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ENRICO DAL COVOLO

I padri della Chiesa,


modelli di omiletica

In questa nota don Enrico dal Covolo, ordinario di Letteratura cri-


stiana antica greca all’Università Pontificia Salesiana, propone alcuni
spunti per la predicazione omiletica facendosi ammaestrare da quel-
lo che chiama «metodo patristico». Esso comporta nel contempo
un solido ancorarsi alla Scrittura e la capacità di attualizzare il mes-
saggio biblico. In questo equilibrio i Padri eccellevano: le loro ome-
lie erano catechesi nel senso etimologico del termine, un riecheg-
giamento della Parola di Dio.
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Si tratta probabilmente di una ‘deformazione professionale’; ma a


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me, che studio i Padri della Chiesa, sembra proprio che la via miglio-
re per riflettere sull’omelia sia quella percorsa da alcuni predicatori
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illustri dei primi secoli cristiani.


Di fatto, anche nel ministero della predicazione, come in molti altri
ambiti, i nostri Padri hanno marcato in modo irreversibile la storia del
cristianesimo, a tal punto che ogni annuncio e magistero successivo
deve confrontarsi con il loro annuncio e con il loro magistero.
Procedo da un approccio introduttivo, che contempla due ‘casi’
interessanti: quello dello Pseudo-Clemente e quello di sant’Ambrogio.
Cominciamo dallo Pseudo-Clemente, o meglio dalla cosiddetta
Seconda Lettera di Clemente, nota come la più antica omelia patristi-
ca a noi pervenuta. Si tratta in realtà di uno scritto falsamente attri-
buito a Clemente, vescovo di Roma verso la fine del primo secolo. A
tutt’oggi se ne ignora – oltre che la paternità – la data precisa e il

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luogo di composizione. È comunque uno scritto venerando, ricondu-


cibile alla metà del secondo secolo. Fra l’altro, in questa cosiddetta
Seconda Lettera di Clemente si incontra, per la prima volta nella lette-
ratura patristica, il termine katechéo, nel significato etimologico di
«insegnare a viva voce», dove però l’insegnamento non è altro che
l’«eco» (e il sostantivo «eco» è presente in katechéo) di una Parola che
è già stata detta: quella di Dio.
Ecco dunque che cos’è l’omelia per i nostri Padri: è un ‘riecheggia-
mento’ della Parola di Dio, appena pronunciata nell’assemblea liturgica.
Sempre a questo riguardo, è eloquente un altro riferimento alla tra-
dizione, questa volta relativo ad Ambrogio, vescovo di Milano fra il
374 e il 397. C’è un episodio della sua vita, narrato dal diacono
Paolino, che riveste un grande valore simbolico.
Narra Paolino che c’era a Milano un eretico, un ariano, «fin trop-
po abile nel discutere, e testardo, tanto che non si poteva convertirlo
alla fede cattolica. Un giorno egli si trovava in chiesa mentre il vesco-
vo predicava, e vide (come dopo riferì egli stesso) un angelo che par-
lava all’orecchio del vescovo, mentre questi predicava. Sembrava pro-
prio che Ambrogio ripetesse al popolo le parole dell’angelo.
Convertito da questa visione, quell’uomo cominciò a difendere egli
stesso la fede che prima combatteva» (Vita 17).
Lo ripeto: si tratta di un episodio che riveste un grande valore sim-
bolico, mentre dice il metodo di Ambrogio, e dei nostri Padri in gene-

I padri della Chiesa, modelli di omiletica


re, nel predicare. Essi non predicavano se stessi, ma le parole ispira-
te; non vane dottrine, ma la Parola di Dio, la sola capace di converti-
re il cuore dell’uomo. Così l’omelia era «catechesi» nel senso etimo-
logico del termine: un «riecheggiamento» della Parola di Dio.

