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Il termine tecnologia occupa un luogo privilegiato nell!

analisi culturale: molto probabilmen-


te anche a causa del ruolo fondamentale che ha svolto nella storia dei paesi industriali. E!"un
ruolo riconosciutole dalla paletnologia che pone alla base della nostra evoluzione – culturale
e biologica insieme – la costruzione di utensili; è un ruolo riconosciutole anche dai gruppi
umani che sono stati investiti, travolti, assimilati dalla rivoluzione industriale e che ci hanno
odiati, temuti, invidiati proprio perché “signori delle macchine”. La sua importanza inoltre è
accresciuta dal fatto che essa è stata, ed è tuttora, uno strumento per regolare, ordinare, sta-
bilire i rapporti economici, le relazioni politiche e sociali. Sarebbe anche possibile leggere la
storia degli ultimi secoli alla luce dell!emergenza, nelle nazioni dell!Occidente, di una ten-
denza a preferire l!uso di metodi tecnologici e impersonali per stabilire il controllo sociale e
ssare gli stessi principi ordinatori degli assetti naturali e culturali: una tendenza che si op-
pone a quella che fonda invece i rapporti fra gli individui e quelli con le istituzioni su meto-
di personali e autoritari Cambiano le valenze culturali delle singole tecnologie ma il ruolo
che la tecnologia riveste nella de nizione dei con ni tra i gruppi sociali può essere utilizzato
in analisi culturali, economiche e storiche, diverse tra loro, ma tutte assai convincenti e il-
luminanti. Due esempi. Norbert Elias ha dimostrato quanto sia stata importante, per lo svi-
luppo degli usi, dei costumi, dei comportamenti degli europei la #tecnologia della mensa”. I
limiti fra gli individui e i gruppi, i sistemi di identità collettiva si sono stabiliti nella società
europea a partire dall!uso e dal possesso di coltelli, tovaglie, forchette, tazze, cucchiai, bic-
chieri; a partire dall!elaborazione e dalla conoscenza delle #buone maniere per sedere a tavo-
la”. E questa tradizione di pensiero appartiene allo stesso ambito delle precedenti elabora-
zioni teoriche di Karl Marx sul rapporto esistente tra i modi di produzione industriale e l!ac-
quisizione di una identità sociale, di una dipendenza o di una autonomia personale.
Su questa base teorica i diversi linguaggi presenti nella nostra società, possono essere consi-
derati apparati tecnologici e lo sforzo deve esser volto ad analizzare le implicazioni educati-
ve – di formazione della identità personale e delle identità collettive – che il loro uso e abu-
so producono. Un buon numero di studiosi della comunicazione hanno interpretato l!opposi-
zione esistente tra comunità ed individuo riportandola alla differenza esistente tra due appa-
rati tecnologici, la cultura orale e la cultura scritta. Il signi cato simbolico dell!oralità e della
scrittura in queste analisi è interamente riferito all!effetto del medium di comunicazione.
Anche se questa posizione rischia la distorsione della realtà a causa della sua schematicità
ho scelto di seguirla perché ci consente di assumere alcuni punti di riferimento molto utili
per orientarci nel complesso panorama della comunicazione umana. All!inizio esisteva il
mondo della parola, del rapporto diretto, del coinvolgimento, nei processi comunicativi, del
gruppo: tutto l!apprendimento, tutto l!insegnamento veniva acquisito e impartito tramite la
parola, il comportamento, la presenza sica. Senza il gruppo, senza la sua volontà di tra-
smettere, di ricordare non c’è possibilità di conoscenza: addirittura l!individuo rischia, pri-
vato del sostegno del gruppo, la stessa sopravvivenza sica. E l!individuo nelle società a
cultura orale non ha un!identità sociale: è un!entità psichica che organizza i suoi sentimenti,
i suoi pensieri sulla base della sua appartenenza ad un gruppo, sulla base di una tradizione
che rende fondamentale il rapporto armonico con il passato. Le concezioni spazio-temporali
vedono la dilatazione del presente, l!agire del presente sul passato che può essere rielaborato
dal gruppo, la dif coltà ad immaginare un futuro diverso dal presente. Il rapporto tra le ge-
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nerazioni è improntato all!autorità e al rispetto degli anziani, i soli ad avere il potere di am-
mettere l!individuo al gruppo, i soli ad essere i depositari delle conoscenze, delle tecniche,
delle verità che costituiscono la cultura del gruppo. La parola coincide con la realtà: è carica
di signi cati, vincola uomini e divinità al rispetto: parola tramandata di generazione in gene-
razione, preziosa, carica di signi cati e sentimenti, ordinatrice della realtà. Nella parola, con
la parola, nella cultura orale, si convogliano emozioni e sentimenti: il timbro della voce, le
in essioni, i toni animano il rapporto comunicativo, sono fattori che aggregano e la comuni-
cazione diviene il mezzo primario di integrazione sociale tramite il coinvolgimento persona-
le di tutti i membri del gruppo. Nella cultura orali il rapporto comunicativo si attua con il
coinvolgimento totale dell!individuo, del suo intelletto ma anche dei suoi sensi: egli inter-
preta le parole che ascolta ma anche gli odori, i suoni, i sapori del contesto in cui avviene
l!evento comunicativo. Con la scrittura, soprattutto con la scrittura alfabetica e con l!inven-
zione della stampa, il panorama culturale muta completamente: tanto l!autore della comuni-
cazione, quanto il fruitore, cioè il lettore, nella cultura alfabetica possono assumere un note-
vole grado di distanza dalla comunità di appartenenza e dalla sua tradizione. Come ha scrit-
to Marshall McLuhan, #la stampa potenzia enormemente, assai più di quanto non abbiano
fatto i manoscritti, il potere individualizzante dell!alfabeto fonetico. La stampa è la tecnolo-
gia dell!individualismo” (McLuhan, 1976, p. 38). Una delle caratteristiche della stampa con-
siderata nella sua forma comunicativa è la sua #neutralità”: per usare ancora la terminologia
di McLuhan è un #mezzo freddo, impersonale”. Nella storia della comunicazione, la stampa
è posta alla base, al fondamento del processo di modernizzazione: in particolare è considera-
ta l!apparato tecnologico produttore e trasmettitore di quell!individualismo che costituisce il
nucleo psichico e sociale del processo di modernizzazione. Come scrive Walter Ong: #Lo
sviluppo della scrittura e della stampa (...) alimentarono la rottura delle società feudali e la
nascita dell!individualismo. La scrittura e la stampa crearono il pensatore isolato, l!uomo
con il libro e scossero la rete delle lealtà personali che le culture orali favoriscono come ma-
trici di comunicazione e come principi di unità sociale” (Ong, 1986, p. 67). La lettura dei
manoscritti infatti era spesso una lettura collettiva e partecipava, almeno in parte, delle ca-
ratteristiche comunicative della cultura orale; con la lettura dei libri si mette in moto il pro-
cesso che isola la conoscenza dell!individuo da quella del suo gruppo: si apprende in solitu-
dine, ci si distacca dalle conoscenze del gruppo e della sua tradizione, si ha la possibilità di
collegarsi con autori distanti nel tempo e nello spazio. E il collegamento è tutto mentale,
privo di coinvolgimenti emotivi vissuti nel rapporto sico; la tradizione non è più orale,
monolitica, non è più patrimonio esclusivo di una generazione di adulti viventi ma diviene
loso a, sica, storia, arte, matematica. Ed è lì, immota, a disposizione di tutti coloro che
sanno e possono leggerla. Il uire del pensiero si incanala nelle regole che presiedono la
scrittura e la lettura: diviene uni-lineare, consequenziale, muta il concetto di realtà con quel-
lo di identità. Nasce con l!importanza della storia scritta, l!importanza del passato come fat-
tore che interpreta, spiega, determina il presente; nasce, con il distacco operato dalla scrittu-
ra tra parola e realtà, la possibilità di disegnare lo scenario, meglio gli scenari del futuro.
Nasce, con la scrittura l!ideologia dei mezzi di comunicazione, di linguaggi che possano,
che debbano, essere impersonali, neutrali: è un!ideologia che si afferma tramite un!intercon-
nessione di livelli differenziati, che coinvolgono strutture culturali, economiche, religiose,
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che inizia ad essere presente in modo esplicito nel XVIII secolo e che ancora oggi, in un!e-
poca in cui i mezzi di comunicazione sono profondamente mutati, trova i suoi sostenitori.
Oggi la richiesta di conoscenze ad un tempo generali e speci che è una costante nei progetti
di sviluppo di industrie, di imprese, di interi paesi; oggi si riconosce alla cultura, accumula-
ta, con il passar degli anni e grazie al possesso della scrittura, nei diversi gruppi umani, la
funzione di contribuire a sviluppare modelli di partecipazione civile e di coesione societaria.
Nonostante ciò, si accetta che l!analfabetismo sia una presenza pesante, dilaghi in termini
assoluti nel mondo a causa della #crescita demogra ca”, si concentri con punte inquietanti in
molte aree europee: quando si dice che nel nostro paese l!analfabetismo totale riguarda solo
il 3,5 % della popolazione forse non si ri ette abbastanza sul fatto che questo numero indica
diverse centinaia di migliaia di individui. Inoltre, accanto all!analfabetismo totale – di chi
cioè a scuola non ci va affatto o chi ci va così poco e male da uscirne senza sapere #né leg-
gere né scrivere” – appaiono i nuovi analfabetismi: quelli più tradizionali degli #analfabeti-
smi di ritorno”, che per la necessità di una sempre maggiore istruzione nel mondo coinvol-
gono fasce di popolazioni sempre più ampie; gli #analfabetismi settoriali” che chiudono a
vasti gruppi interi settori delle conoscenze, isolando competenze, producendo equivoci, am-
biguità, pregiudizi tra specialisti che afferiscono ad ambiti diversi; gli #analfabetismi tecno-
logici”, che tagliano grandi settori della popolazione mondiale, dividendo classi sociali e
appartenenze sessuali; l’”analfabetismo dei potenti”, denunciato con grande causticità da
Hans Magnus Enzensberger, quando scopre che oggi l!analfabestismo culturale “ non può
più essere considerato un privilegio degli oppressi, ma rientra anche nel normale bagaglio
degli oppressori”. ( Enzensberger, 1991, p.46). Davanti a questo panorama così frastagliato
nelle sue esclusioni appare allarmante la prospettiva di un!umanità che si avvia ad essere
profondamente lacerata sino a non riuscire a stabilire livelli di comunicazione, sia pur mi-
nimi, fra gruppi che sin dalla loro infanzia organizzano su basi radicalmente diverse l!inter-
pretazione del vivere societario. Molti sono oggi gli esperti che si domandano se il mezzo
alfabetico, con i suoi tempi di apprendimento, con le sue valenze uni canti rispetto alle co-
noscenze di base ma con le sue inevitabili differenziazioni rispetto alle conoscenze più
complesse, non debba essere completamente trasformato da una politica culturale che guardi
all!aumento demogra co, agli spostamenti migratori delle popolazioni, al proliferare dei lin-
guaggi e dei codici espressivi. Agli inizi degli anni !60 Gualtiero Harrison ed io abbiamo
svolto una serie di ricerche, proseguite per più di dieci anni, in Sicilia, a Lampedusa, in Ca-
labria, con l!obiettivo di provare che l!analfabetismo non è solo una caratteristica individuale
ma implica la condivisione di caratteri collettivi e sociali: dalla raccolta di una messe ab-
bondante di dati e dalla loro interpretazione, abbiamo concluso che è possibile parlare di
cultura analfabeta, in quanto l!esclusione dal sistema di istruzione obbligatorio determina un
modo speci co di vivere, una particolare modalità di rapportarsi agli altri, di vivere i pro-
cessi identitari, di concettualizzare le categorie spaziali e temporali. Cultura analfabeta
quindi indica un codice di conoscenze e di manipolazione della realtà grazie al quale le
esperienze sono vissute, acquistano un signi cato così profondo da essere comunicato e tra-
smesso. L!ipotesi di lavoro che abbiamo seguito e che riteniamo di avere in gran parte pro-
vato, sostiene che la presenza o l!assenza di istruzione scolastica in una data società, abbiano
come corrispettivo la presenza di codici diversi. Abbiamo cioè riscontrato che le categorie di
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spazio, di tempo e di causa vengono adoperate dagli analfabeti in modo diverso rispetto al-
l!uso che ne fanno gli alfabetizzati. E le relazioni interpersonali e

l!auto-identi cazione dell!individuo rispetto al gruppo di appartenenza si organizzano e si


strutturano coerentemente a questo modo diverso di spazializzare, di temporalizzare e di
causalizzare. Cerco di presentare una esempli cazione delle ragioni e delle manifestazioni
di questa diversità: per dare un!idea del risultato prodotto dal codice di comunicazione orale
sulla personalità degli analfabeti, possiamo parlare di un loro conformismo intellettuale e di
un loro contemporaneo individualismo temperamentale. In altre parole, l!educazione al co-
dice orale porta l!analfabeta a considerarsi e a considerare il proprio pensiero come parte del
più generale organismo collettivo in cui vive; e a considerare la propria realizzazione solo
nei termini dell!integrazione con le mete di tutto il gruppo. Mentre il suo temperamento si
esplica in una competitività estremamente individualizzata. I suoi comportamenti personali
e collettivi, le sue relazioni sociali e la stessa organizzazione economica, i suoi modi di co-
noscenza e di comunicazione rispecchiano un tipo di educazione che per generazioni si è
fondata sulla parola/suono, sulla parola/parlata che ha come sue caratteristiche l!iterazione e
l!intonazione. In assenza di un sistema di registrazione che non sia quello della memoria, è
necessario che la parola venga ripetuta più e più volte perché il messaggio venga trattenuto
dalla memoria e possa poi essere ripetuto e trasmesso. La ripetizione e l!iterazione della pa-
rola/parlata predetermina e condiziona al conformismo. Una formula magica perché possa
agire come scongiuro, una ricetta culinaria, una tecnica agricola o artigianale che abbiano
funzionato nel passato, perché possano funzionare nel futuro, devono essere trasmesse così
come sono, con l!individuo che diviene mezzo di questa comunicazione tra le generazioni e
con questo sistema di comunicazione che pretende l!intercambiabilità di ogni individuo. E
questo processo spinge ad un generale conformismo. Inoltre la parola/parlata ha un potere
che manca alla parola/scritta: variando l!intonazione, applicando in essione e toni diversi,
acquista signi cati differenti e talvolta opposti: imparando a modulare in essioni e intona-
zioni, l!individuo impara a raggiungere un alto grado di estrinsecazione emotiva e personale.
Con l!educazione fondata sulla parola/scritta, avviene esattamente l!opposto: schematizzan-
do e sempli cando è possibile sostenere che la società istruita di fonda su una libertà del
pensiero intellettuale e su un conformismo del comportamento emotivo e temperamentale.
La parola/scritta pretende l!interpretazione e non è aiutata, come la parola/parlata dalle in-
essioni e dalle intonazioni del dicitore. E!"lì, fredda e come morta sino a quando la lettura,
vale a dire l!interpretazione, non le dà vita; ascoltando la parola/parlata l!uditorio è passivo e
coinvolto, leggendo la parola/scritta, il lettore è libero perché distaccato ma è anche creativo
perché si pone come individuo nei confronti di ciò che legge. Parlando il dicitore, rispetto ai
livelli emozionali ha una possibilità creativa – anzi una necessità creativa - che manca di
solito allo scrittore che è costretto a far precipitare le sue emozioni e i suoi sentimenti entro
un gioco combinatorio di ventuno segni alfabetici che costituiscono le parole; queste parole,
poi, determinano una emotività soprattutto di tipo intellettuale nel lettore, coinvolto soprat-
tutto con la vista dal loro susseguirsi nell!ordine lineare del rigo, dentro lo spazio della pagi-
na: un rigo e a capo, e poi ancora a capo, una pagina dietro l!altra, le pagine chiuse nel libro.
Questa inversione che abbiamo rinvenuto nel comportamento intellettuale e nel comporta-
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mento emotivo dell!ostruito e dell!analfabeta, è presente anche nell!uso che i due gruppi fan-
no delle categorie spazio temporali e della stessa meccanica della causalità. Rettilineo è lo
spazio delle città costruite dagli alfabetizzati e lungo le strade che rispettano la prospettiva
assiale, le case distinguono la vita familiare dalla vita sociale e ne scandiscono anche i tem-
pi: quello dedicato agli affari e alla uf cialità e quello dedicato alla famiglia e agli amici, il
tempo del lavoro distinto dal tempo libero, i giorni di scuola dai giorni delle vacanze. Una
successione totale di tempi che non devono comunicare fra di loro, come tra di loro non de-
vono comunicare gli spazi. Le porte servono a dividere lo spazio dedicato all!intimità da
quello dedicato al coniuge, a quello dedicato ai gli, a quello dedicato agli amici, ai visitato-
ri estranei: e la porta di casa ad escludere il nemico, il ladro, il pericolo. Ecco il bagno, le
camere da letto, il soggiorno, la cucina, il salotto, la sala d!ingresso: per ogni cosa un posto,
ogni cosa al suo posto: e tutto richiama le lettere dell!alfabeto a comporre le parole e le pa-
role a comporre la pagina. Dentro le città degli istruiti si sono formati i ghetti degli analfa-
beti: ed hanno una struttura talmente estranea al modo di percepire e di organizzare la realtà
proprio degli alfabetizzati, da rendere impossibile a questi di vedere questi ghetti per quello
che sono: una dimensione spazio-temporale speci ca, estranea rispetto a quella degli istruiti.
La strada non è separata dalla casa; e la casa si riversa sulla strada e l!una si sovrappone al-
l!altra. Non c’è separazione tra vita privata e vita pubblica ma un coinvolgimento totale abo-
lisce ogni frattura di spazio e di tempo riproponendo una globalità nella quale oggetti, ani-
mali, uomini e cose vengono mescolati. La successione dei tempi che alterna fatica e pausa,
lavoro e riposo è così diffusa e praticata dalla maggioranza degli alfabetizzati da apparir
loro #naturale”: così naturale che da aver teorizzato schemi universali, validi cioè per ogni
uomo, sul numero delle ore necessarie al sonno, sui ritmi di lavoro, sulle ore dei pasti, sulle
pause di vacanza. La cultura alfabetizzata si aspetta, in altre parole, che ogni uomo suddivi-
da il proprio tempo come fanno la maggioranza degli occidentali istruiti. Ma il cacciatore
australiano, per lunghi periodi dorme solo due ore a notte; e così fa la contadina indigena
del Messico, o l!africano che percorre chilometri per recarsi nella città a lavorare; e lavora
almeno otto ore, ripercorre altri chilometri per tornare alla sua abitazione e veglia quasi tutta
la notte perché i maiali selvaggi non saccheggino l!orto che le sue donne hanno coltivato du-
rante la sua assenza. Così fa anche il pescatore di Lampedusa che dopo una giornata di na-
vigazione per giungere al banco pescoso, calare le reti e ritornare in porto, dorme qualche
ora e riprende il mare per tirar su le reti che spera pesanti di una pesca fruttuosa. E nelle po-
che ore passate a terra, ha dormito, ha mangiato, è stato con la sua famiglia, ha parlato con
altri pescatori, ha ascoltato i consigli dei più anziani e dei più esperti per risolvere una dif -
coltà che oggi gli è parso di intravedere e che domani, se divenisse reale, toglierebbe ogni
frutto alla pesca e lo costringerebbe ad abbandonare le reti impigliate nel banco.Le strutture
familiari, nel ghetto analfabeta, si allargano aggregando attraverso le parentele ttizie dei
#comparatici”, i conoscenti e i vicini; e riproponendo una struttura delle relazioni sociali che
non segue andamenti lineari, in confronto a quella degli alfabetizzati può anche apparire
confusa e priva di una logica, a volte dominata dalla sopraffazione e dalla violenza. Tuttavia
in questa confusione, tra rapporti dominati dall!emotività e dall!adesione a comportamenti
che si adeguano al volere del gruppo a cui si appartiene, l!analfabeta riesce a sopravvivere,
inventando rapporti economici, tecniche di sussistenza e signi cati esistenziali. Tra la collet-
tività degli istruiti e la loro cultura e la collettività degli analfabeti e la loro cultura esistono
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anche relazioni che sono funzionali al più generale sistema sociale che – dobbiamo ricorda-
re – comprende sia gli alfabetizzati che gli analfabeti: esiste quella #funzione associativa”
che lega gli esclusi a coloro che li escludono.

Dal punto di vista della collettività degli alfabetizzati, questo rapporto è caratterizzato dalla
considerazione, più volte espressa e sostenuta, che gli analfabeti vivano in una realtà chiusa,
immobile, priva di prospettive. Ma la cultura analfabeta è senza mobilità, senza progresso
proprio perché l!istruzione esistente è differenziata, discriminatrice e produttrice di continue
nuove ingiustizie. La cultura che la collettività degli istruiti offre all!"analfabeta, la mobilità
che essa gli consente sono in realtà una cultura di scarto, una falsa mobilità. E l!analfabeta,
allora, realizza, nella sua cultura una sua mobilità, perché non esiste cultura, non esiste isti-
tuzione sociale ed umana che non sia dinamica. Ovviamente si tratta di una mobilità e di un
dinamismo di tipo particolare che possono essere colti solo riferendoli al modello ideale
elaborato all!interno della cultura analfabeta: e la cultura degli alfabetizzati è incapace a co-
gliere questo modello non per mancanza di #immaginazione sociologica” ma perché igno-
rarlo è funzionale al sistema di sfruttamento che il sistema sociale generale attua nei con-
fronti degli analfabeti. La cultura analfabeta de nita immobile, che è considerata priva di
ducia in sé stessa, che si ritiene che non abbia strumenti di comunicazione, è la cultura da
cui provengono la quasi totalità degli emigranti italiani che per decenni hanno popolato i
centri industriali di tutto il mondo. Mentre la cultura degli alfabetizzati che aveva ducia in
sé stessa, che comunicava con gli altri chiedeva il protezionismo economico, era provinciale
nel mondo degli studi e nazionalista nel mondo della politica, la cultura degli analfabeti,
immobile, s duciata sino alla passività, incapace di comunicare, #inventava” con l!emigra-
zione una soluzione non solo ai suoi problemi ma attraverso le rimesse di denaro dall!estero
e la scoperta dell!estero, una soluzione anche ai problemi della cultura istruita. In realtà
quello che colpisce della cultura analfabeta, è proprio la capacità, che appare addirittura te-
meraria, di affrontare il nuovo, il diverso, di spostarsi ai quattro angoli della terra. La cultura
istruita vive nel futuro e guarda al passato solo perché è preoccupata che nel futuro - l!unico
tempo che veramente importa – il presente, considerato un tempo indifferente, di mera tran-
sizione, sia considerato un passato nobile.
La cultura analfabeta siciliana – è vero – manca del futuro tanto a livello strutture gramma-
ticali che a livello delle strutture concettuali ma manca anche del passato che è sempre con-
siderato un trapassato, qualcosa di perduto, di trascorso, un non-presente, una negazione del
presente. Tra un passato che non importa più perché è solo un non-presente e un futuro che
non esiste perché quando esisterà sarà presente, il presente acquista una dimensione incon-
cepibile per la cultura istruita. Ed ecco come si può spiegare la dilatazione del presente sino
a comprendere il futuro espressa nella frase #l!estate che viene ce ne andiamo in Germania”.
La nostra ricerca non ha rilevato tanto un!assenza di futuro, quanto piuttosto l!ipertro a del
presente che in quanto tale non può che essere immutabile: o meglio può mutare solo con un
salto, che la natura non ha, secondo l!opinione dell!istruito, ma che la supernatura possiede
come sua dote caratteristica, come sa benissimo l!analfabeta siciliano. La supernatura, la
Sorte, può intervenire e trasformare il presente, o meglio porre l!uomo in un diverso presen-
te: perché la Sorte è sempre presente, nel suo arbitrario dire sì ad alcuni e dire no ad altri.

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Repentinamente, senza prospettive e senza programmi, per una #chiamata”, ogni analfabeta
domani può essere in un altro posto, mille, diecimila chilometri lontano dalla Sicilia, at-
tuando, attraverso l!emigrazione, quel salto nel tempo per cui si sfugge la fame e la morte,
andando là dove, nel presente, fame e morte non ci sono più.E, dopo un secolo di promesse,
non occorre più aspettare l!arrivo dell!industria: l!industria c’è nel presente, basta andarci e
farne parte.

Nella realtà il vero fatalismo siciliano è il risultato delle promesse non mantenute. E l!anal-
fabeta che Harrison ed io abbiamo conosciuto, è fatalista solo nel senso che non crede che
queste promesse saranno mai mantenute: il presente sarà sempre presente, sarà sempre
eguale, se non si abbandonano le condizioni spaziali dell!esistenza.L!emigrazione è il modo
di vivere nel futuro, rendendo reali là ed ora ciò che qui non potrà mai essere realizzato.
Come può l!istruzione essere una promessa a cui prestar fede quando coloro che sono rima-
sti #qui” e si sono istruiti appaiono agli occhi di coloro che hanno avuto il coraggio di anda-
re lì e che ora ritornano a mostrare la loro fortuna, come veri sopravvissuti, residui e scorie
di un passato ancora più disperato perché si erano # dati” delle promesse dell!istruzione? La
cultura analfabeta, così come le nostre ricerche l!hanno ricostruita e disvelata, non è la cultu-
ra orale che sopravvive là dove l!istruzione non giunge o non penetra come e quanto do-
vrebbe: essa ci appare piuttosto un bricolage scomposto di frammenti di quella realtà orale
de nitivamente frantumata dall!adozione, a livello uf ciale, del medium scritto e dal dilaga-
re, a livello di quotidianità, dei mezzi di comunicazione di massa. Per mesi, raccogliendo
storie di vita, vivendo nei loro quartieri urbani, nei loro paesi, partecipando alle loro feste e
ai loro lutti, ci siamo illusi di essere gli archeologi di una cultura a tradizione orale, sulla
quale si fossero aggiunte, per successivi strati, la tradizione scritta e poi la tradizione elettri-
ca e poi quella elettronica. E che la cultura analfabeta potesse essere questa strati cazione.
Siamo stati archeologi, sì, ma in una situazione di cataclisma in cui le onde del terremoto
sconvolgono continuamente gli strati, facendo precipitare nel profondo il più nuovo e fa-
cendo emergere il vecchio che ad una scossa successiva torna di nuovo a precipitare: alla
ne delle nostre ricerche ci siamo resi conto che la cultura analfabeta è proprio questa situa-
zione di cataclisma. Sino a qualche decennio fa ogni ricerca antropologica era sorretta, di-
rettamente o indirettamente, dalla adesione ad un modello di cultura, elaborato in innumere-
voli ricerche lungo tutto l!arco della sua storia di disciplina autonoma ed empirica. E questo
modello è stato ribadito dalla ripetitività, a volte sconcertante, con cui manuali e saggi lo
facevano risalire alla iniziale de nizione che Edward B. Tylor propose nel 1871: #la cultura,
o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnogra co, è quell!insieme complesso che include la
conoscenza, le credenze, l!arte, la morale, il diritto, il costume, e qualsiasi altra capacità e
abitudine acquisita dall!uomo come membro di una società”. Le scansioni categoriali di
questa de nizione sono state messe in luce nelle centinaia di de nizioni raccolte a metà del-
lo scorso secolo in un!antologia famosa da Alfred Louis Kroeber e da Clyde Kluckhohn.
Proprio questa aderenza, più o meno fedele , a questa iniziale de nizione ha permesso a
centinaia e centinaia di antropologi – evoluzionisti, diffusionisti e relativisti, funzionalisti e
strutturalisti, neo-evoluzionisti e materialisti culturali - di abbracciare nella ricerca e nell!e-
laborazione dei dati la singolarità espressa dalla quotidianità della vita di un gruppo, dai
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suoi costumi particolari e dai suoi usi speci ci. Soprattutto ha fornito loro il quadro di rife-
rimento per ricostruire la totalità culturale dei gruppi umani analizzati attraverso lo studio
delle relazioni alla base dei loro usi e costumi, delle loro norme e dei loro valori, delle loro
fedi e dei loro rituali. Questo concetto #olistico” della cultura ben si adattava alle società
“piccole, omogenee ed isolate”, per citare i tre aggettivi scelti da Robert Red eld nel 1955
per indicare le caratteristiche ottimali per offrire all!antropologia, e più in generale alle
scienze sociali, il legittimo oggetto di studio delle scienze sociale occidentali. Dalla metà
del XX secolo sono intervenuti, con una accelerazione crescente, tali e tanti cambiamenti
che non è più possibile pre gurare il mondo come un mosaico culturale, costituito da tessere
separate le une dalle altre, dai caratteri speci ci e ben de niti, delimitate da con ni – reali e
simbolici insieme – netti e dif cili da infrangere. La coincidenza di territorio, cultura, popo-
lo, che questo modello, ad un tempo teorico e politico, presupponeva, è stata una delle più
forti e diffuse motivazioni ideali e politiche per la nascita e la costruzione dello stato nazio-
nale: essa ha costituito ispirazione per opere letterarie e imprese belliche, per ribellioni e
con itti; è stata la base di analisi politologiche, economiche, sociologiche e antropologiche;
ha animato rimpianti e nostalgie tenaci sino a superare lo spazio di una vita. Da qualche
tempo tuttavia assistiamo ad un totale sovvertimento del rapporto tra gli spazi territoriali e
gli spazi sociali: esso sembra aver spazzato via la convinzione che linguaggi, pratiche cultu-
rali, relazioni sociali, espressioni simboliche, manufatti siano radicati, come origini e come
successive modi cazioni, a luoghi geogra camente identi cabili. Nelle ultime decadi del
secondo millennio tanto la coincidenza tra cultura e area geogra ca quanto lo stato naziona-
le hanno subito numerosi e svariati attacchi da più fronti: i violenti con itti etnici scoppiati
nei Balcani, in Somalia, in Indonesia, hanno svelato che lo stato nazionale è un coacervo di
gruppi diversi, spesso in con itto fra loro, spesso più simile ad una #comunità immaginata”
che ad un tessuto di comunanze sviluppate ed articolate in dimensioni territoriali; molti stati
nazionali sono scossi da tensioni separatiste cruente ma anche e contemporaneamente altri
sono messi in discussione da autorità locali che lottano per rafforzare le loro prerogative;
altri ancora vengono minacciati da autorità sovranazionali quali l!Unione Europea o
l!ASEAN, il GATT (General Agreement on Trade and Tariffa) o il WTO (World Trade Or-
ganization). Come scrive Habermas, da un punto di vista politico #una delle idee più impor-
tanti elaborate negli ultimi secoli del secondo millennio, - la nozione della sovranità degli
stati- nazioni - è stata messa in discussione e si è differenziata fra autorità locali, micro-re-
gionali, nazionali, macro-regionali e globali”. Nuove forme di migrazioni internazionali,
nuovi sistemi di comunicazione, nuovi ussi nanziari, nuove entità politiche, costituiscono
relazioni che attraversano i vecchi con ni e assumono come ambito per le loro pratiche so-
cioculturali una multipolarità territoriale. Per la verità, nella storia, sono sempre esistite tali
entità integrate, dislocate territorialmente su vaste aree e composte da stili di vita, da rela-
zioni sociali, da orientamenti ideologici, da sistemi simbolici, da manufatti che se non pote-
vano essere de niti uguali, potevano tuttavia essere tutti iscritti in uno schema di compren-
sione e di elaborazione comune: per duemila anni la Chiesa Cattolica è stata un!organizza-
zione attiva a livello del mondo conosciuto e dotata di strutture e dinamiche multilocali; e
molti grandi imperi del passato possono essere ricondotti, in modo più o meno diretto, a
questo modello. Oggi, tuttavia, ci troviamo di fronte ad una espansione di idee generali, di
stili di vita, di evocazioni di tradizioni lontane, di mode e costumi su base multilocale che
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riguarda l!intero pianeta e che coinvolge, sia pure con modalità ed intensità diverse, la mag-
gioranza dei gruppi umani. Essa è dovuta ad una molteplicità di fattori, diversi ma spesso
strettamente interrelati: nuovi sistemi di comunicazione, nuove tecnologie di trasporto, mo-
vimenti reali e virtuali di milioni di individui spinti ad immaginare o a raggiungere #nuove
patrie” da ragioni molteplici e spesso concomitanti: guerre, carestie, persecuzioni politiche,
ricerca di maggior benessere e di libertà ma anche ricerca di novità, di divertimento, di stu-
dio e di scambi intellettuali. Su tutto, poi, a confondere ed insieme ad amalgamare, si inne-
sta una circolazione, anch!essa globale e multilocale, dinamica e vertiginosa di immagini, di
idee, di oggetti, di usi e costumi. Riassumendo quanto ho detto sinora, vorrei ribadire che la
dislocazione multivocale di vissuti e di progetti su interi continenti e la contemporanea coe-
sistenza, nella stessa area, di una gamma variegata di differenze mutanti e per la loro uidità
di dif cile de nizione, ha pesantemente indebolito il modello della coincidenza tra cultura e
territorio: questi processi complessi hanno trasformato in un fenomeno che riguarda l!intero
pianeta una situazione che nel passato era limitata spazialmente e temporalmente: soprattut-
to hanno esteso – come modello, almeno, e come chance di vita – all!intera umanità colle-
gamenti, informazioni, mobilità un tempo riservate a gruppi ristretti. E!"vero che, come vo-
gliono David Morley e Kevin Robins #non tutti siamo soggettività nomadiche e frammenta-
te, anche se non tutti viviamo nello stesso universo post-moderno” (Morley, Robins, 1995,
p. 218); è vero che solo un numero ridotto di individui vive sino in fondo e con completezza
i processi della globalizzazione; è vero che la vita della maggioranza dell!umanità è a tut-
t!oggi dominata dagli aspetti localistici ancora ampiamente presenti nella nostra epoca e lar-
gamente diffusi nel pianeta; è vero che miliardi di invidui nei loro vissuti reali vedono ridur-
si sempre più le chances di vita, destinati a vivere nei microterritori nei quali sono nati. Tut-
tavia le élites di tutto il pianeta – politiche e nanziarie ma anche culturali e scienti che –
assumono ogni giorno di più , come modelli da vivere, da elaborare, da proporre, da impor-
re, i processi della globalizzazione. Così le differenze nel nostro pianeta, ancora profonde e
laceranti, assumono andamenti diversi dal passato, soprattutto non sopportano più opposi-
zioni binarie che dividono, in modo stabile e netto, le culture dominanti da quelle subalter-
ne, i #centri” del potere colonizzatore dalle #periferie” dei colonizzati. Assistiamo oggi nella
società, ed in particolare nelle aree metropolitane, ad una strati cazione identitaria che
neanche in piccola parte può essere ricondotta al modello lineare della tradizionale dialettica
tra identità ed alterità: in questo modello, attivo in tutte le scienze sociali, si ipotizzava l!esi-
stenza di de nizioni, localizzazioni, caratteri distinti, speci cità e peculiarità. Oggi, invece, i
con ni, tutti i con ni, sembrano spostarsi continuamente senza alcuna linearità: i processi
della globalizzazione a livello economico sembrano tendere verso la loro eliminazione ma
poi essi vengono riproposti per fermare i ussi migratori, per quali carli e regolarli; a volte
poi divengono barriere per frenare connessioni eversive o rivoluzionarie o malavitose. Le
innovazioni tecnologiche accomunano nella produzione e nella fruizione interi continenti
ma al loro interno, all!interno delle loro stesse città, si riaprono, fra i diversi gruppi, lacera-
zioni dolorose e vistose distinzioni. Ogni diversità culturale da secoli ha conosciuto/subito il
contatto con altri stili di vita, con altri modelli, in parte li ha assimilati, in parte li ha respin-
ti. Ma oggi la stessa opposizione che le #alterità” manifestano nei confronti dell!Occidente
appare attraversata da una forte volontà mimetica e che fa loro desiderare – almeno in parte

