unità di abitazione collettiva sono il contatto esterno e la necessità della relazione
sociale].
Che cosa nelle nostre città evoca ciò che si potrebbe considerare come la città ideale? Augé propone
due esempi. Il primo sono le piccole città del Nord, come Parma e Modena sono città piene di vita,
dove si circola in bicicletta e dove ci si riunisce nella piazza del centro storico. Un visitatore ha così
l'impressione di potersi insinuare nella vita locale di queste città senza farsi notare, in modo da poter
passare da una città all'altra solo per il piacere degli occhi. Ma, come dice l’autore, bisognerà anche
chiudere gli occhi per ignorare quello che contrasta con questa visione: la povertà, la migrazione e i
comportamenti ostili. Il secondo esempio che propone sono i quartieri parigini in cui le
conversazioni al bar e le battute tra anziani e giovani cassiere del supermercato sono forme di
resistenza all'isolamento, che dimostrano come la chiusura in sé stessi e il rifiuto
dell’immaginazione non siano una fatalità. Che cosa si può ricavare da tali segni sparsi? Questi
segni ci permettono di capire che bisognerebbe ritracciare delle frontiere tra i luoghi, tra l’urbano ed
il rurale. Ciò significa che bisognerebbe restituire la parola al paesaggio. Augé afferma, inoltre che
in Francia i comuni hanno l'obbligo di garantire una percentuale di case popolari, ma molto spesso
questo obbligo non viene rispettato e, come se non bastasse, capita molto spesso che si produca un
effetto di disapprovazione dello stile e del materiale di costruzione. L'ideale sarebbe combinare le 3
dimensioni essenziali della vita umana: il privato individuale, il pubblico e la relazione con
l’esterno. Tuttavia, formulato in questi termini, l’ideale è utopico. Prima di concludere, l’autore
ritorna all’immagine della sarta e della magliaia, che ricorda che tutto ha inizio e fine con
l’individuo più modesto e che qualsiasi impresa compia, che sia grande o enorme, risulta vana se
non lo concerne nemmeno un po’. Alla fine di questa parte, Augé spera che un giorno il mondo
possa essere un insieme urbano unico e compiuto e che quando questo avverrà, gli uomini abbiano
fornito al “mondo città” l’energia necessaria per il suo funzionamento armonioso, che dipenderà
fortemente dalle relazioni tra gli esseri umani. Infatti, l’energia necessaria è un’energia mentale che
si ricava dall’intelligenza, dall’immaginazione e dalla volontà. Infine, dichiara che la cultura per
molte persone è ancora lo stretto legame tra una società, le sue opere ed il suo paesaggio. Questo
comporta che tali persone non capiranno quale sarà il loro posto nel mondo postculturale che si sta
creando. Dunque, crede sia giunto il momento capire cosa stia accadendo sul pianeta e di riporre al
centro la conoscenza, facendo tesoro dei nuovi sconvolgimenti di questa epoca.

Parte terza: il pianeta in movimento


7. Migrazioni
Quello che viene chiamato individualizzazione delle credenze corrisponde all'interiorizzazione
individuale dei dubbi e delle paure. Oggi, con le continue immagini che ci vengono offerte,

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l'universo ci appare come qualcosa di infinito e in perpetua espansione che va al di là della nostra
immaginazione.
Le ragioni delle nostre paure sull'avvenire sono molteplici. Le basi di queste nostre paure sono
l’essere consapevoli dell’espansione demografica, del fatto che il pianeta ci appaia sempre più
piccolo, e che le sue risorse siano limitate. Ma è evidente che i paesi in via di sviluppo o
“emergenti” non hanno né le stesse urgenze, né le stesse priorità dei paesi sviluppati, ossia, i paesi
occidentali, che si preoccupano dell'avvenire del pianeta e al tempo stesso cercano di mantenere la
propria posizione di dominio.
I paesi occidentali sono sensibili agli spostamenti della popolazione dovuti alla crescita demografica,
perché hanno l'impressione che possano sconvolgere i loro equilibri sociali o i loro valori
fondamentali. Quindi le migrazioni preoccupano i paesi occidentali e tale preoccupazione presenta
due aspetti: si focalizza su determinati punti come la sicurezza o la tutela dei posti di lavoro, ma è
anche vaga e diffusa quando parliamo di incertezza dell'avvenire, delle istituzioni politiche e delle
innovazioni tecnologiche.
L'uomo fin dalle sue origini è solito spostarsi in posti diversi per cercare di dominare lo spazio.
Questo però non c’entra con la migrazione delle persone del Sud verso il Nord, che viene vista
come il ribaltamento di una situazione o addirittura una vera e propria “invasione”, come se
volessero vendicarsi e tentassero di colonizzare coloro che un tempo gli avevano colonizzati.
Possiamo così distinguere due grandi tipi di colonizzazione: quella che aveva fini economici o
politici, che non richiedeva la forte presenza di coloni; mentre le colonie di popolamento, che
servivano a far nascere una vera e propria nazione anche se a scapito delle popolazioni locali.
L'America e l'Australia sono l'espressione politica delle migrazioni riuscite. Quando oggi gli Stati
Uniti cercano di controllare i flussi migratori dal Messico (come era già avvenuto nel XIX secolo
con la guerra messicano-statunitense) si tratta di un conflitto tra migranti di diverse generazioni.
Difatti, l’America si era popolata anche tramite l’importazione di schiavi neri.
Spesso in Europa vediamo denunciare il problema della delocalizzazione (fenomeno opposto
all’immigrazione): c'è chi ritiene che la delocalizzazione offra opportunità di lavoro nei paesi in via
di sviluppo e chi fa notare che, invece, crea disoccupazione nei paesi sviluppati a causa die bassi
salari. Le imprese che delocalizzano lo fanno per aumentare i propri profitti. Per questo, per gli
occidentali, gli altri vengono visti come dei ladri che rubano posti di lavoro. Ma le migrazioni per
miseria o lavoro non sono gli unici spostamenti a cui assistiamo oggi. I privilegiati, come politici,
uomini d'affari, e artisti si spostano nel mondo come se appartenesse loro. Anche il turismo non è
accessibile a tutti, ma solo ad una parte della classe media dei paesi sviluppati e agli individui più
agiati dei paesi emergenti. Le mete privilegiate di tali turisti sono quei posti da cui invece partono i
migranti per trovare lavoro nei paesi da cui provengono i turisti, pagando a volte con la propria vita.
Gli spostamenti di popolazione possono anche essere letti da un altro punto di vista: con
l’urbanizzazione, tutta la diversità e la miseria del mondo si riversa nelle periferie delle grandi città.
In questo modo, sembra esserci una doppia attrazione: 1. Quella delle città sulle zone rurali 2.
Quella del Nord sul Sud. Ma tra questi due percorsi non vi è alcun punto di incontro. Ciò comporta
che si ha circolato sul pianeta, producendo degli incontri. Questa è una contraddizione che viene
riconosciuta da molti, ma che nessuno riesce a superare. Quindi, siamo consapevoli
dell’interdipendenza delle differenti parti del globo, ma oggi, la tecnologia e i mezzi di
comunicazione tendono ad anticipare le nostre azioni, i nostri sguardi sul mondo, in altre parole
sono in anticipo sulle società e questo genera le nostre paure. Secondo il pensiero capitalista, se il
consumatore svolge il suo compito tutto andrà bene, ma non è del tutto così perché gli ostacoli
presenti sono molteplici. L’economia globale è spesso difficile da regolare perché la logica
finanziaria del profitto speculativo disturba l’equilibrio economico tra investimenti, salari e
consumo. Questo è un ostacolo che, anche se può sembrare economico, è soprattutto politico.
L’individuo consumatore (versione corretta dell’homo oeconomicus), quindi, non esiste e non può
esistere perché non vi è identità senza relazione e questa non può essere esclusivamente economica.
Ora, i sistemi di relazione sono storici (=implicati in storie che si sono evolute con un proprio ritmo
e una propria velocità), quindi si tratta di un ostacolo antropologico.

