l'alito dell'et nuova non l'abbia sfiorato, che nella storia della cultura il suo posto sia di troppo inferiore a quello del suo amico e precettore. Vero invece che in lui, come nelle altre maggiori figure del
secolo, un contenuto nuovo, sebbene inorganico ancora e frammentario
si ordina alla meglio in vecchie forme, nelle quali trova, vero, talora
un freno e un impedimento, ma sempre poi il necessario sostegno,
la possibilit prima della propria espressione. Come, nell'uomo, Boccaccio, un'attitudine mentale di larga indulgente serena umanit rimane, agli occhi nostri, il carattere essenziale della sua biografia,
nella quale infine anche il brusco episodio, pur cos medievalmente
atteggiato, dei postumi consigli del Petroni, non riesce ad acquistar
speciale rilievo e rimane non pi che un momento del processo di ripiegamento su di s del poeta nell'ultimo periodo della sua vita, quasi
un simbolico trapasso dall'et della poesia in atto a quella della riflessione sulla poesia; allo stesso modo, chi voglia misurar davvero
l'importanza del letterato certaldese nella storia della cultura, deve
saper scoprire, sotto l'involucro antiquato della sua opera, il lievito
umano che la gonfia e le d leggerezza: la calda e serena affermazione
dei diritti degli istinti e delle passioni; la rappresentazione ammirata
del trionfo dell'intelligenza; infine e soprattutto il culto amoroso e
perenne dell'arte, la robusta e vivace apologia dei poeti e del loro
ufficio nel progresso della civilt.
NATALINO SAPEGNO:
Da Il Trecento. Storia letteraria d'Italia, Milano, F. Vallardi, 1934,
pp. 290-292.
/:/ Il Ninfale fiesolano.
Composto, non sappiam bene in quale anno, ma certo alle soglie
del periodo felice che vide dischiudersi l'opera maggiore del Boccaccio, il Ninfale fiesolano gi per s stesso un piccolo capolavoro.
Non pi che il pretesto alla trama della narrazione fornito da una
di quelle favole etiologiche, delle quali il certaldese trovava non pochi
esempi nel suo Ovidio, e pi precisamente da quella delle origini
di Fiesole e di Firenze, che compare anche ne' vecchi cronisti, e fra
l'altro in Giovanni Villani. Senonch nel mito locale s'innesta, e sul
motivo epico predomina, come han visto bene tutti i critici, una gentile storia d'amore: e lo conferma d'altronde, sull'inizio dell'opera,
l'autore stesso:
Amor que' che mi sforza che i' dica
un'amorosa storia molto antica.
L'azione si svolge sui colli di Fiesole, prima della fondazione della
citt: vi trascorron la loro vita le vergini ninfe cacciatrici consacrate
a Diana; la quale viene di tempo in tempo a visitarle, le ammonisce
nel ben perseverar verginitate , e ragiona con loro di liete corse
per i boschi in traccia di fiere selvatiche, e poi allontanandosi da loro
elegge una ninfa, che sia di tutto il concestoro Di lei vicaria, faccendo giurare All'altre tutte di lei ubbidire . A uno di cotesti concistori
o consigli assiste, nascosto, un giovane pastore: Africo; e fra tante
creature belle, ch'egli contempla rapito, una particolarmente l'avvince d'amore, una ninfa quindicenne, Mensola. Nei giorni seguenti
egli si sforza invano di ritrovarla, errando inquieto e fremente di passione per i colli selvosi. Ma quando infine gli riesce un giorno di
vederla, la fanciulla fugge e, diventata per paura ardita , lancia un
dardo contro il giovane che l'insegue con amorose preghiere. Nell'istante in cui getta la freccia tuttavia Mensola deve guardare in viso il
suo nemico, e gliene viene compassione, s che pentita del suo gesto
grida ad Africo di guardarsi dal pericolo. un moto, sia pur passeggero, ma istintivo, di piet: e Africo ne trae conforto alle sue speranze. Propiziata dal sacrificio d'una pecorella, Venere appare in
sogno al pastore e gli consiglia uno stratagemma: travestito da donna, il giovane sar facilmente accolto in mezzo alle ninfe. Cos avviene infatti, e anzi egli riesce ad ottenere anche l'amicizia dell'inconsapevole Mensola. Un giorno, che il caldo grande, le ninfe giunte presso a uno specchio d'acqua si spogliano per bagnarsi; anche
Africo si denuda e, mentre le altre fuggono atterrite, trattiene a forza
Mensola fra le sue braccia. La ninfa dapprima piange e vorrebbe
uccidersi; ma, alle calde parole dell'innamorato giovane, la resistenza
di lei si fa sempre meno chiusa e ostinata, finch pur nel suo animo
nasce dalla piet una vaga tenerezza, un bisogno di consolazione, l'amore. Africo ottiene infine il compenso di tante ansie e angoscie
e affannose ricerche. Lasciando l'amato, Mensola gli promette di ritrovarsi con lui ad un luogo convenuto; ma appena sola ripresa
dalla paura dell'ira di Diana e dal rimorso del giuramento violato,
e risolve in s stessa di non rivederlo mai pi. Africo disperato si
uccide: e il cadavere cade, tingendole di sangue, fra le acque del torrente che da lui prender il nome. La ninfa intanto, assistita dall'anziana Sinedecchia, mette alla luce un bimbo, e con l'amore materno
rinasce nel suo cuore l'affetto gi sopito e tenuto a freno per l'uomo
che l'ha fatta madre. Se non che sopraggiunge l'offesa dea, scopre
il fallo e lancia la sua maledizione alla ninfa, la quale fuggendo si
discioglie nell'acqua d'un rivo: la Mensola, piccolo affluente dell'Arno. Il bimbo, Pruneo, allevato amorosamente dai genitori di Africo,
e diventer poi siniscalco al servizio di Attalante, fondatore di Fiesole, il quale, a vendicare il sacrificio de' due amanti distrugge le
crudeli consuetudini imposte da Diana, disperde le ninfe e le costringe al matrimonio: e qui veramente, come not il Carducci, sebbene piuttosto suggerita in termini logici, che non espressa poeticamente la parabola del Rinascimento su le rovine degli istituti
ascetici . I discendenti di Pruneo domineranno poi sulle terre fiesolane, e, distrutta Fiesole dai Romani, andranno ancor essi ad abitare
in Firenze possente .