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–anche beni, tecnologie, valori e stili estetici dell!odiato Occidente ( Girard ,1999, 2002).
Non solo le élites, non solo i beni di consumo e i divertimenti sono globalizzati ma è globa-
lizzata anche la passività politica, anche la sotto-istruzione, lo sono anche le bidonvilles di
tutto il mondo. E gli spazi appaiono inde niti e molteplici, i tempi dei #radicamenti” irrego-
lari e uttuanti, i comportamenti più svariati si alternano e si mescolano. La dinamica inter-
culturale della contemporaneità con la sua complessità ri uta ogni sempli cazione riduzio-
nistica. Come scrive Appadurai "appena le forze innovative provenienti da diverse metropo-
li sono portate all'interno di nuove società, esse tendono, in un modo o nell'altro, a subire un
processo di indigenizzazione: questo è vero della musica come degli stili abitativi, dei pro-
cedimenti scienti ci come del terrorismo, degli spettacoli come delle norme costituzionali.
In poche parole le singole culture possono riprodursi o ricostruire la loro speci cità sottopo-
nendo le forme culturali transnazionali ad un processo di indigenizzazione" (Appadurai.
2001, p.19). In termini antropologici, applicando cioè questo schema di riferimento alle no-
stre ricerche che muovono sempre da contesti circoscritti e speci ci per poi accedere a più
ampie generalizzazioni, il concetto di deterritorializzazione mostra una sua intima e profon-
da dinamicità. Nella contemporaneità i processi e i prodotti culturali si svincolano dalla loro
aderenza ad un determinato spazio, perdono le connotazioni territoriali, divengono mobili, a
volte volatili, per iscriversi sempre e comunque in un particolare luogo. E appare suggestivo
il suggerimento di Jonathan Inda e Renato Rosaldo di dividere in due il termine de/territo-
rializzazione per indicare che dal punto di vista antropologico lo sforzo è quello di dimostra-
re che la deterritorializzazione contiene sempre una riterritorializzazione: #questo signi ca,
essi scrivono, che per noi la radice della parola limita l!azione del pre sso, così che mentre
il #de” strappa la cultura dal luogo, la #territorializzazione” è presente in un modo o nell!al-
tro per riportarcela. Così nessun processo di deterritorializzazione ha luogo senza una qual-
che forma di riterritorializzazione” (Inda, Rosaldo, 2002. p. 12). Le città sperimentano i
processi di globalizzazione nelle loro articolazioni istituzionali, nei loro ritmi di vita, nelle
relazioni che favoriscono tra i diversi gruppi - sociali, generazionali, etnici, sessuali – che le
abitano. Sarebbe tuttavia sbagliato ritenere che la localizzazione appartenga tutta e solo alla
campagna: la pluralità culturale delle città consiste anche nella costante presenza di locali-
smi e nella continua elaborazione urbana del rapporto tra locale e globale. E!"infatti il tessu-
to urbano che fornisce sfondo, scenario e materiali alla celebrazione di rituali e festività
proprie di un gruppo che vuole affermare non solo la sua memoria e la sua diversità ma an-
che il suo inserimento e il suo status nel nuovo contesto in cui si trova a vivere. E i mezzi di
comunicazione di massa, impadronendosi dell!evento, congiungono la sua presenza non tan-
to e non solo al luogo originario ma piuttosto immettono i nuovi eventi e i loro protagonisti
nella rete che congiunge le molte città in cui risiedono i gruppi emigrati dalle stesse patrie.
Alimenti, musiche, indumenti, produzioni artistiche ed artigianali possono nascere come
rimpianto, come rivendicazione di una orgogliosa separatezza identitaria: tuttavia i contatti
frammentari, le connessioni inaspettate che li invadono nel uire della vita urbana, li tra-
sformano, cancellano rapidamente i caratteri localistici, li rendono tutti – complice un mer-
cato sempre più vorace – oggetti di processi globali (Callari Galli, 2000). Usando altre paro-
le, forse è necessario non vivere in termini oppositivi globale e locale ma immaginare un
incessante processo di deterritorializzazione che investe tanto il processo di globalizzazione
quanto le forme che assume il localismo (Cavarero, 2001); l!invito è a non usare più concetti
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quali etnicità e identità per riaffermare i vecchi miti della premodernità, e a considerarli, in-
vece, come processi dinamici che si costruiscono attraverso le pratiche dei contatti culturali.
In queste condizioni completamente nuove, la cultura, sia quella legata al mondo delle arti
sia quella diffusa dai mezzi di comunicazione di massa, ha cambiato tempi e luoghi della
sua produzione: se ancora essa si connette a quanto nel passato questo o quel luogo ha ela-
borato, ha diffuso, ha imposto – dagli stili di vita ai valori, dalle arti al consumo e allo
scambio di merci, dalle costellazioni di fede e di pratiche rituali alle organizzazioni sociali e
politiche – nuovi #luoghi”, transnazionali e deterritorializzati quali genere, classe, etnicità, si
af ancano, si sovrappongono, con iggono per fornire all!umanità intera quei ltri attraverso
i quali le dimensioni culturali, intese quali sistemi di signi cati socialmente organizzati ed
espressi in forme de nite, sono accettate e condivise divenendo parte della percezione del
proprio gruppo e delle alterità che continuano a sussistere e a prodursi. I con ni della colo-
nizzazione continuano ad essere territoriali ed economici ma essi vengono mescolati, sov-
vertiti, resi dinamici dalla produzione di un immaginario non solo letterario – come nel caso
dell!orientalismo esotico evidenziato dagli studi di Edward Said – ma dipendente da forme
di comunicazione sempre più mobili. Ed ecco la #wired identity” vissuta nel traf co trans-
nazionale di narrazioni e di immagini ( Erny, 1996, 2001), ecco una nuova mappa del potere
mondiale costruita lungo le linee delle telecomunicazioni (Morley, Robins, 1995), ecco l!in-
dividuo postmoderno che vive nell!era della tecnomitica (Wark, 1994), ricevendo informa-
zioni, mutevoli e mobili, che cadono dal cielo, integrandole nelle interpretazioni locali e
aspettandosi che gli orientamenti cambino da luogo a luogo, di giorno in giorno. Davanti a
questo ribollire di cambiamenti che investono molte delle certezze elaborate nei secoli pre-
cedenti dalle scienze sociali occidentali, l!antropologia è costretta a mettere in discussione
insieme ai suoi orizzonti concettuali e alle sue pratiche metodologiche i suoi stessi ni, forse
le sue stesse basi epistemologiche. E lo sforzo più interessante mi sembra essere il ri uto
tanto delle ansie universaliste, proprie degli esploratori delle leggi universali dell!evoluzione
della cultura, quanto il relativismo dei cercatori di usi e costumi particolari, spesso esotici e
stravaganti, stimolatori di curiosità, sempre postulati come autosuf cienti e chiusi in sé stes-
si. A questa revisione, a queste ride nizione di teorie e metodi, l!antropologia è chiamata,
come ho cercato sinora di indicare, dalle nuove situazioni createsi nella economia mondiale,
dalle profonde mutazioni che hanno scosso il sistema delle comunicazioni fra i gruppi che
abitano i continenti del nostro pianeta, dai nuovi rapporti che nelle ultime decadi del XX se-
colo regolano i poteri fra comunità, stati nazionali e organismi sovranazionali. Il quadro tut-
tavia non sarebbe completo se non aggiungessi a queste altre considerazioni più legate alla
storia degli studi e che hanno a che fare proprio con la diffusione e l!uso del concetto di cul-
tura in settori disciplinari af ni all!antropologia o più o meno collegati ai suoi interessi.
Come esempli cazione mi limiterò qui ad accennare alle reazioni che alcuni settori dell!an-
tropologia statunitense hanno sviluppato, stimolati dalla s da rappresentata dai #Cultural
Studies” con la loro diffusione e con la loro prepotente invasione di campi propri della spe-
culazione antropologica. George Marcus in un brillante saggio (2001) individua una marcata
af nità tra l!orientamento politico presente nei #Cultural Studies” come si andavano svilup-
pando, a partire dagli anni !60, in Gran Bretagna e la dimensione, apertamente critica ma
implicitamente anche politica, propria di molta produzione dell!antropologia statunitense di
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quegli stessi anni. Questa, tuttavia, si è distinta dall!antropologia britannica soprattutto per
aver spostato il fuoco delle sue analisi critiche dalla politica coloniale del passato alla politi-
ca estera che stavano svolgendo gli Stati Uniti, per aver introdotto nelle sue elaborazioni
teoriche un modello di cultura attento alla produzione di differenze e per aver individuato
nella vita urbana delle grandi metropoli le sue nuove unità di analisi . Riferendomi ad una
iniziativa sviluppata negli ultimi decenni del XX secolo e nota con l!etichetta di #Public Cul-
ture”, cercherò di dimostrare, sia pure per accenni, le continue sovrapposizioni che esistono
oggi tra gli interessi dell!antropologia culturale e quelli degli studi culturali e le dif coltà
che si incontrano se si vogliono individuare attributi della disciplina stabili, speci ci, esclu-
sivi ed autosuf cienti.

L!antologia #Scrivere le culture” di James Clifford e George Marcus apparsa a metà degli
anni Ottanta, riportò, nell!ambito degli studi antropologici, un grande successo. Esso fu do-
vuto ad una fortunata ed esemplare collaborazione tra critica letteraria (rappresentata in lar-
ga misura da studiosi di letteratura comparata) e antropologia culturale che trasformò un li-
bro di critica del metodo antropologico in un esempio delle possibilità trasformative che la
retorica è in grado di esercitare in tutte le scienze sociali. Per rispondere alla sua critica acu-
ta e penetrante nei confronti della metodologia antropologica, Arjun Appadurai e Carol
Beckenridge attuarono una serie di iniziative: una #newsletter, un forum internazionale, due
collane editoriali, una connessione con il #Center for Transcultural Studies” di Chicago per
organizzare incontri e seminari internazionali che misero in contatto studiosi statunitensi e
studiosi provenienti da altri continenti europei: soprattutto cinesi, indiani, russi. Lo studio
della cultura fu proiettato su nuovi orizzonti, aperti dai processi di globalizzazione, svilup-
pando una pesante critica alle modalità che l!antropologia, nelle sue linee dominanti, aveva
adottato per studiare, in un passato anche recente, le realtà culturali non occidentali. #Public
Culture”, con le sue ri essioni e con le sue pubblicazioni, ha fornito importanti stimoli per
spingere gli antropologi ad elaborare nuove strategie per adattare uno studio, sinora profon-
damente radicato nelle speci cità delle singole aree geogra che, ai processi della contempo-
raneità, caratterizzati dalla transculturalità e da una produzione incessante di immaginari
culturali ad un tempo situati e mobili. #Public Culture”, con le sue importanti iniziative, ha
avuto il merito di aver introdotto in antropologia i dibattiti sulle diaspore, sugli esili e sui
movimenti migratori, individuando i caratteri e gli ambiti dei nuovi nomadismi.; di aver po-
sto al centro degli studi antropologici nuovi temi quali la relazione dei processi identitari
con le comunità “immaginate”; di aver sollecitato la riformulazione di temi tradizionali ne-
gli studi antropologici, quali il ruolo della memoria nella formazione dei nazionalismi, le
articolazioni tra #centri” e #periferie”, le dif coltà di applicare i diritti umani davanti alla re-
latività delle culture. Ed inoltre, come scrive George Marcus, #Public Culture” non stimola
l!antropologia solo ad essere eclettica nella scelta degli argomenti, dei luoghi e dei problemi
contemporanei da esaminare ma la spinge ad essere altrettanto eclettica nei metodi: a guar-
dare agli studi dei media, alla critica lmica, allo studio della cultura popolare. Pur rima-
nendo particolarmente incline ad usare il metodo etnogra co, deve evitare di rivolgersi
esclusivamente ad uno speci co apparato di tecniche e di strategie ma deve cercare di com-
binare insieme l!intero ambito metodologico proprio dell!analisi culturale. (G. Marcus, 2001,

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pp. 176 e sgg.). Il progetto così delineato e sviluppato ulteriormente anche al di fuori dell!i-
niziativa di #Public Culture” e al di fuori degli Stati Uniti, non ha un piano prestabilito da
offrire, non intende proporsi come un paradigma concluso né come uno schema di riferi-
mento teorico completo ed esaustivo. Piuttosto vuol essere un!agenda per costruire sequenze
di ricerche, su cui annotare nuove prospettive, nuovi luoghi e nuovi ambiti, senza rinunciare
agli strumenti propri del passato della disciplina ma ponendone in primo piano alcuni, svi-
luppandoli maggiormente in confronto ad altri e al tempo stesso provando nuove strategie,
applicando nuove tecniche, proponendo nuovi orientamenti e nuove prospettive. Del resto
mi sembra che in questa linea George Marcus si ponesse già anni fa, quando proponeva
un$"!etnogra a multisituata nel sistema Mondo”, in cui la parola d!ordine per il ricercatore
non era più stare, radicarsi, risiedere, ma #seguire”: seguire i migranti, seguire le produzioni
dei prodotti, seguire le metafore, le narrazioni, seguire la vita, le biogra e, seguire i con itti
(Marcus, 1995, p. 98-105).

Così voler studiare le nuove relazioni tra cultura e territorio implica porre l!accento sui pro-
cessi del nomadismo contemporaneo nei suoi effetti a livello globale, a livello locale, a li-
vello virtuale e a livello di esperienza quotidiana: come sogno e come vissuto; implica stu-
diare problemi che appaiono nella loro complessità solo se ci proponiamo di analizzare in-
sieme livelli troppo spesso considerati separati nel dare il predominio all!uno o all!altro: i
processi globali che investono regioni ampie come più continenti e gli aspetti locali, micro-
regionali e nazionali. Se diamo valore solo al primo livello – quello globalizzante – la di-
mensione spaziale sembra perdere la sua pregnanza a causa di appariscenti quanto super -
ciali ed ef meri processi di omogeneizzazione. Se invece consideriamo la cultura della con-
temporaneità come un!articolazione processuale e dinamica tra globalizzazione e localismi,
se seguendo Appadurai consideriamo la linfa vitale che la globalizzazione riceve dai proces-
si di indigenizzazione dei suoi messaggi, allora l!attenzione al territorio, allo stato nazionale,
alla comunità divengono ancora e sempre rilevanti. Le unità d!analisi non sono #delimitate”
e identi cate automaticamente nei gruppi locali o negli stati nazionali del passato, ma di-
vengono con gurazioni emergenti di pratiche sociali, di simboli, di stili di vita stabili nel
tempo se non nello spazio: e allora dobbiamo, prima di cercare di comprenderle e di spie-
garle, identi carle e descriverle. Per non cadere nella trappola metodologica di postulare la
possibilità di ricostruire la realtà basandoci su opposizioni binarie, costretti a scegliere tra
l!esame delle informazioni non materiali e le chances di vita, tra la deterritorializzazione
della cultura e i localismi più radicati ed esasperati, abbiamo bisogno di recuperare nello
sguardo antropologico quello #strabismo”, da tempo invocato nella disciplina, che invitava i
suoi cultori ad essere insieme gli astronomi di un tempo con i loro lunghi cannocchiali pun-
tati sull!universo e gli orologiai dei secoli scorsi con le loro piccole lenti ssate su meccani-
smi minuti e circoscritti: e forse dobbiamo tentare di trasportare sul piano metodologico un
invito che quando fu formulato era soprattutto geogra co, #di guardare lontano per studiare
l!uomo”. I processi di trasmissione culturale costituiscono la caratteristica che distingue la
specie umana dalle altre specie animali: mentre la possibilità di sopravvivenza di queste ul-
time dipende in massima parte da #programmi” geneticamente determinati, quella dell!homo
sapiens è legata soprattutto alla capacità di memorizzare, simbolizzare e trasmettere attra-

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verso le generazioni una determinata gamma di saperi e comportamenti. In ogni società
umana, nessuna esclusa, vi è dunque trasmissione culturale: ogni gruppo, in ogni epoca e in
ogni luogo, elabora modalità speci che attraverso le quali i materiali prodotti dall!interazio-
ne dinamica di insegnamento/apprendimento vengono veicolati, interpretati, modi cati nel
passaggio da una generazione all!altra. Ogni società, in altre parole, fornisce ai propri mem-
bri, ed in particolari a quelli più giovani, materiale culturale sul quale esercitare la fantasia,
imparare a conoscere la vita che li attende, capire quali potranno essere i vantaggi, i pericoli,
le trappole di determinate scelte. Abbiamo già visto, nella lezione precedente, che i mezzi di
comunicazione di cui una società dispone per trasmettere i propri saperi, i propri valori, i
propri modelli giocano un ruolo importante nella strutturazione della sfera cognitiva e della
percezione della realtà degli individui che ne fanno parte; ed essi contribuiscono a determi-
nare alcuni aspetti del pensiero, quali le concezioni del tempo, dello spazio e del rapporto
tra individuo e collettività. Tenendoci a dovuta distanza da semplicistici e pericolosi deter-
minismi e ricordando con Lévi-Strauss che #tutti gli uomini hanno la testa ugualmente ben
fatta”, dobbiamo aver presente che molte ricerche hanno da tempo dimostrato che oralità,
scrittura e tecnologie elettroniche sono mezzi di espressione simbolica le cui speci cità in-
uiscono sui contenuti e sulle modalità di organizzazione del pensiero e dell!azione umana
nelle sue variegate espressioni del passato e in quelle del nostro presente. I processi che
hanno condotto l!umanità verso una sempre più spiccata #esteriorizzazione” delle proprie
capacità tecniche, mnemoniche e simboliche attraverso l!utensile e la macchina, l!oralità, la
scrittura e le nuove tecnologie comunicative, si incrociano oggi in un mondo nel quale un
numero sempre crescente di individui riceve e invia messaggi utilizzando quotidianamente
il linguaggio orale, quello scritto e quello iconico audiovisivo di televisioni e computer.
Questa varietà di codici conferisce a molti abitanti del pianeta la possibilità di vivere con-
temporaneamente nel #vicino” e nel #lontano” allargando considerabilmente lo spazio all!in-
terno del quale si producono i processi di trasmissione e di acquisizione della cultura. Se ac-
cettiamo di de nire la cultura come l!insieme di norme, valori, saperi, credenze, atteggia-
menti, comportamenti e tecniche che un individuo apprende a riprodurre e ad elaborare in
una data società, ancora una volta mi sembra necessario, per comprendere i meccanismi che
sorreggono la trasmissione culturale nell!epoca contemporanea, abbandonare il vecchio pa-
radigma della cultura intesa come totalità impermeabile; la cultura, insomma, non è un
#pacchetto” che si trasmette intatto da una generazione all!altra attraverso rapporti lineari e
vincolati ad una dimensione locale e territorializzata. Questo schema interpretativo del resto
si rivela di per sé fuorviante e scarsamente produttivo anche quando sia applicato a società
del passato: diviene poi improponibile qualora venga applicato alle società contemporanee
in cui mass media e nuove tecnologie comunicative esaltano il carattere complesso e tra-
sversale insito in ogni processo di creazione culturale e identitaria. E!"nella dinamica inces-
sante tra vicino e lontano, tra messaggi orali e scritti, tra rapporti diretti e virtuali, tra mate-
riale e non-materiale che buona parte dell!umanità produce, interpreta e trasmette alle gio-
vani generazioni visioni del mondo, modelli di comportamento, rappresentazioni del sé e
dell!altro individuali e collettive. Al potere già di per sé complesso dei mondi contemporanei
e delle loro culture, si aggiunge la polifonia e la multiforme strati cazione degli elementi
insiti in ogni segmento di trasmissione culturale: a prescindere infatti dal mezzo di comuni-

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cazione utilizzato, nel corso di ogni processo di trasmissione – di tecniche, di conoscenze, di
comportamenti, di credenze e di qualunque altro elemento culturale – vengono anche veico-
late, in maniera il più delle volte inconsapevole, le modalità di interpretarli. E!"come se ogni
messaggio esplicito fosse circondato e collegato agli altri da una sorte di rete invisibile, non
immediatamente percettibile, ma che ha il potere di strutturare una certa visione del mondo
no a farla coincidere con il mondo stesso, affermando silenziosamente ma in maniera tota-
lizzante, la propria verità e #naturalità”. Attraverso la trasmissione sotterranea ma pregnante
di materiali culturali che trascendono quelli intenzionalmente veicolati, si emettono e si ri-
cevono messaggi impliciti che riguardano il #medesimo” e l’”altro”, il #noi” contrapposto al
#loro”; messaggi su cosa signi chi e comporti l!appartenere al genere femminile o a quello
maschile, ad un gruppo generazionale, ad una suddivisione sociale, ad una razza, ad una na-
zione. Questi messaggi #nascosti” che spesso ricalcano stereotipi e pregiudizi e facilmente si
traducono in lapidarie certezze o in paure fobiche, proprio in virtù della loro azione stri-
sciante si sedimentano lungo i percorsi di formazione individuale e collettiva, si cristallizza-
no in visioni positive del proprio gruppo e negative del gruppo #altro”, in rigide rappresen-
tazioni delle identità di genere, in acquiescenti accettazioni dei rapporti di potere e di preva-
ricazione esistenti. I codici espressivi che pre gurano l!utilizzazione dell!immagine rappre-
sentano una sorta di apoteosi dell!accavallarsi di messaggi impliciti ed espliciti. Ogni imma-
gine gurativa contiene infatti una miriade di elementi e di rimandi culturali che si ssano
in modo più o meno consapevole nella memoria dello spettatore. Occorre aggiungere inoltre
che quest!ultimo assimila i materiali iconici che gli vengono sottoposti interpretandoli sulla
base del proprio stile cognitivo e del proprio vissuto creando a sua volta nuovi signi cati
che confermano o progressivamente sovvertono saperi e credenze: ogni immagine, poten-
zialmente, scatena effetti la cui intenzione e il cui controllo sfuggono a chi l!ha inizialmente
concepita. La forza inculturativa dell!immagine, scientemente ed ampiamente utilizzata per
colonizzare l!immaginario dei popoli conquistati dall!Occidente, si manifesta oggi in tutta la
sua pregnanza attraverso i mezzi audiovisivi: Come scrive Gruzinski, #l!immagine contem-
poranea si instaura come presenza che satura il quotidiano imponendosi come unica e osses-
sionante realtà. Al pari dell!immagine barocca (...), essa trasmette un ordine visuale e socia-
le, diffonde modelli di comportamento e di credenza, anticipa nel campo visuale evoluzioni
che ancora non hanno dato luogo ad elaborazioni concettuali o discorsive” (Gruzinski,1990,
p. 334). Anche se nelle società contemporanee convivono mezzi di comunicazione differen-
ziati, non possiamo non riconoscere che quelli audiovisivi, e la televisione in particolare,
giocano un ruolo che in molte esistenze rischia di divenire preponderante rispetto a quello
degli altri veicoli di comunicazione e trasmissione culturale. Se nel passato, ad esempio, un
bambino sviluppava capacità cognitive, sensi ed emozioni nel contatto sico con la natura,
gli oggetti, gli altri individui ed i libri scritti ed illustrati, un bambino che viva oggi nella no-
stra società probabilmente sviluppa le proprie capacità soprattutto a contatto con i nuovi
mezzi elettronici e con i loro linguaggi. Il mondo che l!accoglie è un mondo #segnato” e in
parte organizzato dalla presenza dei mezzi audiovisivi: le numerose implicazioni della frui-
zione televisiva cominciano infatti assai presto ad esercitare la loro in uenza sul piano del
vissuto quotidiano, delle abitudini di vita, della suddivisione dei tempi e degli spazi familia-
ri. Il cambiamento introdotto dall!ingresso della televisione nelle nostre abitazioni investe la
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relazione tra i membri del nucleo di convivenza, le relazioni amicali e sociali, il rapporto
con la lettura, con la fruizione di altre fonti di informazione e persino il #colloquio” che l!in-
dividuo è in grado di intrattenere con sé stesso. La #sovra-esposizione”, sin dalla prima in-
fanzia, all!azione pervasiva, capillare e #sotterranea” dei mezzi di trasmissione culturale au-
diovisivi, anche in virtù delle modalità apparentemente facili della loro ricezione, può con-
tribuire ad un irrigidimento dei modelli culturali che costituiscono la trama su cui si intesso-
no apprendimenti, atteggiamenti e scelte future. La lunga esposizione quotidiana dei bam-
bini del nostro paese all!informazione televisiva risulta da molte ricerche ed è ormai nota a
tutti. Sappiamo che la media di fruizione televisiva infantile si attesta su numerose ore gior-
naliere e che bambini di poco più di un anno sono in grado di riconoscere le musiche e gli
slogan dei messaggi pubblicitari più popolari. Le indagini svolte denunciano un precoce di-
spotismo infantile nella scelta dei programmi ed una notevole ambivalenza nell!atteggia-
mento di molti genitopri circa l!onnipresenza del mezzo televisivo nella vita familiare: si
vorrebbe intervenire per limitarne l!invadenza, si tema che molti dei messaggi da esso veico-
lati non siano in linea con il clima educativo instaurato ma si ricorre alla televisione per oc-
cupare il proprio tempo e quello dei propri gli. Il miscuglio televisivo combina la spinta
all!affermazione individuale e la riproposizione di modelli rigidi ed obsoleti, eventi, senti-
menti di segno opposto e facilità di linguaggi, intenti moralizzatori e monetizzazione delle
azioni: esso tende a ridurre l’”altro”, ma in fondo anche lo stesso spettatore, a pura apparen-
za e rende l!incontro, ogni incontro, evento momentaneo o paradossalmente, consuetudine
codi cata una volta per tutte. La trasmissione di modelli di identità e di relazione interper-
sonale operata dalla televisione appare, anche in questo senso, ambigua e antinomica: da un
lato i materiali culturali veicolati pre gurano la formazione di una #grande famiglia”, di una
sorta di unità culturale e sociale allargata no a comprendere milioni di individui accomuna-
ti dalle stesse immagini, dalle stesse notizie, dallo stesso linguaggio e dalle stesse sollecita-
zioni culturali; d!altro canto, tuttavia, le immagini e le rappresentazioni televisive sono per-
cepite, interpretate e rielaborate in modo assai difforme a seconda delle differenti realtà lo-
cali e individuali su cui si innestano. A causa della standardizzazione di programmi ideati in
#centri” appartenenti alle nazioni che dominano la scena mondiale e venduti e comprati sul
mercato internazionale, gli adulti e soprattutto i bambini di tutto il mondo tendono ad orga-
nizzare i loro desideri, a formulare i loro giudizi, ad organizzare le loro pratiche e le loro
aspirazioni sulla base omologa e in fondo elementare della #grande famiglia” televisiva. E
questa solo apparentemente cancella le differenze che invece vengono continuamente riba-
dite, indurite, prodotte e riprodotte in tutti i messaggi; in particolare dal livello implicito che
essi veicolano. Ognuno di noi può essere ammesso alla #grande famiglia” comprando nuove
merci e con esse nuove identità solo apparentemente singolari ed uniche; così insieme a mi-
gliaia di altri spettatori partecipa alla arti ciosa felicità degli spettacoli del sabato sera o
piange davanti ai funerali di un divo o di una principessa famosa trasmessi in mondovisio-
ne; tuttavia dalle stesse trasmissioni ognuno di noi è anche implicitamente chiamato a rico-
noscersi e a riconoscere l’”altro” in base a ruoli di genere rigidamente descritti, secondo ste-
reotipi etnici a tutt!oggi disinvoltamente veicolati, in base a posizioni gerarchiche legate al
possesso dei beni. Se l!Europa #bianca” ha tremato davanti all!attacco alle #Due Torri” i gio-
vani immigrati che vivono nelle periferie delle città occidentali hanno applaudito davanti
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allo stesso spettacolo; se i lustrini , le fanciulle in ore e gli arredi sfarzosi degli spettacoli di
intrattenimento delle reti televisive italiane servono a far dimenticare la piattezza e talvolta
la miseria che caratterizzano la vita di molti nostri connazionali, essi denotano invece ric-
chezza reale e abbondanza di possibilità agli occhi di chi, al di là del Mediterraneo, capta il
segnale delle televisioni italiane e vede l!Italia come terra d!emigrazione. Nelle analisi dei
processi inculturativi multivocali e complessi che caratterizzano la nostra epoca e che con-
tribuiscono in misura notevole alla costruzione di immaginari collettivi sempre più planeta-
rizzati, in uenzando la formazione del senso di appartenenza o di spaesamento rispetto a
questo o a quel gruppo, dobbiamo dunque tener conto dell!ulteriore elemento di complessità,
insito nella televisione come fattore omologante da un lato e come meccanismo generatore
di disuguaglianze dall!altro. Per meglio comprendere i meccanismi che sottostanno ai pro-
cessi di trasmissione culturale propri della nostra epoca, è necessario analizzare le caratteri-
stiche del linguaggio utilizzato dal mezzo televisivo. In molti anni di ri essione, di studi e di
ricerche mi sono convinta della produttività dell!ipotesi in base alla quale la velocità, il rit-
mo incalzante e la frammentazione che strutturano e accompagnano i messaggi televisivi
modi cano la percezione del tempo e dello spazio. Lo stesso senso di realtà a cui erano abi-
tuate le precedenti generazioni e su cui continuano ad essere organizzate istituzioni ed atti-
vità si perde nella fascinazione di una nzione totalizzante, nella ripetizione, nel marasma di
un!informazione ipertro ca che elimina ogni gerarchia tra gli eventi, tende ad appiattire le
reazioni e toglie spessore e vigore alle emozioni. Nel corso degli ultimi due decenni, i pro-
cessi produttivi hanno assunto forme per le quali il possesso di conoscenze - e quindi la ca-
pacità di elaborare informazioni e di trasformarle in comunicazione – contende, come mai è
accaduto prima d!ora, il primato al possesso dei beni. La televisione, oggetto/simbolo di
questa trasformazione epocale, costituisce un mezzo di intrattenimento, di trasmissione cul-
turale, di informazione capillare, alla portata di tutti. Essa fa pervenire nelle nostre abitazio-
ni notizie che riguardano città e continenti lontani, ci rende familiari i volti dei protagonisti
della vita politica nazionale e internazionale, ci aggiorna su eventi che hanno luogo nella
nostra città o che coinvolgono popoli sconosciuti. Il mondo #iper-informato” ed #iper-comu-
nicante” nel quale viviamo contiene, tuttavia, numerosi paradossi, tra cui forse il più imme-
diato e completo nella sua concisione ed immediatezza riguarda il fatto che all!accumulo
sempre crescente di informazioni corrisponde una sorte di eclisse del senso. La quantità
esorbitante dei messaggi che riceviamo sembra costituire un ostacolo, più che un aiuto alla
comprensione di quanto avviene intorno a noi; la comunicazione, sempre più diffusa e per-
vasiva, sembra inibire la nostra capacità di elaborazione delle informazioni e bloccare la vo-
lontà e le competenze stesse legate all!atto di comunicare. La televisione è una fonte calei-
doscopica di immaginari e probabilmente è matrice di stili cognitivi; essa si offre ai bambini
come nestra su un mondo che mai, prima d!ora, si era presentato agli sguardi infantili come
tanto vario e tanto vasto. Il mondo televisivo spazia dai dinosauri ai cyborg, è popolato, in
modo casuale e caotico, tanto da individui e fatti reali quanto da personaggi fantastici, posti
tutti sullo stesso piano: leader politici, presentatori televisivi, protagonisti di lm e tele lm,
vittime di guerre civili, città devastate da terremoti o percorse da disordini, balene salvate
dall!inquinamento, popolazioni in fuga o che festeggiano vittorie e indipendenze, signore
della #porta accanto”, principi arditi che salvano bionde fanciulle, vampiri, coppie di coniugi
che litigano in diretta. Questo mondo colorato, tutto visivo e non vissuto, non letto, non di-
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scusso non scelto, appare e scompare dal salotto di casa a proprio piacimento, premendo un
bottone: con esso non si interagisce, lo si accetta o lo si respinge ma non si ha la possibilità
di adattarlo o di modi carlo. Davanti all!universo televisivo siamo inermi, quando ci abban-
doniamo alla suggestione delle immagini e al contempo siamo onnipotenti, quando, pre-
mendo i tasti del telecomando, cambiamo direzione al usso televisivo e così facendo alte-
riamo i signi cati delle immagini o, più drasticamente, le cancelliamo. Nel uire incessante
dei messaggi televisivi, il tempo e lo spazio – categorie-chiave attraverso le quali individui e
società organizzano e ordinano le loro rappresentazioni del mondo – esplodono sotto i colpi
della frammentazione estetica in momenti e luoghi privi di continuità. Le condivise coordi-
nate spazio-temporali e le loro differenze si annullano e si confondono in narrazioni estem-
poranee prodotte non solo da questo o quell!autore ma anche dal usso televisivo che dal
punto di vista dello spettatore pone uno accanto all!altro i messaggi e le immagini più etero-
genee come se fossero equivalenti e/o contemporanei: l!impero romano e la seconda guerra
mondiale, New York, le foreste del Borneo e il pianeta Marte, la piazza del paese in cui vi-
viamo e l!Antartico. I frammenti di mondo e di umanità più disparati si condensano in una
serie incalzante di schegge colorate e sonore che, ricomponendosi in modo spesso inaspetta-
to, niscono per costituire nuovi racconti. Schegge, frammenti, sequenze visive e discorsive
della cui creazione ed assemblaggio nessuna redazione televisiva è veramente responsabile,
inseguono senza tregua i giovanissimi telespettatori, raggiungendoli no nell!intimità esclu-
siva dei sogni e fornendo loro innumerevoli stimoli. Tuttavia, la quantità e la velocità delle
informazioni e delle sollecitazioni sono tali da non permettere ai bambini di elaborarle e tra-
sformarle attraverso il ltro della ri essione e dell!esperienza. Il proliferare delle informa-
zioni, il loro incessante susseguirsi, scomporsi e ricomporsi nel usso televisivo tendono,
così, a divorare il tempo e lo spazio, la comunicazione ed il senso. L!eccesso quotidiano di
messaggi rischia inoltre di produrre ulteriore disorientamento in ragione del fatto che i ma-
teriali culturali che pervengono allo spettatore risultano spesso in contraddizione tra di loro
e la qualità della fruizione riduce di molto le possibilità di stabilire fra essi raccordi, scelte,
mediazioni. L!accumulo di informazioni, l’”effetto usso”, le tendenze estetizzanti proprie
dell!universo televisivo producono materiali culturali aleatori, multiformi e volatili: le in-
formazioni veicolate dal mezzo televisivo ci colpiscono come in uenze transitorie, fram-
menti di conoscenza, schegge di idee che ci impressionano con un andamento casuale. Gli
incalzanti tempi televisivi costringono lo spettatore a restare alla super cie dei fenomeni:
come ho detto, ri essione ed elaborazione sono bandite dalla velocità ma anche dall!acces-
sibilità disarmante ed insidiosa dei contenuti e dei linguaggi di molti programmi, compresi
quelli direttamente dedicate all!infanzia. Come educatori, genitori, studiosi di scienze uma-
ne, come abitanti di un mondo nel quale i processi di trasmissione culturale avvengono
sempre più attraverso mezzi di comunicazione aventi le caratteristiche che sto cercando di
descrivere, siamo chiamati a cercare di comprendere il tipo di impatto cognitivo, relazionale
ed affettivo che un medium come la televisione può avere sugli spettatori più giovani. E
dobbiamo ricordare che questi spettatori in molti casi dedicano più tempo al piccolo scher-
mo che non al gioco con i coetanei, sono bambini che conoscono i personaggi delle teleno-
velas più di quanto non conoscano i loro vicini di casa, saranno uomini e donne esposti sin
dalla prima infanzia ad un #mondo parallelo” di immagini, suoni, linguaggi, narrazioni

