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Analisi 30 testi/poesie

Emile Zola
Emile Zola nasce nel 1840 a Parigi, fu poeta e romanziere. Primo Grande successo fu “Teresa
Raquin” del 1867, ossia un’analisi di un torbido caso di patologia criminale. Affiancò alla
produzione letteraria una costante opera di teorico e divulgatore dei principi del Naturalismo di cui
fu considerato caposcuola, e condusse un’intensa vita polemica, sia in campo culturale che politico.
Morì nel 1902 a Parigi.
Le sue opere maggiori sono quelle a stampo naturalistico, come Rougoun Macquart: un complesso
di romanzi in cui Zola segue il destino dei discendenti di uno stesso ceppo familiare, studiando il
manifestarsi dei caratteri ereditari di ciascuno nei diversi ambienti sociali e nelle diverse fasi
storiche in cui si trovano a vivere. Tra i romanzi del ciclo, ricordiamo “Il ventre di Parigi”.
L’adesione al naturalismo non si traduce in Zola in omogeneità espressiva: il suo stile spazia
dall’oggettività documentaristica al simbolismo e al lirismo evocativo, in relazione alla materia
trattata e al variare del gusto del pubblico.
Grassa, Grossa e bella
Florence è un’idealista che ha combattuto sulle barricate nel 1852 contro Napoleone III ed è stato
condannato ai lavori forzati nella terribile Caienna. Evaso, giunge a Parigi affamato e senza forze.
Lo accolgono il fratellastro e la moglie: grassi, lustri contenti di sé e della salumeria di cui sono
proprietari. Fin dal primo incontro si intuisce quello che il seguito della vicenda confermerà: nessun
affiatamento sarà mai possibile fra due tipi umani così diversi, fra l’inquieto rivoluzionario e i suoi
ottusi e soddisfatti parenti.
L’opera si svolge nei Mercati generali da cui, come un ventre collettivo, passa il cibo che ogni
giorno si mangia a Parigi: ne risulta uno studio di un ambiente particolarissimo ma anche una
suggestiva metafora del materialismo e dell’ottuso egoismo della piccola borghesia francese durante
il Secondo impero.
Il brano presenta una prima parte molto descrittiva soffermandosi su molti particolari (la vetrina
della salumeria ad esempio) e da una seconda parte di carattere narrativo, più calzante, incentrata
sull’incontro tra il protagonista e i suoi parenti.
Giovanni Verga
Catania, 1840. Sin da giovane si dedicò alla letteratura. Nel 1865 si trasferì a Firenze dove conobbe
L. Capuana e continuò a scrivere. Nel 1872 si traferì a Milano, dove entrò in contatto con la
scapigliatura mentre tra il 1870/80 si convertì al verismo grazie al quale creò le sue opere migliori.
Tornò a Catania nel 1893, dove ci rimase fino alla morte, nel 1922.
Le prime opere di Verga sono di stampo romantico. La novella rustica “Nedda” segna il passaggio
da romanticismo a verismo -> abbandona le avventure di personaggi che vengono travolti da
passioni fatali per concentrarsi sugli umili e gli oppressi, per descrivere le miserie e le vicende di
quella povera umanità in modo “oggettivo”, senza fare commenti personali. Tutto questo sarà poi il
nucleo delle successive opere di Verga
Rosso Malpelo
Rosso Malpelo è un ragazzo dai capelli rossi che lavora in una cava di sabbia della Sicilia, un
povero infelice, indurito dai rigori della vita e dall’atrocità della sua condizione di sfruttato. In
realtà, Malpelo nasconde in sé un grande bisogno di amore che riserva nel rapporto, a tratti
burrascoso, con Ranocchio, un altro infelice adolescente come lui, ma di lui più debole e,
soprattutto, in quello con il padre, morto in un incidente sul lavoro nella cava, nella quale anche
Malpelo finirà i suoi giorni, senza lasciare traccia di sé.
Pubblicata nel 1880 nella raccolta Vita dei campi, La novella Rosso Malpelo contiene i capisaldi
della poetica di Verga sia ideologici che espressivi: attenzione al mondo degli umili, dei reietti, la
visione pessimistica della condizione umana e l’utilizzo di un linguaggio “popolare”. L’opera
appare come il più compiuto esempio dei particolari caratteri del verismo verghiano: distacco
oggettivo di Verga nel raccontare la storia, ma nonostante ciò (e senza dimenticarlo) non riesce a
commuoversi di fronte a questo “eroe”. Dal punto di vista stilistico-espressivo, l’opera non si svolge
in modo organico: sulla base della successione degli eventi, abbiamo anticipazioni, riprese e
aggiunte come se il tutto fosse raccontato dagli stessi personaggi e non dall’autore in sé.
Compare Alfio se ne va domani
I fatti narrati nel romanzo I Malavoglia abbracciano un periodo che va dal 1864 al 1876. Nella
famiglia Malavoglia domani il vecchio padron ‘Ntoni, sul figlio Bastianazzo, sulla nuora Maruzza
la Longa e sui nipoti ‘Ntoni, Luca, Mena, Alessi e Lia. Domina con la saggezza e l’nesta di un
patriarca. Il nipote più grande, l’unico che può dare una mano nel governo della braca (la
Provvidenza) è soldato. Per mettere su qualche soldo padron ‘Ntoni tenta una piccola speculazione
su una partita di lupini: se li ingoia il mare, con Bastianazzo e un garzone. E bisogna pagare il
carico perduto: così i Malavoglia diventano poveri e perdono gli amici. Il giovane ‘Ntoni torna dal
servizio militare e lo sostituisce il fratello Luca: il giovane ‘Ntoni è più utile dentro casa. La barca è
rimessa in sesto, si potrà almeno lavorare sul mare. Ma ‘Ntoni non si adatta alla fatica, è svogliato,
vorrebbe qualcosa di diverso ma nemmeno lui sa cosa; corteggia una ragazza per sposarla. Ma,
prima ancora c’è la storia di sua sorella Mena con il suo amore segreto per Alfio Mosca il
carrettiere, che è pronta a prendersi un ricco mentecatto per l’amore della casa. In paese si
chiacchiera: i concorrenti, uomini e donne, sono molti. Compare Alfio ha lasciato il paese, e Mena
si fidanza con Brasi Cipolla. Arriva in piena festa la voce che Luca è morto a Lissa. Il debito dei
lupini è da pagare: non rimane che cedere al creditore, Tino Piedipapera, la casa del nespolo. Per
Mena e per ‘Ntoni essere diventati poveri significa dire addio all’amore legale. Ma non è finita per i
Malavoglia. Un uragano sorprende padron ‘Ntoni e i due nipoti in mare: si salvano a stento; il
vecchio è ferito ma la barca è salva. La famiglia sembra riprendersi con la forza degli umili. Il
giovane ‘Ntoni però è stanco di quella vita, vuole andarsene; si trattiene solo perché la madre lo
supplica di non abbandonarla. Quando il colera se la porta via, nulla lo trattiene più in paese. Don
Michele, il brigadiere, si accorge che Lia Malavoglia sta diventando una bella ragazza; la corteggia
e avverte in lei e la Mena di stare in guardia dal fratello maggiore: ‘Ntoni infatti è tornato con
un’altra delusione e si è messo con una brutta compagnia di contrabbandieri. E una sera, sorpreso in
flagrante delitto, il giovane ferisce don Michele. Al processo, il vecchio cuore di padron ‘Ntoni cede
alla vergogna quando sente che Lia se la intendeva con don Michele. ‘Ntoni è condannato a 5 anni
di carcere; Lia se ne va da casa. Sono rimasti in pochi, i Malavoglia. Alessi lavora per riscattare la
casa; padron ‘Ntoni va all’ospedale per non gravare sulle spalle dei nipoti. Alessi sposa la Nunziata:
si conoscono sin da bambini, da quando, orfani entrambi, hanno imparato a combattere. Alfio
Mosca parla riparla di matrimonio alla Mena: ma lei dice che ormai è troppo vecchia.
