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Non c’è pieno accordo su da dove bisogna far cominciare l’età contemporanea: c’è chi la fa cominciare dal
1848, chi dalla Prima guerra mondiale, chi dalle grandi rivoluzioni (francese, industriale). L’idea è che è
contemporanea la fase in cui sono cominciati una serie di fenomeni che si verificano ancora oggi: concetti,
idee, forme di governo, costituzioni...
La consuetudine di far partire la storia contemporanea dalla fine del ‘700 caratterizza la storiografia italiana
e quella francese.
Il partito politico come noi lo intendiamo è un prodotto proprio dell’età contemporanea. Il caso italiano
sempre più si presenta come una sorta di laboratorio dove si sono verificati una serie di casi che poi è
possibile ritrovare nel mondo occidentale: la nascita della forma partito, le prime forme, i suoi antenati, le
società segrete, le società di mutuo soccorso, i gruppi di pressione, lo Stato-partito (esperienza del
fascismo), la Repubblica dei partiti (stato democratico che si ricostituisce in forma repubblicana attorno al
partito, soprattutto attorno ai partiti di massa), l’anti-partitocrazia (crescente scollamento tra la società civile
ed i partiti, i quali invece dovrebbero essere un collante).
TESTI:
- Pombeni, Storia dei partiti italiani (Il Mulino) – no ultimo capitolo;
- Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione (Laterza);
- Gentile, La grande Italia. Ascesa e declino del mito della nazione del ventesimo secolo (Laterza).
La politica ha una sua storia perché non è sempre stata così. La civiltà occidentale è profondamente legata
alla memoria e alla storia differenzia invece del mondo orientale: abbiamo assorbito l’idea che la storia
appartiene all’esistenza. All’interno di questa dimensione storica, la dimensione politica ha grande rilevanza;
anzi, la storia è nata come storia politica ma ha subito molte trasformazioni, ha avuto momenti di sviluppo e
altri di crisi: le fonti scritte del passato non ci raccontavano ad esempio la visione in classi sociali, cosa si
coltivava, ecc…
Dapprima venivano narrate le successioni dinastiche, le cronache monastiche, eventi politici e militari:
questa storia politica a un certo momento è stata talmente attaccata da entrare in crisi, ma nel frattempo si
è sviluppata, fino a giungere ad una rinascita negli anni ’70/’80 del ‘900.
Questo tipo di narrazione comincia a cambiare a metà ‘700, specialmente in Francia (età dei lumi): erano
anni dei viaggi, e questo porta alla voglia di conoscere usi e costumi degli altri paesi. I paesi in cui questo si
afferma di più sono la Scozia, l’Italia, la Francia e la Germania: ci si comincia quindi ad interessare delle
società umane, intese come commerci, economia, costumi morali.
Lo storico che deve scrivere di storia e che subito svolge un ruolo attivo ha davanti due problemi:
1. Non è vero che “i fatti parlano da soli”, idea che a lungo invece ha dominato nel periodo positivista,
periodo nel quale si credeva si dovesse fare una storia oggettiva e che lo storico dovesse
meramente fare un elenco cronologico dei fatti, registrando ciò che ha trovato. Lo storico deve
invece saper fare scelte, interrogare le fonti e non limitarsi ad accumulare dati: non è possibile fare
una ricostruzione oggettiva perché non è possibile avere tutti i punti di vista, anche la raccolta delle
testimonianze è qualcosa di estremamente labile e ci mostra che non è possibile fidarsi.
2. Lo storico della politica deve anche capire qual è l’oggetto della sua ricerca, ovvero quali sono i fatti
politici. Deve riuscire a comprendere la valenza politica di certi fenomeni o fatti: si tratta, cioè, di
vedere se certi accadimenti, certe tendenze anche di lungo periodo sono dotate di senso ai fini
dell’interpretazione politica dei fenomeni. March Bloch è stato uno dei principali scrittori di questa
rivoluzione storiografica (rivoluzione delle Annales).
Nel tempo è cambiata la nozione stessa di politica. Dallo studio del Medioevo e dell’età moderna, la “nuova
storia” si è poi fatta strada anche nello studio dell’età contemporanea. Uno dei fattori fondamentali che
caratterizza l’età contemporanea è la nascita e l’affermazione sulla società di massa: proprio la riflessione su
questo aspetto definisce i lineamenti e i caratteri della nuova storia politica. Non si studiano più solo le
istituzioni e le élite, ma anche la c.d. “storia dal basso” (masse, partiti, ..), la cultura, la società, i miti, i
simboli, la mentalità.
L’esperienza delle Annales ha agito in maniera duplice: da una parte ha attaccato questa storia politica, l’ha
demolita (era la storia dei re, delle battaglie), ma in una seconda fase, invece, c’è stato un ritorno della
storia politica, la quale ha inglobato il contributo delle Annales.
La storia politica è lo studio della sfera politica in età contemporanea. In genere, la storia politica si
ripropone di costruire come si sono poste le basi e come si è modificata la sfera pubblica, la quale è l’ambito
in cui le persone si raccolgono per diventare “una comunità di destini” (concetto che comprende le scelte,
non ci si trova in un certo ambito per caso, ma a causa di scelte che le persone operano). Weber aveva
posto la questione della sfera pubblica guardando alla città medievale e comunale: voleva distinguere
questa dimensione da quella antica, tradizionale; non si tratta più infatti di una comunità guerriera
indirizzata alla conquista e al bottino da spartire, ma di una comunità di attori economici, è una comunità
che mira allo sviluppo pacifico dell’impresa. Applicando il concetto di comunità di destino all’età
contemporanea, questo viene ulteriormente ampliato: una comunità di destino può essere una famiglia,
una truppa legata dal cameratismo, così come coloro che vivono in un ambito territoriale piccolo o grande
che si costituisce come tale (villaggio, regione, Stato); ma lo possono essere anche aggregazioni di tipo
culturale (in senso antropologico), che condividono caratteristiche che portano i loro membri a mettere in
comune la prospettiva del loro destino.
Per Paolo Pombeni, invece, “la sfera politica è l’ambito nel quale convivono, non necessariamente in pace,
queste comunità di destini, sicché il fine della politica è quello di costringerla ad una identificazione, il meno
forzata possibile, in un destino comune che le sovrasta e le ingloba tutte nella consapevolezza, non importa
se fondata o indotta artificialmente, che la rottura di questa solidarietà di destini comporterebbe
conseguenze molto negative per tutti i soggetti, singoli o associati, che in essa vengono ricompresi”.
Pombeni usa il problema del rapporto Chiesa – Stato perché, al di là delle lotte, c’è una profonda distanza,
forse non colmabile, tra un’istituzione, la Chiesa, che presume di conoscere il destino finale dell’umanità,
appoggiandosi al messaggio evangelico e alla credenza di Dio, dall’altra parte c’è un’autorità politica che non
vuole essere ostacolata nel creare un ordine e costruire una convivenza intorno alle leggi.
Il compito della storiografia è la ricostruzione interpretante delle dinamiche. La sua specialità disciplinare
sta nella consapevolezza che proprio l’intrecciarsi di questi fattori, ciascuno al suo interno con un numero
indefinibile di variabili, rende impossibile stabilire delle leggi nel senso meccanicistico del termine, ma
invece consente di costruire strumenti intellettuali di analisi della presenza e del peso che si può dare alle
diverse componenti. Tanto più, poi, sarà accurata l’analisi, quanto più sarà possibile estrarre dai propri studi
strumenti per la comprensione degli avvenimenti.
Nessuna disciplina tra le scienze sociali, però, è in grado di fare previsioni certe ed esatte, neppure la scienza
economica o politica o giuridica o sociologica; questo perché, come nel caso della storia, esse devono
dominare un enorme numero di variabili. L’agire umano non segue logiche certe, sempre uguali e razionali,
e le varabili offrono una molteplicità di combinazioni.
Il partito politico
Dal punto di vista teorico, si può partire dal classico idealtipo: si costruisce, a partire da una serie di casi
concreti, un modello concettuale a fini euristici, di ricerca.
Pombeni ha definito la moderna forma-partito la “modalità di raccolta del consenso politico che mira a
intervenire nella decisione politica, offrendosi come canale di regolamentazione dell’obbligazione politica”.
L’obbligazione politica è una dimensione che esiste in tutte le società, dalle più semplici alle più complesse,
e riguarda la relazione comando – obbedienza: l’obbligazione politica viene quindi intesa come obbedienza
all’autorità legittima.
Il partito si vuole collocare nel punto di intersezione tra le domande della popolazione e il potere del
governo, dell’autorità: vuole porsi come tramite, e tende infatti a presentarsi come tramite esclusivo.
Il partito nasce in un certo modo, con finalità limitate e particolari, ma poi cresce e sviluppa tra i suoi
membri manifestazioni comunitarie regolate da procedure. Il partito vuole essere una forma stabile di
rappresentanza, intervenire stabilmente nella decisione politica; tende quindi a istituzionalizzarsi.
Nelle società moderne, mediando le domande e selezionando la classe politica, i partiti possono essere
ritenuti come il collante tra società civile ed istituzioni.
È quindi necessaria un’autorità politica: certamente non un’autorità politica assoluta, perché questa è
incompatibile con la forma – partito.