Come si pu intendere pur dall'arida trama qui riassunta, la materia del Ninfale fiesolano , tutta o quasi, quella stessa che ha gi
ispirato fin qui le pagine migliori del Boccaccio: e cio la sottile osservazione della vita sentimentale, non pi d'altronde inceppata e
confusa da propositi estranei e da troppo alte intenzioni, ma ritratta
per s con una schiettezza e un abbandono poetico e una lirica felicit,
quali eran fino a questo momento precluse alla fantasia troppo appassionata e tormentata del certaldese. Ch, se i personaggi del Nintale
richiaman talora negli atti e nell'indole le figure gi note degli altri
poemi e romanzi minori, fan ripensare, tuttavia ad essi oll asi ad abbozzi e presentimenti d'una realt artistica, che soltanto ora compiutamente si attua. Africo ha s qualcosa di Florio, e di Troilo, di
Arcita, di Ameto, di Panfilo; ma mentre scomparsa quasi del tutto
da' suoi discorsi l'onda affannosa dello sfogo autobiografico, i suoi
sentimenti hanno acquistato, in confronto di quelli dei personaggi
accennati, una pi immediata evidenza, ottenuta con sobri tocchi, e
una pi densa sostanza e una pi irruente intensit. Il suo amore
tutto, e soltanto, desiderio ardente dei sensi, affatto alieno da complicazioni intellettuali; il che non vuol dire, d'altronde, che esso si riduca a un capriccio superficiale e passeggero, mentre invece una
passione violenta che investe tutta la vita semplice ed elementare del
giovane pastore; e tale si mantiene, con perfetta coerenza, in ogni
parte del racconto. Quando vede per la prima volta Mensola, nel
concistoro di Diana, subito si raffigura nella mente il piacere di posse-
contenuto poetico alla loro persona, di tanto invece il Boccaccio tende ad espandere la sua esperienza autobiografica e ad obliarla- nella
contemplazione di una realt esteriore, nella creazione di una serie
di accadimenti, di paesaggi, di caratteri. Questo significa che la cultura borghese dell'et dei comuni (non genericamente medievale ,
come pur si voluto anche di recente ripetere) opera nel certaldese
con un rapporto pi immediato e diretto, meno impacciato da preoccupazioni dottrinali e da schemi culturali; che in lui, pi che negli
altri, essa si esprime in tutta la sua ricchezza e in tutte le sue manifestazioni pi varie e contrastanti; che egli ne riassume, rendendoli
espliciti e chiari, il significato e le aspirazioni e viene a poco a poco
ritrovando le forme pi adeguate per corrispondere alle sue esigenze
concrete e realistiche e insieme ai suoi ideali di decoro e di raffinatezza: il romanzo e la novella. Se ci implica da parte sua l'accettazione ottimistica di una realt di sentimenti e di costumi (vale a
dire, sempre a paragone di Dante e del Petrarca, una coscienza di
gran lunga minore della crisi che aveva ormai investito quel mondo
e ne incrinava profondamente gli istituti, i valori e la concezione
di vita), si deve per altro riflettere che egli opera nel cuore di una
civilt regionale dove gli elementi del preumanesimo comunale sono
tutt'altro che esauriti e, nonch contrapporsi ad esso, tendono a confluire nello spirito del nascente umanesimo, a cui forniranno, anche
agli inizi del secolo seguente, taluni spunti non secondari di polemica
civile e morale (con il pensiero e con l'azione di un Salutati, di un
Bruni, di un Bracciolini); e inoltre proprio questo atteggiamento
di cordiale simpatia che gli consente di cogliere le trasformazioni,
le scoperte, i contrasti di una societ, sul piano etico e nelle infinite
sfumature della realt quotidiana, con una immediatezza e una variet di piani e di prospettive che risulterebbe altrimenti impensabile. N bisogna poi dimenticare che questa disposizione del Boccaccio nei confronti della vita e della cultura borghese, maturate a
Firenze sullo scorcio del tredicesimo e nei primi decenni del quattordicesimo
secolo, se sempre aperta e fiduciosa, non mai peraltro meramente passiva. Dinanzi a quella materia, in cui pure avverte e ama una non
comune libert e spregiudicatezza di sentimenti e di idee e una straordinaria ricchezza di motivi poetici allo stato grezzo, c' sempre
l'artista che reagisce con il proposito di ricomporre in una superiore
dignit e in una pi classica armonia quelle esperienze incondite
e disperse, e con la sua educazione tecnica rettorica e lirica laboriosamente foggiata sui modelli della prosa d'arte latineggiante e dei
rimatori aulici, e c' l'uomo con le sue personali esperienze erotiche
e mondane, con le sue aspirazioni cortesi e raffinate, con le sue
confessioni e leue ambizioni. Di qui la triplice tensione che caratterizza lo svolgimento dell'arte boccaccesca fino al Decameron, nello
sforzo di raggiungere e di contemperare l'equilibrio degli affetti con
quello delle forme, la serenit dello spirito e il ritmo pacato dell'esposizione. Tutta la storia di quest'arte pu riassumersi, per una
parte, nel contrasto fra un'esperienza sentimentale esuberante tumultuosa e appassionata e l'ambizione di una cultura ricca, ma farragginosa e ancora acerba; fra un'autobiografia invadente e una rettorica tuttora scolastica; e per un'altra parte, nel contrasto, che fino
ad un certo punto coincide col precedente, fra la persistenza di motivi lirici (di confessione, elegiaci, patetici) e l'esigenza di un ritmo
narrativo robusto ed agile al tempo stesso, umano e pur distaccato.
Donde una somma di incongruenze, di incertezze e di scadimenti tonali, che si risolver soltanto nella raggiunta maturit umana e stilistica del capolavoro. Nel quadro di questi contrasti si colloca anche,
come problema in apparenza minore ma persistente, l'esigenza di un
organismo in cui vengano a disporsi in una composizione ordinata ed
armonica tutte quelle esperienze disperse e di per s frammentarie,
rizia:
Cortesia cortesia cortesia chiamo,
e da nessuna parte mi risponde.
Ed ecco Dante rimpiangere anche lui
le donne e i cavalier, li affanni e li agi,
che ne 'nvogliava amore e cortesia
(Purgatorio, quattordicesimo, 109).
e vagheggiare le et precedenti, quando nelle corti della Marca Trivigiana, di Lombardia e di Romagna, solea valore e cortesia trovarsi ,
e le grandi nobili famiglie non si fregiavano ancora del pregio
de la borsa e de la spada.
Il Boccaccio proveniva da famiglia mercantile, ma la sua raffinata
cultura umanistica gli aveva infuso vivissima la volont di distinguersi
dalle folle dedite solo ai traffici e ai guadagni, e con lo stesso aristocratico disprezzo con cui Dante aveva guardato alle genti nove
dalle ricchezze improvvisate, egli guardava ai vili meccanici , agli
uomini che, incapaci di sollevarsi ad una libera disinteressata attivit
culturale, fossero dediti a lavori manuali e mercenari, rivagheggiando
le et cortesi del Saladino e delle generazioni passate.
L'ideale, dunque, del Boccaccio cavalleresco e cortese; ma, vivendo egli a met del Trecento, costretto a respingere questo suo
ideale indietro nel tempo, perch l'et nella quale egli vive veramente meccanica le corti feudali non esistono pi, e non esistono ancora
le grandi corti principesche del Rinascimento: l'Italia tutta si agita, come gi la Romagna dantesca, tra tirannia e stato franco , tra
Comuni di fieri rissosi mercanti e signorie di tiranni preoccupati del
domani, non ancora ammorbiditi dal tempo e dalla sicurezza del dominio. Il mecenatismo era stato e sarebbe stato; i magnanimi baroni
feudali erano morti, i signori magnifici del Rinascimento non erano ancora nati, i cavalieri contemporanei erano gretti e tirannici, come i
cavalieri che formavano le corti e le famiglie dei podest, come il giudice marchigiano del Decameron (ottavo, 5) a cui tre giovani
traggono le brache mentre amministra giustizia.
Il mondo cavalleresco appartiene dunque al passato; ma, naturalmente, celebrando quelle et e quegli uomini, il Boccaccio esprime
un ideale suo presente e colloca in anni non lontani certe aspirazioni
che avrebbe volute realizzate negli anni in cui vive. Ecco, perci, che
egli esalta con ammirato stupore la cavalleresca lealt di re Guglielmo secondo
il normanno, che, per mantenere la parola data, fa uccidere il giovane nipote amatissimo; ecco che avvolge di tanta luce ideale la magnanimit cavalleresca di chi per amore consuma tutti i suoi beni,
e pure resta sempre fedele alla donna e al culto di lei (v 8; v 9);
ecco che nella decima giornata varia e ripete l'esaltazione della magnanimit e della cortesia in tutti i suoi aspetti, fino alla rinunzia
all amore e alla vita stessa; ecco che continuamente, ogni volta che
pu, inveisce contro il grande nemico, l'avarizia, la gretta cupidigia, che spegne ogni moto liberale dell'animo; eccolo che tuona
spesso contro i costumi corrotti e vituperevoli di coloro li quali
al presente vogliono essere gentili uomini signor chiamati e riputati , e dovrebbero invece esser detti piuttosto asini nella bruttura
di tutta la cattivit de' vilissimi uomini allevati (primo, 8).
Tuttavia non per questo il Boccaccio rappresenta ed esalta solo
ideali del passato, ignorando o misconoscendo il presente. Come ogni
grande scrittoreegli ha la capacit di osservare con occhio attento e di
rappresentare con animo sgombro il mondo che realmente gli si muove
era stato infatti estraneo a tutta la lirica d'arte, e provenzale e italiana, come a tutta la letteratura cavalleresca, ma qui, invece, monna
Giovanna sposa borghesemente Federigo, e questi addirittura, ammaestrato dalla dura esperienza, vive serenamente con lei miglior
massaio fatto : il nobile e cortese donzello si tramuta in un cultore della masserizia e della misura, le virt del mercante Paolo da
Certaldo e di Leon Battista Alberti: un mondo veramente finito, e
Boccaccio ne registra fedelmente la fine.
