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IL CAPOSANTO DI PISA

LINA BOLZONI
LA PREDICA DIPINTA: GLI AFFRESCHI DEL TRIONFO DELLA MORTE E LA PREDICAZIONE DOMENICANA

1. I mobili confini della predicazione in volgare


Al Vasari, l’inserzione delle scritte entro le scene del Trionfo della Morte nel Camposanto di Pisa decisamente non
piaceva. E ci si costruisce intorno, per spiegarla, una vera e propria storia che inizia a Pisa, nella chiesa di san Paolo a
Ripa: qui Buffalmacco lavora in compagnia di Bruno di Giovanni. L’uso delle scritte viene posto sotto l’insegna della
beffa e inserito in una prestigiosa tradizione letteraria: diventa anche emblema di una rozzezza intellettuale che cerca
una facile scappatoia al problema della vivezza della rappresentazione, prendendo alla lettera uan metafora e
dilatandola (fare le figure non più vivaci ma che favilassero).
Non solo: se Vasari aveva proposto una chiave di lettura basata sulla beffa, sul comico, sul riso, l’intera operazione
pisana,a lo vedremo, si fa carico di un messaggio esattamente capovolto, esprime cioè una cultura della penitenza in
cui il riso appare come una tentazione diabolica.
La tendenza prevalente fra gli storici dell’arte colloca gli affreschi negli anni Trenta del Trecento. Questo permette di
individuare un insieme di testi che ci offrono, a molteplici livelli, una preziosa chiave di lettura: sono testi prodotti nel
convento domenicano di Santa Caterina di Pisa e fra di essi troviamo il volgarizzamento delle Vitae patrum di
Domenico Cavalca. Fondato nel 1221 il convento diventa, forse per intervento dello stesso san Tommaso, un
importante centro di studi teologici, filosofici e letterari. Dotato di una buona biblioteca, particolarmente ricca proprio
dagli anni trenta del Trecento, il convento coltiva al suo interno la musica e la miniatura, e svolge un ruolo di assoluto
rilievo quel committente di opere artistiche.