Infatti, la cornice in cui nasce il partito moderno è quella del costituzionalismo liberale. L’azione del partito
moderno si manifesta in sistemi che fondano la loro legittimità (intesa come capacità di essere accettati
come giusti senza ricorrere alla violenza) sulla:
a. Definizione dei diritti e doveri dei membri e la definizione dei poteri nell’ambito di un patto
costitutivo, scritto o tacito;
b. Esistenza di meccanismi di selezione della rappresentanza (sistemi elettorali competitivi);
c. Esistenza di un’opinione pubblica in grado di giudicare.
Già da questi punti essenziali è possibile comprendere che non in tutto il mondo si sono verificate o si
verificano le condizioni per la costituzione del partito moderno così inteso.
Questi partiti sono piccole componenti della società politica: in genere partono da istanze limitate (es.
diritto di voto, tutela di certe categorie sociali) fino ad arrivare ad includere fette sempre maggiori della
popolazione ampliando e orientando tali istanze verso interessi più generali.
Il consenso deve poi essere formalizzato: si dà quindi una struttura (statuto/programma), stabilisce diritti e
doveri dei suoi membri, meccanismi di selezioni dei dirigenti, ecc.
Le premesse, le basi della politica contemporanea cominciano proprio alla fine del ‘700, con le grandi
rivoluzioni.
Vi è la percezione che qualcosa sta cambiando, anche tra i contemporanei: c’è un certo riformismo, la
servitù della gleba comincia a essere percepita come un’istituzione fuori dal tempo, l’economia sta
prendendo una svolta verso il capitalismo; c’erano già dei segnali, ma la grande accelerazione rispetto al
passato è data proprio dall’illuminismo e le rivoluzioni.
Kant, in pieno illuminismo (1781), scrive che il nostro è proprio il tempo della critica, cui tutto deve
sottostare. Siamo quindi entrati nel tempo della critica tutto è sotto critica, ma in particolare Kant guarda
alla dimensione del potere e alla religione, due ambiti che fino ad allora non erano mai stati posti a critica.
Noi possiamo riconoscere e apprezzare solo tutto ciò che accetta di sottoporsi alla ragione, e quindi allo
spirito critico: tutto deve essere sottoposto alla critica della ragione.
Questo è quanto sostiene Kant e che riflette il clima del tempo a livello di élite.
Dalla fine del ‘700 nasce il “partito” della ragione: i partiti veri e proprio non esistono ancora (sono
considerati fattori di guerra civile), ma si va affermando l’idea che la società (es. i circoli ristretti dei filosofi,
per Locke) possa esprimere un giudizio morale sul governo, una censura sulla sua azione.
Il concetto della parte è ancora rifiutato: parte vuol dire fazione, se si creano delle parti all’interno dello
stato sono considerate un potenziale di conflitto.
In questi anni nascono delle istituzioni, in particolare in Francia La Republique des Lettres, istituzioni della
borghesia illuminata del ‘700: luogo di incontro e riunioni formali dove si possa leggere giornali e di quanto
sta avvenendo, ed eventualmente criticarlo. Un altro istituto e quello della Massoneria: a differenza de La
Republique des Lettres ha la segretezza, ma rimane un luogo di confronto di idee, laico.
La politica, da affare riservato (e segreto) di pochi individui (che godono della fiducia del principe o che
godono di un diritto di nascita) ora è affare di tutti, è cosa pubblica, è res publica. L’idea che ha lasciato la
rivoluzione è che è cosa pubblica, la politica è affare di tutti. Vi è l’idea che la sovranità si debba trasferire al
popolo: chi governa lo fa in diretta rappresentanza del popolo, il quale si identifica con la nazione. Anche
questo è una novità: prima, quando in età moderna ci sono richiami alla nazione, questa viene vista come
una comunità che si riconosce intorno a un sovrano, necessita di una personificazione. Comincia anche ad
affacciarsi la politicizzazione delle masse, ma sono solo i primi accenni, la maggior parte rimane comunque
estranea: inizia però a diffondersi l’idea che tutti hanno il diritto e dovere di informarsi. Quest’idea che la
politica è affare di tutti provoca poi la pubblicità delle decisioni: i sovrani cominciano a sentire che devono
fare dei comunicati pubblici, devono tenere conto dell’“opinione pubblica”; comincia a diffondersi la libertà
di stampa e di discussione.
Jacques Necker fornisce una definizione molto interessante di ciò che è l’opinione pubblica: “La
maggioranza degli stranieri fatica a farsi un’idea esatta dell’autorità esercitata dall’opinione pubblica. Essi
comprendono con difficoltà come esista una forza invisibile la quale, senza finanze, senza guardie del corpo,
senza esercito, emana leggi che vengono seguite persino nel castello del re; e tuttavia non v’è nulla che
potrebbe essere più reale”. Con opinione pubblica quindi non si intende l’“opinione generalizzata”, ma
l’opinione espressa dai cittadini interessati alla cosa pubblica, che sono in grado di giudicare gli atti del
potere pubblico.
La sfera politica si amplia: dalla rivoluzione in poi vengono attribuite al potere pubblico nuove
responsabilità, quali
- Assistenza pubblica;
- Istruzione pubblica;
- Salute pubblica;
- Fruizione dell’arte;
- Anche la felicità è un diritto dell’individuo e una responsabilità dello Stato.
Altro tema molto complesso è quello della religione: il vecchio stato assoluto era uno stato confessionale
trono e altare erano compenetrati, erano un tutt’uno, lo Stato assoluto ha una sua religione (fede, legge,
re). Per i sudditi, la confessione religiosa era uno dei segni della loro lealtà verso il sovrano. I dissidenti
religiosi sono “cattivi sudditi” e perciò non hanno stato civile.
Ancora prima della rivoluzione, però, lo Stato comincia a rendersi autonomo e subordinare a sé la Chiesa;
comincia una certa tolleranza di fatto (libertà di coscienza e poi di culto), specie in Inghilterra. Con la
Rivoluzione francese, poi, dalla tolleranza si passa alla libertà religiosa. La Rivoluzione francese non nega del
tutto la religione, ma tende a crearne una propria: ne trasferisce i caratteri sulla politica, adottando nuovi
miti, riti, culti. Secondo Durkheim sviluppare una religione laica è uno strumento utile al fine di una
coesione sociale e di legittimazione del potere. Gli studi che sono giunti più tardi hanno aggiunto un
qualcosa in più, non ha una mera funzione di controllo: è mutata la visione del mondo, alla politica è stata
attribuita la missione salvifica di rigenerare l’umanità.
In contesti di rivoluzione, le masse e i singoli sono disorientati, hanno bisogno di punti di riferimento: i
rivoluzionari stessi credono che il mondo non possa essere più lo stesso è proprio in questo ambito che
alla politica viene attribuita una missione salvifica; tutto questo è figlio di un nuovo modo di guardare alla
società.
Fenomeno tipico delle società moderne è la secolarizzazione: processo di separazione delle due sfere,
politica e religiosa, e autonomia della sfera politica da quella religiosa (laicizzazione del potere politico). Al
tempo stesso, la politica tende ad assumere una propria autonoma dimensione religiosa (visione del
mondo, credenze, riti, culti, etc.). È una risposta al bisogno di integrazione in un’epoca di mutamento
quello che Weber definiva come “disincantamento del mondo” è solo parziale, la dimensione non
scompare: vi è infatti una sacralizzazione della politica. Questo è una risposta al bisogno di integrazione in
fasi di grandi movimenti. Queste due grandi dimensioni, in età contemporanea, convivono.
Si vanno affermando nuove prassi politiche: si afferma il principio elettivo come procedimento universale di
designazione; si inventano regolamenti, procedure di discussione, sistemi di scrutinio, tutti procedimenti
oggi ancora in uso. Tuttavia, i diritti politici spettano ancora solo a una ristretta cerchia di cittadini: il criterio
è il censo. Questo perché nel XVIII-XIX secolo il denaro e la proprietà sono considerati il segno del talento e
del merito. Il denaro è il simbolo dell’iniziativa individuale (e della borghesia). Contro il privilegio per
nascita, il denaro di basa su un principio (teorico) di uguaglianza, cioè l’idea che tutti (teoricamente) si
possono arricchire. Il denaro è dunque parte di un sistema di valori che pone l’accento sulla capacità
intellettuale e sull’indipendenza di giudizio.
Cambiano anche i luoghi della politica: la città, la piazza al di fuori di queste vi sono le assemblee, le quali
in Francia favoriscono il dibattito e le lotte politiche. Questa è la premessa al riconoscimento del diritto di
critica organizzata. In Inghilterra questo elemento è dato dal Parlamento: nel parlamento inizialmente
esistevano fazioni, più che partiti, aggregati per interessi pratici e settoriali, erano considerati la prerogativa
di politicanti di second’ordine. Tuttavia, in Gran Bretagna tra il 1750 e il 1832 il Parlamento diventa il luogo
nazionale in cui si fa politica. Sta cambiando anche la figura del parlamentare: inizialmente visto come un
politicante, parte di una fazione; la pubblicità dei dibattiti e l’estensione dei suoi compiti vanno però ad
accrescere la dignità morale e l’importanza della politica, diventando quest’ultima una delle attività più
elevate. Aumenta però il suo carattere conflittuale: le contrapposizioni hanno modo di manifestarsi e questo
favorisce la tendenza a trasformare l’avversario politico (il quale è criticato, ma la sua presenza è accettata e
considerata legittima) in nemico.
