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DIAGNOSI E DESTINO:

Diagnosi: conoscere attraverso


La malattia come storia è il fulcro psicoanalitico della cosiddetta medicina narrativa.
Più che una disciplina, la medicina narrativa è un atteggiamento mentale che
richiede, soprattutto al medico, competenze relazionali e dimestichezza con il
racconto del paziente, i significati, le credenze e le mitologie che sanciscono l’unicità
del malato e della sua relazione con la malattia. Destino con come qualcosa di
determinato, ma di indeterminato e ignoto. Così la diagnosi, per quanto ben
formulata e certa, deve avere le sue aree insature, di realtà o illusione. La diagnosi
può produrre un destino, ma non il destino. La malattia attacca e trasforma
l’organismo, ed è questo l’aspetto su cui giustamente si concentra la maggior parte
della formazione medica. Ma attacca e trasforma anche la nostra identità. A cosa è
affidato tale cambiamento? Ai nostri meccanismi di difesa.
Ernest Kris per definire la capacità dell’io di passare da un livello di funzionamento
più elevato a modalità più primitive, formula il concetto di regressione al servizio
dell’io. Possiamo idealmente disporre i meccanismi di difesa lungo una scala di
maturità. Quelle che consentono di gestire al meglio gli eventi stressanti sono
chiamate di alto livello e comprendono affiliazione, altruismo, anticipazione,
autoaffermazione, auto-osservazione, umorismo, repressione e sublimazione.
Funzionano in molti modi, per esempio accentuano la gratificazione, permettono la
consapevolezza dei sentimenti e delle loro conseguenze, promuovono un equilibrio
tra i motivi di conflitto, e cosi via. Scendendo lungo la scala di maturità, incontriamo
un livello chiamato di inibizione mentale o delle formazioni di compromesso. È
caratterizzato da un funzionamento più nevrotico, che tende a escludere idee,
sentimenti, ricordi e paure dalla consapevolezza, quando queste costituiscono una
minaccia per l’equilibrio psichico.
Parliamo in questo caso di difese ossessive come l’annullamento retroattivo,
l’intellettualizzazione o l’isolamento affettivo: il loro scopo è mantenere intatti gli
aspetti cognitivi, mentre quelli affettivi vengono inibiti.
Difese come la rimozione o la dissociazione minore lasciano intatti gli aspetti
affettivi, mentre quelli cognitivi vengono inibiti.
Altre difese nevrotiche sono lo spostamento e la formazione reattiva. Quest’ultima
consiste nel provare un sentimento inaccettabile e sostituirlo con un sentimento
diametralmente opposto. Vi è poi un livello di distorsione minore dell’immagine.
Alcune caratteristiche positive vengono amplificate (idealizzazione9, altre
ridimensionate (svalutazione), altre ancora esaltate in modo esagerato
(onnipotenza). Difese del disconoscimento, tra cui la proiezione, razionalizzazione e
la negazione. In comune hanno il compito di negare la presenza di un evento
spiacevole o di un contenuto minaccioso. Esiste anche un livello di distorsione
maggiore dell’immagine, detto anche delle difese borderline. Le più frequenti sono
la scissione e l’identificazione proiettiva, quest’ultima cerca di preservare un
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sentimento d’integrità, evitando la frammentazione psichica. Un meccanismo che
implica dinamiche di aggressività passiva è chiamato dagli inglesi help-reject
complaining: si chiede aiuto, ma quando viene offerto lo si rifiuta.
La psicologia medica, che studia l’individuo malato, le sue reazioni alla malattia, il
suo rapporto con il medico, dedica particolare attenzione agli stili di personalità e al
funzionamento difensivo sia del medico sia del paziente e la loro interazione.

Oltre alle difese del paziente ci sono anche quelle del medico; il medico, quando
deve difendersi dai suoi pazienti o dal carico emotivo della professione, si appoggerà
ad altri meccanismi; oppure agli stessi, ma usandoli in una chiave diversa.
Intellettualizzazione e isolamento, per esempio aiuta a tenere sotto controllo
l’esposizione emotiva alle difficoltà del paziente, ma un loro uso massiccio può
portare il clinico a rifugiarsi in una visione fredda e tecnicistica della malattia, la
razionalizzazione consentirà al clinico di giustificare la sua cattiva pratica, la
negazione gli impedirà di prendere atto di una realtà palese, con la proiezione, un
medico potrà accusare di aggressività un paziente, senza riconoscere che
l’aggressività era già dentro di lui.