La casa del nespolo è riscattata, troppo tardi per padron ‘Ntoni. E una sera viene a bussare l’altro
‘Ntoni: viene a chiedere perdono. Ma ora la casa è ricostruita dai puri, lui che l’ha infangata non
può rimanere. Se ne va e nessuno lo ferma.
Analisi: l’originalità del testo non sta nel discorso indiretto libero ma nella filtrazione sistematica
della sua narrazione di un romanzo intero attraverso un coro di parlanti popolari semireale, che si
aggiunge alla narrazione a mezzo di discorsi e gesti: es. Verga non descrive la morte di Bastianazzo
sulla Provvidenza ma il processo per cui questa morte diventa realtà per il villaggio e per sua
moglie, attraverso i discorsi, i gesti e le attitudini di tutti i membri della comunità -> ha voluto
raccontare gli avvenimenti come si riflettono nei cervelli e nei cuori dei suoi personaggi.
Parte del brano in esame: l’addio tra Mena e compare Alfio (lei si sposa con Brasi Cipolla solo per
una convenienza economica)
Edmondo De Amicis
Nacque nel 1846 e nel 1866 prese parte alla III guerra d’indipendenza. Dalle sue esperienze in
caserma nacquero i bozzetti di Vita Militare pubblicati nel 1868 e che riscossero un grande
successo. De Amicis abbandonò la vita militare per concentrarsi sulla letteratura. Il suo libro di
maggior successo fu Cuore ossia un diario di un anno di scuola, pubblicato nel 1886. Morì nel 1908
E quell’infame sorrise
A Torino, nell’anno scolastico 1882-83, l’alunno di terza elementare Enrico Bottini compila giorno
per giorno il suo diario, registrandovi ciò che succede a scuola. E poiché la scuola è, per De Amicis,
il microcosmo su cui si riflettono tutti gli eventi del mondo esterno, nelle pagine di Cuore entra la
vita di tutti i giorni, con i suoi problemi e Cuore finisce per assumere una funzione emblematica e
una finalità educativa. Tra i valori proposti dal libro, accanto a una cauta apertura sociale che si
esprime nelle forme di un socialismo umanitario, impronto alla pietà per i diseredati piuttosto che a
una consapevole esigenza di giustizia. Questo limite di Cuore è avvertibile nel testo in analisi: i
comportamenti “devianti” dello scolaro Franti sono descritti a tinte fosche, con un’accanita
riprovazione in cui è evidente la volontà di presentare, attraverso un odioso modello negativo, il
repertorio di tutto ciò che un ragazzo deve evitare senza indagare nel retroterra sociale del
“reprobo”, per individuare le cause del suo atteggiamento. Il brano esemplifica efficacemente anche
la tecnica narrativa di De Amicis, che si segnala per abili espedienti tesi a coinvolgere il lettore sul
piano emotivo. Il meccanismo, però, appare troppo scoperto e le situazioni si connotano di un
sentimentalismo di maniera, poco incisivo.
Giosuè Carducci
Nacque nel 1835. Trascorse la sua infanzia nella Maremma livornese perché il padre vi era stato
esiliato per via delle sue idee politiche. Si trasferì a Firenze e conseguì la laurea in letteratura a Pisa.
Nel 1860 ricevette la cattedra all’università di Bologna, dove ci rimase poi fino alla sua morte (un
anno prima ricevette il Nobel per la letteratura). In vita si battè molto per i propri ideali politici e nel
lato della letteratura si collocò come isolato ripristinatore della classicità nei suoi valori ideali ed
etici -> campo dove ricevette maggiore successo, anche se fino ai primi anni del ‘900 la fama di cui
godette fu quella di poeta vate, celebratore delle glorie nazionali.
Stile: Carducci oscillò nella vita tra due concezioni diverse della poesia, ossia fu in polemica con il
Romanticismo, che identificò tutto con la seconda stagione romantica e che accusò di
sentimentalismo e di effeminatezza; e in antitesi con esso esaltò la poesia classica, concependo il
poeta come un vate tirtaico che anima i suoi concittadini, esalta la virtù e la poesia.
Dunque Carducci subì influenze diverse che non sempre si amalgamarono in modo organico; egli
d’altronde era più un uomo di impulsi che di ragionamento. Basti pensare alle influenze da parte
dell’amore per la patria o il senso e l’amore della poesia e una dedizione a essa con tutto se stesso.
Costante maggiore fu il senso della vita, nello stesso tempo virile e malinconico.
Pianto antico
Dapprima una viva scena primaverile: il verde melograno, i suoi fiori vermigli, una mano di bimbo
protesa a coglierli, la luce e il calore di giugno che inonda il giardino e ravviva i colori. Poi le
immagini improvvisamente incupiscono: in doloroso contrasto con la visione del melograno fiorito,
il poeta si sente una pianta colpita dal fulmine della sventura e incapace di generare nuovi frutti.
L’ultimo fiore è stato il figlioletto Dante che dalla morte nessun amore di padre e nessuna forza
della natura potrà restituire alla vita. La lirica, al di là del motivo autobiografico, sviluppa in chiave
simbolica il tema, assai frequente nella poesia di Carducci, della contrapposizione fra la vita e la
morte, che sul piano stilistico si condensa nella classica metafora dell’albero (“verde melograno”: la
vita; “pianta percossa e inaridita”: la morte) e del fiore (“vermigli fior”: il figlio vivo; “estremo
unico fior”: il figlio morto). Da questa scelta deriva lo sviluppo della lirica, tutta costruita sulla
contrapposizione speculare dei due motivi che si riflette in quella dei colori (verde, vermigli/negra)
e delle sensazioni (calore/fredda). Anche il ritmo esalta questa opposizione: fluido e scorrevole
nelle prime due strofe diventa franto e sincopato nelle ultime due quartine, costruite su coppie di
monosillabi ripetuti all’inizio del verso (“Tu…tu”; “sei…sei”; “né…né”). Metro: ode anacreontica,
composta di quattro quartine di settenari. La rima del primo verso è libera, una rima baciata collega
il secondo verso al terzo; un’unica rima collega tutti e quattro i versi.
San Martino
San Martino: un giorno di novembre, quello di svinatura. Alla malinconia del tramonto autunnale,
uggioso per la nebbia che sale piovigginando sui colli, e imbronciato nel rumoreggiare del mare
battuto dalla sferza del vento, si contrappone l’atmosfera festosa diffusa per le vie del borgo, dove i
tini ribollono e gli spiedi scoppiettano. Affacciato all’uscio, in una pausa di riposo, il cacciatore
contempla nel cielo stormi di uccelli neri che emigrano, allontanandosi come tristi pensieri nella
sera. La breve lirica non è altro che un quadro paesaggistico; fresco nell’immediatezza dei tocchi,
nel quale le cose stesse, attraverso i loro suoni e colori, sembrano parlare e suggerire una dolce
malinconia. Nelle quattro strofe si fondono con naturalezza i due motivi poetici dell’ode: nella
seconda e nella terza in particolare, la vivacità della vita del borgo è resa nei suoi suoni (attraverso
frequenti onomatopee: “ribollir”, “rallegrar”, “scoppiettando”, “fischiando”) e odori (“l’aspro odor
de i vini”) nella prima e quarta strofa, invece, la malinconia soffusa si esprime attraverso sfumate
atmosfere (“nebbia”, “piovigginando”) e impressionistiche pennellate di colore (“biancheggia”,
“neri”). Metro: ode anacreontica, quattro quartine di settenari. L’ultimo verso, tronco rima con
l’ultimo delle altre quartine.
Emily Dickinson
Nacque nel 1830 in una cittadina del Massachussetts. Visse principalmente quasi tutta la sua vita
nella sua casa, a parte un viaggio a Washington e due soggiorni in altre città. Grazie a questa vita in
solitudine prese a scrivere versi dal 1860. Morì nel 1866 ad Amherst. Soltanto sette liriche che
compose furono pubblicate quando lei era in vita, le altre postume.
Il senso di solitudine della Dickinson fu scaturito dall’ambiente puritando dell’America 800esca.
Verso i trent’anni cominciò a vivere rinchiusa nella sua stanza, uscendo raramente, comunicava con
gli amici tramite le pareti e poi attraverso bigliettini che inviava a loro.