Si arriva dunque alla demonizzazione dell’avversario politico, il quale diventa un nemico da combattere
quando lo si vede come distruttore dei fondamenti su cui si regge la comunità aggredita; perciò, viene
rappresentato come il male assoluto. Combattere il nemico assoluto richiede strumenti eccezionali:
ostracismo, persecuzioni, fino all’esecuzione fisica. Le vittime di tutto questo sono i barbari, i vagabondi, i
mendicanti, le streghe, gli eretici, i protestanti, etc. Si va così a seguire una logica dicotomica (male/bene).
Se obbiettivo della politica è rovesciare un mondo e costruirne un altro, lo scontro tra le parti in lotta non
può che essere totale, senza mediazioni, in vista dell’esclusione reciproca.
I primi partiti ideologici di carattere rivoluzionario hanno prodotto proprio questo, cioè delle visioni del
mondo e valori tra loro incompatibili. Questo pone le premesse di uno scontro duro, senza possibilità di
mediazioni: es. rivoluzionari/controrivoluzionari, socialisti/liberali, fascisti/antifascisti, etc..
Il culmine di questa dialettica amico/nemico si avrà nel ‘900 con i regimi totalitari, i quali avranno come
obbiettivo la disgregazione dell’ordine precedente e la costruzione di un nuovo ordine con eliminazione
anche fisica dei nemici per attuare l’integrazione politica dell’intero corpo sociale. È un’integrazione
mediante omogeneizzazione.
NAPOLEONE IN ITALIA: PRIMA ESPERIENZA DELLA POLITICA COME FENOMENO COLLETTIVO
L’arrivo di Napoleone in Italia è un momento di maturazione politica per molti italiani, in particolare per
quegli ufficiali che ebbero funzione di comando e di vertice. Dopo il triennio giacobino (1796 – 1799), nel
1805 nasce il Regno d’Italia. L’Italia, con questo arrivo, viene investita dalle riforme (es. dipartimenti con al
vertice i prefetti, laicizzazione delle carriere amministrative, formazione di una élite di ufficiali e sottufficiali
napoleonici, logge massoniche) e da un ampio dibattito politico. I ceti popolari chiaramente rimangono
estranei da tutto questo.
Caduto Napoleone, il grosso impero che domina l’Italia diventa l’Austria: un solo Stato non ha legami
dinastici o alleanze politiche con l’impero asburgico, il Regno di Sardegna. Finite le guerre napoleoniche,
questo si ingrandisce, perché fa parte di quella corona di stati intorno al confine della Francia che si decide
di rafforzare al fine di creare una serie di stati cuscinetto che vadano a tutelare l’ipotesi che in un futuro
possa esserci un “altro napoleone” con mire espansionistiche.
L’impero asburgico ha il diretto controllo del lombardo-veneto, ci sono poi i ducati dell’Italia settentrionali, i
quali sono legati da vincoli di parentela con l’impero; idem per il granducato di Toscana. Lo Stato della
Chiesa ha un’alleanza con l’Austria, dal momento che quest’ultima è la grande potenza cattolica nel cuore
dell’Europa. Rapporti di alleanza si hanno anche nel Regno delle due Sicilie, dove ci sono i Borbone.
Uno dei re “restaurati” è Luigi XVIII Carta concessa (octroyée) da Luigi XVIII (v. testo su slide)
Legittimismo restaurazione dinastica e del principio monarchico, ma: modifiche territoriali e istituzionali;
mantenimento del sistema amministrativo napoleonico; trasformazioni sociali (abolizione del servaggio, fine
dei privilegi, scomparsa della manomorta ecclesiastica, uguaglianza civile). L’Europa occidentale è diventata
una società borghese, che salva ciò che va salvato della rivoluzione critica il sistema e limita i principi
rivoluzionari, ma ha di fatto rispettato l’opera della rivoluzione.
LA RESTAURAZIONE IN ITALIA
Le categorie sociali che avevano partecipato alla fase di occupazione in Italia ed avevano respirato la
modernità, in epoca di restaurazione, alcuni chiudono con questa esperienza tornando alle posizioni
tradizionali, difendendo il legittimismo. Altri invece che non si adattano a questo ritorno danno vita alle
società segrete (la massoneria già esisteva e continua a farlo), si dà vita ad esempio alla carboneria,
impregnata di spirito romantico (linguaggio criptico, obbiettivi nascosti a livelli più bassi, particolare modo di
vestirsi). Altri ancora si orientano verso i moti insurrezionali.
Il salto di qualità arriverà, però, con la Giovine Italia di Mazzini (1832).
Tutto questo lo ricordiamo perché le società segrete sono gli antenati dei partiti: pur non essendo partiti,
presentano caratteri associativi che preparano e sono definibili come l’anticamera dei futuri partiti politici.
I reazionari ultras sono i veri controrivoluzionari. I principi dell’ordine civile non sono creati dalla ragione ma
derivano dall’ordine “naturale” delle cose e quindi da Dio. Il potere spetta al re legittimo (origine divina del
suo potere), la posizione sociale degli individui è assegnata loro per nascita, le strutture portanti della
società sono gerarchiche. A fine ‘800 per raggiungere nuovi soggetti politici utilizzeranno uno strumento
nuovo: la comunità nazionale.
I conservatori non escludono il progresso e qualche riforma ma intendono intervenire dall’alto e
salvaguardare i “principi fondamentali” (struttura gerarchica della società, ordine, coesione sociale, famiglia,
religione, proprietà privata). Questi non derivano solo dalla religione, ma anche dalla storia. Ottica
paternalistica.
Gli eredi della rivoluzione si presentano invece in quattro grandi ondate (si affermano ad ondate
successive): 1. Movimenti liberali contro i ritorni offensivi di antico regime (1820-21, 1830-31, 1848); 2. Le
rivoluzioni democratiche (1848 – 1870 ca.); 3. I movimenti sociali ispirati dalle scuole socialiste (seconda
metà dell’‘800); 4. Il moto delle nazionalità: percorre tutto il XIX secolo, ora alleato, ora avversario degli altri
movimenti. Avrà la capacità di adattarsi e di collegarsi con altre ideologie (varie forme di nazionalismo:
liberale, democratico, socialista ..).
LIBERALISMO
Nell’‘800 dobbiamo distinguere nettamente tra liberalismo e democrazia, le quali sono due tendenze
contrapposte. Il liberalismo è innanzitutto una filosofia globale fondata sul principio di libertà degli individui.
Il liberalismo è individualista: l’individuo viene prima del popolo ma anche prima dello stato. Il liberalismo
nasce antistatalista, vede lo stato come un oppressore, è limitante: rifiuta ogni potere assoluto (monarchia
nel XIX secolo, totalitarismi e dittature popolari nel XX), è invece per le monarchie costituzionali. Crede poi
nell’interazione umana, pacifica e spontanea. Come filosofia è anche relativista: crede non in verità
assolute. È tendenzialmente “internazionalista”: l’idea liberale è un’idea che si può diffondere, non ha
confini, presenta valori assoluti. Crede nella ragione, quindi è razionalista: diffida di tutti i pregiudizi e
superstizioni, diffida anche del potere e della Chiesa è laico, ma non fa della laicità una bandiera: crede
che il potere debba essere completamente svincolato dalla Chiesa (separazione della sfera politica da quella
religiosa). Crede nel progresso e nella perfettibilità umana: da qui ne discendono tutta una serie di diritti
diritti di libertà individuale, separazione ed equilibrio dei poteri, la loro definizione sulla base di regole
giuridiche definite. Tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge, nonostante non siano uguali nella società.
Dal punto di vista economico è liberista: neutralità dello Stato in campo economico e sociale (lasciare libero
gioco all’iniziativa privata, neutralità giuridica e fiscale). L’ideale di Stato per i liberali è uno stato con compiti
limitati, pochi ministeri, pochi impiegati pubblici, basse imposte. Già dai primi anni dell’‘800 si comincia a
delineare una divisione: tutti i paesi europei sono grandi ammiratori dell’Inghilterra è un modello che si
cerca di imitare: l’idea di tenere lo stato entro limiti definiti deriva dal modello inglese; quando queste idee
si trapiantano in ambito europeo si guarda allo stato in un altro modo, cioè lo Stato è visto nel suo aspetto
positivo: deve essere presente, intervenire, è visto come difensore e garante delle libertà in Europa. Già
dagli inizi vediamo che l’atteggiamento verso lo stato non è identico, pur essendo tutti liberali: questo
aspetto si manterrà nel tempo.
Un’accusa che è stata fatta ai liberali è quella di essere l’espressione della borghesia: questo è vero ma solo
in parte i principi si sviluppano in ambito borghese, ma non rimangono poi ristretti a questo ambito,
bensì valgono per tutti. Se non ci fosse borghesia, però, il liberalismo non si sarebbe sviluppato: perché in
un paese attecchiscano gli ideali liberali occorre una classe borghese, laddove questa manca il liberalismo
non riesce ad attecchire.