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Dunque, l'individuo non può vivere da solo perché la sua identità si definisce e riconosce nella
relazione con l'altro. Inoltre, ciascun tipo di relazione si evolve secondo i propri tempi e la propria
velocità e viviamo, così, in un momento storico di crescente disuguaglianza economica e del sapere.
Si parla di ineguaglianza del sapere perché, se la scienza ha progredito molto nelle scoperte, molti
non hanno la possibilità di accedere a tali conoscenze (solo i più informati ce l’hanno, mentre molti,
tra cui alcuni abitanti dei paesi sviluppati no). Questo è un ostacolo sociologico.
In una situazione di tale disequilibrio, potrebbero affermarsi delle ideologie nazionaliste e/o
religiose e delle manifestazioni di rifiuto e sospetto degli altri. Quindi, non sono le domande ad
essere folli, visto che esprimono paure e timori giustificati, ma le risposte che alcuni formulano. Si
tratta di un ostacolo storico e politico che sarà presente ancora per molto tempo.
Ora, sia che lo vogliamo o meno, stiamo diventando dei cittadini del mondo. Viene quindi da
chiedersi come ci si deve adattare a tale cambiamento? Le immigrazioni ci mettono a contatto con
la vera realtà: la globalizzazione ha fatto in modo che nessuno si senta più vincolato al proprio
luogo; Augé considera i migranti degli eroi che hanno avuto il coraggio di lasciare la propria terra
ed iniziare un’avventura individuale. Tuttavia, questo porta alla paura di ritrovarsi soli.
L’integrazione è quindi doppia: non riguarda solo i migranti che cercano di essere accolti nel paese
in cui arrivano, ma ciascun abitante del globo che tenta di adeguarsi al nuovo spazio planetario che
si sta costruendo. Tuttavia, l’uomo non può vivere isolato, perché la definizione della sua identità
deriva dalla relazione con gli altri. Dunque, lazione politica ha due doveri da compiere,
complementari e contradditori tra loro: garantire la libertà individuale e preservare la possibilità
delle relazioni (il senso sociale). Nell’avvenire dovrebbe essere abolita l’idea stessa di straniero.

8. la crisi, le crisi
La crisi attuale non è puramente finanziaria, economica, politica o sociale e nemmeno recente. Si è
preso coscienza che qualcosa è cambiato radicalmente. Si parla di crisi dell'universale che al tempo
stesso è crisi di coscienza planetaria, crisi della relazione e delle finalità. La coscienza planetaria
riguarda il nostro posto nell’universo, fa riferimento al fatto che ora mai tutti sappiamo di vivere su
un pianeta piccolo e fragile e che oltretutto trattiamo male. Sappiamo anche che lo scarto tra il più
ricco dei ricchi e il più povero dei poveri continua a crescere sia nei paesi sviluppati che in quelli
“emergenti” e sottosviluppati. La crisi della relazione ha a che fare con questo scarto, ed essa può
portare alla violenza. Quest’ultima è al centro di ogni crisi sociale, perché se io non posso esistere
senza gli altri, senza di me non possono esistere neanche gli altri. Oggi viviamo in un mondo in cui
i media ci fanno credere di conoscere l'altro per il solo fatto che lo riconosciamo sullo schermo, ma
quando questa illusione svanisce, si manifesta la violenza: può essere una violenza verso sé stessi,
contro gli altri o una forma di razzismo. L'altro è sempre messo in discussione, anche quando ci
interroghiamo sulla nostra identità.
Il malessere dei prigionieri in semilibertà, con il braccialetto elettronico e sotto stretta sorveglianza,
è esemplare. Cos’è che ci infastidisce? Il Fatto che abbiamo di fianco degli esclusi oppure che
tramite la loro esperienza capiamo che la nostra situazione non è molto diversa? Difatti, anche noi
siamo costantemente sorvegliati: non c'è posto in cui non vi sia almeno una telecamera, oppure il
solo fatto di possedere un telefono cellulare ci sottopone all'attenzione delle autorità che vigilano
sulla nostra sicurezza e ci tengono d’occhio.
La crisi delle finalità, invece, si riassume attraverso un paradosso. Mentre la scienza progredisce
velocemente, sia dal punto di vista teorico che pratico, si approfondisce lo scarto tra coloro che sono
i protagonisti della scienza e la massa di coloro che ne sono completamente esclusi. Quindi, lo
scarto tra i paesi coinvolti nella ricerca scientifica e quelli che ne sono lontani si approfondisce
ancora più rapidamente di quello delle ricchezze. La fuga dei cervelli completa il quadro. (bisogna
capire che se compaiono dei poli scientifici nei paesi “mergenti”, le inuguaglianze relative
all’istruzione permangono e aumentano rispetto ai paesi sviluppati, dove comunque continuano a
crescere). Da qui si può ipotizzare che il rifiuto di pensare insieme l’economia e l’istruzione sia la
causa dei nostri fallimenti. Viviamo in un periodo in cui la priorità viene data agli scopi e ai progetti

