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Corso di Antropologia Culturale e

Sociale

SSD – M-DEA/1
(6 CFU)

Prof. Giuseppe Maccauro


Indice

Modulo 1 – Claude Lévi-Strauss e l’antropologia strutturale

Lezione 1 –Claude Lévi-Strauss: cenni biobibliografici –La vita (pag. 1) – Le opere (pag. 3)
Lezione 2 – Che cos’è l’antropologia strutturale? – Il campo della ricerca antropologica (pag. 5) – La
critica dell’evoluzionismo (pag. 7) – Critica dell’idea di progresso (pag. 9) – Il progresso come collaborazione fra gli
uomini (pag. 10)
Lezione 3 – Il problema dell’etnocentrismo – Tra esotismo e antropologia (pag. 11) – «Simbolo
dell’espiazione» (pag. 13) – La critica del gusto per l’esotico (pag. 14) – Critica del relativismo culturale (pag. 15)
Lezione 4 – Il problema dell’etnocentrismo – Nascita della linguistica strutturale (pag. 16) – La
fondazione di un’antropologia strutturale (pag. 18)

Modulo 2 – Natura, magia e mito nel pensiero di Claude Lévi-Strauss

Lezione 1 – Dalla natura alla cultura: la proibizione dell’incesto – La proibizione dell’incesto (pag.
20) – Lo scambio matrimoniale (pag. 21) – Dalla natura alla cultura (pag. 22)
Lezione 2 – Lo stregone e la sua magia: tra antropologia e psicanalisi– L’efficacia delle pratiche
magiche (pag. 23) – Il complesso sciamanistico (pag. 25) – Il polo collettivo del complesso sciamanistico (pag. 26) –
Tra pensiero normale e pensiero patologico (pag. 27)
Lezione 3 – L’analisi del mito– Verso le Mythologiques (pag. 28) – L’analisi del mito (pag. 30) – La
razionalità del mito (pag. 31) – Tra etnologia e storiografia (pag. 33)
Lezione 4 – Antropologia come “entropologia”: i Tristi tropici di Lévi-Strauss– I Tristi Tropici
(pag. 35) – L’etnologo tra Freud e Marx (pag. 37) – Antropologia come “entropologia” (pag. 39)

Modulo 3 – L’antropologia in Italia: Ernesto De Martino

Lezione 1 – Tra demologia, folklore e antropologia– Cenni introduttivi (pag. 41) – Etnologia e politica
nazionale (pag. 43) – Ernesto De Martino: vita e opere (pag. 45)
Lezione 2 – L’etnologia di De Martino fra storicismo e irrazionalismo– Tra etnologie e storicismo
(pag. 47) – Il mondo magico (pag. 49) – Il concetto di “presenza” (pag. 50) – La realtà dei poteri magici (pag. 52)
Lezione 3 – Verso l’etnologia delle classi popolari– L’irruzione delle masse nella storia (pag. 54) – Il
lavoro del lutto (pag. 56) – Il tarantismo come esorcismo culturale (pag. 58) – Meridionalismo e questione meridionale
(pag. 59)
Lezione 4 – Sciamani, maghi, duci – Lo sciamano nel mondo magico (pag. 60) – La vita magica del Sud
Italia (pag. 62) – Il risveglio del magismo nella civiltà moderna (pag. 64)
Modulo 1 – Claude Lévi-Strauss e
l’antropologia strutturale
Lezione 1 – Claude Lévi-Strauss: cenni biobibliografici

1. La vita

Claude Lévi-Strauss (Bruxelles 1908 – Parigi 2009) è stato il massimo


teorico dello strutturalismo in antropologia. La teoria strutturalistica ha
avuto una influenza enorme su un vasto ambito delle scienze umane
nel XX secolo (psicologia, critica letteraria e ricerca storica, oltre,
naturalmente, alle scienze etno-antopologiche) e ciò ha contribuito a
fare di Lévi-Strauss uno dei più autorevoli e studiati intellettuali del
secolo scorso.

Nel corso della sua lunga vita Lévi-Strauss – che ha dedicato


all’insegnamento molto più tempo di quanto, normalmente, non
facciano gli antropologi, cui l’immaginario collettivo assegna l’abito
di “viaggiatori professionali” in terre remote ed esotiche – fu docente
a San Paolo (Brasile), a New York e finalmente in Francia, in cui
rientrò dopo la guerra. A Parigi insegnò Antropologia Sociale
all’ÉcolePratiquedesHautesÉtudes e nel 1973 venne nominato
accademico del College de France, massima onoreficenza accademica
francese (il corrispettivo, per gli italiani, dell’essere nominati
accademici dei Lincei).

Claude Lévi-Strauss era di origini ebraiche. Il rischio di cadere nelle


mani delle truppe naziste, che nel frattempo avevano occupato
Belgio, Olanda, Parigi e buona parte del territorio francese, gli
suggerì nel 1941 di riparare negli Stati Uniti, dove inizierà ad
insegnare presso la New School for Social Research di New York.
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Poco dopo il suo ritorno dall’esperienza brasiliana, terminata nel
1939, è dunque nuovamente costretto a lasciare la Francia.
L’episodio costituirà un momento decisivo nella crescita e nello
sviluppo della teoria strutturalista: gli Stati Uniti sono infatti nel
corso della Seconda Guerra Mondiale luogo di incontro delle migliori
menti della scienza europea. A New York Lévi-Strauss avrà modo di
entrare in fecondo contatto con Franz Boas e con il linguista Roman
Jacobson, i cui studi ebbero un’influenza decisiva sull’antropologo
che si apprestava a pubblicare Le strutture elementari della parentela.

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2. Le opere

Lesstructuresélémentaires de la parenté (trad. it. 1969), pubblicato da Lévi-


Strauss nel 1948, è il lavoro in cui per la prima volta viene formulato
e applicato il metodo strutturale ad una ricerca sulle organizzazioni
familiari. Lévi-Strauss riesce qui a dimostrare come il principio alla
base dell’organizzazione della società umana sia quello della
proibizione dell’incesto e dell’esogamia.

Durante il suo periodo di lavoro a San Paolo in Brasile, Lévi-Strauss


ebbe modo di condurre una serie di ricerche sulle tribù
dell’Amazzonia. Da quelle ricerche nasce la pubblicazione deiTristi
Tropici, avvenuta molti anni dopo, nel 1955, che impose l’autore
all’attenzione del grande pubblico internazionale, e non soltanto degli
antropologi specialisti. I Tristi Tropici sono un testo a metà fra il
resoconto di una spedizione etnologica e un’autobiografia.
Contengono riflessioni filosofiche profondissime sul senso dello
studio antropologico e sul destino della civiltà umana e costituiscono,
ancora oggi, un punto di riferimento imprescindibile per chiunque si
ponga domande sul senso della civiltà occidentale e sul posto che
essa occupa fra quelle sorte nel corso della storia.

SuccessivamenteLévi-Strauss pubblica Le totémisme aujourd'hui (1962)


e La pensée sauvage (1962), lavori nei quali approfondisce la questione
delle forme di pensiero delle società non-occidentali, cercando di
rintracciare le connessioni con le forme a noi più familiari. Sarà,
quello del confronto fra le culture “primitive” e quelle evolute, uno
dei temi maggiormente presenti nell’opera del Lévi-Strauss maturo,
che darà particolare risalto al tema della unitarietà dello spirito
umano, visibile al di là delle differenti manifestazioni e delle

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differenti espressioni culturali cui hanno dato vita gli uomini nella
storia.

Durante gli anni ’60 videro la luce quattro opere: Le cru et le cuit
(1964, trad. it. 1966); Du miel aux cendres (1966, trad. it. 1970); L'origine
des manières de table (1968, trad. it. 1971) e L'homme nu, 1971 (trad. it.
1974). Questeoperecompongono la seriechiamataMythologiques e
analizzano dal punto di vista strutturale la
mitologiadegliindigeniamiericani. La tetralogiaMythologique
rappresentaprobabilmenteuno dei verticiespressividellaproduzione
culturale delsecolo XX, almeno per quanto concerne l’ambito di
ricerca dellescienzeumane.

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Lezione 2 – Che cos’è l’antropologia strutturale?

1. Il campo di ricerca dall’antropologia

Secondo Lévi-Strauss l’antropologia, che possiamo definire come


una «conversazione dell’uomo con l’uomo», si occupa dei sistemi di
segni (ad es.: riti religiosi, mitologie, sistemi di parentela, costumi,
forme di scambio economico, ecc.). Nell’insieme dei segni bisogna
includere anche gli oggetti materiali di una certa cultura (si pensi alle
lance o agli utensili di certe popolazioni) perché frutto di scelte
culturali determinate sia dal contesto ambientale, sia dall’azione
umana. Qual è la cornice all’interno della quale avviene lo studio dei
segni? La cornice è offerta dal confronto: l’antropologia è appunto
scienza del confronto che tenta di comprendere il significato dei
segni e dei simboli culturali attraverso la relazione che intercorre fra il
sistema simbolico occidentale e quello delle popolazioni oggetto di
studio. Si è parlato, non a caso, di «doppio sguardo
dell’antropologo», intendendo con ciò la necessità che l’antropologo
tenga sempre un occhio rivolto alla differenza culturale, oggetto del
suo studio, e alla propria identità culturale, che faccia da punto di
riferimento per non smarrirsi nell’oceano delle multiformi
manifestazioni della cultura umana.

L’antropologia è, inoltre, una scienza curiosa dell’originario: lo studio


etnologico dei primitivi nasce appunto dal desiderio di attingere alle
manifestazioni più autentiche dell’umano, per avvicinarsi il più
possibile all’idea di un’umanità allo stato di natura. Questo assunto,
che possiamo porre alle origini del pensiero antropologico dell’ ‘800
e che sopravvive, a volte in maniera inconsapevole, come elemento

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pregiudiziale delle forme più recenti della ricerca, costituisce un
aspetto critico della strutturalismo di Lévi-Strauss. Lo studio dei
primitivi non costituisce mai, in realtà, una ricerca dell’origine
dell’umanità, perché secondo Lévi-Strauss ogni manifestazione
simbolica è “tutta” culturale, e non reca traccia dell’umanità allo stato
di natura, a prescindere dal livello di complessità e organizzazione
che una società in particolare è in grado di raggiungere. Tuttavia il
confronto critico con le società cosiddette “primitive” – quali quelle
dei nativi dell’Amazzonia, vissute per secoli in condizioni di relativo
isolamento, che ha concesso loro di non subire processi troppo
evidenti di assimilazione alla civiltà occidentale – può consentire di
riportare alla luce quelle dinamiche inconsce della produzione dei simboli
culturali, che sono il vero oggetto della ricerca dell’antropologia
strutturale.

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2. La critica dell’evoluzionismo

L’ipotesi che la ricerca antropologica sia studio delle origini


dell’umanità è espressamente contestata la Lévi-Strauss. Questo tipo
di atteggiamento di pensiero, molto diffuso, è incluso all’interno delle
concezioni evoluzionistiche della storia mondiale. L’evoluzionismo in
ambito antropologico è l’atteggiamento per il quale le culture primitive
studiate vengono solitamente considerate come gradi inferiori dello
sviluppo della civiltà. Questa prospettiva di studio finisce per
schiacciare la storia universale sulla storia della civiltà occidentale,
ritenuta come realizzazione in assoluto più elevata delle possibilità
dello spirito umano. Di fatto l’atteggiamento evoluzionistico tende
ad identificare, in maniera più o meno inconsapevole, il concetto di
civiltà con quello di cultura occidentale, producendo come risultato
una visione per la quale tutte le manifestazioni culturali differenti
vengono catalogate come inferiori gradi di sviluppo storico.

L’antropologia strutturale ricerca invece le strutture elementari dello


spirito umano, che precedono ogni singola realizzazione storica.
Queste strutture sono le medesime per tutti gli uomini (i primitivi le
condividono con noi moderni) e uno degli obiettivi della ricerca è
quello di scoprire la profonda unità strutturale che si cela fra le
differenti manifestazioni della cultura umana.

La critica di Lévi-Strauss prende di mira anche la terminologia


scientifica, che rivela gli atteggiamenti pregiudiziali degli antropologi
rispetto alle civiltà studiate: concetti di «popoli civilizzati», o di
«primitivi», molto in uso presso gli antropologi dell’800, sono criticati
da Lévi-Strauss in molte occasioni perché denotano un
atteggiamento ingenuamente etnocentrico, che dubita della efficacia
storica delle forme di organizzazione umana differenti da quelle in
cui l’antropologo stesso è nato e cresciuto, ovvero quella occidentale.
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Proprio per sottrarsi al rischio di adottare una prospettiva
etnocentrica, alla dicotomia «civilizzati/primitivi» Lévi-Strauss
sostituisce quella fra «società calde» e «società fredde»: le societàfredde
tendono ad avere una organizzazione sociale rigida, che soffoca i
conflitti riducendo la trasformazione della società medesima; le
societàcalde producono grande differenziazione sociale e quindi
conflitti e trasformazioni.

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3. Critica dell’idea di progresso

Lévi-Strauss ritiene la differenziazione fra società calde e società


fredde semplicemente indicativa: sono i due poli di riferimento per le
interpretazioni delle differenze sociali, ma non corrispondono a
nessuna realtà effettiva, nella misura in cui non esistono società in
senso assoluto calde o fredde. Considerare le «società fredde» come
prive di capacità di sviluppo storico è un errore; allo stesso modo è
sbagliato considerare quelle «calde» come le uniche in grado di
produrre progresso. A tal proposito, nel saggio Razza e storia
(1952),Lévi-Strauss approfondisce il tema della differenza fra le
società e parla di «storia stazionaria» e «storia cumulativa».

La prima definizione sembra aderire all’immagine dei popoli rimasti


allo stato primitivo, che vivono al di fuori del progresso. La seconda
alla civiltà occidentale, che è la civiltà del progresso sociale e dello
sviluppo tecnologico. Allo stesso tempo, però, Lévi-Strauss pone la
domanda intorno al concetto stesso di progresso storico, che è
tipicamente occidentale: «dobbiamo dunque chiederci se questo
immobilismo apparente non dipenda dalla nostra ignoranza dei suoi
autentici interessi, consapevoli o inconsapevoli, o se, dotata di criteri
differenti dai nostri, questa cultura non sia nei nostri confronti
vittima della stessa illusione» (Razza e storia).

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4. Il progresso come collaborazione fra gli uomini

All’idea tradizionale di progresso come sviluppo rettilineo e


miglioramento costante (idea tipicamente occidentale, dunque non-
universale), Lévi-Strauss contrappone l’ipotesi che il progresso nasca
dalla collaborazione fra gli uomini. Per spiegare il modo in cui le
trasformazioni storiche si realizzino su scala universale, Lévi-Strauss
propone l’esempio dei tavoli da gioco: si immagini un giocatore che
voglia stabilire alla roulette una serie di numeri progressiva (ad. es. da
1 a 30). Se giocherà da solo avrà la quasi totale certezza di
rovinarsi.Se, invece deciderà di condividere il suo obiettivo con altri
10 giocatori, vedrà aumentare le possibilità di riuscita, perché ad ogni
mano giocherà su 10 tavoli, aumentando la probabilità che esca il
numero di cui ha bisogno.

Alla base di questa idea, riportata in Razza e storia, vi è la critica


all’idea che il progresso appartenga alla sola civiltà occidentale. Esso, al
contrario, nasce da scambi, relazioni (anche violente, come la guerra),
migrazioni, che consentono di realizzare forme cumulative di storia,
perché aumentano le probabilità che certi fermenti culturali
prendano vita: «nessuna cultura è sola; ogni cultura è data sempre in
coalizione con altre culture».

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Lezione 3 – Il problema dell’etnocentrismo

1. Tra esotismo e antropologia

L’interesse etnologico per le civiltà lontane e primitive nasce


dallafascinazione e dal gusto dell’esotico che si afferma in Europa a
partire dal XIX secolo. Lo studio delle società primitive nascerebbe
dunque, in molti casi, come ricerca delle origini della civiltà umana.
Evidentemente la società occidentale ha avvertito al cuore della
propria identità culturale un particolare senso di distacco
dall’elemento naturalistico. I fenomeni di meccanizzazione della
società, come pure quelli di progressivo svuotamento dell’orizzonte
del sacro e del religioso, che si realizzano in forme evidenti
nell’Occidente a ridosso dei secoli XIX e XX, vengono
accompagnati da un crescente senso di nostalgia per la semplicità
perduta. La stessa semplicità e autenticità del vivere veniva ricercata
in luoghi esotici e presso popoli “primitivi” da esploratori e studiosi
nel corso dei loro viaggi.

Nei Tristi TropiciLévi-Strauss riconosce che l’etnologo vive una


condizione di scissione: il suo amore per le società lontane sembra il
riflesso del disprezzo che nutre per la propria: «Egli [l’etnologo] ha
sotto gli occhi una società, la sua; perché decide di ripudiarla?». Ciò
dà origine a un aspetto paradossale nella antropologia e nella figura
dell’antropologo: questi, infatti, può proclamare valide (o, addirittura,
“migliori”) le società oggetto del proprio studio soltanto basandosi
sui valori della società occidentale da cui proviene e dalla quale,
spesso polemicamente, prende le distanze. Uno dei punti critici della
ricerca antropologica è dunque il seguente: l’antropologo non può

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agire, né pensare, indipendentemente dal tipo di società da cui
proviene: l’antropologo è «parte in causa» della civiltà occidentale,
l’unica a creare degli antropologi e a sviluppare una sensibilità
etnologica, o il desiderio del confronto con gli altri. Dunque, per
quanto forte possa essere la critica dell’antropologo nei confronti
della società occidentale, essa rimane sempre e comunque l’unico
punto di riferimento a sua disposizione per operare un confronto
con l’altro. Potremmo dire che, paradossalmente, il desiderio
dell’antropologo di prendere le distanze dalla propria identità
culturale non solo non può concretizzarsi nella negazione di questa
identità, ma addirittura produce una ulteriore sua affermazione.

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2. «Simbolo dell’espiazione»

Il paradosso antropologico possiede per Lévi-Strauss origini e


motivazioni riconducibili sia alla sensibilità culturale, sia alla storia
politica del mondo moderno. «Se l’Occidente ha prodotto degli
etnografi – dice Lévi-Strauss nei Tristi tropici – è perché un cocente
rimorso doveva tormentarlo, obbligandolo a confrontare la sua
immagine con quella delle società differenti, nella speranza di vedervi
riflesse le stesse tare». L’esperienza coloniale e la brutale
assimilazione delle culture altrerispetto a quella occidentale, non solo
ha prodotto la scomparsa di un enorme patrimonio di usi, costumi e
tradizioni, ma ha soprattutto messo l’Occidente di fronte all’orrore
delle proprie colpe e delle proprie imperfezioni. L’antropologo
diventa simbolo di espiazione nella misura in cui va, con i suoi viaggi,
alla ricerca di quei residui di culture spazzate vie dall’impresa della
conquista coloniale del secolo precedente; allo stesso tempo è
desideroso di recuperare quel contatto genuino con la terra e con la
vita che solo i popoli allo stato di natura sembrano in grado di
insegnargli. Ciò che l’antropologo trova, però, sembra frustrare le sue
ambizioni: secondo Lévi-Strauss «nessuna società è perfetta» e in
tutte le società sembrano combinarsi elementi di raffinatezza
culturale ed elementi di brutalità inaudita, esattamente come accade,
con modalità che gli sono del tutto peculiari, per l’Occidente.

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3. La critica del gusto per l’esotico

Nella imperfezione delle società allo stato primitivo l’antropologo


riconosce innanzitutto che il concetto di «stato di natura» è fittizio, e
costituisce un’invenzione della sensibilità culturale occidentale,
successivamente applicata alle altre società. L’idealizzazione dello
stato di natura è, in realtà, un’illusione etnocentrica: l’uomo è sempre
in società, ed è sempre oltre la natura, altrimenti non sarebbero gli
antropologi a studiare i popoli primitivi, ma gli zoologi. Nel
confronto etnografico noi possiamo fare emergere le forme
immanenti alla costituzione dello stato sociale, che sono comuni agli
Occidentali e ai primitivi, perché tutta l’umanità è nel mondo della
cultura.

Resta allora da comprendere il motivo per cui l’antropologia resti


profondamente affascinata dall’idea che lo stato di natura esista
veramente, ovvero perché la ricerca continui ad interessarsi di quelle
popolazioni che si segnalano per una particolare distanza dalla
dimensione culturale occidentale. Nei Tristi Tropici Lévi-Strauss si
domanda: «che cosa siamo venuti a fare qui? Con quale speranza? A
quale fine? Che cosa è realmente un’inchiesta etnografica?».
L’inchiesta etnografica è innanzitutto un viaggio condotto
allontanandosi dalla propria società, dai propri costumi e dalle
proprie abitudini: ciò significa, sul piano della ricerca scientifica, la
messa in discussione del sistema culturale di riferimento dell’etnologo.

Questa messa in causa del sistema di valori in cui si è nati e cresciuti


può diventare la tentazione inconsapevole dell’antropologo, cui può
sfuggire un aspetto decisivo: solo l’Occidente ha prodotto degli
antropologi e dunque ogni voluttà di risalire alle origini della storia, o

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di spogliarsi del proprio habitus culturale, non può realizzarsi
all’interno della cornice del confronto etnografico.

4. Critica del relativismo culturale

Quanto affermato in precedenza conduce Lévi-Strauss a sottolineare


l’importanza del viaggio di ritorno, come vero momento conoscitivo
dell’esperienza del confronto con le civiltà altre. Il ritorno è il
momento in cui l’antropologo, arricchito dall’esperienza del
confronto, può fare i conti con le tare della propria civiltà, con i suoi
limiti e con le proprie peculiarità, che ha potuto vedere riflesse
nell’altro. Questo è anche un modo per mettere definitivamente fuori
gioco gli atteggiamenti relativistici: il relativismo culturale accoglie
l’ipotesi che tutte le culture possono essere messe sullo stesso piano,
dunque che tutte le culture possano essere assunte come un abito,
che si indossa a piacimento quando occorre.