Un predicatore sulla breccia: Giovanni Crisostomo


Le modalità di questo ‘riecheggiare’ appaiono pressoché infinite
lungo venti secoli di storia, ma l’intento che appassiona e tormenta il
predicatore è sempre lo stesso: annunciare la Parola di Dio nell’oggi
della Chiesa, farla ‘rieccheggiare’ nelle loro comunità.
Le omelie di san Giovanni Crisostomo Sul vangelo di Matteo costi-
tuiscono per noi il più antico commento completo al primo vangelo.
Rappresentano altresì una significativa testimonianza di quell’attività
omiletica che avrebbe assicurato al Crisostomo il massimo riconosci-

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mento tra gli oratori ecclesiastici. Risalgono agli anni tra il 386 e il
397, periodo in cui il Crisostomo fu chiamato a svolgere diversi inca-
richi di predicazione nelle più importanti chiese antiochene. Questi
incarichi riuscivano particolarmente congeniali a Giovanni che, dopo
un’esperienza monastica ed eremitica, aveva abbracciato il sacerdozio
per un’irresistibile vocazione pastorale, e che specialmente attraverso
la predicazione delle Scritture puntava a realizzare tale vocazione:
coerentemente la sua predicazione e la sua esegesi paiono singolar-
mente sensibili alle condizioni concrete, ai problemi e alle necessità
anche materiali dei destinatari.
In particolare – nell’Antiochia della seconda metà del quarto seco-
lo, dove enormi erano le sperequazioni sociali ed economiche, a causa
delle guerre, del latifondismo, del capitalismo, dell’iniquo regime
fiscale... – il Crisostomo è continuamente stimolato a trattare i molte-
plici problemi sollevati dalla compresenza di ricchi e poveri all’inter-
no della comunità: si pensi che nelle sole omelie Sul vangelo di Matteo
il tema ricorre non meno di cento volte!
Vogliamo cogliere lo stile della predicazione crisostomiana leggen-
do un passo della sua cinquantesima omelia su Matteo. Complessiva-
mente essa commenta la pericope conclusiva di Matteo 14, ma l’e-
stremo versetto del capitolo – dove si legge che gli abitanti di
Genesaret portarono a Gesù i loro malati «e lo pregavano di poter
toccare almeno l’orlo del suo mantello» (Mt 14,36) – consente al
Crisostomo un ampliamento parenetico sostanzialmente autonomo,
che occupa da solo la seconda metà dell’omelia.
L’ampliamento si giustifica grazie al contesto della liturgia eucari-
stica, in cui l’omelia – ieri come oggi – si colloca: «Tocchiamo anche
noi il lembo del suo mantello», invita il Crisostomo; «anzi, se voglia-
mo, noi abbiamo il Cristo tutto intero. Il suo corpo infatti è ora qui
dinanzi a noi». E prosegue: «Credete che anche ora c’è quella mensa,
alla quale anche Gesù sedette».
COVOLO

Secondo il Crisostomo, tale certezza di fede interpella in modo


decisivo la responsabilità dei cristiani, perché la partecipazione alla
mensa del Signore non consente incoerenze di sorta: «Che nessun
DAL

Giuda si accosti alla tavola!», esclama l’omileta. E non è un criterio


sufficiente di dignità quello di presentarsi alla mensa con vasi d’oro:
ENRICO

«Non era d’argento quella mensa, né d’oro il calice dal quale il Cristo
diede il suo sangue ai discepoli... Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non

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permettere che egli sia nudo: e non onorarlo qui in chiesa con stoffe di
seta, per poi tollerare, fuori di qui, che egli stesso muoia per il freddo
e la nudità. Colui che ha detto: “Questo è il mio corpo”, ha detto
anche: “Mi avete visto affamato, e non mi avete nutrito”; e: “Quello
che non avete fatto ad uno di questi piccoli, non l’avete fatto a me”.
Impariamo dunque ad essere saggi, e ad onorare il Cristo come egli
vuole, spendendo le ricchezze per i poveri. Dio non ha bisogno di sup-
pellettili d’oro, ma di anime d’oro. Che vantaggio c’è se la sua mensa
è piena di calici d’oro, quando egli stesso muore di fame? Prima sazia
lui affamato, e allora con il superfluo ornerai la sua mensa!»
Ecco chi è Giuda, secondo il Crisostomo. È colui che si accosta al
Corpo e al Sangue del Signore, ma in realtà non ne condivide il pro-
getto di vita. Giovanni, sempre attento ai risvolti concreti e alla rile-
vanza sociale della scelta di fede, non perde l’occasione per sottoli-
nearlo con forza, a costo di rendere ‘sproporzionata’ la sua Omelia.
Egli può approdare così a uno dei temi caratteristici della sua predi-
cazione, quello dell’elemosina. Il tema dell’elemosina, infatti, scaturi-
sce come un corollario: il Corpo di Cristo condiviso richiama i fedeli
alla solidarietà fraterna (cfr. Omelia sul vangelo di Matteo 50,3-4).
È un esempio incisivo di attualizzazione della Parola di Dio, cioè di
come la Parola debba ‘riecheggiare’ nelle comunità cristiane: il «lembo
del mantello» di Gesù continua a toccare i malati, i poveri, tutti gli
uomini che implorano la salvezza. La Parola del Maestro è sempre vali-