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a breve termine, mentre la questione delle finalità è lasciata ai fanatici del profitto o ai religiosi
(=nessuno più si chiede perché lavori o studi). L’orientamento scolastico viene scelto in età sempre
più giovane e in un paese in cui iniziano a scarseggiare le risorse economiche, la possibilità che i
bambini possano accedere a certi tipi di insegnamento è minima. In Francia, a parere dei sociologi,
il sistema educativo tende a riprodurre le disuguaglianze sociali invece di diminuirle. Inoltre, oggi ci
troviamo nell’epoca dell’apertura dell’insegnamento superiore alla maggior parte di persone, ma la
percentuale di insuccesso nei primi due anni è considerevole. L’apertura dell’insegnamento
universitario è, invece, orientata a rispondere in primo luogo alle esigenze del mercato del lavoro.
Questo significa che oggi la priorità è data ai “fondamentali” nell’insegnamento secondario e alla
formazione nell’insegnamento superiore (si trasformano, in questo modo, due evidenze in un
principio riguardante i fini). Il fine di tale principio è il dovere di consumo, che funge da motore
dell'intero sistema. Tutto ciò ha delle conseguenze: l'accelerazione del progresso tecnologico ha
portato alla diminuzione dei posti di lavoro, sono aumentate le assunzioni precarie, c'è un calo del
potere di acquisto e un rallentamento della crescita. Questo nostro sistema è contraddittorio e non ci
rendiamo conto del paradosso che vi è alla sua origine.
Non è illogico pensare che se si facesse un enorme investimento nell'insegnamento, si avrebbero
probabilmente più impieghi e non ci sarebbero disuguaglianze sociali o economiche, che si
presentano solo come ostacoli per l’ideale di conoscenza. Ma se, invece, continuiamo ad aumentare
questo scarto, ci sarà una crescita considerevole dell’impoverimento della moltitudine.

Parte quarta: tempi


9. Nonluoghi e tempi morti
Al centro delle lotte operaie, oltre al diritto di sciopero, c'è la lotta per la distribuzione del tempo di
lavoro, in particolare per la conquista del diritto di iniziativa nel tempo morto (problematico per chi
paga i salari e per gli stessi dipendenti che sono responsabili dell’organizzazione del lavoro degli
altri). Anche oggi, la produttività, il costo di lavoro e anche il tempo di lavoro sono al centro dei
dibattiti politici ed economici. I congedi retributivi rimangono comunque una conquista utopica per
gli operai.
Invece, dal punto di vista dei dirigenti delle imprese e delle fabbriche, la distribuzione del tempo di
lavoro viene ricondotta al calcolo dei costi. Questo lo dimostra la concorrenza tra strada e ferrovia.
L'estensione delle autostrade in Europa e Stati Uniti è stata pensata per rispondere alla necessità di
una distribuzione rapida affinché possa raggiungere i suoi destinatari in tempi il più brevi possibile.
I camionisti si trovano così costretti a fermarsi nei parcheggi per rispettare i tempi di guida previsti
e i loro tempi di lavoro e le pause sono calcolati al minuto e registrati. Lo sviluppo della
comunicazione elettronica e, quindi, l'estensione della vendita per corrispondenza allargano
infinitamente il mercato e l’esigenza di trasporti rapidi, in particolare aerei. L'ideale
dell'imprenditore capitalista consiste quindi nell'avere una manodopera flessibile, disponibile,
facilmente dislocabile, e al tempo stesso una rete aerea, autostradale e stradale sempre libera e
utilizzabile. La sua ossessione, invece, è costituita dal blocco del lavoro, che può essere causato da
malattie o scioperi, e dal blocco delle vie di circolazione. Questi blocchi originano “tempi morti”
che non dipendono dagli imprenditori, i quali credono che siano dovuti al sistema tecnologico.
Qui sorge un paradosso: il sistema di circolazione rapida e di comunicazione istantanea mette in
relazione punti geografici localizzati che dipendono dall'ambiente in cui si trova il destinatario. Ne
facciamo esperienza quando per arrivare in un posto restiamo bloccati nel traffico magari anche per
molte ore. La difficoltà di trovare una soluzione a tale problema si colloca all’incrocio tra luoghi e
nonluoghi che, ponendosi su scale differenti, generano dei tempi morti che non possono essere
controllati, ovvero del tempo perso. Dunque, la globalizzazione del mercato comporta una
contraddizione geografica.

Quando gli imprenditori delocalizzano vanno in paesi in cui il costo del lavoro è minore e se vi
rinunciano lo fanno perché hanno tenuto in considerazione fattori come la qualifica, il rendimento o
il costo dei trasporti. Se il mondo fosse realmente e totalmente un mondo globale, la