Il relativismo è un atteggiamento positivo quando è assunto in


maniera critica, come consapevolezza della pari dignità di tutte le
culture e come apertura all’alterità senza perdita della propria identità.
Quando invece diventa rifiuto della propria identità, esso diventa
scelta di abbracciare una condizione inautentica, impossibile da
realizzare, perché non si può scegliere a piacimento il proprio mondo
culturale di appartenenza. L’antropologia è, potremmo dire, processo
di riappropriazione della propria identità culturale attraverso il
confronto critico con la cultura differente. La ricerca di uno stato di
natura resta come pungolo del viaggio antropologico, ma deve
necessariamente dissolversi in un più consapevole possesso di ciò
che è il nostro mondo culturale. In tal senso la risposta alla domanda
di Lévi-Strauss sul senso del viaggio dell’antropologo è in parte
un’ammissione di sconfitta: l’ambizione di attingere al primitivo e

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all’origine dell’umano è destinata a restare tale e a non realizzarsi in
un traguardo concreto.

Lezione 4 – Antropologia e linguistica strutturale

1. Nascita della linguistica strutturale

Alle fondamenta dell’antropologia strutturale di Lévi-Strauss c’è


l’intuizione del carattere innovativo della linguistica strutturale, chenasce
all’inizio del XIX secolo. Il Corso di linguistica generale (1916)di
Ferdinand De Saussurrene è considerato il testo fondativo. In cosa
consiste il tratto innovativo della linguistica strutturale, che si sarebbe
affermata, in seguito, come modello per molti esponenti delle scienze
sociali?

Gli esponenti dell’analisi strutturale in linguistica (Saussurre,


Jakobson e Trubeckoj in particolare), al di là delle singole differenze
di interpretazione, hanno saputo cogliere attraverso la fonologia una
realtà oggettiva e universale (dunque analizzabile col metodo
scientifico) a partire dalla quale le lingue si sviluppano nelle loro
forme concrete e storiche. In particolare Nikolaj Trubeckoj individua
4 aspetti fondamentali dello studio fonologico: la fonologia passa dallo
studio dei fenomeni coscienti a quello dei fenomeni inconsci; considera i
termini non singolarmente, ma facenti parte di una rete di relazioni;
introduce il concetto di sistema; ambisce alla scoperta di leggi generali.
La fonologia di Trubeckojintende risalire ai sistemi inconsci della
lingua, ovvero ai fonemi che costituiscono la struttura e la rete di
elementi minimi da cui si sviluppa una lingua. Ogni fonema sarebbe
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in relazione di identità o di opposizione con gli altri. La fonologia
mira appunto a determinare se due foni rappresentano la stessa entità
o due entità differenti, in genere basandosi sulle differenze di
significato.

Lévi-Strauss rinviene l’esistenza di due elementi molto significativi


della linguistica strutturale:essa studia i sistemi fonologici a partire
dalle differenze di significatodei foni e, insistendo sulla
naturasignificante dei fonemi, la fonologia sottolinea come la lingua sia
un fatto sociale, perché la comunicazione è un processo di
negoziazione del significato. Questi aspetti dello studio linguistico,
vengono trasferiti da Lévi-Strauss sul piano della ricerca
antropologica che, come la linguistica degli strutturalisti, studia i
simboli culturali, ovvero le forme di relazione significativa che le
società istituiscono. La domanda di partenza per comprendere la
relazione esistente fra linguistica e antropologia secondo Lévi-Strauss
è la seguente: dal momento che la lingua è un fatto sociale, è possibile
estendere il metodo della linguistica strutturale allo studio di tutti gli
altri fenomeni sociali?È possibile per l’antropologia risalire alle
strutture inconsce dell’organizzazione sociale, così come la linguistica
fa con i fonemi?

Queste domande sono lo stimolo per un programma di ricerca


estremamente ambizioso: partire dalla studio dei sistemi delle relazioni
sociali così da potervi vedere riflessa, sul piano cosciente e
socializzato, una proiezione delle leggi universali e inconsce dello
spirito umano.

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2. La fondazione di un’antropologia strutturale

Secondo Lévi-Strauss è possibile stabilire una relazione fra i sistemi


di parentela e i fonemi, e adattare il metodo linguistico ai temi e alle
problematiche affrontate dalla ricerca antropologica. «Come i fonemi
– secondo Lévi-Strauss – i termini di parentela sono elementi di
significato; anche essi acquistano tale significato solo a condizione di
integrarsi in sistemi; i sistemi di parentela, come i sistemi fonologici,
sono elaborati dall’intelletto allo stato del pensiero inconscio». Come
si realizza in linguistica il passaggio dall’uso inconscio della lingua,
alla coscienza delle sue strutture inconsce? Si realizza estraendo dalle
parole la realtà fonetica del fonema. Una volta isolato, il fonema (la
più piccola unità di significato) può essere riconosciuto nelle sue
occorrenze anche in sistemi linguistici molto lontani e differenti: esso
è una struttura universale della lingua.

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Livello Livello
conscio inconscio
Linguistica Fono Fonema

Antropologia Sistema Struttura

L’antropologia, come la linguistica, intende spingere l’analisi


abbastanza lontano da riconoscere le strutture universali e inconsce,
soggiacenti dietro ogni istituzione culturale od ogni usanza, che
imprimono il proprio sugello anche in sistemi culturali storicamente
definiti e distanti fra loro nello spazio e nel tempo. Le somiglianze
fra i termini del metodo linguistico e del metodo antropologico
posso essere riassunte in maniera schematica:

Fono e sistema rimandano entrambi ad una dimensione storica e


concreta. Fonema e struttura, invece, riguardano la legge generale che
produce i foni e i sistemi, e che permette di cogliere la profonda
unità che lega i sistemi linguistici e i sistemi simbolici al di là delle
infinite loro differenziazioni sul piano concreto.

L’antropologia strutturale cerca di recuperare le strutture invarianti


dello spirito umano, così come la linguistica quelle della lingua. In
quanto studio dell’uomo, l’antropologia strutturale sviluppa e cerca di
rispondere con strumenti moderni ad una domanda molto antica,
che è quella sulla universalità della natura umana.

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Modulo 2 – Natura, magia e mito nel
pensiero di Claude Lévi-Strauss

Lezione 1 – Dalla natura alla cultura: la proibizione dell’incesto

1. La proibizione dell’incesto

Uno dei cardini della antropologia di Lévi-Strauss è costituito dal


tema della proibizione dell’incesto. L’argomento è al centro del suo libro
del 1949, Le strutture elementari della parentela, che è considerato il
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primo consistente lavoro di ispirazione strutturalista fra quelli di
Lévi-Strauss. Si tratta di un lavoro estremamente ambizioso, nel
quale l’autore si interroga su questioni di portata universale, come il
tema del passaggio dalla natura alla cultura umana, cui perviene a
dare una originale contestualizzazione partendo proprio dall’interesse
per i vincoli matrimoniale e il tabù dell’incesto.

Innanzitutto Lévi-Strauss sgombera il campo da possibili prospettive


dannose intorno al nucleo di problemi prescelti per l’analisi: si
esclude che la proibizione per l’incesto presso i popoli primitivi
possa avvenire per finalità eugenetiche; allo stesso tempo si esclude la
istintiva repulsione nei confronti dei consanguinei, perché proprio la
psicoanalisi freudiana in quegli anni aveva messo in evidenza
l’esistenza di complessi psichici attivi, soprattutto nei soggetti più
piccoli, definiti dallo stesso Freud come complesso di Edipo, che
sembrano illuminare l’esistenza di dinamiche di attrazione nel
rapporto figlio/madre e figlia/padre.

2. Lo scambio matrimoniale

Partendo da alcune conclusioni dello studioso Durkheim, Lévi-


Strauss riconosce l’esistenza di una relazione fra proibizione dell’incesto
ed esogamia. Infatti il divieto di unirsi con un proprio familiare
comporta due conseguenze fondamentali: lasciare nella disponibilità
di altri le donne appartenenti alla propria cerchia familiare; cercare
presso altre comunità il proprio partner matrimoniale. Il rapporto di
reciprocità che si genera in questo modo fra i vari gruppi umani
permette di definire i sistemi di parentela come sistemi di comunicazione
e di scambio fra gruppi. È un passaggio molto importante, perché è
quello che apre alla possibilità di introdurre in antropologia i metodi

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di ricerca della linguistica strutturale. Di fatto Lévi-Strauss sta
ipotizzando che le relazioni matrimoniali possano essere considerate
alla stregua di linguaggi, ed essere studiate come tali.

Attraverso lo studio dei legami di parentela emerge nell’analisi


antropologica il tema della reciprocità. Secondo Lévi-Strauss la
reciprocità deve essere considerata come una struttura fondamentale
dello spirito umano, che agisce anche come costante dei rapporti di
parentela, di qualunque natura essi siano. Il principio di reciprocità
sarebbe una struttura inconscia, che si accompagna al principio della
esogamia o della proibizione dell’incesto.

3. Dalla natura alla cultura

Il tema del passaggiodalla natura alla cultura è uno dei nodi problematici
della riflessione di Lévi-Strauss e, in modo particolare, del suo lavoro
su Le strutture elementari della parentela. Si tratta di un argomento tanto
affascinante, quanto problematico: se l’umanità è sempre “nella
cultura”, come è possibile forzare i limiti del nostro intelletto e
uscirne per raggiungere il mondo animale, vegetale, o minerale? Per
risalire al momento del passaggio, noi infatti dovremmo spogliarci del
nostro abito di individui storici e risalire ad una dimensione che
potremmo definire preumana, probabilmente perduta per sempre, o
forse mai realmente esistita.
22
Lévi-Strauss tenta tuttavia di offrire una soluzione all’enigma, senza
per questo ricadere in una prospettiva antirazionale: non vuole cioè
risalire al momento storico del passaggio, ma mostrare come natura e
cultura siano costantemente dentro la creazione simbolica dell’uomo
e che il passaggio originario sarebbe stato propiziato proprio dalla
regola della proibizione dell’incesto. Infatti essa possiede, come abbiamo
visto, carattere universale (dunque è un fatto della natura umana) dal
momento che in tutte le società umane esistono degli individui tabù,
che non possono diventare partner matrimoniali di altri individui.Su
questo elemento naturale, successivamente, si innestano i vari modelli
di parentela, che sono espressione di una regola, cioè sono cultura. La
struttura dei modelli, ovvero la legge universale della proibizione
dell’incesto, resta sommersa nel sostrato inconscio dello spirito umano,
dal quale agisce e predetermina i modelli.

Lezione 2 – Lo stregone e la sua magia: tra antropologia e


psicanalisi

1. L’efficacia delle pratiche magiche

Nel 1949 Lévi-Strauss pubblica, sulla rivista «Lestempsmodernes», un


saggio intitolato Lo stregone e la sua magia. Il testo, poi riproposto in
Antropologia strutturale, è un importante contributo per comprendere il
funzionamento dei riti magici presso le popolazioni primitive, alla
luce della antropologia strutturale. Nel testo si analizzano, fra i tanti
aspetti del rito magico, quelli che possono fare luce su alcuni punti di

23
interesse antropologico: i motivi della efficacia di alcune pratiche
magiche; i punti di relazione fra pratica sciamanistica e terapia
psicoanalitica.

Il punto di partenza della riflessione è costituito dallo stupore


dell’osservatore occidentale, che non può fare a meno di notare
come determinate pratiche magiche, presso i popoli primitivi,
possiedano concrete capacità di presa sulla realtà e di efficacia. Una
possibile risposta ad un interrogativo che non sembra prevedere una
possibile risoluzione razionale è che presso alcune società il
condizionamento sociale agisce in maniera fortissima sugli individui: una
persona convinta di essere maledetta, abbandonata da tutti gli altri
elementi del gruppo, in molti casi riportati dagli etnologi, finisce
spesso per morire: «l’integrità fisica non resiste alla dissoluzione della
personalità sociale».

«L’efficacia della magia implica la credenza nella magia», che si


manifesta sotto i seguenti aspetti: la credenza dello sciamano nelle
sue tecniche; la credenza della vittima perseguitata, o del malato
curato, nelle tecniche magiche; la fiducia della collettività. In sostanza
la spiegazione psicologica alla efficacia di certe pratiche magiche
sembra essere quella del condizionamento sociale. Lévi-Strauss non
ritiene tuttavia questa risposta esauriente. È infatti difficile
giustificare, ad esempio, una morte come una conseguenza diretta di
una credenza o di una forma di condizionamento sociale. Oltretutto
dare alla collettività un potere di condizionamento tanto forte
significherebbe a priori escludere che esistano presso i primitivi
processi di individualizzazione delle scelte, o, addirittura, negare che
il concetto stesso di individuo si sia formato. L’esperienza degli
antropologi, al contrario, sembra suggerire l’esatto opposto, ovvero

24
che l’idea di libertà individuale sia tutt’altro che estranea alla
mentalità primitiva.

Per comprendere meglio le modalità in cui il condizionamento


sociale si realizza, senza scadere in banalizzazioni del fenomeno del
magismo, che riguarda una porzione enorme delle culture umane,
Lévi-Strauss concentra l’indagine sul cosiddetto complesso sciamanistico.

2. Il complesso sciamanistico

Secondo Lévi-Strauss il «complesso sciamanistico» si compone di tre


elementi: lo sciamano, con particolare riferimento agli stati
psicosomatici che produce con le sue tecniche; l’assistito dello
sciamano; la collettività, che riceve soddisfazione intellettuale
dall’attività dello sciamano. In realtà, data la maggiore importanza

25
che possiedono, gli elementi del complesso sciamanistico possono
essere ridotti a soli due, ovvero lo sciamano e la collettività.

Lévi-Strauss non nega che lo sciamano effettivamente possieda


alcune capacità di intervento curativo su disturbi di tipo
psicosomatico, molto diffusi in certi contesti di vita, simili a quelli
delle popolazioni primitive, caratterizzati da condizioni materiali di
insicurezza ed esposizione a mali sconosciti alle popolazioni del
mondo tecnologicamente evoluto. Tuttavia ciò che rende efficace la
magia dello sciamano è il consenso sociale che questi riesce a
raccogliere intorno a sé. È proprio il consenso a fare di un individuo
uno sciamano.

L’aspetto sociale del lavoro dello sciamano finisce per rappresentare


l’aspetto determinante per la comprensione della efficacia della sua
magia: gli sciamani infatti praticano dei riti, il cui fine è offrire alla
comunità la visione di uno spettacolo.

3. Il polo collettivo del complesso sciamanistico

Qual è lo “spettacolo” che lo sciamano offre al suo pubblico? Lo


sciamano interviene soprattutto quando la comunità è chiamata ad
affrontare un passaggio esistenziale problematico: dalla carestia di
prodotti agricoli, alla penuria di animali da cacciare, fino alla

26
preparazione dei gruppi chiamati in battaglia contro le popolazioni
nemiche. In generale il tipo di intervento che compie lo sciamano
non è medico, nel senso che siamo abituati a dare al termine, ma è
esorcistico. Lo spettacolo dello sciamano consiste pertanto nella
rievocazione della «chiamata», ovvero dell’episodio (in genere
traumatico e onirico) che ha permesso all’individuo di scoprirsi
sciamano. Rivivendo il trauma della «chiamata», lo sciamano offre
all’uditorio lo spettacolo della sua abreazione, termine tecnico con cui
in psicoanalisi si intende il momento catartico in cui il paziente,
rivivendo il trauma che ha scatenato la sua nevrosi, e se ne libera.

Lo spettacolo dell’esperienza iniziatica dello sciamano indica anche al


paziente la via della liberazione dalla sua condizione di malato: la
trance dello sciamano e l’oltrepassamento del trauma iniziatico fanno
da modello per il malato e per la comunità. In questo, dunque,
consiste lo spettacolo offerto dallo sciamano: la rievocazione di un
episodio traumatico, che non ha avuto come effetto la frantumazione
dell’individuo, ma la sua trasformazione in sciamano, ovvero in una
entità che è in grado di padroneggiare quel trauma, al punto da
poterlo rievocare a piacimento a beneficio degli altri. Lo sciamano –
dice Lévi-Strauss – è un «abreatore professionale»: non uno
psicologo, ma un malato che ha saputo liberarsi del proprio trauma e
che cura gli altri offrendo lo spettacolo esemplare della propria
guarigione.

4. Tra pensiero normale e pensiero patologico

Lo sciamano, come dicevamo in precedenza, non è quindi un


medico: il suo lavoro terapeutico non può essere associato in alcun
modo a quello che viene condotto da chi, nel mondo occidentale,

27
opera secondo le regole dettate dalla scienza moderna. Lévi-Strauss
lo accosta, piuttosto, allo psicanalista. Ciò non significa che questi
consideri non scientificamente fondato il pensiero di Freud. Al
contrario potremmo dire che Lévi-Strauss riconosca alla psicanalisi la
capacità di uscire da alcune visioni ristrette che il pensiero scientifico,
nelle sue manifestazioni più ingenue, può veicolare.

Lévi-Strauss parla di un sistema di rimandi fra pensiero patologico e


pensiero normale, che viene generato dall’azione sciamanica e che
permette il riassorbimento del primo nel secondo. In sostanza lo
sciamano si muove su un territorio che il pensiero scientifico
moderno non conosce, oppure non frequenta. Su questo territorio
altre forme di cultura umana hanno invece saputo costruire alcune
importanti risorse per la loro sopravvivenza. La differenza fra pensiero
patologico e pensiero normale è la seguente: il pensiero patologicoè una
eccedenza della funzione simbolica sul mondo; quello normale è una
richiesta inevasa di significato del mondo. La coppia
sciamano/malato permette il collegamento fra pensiero normale e
pensiero patologico, soprattutto grazie alla presenza mediatrice della
collettività al rito di guarigione. La pratica sciamanica consiste nel
proiettare alcune regole dell’universo sociale collettivo all’interno del
mondo psichico del malato. La guarigione non avviene per la
rimozione della causa oggettiva della malattia, ma perché l’elemento
di disordine psichico viene riassorbito all’interno di un sistema
culturalmente coerente, di cui la comunità è garante.

Lezione 3 – L’analisi del mito

1. Verso le Mythologiques

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Nel 1955 Lévi-Strauss pubblica un articolo intitolato La struttura dei
miti. Alcuni anni più tardi, nel 1962, pubblica invece due lavori
intitolati Il totemismo oggi e Il pensiero selvaggio, che possiamo considerare
come il tentativo di produrre una immagine del «pensiero primitivo»,
inteso come una forma di comprensione del mondo e della natura
dotata di regole razionali e coerenza interna.

Il totemismo oggi segue un doppio binario: da un lato offre una critica


delle interpretazioni tradizionali del totemismo e della religiosità
primitiva, dall’altro propone una reinterpretazione del pensiero
primitivo come pensiero «classificatorio» o speculativo. Lévi-Strauss
polemizza con quegli autori che hanno contribuito a diffondere
l’immagine dell’uomo primitivo come di un individuo chiuso in un
mondo di rappresentazioni fantasiose e strambe, costantemente
preda di ipotetiche rappresentazioni collettive, che gli impedirebbero
di ragionare e costituire una immagine del mondo dotata di senso
compiuto e coerenza razionale.

L’analisi del totemismo vuole appunto smentire questa forma di


pregiudizio. Il totemismo, per Lévi-Strauss, è infatti una forma di
«pensiero classificatorio» o speculativo, che per interpretare il mondo
non si serve di concetti astratti (come la fisica occidentale), ma di
simboli concreti (animali, vegetali, ecc.) in grado di rappresentare dei
punti di riferimento del pensiero comprendente. Lévi-Strauss rifiuta
dunque l’ipotesi per cui il pensiero primitivo preceda lo sviluppo del
pensiero razionale, ma mette entrambi sullo spesso piano, come
forme differenti della medesima esigenza umana di orientarsi fra i
significati del mondo.

Questa linea interpretativa del “pensiero selvaggio” sarà al centro dei


lavori successivi, ovvero la tetralogia nota come Mythologiques, la cui
pubblicazione inizia nel 1964 con Il crudo e il cotto. Seguono negli anni
29
successivi Dal miele alle ceneri, 1967, L’origine delle buone maniere a tavola,
1968 eL’uomo nudo, 1971. Le Mythologiquescostituiscono un tentativo, a
partire soprattutto dall’analisi strutturale dei miti americani, di
individuare la complessità del pensiero mitico e la sua profonda
comunanza con le strutture del pensiero positivo della civiltà
occidentale.

2. L’analisi del mito

Ne La struttura dei miti (in Antropologia strutturale) Lévi-Strauss prova a


fornire un primo esempio di analisi strutturale dei miti. Il punto di
partenza del lavoro è la volontà di conoscere la razionalità interna ai

30
miti, tradizionalmente considerati come favole dell’umanità primitiva.
La tesi di Lévi-Strauss è che alcuni fenomeni culturali, come i miti,
possano essere studiati seguendo lo spunto della linguistica
strutturale. Questi rileva che alcuni aspetti dei miti si ripetono presso
tutte le culture, anche quelle lontanissime fra loro, che non hanno
mai avuto contatti. Tali aspetti, però, acquisiscono differenti
sfumature di significato nelle differenti versioni del mito, come
accade per i suoni della lingua.

Come in linguistica un fonema identico produce significati differenti


quando ricorre in lingue differenti, così in antropologia accadrebbe ai
miti: il mito viene scomposto in mitemi; imitemi vengono analizzati in
relazione fra loro. I mitemi sono unità costitutive del mito, che
acquisiscono significato solo quando posti in relazione con gli altri
mitemi: isolato dal contesto il mitema non ha alcun significato. I mitemi
sono però delle unità di significato molto più complesse dei fonemi.
Per la loro individuazione Lévi-Strauss ritiene si debba procedere
leggendo il mito come se fosse una armonia di suoni, come avviene
per la lettura dello spartito di una sinfonia. I miti vengono scomposti
non in base alla struttura cronologica del racconto, ma in funzione
delle relazioni che le loro parti intrattengono fra loro: elementi del
mito che hanno la stessa funzione costituiscono un mitema. Il
procedimento di scomposizione e comprensione del mito può anche
essere allargato alle numerose varianti che i miti hanno (ad es. Lévi-
Strauss analizzando il mito di Edipo, include anche la lettura che ne
diede Freud quando teorizzò il «complesso di Edipo»).