I padri della Chiesa, modelli di omiletica


da. Di fronte alle situazioni e ai problemi di ogni tempo, essa non cessa
di interpellare la vita dei credenti, e di esigerne la conversione.

Dai Padri della Chiesa al Magistero attuale


Certo, dai Padri ad oggi trascorrono quasi duemila anni di predica-
zione cristiana. E proprio nel solco di questa tradizione si collocano i
ministri ordinati, ai quali è affidata la missione «tremenda e meravi-
gliosa» di predicare la Parola di Dio: una missione che troviamo sin-
tetizzata in un celebre passaggio della Dei Verbum, che cita a sua volta
un Sermone di sant’Agostino.
«È necessario», ammonisce la Dei Verbum al n. 25, «che tutti i
chierici e quanti, come i catechisti, attendono al ministero della
Parola, conservino un continuo contatto con le Scritture, mediante
una sacra lettura assidua e lo studio accurato, affinché non diventi»,

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ed è qui la citazione agostiniana, «vano predicatore della Parola all’e-


sterno colui che non l’ascolta di dentro».
Ritorna quell’importante messaggio dei Padri, di cui si parlava
all’inizio: per l’omileta di ieri e di oggi è indispensabile una profonda
e amorevole sintonia con le Scritture, affinché l’omelia ‘riecheggi’ in
modo efficace la Parola di Dio proclamata nell’assemblea liturgica.
Queste riflessioni, svolte sul filo della storia, offrono la prospettiva
giusta per comprendere le più recenti indicazioni del Magistero sull’o-
melia. Mi riferisco anzitutto all’Istruzione Redemptionis Sacramentum
(RS), emanata dalla Congregazione per il Culto divino e la Disciplina
dei sacramenti – d’intesa con la Congregazione per la Dottrina della
Fede – il 25 marzo 2004. L’Istruzione manifesta particolare sollecitu-
dine nei confronti dell’omelia. Essa deve essere strettamente incentra-
ta sul mistero della salvezza, esponendo nel corso dell’anno liturgico,
sulla base delle letture bibliche e dei testi liturgici, i misteri della fede
e le regole della vita cristiana. «Nel tenere l’omelia», recita RS al n. 67,
«si abbia cura di irradiare la luce di Cristo sugli eventi della vita». Il
Vescovo diocesano deve vigilare con attenzione sull’omelia, facendo
anche circolare tra i ministri sacri norme, lineamenti e sussidi, e pro-
movendo incontri e altre iniziative apposite.
Aggiungo inoltre la Proposizione 19 del Sinodo dei Vescovi sull’Eu-
caristia, recentemente concluso: «La migliore catechesi sull’Eucari-
stia», vi si legge, «è la stessa Eucaristia ben celebrata. Per questo si
chiede ai ministri ordinati di considerare la celebrazione come loro
principale dovere. In particolare debbono preparare accuratamente
l’omelia, basandosi su una conoscenza adeguata della Sacra Scrittura.
Che l’omelia ponga la Parola di Dio proclamata nella celebrazione in
stretta relazione con la celebrazione sacramentale (cfr. SC 52) e con la
vita della comunità, in modo tale che la Parola di Dio sia realmente
sostegno e vita della Chiesa (DV 21) e si trasformi in alimento per la
preghiera e per l’esistenza quotidiana. L’omelia conformata agli inse-
COVOLO

gnamenti dei Padri della Chiesa è una vera mistagogia, ossia una vera
iniziazione ai misteri celebrati e vissuti».
DAL

Definizione e metodo dell’omelia


ENRICO

Ma perché tanta sollecitudine per l’omelia?