E con la fine del vecchio mondo, registra il nascer del nuovo:
Clsti fornaio. Naturalmentela novella va letta col proemio che la
precede, perch solo cos possibile scorgere il contrasto tra cui si
dibatte il Boccaccio, tra certe sue convinzioni ideologiche e la sua
lealt di narratore realista. Che Cisti, l'uomo di cui egli ammira tanto
la discrezione signorile e garbata, sia stato solo un fornaio, questo
il Boccacclo ideologO non riesce proprio a capirlo. Per lui la nobilt
dello spiritO dovrebbe esser legata se non proprio alla nobilt del
sangue, per lo menO all'elevatezza sociale, ad una indipendenza economica che permetta l'educazione dell'intelletto e una lunga pratica
di raffinati costumi. Ma a questi pregiudizi tradizionali e non del tutto
spenti contrasta la nuova realt sociale, che mostra con tanti esempi
( s come in Cisti nostro cittadino ed in molti ancora abbiamo potuto vedere ) come spesso la fortuna apparecchi ad un corpo
dotato d'anima nobile vil mestiere, ed il Boccaccio, anche se si
meraviglia della cosa, non pu non notarla: tra quei popolani delle
arti minori che prendono parte ai consigli del Comune, sono non solo
meccanici dall'animo gretto inteso a guadagni vili, ma uomini cortesi, disinteressati, dall'intelletto affinatosi nella partecipazione al potere politico, dallo spirito istintivamente magnifico . E il Boccaccio, nel suo onesto realismo, pu solo cercare alla cosa, per lui strana,
una fantasiosa, mitica spiegazione: E cos le due ministre del mondo
--la Natura e la Fortuna--spesso le lor cose pi care nascondono
sotto l'ombra delle arti reputate pi vili, acci che di quelle alle necessit traendole, pi chiaro appaia il loro splendore (secondo, 10). Ma
proprio il carattere mitico di questa spiegazione, sottolineando l'imbarazzo del Boccaccio, chiarisce le contraddizioni che si urtano in
lui mentre scrive, e il trionfo del suo realismo di artista sui suoi pregiudizi di educazione e di classe.
Del resto, a intendere la seriet con cui il Boccaccio sa cogliere
e rendere la fisionomia del suo tempo, si ricostruisca il quadro che il
Decameron ci traccia della Firenze trecentesca. Le novelle di cortesia
e di tragedia, le novelle retoriche e astratte, non sono mai fiorentine:
i grandi (troppo grandi!) eroi della cortesia sono sovrani (re Carlo e
re Pietro), abitano le terre di Lombardia--nel significato medievale
suo vasto--ricche di feudi e di signori (messer Torello, il marchese
di Saluzzo), sono stranieri, antichi, personaggi di favola; i fiorentini
quand'anche siano nobili, cortesi, colti, sono sempre, per cos dire, concreti, di una cortesia realisticamente terrena ed umana: Federigo degli
Alberighi, di cui si sottolineato il carattere tutto trecentesco;
Guido Cavalcanti, filosofo naturale, laico, poeta, spesso astratto dagli
uomini , eppur cos vivo, balzato fuori da un mondo cos fiorentino;
sono quei gentili uomini e quelle gentili donne dalla lingua pronta e
pungente, cos abili a ritorcere un motto od un frizzo; sono il padrone
di Chichibio, tanto signorile, eppure tanto realisticamente rappresentato; sono intellettuali geniali e dall'ingegno mordace, come Giotto
e messer Forese da Rabatta; e sono ancora artigiani quali Cisti fornaio,
artisti popolani quali Bruno, Buffalmacco, Calandrino; medici borghesi quale maestro Simone; mercatanti ricchi come il geloso e i protagonisti della storia di Gerolamo; popolani plebei come la Simona
e Pasquino, buontemponi come Michele Scalza, mezzi uomini di
corte , cio parassiti per bene quali Ciacco e Biondello, capi sca-
passionata partecipazione alla vicenda narrata. Ma nei casi pi frequenti non c' una simile commossa adesione o, se c', solo una
scelta intellettuale che non incide direttamente sul processo conoscitivo proprio dell'arte. [...] L'importante, per ora, prendere atto di
una constatazione che anche il lettore pi semplice si trover a fare avvicinandosi a quest'opera: che, cio, nella variet dei casi raccontati,
nella diversit dei toni, nella molteplicit e contradittoriet della
materia che Boccaccio assume ad argomento e contenuto dei suoi racconti non possibile rintracciare un preciso criterio di scelta e di giudizio, un punto di vista fermo dal quale valutare quella molteplicit, una sicura concezione del mondo, insomma, o un organizzato sistema di idee. Boccaccio ha verso le cose un atteggiamento empirico: ci che si trova nella realt oggetto sempre della sua attenzione e solo in qualche caso del suo giudizio. Comunque egli non
disposto a ignorare una parte della realt per favorirne un'altra
a lui pi congeniale. Martellino che si fa beffe degli ingenui cittadini
di Treviso e che continua a motteggiare anche dopo essere stato
pettinato dalla folla infuriata ha tutta la sua simpatia; ma il giudice che va per le spicce e con qualche tratto di colla gli fa morire
il sorriso sulle labbra e lo riduce tutto smarrito e pauroso forte
fa parte della realt e il nostro autore lo rappresenta in tutta la sua
evidenza anche se non gli d un posto nel suo mondo ideale.
Non c' davvero da stupirsi di tale atteggiamento empirico del nostro scrittore: perch esso costituisce il rovescio positivo della crisi
dei valori tradizionali che si era determinata nel secolo quattordicesimo. Che
non fu solo crisi dell'Impero e della Chiesa, ma anche del Comune e della
sua dinamica politica, della societ mercantile che in alcuni clamorosi
fallimenti mostrava l'altra faccia della sua ricchezza, l'instabilit di
un benessere fondato sul denaro (e in uno di questi fallimenti fu coinvolta anche la famiglia del Boccaccio), dell'ordine sociale minacciato
dalle nuove classi che si venivano formando e dagli stessi rapidi
travolgimenti di condizioni e di abitudini. Crisi tipica di secolo di
transiziOne stato detto: nella quale, quindi, si trovano a convivere
residui del passato e anticipazioni dell'avvenire. Si pensi che persino
la nuova istituzione politica, caratteristica di questo secolo, la Signoria, rispecchia in un certo senso tale carattere di transizione: poich
non si presenta come una formazione politica e sociale nuova rispetto al vecchio Comune, ma piuttosto come un agglomerato di organismi preesistenti (Procacci) nel quale rimane in vigore l'organizzazione corporativa, continuano spesso a vegetare i vecchi organismi e le antiche cariche comunali convivono con i nuovi istituti signorili. Carattere di transizione che naturalmente investe anche le
sovrastrutture culturali e che, in questo campo, si manifesta--almeno presso i minori--pi come rottura e frantumazione dell'impalcatura organica della cultura medievale che come prefigurazione
di un nuovo ordine intellettuale e morale. Abbiamo cos che anche
in Italia la letteratura minore del secolo quattordicesimo si presenta come
una letteratura da autunno del Medioevo , come una letteratura, cio,
in cui il rimpianto del vecchio ordine perduto, e lo smarrimento che
ne consegue, hanno il sopravvento sulla consapevolezza dell'enorme
portata delle trasformazioni che sono in atto. [ ... ]
Ebbene, l'empirismo di Boccaccio costituisce, come abbiamo detto, il rovescio positivo di questa crisi. La disgregazione delle strutture organiche della societ e della cultura medievali un fatto negativo e paralizzante per chi continua a vagheggiare quell'organicit
come un modello da riprodurre. D, invece, uno straordinario senso
di libert, di modernit, di possibilit di comprendere, in presa diretta
le cose che lo circondano a chi ha la consapevolezza che proprio quelle
strutture costituivano un diaframma fra l'uomo e la realt. Come osserva giustamente il Garin a proposito delle dispute filosofiche, quel-
egli li rappresenta: cio dall'empirismo del punto di vista da cui considera gli uomini e le cose, al realismo con cui li rappresenta. Il nostro
si preoccupa di dare sempre ai suoi racconti il colore di fatti realmente accaduti: i protagonisti, o sono personaggi storici o appartengono, nella maggioranza dei casi, a famiglie effettivamente esistite;
i fatti si riferiscono sempre a regioni, citt, localit ben determinate;
gli ambienti sono sempre descritti con meticolosa precisione, le situazioni sono sempre giustificate, le azioni hanno una loro ragione
d'essere, persino le psicologie e i pensieri dei personaggi sono seguiti
con precisione attraverso tutti i nessi e i successivi passaggi del loro
sviluppo. [ ... ] Del resto persino nel linguaggio il nostro cerca sempre
--per quanto gli era consentito dalla retorica del tempo--di adeguarsi ad ambienti e personaggi. I francesismi nella novella del conte
di Anguersa, i tratti dialettali veneti in quella di Chichibio e di frate
Alberto, quelli napoletani nella novella d'Andreuccio o siciliani nella
novella della siciliana, stanno ] a dimostrarlo. E non a caso Boccaccio quando viene a parlarci di un cavaliere che non sapeva raccontare, ci precisa che egli pessimamente, secondo le qualit delle
persone e gli atti che accadevano, profferiva . [...]