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delocalizzazione e la rilocalizzazione non avrebbero alcun senso, perché le imprese trasnazionali
sfrutterebbero le diversità dei luoghi per diminuire i propri prezzi di costo. Anche chi si oppone alle
delocalizzazioni entra in contraddizione: lo sviluppo dei paesi sottosviluppati è il modo migliore per
frenare l'emigrazione, quindi opporvisi vorrebbe dire incoraggiare gli immigranti a spostarsi. Anche
in questo caso globale e locale si incrociano come anche luogo e nonluogo, dando origine al tempo
morto, che si può manifestare attraverso molteplici forme: la disoccupazione, i licenziamenti, la
chiusura di fabbriche e il vagabondaggio. È evidente che all'origine dell’attuale crisi economica vi
sia la speculazione, ma anche il crollo del concetto di “cultura d'impresa”. Esso, fino a poco tempo
fa, era usato nel mondo dell'impresa e in politica: bisognava governare un paese come si gestisce
un'impresa. Tale concetto presuppone che in un'impresa vi sia civiltà e solidarietà ma oggi le cose
sono un po' cambiate: da una parte i fallimenti del management hanno portato a numerosi suicidi tra
gli imprenditori e dall'altra parte, le disuguaglianze tra i salari e i redditi tra alto e basso livello, ma
anche tra uomini e donne ha causato molti danni. Inoltre, sono diventate evidenti le divergenze di
interessi tra i dirigenti e gli azionisti: mentre le imprese prospere hanno effettuato dei licenziamenti
per diminuire le spese, i dividendi versati agli azionisti aumentavano.
Dato che l'identità di un individuo è in stretta relazione con l'altro, tale assenza di solidarietà si
ripercuote inevitabilmente sull'individuo stesso. Un'inchiesta francese ha evidenziato l'aumento
della solitudine, della sensazione di isolamento, di solitudine forzata. Questo sentimento però non è
presente solo negli anziani ma anche in persone tra i 30 e i 39 anni e la motivazione, in questo caso,
è riconducibile alle condizioni precarie di lavoro (contratti a tempo determinato, orari di lavoro
sfasati, disoccupazione, ecc) e al fatto che la maggior parte di loro vive da sola e senza figli. Quello
che stupisce è che l'intero sistema è produttore di tempi morti così come produttore di rifiuti.
L'efficacia del sistema economico dipende essenzialmente dal consumo e dai consumatori. Se la
sovrappopolazione mondiale offre qualche opportunità per abbassare il costo del lavoro, questo non
accade con il consumo. L’innovazione dei prodotti e la creazione di nuovi bisogni genera una classe
di esclusi che con la crisi e la conseguente assenza di soldi non può accedere a questo sistema di
consumi. Viene così ad aumentare lo scarto tra i più ricchi dei ricchi e i più poveri dei poveri perché
la nostra è una società globale costituita da tre classi: gli oligarchi, i consumatori e gli esclusi, cioè
coloro che non sono in grado di fare i consumatori. Questi ultimi stanno diventando sempre più
numerosi e sono coloro che si mettono vicino al luogo degli altri per cercare di essere riconosciuti e
strappare qualche parola o spicciolo (senzatetto, vagabondi, ecc.). E così cresce anche il sentimento
di non poter più contare su nessuno. Molti ricorrono ai social network come Facebook nella
speranza di sentirsi meno soli, ma invece il sentimento di solitudine rimane lo stesso. È probabile
che la sostituzione dello schermo al contatto relazionale faccia aumentare questo sentimento o
provochi dei disturbi psicologici (come è successo nel caso di alcuni adolescenti giapponesi). Tutto
ciò diventa campo di osservazione per l'antropologia. Un'antropologia della solitudine mette in
gioco i parametri più classici della disciplina come la filiazione, l'unione, la residenza e la
generazione o, in senso più ampio, le relazioni di amicizia o di cameratismo, che sono sempre meno
legate all'ambiente professionale. Una tale antropologia della solitudine potrebbe applicarsi a
differenti ambiti dove la tensione tra globale e locale è evidente, come nel caso del turismo. Forse
un giorno i turisti occidentali prenderanno coscienza del fatto che le loro destinazioni privilegiate
sono proprio quelle da cui fuggono i migranti. Quando vanno in vacanza, i turisti appartengono per
breve tempo al luogo in cui soggiornano, ma non al luogo stesso e non si rendono conto del fatto
che la loro storia sia la stessa degli altri.
I tempi morti, come ad esempio le vacanze, non hanno soltanto come obiettivo quello di permettere
alle persone di avere una pausa dal lavoro, ma costituiscono anche il punto centrale del sistema del
consumo. Questo presuppone che il tempo del lavoro di alcuni coincida con il tempo morto di altri e
che i primi siano al servizio dei secondi. Augé riporta come esempio quello dei clienti e dei
camerieri: da una parte ci sono i clienti e dall'altra ci sono i camerieri che svolgono il loro lavoro
servendo il cliente. Maggiore è lo scarto economico, sociale e culturale, più la relazione tra i due
rischia di diventare ambigua. Questo rischio aumenta all’incrocio tra luogo e nonluogo. Due tipi di
comportamento sono allora possibili: da una parte, coloro che sono in vacanza possono trattare

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quelli che sono al loro servizio come dei soci o dei servitori; mentre dall’altra coloro che non hanno
accesso al consumo si accontentano di guardarli.
Un'altra ambiguità è quella delle imprese funebri che propongono alle persone di preparare in
anticipo il proprio avvenire. È una sorta di tempo morto a venire, in cui il consumatore consapevole
termina la propria attività di consumatore con l'acquisto anticipato del suo scomparire.
Al centro delle preoccupazioni di una società dei consumi c'è l'impiego del tempo di lavoro e se
questo è troppo caro, diventa un problema dell'intero sistema. Bisogna tenere presente che la vitalità
globale, non dipende strettamente e soltanto dalle imprese locali.
Il rilancio dell'economia si esprime ora con il rinnovamento che consiste nel creare nuovi prodotti e
nuovi desideri nel campo della comunicazione. Le campagne pubblicitarie sponsorizzano oggetti
sempre nuovi e apparentemente diversi, trasformando i desideri in bisogni per far sì che le persone
sostituiscano il più rapidamente possibile un oggetto con un altro. In questo modo viene ad
aumentare sempre di più la domanda. In questo modo, gli esclusi diventano una rimanenza da
gestire e non un mercato da conquistare.