Questi muri che la isolavano dal mondo esterno divennero poi dei vetri attraverso cui poteva
guardare il mondo per poi rifugiarsi nella contemplazione della natura, nella meditazione sul senso
della vita e dal 1860 a scrivere versi. Per Emily la poesia non era solo un modo di esprimersi ma
anche un modo di vivere, grazie alla scrittura riusciva a recuperare nella sua pienezza ciò che nella
realtà aveva abbandonato.
Alla parola “fuga”
Questa lirica fu composta all’età di 29 anni, proprio quando la Dickinson attuò questo “esilio” dal
mondo esterno. L’autrice avverte infatti la propria solitudine come un carcere dal quale evadere, ma
non può (o forse non vuole) e finisce sempre per ritrovarsi più prigioniera nella solitudine che si è
andata costruendo. Il tema dominante della lirica è quello della confessione di un senso di disperata
solitudine e di un altrettanto disperata voglia di vivere. Un tema che si sposa bene anche con il
dramma di una società “prigioniera” dei suoi miti e del suo benessere come già si avviava a essere
quella statunitense dell’Ottocento.
La lirica è costituita da rapide immagini che si susseguono senza respiro, accompagnate da un ritmo
calzante. Immagini e ritmo sono funzionali all’espressione di uno stato d’animo sconvolto e
tormentato.
Walt Whitman
Nacque vicino a New York nel 1819. Grazie allo stile di vita prettamente americano, si spostò di
lavoro in lavoro per poi dedicarsi alla letteratura. Nel 1855 pubblicò la prima edizione di Foglie
d’erbe che diventò il testo poetico più importante della letteratura americana. La prima edizione
ebbe scarso successo perché ritenuto antitradizionalista e con modi espressivi rivoluzionari ma
Whitman continuò a lavorarci ed arricchendolo sempre più, tanto da arrivare ad essere un libro di
tutta la vita. Prese poi parte alla guerra di Secessione dove fu colpito da un proiettile che lo
paralizzò, ma questo non gli impedì di scrivere. Morì a Camden, New Jersey nel 1892.
Sento cantare l’America
Whitman, sostenitore appassionato degli ideali di libertà e di democrazia, fu il primo a cantare, nei
suoi aspetti negativi e positivi, lo slancio pioneristico di un paese che veniva costruendo il suo
destino di grande nazione industriale. Questa lirica è un tipico esempio della poesia di Whitman: in
essa il poeta esalta il gioioso contributo di tutte le forze sociali del paese alla realizzazione di una
società indirizzata verso il progresso e verso il benessere: una società dove ogni uomo ha un ruolo e
una funzione tanto che tutti sono parte essenziale e necessaria di un mondo in continua evoluzione.
Charles Baudelaire
Nacque a Parigi nel 1821 ed ebbe un’infanzia e un’adolescenza segnate dalla dolorosa perdita del
padre e poi dalle incomprensioni con il patrigno. Dopo aver interrotti gli studi, fu costretto dalla
famiglia a salire su una nave mercantile diretta verso le Indie, ma rimpatriò per motivi di salute.
Raggiunta la maggiore età, entrò in possesso dell’eredità paterna e si abbandonò ad una vita
disordinata e dispendiosa che lo portarono presto a sperperare tutto il patrimonio. Nonostante le
grosse difficoltà economiche, continuò a frequentare gli ambienti letterari e artistici e a dedicarsi
all’attività di scrittore. La sua famiglia, preoccupata per la sua vita piena di amori passionali e
violenti, droga e alcool, lo fece interdire ma ciò non cambiò nulla nello stile di vita dello scrittore.
Baudelaire nel 1857 raccolse le sue poesie e le diede alle stampe, che furono pubblicate in un
volume dal titolo I fiori del male che presto fu sequestrato e condannato con l’accusa di immoralità.
Le continue difficoltà economiche lo portarono ad intraprendere un viaggio in Belgio nel 1864,
dove fu colto da una paralisi due anni più tardi. Fu riportato a Parigi dove vi morì, dopo una lunga
agonia, nel 1867.
Corrispondenze
I Fiori del mal è uno dei massimi esempi del Simbolismo e Decadentismo (temi come l’alcol, la
morte, l’omosessualità, il satanismo, ecc.), in quanto Charles Baudelaire crea un modo nuovo di
fare poesia, con l’utilizzo di versi liberi, di un linguaggio allusivo e nuovo, musicale e simbolico. Le
parole non hanno più il significato che viene loro generalmente attribuito, ma vengono caricate di
un significato più profondo, nascosto, allusivo e fonico, diventando simboli e portali che conducono
a un’altra realtà. Nella lirica, una delle più famose dell’intera opera, la Natura viene vista da
Baudelaire come una serie di simboli che celano significati nascosti, i quali possono essere evocati
solo dal poeta. L’autore enuncia la propria concezione della vita e dell’arte, una concezione in base
alla quale il mondo è visto non tanto come scenario da descrivere quanto piuttosto come misterioso
codice di simboli da penetrare e decifrare con la poesia. La lirica, nella seconda parte, fornisce
un’efficace esemplificazione, facendo agire sensazioni ed emozioni su un piano che immette
l’uomo in quell’armonico rapporto tra le cose cui mira il poeta.
Oscar Wilde
Nacque a Dublino nel 1854. Tramite diversi viaggi che fece, si circondò di ammiratori e discepoli
facendolo diventare il principale esponente del “movimento estetico” in Inghilterra. Dati i suoi
paradossi con cui tentava di colmare il vuoto artistico dell’età vittoriana e soprattutto il suo
comportamento eccentrico e anticonformista, fecero di lui il simbolo dell’avanguardia culturale, ma
lo esposero anche alle vendette dell’aristocrazia londinese che lo fece incarcerare per oltraggio alla
morale. Uscito di prigione, si ritrovò abbandonato e povero e deciso così di trasferirsi a Parigi, dove
vi morì nel 1900 per gli eccessi compiuti in gioventù. Il suo testo più significativo è sicuramente Il
ritratto di Dorian Gray (1891).
Il ritratto di Dorian Gray – La vita come opera d’arte
Non è un romanzo vero e proprio, ma più una lunga fiaba dal significato umano. Dorian Gray è un
giovane bellissimo e che della bellezza e del godimento ha un culto. Quando Basilio Hallward, un
suo amico pittore, gli regala un ritratto che lo riproduce nell’apice della sua gioventù e bellezza,
Dorian più forte sente il dolore per quanto siano fugaci questi “beni”. Per la magia di un suo voto,
tutte le tracce della vita e degli anni non segneranno il volto vivo e perfetto di Dorian, che attraverso
i vizi e i delitti resterà giovane e puro, ma solo quello del ritratto. Così Dorian, insieme all’elegante
e cinico Henry Wotton, conduce un’esistenza dissoluta, disprezza l’amore di Sibilla Vane, l’unica
cosa che poteva salvarlo e giunge ad uccidere Basilio quando questi gli rimprovera la sua
vergognosa condotta. Ma, sopra tutto; il ritratto ricorda a Dorian costantemente l’inganno della sua
duplice vita, ponendogli davanti agli occhi il suo vero volto, nella propria atroce eloquenza. Alla
fine, sopraffatto dall’angoscia, Dorian colpisce il ritratto con un pugnale e cade morto, come se
avesse colpito se stesso. I servi accorsi vedono un ritratto del loro padrone, bellissimo e giovane e
sul pavimento un morto “in abito da sera, con un pugnale nel cuore, appassito e rugoso in volto.
Solo dagli anelli riconoscono chi sia.
Dorian Gray, non è un tipo umano isolato. Già qualche anno prima in Francia, lo scrittore
Huysmans aveva dato vita a un personaggio, Des Esseintes, che può essere indicato come la prima
incarnazione dell’eroe decadente. Mentre in Italia, con D’Annunzio, sul modello Des Esseintes,
aveva costruito il protagonista del romanzo “Il piacere”, Andrea Sperelli-Fieschi D’Ugenta.