È importante per noi notare che ai primi decenni del secolo, ovvero al periodo in cui si procede alla costruzione del
Camposanto e se ne avvia la decorazione pittorica, risalgono le prime grandi raccolte di prediche in volgare. Si tratta o
delle trascrizione di prediche dette o della rielaborazione di un ciclo di prediche scritte dallo stesso predicatore, così da
farne anche un repertorio di predicabili, un modello per gli altri confratelli, oltre che un testo leggibile anche dai laici:
è il caso degli scritti del Cavalca e di Iacopo Passavanti.
Siamo di fronte a una svolta importante, ad un grande salto di qualità. La predica in volgare, passa da discorso di
consumo a modello, a discorso di ri-uso: ciò significa che tra il pubblico cittadino è presente non solo chi è desideroso,
ma anche capace di trascrivere la predica, così da poterla conservare, leggere, meditare. Questa vicenda, strettamente
intrecciata con l’origine della nostra prose letteraria, riguarda da vicino anche l’ideazione degli affreschi, la loro
progettazione e insieme la creazione di un pubblico cittadino in grado di leggere gli affreschi, di farsi coinvolgere in
quel circuito fra parole e immagini, che il programma di affreschi richiede.
Vediamo infatti che nonostante dall’813, nel concilio di Tours, la Chiesa avesse chiesto ai vescovi di predicare in lingua
romana, tale indicazione rimane largamente disattesa fino al xiii secolo, quando gli ordini di mendicanti si impegnano
in una predicazione capillare che, sia pure con cautele e resistenze, ricorre al volgare. I domenicani affiancano alla
campagna anticlericale un forte impegno di divulgazione del sapere elaborato negli studia. È una scommessa difficile:
si tratta di comunicare in volgare un ricco patrimonio di cultura scolastica, pensata in latino.
I confini quindi diventano mobili e rischiosi: divulgare un sapere che sia utile alla salvezza e all’elevazione delle anime
e proteggere le sottigliezze della dottrina della contaminazione con il volgo. Si pone in moto un intenso sforzo di
traduzione linguistica e concettualmente che tende alla comunicazione e insieme mette in scena il margine di diversità
tra il mondo del predicatore da quello del suo pubblico.
Vediamo ad esempio come Giordano da Pisa ricorra ai termini più astratti della filosofia scolastica abbassandoli e
rapportandoli al livello del pubblico, della sua esperienza quotidiana.
Il difficile equilibrio fra divulgazione filosofica e teologica e indottrinamento morale che fra Giordano aveva perseguito,
appare decisamente spostato, nel testo di Cavalca, sul versante della predicazione morale. Ma soprattutto, a marcare
la dimensione di lontananza dal pubblico, il predicatore rivendica l’unicità della sua missione e della sua investitura:
infatti sono state spazzate via tutte le parole dei laici che credevano nell’eretica dottrina della possibilità di un contatto
diretto e personale con la Sacra Scrittura.
Per riprendere le parole di fra Giordano lo spettatore, nel momento in cui si confronta con le immagini che hanno a
che fare con il destino ultimo dell’uomo, con la salute e la perdizione, è costretto a ricorrere alla mediazione del
predicatore, della Chiesa. Una personale esegesi delle immagini sarebbe un atto di pericolosa superbia, quasi di
eretica tentazione: l’occhio che guarda agli affreschi deve nutrirsi della memoria delle parole del predicatore. Non
solo, come vedremo, il gioco che si crea negli affreschi tra immagini e scritte è fatto in modo da guidare la recezione;
da incanalare la lettura in una unica direzione.
2. L’autorità del predicatore e il modello del deserto
Oltre allo specifico status del predicatore, qualcosa altro conferisce autorità al testo della predica. Che fosse possibile
un rapporto diretto fra Scritture e laici era stato componente della diabolica sfida lanciata agli eretici. Il predicatore
cattolico utilizzava una strategia testuale che garantisce la verità della mediazione da lui compiuta fra il testo sacro e il
pubblico: in tal modo, l’autoritas non deriva soltanto dalla sua persona, ma dalla struttura stessa della predica. Le
tecniche del sermo modernus forniscono sia gli strumenti per costruire la predica sia il metodo che garantisce la
qualità del prodotto. In un predicatore colto come fra Giordano queste procedure non solo sono impiegate ma proprio
esibite per costruire l’autorità del sermone: si crea l’impressione che il testo della predica non sia altro che la naturale
scaturigine del testo divino, cosicchè il predicatore diventa uno strumento.
Le tecniche previste della artes praedicandi diventano motivo apologetico: se da un lato la predica e le sue condizioni
materiali, costringono fra Giordano a ritagliare solo alcune delle infinite ricchezze che ogni passo della Scrittura
contiene in sé, dall’altro le tecniche di divisione e di classificazione vengono esibite come procedure adeguate, come
strumenti grazie ai quali è possibile ricavare dal luogo biblico tutto ciò che serve per orientarsi moralmente nella vita
quotidiana.
Tutto questo ha un ricaduta sul modo in cui gli affreschi del Camposanto si presentano alla recezione del pubblico
cittadino: la vista non potrà essere immediata e diretta, ma dovrà farsi attraversare dalle parole del predicatore.
C’è un altro aspetto della predicazione domenicana, quale si svolge a Pisa nei primi decenni del secolo, che costruire
l’autorità del predicatore, ne sottolinea l’alterità rispetto al pubblico cittadino e influenza da vicino gran parte delle
scene rappresentate. Le immagini che descrivono la vita dei padri nel deserto hanno la loro fonte iconografica, nel
testo volgare di Cavalca. L’importanza che esse assumono negli affreschi del Camposanto, la loro giustapposizione,
insieme naturale e violenta, alle scene più raffinate della vita cittadina, si spiegano anche con alcuni motivi essenziali
della predicazione domenica già presenti nei primi anni del secolo, nei testi di fra Giordano il luogo ideale del
predicatore non è la città, ma il deserto. L’atto stesso del predicare si presenta come concessione dolorosa, seppur
necessaria, di strapparsi dalle persone, in una sfida quasi sovraumana.
Il deserto diventa quindi l’immagine emblematica di una scelta di vita, o almeno di una condizione di isolamento
interiore, che rende possibile la meditazione e la contemplazione.
La coincidenza è molto significativa: il brano di Cavalca, in particolare il passo della predica che san Giovanni Eremita
indirizza ai monaci, lo ritroviamo con straordinaria ampiezza narrativa con cui gli affreschi del Camposanto
rappresentano la tebaide: è la concretizzazione di un luogo altro, è la rappresentazione di una dimensione che,
storicamente lontana dal tempo e dallo spazio, è chiamata a rivivere nella dimensione interiore, dentro (e al
contemplo fuori da) la vita cittadina.
Se con cavalca, e con gli affreschi, il motivo del deserto avrà una vera e propria esplosione narrativa, così da tradursi in
una serie di esempi visualizzati e proposti al pubblico cittadino, al contemplo nel convento di santa Caterina, in linea
ascetica trionferà in un testo molto raffinato, interamente dedicato a una esperienza tutta interiore e individuale: è il
Colloqui spirituale di Simone da Cascina, il quale insegnerà a costruire immagini interiori che guidano alla purificazione
morale e all’esperienza mistica. La grave crisi legata allo Scisma d’Occidente fa sentire il suo peso e al contemplo
radicalizza una tendenza antica.