Il Decameron , certo, un'immensa galleria di paesaggi, di ambienti, di situazioni, di sentimenti, di persuasioni nella quale si affolla
un'innumerevole schiera di tipi umani. L'eroismo e la beffa, l'amore
cortese e quello sensuale, lo spirito pronto ed arguto e quello ottuso
e credulone, la gioia e il dolore, la ricchezza e la povert, la gloria
e l'onore, il vizio e l'inganno, la vita e la morte, nulla sembra sfuggire all'occhio del narratore. E, accanto a questi temi, i paesaggi paurosi delle tempeste e quelli sereni di giardini fioriti, la natura selvaggia dei paesi montani e quella ridente di valli tranquille e di ameni
boschetti, la taverna e il palazzo reale, la bottega artigiana e il fosco
castello feudale, gli spazi immensi dei lunghi viaggi e il quartiere di
Firenze, le familiari citt italiane e quelle favolose dell'Oriente, i vicoli malfamati e le sale calde e ospitali delle case signorili. Materia
multiforme e ricchissima dunque: che tuttavia risulterebbe farraginosa e contraddittoria se non venisse ad unificarla e armonizzarla l'atteggiamento realistico dell'autore, la sua spregiudicata adesione alle
cose e alle persone, la sua libert da schemi ideologici che la libert
di presa diretta sul reale. Atteggiamento rinnovatore, in linea con
le esi,enze pi profonde dell'Umanesimo nascente, atteggiamento di
cui Boccaccio comprende l'estrema seriet. E ai suoi critici che lo invitano a starsi saviamente con le Muse in Parnaso , piuttosto che
mescolarsi con queste ciance , egli risponde rivendicando l'importanza della vita, dell'esperienza concreta, perch non si pu sempre
dimorare con le Muse n esse con esso noi , e aggiunge che mentre
scriveva le sue novelle, a quantunque sieno umilissime , quelle idee
si sono elle venute parecchie volte a star con lui, cos che queste cose tessendo, n dal monte Parnaso n dalle Muse non mi allontano, quanto molti per avventura s'avvisano . l'affermazione orgogliosa di una nuova poetica che raggiunger i suoi risultati pi alti
col Machiavelli e con l'Ariosto. Immergiamoci dunque anche noi in
queste a ciance , che hanno aperta la strada a uno dei periodi pi
civili della storia di tutti i tempi e di tutti i popoli.
CARLO SALINARI:
Da Il Decameron, a cura di C. Salinari, Bari, Laterza, 1963, pp. 5-22.
/:/ La novit dello stile medio del Decameron.
Tutto quanto pu trarsi come esempio dal periodo anteriore, la
rozzezza contadina, l'ampiezza plastica dei fabliaux o l'eleganza-esile
e povera del Novellino, o il motto vivace e ricco di evidenza di Salimbene, niente di tutto questo pu tuttavia reggere il confronto col
Boccaccio; soltanto con lui il mondo dei fenomeni sensibili dominato nel suo insieme, ordinato secondo un cosciente senso d'arte, e
felicemente reso dalla lingua. Soltanto il suo Decamerone, per la prima
volta dall'antichit in poi, fissa un determinato livello stilistico in cui
la narrazione di fatti realmente avvenuti della vita presente pu diventare divertimento di persone colte; essa non serve pi come exemplum morale, e nemmeno serve a provocare la risata del volgo che
facilmente si contenta, bens serve come trattenimento d'una cerchia di giovani nobili e istruiti, cavalieri e damigelle, che godono
del giuoco dei sensi e possiedono spirito delicato, gusto e giudizio
raffinati. Per render chiaro questo intento del suo racconto, il Boccaccio
gli ha creato intorno la cornice. Il livello stilistico del Decamerone
ricorda molto da vicino l'antico genere che gli corrisponde, la fabula
milesiaca. Questa non poi cosa sorprendente, poich la posizione
dello scrittore riguardo al suo oggetto, e il ceto a cui l'opera destinata, si corrispondono quasi perfettamente nelle due epoche, e perch
anche per il Boccaccio la concezione. dell'arte dello scrivere si collegava a quella della retorica. Proprio come nei romanzi antichi, l'arte
stilistica del Boccaccio si basa su un'elaborazione retorica della prosa,
e proprio come in quelli lo stile sfiora talvolta il poetico; anche egli
d talvolta al dialogo la forma d'un discorso ben composto, e il quadro d'insieme d'uno stile medio o misto, che unisce il realistico
e l'erotico a un'elegante forma linguistica, del tutto simile. Per,
mentre il romanzo antico un genere tardo, che si attua in lingue
che gi da gran tempo hanno dato il meglio di s, la ricerca stilistica
del Boccaccio trova a sua disposizione una lingua letteraria appena
nata e quasi ancora informe. La tradizione retorica, irrigidita nella
prassi medioevale fino a diventar quasi un meccanismo spettrale e senile, che, poco prima, al tempo di Dante, aveva fatto le sue prove
timide e ritrose con i primi traduttori di autori antichi, diventa nelle
sue mani uno strumento meraviglioso, che con un balzo d vita alla
prosa d'arte italiana, la prim prosa letteraria d'Europa che si abbia
dopo l'antichit. Essa nata nel decennio che sta fra le sue prime
opere giovanili e il Decamerone. Egli possedeva quasi fin dal principio, per quanto sia un'eredit antica, quel movimento dolce e ricco
del ritmo prosastico, che gli proprio, e che si mostra gi nella sua
primissima opera in prosa, il Filocolo. La prima conoscenza degli autori antichi deve aver messo in atto questa disposizione in lui gi esistente. Quello che inizialmente gli mancava, era la misura e il criterio nell'impiego degli strumenti stilistici e nella determinazione del
livello stilistico; dovette conquistarsi un rapporto esatto fra oggetto
e livello stilistico e farsene un possesso che fosse quasi un istinto.