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#semplici” e accattivanti, patinate e cruente, di facile accesso, che quasi pensano ed imma-
ginano al loro posto. Quale immaginario si forma tra le quasi in nite sollecitazioni televisi-
ve che mescolano realtà e nzione, banalità ed eccezionalità, mondi #in rosa” e violenze ef-
ferate? In quali modi i giovanissimi telespettatori organizzano nella loro mente miriadi di
frammenti televisivi, apparentemente semplici ma profondamente ambigui, omologanti ma
inneggianti ad un #io” competitivo ed egoista? Ed ancora: come si collegano i disparati ma-
teriali culturali veicolati dalla televisione alle esperienze, ai vissuti, alle storie individuali e
collettive di ogni bambino? Quali sono le possibilità delle quali noi adulti disponiamo per
interagire con l!incessante e frenetico usso televisivo e per comprendere il modo in cui le
sue schegge si integrano nella rete delle conoscenze dei bambini? Questi interrogativi ri-
chiamano alla mia memoria due testimonianze di due allievi delle scuole elementari: il pri-
mo, originario del Maghreb, al suo arrivo in Italia, trascorre ore ed ore davanti alla televi-
sione per imparare la lingua e per #ambientarsi”, come lui stesso afferma: #...ormai conosco
tutti i personaggi più famosi d!Italia: Toto Cutugno, Gigi Sabani, Rambo, Totò e naturalmen-
te Roberto Baggio e gli altri giocatori di calcio...” (Caliceti, 1995). Il secondo bambino in
una prova scritta di storia, alla domanda #chi ha scoperto l!America?”, risponde in bella e
sofferta gra a: #l!America fu scoperta dal Tenente Kojak” (Mezzini, Rossi, 1997).
Mentre nelle parole del primo allievo intravediamo un mondo all!insegna dell’”indistinto”
televisivo descritto da Jean Baudrillard e che ho cercato di evocare pochi minuti fa, la stesu-
ra del compito di storia ci aiuta ad immaginare le possibili dif coltà di organizzazione e di
catalogazione delle informazioni nel magazzino della memoria di un bambino di dieci anni.
Collegare personaggi e messaggi in modo improprio, non cogliere la natura di ction, non
distinguere realtà e narrazioni fantastiche, confondere nomi di attori, di protagonisti di serial
e di esploratori: questi i rischi di lunghi pomeriggi unicamente visivi, spesso solitari, tra-
scorsi immergendosi per ore nel usso televisivo, senza pause di ri essione, di rielaborazio-
ne consapevole, delle immagini e delle fantasie scatenate dai suoni e dalle storie narrate. Il
#villaggio globale” che abitiamo è un luogo vasto e complesso che per essere compreso e
vissuto pienamente necessita sempre più di offerte educative molteplici e differenziate, di
spazi di comunicazione e di trasmissione culturale che contemplino la multivocalità delle
sue espressioni, la dinamicità delle scelte possibili, la complessità che dal #globale” si ri-
specchia nel #locale” e nel quotidiano, la coesistenza di modelli di vita diversi ma non per
questo necessariamente e irrimediabilmente opposti. Mi sembra ovvio che la televisione non
possa contenere in sé la problematicità che riteniamo essenziale af nché un percorso educa-
tivo risulti adatto alla nostra epoca. Imprigionata nella trappola economica della audience,
sottoposta a pressioni di carattere più politico che culturale, la televisione tende ad inviare
messaggi privi di problematicità, indirizzandosi ad uno spettatore sconosciuto e pertanto
immaginato come #medio”, ovvero animato da bisogni, aspirazioni, desideri e sentimenti
ipotizzati come comuni. Ed è proprio un senso comune, spesso ammantato di connotazioni
presentate come #nazionali” e/o #naturali”, quello che emerge in molte delle trasmissioni te-
levisive nelle quali sopravvivono comportamenti e rappresentazioni che appartengono più al
passato che non al presente; e molte di esse riconducono scelte ed atteggiamenti #moderni”
entro schemi tradizionali, non più condivisi con la stessa aderenza e fedeltà di un tempo ma
facenti comunque parte della memoria e del vissuto di molti telespettatori. Questo senso
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comune viene continuamente riproposto attraverso toni accattivanti ed ambientazioni presti-
giose, trasformandosi così in inviti identitari lusinghieri che ne rafforzano e ne alimentano la
pregnanza e la forza inculturativa. Attraverso messaggi di questo genere che fungono anche
da narrazione di un #noi” nazionale o etnico, stereotipi e pregiudizi, ormai da tempo smentiti
dalle conoscenze scienti che e dalle conquiste sociali, vengono diffusi a piene mani, presen-
tando secondo i vecchi schemi della superiorità/inferiorità le abilità e le caratteristiche di un
sesso, di un gruppo generazionale, di una regione, di una #etnia”. Chiudendosi nell!incanto
del piccolo schermo, nell!essenzialità stereotipata delle sue rappresentazioni, lo spettatore
può credere di vivere in un mondo privo di contraddizioni, a volte tenebroso e gon o di mi-
nacce, a volte brillante e felice ma sempre semplice da capire e da conoscere. E questa appa-
rente immediatezza, questa falsa semplicità aboliscono la complessità della realtà appiatten-
do il mondo sulla sua rappresentazione.
Se è doveroso chiedere ai produttori televisivi di migliorare la qualità dei loro programmi ed
in particolare di quelli dedicati all!infanzia, non possiamo tuttavia investire le emittenti tele-
visive di responsabilità che strutturalmente non possono e non devono assolvere da sole e in
modo totale. Come educatori dobbiamo impegnarci a non lasciare che il silenzio avvolga i
messaggi televisivi, dobbiamo trovare mezzi e modalità af nché essi non si depositino nel-
l!immaginario dei loro giovani fruitori in modo confuso, indistinto ma proprio per questo
rigido e dogmatico. Analizzando i segmenti del usso televisivo, scoprendone e decodi -
candone i linguaggi, possiamo rendere espliciti i messaggi; appoggiandoci sugli altri innu-
merevoli materiali che la nostra società è in grado di produrre possiamo contribuire ad indi-
viduare, proprio nel mezzo televisivo, uno dei possibili modi per organizzare desideri e so-
gni e per ampliare le proprie conoscenze. I mezzi di comunicazione di massa contengono
in nite potenzialità per svelare il mondo, trasmettere conoscenze, informare centinaia di mi-
lioni di individui: dibattiti, notiziari, documentari, spettacoli sempre più rimbalzeranno dallo
schermo televisivo a quello del computer unendo immagini e scrittura, cronaca e ri essione,
ascolto e parola. Al di là delle profezie entusiastiche o più spesso catastro ste, risulta dif ci-
le prevedere quali effetti avranno le nuove tecnologie sulla nostra specie in termini cogniti-
vi, creativi ed esistenziali, quali cambiamenti esse comporteranno rispetto agli stili di vita, ai
modelli che organizzano i tempi di lavoro, alle mode e ai divertimenti, alle stesse relazioni
amicali, sentimentali e familiari. Comunque l!errore più pericoloso che possiamo compiere
consiste nel ritenere che il mezzo televisivo sia in sé e di per sé in grado di costruire percorsi
educativi che aiutino gli individui nel processo di acquisizione della loro autonomia indivi-
duale e sociale. Nessun mezzo di comunicazione ha questa proprietà: il compito di questa
costruzione identitaria deve essere assolto dall!intera società che attraverso la sua progettua-
lità, le sue istituzioni e tutti i mezzi di comunicazione di cui dispone è chiamata ad offrire ai
suoi cittadini strumenti conoscitivi e pratici per vivere la loro esistenza sociale ed individua-
le in modo consapevole. E ritengo indispensabile rivendicare il primato di un!educazione e
di un!istruzione che abbiano propri scopi e proprie nalità ma che organizzino i loro inter-
venti tenendo conto delle fonti di informazione e dei modelli comportamentali che mag-
giormente riempiono il tempo dei nostri bambini e più attirano la loro attenzione. Il proble-
ma educativo che si pone con maggior vigore non consiste tanto nella necessità di #spiega-
re” i messaggi televisivi quanto nell!elaborare modalità che ci permettano di integrarli in un
più generale processo di apprendimento, di collegarli ad altre idee, ad altre informazioni e
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rappresentazioni che fanno parte del vissuto quotidiano e delle conoscenze che appartengo-
no al mondo della scuola. Da un punto di vista teorico va inoltre ricordato che i diversi co-
dici di espressione ed il moltiplicarsi delle informazioni contribuiscono a strutturare le carat-
teristiche dei processi conoscitivi e le modalità stesse della concettualizzazione. E questa
consapevolezza dovrebbe costituire la base su cui articolare in un modo nuovo i processi di
socializzazione e di inculturazione. Dobbiamo prendere atto che sin dai primi anni di vita i
bambini – soprattutto quelli della società occidentale - possiedono una vastissima gamma di
informazioni: il problema più urgente, per loro, non è dunque costituito dalla necessità di
aggiungerne altre ma di riuscire ad organizzare le molte in loro possesso in un quadro di ri-
ferimento coerente , fornendo raccordi e collegamenti tra le schegge di cultura mediatica, e
tra queste e l!esperienza quotidiana. E!" inoltre necessario completare e saldare l!apprendi-
mento tutto mentale ed essenzialmente visivo #vissuto” davanti al teleschermo con un!edu-
cazione all!esperienza, all!intervento attivo sull!ambiente, alla creazione personale di oggetti,
situazioni e relazioni. In tal senso assai importante è introdurre nei percorsi educativi prati-
che che recuperino la corporeità: ed esse sono tanto più necessarie quanto più vediamo av-
vicinarsi un futuro in cui, per parte dell!umanità, il rapporto conoscitivo si svolgerà indipen-
dentemente dalla presenza sica degli interlocutori, con i quali si colloquierà, forse esclusi-
vamente, attraverso lo schermo di un computer. Se le istituzioni scolastiche rinunceranno a
questi compiti, in particolare a conciliare descrizione e spiegazione, a mettere in rapporto
oggetti e conoscenza, a de nire i con ni tra le diverse realtà e le loro in nite, possibili rap-
presentazioni, le giovani generazioni rischieranno di credere che esista una sola realtà e la
troveranno nei media. Se i linguaggi dei mezzi di comunicazione diverranno invece argo-
mento di studio e di ri essione, potranno costituire un!occasione di arricchimento dei curri-
cula scolastici, trasformandosi in ulteriori modelli espressivi, patrimonio di ampi gruppi di
utenti. Moltiplicando e differenziando i materiali, i luoghi, le situazioni e gli incontri offerti
all!infanzia, presentando linguaggi, abitudini, comportamenti e generi espressivi diversi, le-
gando le conoscenze al passato e aprendole al tempo stesso ai molti nostri presenti, prepare-
remo le future generazioni ad appartenere a sé stesse, alla comunità locale, a quella mondia.
Più di mezzo secolo fa così scriveva Michel Leiris:
“ Più che un!arte di apprendere, l!arte del viaggio è, mi sembra, un!arte di dimenticare, di
dimenticare tutte le questioni di pelle, di odore, di gusto e tutti i pregiudizi (...). Più che di
accrescere le nostre conoscenze si tratta oggi di spogliarcene”. Sinora ho parlato dell!ansia
di andare, di essere scacciati, di essere in pericolo, di arrivare e ricordare, di dimenticare e
cambiare. Ho considerato luoghi e tempi, immaginari vasti quanto il mondo e accettazioni
della materialità dura e dolorosa del percorso, di nomadismi reali e di nomadismi virtuali
fatti nell!angolo di mondo che chiamo mio appartamento. Potrei presentare molti altri esem-
pi per rendere il quadro del nomadismo umano meno sommario e più complesso. Fra tutte le
possibilità scelgo, in questa nona lezione, di parlare di una forma di nomadismo che vorrei
de nire #liminale”, #di soglia”: e tratterò del turismo, vale a dire di quegli spostamenti nello
spazio che sono temporanei, a volte saltuari, a volte ciclici, legati, almeno apparentemente,
alla scelta, al desiderio e che sembrano poter essere, per la loro apparente futilità, anche di-
menticati. E che invece assumono – per il numero di persone che coinvolgono, per le con-
nessioni con settori assai rilevanti della società contemporanea - sempre maggior rilievo sia
dal punto di vista dell!analisi culturale che dal punto di vista dei cambiamenti che introdu-
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cono nel panorama mondiale. Tra l!altro questo mi servirà per indicare anche le direzioni di
un campo dell!antropologia culturale, recentemente sviluppatosi in modo istituzionale, l!an-
tropologia del turismo, appunto. Il turismo rappresenta – ad un livello pratico e teorico – il
convivere di molti aspetti contraddittori propri della nostra contemporaneità: è un!esperienza
ef mera ed aleatoria ma al tempo stesso ripetuta più e più volte nello spazio di un anno e di
una vita: così tanto occupa gli spazi e i tempi sia del mondo del benessere che del mondo
della privazione, così profondamente entra nelle abitudini diffuse tra centinaia di milioni di
individui da poter essere considerato un elemento permanente della società attuale nono-
stante che si svolga con ritmi sempre più brevi e temporanei; avvicina ma al tempo stesso
contrappone gruppi umani profondamente diversi; sottolinea la falsità della sua esperienza
ma al tempo stesso ricerca quasi nevroticamente autenticità e tenuità; per molti aspetti è
un!esperienza solitaria e individuale che al tempo stesso coinvolge negli stessi spazi e negli
stessi tempi moltitudini tra loro ignote. Da qualche decennio ormai le scienze umane hanno
rivolto la loro attenzione all!analisi del fenomeno turistico: divenuto una delle maggiori #in-
dustrie” del mondo ha rivelato le sue implicazioni molteplici e differenziate che sempre più
dimostrano legami profondi con gli apparati culturali del contatto fra gruppi diversi per sto-
ria, tradizioni, lingue, stili di vita e visioni del mondo. E sempre di più appare profonda la
relazione che lega le aspettative e le ripulse delle comunità coinvolte nel fenomeno turistico
– quella che accoglie e quella che visita - ai problemi centrali nella ri essione antropologica
contemporanea: innanzi tutto al concetto di cultura con i suoi corollari di eredità e di auten-
ticità culturale, profondamente mutato da una realtà in cui deterritorializzazione e localismo
si susseguono e si alternano senza posa, e poi ai processi identitari che perdono il loro carat-
tere unitario invasi da un susseguirsi costante di identi cazioni super ciali e labili; ed in ne
alla circolarità dei rapporti che legano #centro” e #periferie” in uno scambio di elementi cul-
turali globale ma allo stesso tempo dotato di un alto gradiente di differenziazione e di disu-
guaglianza. Nell!ambito degli studi sul turismo, il dibattito si focalizza sugli effetti che le
diverse forme di turismo hanno sia sulle comunità/luoghi di attrazione turistica sia sulle co-
munità/luoghi da cui muovono i turisti. Il turismo, così come è stato praticato nella maggior
parte delle regioni del mondo, e come continua ancora ad essere praticato, introduce violenti
cambiamenti nella vita dei paesi che ospitano, spesso travolge i loro costumi, i loro valori
etici e religiosi, il loro ambiente ecologico, i loro insediamenti urbani. Tanto più il turismo
contemporaneo coinvolge aree caratterizzate da differenziali di potere nei loro aspetti eco-
nomici, politici e sociali, tanto più sembra balzare in primo piano la carica predatoria che
anima – oggi come ieri –il rapporto tra le diversità gestito dai #grandi della terra”. Per rispet-
tare tuttavia lo schema della complessità che abbiamo posto sin dall!inizio a base di tutte le
nostre lezioni, va subito aggiunto che anche le comunità di origine dei turisti sono mutate,
sia pure ad un livello più super ciale, per la ricerca #esotica”che travalica il breve – e co-
munque limitato – arco di tempo del soggiorno e prosegue immettendo nelle nostre città abi-
tudini alimentari, oggetti, vestiti, cerimonie e feste #altre da noi”, che saldandosi con altri
rapporti interculturali – alcuni dei quali ben più radicati e drammatici – hanno profonda-
mente stravolto i nostri gusti e lo stesso nostro rapporto con l!alterità. A prima vista può ap-
parire anche paradossale il ritardo con cui l'antropologia si è dedicata allo studio del feno-
meno turistico, di un fenomeno che si presenta oggi profondamente aperto ad interpretazioni
ed approfondimenti che proprio dalle esperienze di studio e di ricerche che per decenni gli
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antropologi hanno dedicato ai contatti tra il mondo occidentale e il mondo "altro" ricevono
contributi penetranti e illuminanti. Può essere utile allora, prima di passare a presentare una
possibile tipologia dei contributi antropologici all'analisi del fenomeno turistico, accennare
alle ragioni che possono essere viste come responsabili di questo ritardo. E questa può an-
che essere un'occasione per analizzare criticamente alcune delle più rilevanti caratteristiche
della disciplina. La prima ragione può essere individuata in una sorta di pregiudizio che ca-
ratterizzava la maggior parte degli studiosi che si sono occupati di antropologia dalla ne
del secolo XIX alla metà del nostro e che li vedeva giudicare estremamente "frivolo" occu-
parsi delle attività che riguardavano esigue minoranze occidentali che potevano disporre di
beni e sostanze da investire nel loro "tempo libero". Del resto nelle scienze sociali l'impor-
tanza data per tutto il XIX secolo - e da diversi punti di vista, da quello loso co a quello
politico, ed etico ed economico - al lavoro, ha impedito a lungo di considerare con pari di-
gnità gli altri aspetti della vita umana, tutti molto spesso considerati come momenti di "in-
terruzione", di "vacanza, appunto, dall'unico aspetto apprezzato come umano e civile. Per
onestà va tuttavia aggiunto che salvo poche - e per la verità rilevanti - eccezioni lo studio
del gioco, della vacanza, della stessa attività artistica, entra a pieno diritto nella ri essione
della nostra cultura solo quando questi aspetti della nostra attività assumono un rilevante
peso economico ed occupazionale. E tutto sommato il lavoro viene considerato veramente
tale non rispetto al rilievo che esso assume nella vita sociale, non rispetto al tempo e alla fa-
tica che implica ma soprattutto, se non esclusivamente, rispetto alla sua produttività econo-
mica. Per tutti valga, come esempio, il lavoro "casalingo" che nonostante possa essere con-
siderato sotto molti aspetti - per la riproduzione naturale e sociale, per le sue indispensabili
funzioni di cura e di educazione - un lavoro indispensabile per la sopravvivenza di ogni so-
cietà, nella nostra continua ad essere pressocché "invisibile" e stenta a ricevere riconosci-
menti a livello sociale ed economico. Un'altra ragione che può essere addotta per spiegare la
mancanza di entusiasmo con cui sono stati affrontati gli studi sul turismo dagli antropologi è
il peso che la ricerca sul campo - tradizionalmente intesa come un lungo periodo di immer-
sione in una comunità "altra" - ha avuto nella disciplina. La ricerca sul campo per lungo
tempo è stato il processo iniziatico che doveva coinvolgere l'antropologo in una comunità
lontana, profondamente diversa per stili di vita, nanco per habitat sico, dalla propria: e
l'attrazione esercitata da questo impegno, giusti cato dalla maggior parte delle "scuole" an-
tropologiche sia teoricamente che metodologicamente in termini così rigorosi da costituire il
principio generatore della speci cità disciplinare, respingeva ai margini l'interesse per lo
studio di tratti culturali che apparivano tipici della civiltà occidentale, e in particolare di al-
cuni suoi gruppi ristretti ed elitari. Nonostante la raccomandazione con cui Claude Lévi-
Strauss quasi apre "Tristi tropici" ricordando che disagi, fatiche, solitudini niente hanno a
che fare con la scienti cità e l'attendibilità delle nostre ricerche, è il cambiamento del mon-
do contemporaneo che strappa l'antropologia dal suo appassionato amore per la "selva": è
trovare l'alterità all'angolo del proprio palazzo, è avere per colleghi uomini e donne prove-
nienti da tutti i continenti, è il nomadismo culturale presente nei nuovi mezzi di comunica-
zione e di trasporto che spinge l'antropologia a rivedere le modalità, i tempi e i luoghi - e
quindi i soggetti - della sua ricerca. Un'altra causa della dif denza con cui molti ambienti
accademici hanno a lungo guardato lo studio del turismo, si deve far risalire all'alone di
"sfruttatori" che circondava i molti turisti che con la loro presenza avida di super ciali espe-
rienze sconvolgevano i ritmi di vita e gli equilibri sociali dei paesi tradizionalmente oggetto
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dello studio antropologico. Il desiderio di conservare le culture dei gruppi che per secoli
avevano seguito politiche, pratiche, stili di vita diversi da quelli storicamente affermatisi in
Occidente, ha a lungo affascinato la ri essione antropologica: solo dopo che a partire dalla
metà del nostro secolo la contaminazione culturale si è storicamente diffusa in tutto il mon-
do, l'antropologia, costretta ad abbandonare ogni pretesa di salvaguardia, ha scoperto l'am-
biguità di difendere una conservazione non più voluta e desiderata dalla maggior parte dei
gruppi umani, ha individuato l'interazione tra "centro" e "periferie" come luogo produttivo
non solo di comprensione teorica ma anche di possibilità di cambiamento nei linguaggi, nei
codici, nelle pratiche politiche. Se si accetta di considerare la #commistione” continua pre-
sente nel fenomeno turistico, è dif cile applicare al suo interno separazioni e distinzioni net-
te, dividendo con un taglio preciso il #turista” dal #non turista”, il turista stagionale da quello
estemporaneo. La stessa distinzione introdotta molti anni fa da Smith (1989 [1978]) tra #tu-
rista” ed #ospite” appare oggi inadeguata e impedendo molte ulteriori suddivisioni si dimo-
stra poco utile per un!analisi antropologica accurata. Ad esempio, numerosi autori con le
loro ricerche hanno dimostrato che lo stesso termine #paese ospite” in realtà unisca persone
che con il turista hanno rapporti profondamente differenziati, comprendendo individui che
traggono bene ci dal turismo, altri che lavorano in strutture adibite all!accoglienza, altri che
con i turisti hanno rapporti occasionali e sporadici e altri ancora che ignorano la presenza
dei turisti nel loro paese. Del resto le dif coltà che incontriamo ad identi care una #comuni-
tà ospitante” ricalcano in gran parte le dif coltà che incontriamo oggi a de nire con chia-
rezza una comunità, ad individuare i suoi con ni, a descrivere le sue caratteristiche, a stabi-
lire la sua aderenza ad un determinato territorio. Il lungo dibattito che ha opposto negli anni
!80 numerosi antropologi affannati ad identi care o a negare la possibilità di individuare i
con ni simbolici di una comunità sembra oggi essersi risolto abbandonando i modi tradi-
zionali di considerare la presenza di una comunità nel territorio, cessando di considerarla
una entità ma cercando invece – come è avvenuto per il concetto di cultura – di valorizzare
le sue forme espressive e le sue relazioni. Appare con evidenza quanto sia dif cile tentare di
disegnare un quadro che in qualche modo possa costituire una accettabile base per poter di-
scutere una tipologia delle diverse forme di turismo presenti oggi nel mondo. Ci troviamo di
fronte ad una massa di individui - centinaia di milioni - che ogni anno, per periodi di tempo
variabili, con modalità diverse si allontanano dalle proprie case per visitare regioni dai ca-
ratteri alquanto disparati: partono da luoghi diversi e raggiungono luoghi diversi, avendo
scopi diversi. E ciò che sembrerebbe uni carli - il viaggiare - se esaminato nella sua radica-
lità li accomuna ad altri milioni di individui, sino a coinvolgere l'intera nostra specie che
lungo il suo percorso evolutivo ha scelto per la maggioranza del tempo il nomadismo e non
la sedentarietà. Anche se siamo consapevoli della dif coltà di dividere con tagli netti il turi-
sta stagionale da quello estemporaneo, il turista da chi turista non è ma che comunque viag-
gia, anche se conveniamo sulla dinamicità e sulla essibilità della categoria "turista", ten-
tiamo di introdurre alcune distinzioni che senza pretese tassonomiche, consentano tuttavia la
costituzione di un lessico su cui stabilire confronti ed analisi. Nella letteratura ci imbattiamo
in due macrodistinzioni: il turismo organizzato e il turismo alternativo; i fruitori del primo
sono de niti da Smith come coloro che prenotano biglietti di viaggio, soggiorno, escursioni
in anticipo e tramite agenzie turistiche, avendo come obiettivo di vivere situazioni "pittore-
sche" senza privarsi delle comodità proprie della modernità e dimostrando grande ritrosia
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nello stabilire contatti diretti con gli abitanti delle comunità visitate. A questa forma di turi-
smo viene in modo piuttosto grossolano contrapposto il turismo "alternativo", in cui vengo-
no fatte con uire scelte assai diversi cate, riuni cate soprattutto dal tentativo comune di
sfuggire alla massi cazione e all'anonimato del turismo organizzato: vengono così accomu-
nate sotto la stessa etichetta di "alternativi "esploratori, amanti di avventure esotiche e/o ri-
schiose, viaggiatori solitari, cultori d'arte, irrequieti ricercatori di trasgressioni a buon mer-
cato. Proseguendo ad usare l'opposizione tra le due macrocategorie, una peculiarità di colo-
ro che in qualche modo possiamo attribuire alla prima è - come ho avuto modo di dire - la
ritrosia che essi dimostrano ad avvicinare gli abitanti dei luoghi visitati senza servirsi del
ltro fornito loro dagli organizzatori del viaggio: i turisti dei viaggi organizzati - i "charter
tourists" della letteratura anglosassone - sono descritti come "timidi viaggiatori racchiusi in
una pellicola sapientemente costruita per proteggerli dal contatto - e dallo schock - culturale
"I turisti "alternativi", al contrario cercano di incontrare gli abitanti dei luoghi che visitano,
apprezzano il contatto con le diversità culturali, si appassionano alle tradizioni locali, sono
ansiosi di fare nuove amicizie , di conoscere e di apprendere nuovi stili di vita. Il livello di
generalizzazione contenuto in queste categorizzazioni appare evidente se consideriamo, ba-
nalmente, che lo stesso individuo nel corso della sua vita può più volte scegliere di apparte-
nere all'una o all'altra categoria, all'una o all'altra suddivisione e che sempre più frequente
appaiono sul mercato forme miste che alternano, nello stesso viaggio, tratti delle due moda-
lità di fare turismo. Secondo la de nizione data dalla "World Tourism Organization" nel
1985, il "turismo culturale nel suo signi cato letterale include il movimento di persone spin-
te da una motivazione di carattere culturale, quale è quella che guida i viaggi di studio, la
visita a musei, a monumenti, i pellegrinaggi, la partecipazione a manifestazioni artistiche o
folcloriche. In un'accezione più ampia possiamo comprendere sotto questa etichetta tutti gli
spostamenti nello spazio di individui o gruppi perché essi soddisfano il bisogno umano di
avvicinarsi alla diversità, tendono ad innalzare il livello di conoscenze e danno origine a
nuove esperienze, a nuovi incontri “. Nella letteratura il turismo culturale è stato così de ni-
to in due sensi: uno più ristretto - la visita a musei, a siti archeologici, a monumenti e vesti-
gia del passato, a mostre e rappresentazioni artistiche - e l'altro più ampio che comprende
sia il desiderio del viaggiatore di immergersi nella cultura della regione visitata sia il tenta-
tivo di sottrarsi agli ambienti arti cialmente creati per il piacere dei turisti cercando stili di
vita e ambienti più spontanei e naturali. Il richiamo al concetto di cultura elaborato dalla ri-
cerca antropologica e da essa introdotto ormai in tutte le scienze sociali, è evidente e mi
sembra una prova diretta della produttività che ha la conoscenza antropologica sia per inter-
pretare un'attività complessa quale quella del turismo contemporaneo sia se si voglia - per
sottrarre questa attività all'improvvisazione e alla casualità - progettare corsi di studi che a
livello universitario intendano preparare esperti per la sua gestione e per la sua programma-
zione. Usare le categorie antropologiche nello studio dei fenomeni turistici presenta una se-
rie di vantaggi: la loro applicazione pone in primo piano la volontà della popolazione e del
governo locale, affronta il tema dell'autenticità culturale non solo dal punto di vista del pen-
siero occidentale ma anche dai punti di vista dei diversi contesti culturali con cui si viene di
volta in volta in contatto. Se inoltre abbiamo il proposito di sviluppare forme di turismo che
possano migliorare la qualità della vita di ambedue le comunità che vengono in contatto,
dobbiamo sottolineare e sviluppare gli aspetti culturali del turismo, studiando le culture lo-
cali e le "aspettative" dei viaggiatori, per individuare le modalità di incontri che non si risol-
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vano in freddo e spietato sfruttamento o in feroce antagonismo e ripulsa. Alla base di uno
sviluppo turistico che voglia essere equilibrato e sostenibile, dobbiamo porre un approccio
antropologico che conduca a studi di etnogra a regionale, che produca analisi delle culture
locali, che individui i "beni culturali" presenti nel territorio, evidenziando l'impatto econo-
mico ma anche sociale e culturale che il turismo avrà su di essi e sulle comunità che li con-
servano e li producono. Il turismo culturale non è una panacea che risolva tutti i problemi,
né è un nuovo modo per attrarre un maggior numero di turisti e una maggior quantità di de-
naro: esso potrebbe essere un'opportunità per conoscere con più accuratezza il mondo in cui
viviamo, per sviluppare le nostre sensibilità, per far parlare le nostre emozioni: dovrebbe
migliorare la qualità della vita delle comunità coinvolte - ospitanti ed ospitate - rendendole
più consapevoli dell'importanza di viaggiare e di accogliere, di saper apprezzare il paesag-
gio, gli incontri, le nuove esperienze. Lo sviluppo del turismo culturale può così divenire
un'opportunità per valorizzare il nostro passato, la nostra storia, la nostra eredità ma allo
stesso tempo un modo per poter partecipare ad una cultura in grado di uscire da sé stessa per
comunicare con le molte diversità che oggi sono in contatto - a livello reale e/o virtuale - tra
loro. Da un lato, sottolineando le caratteristiche e le possibilità del turismo culturale, ogni
comunità è sollecitata e spinta a conservare e valorizzare i propri "beni culturali"; dall'altro
ogni programmazione e ogni gestione del turismo deve prestare grande attenzione agli
orientamenti generali di una cultura mondiale che ogni giorno aumenta il suo livello di in-
terdipendenza e di globalità. Tra queste due tensioni va svolta, a livello di ricerca, di didatti-
ca e di politica culturale, una continua opera di mediazione af nché l'accresciuta visibilità
delle comunità locali e delle loro potenzialità produca nuove identità, svincolate dalle pe-
santi ipoteche del passato e dai condizionamenti del presente ma aperte all'incontro e al dia-
logo con le molte differenze che si producono oggi a livello mondiale. E i rischi maggiori
che corre lo sviluppo del turismo culturale si articolano su due versanti opposti ma concor-
renti: favorire un estremo localismo o forme epidermiche di vacuo cosmopolitismo. La s da
deve essere comunque affrontata, consapevoli che la valorizzazione delle risorse presenti
nelle eredità culturali delle singole comunità può avere speranza di successo se i meccani-
smi dello sviluppo e della programmazione turistica saranno tesi a stabilire rapporti equili-
brati negli incontri, attenti alla salvaguardia delle risorse ambientali e alla qualità della vita
sia degli ospiti che degli ospitanti. E la comprensione sia della cultura locale che dei bisogni
e dei desideri dei turisti è un prerequisito indispensabile per ogni forma di turismo che vo-
glia essere sostenibile e insieme duraturo. Il turismo a causa dei potenti interessi economici
che è in grado di convogliare sui suoi progetti riesce anche ad in uenzare, e talvolta addirit-
tura a determinare, la percezione che una comunità ha della sua eredità culturale: indicare
un tratto culturale, un oggetto, un monumento o un!idea come parte dell!eredità di un grup-
po, attribuirli ad una determinata epoca, signi ca partecipare alla costruzione sociale del suo
passato, signi ca illuminare un universo simbolico, oscurandone inevitabilmente altri: dan-
do un determinato ordine al passato, in realtà si pre gura l!ordine del presente. Esercitare il
controllo del passato signi ca svolgere importanti ruoli nei processi identitari: così sce-
gliendo una determinata versione di un evento storico si legittimano relazioni sociali che
travalicano l!ambito delle relazioni quotidiane al cui ordine sembrano appartenere le rela-
zioni turistiche svolgono importanti funzioni nei processi politici, nella suddivisione del po-
tere fra i diversi gruppi che costituiscono la comunità. Una buona esempli cazione di questo
processo ci è fornito dalle ricerche che John Allcock ha svolto in Macedonia e in Croazia.
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Nel primo caso la scelta di presentare ai turisti i resti di alcuni edi ci sacri attribuendoli alla
fede e alla ritualità cristiana tacendo che per secoli essi erano divenuti luoghi di culto isla-
mici ha un alto signi cato simbolico ed assume forti valenze identitarie e politiche: è infatti
un!aperta rivendicazione dell!antichità e della continuità dell!eredità cristiana in una regione
in cui esistono tensioni con i gruppi musulmani di origine albanese, è un!affermazione, indi-
retta ma molto esplicita, dell!estraneità, rispetto l!attuale identità della #nazione” macedone,
dei #cinque secoli della notte turca”. Nel secondo caso Allcock presenta la #costruzione” di
un folklore nazionale croato, elaborato per ni turistici ma che in realtà ha avuto l!obiettivo
di dimostrare l!esistenza di una eredità culturale, antica e coerente, che attribuisca unità ad
una regione storicamente attraversata per secoli da popoli diversi e dominata da stati politi-
camente e culturalmente assai differenziati. Ambedue i #casi” esaminati da Allcock sono
strettamente collegati allo sforzo delle autorità macedoni e croate di dare legittimità alle po-
litiche dei nuovi stati che si sono costituiti dopo la ne della federazione iugoslava. Non è
molto rilevante che in un caso si sia operato su un sito storico-archeologico e nell!altro su
produzioni di beni materiali ed immateriali, quali prodotti artigianali, motivi musicali, lette-
ratura orale, ricostruzione di danze e cerimonie. Quello che in questa sede è rilevante notare
è il ruolo privilegiato che l!organizzazione del turismo, dovrei dire la struttura del turismo, è
in grado di svolgere in questi complessi processi: da un lato nella comunicazione turistica
processi ideologici, quali la creazione di una determinata eredità storica o l’”invenzione” di
#radici” identitarie comuni a gruppi oggi diversi sotto molti aspetti, trovano possibili forme
di espressione e di validità: la presentazione di un monumento, di un sito archeologico, di
una celebrazione cerimoniale, di un prodotto artigianale, nelle parole delle guide, nelle de-
scrizioni dei #tour operators” e dei depliants turistici assume valore di verità storica, diviene
nota, accettata e diffusa tanto tra i turisti quanto tra gli abitanti delle località interessate.
Dall!altro lato le espressioni usate per questa divulgazione si servono di una retorica ad alto
valore divulgativo ma che generalmente sfugge al vaglio e all!analisi critica delle fonti e
quindi della realtà storica. Sulle nuove verità, sui valori simbolici che così assumono oggetti
e luoghi, sulle nuove memorie rappresentate per i turisti, si articolano nuovi processi identi-
tari, si sviluppano nuove appartenenze, si riformulano alleanze e af nità. Inoltre le dimen-
sioni del fenomeno turistico nella contemporaneità, il suo spandersi nei diversi continenti, il
suo penetrare in gruppi e classi sociali profondamente diverse, le sue dinamiche che rendo-
no dif cile distinguere tra #consumatori” e #produttori” del fenomeno, non ci consentono
più di considerarlo un processo di comunicazione che si svolge tra culture diverse, separate
da con ni netti ed individuabili: in realtà produzione turistica e consumo di luoghi, di incon-
tri, di merci, fanno parte di un medesimo processo. Così l!eredità del passato presentata al
turista si riverbera e agisce nella determinazione dei processi identitari di chi ha costruito ad
uso turistico questa eredità, trasforma il suo territorio, i suoi segni e i suoi prodotti ma mo-
della anche la percezione che delle identità e della storia hanno i visitatori di quel paese. Il
richiamo al concetto di cultura elaborato dalla ricerca antropologica mi sembra evidente: la
cultura considerata un ventaglio di possibilità tra le quali il gruppo sceglie quali usare e qua-
li scartare nel continuo processo di strutturare e ristrutturare il suo presente e il suo passato,
la cultura che in questa sua #operazionalità” coinvolge e attraversa settori dalla lunga tradi-
zione, elementi nuovi e tratti apparentemente marginali. Le categorie antropologiche diven-
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gono così utili sia se si voglia interpretare un!attività complessa e articolata quale il turismo
contemporaneo sia se, per sottrarlo all!improvvisazione e alla casualità, si vogliano progetta-
re corsi di studi che preparino esperti per la sua gestione e per la sua programmazione. I ri-
ferimenti alle discipline antropologiche e l!accento su un turismo attento alle implicazioni
culturali caratterizza due corsi di studio che per un certo numero di anni ho coordinato, per
conto dell!Università di Bologna, sul tema del turismo: il primo è un corso di Master sullo
#Sviluppo turistico” attivato in Cambogia, il secondo un corso di specializzazione post-lau-
rea in #Turismo culturale” attivato nell!area adriatica, in particolare in quella che comprende
la rete universitaria Uniadrion. Si rivolgono ambedue a studenti che hanno conseguito al-
meno un primo livello di laurea; hanno previsto, per l!ammissione ai corsi, una selezione
basata sia sui percorsi di studio e di lavoro compiuti, sia su una serie di prove; ambedue
hanno l!obiettivo di formare esperti in piani cazione e programmazione delle attività turisti-
che af ancando, durante gli anni di corso, attività didattiche e di ricerca; anche se in misura
differente, ambedue sfruttano i collegamenti via informatica; la durata di quello svolto in
Cambogia è di cinque semestri, di quello rivolto all!area adriatica di sei. Si basano su una
collaborazione fra regioni diverse e università appartenenti a paesi diversi: l!uno coinvolge
oltre l!Università di Bologna, la Royal University of Phnom Penh e l!University of Techno-
logy of Sydney, il secondo oltre l!Università di Bologna, le Università degli Stati che affac-
ciandosi sul mar Adriatico partecipano della rete Uniadrion (Slovenia, Croazia, Montenegro,
Albania). Le aree disciplinari coinvolte nei programmi di insegnamento e di ricerca sono
oltre quelle antropologiche, quelle sociologiche, economiche, geogra che, linguistiche, del-
la comunicazione, con riferimenti giuridici ed informatici. L!analisi culturale, sia dei ussi
turistici che delle potenzialità presenti nelle diverse località in un certo senso riunisce ed
uni ca i contributi delle singole discipline che dai loro speci ci punti di vista mettono a
fuoco i vantaggi ma anche i rischi dello sviluppo turistico, particolarmente quando si svolge
in aree che per lungo tempo sono state sottratte ad esso e che al tempo stesso sono state re-
centemente teatro di con itti aspri e dolorosi. Le domande a cui si cerca di rispondere, con
questi studi e con queste ricerche, sono complesse e più che soluzioni abbiamo sollecitato,
dalla collaborazione tra docenti e studenti appartenenti a tradizioni tante diverse, spunti,
suggerimenti, percorsi. I contesti profondamente diversi per storia, cultura, tradizioni hanno
richiesto un!articolazione di metodologie di ricerche e di pratiche didattiche profondamente
diverse. Eppure le due esperienze hanno avuto alla loro base il tentativo di rispondere alle
stesse esigenze di carattere epistemologico. Quali caratteri possono assumere i rischi della
distruzione e dell!inquinamento dell!ambiente, della lacerazione dei rapporti sociali e del
travisamento delle culture tradizionali generalmente connessi con il turismo di massa, in
aree, quali quelle oggetto dei due corsi, che tentano di ricostruire paesaggi e città, relazioni
sociali e ritmi di vita profondamente turbati da eventi diversi ma, in ambedue i casi, dram-
matici e profondamente incisi nella memoria e nel territorio? In che modo può un turismo
culturale e sostenibile partecipare positivamente a questa #ricostruzione”? In che modo l!in-
contro e lo sguardo turistico può contribuire alla creazione di luoghi/modi in cui si sfugga
tanto alla rivendicazione localistica ed esasperata dell!orgoglio regionalista quanto al vuoto
cosmopolitismo di un!autenticità teatrale, rappresentata per i turisti ai ni di un guadagno
facile ed immediato? Il turismo culturale non è una panacea che possa risolvere tutti i pro-
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blemi ma soprattutto non può essere visto come un nuovo modo per attrarre un maggior
numero di turisti e una maggiore quantità di denaro. Potrebbe invece essere un!opportunità
per conoscere con più accuratezza il mondo in cui viviamo, per sviluppare le nostre sensibi-
lità, per far parlare le nostre emozioni; dovrebbe poter migliorare la qualità della vita delle
comunità coinvolte – ospitanti ed ospitate - rendendole più consapevoli dell!importanza di
viaggiare e di accogliere, di saper apprezzare il paesaggio, gli incontri, le nuove esperienze.
Lo sviluppo del turismo culturale potrebbe divenire un!opportunità per valorizzare il nostro
passato, la nostra storia, la nostra eredità ma al tempo stesso un modo per poter partecipare
ad una cultura in grado di uscire da sé stessa per comunicare con le molte diversità che oggi
percorrono – a livello reale e/o virtuale – il mondo. Da un lato, sottolineando le caratteristi-
che e le possibilità del turismo culturale, ogni comunità è sollecitata e spinta a conservare e
valorizzare i propri #beni culturali”; dall!altro ogni programmazione e ogni gestione del turi-
smo deve prestare grande attenzione agli orientamenti generali di una cultura mondiale che
ogni giorno, con i suoi spostamenti, con i suoi nomadismi, aumenta il suo livello di interdi-
pendenza e di globalità. Tra queste due tensioni va svolta, a livello di ricerca, di didattica e
di politica culturale, una continua opera di mediazione af nché l!accresciuta visibilità delle
comunità locali e delle loro potenzialità produca nuovi processi identitari, svincolati dalle
pesanti ipoteche del passato e dai condizionamenti del presente ma aperti al dialogo, all!in-
contro con le molte differenze che oggi percorrono il nostro pianeta. L!antropologia cultura-
le, nel suo focalizzarsi sulla contemporaneità, sempre più rivolge il suo interesse e i suoi
studi agli incontri che in tutto il mondo pongono gruppi umani ampi e disomogenei a contat-
to diretto, coinvolti in trasformazioni sempre più profonde, a un tempo comuni e speci che.
E lo sguardo che oggi rivolge alle culture tradizionali e/o ai gruppi marginali si propone di
interpretare con più accuratezza cambiamenti e mutazioni. In altre parole c’è nei suoi stu-
diosi la convinzione che l!esperienza delle tradizioni e dei gruppi periferici rispetto al mon-
do Occidentale, acquisita in più di cento anni di ricerche e di ri essioni, possa illuminare
con profondità e ampiezza i problemi della contemporaneità. Sempre più spesso in Francia,
in Gran Bretagna, negli Stati Uniti, in Olanda ma anche in Canada, nei paesi latino-ameri-
cani, in quelli africani e asiatici, si parla di un’”antropologia del sé”, rivolta ad esaminare le
trasformazioni culturali che le nostra città e le #loro” stanno subendo in seguito ad una mol-
teplicità di fattori. Anche se l!interesse degli studi antropologici si concentra su gruppi ri-
stretti le cui dimensioni permettono al ricercatore di avere con la maggioranza dei loro
membri relazioni dirette, le sue nalità sono tese a conoscere e interpretare la totalità del
mondo in cui essi sono immersi. E in questo sforzo si serve delle comparazioni fra culture
diverse, studiate ed analizzate tanto nel presente quanto in tempi e in spazi diversi. Essere la
disciplina che studia il particolare per accedere al piano universale implica concentrare inte-
ressi ed ambizioni vaste e diversi cate, così tante che molte sono le suddivisioni interne alla
disciplina corrispondenti a diversi campi di studi.
Non intendo tracciare un loro inventario completo quanto piuttosto mettere in luce le rifor-
mulazioni più recenti delle problematiche che oggi mi sembrano più rilevanti e produttive.
E!"importante poi, nel seguire questa elencazione, ricordare che nessuna di essa può essere
considerata separata rispetto alle altre: tutte le diverse suddivisioni, che forse per sottolinea-
re le connessioni è più opportuno denominare #rubriche”, rimandano alla prospettiva olistica
della disciplina, tutte sono collegate tra loro dai riferimenti costanti al concetto di cultura,
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tutte sono dotate di grande dinamicità che permette loro di seguire i mutamenti dei contesti
e dei gruppi esaminati. Può essere considerato l!insieme di studi dedicati a individuare e
analizzare le nuove dimensioni culturali della vita urbana, focalizzandosi sull!articolazione
delle reti sociali ed economiche, sui ussi migratori, sui luoghi, simbolici e reali, dell!identi-
cazione etnica e sociale, sulla distribuzione delle reti di socialità, sugli immaginari costitu-
tivi della città. Le ricerche antropologiche sulla città rispondono al cambiamento globale
che ha introdotto ovunque e comunque i valori della vita urbana; ed essi hanno invaso l!inte-
ro pianeta tramite i mezzi di comunicazione di massa – dalla televisione ai giornali, dalla
radio ai mezzi di trasporto e alle comunicazioni via elettronica - , tramite le istituzioni scola-
stiche, i cataloghi di vendita per corrispondenza, la pubblicità. E allora compito dell!antro-
pologia urbana è anche individuare la mappa dei processi di urbanizzazione immaginaria
che alimentano gli spostamenti di grande masse di individui verso i centri urbani di tutto il
mondo. I primi contributi dell!antropologia alla comprensione dei meccanismi di trasmis-
sione culturale da una generazione all!altra datano agli ultimi anni del XIX secolo ma pur
riconoscendo ad essi un valore pioneristico assai signi cativo, i presupposti per la costitu-
zione di una rubrica autonoma nell!area della trasmissione culturale si originano nei primi
decenni del secolo XX, dopo che l!antropologia si era staccata tanto dalle teorie ottocente-
sche di una evoluzione unilineare della cultura quanto dalle teorie diffusioniste. Se leggiamo
le ricerche compiute dagli anni !20 agli anni !50 dello scorso secolo sui processi inculturativi
infantili e sui sistemi educativi formali e informali, troviamo che in esse si sono impegnati i
più bei nomi dell!antropologia anglo-sassone di quegli anni: Gregory Bateson, Ruth Bene-
dict, Franz Boas, Edward Evans-Pritchard, Margaret Mead, Monica Wilson, per citare solo i
più famosi. E la nuova rubrica di antropologia dell!educazione che trova la sua formalizza-
zione uf ciale in un Convegno tenuto negli Stati Uniti nel 1954, si forma nel contesto di
profondi sviluppi nella teoria e nella metodologia di ricerca che vedono l!antropologia af-
frontare gli studi dei gruppi umani che vivono in un mondo in rapida e tumultuosa trasfor-
mazione. I loni più produttivi di questa rubrica sono oggi sia quelli che analizzano la tra-
smissione culturale nelle istituzioni scolastiche ormai diffuse sull!intero pianeta, sia quelli
che pongono l!accento sulla forza inculturativa, accanto ai sistemi familiari, delle agenzie
meno formalizzate, quali il gruppo dei coetanei e i messaggi dei mezzi di comunicazione di
massa e sia quelli che tentano di far chiarezza sui processi dell!educazione interculturale. E!"
quest!ultimo un compito assai gravoso che deve essere sottratto alla super cialità con cui
esso è spesso affrontato, ridotto com’è, sovente, a una serie di precetti che si ispirano più a
generici richiami ai #buoni sentimenti”, ad una approssimativa tolleranza, ad una indistinta
solidarietà. L!educazione interculturale deve costituire un tentativo per preparare risposte
ef caci agli stereotipi razzisti e discriminatori che forniscono, alla maggioranza di noi le
uniche spiegazioni di fronte all!invasione di gruppi che vengono presentati ostili e minaccio-
si nelle loro richieste di benessere; l!educazione interculturale dovrebbe evidenziare i molte-
plici contributi che i diversi gruppi umani, nel corso delle loro lunghe storie di spostamenti
e di incontri, hanno saputo dare alla costruzione di un terreno culturale comune, dovrebbe
illustrare i danni e la sterilità di ogni forma di chiusura al contatto culturale, dovrebbe dimo-
strare la falsità di ogni ipotesi che costruisca l!identità di un gruppo sulla base di una presun-