3. Parole e immagini: i modi della recezione

La città è dunque per il predica domenicano il suo luogo di azione e insieme terreno di uno scontro. Nello spazio
cittadino, il predicatore entra in concorrenza con altri personaggi che attirano l’azione del pubblico e che
rappresentano una cultura del tutto alternativa: la cultura del riso e del piacere. La concorrenza del giullare si fa
particolarmente pericolosa nei momenti critici della vita: fuggire i pensieri della morte. Esattamente opposto è il
messaggio proposto della predicazione domenicana e dagli affreschi del Camposanto: sia nelle immagini che nelle
scritte in volgare che le accompagnavano, la morte vi appare libera, potente, imprevedibile, pronta a colpire chi non si
cura di lei a disdegnare coloro che, in predica a un’ottica tutta terrena, la invocano come estremo rimedio ai loro mali.
Essa celebra il suo trionfo sui ceti più elevati della città e demistifica la follia del modello di vita cortese cui si ispirano,
modello di vita che nell’affresco è puntualmente citato e rappresentato nelle due scene raffiguranti la brigata dei
giovani nel giardino.
Fra la predicazione domenicana e gli affreschi del Camposanto si può dunque individuare una precisa corrispondenza
tematica. Ma c’è un altro aspetto importante da sottolineare: al di là dei contenuti, ciò che collega le prediche agli
affreschi del Trionfo della morte è un codice retorico, attraverso il quale si cerca di influenzare anche la recezione delle
immagini. Questo codice attraversa i diversi strumenti espressivi usati perché è interessato ad agire sul pubblico, a
costruire cioè immagini interiori che influenzino e modellino in sé la facoltà dell’anima. La comunicazione,
selezionando i molteplici messaggi che una stessa immagina può trasmettere a seconda dello status culturale del
destinatario. Gli affreschi comprendevano infatti sia epigrafi volgari in versi sia in alcune iscrizioni latine. Questa
struttura comportava la divisione del pubblico in almeno tre categorie: gli analfabeti, chi sapeva solo leggere solo il
volgare, chi sapeva leggere anche in latino.
Nel primo caso entrava in funzione la capacità comunicativa, l’immediatezza di rappresentazione che caratterizza
l’immagine dipinta. L’effetto sprigionato delle sole immagini veniva mediato dal ricordo delle parole dei predicatori.
Queste sottolineavano in primo luogo l’importanza della memoria delle pene infernali, del terrore suscitato dal
pensiero dell’Inferno.
Possiamo riandare alle parole di fra Giordano mentre osserviamo le scene infernali del Camposanto. Le diverse bolge, i
tremendi supplizi così analiticamente rappresentati, la presenza di personaggi legati a recenti vicende della città
dovevano suscitare nell’animo dello spettatore le stesse reazione che nei sudditi francesi creava la sequela degli
impiccati. La giustizia terrena si rispecchia nella giustizia divina.
Le parole del predicatore appaiono ispirate a una ferma fiducia nella forza persuasiva dell’orrore e svelano molto bene
il gioco di rinvii di immagini suggerite dal sermone e immagini effettivamente viste.