Il primo contatto con la concezione dello stile illustre degli autori
antichi, un contatto che inoltre non era ancora libero dall'influenza di
concezioni medioevali, conduceva molto facilmente a un innalzamento per cos dire cronico del livello stilistico, e a un impiego eccessivo
di ornamenti dotti; e ci faceva s che quasi di continuo la lingua salisse sui trampoli, e appunto per questo restasse lontana dal suo argomento e si rendesse, in tale forma, adatta quasi solamente a scopi
oratori e decorativi: un linguaggio cos elevato era assolutamente incapace d'abbracciare la realt sensibile della vita in atto. Senza dubbio
col Boccaccio le cose andarono diversamente fin dal principio. Egli
disposto e sensibile a modi pi spontanei, propenso a un'elaborazione amabilmente scorrevole, intrisa di sensualit ed elegante. Fin dal
principio egli non fatto per lo stile illustre, ma per quello medio;
e la societ della Corte angioina a Napoli, dove aveva trascorso la sua
giovent e dove era apprezzata pi che nel resto d'Italia l'eleganza
virtuosa delle forme tarde della cultura cavalleresca della Francia
feudale-cortese, che per, in conseguenza d'una struttura sociale totalmente diversa e sotto l'influsso di correnti preumanistiche, presto
le dettero una nuova impronta, meno di casta e pi personale e realistica. La visione interna ed esterna si ampli e si liber dai vincoli
di casta che la restringevano, irruppe perfino sul terreno della scienza
dianzi riservato ai chierici, dandole a poco a poco quella forma di cultura piacevole e alla mano che agevola i rapporti sociali. La lingua,
dapprima cos rude e rigida, divent pieghevole, ricca, sfumata e
fiorita, e si dimostr compiacente ai bisogni di una vita sociale ricercata e colma d'elegante sensibilit; la letteratura sociale conquist quanto prima non aveva ancor posseduto: la realt attuale del
mondo. Senza dubbio questa conquista sta in rapporto preciso con
quella assai pi importante che Dante aveva fatto una generazione
prima, su un piano stilistico pi alto. [...] Anche Dante possiede la
capacit di dominare una realt composita e variamente intonata,
quale non possiede nemmeno lontanamente nessuno scrittore medioevale a noi noto. In quel capitolo ho gi analizzato con la maggior
precisione possibile il sovrano dominio degli strumenti sintattici,
la fusione del tutto, il mutar del tono e dello slancio ritmico, per
esempio, fra il colloquio iniziale e l'apparizione di Farinata, o nel
sorgere di Cavalcante e nel suo parlare. Il dominio che Dante esercita sui fenomeni si esplica con una duttilit minore, e tuttavia raggiunge un'efficacia maggiore di quella raggiunta dal Boccaccio. Gi
la misura severa della terzina con la rigida commettitura della rima
non gli consente un movimento cos libero e leggero quale consentito
al Boccaccio, e che d'altronde egli avrebbe disprezzato. Ma innegabile che l'opera di Dante ha posato per la prima volta lo sguardo
sull'universale e molteplice realt umana. Per la prima volta dall'antichit in poi, questa realt si mostra libera e plurilaterale, senza
limitazioni di ceti, senza restringimento di visuale, con uno spirito
spedito in ogni parte, che, rendendoli vivi, ordina tutti i fenomeni,
in una lingua che appaga tanto la realt sensibile di essi quanto la loro
ordinata concatenazione. Senza la Commedia, il Decamerone non
avrebbe mai potuto essere scritto. Questo evidente; e si capisce
senz'altro come il ricco mondo dantesco sia stato dal Boccaccio trasportato a un livello stilistico pi basso. Di ci ci si persuade ancor
meglio, se si confrontano due movimenti simili, come nel nostro testo la frase di Lisetta: Comare, egli non si vuol dire, ma lo'ntendimento mio l'agnolo Gabriello , con Inferno diciottesimo 52-54, dove Venedico Caccianemico dice: Mal volontier lo dico; ma sforzami la
tua chiara favella, che mi fa sovvenir del mondo antico . Naturalmente non si tratta di dono d'osservazione o di forza d'espressione
di cui il Boccaccio vada debitore a Dante: queste qualit egli le possedeva da s, e in maniera diversa da Dante; il suo interesse si rivolge a fenomeni e a sentimenti che Dante avrebbe disdegnato di
trattare. Egli invece va debitore a Dante della possibilit di fare un
cosi libero uso del suo ingegno, di conquistare il posto da cui dominare tutto il mondo presente dei fenomeni, afferrandoli in. tutta la
loro complessit per poterli poi riprodurre in una lingua pieghevole
ed espressiva. Attraverso la forza di Dante, che rese possibile ritrarre
tutte le varie figure umane che si manifestano nella sua opera, Farinata e Brunetto, Pia de' Tolomei e Sordello, san Francesco e Cacciaguida, facendole emergere dalla loro condizione particolare e facendole parlare ciascuna nella sua propria lingua, divenne possibile al
Boccaccio la stessa cosa per Andreuccio e frate Cipolla o il suo servo, per Ciappelletto e il fornaio Cisti, per madonna Lisetta e Griselda. A questo vigore di visione sintetica del mondo appartiene
anche quella coscienza salda, ma tuttavia elasticamente e prospetticamente critica, che assegna ai personaggi il loro preciso valore morale senza astrattamente moraleggiare, anzi lasciando che quel valore
riluca da soIo.
ERICH AUERBACH:
Da Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, trad. it. di
A. Romagnoli, Torino, Einaudi, 1956, pp. 224-229.
/:/ La cornice del Decameron.
La cornice non un elemento decorativo, e comunque essa non
nasce a posteriori: anche se scritta cronologicamente dopo le novelle,
essa idealmente anteriore alle novelle, in quanto documenta uno
stato dianimo, il clima di umanit e di stile entro cui si compongono
le novelle, di cui le novelle sono tutte imbevute. Nella cornice la
espressione dell'ambiente per il quale la parola del Boccaccio, scaturita dalla lusinga della memoria, pronunziata; in essa l'immagine
concreta di quella ideale societ alla quale diretta la parola del narratore, di quella conversazione per la quale il piacere della memoria
si insapora del gusto della comunicazione ad una accolta sceltissima,
intelligente e raffinata, e diventa letteratura armoniosa. [ ...] Non una
eco, un commento, una volont architettonica fallita e divenuta vagheggiamento critico della materia delle novelle, la cornice: ma una
categoria espressiva, un principio formatore intimo e anteriore al
processo costitutivo della poesia delle novelle. Si tratta dunque, per
il rapporto fra cornice e novelle, di un rapporto di necessit, di una
necessit non riflessiva (quasi un ripiegamento contemplativo attuato
dalla cornice sulle novelle) ma di una necessit espressiva, ponendosi
la cornice come determinante conoscitivo del mondo che le novelle
contengono, come a priori costitutivo dell'espressione delle novelle.
L'esame interno della cornice, specie se riportato in assidua vicenda all'analisi delle novelle, riesce estremamente chiarifcatore della condizione espressiva del Decameron. Caratteristica della cornice
l'atmosfera diffusamente contemplativa, distaccata e immobile: non
tanto in un'azione quanto piuttosto in una contemplazione consiste,
invero, la vita della cornice. La memoria di essa, intanto, si pu dire
che si risolva quasi esclusivamente in un'impressione paesistica. I due
punti focali del paesaggio della cornice sono rappresentati dalla descrizione del giardino nell'introduzione della giornata terza e dalla
descrizione della valle delle donne nella conclusione della giornata
sesta. Sono forse i luoghi pi vivi dell'intero Decameron, quelli costruiti con una pi evidente ricerca di armoniosa prospettiva, di composizione musicale, di colorita ambientazione. Nel libro non ci sono
altre pagine in cui si avverta una cos compiaciuta e insistente descrizione di paesaggio; una cos felice e folta quantit di aggettivi e di
nomi evocanti gioiose realt. Si pensi per contrasto alle novelle,
sempre tanto sobriamente schive di abbandoni descrittivo-paesistici.