10. Rito e inizio


All’inizio del capitolo Augé afferma che potremmo arrivare ad essere meno paurosi o sconfortati, se
diventassimo consapevoli del fatto di star vivendo un inizio radicale, una nuova avventura collettiva.
Inoltre, aggiunge dicendo che probabilmente la formazione della vita individuale e collettiva
dovrebbe oggi passare attraverso un certo esercizio che coniughi tra loro il passato, il presente e il
futuro, dimensioni che spesso tendono ad essere mescolate confusamente nell’attualità.
Un primo esercizio per far ciò, potrebbe essere quello di guardare all'inizio, a quelle “prime volte”
che ci davano l'impressione di aprire l'avvenire, di costruire un inizio. Tutti noi conserviamo il
ricordo di una o più esperienze considerate “prime volte” perché la sensazione che ha suscitato in
noi era talmente forte da resistere al passare del tempo, alle delusioni, alla rinuncia o alla
rassegnazione.
L'etnologo è doppiamente sensibile a questo tema: sia perché gli ricorda la sua prima esperienza
durante la quale ha potuto conoscere gli altri ma anche sé stesso (e a questa vi ritorna spesso per
ricostruire le sue analisi e riflessioni); sia perché è specializzato nelle attività rituali.
Il rito dipende da un doppio rapporto con il tempo: è sia radicato nel passato, in quanto le sue regole
sono fissate dalla tradizione, ma, nel momento in cui esso è riuscito, apre le porte anche all'avvenire.
Nei villaggi alladiani, si ha la convinzione che ogni evento abbia una causa e che questa possa
essere ricondotta, la maggior parte delle volte, ad un'azione umana. Quindi, per loro ogni disgrazia
era collegata a quelle che l'avevano preceduta. Ma, al tempo stesso, essi celebravano anche dei riti
per cancellare il passato, una volta che il caso era stato “chiarito”, e riaprire il tempo per guardare
all'avvenire (questi riti erano svolti dai profeti guaritori= guaritoreàdelucidazione del passato;
profetaàapertura sul futuro).
In una visione più ampia, tutti noi abbiamo una percezione doppia del tempo: come in un film o in
un romanzo poliziesco dove gli eventi rappresentati sono espressione di un problema sorto nel
passato, ma di cui aspettiamo la risoluzione, e finché questo non avviene, noi viviamo in un tempo
sospeso, la cosiddetta suspense. Questa attesa suscita un senso di piacere dovuto dalla
consapevolezza che alla fine tutto verrà risolto in un modo o nell'altro, dall’attesa stessa della
soluzione che gli verrà data. Questo è proprio il paradosso del romanzo poliziesco: viene scritto il
più delle volte al passato, evoca un evento anteriore al presente in cui si sta svolgendo l’indagine,
che ha come fine quello di chiarire l’evento passato e che porta il lettore ad avere una forte
consapevolezza dell’avvenire. Ma se iniziamo a vedere il film o cominciamo a leggere il romanzo
poliziesco dalla fine, trasformiamo l'avventura in tragedia. L'attesa ha un suo fascino che deriva da
una visione retrospettiva della storia (dato che si tende a narrare il più delle volte, un evento già
accaduto nel passato) e questa nega una possibile apertura al nuovo. Possiamo quindi dire che la
riflessione sul nuovo dipende da un'interrogazione sulla libertà. E la libertà stessa è conciliabile con
la verità? Sartre, in riferimento alla libertà cartesiana, ritiene che la libertà si compia in modo
particolare nel campo dell'azione o della creazione. Egli analizza, inoltre, le due definizioni di

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libertà presenti nel pensiero di Cartesio: 1.la libertà come capacità di accettare o di rifiutare le idee
concepite dall'intelletto 2.la libertà come capacità di riconoscere il vero e di volerlo, nel momento in
cui la chiarezza che appare nell'intelletto determina la volontà. Sartre è convinto che la libertà
garantisca la possibilità del nuovo nella storia e rimprovera alla psicoanalisi di preferire il passato al
futuro. Inoltre, la nozione di novità ha senso solo se messa in relazione all'esistenza umana, così
come anche la libertà. Bisogna aggiungere anche che quando guardiamo all'avvenire lo facciamo da
diversi punti di vista: l’attesa, la speranza, l’impazienza, il desiderio o il timore sono viste in modo
diverso nelle varie fasi della vita.
Quindi, sono all’opera due differenti concezioni dell’avvenire che oppongono due concezioni di
novità, la prima intesa come seguito e compimento e l’altra come rottura e inaugurazione.
L’etnologo è interessato da questa distinzione, perché, tramite la sua esperienza, riesce a constatare
fino a che punto le attività rituali dimostrino l’esistenza di un inizio.
Non bisogna confondere l’evento e la storia. Il rito si occupa dell'evento. Esso ha delle proprie
regole e la sua esecuzione prevede una rigorosa fedeltà al rituale, così come avevano deciso gli
antenati in passato. Esso è comunque rivolto all'avvenire e l'emozione legata alla sua celebrazione
deriva dalla sensazione che esso sia riuscito a produrre un inizio. Possiamo dire che sia questa la sua
finalità. Se il rito è essenzialmente nascita, al contrario, ogni nascita fa appello al rito. Ogni nascita
umana è oggetto di procedure rituali attraverso cui si manifestano le due aspirazioni contraddittorie
che ordinano la vita in società: l'aspirazione al senso, che rinvia al passato comune, e l'aspirazione
alla libertà, che rinvia al futuro del singolo.
Ogni nascita apre ad un avvenire fragile, specialmente nelle società a forte mortalità infantile. Augé
riporta come esempio sempre l’Africa, affermando che nell’Africa occidentale il corpo del neonato
veniva esaminato in modo dettagliato per scoprire se vi fosse una presenza ancestrale che stabilisse
il legame tra la sua identità e il passato. Le regole dell’attribuzione del nome hanno lo stesso
problema. Invece, in Europa per lungo tempo il nome del figlio maschio si trasmetteva di
generazione in generazione.
In Francia, la legge del 2002, entrata in vigore nel 2005, ha concesso la libertà ai genitori di
scegliere se trasmettere al figlio il cognome del padre, della madre oppure il doppio cognome.
Questa scelta però influenza il cognome degli altri figli, che sono obbligati ad avere lo stesso del
primogenito. Dunque, spetta ai genitori scegliere il cognome, ma la vera libertà sarebbe permettere
all'individuo di scegliersi da solo il proprio nome.
La finalità del rito, cioè l'inizio, non è ripetizione. Il ricominciare consiste nel vivere una nuova
nascita. Quando si dice che il Don Giovanni di Molière è solito “cadere in amore” (tomber
amoureux) significa che la ripetizione interviene nel momento del disinnamoramento, quando egli
tende a rincorrere l'emozione della prima volta. Nella vita reale le cose non sono così semplici: col
tempo i vecchi legami si allentano o si sciolgono, mentre quelli nuovi vengono meno. Dunque,
occorre che chi “avanza con l’età”, per evitare di rimanere soli, ridefinisca le proprie relazioni con
le giovani generazioni, accettando che l’età sia l’inizio di un’altra avventura.