Sullo spettatore trecentesco analfabeta che guarda gli affreschi del Camposanto il ricordo degli ammonimenti del
predicatore agisce non solo nel senso fortemente emotivo e morale che abbiamo appena visto, ma anche a livello
cognitivo.
Consideriamo ad esempio la Cronografia, dipinta da Piero di Puccio nel 1391, sotto l’immagine è scritto un sonetto in
volgare. La descrizione analitica di quella che si credeva fosse la struttura del mondo, doveva essere un ingrediente
abbastanza usuale della predicazione, visto che ne sono conservate negli scritti di fra Giordano e del Cavalca. Dal
punto di vista concettuale, fra Giordano non fa altro che sviluppare il tema aristotelico e scolastico dell’intelletto come
tabula rasa: le immagini che usa sono però di grande suggestione proprio se accanto vi collochiamo idealmente il
dipinto della Cosmografia di Piero di Puccio. La scena realizzata dal pittore ci appare allora come qualcosa che rende
visibile al pubblico cittadino quella pittura che solo l’intelletto angelico contiene nella sua interezza e che la predica di
fra Giordano delinea attraverso le parole.
Lo spettatore analfabeta di fine Trecento poteva con ogni probabilità decifrare la Cosmografia grazie alle informazioni
che i predicatori gli avevano trasmesso.
Chi poi sapeva leggere il volgare, poteva integrare l’impressione suscitata dal ricordo delle prediche e dell’immagine
con il testo del sonetto.
Il messaggio a questo punto si fa più elaborato: l’iscrizione in versi guida la lettura dell’immagine e insieme la
moralizza, utilizzando anche reminiscenze dotte quali i pesi e i numerosi armoniosi dell’universo, motivo caro al
neoplatonismo cristiano, oltre ai temi ed espressioni di derivazione dantesca. Il sonetto, inoltre, richiama e rafforza il
messaggio già presente in una delle iscrizioni che nel Trionfo della morte commentano l’Inferno.
Ancora più sofisticato è il messaggio che la Cosmografia trasmette a chi sa leggere anche il latino:si richiama una
complessa questione teologica, legata ai rapporti fra Dio e gli angeli, fra questi e la creazione del mondo.
Questo esempio ci mostra come il cortocircuito che si crea tra immagini dipinte e le parole sia tale da selezionare il
pubblico, da garantire cioè al prodotto la capacità di trasmettere messaggi via più complessi in relazione ai diversi tipi
di pubblico possibile. Un codice analogo doveva regolare la comunicazione nell’affresco del Trionfo della morte. Qui
molto delle scritte in latino sono andate perdute o risultano intellegibili; le relazioni fra immagini e parole scritte nei
diversi registri linguistici dovevano essere molto ricche. Possiamo farcene un’idea sulla base dei cartigli sorretti da due
figure che erano collocate a sinistra, nella cornice superiore.
I due cartigli servono a collegare l’immagine con l’Inferno punitore. L’uso del latino introduce una ulteriore
dimensione che, oltre a risalire alle origini della storia umana, arricchisce gli elementi con cui considerare,
interpretare, meditare le immagini e le scritte in volgare che le accompagnano.