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ta purezza, genetica o culturale che sia. Il lo conduttore che per decenni ha legato la storia
dell!antropologia è stato l!analisi dei sistemi di parentela. La scelta di studiare quale argo-
mento privilegiato l!istituzione umana più generale e più vicina sia ai bisogni biologici che a
quelli culturali della nostra specie, è indicativa dello sforzo teorico della disciplina di porsi
quale interprete dei rapporti tra natura e cultura, del tentativo costante di individuare i lega-
mi di questo rapporto, così complessi, misteriosi e anche ambigui ma sempre ineludibili per
una comprensione della nostra storia che non sia parziale e insoddisfacente. Lo studio dei
sistemi di parentela – da #Systems of Consanguinity and Af nity of the Human Family”,
scritto da Lewis Henry Morgan mel 1871 alle #Structures elementaires de la parenté” di
Lévi-Strauss del 1949, per citare solo le opere più note – ha fornito spunti teorici e piste me-
todologiche di grande rilievo per lo sviluppo generale della disciplina: la nozione di struttu-
ra e sistema, i principi di reciprocità e di scambio, i rapporti tra natura e cultura, l!interdi-
pendenza di settori apparentemente disparati e contraddittori che costituiscono le realtà cul-
turali. La #rubrica” che riunisce gli studi e le ricerche tesi ad individuare i rapporti esistenti
tra la personalità individuale e i modelli culturali del gruppo in cui l!individuo viene allevato
nasce uf cialmente agli inizi degli anni !60 del secolo XX ma ha dietro di sé una storia lun-
ga e complessa. Inizia con un acceso dibattito con le teorie psicoanalitiche freudiane, soprat-
tutto con la rappresentazione lineare della storia dell!umanità presente in #Totem e Tabù”:
per l!ipotesi freudiana la storia individuale ripete la scena primaria del parricidio, indipen-
dentemente dall!appartenenza ad un determinato periodo storico, ad una determinata cultura
mentre grande è l!insistenza degli antropologi della prima metà del XX secolo sul particola-
rismo e sul relativismo culturale. Con l!affermarsi delle teorie neo-freudiane, nasce, negli
anni !30 e negli Stati Uniti d!America, un interessante rapporto tra psicoanalisti e antropolo-
gi che portò alla fondazione della rubrica di Cultura e personalità, che può essere considera-
ta la premessa per la nascita della rubrica di antropologia psicologica. Cultura e personalità
fu un lone di studi molto attivo e produttivo sino agli anni Cinquanta, con ricerche interdi-
sciplinari che portarono alla formulazione di ipotesi sull!esistenza, presso i diversi gruppi
umani, di strutture della personalità di base risultanti dalle interazioni, particolarmente attive
durante il periodo dell!allevamento infantile, tra elementi psichici e elementi culturali. Il
fondarsi eccessivamente sul determinismo educativo, l!impossibilità di ricostruire l!artico-
larsi delle differenze tra gruppi di individui partecipi della stessa cultura, l!interesse sempre
più vivo verso le società “complesse”, causarono il ripudio delle impostazioni di questa ini-
ziale rubrica da parte dell!antropologia culturale che preferì raggruppare le ri essioni e le
ricerche sui rapporti tra personalità individuale e modelli collettivi sotto una rubrica nuova,
quella appunto di antropologia psicologica. Essa ha dato luogo a numerosi settori di interes-
se, dai rapporti tra signi cati individuali e pratiche simboliche collettive, fra natura umana
universale e variabilità culturale, tra forme di sussistenza e pratiche di allevamento infantile,
tra organizzazione sociale e stati alterati di coscienza. A causa della prospettiva generale,
assunta sin dalle prime opere di antropologi evoluzionisti quali Tylor e Frazer, mi sembra
più corretto de nire l!antropologia della religione come lo studio dei sistemi di fedi e di cre-
denze. Esso ha dato origine a campi diversi, tutti assai attivi e promettenti: da un lato, sotto
l!in uenza di Durkheim e di Mauss, è stato posto in risalto il ruolo attivo che la religione,

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interpretata come #fatto sociale totale”, esercita in quanto elemento fondamentale di coesio-
ne/lacerazione sociale; dall!altro, prestando attenzione alle diverse articolazioni del pensiero
religioso, si è aperto il campo dello studio più generale dei sistemi di rappresentazione sim-
bolica: da quello più datato sulle #mentalità” che distinguono i diversi gruppi umani, a quel-
lo dei sistemi di pensiero propri delle diverse società, da quello dello studio dei meccanismi
simbolici messi in atto dalle istituzioni per ottenere legittimità ed accettazione a quello del
signi cato che il rapporto con l!alterità assume anche in base all!ordine simbolico proprio
delle diverse società e dei diversi gruppi. Dagli studi sui sistemi simbolici si sono veri cate
ulteriori aperture, quali l!antropologia medica che cerca di ricostruire in chiave soprattutto
comparativa #il senso del male”, la dimensione culturale della malattia (ovvero il peso che la
cultura esercita nella diagnosi e nella cura) e al tempo stesso i rapporti che la malattia e i si-
stemi di cura hanno con l!apparato istituzionale, con il sistema di riti di una società e con gli
stessi modelli di interpretazione della realtà. Da un lato abbiamo studiosi che evidenziano la
natura sociale della malattia e i sistemi di cura presenti nei diversi contesti culturali dall!al-
tro studiosi che sottolinea la costruzione culturale e sociale della malattia e delle conoscenze
che la interpretano e la curano. Sotto etichette diverse ma a volte anche raggruppati sotto
quella comprensiva di #antropologia applicata”, troviamo altri settori della disciplina antro-
pologica, così ampi e diversi cati al loro interno, da poterli considerare autonomi e indipen-
denti. L!antropologia economica. assai orente soprattutto verso la metà del XX secolo per
le molte analisi, in maggioranza europee, ispirate alle dottrine marxiste, è oggi ricca di mol-
te altre chiavi interpretative che pongono in luce concetti originali per interpretare la varietà
dei sistemi economici. Nel suo ambito si sono così manifestati nuovi loni di ricerca, quali
l!ecologia culturale e l!etnoscienza: esse riferiscono l!analisi degli aspetti economici ai rap-
porti complessivi esistenti tra un gruppo e il suo ambiente,mentre l!antropologia marxista si
sofferma principalmente sui rapporti sociali di produzione e sulle condizioni della loro ri-
produzione. L!antropologia politica, a partire dalle molte ricerche svolte dagli antropologi
britannici nei paesi coloniali, mette in evidenza le diverse forme che assumono le organiz-
zazioni politiche, i diversi gradi di interazione tra il potere e la violenza, tra le istituzioni e i
processi simbolici. I suoi sviluppi più recenti la vedono impegnata nello studio degli aspetti
simbolici del potere e delle relazioni politiche e nell!analisi delle diverse forme di nazionali-
smo, della natura dell!etnicità e dei processi identitari. All!interno dello studio del cambia-
mento delle relazioni di potere, si condensano gli studi sui processi millenerastici e messia-
nici, a metà tra rivoluzione sociale e adattamento sociale, così compositi da essere partecipi
insieme di aspetti religiosi e di aspetti psicologici. Sempre in quest!ambito vanno anche col-
locati gli studi delle dinamiche dei sistemi sociali e dei modelli culturali con particolare rife-
rimento alle situazioni dei paesi postcoloniali e ai rapporti che oggi li legano ai processi di
globalizzazione e al sistema della cooperazione internazionale. La revisione oggi in atto dei
compiti tradizionalmente svolti dall!antropologia, le sue nuove mete e i suoi nuovi ambiti,
implicano la necessità di stabilire in modo più chiaro i suoi rapporti con le altre scienze
umane e sociali. Il posto sempre più centrale che l!antropologia occupa oggi nello studio e
nell!analisi dell!articolarsi delle somiglianze e delle differenze, apre nuove possibilità di for-
nire, agli altri campi del sapere e dell!agire, materiali per analizzare i processi di cambia-
mento e le situazioni di con itto. Nelle interpretazioni storiche, nelle speculazioni loso -
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che ma anche nei progetti educativi, nei piani economici, nelle decisioni giuridiche, nelle
piani cazioni sanitarie ci si rivolge sempre più spesso alle discipline antropologiche perché
forniscano da un lato dati sulle tradizioni culturali dei gruppi coinvolti nei cambiamenti, dal-
l!altro per avere ipotesi interpretative dei rapporti culturali, degli incontri/scontri che da mil-
lenni caratterizzano la vita della nostra specie. Le trasformazioni avvenute nella nostra so-
cietà mettono al centro degli interessi scienti ci e dell!operatività politica il contatto fra cul-
ture e fra dislivelli culturali: ed è un contatto dinamico che muta nei protagonisti e nelle
modalità, con tempi sempre più ravvicinati. Inoltre se in anni relativamente recenti il contat-
to con la diversità scon nava sovente nella ricerca dell!esotico e la sua conoscenza era privi-
legio ed esperienza di pochi, oggi ci investe nelle nostre città, penetra nelle nostre case con i
messaggi televisivi, è incontro/scontro nei luoghi di lavoro, nelle strade, nelle scuole, nel
tempo libero. Da un lato aspiriamo tutti a condividere, vendere, esportare linguaggi e beni, a
scambiarli, a farli circolare; allo stesso tempo tuttavia siamo spinti dalla loro limitatezza e
dalla loro articolazione gerarchica a renderli esclusivi per il gruppo ristretto con cui inten-
diamo identi carci. E!"essenziale conoscere i meccanismi culturali che presiedono a questo
equilibrio precario tra globalismo e localismo; individuare quali elementi siano collegati a
situazioni reali e quanti siano frutto di reminiscenze antiche, di manipolazioni politiche e/o
massmediologiche, di invenzioni estemporanee. L!incontro con la diversità non va tollerato
e tanto meno subito o respinto: piuttosto va accettato come elemento di produttività cultura-
le ma soprattutto come strumento di sopravvivenza per un mondo che non voglia ridursi ad
una fortezza assediata dagli affamati, dagli analfabeti, dai sotto istruiti; per un mondo che
non si rassegni alle #pulizie etniche”, alle deportazioni, all!imposizione della #ragione” con
la violenza delle armi più estreme e cieche nella loro #intelligenza”.
Del resto il bisogno di operatori che abbiano competenze speci che nella gestione sempre
più complessa dei rapporti tra culture diverse, è in continua crescita: e non solo per i ussi
migratori che premono sulle nostre coste e lungo i nostri con ni ma anche per una serie di
altre rilevanti motivazioni: è sempre più urgente individuare ipotesi scienti che sul funzio-
namento dei meccanismi che stanno alla base dell!etnicità, sui processi della formazione
delle identità culturali e collettive; è sempre più rilevante individuare la geogra a dei multi-
culturalismi e il loro coniugarsi con i rapporti di classe e la divisione di genere; è sempre più
necessario proporsi di seguire la dinamica degli scambi, dei prestiti, delle #rapine” culturali.
Ampiamente diffusa è la consapevolezza che in un mondo sempre più caratterizzato da rap-
porti di interdipendenza fra culture anche opposte e nemiche, sia necessario stabilire colle-
gamenti, relazioni, mediazioni fra i diversi stili di vita, tra le diverse proposte di soluzioni
economiche, politiche e sociali. Molti sono i campi in cui la gestione delle differenze occu-
pa oggi un posto di grande rilievo. Per citarne solo alcuni, ricordo l!ambito educativo che
comprende gli insegnanti di tutti gli ordini e gradi delle nostre scuole ma anche tutti coloro
che si occupano della trasmissione culturale nei suoi aspetti formali e informali; l!ambito
dell!informazione, da quella scritta a quella visiva, così rilevante per la diffusione di modelli
culturali e di comportamento ed invece così spesso carente di informazioni circostanziate e
corrette, preda di super ciali stereotipi e di radicati pregiudizi; e ancora l!ambito della con-
servazione, della produzione e della divulgazione dei #beni culturali” e quello sanitario, in
cui lo scontro tra le culture spesso assume toni drammatici di fronte al male, al dolore, alla

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speranza, alla morte; quello dell!intervento sociale e delle decisioni normative, in cui
l!emergenza dei bisogni mette in evidenza le dif coltà e l!inadeguatezza delle nostre inter-
pretazioni, così spesso dettate da etnocentrismi inconfessati ma proprio per questo pieni di
rischi e di pericoli; quello della cooperazione internazionale i cui vistosi insuccessi richiede-
rebbero maggiore attenzione tanto alle culture che si confrontano nel progetto quanto alle
nuove dinamiche culturali e di distribuzione del potere che esso innesta. Indicazioni biblio-
gra che relative a queste parole chiave. Come ho cercato di indicare, molti aspetti del sape-
re contemporaneo attingono alle posizioni teoriche, alle metodologie, ai risultati delle ricer-
che empiriche svolte in tutto il mondo durante lo sviluppo della storia della disciplina. Gli
incontri tra l!antropologia e le altre scienze umane hanno avuto intensità diverse a seconda
dei tempi in cui sono avvenuti, a seconda dei paesi in cui si sono svolti, a seconda delle isti-
tuzioni che li hanno favoriti. Non ho intenzione di affrontare i problemi connessi con questi
incontri: piuttosto, con due esempi, scelti l!uno per la sua apparente vicinanza con la disci-
plina, l!altro per la sua apparente distanza da essa, intendo illustrare la dinamica dell!episte-
mologia della disciplina come si è venuta con gurando non solo a contatto con la realtà so-
ciale e culturale che andava analizzando ma anche a contatto con altri approcci alla cono-
scenza.. Antropologia e sociologia .Ad un livello de nitorio – l!antropologia è lo studio del-
l!uomo e la sociologia è lo studio della società – le due discipline sembrano confondersi
l!una nell!altra: come è possibile studiare l!uomo al di fuori della società in cui vive e come è
possibile studiare la società senza l!uomo che con le sue relazioni, le sue ripetizioni, le sue
azioni la fonda? Seguendo tuttavia la storia e gli sviluppi delle due discipline emergono dif-
ferenze di nalità, di orientamenti e di procedure che aiutano ad individuare le distinzioni
tra i rispettivi statuti disciplinari.
L!antropologia, negli anni del suo inizio, quale disciplina autonoma ed empiricamente fon-
data ha avuto come suo oggetto privilegiato le società “senza storia”, i gruppi #a tradizione
orale”: anche se il suo ne ultimo era costruire una storia generale dell!evoluzione culturale
della nostra specie e quindi riportare le differenze culturali che andava incontrando alla no-
stra società, per lungo tempo il suo studio si è caratterizzato come lo studio dell!"esotico”,
dell#"!"altro da sé”. Nello stesso periodo la sociologia si poneva come nalità e come campo
di ricerca la società industriale. All!antropologia spettava lo studio delle istituzioni elemen-
tari, della #solidarietà meccanica”, alla sociologia lo studio delle istituzioni occidentali, della
#solidarietà organica”.
A partire dalla metà del XX secolo queste distinzioni sembrano essere venute a cadere, con
gli antropologi a studiare i rapporti tra le diversità dovunque essi si manifestino, nelle cam-
pagne, nelle città, nelle metropoli di tutti i continenti e con la sociologia che apre la sua in-
dagine alle istituzioni e ai raggruppamenti sociali del Terzo Mondo. Tuttavia le differenze
sono ancora evidenti ed è possibile ancora individuare campi di ricerca, obiettivi e metodo-
logie speci ci dell!una e dell!altra: l!antropologia sceglie unità di analisi di piccole dimen-
sioni, per lo più marginali rispetto ai #centri” dominanti e le usa per introdurre nell!analisi
della società globale punti di vista diversi e spesso divergenti. La sociologia da parte sua
pone al centro dei suoi interessi sempre la società globale: anche quando analizza aspetti ri-
stretti (una fabbrica, un gruppo religioso, una scuola) essi sono de niti rispetto alla loro
funzione e al loro signi cato dagli orientamenti della società globale. Una delle caratteristi-
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che più precipue dell!antropologia e che la allontana da tutte le altre scienze sociali, sociolo-
gia compresa, è il punto di vista che essa sceglie nelle sue ricerche: operando una forte
azioni di decentramento rispetto all!universo culturale della società in cui essa si è originata,
l!antropologia cerca di adottare il punto di vista dell!indigeno con la nalità di tradurre que-
sto stile di vita in termini comprensibili per i suoi lettori. E in questo sforzo l!antropologo
tenta di trovare linguaggi e codici espressivi che riferiscano la particolarità e la speci cità
culturale che sta descrivendo a signi cati generali e possibilmente universali. La maggio-
ranza delle ricerche sociologiche, invece, privilegia il punto di vista dell!osservatore: come
scrive Claude Lévi-Strauss, #nello sforzo di cogliere interpretazioni e signi cati, il sociologo
mira a spiegare anzitutto la propria società”, applicando ai fenomeni che studia il punto di
vista della società globale che ha prodotto la sua disciplina. E senza dubbio minoritarie sono
in sociologia le ricerche che esaminando gruppi #marginali” pongono in rapporto i signi ca-
ti che aspetti del loro vissuto hanno sia per loro che per la società maggioritaria.
In de nitiva l!antropologia tenta di interpretare l!universale, il generale, oggi diremmo il
globale, a partire da unità di analisi ristrette, da piccoli gruppi, oggi diremmo dal locale: La
sociologia dal canto suo anche quando lavora su unità ristrette focalizza il suo studio sulla
società globale. A parte le eccezioni di studiosi che nell!ambito delle due discipline hanno
sottolineato l!importanza del metodo comparativo ed hanno perciò trasceso l!una – l!antro-
pologia – lo studio del caso e l!altra – la sociologia – i con ni della società industriale, la
prima si caratterizza per il forte accento qualitativo delle sue ricerche, la seconda privilegia
gli orientamenti empirici e quantitativi. L!antropologia contemporanea, privilegiando un
collegamento diretto con la produzione artistica ed in particolare con la letteratura e la criti-
ca letteraria, sta sviluppando nuovi piani metodologici, aprendosi a nuove piste di ricerca, a
nuove interpretazioni che la mettono in grado di entrare in ambiti sinora poco esplorati o
seguiti da autori considerati eccentrici o addirittura marginali. E alludo, per citare solo i più
noti, a Carlos Castaneda e a Michel Leiris. All!incrocio tra più discipline e più interessi –
l!etnogra a, la storia, la critica letteraria – si sviluppa la rubrica di studi denominata, nei
paesi anglo-sassoni, #critica post-coloniale”. Autori quali Edward Said, Gyan Prakash, Homi
Bhabha si rivolgono all!analisi della cultura contemporanea con l!intento di individuare il
modello globale della #cultura coloniale” che coinvolge non solo i popoli colonizzati ma an-
che i colonizzatori. In particolare lo sforzo di questa rubrica è teso ad individuare la circola-
rità delle relazioni tra colonizzati e colonizzatori, insospettata quando dicotomie quali occi-
dentali/orientali, civilizzati/selvaggi, sviluppati/sottosviluppati erano introdotte nelle scienze
sociali, nella pratica politica, nel senso comune e nella vita quotidiana, per ridurre una gran-
de complessità di interazioni diverse e di contatti molteplici e differenziati ad una logica
stringente e binaria: sé/altro da sé. La linearità tranquillizzante delle categorie storiche tradi-
zionali si rompe quando, tramite l!analisi della letteratura, è fatta emergere la componente
emotiva del rapporto negro/bianco, colono/indigeno,/servo/padrone. In altre parole, è lo
stridente contrasto della #Dichiarazione dei diritti dell!uomo”, proclamata fra le baracche
delle megalopoli asiatiche e le bidonvilles del Sud America e dell!Africa, che colpisce al
cuore l!Illuminismo europeo, è soffocare la paura della ribellione dell!indigeno sotto falsi
comportamenti egualitari che fa esplodere la furia del razzismo. Attraverso la lettura di auto-