3. La razionalità del mito

Bisogna ora domandarsi cosa ci sia al di là della pratica della


scomposizione del mito in mitemi, ovvero che cosa trova
l’antropologo al termine di questo lavoro. La risposta alla domanda
31
giustifica l’intero passaggio, che altrimenti si risolverebbe in un
esercizio sterile di scomposizione e confronto. Di fatto l’analisi
strutturale del mito, intesa come scomposizione in mitemi o fasci di
relazioni del mito in tutte le sue varianti, potrebbe “arrestarsi” alla
semplice “comprensione” del mito, mentre l’obiettivo di Lévi-Strauss
era molto più ambizioso e mirava ad illuminare i misteri della
funzione simbolica umana in profondità.

Lévi-Strauss vuole rendere manifeste sia la profonda coerenza dei


processi logici di alcune popolazioni ritenute spregiativamente
primitive, sia la struttura universale di organizzazione dei dati
dell’esperienza sensibile, da cui procede la funzione simbolica umana,
ovvero la facoltà della specie-uomo di produrre segni (la lingua, i
sistemi religiosi, le forme di organizzazione sociale, e così via).
Quando Lévi-Strauss parla del trickster, personaggio della mitologia
americana, sottolinea il fatto che questi incorpora elementi di
profonda ambiguità sessuale e sociale, ed è a metà strada fra il regno
animale e quello degli uomini: è una figura di transito fra elementi
opposti. L’ambiguità del tricksterpermettel’unione fra coppie di
opposti che costituiscono i problemi fondamentali dell’uomo sin
dalla sua origine (Vita-Morte, Estate-Inverno, Cielo-Terra, ecc.). Di
fatto nella mitologia dei nativi americani si trovano complesse
soluzioni agli enigmi dell’umanità sull’universo e sulla vita.

La profonda consapevolezza dei misteri “ultimi” della vita che i


nativi americani, e il loro sistema di segni, sembrano possedere,
suggerisce a Lévi-Strauss la conferma dell’ipotesi di una profonda
continuità fra “pensiero selvaggio” e pensiero astratto moderno, in
quanto entrambi articolano in maniera differente gli stessi problemi,
proponendo soluzioni solo formalmente differenti, ma non
qualitativamente. «Un’ascia di ferro – sostiene Lévi-Strauss – non è

32
superiore a un’ascia di pietra perché l’una sarebbe fatta meglio
dell’altra. Entrambe sono altrettanto ben fatte, ma il ferro non è la
stessa cosa della pietra».

4. Tra etnologia e storiografia

33
Lo studio di fenomeni culturali, quali la religione o la organizzazione
sociale, pone lo studioso di fronte al problema di istituire una
differenza fra la disciplina storiografica vera e propria, e quella etno-
antropologica. Finché sussisteva la convinzione che la cultura dei
popoli “primitivi” fosse manifestazione di una mentalità astorica e,
per certi versi, plasmata da menti non razionali, la differenza fra il
lavoro dello storico e quello dell’antropologo era un fatto
conclamato: al primo l’analisi di fatti prodotti dall’azione di menti
sveglie e consapevoli, al secondo, al contrario, l’onere di rintracciare
il filo del discorso razionale laddove la ragione latitava.

L’ipotesi di una continuità fra pensiero razionale e “pensiero


selvaggio” cui invece Lévi-Strauss (non da solo) dava credito,
ovviamente rendeva meno netti i confini fra le due discipline, e
imponeva di riflettere approfonditamente sulla questione del loro
posizionamento. Lévi-Strauss istituisce una differenza fra studio
etnologico e studio storiografico: «La storia organizza i suoi dati in
base alle espressioni coscienti, e l’etnologia in base alle condizioni
inconsce della vita sociale». Le condizioni della vita sociale sono
inconsce per definizione, dal momento che per la loro comprensione
ci si ispira al modello dei fenomeni linguistici, anch’essi
inconsapevoli.

L’etnologo sposa il punto di vista del linguista: il linguista estrae dalle


parole i fonemi, e quando ha riconosciuto in più lingue l’esistenza degli
stessi fonemi può passare alla comparazione di sistemi linguistici
anche molto differenti fra di loro. «Se, come crediamo, l’attività
inconscia dello spirito consiste nell’imporre forme a un determinato
contenuto, e se queste forme sono fondamentalmente le stesse per
tutti gli individui, antichi e moderni, primitivi e civili, è necessario e
sufficiente raggiungere la struttura inconscia, soggiacente a ogni

34
istituzione o ad ogni usanza per ottenere un principio di
interpretazione valido».

Lo studio delle istituzioni e delle usanze di un popolo è appannaggio


dello storico o dell’antropologo? Metodo antropologico e metodo
storico si incontrano su questo punto: la ricerca e la mappatura delle
istituzioni culturali dell’uomo è un’attività degli storici, perché è
compito della storia cogliere le trasformazioni dei fatti culturali sulla
linea del tempo. L’antropologia deve, invece, rintracciare le strutture
fisse che presiedono alla funzione simbolica universale.

Lo storico procede come un gambero, cioè a ritroso dal mondo


cosciente a quello dell’inconscio, che gli permette una prospettiva più
ampia; l’antropologo invece procede in avanti: dal mondo cosciente
si dirige verso una prospettiva che è ignota, completamente avvolta
nell’inconscio, che è il luogo delle strutture. Compiono lo stesso
percorso, ma con orientamento diverso.

35
Lezione 4 – Antropologia come “entropologia”: i Tristi tropici
di Lévi-Strauss

1. I Tristi Tropici

I Tristi tropici sono un resoconto di viaggio. Il libro, che fu


pubblicato nel 1955 e che diede all’autore fama internazionale
anche presso il pubblico dei non specialisti, si concentra in
particolare sui lavori di ricerca condotti da Lévi-Strauss in Brasile
e in Pakistan nei periodi a ridosso degli anni ‘40 e ‘50. Tuttavia nel
testo sono toccati argomenti di natura più ampia, non
riconducibili al solo ambito della ricerca antropologica.

Uno dei temi di maggiore interesse affrontati dal libro riguarda la


scelta, compiuta da Lévi-Strauss, di diventare antropologo.
L’autore parte da un punto di domanda generale: da dove nasce
l’esigenza del viaggio dell’antropologo? Il viaggio di scoperta
dell’antropologo nasce innanzitutto dal desiderio di riallacciare i
contatti con mondi storici perduti. Ma in luogo della differenza
culturale, l’antropologo moderno trova i sottoprodotti della
cultura occidentale, e l’omologazione al modello della
monocultura.La storia dell’espansione occidentale (colonialismo) ha
prodotto il paradosso di un recente interesse per società
esoticheche, precedentemente distrutte, hanno probabilmente
perduto ogni forma di richiamo alla differenza culturale di cui
l’etnologo va in cerca oggi. Prima l’Occidente importava spezie e
ori, oggi vorrebbe importare immagini e racconti entusiasmanti dai
mondi lontani.

Al centro del viaggio dell’antropologo vi è dunque il desiderio del


confronto con l’alterità culturale, ovvero con la differenza. In effetti
uno dei problemi più urgenti della ricerca è costituito dalla

36
possibilità di comprendere il culturalmente diverso: secondo Lévi-
Strauss «meno le culture umane erano in grado di comunicare fra
loro, e quindi di corrompersi a vicenda, meno i loro rispettivi
emissari potevano accorgersi della ricchezza e del significato di
quelle differenze». Paradossalmente, dunque, la comprensibilità del
diverso può realizzarsi quando la differenza si attenua, fino a
perdersi.

37
2. L’etnologo tra Freud e Marx

Lévi-Strauss riconosce due figure decisive della sua formazione in


Freud e Marx. Con il pensiero di Freud e MarxLévi-Strauss
dichiara di essere entrato in contatto nella tarda adolescenza,
trovando nelle loro opere degli elementi di ispirazione profonda e
duratura (Paul Ricoeur li definirà, alcuni anni dopo, maestri del
sospetto, insieme a Nietzsche).

L’opera di Freud rivelava sia l’esistenza di motivazioni profonde e


ambigue dietro ai comportamenti cosiddetti razionali degli uomini,
sia la possibilità di individuare l’esistenza di verità atemporali, che
pure agiscono nel tempo, come le leggi dell’inconscio.

L’opera di Marx rivelava che «la scienza sociale non si edifica sul
piano degli avvenimenti, così come la fisica non è fondata sui dati
della sensibilità: lo scopo è di costruire un modello, di studiare le
sue proprietà e le sue diverse reazioni in laboratorio, per applicare
poi quanto si è osservato all’interpretazione di ciò che avviene
empiricamente e che può essere molto lontano dalle previsioni».

L’interesse di Lévi-Strauss per i fenomeni inconsapevoli, che si


verificano sia sul piano individuale che su quello collettivo, è
particolarmente visibile nelle pagine dei Tristi tropici in cui si
concentra sulle leggi che regolano lo sviluppo delle città.
Dall’osservazione dello sviluppo delle città coloniali in Brasile,
Lévi-Strauss offre la possibilità di riflettere sulla percezione
qualitativa dello spazio, che emerge anche dagli atteggiamenti dei
coloni occidentali, sebbene in modo inconsapevole: «bisogna
tener conto degli elementi misteriosi che operano in tante città,
facendole sviluppare in direzione di ponente, e condannando così

38
i loro quartieri occidentali alla miseria e alla decadenza». «Niente
di tutto questo traspare nel comportamento ragionevole di ogni
individuo. Ma la vita urbana offre uno strano contrasto. Benché
essa rappresenti la forma più complessa e più raffinata della
civiltà, l’eccezionale concentrazione umana che realizza su un
piccolo spazio e la durata del suo ciclo fanno sì che nel suo
crogiolo precipitino attitudini inconsce, ognuna infinitesimale
[…]». L’espansione delle città da oriente a occidente (seguendo il
naturale ciclo solare) appare come l’adesione ad una superstizione
ancestrale e come il manifestarsi di una forma superiore e
fondamentale di conoscenza.

A cosa si riferisce Lévi-Strauss quando parla di una forma


fondamentale di conoscenza? Evidentemente non ad una forma
superiore. Il riferimento è piuttosto ad un atteggiamento spirituale
che lasci trasparire la forma originaria dei processi di produzione
dei simboli, ovvero la struttura inconscia della funzione
simbolica.Le manifestazioni della vita sociale (così come la
linguistica ha dimostrato avvenire per le lingue), hanno un tratto
tipicamente artistico: come l’opera d’arte nascono al livello
dell’inconscio. «La città, per la sua genesi e per la sua forma,
risulta contemporaneamente dalla procreazione biologica,
dall’evoluzione organica e dalla creazione estetica. Essa è nello
stesso tempo oggetto di natura e soggetto di cultura […] cosa
umana per eccellenza».

39
3. Antropologia come “entropologia”

Durante un suo viaggio nelle profondità della foresta


Amazzonica, Lévi-Strauss ha occasione di entrare in contatto con
una tribù tupi, presso la quale probabilmente da secoli non si è
recato nessun esploratore occidentale. Sottolinea in proposito
come non ci sia «prospettiva più esaltante per l’etnologo che
quella di essere il primo bianco a penetrare in una comunità
indigena». L’illusione dura poco, però: l’antropologo riconosce
immediatamente che all’azione ci sono infiniti elementi di
sincretismo fra la società indigena e il mondo esterno, che è il
mondo della civilizzazione occidentale. L’idea di poter scoprire
delle civiltà vergini resta un’utopia, specie nel mondo moderno.

L’episodio è indicativo del significato che la ricerca antropologica


possiede per Lévi-Strauss: anche se viene continuamente
frustrato, l’impulso della ricerca antropologica è costituito da
desiderio di rintracciare gli elementi residuali della differenza
culturale, che permettano di riconoscere in modo chiaro e distinto
l’altro, quando ce lo troviamo di fronte. Se l’antropologo si rivolge
ai popoli più isolati e più lontani dalle correnti dello sviluppo
storico mondiale, è perché sa che la presenza di tali elementi
residuali appare molto più forte quando si è vicini all’origine della
civiltà. È per questo che l’antropologo desidera spingersi a ritroso
nella storia universale: per recuperare gli elementi di differenza
laddove ritiene sia più probabile rintracciarli.

Da dove nasce il desiderio, quasi ossessivo negli antropologi, di


recuperare la dimensione della differenza? Per Lévi-Strauss – che
legge la storia universale secondo le leggi della termodinamica,

40
come un processo di progressiva e irreversibile consunzione di
energia – il desiderio di recupero della differenza nasce dalla
constatazione della assenza di senso della cultura umana: «da
quando ha cominciato a respirare e a nutrirsi fino all’invenzione
delle macchine atomiche e termonucleari, passando per la
scoperta del fuoco – e salvo quando si riproduce – l’uomo non ha
fatto altro che dissociare allegramente miliardi di strutture […]».
L’universo segue le leggi della termodinamica e dunque procede
verso il decadimento della materia organizzata in caos. La
produzione di simboli e culture è un tentativo di arrestare il
processo, che ha come risultato la creazione di altre molecole che
si disarticoleranno a loro volta inevitabilmente. La ricerca della
differenza culturale sembra dunque nascere dal desiderio di
opporsi a questo processo di consunzione: «piuttosto che
antropologia, bisognerebbe chiamare entropologiaquesta disciplina
destinata a studiare nelle sue manifestazioni più alte questo
processo di disintegrazione». Una disciplina che studia e
collezione, come in una galleria, gli infiniti tentativi che l’umanità
tutta ha compiuto per sottrarsi al suo destino di morte.

41
Modulo 3 – L’antropologia in Italia:
Ernesto De Martino

Lezione 1 – Tra demologia, folklore e antropologia

1. Cenni introduttivi

Rispetto all’impetuoso sviluppo che l’antropologia e l’etnologia


hanno avuto nei decenni a ridosso della fine dell’ ‘800 e l’inizio del
‘900, l’Italia è rimasta relegata ai margini. Ci sono innanzitutto motivi
politici a giustificare il ritardo italiano nel partecipare al
rinnovamento europeo delle scienze umane: il fatto che l’esperienza
coloniale in Italia sia iniziata tardi e finita presto; il tema della
mancanza di una profonda unione nazionale, che ha “dirottato”
energie e risorse su quelle forme di alterità culturale dai caratteri
niente affatto esotici, perché interne al contesto sociale della
popolazione italiana. In effetti si parla, piuttosto che di etnologia e di
antropologia, difolklore e di demologia. I concetti sono strettamente
collegati: in Italia, dalla fine del XIX secolo, si afferma la demologia
in virtù dell’interesse suscitato negli studiosi da parte delle tradizioni
contadine e popolari delle classi subalterne italiane.

I primi studiosi di demologiain Italia si interessano in prevalenza dei


canti. Un esempio è la pubblicazione dei Canti popolari piemontesi
(1888)di Costantino Nigra, politico e diplomatico italiano (1828-
1907).

42
Il più importante demologo italiano fu invece il medico siciliano
Giuseppe Pitrè (1841-1916). La Biblioteca delle tradizioni popolari
siciliane– in 25 volumi pubblicata tra il 1871 e il 1913, contenente
un’enorme mole di materiale riguardante gli usi, i costumi, i canti, le
feste, i proverbi e i detti siciliani – è la sua opera principale. Pitrè
definiva la demologia con il termine di «demopsicologia». La
principale caratteristica del suo lavoro è l’adozione di un metodo
tipicamente etnologico: Pitrè, che da medico entrò in contatto con le
classi popolari, conduceva dei veri e propri studi sul campo, con
raccolta di registrazioni, immagini e trascrizioni

La diffusione dello studio delle tradizioni popolari in Europa


propone agli studiosi alcuni interrogativi: come avevano notato
anche i fratelli Grimm, le fiabe e i racconti tendono a rifarsi ad una
struttura unica, anche quando fanno parte della memoria di popoli
geograficamente lontani. Studiosi come George Frazer o Andrew
Lang motivavano il fenomeno dicendo che il patrimonio folklorico
costituiva un residuo di tradizioni primitive sopravvissute come relitti
nella civiltà superiore. Questa ipotesi, di tipo evoluzionistico, oggi è
in larga parte screditata. È in generale con l’attenzione al dato
folklorico che nasce, in Italia e in Europa, l’esigenza di un metodo
del confronto e della comparazione fra elementi culturali differenti.

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2. Etnologia e politica nazionale

Al momento della pubblicazione della prima importante monografia


di Ernesto De Martino, Naturalismo e storicismo nell’etnologia (1941), gli
studi etnologici in Italia erano piuttosto marginali rispetto alle
prospettive del dibattito internazionale. I motivi del «ritardo» italiano
erano molteplici, ma possiamo individuare quelli principali: la cultura
idealistica, dominante in Italia, era critica nei confronti delle scienze
sociali; il regime fascista aveva vincolato gli studi etnologici al
problema della razza; l’esperienza coloniale dell’Italia era ancora
recente. Soprattutto, come dicevamo in precedenza, il fatto che in
Italia la questione della identità nazionale venisse ancora percepita
come problema, aveva prodotto delle ripercussioni anche sugli
orientamenti delle scienze umane. Gli studi folklorici in Italia
avevano dunque una duplice funzione: la ricerca del sostrato comune
che permettesse di cementare un’unità fra popoli ancora molto
diversi fra loro; la conservazione del patrimonio che sarebbe andato
inevitabilmente perduto nel processo di modernizzazione e
italianizzazione delle masse. A questo bisogna aggiungere la
marginalità dell’Italia nel panorama della politica coloniale
internazionale.

Una figura di spicco e di prestigio, che avrebbe potuto invertire il


processo di marginalizzazione dell’Italia dal panorama internazionale
degli studi antropologici, fu quella di Lamberto Loria, etnologo che
condusse studi in Guinea e presso le Isole Tobriand, e che avrebbe
fondato il Museo di Etnografia Italiana. L’interesse di Loria riguarda,
inizialmente, le popolazioni primitive dell’Africa e dell’Asia, dove

44
svolse delle ricerche. Nel 1905, però, in seguito ad una breve visita
nel paese di Circello del Sannio (Benevento), Loria decide di
dedicarsi allo studio del patrimonio folklorico italiano. Nel 1911, in
occasione del cinquantennale dell’Unità d’Italia, Loria organizza la
Mostra di Etnografia italiana, che intendeva offrire una panoramica il
più possibile «autentica» della vita dei ceti popolari nazionali.

Loria mostra un forte interesse per le correnti più avanzate della


etnologia internazionale. Tuttavia, con la sua morte, il processo di
rinnovamento della etnologia italiana si arresta e si assiste ad un
ripiegamento generale sul tema dello studio del folklore nazionale.

45
3. Ernesto De Martino: vita e opere

De Martino nasce a Napoli dove si laurea con Adolfo Omodeo. La


sua prima monografia è del 1941, Naturalismo e storicismo nell’etnologia.
Nell’opera propone una critica delle principali correnti etnologiche
alla luce del pensiero di Benedetto Croce.

Nel 1948 pubblica Il Mondo Magico. È probabilmente la sua opera più


importante, con la quale approfondisce il tema del magismo e delle
questioni metodologiche legate allo studio dei primitivi da parte dei
ricercatori occidentali

Di 10 anni più tardi è Morte e pianto rituale nel mondo antico (1958). Il
libro è una ricerca storico-religiosa sui riti del lutto presso i contadini
lucani, la cui cultura si presenta ricca di sincretismi fra usanze pagane
e culto cristiano. Nel 1959 De Martino pubblica Sud e magia,
anch’esso frutto di ricerche sul campo presso i contadini della
Lucania. Qui l’autore si sofferma sulle pratiche magiche ancora in
uso e sui rapporti fra il mondo delle élites e quello del popolino. Del
1961 è La terra del rimorso, che con i due libri precedenti costituisce
una ideale trilogia meridionalistica. L’argomento è il tarantismo
pugliese: il libro è infatti frutto delle ricerche storico-religiose
condotte in Salento.

De Martino è morto prematuramente nel 1965, mentre stava


lavorando ad una grande ricerca, La fine del mondo, dedicata alle
apocalissi culturali. L’opera, rimasta allo stato di appunti dattiloscritti,
fu pubblicata postuma nel 1977.

46
Uno degli aspetti più originali (e contraddittori) della riflessione
demartiniana sta nella saldatura proposta fra etnologia e storicismo:
De Martino, negli anni della guerra, si era avvicinato allo storicismo
di Benedetto Croce e sin dal 1941, con Naturalismo e storicismo, aveva
provato ad allargare la riflessione crociana alle tematiche delle scienze
sociali europee. Rispetto alla curvatura prettamente demologica della
ricerca italiana, De Martino proponeva per la prima volta un disegno
di grande ampiezza teorica, che fosse un riferimento per i ricercatori
intenti a confrontarsi con la cultura dei primitivi e dei selvaggi. Alcuni
aspetti di Naturalismo e storicismo, tuttavia, restavano ancora legati ad
una visione storicistica della realtà, attraverso la quale risultava
difficile penetrare il pensiero mitico, non di rado inteso come mondo
della fantasia e dell’irrazionalismo. Questi aspetti della etnologia
storicistica saranno messi in crisi dallo stesso De Martino nel 1948, con
la pubblicazione del Mondo magico.

47
Lezione 2 – L’etnologia di De Martino fra storicismo e
irrazionalismo

1. Tra etnologia e storicismo

Durante gli anni ‘30 De Martino, che da giovane fu vicino alle


posizioni del regime fascista, entra in contatto con le idee di
Benedetto Croce e con lo storicismo assoluto del filosofo napoletano.
Nel 1941 pubblica Naturalismo e storicismo nell’etnologia, che è un
tentativo di proporre un metodo della ricerca etnologica fondato
sullo storicismo di Croce.