11. Arte e contemporaneità


La nostra società, basata sulla globalizzazione e sul consumismo, evidenzia sempre di più non solo
la crescita della disuguaglianza tra i più ricchi dei ricchi e i più poveri dei poveri, ma anche tra
coloro che contribuiscono al progresso della conoscenza e chi, invece, non ha accesso né alla
conoscenza né al consumo. Cerchiamo allora di vivere il presente, nella speranza di frenare le
distruzioni dovute alla crescita demografica e alla produzione. Abbiamo esplorato ogni parte della
Terra, e così ogni cosa è messa in ordine, come se stessimo attendendo la visita di un turista che
viene da lontano e che non si sofferma sui dettagli, ma sull’uomo generico che abita la Terra. Tutto
questo ordine è in contrasto con l'enorme accumulo di rifiuti che, invece di cercare di ridurre, li
sotterriamo pensando di aver risolto così il problema. Ognuno di noi è consapevole del
cambiamento della storia dell'umanità. Abbiamo ben chiara l'immensità dell'universo e che noi
siamo solo una parte di esso. La nostra immaginazione ci spinge a pensare come sarebbe la Terra
senza gli uomini, che esso avvenga dopo una catastrofe o dopo una scomparsa progressiva poco

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importa. Visitiamo volentieri i monumenti di civiltà passate o a foreste in cui regna il silenzio come
fosse un tributo alle popolazioni che le abitavano, oppure succede come a Roma che la città ricopra
la città (dove il passato diventa ostacolo ai progetti urbani del presente, esempio: il caso della
metro). Ma il silenzio e l'assenza ci sono molto familiari, come ad esempio, nelle stagioni morte: le
spiagge vuote d'inverno, le serrande chiuse dei negozi o degli alberghi. Questo dovrebbe farci
comprendere che la scomparsa, il silenzio e la morte sono alla base della vita sociale. Però, non è
sempre stato così. In epoche passate regnava la creazione e l'ottimismo, a differenza di oggi in cui si
fatica ad avere fiducia nell'avvenire, sia per motivi economici, sociali e politici, che per ragioni
metafisiche: ci ritroviamo in un periodo in cui siamo posti di fronte ai limiti del pianeta, ma non
riusciamo a superarli.
L'arte è un'espressione della società, perché sono proprio gli uomini di un determinato luogo e di
una certa epoca a elaborarla e, di conseguenza, essa ne porta il segno. L'arte non vuole però
limitarsi a esserne un riflesso passivo, ma ha sempre voluto essere creazione, “critica” o
“d'avanguardia”. Tuttavia, perfino in questa dimensione “distaccata”, essa ha sempre rivendicato
un'origine e un'appartenenza. (Infatti, Sartre credeva che nel particolare vi si trovasse l’universale e
Michel Leiris pensava che per poter sopravvivere alla propria epoca bisognasse osservarla da
vicino). Tuttavia, nell'epoca odierna in cui assistiamo alla circolazione accelerata delle immagini e
dei messaggi, l'arte esprime un disorientamento che mette in discussione la distinzione tra ciò che è
attivo e ciò che è passivo, rovesciando completamente le dimensioni intime dell’essere. L'arte deve
voler esprimere la società, non può essere solo un’espressione passiva, ma deve essere espressiva e
riflessiva, deve mostrarci altro rispetto a quello che vediamo ogni giorno. L’arte, essendo
rivoluzionaria e democratica, è come il rito, ci pone davanti alla possibilità di vivere un inizio. Ciò
che si trova all’origine di ogni creazione si trova anche al principio di ogni percezione e ricezione:
leggere un libro, ascoltare della musica o guardare un quadro significa appropriarsi di essi, e, in tal
senso, ricrearli. Di questo gli autori ne sono a conoscenza: il loro desiderio è incontrare un pubblico,
e nessun incontro è a senso unico. L'incontro è la prova dell'alterità (per tale ragione il termine
significa sia l'empatia sia il confronto) e dell'apertura del tempo, dell'avventura, della libertà. [In
questo modo, la creazione letteraria e artistica definisce il luogo problematico dell’avventura
individuale e collettiva, La tensione tra senso e libertà può essere espressa mediante un ‘emozione
istantanea quando riascoltiamo una canzone che in passato già ci aveva emozionato. Questo ci fa
comprendere che, nonostante l’età e i problemi, tutto è ancora possibile e la vita può coniugarsi al
futuro.]
Abbiamo bisogno dell'altro e quindi anche dell'avvenire. Tale bisogno è un segno di vita, senza il
quale l'uomo deperisce. Il rapporto con l'altro è presente sotto varie forme nella nostra quotidianità e
l’uomo lo ricerca nella realtà che lo circonda.
La bellezza di un quadro, di una poesia o di una canzone, quando essa ci colpisce, non si ripete mai,
ma, ogni volta che essa si ripresenta, suscita un'emozione nuova, al punto che, conoscendo già ciò
che si produrrà, procediamo per quanto possibile, prima della lettura, dell'ascolto o della
contemplazione, al piccolo rituale intimo, che consiste in piccoli accorgimenti di diversa natura, che
variano a seconda del luogo e delle circostanze, che ci offrono la calma ed il silenzio che avevamo
desiderato. Basti pensare ad esempio ai gruppi di giovani che si ritrovano ai concerti musicali. Essi
rimettono in atto le gestualità classiche che erano presenti anche in passato, come le braccia alzate o
gli applausi. Ma ciò non vuol dire ripetizione, bensì si tratta di un momento di comunione, dove
tutto riparte e dove le parole contano meno della percezione di un movimento di adesione.
L'arte di oggi mette in discussione quei principi che in passato erano considerati una certezza. Essa
non ci dà delle risposte, ma presenta un’eco delle nostre domande che sta a noi cercare di
comprendere o meno. L'arte attuale è interessata a capire chi sia l'individuo nel mondo di oggi, che
presenta sette miliardi di persone. Oggi noi siamo consumatori che, anche senza volerlo,
dipendiamo dai mercati finanziari. Viene da chiedersi allora “che cosa sono io?” Tutti i totalitarismi
politici e religiosi hanno già risposto a questa domanda, dichiarando che non sei nulla. Perché
quello che conta è il consumo. Come gli antropologi, che dalle risposte date loro dagli interlocutori
riescono a risalire alle domande (questo dimostra anche come tutte le culture, benché diverse tra