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ri quali Joseph Conrad, Jane Austin, Salman Rushdie, Nadine Gordimer vengono indagate,
da antropologi e critici letterari, le forme dello sviluppo del potere coloniale e il loro agire
sulle identità culturali, vengono messe a nude #le intersezioni tra le dimensioni di classe, di
razza, di genere, di nazione, di territorio e di luogo, culturalmente differenti”. Dalla lettera-
tura si parte per valutare le #strutture del sentimento” che regolano la nzione della realtà
ma producono allo stesso tempo un nuovo senso per vivere la nostra realtà. Le trasforma-
zioni della contemporaneità hanno inevitabilmente investito lo scenario urbano e la stessa
cultura della città, dif cilmente rappresentabile in termini di modelli sociali e spaziali ri-
conducibili alla dialettica tra centro e periferia, all!opposizione tra cultura dominante – pro-
pria del #centro” – e culture subalterne – proprie delle #periferie”. Questi modelli – veri e
propri #tipi ideali” – che sono stati alla base della maggioranza delle analisi sociologiche ed
antropologiche del XX secolo ruotavano intorno ad alcune idee cardine: un!organizzazione
concentrica delle differenze attorno un nucleo dominante in cui si coagula il potere e la ric-
chezza che diminuiscono man mano che ci si sposta nelle zone circostanti; e l!inevitabile
conseguenza è quella di ipotizzare che stili di vita diversi si sviluppino a seconda delle loca-
lità in cui si elaborano e si manifestano. Il centro – in questo quadro – avrebbe una forte ca-
pacità di in uenzare abitudini, valori, comportamenti sia estendendo la sua in uenza nelle
periferie, sia modellando abitudini, valori, comportamenti dei gruppi che dalle periferie si
spostano verso il centro. All!interno di questa concezione si sviluppa anche l!idea di un
mondo popolato da una congerie di comunità facilmente identi cabili in quanto saldamente
ancorate ad uno speci co territorio. Se le aree rurali sono considerate il luogo ideale del loro
sviluppo, lo stesso tessuto urbano è visto come un agglomerato di comunità, molte delle
quali alimentate dagli spostamenti dei gruppi che accorrono nelle città richiamati dalle spe-
ranze di una vita migliore. In questo modello le relazioni sociali dei membri delle comunità,
rurali o urbane che siano, appaiono particolarmente intense, strettamente collegate allo spa-
zio che è vissuto come proprio e che è considerato lo scenario cui adattare comportamenti
ed atteggiamenti. Il contatto tra le diversità è considerato soprattutto in termini di opposi-
zioni spesso irriducibili, superabili solo con l!abbandono dei propri modelli per aderire to-
talmente a quelli del gruppo dominante. E!"evidente che queste rappresentazioni della vita
sociale di questo genere implicano di porre alla base della cultura dei singoli gruppi comu-
nanza di intenti e coerenza di valori: come ha notato Roger Rouse, questi presupposti sono
presenti sia nel sogno funzionalista di uno spazio in cui le istituzioni si modellano armoni-
camente per formare una totalità integrata sia nella visione strutturale di uno stile di vita
condiviso che non si manifesta solo in una molteplicità di azioni simili ma anche in una coe-
rente e profonda adesione ad un!unica con gurazione di valori, di regole e di fedi (R. Rouse,
2001). In base alle prospettive aperte da queste impostazioni teoriche e ad un tempo meto-
dologiche, l!eterogeneità e la complessità prorompente nei mondi contemporanei sono con-
siderate o interazioni super ciali fra comunità diverse che hanno scarsa capacità comunica-
tiva o momenti di passaggio da una forma di assimilazione all!altra, da un ordine sociocultu-
rale all!altro. Questo modello di interpretazione della realtà socioculturale che in un certo
senso ha guidato anche la visione dei rapporti tra Occidente e Terzo Mondo, con l!Occidente
a rappresentare il centro - la città - e il Terzo Mondo a rappresentare tout court la periferia -
la ruralità - è stato travolto dai cambiamenti esplosi a partire dalla seconda metà del XX se-
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colo e che ho cercato di delineare nella lezione dedicata allo #spazio culturale”. Ed assai in-
genuo appare il tentativo di riproporlo, in un certo senso di tenerlo in vita, attribuendo al lo-
cale le qualità comunitarie e al globale quelle del centro. L!interdipendenza che le economie
di tutti i continenti stanno producendo genera un acuirsi della cultura della disuguaglianza,
con i paesi ricchi sempre più ricchi, i paesi poveri sempre più irrimediabilmente poveri, con
una trasversalità della povertà che investe – anche se in proporzioni per ora molto differen-
ziate – gli emarginati dei paesi ricchi e le masse diseredate dei paesi poveri. Allo stesso
tempo questa stessa interdipendenza crea in tutte le aree del mondo nuove élites, simili le
une alle altre se non per metodi di governo, per i linguaggi e i codici comunicativi tutti im-
prontati alla logica del mercato e del pro tto; certamente simili per il divario sempre mag-
giore, in termini di ricchezza, di facilità e di opportunità di vita, che le separa dalla maggio-
ranza dei loro concittadini.
Le innovazioni tecnologiche accomunano nella produzione e nella fruizione interi continenti
ma al loro interno, all!interno delle loro stesse città, si riaprono fra i diversi gruppi lacera-
zioni dolorose e vistose distinzioni. Ogni diversità culturale da secoli ha conosciuto/subito il
contatto con altri stili di vita, con altri modelli, in parte li ha assimilati, in parte li ha respin-
ti. Ma oggi la stessa opposizione che le #alterità” manifestano nei confronti dell!Occidente
appare attraversata da una forte volontà mimetica e che fa loro desiderare – almeno in parte
–anche beni, tecnologie, valori e stili estetici dell!odiato Occidente (R. Girard ,1999; 2002 ).
Non solo le élites, non solo i beni di consumo e i divertimenti sono globalizzati ma è globa-
lizzata anche la passività politica, anche la sottoistruzione, lo sono anche le bidonvilles di
tutto il mondo. E gli spazi appaiono inde niti e molteplici, i tempi dei #radicamenti” irrego-
lari e uttuanti, i comportamenti più svariati si alternano e si mescolano. Le città sperimen-
tano i processi di globalizzazione nelle loro articolazioni istituzionali, nei loro ritmi di vita,
nelle relazioni che favoriscono tra i diversi gruppi - sociali, generazionali, etnici, sessuali –
che le abitano. Sarebbe tuttavia sbagliato ritenere che la localizzazione appartenga tutta e
solo alla campagna: la pluralità culturale delle città consiste anche nella costante presenza di
localismi e nella continua elaborazione urbana del rapporto tra locale e globale. E!"infatti il
tessuto urbano che fornisce sfondo, scenario e materiali alla celebrazione di rituali e festività
proprie di un gruppo che vuole affermare non solo la sua memoria e la sua diversità ma an-
che il suo inserimento e il suo status nel nuovo contesto in cui si trova a vivere. E i mezzi di
comunicazione di massa, impadronendosi dell!evento, congiungono la sua presenza non tan-
to e non solo al luogo originario ma piuttosto immettono i nuovi eventi e i loro protagonisti
nella rete che congiunge le molte città in cui risiedono i gruppi emigrati dalle stesse patrie.
Alimenti, musiche, indumenti, produzioni artistiche ed artigianali possono nascere come
rimpianto, come rivendicazione di una orgogliosa separatezza identitaria: tuttavia i contatti
frammentari, le connessioni inaspettate che li invadono nel uire della vita urbana, li tra-
sformano, cancellano rapidamente i caratteri localistici, li rendono tutti – complice un mer-
cato sempre più vorace – oggetti di processi globali (M. Callari Galli, 2000). Usando altre
parole, forse è necessario non vivere in termini oppositivi globale e locale ma immaginare
un incessante processo di deterritorializzazione che investe tanto il processo di globalizza-
zione quanto le forme che assume il localismo; l!invito è a non usare più concetti quali etni-
cità e identità per riaffermare i vecchi miti della premodernità, e a considerarli, invece,
come processi dinamici che si costruiscono attraverso le pratiche dei contatti culturali. E si
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deve alla ri essione di Michel Foucault aver intuito che lo spazio, nella nostra contempora-
neità, #ci si offre sotto forma di relazioni di dislocazione” (M: Foucault, 1994, p. 13): è la
dislocazione che sostituisce sia la localizzazione propria della concezione spaziale medieva-
le che l!estensione con cui il pensiero galileiano l!aveva sostituita. Così il tempo storico che
aveva costituito il fulcro dell!organizzazione politica e culturale del XIX secolo con le sue
diadi #sviluppo/sottosviluppo”, #progresso/tradizione”, per Foucault nella contemporaneità è
sostituito proprio dallo spazio: non più quindi una grande storia che si sviluppa nel tempo
ma una #rete che incrocia dei punti e intreccia la sua matassa”. Non è semplice individuare il
contributo che le discipline antropologiche possano dare alla lettura di queste nuove realtà
culturali, ancora uide e colme di contraddizioni. Una strada proposta negli ultimi anni sot-
topone ad una critica serrata l'idea -profondamente radicata nel pensiero e nel vissuto del-
l'Occidente contemporaneo - che considera i modelli di comunità e le attrazioni verso il lo-
calismo quali entità naturali ed innate: in effetti mi sembra che applicando anche ad essi i
principi epistemologici della nostra metodologia sia possibile ricondurli alla loro culturalità,
considerandoli risultati di pratiche politiche e sociali che formano le identità. Dobbiamo
cercare di sfuggire alle trappole della "meta sica della sedentarietà" (L. H. Malkki, 1997, p.
61), del resto totalmente contraria ai risultati delle ricerche e degli studi sulla storia della no-
stra specie: non dobbiamo considerare come ovvii e inevitabili il radicamento e l'attacca-
mento alla propria comunità, ri utare di accettare acriticamente che le potenzialità affettive
e i principi identitari scaturiscano unicamente ed automaticamente dalle esperienze legate ai
luoghi in cui si vive e dalle relazioni quotidiane degli incontri "faccia a faccia". Sarà allora
più facile vedere che l'esperienza apparentemente immediate e diretta della vita comunitaria,
in realtà è costituita da un ben più ampio apparato di relazioni sociali e spaziali. Ed oggi
sempre più numerosi sono gli studi culturali che mirano a fondare un'analisi della contem-
poraneità ponendo al centro dei loro interessi la diffusione dei fenomeni della globalizza-
zione, accompagnati, sostenuti, contraddetti da una cultura ad un tempo globale e frammen-
tata, deterritorializzata e localistica. In particolare, attraggono la loro attenzione l'intreccio
del locale e del globale, la connessione tra globalizzazione e l'emergenza di nuove forme di
esclusione e di ineguaglianza, la relazione tra la transnazionalizzazione dei contesti speci ci
e la riarticolazione contestuale dei ussi transnazionali - umani, nanziari, di immagini,
idee, informazioni (Appadurai, 1996; Callari Galli, 2000). Sempre più le pluralità culturali
che affollano la società contemporanea sembrano trovare la loro espressione più compiuta
nel tessuto delle città di tutti continenti. Per descrivere questo pullulare di andirivieni, per
individuare le tensioni dell!ordine/disordine cittadino, gli studi antropologici abbandonano
lo schema teorico che ipotizza una dinamica culturale che si svolga interamente tra sistemi
socioculturali unitari e saldamente legati ad un territorio e preferiscono parlare di culture
#ibride” (N. G. Canclini, 1989), di #orizzonti culturali” (A. Appadurai,2001 [1992]), di #con-
taminazioni”(M. Callari Galli, 1996), di #logiche meticce” (J-L. Amselle, 2001 [1990]), di
#strade” (J. Clifford, 1997). E forse vanno qui ricordate alcune anticipazioni che immagina-
vano ampi panorami in cui iscrivere vasti aggregati di popolazioni, diverse sotto molti
aspetti culturali ma riuni cate da alcuni caratteri generali che determinavano somiglianze
più pregnanti delle singole speci cità: alludo alle elaborazioni sulla

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#Cultura della povertà” proposte da Oscar Lewis negli anni !60 proposte da Callari Galli e
Harrison negli anni !70. James Clifford auspica che l!analisi antropologica sappia contem-
plare accanto ai #centri”, ai villaggi, alle negoziazioni interne al gruppo anche i luoghi di
passaggio, le mediazioni con i viaggiatori, gli spazi continuamente spostati e attraversati.
Con questa prospettiva si confondono i limiti tra #centro” e #periferie”, nuovi attori sociali
emergono come protagonisti delle dinamiche culturali: traduttori, missionari, esploratori,
amministratori degli aiuti internazionali, turisti, gruppi migranti, #rifugiati”, lavoratori pen-
dolari e stagionali. (Bhabha, 1994, 1997). Mi domando se per individuare ed analizzare
l!immediatezza – direi quasi la voracità – dei processi di ibridazione contemporanei, non sia
necessario proporre categorie interpretative più accurate. A questo proposito potrebbe essere
utile seguire le suggestioni di Michail Bachtin che ha distinto tra due forme di #ibridismo”,
l!uno #organico” proprio di tutti gli incontri culturali avvenuti in tutte le epoche e l!altro #in-
tenzionale” che riguarda l!inserimento nei processi di ibridismo della ricerca di #shock” este-
tici. Ed oggi forse questa ricerca di shock dall!ambito estetico si è estesa a tutte le forme di
produzione e fruizione culturale. Sarebbe soprattutto importante individuare categorie che
consentano di esaminare i diversi ibridismi, le diverse contaminazioni, riferendole ai diversi
contesti in cui si veri cano e al tempo stesso permettano di considerare, nell!esplicitare le
loro dinamiche, il ruolo esercitato dal differenziale di potere esistente tra le diverse parti in
contatto. Questa contestualizzazione deve spingersi sino ad esaminare con metodo etnogra-
co i meccanismi dei fenomeni di ibridismo per evitare che si guardi alle contaminazioni, ai
metissages con atteggiamenti ottimistici e tutto sommato irresponsabili: le continue mesco-
lanze, che avvengono con un ritmo frenetico e dif cile da seguire, si differenziano per i loro
dinamismi e per i loro obiettivi, spesso sono subite come pratiche inevitabili, talvolta sono
indotte a scopi di proselitismo politico o religioso, riguardano piccoli gruppi o popolazioni
intere, mescolano passato e futuro, tecnologie e fedi religiose. E le politiche occidentali del
multiculturalismo ancora devono chiarire i loro rapporti da un lato con i fenomeni di ibridi-
smo e dall!altro con le identità etniche e religiose. Gli intrecci tra locale e globale, tra la
transnazionalizzazione dei contesti speci ci e la riarticolazione contestuale dei ussi trans-
nazionali (umani, nanziari, di immagini, idee, informazioni) sono oggi gli elementi che
formano la cultura della città (R. Grillo, 2000; S. Vertovec, A. Cohen, 2002). A partire dalla
metà del secolo scorso a causa di una molteplicità di fattori – guerre, violenze politiche, po-
vertà, sovrappopolazione – le città del mondo occidentale hanno costituito il polo di attra-
zione per milioni di persone, ansiose di trovare, nel mondo del benessere una speranza di
vita. Le #città altre”, quelle da cui provengono queste masse di individui, non sono solo col-
lettrici dei modelli della modernizzazione ma sono anche elaboratrici di nuovi modelli che
si riversano nelle politiche di globalizzazione, assumendo, a volte, l!aspetto di resistenze e di
riterritorializzazioni piene di minacce; la presenza, nelle città occidentali, di gruppi umani
provenienti da tutti i continenti è massiccia ed estremamente variegata: cubani, haitiani, por-
toricani, cambogiani, vietnamiti, algerini, marocchini, tunisini, turchi, albanesi, romeni, se-
negalesi, polacchi rappresentano sul palcoscenico urbano differenti stili di vita in un mondo
che sembra ridurre sempre più la sua estensione: sono questi i soggetti nomadi che attingo-
no per elaborare le loro rappresentazioni culturali da signi cati molteplici e variegati, che
realizzano spesso veri e propri bricolage spontanei generati dalla loro capacità di collocarsi

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simultaneamente all!incrocio fra più culture. Le identità e le esperienze migratorie sono vis-
sute in modo del tutto nuovo rispetto al passato, anche a quello più recente: nelle città, gra-
zie alla complessità dei mezzi di comunicazione a disposizione di un larghissimo pubblico,
si realizzano processi nuovi attraverso i quali i migranti tessono reti e mantengono relazioni
sociali multiple che collegano non solo le loro società d!origine a quelle d!approdo ma trava-
licando con ni amministrativi e politici li collegano anche ad altri centri urbani sparsi in
lontane aree geogra che. I gruppi migranti formano, trasferendosi nelle città, un tessuto che
è stato de nito di #legame diasporico” (J. Inda, R. Rosaldo, 2001, p. 19) intendendo, con
tale speci cazione dar valore alle af nità molteplici – plurali e non più duali – che i soggetti
del nomadismo contemporaneo stabiliscono con le diverse località che punteggiano i loro
spostamenti, coinvolgendosi in contesti – culturali, politici, economici, sociali – che appar-
tengono a molteplici territori. Come ha scritto Stuart Hall,”vi sono popoli che appartengono
a più di un mondo, parlano (letteralmente e metaforicamente) più di una lingua, dimorano in
più identità, hanno più di un focolare; esistono gruppi che hanno appreso a tradurre, a nego-
ziare cioè tra le diverse culture e che, essendo irrevocabilmente il prodotto di numerosi in-
trecci biogra ci e culturali hanno appreso a vivere con la differenza, a parlare delle differen-
ze. Parlano tra gli #interstizi” di culture diverse, pronti sempre a spostare le assunzioni di
una cultura muovendo dalle prospettive di un!altra: e trovano così il modo di essere contem-
poraneamente gli stessi e i diversi rispetto agli altri in mezzo ai quali vivono” (S. Hall,
1995, p. 206). La maggior parte della letteratura continua a considerare il usso migratorio
come un movimento che consiste in un solo spostamento di individui che da soli o in grup-
po lasciano la loro comunità per inserirsi nel luogo di attrazione economica. Ed invece mol-
te realtà urbane ci parlano di gruppi che sperimentano nell!arco della loro vita molteplici
movimenti migratori: o che nella storia delle loro identità collettive conservano memoria di
migrazioni che hanno portato i loro genitori in più continenti. Seguendo esperienze migrato-
rie multiple, di individui provenienti in Europa o negli Stati Uniti dall!Asia ma che avevano
fatto una prima tappa in Africa, si sono individuati modelli culturali di interazioni con le
economie e con i sistemi di atteggiamenti/comportamenti molto diversi da quelli propri di
gruppi o di individui che pur provenendo dalle stesse aree asiatiche si sono direttamente in-
sediati nelle città europee o statunitensi. Mentre questi in genere si caratterizzano per un for-
te legame con la comunità di origine e per un!ambivalente aspirazione sia ad integrarsi nella
nuova realtà sia a coltivare #i miti del ritorno”, coloro che hanno sperimentato una serie di
migrazioni, possiedono una notevole abilità nel gestire il loro status di minoranza, nella ri-
costruzione della loro etnicità, nella negoziazione all!interno del tessuto urbano dei loro si-
stemi culturali. Nella storia di gruppi che dall!Asia hanno migrato prima verso il continente
africano per poi muovere da qui alla volta dell!Europa che hanno poi abbandonato per gli
Stati Uniti, si è consolidato un modello di emigrazione che si colloca in un milieu interna-
zionale costituito dai legami con nazioni e città diverse: quelle di partenze e quelle che han-
no segnato le tappe di un!emigrazione a volte vecchia di decenni e che comunque attraversa
con i suoi successivi spostamenti tutta la vita. Uno studio svolto da Parminder Bachu dimo-
stra che le identità culturali di donne provenienti dall!Asia e che hanno sperimentato in Eu-
ropa molteplici esperienze migratorie si affermano in base al rapporto con un dinamico e
ricco contesto internazionale in cui si collocano con genuina e spontanea consapevolezza,

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sfuggendo così alla sterile dicotomia tra la fedeltà alla cultura d!origine e le aspettative –
spesso deluse – della cultura di accoglienza. “ Le loro collocazioni culturali – scrive Bachu
– il loro stile di vita non sono interamente de niti dall!esclusione o da una consapevole imi-
tazione di questa o quella subcultura ma anche dalla loro naturale familiarità con economie
particolari e con diverse culture materiali e simboliche di cui si impadroniscono, che tra-
sformano, reinterpretano e riproducono nei contesti locali, nazionali e internazionali: ni-
scono così per generare nuove forme culturali in contesti transnazionali continuamente mu-
tevoli” (P. Bachu, 1996, p. 299). Uno degli effetti più macroscopici delle interconnessioni e
degli incroci di questi ussi culturali, risiede nell!impossibilità di considerare i processi di
globalizzazione come se fossero determinati solo ed esclusivamente dalla cultura occidenta-
le: se il #Terzo Mondo” è entrato nelle città del #Primo Mondo” e il #Primo Mondo” è entra-
to nelle città del #Terzo Mondo” diviene estremamente dif cile individuare con certezza gli
ambiti di reciproca in uenza ed indicare i loro con ni. Molte categorie geopolitiche hanno
ancora validità ma in un mondo attraversato da continui movimenti di gruppi umani, di ca-
pitali nanziari, di valori e di stili di vita è dif cile indicare quali di queste categorie sia uti-
le applicare negli speci ci contesti. Molti sono gli esempi fornitici dagli studi urbani che
indicano come oggi in molti contesti occidentali interi quartieri cittadini subiscano un vero e
proprio processo di #terzomondizzazione” . Seguendo le analisi di Michel de Certau (1974)
sulla produzione culturale dello spazio urbano, possiamo assumere che l!espressione #Terzo
Mondo” denoti una rappresentazione sociale e non una località: molte volte, nelle nostre cit-
tà, accade che un quartiere sia abbandonato da gruppi di residenti appartenenti alla classe
media, ansiosi di abitare in luoghi più prestigiosi ed esclusivi e che sia progressivamente
occupato da gruppi appartenenti a fasce più indigenti della popolazione. Rapidamente si
viene a costituire un habitat completamente diverso da quello precedente e che mal si adatta
alle immagini tradizionali dei centri urbani occidentali: i suoi abitanti sono sottoccupati, ab-
bandonati dai sistemi del welfare generalmente in crisi in tutta Europa e le loro rimostranze
collettive sono spesso represse dalle forze dell!ordine. Il quartiere per i suoi nuovi ritmi di
vita, per la relazione di sfruttamento che si instaura con i quartieri con nanti, diviene un
vero e proprio #Terzo Mondo” all!interno del #Primo” e in esso si mescolano immigrati rego-
lari e clandestini, cittadini residenti da generazioni nella città ma vittime delle economie
post-fordiste e dei rovesci economici conseguenti ai nuovi andamenti del mondo del lavoro,
uomini e donne appartenenti al mondo della devianza. Mi piace ricorrere ad una testimo-
nianza antropologica per segnalare il senso di #spaesamento”, di #dislocazione” che attraver-
sare uno di questi quartieri può procurare anche ad un viaggiatore esperto di #mondi altri da
noi”. Dopo aver fatto ricerca per alcuni anni ad Haiti, l!antropologa Karen McCarthy Brown
spostò la sua attenzione etnogra ca su un quartiere di New York e così descrive il suo primo
contatto con il suo nuovo oggetto di studio:”Le nostre narici si riempirono di odore di car-
bone e di carne arrostita mentre le nostre orecchie erano frastornate da frammenti sonori di
reggae, di salsa e di quella monotonia fragorosa che gli haitiani chiamano jazz. Potevo co-
gliere conversazioni animate in un misto di haitiano, di creolo, di spagnolo e in più di un
dialetto inglese dai toni lirici. La strada presentava un patchwork di negozi: Chicka-Licka, il
Bazar Ashanti, un ristorante haitiano, una #farmacia” delle Religioni Africane del Nuovo
Mondo che offriva pozioni e polveri che assicuravano immediata fortuna, rapide guarigioni

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e le candele votive con il marchio delle Sette Potenze Africane. Mi trovavo a poche miglia
dalla mia casa di Manhattan ma mi sembrava di aver imboccato una strada sbagliata, di es-
sere scivolata in un baratro apertosi tra mondi diversi e di essere emersa nella strada princi-
pale di una città tropicale” ( K. McCarthy Brown, 1991, p. 1).L!analisi culturale dei tessuti
urbani dimostra che molti quartieri, del centro storico come delle periferie di molte città oc-
cidentali, sono divenuti veri e propri crogiuoli di gruppi e di culture diverse che vivono an-
co a anco dispiegando una grande eterogeneità di modelli comportamentali, di valori etici,
di fedi religiose, di sistemi di atteggiamenti. Sotto il peso delle dinamiche che si stabilisco-
no tra di essi, la stessa identità dei cittadini che da generazioni risiedono nelle metropoli oc-
cidentali subisce cambiamenti e variazioni così notevoli che molti autori si domandano se
sotto il peso di questi incontri/scontri non si stia trasformando l!intero contesto identitario
dell!Occidente. Dick Hebdige, un attento studioso delle culture giovanili delle città contem-
poranee, ci ha riportato una serie di commenti raccolti, a metà degli anni !80, durante una
sua ricerca sulla diffusione del reggae tra i giovani inglesi risiedenti da generazioni a Bir-
minghan. Così si esprime un suo giovane #informatore”: #Non esiste più una cosa come #In-
ghilterra”, non più... Benvenuti in India, fratelli! Questi sono i Carabi!...la Nigeria!...L!In-
ghilterra non c’è più, amico. Questo è quello che sta arrivando. Balsall Heath è il centro del-
l!incontro di tutti i popoli perché tutto quello che vedo quando esco sono mezzi arabi, mezzi
pakistani, mezzi giamaicani, mezzi scozzesi, mezzi irlandesi. So ben io, che sono mezzo
scozzese e mezzo irlandese...chi sono? Dimmi, a chi appartengo? Tu sai, sono stato allevato
con neri, pakistani, africani, asiatici, ogni cosa che vuoi nominare. A chi appartengo? Sono
una persona ampia. La terra è mia...sai non sono nato in Giamaica,...non sono nato in %In-
ghilterra!. . Noi siamo nati qui, uomo” (D. Hebdige, 1987, p. 158-9). Di fronte al fallimento
di costruire una identità unitaria, la discussione sull!identità nazionale, messa in dif coltà
soprattutto dai processi di globalizzazione con la loro dinamica interna di localismi e di ri-
territorializzazioni, diviene una discussione sul pericolo che per la stabilità sociale di un
paese rappresentano i ussi migratori. Con il variare degli avvenimenti storici, con il mutare
delle relazioni internazionali, i timori si accentrano di volta in volta su questo o quel gruppo,
le cui espressioni culturali vengono presentate mettendo in luce, tra i molti, solo quegli
aspetti che appaiono così divergenti da quelli occidentali da essere considerati inassimilabili
e irriducibili ad ogni forma di negoziazione e di mediazione. E!"il caso in questi ultimi tempi
degli immigrati che provenienti dal Terzo Mondo – in particolare dalle regioni del Maghreb
– si sono stabiliti ormai da generazioni nelle aree metropolitane europee. Indipendentemente
dal possesso della cittadinanza del paese europeo in cui risiedono, l!opinione pubblica pre-
dominante in Europa continua a considerarli stranieri che intendono rimanere ancorati alla
cultura algerina, marocchina o tunisina: comunque, araba. Se questo sentimento di apparte-
nenza era riscontrabile, in questo gruppo, fra gli immigrati di prima generazione che conti-
nuavano a sentirsi legati ai valori islamici avendo per tutta la vita reagito alle diverse forme
di esclusione cui erano sottoposti chiudendosi all!interno della propria comunità, oggi esso
non appartiene più ai loro gli. O almeno non alla maggioranza di loro che non conoscono
le terre africane dei loro padri e che cercano di resistere ai richiami di una propaganda poli-
tica che proveniente anche da paesi lontani cerca di distoglierli dal tentativo di costruire
percorsi vivibili all!interno dei milieu urbani in cui sono vissuti sin dalla nascita: i centri sto-

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rici degradati e quei quartieri brulli, privi di arredi urbani, dalle costruzioni massicce - veri e
propri alveari abitativi – privi di servizi pubblici, con istituzioni scolastiche di bassa qualità:
quei quartieri che sono stati de niti #incubi solitari di architetti modernisti”, percorsi dalla
sottoccupazione e dalla disoccupazione, in cui la violenza della malavita si alterna alla vio-
lenza delle forze dell!ordine. Anche se progettati da architetti famosi, questi quartieri perife-
rici mostrano con il loro degrado, con la violenza che si dispiega nelle loro strade e nelle
loro abitazioni, una marginalizzazione analoga a quella che riscontriamo in quei settori dei
centro storici abbandonati dai residenti; ed essa è ad un tempo spaziale ed economica. Sui
loro abitanti si è esercitata la manovra di #etnicizzare” la forza lavoro per fornire, nell!era
della #specializzazione essibile” una #riserva” di manodopera non specializzata e soprattut-
to disperata. A partire dagli anni !80, gli uomini del degrado urbane trovano lavoro con sem-
pre maggiori dif coltà mentre il loro #posto” è offerto a donne e a giovani alla loro prima
occupazione che, con maggiore facilità, possono essere sottopagati e mantenuti in posizioni
lavorative di precariato. Come ho già detto, i processi della globalizzazione hanno reso
sempre più misti questi quartieri e la loro composizione da un punto di vista etnico è diso-
mogenea, in quanto accanto ai ragazzi e alle famiglie arabe, vivono uomini e donne prove-
nienti dai paesi dell!Europa orientale, dal centro dell!Africa,dalle isole dell!Indonesia, dal
Pakistan e dall!India. E i mass media riversano senza sosta, su di loro come su di noi, mes-
saggi fortemente contraddittori: la documentazione delle rivolte urbane scoppiate, negli anni
!90, in tutto il mondo occidentale, i richiami dei grandi raduni musicali e sportivi, le manife-
stazioni no-global e la vittoria dei contadini del Chiapas, il drammatico attentato terroristico
alle #torri gemelle”, i bombardamenti in Afganisthan, le violenze della guerra in Palestina.
In questa congerie di tensioni spesso altamente drammatiche è dif cile dire se sarà possibile
costruire all!interno delle nostre città una socialità in cui le nuove generazioni – tutte, quelle
da decenni europee e quelle recentemente arrivate , quelle che vivono nelle periferie e quel-
le che vivono nei quartieri residenziali - possano trovare percorsi di convivenza. Oltre a dei
cambiamenti radicali nell!economia, utopici quanto si vuole ma a cui non dovremmo rinun-
ciare se non altro per non condannare le nostre città ad essere teatri di violenze e di rivolta, è
necessario immaginare politiche e strategie che mettendo in moto nuovi processi identitari
facciano appartenere residenti ed immigrati ad una nuova cultura urbana, insieme europea e
africana e asiatica e mediorientale. Sino a qualche decennio fa la maggior parte delle scien-
ze umane riservavano un sottile disprezzo per lo studio della contemporaneità. Siamo stati
abituati dai pensieri dominanti in Occidente nel XVIII e XIX secolo a credere nella #storia
come realizzazione della civiltà e , dispiegamento evolutivo della forma dell!uomo moder-
no”; abituati a sognare #mondi oltre questo mondo” ci siamo rivolti con fatica all!analisi del
presente, con fatica abbiamo iniziato ad osservarlo, a viverlo per quello che è. E ancora
maggiori sono le dif coltà che incontriamo ad introdurlo nei nostri modelli di trasmissione
culturale, nelle discipline che costituiscono i nuclei del nostro sapere. Molte sono le dottrine
che hanno alimentato sospetti e dif denze per la vita presente, rimandando spiegazioni e
soddisfazioni a una vita trascendente, comunque futura; così come numerose sono le teorie
loso che che si sono sforzate di dimostrare #l!infamia dell!esistente” a paragone di ciò che
avverrà nel futuro. Tuttavia dopo la presa di distanza di gran parte del pensiero contempora-
neo dal progetto illuminista e dagli orientamenti politici e loso ci del XIX e del XX seco-
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lo, i caratteri propri della nostra vita quotidiana e le dinamiche della trasmissione culturale
in atto, ci sollecitano a riportano il presente, il quotidiano, al centro delle nostre analisi e
delle nostre ri essioni. E!" dif cile de nire la società contemporanea poiché è una società
dalle relazioni così complesse da apparire sovente confusa: a volte essa sembra allargarsi,
con i suoi messaggi, le sue interdipendenze, i suoi obiettivi sino a comprendere l!intera su-
per cie terrestre: e si parla allora di società planetaria. A volte, al contrario sembra restrin-
gersi entro i con ni di uno stato , di una regione, entro le mura di una città, di un quartiere,
addirittura di una casa. La nostra epoca è caratterizzata da una sempre crescente mobilità
degli individui che la abitano: si nasce ricchi in Bangladesh e si allevano i propri gli nei
quartieri popolari di una grande città europea; si diventa aharagas, ovvero #si brucia” il pro-
prio passato aggrappati ad un!imbarcazione troppo affollata che, con un po!"di fortuna ci farà
attraversare il Mediterraneo da Sud verso Nord; si passa la propria giovinezza all!estero per
completare gli studi; si trascorrono le vacanze in paesi lontani alla ricerca di evasione, esoti-
smo o conoscenza; si #soggiorna” in campi profughi e dalla loro rete invalicabile si osserva-
no pezzi di un mondo che, visto dalla televisione, sembrava ben più allettante. Ogni anno
quasi seicento milioni di individui varcano un con ne internazionale per seguire le mode e
le occasioni del turismo di massa, mentre sono centinaia di milioni le persone – donne e
uomini soli, famiglie, interi gruppi – che emigrano per motivi economici, si ritrovano esuli o
profughi a seguito di con itti e deportazioni; o scelgono semplicemente di vivere all!estero,
disegnando così i loro destini all!interno di spazi vasti quanto il pianeta. La gura del mi-
grante appare oggi come la più adeguata per descrivere noi stessi e i nostri contemporanei,
poiché anche coloro che nascono, vivono e muoiono nel medesimo luogo, partecipano di un
movimento di dislocazione collettiva attraverso i mass media e le nuove tecnologie comuni-
cative. Ed è proprio in questo che consiste la peculiarità del nostro tempo: televisione, tele-
fono, fax e computer immergono ognuno di noi in un # usso culturale globale” che veicola
non soltanto semplici informazioni ma anche idee, rappresentazioni del mondo, linguaggi,
immaginari collettivi, ideologie. La maggior parte dei linguaggi che ci s orano o ci investo-
no, circola infatti sotto forma di immagine, la quale, come vedremo meglio in una lezione
successiva, #esercita un!in uenza, possiede una forza che eccede di molto l!informazione di
cui è portatrice”(Augè,1993, p.3). Migrazioni e nuovi mezzi di comunicazione di massa di-
vengono i due fattori che quali cano la nostra contemporaneità, sia se vengono analizzati in
sé sia, soprattutto, se prendiamo in considerazione gli esiti insospettati e spesso sorprendenti
delle loro interconnessioni. Nel mondo che abitiamo, disseminato di schermi piccolissimi e
giganti, tutto sembra darsi e farsi in tempo reale, #qui e ora”: nella percezione di ciascuno,
gli avvenimenti si moltiplicano producendo una sorta di accelerazione della storia. Lo spa-
zio attorno a noi si dilata ma paradossalmente si restringe, perché ogni luogo è raggiungibile
in poche ore di volo e qualsiasi messaggio può pervenire in pochi istanti a un destinatario
che sicamente si trova a migliaia di chilometri. Le distanze sono state oggi abolite dai
mezzi di trasporto e di comunicazione che ci circondano: e sempre più facciamo af damen-
to su di essi per informarci, per comunicare, per organizzare le nostre relazioni pubbliche e
private.
Questa riduzione delle distanze ha dato origine ad un nuovo modo di concepire lo spazio:
Paul Virilio in un!intervista apparsa su #Le Monde” nel marzo del 1992, lo de niva #telecit-