Il libro di De Martino su Naturalismo e storicismo ha soprattutto degli


obiettivi polemici. De Martino individua nella ricerca etnologica un
pericolo di deriva irrazionalistica che è sempre
presente:l’irrazionalismo corrisponde alla ossessione dell’originario e
alla sua venerazione, alla quale numerosi etnologi, specie con
l’affermarsi degli ideali della razza, si sono consegnati. In questo De
Martino fa sua la polemica, che era anche di Croce, contro le derive
romantiche della cultura europea del ’900, che persegue l’evasione dalle
miserie del mondo borghese attraverso il vagheggiamento del primitivo.

La polemica contro il naturalismo risulta invece dalla misconoscenza


che alcuni etnologi hanno della profondità storica delle tradizioni
religiose e dei fatti relativi alla cultura primitiva.

48
Altro bersaglio polemico sono gli studiosi religiosamente impegnati,
che rischiano di ridurre l’intera storia delle religioni umane ad una
giustificazione dell’imporsi del cristianesimo

La proposta di De Martino mirava a ricondurre l’etnologia all’interno


della Filosofia dello Spirito di Croce, ovvero a ricondurre la storia dei
popoli primitivi all’interno della visione crociana dello sviluppo storico,
inteso come progressione della consapevolezza della origine
integralmente umana della cultura e della religione.

49
2. Il mondo magico

De Martino pubblica Il Mondo Magico nel 1948. Il libro, in larga parte


scritto durante gli anni difficili della Seconda Guerra Mondiale, può
essere considerato come il tentativo di mettere in pratica i concetti
maturati nella ricerca su Naturalismo e storicismo nell’etnologia. Il Mondo
Magico si propone di storicizzare il periodo della storia umana definito
magismo. Il motivo culturale del tentativo condotto da De Martino è
molto ambizioso: da un lato, infatti, questi voleva aumentare il livello
di consapevolezza intorno alla storia dello sviluppo culturale umano,
estendendo il terreno della ricerca storica al mondo delle origini;
dall’altro voleva ridiscutere la metodologia della ricerca storica alla
luce delle rinnovate esigenze che lo studio del magismo generava. Vi
è anche un fine specificatamente «politico» nel Mondo magico: vaccinare
la cultura occidentale dal pericolo di ricaduta nel culto del primitivo e
dell’arcaico, che avevano caratterizzato le ideologie nazista e fascista
negli anni più bui del ‘900.

50
3. Il concetto di “presenza”

Uno dei punti centrali del Mondo magico è la definizione del concetto
di presenza: la presenza è l’unità della persona come centro operativo e
culturale, che trascende la realtà e la trasforma in simboli e segni
condivisi dalla comunità. L’interesse di De Martino va soprattutto al
rischio di smarrire le funzionalità di questo centro operativo: la crisi
della presenza è il venir meno della capacità della presenza di
oltrepassare la situazione contingente. La presenza in crisi resta
intrappolata nella situazione, la subisce: «in questa situazione psichica
la presenza si comporta come una eco del mondo». Il magismo
nascerebbe proprio come insieme delle tecniche e degli istituti
culturali preposti a garantire il mantenersi salda della presenza umana
di fronte alle possibili crisi. Secondo De Martino, infatti, la presenza
del mondo magico è sempre precaria.

Posta in questi termini, la questione impone una riconsiderazione


complessiva di tutto il magismo: la magia come tecnica per salvare la
presenza dal naufragio non può essere considerata come una forma
illusoria di scienza. Essa è invece un dispositivo razionale, del quale lo
storico può e deve riconoscere tutta la complessità. Altro aspetto che
fa del magismo un fenomeno culturale vero e proprio, e non una
visione illusoria e distorta del mondo, è il valore di collante della
collettività che esso è in grado di assumere. Il magismo, rispetto al

51
mondo della comprensione scientifica, non è malattia: il malato di
mente è solo nel suo delirio; il magismo, invece, è un insieme di
tecniche che tutela la compattezza del corpo sociale e della presenza in
crisi. È un istituto culturale, e come tale deve essere studiato.

Resta tuttavia da comprendere in che modo alcune delle


manifestazioni più inspiegabili dei riti magici abbiano luogo: visione a
distanza, telecinesi, resistenza alle ustioni, risultano inspiegabili con i
mezzi della scienza moderna. Secondo De Martino il magismo mette
in crisi sia l’ipotesi moderna di storia, sia la concezione scientifica del
principio di realtà.

52
4. La realtà dei poteri magici

De Martino interpreta il magismo come fase storica vera e propria,


provvista di una sua funzione nello sviluppo delle facoltà umane, e di
una sua coerenza culturale. La funzione storica del magismo è quella
di aver creato i presupposti della presenza consolidata, dunque della
uscita dell’umanità dalla indifferenziazione con la natura. Nel mondo
magico si è realizzata la contrapposizione fra Io e Mondo, o fra
soggetto e oggetto, grazie al ricorso dei primitivi alle tecniche
magiche, che proteggono la presenza dai rischi della crisi. I moderni –
secondo De Martino – considerano il magismo una «scienza falsa»
perché ritengono che il mondo dei dati naturali sia sempre apparso
all’uomo così come appare oggi. Nel mondo magico, invece, non solo la
presenza, ma anche la realtà del mondo è labile e precaria. «Nella magia
– scrive De Martino – il mondo non è ancora deciso, e la presenza è
ancora impegnata in quest’opera di decisione di sé e del mondo». La
magia, in particolare, ha il compito di ristabilire i limiti fra presenza e
mondo quando questi rischiano di confondersi.

L’elemento di labilità e di indeterminazione del mondo magico è


causa del verificarsi di fenomeni altrimenti inspiegabili, come la
telecinesi, la visione a distanza, la capacità degli sciamani di resistere a
53
digiuni prolungati, o di camminare sui carboni ardenti. In effetti il
naturalista e lo scienziato moderni che si accostano al magismo e alla
forza della magia restano colpiti dall’efficacia concreta delle tecniche
sciamaniche. Determinati fenomeni risultano inspiegabili perché per
lo scienziato moderno sussiste la difficoltà di storicizzare il dato della
realtà: si immagina che il mondo, ovvero ciò che definiamo
oggettività, siano sempre stati identici, mentre invece De Martino
ritiene possibile dimostrare che essi si adattano alle condizioni
dell’individuo. Una presenza in crisi, labile, darà origine a delle
percezioni del mondo consone al suo stato di labilità. Anche il
mondo, nel magismo, diventa proteiforme come la presenza che lo
osserva. Il confronto col magismo impone quindi un profondo
ripensamento delle categorie di pensiero della modernità: l’incontro
etnografico diventa occasione per cogliere la profondità storica sia
del magismo, sia della mentalità moderna.

Nell’universo retto dalle leggi della fisica moderna non c’è posto per
il magismo. Ma anche la fisica moderna è, secondo De Martino,
frutto di una costruzione storica: la solidità delle leggi fisiche è il
riflesso della solidità della presenza. Poiché il mondo magico è il mondo
della precarietà della presenza, allora anche la sfera del dato naturale
sarà precaria e cangiante. I confini poco definiti fra presenza e mondo
sono quelli in cui si inserisce efficacemente lo sciamano con la sua
magia.

54
Lezione 3 – Verso l’etnologia delle classi popolari

1. L’irruzione delle masse nella storia

«L’irruzione delle masse nella storia» (espressione del filosofo Ortega


y Gasset) è uno dei fenomeni più evidenti cui ha dato vita la
modernità in Occidente. Sia i totalitarismi, sia i regimi democratici –
attraverso forme di disciplinamento quali la scuola o il servizio di
leva – hanno imposto la partecipazione alla vita dello stato a strati
della popolazione tradizionalmente esclusi dal gioco politico.
«L’irruzione delle masse nella storia» (Ortega y Gasset) è uno dei
fenomeni più evidenti cui ha dato vita la modernità in Occidente. Sia
i totalitarismi, sia i regimi democratici – attraverso forme di
disciplinamento quali la scuola o il servizio di leva – hanno imposto
la partecipazione alla vita dello stato a strati della popolazione
tradizionalmente esclusi dal gioco politico.

Come abbiamo visto (Modulo 3 – Lezione 1), in un primo momento


l’interesse per le masse contadine è meramente compilativo e
folkloristico. Tuttavia a partire dagli anni ’40 si impongono nuovi
modelli di riflessione, anche sotto la spinta degli ideali socialisti, che

55
collegavano il tema della modernizzazione delle masse popolari a
quello del loro riscatto politico, sociale ed economico. All’inizio della
nuovastagione di studi etnologici in Italia possiamo porre tre eventi: la
pubblicazione di Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi (1945); la
pubblicazione dei Quaderni del carcere di Gramsci (iniziata nel 1948); la
pubblicazione del Mondo magico di De Martino (1948). Da differenti
punti di vista Levi, Gramsci e De Martino facevano luce sul
medesimo problema: l’esistenza di una realtà storica e culturale,
quella delle masse popolari italiane e mondiali, rimaste custodi di un
modo di vivere antico, premoderno e «disgregato» (Gramsci) rispetto
agli indirizzi della cultura «egemone», quella laica e capitalistica.

Nei confronti di un autore come Levi, De Martino si mostra


diffidente: in Levi vedeva una infatuazione romantica e dilettantistica
per l’antistoria del mondo popolare, apparentemente custode di una
sapienza superiore a quella della cultura del mondo borghese, ovvero
della classe dominante. Di tutt’altro spessore, per De Martino, erano
invece le «Osservazioni sul folclore» di Gramsci, dove veniva
individuato lucidamente il nesso che lega il pregiudizio delle classi colte
nei confronti di quelle subalterne (un pregiudizio che riflette
l’atteggiamento colonialistico), e la fioritura, specie in Italia, di studi sul
folklore, in luogo di quelli etnologici e antropologici. Esisterebbe un
atteggiamento pregiudiziale degli studiosi nei confronti delle classi
subalterne: esse potevano considerarsi come dei popoli senza storia
(alla stregua dei primitivi), motivo per cui l’interesse scientifico nei
loro confronti si limitava alla classificazione delle curiosità folkloriche
rappresentate dal loro patrimonio tradizionale.

In modo analogo a quanto accaduto col Mondo magico, il progetto di


De Martino consisteva in una analisi etnologica della cultura
popolare, possibile in virtù della sua natura integralmente storica. Il

56
cambio di prospettiva, dunque, costituiva la base di parenza per un
allargamento dell’orizzonte conoscitivo, e per un ripensamento degli
strumenti della ricerca. L’approdo sarà quello di una “antropologia
delle classi subalterne”, tema che vedrà impegnato De Martino negli
anni ‘50 con le sue ricerche presso le plebi rustiche del Sud Italia. Dai
lavori svolti in Lucania nasceranno Morte e pianto rituale nel mondo antico
(1958) e Sud e magia (1959). Del 1961 è La terra del rimorso, dedicato al
tarantismo pugliese d’area salentina.

2. Il lavoro del lutto

Morte e pianto rituale è una ricerca riguardante i riti funerari presso le


popolazioni del contado lucano. De Martino qui mette in evidenza
soprattutto le sopravvivenze pagane nel culto contadino dei defunti e
la coerenza interna delle pratiche funerarie, tecniche di deflusso del
rischio della presenza di sfaldarsi di fronte alla morte. De Martino
nella sua ricerca fa confluire una grande mole di materiale
etnografico (compresi estratti da registrazioni audio) che riporta le
ultime testimonianze dei riti funerari svolti dalle prefiche, le lamentatrici
professionali. Uno dei motivi di interesse del suo studio è l’analisi dei
sincretismi culturali generati dal contatto fra questi rituali, di
derivazione pagana, e quelli della chiesa ufficiale. Il superamento
della potenziale crisi della presenza a causa dello spettacolo della morte
ha per De Martino valore paradigmatico per definire il significato
della parola cultura: cultura è infatti «la potenza formale del far
passare nel valore ciò che in natura corre verso la morte». Dietro
l’apparente inattualità del rito funebre studiato, De Martino
riconosce un fenomeno culturale in atto il quale, sebbene stia

57
tramontando col tramonto della società agricola che lo ha coltivato
per secoli, non può comunque essere liquidato come primitivo.

Non solo, ma il lavoro del lutto diviene paradigma del significato di


cultura in senso lato: il dispositivo mitico-rituale del lutto è
esemplificativo del momento del passaggiodallanatura alla cultura perché
esso salva la presenza dalla crisi, che è naturalizzazione, ovvero corsa
verso la morte. In effetti De Martino definisce i riti funebri come
delle tecniche, all’interno delle quali agisce una razionalità specifica, che
lo studioso può ricostruire e riconoscere. In modo analogo a quanto
evidenziato per il magismo, infine, il religioso non è neanche
assimilabile alla malattia: la malattia provoca l’isolamento del malato,
mentre la tecnica magico-religiosa è una istituzione condivisa.

58
3. Il tarantismo come esorcismo culturale

Nel 1961, come si diceva, De Martino pubblica La terra del rimorso,


dedicato ai rituali del tarantismo pugliese. De Martino individua
molti punti di contatto fra la funzione dell’esorcismo coreutico
musicale del tarantismo e i rituali funerari studiati in Lucania: il
tarantismosimula una malattia (quella provocata dal morso dei ragni),
ma in quanto messa in scena la ripropone su un piano culturale,
socializzato ed istituzionalizzato: è un esorcismo culturale, così come il
pianto apparentemente incontrollato delle prefiche lucane, che
sembrano impazzire di dolore.

In società quali quelle contadine degli anni ‘50, dove il tenore di vita
è paurosamente basso, la malattia (o crisi) non insorge
necessariamente per complicazioni di tipo organico, ma anche per
scompensi di natura psichica, dovuti agli elementi di precarietà
esistenziale quotidiana. Tali scompensi trovano una risoluzione
psicologica in quella forma di medicina tradizionale costituita dai canti
e dalla danza al ritmo della taranta. Sebbene inaccettabili nel mondo
moderno, queste tecniche mostrano all’analisi un alto livello di

59
sedimentazioni e di complessità culturale, di fronte ai quali il
ricercatore è costretto a ridimensionare il proprio pregiudizio
sull’arretratezza del mondo subalterno, o, se non altro, a riconoscere
la complessità storica di un fenomeno che non può essere liquidato
come semplice superstizione.

4. Meridionalismo e questione meridionale

L’interesse per lo studio della società meridionale, in De Martino, si


collegava anche alla sua vocazione politica: la ricerca storico-culturale
era, in tal senso, funzionale al processo di modernizzazione della
società meridionale. L’attenzione per la cultura popolare nasce infatti
anche con l’obiettivo di propiziarne l’integrazione all’interno della
storia dell’Occidente moderno. Se la storiografia è, prevalentemente,
storia delle élites culturali, la storia religiosa del Sud amplia il quadro, e
lo fa in previsione di un ampliamento delle esigenze della politica
nazionale, che sia maggiormente rispettosa di strati considerevoli
della popolazione italiana, la cui mancanza di strumenti culturali
diventa spesso impossibilità di rappresentanza politica.

Nel quadro delineato da De Martino sul folklore meridionale (in Sud


e magia) emergono anche gli elementi di raccordo fra la cultura alta
dei ceti dirigenti e quella popolare. La tematica dei sincretismi fra alta
cultura e cultura popolare serve a De Martino anche per «misurare» i
gradi di partecipazione del Sud alla «polemica antimagica» che

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rappresenta il principale snodo culturale della storia occidentale,
ovvero il cardine della trasformazione che ha reso possibile l’inizio
del mondo moderno e della razionalità scientifica. L’intero
movimento della cultura contemporanea viene infatti letto, da De
Martino, come l’evoluzione della svolta antimagica compiutasi in
Europa a partire dal Rinascimento. Qual è dunque il posto delle
sopravvivenze pagane della cultura popolare in questo contesto? E
quali contributi essa ha potuto offrire alla nascita del pensiero
razionale e scientifico moderno?

Lezione 4 – Sciamani, maghi, duci

1. Lo sciamano nel mondo magico

La figura dello sciamano è tra quelle che hanno maggiormente


stimolato l’immaginario culturale contemporaneo. Ciò non vale
soltanto per le ricerche di taglio accademico condotte dagli
antropologi professionali. La figura dello sciamano ha saputo agire a
livelli differenti (nella musica, nella letteratura, nella produzione
artistica, nella riflessione politica e storica, ecc.). La figura dello
sciamano compare in De Martino a partire dal Mondo magico, dovesi
tratta in modo approfondito la questione dello sciamanesimo nella
cultura siberiana.

L’attività sciamanica si sviluppa su tre tappe fondamentali: la crisi


iniziatica; la plasmazione culturale della visione mistica della crisi;
ilpadroneggiamento della crisi attraverso la capacità di rievocarla a

61
piacimento. Dice De Martino che «nel mondo magico, la
dissoluzione dell’esserci, il rischio della presenza, sembra talora
acquistare il rilievo di un fine dominante, volontariamente
perseguito». La tecnica dello sciamano consiste proprio nella
rievocazione intenzionale della crisi.

L’attività sciamanica consiste prevalentemente nell’impiego di tecniche


il cui fine è quello di autoindursi lo stato di trance. La trance è un
attenuamento della presenza, ovvero una via di uscita dal pensiero
lucido e razionale. Per quali motivi lo sciamano dovrebbe produrre
uno stato di spaesamento intenzionale? Bisogna, per rispondere alla
domanda, innanzitutto capire cosa comporta lo stato di trance: nella
trance si produce in prima istanza un attenuamento della presenza,
che è anche distacco dalla situazione critica; inoltre nello
spaesamento si genera uno spazio di libertà per le operazioni dello
sciamano.

È grazie allo stato di trans che il riscatto dalla crisi diventa possibile. Il
riscatto dalla crisi avviene attraverso un’operazione di sostituzione
simbolica: al posto dell’elemento critico, caotico, inatteso, che aveva
provocato la crisi della presenza, compare un elemento familiare, che
è l’immagine dello spirito adiutore e che può essere interpellato
attraverso l’induzione della crisi. Attraverso la simulazione della crisi, lo
sciamano diventa padrone di un contenuto di coscienza
potenzialmente pericoloso per la presenza. L’insolito viene trasformato
in un elemento familiare.

La caratteristica dello sciamano (già individuato da Lévi-Strauss, vedi


Modulo 1 – Lezione 1) è costituita dal ruolo pubblico che questi
svolge. Questi, potremmo dire, è un terapeuta professionale della
comunità; un’autorità religiosa e un malato che ha saputo curarsi.
L’ultimo punto va sottolineato: lo sciamano è «il signore del limite»,
62
ovvero una persona che ha saputo andare oltre di sé, oltre il proprio
limite esistenziale, trovando la salvezza dalla malattia, o crisi, che lo
aveva colpito (malattia/guarigione sono i momenti che
corrispondono a quello della vocazione). La funzione dello sciamano è
quella di rievocare il proprio dramma personale per portare la
salvezza agli altri individui della comunità attraverso la riproposizione
di un racconto a lieto fine, un mito paradigmatico di salvezza. Nel
quadro del «dramma» del magismo, lo sciamano è un «Cristo
magico», che si è sacrificato per gli altri.

2. La vita magica del Sud Italia

Nel 1959 De Martino pubblica Sud e magia, ricerca dedicata agli


istituti magici del Sud Italia e condotta soprattutto nei territori lucani
delle provincie di Potenza e Matera. De Martino raccoglie, analizza e
trascrive numerose testimonianze dirette delle pratiche magiche in
uso e ricostruisce l’universo del magismo meridionale, la sua
funzione e i sincretismi cui ha dato vita nel contatto con la cultura
ufficiale della Chiesa cattolica e la sua dottrina

Il magismo meridionale ha una funzione che è di tipo


prevalentemente curativo: esso si costituisce come un insieme di
pratiche che proliferano accanto a quelle mediche vere e proprie e
intervengono quando la natura della patologia viene riconosciuta
come magica. Secondo De Martino la malattia richiede l’intervento

63
magico quando è provocata da fatture o malie, ovvero quando a monte
del suo manifestarsi vi è un altro intervento magico.

La malattia e la crisi della presenza si manifestano, nel magismo lucano,


come un «essere-agito-da», ovvero nella espropriazione che
l’affatturato subisce della propria capacità di mantenersi come
soggetto operativo autonomo in determinate circostanze. In genere
gli stati di affatturamento sono legati a episodionirici, nei quali
effettivamente l’individuo proietta un sentimento di dominazione e
perdita del controllo, dovuto, se non altro, alle condizioni di precarietà
esistenziale in cui versava il contado lucano nel dopoguerra.

Il mago ha un duplice ruolo nella somministrazione della cura magica


all’affatturato: innanzitutto effettua la diagnosi, cioè riconosce la
natura magica del male; in seguito somministra la terapia adeguata.
La terapia magica prevede un controfatturache sciolga il nodo esistenziale
in cui il malato è rimasto intrappolato a causa della malia scatenata
contro di lui.

Perché ancora nella Lucania degli anni ‘50 possono proliferare forme
di magia ritenute alternative – se non addirittura migliori – rispetto
alle pratiche della medicina contemporanea?La magia è una tecnica per
la protezione del bene elementare della presenza. Questo bene è in
pericolo nel mondo esistenzialmente precario in cui vivono i
contadini lucani. Non trattandosi di un bene materiale, esso non
richiede una tecnica di protezione di tipo medico. La magia non
dispiega il suo potenziale curativo sul piano realistico per la
soppressione di specifiche manifestazioni del pericolo (ruolo che,
invece, svolge la medicina). La magia riscatta la presenza dalle crisi
esistenzialiin senso lato. Per questo il ricorso alla magia è
«impermeabile all’esperienza» dei suoi insuccessi. La magia cura sul
piano del simbolico e non del reale.
64
3. Il risveglio del magismo nella civiltà moderna

De Martino fu un osservatore molto accorto (e molto preoccupato)


delle reviviscenze primitivistiche in seno alla civiltà occidentale moderna.
La civiltà moderna si caratterizza per un vivo interesse per le forme
culturali altre rispetto a quella occidentale La stessa etnologia
nascerebbe da un gusto ambiguo per l’elemento originario e
primitivo, rimosso dallo sviluppo della civiltà, verso il quale nutrire
un senso di nostalgia.