Diverso dall’ero classico e romantico, l’eroe decadente è un eroe negativo: è amorale in quanto in
lui il senso di bello ha soffocato ogni nozione di bontà e di giustizia. Personaggi come Andrea
Sperelli, Des Esseintes e Dorian Gray sono la testimonianza della grave crisi che alla fine dell’800
sta distruggendo, gli ideali romantici e positivistici: ideali fondati sull’impegno sociale, sui principi
di uguaglianza e su una forte coscienza morale.
Nel brano che segue, Wilde traccia un vivo e efficace ritratto spirituale del personaggio: più
suggerita che descritta, la figura di questo “esteta” inglese, è fatta abilmente emergere dall’analisi
puntuale delle sue complesse attività e dalle sue scelte di vita, tutte fortemente snobistiche, tutte
aristocraticamente frivole e tutte esasperatamente sensuali.
Paul Verlaine
Nacque a Metz nel 1844. Si trasferì a Parigi sin da giovane e abbandonò lo studio e il lavoro per
concentrarsi sulla poesia. Iniziò a darsi all’alcol e prese ad assumere atteggiamenti provocatori che
culminarono, nel 1871, nella relazione omosessuale con il poeta A. Rimbaud. Morì nel 1896 in un
ospedale di Parigi. Tra le sue raccolte poetiche ricordiamo in primis Poemi Saturnini (1866)
Nevermore
Assalito all’improvviso dai ricordi, il poeta rievoca un giorno lontano, quando, nel grigiore spento
dell’autunno, ha sentito sorgere dentro di sé per la prima volta l’amore. “Mai più”, come afferma il
titolo con una espressione inglese, egli ha provato tanta gioia, ma nel ricordo, pur intriso di
malinconia, quel giorno è rimasto come qualcosa che conserva intatto il suo splendore. Il motivo
romantico del primo amore è recuperato, nella dimensione del ricordo, come simbolo di una gioia
irripetibile. La lirica ha un’origine autobiografica (riflette un’esperienza del poeta), ma supera il
semplice e banale autobiografismo e diventa espressione di una condizione esistenziale comune a
tutti gli uomini. La lirica è costruita con grande abilità. Dopo il verso iniziale che introduce in modo
quasi drammatico il tema del ricordo, la memoria del poeta porta alla luce il paesaggio che ha fatto
da sfondo all’evento lontano; poi dal passato riemerge l’evento stesso con tutto il suo magico
fascino e, infine, il ricordo lascia il posto al rimpianto di ciò che è stato e non è più ma conserva per
sempre il suo dolce incanto. Dal punto di vista espressivo è chiara la contrapposizione tra la prima
parte chiaramente descrittiva sul piano della stagione, e la seconda parte dove è descritto l’amoroso
incontro tra i due innamorati.
Giovanni Pascoli
Nacque nel 1855, nel 1867 mentre era studente a Urbino, perdette il padre per mano di sicari e poco
dopo stessa sorte toccò anche alla sorella, la madre e i due fratelli. Un fatto che lo segnò
profondamente e che lo porterà a rievocare i suoi cari nelle proprie liriche. Successivamente
frequentò la facoltà di Lettere a Bologna, dove ebbe Carducci come insegnante e dove si laureò nel
1892. In quel periodo il suo generico umanitarismo lo spinse ad aderire al movimento socialista
guidato da A. Costa e, nel 1879 passò qualche mese in carcere per aver partecipato ad una
manifestazione. Questa esperienza dolorosa però lo allontanò dalla politica per dirigere il suo
pessimismo verso la società e la storia. Nel 1906 successe Carducci nella cattedra di Letteratura
Italiana a Bologna. Morì nel 1912 nella sua casa di campagna a Castelvecchio di Barga. La vita
riservata e schive di Pascoli non risponde a pieno ai canoni del Decadentismo, in quanto lui lo vede
più come un atteggiamento di fuga dai problemi della realtà storica e sociale in un mondo interiore
fantastico. Questa profonda adesione al Decadentismo lo notiamo con il rinnovamento dei temi e
della sensibilità poetica, nell’assunzione simbolica dei dati reali, nella vera “rivoluzione” operata
contro il codice espressivo della lirica tradizionale.
Tra le opere maggiori ricordiamo Myricae e I canti di Castelvecchio
Lavandare
Il primo volume di liriche di Pascoli (prima edizione del 1891 con solo 21 liriche fino a
raggiungerne 156 con l’edizione definitiva del 1903), Myricae, prende il titolo da un verso di
Virgilio contenuto nelle Bucoliche “arbusta iuvant humilisque myricae” (piacciono gli arbusti e le
basse tamerici). La scelta del titolo rivela una volontà di un canto umile, di ispirazione agreste.
Questi sono frammenti lirici, brevi bozzetti naturalistici con la giustapposizione di immagini legate
da riposte analogie. Ai temi della vita nei campi e della fatica del lavoro connessa con cicli
stagionali, si aggiungono, a partire dall’edizione del 1894, quelli del legame con i morti e del “nido”
familiare distrutto. Il codice stilistico della raccolta presenta già i caratteri fondamentali di tutta la
produzione lirica postera al Pascoli: ad esempio la sintassi elementare e i numerosi echi musicali o
anche schemi metrici semplici.
Nella lirica in analisi ci troviamo in un malinconico paesaggio della campagna autunnale, delineato
da pochi tratti visivo-coloristici dove campeggia un aratro abbandonato. Dal vicino torrente si
avvertono gli echi del lavoro delle lavandare: il tonfo ritmato dei panni battuti e la cantilena che
racconta la triste storia di un amore tradito e di una vana attesa dopo l’abbandono. Il breve
componimento, che rientra nella prima edizione della raccolta, non ha un carattere idilliaco-
descrittivo: la campagna autunnale costituisce lo scenario su cui il poeta proietta uno stato d’animo
smarrito e malinconico. Gli oggetti quotidiani si caricano di particolare e l’immagine dell’arato in
mezzo al campo, diviene simbolo di abbandono e desolazione. Sul piano stilistico il ritmo dei versi
risulta franto e lento per suggerire il senso di desolazione.
Arano
Una scena della vita dei campi. Il componimento è un bozzetto paesaggistico di carattere idilliaco
(dal greco eidullion ossia immagine; il sostantivo idillio significa piccola immagine), non privo di
notazioni impressionistiche e di motivi e di temi cari al poeta decadente, quali la stagione autunnale
e la liturgia del lavoro campestre che ciclicamente si ripete come un rito. Sul piano stilistico la lirica
è strutturata in un unico periodo sintattico che compendia l’intera situazione descrittiva ed è
caratterizzata da un’estrema ricercatezza formale.
Gabriele D’Annunzio
Nacque a Pescara nel 1863. Esordì da giovanissimo come poeta per poi dedicarsi al giornalismo e
alla letteratura. Visse un’intensa vita mondana ed è riuscito a riempire le cronache con le notizie dei
suoi successi e delle sue avventure. Scoppiata la I Guerra Mondiale fu un deciso interventista e poi,
trasformatosi in poeta-soldato, partecipò attivamente al conflitto come ad esempio il volo su
Vienna. Nell’immediato Dopoguerra, cercò di opporsi a Mussolini e al fascismo, di cui poté
sembrare pure un precursore e un fiancheggiatore, ma rimase sconfitto politicamente e finì i suoi
anni sul Lago di Garda, dove morì nel 1938. D’Annunzio si cimentò in tutti i generi letterari,
lasciando in tutti i campi notevoli tracce. Fu un grande studioso di letterature straniere, specialmente
di quella francese, e contribuì a sprovincializzare la cultura italiana. Come, con il suo modo di
vivere, influenzò i gusti della borghesia del suo tempo, così con le sue scelte ideologiche.
Soprattutto, però, andò ad influenzare con i suoi scritti sui futuri indirizzi della cultura italiana. Tra
le sue raccolte poetiche ricordiamo Canto Novo e il libro di Maia.
O falce di luna calante
Nella quiete della notte, il mondo giace immobile e silenzioso sotto il tenue chiarore della luna.