4. Le voci che parlano in volgare e la qualità dello sguardo.


Le scritte antiche sono in versi e hanno un preciso rapporto con le immagini dell’affresco. Esse non narrano, ma
moralizzano: non costituiscono un semplice doppio della pittura, un puro rispecchiamento scritto delle immagini ma
cercano di controllare e indirizzare quella tensione che si crea quando sono compresenti i due poli della pittura e della
scrittura.
Le voci che parlano nelle epigrafi in verso sono di diverso tipo, così da costruire intorno alle immagini un denso
reticolato. Per riprendere una classificazione proposta da Giovanni Pozzi, possiamo riavvisare la presenza di quattro
situazioni comunicative in cinque testi abbiamo un colloquio che si svolge tra personaggi in scena: si vedano il
rimprovero dell’angelo alla femina vana, l’ammonizione che l’eremita e il morto rivolgono alla brigata a cavallo e il
dialogo fra la Morte e gli storpi che la invocano. Molto meno rappresentata è la situazione in cui un personaggio in
scena si rivolge a un pubblico assente: nel primo caso è la Morte a prendere la parola, mentre il secondo caso crea
qualche problema. Quest’ultimo (sonetto) inizia con una citazione dantesca, la Fede parla in prima persona, ma non è
rappresentata e questa so presenta alla guida delle sette virtù principali. Lo studioso formulava quindi l’ipotesi che una
prima versione degli affreschi raffigurasse le figure allegoriche dei visi e delle virtù, le quali dominassero dall’alto la
rappresentazione dei loro effetti nell’uomo.
Una unica epigrafe rientra con sicurezza nel caso in cui un personaggio fuori scena si indirizza in scena indirizzato alla
Vergine, in seconda persona, con il ‘tu’; un altro sonetto è indirizzata alla Superbia e agli altri vizi capitali.
Le restanti scritte rientrano in una situazione didascalica: una personaggio fuori campo si rivolge a un personaggio
fuori campo, che può essere identificato nello spettatore o una entità astratta. Dunque la voce fuori campo è sempre
portatrice di un messaggio carico di autorità: attraverso una molteplicità di strategie comunicative le scritte
moralizzano le immagini caricandole di un valore esemplare.
La tecnica discorsiva impiegata su lega strettamente alla visione delle immagini: le epigrafi puntano a trasformare
l’immagine sensibile in immagine mentale, a caricare la prima di significati morali e di tensione emotiva così da
renderla capace di operare sulle diverse facoltà della mente: è la condizione che permette la metamorfosi
dell’immagine.
Nel momento in cui l’immagine viene moralizzata e diventa immagine interiore, essa si colloca in una dimensione in
cui passato, presente e futuro coincidono. La qualità della vista svolge un ruolo essenziale: solo una vista ben orientata
può creare un ponte tra esteriorità e interiorità, tra corpo e anima, tra senso e intelletto.