Molto significativo, in tal senso, è il fatto che De Martino abbia


paragonato la figura di Hitler a quella di uno sciamano: il Führer è
uno sciamano per la sua capacità di mobilitare l’immaginario collettivo
dei popoli soprattutto attraverso il recupero degli elementi arcaici e
misteriosi, di cui l’ideologia nazista è piena. E attraverso la figura di
Hitler, però, De Martino è in grado di individuare l’esistenza di un

65
lato della civiltà che è rimasto in ombra e che talvolta può esplodere in
manifestazioni irrazionali e incontrollate, come rigurgiti dell’elemento
primitivo.

Un caso riportato da De Martino è il capodanno di Stoccolma del 1956,


quando nella notte migliaia di adolescenti scese in strada a devastare
il centro della capitale svedese. L’episodio viene spiegato con le
ragioni dell’etnologia: «la nostalgia del non-umano e l’impulso a
lasciar spegnere il lume della coscienza vigilante» costituiscono una
forte tentazione dell’umanità di tutti i tempi. De Martino ricorda
l’esistenza in ogni civiltà di riti annuali (di tipo carnevalesco) il cui
scopo è liberare la società dei residui di aggressività repressa.
«L’etnologia e la storia delle religioni confermano largamente la tesi
secondo cui una delle funzioni fondamentali della civiltà consiste nel
controllo e nella risoluzione di ciò che Freud chiamava istinto di morte»
cioè «la cieca tentazione della eversione e del caos, la nostalgia del
nulla». La perdita di efficacia del pensiero religioso e la scomparsa
della fede nel mondo ultraterreno (crisi delle credenze tradizionali)
non sembra ancora sostituibile con le ideologie e i valori del laicismo
e della democrazia: l’incapacità del moderno di assecondare gli istinti
più elementari apre la via al pericoloso ritorno degli sciamani e al
rigurgitare del primitivo nel mondo della tecnica e del progresso.

66
Corso di Antropologia culturale e
sociale

SSD – M-DEA/1
(6 CFU)

Prof. Giuseppe Maccauro

   
Indice

Modulo 4 – Ernesto De Martino fra mito, religione e civiltà moderna

Lezione 1 – Magia e religione – Che cos’è il mito? (pag. 1) – Il problema del sacro (pag. 4) – La struttura del
mito (pag. 6)
Lezione 2 – La terra del rimorso – La storia religiosa del Sud Italia (pag. 8) – Il simbolismo stagionale (pag.
10) – Tarantismo: tra pratica magica e nevrosi (pag. 11)
Lezione 3 – L’umanesimo etnografico – Promesse e minacce dell’etnologia (pag. 13) – Etnologia come
scienza del confronto (pag. 15) – Etnocentrismo critico (pag. 16) – L’umanesimo etnografico (pag. 17)
Lezione 4 – Cristianesimo e destino dell’Occidente – Egemonia del Cristianesimo (pag. 18) –
Cristianesimo e crisi del mondo moderno (pag. 19) – Cristianesimo e senso del tempo (pag. 20)

Modulo 5 – Marc Augé e l’antropologia del mondo contemporaneo

Lezione 1 – Mondo contemporaneo e surmodernità – Nota biobibliografica (pag. 21) – Storia o


antropologia (pag. 22) – La surmodernità come eccesso (pag. 25) – Antropologia del contemporaneo e “pregiudizio
primitivistico” (pag. 27)
Lezione 2 – Antropologia e costruzione dell’oggetto antropologico – Cosa studia l’antropologia?
(pag. 29) – L’inchiesta etnologica (pag. 31) – Urbanizzazione e popolazione (pag. 26) – Antropologia e
globalizzazione (pag. 34)
Lezione 3 – Il luogo antropologico – Il luogo antropologico (pag. 35) – Il luogo antropologico come spazio
(pag. 37) – Il luogo antropologico come spazio temporale (pag. 38)
Lezione 4 – I nonluoghi e la surmodernità – Dalla modernità alla surmodernità (pag. 39) – Cosa sono i
nonluoghi? (pag. 40) – I nonluoghi e la surmodernità (pag. 42)

Modulo 6 – La «crisi» dell’antropologia sviluppi recenti

Lezione 1 – L’illusione dell’originario: l’antropologia di Jean-Loup Amselle – L’oggetto


dell’antropologia (pag. 43) – Il colonialismo e l’isolamento impossibile (pag. 45) – Primitivismo e autoctonia (pag. 47)
– Il mito del buon selvaggio (pag. 49)
Lezione 2 – James Clifford: l’antropologia interpretativa – La fine del colonialismo (pag. 51) – Verso
una «antropologia interpretativa» (pag. 53) – La crisi dell’autorità etnografica (pag. 55)
Lezione 3 – La critica della «ragione etnologica» – Etnologia e colonialismo (pag. 57) – Tra polis ed
ethnos (pag. 58) – I pericoli del multiculturalismo (pag. 59) – Come si costituisce una cultura? (pag. 60)

   
   
Modulo 4 – Ernesto De Martino fra
mito, religione e civiltà moderna
Lezione 1 – Che cos’è il mito?

1. Magia e religione

Ernesto De Martino, da storico delle religioni e antropologo, è stato


uno studioso del mito e del rito, ossia delle istituzioni religiose e dei
loro meccanismi. Uno degli aspetti più importanti della sua
riflessione riguarda la differenziazione dei fenomeni della religione e
della magia: quali i tratti di somiglianza fra religione e magia? E quali
sono gli aspetti che permettono di individuare delle differenze fra di
loro?

Secondo quanto dice De Martino in Sud e magia (1959), esiste una


differenza nella qualità della tecnica religiosa, che è superiore, rispetto
a quella magica: «il sacrificio della messa sta agli scongiuri
extracanonici come una calcolatrice elettronica sta al pallottoliere dei
bambini». De Martino scriveva queste riflessioni a margine delle sue
ricerche sui culti magici del contado lucano, al cui studio si dedicò
verso la fine degli anni ’50 del ‘900. Tuttavia De Martino riconosce
che la genesi della magia e della religione deve essere collocata nel
quadro della medesima esigenza umana di protezione della presenza
dal negativo e dalla crisi esistenziale. In sostanza la differenza fra
magia e religione risiede soltanto nel livello di complessità del loro
armamentario di simboli. I due fenomeni, però, devono essere
collocati sullo stesso piano, perché svolgono una funzione identica.

Quando De Martino approfondisce i sincretismi cui nel Sud Italia ha


dato vita il contatto fra cattolicesimo delle classi alte e i costumi

 
pagani della religione popolare, osserva che la differenza fra magia e
religione risiede nella diversa efficacia delle tecniche che esse
propongono per contrastare la crisi della presenza. In che modo si
profila tale differenza?

Possiamo individuare i seguenti tratti dal confronto fra la tecnica


magica e quella religiosa: «lo scongiuro extracanonico della magia
lucana è un orizzonte mitico che si riferisce ad una crisi esistenziale
definita», mentre «il sacrificio della messa dà orizzonte a un numero
indefinito di possibili crisi individuali». Le pratiche magiche
rappresentano uno strumento di contrasto al rischio della crisi
esattamente come la religione: la magia, però, ha un carattere
“occasionale” ed il rischio viene esorcizzato di volta in volta quando
si presenta. La religione, al contrario, riesce a creare un argine contro
la crisi molto più vasto ed efficace. L’esempio ci viene offerto da De
Martino stesso in Morte e pianto rituale (ricerca dedicata allo studio dei
riti del cordoglio presso il contado lucano): il mito della morte e
resurrezione di Cristo rappresenta un dispositivo di reintegrazione della
crisi incomparabilmente più efficace rispetto agli spettacolari riti del
cordoglio in uso presso i contadini lucani.

La vicenda della morte e resurrezione di Cristo possiede infatti un


valore paradigmatico estremamente forte e pervasivo: la morte viene
sconfitta da Cristo “una volta per tutte” e l’umanità cristiana viene
liberata in modo definitivo dal timore della fine. Un mito altrettanto
efficace non esiste nei culti magici, e certe esplosioni di dolore (ai
limiti della perdita del senno) che si registrano nel corso dei rituali del
cordoglio, sembrano proprio dimostrare che il rischio di restare
sopraffatti dal dolore e dalla paura per la perdita di una persona cara,
in certi contesti sociali e culturali, è tangibile e reale.


 
Di contro, il diminuito timore della morte e il diminuito rischio di
sprofondare nel dolore della perdita, hanno prodotto presso la civiltà
cristiana la possibilità di liberare enormi risorse di energia psichica, da
destinare all’avanzamento della società e al proliferare di quelli che
De Martino definisce i valori umanistici: la società laica e umanistica
nasce da quella cristiana perché la civiltà cristiana è la prima che ha
realmente consentito all’uomo di distaccarsi definitivamente dal suo
misero orizzonte di protezione del bene più elementare, quello della
propria presenza, e di acquisire la solida padronanza delle proprie
facoltà psichiche.


 
2. Il problema del sacro

Da dove vengono i miti? E perché nascono? La riflessione di De


Martino intorno al tema del mito ci riconduce alla domanda intorno
al concetto di sacro: la questione della definizione del concetto di
sacro è decisiva per la comprensione del mito e della genesi del
fenomeno religioso in senso lato. De Martino assume rispetto al
problema una prospettiva laica: a differenza degli studiosi
religiosamente impegnati, non si pone l’obiettivo di giustificare il
fenomeno religioso alla luce della presenza di Dio e del sacro in
generale. In sostanza potremmo dire che il senso del sacro, da cui
scaturiscono le pratiche religiose, non sarebbe legato secondo De
Martino ad alcuna dimensione ultraterrena: l’uomo non avverte il
sacro, né fabbrica miti per dare forma al sentimento del sacro.
L’uomo fabbrica miti per combattere l’angoscia della crisi. Proviamo a
rispondere con De Martino alla seguente domanda: cosa avvertono
gli uomini prima di creare dei miti e dei riti? «Il prima della creazione
culturale religiosa – dice De Martino – è la minaccia di non esserci in
nessuna possibile storia umana». De Martino individua, rispetto al
problema di fornire una definizione del sacro e del sentimento del sacro
nell’uomo, due possibilità di trattazione: la prospettiva storicistica,
che mortifica il mito e lo considera una forma inferiore di cultura; la
prospettiva irrazionalistica, che eleva il religioso a forza fondamentale
dell’uomo nel suo rapporto con la realtà del sacro.

De Martino cerca una mediazione fra le due prospettive: considera il


religioso come un’abilità tecnica dell’uomo, che fabbrica miti seguendo
la stessa razionalità impiegata nell’organizzazione economica e sociale
della sua vita. Il religioso, dunque, è cultura nel pieno senso del
termine e sta sullo stesso piano di tutte le altre attività umane. La
tecnica religiosa, tuttavia, ha una funzione di natura del tutto


 
particolare, perché non è un mezzo per la fabbricazione di oggetti,
ma una strategia di difesa della presenza umana dal rischio di
sprofondare nella crisi. La specificità della tecnica religiosa è quella di
avere come obiettivo la tutela del bene elementare della presenza. Essa
inaugura l’autonomia umana dal mondo della natura e fa da
presupposto allo sviluppo di tutte le altre forme laiche dell’operatività
umana. Il sacro, dunque, non ha che fare con l’elemento divino
contenuto nel mito, ma si identifica con il rischio dell’umanità di
scivolare nuovamente nella natura. Su questo rischio, e contro di esso,
l’uomo edifica la religione in tutte le sue forme, da quelle magiche a
quelle più elevate.


 
3. La struttura del mito

Nelle sue opere De Martino parla degli istituti religiosi in termini di


nesso mitico-rituale. Il concetto qui espresso serve a De Martino per
identificare il funzionamento del mito e del rito all’insegna della sua
visione laica del simbolismo religioso e della religione in senso
generale.

Come dicevamo, il mito (e la religione) sono funzionali secondo De


Martino alla protezione della presenza umana dal rischio di rimanere
impigliata in una situazione esistenziale negativa e di restare
frantumata da questo evento traumatico. De Martino identifica tre
possibili reazioni della presenza di fronte all’angosciosa minaccia della
crisi: reazione stuporosa, o catatonia; agire rituale stereotipato e
manieristico, tipico del malato di mente; agire mitico-rituale
socializzato e consolidato in una tradizione. Il terzo ed ultimo dei
possibili esiti del contatto fra la presenza e l’emergenza del negativo,
(la creazione religiosa) è cultura proprio perché impedisce
all’individuo minacciato dalla crisi di scivolare in un universo di
isolamento e di solitudine – «fuori della storia», come direbbe De
Martino.

In che modo si attiva questo meccanismo di protezione che protegge


l’uomo dal rischio di sprofondare di fronte all’insorgenza del male?
Esso si attiva attraverso il ricorso ad una storia paradigmatica, ad un
mito, che riproduca, come in un “racconto a lieto fine”, sia la
situazione negativa, sia il suo felice superamento. De Martino parla di
«nesso mitico-rituale» per sottolineare che il racconto mitico si
accompagna sempre a un rito che ne riattivi la forza simbolica. Il
nesso mitico-rituale si attiva seguendo una scansione precisa fatta di


 
tre momenti: ripresa di un racconto che «arresta la storia»;
trasfigurazione della crisi dal piano individuale a quello collettivo;
mediazione di valori profani attraverso quelli religiosi.

Il mito secondo De Martino ha la funzione di sollevare gli uomini dal


peso della storia. Dal momento che è nel tempo che si manifestano
le occasioni della crisi, è al di fuori del tempo che i simboli religiosi
devono condurre gli uomini. Attraverso la rievocazione di un
racconto mitico, all’uomo è offerta la possibilità di «stare nella storia
come se non ci stesse», ovvero di vivere come in un tempo sospeso,
un tempo ideale, in cui le contraddizioni della vita “reale” sono
affrontate e risolte. Il tempo “ideale” del mito, e quello “reale” della
storia, però, devono essere intrecciati: il mito serve a ricostruire una
dialettica normale con il tempo e con la storia, reintegrando la
presenza nei passaggi esistenziali più difficili, nei quali essa rischia di
restare schiacciata. Anche se rimanda al piano del religioso, il mito è
in realtà apertura a valori profani, perché restituisce la presenza alla
sua normale dimensione storica, fatta di produzione economica,
rapporti sociali, organizzazione materiale del lavoro, ecc. La presenza
che non riuscisse ad operare questo distacco dall’orizzonte mitico per
proiettarsi nel mondo storico, sarebbe da considerarsi malata.


 
Lezione 2 – La terra del rimorso

1. La storia religiosa del Sud Italia

De Martino pubblica La terra del rimorso nel 1961: l’obiettivo della


ricerca è proseguire nel progetto di ricostruire una storia religiosa del
Sud Italia, iniziato con Morte e pianto rituale nel 1958. Nella Terra del
rimorso De Martino si dedica allo studio di quei particolari culti
stagionali, di chiara derivazione pagana, ancora osservabili presso gli
strati più poveri della popolazione salentina (la società contadina) e
che sono noti come tarantismo. Il tarantismo è una forma di esorcismo
culturale: si tratta di una terapia fatta di musica, ritornelli e danza, la
cui funzione è la cura delle tarantolate, donne avvelenate dal morso di
un ragno. Il rito della taranta si celebra in occasione della festività
cristiana dei Santi Pietro e Paolo (29 giugno). In realtà è tutto il
periodo estivo a scatenare le esplosioni delle tarantate, che il 29
giugno hanno il culmine nella cappella di S. Paolo a Galatina (Lecce).

Nell’avvicinarsi allo studio del fenomeno del tarantismo, De Martino


fa una prima precisazione, inerente il carattere esclusivamente
culturale e simbolico della pratica in questione: le convulsioni delle
tarantolate non sono dovute né a disturbi psicologici, né al morso
velenoso di alcun ragno. Il tarantismo può essere indagato come
fenomeno culturale proprio perché non mostra i tratti della malattia e
in quanto fenomeno culturale è storicizzabile. Se il tarantismo fosse
una malattia non si spiegherebbe il motivo per cui le esplosioni di
questo tipo di rituale abbiano una cadenza annuale sempre
corrispondente con l’avvicinarsi della stagione del raccolto. Rispetto
al fenomeno del latrodectismo (morso di ragno) il tarantismo mostra


 
una forte «autonomia simbolica»: è un aspetto indicativo del
funzionamento dei miti, che trasfigurano sul piano dei simboli le
occasioni della vita quotidiana e ne fanno dei racconti paradigmatici.
Il tarantismo nasce in un contesto in cui l’esperienza quotidiana
conosce il latrodectismo e i suoi sintomi. Quando questo acquisisce
valore simbolico, il tarantismo smette di essere legato al solo «morso
del ragno», per proiettare la sua efficacia su tutta una serie di altri
momenti di crisi esistenziale


 
2. Il simbolismo stagionale

Secondo De Martino, la ciclicità del tarantismo è un ulteriore indizio


della sua dimensione di fenomeno culturale: il momento del raccolto
è quello in cui le tensioni esistenziali di una civiltà quale quella
salentina, dedita ad un’agricoltura di sussistenza, raggiungono l’apice,
perché è nei pochi giorni della mietitura dei campi che i contadini
raccolgono i frutti del lavoro dell’anno precedente e accumulano le
risorse che gli dovranno consentire di sopravvivere nell’anno
successivo. Il raccolto è dunque una circostanza di profonda
incertezza esistenziale.

Anche l’immagine del «vuoto vegetale», che segue al raccolto, è


estremamente evocativa: l’ansia che ne segue è l’innesco per
l’esplosione di tutte le tensioni accumulate nel corso dell’anno, alle
quali si aggiungono le incertezze legate all’anno di lavoro che si
annuncia. «Un’epoca di così alta tensione sociale era già di per sé
predisposta ad allargarsi in tempo simbolico di preclusioni
esistenziali, tramutandosi in un’epoca di efflorescenza dei conflitti
irrisolti».

La stagione del raccolto «si trasfigurava in un periodo in cui


potevano essere pagati anche i debiti esistenziali accumulati nel
fondo dell’anima». Il simbolismo della taranta funziona in maniera
autonoma e rappresenta un «meccanismo di deflusso» delle crisi
esistenziali accumulate nel corso dell’anno. Attraverso il rito
stagionale tali crisi trovano l’occasione di manifestarsi in modo
regolato e socializzato, anziché esplodere in modo incontrollato in
qualunque momento dell’anno sotto forma di nevrosi individuale.

10 
 
3. Tarantismo: tra pratica magica e nevrosi

Precedentemente abbiamo parlato del «nesso mitico-rituale» inteso


come prospettiva generale di De Martino per comprendere la
funzione dei miti e la loro struttura interna. Come si inscrive il
tarantismo all’interno di questo concetto? «Noi possiamo affermare –
sostiene De Martino – che il tarantismo come rito è costantemente
individuato dalla graduale risoluzione coreutico musicale di uno stato
di crisi dominato dal crollo della presenza individuale». Rispetto ai
patimenti spirituali e ai possibili disordini ad essi connessi, il
tarantismo sta come un orizzonte di ordine paradigmatico, fatto di
note e di danze, al quale ricorrere nel momento in cui la crisi rischia
di far sprofondare la presenza nella catatonia: il rito è un racconto a
lieto fine cui affidarsi. Lo spazio del rito è tuttavia uno spazio
limitato: il rito deve concludersi con una guarigione che riapra
l’orizzonte dell’azione storica umana. In caso contrario il rito deve
considerarsi fallito e il paziente non guarito.

Non trattandosi di malesseri di dimensione organica, le crisi legate


all’esplosione dei riti stagionali della taranta vanno senz’altro fatti
risalire alla dimensione piscologica: essi sono delle nevrosi in senso
freudiano. Le nevrosi insorgono nel mondo del contado salentino,
estremamente povero e precario, la cui esistenza è fatta di reiterate
rimozioni di desideri non realizzabili: tali elementi rimossi si agitano
nell’inconscio sotto forma di nevrosi e trovano nel tarantismo un
meccanismo di deflusso.

Per comprendere meglio quanto appena affermato, sottolineiamo


quanto segue: De Martino nota che il tarantismo è un fenomeno
prettamente femminile. Perché questa superiore incidenza delle
donne fra i malati da curare? De Martino nota come le danze che
permettono l’esorcismo e la “guarigione” dei malati, siano fatte di
11 
 
movimenti ritmici, di svenimenti, di deliqui, molto simili a quelli
dell’atto sessuale. Inoltre la condizione di “ammalate” consentiva alle
donne atteggiamenti licenziosi che, normalmente, sarebbero stati
giudicati sconvenienti. Ora nel regime sociale del contado lucano, i
sistemi culturali di repressione del piacere sessuale femminile sono
particolarmente forti, e l’occasione dei riti stagionali della taranta
costituiva la sola possibilità, per molte donne, di avvicinarsi, anche
solo per gioco e per breve tempo, al territorio inesplorato del piacere
carnale, cui normalmente l’accesso era precluso, perché esclusivo
appannaggio degli uomini.

Dice De Martino che «nella crisi del tarantismo il rimorso non sta nel
ricordo di un cattivo passato, ma nella impossibilità di ricordarlo per
deciderlo e nella servitù di doverlo subire mascherato in una
nevrosi»: il cattivo passato sono le scelte non fatte, i desideri rimossi
perché inappagabili, che ritornano come taranta che ri-morde. Il
tarantismo, che è percepito come una malattia, costituisce un
momento in cui i debiti esistenziali possono essere pagati una volta
per tutte. Esso è una festa, che scioglie i partecipanti dagli obblighi
che hanno nei confronti del loro stesso passato, e permette loro di
liberarsene, almeno momentaneamente.