I rari paesaggi che si aprono nelle novelle assumono in ogni caso un
valore rigorosamente funzionale in quanto elementi di quell'azione
che Moravia, in alcune pagine che sono tra le cose pi penetranti
che sul Boccaccio siano state scritte, ha indicato come la nostalgia
pi profonda dell'umanit e dell'arte del grande trecentista. Essi non
sono mai l'espressione di un gratuito movimento della fantasia dello
scrittore, ma costantemente obbediscono ad una necessit strutturale
nel ritmo di eventi che nella novella si snoda. Si osservi la morfologia dei paesaggi delle novelle, la scarsa parte che vi hanno nomi
ed aggettivi e l'assoluta prevalenza dei verbi (di qui la carica fantastica intensissima dei rari sostantivi e dei dosati aggettivi). la condizione dell'intero tessuto espressivo delle novelle, in cui azioni si
susseguono ad azioni. Perci anche il paesaggio nelle novelle diventa
un paesaggio-azione. Un paesaggio-azione il mare tempestoso della
senza sapere altrimenti chi egli fosse, rimise nelle sue mani. Ma che?
le cose malfatte e di gran tempo passate sono troppo pi agevoli a
riprendere che ad emendare: la cosa and pur cos . Vendica, insomma, la madre, la vittima, ed insieme assolve il padre colpevole; ma dignitosamente e delicatamente, come se toccasse una corda che non
poteva non toccare nel suo racconto, ma sulla quale non era lecito
insistere; e con un finale sospiretto sulle umane debolezze e miserie! Il Boccaccio non ha dimenticato nessun particolare che potesse
concorrere alla coerenza dell'insieme: tutto ci che l'ingannatrice
doveva fare e dire per conquistarsi la fiducia di Andreuccio, dice e fa;
tutte le immagini e i ragionamenti che dovevano sorgere nella mente
del giovane, e i sentimenti che li rafforzavano, sono indicati: Andreuccio, udendo questa favola cosi ordinatamente, cosi compostamente detta da costei, alla quale in niuno atto moriva la parola tra' denti
n balbettava la lingua, e ricordandosi essere vero che il padre era
stato a Palermo, e per s medesimo de' giovani conoscendo i costumi
che volentieri amano nella giovinezza, e veggendo le tenere lagrime,
gli abbracciari e gli onesti basci, ebbe ci che ella diceva pi che per
vero . L'affetto di sorella cos compitamente simulato, il ricordo delle notizie udite da bambino circa un soggiorno di suo padre in Palermo, l'esperienza continua e presente che Andreuccio aveva dei trasporti d'amore e delle avventure galanti, sono tutte tre le forze convergenti alla persuasione che in lui si produce. [ ... ]
Non era, certo, da moralista l'anima dell'autore del Decamerone,
e perci egli non tratta i suoi ladri, meretrici, ruffiani e simili lordure,
come, per esempio, li tratta Dante nell'Inferno; ma non era neppure
da uomo immorale e cinico, alla Pietro Aretino, il quale per l'appunto,
riducendo la novella di Andreuccio a scene di commedia nel suo Filosofo, v'introdusse un certo suo tono canagliesco, che contrasta spiccatamente con quello della novella originale. Il Boccaccio accetta
la vita nella sua variet e nelle sue infinite gradazioni, che dalle
passioni pi alte scendono alle pi basse, dal santo gi fino alla bestia,
e che, via via scapitando nella qualit, guadagnano nell'estensione
e s'incorporano nella grande maggioranza degli uomini, che plebe.
A che vale ribellarsi alla realt, se la realt cos fatta? Non giova
piuttosto, in molti casi, chiedere e concedere indulgenza? E poich
quella realt inferiore e bestiale esiste e persiste, giova guardarla
attentamente, indagarla, rappresentarla con cura. Ma appunto perch, sebbene pi rara, esiste altres una realt superiore, l'altra inferiore non pu non assumere, al lume di quella un aspetto comico.
Donde lo spirito realistico e comico insieme dell'autore del Decamerone: la sua seriet da storico e il suo sorriso da artista. Donde il suo
stile, grave e preciso nel racconto come di chi ha innanzi una materia che per lui seria e vuol intenderla e farla intendere in tutte
le particolarit, vivo e popolare nei motti e dialoghi che riferisce; e, in
quella gravit e in quel miscuglio di togato e di realistico, aleggiato
da una sottile ironia. Si pu lamentare (come stato lamentato) che
una siffatta indulgenza e ironia s'introducessero col Boccaccio, e andassero prevalendo nella vita italiana dei tempi successivi; e si pu
difendere (come forse non stato fatto) ci che di buono e di sano
pure in quell'accettazione tranquilla della vita nella sua immutabile
realt; ma tutto ci non ha che vedere con l'arte del Boccaccio, il
quale, come sentiva, cos componeva e scriveva.
E la novella di Andreuccio mostra chiaramente questi caratteri,
notati in generale nell'opera boccaccesca. Dire, com' stato detto, che
essa sia un quadro della vita e dei costumi di bassifondi napoletani del Trecento, mutare il Boccaccio da artista che esso era in
un descrittore e in uno storico; sforzarsi di scoprirvi, come usavano i
vecchi critici e ha ritentato qualcuno di recente, un fine o un insegnamento etico, camuffarlo da predicatore; affermare che quella no-
vella abbia il solo fine dell'arte come dir nulla, perch ogni opera
d'arte ha il solo fine dell'arte, su di che non dovrebbe sorgere pi
contestazione. La cupidigia, la malizia, la simulazione, la fatuit,-come in altre novelle del Boccaccio la sensualit, la scioccheria, l'ipocrisia, l'allegro cinismo,--ci svelano in questa novella l'esser loro,
ci raccontano le loro gesta, mettono in mostra i loro trofei, e tutto
ci con tanta evidenza e tanta forza persuasiva che si finisce col consentire simpaticamente con quei bricconi cos abili, cos riflessivi, cos
privi di scrupoli, cos a modo loro eccellenti. E insieme con codesta
furba gente, celebra in essa i suoi trionfi il Caso, che volge, rivolge
e torna a volgere le condizioni degli uomini oltre la dimension
dei senni umani , e fa di Andreuccio, nel corso di poche ore, un ingannato e un ingannatore, un derubato e un derubante, un mercante che va a comperare cavalli e un ladro che invece s'arricchisce
di gemme; e, col condurlo ad un precipizio, gli salva la vita; col metterlo a rischio di morte imminente, gli rid il danaro perduto. Ma
la narrazione cos di quelle gesta bricconesche come dei capricci del
Caso sottolineata dal Boccaccio niente altro che col ritmo dei suoi
periodi, che forma da solo il pi efficace commento. La giovane siciliana era disposta per picciol pregio a compiacere a qualunque
uomo , e ci detto con la massima sostenutezza, coi medesimi
modi eletti, coi quali si direbbe che era disposta a compiere qualsiasi
pi nobile dovere. Il nome mal sonante della equivoca contrada dove
Andreuccio accompagnato dalla servetta si adorna dell'inciso latinamente costrutto: la quale quanto sia onesta contrada il nome medesimo dimostra ; come se si pronunciasse il titolo solenne di qualche insigne luogo o edifizio. Il bravaccio sfruttatore e protettore
che compare alla finestra a minacciare, mostrava (dice il Boccaccio)
di dover essere un gran bacalare, con una barba nera e folta al volto :
aveva, insomma, aspetto di uomo grave e autorevole e quasi quasi
di sapiente; lui che era un ruffiano! Cos la novella di Andreuccio
tanto pi ilare quanto pi seria nel tono, ed tanto pi precisa e realistica quanto pi sorridente.
BENEDETTO CROCE:
Da Storie e leggende napoletane, Bari, Laterza, 1948, pp. 55-59.
/:/ Nastagio degli Onesti.
I lenti passi traggono Nastagio nel folto della selva--l'armonia dei sentimenti e degli atti quella stessa del verso petrarchesco
Di pensier in pensier, di monte in monte --; d'un tratto la quiete
immensa della pineta rotta da altissime grida: Subitamente gli parve
udire un grandissimo pianto e guai altissimi messi da una donna. Per
che, rotto il suo dolce pensiero, alz il capo per veder che fosse e meravigliossi nella pineta veggendosi. Gli parve; tanto era lontano da
s! L'impressione violenta (rotto il suo dolce pensiero), lo riconduce
alla realt; e allora si vede in mezzo alla pineta: e meravigliossi...
Ma la visione che segue, cos conforme all'amoroso e malinconico
fantasticar di Nastagio, che sembra il suo stesso sentimento fatto visibile dramma.