5. Immagini per la memoria e la meditazione


La parola guida a diversi livelli la costruzione e la recezione dell’immagine visiva. Si tratta di far interagire fra di loro
strumenti che hanno come fine quello di modellare l’interiorità: questo è possibile attraverso la costruzione di
immagini che si dispongono negli spazi della mente secondo modalità che venivano praticate e insegnate da due arti
per molto aspetti convergenti: l’arte della memoria e quella della meditazione. L’intreccio fra queste componenti si
può osservare in un autore di primo piano nel programma degli affreschi del Trionfo della Morte: Domenico Cavalca. Il
predicatore riassumeva spesso con componenti poetici i suoi trattati dottrinali, così da facilitarne la comprensione e il
ricordo.
Il Cavalca ripropone la corrispondenza tra immagine sensibile, dipinta, immagine mentale e quella che guida la
trasformazione interiore fino all’ascesi mistica. L’edificio interiore riccamente dipinto, che la poesia costruisce,
richiama alla nostra mente un edificio reale che sarebbe stato decorato pochi anni dopo: il camposanto pisano. Il
sirventese sposta sul versante dell’interiorità e dell’ascesi individuale lo stesso codice delle immagini che negli
affreschi si offre allo sguardo e alla fruizione di un vasto pubblico cittadino.
Il testo del Cavalca che presenta la versione più ricca del gioco fra visività, memoria e meditazione è lo Specchio della
croce. Vi si assiste ad una continua contaminazione fra il modello della scrittura e quello iconico, quasi a far toccare
con mano entrambi necessari. Il titolo allude proprio a questa duplicità dell’opera. È un libro, scritto in volgare per le
persone idiote o molto occupate, che si modella su un’immagine: quello di Cristo crocifisso il testo usa l’immagine di
Cristo come proprio sistema di memoria, collocando nei suoi loci il contenuto dei diversi capitoli e imprimendo
nell’animo del pubblico, una immagine capace di trasformare profondamente tutte quelle interiori.
Prendendo alla lettera la metafora del libro della vita, Cavalca la applica al Cristo crocifisso: a questo punto il libro si
incarna in lui, lo rilegge attraverso la mentalità della proprie componenti. A questo punto ogni elemento della
definizione viene applicato al Crocifisso per cui, ad esempio, le lettere nere sono i segni delle percosse, mentre i
capoversi vermigli sono le piaghe sanguinanti.
In tutte queste esperienze, l’arte della memoria ha un ruolo importante. Proprio fra duecento e trecento, il convento
di santa Caterina svolge una funzione di primo piano nella diffusione dell’arte della memoria, arte che conosce una
nuova stagione in seguito alla ripresa e alla scrittura, in chiave morale e religiosa della tradizione classica.
Certo è presente una dimensione morale in queste straordinarie prove mnemoniche: occupare tutta la memoria con le
Scritture, e con cose sante, è infatti raccomandato anche come esercizio di disciplina interiore, che toglie spazio a
immagini e ricorsi allettanti e pericolosi. Le testimonianze sulle pratiche di memoria nel convento di Santa Caterina
sono per noi preziose: ben lungi dall’essere un esercizio puramente passivo, l’arte della memoria è nel Trecento quale
cosa che influenza la costruzione di parole e di immagini e che interviene in quel cortocircuito fra scrittura e pittura, e
fra immagini esteriori e immagini interiori, che abbiamo già descritto.

Vediamo quindi che le immagini degli antichi padri del deserto si riverbera sui loro eredi ideali: i domenicani. Con
analogo procedimento, le scene di vita eremitica negli affreschi del Camposanto erano violentemente giustapposte
alle immagini delle città e ad una scena di vita cortese, a indicare un modello insieme lontano nel tempo e nello spazio
ma soprattutto vivo ed attuale (del resto si sa che a Pisa erano praticate esperienze di vita eremetica). Numerose
infatti sono le testimonianze sulla presenza di eremiti che avevano deciso di vivere nell’isolamento e nella preghiera,
ma entro le mura cittadine. Uno dei più importanti esponenti di questo movimento è Giovanni Soldato, sepolto nel
Camposanto e quindi il suo monumento funebre viene ad essere collocato entro le scene di vita eremitica della
Tebaide.
La contiguità fisica doveva sottolineare la contiguità morale.
La versione originale del monumento funebre inoltre, sottolineava chiaramente il legame con la realtà della vita
cittadina: sopra il sepolcro era dipinta una figura distesa con ai lati due incappucciati, evidente citazione- di quella
Compagnia dei disciplinati che fra Giovanni aveva fondato. A sua volta, l’inserimento del sepolcro nel contesto degli
affreschi aggiungeva un nuovo capitolo a quel gioco di parole e di immagini su cui ci siamo fermati.

Per ora abbiamo parlato di funzioni esemplare della immagini, ma forse la definizione è parziale. Secondo una antica
tradizione, molti dei soggetti rappresentati nel ciclo del Trionfo della Morte non sono personaggi qualsiasi, molti dei
soggetti sono veri e propri ritratti di persone che avevano avuto un ruolo importante nella vita di Pisa. Se teniamo
presente questo elemento, oltre che l’inserimento del sepolcro di fra Giovanni in corrispondenza della Tebaide,
comprendiamo che il pubblico trecentesco ritrovava, dipinto sui muri e proiettati nell’eternità del giudizio divino, il
passato e il presente della vita della propria città. Le immagini che i colori dei pittori e le parole delle epigrafi
concorrevano insieme a costruire, non avevano solo una dimensione esemplare; sembrano piuttosto visualizzare una
prospettiva figurale > e sarebbe questa la componente più importante.

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