12 
 
Lezione 3 – L’umanesimo etnografico

1. Promesse e minacce dell’etnologia

In Promesse e minacce dell’etnologia, un saggio del 1962, De Martino parla


delle prospettive della scienza etnoantropologica per lo sviluppo delle
moderne scienze dell’uomo, e del posto che essa ha assunto nella
cultura contemporanea nell’epoca della decolonizzazione. Quali sono
le “minacce” di cui la scienza etnologica può essere veicolo? De
Martino traccia tre linee direttrici: il riproporsi, nella etnologia come
scienza, delle logiche di dominio coloniale; il prodursi nella cultura
europea, per mezzo dell’etnologia, del gusto primitivistico; il
manifestarsi dell’atteggiamento detto del relativismo culturale.

Quando si parla di riproposizione delle logiche del dominio coloniale


nella scienza etnologica, nel testo di De Martino si allude al pericolo
di non riconoscere, nell’altrui modello culturale, una forma coerente
di sviluppo storico: in un certo senso nell’etnologia sarebbe sempre
operante il pericolo di mortificare l’oggetto della ricerca, ovvero di
giudicarlo come un modello culturale inferiore rispetto a quello di
riferimento del ricercatore, che possiamo identificare con la civiltà
occidentale.

Quando si parla, invece, di prevalenza del gusto primitivistico sui


motivi della seria indagine scientifica, si allude al fatto che in
numerosi casi l’incontro etnografico non nasce da un concreto
interesse scientifico per l’«altro», ma dal desiderio di evadere dai
confini della cultura occidentale, ritenuti opprimenti, per immergersi
nel mondo primitivo. In altri casi ancora è la nostalgia del religioso a
spingere gli etnologi verso la ricerca di culture in cui il senso del sacro

13 
 
sia ancora vissuto in maniera autentica e appassionata, rispetto a
quanto accade nella società occidentale secolarizzata e laica.

L’ultimo possibile esito negativo della ricerca etnologica lo abbiamo


identificato con il pericolo di assumere atteggiamenti relativistici. Si
definisce relativismo culturale l’ipotesi per cui tutte le culture devono
essere giudicate in rapporto a sé stesse, e non in rapporto le une con
le altre. Dietro questa tesi apparentemente innocua vi è il rischio che
l’etnologo si illuda di poter abbracciare a proprio piacimento tutte le
culture, come se fossero degli abiti, senza rendersi conto del fatto
che qualunque forma di comprensione della differenza culturale è
sempre mediata dall’insieme si pregiudizi e convinzioni inconsce che
costituiscono l’identità culturale dell’antropologo. A tal proposito,
l’unico modo di sfuggire al pericolo del relativismo è quello di
approfondire il concetto di antropologia come “scienza del
confronto” e di problematizzare questo aspetto della disciplina
antropologica.

14 
 
2. Etnologia come scienza del confronto

Sin dal libro di esordio Naturalismo e storicismo, De Martino pone


l’accento sul tema della etnologia e della sua specifica dimensione di
scienza del confronto. Cosa significa e quali problemi di metodo essa
impone? La prima e più importante considerazione riguarda le
modalità in cui il confronto si realizza: lo studio etnologico delle
civiltà «altre» non è mai una lettura filologica dei costumi culturali
altrui, nel senso che tuffarsi nella cultura altra non è un’operazione
realmente possibile. Infatti secondo De Martino quando l’etnografo
osserva fenomeni culturali alieni, cioè impartecipi al corso storico
attraverso il quale si è venuta formando la cultura cui l’etnografo
appartiene (cioè la cultura occidentale che non a caso è l’unica ad
aver posto il problema scientifico dell’incontro etnografico), l’osservare
è reso possibile da particolari categorie di osservazione, delle quali
l’etnologo non è libero di disfarsi a piacimento.

La via di uscita dal paradosso etnografico è quella che De Martino


definisce la «duplice tematizzazione» del proprio e dell’alieno: il
confronto etnografico è efficace quando l’allargamento della
consapevolezza umanistica riguarda sia la conoscenza dell’altro, sia la
conoscenza del proprio. Come Lévi-Strauss, anche De Martino mette
l’accento sull’importanza del ritorno dal viaggio etnografico: il ritorno
è la chiarificazione dei meccanismi inconsapevoli che regolano la
nostra conoscenza e il nostro rapporto con il mondo. L’etnografia
permette sia di conoscere le pratiche culturali degli “altri”, sia di
approfondire le dinamiche inconsapevoli attraverso cui la nostra
cultura ci permette di interpretare il mondo.

15 
 
3. Etnocentrismo critico

Il fulcro della riflessione di De Martino sul metodo della ricerca


etnografica è il concetto di etnocentrismo critico: cosa significa? Quale
posto occupa questo concetto nella ricostruzione fatta da De
Martino? Secondo De Martino non è possibile fare una storia «senza
opzioni filosofiche»: quando il ricercatore si confronta con l’altro
entrano in gioco una serie di meccanismi di giudizio inconsci, che fanno
parte di ciò che De Martino chiama «l’ovvio». Ciò che sta dentro di
noi come «ovvietà» è la parte inconscia e più profonda della nostra
cultura, che funziona come un condizionamento benefico: ci fornisce
i punti di riferimento per confrontarci col mondo. Attraverso
l’etnologia noi possiamo diventare consapevoli di questa dimensione
profonda e riconoscerla come l’elemento più autentico della nostra
identità culturale. L’etnologia, in quanto scienza che permette di
portare alla luce la dimensione inconscia della nostra cultura, aiuta
anche a impedire che essa agisca come uno specchio deformante
attraverso cui registrare una visione parziale e distorta del mondo.

D’altra parte – dice De Martino – «noi non possiamo strapparci dal


cuore la nostra storia», ovvero non possiamo fare altro che
proseguire in questo processo infinito di chiarificazione delle nostre
peculiarità storiche e culturali, perché senza di esse non potremmo
conoscere il mondo: l’etnocentrismo critico è la facoltà di riappropriarsi
delle proprie tare culturali per non subirle.

16 
 
4. L’umanesimo etnografico

Legato al tema dell’etnocentrismo critico è quello di umanesimo


etnografico. Rispetto alla crisi di valori che investe la cultura
occidentale (tema cruciale del libro postumo, La fine del mondo), De
Martino indica la strada della ricerca etnologica come strumento di
riscatto e di salvezza. La crisi della civiltà occidentale si manifesta
soprattutto nelle forme disumane dello sfruttamento del prossimo e
del relativismo dei valori, conseguenza del venire meno
dell’orizzonte religioso. L’etnologia permette di recuperare la radice
storica dell’attuale situazione, che De Martino individua nelle scelte
culturali che hanno condotto al profilarsi della civiltà moderna.
Riappropriarsi della propria storia è l’unico modo per non subirla
come un trauma o una nevrosi.

17 
 
Lezione 4 – Cristianesimo e destino dell’Occidente

1. Egemonia del Cristianesimo

Attraverso le letture di Gramsci, De Martino osserva la presenza di


una forte egemonia del cristianesimo, che si impone in Europa a
discapito dei culti più antichi, sui quali si innesta la nuova religione. Il
cristianesimo, rispetto ai culti “pagani”, presenta un dispositivo
mitico-rituale estremamente più raffinato ed efficace, secondo De
Martino. Tale efficacia è visibile in rapporto ai rituali del lutto del
contado lucano, analizzati in Morte e pianto rituale. Il cristianesimo,
secondo De Martino, si presenta come un dispositivo religioso di tale
efficacia da sollevare effettivamente gli uomini da un gran numero di
crisi potenziali, liberando così energie per le attività superiori, cioè
differenti dal mero compito di tutelare la presenza dalle crisi.
L’efficacia del dispositivo cristiano è, paradossalmente, il motivo
dell’entrata in crisi del suo simbolismo: il mondo cristiano è un
mondo fondatore di civiltà e di valori laici perché la predicazione di
Cristo libera gli uomini dall’angoscia della morte attraverso il mito
della Resurrezione.

18 
 
2. Cristianesimo e crisi del mondo moderno

Cosa accade nella società occidentale quando l’orizzonte del sacro e


della fede nella religione inizia a ritirarsi? «L’uomo – dice De Martino
– è sempre vissuto nella storia, ma tutte le culture, salvo quella
occidentale alimentata dalla tradizione giudaico-cristiana, hanno
mascherato la storicità dell’esistenza umana. Fatto salvo l’Occidente,
la storia della cultura è la storia dei modi in cui l’uomo ha finto a se
stesso di stare nella storia come se non ci stesse». Anche a causa del
potere intrinseco al simbolo cristiano, capace di liberare gli uomini
dall’angoscia esistenziale della morte, si dilagare della consapevolezza
della origine e destinazione umana di tutti i beni terreni: nel mondo
moderno il vuoto dei valori è causato soprattutto da questa
condizione, che anche l’antropologia ha contribuito a creare. Infatti
in quanto scienza che studia i simboli della cultura umana,
l’antropologia contribuisce alla distruzione di questi simboli, perché ne
rivela il meccanismo interno e impedisce di continuare ad aver fede
in essi: soprattutto i simboli religiosi, quando se ne scopre la radice
umana e non divina, diventano dei relitti inservibili.

Nel mondo contemporaneo si afferma un profondo sentimento di


nostalgia per gli ideali tradizionali, impregnati di sentimento religioso e
di fede in una concreta dimensione spirituale. Al diffondersi di
questo senso di nostalgia anche l’antropologia contribuisce. Secondo
De Martino questo tournant della cultura occidentale è molto
pericoloso: il simbolismo religioso è diventato inattuale e, sebbene
l’esigenza umana di protezione religiosa non sia venuta meno, è
fondamentale cercare altrove le risposte alle crisi culturali della civiltà
moderna.

19 
 
3. Cristianesimo e senso del tempo

Come abbiamo già precedentemente ricordato, secondo De Martino


il cristianesimo e i riti magici hanno in comune la loro funzione
specifica, che è quella di sollevare gli uomini dalla angoscia della
storicità, ovvero dalla paura della morte. Tuttavia il magismo e il
culto cristiano si differenziamo di molto nelle modalità in cui
intendono “operare” questa forma di sospensione, o –per meglio
dire – di creazione di un tempo virtuale della sicurezza esistenziale: la
magia introduce l’idea della ciclicità del tempo, per arrestare la corsa
verso la morte; il cristianesimo promuove l’idea che la morte sia già
stata sconfitta nel tempo dalla Resurrezione di Cristo.

Nello specifico dobbiamo dire che secondo De Martino la magia,


attraverso il suo apparato mitico-rituale, istituisce la ciclicità della
storia mediante l’adozione di un modello temporale ripetitivo,
sull’esempio di quello naturale, che riattualizza periodicamente il
passato remoto, ovvero il tempo delle origini, ritenuto un’epoca di
perfezione e di equilibrio. Il Cristianesimo promuove l’immagine del
tempo come una linea retta, che inizia con la nascita di Cristo e
terminerà con la sua seconda venuta. Nel tempo cristiano il mondo
delle origini non è un paradiso perduto, ma un evento concreto che
si è verificato nel cuore della storia e che tornerà alla fine dei tempi:
l’uomo conosce già la strada della salvezza e deve solo impegnarsi a
seguirla.

20 
 
Modulo 5 – Marc Augé e
l’antropologia del mondo
contemporaneo

Lezione 1 – Mondo contemporaneo e «surmodernità»

1. Nota biobibliografica
Marc Augé è antropologo di fama internazionale. I suoi studi hanno
riguardato prevalentemente le popolazioni dell’Africa subsahariana.
È nato a Poitiers nel 1935 ed è stato direttore dell’École d’Hautes
Études en Sciences Sociales. Da diversi anni si dedica ad un lavoro di
ricerca metodologica e divulgativa intorno ai fondamenti di una
antropologia della contemporaneità.
Nel 1992 ha pubblicato il libro Non-lieux, tradotto in italiano come
Non luoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità. Con il libro
sui non luoghi Augé prende parteva al dibattito sulla antropologia della
contemporaneità e offriva innanzitutto una prospettiva sul
contemporaneo e sulle sue caratteristiche da un punto di vista
antropologico.

21 
 
2. Storia o antropologia?

L’ipotesi che sia possibile avvicinarsi all’analisi delle società


dell’Occidente contemporaneo attraverso il ricorso alla pratiche
conoscitive della scienza antropologica è relativamente recente, e
scaturisce da un dibattito che ha preso piede in ambito accademico a
partire dagli anni ‘80 del XX secolo.

L’accettazione di questa proposta metodologica non è stato pacifico:


lo studio antropologico delle società moderne non potrebbe
costituire una sovrapposizione con la storiografia? A partire da
questo punto di domanda, che potrebbe mettere in crisi e
delegittimare qualunque pretesa di studio antropologico della
contemporaneità, è possibile muovere per effettuare una
ricognizione complessiva del concetto stesso di ricerca
antropologica, importante anche per capire quali sono i punti in cui
ricerca storica e ricerca antropologica differiscono in modo sensibile.

Secondo Augé una sovrapposizione è impossibile perché la ricerca


antropologica possiede alcuni tratti che la rendono molto differente
dalla ricerca storica e che, allo stesso tempo, possono legittimare
l’impegno degli antropologi stessi a studiare e comprendere le
manifestazioni della società contemporanea: in primo luogo Augé
rileva che l’antropologia è uno studio del «qui e ora», in cui si analizza
il presente e non il passato. In secondo luogo sottolinea che
l’antropologo è “testimone” dei fatti riportati nei suoi studi. A
differenza dello storico, che attraverso le ricerche di archivio prova a
ricostruire la ragione di un episodio avvenuto in un passato a volte
anche molto lontano, l’antropologo è contemporaneo del mondo che

22 
 
descrive nelle sue ricerche, e fa esperienza diretta dei mondi culturali
che studia.

Vi è anche un altro motivo per cui, secondo Augé, il ricorso al


metodo antropologico per lo studio del mondo contemporaneo è
stato visto come un’intrusione nel recinto della storiografia: esso è da
ricollegare al luogo comune per cui l’antropologo studia le società
esotiche nei loro aspetti tradizionali. Questa forma di pregiudizio
non tiene presente, secondo Augé, il fatto che delle società
“esotiche” vere e proprie non esistono nel mondo di oggi (e
probabilmente non sono mai esistite neanche in quello passato)
perché i fenomeni di globalizzazione producono continui sincretismi
culturali fra elemento tradizionale e cultura occidentale anche presso
le società più isolate del pianeta.

Altro pregiudizio, infine, è quello per cui l’antropologia sia una


pratica di studio fortemente legata ad una specifica dimensione
territoriale o geografica (ad esempio: l’Africa del Sahel o la foresta
Amazzonica). In realtà l’antropologo studia dei sistemi simbolici:
l’interesse dell’antropologo della surmodernità non è l’Europa in
quanto territorio, ma la contemporaneità in quanto problema storico e
culturale e in quanto meccanismo di produzione di senso, che ha nel
mondo occidentale il suo cuore pulsante, ma che nel nostro secolo
ha investito il mondo intero, trasformandolo secondo delle logiche e
delle dinamiche che l’antropologia può provare a cogliere.

Piuttosto che fornire i limiti geografici e temporali all’interno dei


quali esercitare una antropologia del contemporaneo, secondo Augé è
fondamentale fornire una definizione plausibile di contemporaneità,
ovvero rispondere a domande come le seguenti: che cosa caratterizza
il mondo contemporaneo? Quali sono i caratteri rappresentativi della

23 
 
contemporaneità che possono emergere grazie all’analisi
antropologica?

24 
 
3. La surmodernità come eccesso

Augé definisce la contemporaneità in termini di surmodernità. La


surmodernità ha come caratteristica quella di portare all’estremo
alcuni dei caratteri tipici del mondo moderno. Proprio per questo
motivo Augé parla di surmodernità come eccesso. Quali sono gli
aspetti “eccessivi” della surmodernità? Secondo Augé la surmodernità
si configura come: eccesso di tempo; eccesso di spazio; eccesso di
individualità. Vediamo nel dettaglio cosa ciò significhi.

Secondo Augé uno dei caratteri del mondo contemporaneo è


rappresentato dal fenomeno di «accelerazione del tempo», ovvero di
quello che abbiamo appena definito come eccesso di tempo, che
scaturisce dalla ricchezza di informazioni cui accediamo. La
condizione dell’uomo contemporaneo è quella di colui che sente premere
la storia da ogni parte, perché vive in un mondo interconnesso, dove
ogni avvenimento, anche il più lontano, viene percepito come se
fosse vicino e come se riguardasse direttamente ogni individuo. Nel
mondo contemporaneo si assiste al declino dei grandi sistemi
ideologici, capaci di fornire una visione unitaria e organica della storia
mondiale: al loro posto resta la enorme frammentarietà degli
avvenimenti, che ci giungono sotto forma di informazioni e che di fatto
eccedono la nostra capacità di controllo. Rispetto alla necessità umana
di dare un senso al mondo, l’uomo contemporaneo vive all’insegna
dell’eccesso di significati, che hanno il carattere della frammentarietà
e possono proliferare in maniera incontrollata, perché impossibili da
inserire in una cornice di senso coerente. Ora proprio questo aspetto
che abbiamo appena descritto, cioè il problema dell’investimento di
senso, o della inadeguatezza delle risorse simboliche per dare senso al
mondo, secondo Augé costituisce una questione di natura
squisitamente antropologica.

25 
 
Un’altra forma caratteristica della surmodernità riguarda l’eccesso di
spazio. Qui Augé intende mettere l’accento sulla proliferazione dei
cosiddetti nonluoghi. Lo spazio inteso tradizionalmente come luogo di
relazione tende a sparire. Prendono il suo posto dei luoghi in cui le
differenze più evidenti sono azzerate e la comunicazione tende ad
omogeneizzarsi, di fatto assomigliandosi in tutte le parti del mondo
(si pensi alla proliferazione dell’inglese come lingua franca, che
secondo Augé non è conseguenza del dominio
economico/commerciale del capitalismo anglofono, ma
manifestazione dell’esigenza originaria di oltrepassare i limiti della
differenziazione delle lingue, che costituiscono un ostacolo nei
rapporti interpersonali nel mondo globale).

Conseguenza dello sfaldarsi dei sistemi di riferimento spaziali e


temporali tradizionali, emerge prepotente la figura dell’Io come
centro unificatore del senso. L’eccesso di individualità è diretta
conseguenza della mancanza di riferimenti: nella fluttuazione
complessiva dei significati del mondo, l’Io rimane l’unico appiglio.

26 
 
4. Antropologia del contemporaneo e “pregiudizio primitivista”

Come dicevamo, la proposta di adottare uno sguardo antropologico


per la lettura dei fenomeni culturali del mondo contemporaneo ha
subito una serie di critiche, dovute se non altro all’impressione di una
indebita sovrapposizione fra il lavoro degli antropologi e quello degli
storici, tradizionalmente ritenuti la principale autorità per la
conoscenza dei fenomeni culturali del mondo occidentale. I nodi
teorici della critica hanno riguardato due aspetti in particolare:
l’inadeguatezza dell’oggetto di studio e l’eccessivo coinvolgimento
dell’etnografo nei fatti studiati.

Secondo Augé l’oggetto (la contemporaneità occidentale) non può


definirsi inadeguato, perché in essa agiscono dei meccanismi di
produzione di senso e di identità che funzionano in modo analogo a
quelli dei popoli etnologici. La sfiducia nella efficacia
dell’antropologia del mondo contemporaneo proviene dal
«pregiudizio primitivista», ovvero dalla convinzione che l’etnologo
studia, e possa studiare, soltanto le culture lontane. Anche il tema
dell’eccessivo coinvolgimento dell’etnologo nascerebbe dal
pregiudizio del distacco fra ricercatore e oggetto del proprio studio,
nel senso che la conoscenza antropologica della “alterità culturale”
sarebbe possibile perché esiste una distanza fra osservatore e oggetto
osservato tale da permettere al primo dei giudizi chiari e nitidi sul
secondo. Questa distanza, ovviamente, verrebbe azzerata nel
momento stesso in cui l’antropologo si dovesse rivolgere allo studio
dei fenomeni culturali della propria società di appartenenza.

In realtà, sottolinea Augé, nessuna disciplina più dell’etnologia dà


importanza al coinvolgimento dello studioso e al suo parere soggettivo.
L’etnologo che vive per mesi come ospite delle società che va a
studiare non può non sentire un forte coinvolgimento per la loro
27 
 
cultura e il loro destino. Che la ricerca possa svolgersi in modo
asettico, al riparo dai movimenti emotivi, è un’illusione. Non a caso
si è parlato, in tempi recenti, della antropologia come autobiografia,
nella misura in cui la descrizione della cultura oggetto di studio
sarebbe l’esito di un dialogo dell’antropologo con se stesso e con le
rappresentazioni che questi produce dei sistemi culturali altrui.

La vera difficoltà dell’antropologia del contemporaneo, secondo


Augé, consiste invece nell’individuazione dell’oggetto di studio. In
questo rivive una problematica molto diffusa fra gli antropologi che
devono mettere a fuoco un problema e delle scale di misurazione per
affrontarlo. La ricerca di un oggetto per l’antropologia della
modernità diventa anche occasione per la riflettere sulle modalità
attraverso cui la disciplina antropologica fabbrica gli oggetti di studio,
modificando in questo modo la sua percezione dell’ «altro».

28 
 
Lezione 2 – Antropologia e costruzione dell’oggetto
antropologico

1. Cosa studia l’antropologia?

L’ipotesi della fondazione di una antropologia del contemporaneo,


come abbiamo visto, produce la necessità di ripensare alcuni degli
elementi costitutivi della disciplina, a partire da quello che dovrebbe
essere il suo oggetto di studio elettivo.

L’oggetto di studio dell’antropologia (da Lévi-Strauss in poi) non è


l’uomo in quanto tale, ma il modo in cui l’uomo entra in rapporto
con gli altri: l’antropologia studia i rapporti intersoggettivi e anche
secondo Augé «la condizione umana non è pensabile se non in
termini di relazioni sociali». Questa considerazione apre il campo allo
studio di queste relazioni che è, appunto, antropologico. Dal
momento che lo studio delle relazioni intersoggettive avviene nel
«presente», cioè al momento della raccolta dei dati dell’etnologo sul
campo, anche lo studio delle relazioni intersoggettive nella società
contemporanea diventa un possibile ambito di ricerca. Tutti gli
aspetti di una cultura (lingua, mitologia, organizzazione politica, ecc.)
concorrono a modellare la relazione intersoggettiva, che infatti è in
continua trasformazione e composizione.