Solo le piante e i fiori sembrano muoversi impercettibilmente. Gli esseri animati dormono
beatamente. La breve ode rivela il carattere essenzialmente sensuale dell’ispirazione dannunziana
volta a sottolineare soprattutto e a esaltare la pagana gioia di vivere. Il dato naturalistico - la terra
illuminata dalla luce della luna, gli alberi, i fiori, gli uomini e gli animali – che sta alla base della
lirica è abilmente risolto in puro stato d’animo e trasfigurato in suggestione musicale. L’effetto
languido e sensuale dell’insieme è ottenuto attraverso l’adozione di un ritmo ampio e disteso che
rifiuta le cadenze della metrica tradizionale e stempera i versi in musica.
La lode della vita
La vita è un dono inestimabile e il poeta l’ha vissuta e la vive con entusiasmo e con dedizione
assoluta. Assetato di emozioni e sensazioni sempre nuove, non si è negato nessuna esperienza.
L’orgogliosa celebrazione da parte del poeta della propria vita multiforme è in linea con l’ideologia,
o il mito, molto diffusi in Europa intorno al XX secolo, del Superuomo di F. Nietzsche. Dei
molteplici aspetti di tale mito, tipicamente Decadente, D’Annunzio fa suo e incarna quello dell’eroe
che si eleva al di sopra dei mediocri e realizza i suoi istinti al di là della norma. Dal punto di vista
espressivo, il brano, che fa parte del lungo poema Laus vitae inserito in Maia, il primo libro delle
Laudi, è caratterizzato dalla presenza di una serie di espedienti retorici tipici dell’intero poema e
tutti volti a enfatizzare il tono del discorso e ad accelerare il ritmo dei versi.
Vladimir Majakovskij
Nacque nel 1893 a Bagdadi. Alla morte del padre nel 1906, si trasferì a Mosca con la madre, e
abbandonati gli studi, si dedicò alla politica, entrando nelle file del partito bolscevico che allora
agiva nella clandestinità. Nel contempo Majakovskij aveva cominciato a occuparsi anche di
letteratura e nel 1913 entrò in contatto con il gruppo dei futuristi, segnalandosi per i suoi
atteggiamenti provocatori e per il suo gusto per gli scandali. Dal 1917 fu uno dei più entusiasti
sostenitori della Rivoluzione russa e giudicando il bolscevismo come unica forza in grado di
realizzare una profonda trasformazione in campo sociale, umano e artistico, se ne fece il poeta in
tutta Europa e svolse perciò un’intensa attività di propaganda e di organizzazione culturale
affiancando all’opera di poeta, giornalista, critico e conferenziere una vastissima produzione di
manifesti e di slogan rivoluzionari. Più tardi, dopo molti viaggi, si sentì disingannato nelle sue
speranze rivoluzionare dal dogmatismo e della burocratizzazione che contrassegnarono il nuovo
corso politico e culturale inaugurato da Stalin e avvertì l’impossibilità di far conciliare il suo
individualismo con le tendenze collettivistiche del socialismo. Dopo essere stato pesantemente
criticato, si chiuse in una cupa solitudine che lo portò alla morte nel 1930.
La guerra è dichiarata
Composta nel 1914, in occasione della I Guerra Mondiale, la lirica testimonia l’atteggiamento di
Majakovskij di fronte al terribile evento. Egli coglie e denuncia subito gli aspetti negativi della
guerra: essa porterà solo massacri e se ci sarà vittoria, sarà una “vittoria assassina”. La lirica
esprime l’atmosfera di euforia che si diffonde a Mosca all’annuncio della dichiarazione di guerra:
dalle grida degli strilloni, alle vanterie della gente nei caffè, all’esaltazione dei soldati che sempre
più numerosi si accalcano nella piazza pronti a partire per il fronte. Ma a queste immagini se ne
affiancano altre che esprimono la protesta e la condanna del poeta: dal rigagnolo di sangue che egli
vede effondersi nella piazza, al cielo che fa piovere lacrime di stelle, alla nevicata di brandelli di
carne umana che cade dalla parte del fronte.
Nella lirica è evidente l’influenza dei modi e delle soluzioni tecniche del Futurismo, sia
nell’impostazione (susseguirsi di impressioni violente in cui domina l’esasperazione dei sentimenti)
sia nei temi (la violenza) sia, infine, nelle soluzioni espressive.
Marcel Proust
Nacque a Parigi nel 1871. Sin da bambino soffrì di asma e quindi passò lunghi periodi nella casa di
campagna di Illiers e poi sulla costa normanna. Dopo i vent’anni iniziò a frequentare gli ambienti
mondani e, proprio in quegli ambienti, dove era attirato dalla forma di snobbismo che andava di
moda in quel periodo, conobbe i tipi umani che avrebbe descritto poi nelle sue opere. Nel 1896
esordì come scrittore, pubblicando I piaceri e i giorni ossia una raccolta di prose di argomento
mondano, ma contenente un’elaborazione formale e tecnica introspettiva che saranno tipiche della
sua maggiore produzione. Nel 1905 perdette la madre e per questo iniziò ad isolarsi. Gli attacchi
d’asma si fecero sempre più gravi e così decise di rinchiudersi in una stanza che fece foderare di
sughero per proteggersi da ogni rumore. Qui cominciò a comporre la sua opera maggiore: Alla
ricerca del tempo perduto costituito da sette romanzi. Il primo libro uscì nel 1913 dal titolo La
strada di Swann.
Il sapore della “madaleine” (Alla ricerca del mondo perduto)
“La strada di Swann” racconta l’infanzia del narratore a Combray, l’angoscia nell’attesa del bacio
della buonanotte, le visite di Charles Swann alla madre e infine l’amore che egli nutre per la figlia
di questi, Gilberte. Nel secondo libro, “All’ombra delle fanciulle in fiore”, il narratore, in vacanza
nella costa normanna, conosce il giovane marchese di Saint-Loup e il barone di Charlus, primi
rappresentanti di quel mondo aristocratico che gli è sempre parso inaccessibile, e il gruppo delle
“fanciulle in fiore”, tra le quali una soprattutto lo colpisce, Albertine. Nel terzo libro, “I
Guermantes”, il narratore entra nel mondo degli aristocratici: in quel mondo si stordisce, si
innamora della duchessa di Guermantes e quasi non si accorge della morte dell’amata nonna, che in
seguito sarà punto di riflessione. In “Sodoma e Gomorra”, il tema centrale è l’omosessualità,
rappresentata in quella del barone di Charlus, ma in quella vera o presunta di Albertine. L’amore
per quest’ultima si sviluppa nei due libri successivi, “La prigioniera” e “La fuggitiva”: la gelosia
provata per la donna, spinge il narratore ad imprigionarla, che però fugge e muore in un incidente.
Nel frattempo la strada di Swann e dei Guermantes si sono congiunte: Gilberte ha sposato il
marchese di Saint-Loup. Nell’ultimo libro, “Il tempo ritrovato”, la guerra sconvolge la società della
Belle Epoque. Trionfa Madame Verduin, ricca borghese che sposerà un Guermantes. Il narratore si
reca a un suo ricevimento e decide che è giunto il momento di dedicarsi alla ricerca del tempo
perduto, e quindi di avviare la stesura dell’opera che il lettore, di fatto, sta finendo di leggere.
La memoria è il grande serbatoio a cui attinge tanta parte dell’arte contemporanea e scrittori. Per
Proust però, quella che aiuta a recuperare il passato, non è “la memoria volontaria” – la capacità di
registrare e ordinare i ricordi – ma la “memoria involontaria”, quella che è capace di restituire anche
i frammenti di un passato che si credeva per sempre perduto. Per risvegliare questa memoria
bastano oggetti o sensazioni olfattive, acustiche o visive. Così, come Proust narra nel brano, è il
sapore della “madeleine”, ossia il biscotto che intinge ormai adulto nel tè, a fargli ritrovare tutto il
mondo della sua infanzia a Combray. Questo brano introduce subito il tma fondamentale dell’opera:
la ricerca del tempo perduto, e i modi e il significato di questa ricerca. Il procedimento che sta alla
base di questa ricerca è proverbialmente proustiano: a partire da un fatto apparentemente
insignificante (il biscotto intinto nel tè) lo scrittore spalanca davanti al lettore il panorama della sua
infanzia ma anche il pozzo profondo e labirintico delle sue riflessioni e delle sue divagazioni.