La risposta è ben nota. Per una larga parte del popolo di Dio essa

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è rimasta praticamente l’unica occasione di ‘catechesi’ (nel senso che


i nostri Padri ci hanno insegnato), e più in generale di ‘formazione
religiosa’, a parte la preghiera e la celebrazione dei sacramenti.
Di fatto l’omelia rappresenta il luogo, in sé unico, in cui si attua
una comunicazione particolare a livello spirituale e a livello umano;
una comunicazione che permette di raggiungere ogni domenica un
numero così elevato di persone che nessun’altra occasione riesce a
eguagliare.
Consideriamo anzitutto il termine impiegato, cioè omelia. Tra i vari
sostantivi usati dai Padri della Chiesa per definire questa particolare
forma di comunicazione religiosa – quali soprattutto omelia e sermo-
ne – la riforma liturgica promossa dal Concilio Vaticano II ha prefe-
rito appunto il termine omelia, che implica un diretto riferimento
all’episodio narrato da Luca, alla fine del terzo Vangelo, dove si parla
dell’incontro di Gesù con i discepoli di Emmaus. «Mentre essi con-
versavano (en to homiléin) e discutevano insieme, Gesù in persona si
avvicinò a loro, per spiegare in tutte le Scritture ciò che si riferiva a
lui» (cfr. Lc 24,13 ss.: nei vv. 14 e 15 è impiegato due volte il verbo
omiléo).
Gesù si rivela così il primo omileta, come già si era manifestato
nella sinagoga di Nazaret (cfr. Lc 4,14-21).
Ma nei due episodi narrati da Luca Gesù Cristo insegna anche il
metodo fondamentale dell’omelia, quello che i nostri Padri hanno

I padri della Chiesa, modelli di omiletica


ampiamente utilizzato e variamente elaborato. In sostanza, è il meto-
do che presiede alla lectio divina tradizionale.
Teorizzata e sistematizzata nel XII secolo, in ambiente monastico
(valga per tutti il nome di Guigo II, priore della Grande Certosa), la
lectio divina in realtà è molto più antica, e non è posteriore alla
Bibbia, proprio perché la lectio si trova già all’interno della Bibbia
stessa. Sostanzialmente, la lectio prevede un duplice movimento. Il
primo movimento è come un ‘viaggio di andata’, nel quale la Parola
di Dio viene letta e meditata, perché scenda fino al cuore; e dal cuore
parte il secondo movimento, che è come un ‘viaggio di ritorno’, nel
quale la Parola viene a convertire la vita dei credenti.
Occorre precisare però che nel caso dell’omelia i due movimenti –
quello di andata come quello di ritorno – coinvolgono una Parola con-
testualizzata nell’anno liturgico. Di fatto, l’omelia si trova vitalmente
inserita nella liturgia eucaristica. Dunque i due movimenti non si rife-

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riscono a una Parola isolata, ma a una Parola che viene proposta dalla
Chiesa in intima relazione con l’evento liturgico celebrato.
Nell’ambito della Chiesa di Rito romano la progettualità dell’an-
nuncio è racchiusa nei vari Lezionari, mentre la descrizione teologica
è presentata nell’Introduzione generale al Lezionario (1981).
Di qui una conseguenza pratica molto importante. Occorre che
l’omileta ponga la massima attenzione ai temi offerti dai Lezionari per
le singole celebrazioni. L’omelia non è il luogo per parlare di tutto e
di nulla, ma il momento per operare una formazione religiosa a parti-
re dai suggerimenti intrinseci al Lezionario. Se la metodologia del
Lezionario, con i titoli proposti alle singole letture, non è patrimonio
connaturale all’omileta, i fedeli non potranno cogliere il progetto di
annuncio che soggiace alla celebrazione liturgica.

Ancora sul ‘metodo patristico’ dell’omelia


Rimanendo ancora sul metodo patristico dell’omelia, e precisamente
sul suo duplice movimento, conviene esplicitare almeno due suggeri-
menti.
Il primo suggerimento raccomanda una sorta di equilibrio tra il
viaggio di andata e il viaggio di ritorno. Ci imbattiamo spesso in ome-
lie ‘squilibrate’: o troppo ripiegate sull’esegesi dei testi, dove magari
si fa sfoggio di erudita informazione biblica e liturgica; oppure, al
contrario, omelie troppo sbilanciate sull’attualizzazione, dove il
rischio estremo è quello di trasformare l’omelia in un comizio. Nel
primo caso il fedele non viene accompagnato nell’interpretazione
della Parola pro nobis, hic et nunc; nel secondo caso la Parola rischia
di diventare un semplice pretesto, per dire quello che al predicatore
sembra bene in quel momento. Conviene ricordare che il viaggio di
ritorno, cioè l’attualizzazione, è tanto più fecondo, quanto più accu-
ratamente è stato preparato dal viaggio di andata.
COVOLO