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tà”. E nella stessa intervista dichiarava: #A partire dal momento in cui il mondo è ridotto a
niente quanto ad estensione, quanto a durata, quanto a campo di azione, reciprocamente
niente può essere il mondo: io, qui, nel mio rifugio, nel mio ghetto, nel mio appartamento,
io posso essere il mondo; per dirla altrimenti il mondo è dappertutto ma da nessuna parte”.
Del resto, a partire da alcuni decenni, in molte opere d!arte vediamo apparire in modo quasi
prepotente l!annuncio di un nuovo rapporto spazio-temporale che avrebbe travolto, con il
dilagare dei cambiamenti, concetti tradizionali e stili di vita quotidiano. Per rendere evidente
questo riferimento con alcuni accenni molto noti, ricordo le interpretazioni dello spazio pre-
senti nelle opere di Lucio Fontana, con il suo tagliare le super ci per penetrare al di là delle
apparenze; o i lavori cinematogra ci di Jean Rouch, di Eric Rohmer, di Jean-Luc Godard,
con i loro sforzi di costruire uno spazio e un tempo essenzialmente legati e dipendenti dal
processo e dallo stile della narrazione lmica. I mezzi elettronici hanno mutato profonda-
mente l!intero campo della fruizione della comunicazione: i fax e la posta elettronica, le co-
municazioni telefoniche via satellite, le trasmissioni televisive si af ancano e si sovrappon-
gono alla lettura dei quotidiani e dei libri, ai lm proiettati nelle sale cinematogra che, alle
interazioni personali, ai discorsi pronunciati nei luoghi pubblici. Così scrive Arjiun Appadu-
rai: “ (...) i mezzi elettronici delimitano e ricostruiscono un campo molto più vasto in cui la
mediazione della stampa e di tutte le altre forme di comunicazione più tradizionali - orali e
audiovisive che siano – continuano ad essere importanti. Attraverso tali effetti (...), attraver-
so la tensione tra gli spazi pubblici dei cinema e i più esclusivi spazi della fruizione video,
attraverso l!immediatezza della loro inclusione nel discorso pubblico e attraverso la loro
tendenza ad essere associati con le novità, con le mode sensazionali, con l!attrazione co-
smopolita, i mezzi elettronici (siano essi associati alle notizie, alla politica, alla vita familia-
re o all!intrattenimento spettacolare), tendono ad interrogare, sovvertire e trasformare le al-
tre forme di #alfabetizzazione contestuale” (Appadurai, 2001, p. 3). Mentre i richiami e le
sollecitazioni a costruire immaginari collettivi, a perdersi nel gruppo, sono oggi così fre-
quenti, paradossalmente la soggettività sembra accentuarsi, ponendosi sempre più come una
scommessa centrale per i destini individuali. La proliferazione di immagini e di modelli
spesso difformi da quelli in base ai quali siamo stati educati, l!indebolimento di istituzioni
aggreganti quali sindacati, partiti, associazioni confessionali, l!onnipresente inno all’”io”
declamato dalla pubblicità e dalle riviste di moda, ci spingono verso con gurazioni identita-
rie sempre più omogenee e al tempo stesso sempre più singolari. #A ciascuno la propria co-
smologia ma, al contempo, a ciascuno la propria solitudine” (Augé, 1998, p.41). Quello che
oggi appare veramente nuovo è la diffusione della consapevolezza di questi mutamenti, la
percezione, negli immaginari collettivi, di possibilità e di sviluppi molteplici e contraddittori
che attraversano contemporaneamente la vita quotidiana di milioni di individui no a qual-
che decennio fa ignoti gli uni agli altri; ed oggi, essi, almeno a livello virtuale, sono posti
invece gli uni di fronte agli altri. Questi movimenti di individui, di immagini e di messaggi
sono strettamente connessi ai processi di globalizzazione dei mercati economici e sono
spesso determinati da meccanismi nanziari le cui logiche e il cui controllo sfuggono non
soltanto ai cittadini ma anche ai governi nazionali. Essi producono nuove rappresentazioni
culturali e nuovi criteri di aggregazione politica e sociale, mentre sotto il loro impatto altri
sembrano dissolversi o comunque trasformarsi. E nuove identità si formano nell!incrocio e

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nell!ibridazione di esperienze, modelli, consumi e immaginari collettivi dalle provenienze
più eterogenee. L!accelerazione e il moltiplicarsi degli spostamenti di individui e di materia-
li culturali, la velocità e la forza inculturativa delle immagini che passano quotidianamente
davanti agli occhi di un numero sempre crescente di individui, scardinano la rappresenta-
zione delle culture come monadi, come tessere a sé stanti dell!umano mosaico. La trasversa-
lità che in modo estremamente evidente oggi coinvolge l!intero pianeta fa sì che non sia più
possibile immaginare comunità “naturalmente” coese intorno a valori comuni e particolaris-
simi; e non possiamo neanche immaginare comunità i cui membri accettino o ri utino all!u-
nisono l!adesione a modelli tutti interni; né al contrario è possibile ipotizzare l!esistenza di
comunità i cui membri accettino concordemente l!oppressione da parte di un!altra comunità
altrettanto coesa ed univoca nell!accettare le proprie regole o nell!opprimere altri gruppi. I
con itti scoppiati in megalopoli occidentali come Londra, Los Angeles e Parigi o nei grandi
aggregati urbani dell!Oriente, le guerriglie urbane durate giorni, portano alla luce il ribollire
di tensioni, antagonismi e odi che contrappongono coerani e portoricani, afroamericani e
cinesi, cambogiani e vietnamiti, ma anche il disoccupato e il wasp upper class, il precario e
il poliziotto, il militante di SOS Racisme e il suo concittadino che vota Front National,
l!aderente al movimento no-global e il militante del Fronte della Gioventù. Numeroso sono
le forme artistiche #emergenti” che pur descrivendo le lacerazioni fra le differenze, la vio-
lenza coloniale che insegue le sue vittime n nel mondo contemporaneo della decolonizza-
zione, lo sperdimento del migrante, testimoniano le contaminazioni, i meticciati, le trasver-
salità, i nomadismi reali e culturali della nostra epoca. Con una certa casualità, costruisco, a
scopo esempli cativo, una loro rapida carrellata: e ricordo le opere letterarie di Amos Tu-
tuola in cui si fondono lingua inglese e tradizione yoruba; quelle di Hanif Kureishi, #vero
inglese nato da padre pakistano”; i romanzi del bengalese Amitav Ghosh - laureato in antro-
pologia all!Università di Oxford – che incrociano storie, tradizioni, tempi e luoghi diversi
rendendo con grande ef cacia i caratteri delle commistioni della contemporaneità. A queste
accosto il nomadismo e la tradizione che il pittore zairese Chéri Samba rappresenta nelle sue
tele attingendo allo stile dei #fumetti” e servendosi di proverbi africani a cui avvicina fram-
menti di immagini dal saporein parte televisivo e in parte ispirati alle tele di Gauguin #; e le
sculture di Romuald Hazoumé che coniugano arte povera e canoni stilistici tradizionali, pla-
stica e capelli umani. E ancora le #autobiogra e/saggio/romanzo scritte in un francese arric-
chito di lingue creole da Edourd Glissant e Patrick Chamoiseau. Nonostante le lusinghe
consumistico-televisive, nonostante le promesse della #cultura McWorld”, il nostro non è un
mondo in cui le chances di miglioramento della qualità della vita per i suoi abitanti si siano
realmente moltiplicate: ci troviamo piuttosto di fronte ad una umanità che nella sua interez-
za si avvia a prendere dolorosamente coscienza, oltre che della differenza, del divario in-
colmabile che esiste tra ciò cui viene educata ad immaginare come possibile e ciò che la vita
sociale consente di realizzare alla maggioranza dei suoi membri. Il neoliberismo dilagante,
infatti, rafforza e rende simili le élites di tutto il mondo, allargando spaventosamente la for-
bice della diseguaglianza; la globalizzazione dei mercati e dell!informazione mette in rap-
porto situazioni sicamente lontane alimentando tensioni e con itti; i vissuti personali di-
vengono sempre più intrisi di costruzioni immaginarie che a volte non restano solitarie eser-
citazioni o produzioni artistiche individuali: divenute patrimonio di un gruppo si trasforma-
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no in nuovi generi di espressione collettiva, in nuove richieste di spazi comunitari, in nuove
proposte politiche che richiedono strategie inedite di sorveglianza e/o provocano nuove pra-
tiche repressive da parte dei poteri dominanti. Nell!analizzare i processi identitari propri del-
l!età contemporanea ci troviamo di fronte a due movimenti opposti ma coesistenti. Da un
lato siamo coinvolti in processi che potremmo de nire #tensioni verso l!uniformizzazione
degli stili di vita e delle aspirazioni identitarie”: la planetarizzazione dei mercati tende infat-
ti a presentare l!identità come una merce che si può vendere e comprare, il contatto continuo
e diversi cato alleggerisce, in un certo senso rarefà, la consistenza ontologica delle origini e
delle tradizioni. E da un paio di decenni molte sono le voci che affermano che le apparte-
nenze stabili sono nite, che proliferano modelli di vita basati sul #passing”, sul tentativo
cioè di mutare status, di accampare appartenenze etniche, religiose, addirittura razziali, più
vantaggiose, di oltrepassare limiti e accessi vietati. Dall!altro lato, tuttavia, un numero sem-
pre crescente di individui, gruppi e nazioni, rivendicano l!irriducibilità della propria identità,
difendono il loro diritto a viverla pienamente, anche se ciò può signi care dividersi e sepa-
rarsi da unità storicamente ormai affermate. A vari livelli e nel quadro di contesti storici, so-
ciali e politici assai differenziati, in tutto il mondo si producono con grande frequenza fe-
nomeni di particolarismo identitario: le forme di comunitarismo incentrate sull!Islam in
Gran Bretagna, in Francia o negli Stati Uniti; i regionalismi di cui la Lega Nord e la Liga
Veneta costituiscono eloquenti esempi nostrani; i nazionalismi che nelle loro manifestazioni
più esasperate conducono a con itti sanguinosi e duraturi, così come è avvenuto e avviene
tuttora nell!ex Jugoslavia.
Gli esempi che potrei illustrare sarebbero, purtroppo, molto numerosi: se nel 1974 era stato
calcolato che a partire dalla Seconda guerra mondiale venti milioni di persone avevano per-
so la vita a causa di con itti classi cabili come etnici, questi ultimi anni hanno sicuramente
fatto innalzare di molto il numero stimato. E!" proprio il paradigma dell!etnicità, in molti
casi, a dare forma, a #giusti care” l!irrigidimento della tradizione, addirittura la sua inven-
zione, l!enfasi sulle #radici” o l!attaccamento ad una identità culturale considerata autentica e
pura. I particolarismi etnico-identitari sono fenomeni complessi e antinomici che coinvol-
gono un numero sempre crescente di società e che non possono essere liquidati trascurando-
li o archiviandoli come forme arcaiche e in via di sparizione. Inoltre la loro emergenza si
produce in un momento storico in cui i con ni e le prerogative degli stati/nazione sembrano
af evolirsi: è paradossale che nell!era della globalizzazione si continui a suscitare il con it-
to, si continui a morire per un #noi” che indica patria, origine, sangue, tradizione. E tutti
questi elementi si affermano come categorie quanto mai pertinenti per descrivere i meccani-
smi dell!appartenenza e dell!identità anche nel mondo contemporaneo e non solo in quello
del passato. Paradossalmente, proprio la deterritorializzazione risulta essere uno dei fattori
più rilevanti nel determinare eccessive aspirazioni di possibili radicamenti: per esempio le
dif coltà di inserimento incontrate da chi si trasferisce in una società occidentale, possono
determinare in coloro che hanno abbandonato paese natale e lingua madre, un nuovo senti-
mento di attaccamento, un nuovo senso di lealtà nei confronti di ciò che con l!emigrazione si
era tentato di cancellare o di mutare. Le aggregazioni fondamentaliste trovano alimento
ideale e sostegno pratico nelle condizioni di vita degli immigrati, nella reazione all!esclusio-
ne e allo sradicamento cui li sottopone la loro condizione di stranieri e – molto spesso – di
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emarginati. Esse si appoggiano alle dif coltà “oggettive”, #materiali” che gli immigrati in-
contrano nel praticare la propria fede religiosa nei paesi di arrivo. E non va dimenticata la
facilità con cui su tutto questo si innestano la propaganda e il fanatismo di alcuni gruppi po-
litici e dei loro leader locali. In fondo membri delle società dette #tradizionali”, cittadini del-
le ex colonie o dei paesi industrializzati, siamo tutti nella medesima situazione: se i movi-
menti, reali o virtuali, trasportano gli #altri”, gli abitanti delle campagne e delle megalopoli
africane e asiatiche o i fuggiaschi dalle guerre delle regioni orientali dell!Europa, in habitat
per essi nuovi e sconosciuti, anche in Occidente i cambiamenti si susseguono senza posa.
Per parlare dei più quotidiani, non possiamo non vedere che le case in cui siamo stati bam-
bini sono oggi edi ci smantellati, che i giardini dove abbiamo giocato nella nostra infanzia
si sono trasformati in quartiere a sviluppo edilizio intensivo, che le dune di sabbia delle va-
canze della nostra giovinezza sono state ricoperte di hotel, mini-golf e discoteche. Per molti
aspetti, poi, il mondo che avevamo #conosciuto” sui banchi di scuola non esiste più, e i mo-
delli di identità e di relazione assimilati durante l!infanzia e l!adolescenza risultano spesso,
nell!attuale contesto di vita, inapplicabili o inservibili. A tutto ciò corrispondono e si unisco-
no trasformazioni più generali: la ne dei rapporti politici organizzati secondo la polarità
Est/Ovest e la conseguente estinzione del #nemico tradizionale”, l!indebolimento del para-
digma politico sinistra/destra, i processi di integrazione europea e la progressiva sparizione
dei con ni delle diverse nazioni che la compongono. Inoltre la riorganizzazione delle politi-
che interne nazionali spesso effettuate ai danni dei #paracaduti sociali”, le trasformazioni
demogra che, l!immersione continua e in molti casi passiva nel # usso culturale globale”
sembrano generare un disagio esistenziale e materiale, uno smarrimento cognitivo ed identi-
tario che molti dei nostri contemporanei – siano essi migranti reali o migranti virtuali - fati-
cano a superare. Così il fascino esercitato dalla forza apparentemente semplice, priva di
complessità, delle #identità di sostegno” di tipo etnicizzante colpisce un numero sempre
maggiore di individui e di gruppi. Al di là delle variabili e delle discontinuità, la cultura eu-
ropea del passato ha trovato una identità unitaria nella cultura classica, nel mondo cristiano,
nella rivoluzione scienti ca galileiana e cartesiana, visti in una successione storica guidata,
a partire dagli ultimi secoli, dall!idea di progresso. Ma come ha scritto Paul Valéry, oggi
sappiamo che #la storia può anche essere considerata il prodotto più pericoloso che la chimi-
ca dell!intelletto abbia elaborato (...). Fa sognare, inebria i popoli, produce in loro falsi ri-
cordi, esagera i loro ri essi, mantiene aperte le loro piaghe, li tormenta nel riposo, li condu-
ce al delirio di grandezza o di persecuzione” . Oggi dove trova la propria identità la nostra
storia, attraversata com’è da culture diverse, provenienti da continenti lontani, invasa da in-
formazioni e immagini che in tempo reale, attraverso i mezzi di comunicazione di massa o
le reti elettroniche, provengono da tutto il mondo? Su un piano teorico generale e non euro-
centrico, i concetti di identità sono espressioni che non rimandano necessariamente alla sto-
ria scritta di questo o di quel gruppo, di questo o di quel periodo, quanto piuttosto alla rela-
zione che ogni gruppo umano stabilisce tra memoria collettiva e trasmissione culturale.
Sono le forma di comunicazione elaborate dalle istituzioni presenti in un gruppo che forni-
scono all!individuo sia i materiali che i nuclei di elaborazione per la sua memoria individua-
le: è questo rapporto che è in grado di fornire una spiegazione nei processi di trasformazione
e di intensi cazione che caratterizzano la memoria collettiva di questo o di quel gruppo, di
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questo o di quel periodo; è questo rapporto che caratterizza l!aspetto sociale della memoria.
Per ogni gruppo umano gli eventi del passato raccolti dalla memoria collettiva sono fonda-
mentali per la costruzione della propria unità e della propria speci cità. Come ha detto Jan
Assman, #le società hanno bisogno del passato in primo luogo ai ne della loro autode ni-
zione”(Assman, 1997, p. 121). Tutti i nostri #saperi”, e non solo la storia, tutte le nostre sto-
rie, e non solo quella dominante in un determinato periodo, devono essere considerati cu-
stodi della memoria intesa come parte del presente: non singolarmente ma nel loro insieme
devono stabilire raccordi e rapporti fra contemporaneità e tradizione. E il compito che è loro
af dato riveste un!importanza che travalica i vantaggi stessa della conoscenza, appartenendo
alla sfera della necessità. Nel pluralismo in cui le giovani generazioni vivono immerse sin
dai primi giorni di vita, si originano nuovi localismi, nuovi #integralismi, e la storia, la tradi-
zione, la religione spesso vengono stravolte o inventate per alimentare odi profondi o giusti-
care faide sanguinose. E!"necessario che il pericolo del presente irrompa negli assetti disci-
plinari, piegandoli a costruire modelli di formazione che si aprano al confronto e al dialogo
con le molte diversità che popolano la scena sociale. E le discipline che devono coinvolgersi
in questo cambiamento devono essere tanto quelle più direttamente legate all!area umanisti-
ca sia quelle connesse con le aree #scienti che” e/o tecnologiche. Per fare un esempio, attra-
versando più discipline – dalla storia alla letteratura, dalla storia dell!arte all!economia, dallo
studio del diritto alla storia della scienza – sarebbe facile dimostrare la natura mitica delle
origini delle nazioni, rivelando le molte ambiguità che hanno caratterizzato il loro costituir-
si. Svelare queste ambiguità non è solo un!operazione corretta da un punto di vista di analisi
storica ma è anche urgente e necessario di fronte alle relazioni con ittuali che nella seconda
metà del Novecento, in tutti i continenti si sono sviluppate, sconvolgendo e addirittura pol-
verizzando vasti aggregati che per decenni, dopo averli de niti #nazione”, abbiamo conside-
rati coesi e unitari. Rompere l!unitarietà dell!idea di nazione, aprendo con la documentazio-
ne del passato la prospettiva della sua attuale ambivalenza, oltre a dar conto di molte dina-
miche politiche veri catesi nei singoli contesti nazionali, fa emergere la produzione cultura-
le delle minoranze, degli oppressi, dei colonizzati, ponendola in relazione con la cultura
dominante. Così la prima viene strappata al limbo dell!autoemarginazione protestataria men-
tre vengono svelate le funzioni normalizzatrici e violente di ogni rifugio in antiche purezze
identitarie. In questo modo dall!interpretazione del passato viene posto in discussione, nel
presente e per il presente, lo schema concettuale che ipotizza un #centro” che forte della sua
superiorità si oppone a una #periferia” dolente e sottomessa. L!interazione tra #centro” e #pe-
riferie” è stata sempre caratterizzata dalla violenza e dal sopruso e nelle periferie si sono in-
nestati pensieri e azioni che hanno combattuto il #centro”, svelando le sue falsità ideologi-
che. Tuttavia, fra questi poli deve essere ricostruito e riconosciuto un rapporto di scambio
dialettico complesso, ambivalente e articolato che snodandosi dal passato giunge sino al no-
stro presente. Oggi, poi, il #centro” ha perso molte delle sue sicurezze, incapace di garantire
anche al suo interno le promesse di giustizia per tutti e di benessere diffuso; le #periferie”,
da parte loro, lottano a loro volta per divenire #centro”, avendone acquisito strutture cono-
scitive e modalità di distribuzione del potere.
Il modello della dialettica tra centro e periferia si arricchisce di nuove valenze e di impor-
tanti implicazioni sia a causa delle nuove interdipendenze culturali e sia in conseguenza del-
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la globalizzazione economica che ha reso inattuali le tradizionali interpretazioni dei rapporti
tra economia, cultura e politica. In questo panorama anche le imposizioni culturali che pro-
vengono da ciò che in quel momento, per quel particolare fenomeno, può essere considerato
il #centro”, vengono con grande rapidità sottoposte, da parte delle periferie, anche le più
estreme, a un processo di #indigenizzazione”: questo riguarda ogni aspetto della produzione
culturale, dalla musica agli stili delle abitazioni e dei mobili, dai risultati scienti ci alle for-
me di terrorismo o di interazione politica. E il processo è ancora più complicato: questa ui-
dità culturale, oltre a produrre un sistema a un tempo #policentrico” e #poliperiferico”, sot-
topone i gruppi, in particolari quelli culturalmente deboli, a in uenze molteplici: la Cambo-
gia, per esempio, è sottoposta , al pari di molte altre #periferie”, ad un intenso processo di
#americanizzazione”, ma a questo si af ancano forti pressioni culturali che provengono dal
Vietnam, dalla Thailandia, dal Giappone. L!attenzione alla contemporaneità esige la rottura
di con ni tra modi tradizionali di incasellare la realtà culturale e quindi di scompaginare le
tradizionali barriere tra i diversi saperi; richiede di organizzare le nostre conoscenze, e quin-
di quelle dei nostri allievi, per temi e problemi, senza preoccuparci di consolidate gerarchie
disciplinari, andando a cercare nuovi percorsi e nuovi stimoli dagli accostamenti più impen-
sati. E questo va fatto non per porre tutti i #saperi”, tutti i linguaggi sullo stesso piano ma al
contrario per cercare nel passato e nella tradizione i principi su cui nel presente si possano
contemperare l!apertura al dialogo multiculturali e la rivendicazione di quei valori a cui non
si vuole e non si può rinunciare.Prendere atto della predominanza del presente non è facile
né banale: per comprendere ciò che esiste oggi bisogna esplorare il passato, costruire la ge-
nealogia degli avvenimenti che ci circondano e ci sovrastano, fermare le informazioni che
freneticamente ci assalgono per analizzarle, sceglierle e collegarle tra loro con l!obiettivo di
costruire il loro senso e il loro signi cato. Come dice Octavio Paz, il presente “è l!oggi e il
più antico passato, è il domani e l!inizio del mondo, ha mille anni e sta per nascere”. Nel suo
signi cato etimologico il termine #antropologia” indica lo studio dell!uomo, intendendo riu-
nire in #uomo” tutti i membri della nostra specie e non solo quelli di sesso maschile. E!servi-
to, e serve tuttora, a de nire uno speci co settore della ricerca loso ca ma principalmente
serve a de nire lo studio dell!uomo nel suo aspetto biologico e nelle sue pratiche culturali.
L!antropologia, in quest!ultima accezione, ha cominciato a costituirsi dal momento in cui
l!uomo accanto ad interrogativi di tipo teologico o loso co quali #cosa siamo” e #perché
siamo” si è posto domande più limitate ma meno astratte del tipo #come siamo” e #come
siamo diventati ciò che siamo”. Ciò signi ca che l!argomento di studio dell!antropologia ge-
nerale include tutto il fenomeno umano, in ogni suo aspetto, in ogni luogo e in ogni tempo:
perché l!uomo è sempre uomo, quando ama e quando uccide, quando prega e quando lavora,
quando crea e quando distrugge, è sempre lo stesso uomo, sia che viva al Polo o all!Equato-
re; è inevitabilmente lo stesso uomo, oggi, come ieri. E non perché non cambi, non sia cam-
biato e non possa cambiare ma proprio perché, al contrario, la natura umana sta nel suo dif-
ferenziarsi e nel suo mutare: essere uomo signi ca farsi uomo. In questo divenire, grande è
il peso esercitato dalla cultura che con le sue invenzioni e scoperte nel corso dei millenni ha
interagito con la nostra natura biologica che governata da geni e comprendente cervello, si-
stema nervoso e anatomia, ci rende capaci di creare e usare cultura. Senza il nostro patrimo-
nio biologico la cultura umana non esisterebbe ma la nostra natura biologica dipende da in-
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venzioni e scoperte culturali, da tradizioni apprese e trasmesse che ci permettono di vivere
in ambienti ostili, di usare regole di scambi e di cooperazione, di opporci a forze distruttive,
naturali o umane che siano. La nostra eredità biologica rende possibile l!invenzione e l!uso
della cultura e la cultura rende possibile la sopravvivenza biologica della nostra specie. I
due aspetti - quello culturale e quello biologico - pur strettamente interagenti presentano dif-
ferenze cruciali e uno dei meriti dell!antropologia è proprio aver sottolineato sin dalla sua
nascita la differenza che esiste tra l!evoluzione biologia e l!evoluzione culturale: la prima
riguarda attributi e comportamenti trasmessi geneticamente, la seconda riguarda attributi e
comportamenti che sono insegnati e appresi. L!antropologia tende a comprendere come bio-
logia e cultura si siano compenetrate nel passato e come si compenetrino oggi nei diversi
contesti abitati dalla nostra specie: è da un punto di vista generale una disciplina olistica che
aspira a formulare generalizzazioni valide al di là dei limiti temporali e spaziali. E questa
aspirazione le impone una prospettiva comparativa perché per potere generalizzare sulla na-
tura e sulla società occorre raccogliere testimonianze del numero più ampio possibile di
gruppi umani: sia quelle paletnologiche del nostro lontano passato, sia quelle appartenenti
alle società studiate dall!antropologia dal suo nascere come disciplina autonoma ad oggi.
L!antropologia quale risposta alle domande sulle differenze, siche e culturali, esistenti tra i
diversi gruppi umani e sulle cause che le hanno determinate non è nata con la disciplina che
oggi ha questo nome: ogni gruppo umano, in forme più o meno diffuse ed elaborate, ha pos-
seduto un!antropologia spontanea con la quale ha dato vita a rappresentazioni collettive del-
le differenze con cui era venuto in contatto nel corso della sua storia. Le origini più lontane
di tentativi sistematici di ri ettere sui problemi che oggi riferiamo all!antropologia possono
essere fatte risalire ad Erodoto, ad altri storici e geogra dell!antichità classica, a viaggiatori
quali Marco Polo o Ibn Khaldun, a missionari e commercianti che per tutto il Medioevo, at-
traversando mari e continenti, venivano a contatto con una varietà culturale sempre più am-
pia e stupefacente. Anche se le osservazioni sulle diversità siche e culturali riscontrate nel-
le popolazioni con cui i primi osservatori europei e mediterranei venivano in contatto pos-
sono avere toni antropologici, le radici dell!antropologia nella ri essione del pensiero occi-
dentale sono riscontrabili nell!epoca delle grandi scoperte geogra che. E!"in quell!epoca che
con l!espansione delle conquiste e dei rapporti commerciali, gli imperi europei dovettero
porsi una serie di problemi per la necessità di conoscere i popoli con i quali venivano in
contatto in modo stabile e continuativo. E i problemi erano di carattere insieme politico, re-
ligioso e scienti co: quale statuto assegnare alle popolazioni assoggettate e vinte, quale a
quelle conosciute per i loro prodotti così utili allo sviluppo della nostra alimentazione, della
nostra conoscenza e della nostra produzione culturale? Sono tutti essere dotati di un!anima
come la nostra? Dobbiamo estendere ad essi la nostra religione? In che modo dobbiamo va-
lutare le differenze siche e culturali che essi esibiscono? Per tutto il Cinquecento e per il
Seicento si moltiplicano le descrizioni che a volte elogiano le virtù di popoli lontani ma più
spesso li descrivono come barbari e selvaggi da depredare, da utilizzare come forza lavoro,
da annientare. Tuttavia un vero e proprio progetto di conoscenza scienti ca delle diversità
poté nascere e svilupparsi solo quando il pensiero illuminista europeo elaborò una teoria
#unitaria” della specie umana, formata di individui in grado di produrre, accoppiandosi, una
prole fertile e potenzialmente dotati delle stesse capacità conoscitive e comunicative. L!inte-
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resse per le diversità culturali e siche non è proprio solo dell!Occidente: tutti i popoli, tutti i
gruppi umani, come ho già detto, hanno elaborato nel corso della loro storia una serie di
concettualizzazioni per interpretarle e spiegarle. Claude Lévi-Strauss, cita, per provare una
sorta di parallelismo transculturale intorno a questa curiosità intellettuale, un aneddoto da
lui de nito #tragico e barocco insieme”. Mentre le autorità ecclesiastiche europee inviavano
nel Nuovo Mondo appena scoperto missioni inquisitorie per stabilire se gli indigeni ameri-
cani avessero o meno un!anima, alcuni gruppi del Centro America quando riuscivano a cat-
turare uno degli invasori lo annegavano in uno stagno e poi sottoponevano il suo cadavere
ad una lunga osservazione per stabilire se avesse il potere di sopravvivere, e in che modo,
alla sua morte. (Lévi-Strauss, 1967). Esistenza di raggruppamenti umani caratterizzati da
stili di vita, valori, norme, comportamenti diversi e la dimensione culturale come unica cau-
sa di ogni attività, innovazione, cambiamento del gruppo. Considerare il proprio gruppo
come l!unico dotato di piena umanità e civiltà. Sul tentativo di includere nella sua ri essione
tutti gli uomini in quanto uguali perché dotati di ragione, è fatta risalire da alcuni storici
(Affergan, 1991) la base concettuale della moderna antropologia: la discussione sulla somi-
glianza e la diversità, la paragonabilità di usi e costumi appartenenti a contesti lontani e di-
versi, la forza dell!educazione nella costruzione dei successi culturali. A prova del legame
tra pensiero illuminista e antropologia va ricordata la nascita in Europa, tra il XVIII e l!ini-
zio del XIX secolo, delle Società geogra che, etnologiche e antropologiche: la Société des
observateurs de l!homme nel 1799, la Société d!Ethnologie nel 1839, della Ethnological So-
ciety nel 1843, la Société d!Anthropologie nel 1859.Il nuovo paradigma che mutò l!intero
assetto del sapere e della politica europea si fondava su una serie elementi disparati apparte-
nenti a ambiti assai diversi che citerò, sia pure per rapidi accenni: la rivoluzione industriale
nata in Inghilterra; la rivoluzione politica francese; lo sviluppo di una concezione dell!uomo
come agente sociale e attore della storia, considerato non più una nalità meta sica ma il
mezzo della propria conoscenza, frutto di educazione e non di eredità biologiche; le scoperte
archeologiche che fondarono scienti camente la collocazione della specie umana all!interno
di un generale processo evolutivo proprio di tutte le specie animali; la comparazione e la
ricostruzione storica dello sviluppo delle lingue europee e semitiche che avviarono una ri-
essione sullo sviluppo di istituzioni culturali quali la religione, il diritto, il mito e la paren-
tela . Le idee evoluzioniste impregnano profondamente tutte le elaborazioni intellettuali del
XIX secolo ma è con la pubblicazioni dell’”Origine delle specie” di Charles Darwin (1859)
che esse assumono grande valore: anche se applicate e rivolte alla biologia divengono un
vero e proprio vettore dello spirito evoluzionista in uenzando in modo determinante anche
lo sviluppo dell!antropologia. Nel 1859 Pierre Broca con La Società di Antropologia di Pa-
rigi de nisce l!antropologia una #scienza di sintesi” delle ricerche paleontologiche, preisto-
riche, linguistiche ed etnogra che e da questo momento inizia lo studio scienti co dell!uo-
mo e della sua evoluzione culturale. Con le opere di studiosi quali Tylor, Morgan, Maine,
McLennan, Lubbock abbiamo ricerche che si svolgono in campi assai diversi, con risultati
anch!essi diversi ma tutte uni cate dall!aderenza allo stesso principio metodologico dell!evo-
luzionismo: nei diversi campi – il diritto, i sistemi familiari, il totemismo, lo sviluppo della
cultura, la religione – i dati più disparati per tempi e modi di raccolta, per attendibilità delle
fonti, per discipline da cui provengono trovano signi cato e unitarietà nella coerenza dello