E oltre a c... villane minacciando. L'apparizione squarcia violentement la solitudine della selva; ed cos subitanea unita significativa, ha una tale potenza di visione improvvisa, che lo sguardo, incatenato, non vede pi altro che il gruppo tragico e stupendo. D'un
tratto da un boschetto assai folto d'arbuscelli e di pruni esce correndo una bellissima giovane ignuda , il corpo bianco luminoso
sbuca come una apparizione fra le ombre della pineta. E subito l'im-
e il romore disperato della cacciata giovane; la visione indimenticabile piomba d'un tratto in mezzo alla pompa del convito. I convenuti la seguono intenti, con uno stupore profondo, che il Boccaccio
sottolinea appena--meravigliandosi forte... domandando... niun sappiendol... levatisi tutti dritti...--quanto basta perch lo spavento
ammonitore della visione s'insinui in chi legge e giustifichi la chiusa
della novella. La visione, ora, solo pi accennata: il lettore che
gi la conosce, la rivede in virt di quelle poche parole e del suo
primo prorompere: quello che importa il terrore che s'impadronisce
di tutti--ma tutti gli spavent e riempi di meraviglia; quante donne v'avea... tutte cos miseramente piagnevano... --. Dopo questo
spettacolo, dopo il terrore e la compassione universale, l'effetto non
pu essere che questo: Ma tra gli altri che pi di spavento ebbero,
fu la crudel giovane da Nastagio amata. In quella donna ignuda, inseguita e straziata, la sua fantasia percossa vede il suo tremendo destino: gi le parea fuggir dinanzi a lui adirato. Tutta la novella converge irresistibilmente verso questa conclusione: la malinconia di Nastagio, quella visione subitanea e orrenda, l'effetto che essa produce
--ripetendosi--sugli spettatori allibiti. Ma propriamente il punto
vitale e fatale della novella nel primo prorompere di quella caccia
infernale: gi fin diallora, destinato che la resistenza della giovane
sia infranta. Tale la potenza della visione, che attraverso i sensi incatenati scende nell'anima e le toglie il dominio di s. Naturalmente
con le ultime parole citate il motivo della novella chiuso; le linee
che seguono, non sono pi che chiarimenti di fatti. Ma il periodo
che termina il racconto--E non fu questa paura cagione...--, il
corollario edificante della visione, smorza la tragicit nel solito sorriso
dell'uomo di questo mondo. La chiusa non stona ma compie l'armonia della novella restituendo ai fatti il loro colorito naturale e svelandone il significato con discrezione e con malizia. La fantasia, commossa dell'avvenimento improvviso, si fatta tragica; ma poi,
cessato lo sgomento inatteso, l'animo sgombro guarda sorridendo
quel che rimasto della tumultuosa visione. Questa chiusa, artisticamente profonda, ci fa penetrare bene addentro allo scetticismo del
Boccaccio e al suo senso realistico e misurato della vita: la serenit
sorridente e sapiente della chiusa finale ristabilisce l'equilibrio delle
ore comuni sulle ombre dei momenti fantastici. Ora si direbbe umorismo.
ATTILIO MOMIGLIANO:
Da Il Decameron, Torino, Petrini, 1962, pp. 195-201.
/:/ Federigo degli Alberighi.
questa una delle novelle pi belle del Decameron, dove si
scopre un Boccaccio narratore delicato e discreto di un sentimento
complesso di rinunzia; lo scrittore carnale, affermativo, giovanile e malizioso di tanti racconti vi scompare, per dar posto a un poeta di tono
crepuscolare. [...] Siamo per sulla linea dell'ispirazione elegiaca che
stata sempre notevole in lui, da molte pagine delle opere giovanili
all'Elegia di Madonna Fiammetta, e, per limitarci agli esempi prossimi
del Decameron, dalle parlate di Ghismunda all'idillio funerale di Lisabetta da Messina. La celebrazione gioiosa dell'amore cede, per
contraccolpo, alla rimemorazione in tono di compianto dello stesso
amoroso sentire. [ . .. ] Anche qui alla fine della novella si ricompone tutto, almeno formalmente, nell'armonia lieta della vita che vuole continuare nella sua vitale letizia: Federigo, quantunque povero fosse,
sposa la sua Monna Giovanna, con il favore ed il consenso dei fratelli di lei, e lui cos fatta donna... per moglie veggendosi, ed oltre
contro .
Tutto il seguito della novella crea a poco a poco inavvertitamente una sempre maggior familiarit fra l'uomo e la donna, sebbene
il linguaggio loro sia sempre misuratissimo e distante. C', direi,
una comunione fondamentale tra Federigo e Giovanna e in tale aria
di famiglia possiamo includere anche lo stesso fanciullo infermo.
L'affinit spirituale preesiste a ogni loro trasporto di affetti: i tre
personaggi hanno qualcosa di reticente, di rientrato, di dolente, che
li fa uguali compagni di uno stesso limbo, in cui si vive un dolore senza martiri e in cui si indovinano le voci soavi dei pazienti. Federigo
che si ritira in campagna, oltre che per povert, per una specie di mesta vergogna del suo amore non corrisposto, la vedova che, per rimanere fedele alla memoria del marito, dolorosamente perplessa
per il desiderio del suo figliuoletto; il bambino, che ha il cruccio silenzioso di possedere quel falcone, e poi se ne muore, non si sa se
per l'infermit stessa o per quel desiderio inappagato. Una nobilt
dolente proprio la musa costante di tutto il racconto.
Quel bambino appena accennato di scorcio, ci lascia un pungente
ricordo di s; raramente il Boccaccio rappresenta momenti dell'anima infantile. La fanciullezza e l'adolescenza sono nel Decameron narrativamente indicate, ma non mai rappresentate. Direi che i ragazzi
sono soltanto personaggi muti, e nel loro silenzio hanno qualcosa di
generico e di uniforme. [...] Qui c' invece la rappresentazione compiuta di uno stato d'animo infantile, pervaso da un desiderio ossessivo.
Ecco un'altra nota della scaltrita modernit del Boccaccio. Questo bambino la degna immagine in piccolo dei sentimenti nobili e
malinconici dei grandi, e la figura di lui, con il ritegno nella manifestazione aperta dei suoi desideri e con quel silenzio ostinato, sottolinea e si armonizza con lo stato d'animo dei suoi maggiori.
Rimasta fuori della speranza d'avere il falcone, e per quello della salute
del figliuolo entrata in forse, tutta malinconosa si part e tornossi al figliuolo
.
Il quale o per malinconia che il falcone aver non poteva, o per la 'nfermit che
pure a ci il dovesse aver condotto, non trapassar molti giorni che egli, con
grandissimo dolor della madre, di questa vita pass.
Da ci l'atmosfera di famiglia di tutto il racconto: sono personaggi
nati e sfumati tutti nello stesso alone di gentilezza e di malinconia, e basta tale comunione di sentire, perch essa si tramuti o appaia comprensione e idillio amoroso. La morte poi del fanciullo suggella gi il
legame dei due timidi e perplessi amanti. La disperazione muta del
piccolo in anticipo la stessa disperazione di Federigo e il cordoglio
rimordente della madre. La pena di Federigo rilevata e sollevata
dalle altre due: la sua disperazione di uomo, per non aver modo di
onorare degnamente la donna venuta a trovarlo inaspettatamente; la
sgomenta rassegna che lui fa delle sue possibilit e l'accorgersi subitaneo, solo allora, della sua povert: quell'andar per la casa come
il tapin che non sa che si faccia ; e poi metter l'occhio improvviso
sul suo buon falcone, sono momenti accennati e fissati con semplicit
e rapida intensit di espressioni.
Con tutto che la sua povert fosse strema, non s'era ancora tanto avveduto
quanto bisogno gli facea che egli avesse fuor d'ordine spese le sue ricchezze...
Ed oltre modo angoscioso, seco stesso maladicendo la sua fortuna, come
uom che fuor di s fosse, or qua ed or l trascorrendo, n denari n pegno
trovandosi, essendo l'ora tarda ed il desiderio grande di pure onorar d'alcuna
cosa la gentil donna, e non volendo, non che altrui, ma il lavorator suo stesso
richiedere...
Gli corse agli occhi il suo buon falcone, il quale nella sua saletta vide so
pra
la stanga; perch, non avendo a che altro ricorrere, presolo e trovatolo grasso
pens lui esser degna vivanda di cotal donna.