Entra qui il secondo suggerimento, anch’esso legato al magistero


dei nostri Padri. Nell’esercizio dell’omelia occorre valorizzare il
cuore, perché proprio il cuore è il centro dei due movimenti della
DAL

lectio divina: lì scende la Parola, letta e meditata, e da lì essa riparte


per il confronto con la preghiera e con la vita.
ENRICO

Uno dei difetti di molte omelie è quello di un certo intellettuali-


smo. L’omelia invece deve parlare al cuore dei fedeli, nel senso bibli-

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co e patristico di questa parola. Per la Bibbia e i Padri, il cuore è l’in-


timità dell’uomo. È là dove teniamo in mano il nostro destino, dove
si giocano le grandi decisioni, dove in qualche modo sono chiamate a
raccolta tutte le nostre facoltà. È in questo senso che il predicatore
deve parlare «da cuore a cuore»: cor ad cor loquitur. La tradizione cri-
stiana riconosce nel cuore la via per stabilire incontri autentici e veri.
«Non ci ardeva forse il cuore nel petto, mentre conversava con noi
lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?», si domandano
stupiti i discepoli di Emmaus.
In questo senso, l’icona del predicatore è Maria santissima. Nel
Vangelo dell’infanzia Luca ripete due volte che Maria «conservava nel
cuore tutte queste cose» (2,19.51). L’evangelista intende dire che nella
teca preziosa del suo cuore la vergine madre «custodiva insieme con
grande cura» (sunetérei) ogni reliquia del mistero di Gesù. Ma una
delle due volte Luca aggiunge: «E le confrontava...» (2,19). Qui viene
usato un altro verbo molto significativo: è il verbo greco symbállein,
imparentato fra l’altro con il sostantivo italiano simbolo. In questo
modo si vuole dire che Maria non soltanto custodiva gelosamente nel
suo cuore il Verbo di Dio: di più, essa cercava di confrontare le paro-
le della rivelazione con la propria vita, evidentemente per «metterle in
pratica».
Trascorriamo ora dalla Bibbia ai Padri, sempre riguardo alla cen-
tralità del cuore nel metodo dell’omelia.

I padri della Chiesa, modelli di omiletica


All’amico Teodoro, medico dell’imperatore, Gregorio Magno rac-
comandava: «Impara a conoscere il cuore di Dio nelle parole di Dio».
Ma perché questo avvenga davvero, occorre che la Parola sia ‘dige-
rita’ nel cuore dell’uomo. Forse questa immagine della digestione non
è molto attraente (Bernardo esortava addirittura i suoi monaci a esse-
re animalia munda et ruminantia), ma essa ha il pregio di ricordare in
modo icastico che la Parola di Dio è vero cibo del nostro cuore.
A questo riguardo la tradizione dei Padri è ricchissima. Mi limito
a un solo esempio.
Del beato Aelredo di Rielvaux, discepolo e biografo di san Bernar-
do, si legge che parlava ex bibliotheca cordis sui. Il cuore di Aelredo (e
a maggior ragione quello di Bernardo, il suo maestro) era divenuto
come una teca, cioè un prezioso scaffale in cui si allineavano ordinati
tà biblía, cioè la Sacra Scrittura, ‘i libri’ per eccellenza.
È il complimento migliore che si potrebbe fare a un omileta: quan-