Il principio dell’uguaglianza di fronte alla legge non nega che esistano delle differenze sociali ed
economiche: il liberalismo, per l’appunto, non le nega, ma le considera come mutabili nel corso del tempo;
in qualche caso, inoltre, tali differenze vengono anche sancite giuridicamente (uomo/donna, datore di
lavoro/impiegato). Importante sottolineare, poi, che tali principi di libertà ed uguaglianza non si affermano
integralmente o hanno valore differente: es. divieto di associazione, libertà di recinzione. Il liberalismo ha
quindi una faccia progressista nel momento in cui si afferma e va contro l’assolutismo, ma una volta al
potere mostra l’altra faccia, quella conservatrice: la sovranità cui si appella è quella nazionale, non quella
popolare. Il liberalismo, quindi, non è la democrazia e presenta una miscela di interessi e ideali.
I pilastri di questa istituzione sono denaro e istruzione: questi sono legati alle città in rapido cambiamento
della fine dell’‘800. Sia il denaro che l’istruzione hanno un effetto emancipatore, liberatore ed oppressivo
allo stesso tempo.
Un sistema politico liberale lo riconosciamo innanzitutto dalla presenza di una costituzione (limitazione del
potere del sovrano), a prescindere dal contenuto di quest’ultima: la costituzione definisce la forma dei
poteri, come si suddividono, la loro autonomia, il loro equilibrio, il potere vieni, limitato ma resta
monarchico: tendenzialmente sono tutti per le autonomie, per il decentramento. La forma politica di
rappresentanza preferita è il bicameralismo: l’idea è che con una Camera bassa ed una Camera alta si
arginino meglio il potere della corona e i moti dell’opinione pubblica. Il suffragio è ristretto: il diritto di voto
è una funzione un servizio pubblico affidato a una particolare categoria di cittadini ritenuti capaci, per censo
ed istruzione I liberali, comunque, ammettono si possano allargare, presenta quindi un limite non
definitivo sempre entro certi parametri. Libertà di stampa e di opinione, pubblicità dei lavori parlamentari.
Vi è comunque un mezzo di controllo: ad esempio per quanto riguarda scrivere su un giornale, è previsto
una garanzia con deposito e cauzione. Controllo pubblico soprattutto dell’insegnamento secondario: è
l’insegnamento secondario a dover preparare la futura classe dirigente. Viene tolta l’amministrazione dello
stato civile alla chiesa: ad esempio, però, continua comunque ad esistere il matrimonio religioso a cui si
attribuisce valenza civile.
Le imposte privilegiate dai liberali sono quelle indirette: quelle che colpiscono indirettamente la ricchezza,
nel momento in cui viene spesa.
I DEMOCRATICI
La democrazia non è una prosecuzione naturale del liberalismo: per gran parte dell’‘800 viene vista come
qualcosa di opposto al liberalismo, c’è una netta separazione e un netto stacco. Ad esempio, una delle
ragioni del fallimento delle rivoluzioni del ‘48 è proprio il fatto che mancò l’intesa fra democratici e liberali.
Il principio diventa ora l’uguaglianza e l’universalità dei diritti: i cittadini sono tutti uguali, ma non solo
davanti alla legge necessità di creare una condizione di uguaglianza sociale, anche dal piunto di vista dei
diritti. La democrazia vuole l’applicazione integrale e immediata dei principi; respinge le restrizioni, le
discriminazioni e il gradualismo liberale (vuole agire ora e subito).
La nazione è ancora un’entità astratta e giuridica, il popolo è visto dai democratici allora come qualcosa di
più concreto sovranità popolare: sovrana è la totalità dei cittadini. I democratici dicono libertà per tutti:
pienezza di diritti non solo “ai capaci”, ma per tutti, compreso il diritto di votare e di accedere a cariche
importanti.
L’elettorato non è più una funzione, come era per i liberali: è un diritto di tutti, dal momento che la
cittadinanza appartiene a tutti, occorre quindi correggere le ineguaglianze, assicurare mezzi e condizioni
pratiche (sociali per la libertà. Questo significa accentuare il ruolo dello Strato, perché chi se non lo stato
può agire per portare avanti queste pratiche? Vi è quindi un accentramento e un importante ruolo delle
minoranze rivoluzionarie.
Da questi principi deriva
Abolizione del criterio del censo;
Suffragio universale: in realtà, fra i democratici dell’‘800, non vi è l’idea di concedere il voto alle
donne; si parla quindi di suffragio universale maschile. Donne che vivono nella casa e non sono
ammesse a lavorare, tranne le donne della campagna ad es. l’idea è quella di un voto che non
garantisce una scelta indipendente. In Italia, le donne voteranno per la prima volta solo alle elezioni
del ’46. I partiti inoltre hanno paura del voto femminile perché questo rappresenta un’incognita.
Alla vigilia della Prima guerra mondiale il suffragio universale maschile è entrato nella legislazione di
tutta l’Europa nordoccidentale;
Indennità parlamentare: per esercitare il voto con indipendenza. La politica diventa una
professione: il partito darà al politico di origine popolare la solidarietà, la rete di appoggi
(organizzazione, disciplina, propaganda, etc.). Solo gradualmente si arriverà poi alla segretezza del
voto, alla cabina elettorale, alla pubblicità delle liste, etc.;
Sovranità popolare (e non più nazionale): il popolo (non la nazione, entità collettiva, astrazione
giuridica) è sovrano, cioè la totalità dei cittafini;
Cambia la natura degli eserciti: prima erano eserciti mercenari, agli alti vertici c’erano esponenti
dell’aristocrazia. Con il diffondersi della democrazia questi caratteri cambiano: l’idea è che un paese,
un popolo si debba difendere: questo è il principio della nazione in armi tutti i maschi
maggiorenni sono chiamati ad arruolarsi, a combattere non sono più solo i soldati di professione.
Le tasse le devono pagare tutti sulla base del reddito: questo lo dicevano anche i liberali, i più i
democratici aggiungono che non solo le imposte devono essere proporzionali al reddito, ma anche
progressive.
Proprio le elezioni del ’48 rileva qualcosa che i primi democratici avevano sottovalutato: quando finalmente
si affermò il suffragio universale maschile, si pensava il popolo avrebbe votato per la democrazia la
stragrande maggioranza della popolazione (anche contadini e operai) non votarono per la democrazia, ma
per i conservatori: ad essere sensibilizzato a queste idee che cominciavano a circolare non erano i contadini
o gli operai, ma erano operai specializzati di un certo livello, oppure gli artigiani che posseggono un arte che
si tramanda, e poi nuove figure (definibile di piccola e media borghesia) come gli impiegati, i commercianti, i
bancari. Questi ceti medi ha un livello di istruzione media, non elementare, non umanistica, ma tecnica, in
più stano assumendo dei caratteri loro particolari: è tra queste persone che cominciano a diffondersi le idee
democratiche.
Si comincia già nell’ ‘800 a delineare due possibili strade della democrazia:
a) Democrazia rappresentativa, parlamentare: riconosce un potere di delega a un’entità che agisce su
un mandato popolare. Il centro dell’azione politica comincia a diventare il parlamento, proprio i
luoghi del potere, di fronte ai quali il Governo deve rendere atto di ciò che fa. Il Governo non
risponde più dei suoi atti di fronte al re: è il Parlamento che gli deve conferire la fiducia, ed
eventualmente togliergliela. Anche in questo ambito esistono forme di democrazia diretta:
petizioni, ad esempio, antenate dei referendum prevale comunque l’idea della delega;
b) Democrazia autoritaria: il popolo direttamente si affida a un governo, che tende a escludere il
Parlamento. Si dice plebiscitaria perché il consenso spesso si basa sul plebiscito: l’autorità si rivolge
direttamente al popolo nel plebiscito l’alternativa è secca: sì o no. Una democrazia plebiscitaria
svilisce l’azione del parlamento.
Qui i partiti si stanno formando: per i liberali si manterrà sempre una certa diffidenza verso i partiti,
preferiscono scambi informali e accordi temporanei. Per i democratici sono importanti i partiti, non temono
l’aspetto irrazionale della politica: favore verso i partiti.
[v. slide per confronto]
IL SOCIALISMO
Il socialismo è l’incontro di due storie diverse: le dottrine socialiste e il movimento operaio. Questi due
percorsi nascono autonomi e separati che in un certo momento, in età contemporanea, si incontrano.
Dottrine socialiste: sono preindustriali, infatti guardano alle società del passato con molta nostalgia.
Volgono riorganizzare la società pacificamente, attraverso l’istruzione, costituendo comunità ideali.
Io loro principi sono la solidarietà, l’uguaglianza, l’idea di mettere terre in comune e spartirne i
frutti. Immaginano società perfette: cercano di costituire queste realtà e diffondere. Queste idee di
solidarietà ed uguaglianza nel ‘900 troveranno terreno fertile in molti paesi ex-coloniali. Tali dottrine
socialiste rappresentano un fenomeno politico;
Movimento operaio: inizialmente ha aspirazioni corporative. Soffre la realtà della prima
industrializzazione: guarda con nostalgia al passato, all’antico corporativismo immagine armonica
idealizzata: vivere in armonia con il datore di lavoro è percepito come l’ideale status del lavoratore.