Quindi il lettore si ritrova coinvolto in tutto ciò, ma anche in un acuto gioco in stile proustiano. Per
gioco si intende la costruzione espressiva dell’opera dove la prosa inizialmente si legge con fatica,
ma che finisce a catturare tutta l’attenzione del lettore fino a catapultarlo nel suo ampio ritmo.
Italo Svevo
Nacque a Triste nel 1861 da padre ebreo tedesco, appartenente alla borghesia, e madre italiana. A
causa del fallimento dell’azienda paterna, andò a lavorare alla Banca Union, dove vi rimase per un
ventennio. A Triste, per via della sua posizione geografica, Svevo avvertì appieno il crollo del
mondo austro-ungarico e delle vecchie strutture economiche, la crisi della borghesia e il sorgere di
nuovi organismi economici. Nella città, inoltre, essendo quasi un incrocio tra le culture sveva ed
ebraica, si avvertirono anche i più moderni stimoli culturali e scientifici e Svevo approfondì lo
studio di Nietzsche, delle teorie evoluzionistiche di Darwin e della psicanalisi di Freud, coltivò la
lettura di narratori francesi, maestri del Realismo e Naturalismo. I suoi interessi letterari si
concretarono in due romanzi, Una Vita e Senilità, ma furono accolti dal pubblico con poco interesse
questo portò Svevo ad abbandonare la letteratura per molti anni. Dopo essersi creato una famiglia,
aver ripreso un lavoro e dopo diversi viaggi all’estero, nel 1923 pubblicò La coscienza di Zeno. Il
romanzo ebbe molto successo grazie ai giudizi positivi di J. Joyce e altri critici francesi, anche
Montale. Ma questo successo durò poco a causa della riscoperta dei romanzi giovanili e il nuovo
fervore creativo dello scrittore. Svevo morì nel 1928 per un incidente automobilistico. Temi della
sua produzione: la crisi della società borghese e l’inettitudine e la mancanza di certezze dell’uomo
contemporaneo. Il dissolvimento delle categorie temporali e causali e l’uso di nuove forme narrative
(discorso indiretto libero e il monologo interiore) fanno di Svevo tra i maggiori autori europei
dell’inizio del secolo.
Il fumo
“La coscienza di Zeno” fu pubblicato nel 1923, è la storia dell’autoanalisi di Zeno Cosini, un
commerciante di Trieste che decide di ripercorrere per iscritto le tappe fondamentali della sua
esistenza, alla ricerca delle cause della propria nevrosi, che si manifesta in improvvisi dolori al
fianco e in una fastidiosa zoppia nei momenti di emozione e di disagio. La testimonianza che ne
risulta viene pubblicata dallo psicanalista di Zeno, il dottor S. (sotto cui è adombrato Sigmund
Freud), per vendicarsi della sfiducia di Zeno nei confronti della psicanalisi. Nel romanzo, la
narrazione, è condotta sui diversi piani temporali del passato (la rievocazione degli avvenimenti) e
del presente (i commenti autoironici) e si articola in 6 nuclei narrativi:
- Il vizio del fumo e il fallimento dei continui tentativi di liberarsene, emblema del crollo della
volontà;
- La rievocazione dei difficili rapporti con il padre (capitolo più evidente di matrice
freudiana);
- La storia del matrimonio di Zeno, segnata dall’abdicazione della volontà di soggiacere alle
convenzioni borghesi: pur essendo innamorato della bellissima Ada, sposa la brutta e
strabica Augusta;
- Il tradimento coniugale con la giovane Carla che termina con l’abbandono di Zeno da parte
della fanciulla;
- L’associazione commerciale con il cognato Guido, che Zeno odia, che termina con il
fallimento economico di Guido e il suo suicidio;
- La sfiducia di Zeno nella psicanalisi, che nell’ultimo capitolo dichiara di aver trovato la cura
nella frenetica e fortunata attività commerciale. Qui la riflessione autobiografica si fonde
con quella sociale ed esistenziale, dove la “salute” di Zeno coincide con la scoperta della
“malattia” della società moderna, che solo ripartendo da zero potrà ricominciare una vita più
sana e neutrale.
La rievocazione degli innumerevoli tentativi di liberarsi dal vizio del fumo è il primo dei ricordi
che Zeno trascrive e analizza nel suo diario, alla ricerca delle cause della propria nevrosi: il
fumo sarebbe l’alibi con cui egli maschera la propria inettitudine, cioè il pretesto per cui non
agisce, ma si lascia trasportare dal caso. Il brano è significativo in quanto presenta i temi
fondamentali del romanzo: ad esempio, la malattia della volontà e l’autoironia (che è per Zeno
un rifugio) e il distacco che la condizione senile consente al protagonista.
Luigi Pirandello
Nacque ad Agrigento nel 1867. Frequentate le università di Palermo e Roma, si laureò in lettere
a Bonn e tornato in Italia, si stabilì a Roma, dove, grazie a L. Capuana, entrò in contatto con gli
ambienti culturali e avviò la sua attività letteraria. Nel 1897 iniziò ad insegnare ma continuò nel
contempo anche a scrivere e nell’immediato dopoguerra raggiunse la fama in molte zone
europee. Infatti tra il 1916 e il 1930 scrisse molte opere teatrali che furono poi portate in scena.
Il successo e la fama internazionali furono coronati nel 1934 dal conferimento del premio Nobel
per la letteratura. Morì nel 1936 a Roma. Tra le opere più famose, ricordiamo Novelle per un
anno, Il fu Mattia Pascal e Uno, nessuno, centomila. Pirandello fu un grande interprete della
crisi dell’uomo contemporaneo, mette a nudo la falsità del mondo e porta avanti anche la ricerca
della verità fino ad arrivare alla conclusione che non esiste un’unica verità: concezione
relativistica della vita e dell’uomo.
Il treno ha fischiato
Belluca, il protagonista, ha dimenticato che la vita può avere un volto umano. Glielo ha
ricordato, una notte, il fischio di un treno. Ma l’improvvisa felicità che ne consegue, lo
trasforma: lo rende di nuovo, dopo tanto tempo, un uomo, anche se agli occhi degli altri appare
sempre un pazzo. La novella sviluppa una dei temi principali della problematica pirandelliana,
quello del contrasto tra apparenza e realtà. La vicenda ha un valore universale: l’avventura del
protagonista è quella di tanti uomini che possono resistere all’avvilimento del mondo in cui
sono finiti solo se riescono a ritagliarsi anche un piccolo spazio per una realtà diversa nel sogno.
Sergio Corazzini
Nacque a Roma nel 1886, è tra i più esponenti dei poeti crepuscolari e anche tra i più tristi. La
sua vita fu segnata problemi famigliari e da una grave malattia che lo spense a 21 anni. Tra le
suo opere più importanti ricordiamo Piccolo libro inutile e L’amaro calice. La sua nota più
importante è la malinconia, sfiorata da una lieve ironia. Costante nelle sue liriche è il tema del
“sentirsi morire”, dell’attesa della morte e la percezione dello svanire delle cose. Troviamo
anche temi tipicamente crepuscolari: i grigi e lenti pomeriggi domenicali, gli ospedali, i fanciulli
malinconici, ecc. Ma anche le scelte espressive con il ritmo spezzato e stanco.
Desolazione del povero poeta sentimentale
L’autore, rivolgendosi a un immaginario interlocutore, dichiara l’impossibilità di essere
chiamato poeta: privo di esperienze di vita raffinate, si sente solo un fanciullo povero e malato
oppresso da un profondo senso di morte, innamorato delle cose semplici e comuni della vita.
Filippo Tommaso Marinetti
Nacque ad Alessandria d’Egitto nel 1876. Trascorse la giovinezza e studiò a Parigi, grazie al
contatto dei più vivaci ambienti delle avanguardie artistiche. Nel 1909 pubblicò il primo
Manifesto del Futurismo, il programma teorico del movimento di cui fu fondatore e il principale
esponente. Seguendo la sua ideologia vitalistica, si schierò ben presto a favore del nazionalismo
e poi del fascismo, da cui ricevette onori e cariche. Morì a Bellaria nel 1944.