La valentia del falcone (il suo buon falcone) ricordata con particolare tenerezza nel momento in cui egli nel suo pensiero lo sacrifica alla mensa, e noi siamo stati preparati dall'artista a questa risoluzione estrema. Quanto affanno in quei gerundi: maladicendo... trascorrendo... trovandosi... essendo... non volendo! Affanno che si pacifica finalmente nella dolorosa decisione.
Si tratta di un rimedio eroico, in materia apparentemente vile e
trita: e che pu essere un falcone, sia pure valente e ultimo segno
della nobilt di un gentiluomo decaduto? A questa forma di eroismo borghese- e quotidiano, che non ha bisogno di grandi imprese
per superar se stesso, risponde un periodare alieno dalla complessit eroico-epica di certi paragrafi boccacceschi delle opere giovanili. Anche quell'atmosfera da dolce stil nuovo che circola nella novella divenuta una forma di umanit quotidiana, semplice e pacifica:
Madonna, niuno danno mi ricorda mai avere ricevuto per voi, ma tanto di
bene che, se io mai alcuna cosa valsi, per lo vostro valore e per l'amore che
portato v'ho, s'addivenne. [...]
Il racconto non vuole essere una vera e propria storia di passione,
quanto piuttosto una storia pi complessa, storia di quel qualcosa di
mancato che tutti si portano seco, tristemente, nella vita, anche se
vittoriosa e felice. la poesia del nostro paradiso perduto, piccolo
paradiso, ma cos grande! La bellezza della donna solo genericamente accennata; dei suoi contrasti intimi, appena un'ombra fugace; la sua onest non eloquentemente celebrata, la sfortuna amorosa dell'amante non drammatizzata. La poesia dei tre personaggi
nel limite tirannico dell'irreparabile che li accomuna, dell'accaduto
che non si pu far che non sia accaduto, ed ha la durezza misteriosa
dell'eterno. Deluso Federigo per l'amore della donna e per l'inopportuno e fatale sacrifizio del falcone, deluso il bambino nel suo sogno
crucciato, delusa la donna nella speranza di guarirne l'infermit; in
questo segreto sospirare di ognuno, diffuso per ogni parte, e mai corposamente concretato, si afferma e si esalta la gentilezza di tutto il racconto. [...]
Pi che l'amore vero e proprio, il tema per l'appunto la gentilezza malinconica di quei desideri che non hanno pace nel cuore,
e che si portano dentro tutta la vita come una pena sottile e senza
perch. Per questo parlavamo di tono crepuscolare. Da ci l'andamento lene della favola, quel procedere piano e senza scosse e senza urti pronunciatamente drammatici. Non c' angoscia tragica, ma
piuttosto il gemito soffocato dell'elegia. Federigo, quando si trova
davanti all'inutilit e stoltezza del suo sacrifizio, non grida, non protesta, ma piange silenziosamente: Cominci in presenza di lei
a piangere anzi che alcuna parola rispondere potesse . E quando
vuole spiegare la ragione del suo pianto, le parole gli paiono troppo
poco persuasive e meschine e mette innanzi la testimonianza fisica, corporea dell'irreparabile disgrazia: E questo detto, le penne, ed i piedi
e il becco le fe' in testimonianza di ci gittare avanti . Veggendo
ora che in altra maniera il desideravate, m' s gran duolche servire
non ve ne posso, che mai pace non me ne credo dare . Mai pace non
me ne credo dare: su questa espressione si fa intenta e si accarezza
la disperazione di tutto il racconto.
Il finale lieto, s' detto, ci interessa meno; la ricompensa che la
donna vuol dare all'uomo per la sua magnificenza ultima, cio di
avere ucciso cos fatto falcone per onorarla , rientra un po' nella
casistica amorosa del tempo: quasi di prammatica: ogni amore profondo e tenace ha sempre la sua mercede. Questa la filosofia consueta del sempre giovane e gioioso Boccaccio. La poesia del racconto invece in questa elegia del desiderio che rimane inappagato,
e in quel salire pi in alto in gentilezza delle vittime. Qualunque
letizia e felicit della loro vita successiva non pu distruggere l'attimo
di disperazione a cui idealmente si fermata la loro vita. Mai pace
non me ne credo dare . :il motivo musicale che ci portiamo dentro, nella memoria. La novella avviata al principio in un alone discreto di cortesia e di gentilezza, si chiude alla fine con questo senso
amaro e sommesso dell'irreparabile. Noi dimentichiamo il resto e
vediamo soltanto il povero cavaliere con le testimonianze materiali
della sua sfortunata generosit, un bimbo infermo che se ne muore,
e una madre dolente che ha sacrificato invano il suo ritegno vedovile.
LUIGI RUSSO:
Da Storia della letteratura italiana, Firenze, Sansoni, 1957, pp. 350-360,
passim.
/:/ Calandrino e l'elitropia.
Forse le novelle del Boccaccio pi celebri e proverbiali sono le
novelle della beffa: su tutte le altre, le beffe a Calandrino. Ben quattro novelle sono dedicate a questo personaggio, ed un trattamento
singolare: Calandrino come il don Abbondio del mondo boccaccesco; il personaggio ritornello del Decameron.
Calandrino passa per le menti di tutti come il tipo dello sciocco
e del credulone, cos come don Abbondio incarna ormai nella fantasia popolare l'uomo pauroso per eccellenza, e Azzeagarbugli il
leguleio arruffaleggi. L'immaginazione volgare semplifica molto in
questi casi, semplifica ci che nell'arte assai complesso.
Orbene dire che Calandrino soltanto uno sciocco, e un credulone, schematizzare e semplificare il personaggio: gli sciocchi non
hanno storia, e basta una semplice nota, per colorirli nel mondo dell arte. Per il popolo di Certaldo, il Boccaccio si contentato di due
o tre note: l gli sciocchi hanno un significato soltanto per dar rilievo alla figura del ciurmadore. Qui, invece, in tutte le quattro novelle, Calandrino il personaggio-principe; e uno sciocco e un credulone non pu interessare il mondo della fantasia, senza ingenerare
fastidio e saziet. Ed questo pericolo che il Boccaccio invece ha
saputo costantemente evitare. In questa prima novella, Bruno e Buffalmacco, i due beffatori, rimangono come in penombra, e Calandrino
sale in primo piano. C' la tecnica rovesciata della novella di fra
Cipolla. E il personaggio riesce a sostenersi e a riempire di s tutta
la scena. lo sciocco che vuole essere furbo; nel mondo boccaccesco
del peccato e della carne e della intelligenza, ci vuole molta accortezza, spirito, brio, arguzia, eleganza. E Calandrino tenta per l'appunto di essere accorto, spiritoso, brioso, arguto, elegante; ed egli
comico, non gi perch sciocco, ma perch vuol appunto essere
scaltro. Uno sciocco semplice avrebbe finito con l'essere insulso; la
sua scioccaggine invece una scioccaggine ambiziosa, e appunto per
questo il difetto finisce con l'essere un omaggio a quella musa dell'intelligenza, che la musa pi cara del Boccaccio. E la comicit del
suo carattere consiste, appunto, non nella sua scioccaggine, ma nel
fallimento clamoroso della sua ambizione di furberia.
Un primo accenno della pretesa furberia di Calandrino lo troviamo in quel a' quali ragionamenti Calandrino posto orecchie, e dopo
alquanto levatosi in pi, sentendo che non era credenza, si congiunse
con Ioro . Qui troviamo lo sciocco, felice di poter carpire il segreto
GIOVANNI BOCCACCIO.
dalle Rime.
Intorn' ad una fonte...
Intorn' ad una fonte, in un pratello
di verdi erbette pieno e di bei fiori
sedean tre angiolette, i loro amori
forse narrando, ed a ciascuna il bello
viso adombrava un verde ramicello
ch'i capei d'or cingea, al qual di fuori
e dentro insieme i dua vaghi colori
avvolgeva un suave venticello.
E dopo alquanto l'una alle due disse
(com'io udi'): - Deh, se per avventura
di ciascuna l'amante or qui venisse,
fuggiremo noi quinci per paura? A cui le due risposer: - Chi fuggisse,
poco savia sara, con tal ventura! -