Questo è un fenomeno sociale, nasce proprio dal lavoro, all’inizio non è organizzato: è legato a una
categoria sociale (gli operai) che lentamente si organizza in movimento per difendere i suoi
interessi.
Nel XIX secolo si incontrano: il socialismo si appoggia sulla classe operaia, ne assorbe rivendicazioni e
aderenti; il movimento operaio trae dal socialismo la sua strategia e la sua visione del mondo.
Lo scenario in cui questo avviene è la condizione durissima delle fabbriche, senza limiti orari, di giorni, di
età, di sesso, non c’è pensione. I luoghi di lavoro sono insalubri, e anche le abitazioni. Questo sradicamento
favorisce i processi di scristianizzazione, quindi di allontanamento dalla religione. Aumenta la questione
demografica in questi ambienti urbani e, naturalmente, ogni crisi economica si abbatte pesantemente su
questa classe lavoratrice se il mercato si contrae, si licenzia o si riducono i salari.
All’inizio, inoltre, in nome della neutralità dello stato si sostiene un divieto di associazione.
Data questa situazione e questa condizione così pesante, il movimento operaio non può nascere da questo
operaio generico e sfruttato, senza tutele: da questo non può nascere una consapevolezza e capacità di
individuare degli obbiettivi il movimento infatti nasce dagli artigiani e dagli operai specializzati (c.d.
“aristocrazia operaia”): occorre infatti una presa di coscienza e un impegno organizzativo. Una delle prime
richieste sarà il diritto di sciopero: la Gran Bretagna lo raggiunge nel 1824, seguirà la Francia del II Impero,
altrove poi sarà raggiunto a fine secolo.
La filosofia politica che sta dietro al socialismo si fonda sul benessere del corpo sociale, quindi non solo
libertà ed uguaglianza, ma fraternità, altruismo. Quello che preme ai socialisti è tenere in maggior
considerazione gli interessi della comunità rispetto a quelli dell’individuo.
Sul terreno economico i socialisti predicano l’abolizione completa o quasi della proprietà privata in favore di
forme pubbliche, collettive: alcuni sono più filo statalisti, altri meno, però ci deve essere un’autorità
pubblica che ha il controllo della proprietà.
In comune i primi socialisti avevano una visione pacifica del progresso e dell’evoluzione, qui non si parla di
lotta di classe, bensì si immaginano comunità ideali: propongono forme diverse, una lenta e graduale
trasformazione morale ed economica della società partendo dalla creazione delle prime comunità socialiste.
Rispetto a questo socialismo, che Marx chiamerà utopistico, il marxismo porta novità molto importanti:
innanzitutto si considera una disciplina scientifica, vi è infatti un’analisi di questo tipo del meccanismo
capitalistico di produzione (sfruttamento, plusvalore, alienazione). Vengono introdotti nuovi elementi: lotta
di classe, struttura/sovrastruttura, la funzione rivoluzionaria della borghesia e la sua crisi 8importante la
spinta della borghesia, la quale a sua volta ha creato una nuova classe sociale, il proletariato), l’inevitabilità
del socialismo. Accanto allo studio delle società più avanzate del suo tempo, l’elemento attrattivo del
marxismo è che offre una visione totale e propone una soluzione futura.
Un altro elemento di questa nuova forma di socialismo è l’internazionalismo: non è possibile prescindere
dalla dimensione internazionale (“proletari di tutto il mondo unitavi”). Nella prima internazionale (’64) dei
lavorati il marxismo convive con altre dottrine (es. mazziniani, forte presenza anarchica), lentamente però il
rigore con cui è costruita la teoria marxiana comincia ad affermarsi. Entrata in crisi questa prima
internazionale, ce ne sarà una seconda negli ultimi decenni dell’‘800, la quale vede il trionfo delle idee
socialiste: ne fanno parte solo i partiti socialisti, i quali dimostrano però di non essere un fronte del tutto
compatto per alcuni l’idea è più radicale: non si può collaborare con la società borghese, si pongono in
una situazione di netta contrapposizione; per altri invece non è così.
Mentre i socialisti utopisti avevano una visione pacifica che faceva leva soprattutto sulla visione morale,
questi nuovi socialisti fanno leva soprattutto sulla politica: questo sia come progetto politico (dittatura del
proletariato), ma anche nel senso di struttura (importanza del partito e della lotta parlamentare) – il
modello di questo partito, però, deriva dalla tradizione democratica.
Il marxismo si afferma in Europa dopo il 1870: in questa fase non è òl0inghilterr l’elemento trainante, ma il
maggiore sviluppo avviene dalla Germania (proprio qui si afferma questo socialismo). La Francia in questo
periodo sperimenta la comune, che sembra avere elementi di marxismo: in realtà fallisce per sue
contraddizioni interne.
In Germania si sviluppa un grande partito socialista che mette insieme, nel famoso programma di Gotha, la
linea di Lassalle e quella di Marx programma ufficiale del socialismo tedesco (SPD).
Proprio le tappe dell’evoluzione per raggiungere l’obbiettivo finale provoca un vivace dibattito all’interno del
socialismo:
a) Integralismo (radicale rifiuto);
b) Rivoluzionarismo: è massimalista, in linea di massima non vuole collaborare, in una certa fase vede
l’elemento rivoluzionario, però, nel sindacato (organizzazione dei lavoratori) invece che nella
rivoluzione;
c) Riformismo: crede nel collaborare con le parti più avanzate dei sistemi liberali (il riformismo andrà
in minoranza);
d) Revisionismo: forma di riformismo di destra (Bernstein in Germania; in Italia Bissolati e Bonomi). È
una sorta di labourismo: cooperare all’interno del sistema borghese e sviluppare la parte
riformistica.
Tutto questo porta chiaramente a dei problemi, ad esempio quello non risolto della democrazia
parlamentare. La democrazia si accetta come metodo e principio all’interno del partito, il quale si dà di fatto
una struttura democratica (che verrà meno in quello comunista), ma viene accettata solo in maniera
parziale convinzione che questa dimensione sarà superata.
Gli unici partiti che non sposano la tesi di collaborare con gli altri partiti in/dopo il periodo di guerra sono
quello proletario russo e quello italiano: la formula che adotterà il partito socialista italiano sarà non aderire
né sabotare (lo sforzo bellico).
NAZIONALISMO
Joseph de Maistre disse: “Nazione: grande parola di estrema comodità, giacché se ne fa quel che si vuole”.
Già lui capiva che sotto questa etichetta si intendevano cose diverse. Oggi possiamo dire che è l’idea politica
più universale degli ultimi due secoli.
Questo sviluppo della nazione e del nazionalismo è un processo ininterrotto dal XIX secolo ad oggi.
Il nazionalismo in Europa cresce nell’Ottocento soprattutto nelle aree dai confini mobili. Nel novecento se
ne avrà un enorme sviluppo nei paesi extra-europei: spesso con il colonialismo si esportano idee nate in
Europa (es. rivolta dei Boxers, 1900; lotte di indipendenza anticoloniale; ..). dal punto di vista ideologico,
quando si inizia a sviluppare un’ostilità contro i colonialisti, i popoli colonizzati prendono dal loro
colonizzatore le idee nazionaliste.
Il nazionalismo è un fenomeno trasversale che si va a mescolare con tutte le correnti precedenti, arrivando
persino al nazional-comunismo.
Il termine nazione circolava già in età moderna, sebbene con accezione diversa: la nazione era personificata
nella figura del re. A un certo punto si inserì in questo anche la religione: adesione alla giusta fede.
La Rivoluzione francese rilancia, ma dà anche nuovo significato all’idea di nazione, la quale si riconosce in
nuovi simboli e come la totalità dei cittadini, anche se con idee e religioni diverse. Questi cittadini non sono
legati a nessun governo al potere: è la volontà generale di Rousseau che prende corpo, si fa idea astratta.
Questo nuovo sentimento incontra il Romanticismo: tenta di comprendere la totalità della vita. La bandiera
e l’inno nazionale diventano i simboli per eccellenza dell’identità nazionale. Le idee della Rivoluzione
francese le porta in Europa l’armata di Napoleone e le diffonde, conquistando gran parte dell’Europa
arrivando fino in Russia: la sua influenza la esercita per imitazione, libera i popoli e li unisce (Nord Italia e
Polonia); inoltre la esercita per reazione (ambito tedesco).
C’è un nazionalismo romantico (culturale), uno che fa leva sulle radici anche di sangue (idea che ci sono dei
fondamenti permanenti nell’idea di nazione).
Politicamente in questa prima fase è indeterminato: può essere do destra come di sinistra, si può legare a
qualunque ideologia (liberale, democratica, raramente socialista). La parola nazione comincia ad essere
evocata nelle battaglie.
Sono conseguenza dell’affermarsi della sovranità nazionale le relazioni internazionali (la loro nascita): si
parla di rapporti fra nazioni.
Fino al 1830 prevale un movimento delle nazionalità che si ispira a un modello liberale: i patrioti sono
liberali (Italia, Francia, Belgio, Germania, Russia). Fra i 1830 e il 1848 prevale un modello democratico,
quello de “la primavera dei popoli”, destinato però a cocenti fallimenti (fallisce la prima fase liberale salvo
qualcosa che si mantiene). Falliscono questi movimenti sia nell’aspetto nazionalista che democratico; fra
questi: Mazzini (“l’umanità è il fine, la nazione il mezzo”): idea di una nazione che si realizza in associazione
con le aspirazioni nazionali di altri paesi; dieta di Francoforte; Kossuth; Manin.