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do parla, parla dalla biblioteca del suo cuore. Cioè si sente davvero
che il suo impegno di ‘attualizzare’ la Parola viene da un cuore pla-
smato da essa, in profonda sintonia con essa.
Gli omileti che hanno inciso più profondamente nella vita dei fede-
li sono precisamente i testimoni di questa intima, cordiale unione con
il mistero di Dio.
Si pensi – solo per fare qualche esempio – a Francesco d’Assisi. È
stato detto che del «profumo del Vangelo» sono a tal punto ripieni i
suoi scritti (come lo erano, per quanto possiamo saperne, le sue ome-
lie), che se si togliesse il Vangelo non vi rimarrebbe più nulla. Oppure
si pensi a san Carlo Borromeo, e alla celebre Omelia 45, nella quale il
santo vescovo si rivolge direttamente al Crocifisso: «Perché hai volu-
to nascere in così bassa condizione, vivere sempre in essa e morire tra
le ignominie? Perché hai sofferto tante fatiche, tante offese, tanti
oltraggi, tanti dolori e tante piaghe, e alla fine una morte così crude-
le, versando il tuo sangue fino all’ultima goccia?...». E san Carlo con-
clude la sua omelia proclamando «veramente felici coloro che hanno
impresso nel cuore Cristo crocifisso, e non svanisce mai».

La preparazione dell’omelia
Abbiamo alluso così – oltre al metodo dell’omelia – anche al retro-
terra spirituale del predicatore: egli deve essere profondamente nutri-
to di scienza e di fede, perché non gli capiti di essere – secondo l’am-
monimento di sant’Agostino – «vano predicatore della Parola»: un
«parolaio», diremmo noi oggi.
Ma l’esempio dei nostri Padri ci insegna pure che, oltre al retro-
terra spirituale e alla preparazione remota, occorre curare anche la
preparazione prossima dell’omelia.
È stato detto – e giustamente – che le omelie migliori sono quelle più
a lungo preparate, e molti zelanti pastori concordano nell’affermare che
COVOLO

essi cominciano il lunedì a preparare l’omelia della domenica. Ed è nor-


male, se si pensa al metodo proprio dell’omelia, come l’abbiamo illu-
strato fondandoci sull’esempio dei nostri Padri: se l’omelia deve parla-
DAL

re al cuore dei fedeli, deve partire da un cuore che sia già plasmato – in
qualche misura – dalla Parola di Dio; e questo non si raggiunge certo
ENRICO

raccogliendo quattro idee, all’ultimo momento, in sagrestia...


Qualcuno chiede talvolta: conviene leggere, o no? conviene avere

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davanti un testo scritto, interamente scritto, oppure soltanto uno


schema con i passaggi fondamentali, o niente del tutto?
Qui si tocca molto da vicino l’irripetibile personalità di ciascuno, e
nella storia dell’omiletica, dai Padri in poi, vediamo esempi molto
diversi: predicatori che apparentemente improvvisavano, e che in
realtà avevano scritto tutto, e imparato a memoria, ciò che intendeva-
no dire; e predicatori che apparentemente leggevano, e che in realtà
dettavano le loro prediche, e spesso poi ne rivedevano il testo dagli
appunti dei tachigrafi o dei fedeli, per sistemarlo definitivamente e
conservarlo. Sant’Agostino, per esempio, curava personalmente la
raccolta delle sue omelie negli archivi di Ippona.
Personalmente, grazie alla cortesia di mons. Gianfranco Ravasi, mi
è capitato di avere tra mano qualche appunto della predicazione di
san Carlo Borromeo. San Carlo disegnava le sue omelie come un albe-
ro: il tronco era l’idea centrale, che egli intendeva comunicare ai fede-
li, i rami erano invece i vari sviluppi del pensiero, a partire da quel-
l’unica idea centrale. Senonaltro, questo ci ricorda che le nostre ome-
lie non devono essere sovraccariche di concetti e di messaggi. Se la
gente dalle nostre omelie porterà a casa un’idea centrale, valida e ope-
rativa per l’intera settimana, sarà già molto...
Dunque, credo che non ci sia una risposta univoca di fronte alla
domanda se l’omelia vada scritta o no, se vada letta o no. Certo, il sem-
plice leggere non aiuta l’attenzione dei fedeli. Tuttavia, almeno per chi

I padri della Chiesa, modelli di omiletica


comincia a predicare, raccomanderei di stendere per intero il testo del-
l’omelia, e di tenerlo sott’occhio, in modo da vincere più facilmente il
timore degli inizi. Direi invece che tutti i predicatori devono avere ben
chiaro, scolpito nel cuore, l’itinerario completo della loro omelia, nei
suoi punti fondamentali dell’’andata’ e del ‘ritorno’.
Da questo punto di vista i nostri Padri, che avevano studiato l’elo-
quenza classica, tenevano ben presente la ‘regola’ dell’oratore latino:
Rem tene, verba sequentur! In particolare, sono molto importanti per
l’incisività della comunicazione l’introduzione e la conclusione: esse
devono aiutare l’assemblea a percepire l’omelia quale deve essere,
cioè nel contesto vivo della celebrazione liturgica.
Anche sulla lunghezza dell’omelia non si possono dare delle rego-
le ferree. È certo che l’omelia ben preparata va all’essenziale, e risul-
ta più concisa. Lo sapeva bene – ancora una volta – sant’Agostino,
quando si lamentava perché all’ultimo momento gli cambiavano le