La poesia è energia e ribellione
Pubblicato nel 1909 sul giornale parigino “Le Figaro”, il primo “Manifesto del Futurismo”,
contiene il programma ideologico del movimento: il rifiuto del passato, l’ansia di un
rinnovamento artistico, politico e sociale, il desiderio di una totale adesione al ritmo vorticoso
della vita della moderna società tecnologica e industriale e l’esaltazione della guerra, intesa
come momento di suprema accelerazione dello “slancio vitale” dell’universo. Nel brano
Marinetti espone i punti essenziali del movimento e ne avvia il commento. Dal punto di vista
espressivo, il brano è caratterizzato dall’enfasi propagandistica e provocatoria.
Aldo Palazzeschi
Nacque a Firenze nel 1885. Dopo aver conseguito il diploma di ragioniere, cercò un’alternativa
agli schemi dell’educazione borghese in cui era cresciuto, e infatti si dedicò alla letteratura.
Dopo la morte dei genitori, nel 1941, si trasferì a Roma dove condusse una vita tranquilla e
piena di lavoro letterario. Morì a Roma nel 1974. Tra le raccolte ricordiamo Poesie che
racchiude altre raccolte pubblicate dal 1905 al 1910 (ad es. Poemi). Mentre tra le opere di
narrativa ricordiamo Il codice di Perelà e Sorelle Materassi. Palazzeschi iniziò come
crepuscolare per poi aderire ai movimenti d’avanguardia come il Futurismo ma in maniera
molto personale: accettò la rottura dei moduli letterari tradizionali, ma rifiutò la serietà dei temi,
l’esaltazione delle macchine, ecc. Dal Futurismo si allontanò presto per affermare la sua
originalità si poeta e narratore caratterizzate dal “ridicolo” e il “burlesco”.
Chi sono?
Palazzeschi si domanda chi egli sia: non è un poeta ma solo il saltimbanco della sua anima. La
lirica, incentrata sul motivo della malinconia e nostalgica ricerca della propria identità,
appartiene al periodo crepuscolare del poeta, ma gli elementi crepuscolari sono ribaltati e
vanificati dall’immagine del poeta saltimbanco che risolve la tristezza e la malinconia in
scherzoso sorriso. Questo ci fa capire la concezione che il poeta ha della sua poesia, un uomo
che vuole rompere con gli schemi crepuscolari per affermare la propria vocazione al riso e al
divertimento. Tono volutamente scherzoso.
Umberto Saba
Nacque a Trieste nel 1883, da madre ebrea e padre ariano che abbandonò la famiglia prima che
Umberto nascesse. Per questo il poeta cambierà il suo vero cognome, Poli, con quello di Saba,
che in ebraico significa “pane” ossia fiero della propria origine. Nel 1918, grazie all’apertura di
una piccola libreria antiquaria, iniziò a dedicarsi completamente alla poesia alla quale si era
accostato sin da giovanissimo. Trascorrerà quasi tutta la sua vita a Trieste, allontanandosene
soltanto durante l’ultima Guerra per sfuggire alle persecuzioni razziali. Morì a Gorizia nel 1957.
Tutta l’opera poetica di Saba fu pubblicata nel Canzoniere che comprende numerose sezioni.
Abbondante è anche la produzione in prosa. Saba occupa un posto particolare, “periferico”
rispetto alla poesia italiana del Novecento.
Indifferente alle mode, scuole e ai movimenti letterari a lui contemporanei (Dannunzianesimo,
Futurismo ed Ermetismo), fu a lungo incompreso dalla critica che definiva la sua poesia
“superata”. Di fatto, la facile leggibilità del suo verso, sarebbe il risultato di una ricerca condotta
in una duplice direzione: da un lato, sentendosi ai margini di una tradizione nazionale che vuol
far sua (ad es. il titolo della sua raccolta che riprende quello di Petrarca, per legarsi a una storia),
recupera modi, forme e metro della lirica tradizionale; dall’altro soffre il disagio di una civiltà e
ama la vita tutta, nella sua ricchezza e contraddittorietà, che canta con parole semplici.
La capra
Il poeta afferma di aver risposto al belato di una capra che ha visto tutta sola in un prato; ma
nella voce lamentosa dell’animale, ha riconosciuto il suono che accomuna tutte le creature
dell’universo. La lirica canta una dolorosa visione del mondo incentrata sulla consapevolezza
che tutte le creature viventi del mondo, sono accomunate da un destino di miseria e rovina, pur
essendo tutte innocenti nella nudità della loro esistenza. Lessico semplice con ritmo dei versi
sobrio e pacato.
Giuseppe Ungaretti
Nacque ad Alessandria d’Egitto nel 1888, visse in Africa fino al 1912 dove iniziò la sua
formazione culturale che concluse in Francia, nel clima delle avanguardie. Durante la Prima
guerra mondiale combattè come soldato semplice. Si stabilì poi in Italia e dal 1936 al 1942
insegnò letteratura italiana all’Università di S. Paolo in Brasile. Rientrò poi in Italia dove
continuò il suo insegnamento all’Università di Roma. Morì nel 1970. L’opera di Ungaretti si
accomuna ad altre per la sua ricerca di poesia “pura” e si afferma fin dall’inizio per l’originalità
dei contenuti e per alcune caratteristiche formali e tecniche.
Fratelli
“L’Allegria” è il titolo definitivo dato nel 1931 alla raccolta “Allegria di naufragi”. Si tratta per
lo più di liriche brevi e caratterizzate dal tono proprio del linguaggio comune che,
nell’essenzialità del discorso, nell’abolizione dei nessi sintattici e della punteggiatura, assume
un risalto particolare. In queste soluzioni tecniche si avverte l’influenza delle avanguardie
europee. Accanto a liriche ispirate alla guerra, in cui i temi sono, nel contrato vita-morte, il
senso di fratellanza che unisce gli uomini esposti a un medesimo crudele destino, ossia la lirica
“Fratelli”: il poeta scrive dello stesso sentimento di amore per i propri compagni, ispirato in
Veglia dalla contemplazione della morte, in questa lirica è espresso con grande delicatezza e
suggestione tramite la semplicità dei mezzi usati, come la ripetizione della parola “fratelli” e
l’analogia tra la parola e una tenera foglia appena nata, che richiama il pensiero della precarietà
della vita umana.
Federico Garcia Lorca
Nacque a Granada nel 1898, trascorse l’infanzia in campagna e dopo aver studiato ad Almeria e
Granada, nel 1919 si trasferì a Madrid. Qui, nel clima culturale della città, aperto alle
avanguardie e nel contatto con poeti e pittori come Alberti e Dalì, ebbe modo di coltivare i suoi
interessi verso la poesia, il teatro, la musica e la pittura. Nel 1932, dopo l’avvento della
Repubblica, ebbe l’incarico di dirigere una compagnia teatrale, “La Barraca”. Nel 1936, allo
scoppio della guerra civile, fu arrestato dai franchisti e fu fucilato a Granada.
Canzone di un cavaliere
Nelle liriche di Lorca prevale l’immagine, con un’inventiva che lascia abbagliati e a volte
sconcertati per l’imprevedibilità e la libertà delle metafore e analogie. Egli è stato definito un
tipico prodotto della terra andalusa e da quella terra derivano alla sua poesia le immagini e i
colori più autentici. In un’atmosfera di favola arcana, al lume di una luna rossa, un cavaliere
attraversa la solitaria pianura battuta dal vento, diretto a Cordova, che pare lontana e
irraggiungibile. Le immagini e le cose perdono la loro concreta realtà per divenire miti e simboli
che acquistano un significato universale: il cavaliere non è altro che l’emblema di una
condizione umana e il suo viaggio che non arriverà mai alla meta è il viaggio di tutti gli uomini
che la morte accompagna e spia come presenza costante.