Ridotto ai minimi termini, il problema della relazione intersoggettiva


è quello del «rapporto Io-Altro». Il rapporto con l’ «altro» è, secondo
Augé, l’oggetto specifico della ricerca antropologica «perché tale
relazione riveste un senso, è simbolizzata». Cosa si intende con il
concetto di alterità? L’ «altro» non dobbiamo intenderlo per forza
come “individuo diverso da me”. L’alterità infatti comprende tutte le
29 
 
declinazioni dell’ignoto: lo straniero, la malattia, la morte, la paura in
senso lato, ecc. Proprio perché possiede queste caratteristiche,
l’alterità non può essere lasciata proliferare in maniera incontrollata e
potremmo dire che la cultura è proprio l’insieme degli strumenti che
l’umanità mette a punto per difendersi efficacemente da essa. La
simbolizzazione dell’ «altro» è molto spesso una forma di difesa
dell’Io, per cui Augé sottolinea che il rapporto con l’altro mette in
evidenza le strategie di costruzione dell’identità personale e collettiva.

30 
 
2. L’inchiesta etnologica

Che cos’è un’inchiesta etnologica? La domanda è importante perché


negli ultimi anni l’ipotesi di una antropologia del contemporaneo ha
imposto di riflettere sul significato della metodologia in tutta la sua
ampiezza. Come in parte anticipato, possiamo dire che la ricerca
antropologica si occupa nel presente della questione dell’ «altro»;
sceglie degli elementi che siano rappresentativi del gruppo oggetto di
studio; mette a punto delle griglie interpretative.

Proprio il secondo punto, quello relativo alla scelta degli elementi


rappresentativi, costituisce un aspetto molto problematico, perché
l’etnologo entra in contatto con altri individui soltanto attraverso la
mediazione di un informatore e non può pretendere di svolgere
un’analisi «completa» del gruppo. L’analisi dell’etnologo è parziale e
una parte consistente del lavoro di ricerca consiste nel tentativo di
desumere un quadro ampio a partire da un dettaglio spesso
incompleto, filtrato dalla parola di altri e non rappresentativo
dell’intero gruppo.

Il problema della rappresentatività del campione scelto dall’etnologo si


pone quando si esclude una aderenza diretta fra gli atteggiamenti
dell’individuo e quello della società di appartenenza. Al contrario il
pregiudizio «primitivista» ha spesso considerato l’esistenza di un
rapporto di trasparenza fra individuo-cultura-società presso le
popolazioni etnologiche: Marcell Mauss, uno dei massimi
antropologi francesi, aveva ad esempio avanzato l’ipotesi
dell’esistenza di fatti sociali totali, capaci di coinvolgere in modo
completo l’individuo. L’ipotesi dell’esistenza dei fatti sociali totali
costituisce un vantaggio notevole per il ricercatore perché implica la
possibilità di desumere da un unico elemento l’intero sistema delle
relazioni sociali di una comunità.
31 
 
L’esistenza dei fatti sociali totali, oggi, viene messa seriamente in
dubbio. Gli antropologi tendono infatti ad escludere il principio per
cui l’individuo nelle società etnologiche partecipi in modo trasparente
delle rappresentazioni simboliche della società cui appartiene:
l’orizzonte culturale di un gruppo sociale non è totalmente riflesso in
ognuno dei suoi individui. Questo principio metodologico permette
un’apertura all’antropologia del contemporaneo, perché lo studio di
un particolare rituale religioso, allo stesso modo dell’analisi dei
rapporti fra dirigenti e sottoposti di una grande azienda moderna,
non può considerarsi come esaustivo di tutti i rapporti sociali
esistenti in una determinata società e il metodo antropologico non
deve per forza limitarsi alla analisi esclusiva dei fenomeni delle
società etnologiche, perché in quel caso, come nell’analisi dei fatti
sociali del contemporaneo, non può che offrire un modello
interpretativo parziale.

32 
 
3. Urbanizzazione e popolazione

Lévi-Strauss il fatto più notevole della storia recente – anche più


delle catastrofi politiche e belliche – era costituito dalla prodigiosa
crescita della popolazione mondiale. In modo analogo anche Marc
Augé riconosce che i processi di aumento della popolazione e di
urbanizzazione costituiscono un fatto nuovo e caratterizzante della
società contemporanea. Una delle conseguenze di questo processo,
che Augé individua e considera come una delle specificità del
concetto di contemporaneo, è il proporsi di un generale fenomeno di
decentramento degli spazi urbani, degli spazi abitativi e degli individui.

Il decentramento degli spazi urbani è molto evidente nelle grandi


città, dove le infrastrutture si concentrano presso quelle che, un
tempo, erano le sue zone più periferiche (si pensi alla costruzione dei
grandi centri direzionali alle porte delle grandi metropoli europee
come Parigi, ad esempio), mentre i centri storici perdono la loro
originaria funzione di cuore della vita cittadina, per trasformarsi in
luoghi di soggiorno temporaneo di turisti e viaggiatori.

Anche lo spazio abitativo si trasforma: il centro della casa non è più


il focolare attorno al quale la famiglia si raccoglie, ma la TV o il
computer, finestre virtuali aperte sul mondo, che trasformano la casa
da luogo tradizionale di riparo dalle cose pubbliche, a spazio in cui la
vita pubblica del mondo intero penetra sotto forma di informazioni.

L’essere in connessione con il mondo è un tratto tipico anche


dell’individuo e dello spazio dell’individualità, che viene vissuto
come costante contatto con il mondo circostante, attraverso le reti
internet che sono sfruttate anche dai telefoni cellulari.

33 
 
4. Antropologia e globalizzazione

Il decentramento, tipico delle dinamiche spaziali del mondo


contemporaneo, non solo trasforma la percezione dello spazio
tradizionale, ma produce, secondo Augé, delle nuove forme di
organizzazione e simbolizzazione dello spazio medesimo: i cosiddetti
nonluoghi. Come ogni altro spazio essi producono delle forme
specifiche di relazione intersoggettiva, ovvero di identità e simboli, che
possono essere analizzati e compresi attraverso metodologie di
lavoro tipicamente antropologiche.

Questo tipo di fenomeni (dalla trasformazione della percezione dello


spazio, alla nascita di quegli spazi particolari che sono i nonluoghi),
trova il proprio terreno di coltura nel processo della
globalizzazione, cioè del fenomeno storico e culturale caratteristico
del nostro tempo. Collegata sia al moto di decentramento, sia a quello di
urbanizzazione della società, essa riscrive tutte le forme di relazione
intersoggettiva. La scomparsa del confine fra «qui» e «altrove»
(categorie tipiche del discorso antropologico), sono la prima
conseguenza della globalizzazione. I tratti distintivi di ogni cultura
tendono a scomparire: i rapporti intersoggettivi sembrano declinarsi
nella prospettiva della omologazione. Questo aspetto è uno dei
risvolti dell’aumentare delle interconnessioni fra gli uomini e dal
venire meno dei confini (politici e culturali) fra gli Stati. Augé legge
nei nonluoghi la manifestazione paradigmatica dei nuovi rapporti
intersoggettivi che con la globalizzazione si affermano.

34 
 
Lezione 3 – Il luogo antropologico

1. Il luogo antropologico

La formulazione del concetto di nonluogo operata da Marc Augé porta


la questione innanzitutto sulla definizione del concetto di luogo in
antropologia. Che cos’è, dunque, il «luogo antropologico»? Secondo
Augé come «luogo antropologico» può essere intesa sia una
«costruzione concreta e simbolica dello spazio», sia un «principio di
senso per coloro che l’abitano e principio di intelligibilità per colui
che l’osserva». In sostanza il luogo antropologico è uno spazio di
definizione dell’identità, alla costituzione del quale concorrono sia le
persone che lo abitano normalmente, sia l’antropologo che vi si reca
per condurre le sue ricerche. È il secondo aspetto a meritare di essere
messo in rilievo: nessun luogo rappresenta un fatto sociale totale, né
riproduce i legami sociali in modo trasparente e completo. Nello
spazio del luogo antropologico, infatti, agisce e trova posto anche la
prospettiva dell’antropologo. Dunque si tratta di uno spazio aperto e
in continua ridefinizione e negoziazione.

Augé individua tre caratteri specifici che definiscono il luogo


antropologico: identitarietà, relazionalità, storicità. Il luogo, nel senso
di luogo di nascita, caratterizza l’identità della persona, dunque
produce una serie di relazioni simboliche di tipo identitario. Il luogo
è lo spazio in cui gli elementi possiedono una loro disposizione. I
singoli elementi non sono isolati, ma collegati reciprocamente da una
fitta rete relazionale, che fornisce senso alla loro esistenza e alla
posizione che occupano rispetto al contesto. Il luogo antropologico è
infineuno spazio di produzione storica, ovvero un luogo che

35 
 
«sfugge alla storia come scienza»: «il luogo antropologico vive nella
storia, non fa la storia», nella misura in cui non è un luogo di
conservazione delle tradizioni (come, ad esempio, un museo delle
tradizioni popolari, che ci restituisce una immagine cristallizzata nel
tempo di un determinato luogo antropologico), ma un luogo di
produzione di rapporti simbolici, cioè di vita concreta, che si
riproduce trasformando una tradizione culturale consolidata.

36 
 
2. Il luogo antropologico come spazio geometrico

La definizione di «luogo antropologico» può generare profonde


ambiguità: il luogo in quanto spazio di relazione non può essere
considerato in maniera oggettiva, come se fosse una cosa. Come tutti i
fatti sociali, il luogo antropologico è frutto di un intenso scambio di
relazioni: esso è al centro di scambi simbolici che vanno verso
l’esterno (in quanto, come abbiamo visto, il luogo determina
l’identità di una persona) e verso l’interno (in quanto le persone che
abitano o transito in un luogo lo modificano).

Augé vede dunque il luogo antropologico come un oggetto sociale


dinamico in continua ridefinizione. Secondo Durkheim gli oggetti
sociali, anche se sono sempre in trasformazione, possono essere
osservati nelle loro forme fisse e cristallizzate (detti popolari, leggi,
regole di condotta, ecc.), a patto, ovviamente, di utilizzare idonei
strumenti d’osservazione. Una siffatta idea di oggetto sociale, così
come veniva proposta da Durkheim, non si adatta al punto di vista di
Augé, il quale ritiene il «luogo antropologico» un oggetto sociale
impossibile da fotografare in forme fisse, perché esso è allo stesso
tempo produttore di identità e prodotto della percezione delle
identità che lo abitano.

Il dinamismo intrinseco a quello speciale oggetto sociale che è il


luogo antropologico è osservabile quando si consideri il luogo come
elemento di frontiera fra l’identità (che viene custodita al suo interno) e
l’alterità (che resta esclusa dal luogo antropologico). In questo senso il
luogo è uno spazio geometrico in quanto permette di istituire una
differenziazione fra un dentro e fuori. Tuttavia questo rapporto fra
identità e alterità non è immobile, ma in continua negoziazione, specie
nella società contemporanea, in cui gli scambi accelerati spostano
continuamente la frontiera che le tiene separate.
37 
 
3. Il luogo antropologico come spazio temporale

L’identità e la relazione con l’altro sono al centro non solo dei dispositivi
simbolici dello spazio, ma anche di quelli della storia e del tempo.
Spazio e storia sono spesso intrecciati: i miti fondativi di numerose
città sono spesso il racconto di lunghi itinerari che si concludono nel
luogo in cui esse vengono erette (si pensi alla Roma dell’Eneide,
fondata, secondo Virgilio, da Enea e dai suoi compagni fuggiti da
Troia). Inoltre i luoghi sacri (anche le chiese dei monoteismi moderni)
vengono adibiti al culto rituale seguendo una ripetitività temporale,
che è calibrata sull’alternanza delle stagioni, specialmente nel mondo
contadino.

«Stranamente – secondo Augé – è una serie di rotture e di


discontinuità nello spazio a illustrare la continuità del tempo».
L’elemento di continuità/discontinuità è rappresentato dai monumenti . I
monumenti sono degli elementi di discontinuità dello spazio che
costituiscono l’espressione tangibile della permanenza e della
continuità nel tempo dell’identità collettiva. Nel mondo moderno
essi diventano Luoghi di memoria, secondo una celebre definizione
dello storico francese Pierre Nora, che li considera tipici della
condizione contemporanea, perché i luoghi di memoria sono creati
dall’azione volontaria operata sul ricordo, al contrario di quanto si è
sempre verificato in precedenza, quando la memoria si sedimentava
in maniera spontanea e involontaria.

38 
 
Lezione 4 – I nonluoghi e la surmodernità

1. Dalla modernità alla surmodernità


Secondo Marc Augé l’antropologia contemporanea si trova ad
affrontare una grande sfida: comprendere le relazioni fra dimensione
locale e dimensione globale nell’epoca in cui tra esse si crea una forte
tensione, perché il globale assorbe il locale. Questo profondo
rimescolamento della dimensione locale e globale non si era ancora
verificato nella modernità, presso la quale si era realizzata una forma di
rapporto con l’antico e il locale del tutto differente rispetto a quella
che si realizza oggi nelle nostre società: La modernità non cancella
l’antico, ma lo mette sullo sfondo e lo integra nel nuovo. Il rapporto
fra passato e presente si inscrive all’interno di una nuova cornice, ma
non produce tagli netti: l’antico resta come «basso di fondo» del
moderno. Le figure spaziali del premoderno (i luoghi caratteristici: la
chiesa, il campanile, la piazza, ecc.) e i tempi della tradizione (i ritmi
stagionali, la giornata scandita dalle preghiere, ecc.), restano in
rapporto vitale con la modernità. La modernità non genera spazi che
non si possano definire identitari, relazionali e storici: la modernità non
genera nonluoghi.

39 
 
2. Cosa sono i non luoghi?
Secondo Marc Augé «se un luogo può definirsi identitario, relazionale
e storico, uno spazio che non può definirsi identitario, relazionale e
storico si definirà un nonluogo». Uno dei caratteri della surmodernità è
quello di generare nonluoghi. I nonluoghi rappresentano l’epoca della
surmodernità perché non integrano i luoghi antichi, oppure li integrano
come «luoghi della memoria», ovvero come luoghi artificiali privi di
vitalità, perché luoghi che fabbricano memorie artificiose e non
permettono il sedimentarsi di forme spontanee di consolidamento di
una tradizione condivisa collettivamente.
Augé individua i nonluoghi nelle arterie di comunicazione stradale e
ferroviaria, nei grandi centri commerciali, nei distributori automatici,
negli aeroporti o nelle stazioni ferroviarie, negli spazi adibiti soltanto
al passaggio, al consumo, al movimento.
Secondo Augé non esistono nonluoghi nella loro forma pura, così
come non esistono dei luoghi perfettamente rispondenti alla
definizione di luogo antropologico: ciò che identifica i nonluoghi è la
specifica natura delle relazioni simboliche che essi producono.
Bisogna dunque approfondire la tipologia di rapporti cui i nonluoghi
danno vita. Infatti anche i nonluoghi producono forme di relazione
intersoggettiva, esattamente come i luoghi. Essi dunque devono essere
definiti in relazione al tipo di rapporto che gli individui instaurano al
loro interno, sia nei confronti degli altri individui, sia nei confronti
del luogo stesso.
Quali sono le forme specifiche di relazione che prendono corpo nei
nonluoghi e che ci permettono di definirli come tali? Mentre i luoghi
antropologici tradizionali producono relazionalità e socialità organica,
i nonluoghi producono una «contrattualità solitaria». I nonluoghi sono il
mondo della «individualità solitaria», luoghi di passaggio, effimeri e
provvisori. Non è un caso, per Marc Augé, se il tipo di
40 
 
comunicazione dei nonluoghi, in genere, prevede una testualità
normativa e prescrittiva (cartelli o messaggi vocali di divieto, di
istruzione, o di indicazioni). Gli scarni messaggi non individuano il
ricevente, ma mirano simultaneamente a tutti quelli che sono in
ascolto, in modo indifferente: «essi fabbricano l’uomo medio». Chi
transita nei nonluoghi, più che un individuo, è un utente: viene investito
da un processo di omologazione che lo libera delle sue specificità, in
forza del rapporto di contrattualità solitaria stipulato con il noluogo: legge
e ascolta i messaggi che provengono da schermi e cartelli, ma lo fa da
solo, anche se circondato da molte altre persone, che fanno lo stesso.
La specifica forma di relazionalità che si instaura nei nonluoghi è
rappresentata dal viaggiatore in aeroporto che, da solo, segue per
l’imbarco una gran quantità di informazioni e istruzioni,
simultaneamente rivolte a tutti gli altri viaggiatori solitari come lui.

41 
 
3. I nonluoghi e la surmodernità

Non bisogna immaginare luoghi e nonluoghi come entità nettamente


separate, o come se fossero l’uno il contrario dell’altro. Nel
mondo contemporaneo i nonluoghi e i luoghi si intrecciano e gli
uni rendono possibile il riconoscimento dell’altro.

Un elemento che permette di differenziarli è la zona di frontiera:


in quanto luoghi di relazione intersoggettiva, i luoghi tendono a
farsi estranei, per l’individuo, man mano che esso si allontana dal
suo luogo abituale. I nonluoghi, invece, sono programmati per
evitare il senso di estraneità, ed è per questo che creano
spersonalizzazione, omologazione e medietà, tanto è vero che i
nonluoghi della surmodernità si presentano come parentesi del gioco
sociale, che infatti si svolge al loro esterno.

42 
 
Modulo 6 – La «crisi» dell’antropologia:
sviluppi recenti

Lezione 1 – L’illusione dell’originario: l’antropologia di Jean-


Loup Amselle

1. L’oggetto dell’antropologia

L’antropologia è la disciplina che studia l’ «alterità» culturale e


l’antropologo è colui che esce dai confini della civiltà occidentale per
compiere la ricerca del diverso e arricchire, così, la conoscenza
dell’uomo. Tuttavia non di rado, nel corso della storia della scienza
antropologica, l’idea della diversità culturale è stata considerata un
sinonimo di quella di primitività. Perché il concetto di «differenza
culturale» viene continuamente sovrapposto a quello di «primitivo»?
In prima istanza bisogna riflettere sul fatto che l’antropologia nasce
dallo stupore dell’umanità occidentale di fronte al manifestarsi di
forme culturali completamente differenti dalle proprie. Tali forme
culturali sono state associate in maniera quasi automatica ad una idea
di “purezza” e di “spontaneità” che, invece, non avrebbero potuto
trovare un corrispettivo fra le manifestazioni “corrotte” della civiltà
occidentale. La (presunta) condizione di isolamento in cui certe
società hanno vissuto e vivono (specie in certi territori dell’America
latina) rappresenterebbe una garanzia del livello di purezza di questo
tipo di civiltà.

I motivi per cui matura nel contesto della ricerca antropologica


questa profonda ambizione di attingere alle forme primitive di

43 
 
cultura, secondo Amselle, risiedono in una duplice considerazione: in
primo luogo primitività e attitudine all’isolamento vengono visti
come fattori legati strettamente, perché la seconda sarebbe
indispensabile al mantenimento della prima. Inoltre si presuppone
che un oggetto di studio ottimale sia composto da una società poco
incline ai contatti e, quindi, alle contaminazioni e alle mutazioni. Una
società, cioè, pura, nella misura in cui si è conservata nel corso del
tempo simile a quella che era alle proprie origini.

44 
 
2. Il colonialismo e l’isolamento impossibile

Amselle si domanda se esistono realmente società che vivono in


isolamento totale rispetto al resto dell’umanità e perché, ammesso
che esistano, non avrebbero comunque potuto originare forme di
progresso storico e tecnologico. Di fatto il pregiudizio primitivista
consiste proprio in ciò: considerare le civiltà dei “selvaggi” come
incapaci di svilupparsi storicamente, e sufficientemente isolate
rispetto al contesto globale, da poterci offrire una fotografia
verosimile della condizione dell’umanità ai suoi albori.

Di fronte alla costatazione del fatto che il fenomeno coloniale ha


riguardato il mondo intero, imponendo l’egemonia politica, militare e
culturale dell’Occidente in ogni angolo del pianeta, Amselle
sottolinea che l’ipotesi secondo cui esistono società primitive in
quanto totalmente isolate vacilla, innescando la crisi dell’oggetto di
studio dell’antropologia e la necessità di ridefinire i concetti di una
disciplina costantemente schiacciata fra storiografia e sociologia.

Secondo Amselle sono soprattutto due le strategie che molti


antropologi del XX secolo hanno adottato per tentare di
circoscrivere l’oggetto della loro indagine: indietreggiare nel tempo
fino al recupero della memoria precoloniale (ovvero risalendo al
periodo precedente la “contaminazione” con i modelli culturali
portati dai colonizzatori); oppure diminuire lo spazio di azione
geografica della ricerca. Il tentativo costante è quello di recuperare
una prospettiva sui selvaggi che soddisfi il principio della loro presunta
primitività: società isolata, poco incline alle trasformazioni,
conservatrice delle proprie tradizioni.

Secondo Amselle sia la dimensione precoloniale, sia la dimensione


spaziale del villaggio, o della etnia, devono essere decostruite e poste in

45 
 
una prospettiva di tipo storico, che sappia valutarne il carattere di
risultato di un processo storico, e non di frammento del mondo primitivo. «La
crisi dell’antropologia a cui oggi assistiamo – che pure dura da tempo
– deriva dall’incapacità di uscire da questa tematica primitivista e di
farsi carico pienamente della storicità del suo oggetto […]»
L’antropologia deve ammettere che il selvaggio è entrato nel mondo
globalizzato e adeguarsi alla nuova configurazione dei problemi.