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loro, presentino domande identiche al loro interno), anche gli artisti di oggi, quando s'interrogano
sulla propria identità (domandandosi non soltanto chi sono ma ciò che sono), sulla distinzione dei
generi e dei sessi, sul corpo, sul senso della filiazione o quello della relazione, essi ritrovano delle
domande universali (perché è sempre dal lato delle domande che s'incontra l'universale). Ma, a
differenza degli insiemi culturali studiati dagli antropologi, le loro domande sono esplicite e le loro
risposte incerte. La loro originalità dipende dal percorso che essi compiono per ritrovare tali
domande. Oggi gli artisti invitano il pubblico a prendere la parola per proporre le proprie risposte.
Dunque, l’arte funziona al contrario dell’ideologia che crede che le proprie evidenze siano naturali:
essa trasforma la società in questioni, quando non la mette in questione, ritrova il dubbio dietro la
certezza.

12. I diritti dell'uomo


Mauss (antropologo) faceva notare che non vi è mai stato essere umano che non avesse il senso
della propria individualità spirituale e corporea. Ma esistono molti sistemi sociali che tendono a
ridurre l'autonomia della coscienza individuale. Questo avviene in ogni società dove il pubblico si
mescola al privato (società totalitarie e della prima etnologia). L'uomo culturale è in relazione con
altri, e tale dimensione relazionale conferisce un senso alla sua esistenza, ma può anche costituire
un limite alla sua libertà d'iniziativa. Viceversa, senza relazione e la presenza dell'altro, la libertà è
priva di senso e di oggetto. La gestione dei rapporti tra il senso sociale e la libertà individuale è
quindi al centro di ogni politica democratica, così come il rapporto tra la dimensione individuale, la
dimensione culturale e la dimensione di genere. La terza dimensione dell'essere umano è, infatti, la
dimensione di genere, contestata o negata dal razzismo e dal sessismo. L'uomo è uomo (nel senso di
essere umano), a prescindere dal sesso, dall'origine o dall'età. Per il solo fatto di appartenere al
genere umano, ogni individuo ha pieno diritto.
Il rapporto tra queste tre dimensioni è reso difficile dal fatto che sono facilmente manipolate dalla
forza del potere. Esso si esprime attraverso tre sostituzioni: dell'individuo con il consumatore, del
culturale con il locale e del generico con il globale. La consapevolezza di una coesistenza tra
dimensione individuale, culturale e di genere costituisce la dignità dell’uomo. Il termine “dignità” si
declina in due modi: quando diciamo che una persona è stata dignitosa in un determinata situazione
intendiamo dire che non ha manifestato troppo le sue emozioni, in altre parole è stata discreta,
questo significa che ci riferiamo alla sua interiorità e così ci avviciniamo al senso assoluto della
parola (se una persona tiene per sé quello che prova significa che esiste all’interno di sé); quando
invece, riteniamo che una persona sia degna, si tratta di un’idea dell’essere umano, quindi
superiamo la singolarità dell’individuo, avvicinandoci all’umanità generica. Dobbiamo però
riconoscere una certa ambivalenza del termine dignità, che ha qualcosa a che vedere con l'idea di
potere. Il potere non è altro che l'esercizio dell'autorità che viene conferita, in un paese democratico,
ad un individuo dopo che è stato eletto dal popolo, mentre in altre forme politiche, attraverso la
successione o la forza. La persona eletta deve rendere visibile una qualità interiore degna di tale
ruolo, che rischia però di diventare caricaturale. Per evitare questo rischio, il potere si avvale di
diversi strumenti: il controllo diretto dell’espressione di tale dignità o una totale assenza di
espressione. In Africa, ad esempio, il re che appariva in pubblico era costretto all'immobilità e al
silenzio ed è proprio questo che lo distingue come uomo di potere. Inoltre, il capo di un villaggio
africano non parlava mai direttamente ai suoi interlocutori, ma tramite un portavoce che riferiva le
sue parole.
La dignità dell’uomo consiste nel prendere consapevolezza di appartenere alla condizione umana.
Ma è anche tale consapevolezza ciò che alimenta la necessità di stringere dei legami con gli altri per
affermare la propria identità. L'identità individuale e quelle collettive si costruiscono sempre in
relazione con l'alterità. Ed è proprio questa consapevolezza (quella di essere al corrente di avere
anche una dimensione generica) che porta l'uomo a sentirsi vicino a qualsiasi altro individuo. Se
questa intima trascendenza viene a mancare, l’identità individuale non riesce a crearsi in relazione
con gli altri (è il caso dei razzisti e dei sessisti, che sono considerati degli invalidi). Tutte le culture,
in maniera diversa, sono consapevoli del fatto che ogni individuo è caratterizzato da due dimensioni:

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sociale e umana. Ma questa divisione viene chiarita spesso solo in modo parziale. Quello che
affermava Rimbaud, “Io è un Altro”, non significa necessariamente che “L’Altro è un Io”. Tra
l’intuire e il compiere vi è la storia, che si perde in questioni di potere invece di tracciare il
cammino del progresso della conoscenza insieme. Ne deriva che l’idea di potere tende a corrompere
questa relazione di alterità e l’ideale di conoscenza. Questa idea è la responsabile del fatto che non
esista una relazione paritaria tra i sessi o del ritardo del contatto culturale e dei benefici che vi si
ricavano. Quindi, il potere corrisponde alla negazione della sovranità del diritto individuale. Tende a
classificare per generi, per origini e per classi, creando così disuguaglianze di diritto tra gli individui,
quando, in realtà, tutti gli individui fanno parte dello stesso sistema indifferenziato. Questo si
presenta anche in un regime democratico, dove la disparità dei salari ha acquisito un livello
significativo.
I monumenti della storia e i capolavori dell’umanità esprimono il genio dell’uomo, ma se li
rapportiamo con le culture e la società, diventano il frutto della schiavitù, dello sfruttamento e del
lavoro forzato. La tensione tra senso e libertà, tra cultura ed individuo trova la sua risoluzione nel
riconoscimento in ognuno dell'appartenenza generica. Solo il riconoscimento dell'uguaglianza
permette di associare pienamente la libertà di ognuno alla fraternità tra tutti e l'individuo alla
relazione.
L'universalismo dei diritti dell'uomo non è una proiezione occidentale sull'intero pianeta, ma
un'esigenza di diritto che riguarda l'autonomia dell'individuo come tale. I diritti dell'uomo e del
cittadino garantivano l'autonomia e la dignità di un soggetto. L’originalità del XVIII secolo europeo
è stata l’interesse per il futuro dell'umanità in generale, mentre i miti tradizionali guardavano
all'esistenza individuale in una determinata cultura.
Tutti i sistemi culturali rispondono alle stesse domande, ma le loro risposte sono differenti perché
condizionate dalle lotte di potere, dalla storia, dal “contatto culturale” e da persone interne che ne
cambiano l’economia generale. Quindi si può dire che dipendono da una dialettica tra l’universale e
il particolare.
Non possiamo dire che i diritti dell'uomo riguardino solo una cultura in particolare e nemmeno che
tali diritti sono riconosciuti in ugual modo da ogni cultura e regime politico. Nessun regime politico
ne realizza totalmente l'ideale. Ma ovviamente ci sono delle sostanziali differenze (tra i regimi
politici, i loro statuti, le tradizioni religiose o culturali e le loro interpretazioni ed usi) che appaiono
evidenti quando si prende in considerazione la libertà, riconosciuta e garantita ugualmente a tutti.
Non è un compito facile, visto che da una parte si trovano gli oligarchi della globalità, potenti figure
individuali che rappresentano la riuscita politica, economica o mediatica, mentre dall'altra parte, vi
sono le forme di resistenza o di contestazione che vi si oppongono attraverso riferimenti culturali o
adesioni religiose spesso alienanti. In entrambi i casi, è l'uguaglianza degli individui (vale a dire la
presenza dell'uomo generico in ognuno di loro) a essere fondamentalmente rinnegata, nonostante
essa costituisca l'unico garante della loro sovranità e l'unica risorsa della loro libertà.

Parte quinta: vocazione dell'antropologia


Ogni approccio etnologico si assegna due compiti prioritari: scoprire, dietro i dogmi della cultura, le
domande implicite alle quali tali dogmi “rispondono”, e svelare in tali “risposte” esplicite l'azione
sovversiva degli stratagemmi del potere che minaccia e perverte ogni relazione sociale.
L'antropologia contesta coloro che criticano le differenze culturali, perché vuole fare in modo che le
diversità vengano viste in modo relativo affinché possano essere superate.
La nostra preoccupazione per l'avvenire del pianeta riguarda l’umanità in generale e quella parte di
uomo generico presente in noi. L’avvenire del pianeta è quello di tutti gli esseri umani ai quali ci
unisce una sorta di fraternità essenziale.
Esiste una contraddizione tra le preoccupazioni ecologiche dei paesi sviluppati e il desiderio
ecologico di quelli emergenti o sottosviluppati: tale preoccupazione può sembrare un lusso dei
ricchi che vogliono consolidare il proprio dominio. Secondo Augé, lo sviluppo ancora prima di
essere economico dovrebbe essere sociale. E per far in modo che non vi sia più la povertà bisogna
porre fine allo sviluppo inteso come produzione di ricchezze. È proprio questo sistema, basato sulla

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ricchezza, che non rispetta la natura come nemmeno gli individui, permettendo la crescita dello
scarto tra i più ricchi e i più poveri. Quest’ultimo costituisce il motore del nostro sistema e permette,
così, un incontro tra la preoccupazione ecologica e l’esigenza antropologica. Di conseguenza, la
soluzione è cambiare il motore e per farlo occorre una volontà e una lucidità che solo l'educazione
può aiutare a sviluppare. Lo sviluppo dell'educazione non inquina, perché si serve dello spirito e
della conoscenza. L'educazione e lo sviluppo della conoscenza sono essenziali per controllare tutti
gli aspetti della crescita, riflettere sul rapporto tra uomo natura e correggere l'arbitrarietà delle
culture. Anche se sembrano irrealizzabili ed utopiche queste affermazioni, dovremmo lottare per
cercare di farle diventare realtà. A furia di ignorare troppo il tempo, di rinchiuderci nell'illusione del
presente perpetuo, come ci invitano a fare la molteplicità delle immagini e dei messaggi istantanei,
rischiamo di scoprire un giorno che questi nostri turbamenti attuali sono le premesse di uno
sconvolgimento più radicale.
L'etnologo lavora da solo e può esercitare il proprio mestiere solo familiarizzando con questa sua
solitudine volontaria. Egli svolge le sue ricerche in una determinata cultura per analizzarne il
sistema di relazioni: rapporti di parentela, filiazione, unione, residenza o generazione. Oggi, però,
l'osservazione antropologica deve tenere conto del fatto che ci troviamo in un mondo globale, dove
l’osservatore ormai fa parte di coloro che osserva. Inoltre, l’osservatore deve tenere conto del fatto
che oggi, con lo sviluppo delle tecnologie, esistono forme di solitudine che hanno un particolare
significato sociale. Dunque, con il passaggio dalla colonizzazione alla globalizzazione, l’etnologia
dell’eccesso simbolico è diventata antropologia della solitudine.
Non sappiamo ancora se l'utopia dell'educazione si realizzerà ma nell'attesa, l'antropologia ha per
vocazione di ricordare agli uomini che le relazioni simboliche che li uniscono e che rendono
pensabile l'identità di ciascuno di essi s'iscrivono nello spazio e nel tempo. Siamo tutti associati alle
conquiste della scienza perché apparteniamo tutti alla specie umana. L'uomo generico è sempre
presente in ogni individuo. Ogni Altro è anche un “Io”. Al di fuori di tale equazione, non vi è più
umanità.

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