L’onnipotenza è il 1° meccanismo di difesa a cui un bravo medico, e anche un bravo


paziente, devono imparare a rinunciare. Che non significa rinunciare all’impegno,
alla speranza e alla sfida; ma guarire una malattia o ritardare la morte non
rappresentano un passo verso l’immortalità.

Quanto alla relazione con il paziente non si tratta di esortare i medici a essere gentili
e comprensivi, ma di insegnar loro a comunicare con i pazienti. Il paziente è
contemporaneamente il malato e la malattia, il medico che non comprende questo
paradosso rischia di essere un medico a metà, e di avere di conseguenza una visione
dimezzata del paziente. Assorbito dal caso clinico dimentica di avere di fronte un
individuo con il suo punto di vista.

MELANIE KLEIN ipotizza che per il bambino una parte del mondo con cui è in
contatto e da cui dipende, in primis il seno materno è al tempo stesso un oggetto
reale, ma anche un oggetto della fantasia, un oggetto interno capace di rispondere
ai suoi bisogni. Addirittura, secondo la Klein il neonato farebbe fatica a distinguere il
proprio corpo da quello della madre.
Il seno materno è un prolungamento di sé con caratteristiche proprie e onnipotenti.
Il passaggio da una relazione con l’oggetto parziale a una relazione con l’oggetto
intero è riconducibile al transito evolutivo tra una posizione onnipotente
(schizoparanoide) e una posizione realistica 8depressiva). Per riconoscere la totalità
dell’oggetto il bambino deve inevitabilmente riconoscere anche la sua alterità, e

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quindi la frustrazione legata a una maggior separatezza e a una minor possibilità di
controllo.
Sembrano esserci 2 tipi di ipocondriaci, quelli che vanno sempre dal medico,
portando ogni preoccupazione e ogni sintomo, sicuri siano la spia di una malattia più
o meno fatale; e quelli che dal medico non ci vanno mai, troppa paura, ma quando
pensano non fanno che pensare vi sia qualcosa che non va nel loro corpo e nella loro
salute.
L’ipocondria è anche un delirio di persecuzione; si è perseguitati non da un essere
umano, ma dalla malattia. Secondo Fenichel, il paziente ipocondriaco sottrae libido
all’oggetto e la rivolge narcisisticamente su un organo del corpo. Tra gli impulsi
ritirati, quelli sadici e ostili sembrano avere un ruolo centrale è cosi che l’ipocondria
può soddisfare il senso di colpa. Il DSM raccoglie i pazienti una volta definiti
ipocondriaci sotto la macro-diagnosi del disturbo da sintomi somatici, ma il DSM
prevede anche la diagnosi da disturbo da ansia di malattia, che consiste nella
preoccupazione di avere o contrarre una grave malattia, con sintomi somatici se
presenti di lieve intensità.
Un altro frequentatore di medici è il dismorfo-fobico, che oggi gli addetti ai lavori
definiscono affetto da disturbo di dismorfismo corporeo. È una persona preoccupata
per imperfezioni o difetti fisici inesistenti che la portano a ritenersi brutta, non
attraente o addirittura deforme. Potremmo considerare l’ipocondria una sorta di
rifugio psichico, figlia di un ideale dell’io esigente e inflessibile, l’ipocondria porta
con sé un intreccio di aspetti narcisistici, ossessivi, melanconici e depressivi.
OTTO KERNBERG propone un approccio psicoanalitico alla diagnosi di personalità
che comprende 4 diversi livelli: sana-nevrotica-borderline-psicotica.
Una persona normalmente sana non è abitualmente concentrata sul tema
salute/malattia. Un paziente ipocondriaco nevrotico sa che le sue preoccupazioni
possono essere eccessive e infondate e può prendere in considerazione che il
temuto malessere del corpo sia espressione di un disagio più esistenziale,
psicologico. L’ipocondriaco borderline fa molta più fatica a tenere sotto controllo la
preoccupazione per la malattia, che diventa un’espressione concreta e tangibile di
un malessere psichico. Quello psicotico è il livello più grave del funzionamento
mentale e della patologia.
L’esame di realtà è perduto, e possono comparire deliri, allucinazioni, idee e affetti
grossolani e bizzarri.
C’è un momento del colloquio psicologico, si chiama restituzione, in cui il clinico
deve appunto restituire al paziente ciò che ha capito di lui in termini diagnostici. Il
clinico deve contemporaneamente osservare e partecipare. La conoscenza
diagnostica deve essere idiografica o nomotetica? Con idiografica intendiamo un
tipo di conoscenza che si concentra sulle peculiarità del singolo, sulla sua specificità
e irripetibilità, con nomotetica intendiamo una conoscenza che cerca di stabilire
leggi generali, somiglianze che accomunano il funzionamento di individui diversi.
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La conoscenza idiografica appartiene al clinico e riguarda il singolo paziente; quella
nomotetica è più tipica del ricercatore e riguarda categorie di pazienti che
presentano caratteristiche comuni. La visione clinica migliore è idiografica e
contemporaneamente nomotetica. Saper tradurre leggi generali in declinazioni
particolari, elaborare ipotesi generali a partire da casi particolari: ecco il sapere
diagnostico.