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letture... Già Origene (che poi però in molti casi contraddiceva


ampiamente questa norma) affermava: Brevitatem auditores ecclesiae
diligunt. E Pietro Crisologo parla della brevitas amica sermonis.
In realtà nella predicazione patristica abbondano i segnali di stan-
chezza da parte del pubblico. In ogni caso mi pare che il contesto sto-
rico, culturale, ambientale sia talmente mutato, che sul punto specifi-
co della brevità o della lunghezza dell’omelia non sia molto illumi-
nante il riferimento alla predicazione patristica. Per quanto ci riguar-
da, ordinariamente alla domenica converrebbe attestarsi intorno ai
dieci minuti di omelia, per poterla opportunamente valorizzare senza
fretta, attraverso tutti gli altri elementi della celebrazione eucaristica.

‘Relativizzazione’ dell’omelia
Le considerazioni svolte fin qui aiutano anche a ‘relativizzare’, in
senso positivo, l’omelia. «La migliore catechesi sull’Eucaristia», e
anche la migliore omelia, abbiamo letto nella Proposizione 19 del
recente Sinodo dei Vescovi, «è la stessa Eucaristia ben celebrata».
Vale a dire che l’omelia non va considerata da sola, in assoluto.
Essa è situata in un contesto liturgico, che ne determina la validità.
Anzitutto, ciò che relativizza positivamente l’impegno dell’omileta
è il fatto che in ultima istanza chi parla veramente al cuore dell’uomo
è solo Dio. Ancora di più: secondo i nostri Padri, Dio stesso apre il
suo cuore a coloro che ascoltano la Parola: «Disce cor Dei in verbis
Dei», non si stancava di ripetere Gregorio Magno.
Da parte sua, il predicatore cercherà di assicurare le condizioni
migliori perché questo incontro tra il cuore di Dio e il cuore dell’uo-
mo si realizzi efficacemente.
Inoltre, l’omelia è situata nella vita della comunità cristiana – nor-
malmente della parrocchia – in cui si celebra. L’efficacia dell’omelia
dipende anche dalla testimonianza di questa comunità cristiana, dal
COVOLO

suo impegno nella vita ecclesiale, dalla sua partecipazione nella fede,
nella speranza e nella carità.
Da questo punto di vista è significativa una testimonianza delle
DAL

Confessioni di sant’Agostino. Ciò che cominciò a muovere il cuore del


giovane retore africano, scettico e disperato, e che lo spinse alla con-
ENRICO

versione prima, e poi al battesimo, non furono le belle omelie (pure


da lui assai apprezzate) del vescovo Ambrogio, ma fu piuttosto la

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testimonianza della Chiesa milanese che pregava e cantava, compatta


come un solo corpo; una Chiesa capace di resistere alla prepotenza
dell’imperatore Valentiniano e di sua madre Giustina, che nei primi
giorni del 386 erano tornati a pretendere la requisizione di una chie-
sa per le cerimonie degli ariani. Nella chiesa che doveva essere requi-
sita, racconta Agostino, «il popolo devoto vegliava, pronto a morire
con il proprio vescovo. Anche noi», e questa testimonianza delle
Confessioni è preziosa, perché segnala che qualcosa andava muoven-
dosi nell’intimo di Agostino, «pur ancora spiritualmente tiepidi, era-
vamo partecipi dell’eccitazione di tutto il popolo» (Confessioni 9,7).
Di qui si comprende anche quanto possano incidere negativamen-
te su ciò che diciamo le ‘controtestimonianze’ personali e comunita-
rie; di qui l’importanza che Giovanni Paolo II attribuiva al saper chie-
dere perdono come comunità, come Chiesa; l’importanza di educare
le nostre assemblee alle liturgie della penitenza e della riconciliazione.

I padri della Chiesa, modelli di omiletica

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