Eugenio Montale
Nacque a Genova nel 1896. Interrotti ben presto gli studi tecnici a causa della cagionevole
salute, si dedicò al canto e alla lirica, finchè non venne chiamato alle armi nel 1917. Tornato a
casa al termine della Grande Guerra, entrò in contatto con gli ambienti letterari genovesi e
torinesi, pubblicando nel 1925, la raccolta Ossi di seppia. Pochi mesi dopo, prendeva posizione
contro il regime fascista, sottoscrivendo il Manifesto degli Intellettuali Antifascisti promosso dal
filosofo B. Croce. Trasferitosi a Firenze nel 1927, lavorò prima nella casa editrice Bemporad e
successivamente passò alla direzione del Gabinetto Scientifico Letterario Vieusseux, da dove fu
allontanato nel 1938 per non aver accettato di iscriversi al Partito fascista. Nel 1939 pubblicò la
sua seconda raccolta di poesie, Le occasioni. Nel dopoguerra, trasferitosi definitivamente a
Milano, fu assunto come redattore e critico letterario presso il Corriere della Serra. Nel 1956
diede alle stampe le liriche composte dal 1940 in poi, dal titolo La bufera e altro. Nel 1967 fu
nominato senatore a vita in riconoscimento dei suoi meriti letterari e nel 1975 vinse il premio
Nobel per la letteratura. Morì nel 1981. Montale, con la sua poesia, si pone come testimone
profondo della crisi del nostro tempo e della condizione spirituale dell’uomo moderno. La
negatività che il poeta professa, intesa come rifiuto di qualsiasi verità precostituita e come
amara coscienza del non-senso del vivere, si riflette nella prima raccolta, Ossi di seppia, tramite
un linguaggio di immagini desolate e squallide, punteggiature di attese, pause e silenzi che
esprime bene la condizione umana e intellettuale in cui molti uomini si sono riconosciuti.
Spesso il male di vivere ho incontrato
Fin dal loro apparire, le liriche di “Ossi di seppia” si imporranno grazie alla novità del
linguaggio e per l’organicità e coerenza del disegno: tramite il ripensamento del paesaggio della
propria infanzia, il paesaggio della Liguria, il poeta definisce la condizione di solitudine e
sconfitta che è propria dell’uomo e l’assurdità del vivere stesso attanagliato da un male di cui è
impossibile individuare le ragioni. A riscattare l’uomo da una simile condizione, il poeta
auspica la scoperta di un “varco” attraverso cui sfuggire all’inesorabile destino di perdita che
costringe a una condizione vegetativa e fossile, al pari dell’”osso di seppia”. In questa lirica, il
poeta si accorge di aver incontrato solo dolore nella propria vita, un dolore che si abbatte su tutti
gli uomini e animali. A ciò, il poeta non è riuscito a opporre altro se non l’indifferenza e il
distacco, intesi come consapevolezza della legge che incombe sul vivere dell’uomo. Sulla base
strutturale, la lirica è divisa in due parti: nella prima c’è la constatazione del destino di dolore
che accomuna tutti gli aspetti della realtà; nella seconda, il poeta enuncia la propria norma di
vita, dolorosamente negativa sintetizzata nella fredda immobilità della statua e nel distacco della
nuvola e del falco.
A Liuba che parte
Sono testi scritti dal 1929 in poi, accomunati dal denominatore comune di un bisogno di
arrestare il fluire della vita, individuando nel mondo della memoria la possibile ancora di
salvezza contro la cieca negatività dell’esistenza. In essi, le “occasioni” della vita (luoghi,
oggetti e persone) vengono vissute dal poeta come stimoli di improvvise illuminazioni che
fanno rivivere persone e situazioni passate o lontane. La poesia di questa seconda raccolta viene
vivificata da un sogno e da una richiesta di riscatto. Nel 1938, nel corso delle persecuzioni
razziali, Liuba, una ragazza ebrea, abbandona l’Italia in cerca di una nuova patria. Il poeta la
intravede mentre sta salendo su un treno, alla stazione di Firenze, e rimane colpito che la
ragazza porta con sé, oltre le valige, una gabbia contenente un gatto. La lirica presenta una
suggestiva figura femminile, fissata in una “occasione”, in un gesto e in un luogo, caricati di un
significato che trascende la realtà contingente.
Vittorio Sereni
Nacque a Luino nel 1913. A Milano, nel 1936 si laureò in lettere e poco dopo si die
all’insegnamento e a varie riviste. Nel 1941 fu chiamato alle armi, per due anni fu prigioniero
nei campi di concentramento. Tornato in patria riprese ad insegnare e poco dopo fu direttore
letterario della Mondadori. Morì a Milano nel 1983. Sereni ha lasciato molti versi che,
dall’esordio nell’ambito dell’Ermetismo fino alla conquista di una completa autonomia, danno
voce a un’esperienza umana ricca di sfumature e di problematiche. Tra le sue raccolte
ricordiamo Frontiera.
Terrazza
La sera coglie il poeta su una terrazza sul lago. Il paesaggio lacustre assume un aspetto
misterioso ed è percorso da una tenue malinconia e da una vaga attesa che mano a mano diventa
inquietudine. La lirica riflette una inquietudine che fu tipica di un’intera generazione, quella
degli anni anteriori della Seconda guerra mondiale.
Pier Paolo Pasolini
Nacque a Bologna nel 1992. Dopo gli studi universitari a Bologna, si rifugiò negli anni della
guerra, in Friuli, dove si unì a un gruppo di poeti che avevano scelto come strumento espressivo
la lingua friulana. Per via delle scelte di vita anticonformiste, fu costretto a trasferirsi a Roma
nel 1949. Qui si inserì nel mondo culturale e iniziò a svolgere l’attività di giornalista, saggista,
poeta, romanziere e regista che lo portò a grande fama. Grazie a ciò ottenne una grande
rilevanza nel dibattito culturale, sociale e politico che caratterizzava l’Italia. Morì nel 1975 a
Roma in tragiche circostanze.
Vi odio, cari studenti…
Nel 1968, quando l’opinione pubblica democratica dava il suo pieno consenso alla
contestazione studentesca che, dai campus americani alle università europee si batteva contro gli
aspetti autoritari e classicisti delle istituzioni scolastiche, Pasolini pubblicò sul settimanale
“L’Espresso”, il componimento “Vi odio, cari studenti…”, che suscitò molto rumore e molte
polemiche. In esso, prendendo spunto da uno scontro fra i giovani e la polizia avvenuto pochi
giorni prima a Valle Giulia, Pasolini affermava che quella degli studenti era una rivolta dei figli
contro i padri, una lotta interna alla borghesia e quindi senza prospettive rivoluzionarie: la sua
simpatia andava ai “ragazzi poliziotti”, di estrazione proletaria, infelici e odiati.
Primo Levi
Nacque a Torino nel 1919, da famiglia ebrea. Entrato nelle file dei partigiani, fu catturato nel
1944 e deportato ad Auschwitz. Il doloroso periodo di internamento nel lager e il penoso
viaggio di ritorno in patria, fecero nascere il bisogno di diventare scrittore per raccontare la sua
terrificante esperienza. Sono nati così Se questo è un uomo del 1947, tragica rievocazione
dell’inferno di Auschwitz e La tregua del 1963 che descrive l’odissea del ritorno a casa dei
sopravvissuti allo sterminio nazista, due libri caratterizzati da una profonda pietà per le
sofferenze e le umiliazioni inflitte all’uomo.
Due Italiani diversi: il ragionier Rovi e il dottor Leonardo
Nel brano in esame descrive due tipi umani molto diversi tra loro, incontrati in un campo di
sosta dove vivono parecchi italiani: uno, il ragionier Rovi, è un personaggio astuto e volgare,
che si è conquistato il titolo di capocampo con metodo truffaldini; l’altro, Leonardo, un ex
detenuto di Auschwitz, è un uomo onesto e buono che svolge la sua professione di medico con
grande senso di umanità. La descrizione che l’autore fa del comportamento dei due italiani è
l’esemplificazione del modo in cui l’uomo lotta contro il male: il ragionier Rovi adattandovisi e
cercando di ricavarne il maggior utile possibile, il dottor Leonardo opponendogli una resistenza
interiore che ha il sapore dell’eroismo.

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