DSM: col tempo è diventato sempre più ateorico descrittivo, cioè non ha teorie di
riferimento e non vuole spiegare l’origine dei disturbi mentali, presenta i disturbi dal
punto di vista dei sintomi osservabili e rilevabili. È categoriale ovvero stabilisce un
numero preciso di criteri che consentono allo psichiatra di decidere se una
determinata condizione è diagnosticabile, e quindi patologica oppure non lo è. Per
molti anni, oggi non più ha proposto un approccio multi assiale, cioè ha orientato lo
sguardo psichiatrico sul paziente in modo stratificato, mettendo in luce
sequenzialmente le grandi sindromi, i disturbi della personalità, le condizioni
mediche associate, gli eventi di vita stressanti. Cerca di evitare, ma spesso non ci
riesce la presenza comorbilità simultanea di più diagnosi nello stesso paziente,
partendo dal presupposto che, se più diagnosi si sovrappongono, averle separate
non era corretto, e quindi non sono valide.
Il primo DSM aveva 130 pagine e contemplava 106 disturbi, il quinto ha 1000 pagine
e 300 disturbi.
Nel DSM c’è l’abbassamento delle soglie diagnostiche. Da qui il suo rischio di
inflazione caveat diagnostica con falsi positivi, cioè diagnosi che rilevano un disturbo
ma successivamente vengono disconfermate. La fretta con cui si attribuiscono
diagnosi a condizioni che, prima di ricevere un nome, andrebbero meglio esplorate,
va criticata, ma senza dimenticare che la diagnosi è un momento fondamentale della
cura. Il modo migliore per limitare i rischi della diagnostica è mantenere al centro
dell’indagine il colloquio con il pazienti, l’empatia e la curiosità nei suoi confronti, la
contestualizzazione dei sintomi, l’anamnesi e gli approfondimenti con i test.

Nel 1973 l’American Psychiatric Association elimina dal DSM-III la diagnosi di


omosessualità egosintonica, cioè quella vissuta serenamente, l’omosessualità
rimarrà ancora per 15 anni nella sua espressione egodistonica ovvero considerata e
vissuta con dolore.
È nel DSM-III-R nel 1987 che l’APA eliminerà anche questa variante; nel 1990
l’organizzazione mondiale della sanità deciderà di eliminare la diagnosi di
omosessualità anche dalla Classificazione internazionale delle malattie (ICD)

I quadri isterici delle origini erano il frutto della società patriarcale ottocentesca,
della morale sessuale repressiva e del maschilismo dominante. Nel passaggio dal

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DSM-II al DSM-III il disturbo isterico di personalità viene eliminato dalla
nomenclatura ufficiale.
Basaglia è considerato il motore storico e politico della legge 180 che porta il suo
nome.
Nonostante i molti limiti nell’applicazione di questa legge il fatto che, in mancanza di
strutture adeguate molti malati mentali finiranno abbandonati a se stessi e alle loro
famiglie, paradossalmente incrementando l’uso degli psicofarmaci e i ricoveri in
strutture private, il segno lasciato da Basaglia nella psichiatria italiana è a tutt’oggi
forte.
La psichiatria non più solo reclusione, diventa relazione. Migone ci ricorda che avere
a disposizione più metodi diagnostici è un bene perché promuove il processo di
conoscenza.
Il colloquio è il migliore strumento diagnostico.

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