46 
 
3. Primitivismo e autoctonia

Il tema del primitivismo rientra prepotentemente in gioco quando gli


antropologi e gli studiosi devono fornire una definizione del concetto
di autoctonia. Secondo Amselle il discorso sulla autoctonia è
strettamente legato alla tematica della illusione dell’originario. Dobbiamo
prima di tutto però provare a chiarire cosa si intenda per autoctonia, e
quali caratteristiche corrispondano all’immagine di un popolo autoctono.

Il tema della autoctonia nasce in antropologia insieme alla ambizione


degli antropologi di confrontarsi con popolazioni completamente
indigene, ovvero da sempre legate al territorio in cui vivono e quasi
prive di contatti con l’esterno. Per definire autoctono un popolo o una
società, bisogna poter dimostrare la lontananza nel tempo del
proprio insediamento in un dato territorio. Questa tendenza a risalire
alle origini, oltre che intrisa di primitivismo, è un’assurdità scientifica,
perché non esiste possibilità di dimostrare l’origine di certi
insediamenti, specie se molto antichi.

Amselle nota come il «Forum permanente dell’Onu sulle questioni


indigene» (UNPFII) non fornisca una vera definizione di autoctonia.
Semplicemente si limita a dare rilevanza all’inizio della occupazione
coloniale: è autoctono un popolo che occupava un determinato
territorio fino al momento dell’arrivo delle potenze occidentali.
Anche in questo caso – e ad opera di una delle massime istituzioni
culturali del mondo – Amselle rileva l’equivoca volontà di ipotizzare,
per i popoli “primitivi”, un’attitudine all’isolamento e
all’immobilismo, veicolando una visione statica dell’idea di cultura,
che non trova riscontro nei fatti.

La visione statica della cultura dei “selvaggi” è in parte stata diffusa


anche dall’UNESCO, che nel secondo dopoguerra si impegna a

47 
 
garantire la tutela del patrimonio immateriale delle popolazioni
indigene dalle trasformazioni apportate da decolonizzazione e
globalizzazione. Intesa come bene da tutelare, la cultura degli
indigeni diventa per gli studiosi un sistema chiuso e cristallizzato, da
tutelare evitando che il contatto con agenti esterni lo possa
modificare: si ripropone il pregiudizio per cui i popoli primitivi
possano considerarsi come popoli senza storia, da sempre identici a
se stessi e da preservare come tali. Il pregiudizio primitivista agisce
anche nelle alte istituzioni e dietro la loro volontà di tutela della
diversità culturale: esso ricerca nelle popolazioni autoctone elementi
di purezza, autenticità, incontaminazione culturale, fissità delle forme storiche, di
fatto proiettando su di esse una forma molto radicata di pregiudizio
culturale.

48 
 
4. Il mito del buon selvaggio

Una delle forme che ha assunto nel tempo l’illusione primitivistica è


quella del mito del buon selvaggio: il primitivo è un uomo puro, che vive
un’esistenza autentica e la civilizzazione e lo sviluppo tecnologico
costituiscono un pericolo per la purezza della cultura primitiva. Nel
mito del buon selvaggio si ripropone l’ipotesi per cui la cultura dei
primitivi sia “al riparo dalla storia”, aderente alla tradizione e sempre
uguale a se stessa, ovvero fuori dal tempo.

Amselle sottolinea come anche grandissimi antropologi come Alfred


Métraux e Claude Lévi-Strauss siano rimasti a volte irretiti
nell’illusione dell’originario, avendo spesso concepito la fine
dell’isolamento come uno dei rischi maggiori per le culture primitive.
Il colonialismo e la decolonizzazione, con tutta la serie di sincretismi
cui hanno dato vita, mescolando le culture autoctone con quelle dei
colonizzatori, hanno tuttavia imposto di abbandonare certe
convinzioni, perché anche le società più isolate mostrano l’evidente
tendenza a trasformarsi e a mescolarsi con le altre comunità, o la
volontà di accogliere usi, costumi e tecnologie occidentali. Il
sociologo francese Roger Caillois nel 1974 all’Accademia di Francia
pronuncia un discorso in cui deplora l’atteggiamento di invidia nei
confronti della purezza dei primitivi, dichiara di non credere
nell’immagine del primitivo che rifiuta la storia, riconosce nei Paesi del
Terzo Mondo la volontà di adeguarsi alla modernità, stigmatizzando
la miopia di certi antropologi che hanno imposto ai primitivi una
maschera di convenienza: li hanno a lungo descritti così come
avrebbero voluto che fossero, senza mettere mai in discussione i
propri pregiudizi e i propri preconcetti.

Amselle, che fa proprio il punto di vista di Caillois, mette anche in


evidenza come a partire dagli anni ‘70 si assiste ad un complessivo
49 
 
risveglio da parte di alcune società primitive schiacciate dai Paesi
coloniali. Questo risveglio prende le forme di un forte desiderio di
autodeterminazione. Non di rado la ripresa di iniziativa dei popoli più
isolati ha coinciso con l’azione di ONG e istituzioni, che hanno
ricoperto della retorica dell’autoctonia le legittime rivendicazioni
territoriali di alcune comunità. Anche in questo caso Amselle
rinviene l’azione del «feticcio primitivista». Nei casi virtuosi, invece, i
popoli primitivi hanno volontariamente richiesto l’intervento degli
antropologi, perché lavorassero al servizio del loro progetto di
autodeterminazione e perché potessero dare maggiore vigore alle
proprie rivendicazioni storiche.

50 
 
Lezione 2 – James Clifford: l’antropologia interpretativa

1. La fine del colonialismo

Sulla scia del percorso di progressiva decolonizzazione, avviato dalle


potenze occidentali dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale,
segue una fase di complessivo ripensamento dei paradigmi
interpretativi dell’antropologia. Gli antropologi iniziano a valutare
l’esistenza di possibili intrecci nascosti fra la pratica della ricerca
etnografica e il periodo storico del colonialismo, inteso come
momento di affermazione della potenza occidentale allo scopo di
assoggettare enormi masse della popolazione mondiale. Possiamo
sintetizzare la situazione generale in due domande: l’antropologia è
stata in qualche modo complice del colonialismo? L’interesse degli
antropologi per «l’altro» come soggetto culturale ha riprodotto le
pratiche di assoggettamento politico e militare degli Stati occidentali
ai danni delle popolazioni colonizzate?

Il nodo concettuale intorno a cui ruota il fenomeno del ripensamento


della antropologia e dei suoi paradigmi è quello della natura politica
della rappresentazione dell’ “altro”. Rappresentare la differenza
culturale viene d’ora in avanti considerato come un atto carico di
significati politici ed ideologici impliciti, che attraverso la riflessione
dovrebbero essere fatti emergere. I teorici della disciplina
antropologica parlano, a partire dagli anni ‘70, di «crisi della
rappresentazione etnografica», che deve essere intesa come la presa
di coscienza intorno al valore simbolico e politico del lavoro
etnografico: partire verso il campo, raccogliere i documenti e
riordinarli nella sintesi finale del racconto.

51 
 
Nel 1986 J. Clifford e G. Marcus pubblicano Scrivere le culture, testo
che pone l’accento sulla pratica della etnografia come scrittura e
racconto della differenza, dotata di regole e paradigmi tipici di un
genere letterario vero e proprio. I principali rimandi teorici del libro
di Clifford e Marcus sono due: gli studi di Clifford Geertz confluiti
nel volume Interpretazione di culture (1973) e la filosofia di autori quali
Foucault, Deleuze e Derrida, esponenti della cosiddetta French Theory.

Sotto lo stimolo degli eventi storici, Clifford esamina il disagio


dell’antropologo, che si vede costretto a modificare l’oggetto di
interesse scientifico, man mano che la decolonizzazione modifica le
società sulle quali interviene. Allo stesso tempo, cambiati gli oggetti
di indagine, si impone una riflessione sui modelli di indagine. I modelli
dell’indagine etnografica vengono così decostruiti, ispirandosi al
metodo della decostruzione del filosofo Jacques Derrida. Decostruire
vuol dire, a grandi linee, storicizzare un concetto o un simbolo
facendo emergere il valore politico che si nasconde dietro di esso e il
suo potere di produrre assoggettamento.

52 
 
2. Verso una «antropologia interpretativa»

Con gli studi di Clifford Geertz e di James Clifford si fa strada


l’ipotesi di una antropologia interpretativa. Essa si caratterizza per
l’approccio dialogico e la tendenza all’autoriflessione. James Clifford
mette in evidenza il carattere testuale dell’etnografia. L’etnografia
tradizionalmente si presenta come pratica di trascrizione e
descrizione di quello che lo studioso ha visto sul campo di ricerca.
Ciò che viene descritto è l’ «altro», il culturalmente diverso, ma
occorre domandarsi: in che modo avviene la descrizione dell’ «altro»?
È possibile che nella scelta dell’oggetto da descrivere non
intervengano mai fattori emotivi, culturali o personali del ricercatore?
In cosa consiste l’autorità dell’etnografo, e perché dovrebbe essere
considerato affidabile? Queste domande che Clifford pone in merito
al lavoro dell’etnografo sono collegate ad un’altra questione a lungo
rimasta marginale nel dibattito sui fondamenti della ricerca
etnografica: qual è il ruolo dell’ «altro» nel lavoro del ricercatore?
Possiamo considerarlo come un oggetto passivo dell’osservazione
scientifica?

In effetti per molto tempo il ruolo dell’osservato, in antropologia, è


stato ritenuto passivo: lo studioso occidentale, d’altra parte, ha il
compito portare a chiarezza pratiche culturali la cui ratio interna
sarebbe ignota anche agli uomini che le adottano. Questo punto di
vista riprende, inconsapevolmente, il pregiudizio dell’etnografia delle
origini, convinta che presso i popoli extraeuropei vi fossero dei
selvaggi non ancora in grado di intraprendere la strada dello sviluppo
storico e della civilizzazione. Ai selvaggi non viene riconosciuta la
capacità di produrre simboli culturali in modo consapevole. Dietro
questa convinzione sopravvive ben nascosta la pretesa superiorità
dell’uomo occidentale

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Clifford intende eliminare quest’ultimo residuo etnocentrico,
riconoscendo ai selvaggi la capacità di assumere, anche con una certa
dose di malizia, un ruolo preciso nell’ambito dell’inchiesta etnologica,
di fatto scardinando l’idea che l’ «altro», in senso lato, sia un oggetto
docile nelle mani del ricercatore occidentale. La personalità
dell’osservatore (l’antropologo) e dell’osservato (il selvaggio)
divengono per Clifford i due poli di un processo di negoziazione dei
significati culturali scaturiti dall’inchiesta sul campo: entrambi,
potremmo dire, recitano una parte. Clifford mette in evidenza il
valore politico dell’inchiesta sul terreno: gli interlocutori non si
incontrano mai su un campo neutro, ma pongono in essere un serie
di strategie narrative derivanti dalle condizioni generali in cui l’incontro
avviene. Le strategie narrative dei dialoganti possono comprendere
scatti emotivi, reticenze, simulazioni, dissimulazioni, ecc. Il risultato
di una inchiesta condotta su tali basi sarà, appunto, un’ipotesi
scaturita dal lavoro di negoziazione condotto dalle due parti e non dalla
semplice descrizione che l’una fa dell’altra.

L’altro aspetto dell’ «antropologia interpretativa» è la capacità di


riflessione del ricercatore. Questi è infatti chiamato a lavorare
costantemente su se stesso, ovvero sulla sua capacità di mantenere il
giusto distacco dell’oggetto d’osservazione. È necessario che
l’antropologo lavori costantemente sulle proprie categorie
interpretative e, in special modo, su quelle che potrebbero produrre
una reificazione dell’interlocutore e del sistema culturale di cui questi è
esponente.

54 
 
3. La crisi dell’autorità etnografica

Nel 1988 James Clifford pubblica The predicament of culture (Trad. it. I
frutti puri impazziscono), raccolta di saggi intorno al tema della nascita e
della crisi della narrazione etnografica nel XX secolo. All’interno di
questo testo è possibile leggere il saggio intitolato Sull’autorità
etnografica, nel quale Clifford si concentra sul tema dello sviluppo
delle strategie narrative dell’etnografia contemporanea e sul
progressivo entrare in crisi di queste strategie. La domanda di fondo
che Clifford pone è la seguente: che cosa rende adeguati e degni di
fede i racconti delle ricerche sul terreno condotte dall’antropologo?
Che cosa permette di rendere accettabile e generalizzabile la sua idea
di differenza culturale?

Per decenni il problema della autorità dell’antropologo non è stato


minimamente avvertito come tale. L’antropologo professionista,
d’altra parte, è una figura relativamente recente rispetto a quella dei
primi documentaristi di viaggio, generalmente mercanti e diplomatici.
Con l’affermarsi degli etnografi di professione, si afferma anche il
principio della osservazione partecipante: l’autorità della ricerca è data dal
fatto di essere stata compiuta sul posto, attraverso il contatto diretto
con la cultura oggetto di descrizione diretta da parte dello studioso

L’ipotesi di una descrizione efficace perché frutto di osservazione


diretta può essere fatta facilmente oggetto di critica: all’osservazione
segue sempre, infatti, la selezione e la risistemazione dei dati raccolti,
che non vengono dunque presentati in modo immediato: interviene
la componente soggettiva del ricercatore, che rende illusoria la sua
pretesa di oggettività. Si fa largo l‘ipotesi di una antropologia
interpretativa, che si basa sui seguenti assunti: la descrizione non è mai
innocente; descrivere una cultura significa assemblare testi;
l’assemblaggio dei testi non avviene in loco, ma a chilometri di
55 
 
distanza dal campo; il lavoro dell’antropologo, più che descrittivo, ha
carattere narrativo.

L’ipotesi della etnografia come genere narrativo lascia spazio ad ulteriori


considerazioni critiche: come nel caso della autorità fondata
sull’esperienza, anche l’autorità della narrazione non coinvolge la
figura dell’ «altro», ma la marginalizza. A parlare nel testo è solo
l’etnologo. James Clifford mette l’accento sulla figura degli informatori,
gli indigeni che collaborano con lo studioso sul campo per stabilire
un contatto con le popolazioni del luogo: la figura decisiva degli
informatori viene sistematicamente esclusa dalla narrazione
etnografica. Gli informatori raramente vengono considerati «soggetti
consapevoli e politicamente intenzionati», che mediano e orientano il
rapporto dell’etnologo con gli «altri»

Una maggiore consapevolezza delle ipotesi qui esposte,


consentirebbe, secondo Clifford, di comprendere come la scrittura
etnografica non sia risultato di un monologo che l’etnografo fa con se stesso, ma
di un coro di voci (tutte cariche di una propria intenzionalità politica)
che intervengono nel processo di scrittura.

56 
 
Lezione 3 – La critica della «ragione etnologica»

1. Etnologia e colonialismo
Secondo Amselle, «l’etnologia si è sempre presentata sotto una luce
favorevole, come uno strumento di lotta contro i pregiudizi di ogni
sorta». L’intento dell’opera di revisione del sapere etnologico, che
Amselle ha compiuto negli ultimi anni, parte invece dal sospetto che
al cuore della ragione etnologica resti ancora attivo e operante un
etnocentrismo di fondo.
L’etnologia è infatti legata strettamente all’esperienza della
dominazione coloniale e le prime raccolte di dati sulle popolazioni e
sui territori assoggettati dalle potenze occidentali, sono in realtà dei
resoconti funzionali all’azione dei governatori inviati nelle colonie dai
governi centrali.
La critica della ragione etnologica, tuttavia, non deve essere considerata
come frutto della volontà, da parte di Amselle, di abbandonare del
tutto la prospettiva etnologica, intesa come strumento di comprensione
attraverso la comparazione con l’Altro: essa nasce invece dal
desiderio di ampliare ulteriormente le prospettive di analisi del sapere
etnologico, fornendo un nuovo modello teorico cui ispirarsi per
comprendere i processi di formazione delle identità culturali e delle
relazioni fra culture.

57 
 
2. Tra polis ed ethnos

Gli antichi Greci utilizzavano i concetti di polis e di ethnos allo scopo


di introdurre degli scarti differenziali, attraverso cui far risaltare la
specificità e la superiorità della società greca su tutte le altre culture.
La polis è infatti il luogo della città-Stato, ordinato da leggi e
governato dalle regole della politica. L’ethnos, invece, è un concetto
svalutativo, che designa una dimensione sociale meno strutturata
rispetto a quella greca, e ricomprende forme che vanno dal villaggio
al cosiddetto stato segmentario.

La divisione polis/ethnos sarebbe sopravvissuta all’interno del pensiero


etnologico, anche perché il processo di svalutazione della alterità
culturale al fine di affermare la propria identità, riguarda
indistintamente ogni società, comprese quelle europee. «Come tale
l’antropologia si dispiega sotto forma di paradigmi diversi –
ethnos/polis, selvaggio/barbaro/civilizzato, società primitiva/società
industriale, società senza Stato/società statuale – i quali, non appena
enunciati, hanno immediatamente l’effetto di distribuire tutta una
serie di popolazioni di categorie distinte». Nel XX secolo questo
atteggiamento esclusivista, ha prodotto forme distorte di ossessione
identitaria, come il mito della “purezza della razza”, o quello della
Nazione.

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3. I pericoli del multiculturalismo
Quello di multiculturalismo, o di società multiculturale, è uno dei
temi più presenti nel dibattito pubblico contemporaneo. Il
multiculturalismo viene spesso considerato come l’atteggiamento più
adatto a fornire un antidoto contro le derive del razzismo, o delle
logiche di apartheid che talvolta si realizzano anche nelle società che si
considerano aperte e tolleranti, come le democrazie occidentali.
La tematica del multiculturalismo diventa centrale soprattutto negli
ultimi decenni, quelli che hanno coinciso con la costituzione di
grandi apparati politico-economici sovranazionali, come la Comunità
Europea, che ai principi del multiculturalismo si ispira in maniera
dichiarata.
L’ipotesi della società multiculturale prevede la possibilità di
preservare le differenti identità culturali che interagiscono all’interno
di un unico spazio pubblico. Alla base del multiculturalismo vi è
dunque l’ipotesi che l’identità culturale di una società possa essere
definita in modo netto e lineare.
Secondo Amselle considerare una cultura come una entità statica e fissa
costituisce un nodo problematico e, soprattutto, genera il seguente
paradosso: una tale visione della cultura è la medesima cui si ispirano
i movimenti definibili come fondamentalismo etnico e culturale ed è
dunque potenzialmente foriera di esiti del tutto opposti rispetto a
quelli che il multiculturalismo ambisce a realizzare.

59 
 
4. Come si costituisce una cultura?

Il fatto che l’antropologia consista nello studio comparato di culture


differenti produce, come esito quasi ineluttabile, il fatto che essa
abbracci un atteggiamento di relativismo culturale. Alla base del
relativismo vi è infatti l’ipotesi che fra le culture non sia possibile
stabilire una gerarchia. Se così non fosse, infatti, l’antropologo non
potrebbe attuare alcun confronto.

Amselle isola tre elementi costitutivi del concetto di cultura, così


come esso è stato definito dagli antropologi americani (e al quale si
ispirano i sostenitori della causa del multiculturalismo): 1) la cultura è
l’insieme delle concezioni che un popolo ha sul modo in cui le cose
del mondo dovrebbero essere; 2) la cultura è l’insieme delle
concezioni che il gruppo ha in merito al modo in cui esso stesso si
comporta; 3) la cultura è ciò che è determinato in maniera oggettiva

Secondo Amselle questo modello è ottimale ai fini della


comparazione (perché consente effettivamente di porre sullo stesso
piano tutte le culture di tutti i tempi), ma ha il limite di cancellare il
fatto che «la nozione di cultura è l’effetto di uno sviluppo ineguale o
di un rapporto di forze asimmetrico tra formazioni politiche diverse».

Un esempio dei danni prodotti da questo atteggiamento è costituito,


secondo Amselle, dalla politica statunitense di integrazione delle
comunità di nativi americani: «le differenze tra la cultura indiana e
quella americana non escludono l’integrazione politica ed economica
della prima nella seconda, ma tale integrazione è funzione di una
libera scelta da parte degli indigeni». Essendo mancata la libera scelta,
l’integrazione è invece diventata assimilazione della cultura dei nativi
all’interno di quella americana (che è in condizione di totale
egemonia), nonostante da parte delle istituzioni statunitensi non sia

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mancato il riconoscimento della specificità della cultura indiana e
della necessità di tutelarla.

L’antropologia condivide parecchi aspetti con questo tipo di pratiche


politiche: anch’essa infatti tende a considerare come primo passo del
multiculturalismo l’ipotesi della differenza fra culture e il
riconoscimento delle differenti identità culturali. Tuttavia questa
fissazione degli aspetti identitari è il risultato di uno sguardo esterno
oggettivante (quello dell’antropologo, ad esempio) che sembra
considerare le culture come sistemi isolati, in grado di vivere
separatamente.

Amselle rifiuta questa prospettiva, perché ritiene la cultura «la


risultante di un rapporto di forze interculturali». Le condizioni in cui
una cultura si produce, dunque, devono essere analizzate
storicamente e in termini di egemonia politica: «la cultura spazialmente
dominante detiene la facoltà di assegnare alle altre culture il loro
posto nel sistema, facendo di esse delle identità sottomesse o
determinate». Il sistema, inoltre, non è statico: una cultura egemonica
può diventare subalterna e viceversa.

«Ogni cultura è anche il risultato di un rapporto di forze interne».


All’interno di ogni società esiste infatti una dialettica di
contrapposizione fra gruppi.

Nonostante sembrino legate ad un principio di mobilità e dinamicità,


tuttavia resta il fatto che le culture si differenzino innegabilmente fra
di loro. Qual è allora il principio di formazione di una cultura?
Evidentemente, dice Amselle, una cultura è tale quando essa è
«oggetto di lotta politica», ovvero quando è in atto una lotta per il
riconoscimento di una determinata identità culturale. Ma la lotta politica
è una forma di relazione con l’Altro: questo significa che alla base dei

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processi di formazione di ogni cultura vi è un sincretismo originario,
una mescolanza fondamentale, per cui non è possibile parlare
strutture isolate e di identità culturali definite.

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