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schema evolutivo. L!impulso all!aderenza allo schema evolutivo e al tempo stesso la crescita
delle ricerche e delle ri essioni intorno ai problemi antropologici furono ampiamente poten-
ziati dall!affermazione del colonialismo europeo: con il passaggio da parte della Gran Bre-
tagna, della Francia, della Spagna, del Portogallo, dell!Olanda da un dominio indiretto ad un
dominio diretto di ampie regioni del pianeta era necessaria una conoscenza più accurata
possibile delle popolazioni che dovevano essere governate e quindi trasformate dai loro co-
lonizzatori. Vengono alla ne del XIX secolo organizzate, con sovvenzioni governative, un
gran numero di spedizioni di carattere scienti co: esse hanno lo scopo di raccogliere dati di
carattere culturale, per valutare le politiche attraverso le quali poteva essere introdotta pres-
so i popoli assoggettati la nostra civiltà ma anche di carattere economico, per conoscere le
materie prime e le risorse umane che potevano essere utilizzate per aumentare il benessere
delle nazioni colonizzatrici; di carattere politico, per individuare le relazioni per mezzo delle
quali il controllo e il dominio dei colonizzatori poteva essere esercitato con maggior ef ca-
cia; di carattere strategico per conoscere i territori e la dislocazione su di essi delle diverse
popolazioni. Fra le molte spedizioni di questo tipo ricordiamo, per il loro particolare valore
nella storia dell!antropologia, la spedizione di Boas nell!Artico, iniziata nel 1887 e quella di
Haddon nello stretto di Torres e in Melanesia del 1889. Molte volte l!affermazione e lo svi-
luppo dell!antropologia è stato ricondotto all!affermazione del colonialismo economico e
politico e la disciplina è stata oggetto di ripulse e di accuse. Riconoscere i suoi legami con il
potere dominante nell!epoca della sua affermazione è legittimo a patto che tale legame sia
individuato non come un mero e semplice ri esso, un totale asservimento del pensiero alla
politica e all!economia ma in senso foucaultiano sia sviluppata la consapevolezza che #pote-
re-sapere, produzione di potere-produzione di sapere, costituiscono due facce di un unico
processo (...).” . Come scrive ancora Foucault, #sono le relazioni sociali, economiche, ideo-
logiche, in un momento dato della storia e della società, che costituiscono il sapere e deter-
minano le fonti e i campi possibili della conoscenza” (Foucault, 1976: 32). E allora tutte le
scienze dell!uomo, l!economia, la geogra a, la sociologia, la psicologia, la psichiatria, nate
alla ne del XIX secolo, sono al pari dell!antropologia, # glie del colonialismo”. Il termine
antropologia nel linguaggio corrente evoca descrizioni minuziose di usi, credenze, costumi
di popoli esotici e lontani e al tempo stesso misurazioni di crani, scavi archeologici, genea-
logie che illustrano, ricorrendo spesso a gurazioni arboree, l!origine dell!homo sapiens nei
suoi rapporti con il suo lontano passato. A questa aspirazione che l!ha vista intenta per de-
cenni a ricostruire nei suoi particolari il mosaico variegato della nostra specie, l!antropologia
, almeno sin dal XIX secolo, af anca un altro progetto, altrettanto tenace e ambizioso: l!in-
dividuazione delle leggi dell!evoluzione culturale della nostra specie. Sin dai suoi esordi
come disciplina autonoma, separatasi dalla letteratura di viaggio, dal resoconto geogra co-
storico, dalla speculazione teologica e loso ca, questa tensione tra particolarismo e univer-
salismo ha costituito il suo fascino e il suo limite. Oggi, in un momento in cui assistiamo a
due tendenze opposte e concorrenti - quella verso le rivendicazioni di continuità e di perma-
nenze per lo più settoriali e localistiche e quella di una mondializzazione di forze culturali,
economiche e sociali – lo studio antropologico deve collocarsi nell!articolazione del locale
con il globale: deve tendere ad individuare i legami che esistono tra le società tradizionali e i
settori dei processi di globalizzazione che le investono; al tempo stesso deve essere rivolto
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verso le nuove diversità prodotte dagli stessi processi di globalizzazione. E!"un progetto am-
bizioso che implica includere direttamente nella ri essione e nell!analisi antropologica la
società contemporanea, rivolgere le sue ricerche e i suoi strumenti metodologici su di essa
focalizzandosi su tratti e movimenti culturali che hanno per teatro tutti i continenti e che,
anche se con modalità differenziate, riguardano sia i grandi aggregati urbani che i piccoli
gruppi che vivono nelle campagne dell!intero pianeta. Non è un compito facile tracciare la
suddivisione interna di una disciplina che sin dalla sua de nizione – lo studio dell!uomo –
sembra volersi caratterizzare per un approccio globale ed olistico: come ho già detto, pro-
prio in questa ansia di comprensione totale del #fatto culturale” risiede il suo fascino e il suo
limite maggiore, proprio da questa aspirazione i suoi cultori traggono le maggiori ambizioni
e le maggiori frustrazioni. Non intendo mettere in dubbio o far vacillare questa aspirazione
compilando un elenco di tutte le aree affrontate e studiate dagli antropologi nel corso degli
ultimi anni: del resto ogni suddivisione in settori deve sempre essere considerata tempora-
nea e parziale, spesso superata da nuovi campi di interesse che si aprono, da nuovi accor-
pamenti o suddivisione che possono mutare da paese a paese. Ritengo tuttavia che sia utile
mettere in evidenza i diversi ambiti oggi considerati di particolare interesse per lo sviluppo
del progetto antropologico. Le principali suddivisioni dell!antropologia Una prima lacera-
zione nel sogno di uno studio olistico della nostra specie è avvenuta con la separazione tra
antropologia sica e antropologia culturale. Questa separazione, anche se da un punto di vi-
sta teorico, a volte sembra potersi ricomporre, è affermata negli assetti istituzionali di molti
paesi, nei metodi di studio ma soprattutto nei diversi sistemi di riferimento teorico prescelti.
Il peso che gli specialisti dell!una assegnano alla #natura” e all!eredità biologica e genetica e
gli specialisti dell!altra assegnano alla #cultura” ha variato da epoca ad epoca, da paese a
paese e si è spesso mescolato a scelte politiche divergenti e così drastiche da acuire opposi-
zioni e separazioni. Eppure a volte i risultati di queste grandi suddivisioni sembrano mesco-
larsi e l!una e l!altra sembrano sul punto di confrontarsi e di interrogarsi a vicenda. Come
non riconoscere che le domande di uno studioso come Eib-Eibesfeldt sulla #naturale tensio-
ne” della nostra specie verso il rischio, l!azzardo, la s da sono ricche di suggestioni per in-
terpretare molti fenomeni squisitamente culturali? E per suffragare la validità dei rimandi
suggerirei di accostare alla lettura del libro dell!antropologo tedesco le elaborazioni più re-
centi di un sociologo della cultura quale Ulrich Beck che usando dati completamente diversi
descrive la nostra società come una società in bilico tra un futuro di distruzione e un avveni-
re ricco di successi e di sviluppi. Le sue principali suddivisioni la vedono studiare da un lato
l!origine e l!evoluzione del genere umano, dall!altro le variazioni biologiche delle popola-
zioni contemporanee. Ai suoi inizi essa si specializzò nell!elaborazione di tecniche per misu-
rare i caratteri delle popolazioni della terra e per classi carle entro categorie inequivocabili
– razze – in base al colore della pelle, la forma del cranio, i tipi di capelli e in generale i ca-
ratteri sici. E sotto questa luce in buon numero delle sue ricerche furono utilizzate sino alla
metà del XX secolo per sviluppare teorie in difesa della pratica sociale del razzismo, vale a
dire la sistematica discriminazione di gruppi di persone de nite in base alla razza inferiori
rispetto ad altri gruppi de niti, sempre in base alla razza, superiori. Lo sviluppo di studi più
accurati e più recenti hanno dimostrato l!infondatezza sia dei criteri di classi cazione basati
sull!aspetto sico dei diversi individui sia del legame tra aspetto sico e qualità morali e in-
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tellettuali. Le analisi che oggi vengono svolte sulle differenze dei gruppi umani si fondano
sull!esame del DNA e dei suoi componenti e dimostrano che le differenze somatiche tra gli
esseri umani, oltre ad essere super ciali, si sono formate relativamente tardi nel corso della
nostra storia evolutiva: di fronte a una storia che sembra essere iniziata milioni di anni fa,
l!homo sapiens sapiens risale a circa 100.000 fa e le differenze somatiche si determinarono
probabilmente solo durante l!era Paleolitica, cioè circa 50.000 anni fa, in seguito ai processi
migratori che diffusero la nostra specie nell!intero pianeta. Le ricerche della moderna gene-
tica inoltre affermano che l!intera specie dell!homo sapiens sapiens possiede un corredo ge-
netico del tutto simile. Oggi per ricostruire l!origine e l!evoluzione umana l!antropologia -
sica si avvale delle ricerche della paleontologia e della primatologia mentre per quanto ri-
guarda la variabilità umana si avvale di concetti e tecniche della genetica umana e della bio-
logia delle popolazioni. I suoi rapporti sono dunque soprattutto con discipline appartenenti
all!ambito delle scienze naturali anche se a separarli dai loro colleghi non antropologi è la
prospettiva olistica e comparativa che riconduce il loro lavoro all!interno della storia globale
della nostra specie. Razze (raggruppamenti umani che si presumeva ri ettessero , nelle loro
caratteristiche, differenze biologiche) e razzismo (discriminazione sistematica operata da un
gruppo che si auto-de nisce superiore da un punto di vista razziale ai danni di altri gruppi
de niti inferiori sempre da un punto di vista razziale). Paleontologia: disciplina che studia i
reperti fossili dei più antichi antenati dell!homo sapiens sapiens. Primatologia: studio dei
primati non umani, i più af ni all!homo sapiens. Dal punto di vista antropologico il termine
cultura si riferisce alle abitudini mentali e comportamentali tipiche di un gruppo umano.
Obiettivo di questa suddivisione dell!antropologia è dimostrare come le variazioni presenti
nei diversi gruppi siano frutto di comportamenti appresi dagli individui proprio in quanto
membri di determinati gruppi. Su questa base si capisce come sia dif cile cercare di dare
una de nizione chiara e sintetica del contenuto e degli ambiti dello studio antropologico:
per lungo tempo essa è stata la disciplina che studiava le società “selvagge” ed esotiche, di-
venute poi in de nizioni più accurate le società ”senza storia”, #senza Stato”, #senza scrittu-
ra”. In quell!epoca una suddivisione veniva compiuta tra etnogra a ed etnologia, riservando
ai termini di antropologia culturale o sociale il livello di elaborazione comparativa dei dati
raccolti. Ormai da tempo questa suddivisione piuttosto rigida dei campi di studio dell!antro-
pologia è venuta a cadere sotto l!in uenza di vari fattori, tra i quali vanno ricordati i processi
di decolonizzazione, le nuove forme di nomadismo che attraversano per ragioni spesso di-
verse e contraddittorie l!intero pianeta, i processi di globalizzazione e le conseguenti nuove
relazioni tra le differenze . E forse più che alla de nizione di Lévi-Strauss oggi è più utile
ricorrere a quella di Marc Augé che nel 1979 scriveva:” il procedimento antropologico as-
sume come oggetto d!indagine unità sociali di piccola ampiezza a partire dalle quali tenta di
elaborare un!analisi di portata più generale, cogliendo da un certo punto di vista la totalità
della società in cui queste unità si inseriscono (Augé, 1982 [1979], p.199)”. La situazione
storica contemporanea sembra aver saldato i rapporti fra i tre settori in cui tradizionalmente
si articola l!ambito degli studi antropologici: le società “tradizionali” del nostro paese e de-
gli altri continenti sono state trasformate e investite dal vento della modernità: allo stesso
tempo, tuttavia, i processi di modernizzazione non hanno certo proceduto linearmente ma
sempre hanno conservato entro di sé derive profonde, processi oscuri – perché mai suf -
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cientemente indagati e perché sempre spiegati ricorrendo a logiche lineari e uniformi – le-
gami tenaci con emozioni e bisogni, troppo super cialmente considerati primitivi ed indi-
stinti. Le ipotesi e i modelli teorici che interpretano le culture popolari europee e quelle di
tutto il mondo, raccolte in decenni di ricerche, insieme agli studi delle dinamiche che gli in-
contri tra culture diverse innestano e sviluppano, sono tutti oggi parimenti preziosi per noi.
Con sempre maggior chiarezza oggi emerge la consapevolezza che le discipline antropolo-
giche assumono un loro #senso”, acquistano una loro #speci cità” quando riescono a #sfon-
dare” la diversità delle esperienze e la diversità dei linguaggi: un testo antropologico non
deve tanto avere l!obiettivo di descrivere la diversità ma piuttosto di spingere i suoi fruitori a
ri-conoscersi, a ri-specchiarsi in quella diversità, a trovare al di là delle differenze più appa-
riscenti connessioni e somiglianze.

• Etnogra a: descrizione di una particolare cultura, scritta o lmata da un antropolog

• Etnologia : studio comparativo di due o più culture

• Discipline demoetnoantropologiche: settore scienti co che riunisce, soprattutto nel nostro


paese e per scopi di organizzazione degli studi universitari,
tre ambiti di studi dai con ni sempre più sfumati: storia delle tradizioni popolari, etnolo-
gia, antropologia culturale

Sin quasi dall!inizio della sua storia quale disciplina autonoma tra le scienze sociali occiden-
tali, l!antropologia, più di altre, affronta il problema di costruire una conoscenza sulle alteri-
tà che tocca profondamente l!identità del ricercatore, oscillando così tra oggettività e sogget-
tività, tra osservazione e ri essione, tra descrizione e costruzione di modelli. Per molti anni
si sperò di superare queste ambiguità lasciando alla stesura delle note di campo la registra-
zione delle reazioni emotive e soggettive, espungendole poi completamente dal testo. Sem-
pre è stato riconosciuto che le emozioni del ricercatore sono elementi necessari per stabilire
un certo livello di controllata empatia con la comunità oggetto dell!osservazione partecipan-
te; tuttavia esse, per molti anni, non venivano prese in considerazione durante le interpreta-
zioni dei dati raccolti; né ad esse era accordato rilievo signi cativo nella stesura del testo: si
preferivano resoconti asettici e spersonalizzati in grado di poter accedere all!universalità del
discorso scienti co. Rari gli esempi che lasciavano trasparire esperienze che avevano a che
fare con i sentimenti e le emozioni dei ricercatori, con le loro frustrazioni, con i loro entu-
siasmi, con i loro giudizi personali, con le loro preferenze o con le loro antipatie: e forse
vale la pena ricordare le critiche che accolsero la pubblicazione, nel 1934, da parte di Mi-
chel Leiris di un resoconto etnogra co #" &L!Afrique Fantome” - che includeva le note di
campo del suo autore. La maggioranza dell!antropologia dei primi decenni del secolo XX
descrive comunità e culture nella loro totalità, senza speci care se le informazioni proven-
gano da uomini o donne, da giovani o da anziani attribuendo una ipotetiche neutralità all!in-
terpretazione antropologica che veniva a superare particolarismi e individualità in nome del-
la sua oggettiva scienti cità. Si sottovalutava e quindi si taceva il fatto che le informazioni
per lo più provenissero dal mondo maschile e che le interpretazioni riguardassero soprattutto
questo mondo. La sottovalutazione dei contributi femminili alla vita pubblica e alla costru-
zione delle identità culturali di un gruppo – comune, del resto, a gran parte delle scienze
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umanistiche e sociali - era responsabile di tale parzialità e al tempo stesso la rendeva accet-
tabile e condivisa dalla maggior parte dei lettori. Per lungo tempo le donne che si dedicaro-
no alla ricerca antropologica in linea generale si adeguarono a questa duplicità, a questa
cancellazione di gran parte della propria esperienza, tentando al pari dei loro colleghi ma-
schi di trasferire su un piano oggettivo dati che molto spesso erano stati raccolti grazie a re-
lazioni empatiche stabilite con i loro informatori e/o che erano stati colti o intravisti grazie
alla personale sensibilità del ricercatore.

Indicazione bibliogra ca relative a queste parole chiave M. Leiris, L!Afrique fantome, Paris,
Gallimard, 1934. L!opera di Margaret Mead può anche essere letta come rappresentativa di
questa duplicità così come ne sono prova sia il rifugio della Benedict nelle potenzialità crea-
tive delle #humanities” e sia la marginalizzazione subita da quelle antropologhe che prima
della metà del XX secolo posero quale elemento costitutivo del loro processo di ricerca
l!identità femminile. Margaret Mead a volte condusse le sue ricerche e scrisse i loro reso-
conti #come una donna”, parlando di donne e a donne, attraversando e paragonando mondi
femminili e mondi maschili presenti all!interno di una stessa cultura; tuttavia quando volle
acquisire credito all!interno dell!antropologia accademica, abbandonò queste prospettive e
queste angolazioni #personali” per divenire un!analista scienti camente autorevole e priva di
connotazioni di genere. La sua produzione era così assimilabile a quella dei suoi colleghi
maschi, mentre i suoi scritti più soggettivi, più emotivamente connotati erano valutati come
#esperimenti”, come cedimenti alla scrittura di divulgazione, dedicati a rendere popolari i
temi antropologici al vasto pubblico. Ruth Benedict in un articolo scritto nel 1948 cerca nel-
l!af nità tra #scienze umane” e antropologia la possibilità di cogliere l!ambiente culturale
che caratterizza un determinato contesto; in particolare fa riferimento a metodologie consi-
derate più estetiche che scienti che, come la raccolta delle storie di vita, per affermare l!im-
portanza della soggettività e dei livelli emotivi per la ricerca e la ri essione antropologica.
#La situazione varia molto – ella scrive – per ciò che riguarda l!antropologia e le scienze
umanistiche. Sono così distanti che è quasi possibile trascurare il fatto che esse si occupano
dello stesso argomento: l!uomo, le sue opere, le sue idee e la sua storia. Secondo me la vera
natura dei problemi posti e discussi dalle scienze umanistiche è più vicina, in tutti i suoi di-
versi aspetti, a quella dell!antropologia di quanto non lo siano le ricerche condotte dalla
maggior parte delle scienze sociali”. Si riconosce, così, l!importanza delle capacità artistiche
con il loro carico di individualità per sviluppare la ricerca antropologica e si guarda per aiu-
to al #periodo d!oro delle scienze umanistiche” abbandonando le af nità con le altre scienze
sociali, in quell!epoca così oggettive e quantitative. Del resto negli anni !30 inizia una pro-
duzione che documenta il disagio di molte donne antropologhe a elaborare testi etnogra ci
restando ancorate alla cornice asettica imposta dalla metodologia antropologica dominante.
Al tempo stesso, benché sia stata al suo apparire marginalizzata e considerata più una curio-
sità che un lone produttivo di nuova conoscenza, questa produzione testimonia l!inizio di
un percorso di ri essione e di ricerca che nella seconda metà del secolo è divenuto una nota
dominante ed originale delle discipline antropologiche contribuendo non poco agli sviluppi
epistemologici delle scienze sociali della contemporaneità. Sto, in altre parole, rivendicando
alla biogra a di una donna Papago raccolta da Ruth Underhill,nel 1936, a quella di una va-
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saia raccolta da Angela Marriott, nel 1948, ma anche al #romanzo” a cui Laura Bohannah,
nel 1954, sotto lo pseudonimo di Eleonora Smith Bowen, af da le sue emozioni di ricerca-
trice #scienti ca” vissute fra i Tiv, il merito di aver aperto la strada all!antropologia multisi-
tuata, personale, ri essiva della contemporaneità. A partire dagli anni !70 del XX secolo le
prospettive generali della ricerca antropologica mutano a causa di una serie di fattori appar-
tenenti ad ambiti diversi: i nuovi orientamenti epistemologici della ricerca scienti ca, i
cambiamenti dei rapporti tra Occidente e le culture #altre”, le in uenze del #decostruzioni-
smo”, l!allargamento dell!analisi culturale alla società dell!antropologo, lo sguardo antropo-
logico sulla contemporaneità. Sempre più spesso si mette in discussione la coincidenza tra
esperienza e realtà oggettiva e si postula che la realtà sia soprattutto prodotta da speci che
costruzioni discorsive. E numerose sono le antropologhe che dalla loro duplice posizione di
soggetti di studio e di autrici smascherano la natura #maschile” che si nasconde sotto la pre-
tesa neutralità dell!osservazione denunciando la parzialità e l!arbitrarietà della costruzione
del sapere etnogra co. Sempre più numerose sono le ri essioni e le ricerche che per tutti gli
anni !70, evidenziano come questo sapere abbia dato per scontato che il punto di vista #ma-
schile” contenesse in sé la neutralità propria del punto di vista scienti co ed abbia conside-
rata inesistente l!in uenza della natura sessuata dell!osservatore sul contesto studiato. Que-
sta posizione critica apre profonde crepe nella compattezza della disciplina: ci si rende con-
to che non aver ascoltato in molte monogra e le testimonianze delle donne, non aver posto
attenzione ai loro vissuti della cultura, ho prodotto interpretazioni culturali non solo parziali
ma anche distorte in quanto anche se le donne sembrano non avere ruoli importanti nella
vita pubblica di molti gruppi umani, i con ni tra pubblico e privato sono, in tutte le società,
alquanto confusi e instabili. Inoltre tanto più si sceglie di cancellare aspetti che appaiono
frammentari e indistinti tanto più aumenta il rischio di interpretazioni appiattite su categorie
proprie della cultura occidentale. All!interno di uno stesso contesto possono coesistere mol-
teplici livelli di discorso, alcuni egemoni e quindi più coerenti e meglio articolati, altri meno
visibili ma non per questo privi di valore. E l!intero modo di costruire il sapere etnogra co
viene messo in discussione: ha taciuto per decenni sul punto di vista femminile ma di quali
punti di vista si è fatto portavoce? Davanti a ricerche #perfette” che solo casualmente, quasi
al momento della partenza dell!etnografo che dopo più di tredici anni ha deciso di abbando-
nare il #campo”, per decisione di un vecchio Dogòn che ha deciso di sciogliere il suo silen-
zio, riescono a cogliere intere cosmologie illuminanti della religione e della ritualità del
gruppo, come teorizzare ancora procedure oggettive, come decodi care l!alterità senza
coinvolgere, a tutti i livelli, il sé del ricercatore, senza far partecipe il lettore delle sue dif -
coltà e delle sue scelte? L!antropologia delle donne sin dal suo inizio contribuisce a sma-
scherare il presupposto su cui si sono basate per decenni le scienze sociali: che i gruppi
umani, le società, le culture siano #fatti naturali” dai con ni visibili, che esse siano ancorate
ad un determinato territorio, che siano animate da un orientamento verso la coerenza delle
loro parti, che la loro osservazione si riduca unicamente ad una raccolta di dati e che una
ricerca ben fatta debba trascendere le dimensioni soggettive per mettere a nudo costanti,
norme, regolarità. A partire dagli anni !80 l!antropologia delle donne potenziando alcuni
spunti già presenti negli anni precedenti, e sostenuta dall!emergere di un generale orienta-
mento della disciplina sempre più attenta all!interpretazione e alla ri essività apre la sua ri-
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cerca alla costruzione, nelle interazioni tra maschile e femminile, delle identità, delle diffe-
renze e dei rapporti gerarchici. Con questo allargamento degli orizzonti di ricerca, le catego-
rie di femminile e di maschile divengono una fra le molteplici forme di diversi cazione che
gli esseri umani considerano signi cative nella loro vita di relazione. Come osserva Alice
Bellagamba, #al pari di tutte le distinzioni binarie, anche questa opposizione maschera e dà
forma a rapporti gerarchici, contribuendo a riprodurre determinate forme di ordine sociale”
(Bellagamba, 2000, p. 76). Si riprende in questi anni la distinzione tra sesso e genere, il
primo considerato un attributo biologico, il secondo un attributo sociale e si mette in dubbio
che #la variabilità culturale delle categorie di genere sia la semplice elaborazione ed esten-
sione di un medesimo fatto naturale e si evidenzia che la ducia nella #naturalezza” del ge-
nere sociale è nella maggioranza delle culture ottenuta tramite pratiche discorsive. E le pra-
tiche discorsive mettono in evidenza che le categorie di femminile e di maschile non sono
così nette e de nite come una visione del genere sociale quale semplice e unilineare prodot-
to culturale del sesso biologico potrebbe indurre a ritenere. Anche se è importante non cade-
re nell!errore spesso compiuto negli studi dei rapporti tra linguaggi e genere di favorire le
generalizzazioni a discapito della contestualizzazione, le ricerche in etnolinguistica dimo-
strano la possibilità per i membri di una società di conoscere e saper variare i codici lingui-
stici a secondo degli interlocutori e delle situazioni affrontate. Del resto Foucault fa del ses-
so un oggetto storico, generato in qualche modo dal dispositivo di sessualità a lui precedente
di quasi un secolo: senza le costellazioni di signi cato, al di fuori dei discorsi che de nisco-
no l!insieme eterogeneo della sessualità – il corpo, gli organi sessuali, i piaceri, le relazioni
matrimoniali, i rapporti interindividuali – la nozione di sesso non esiste. Questa posizione
sembra essere molto produttiva per la ri essione antropologica trovando alcune conferme
negli stessi dati di molte sue ricerche: essa fa apparire storica – e quindi etnocentrica – la
visione binaria dell!esistenza di due sessi dalle caratteristiche ben de nite e prive di dinami-
cità nel corso della vita individuale mentre le ricerche sulle mitologie, gli studi etnogra ci
ma anche storici dimostrano che non si può sostenere l!universalità di questa categorizza-
zione dei sessi. Piuttosto molte sono le prove che ci invitano a considerare il sesso e il gene-
re come processi dinamici e non come categorie sse e immutabili. Questa ricerca di nuove
relazioni fra sesso e genere spinge l!antropologia a focalizzare di nuovo il suo interesse sui
rapporti esistenti tra corpi e culture, già oggetto degli studi pioneristici di Marcel Mauss. Il
corpo diviene un luogo in cui vissuti e cultura si intersecano con grande complessità e tur-
bolenza, un corpo trasformato da questi scambi, che risponde e reagisce alle differenti stra-
tegie adottate dai vissuti e dalla cultura. E i suoi cambiamenti muovono, come voleva
Mauss, dalle tecniche corporee che mescolano le capacità siche e i meccanismi mentali per
formare un corpo adatto ai contesti e alle circostanze. Un corpo mobile, come mobile è la
cultura della contemporaneità, un corpo che sceglie l!ibridità sessuale e il travestitismo per
adattarsi ad una cultura uida e frammentata, un corpo che si lascia attraversare da diverse
forme di potere ma che contemporaneamente genera fenomeni di muta ma tenace resistenza.
Non è più al centro dell!attenzione di questi studi la modalità con cui il dato biologico in-
uenzi la costruzione sessuale dell!individuo ma la domanda, nell!era delle biotecnologie, si
sposta sulle modalità con cui le culture retroagiscano sui corpi non solo a livello di rappre-
sentazione ma di vera e propria trasformazione. Dalla problematizzazione della coppia ge-
nere/sesso, consegue una discussione di altre coppie binarie, tutte tra loro correlate: mente/
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corpo, cultura/ragione, razionalità/emotività. Il ri uto dell!opposizione binaria non muta
l!oggetto dell!interesse dell!antropologia delle donne che continua a rispondere all!invito an-
tico di Clyde Kluckhohn di fare dell!antropolgia #la scienza dei rimasugli”, delle #stranezze”
e delle #bizzarrie” ma muta l!orizzonte in cui le sue ricerche si iscrivono. Ancora i gruppi
senza voce che oggi sono diventati i rifugiati, gli immigrati, i #senza tetto” sono i loro #cam-
pi” privilegiati ma i luoghi delle ricerche non sono più le riserve indiani o le isole lontane
dei Mari del Sud ma sono le periferie, gli slums, le bidonvilles e le banlieux delle grandi
metropoli. Ancora le minoranze, gli #invisibili” vengono individuati in rapporto al dominio
delle élites ma sullo sfondo dei nuovi nomadismi multiculturali, delle diaspore e delle guer-
re che attraversano il destino di tanta parte dell!umanità. E l!antropologia delle donne, avvi-
cinandosi agli studi culturali e agli studi femministi, afferma nuove metodologie di ricerca
che hanno nella trasversalità, nella pluralità delle prospettive, nella denuncia della propria
collocazione i loro punti di forza . Rispetto ai rapporti con gli studi di genere mi sembra di
poter notare che la polemica scoppiata tra il femminismo occidentale e il femminismo delle
alterità – primo fra tutte quello delle donne afro-americane – ha avuto effetti ed implicazioni
importanti proprio sugli aspetti metodologici di far antropologia da parte delle donne. La
rivendicazione delle donne -che si sentivano marginali non solo rispetto alla cultura occi-
dentale maschile ma anche rispetto alla cultura occidentale femminile e femminista - di vo-
ler #parlare per sé” , dif dando chiunque non appartenesse al loro gruppo razziale e sociale
di avanzare proposte politiche in loro nome tocca un problema epistemologico assai scottan-
te per l!intera disciplina ed evidenziato anche dall!antropologia delle donne nella loro batta-
glia contro la lettura #maschile”, #neutra”, #oggettiva” delle alterità. Inoltre rivendicando la
necessità di considerare la simultaneità della loro emarginazione – dovuta non solo alla loro
appartenenza sessuale ma anche a quella di classe e di razza – il movimento di liberazione
delle donne afro-americane rivaluta il principio antropologico di aderire sempre e comunque
all!analisi del contesto: principio questo che ha costituito un motivo di grande attrito e al
tempo stesso di distinzione tra l!"antropologia delle donne e le analisi femministe care agli
studi di genere. Le femministe afro-americane riferendosi alla storia del loro gruppo e ripor-
tando al suo interno, e all!interno delle loro esperienze e dei loro vissuti, l!analisi culturale –
e poco importa che la compiano in saggi o in romanzi, nelle aule universitarie o nei luoghi
dell!attività politica – si rifanno soprattutto alla tradizione orale. Accanto ad essa, rivalutano
tutti quei #documenti” che hanno costituito da sempre i #materiali” su cui l!antropologia ha
costruito, sia pure tra mille contraddizioni, più in modo intuitivo che ri essivo, il corpus
delle sue conoscenze: racconti mitologici, lastrocche e formule magiche, produzioni musi-
cali e rappresentazioni di strada, riti e cerimonie lontane da quelle uf ciali, conversazioni
personali, narrazioni e genealogie familiari. Come ha scritto Barbara Christian, #la gente di
colore ha sempre teorizzato, ma in modi assai diversi dalle forme di logica astratta dell!Oc-
cidente. Sarei tentata di dire che il nostro teorizzare ( e uso intenzionalmente il verbo e non
il sostantivo) si manifesta spesso in forme narrative, nelle storie che creiamo, negli indovi-
nelli e nei proverbi, nel gioco della lingua, dal momento che sembriamo prediligere le idee
dinamiche e non sse”. Anche i gruppi femministi afro-americani corrono il pericolo del-
l!essenzialismo che nel loro caso può assumere un volto duplice, l!essenzialismo di genere e
l!essenzialismo razziale. Del resto il tentativo di dare voce alla subalternità sfuggendo al
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doppio legame dell!essenzialismo da un lato e dell!impossibilità di trovare espressioni pro-
prie, libere dall!in uenza delle categorie della cultura dominante dall!altro, attraversa tutta
l!antropologia contemporanea. Dopo aver contestato radicalmente la legittimità di conside-
rare l!antropologia quale portavoce delle alterità, gli studi #postcoloniali” tentano con gli
schemi concettuali dei meticciati, con la scelta di porsi, da un punto di vista metodologico,
all!interno delle aree più ibride, più cariche di ambiguità, di rompere il binomio oppositivo
dominante/dominato. Sotto questo impatto critico composito e complesso in cui coesistono
stimoli e tendenze a volte opposte sino alla contraddittorietà, la ricostruzione della memoria
sociale – della storia di un gruppo – si afferma e si concretizza nel lavoro antropologico
come relazione tra il ricercatore e i suoi testimoni: nel lavoro sul campo, nella sua quotidia-
nità di vita, i ricordi, i vissuti degli uni e degli altri si mescolano nella soggettività dei livelli
emotivi. E!"attraverso questa relazione, spesso lasciata a livello implicito, che luoghi presso-
ché sconosciuti al ricercatore riescono ad evocare le immagini di tempi lontani e gli oggetti,
anche i più individuali e privati, divengono #segni” di una memoria collettiva. Numerosi
sono gli esempi di un!antropologia al femminile che negli anni!80 e !90 dello scorso secolo
rivaluta l!oralità, il rapporto interpersonale, la casualità del piano di ricerca, scegliendo nel
coacervo delle piste metodologiche aperte da più di cento anni di storia della disciplina
quelle che sono state sempre considerate marginali, quegli interessi e quelle ricerche che
Gupta e Ferguson considerano essersi sviluppate ai #bordi dell!antropologia” (A. Gupta, J.
Ferguson, 1997, p. 30): il folklore, i romanzi che narrano le esperienze di campo, gli studi
etnici, i #romanzi” dei nativi e l!uso nelle etnogra e delle osservazioni derivate dall!espe-
rienza di essere stati allevati nella cultura che si analizza.(...) E questa marginalità è, per i
due autori evidente nella sottovalutazione e nell!ostracismo accademico che venne dato tra
gli altri ai lavori pionieristici di Zola Neale Hurston e di Ella Deloria. (ibidem). E!"interes-
sante notare che nell!antologia che nel 1997 Gupta e Ferguson dedicano ai #Luoghi antropo-
logici” , i saggi esempli cativi delle nuove frontiere della ricerca antropologica siano stati
scritti tutti da donne. Anche se i saggi che fanno da cornice al testo, quello introduttivo e
quello conclusivo appartengono ancora all!elaborazione maschile, la gamma degli interessi
aperti dai contributi femminili è così vasta da far ritenere che l!antropologia femminile,
dopo essere state ignorata negli anni !80 dall!antologia con cui James Clifford e George
Marcus intendevano dar conto dello #stadio avanzato” della scrittura etnogra ca (J. Clifford,
G. Marcus, 1997, p. 44), si sia ormai affermata come valida interlocutrice del mondo acca-
demico uf ciale. Gli otto saggi, presenti nell!antologia di Gupta e Ferguson, si propongono
lo scopo di aprire la ricerca sulla memoria di uno speci co gruppo umano alle aree di fron-
tiera che l!antropologia delle donne ha cercato di imporre come luogo di studio sin dai suoi
primi esitanti esordi : aree tutte dai contorni incerti e sfumati, sia quelle in cui si collocano
le comunità degli omosessuali degli Stati Uniti d!America, sia quelle dei #senza tetto” che
l!antropologa segue nelle mense, negli uf ci della pubblica assistenza, nei vagabondaggi per
le strade della metropoli. Altri saggi delineano nuove aree metodologiche, nuovi luoghi ove
situare gli ambiti di ricerca: ed ecco la proposta di non seguire, nella ricostruzione della
memoria di un gruppo di rifugiati hutu, i percorsi cari all!etnogra a tradizionale – le routi-
nes, gli avvenimenti quotidiani - ma piuttosto #arrendersi” al desiderio e all!immaginazione
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del gruppo e parlare con loro soprattutto di ciò che sta loro a cuore: gli eccezionali eventi
vissuti e la transitorietà della loro vita attuale. E in questo sforzo nuovo e non portato a ter-
mine sino in fondo, l!antropologa intravede nuove possibilità di comunicazione con i suoi
interlocutori, aprendo il dialogo e la relazione con loro ad una condivisione di letture lonta-
ne dall!area geogra ca e culturale di appartenenza ma non per questo meno importanti nella
costruzione della memoria di una comunità (L. Malkki, 1997). L!empatia che anima l!antro-
pologa la porta a proporre di abbandonare la stretta aderenza al contesto geogra co e cultu-
rale per inseguire non tanto una memoria radicata nel passato quanto una memoria #imma-
ginata”, costruita su materiali letterari, su notizie giornalistiche prodotte altrove ma che en-
trano, con le loro cariche di speranza, prepotentemente anche nella ricostruzione del passa-
to. Mi sembra di poter dire che da queste impostazioni si siano aperti nuovi orizzonti che in
un certo senso s dano sempre più apertamente gli studi femministi a ripensare la questione
del genere in termini antropologici: vale a dire ad affrontare in termini critici e problematici
la rappresentazione delle pratiche delle donne, il ruolo che le donne svolgono oggi nella vita
pubblica, i mutamenti delle economie e i loro effetti nella vita sociale e nella partecipazione
politica delle donne, l!analisi #ri essiva” della partecipazione femminile alla ricerca e in par-
ticolare alla ricerca sul campo che pone in gran discussione i rapporti e i dislivelli tra il sog-
getto ricercatrice e i soggetti femminili, indigeni rispetto al campo. Soprattutto il richiamo
antropologico con la sua ossessione rispetto al #contesto” sollecita le ri essioni femministe
ad analizzare anche il luogo privilegiato da cui si parla, ad esaminare come i privilegi – qua-
li e quanti – siano stati e siano vissuti, come e quanto la ricercatrice possa abbandonare la
centralità del suo ruolo, o almeno illuminare, accanto alla sua, altre memorie, altri vissuti,
altre prospettive future. Con questi tentativi, inoltre, l!antropologia delle donne partecipa a
determinare un mutamento di grande rilievo nella ricerca antropologica mettendo in crisi la
concezione di un mondo costituito da un mosaico di culture, diverse le une dalle altre e tutte
ancorate al proprio territorio, distinte dalla propria lingua, dalla propria religione, dalle pro-
prie istituzioni, dai propri usi, dai propri costumi. In un mondo siffatto gli antropologi hanno
potuto far la spola tra il #centro” della loro vita accademica e le #periferie” dei loro campi di
ricerca: ma oggi, quando si studiano gli omosessuali nelle diverse metropoli del mondo, i
#rifugiati” e gli immigrati presenti in tutti i continenti e quando si insegnano questi dati e
queste ri essioni nelle università europee e americane e africane e asiatiche, qual è il centro
e quali le periferie? E più in generale, in un mondo interconnesso e interdipendente come
l!attuale, qual è il centro, quali le periferie? Forse l!antropologia delle donne con l!accento
politico che è andata sempre più assumendo, può contribuire a cercare di rispondere a questi
interrogativi, aprendo la strada ad un nuovo tipo di sapere e a nuove nalità di ricerca. Mes-
sa in discussione in modo radicale la possibilità di poter parlare in nome di una alterità così
totale da sopportare di essere considerata oggetto di un!analisi asettica e distaccata, l!attac-
camento al contesto - e quindi più all!ambito problematico che alla località – porta ad una
nuova visione politica della ricerca antropologica, una modalità di far ricerca che Gupta e
Ferguson de niscono #intervento situato” e Donna Haraway #una connessione a rete tra luo-
ghi sociali e culturali diversi”. Politico, in questa accezione, non si collega al suo signi cato
più immediato di intervento e di attivismo in nome di questa o quella ideologia quanto piut-
tosto al suo signi cato di relazione, di collegamento: e l!obiettivo della ricerca antropologica