Dopo la rivoluzione del ’48 comincia a cambiare qualcosa: la nazione non è più l’ideale agitato da gruppi o
società segrete, ma comincia ad essere fatto proprio da governanti, non solo democratici, ma anche di
sistemi politici autoritari. Entra allora in gioco evocare le aspirazioni nazionali anche a livello diplomatico: il
principio di nazionalità comincia, infatti, ad entrare anche nel diritto internazionale.
Dopo il 1870 il nazionalismo si allea con i conservatori: questo dà vita a nuove correnti che disegnano un
nazionalismo non entro confini (si tratta già di stati nazionali), ma disegna una possibile aspirazione di unità
di popoli diversi il panslavismo è una forma di nazionalismo di questo tipo: immagina di poter associare
insieme tutti i popoli slavi. Ci sarà poi il pangermanesimo, anche la questione d’Oriente è classificabile in
questo senso, etc. Quando si associa ai conservatori assume caratteri xenofobi ed esclusivi, talvolta anche
antisemiti questo, ancora prima che in Germania, lo vedremo in Francia. Salito a livello istituzionale, il
nazionalismo diventa anche strumento della politica di governo.
Dopo il 1914 in Europa si assiste a uno sviluppo di un nazionalismo che cerca di diffondere i caratteri propri
fusi con quelli socialisti: si tratta di un nazionalismo integrale e radicale che tenta di fondersi con il
socialismo. Al di fuori dei confini europei, è l’ideologia che portano i paesi colonizzatori e che ha più
successo di tutti: gli altri popoli entrando a contatto con l’Europa scoprono l’ideologia nazionalista e
sviluppano sentimenti di questo tipo nel rispettivo paese, diventando una delle armi contro i colonizzatori.
Anche all’esteri assume colorazioni diverse: ad esempio abbiamo forme di nazionalismo democratico (caso
di Sun-Yat-Sen) nazionalismo che si modella sull’occidente.
Dopo la Prima guerra mondiale cominciano a vacillare gli imperi coloniali occidentali e si comincia a
diffondere anche una forma di nazionalismo socialista: caso dell’India con Nehru, il quale cerca di introdurre
nel suo paese un nazionalismo con elementi di socialismo. Dopo il 1945 troveremo anche una forma di
nazionalismo associata al comunismo, ad esempio in Corea.
Dopo il 1989 abbiamo una saldatura con l’islamismo estremo, arrivando così ad una nuova esplosione di
nazionalismo.
È in questo scenario che è possibile capire la spinta e la tendenza all’associazione. Una delle prime forme
che troviamo di tentativo di associarsi, la più antica, sono le organizzazioni mutualistiche.
Nascono nell’ambito delle corporazioni (origine quasi medievale) ma aumentano il numero di aderenti in
piena rivoluzione industriale. Nascono dalla necessità di aiutarsi: nel momento in cui non c’è alcuna tutela
dei lavoratori, questi fanno quello che possono. Ovviamente non sono partiti e, tra l’altro, non hanno una
finalità politica: si prendono in considerazione come uno degli antenati dei partiti perché l’esige za di
organizzazione determinano la nascita di una cultura di autogoverno, gestiscono il patrimonio dei consociati
secondo regole di governo e controllo formalizzate. Tutti questi elementi si ritroveranno poi nei patrioti
politici: anche questi avranno un tesoriere, una raccolta delle quote, una minima struttura interna
organizzativa. Questa impronta delle società di autosoccorso attecchirà soprattutto negli ambienti operai sia
protosocialisti sia (soprattutto) cattolici sia, in Italia, repubblicani.
Una seconda tipologia è data dai gruppi di pressione (contemporanei alle organizzazioni mutualistiche).
Associazioni che non intendono entrare in parlamento ma si organizzano per raccogliere adesioni popolari
attorno ad un obbiettivo. Sono un fenomeno tipicamente inglese (controllo del mercato degli alcolici, per
l’educazione scolastica pubblica e gratuita, etc.). Es il cartismo (1838): non è un partito, esercita una
pressione esterna sul parlamento attraverso la raccolta di firme per una petizione a fini politici (suffragio
universale maschile, indennità parlamentare, voto segreto, etc.). Non ha una struttura istituzionalizzata.
I gruppi di pressione sono importanti perché adottano tecniche di mobilitazione (grandi assemblee
pubbliche, fiaccolate notturne, meetings), fanno propaganda popolare basata su formule semplici in grado
di suscitare un consenso emozionale.
Terzo antenato del partito politico sono le società segrete: più che quelle dei primi anni, il grande modello è
la Giovine Italia fondata da Mazzini. Queste resteranno un modello tanto per i partiti liberali, quanto per
molti partiti socialisti e anarchici europei.
La Giovine Italia (1831-32) ha i caratteri di un proto-partito:
Il carattere della segretezza per la Giovine Italia è una necessità, non un ideale romantico come era
per la carboneria. La giovine Italia vuole rovesciare l’ordine esistente e quindi è perseguitata da chi
di dovere;
Adotta un programma che deve essere conosciuto da tutti, mentre per la carboneria solo pochi
potevano conoscere i fini ultimi. Programma G. I.: Italia una, libera, indipendente, repubblicana
“chiunque intenda chiamare il popolo alle armi deve potergli dire il perché”;
Tendenzialmente vuole essere stabile, diffusa su tutto il territorio italiano, chiede un’adesione
individuale dei militanti, i suoi membri sono tutti giovani;
Sistema di finanziamento regolare basato su quote, cerca di dar vita ad una propria (modesta)
stampa;
Natura interclassista: Mazzini resta sempre ostile alla lotta di classe;
Forti legami internazionali. Molti esuli girano per l’Europa (prevalentemente Francia e Inghilterra,
un po' in Spagna): hanno contatti con le idee che circolano in questi paesi;
Struttura centralizzata;
L’apostolato (fare adepti) è un passaggio fondamentale di questa organizzazione: per molti versi
questa organizzazione si ispira al modello religioso. I termini che circolano infatti sono questi:
apostolato, fede, conversione, martiri, etc. Questo è uno dei primi caratteri dell’‘800 che ci fa
comprendere che la politica sta assumendo sempre più caratteri religiosi;
Il sentimento della nazione da mito culturale diventa mito politico: nazione + libertà + democrazia.
Comincia a tradursi in una componente politica che vuole operare anche in modo violento, pure
rovesciando il sistema vigente,
Anche i simboli hanno la loro importanza: il tricolore è il principale simbolo della G. I..
Dopo il ’49, dopo i fallimenti di questi moti, si cerca di dare vita a una sorta di partito che prende il nome di
Partito d’Azione, il quale cerca di strutturare ancora meglio questi primi nuclei.
Quasi tutti i partiti in Europa deriveranno dalla trasformazione in istituzione politica di precedenti tradizioni
di sociabilità concetto sviluppato da M. Agulhon: negli studi ha quasi soppiantato il concetto di socialità,
mentre sociabilità è un termine avalutativo, riguarda meccanismi di aggregazione della società civile.
L’Italia nella prima metà dell’‘800 era fatta di molti stati arretrati, alcuni meno, altri più: era quindi
prevalente l’arretratezza, lenta crescita produttiva. La costruzione delle prime ferrovie mette in moto
un’industria, soprattutto complessa (es. mette in moto l’industria siderurgica): si comprende che il
progresso passa attraverso lo sviluppo ferroviario: le prime ferrovie raggiungeranno appena i 300km nel ’48
(10 volte meno della Francia, 30 meno dell’Inghilterra).
Si cominciano ad abbassare le tariffe doganali: l’Italia le abbatterà al suo interno solo dopo l’unità politica. Si
comincia a parlare di italianità, temi italiani.
Gli anni ’40 sono caratterizzati dalla stagione del moderatismo: accanto ai conservatori, legittimisti e ai
pochi democratici mazziniani emerge questa corrente, la quale vuole riforme graduali senza rompere con i
governi, modello federalista.
Lo Statuto Albertino è l’unico a sopravvivere: per le pressioni dell’opinione pubblica liberale, per il timore da
parte del re di cadere nell’anarchia sarà esteso al Regno d’Italia e durerà cento anni.
Si tratta di una costituzione moderata. Vi è un bicameralismo: a) Camera dei deputati: elettiva, la legge
elettorale prevede un suffragio ristretto su base censitaria elevata; b) Senato di nomina regia. Ad entrambe
le camere spetta il potere legislativo.
La religione cattolica è la sola religione dello stato. gli altri culti sono tollerati (Art. 1). Riconosce la libertà di
associazione (favorisce di fatto la diffusione delle società operaie di mutuo soccorso); ancora non si parla di
partiti. Il solo titolare del potere esecutivo è il re, che ha ampi poteri ed è partecipe con le camere anche del
potere legislativo. Il governo, pertanto, non trae la sua legittimità dalla fiducia delle Camere ma da quella
del sovrano: sembra delinearsi un sistema “costituzionale” simile a quello che ci sarà in Germania.
Vi è però estrema instabilità politica: 3 elezioni nel ’49. La Camera riflette le precedenti divisioni
moderati/democratici sulla guerra all’Austria e ora non vuole ratificare il trattato di pace, per il quale si era
già impegnato il re e il governo. Ma il re, secondo lo Statuto. Ha il bisogno dell’approvazione parlamentare
per un trattato che prevedeva oneri per le finanze (indennità di guerra). Da qui scioglimento della Camera e
proclama del re.
La larvata minaccia di abolire o sospendere lo Statuto, in caso di elezione di una camera ostile alla ratifica,
ha successo. L’intervento del re nelle elezion è stato possibile perché ancora non si è affermata la prassi
parlamentare di rendere il governo responsabile di fronte alle camere (lo diverrà con Cavour). In quel
momento, però, l’atto voluto dal presidente del Consiglio d’Azeglio consente di conservare insieme
l’appoggio del re e le libertà costituzionali (e consolidare la maggioranza moderata) in un’Europa tornata
alla reazione.
In Piemonte le libertà costituzionali restano. Il proclama segna il consolidamento delle forze moderate
(nobili e borghesi) intorno ai presidenti del Consiglio. Esse prevalgono su democratici e reazionari. In
parlamento, i gruppi prendono posto stabilmente a destra e a sinistra secondo l’orientamento politico,
sull’esempio francese. Il confronto politico si svolge in Parlamento; si avviano programmi di legislatura. Sono
poste le premesse per la modernizzazione dello Stato.
Vi fu un forte sviluppo industriale grazie alla stabilità politica che permise la creazione di grandi
infrastrutture come le ferrovie e il canale Cavour.
Cavour è il padre di un’azione diplomatica molto innovativa:
Partecipazione piemontese alla guerra di Crimea 1855, con obiettivo di rendersi alleate Francia e
Inghilterra per uscire dall’isolamento diplomatico.
Alleanza franco-piemontese militare e politica (accordi di plombierès): Napoleone III simpatizzava
con le idee di unità dell’Italia, ma aveva anche l’intenzione politica di sostituirsi all’Austria nella
penisola.
II guerra di indipendenza (1859): guerra vittoriosa
La Francia firma l’armistizio di Villafranca con l’Austria: questo è un atto inaspettato da parte
dell’alleato transalpino. In base a questa pace l’Austria cede la Lombardia ma non il veneto.
Emilia-Romagna, Toscana e Marche insorgono, volendosi annettere al Piemonte. Questa
sollevazione avviene sotto la guida della società nazionale.
Napoleone III riconosce il fatto compiuto e ottiene Nizza e la Savoia.
Le annessioni di Emilia, Romagna e Toscana sono ratificate con dei plebisciti.
DESTRA STORICA
Ha il suo nucleo principale in Piemonte a cui si associano esponenti della toscana, Lombardia e Emilia. Crea
comitati elettorali e si basa su una rete di associazioni di sostegno: culturali e sportive. Gli obiettivi sono di
modernizzare il paese, efficientare lo stato e normalizzazione dei rapporti stato-chiesa. La destra ha da
affrontare, oltre le guerre che abbiamo visto, l’amministrazione di uno stato difforme e assai differenziato
nelle sue realtà. Verranno quindi promulgate una lunga serie di leggi volte a unificare il territorio.
Leggi unificatrici;
Legge Casati: sistema scolastico nazionale;
Unificazione amministrativa: comuni elettivi, sindaci di nomina regia, province con prefetti;
Unificazione economica: creazione delle infrastrutture, scelta liberista. Sviluppo prevalentemente
agricola;
Aumento della fiscalità: tassa sul macinato, coscrizione obbligatoria;
Divisione delle terre demaniali e dell’asse ecclesiastico, con risultati però insufficienti.
Dopo il 1870 si ha lo sviluppo della riflessione sul partito politico. Si ha il completamento unità, Roma
Capitale; il consolidamento della stabilità politica e l’avvento della sinistra favoriscono la riflessione anche in
Italia sui caratteri del partito politico.
Vi sono principi di industrializzazione e una dilagante crisi economica.
Tale dibattito prende in ambito dei liberali costituzionali (esponenti destra e sinistra storica) protagonisti del
Risorgimento e dell’unificazione nazionale.
Due grandi direttrici:
1. Destra tradizionalista costituzionale, che vede negativamente i partiti politici. La tirannia dei
comitati condiziona la libera azione del deputato (Bonfadini, 1879);
2. Destra riformista costituzionale, che riconosce il ruolo positivo del partito politico. Una
strutturazione del Parlamento per partiti ha una sua ragion d’essere. Il partito organizzato ha un
ruolo moralizzatore della vita politica, garantisce il corretto funzionamento delle istituzioni, purché
non perda di vista gli interessi generali (difesa dei principi risorgimentali e delle istituzioni). Il partito
è anche necessario a difesa del sistema contro le Estreme.
L’Estrema:
Repubblicani: eredi di Mazzini con influenze del filone democratico di Cattaneo. Pratica associativa
[società di mutuo soccorso] e astensionista. Il loro programma è la Repubblica [impossibilità di
conciliazione con la Corona], democrazia sociale, ma rifiutando l’idea della lotta di classe. Si
costituiscono in partito nel 1895;
Radicali: [Bertani, Cavallotti, “Il Secolo”]. “Liberali di estrema sinistra”. Lega con i repubblicani e si
costituiscono in partito nel 1904. Modernizzazione del Paese, riforma della pubblica
amministrazione, massoneria, anticlericalismo, liberismo, decentramento amministrativo. Oscillano
tra astensionismo e opposizione parlamentare;
Socialisti: dai partiti socialisti nasce il modello del partito di massa. Il partito di massa sarà la forma
di organizzazione politica più diffusa in Europa nel XX secolo. Il nucleo del partito socialista è nel
movimento operaio [aristocrazia operaia]. Nascono le organizzazioni di difesa: società di mutuo
soccorso, leghe di resistenza, federazioni di mestiere e Camere del lavoro. Dopo la Comune di Parigi
[1871] si diffondono le prime idee internazionaliste, prima essenzialmente anarchiche [Bakunin] e
poi orientate in senso marxista. A fine secolo nasce il Partito dei lavoratori italiani [1892], poi PSI nel
1895 [Turati]. Obiettivi politici: programma minimo [legislazione sociale, sistema pensionistico e
riformismo] e programma massimo [socializzazione dei mezzi di produzione].
È in questi gruppi che si va delineando la moderna forma-partito: organizzazione radicata nel territorio,
comitato centrale, struttura piramidale, elezioni interne annuali, ampia autonomia delle singole
associazioni. Sono divisi tra astensionismo e partecipazionismo. Dal 1877, queste fazioni diventano un
gruppo parlamentare autonomo.
E i cattolici?
Il Papa considera lo Stato italiano come usurpatore.
“Non expedit”: divieto di partecipazione politica (attiva e passiva) per i cattolici.
Una parte consistente della popolazione italiana non partecipa alla vita politica del Paese.
Pressione delle Estreme e del c.d. pericolo nero.
Netta intransigenza clericale (intransigentismo), cui si oppone un netto anticlericalismo liberale.
I cattolici non facevano scioperi, ma erano una forza eversiva, perché non riconoscevano la legittimità dello
Stato italiano.
Nel 1874, gli intransigenti confluiscono nell’Opera dei Congressi. Istituita dal Papa, accoglie il laicato
cattolico. Rifiuto di collaborazione politica sino all’epoca giolittiana.
Dopo la morte di Pio IX gli succede Leone XIII, che si apre alle questioni sociali.
Cresce una rete di cooperative, società di mutuo soccorso, casse rurali controllate dal clero.
Nascita delle leghe bianche.
Tra fine Ottocento e inizio Novecento si vanno delineando due tendenze:
a) Conservatori nazionali: liberali cattolici. Cercano una conciliazione pratica tra Stato e Vaticano;
Ricorda: la Chiesa avversa fortemente il liberalismo, violazione del diritto naturale.
b) Democrazia cristiana, Murri: vuole conciliare la dottrina cattolica, impegno sociale, democrazia
contro il capitalismo e lo Stato liberale e borghese. Occorre servirsi delle istituzioni liberali per
trasformare lo Stato laico in una società cristiana. Tollerata dal Leone XIII, osteggiata dal Pio X
(ripresa da Sturzo).
IL PARTITO DI CORTE
Il Re, con il Ministro della Real Casa, il ministro della guerra e i senatori esercitano un’influenza sulle
istituzioni rappresentative.
Umberto I, interferenza su governo e Camera. Tentativi autoritari a fine secolo.
Ma anche fattore e simbolo di integrazione nazionale.
IL TRASFORMISMO
Nasce dall’accordo elettorale Depretis (leader Sinistra storica) e Minghetti (leader Destra storica). È la
tendenza a fare blocco al centro, a formare una solida maggioranza costituzionale (mutevole, instabile)
contro le forze antisistema, “rossi” e “neri”. A differenza del connubio, è un accordo temporaneo. Ruolo
della Pentarchia.
Critiche: visto come pratica perenne di negoziazione degli interessi particolari.