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non è più raggiungere una conoscenza da elargire a chi non la possiede – perché diverso,
perché inferiore, perché discriminato, perché comunque #altro da sé” – quanto piuttosto #co-
struire legami fra conoscenze diverse perché raggiunte da collocazioni diverse e stabilire
con esse e tra esse alleanze e nalità comuni”. Una lunga storia di nomadismo, svolto cac-
ciando in piccoli gruppi, attraversando per centinai di millenni i paesaggi diversi del nostro
pianeta, costituisce per la nostra specie una eredità dif cile da dimenticare, per molti antro-
pologi impossibile da cancellare. E la storia del sedentarismo, dei #costruttori di città”, in-
tensa e produttrice di un incredibile fervore di innovazioni e di cambiamenti culturali, appa-
re breve – un attimo, un battito di ciglia di una divinità - se proiettata sullo sfondo dei mi-
lioni di anni che l!hanno preceduta. Al suo interno, inoltre, è possibile cogliere una tensione
costante che tiene vivo, a livelli diversi, il desiderio del muoversi, l!ansia del nuovo, la ri-
cerca di nuovi spazi, la scoperta di nuove modalità di interazione con paesaggi, comunità,
culture. E i livelli parlano di migrazioni di piccoli gruppi o di intere popolazioni, di orde fe-
roci che conquistano e abbattono imperi, di caravelle che scoprono nuovi continenti, di con-
ni #naturali” continuamente violati da una ricerca intellettuale avida e sempre insoddisfatta,
da applicazioni tecnologiche sempre più audaci nello spostare i limiti considerati dal proprio
tempo insuperabili. Tutto questo ribollire di gruppi che si incontrano, si scontrano, si mesco-
lano e si distruggono, subisce nel corso degli ultimi secoli un aumento sempre più vigoroso
dovuto ad una concomitanza di fattori: un aumento demogra co mai veri catosi, nel nostro
pianeta, in queste proporzioni, lo sviluppo differenziale dei diversi modi di produzione, l!at-
trazione esercitata in tutti i continenti dalle aree urbane, il potenziamento dei mezzi di co-
municazione. E considerare i processi culturali in atto nella contemporaneità signi ca rico-
noscere che la dinamica culturale dell!intero pianeta è oggi condizionata, se non determina-
ta, dal movimento pressoché costante di masse di individui: centinaia di milioni che valica-
no con ni politici e geogra ci in cerca di una vita migliore, centinaia di milioni che inse-
guono sogni di periodi felici, lontani dalle routines quotidiane, centinaia di milioni che quo-
tidianamente si spostano per i loro studi, per i loro lavori, per i loro dinamici e mutevoli in-
teressi. Sarebbe appropriato domandarsi perché gran parte del pensiero occidentale abbia
per secoli rimosso questa realtà sostituendola con la convinzione di uno stato di natura che
vede la nostra specie essere #naturalmente” sedentaria: dalla letteratura alle scienze sociali e
al #senso comune” il viaggio, lo spostamento è considerato una situazione eccezionale, che
rompe equilibri e produce turbamenti. Ed anche quando sia considerato con favore è riferito
sempre ad individui o ad eventi che riguardano momenti passeggeri, comunque straordinari,
della storia individuale o del gruppo: Ulisse, l!eroe che con le sue avventure sembra annun-
ciare l!irrequietezza della modernità, è costretto alle sue peregrinazioni dal volere di dei av-
versi e insegue con tenacia temeraria il ritorno alla sua #petrosa” isola. E la trasformazione
del mito omerico, raccontata nel viaggio dantesco, appare più come un destino fatale che
come una scelta deliberata. In campo antropologico mi sembra che anche lo sforzo di Mar-
vin Harris di presentare ironicamente la #scelta “ della sedentarietà come una necessità resa
obbligatoria dalla volontà dei cacciatori di abbandonare i sanguinosi e dolorosi metodi di
controllo delle nascite cui li costringeva la loro economia non adatta a gruppi di larghe di-
mensioni sia rimasto, al suo apparire, alquanto inascoltato. Dalla convinzione di una seden-
tarietà “naturale”, più postulata che dimostrata, scaturisce un approccio tutto particolare al-

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l!analisi del nomadismo in base alla quale esso è considerato un!interruzione di una situa-
zione in cui le singole culture si sviluppano attraverso il loro lungo radicamento in un de-
terminato territorio. Con questa visione la stessa dinamica culturale è pressochè interamente
riportata all!interno del gruppo esaminato: come ha scritto James Clifford, giocando sulla
pronuncia simile di due parole inglesi, #roots always precede routes”, vale a dire le radici
precedono sempre le strade. Se invertiamo la prospettiva e postuliamo che il nomadismo, il
#viaggio” non abbiano un carattere di eccezionalità ma siano momenti basilari della dinami-
ca culturale, il territorio, i con ni, le identità dei gruppi divengono prodotti culturali, non
più entità “naturali” ma elementi costruiti dalle pratiche dei contatti e degli spostamenti dei
diversi gruppi nel corso della loro storia. La centralità del nomadismo emerge soprattutto
alla ne del XX secolo in seguito al virulento sviluppo dei processi di globalizzazione che
sembrano travolgere ogni regione del nostro pianeta; ed i processi innovativi propri della
nostra contemporaneità, il loro affastellarsi affannoso, fanno #esplodere” quella coincidenza
tra cultura e territorio che è stata alla base del modello teorico e politico accettato e afferma-
to dall!Occidente soprattutto nei secoli XIX e XX. Le parole che indicano i caratteri del pro-
cesso di globalizzazione individuate da Anthony Giddens riguardano principalmente il livel-
lo economico sottolineando le interazioni nanziarie che accomunano paesi lontani e diver-
si, la diffusione mondiale delle tecnologie moderne, le nuove forme della divisione e del-
l'organizzazione della forza lavoro, l'emergenza di "un ordine militare mondiale". A queste
dimensioni tuttavia se ne sono aggiunte altre, di carattere più nettamente culturale che con le
loro interazioni, con le loro "ricadute" rendono il quadro ancora più dinamico e complesso:
la crescita di reti e di corporazioni transnazionali; nuove tecnologie di informazione e di
comunicazione che hanno contribuito ad una "intensi cazione della compressione spazio/
temporale" che ha avuto un impatto disorientante e distruttivo sulle pratiche politico/eco-
nomiche usuali; un aumento vertiginoso negli spostamenti, nelle emigrazioni, nei viaggi in-
ternazionali con conseguenti e parallele trasformazioni nella vita sociale e culturale della
maggioranza dei gruppi umani. Gli effetti di questi processi innovatori sono sfuggenti e con-
tradditori. Se alcuni analisti sottolineano la prospettiva della nascita di una cultura globale
cosmopolita sorretta dalla nascita di "culture transnazionali", altri individuano una grande
super cialità nel cosmopolitismo contemporaneo, una omogeneità tutta apparente, determi-
nata dall'adeguamento generalizzato a modelli consumistici rispondenti alla produzione
economica capitalista - la McDonaldizzazione del mondo (Barber B., 1998). E al di sotto di
questa coltre si individua un mondo interdipendente a causa dei processi globali che tuttavia
continua a produrre localismi esasperati, valorizzazioni di comunità etniche che sembrano
s dare le più ampie unità politiche in cui sono incorporate rivendicando per sé stesse diritti
e riconoscimenti propri di nazioni e di stati; la riscoperta di "radici" e di storie che minac-
ciano non solo le nuove unità transnazionali ma le stesse unità nazionali degli ultimi secoli.
(Bhabha H., 1997). Ad un esame circostanziato appare infondata e approssimativa l'ipotesi
sia della univocità della diffusione nel mondo di un unico modello consumistico sia l'inevi-
tabilità dei processi di omogeneizzazione culturale ad essa conseguente. La dinamica inter-
culturale della contemporaneità è assai più complessa di queste sempli cazioni riduzionisti-
che. Come scrive Appadurai "appena le forze innovative provenienti da diverse metropoli
sono portate all'interno di nuove società, esse tendono, in un modo o nell'altro, a subire un
processo di indigenizzazione: questo è vero della musica come degli stili abitativi, dei pro-

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cedimenti scienti ci come del terrorismo, degli spettacoli come delle norme costituzionali.
In poche parole le singole culture possono riprodursi o ricostruire la loro speci cità sottopo-
nendo le forme culturali transnazionali ad un processo di indigenizzazione" (Appadurai A.,
1996, p. 19). Così dobbiamo riuscire a sintonicizzarci, per usare un'espressione di Roberts-
on, "tanto all'istituzionalizzazione globale della vita-mondiale quanto alla localizzazione
della globalità" (Robertson R. 1999). Sempre più i nuovi nomadismi che percorrono la so-
cietà contemporanea divengono oggetto privilegiato ed emergente della ricerca e della ri-
essione culturale: da fonti diverse assistiamo ad un orire di nuovi concetti o ad una rivisi-
tazione di vecchie terminologie, quali quella di "diaspora", di trasmissione culturale, di #tu-
rismo”, di migrazione, di identità, usate tutti per render conto di ciò che sembra un nuovo
modello e un nuovo modo di vivere quel nomadismo che è proprio da sempre della nostra
specie. Robin Cohen ha osservato che il concetto di diaspora a lungo usato nelle scienze so-
ciali, nelle opere letterarie e nelle analisi politiche ha una de nizione ancora imprecisa e uno
spessore teorico alquanto inconsistente. Restando fedele al riferimento biblico, attualmente
il concetto di diaspora è generalmente usato per de nire la dislocazione di gruppi che in se-
guito a con itti, persecuzioni politiche e religiose sono costretti ad abbandonare i loro luo-
ghi di residenza abituale, mentre per cultura della diaspora si intende la rete di relazioni che
in conseguenza di queste dislocazioni unisce vaste aree – geogra che e culturali - anche as-
sai difformi per caratteri, storia e speci cità economiche e politiche. L!aumento in termini
numerici del fenomeno, la sua presenza in regioni assai distanti le une dalle altre, le interdi-
pendenze che esso stabilisce con aspetti determinanti della politica e dell!economia interna-
zionale hanno prodotto, in questi ultimi anni, un vistoso aumento delle ri essioni su di esso.
Muovendo dalla de nizione generica che lo indicava come un prodotto di comunità che
sebbene fossero sparse in vaste aree mantenevano al loro interno profondi legami sociali e
forti sentimenti identitari, gli studi oggi mettono in luce le relazioni che le culture diaspori-
che mantengono con le comunità di origine ma evidenziano anche quelle che stabiliscono
con le comunità che li hanno accolti (J, Clifford, 1994); ed essi non trascurano di ri ettere
sulle reti che si stabiliscono fra le diverse culture diasporiche. A questo proposito mi sembra
molto rilevante porre alla base delle nostre ricerche una domanda nora poco presente nelle
sue molteplici implicazioni: come si mescola la cultura tradizionale alle nuove pratiche che
costruiscono l!orizzonte culturale della diaspora? Quanti sono, fra i popoli dei #campi”, gli
individui che si nutrono dell!impianto ideologico che li fa #re-inventare” un loro passato in-
dipendente e felice e quanti di essi, invece, non sono già partecipi di una cultura #interstizia-
le”, carica di contaminazioni e di meticciati? E!"molto importante sottolineare che investiga-
re le strategie e le pratiche discorsive messe in atto dai singoli gruppi che vivono la diaspora
rivela che l!esperienza della dispersione e dell!esilio rafforza anche i legami con il mondo
più vasto, fornendo visioni unitarie e complesse sia del #locale” che dell’”altrove”, sia della
durezza presente che del rimpianto nostalgico. Inoltre eventi che pongono in pericolo l!iden-
tità nazionale, come accadde ad esempio nel 1990 allo scoppio della guerra in Croazia, pos-
sono avere l!effetto di rivitalizzare e in un certo senso reinventare una identità comune tra
tutti gli esiliati, i rifugiati, gli emigrati che a molti livelli – informali, uf ciosi ma anche uf-
ciali - intensi cano i loro legami transnazionali. A partire dal 1990, in Croazia, nei discorsi
uf ciali il termine #diaspora (dijaspora)” è usato per uni care due concetti sino ad allora ben

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distinti: quello che de niva i #lavoratori temporaneamente all!estero” e quello che de niva
con il termine apparentemente neutro – ma colmo di connotazioni negative - di #emigranti
(emigranti)” i fuoriusciti dalla Jugoslavia per motivi politici. Numerosi sono gli stati nazio-
nali che in questi ultimi anni hanno tentato, di stabilire, a livello istituzionale, legami con i
gruppi che possiamo far rientrare nell!ambito – in verità, ampio, uido e piuttosto vago –
della cultura diasporica. Troviamo documenti di questi tentativi in realtà culturali e politiche
assai diverse che indirizzano i loro sforzi quasi unitariamente agli immigrati, ai fuoriusciti,
ai gruppi scacciati da eventi bellici o da costrizioni politiche. Esaminando i tentativi messi
in atto dal governo messicano per sviluppare legami stabili con i suoi cittadini che legal-
mente o meno sono immigrati negli Stati Uniti, sono state individuate, per queste azioni go-
vernative, tre ragioni che in linea di massima possono essere ritenute valide anche in molti
altri contesti: impadronirsi di parte delle risorse nanziarie prodotte nel nuovo paese, con-
trollare i legami che si sono sviluppati tra la società civile del luogo di origine e gli emigrati,
riorganizzare l!identità nazionale che potrebbe essere indebolita per i contatti stabiliti con la
nuova cultura. Un problema ancora poco esplorato riguarda la reale volontà delle diverse
comunità diasporiche di ritornare permanentemente nel paese di origine. A questo livello di
analisi, può innanzi tutto risultare produttivo discutere le ipotesi che presentano le culture
diasporiche come luogo di processi uni canti. Molte sono le ricerche che smentiscono il
luogo comune in base al quale vivere lontano dalla propria comunità nazionale implichi au-
tomaticamente perdere la propria identità, le proprie tradizioni e la propria cultura: tuttavia
l!esperienza della dislocazione si struttura in base a tante variabili, è talmente in uenzata
dalla politica locale nei confronti dei diversi tipi di nuovi #ospiti”(immigrati, rifugiati, clan-
destini) e insieme dalla politica internazionale nei confronti dei paesi di provenienza che i
nuovi milieu culturali che si formano sono aperti a svariate soluzioni, spesso uide e con-
tingenti. Come ha scritto Stuart Hall,” l!esperienza della diaspora non è de nita dall!essenza
e dalla purezza ma dalla consapevolezza di una necessaria eterogeneità e diversità: da una
concezione dell’”identità” che vive non in opposizione alla differenza ma con essa e attra-
verso essa, è de nita dall!ibridità”.Va comunque ricordato che attraverso l!uso dei media,
attraverso i collegamenti con gli stati nazionali e con gli organismi internazionali, le comu-
nità diasporiche, e in generale le comunità transnazionali, possiedono buoni livelli di potere
politico ed anche economico, buone capacità di costituire punti di aggregazione che supera-
no le stesse appartenenze nazionali e/o etniche: e allora sovente esse sono – o possono esse-
re – attori e agenti di cambiamenti politici sia nel loro paese di origine che in quello di ac-
coglienza. E questa dinamica complessa e variamente articolata anche all!interno della stes-
sa comunità diasporica, dimostra l!errore – non solo teorico ma anche politico – di riportare
a modelli unici e generalizzanti le culture diasporiche, di considerare unitariamente le loro
potenzialità quali agenti di cambiamento e di interpretare in modo univoco le nalità delle
loro attività. Per quanto riguarda l'analisi del fenomeno migratorio la nostra contemporanei-
tà mostra differenze profonde con il passato.
Le migrazioni sono oggi, come ieri, determinate da ragioni composite che af ancano, senza
escludersi a vicenda, la ricerca di benessere alla necessità di sfuggire alla violenza della
guerra e della persecuzione politica. E forse a questo livello le differenze con il passato sono
più quantitative che qualitative; grandi gruppi umani hanno sempre vissuto quasi contempo-
raneamente "la diaspora della speranza, la diaspora del terrore, la diaspora della disperazio-
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ne ". Ad esempio, le immagini dei treni del Kosovo non possono non aver richiamato alla
nostra memoria i treni piombati dell'Olocausto ma anche le navi dei molti cittadini inglesi
strappati alle carceri per popolare la "riva fatale" australiana. Così come i vestiti laceri, le
scarpe sfondate, i fagotti di stracci dei migranti di oggi, ricordano i vestiti laceri, le scarpe
sfondate, i fagotti di stracci documentati nel museo di Ellis Island, nella baia di New York, a
ricordo della diaspora, anch'essa carica di dolore e di speranza, che popolò gli Stati Uniti
d'America. Quello che oggi è completamente nuovo è che questi movimenti, queste diaspo-
re, si muovono all'interno di un sistema di comunicazione ignoto nel passato, che dà forma
al desiderio e all'oltraggio ma al tempo stesso anche agli adattamenti, alle scelte, alle ribel-
lioni. Sono le trasmissioni televisive che portano nelle nostre case e nelle nostre coscienze la
marcia disperata di un popolo scacciato perché "etnicamente" non congeniale ad un territo-
rio, sono le trasmissioni televisive che muovono i nostri antichi rimorsi costringendosi oggi,
a differenza di ieri, a non poterci nascondere dietro l'alibi della non conoscenza. Ma anche i
vissuti delle vittime e dei carne ci sono attraversati, in parte determinati, comunque in uen-
zati, dalla creazione di un immaginario collettivo che paradossalmente, proprio in un con it-
to che pone alla sua base i principi di territorialità e di appartenenza etnica, trascende com-
pletamente gli spazi delle singole nazioni. Sono le trasmissioni televisive che spesso orien-
tano e spingono individui e gruppi verso l!esperienza migratoria: la rete che avvolge il no-
stro pianeta con le trasmissioni satellitari riempie tutti i continenti di immagini di ricchezza,
di vita felice e libera aperta a tutti, e per quanto essa sia falsa e misti cante è stato ed è tut-
tora un fattore che dà forma ed uni ca il desiderio collettivo di milioni di individui. Sovente
poi i racconti stessi degli individui che vivono questa esperienza confermano agli occhi di
chi non è ancora partito il sogno: per non confessare le umiliazioni e i fallimenti di cui spes-
so la via dell!emigrazione è costellata, per allontanare dai propri familiari il dolore provato,
per convincersi che la scelta fatta aveva una sua validità e una sua ragione. Allargando la
nostra ottica, l'intero "spazio migratorio" è stravolto dall'esistenza dei mezzi di comunica-
zione, dagli aeroplani ai fax, dalle trasmissioni televisive alle poste elettroniche, alle "navi-
gazioni" in Internet: gli immigrati indiani guardano, in Gran Bretagna o in Italia, le teleno-
velas prodotte nei loro paese di origine, ricevono visite frequenti di parenti e amici; i tassisti
pakistani percorrono le strade di Sydney ascoltando le "cassette" delle preghiere registrate
nelle lontane moschee del mondo musulmano, comunicano quotidianamente con le loro
comunità; le antenne paraboliche che affollano le nestre dei "centri di accoglienza" predi-
sposti in Emilia- Romagna per gli immigrati maghrebini portano, nelle loro povere stanze,
le immagini e le voci dei loro paesi: proprio mentre si muore per una città, per un villaggio,
un campo, l'immaginario collettivo si allarga, raggiunge spettatori appassionati che introdur-
ranno in spazi culturali completamente diversi le immagini trasmesse nei loro paesi di origi-
ne. V’è poi un altro versante assai importante da aprire e, sia pure succintamente, da trattare:
ed è quello dell!in uenza che i mezzi di comunicazione di massa esercitano sul bacino di
informazione e sull!immaginario collettivo che i cittadini di un paese oggetto di immigra-
zione posseggono sul fenomeno: anche se da tempo gli studiosi dei milieu mediatici ci rac-
comandano grande prudenza nello stabilire effetti diretti e univoci tra immagini, informa-
zioni e comportamenti degli utenti, molti studi dimostrano che i mezzi di comunicazione –
prima fra tutti la televisione la cui ricezione, per la sua fruibilità, è assai più facile ed imme-
diata di altri mezzi, quali i quotidiani, la fotogra a e i lm – hanno avuto un ruolo determi-

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nante nel costruire un alone di #alterità” intorno agli immigrati, riunendoli tutti in un!aura di
estraneità, di sospetto rispetto alle loro #vere” intenzioni, sottolineando le loro devianze ed
etichettandoli tutti – spesso indiscriminatamente - come potenziali delinquenti. Il caso delle
in uenze che la televisione italiana ha avuto e continua ad avere sull!immaginario che si è
negli ultimi anni costruito sugli immigrati albanesi può essere un esempio di questa azione.
Un!enfasi eccessiva – de nita #un!ossessione nazionale” (N. Wood, R. King, 2001, p. 15) -
sul rapporto tra migrazione e criminalità, una continua descrizione degli effetti negativi del-
la migrazione e delle dif coltà di inserimento nella società italiana e di contatto con gli ita-
liani stessi, allontanano la maggioranza degli italiani dal considerare in termini strutturali
questi effetti dell!emigrazione: non li collegano, cioè, con il mercato del lavoro nero e con
un sistema corrotto e malavitoso largamente presente nel nostro paese prima dell!arrivo de-
gli immigrati albanesi ma niscono con il considerare un prodotto dell!immigrazione l!intera
area dell!illecito e della devianza.E!"interessante notare che mentre questo immaginario col-
lettivo si andava formando in Italia, le nostre trasmissioni, piene di benessere, di gioia di vi-
vere, di vacanza continue e dorate, avevano grande in uenza fra i giovani che vivevano nel-
le città dell!Albania e che su queste immagini da terra promessa costruivano non solo il loro
progetto emigratorio ma i presupposti critici per abbattere il regime di Enver Hoxha: soprat-
tutto costituivano l!orizzonte onirico, l!immaginario per desiderare di costruire una nuova
soggettività politica e personale che li sottraesse all!oscuro e triste clima del totalitarismo in
cui erano immersi. (N. Mai, 2001). #Tutte le società producono stranieri: ma ognuna ne pro-
duce un tipo particolare”. Mi sembra che queste parole di Zygmut Bauman possano essere
una buona introduzione alla ricerca di nuovi orientamenti epistemologici per i fenomeni mi-
gratori, a patto, forse che siamo disposti ad introdurre una precisazione: per produzione bi-
sogna intendere una processualità che riguardi alla pari #noi” e gli #altri”. In altre parole
l!antropologia della contemporaneità pone una totale identi cazione tra il soggetto e l!ogget-
to del suo interesse, tra #noi” e gli #altri” e ri uta di identi care #noi” con noi stessi, noi
stessi in quanto italiani e autoctoni attribuendo tutte le categorie dell!alterità all!immigrato,
allo straniero. In questa logica divisoria tanto la tesi che l!immigrazione sia un fenomeno
altamente positivo tanto dal punto di vista dell!arricchimento culturale ed economico del
paese ospite quanto quella apparentemente opposta che considera il fenomeno migratorio un
danno e un rischio da ridurre e contenere al massimo, condividono – a guardar bene – la
stessa posizione teorica, nonostante che ovviamente le rispettive pratiche politiche risultino
poi contrapposte e nemiche. Ambedue in realtà considerano l!immigrazione un fenomeno
unitario, privo di riferimenti contestuali, senza processualità né dinamiche relazionali. Ed
invece lo scenario della contemporaneità con le sue miscele di trasversalità e di deterritoria-
lizzazione, di #spaesamenti” e di localismi esasperati richiede un profondo cambiamento
nello studio e nelle politiche dei rapporti interculturali: se intendiamo svolgere un ruolo
propositivo e attivo in un mondo transnazionale, popolato da culture sempre meno dipen-
denti da modelli culturali ed educativi unitari e coesi, dobbiamo elaborare nuovi strumenti
per rivolgerci ai nuovi vissuti collettivi, articolati e complessi, commistioni dinamiche di
realtà e fantasia. Ogni qualvolta che ci si avvicini ad esaminare o a gestire l!incontro con
una cultura diversa si dovrebbe ri utare l!idea di trovarsi di fronte ad una totalità culturale

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elaborata localmente e costituita da un coeso sistema di pratiche ripetitive ed autoriprodu-
centesi, mai s orato da in uenze e attrazioni esterne. Se parto da questa idea di cultura coe-
sa, prodotta unitariamente in un determinato territorio, il problema di come accogliere il
gruppo di immigrati che preme lungo le coste del nostro mar Adriatico consiste soprattutto
valutare come il loro arrivo cambierà la nostra cultura e come l!incontro con noi muterà la
loro: in quest!ottica la politica verso gli immigrati deve essere tutta rivolta a mantenere un
ordine culturale ipotizzato più che contestualizzato ed individuato. Quale cultura siamo
pronti ad elargire loro? Quali fra i molti aspetti che compongono il nostro milieu culturale
siamo disposti a mostrar loro e a rendere loro accessibili? Quale è la cultura dei kosovari in
fuga, quale quella degli albanesi e quale quella dei curdi e dei magrebini e degli iraniani
riuniti sui #motosca della disperazione” da eventi diversi, da occasioni tutte drammatiche
ma determinate più dalla casualità cha da un piano prestabilito? Quanti di essi condividono,
al momento del loro arrivo, tradizioni avite o invece non sono già partecipi di una cultura
#interstiziale” e carica di contaminazioni e meticciati? Quanto l!abbandono di queste aspira-
zioni verso una cultura nuova, comunque #altra” da quella da cui fuggono, non sarà deter-
minato proprio dalla insistenza da noi formulata e modulata in mille modi sulla
#differenza”? Per quanto essa possa inizialmente ammantarsi di tolleranza e di accettazione,
inevitabilmente carica di distanza e di dif denza l!incontro, risveglia richiami di un passato
che la durezza delle nuove condizioni di vita e di lavoro potrà far apparire degno di rimpian-
to. In effetti questa visione dei contatti culturali postula la possibilità di separare con un ta-
glio netto gruppi e prodotti culturali, cancellare dalle nostre analisi – e dai nostri interventi –
le relazioni, i richiami le risonanze che costituiscono la realtà ibrida delle pratiche sociali.
Ed oggi il nuovo universo della comunicazione ha fatto emergere con grande evidenza le
continue mediazioni, gli intrecci degli scambi, gli andirivieni dei prestiti che costituiscono la
vera e multiforme realtà della produzione culturale. Solo riconoscere che oggi il mondo è
interconnesso ed interdipendente, ci permette di individuare i limiti di gran parte delle poli-
tiche immigratorie che con le loro separazioni, con le loro distinzioni, nei loro aspetti più
estremi possono esser lette ed interpretate come un potente mezzo per mantenere gli equili-
bri di potere esclusivamente in favore di un #noi” che rischia di essere sempre più assediato,
isolato e lontano dalla realtà. Inoltre a legare ed ancorare la cultura ad un determinato spazio
si aprono una serie di interrogativi di carattere generale ai quali mi sembra che sia sempre
più urgente cercare di dare una risposta. Quale cultura per i molti individui che abitano tutti
i con ni di tutti gli stati nazionali del mondo? E quale cultura per i milioni di individui che
dall!inizio del XX secolo hanno abbandonato i loro spazi in seguito all!emigrazione, alla de-
portazione, alla fuga da sistemi violenti e repressivi o dalla furia delle guerre? A qual punto
della sua storia un gruppo può esser de nito #subcultura”? E questa de nizione è compren-
siva di tutti i suoi aspetti, di tutti i suoi caratteri o solo di alcuni? E cosa dire della sostenibi-
lità di questo concetto quando ci troviamo di fronte ad alcune subculture che in seguito alla
ne del colonialismo politico sono divenute culture dominanti rispetto all!organizzazione
territoriale e istituzionale ma non rispetto al loro potere economico? Aprendo il tradizionale
concetto di cultura a queste problematiche si affermano oggi le analisi che si interrogano sui
nuovi aspetti che assumono il cambiamento sociale e le trasformazioni culturali che avven-
gono non più in spazi disgiunti ma in spazi interconnessi. “ E!"la riterritorializzazione dello
spazio – scrivono Akil Gupta e James Ferguson – che ci obbliga a riconcettualizzare, sin
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dalle loro fondamenta, le politiche delle comunità, della solidarietà e della differenza cultu-
rale (A.Gupta, J.Ferguson, 1997, p. 37).
All!analisi del rapporto tra una cultura che eleva l!altro allo stato del sè o che abbassa il sè
alla dignità dell!altro, si sostituisce un!analisi della cultura vista come luogo di differenzia-
zioni e contaminazioni, con un dilagare di discriminazioni, con l!affermarsi di omologazio-
ni, con l!insorgere di nuove differenze che raggiungono ritmi mai sperimentati prima d!ora.
In questa prospettiva una pratica antropologica che voglia assumere all!interno dei suoi ap-
parati teorici e delle sue pratiche metodologiche le nuove interdipendenze che caratterizzano
l!attuale #commercio tra culture”, che non voglia ignorare le frammentazioni e le fratture
violente che si inseguono senza sosta nell!attuale organizzazione spazio temporale, dovreb-
be con decisione abbandonare i suoi tradizionali percorsi, porre al centro della sua ri essio-
ne i nuovi meticciati, le nuove contaminazioni culturali, scegliere come luogo privilegiato di
attenzione le aree di con ne, le aree incerte di nomadismo contemporaneo, ri utando la cen-
tralità che la modernità af dava ad un!unica cultura, ad un unico dominio. E forse trovare
dei luoghi #labili”, fra i popoli della diaspora, dell!esilio, delle migrazioni i suoi nuovi pen-
sieri, le sue nuove parole.

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