Per molti, in un’accezione negativa, trasformismo e parlamentarismo coincidono (involuzione della pratica
parlamentare). Diffidenza verso i partiti e verso la classe politica nel suo insieme.
Il trasformismo impedisce il sistema dell’alternanza e frena l’azione riformista.
Ostacola la formazione dei moderni partiti politici: svilisce il programma politico proprio di ciascun partito. Il
trasformismo si verifica anche in Francia, dove prende il nome di opportunismo.
Il trasformismo diviene una pratica politica per acquisire consenso e conservare o aumentare le fedeltà
politiche.
La Destra si trovò ad affrontare tre opposizioni radicali: cattolica, repubblicana intransigente e reazionaria e
filoborbonica nel Sud (Stato usurpatore). All’epoca della Sinistra vi si aggiungono anarchici e socialisti (Stato
sfruttatore). Sindacalismo rivoluzionario e nazionalismo in epoca giolittiana. Lo Stato liberale si sentì sotto
assedio: vi fu un momento in cui prevalse la repressione autoritaria e il tentativo di mettere in atto propositi
autoritari.
[Rivedi Governo Crispi]
GIOLITTI
Era il ministro dell’interno nel governo Zanardelli, ed era fra i due la figura più importante e significativa. È
un governo (1901 – 13) in cui l’azione politica e la maggior parte della carica è dominata dalla figura di
Giolitti.
Giolitti era già esordito, c’era stato un suo governo a fine ‘800, aveva già delineato nei discorsi alla camera la
sua idea di liberalismo che deve aprirsi alla democrazia, comprendere e fare sue le richieste che vengono
dalla società, e a questa linea rimarrà fedele.
C’è un famoso discorso di Giolitti alla camera (1901): dopo i fatti di Genova (sciopero generale nel dicembre
1900), questa fu l’occasione per Giolitti (siamo ancora nel governo Saracco) di fare un discorso di lungo
periodo, nel quale distingue tra la massa, di cui il governo non deve avere paura a meno che non siano
masse disorganizzate; la massa organizzata bisogna “farsela amica”: allora diceva che lo Stato non deve
intervenire nei conflitti di lavoro, deve restare neutrale “Che interesse ha lo Stato nel tenere bassi i
salari?” Quando interviene in questo senso il governo commette un’ingiustizia, perché manca al suo dovere
di uguaglianza tra i cittadini. Commette anche un errore economico perché non lascia il libero gioco tra
domanda e offerta; il governo commette anche un errore politico perché rende nemiche dello Stato quelle
classi che in realtà costituiscono la maggioranza del paese. Il moto ascendente delle classi popolari è un
moto invincibile perché comune a tutti i paesi civili e poggiato sul principio dell’uguaglianza tra gli uomini:
sta a noi conquistare queste masse e renderle fedeli allo Stato.
SONNINO
Progetto riformatore anche con delle punte avanzate
Il sistema liberale è minacciato al suo interno e dalle estreme. Ciò che manca è un grande partito
conservatore (“fascio di forze nazionali”), con un programma di conservazione politica e
rinnovamento sociale.
[vedi slide]
GIOLITTI
Meno teorie, più pragmatismo. Bisogna governare il paese con i mezzi a disposizione: è necessario
fissare punti programmatici più circoscritti ma di efficacia immediata;
È necessario prevenire la lotta di classe e la vittoria delle estreme con una politicaq di riforme
(revisione del sistema tributario, sgravi fiscali per la picfcola prorpietà, sacrifici ale classi dirigenti);
Riforma sistema scolastico
[vedere slide con le correnti del tempo – “i liberali restano senza un vero partito”]
Con il II ministero di Giolitti nasce la “dittatura parlamentare” di Giolitti, il quale aveva il controllo reale della
maggioranza della camera: non aveva quindi bisogno di creare un grande partito. La sua maggioranza si
costituiva proprio in sede parlamentare intorno alla sua forte personalità. In questa fase non gli riesce più
l’alleanza né con i socialisti né con i radicali, crea allora delle maggioranze con elementi di destra, i
conservatori, per cercare di portare avanti il suo programma che, seppur liberale, era di sinistra questo ci
conferma quanto questa costruzione fosse legata alla sua forte personalità.
Se dobbiamo definire la posizione dei cattolici, dobbiamo usare il termine “clerico modernismo”: l’eredità
arrivata dall’ ‘800 era la corrente intransigente, derivante dall’assoluta intransigenza del papa nei confronti
dello Stato Liberale. Questo intransigentismo in realtà si era andato già a fine ‘800 suddividendo, cioè aveva
prodotto al suo interno delle differenze.
Dentro le file dell’intransigentismo era cresciuta la corrente di Meda che aveva una forte carica antiliberale,
antiborghese e anticapitalistica, ma voleva sviluppare una democrazia sociale.
Il nuovo papa comincia a consentire delle sospensioni del non expedit: lascia facoltà alle singole diocesi di
sospenderli per consentire ai cattolici di andare a vorare i candidati liberali, laddove si profila il rischio che
vincano i socialisti. Si sviluppa questa idea di compromesso fra “tesi e antitesi” cioè la condanna da parte
della chiesa del sistema liberale resta sul punto di vista dei principi, ma dal punto di vista pratico bisogna
creare un compromesso. Già nel 1904 vengono eletti due deputati cattolici, cioè uomini liberali che a titolo
personale partecipano alle elezioni e vengono votati.
Pio X preferisce sciogliere i congressi. Da questo nascono: Unione popolare, U. economico -sociale, U.
elettorale. Di fatto, questo apre la strada alla fine del non-expedit: i cattolici possono partecipare alle
elezioni, non possono però essere un partito. Possono votare solo quei liberali che si impegneranno a
sostenere un programma caro ai cattolici: contro la scuola pubblica, contro il divorzio, questa è l’essenza del
clerico-moderatismo.
Patto Gentiloni: patto segreto, o quantomeno il governo non ne sapeva niente; era stato un accordo delle
singole circoscrizioni con singoli candidati. Giolitti in merito ai rapporti chiesa-Stato manterrà la sua linea:
Chiesa e Stato due parallele che non dovranno incontrarsi mai. Questa linea fu fortemente criticata da Luigi
Sturzo, il quale sosteneva che i cattolici dovevano costituire un loro partito autonomo, comprendendo però
che in quella fase i tempi erano prematuri.
Elezioni a suffragio semi universale del 1912 accompagnato da una riforma scolastica: si poteva concedere il
suffragio accompagnando lo sviluppo dell’istruzione. Questo vide una forza dei liberali che cominciarono ad
avere l’appoggio dei liberali, ma anche grande forza delle sinistre. Ingresso di cinque nazionalisti.
La crisi del sistema giolittiano non toglie nel susseguirsi dei governi la carica riformista: in questi ultimi anni
abbiamo elementi avanzati come la riforma elettorale, e un altro che va ricordato è l’INA, perché è il
tentativo di Giolitti di affidare a un ente pubblico una fonte di finanziamento per la cassa per la vecchiaia e
invalidità dei lavoratori. L’INA nasce ma non diventa un monopolio: le assicurazioni private sulla vita
sopravvivranno.
L’altra iniziativa che invece va in tutt’altra direzione è la decisione di fare l’impresa coloniale della guerra
contro la Libia.
Questa crisi del giolittismo è la crisi di quel modo di fare politica, è la crisi del liberalismo ottocentesco, il
quale poneva il fulcro dell’azione politica nel parlamento. Nel breve volgere di qualche anno, qualcosa
prevale sul parlamento: la classe, la nazione.
La fase di Salandra è brevissima: egli è il leader dei liberali conservatori, sogna anche lui di dar vita ad un
grande partito liberale nazionale, con la differenza che egli avrebbe voluto riunire sotto un unico partito
cattolici e nazionalisti. Questo suo tentativo non avrà successo: i liberali continueranno ad essere divisi. Si
forma il gruppo parlamentare, è vero, ma si tratta di un gruppo parlamentare diviso. Intanto si sta
accentuando una radicalizzazione tra destra conservatrice e una frangia estrema su posizioni sempre più
rivoluzionarie, il tutto coincide con una nuova fase di rallentamento economico. Torna la paura del
sovversivismo, cioè che la rivoluzione possa scoppiare in ogni momento.
PRIMA GUERRA MONDIALE
Si apre una nuova linea di frattura trasversale tra interventisti e neutralisti. Questa non è una spaccatura
solo dentro il parlamento, ma si misura anche nelle manifestazioni di piazza (nelle mani degli interventisti) e
la stragrande maggioranza del parlamento che non vuole entrare.
“Ne aderire ne sabotare” socialisti + neutralisti: cattolici e giolittiani, gran parte del paese.
MOVIMENTO ANTIPARTITO
È nella crisi del dopoguerra che si offre l’opportunità a un movimento che avesse saputo raccogliere le
confuse spinte antisistema di ritagliarsi uno spazio tra le forze maggiori utilizzando violenza e manovra
politica.
23 marzo 1919: nascono i Fasci di combattimento (ex combattenti, arditi, fiumani, futuristi, ex socialisti,
sindacalisti rivoluzionari)
Fattori unificanti: attivismo, rivolta contro l’ordine esistente, giovanilismo; tradurre i valori prodotti dalla
guerra in una religione civile; comunità di fede, esclusivista, intollerante.